Il concetto di neustico in Hare e Tarello
Relazione per l’VII Seminario dei ricercatori di Filosofia del diritto
Università di Girona
4/5 Luglio 2008
Nicola Muffato, dottorando in Filosofia analitica e teoria generale
del diritto presso l’Università Statale di Milano, cultore di Filosofia
del diritto presso l’Università degli studi di Trieste
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0. Introduzione
Nel suo saggio del 1965, La semantica del neustico, Giovanni Tarello avanza la seguente
tesi:
«[…] l’espressione identica di un frastico nell’enunciato non garantisce l’identità
permanente del frastico con il variare (da assertiva a precettiva) della funzione
dell’enunciato. […] Ciò che muta, con il mutare della funzione dell’enunciato, è il valore
semantico dei termini con i quali si esprime la parte frastica della proposizione»1.
Con ogni probabilità Tarello si avvale del lessico e dei concetti di Richard M. Hare per
criticare la seguente affermazione di Uberto Scarpelli:
«[…] L’eliminazione dei concetti qualificatori permette di isolare nelle norme di
comportamento un frastico formulato esclusivamente per mezzo di segni
designanti cose, proprietà, relazioni di puro fatto, la definizione dei quali non
comporta problemi diversi da quelli relativi alla definizione dei segni designanti cose,
proprietà, relazioni di puro fatto impiegati nel frastico delle asserzioni [corsivo mio].
Insieme al frastico, poi, comporrà la norma il neustico, che ne esprimerà la
funzione. I segni del frastico designano il destinatario, il comportamento del
destinatario e, se si tratta di norma condizionata, i fatti costituenti la fattispecie;
il neustico sta a significare che il destinatario deve tenere quel comportamento
Il concetto che comunemente si adopera come neustico è appunto quello di
dovere. Asserzioni e norme si riferiscono a fatti e hanno in comune la designazione dei fatti
nel frastico [corsivo mio]; ma il neustico delle asserzioni dice che i fatti sono o
saranno, il neustico delle norme dice che devono essere, che i destinatari delle
norme non terranno, ma devono tenere certi comportamenti»2.
1
G. Tarello, Osservazioni sulla individuazione dei precetti. La semantica del neustico (1965), in “Rivista trimestrale di Diritto e
Procedura Civile”, XIX (1965), fasc. 2, ripubblicato come La semantica del neustico. Osservazioni sulla «parte descrittiva» degli
enunciati precettivi (1968), in AA.VV., Scritti in memoria di Widar Cesarini Sforza, Giuffrè, Milano, 1968, ora in Id., Diritto, enunciati,
usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Il Mulino, Bologna, 1974, pp. 339-340.
2 U. Scarpelli, Contributo alla semantica del linguaggio normativo, Giuffrè, Milano, 1985, p. 124.
Vorrei cercare di fare chiarezza su alcuni punti di questa critica (che in scritti
successivi Scarpelli comunque eviterà precisando la sua posizione) concentrando
anzitutto l’attenzione sul linguaggio in cui è formulata.
1. Frastico e neustico
‘Frastico’ e ‘neustico’ sono vocaboli inventati da Hare nel tentativo di analizzare la
forma logica degli enunciati delle lingue naturali. Egli propone, mi pare, di tradurli in una
lingua artificiale (chiamiamola ‘H’), in modi simili ai seguenti:
Lingua naturale
H (prima versione)3
(1) Mary, please show Mrs (1a) Showing of her room to
Prendergast her room.
Mrs Prendergast by Mary at
time t (frastico) – please
(neustico).
H (seconda versione)4
(1b) Showing of her room to
Mrs Prendergast by Mary at
time t (frastico) – I
command (tropico) – sign of
assent (neustico).
(2) Mary will show you your (2a) Showing of her room to (2b) Showing of her room to
room, Mrs Prendergast.
Mrs Prendergast by Mary at Mrs Prendergast by Mary at
time t (frastico) – yes time t (frastico) – I assert
(neustico).
(tropico) – sign of assent
(neustico).
Secondo Hare, la parte comune a (1a) e (2a) e a (1b) e (2b), cioè il frastico, svolge
una funzione descrittiva (descriptive function), descrive uno stato di cose possibile. Non è ben
chiaro in cosa consista questo “descrivere”: forse Hare ha contemporaneamente in
mente la teoria delle descrizioni definite di Bertrand Russell e qualcosa di simile
all’osservazione di Wittgenstein sull’immagine del pugile che può servire sia a
rappresentare o raffigurare una posizione di quest’ultimo durante un combattimento, sia
a mostrare a chi impara la boxe in che posizione deve mettersi per tenere la guardia. Ma
quest’ultima osservazione è difficile da applicare al linguaggio, perché l’immagine è
molto più “ricca” di un frastico. Dunque è fuorviante parlare di ‘funzione descrittiva’ del
frastico5.
L’alternativa più plausibile consiste nel rifarsi a una sicura fonte di Hare, e cioè a
Gottlob Frege. Il frastico potrebbe essere la “rappresentazione sintattica” del senso e del
riferimento di un enunciato, mentre il neustico della sua forza (cfr. infra). Mi pare che
questa ipotesi sia respinta da chi, come Scarpelli e Mario Jori6, ascriva al frastico una
funzione meramente referenziale. Quel che è certo è che un enunciato non può avere un
3
Cfr. R. M. Hare, The Language of Morals, Clarendon, Oxford, 1952, cap. 2.
Cfr. R. M. Hare, Meaning and Speech Acts (1970) e Austin’s Distinction between Locutionary and Illocutionary Acts (1971a),
entrambi in Id., Practical Inferences, Macmillan, London, 1971b; Id., Some Sub-Atomic Particles of Logic, in “Mind”, 98 (1989).
5 Cfr. J. S.-P. Hierro, Problemas del análisis del lenguaje moral, Tecnos, Madrid, 1970, p. 113; G. P. Baker, P. M. S. Hacker,
Language, Sense and Nonsense, Blackwell, Oxford, 1984, pp. 81-85.
6 Cfr. Contributo alla semantica del linguaggio normativo, cit., pp. 105-106 (e la relativa Introduzione di A. Pintore, p. 8, nota 13,
pp. 12-14); Id., Etica, linguaggio e ragione (1976), in Id., L’etica senza verità, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 59-60; M. Jori, Manuale
di teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino,1995, pp. 244-245; Id., Uberto Scarpelli tra semantica e pragmatica del diritto, in M.
Jori, L. Gianformaggio (a cura di), Scritti per Uberto Scarpelli, Giuffrè, Milano, 1998, pp. 449-452 (ma con un’importante
cautela alla nota 60 di p. 508).
4
2
senso e un riferimento allo stesso modo dei vocaboli e delle locuzioni (sempre che questi
ultimi abbiano un senso, ciò che è stato negato da molti). D’altra parte, se per senso si
intende il nome di ciò cui si fa riferimento, il modo di presentarlo, credo che il frastico non
sostenga soltanto il riferimento, ma anche il senso. Si consideri il seguente esempio: gli
enunciati
(S1): ‘Edipo sapeva di uccidere Laio’
e
(S2): ‘Edipo sapeva di uccidere suo padre’
fanno riferimento allo stesso “fatto” (segnatamente al fatto che Edipo sapesse di
uccidere il re di Tebe), ma hanno un senso chiaramente diverso (a tal punto che,
trattandosi di un contesto intensionale, una sostituzione salva veritate di un enunciato con
l’altro è illegittima).
Nella lingua H (S1) e (S2) sono tradotti rispettivamente con
(S1a) ‘Il fatto che Edipo sapesse di uccidere Laio – sì’
e
(S2a) ‘Il fatto che Edipo sapesse di uccidere suo padre – sì’.
Anche (S1a) e (S2a) fanno riferimento allo stesso “fatto”, ma evidentemente non sono
omofrastici: il modo in cui il “fatto” di voler uccidere Laio, padre di Edipo, è presentato,
cioè il senso dell’enunciato, varia notevolmente da (S1a) a (S2a).
La qualificazione del frastico in termini esclusivamente referenziali ha una peraltro
una sua ragione, molto importante: riservare al neustico uno spazio all’interno della
semantica degli enunciati, collocando a questo livello la Grande Divisione tra norme
(significati normativi/prescrittivi) e proposizioni (significati conoscitivi/descrittivi). Una
soluzione del genere consente di sviluppare una variante analitica di quella che Carlos E.
Alchourrón ed Eugenio Bulygin7 chiamano ‘concezione hyletica delle norme’8.
Alla concezione hyletica gli autori contrappongono una ‘concezione espressiva’, in
base alla quale una norma sarebbe il risultato di un atto (linguistico) di posizione/normazione,
atto consistente in un uso prescrittivo/normativo – contrapposto ad altri tipi di uso
“appropriato” (assertivo, interrogativo, ecc.) – del contenuto semantico, necessariamente
vero-funzionale, di un enunciato da parte di un soggetto emittente: le norme sarebbero
cioè espressioni “pragmaticamente modalizzate”, contraddistinte da un elemento che
indica la loro funzione pragmatica, o, detto altrimenti, la loro forza (Kraft) o forza illocutoria
(illocutionary force). Non è molto chiaro se in base a questa seconda posizione una norma
sia effettivamente un’espressione dotata di una certa forza o se invece sia la forza di una certa
espressione: quel che è certo è che la Grande Divisione viene spostata su un piano
pragmatico.
Vi sono numerosi indizi del fatto che Hare propenda fin dall’inizio per
un’interpretazione pragmatica del neustico (il che verrà confermato dalla sua sostanziale
adesione alla teoria degli atti linguistici), e ciò renderebbe impossibile parlare di una
“semantica del neustico” in senso proprio. Secondo l’autore, infatti, il neustico è un sign
for agreement or assent for use, un sign of assent: l’enunciazione di un enunciato di H
7 C.
E. Alchourrón, E. Bulygin, The Expressive Conception of Norms (1981), in R. Hilpinen (ed.), New Studies in Deontic Logic,
Reidel, Dordrecht, 1981, pp. 96-98.
8 A questa variante della concezione hyletica aderiscono, oltre a Scarpelli e Jori, Alf Ross (cfr. Directives and Norms,
Routledge & Kegan Paul, Londra, 1968, trad. it. di M. Jori, Direttive e norme, Comunità, Milano, 1978, cap. 2.) e lo stesso
Frege (cfr. Der Gedanke. Eine logische Untersuchung, in “Beiträge zur Philosophie des deutschen Idealismus”, 1:2 (1918), p. 63).
3
contenente frastico e neustico può essere presentata come segue: «[…] (1) The speaker
points out or indicates what he is going to state to be the case or command to be made
the case; (2) He nods, as if to say “It is the case” or “Do it”»9.
Affido a Wittgenstein la critica di questa concezione:
«È strano: La nostra comprensione d’un gesto vorremmo spiegarla traducendo il gesto in
parole, e la comprensione di certe parole vorremmo spiegarla traducendola in un gesto.
(Così, quando vogliamo cercare dove, propriamente, abbia sede il comprendere siamo
sballottati qua e là.)./ E nel frattempo spiegheremo le parole ricorrendo a un gesto, e un
gesto ricorrendo a parole»10.
Secondo Hare il cenno dell’emittente, che ha come scope il frastico, servirebbe a far
capire al destinatario quale reazione gli venga richiesta. In particolare ai due tipi di cenno
dell’emittente corrisponderebbero due tipi di assenso del destinatario, l’uno teorico, l’altro
pratico:
«[…] If we assent to a statement [corsivo mio] we are said to be sincere in our assent if and
only if we believe that is true (believe what the speaker has said). If, on the other hand, we
assent to a second-person command addressed to ourselves [corsivo mio], we are said to be sincere in
our assent if and only if we do resolve to do what the speaker has told us to do»11.
(Si noti che l’assenso del destinatario ha uno scope più ampio di quello dell’emittente: esso
infatti ha per oggetto enunciati completi, statements o commands.)
Le due distinzioni, tra neustici e tra reazioni d’assenso, dovrebbero fornire un
supporto teorico/analitico alla tesi della Grande Divisione tra prescrizioni e asserzioni.
Quest’ultima tesi e il criterio di distinzione basato sul genere di assenso sono esplicitamente
accolti da Tarello (che però evita di parlare di ‘assenso’, preferendo l’espressione ‘modo
di fruizione’).
Vorrei segnalare, incidentalmente, un’ambiguità nella tesi della connessione tra
neustico e assenso che può avere importanti ripercussioni sulla teoria hareana delle
prescrizioni. A questo livello è rilevante la proposta di separazione dei precetti dalle
prescrizioni elaborata da Bruno Celano12.
Se si concepisce il neustico come segno prodotto dall’emittente per ottenere una
certa reazione nel destinatario, ci si avvicina alla definizione di significato non-naturale
formulata da H. Paul Grice e alla nozione di precetto: un enunciato (token) emesso con un
neustico prescrittivo è un precetto se chi l’ha emesso cerca di far fare qualcosa a qualcun
altro attraverso l’emissione dell’enunciato intendendo che quest’ultimo (il token) valga per
il destinatario come ragione per fare la tal cosa sulla base del riconoscimento da parte di
quest’ultimo dell’intenzione dell’emittente di fargli fare la cosa in questione e di far sì che
l’enunciato (token) valga come una ragione per costui per fare la tal cosa sulla base del
riconoscimento da parte sua dell’intenzione dell’emittente di far sì che … . Solitamente i
9
R. M. Hare, The Language of Morals, cit., p. 18.
L. J. Wittgenstein, Zettel, Blackwell, Oxford, 1967, trad. it di M. Trinchero, Zettel: lo spazio segregato della psicologia,
Einaudi, Torino, 2007, § 227.
11 R. M. Hare, The Language of Morals, cit., pp. 19-20.
12 Cfr. B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994, pp. 114-115.
Cfr. anche E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 24-32.
10
4
precetti vengono emessi in contesti di interazione comunicativa in cui l’emittente può
esercitare una qualche forma di pressione sul destinatario affinché questi obbedisca
(coazione fisica o influenza psicologica).
Ma per un non-cognitivista come Hare, il riconoscimento teorico (Erkenntnis) di
un’intenzione non può mai valere come ragione pratica (come ragione per comportarsi
in un certo modo). Un enunciato dotato di neustico prescrittivo può fungere da precetto
solo se è fondato su una prescrizione (la prescrizione di obbedire all’emittente). Una
prescrizione è un enunciato (non è chiaro se type o token) usato con significato (o con
funzione) prescrittivo(a), cioè un’espressione che ha la funzione di guidare il
comportamento non sulla base del riconoscimento di un’intenzione altrui, bensì in
quanto accettata (in quanto oggetto di Anerkennung, di scelta, in quanto considerata valida)
dal destinatario e assunta come premessa maggiore di un’inferenza pratica. Una seconda
differenza tra precetto e prescrizione è che mentre il primo è prodotto da un atto di
linguaggio (senza di esso non esisterebbe), una prescrizione è in una certa misura
indipendente dalla sua espressione linguistica (anche se il linguaggio costituisce una via
d’accesso alla dimensione della giustificazione): posso pensare di avere il dovere (che
esista per me la prescrizione) di non uccidere volontariamente nessun insetto anche se
nessuno mi ha mai vietato di farlo.
Lo strumento naturale per esprimere precetti e prescrizioni è l’enunciato imperativo.
Ma sono altrettanto efficaci gli enunciati in modo infinito o congiuntivo e gli enunciati
indicativi deontici e adeontici, nonostante questi ultimi si prestino più facilmente a
interpretazioni diverse. Nel mio libretto La semantica delle norme credevo che vi fosse una
terza differenza fondamentale tra precetti e prescrizioni: credevo che le seconde si
contrapponessero ai prodotti di altri atti linguistici (promessa, asserzione, domanda, ecc.)
mentre i primi potessero essere compiuti o fossero il prodotto di atti di comunicazione
compiuti in modo indiretto attraverso altri atti linguistici, che fossero cioè delle
implicature. Oggi la penso in modo diverso:
1) mi sembra che la maggior parte degli atti linguistici classificati da autori come John L.
Austin e John R. Searle (per es., minaccia, promessa, atto di scuse, dichiarazione di
volontà, ecc.) siano eseguiti anch’essi in modo indiretto attraverso asserzioni che si
autoverificano (per esempio, l’asserzione/prodotto ‘Tizio asserisce che piove’ è vera per il
solo fatto di essere il prodotto di un’asserzione/atto);
2) anche le prescrizioni all’indicativo (per es. ‘Non è ammessa forma alcuna di
detenzione se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria’) possono essere intese
come implicature.
Non esistono dunque criteri puramente sintattici per distinguere i precetti dalle
prescrizioni.
A ogni modo, sospetto
A) che il criterio di distinzione del cenno d’assenso (del neustico) non sia idoneo a
distinguere le prescrizioni dai prodotti di altri atti linguistici, bensì i precetti da altri tipi di
atti di comunicazione;
B) che il criterio di distinzione del genere di assenso possa discriminare prescrizioni e
asserzioni solo se viene svincolato dal criterio del cenno d’assenso.
5
2. Proposizioni o enunciati?
Lo scopo principale di Hare nello sviluppare i suoi modelli frastico-neustico e
frastico-tropico-neustico è quello di trovare una soluzione al c.d. ‘Dilemma (o puzzle) di
Jørgensen’: posto che la validità logico-deduttiva di un’inferenza si definisce normalmente in
termini di preservazione del valore di verità, allora o le inferenze normative, cioè le
derivazioni logiche di norme da altre norme non sono deduttivamente valide (in
generale: non si danno relazioni logiche tra norme) o le norme non sono aleticamente
adiafore. Secondo Hare i c.d. termini logici (i connettivi) che figurano in un enunciato di H
fanno tutti parte del frastico, non del neustico. Da ciò segue che uno studio delle
proprietà logiche degli enunciati e degli schemi di inferenza logicamente validi può
prescindere dalla considerazione del “comportamento” del neustico: è questo il Principio
d’indifferenza dittiva della logica (applicabile, però, solo agli enunciati-oggetto (object sentences)
e non ai meta-enunciati (meta-sentences), cioè agli enunciati usati per dire qualcosa sugli
enunciati oggetto). Non ha dunque senso parlare di inferenze normative/imperative, così
come non avrebbe senso parlare di inferenze indicative: la logica riguarda prescrizioni e
asserzioni soltanto nella misura in cui si occupa dei frastici13.
Le preoccupazioni “logiche” di Hare, tuttavia, sono solo parzialmente compatibili
con gli scopi dichiarati della Ordinary Language Philosophy di cui egli stesso è un esponente.
Secondo questa corrente filosofica i compiti dell’analisi del linguaggio e delle teorie del
significato non consistono nell’emendare o perfezionare una lingua naturale, ma nel
trovare dei modi per descriverla e renderla comprensibile, mostrandone l’intrinseca
adeguatezza alla maggior parte degli scopi per cui è usata: la creazione di modelli analitici
come la lingua H dovrebbe perciò essere subordinata e vincolata dai limiti di un’indagine
linguistica “empirica”.
Il punto critico della concezione sopraesposta è, in estrema sintesi, il seguente. Dal
punto di vista logico gli enunciati sono i nomi delle interpretazioni – nel lessico di Tarello e
di altri: sono nomi di proposizioni, laddove una proposizione può essere conoscitiva o
normativa (nel qual caso è una norma) – che essi possono esprimere, mentre le
interpretazioni/proposizioni sono i designati degli enunciati. La logica ha a che fare con
proposizioni, ma all’interno dei linguaggi artificiali, come in qualsiasi altro linguaggio,
non è possibile rappresentare una proposizione se non attraverso un enunciato: per
questo negli studi logici gli enunciati si assumono come già interpretati, come esprimenti
certe proposizioni, trascurando il rapporto enunciato-proposizione.
Questo rapporto, però, è altamente problematico nelle lingue naturali. Come Tarello
ha più volte sottolineato, tra enunciati e proposizioni non sussiste una corrispondenza
biunivoca: un enunciato può esprimere più proposizioni, mentre enunciati diversi
13 Contro questa tesi è facile obiettare quanto segue. Nel linguaggio ordinario, di cui la lingua H è una traduzione, le
normali inferenze sono formate da enunciati contenenti termini assimilabili in H al dittore (neustico). Se le relazioni logiche
sono indifferenti alla presenza di tali elementi, Hare deve spiegare perché i divisionisti come lui, mentre riconoscono
tranquillamente come valide tutte le inferenze c.d. omogenee (aventi premesse e conclusione dotate del medesimo dittore o del
medesimo neustico), accolgono soltanto uno dei sottotipi delle inferenze c.d. eterogenee o miste (aventi una delle premesse o la
conclusione dotata di dittore diverso dalle altre) e cioè quello in cui una delle premesse ha dittore assertivo. Pertanto, per
usare le parole di Bruno Celano (Dialettica della giustificazione pratica, cit., p. 415, nota 314), «[…] se l’invalidità di un’inferenza
può dipendere da una scorretta disposizione dei neustici, allora la validità o invalidità di un’inferenza non dipenderà soltanto
dalle relazioni tra i frastici», con buona pace del Principio d’indifferenza dittiva della logica.
6
possono fare riferimento allo stesso fatto (sebbene in modi diversi). Hare, pur essendone
perfettamente consapevole, sembra trascurare questo aspetto: egli infatti parla
regolarmente di enunciati (sentences) e di frastico, neustico e tropico come parti di
enunciati, non di proposizioni né di interpretazioni (Scarpelli commette questa
imprecisione solo nel Contributo alla semantica del linguaggio normativo). Così facendo, però,
egli assume un punto di vista particolare, ben descritto da Jori:
«[…] quando abbiamo a che fare con un discorso artificiale [come la lingua H],
non siamo primariamente interessati a descrivere il fatto che quel linguaggio sia
parlato [e interpretato]; siamo interessati piuttosto a usarne le regole, cercando
di capirlo, di apprezzarne la coerenza interna, e di applicarlo ai fatti. In breve,
usiamo le sue regole per giungere a risposte e conclusioni»14.
Da questo punto di vista ciò che conta è la funzionalità del linguaggio a produrre certi
risultati, risultati il cui perseguimento è oggetto di un accordo nella comunità degli utenti
di quel linguaggio (normalmente, degli esperti): volendo esagerare, si potrebbe dire che
una lingua artificiale è usata ma non interpretata15.
Il fatto è che la lingua H è, o vorrebbe essere, un manuale di traduzione della lingua
naturale, e quindi chi se ne occupa non deve assumere il punto di vista di un utente di H,
bensì quello di chi si trova a dover tradurre un enunciato della lingua naturale con un
enunciato di H. È questa la pointe della tesi di Tarello, come risulta evidente dal passo
seguente:
«[…] al livello delle proposizioni, se un precetto ed una asserzione hanno lo
stesso frastico [gli stessi senso e riferimento] il verificarsi della asserzione rende
adempiuto il precetto; ma al livello degli enunciati, ove una parte dell’enunciato
esprima contemporaneamente il frastico di un’asserzione ed il frastico di un
precetto [ove due enunciati di H siano omofrastici], non è necessariamente
vero (ed è probabilmente falso) che si tratti dello stesso frastico [degli stessi
senso e riferimento]: per cui non è necessariamente vero (ed è probabilmente
falso) che il verificarsi della asserzione il cui frastico è [il cui senso e il cui
riferimento sono] espresso[i] da una parte dell’enunciato considerato, renda
adempiuto il precetto, il cui frastico è [il cui senso e il cui riferimento sono]
espresso[i] dalla stessa parte»16.
Personalmente ritengo che questa tesi sia molto importante, anche se formulata in
un lessico fuorviante. Basterebbe dire che anche se due enunciati della lingua naturale,
l’uno interpretato come asserzione l’altro come comando, contengono gli stessi vocaboli
usati come termini referenziali, ciò non comporta che quei vocaboli debbano essere
interpretati allo stesso modo in entrambi gli enunciati: l’interpretazione dell’enunciato nel
senso di assegnazione a esso di una funzione pragmatica (A che cosa serve? A
14
M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria generale del diritto, cit., p. 329.
La ‘Neolingua’ descritta da Gorge Orwell in 1984 è una lingua artificiale creata da un’autorità onnipervasiva per
vincolare i parlanti/interpreti alle sole interpretazioni dei vocaboli e degli enunciati considerate accettabili dal regime.
L’accordo, che nelle lingue artificiali “normali” è spontaneo, in questo caso viene imposto dall’alto con la forza o con altri
terribili meccanismi di persuasione : il probabile effetto di una simile imposizione consisterebbe in una limitazione del
pensiero attraverso una limitazione del linguaggio e l’eliminazione dei significati non letterali.
16 G. Tarello, La semantica del neustico. Osservazioni sulla «parte descrittiva» degli enunciati precettivi, cit., pp. 340-341.
15
7
comandare o ad asserire?) influisce sull’interpretazione nel senso di individuazione del
riferimento (Che cosa viene asserito o comandato?).
3. L’esempio di Tarello
A sostegno della sua tesi Tarello adduce il seguente esempio. Si consideri un
enunciato idoneo a esprimere un precetto (un comando, un ordine, una richiesta)
relativamente semplice, come
P: ‘Chiudi una finestra!’.
Si supponga inoltre che il contesto dell’enunciazione sia il seguente: il precetto è
rivolto al destinatario all’interno di una stanza con quattro finestre, due oblò e una porta.
Tra una delle finestre, uno degli oblò e la porta si crea una corrente d’aria che l’emittente
il precetto vuole eliminare per evitare che i suoi fogli volino via.
Secondo Tarello il destinatario del precetto si trova di fronte alle seguenti opzioni
ermeneutiche alternative:
P1: ‘Chiudi una finestra qualsiasi tra quelle che sono aperte!’;
P2: ‘Chiudi tutte le finestre!’;
P3: ‘Chiudi tutte le finestre e tutti gli oblò!’;
P4: ‘Chiudi tutte le finestre, tutti gli oblò e la porta!’;
P5: ‘Chiudi la finestra e l’oblò da cui penetra la corrente d’aria che mi fa volare via i fogli!’.
Quale comportamento deve tenere il destinatario del precetto che desideri obbedire? La
soluzione dipende dalla determinazione della funzione pragmatica di P: si tratta in
sostanza di applicare un criterio teleologico assimilabile, sotto questo punto di vista, a un
criterio psicologico. Per identificare il comportamento corretto da tenere è necessario capire
la ratio del precetto, lo scopo che intendeva raggiungere chi l’ha emesso: si perverrà così
all’interpretazione P5.
Le cose stanno in modo diverso nel caso l’enunciato da interpretare sia
A: ‘Tu chiudi una finestra’.
A quale comportamento fa riferimento l’enunciato? Si noti che le traduzioni di P e A
nella lingua H sono omofrastiche. Le alternative ermeneutiche disponibili per un
ipotetico destinatario di A sono simili a quelle elencate per P, ma in questo caso,
secondo Tarello, sarebbe “stupefacente” interpretare A come
A5: ‘Tu chiudi la finestra e l’oblò da cui penetra la corrente d’aria che mi fa volare via i
fogli’.
Per chi ascolti sarebbe perfettamente sensato interpretare A come
A1: ‘Tu chiudi una finestra qualsiasi tra quelle che sono aperte’.
In questo caso si applica dunque il criterio interpretativo del significato letterale.
Credo che l’argomento di Tarello sia ancora valido, nonostante la scelta non proprio
felice dell’esempio. Ma ritengo altresì che sia necessaria una qualificazione più precisa
dell’interpretazione intesa come assegnazione della funzione pragmatica.
4. Funzioni, types e tokens
8
A quale concetto di ‘funzione’ fa riferimento Tarello quando sostiene che «[…] Ciò
che muta, con il mutare della funzione dell’enunciato, è il valore semantico dei termini con i quali si
esprime la parte frastica della proposizione»? Nei suoi scritti si rinvengono almeno tre
qualificazioni diverse di questo concetto:
1) funzione generale: è l’indicazione del tipo di proposizione che si ottiene considerando il
type dell’enunciato che la veicola. Le funzioni generali e i tipi di proposizione sono
soltanto tre – conoscitiva, normativa/precettiva, espressiva – e costituiscono astrazioni
operate a partire dai diversi tipi di forza illocutoria17;
2) funzione specifica: è la forza, riconducibile a uno dei tipi di funzione generale,
occasionata da un particolare uso del discorso, cioè da un token-sentence; può essere di due
tipi:
i) tipica, se «[…] non modifica il carattere (assertivo o precettivo) che è proprio della […]
forma grammaticale o stilistica»18 degli enunciati che la veicolano. È riconducibile ai tipi
di forza illocutoria individuati dai teorici degli atti linguistici nelle loro classificazioni;
ii) atipica: è «[…] la funzione che un singolo caso o una singola classe di casi di
quell’enunciato (o serie di enunciati) adempie in quanto fa contesto con una specifica
situazione dell’utente (o con una particolare classe di situazioni di una particolare classe
di utenti)»19.
Con riguardo al rapporto lingua H/lingua naturale, il problema si riconfigura nei
seguenti termini: quale entità linguistica della lingua naturale deve essere tradotta o
parafrasata nella lingua artificiale, i type- o i token-sentences? Optando per la prima
soluzione il neustico verrebbe a simbolizzare soltanto la funzione tipica dell’enunciato: di
conseguenza un’enunciazione come
E: ‘Domani verrai con me a scavare’,
emessa come comando, avrebbe comunque un neustico assertivo, in considerazione
della forma grammaticale dell’enunciato. L’alternativa consiste nel considerare il neustico
come un simbolo per la funzione atipica, relativa a un’occasione specifica d’emissione: in
tal caso la controparte di E in H avrebbe un neustico prescrittivo.
È mia opinione che la funzione da selezionare per dare senso alla tesi di Tarello sia la
funzione atipica, relativa al contesto d’emissione. Per chiarire questa opinione, ritorno
all’esempio della finestra e della corrente d’aria. Prendiamo in considerazione l’enunciato:
N: ‘La mancata chiusura di una finestra provocherà indirettamente lo
sparpagliamento dei fogli sulla scrivania’.
Una traduzione di N in H è data da
Nh: ‘Uso/sottoscrivo (neustico) – [la previsione (tropico) del] – fatto che la
mancata chiusura di una finestra provochi indirettamente lo sparpagliamento dei
fogli sulla scrivania (frastico)”.
Supponiamo di trovarci nella stanza con quattro finestre, due oblò e una porta
descritta da Tarello, e che tra una delle finestre, uno degli oblò e la porta si sia creata una
corrente d’aria. Mettiamoci quindi nei panni di R, destinatario dell’enunciazione
dell’enunciato Nh. R parla e interpreta abitualmente la lingua H, perciò non dubita della
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G. Tarello, Introduzione al linguaggio precettivo (1968), in Id., Diritto, enunciati, usi, cit., pp. 257-258.
G. Tarello, Linguaggio descrittivo e linguaggio precettivo nei discorsi dei giuristi, in Id., Diritto, enunciati, usi, cit., pp. 375-376 (cfr.
anche la nota 28).
19 Ibidem.
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funzione specifica tipica (della forza illocutoria) di Nh: trattasi di una previsione. La
risposta sollecitata in R e l’unico assenso possibile all’enunciato (l’unico modo plausibile
di fruire la comunicazione letteralmente/convenzionalmente veicolata da) Nh è dato dal
credere qualcosa: si può credere o meno che la mancata chiusura di una finestra possa
indirettamente causare lo sparpagliamento dei fogli sulla scrivania. Nh rientrerebbe
pertanto, secondo Hare, nella categoria generale delle asserzioni.
Poiché il criterio di interpretazione del frastico degli enunciati di H con funzione
generale di asserzioni è, stando a Tarello, il canone letterale, R dispone anche del canone
ermeneutico appropriato per interpretare il frastico di Nh: N affermerebbe pertanto che
la mancata chiusura di una qualsiasi finestra potrebbe indirettamente causare in un
prossimo futuro lo sparpagliamento dei fogli.
Finché la traduzione ha come oggetto un type-sentence, cioè un enunciato
decontestualizzato, o meglio un enunciato che si immagina essere stato emesso in un
contesto tipico, ciò è perfettamente accettabile. Ma gli utenti possono ben trovarsi in
situazioni non tipiche: in casi simili possiamo ammettere tranquillamente altre opzioni
ermeneutiche. Per esempio, R potrebbe supporre che l’enunciazione di Nh, pur avendo
convenzionalmente il significato di una previsione, sia stata utilizzata dall’emittente E in
modo non convenzionale per fargli fare qualcosa. Una simile ipotesi non sarebbe senza
conseguenze sull’interpretazione del frastico di Nh: se l’enunciazione di Nh è stata
effettuata allo scopo di far fare qualcosa a R, allora questi, per poter capire cosa fare,
deve cercare di comprendere quale sia la volontà dell’emittente; ciò significa 1) che egli
deve interpretare il frastico alla luce del criterio psicologico (e non del criterio letterale);
2) che la sua reazione appropriata all’enunciazione non consiste nella chiusura di una
finestra qualsiasi, bensì nella chiusura della finestra e dell’oblò che insieme alla porta
creano la corrente d’aria (proprio come nell’esempio proposto da Tarello).
Ma abbandoniamo per il momento questa soluzione e ammettiamo pure che
l’interpretazione di Nh come previsione sia corretta: Nh è una previsione sia
convenzionalmente che nelle intenzioni di E, pertanto, come s’è visto, R deve
interpretarla in base al criterio letterale (la mancata chiusura di una qualsiasi finestra
potrebbe indirettamente causare in un prossimo futuro lo sparpagliamento dei fogli).
Orbene, un’interpretazione di questo tipo porterebbe R a ignorare ingiustificatamente un
problema legato al contesto d’emissione di Nh. La questione è infatti la seguente: a quali
condizioni il soggetto E, autore della previsione, può attendersi che la mancata chiusura
di una qualsiasi finestra provochi indirettamente lo sparpagliamento dei fogli? La
risposta, credo, è la seguente: soltanto nella particolare condizione in cui una corrente
d’aria venga a crearsi tra tutte le finestre, uno degli oblò e la porta. Ma tale situazione
difficilmente può verificarsi: è più probabile che la corrente si crei tra una delle finestre,
uno degli oblò e la porta.
Il dubbio che potrebbe visitare l’attento interprete R riguarda non solo e non tanto le
parole, quanto il rapporto di esse coi fatti. I casi possibili, infatti, sono almeno tre: 1)
l’emittente E ha formulato una previsione azzardata – crede che la corrente d’aria si
possa formare tra tutte le finestre, l’oblò e la porta – ma si è espresso in modo “corretto”
(nel senso che il significato letterale/convenzionale coincide con il significato inteso); 2)
l’emittente E intendeva formulare una previsione più plausibile, ma si è espresso in
modo “scorretto” (avrebbe dovuto dire: “La mancata chiusura della finestra F1
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provocherà indirettamente lo sparpagliamento dei fogli sulla scrivania”); 3) l’emittente E
ignora le più comuni leggi della fisica – egli crede infatti che la corrente d’aria formatasi
tra una delle finestre, l’oblò e la porta possa essere eliminata chiudendo una qualsiasi
finestra della stanza: ciò peraltro non significa che si sia espresso in modo “scorretto”.
Se la terza soluzione è assai improbabile (per quanto non impossibile: basta
ipotizzare che E sia un bambino con scarsa esperienza in fatto di correnti d’aria), le
restanti sono entrambe plausibili: è plausibile che E conosca perfettamente lo stato dei
fatti e incorra in un piccolo errore d’espressione; è plausibile che E non si renda conto al
meglio dello stato dei fatti, ma esprima in modo corretto il suo pensiero (la sua
previsione). R non può assumere sempre come dato incontestabile la correttezza del
modo di esprimersi dell’emittente: ciò sarà vero in molti casi, ma non in tutti. Dovrà
piuttosto tenere conto di tutti gli altri dati che il contesto può fornirgli: per esempio, la
previa conoscenza di E come osservatore distratto o la constatazione del fatto che E si
trova in un punto della stanza dal quale non può percepire in modo adeguato la
situazione sono due informazioni che possono giocare un ruolo determinante
nell’interpretazione di Nh. Spesso sono i “fatti” a far assumere alle parole un significato
diverso da quello “corretto” o comune.
Ne concludo che
I) l’interpretazione dei vocaboli dell’enunciato che sostengono il riferimento è
influenzata dall’attribuzione all’enunciato di una funzione specifica atipica;
II) l’interpretazione dei vocaboli dell’enunciato che sostengono il riferimento in base
all’attribuzione all’enunciato di una funzione specifica atipica è comunque influenzata da
altri aspetti del contesto (o meglio, dei contesti: del contesto sintattico o co-testo, del
contesto semantico, del contesto pragmatico-cognitivo).
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Il concetto di neustico in Hare e Tarello Relazione per l`VII