IL SOLE IN UN ASCIUGAMANO
“ Ma … è di notte, nei sogni che si avvera ciò che
di più desidero: amarti!
Amarti così come so, ed come nuotare nel mare d’aurora,
dove tutto si forma, e si riduce in polvere;
che ricadendo si ricompone negli occhi della donna che amo!
Così ricomincio a sentire il calore dell’amore
quando mi stringevi fra le tue braccia.”
In quei giorni di settembre e correva l’anno 1970, ero tornato finalmente a
vivere, avevo ancora una volta vinto il grigiore, la tristezza che mi portavo
addosso; e con molta fatica ero riuscito a risalire il baratro in cui ero
precipitato. Ove sguazzai incosciente dentro quel sistema tanto odiato,
ricominciai a risentire nell’animo quell’aria primaverile perduta
era
un’allegria strana, incontenibile, che mi usciva da ogni poro della pelle. Ero
così felice che a me pareva che le cose finalmente volgessero al meglio, tutto è
avvenuto come mi aveva predetto un vecchio pescatore, Benito Latella, che
vedendomi in quell’aria mesta sulla spiaggia cominciò col raccontarmi la sua
vita, ed io la mia. Benito era un tempo nome importante, molti lo portavano
con orgoglio.
Lo incontrai sulla spiaggia mentre raccoglieva vetri rotti, colorati e resti di
mattoni levigati, cose con una vita ed un passato, una storia; fra noi nacque
così una buona amicizia, tanto da confidarci i nostri intimi dispiaceri. E
quando con lui mi ero lamentato pure della persecuzione messa in atto nei
miei confronti dalla sfortuna, mi rispose:
<< … sai come vanno le cose nel corso della vita? Dopo un’onda bastarda
che quasi ti fa annegare, ne arriva sempre una buona che non ti
sormonterà, ma allungandosi ti depositerà sulla sabbia dorata di una
spiaggia.
Devi avere più fede, credere che Dio e Lui non tradirà mai la tua fiducia,
ma terrà sempre la sua mano sul tuo capo. Non ti lascerà mai solo, e se è
proprio occupato in altre faccende in tuo aiuto manderà, un Angelo.
Gli Angeli sono fra noi, anche adesso ne abbiamo uno accanto, il mio si
chiama Imamiah.
Lo conosci il tuo, sai come si chiama?
Veglia su te da quando sei venuto al mondo, e ti seguirà ovunque fino al
momento del trapasso? >>
Quella sua affermazione a dire il vero mi lasciò alquanto allibito, disorientato
pure per come e con quanta enfasi l’ aveva affermata. << Quell’uomo deve
avere una grande fede in Dio>>, pensai!
Mentre io l’avevo persa come un personaggio abbandonato dal suo stesso
copione,e senza tanto clamore, intrappolato nello spazio della mia stessa
negazione o recitazione che fosse. Altrimenti come avrebbe potuto affermare
una cosa così importante, e poi come faceva a conoscere perfino il nome del
suo angelo custode?
Ecco come nascono nuovi interrogativi, nuove domande, nuovi ragionamenti.
Però a pensarci bene io mi sono trovato in tantissime situazioni di pericolo e
me la sono cavata sempre bene. Ho vissuto bruttissimi momenti e ne sono
uscito fuori, e questo grazie a chi? Non certamente imputabili alla mia
intelligenza o alla pura fortuna, se dicessi di si, sarei oltre che banale anche
uno sciocco.
Non ebbi modo di rivedere Benito né di abbracciarlo e ringraziarlo, perché nel
frattempo le nostre strade s’erano divise e lui aveva fatto i bagagli per
trasferirsi definitivamente altrove. Insomma era deceduto mandando tutto, e
tutti a quel paese, specialmente la parentela e i figli, che da quando era
rimasto senza la sua Carla se n’erano lavate le mani.
Felice anche di non pagare più la tassa sulla pensione dovuta ogni mese al
nipote Gianluigi di venticinque anni, studente universitario fallito, fuori corso
cronico, che lo accompagnava all’ufficio postale ogni fine mese a bordo della
sua “ Lalla” la seicento multipla, che suo nonno Benito teneva parcheggiata
all’interno del piccolo fienile, dove oltre all’autovettura, teneva i conigli, gli
attrezzi per l’orto e il cane che lo divideva con la nidiata delle gatta randagia
che li aveva trovato riparo.
Gianluigi non si era mai accontentato della lauta – mancia - ma pretendeva in
quell’occasione anche la colazione e le sigarette, il denaro per il carburante.
Di questa storia e di suo nipote specialmente ne aveva le tasche piene e
quando ci incontravamo si lamentava sempre e per farsi anche coraggio diceva
spesso:
<< Se loro tutti credono, che alla mia morte di prendersi tutto quello che
troveranno sulla tavola apparecchiata, moriranno di fame! Perché io mi
prendo in casa un’altra femmina e a loro gli lascio sta banana! ( Fa il
gesto con le mani) E’ possibile mai che non si sono mai fatti vivi, ma
neanche passare da casa mia per chiedermi, come va, o come stai, o
chiedermi se avessi avuto bisogno di qualcosa? Ma ogni fine mese si, cioè
quando io prendo la pensione! Ma se si sono fatti strani pensieri …. con
me cascono male, parola mia!! >>
La ripeteva spesso questa cosa e io non gli avevo dato tanta importanza
credendolo più un suo sfogo; ma evidentemente dopo una notte insonne
trascorsa davanti alla finestra ad aspettare l’alba rimuginandoci sopra a questo
fatto, prese la saggia decisione di trovarsi una donna che lo potesse accudire.
Andammo assieme quella mattina a San Domenico, la chiesa in cima alla
scalinata dei poveri, per parlare con il parroco, che vedendomi prima di
ascoltare la richiesta di Benito, mi rimproverò l’aver dimenticato la strada che
da casa mia porta alla chiesa dicendomi:
<< Perché una mattina qualsiasi, lasciamo perdere la domenica …. visto
che non vuoi incontrare i tuoi paesani, uscendo di casa invece di girare a
sinistra e buttarti sulla spiaggia, non giri a destra per venirmi a trovare?
E siccome non ci senti da questo orecchio, devo venire io a trovarti ? >>
Almeno in questo è stato fortunato perché gli venne suggerita da Don
Anselmo, parroco, come persona di fiducia e adatta a lui, Miriam! Una
ragazza di quarant’anni, bionda e in carne, nubile e tette grosse; che lo aiutava
nella parrocchia oltre che a tenere pulita la chiesa.
Chiaramente la gente del paese, venuta a conoscenza di questo, ha malignato e
tanto pure con l’uso del passa parola; correva voce, nei bar e nelle botteghe,
del suo innamoramento di questa Miriam e che ci andasse pure a letto.
A questi pettegolezzi più di tanto lui non aveva dato peso, anzi fece qualcosa
di inaspettato per tutti.
Essendo anche lei sola se la mise in casa, e non bastò solo questo, ma si faceva
portare in giro per il paese con la vecchia seicento multipla blu, e spesso si
recavano a Reggio a fare spese, o a vedere qualche buon film, o per
passeggiare sul Corso Garibaldi, o per consumare un cono di gelato sul
lungomare. Sta di difatto che lei lo teneva pulito e profumato e sempre in
ordine, gli aveva aperto anche un abbonamento dal barbiere.
Ciò suscitò l’ira e l’invidia della parentela tutta, che oltre a controllare ogni
loro movimento, si preoccupavano del denaro; del quale non ne conoscevano
l’ammontare depositato in banca né di quello depositato su un libretto postale;
oltre a quello che teneva nascosto in casa e che non erano mai riusciti a
trovare. Denaro che lui invece, a loro giudizio, sperperava con la sua bella,
cosi la chiamavano, temendo pure che alla sua morte il “ vecchio orso”
lasciasse ogni cosa, proprietà e denaro, alla giovane intrusa.
Benito Latella giusto per stuzzicare l’invidia che i suoi amici covavano, i quali
tutti i giorni non avendo nulla da fare lo aspettavano seduti sulla solita
panchina di ferro nella piccola villetta del paese. Vi erano le solite aiuole di
piante avvezze al sole e alla siccità, qualche albero da frutta e di limoni e nella
parte centrale una piccola vasca di pesciolini rossi al centro, una specie di cosa
che a parere del suo ideatore era un salto d’acqua; dal quale invece usciva
fuori un rigolo di acqua che si affondava nel manto di muschio e da qui finiva
nella vasca senza rumore.
<< Miriam, che femmina, è un dono di Dio! Da quando c’è lei, in casa mia
è tornata la vita, mi sento veramente bene, sono ringiovanito sia
nell’animo, che fisicamente, specialmente quando mi vedo sparati in
mezzo agli occhi le sue tette dure e appuntite, insomma due tette a pera!
Roba, che mi fa schizzare il sangue in testa; per non dire poi che
terremoto mi succede dentro quando si avvicina e stringe forte la mia
faccia sul suo petto….. >>
<< Tu farai una brutta fine… >> gli diceva spesso Ciccio Labbate,
soprannominato – leprino- per via del suo labro leporino; che a causa di
questa malformazione sin da giovane non aveva potuto pretendere una bella
ragazza; e quella che aveva sposato, lo fece solo per non rimanere solo.
Da allora fino alla vecchiaia ha vissuto nel desiderio di fare l’amore con le
belle e prosperose donne degli altri, che incontrandole per strada le scrutava
con insistenza suscitando in esse oltre che curiosità, anche disagio.
Non fu di meno neanche Giuseppe Malavenda, secco come un fico ancora
appeso al ramo, e faccia incavata, imbiancata da una barba irta e più bianca
che nera e sempre con un toscanello serrato a lato della bocca, soprannominato
dai suoi amici – tamburello- per via della sua passione per questo strumento
musicale, ma anche perché amava spettegolare con chiunque, di chiunque!
Loro naturalmente oltre che a invidiarlo se lo immaginavano il Benito che se
la poteva godere magari senza veli girare per casa con o senza mutandine o
reggiseno, e con i capelli raccolti alla nuca.
Quando lei si recava a far spese al mercatino di Piazza Umberto, doveva per
forza maggiore attraversare via Rinaldi sapendo che sarebbe passata per
quella strada l’aspettavano, anche sotto il sole più cocente per vederla e
ammirarla nelle sue forme e come ancheggiava camminando.
E poi i loro commenti, come:
<< …. che femmina! >>, oppure << prima non era così, sembrava una gatta
morta, una cosa insignificante >>, << ma guarda che pezzo di… >>,
<< ma come è cambiata, prima non era così, ora guarda com’è diventata
formosa e attraente con quelle minne!>>, << mi ha detto Paolo della merceria
che sua moglie Tania gli ha confidato che lei compra solo mutande di lusso, e
piccole, ma tanto piccole che le lasciano scoperto tutto il didietro. >>
Insomma erano cotti dall’invidia e della fortuna che era capitata così
all’improvviso al loro amico Benito. Che probabilmente fece una bella morte,
fra le braccia della sua donna! , sarebbe piaciuto anche a me finire così.
La notte nera come catrame, povera di immagini e pensieri, illuminata da una
luna incipriata di rosso, notte passata sul terrazzo a guardare il mare
aspettando il giorno, che piano cominciava a levarsi dietro la linea
dell’orizzonte, portandosela via; l’ultimo, di una estate che mi era sembrata
non finisse mai.
La mia estate lunga e spensierata, sfinita dal canto di cicale, mi condusse quasi
incosciente, e in anticipo, ad una specie di vuoto; dove nella mezza luce si
muovevano e in rapida sequenza, immagini di spiagge e di vele.
La mia notte marina, passata davanti ad un mare che si avvicinava a me, dopo
aver superato gli scogli e la spiaggia, si ritraeva all’avanzare della luce;
lasciandomi quasi senza una precisa destinazione. In quelle immagini di cielo
e onde alte e minacciose e senza futuro, perso com’ero, pensai alla mia vita
che sempre più mi parve di vivere come una commedia inebriante e
spensierata dove io recitavo le parti a me più congeniali.
Ma ero lì, come un recitante in cerca d’autore e di rime da poter raccontare in
quel buio ove palpitava un respiro di un mondo che mi pareva di conoscere,
sospeso come me tra la realtà e la fantasia; mondo che scorre lento tra
l’illusione e la disillusione, di certi miei amori quasi sempre imperfetti, e di
sentimenti smarriti.
Ad ascoltare Il lamento del mare quando veloce va a morire in una breve
agonia su pietre grigie e chiare, sulle ali dei venti; mentre il mio agonizzare
sta’ nella mia continua ricerca di tracce di una felicità perduta.
Quindi ad ogni mio risveglio ero come pagina vuota sulla quale poter scrivere
parole in grado di esprimere quel che avevo dentro; ma anche per poter fissare
intensi attimi di felicità che mi furono donate da parole sussurrate a fior di
labbra.
Quello che stavo vivendo, all’inizio mi pareva un sogno denso di emozioni,
ma anche di timori e smarrimenti; cose che riconducevano alla mia necessità
di volere rimanere ad ogni costo in quel sogno, cose che hanno a che fare con
l’attesa di poter assaporare fino in fondo tutta la sua assenza prima di perderlo.
E’ stata una situazione che ho vissuto intensamente e che allo stesso tempo
allontanandomi dalla realtà mi invitava a vivere spregiudicatamente ogni
attimo e intensamente il sogno con la mia più ampia partecipazione.
Fu come vivere un’ altra vita in una dimensione, parallela alla realtà
finalmente relegata nei limiti di se stessa. In questa realtà che regola e ferma,
trasla, in un istante lontano ogni cosa che si sta svolgendo, senza sapere come
e quando riaffioreranno; realtà nella quale mio malgrado pure solo sfiorandola
vivo e respiro le sue difficoltà, ci sono io in lotta con la vita che riproduce
sempre se stessa, ambigua e sfuggente, seducente nei suoi dettagli.
Ma adesso c’è una felicità in me che da tempo non sentivo più che incalza il
mio cuore con la sua tenerezza e nuova gioia di vivere. Lei la donna che,
nonostante abbia conosciuto e subito la violenza, ristrettezze, riesce a darmi
amore, anche se la vita per molto tempo le ha negato la felicità sperata.
La guardo nel suo sonno tranquillo, e per non svegliarla le accarezzo in punta
di dita il viso, e le labbra di rosa aurora, mentre un nodo mi serra la gola,
pensando a come faccia a rendermi felice, se la felicità lei, l’ha da poco
sfiorata? Io non avrei mai immaginato, di poter un giorno stringere fra le mie
braccia una donna così bella e nel silenzio surreale nella stanza, mi fermo ad
ascoltare i battiti del suo cuore, il fruscio dei miei passi nei suoi sogni.
Smarrito in questa mia felicità intima e preziosa, insondabile, sorgono
pensieri, e immaginazioni, torno nuovamente, come volesse essere una
carezza, a toccarle il viso dolce e sereno, nel mentre lei mi stringe nel sonno
le mani.
E mi pare di toccare il cielo quando mi fermo a guardare il suo volto coperto
dai capelli scivolati in parte; la scopro e piano continuo in preda ad una forte
eccitazione a seguire con le dita la lunga linea dorsale di pietra marina,
palpitanti sottopelle, mi riempio dei suoi seni, che alle mie mani si offrono. E’
un fermo immagine nei miei occhi mentre nudo sul letto, ed inseguito dalla
realtà e dal suo brulichio, dalla sua frenesia irrazionale; penso cosa sarebbe
potuto succedere, se avessi continuato, ma lei è per me una storia d’amore
importante; come lo sono certe narrazioni, certi contenuti d’intimità, certe
parole che raccontano più di lei, che di me. Come la sua certezza di trovarmi
sempre accanto a lei, ad ogni suo risveglio col suo amore che sa esprimermi
con gli occhi e di come sa amarmi nelle mie notti marine.
Dopo l’amore,in quell’aurea densa di ciò che era accaduto quel che rimane
sospeso nell’aria, sono gli abbracci di tenerezza. Amore che probabilmente
cambierà la mia vita, facendomi intraprendere un viaggio assieme a una colei
che inconsciamente da sempre ho cercato invano; tutto questo, mentre il
nuovo giorno sta per consegnarci entrambi nelle braccia del futuro.
Io, forse a causa del mio pessimo carattere, incline pure come sono alla
malinconia e alla solitaria macerazione interiore, mi sono perduto; e lo sono
ancora di più venendomi a trovare dinanzi ad un mio nuovo “ significare ”,
nella vita di un’altra persona, la probabile compagna per una nuova intera vita,
e in quello che ora stavamo vivendo assieme, dentro una fortissima
attrazione.
Sono felice e ho paura per questa mia intima felicità. L’avverto in me
scaramanticamente, come una cosa provvisoria, per paura di perderla visto i
miei continui naufragi con le conseguenti derive dentro una vastità
sconosciuta in cui è difficile perfino l’immaginare un possibile appiglio che
possa mettermi in salvo dalle tristezze e dai malumori, dall’infelicità.
Non so cosa farò della mia vita non appena lei, ancora nel letto si sveglierà dal
suo sonno sereno e aprendo le braccia si stringerà a me, accostando le sue
labbra alle mie per suggellare l’amore che sente, bacio che stabilisce una
tregua nella mia guerra interiore.
Ebbene, dopo un tempo speso a rincorrere in ogni luogo i miei sogni, e dopo
aver rivoltato la mia esistenza, essendo io stesso divenuto spettatore del mio
destino, vivo per mia libera scelta in un mondo mio di spiagge deserte,
ammaliato dai colori di un mare grande e misterioso che sfavilla negli occhi.
Dove il tempo è di pochi attimi, essenziali e fulminei, diversi da quelli scanditi
dalla vita, questa vita che non perdona e non regala nulla,è per me una
invidiabile regista che ha deciso e disposto già lo scenario. Ma è anche
un’immagine fissa in cui i personaggi quasi sempre soli guardano da un
dentro, fuori, verso il calore del sole, verso l’amore; immobili nella lunga
attesa malinconica di un suo si.
E ogni giorno che avrei voluto diverso, lo è stato solo in apparenza; dato che
le cose accadono e sono accadute ugualmente senza la mia benché minima
partecipazione.
Io sono questo insieme di cose, diverse e uguali allo stesso tempo, centellinate
quotidianamente, capaci di assorbire interamente il lento scorrere del mio
vissuto nella sua intera rappresentazione scenica.
Naturalmente, questa mia età innamorata della vita rischia di perdersi dentro
questo tempo sbandato, per certi versi scontato e superficiale; ecco perché io
come una comparsa mi sento spaesato e confuso. Che in qualche maniera
cerca difendere il suo amore stabilendo da questo sistema, distanze utili a
farmi godere a pieno della felicità intima che custodisco in me come una
madre possente e grande, mentre torno a cercarla di notte per amarla
nuovamente.
Poi, come se, soggiogato da una maledizione, tornai a perdere l’incanto,
ricaddi in una sorta di teatro che già conoscevo, in cui la migliore
rappresentazione di me stesso era stato il non senso, più forte e più grande del
senso. Ma la cosa peggiore è che su quel palcoscenico tutto viene recitato, ed
io recitai seguendo un copione, perfino il mio stupido ennesimo fallimento. E’
stato facile, come facile lo è stato chiudermi in un privato a volte misero e
penoso.
Infondo sono uguale agli altri, un perdente che non ha mai lottato per salvare
un amore o per una giusta causa, ma che uomo sono? Forse la verità è che
faccio tanto schifo, perché non sono stato capace di opporre la giusta
resistenza, lasciando fare alla sua maniera spiccia ad un sistema che per suo
tornaconto mi ha proposto falsi idoli che si moltiplicarono facendo bella
mostra di se, a cui purtroppo io come tanti abbiamo voluto rassomigliare e
credere, per non rimanere fuori dai giochi, ed è stato che uno stupido tranello.
E’stato così, e lo merito tutto il disprezzo che provo di me stesso, che rinnovo
ogni mattino davanti allo specchio quando guardandomi urlo a me stesso:
<< …. Quanto fai schifo ! >>.
Poiché avevo perso la ragione e il vero senso della vita, probabilmente questi
miei intimi pensieri, fino a ieri giacenti in fondo al calamaio ora riemergono
per essere trascritti su candidi fogli, e torneranno a vivere la loro eternità
quando diventeranno parole, racconto per tutti.
E poi frasi, pensieri; cose trascritte o da trascrivere per altri, da recitare a una
lei, anche pubblicamente, o a chiunque che ancora sia capace di fermarsi ad
ascoltare e interrogarsi sul mistero della vita; e non per coloro che hanno
occupato la scena solo per essere interpreti di se stessi.
Più mi avvicino a lei e più sento forte il suo richiamo, sotto questo cielo muto,
steso sopra un mondo grigio opacizzato dalla violenza, immobilizzato dai suoi
stessi malesseri. Mondo nel quale di tanto in tanto sono costretto ad andare in
cerca di un qualcosa da salvare, mentre, molte altre oramai sono andate
perdute per sempre. Ma ci sono, per fortuna, le piccole cose preziose di ogni
giorno; cose che accadano forse una volta sola, oppure mai; ci sono teneri
immagini che ripetendosi m’incantano lasciandomi dentro un dormiveglia in
cui a volte vi precipito senza accorgemene.
Lo confesso e lo ammetto, di avere paura!, quando lei svegliandosi e
cingendomi con le sue braccia mi chiederà se nella mia vita ci sarà posto per
lei e un futuro insieme. Ho paura!
Paura della mia età, che mente ogni qualvolta che mi guardo allo specchio, o
quando non mi fa sentire l’eco del tonfo di un anno che si trasforma in ruga
sul volto, un volto disfatto e ricomposto.
E’una strana situazione, che incide profondamente la mia coscienza, lasciando
tracce di se come pensieri e segni, misure e significati diversi. In cui più di
tutto avverto la percezione del “ nulla “ che conduce all’abbandono, al vuoto
esistenziale; forse è solo un mio cercare amore, carezze, certezza, bisogno di
umanità.
Con le mie parole cerco di tracciare quel che dovrebbe essere un orizzonte su
cui collocare lei, assieme alle immagini di case rosso ruggine, di canali nei
campi colorati dai papaveri, addormentati dal canto di cicale.
Per certi versi immagini della mia coscienza, che fino a ieri conosceva il
linguaggio della malinconia e della solitudine; immagini che lei con le sue
giovani emozioni scaccia via. Ho bisogno di raccontarle le domande che mi
sono posto, le risposte che mi sono dato, le mie paure, i miei disagi in un
mondo che non è per nulla uguale a quello di prima; e della necessità mia di
trovare la serenità allontanando il mio passato onnipresente, dirle che il luogo
in cui riesco a vivere è negli occhi suoi di mare quieto. Ho necessità dei suoi
occhi nei miei, per sentire che qualcosa rimane, che nulla si perderà, che io
l’amo nel suo infinito.
Sento che per guarire e tornare a vivere, devo uscire definitivamente dal mio
caos interiore, come pure di legare il mio destino al suo; riconoscendole il
merito di aver arrestato la mia folle corsa poco prima del disastro.
Ancora io da personaggio che sono, per metà reale e l’altra immaginario,
continuo a cercare nella mia riflessione, quell’esistenza felice che ho sempre
voluto, e che ora grazie a lei ho finalmente trovato e che con lei vorrei
condividere fino alla fine della mia lunga estate d’amore.
Mi vedo e mi sento come una porta sgangherata, corrosa dai tarli, sigillata da
assi di legno inchiodate e chiaramente non mi piaccio; ciò non quieta, né placa
il mio mare di dentro, ma spiega perché finora non ero riuscito a stringere
alcun legame sentimentale dopo l’esperienza vissuta con Keyshia.
Però a lei, a questa donna di cui credo d’essermi innamorato davvero e
pienamente, devo anche riconoscerle di avermi pian piano cambiato da
quell’uomo che ero sempre in fuga da me stesso, in uno che fa ritorno.
Ad un certo punto della mia vita credo di essermi arreso, e non volendo più
soffrire smisi di amareggiarmi per gli amori che finivano, per le amicizie
tradite. Di non nutrire alcuna illusione sul mio futuro tanto da indurmi a
crearmi un mondo tutto mio parallelo a quello da cui sono fuggito, e che
purtroppo sono costretto a frequentare, di tanto in tanto.
Adesso lei è qui, interamente nella mia vita.
Ed è come un giorno assolato, un giorno felice, ma è anche solitudine quando
mi lascia solo per raggiungere i suoi orizzonti nella tenue luce di luna che
rischiara un mare grande come il cielo.
Lei è forte e tenace, e quando mi è vicina è come un vento leggero che mi
porta lontano e se appena la sfioro ricomincio a sognare.
A lei dedico i versi più belli per dirle quanto io l’ami, quanto la desideri con le
sue braccia che sanno cingermi; è una felicità che inevitabilmente si scontra
con antichi dolori e vecchi risentimenti, smuove ricordi di battaglie perse.
Ricordo come ci siamo incontrati, ma più di tutto come reagì quando le
confessai l’esistenza di un figlio che purtroppo non ho mai potuto conoscere,
né abbracciarlo e farlo conoscere al mio mare.
Ogni anno, in settembre inoltrato, quando ormai le spiagge sono nel vento,
arrivano da nord gli zingari, una migrazione che si ripete da sempre, come
l’arrivo delle rondini. La carovana, nel suo lungo viaggio percorre la statale
Tirrenica da tempo soppiantata dall’autostrada che dall’alto la sovrasta con i
minacciosi viadotti.
Poco trafficata, la vecchia signora si snoda lungo la costa tirrenica e quella
jonica, tagliando i paesi che incontra, si appresta ai calanchi che precipitano a
capofitto sul mare, e s’immerge per lunghi tratti nelle macchie rosse e bianche
degli oleandri e gelsomini, delle ginestre e buganvillee.
Il loro arrivo si annuncia con l’arrivo dell’avanguardia, ragazzi che montano a
pelo giovani puledri. Hanno il compito di trovare la zona più idonea ad
accogliere la carovana.
Il pianoro scelto è un campo abbandonato alle sterpaglie, vicino alla spiaggia e
lontano dalla strada che prosegue verso Reggio e su, verso Taranto.
La loro presenza è una piacevole ventata di allegria, così, i canti che intonano
di sera attorno ai falò accompagnati dai violini, le gare coi cavalli lungo le
spiagge vuote.
Nell’aria frizzante di settembre alla sera è una piacevole carezza che porta con
se profumi da altre terre e mari diversi; in quest’aria settembrina si
affievolisce la risacca e si esalta maggiormente il silenzio.
Camminavo senza una meta precisa, seguendo quasi per gioco la lunga sottile
linea scura che separa la spiaggia dal bagnasciuga, quando come un
improvviso lampo di luce dove la spiaggia curva dolcemente a sud, sbucarono
dal nulla due bellissimi cavalli montati a pelo da da due giovani donne, che al
loro passare disegnarono l’aria e il paesaggio con la lunga criniera.
L’immagine anche se breve, fu interminabile e piena di magia, rimase sospesa
nell’aria cambiando la spiaggia stessa in luogo straordinariamente bello. Lei
la notai subito, forse per la fascia rossa che le legava i capelli, mi sfrecciò
davanti senza degnarmi di uno sguardo, era bella, e restai li a seguirla stupito
e meravigliato, sorpreso.
Quando tornarono indietro, passandomi davanti mi guardarono, fu lei a
gettare nei miei occhi il suo sguardo cupo e misterioso come la notte; me la
ricordo su quel cavallo, fiera e selvaggia allo stesso tempo, e come se me la
ricordo!
Rimasi lì sul quel pizzo di spiaggia con quel viso e quegl’occhi ancora
impressi nella mente specialmente il suo sguardo forte e penetrante; non so
perché, ma applaudii come solo sa fare un bambino, anche se la scena si era
oramai svuotata perfino della magia.
Non so perché lo abbia fatto, inconsciamente forse, pure per ringraziarla o
semplicemente per richiamare la sua attenzione. Ed invece sulla scena c’ero
solo io ancora con quell’immagine negli occhi e per tutto il giorno poi e
nonostante avessi fatto di tutto per dimenticarla, lei era ancora lì nella mia
mente.
Tanto da non poter fare a meno di recarmi la sera stessa nel loro piccolo
accampamento senza una scusa anche la più banale, che per fortuna strada
facendo mi venne in mente, e cioè, acquistare da “ Spillo “ una fricina
( fiocina ), della quale non avrei saputo che farmene.
Loro durante il giorno si aggirano per le vie del paese bussando alle porte e
proponendo i loro manufatti di legno e cuoio, coltelli e forbici; ma il più noto
è “ spillo” un vecchietto.
Secco come una noce e con la barba bianca, occhi da faina, agile come una
lepre; si aggira sul porto, fra le barche, si intrattiene coi pescatori per parlare
di mare, e ricordare con essi tempi in cui si avventurava in mare, a pescare,
con la sua barca a remi.
Come tutti gli uomini che sono andati per mare, parla schiettamente
mostrando loro e con orgoglio le sue lucenti e acuminate “ fricine”, che forgia
durante le lunghe soste; in verità lui come accade a molti altri pescatori non ha
mai lasciato il mare. Le donne invece propongono delicati pizzi fatti a tombolo
e mantili di pizzo dai colori pastello,delicati e luminosi; medicamenti
miracolosi, predicono il futuro.
Una volta giunto lì davanti non ebbi il coraggio di entrare e feci ritorno sui
miei passi, deluso e amareggiato; camminai senza una meta precisa dentro
quell’aria pregna di salsedine stregato dai riverberi lunari, davanti a quel mare
calmo e sereno.
Qualcosa in me era cambiato, anche se non volevo ammetterlo a me tesso,
poiché inevitabilmente il giorno dopo mi ritrovai con la testa ingarbugliata
dalle mie fantasticherie più diverse, che sfumavano man mano che
trascorrevano le ore. Più pensavo a lei, e più cresceva in me un desiderio
incontenibile, strano, senza poterla incontrare.
Certi giorni col sogno ancora in testa, guardando il sole all’imbrunire tuffarsi
in mare immaginavo che la mia vita svanisse in questa maniera; e c’era lei
davanti agli occhi in certi pomeriggi, passati a fissare il vuoto da una finestra
come se aspettassi l’arrivo di qualcosa che potrebbe giungermi dal mare.
L’immagine migliore, la più fantasticata della mia vita è quella di un territorio
sferzato dal vento, dilaniato dai marosi, e di bianche creste polverizzarsi nel
vento che vedo sparire sott’acqua. Per riapparire e scomparire nuovamente
sommerso, proprio come me sulla soglia di questa mia vita che come lastra di
vetro si frantuma ad ogni lieve tocco d’ala assieme ai sogni; nonostante il loro
volersi fissare nella memoria. Come a non volersi staccare e liberarsi
dell’immaginazione che li ha generati, per non morire tra le fauci del tempo.
Sogni , ancora fantastici e vivi anche se irrealizzati, insabbiati in quel mio
- oltre - disperso tra le trame del nulla.
Da giovane ero sicuro d’essere nella benevolenza divina; convinto che le mie
cose accadessero perché lui “ Dio” così avesse predisposto.
Poi crescendo e diventato uomo, sicuro di me come delle mie azioni che
credevo giuste, mi accorsi in realtà di quanto fossi stato stupido, capii quanto
sbagliate siano state le mie scelte; disorientato e smarrito com’ero tornai a
vivere nelle ombra di tutte le albe attese, ripresi a volare sulle ali della
fantasia.
Questa notte la luna dal punto più alto del cielo riflette il suo pallore su un
mare liscio come l’olio, nasconde le magie delle stelle agli occhi dei bambini
che dai letti le stanno a guardare, per loro e solo per essi, lascia in libertà
argentei unicorni che scendono dal cielo a raccogliere i loro sogni.
S’intrufola dalle persiane nelle stanze per accarezzarli, li culla nel magico
sonno ; anch’io come loro rapito e incantato resto a guardare da una finestra il
mare, strada di altrettante strade senza incroci e semafori sulle quali corrono
pensieri interamente lastricate da lettere mai spedite, e promesse non
mantenute, di vite perdute, attese e speranze vane.
Ci sono notti sciupate in misere conclusioni, private dai sogni che sono rimasti
impigliati nelle reti che il mattino stende dalla sua riva; sogni buoni a colmare
il vuoto delle distanze nate dai silenzi e dalle solitudini.
C’è un sogno ricorrente che sempre mi lascia nella forma che vuole; è un
sogno forte, vero che fa battere il cuore all’impazzata fino a costringermi ad
alzarmi e ad andare a camminare sulla spiaggia in qualsiasi ora di giorno che
di notte, per incontrare la donna della mia vita che mi appare.
Cammino di buon mattino in compagnia di un amico, che mi ha scelto non
casualmente come compagno di viaggio, anche lui in cerca di un po’ d’amore
e di carezze o di un gesto che significhi amicizia.
Fermo lo fisso negli occhi, lo stesso fa lui, che cerca i miei nascosti dai capelli
cadenti sulla fronte, io e lui, uguali orfani dimenticati su questo pianeta di
scimmie, che inseguono la loro vita a pezzi che cercano di rimettere assieme,
sempre alla ricerca dei frammenti mancanti, per poterla completare.
Lo guardo cercando di fargli distogliere lo sguardo, mi resiste, non capisco
dove voglia arrivare e cosa vuole dirmi quando scodinzola la coda.
Camminiamo uno di fianco all’altro, entrambi con quei sogni in testa che non
sono riusciti a raggiungere la riva dell’aurora; a tutto questo ci deve essere un
senso e in questo trovare un’indicazione, un viaggio che permetta ad entrambi
anche se sfiancati, di raggiungere la meta seguendo l’unica via che l’amore
indica.
Mi fermo e accovacciatomi davanti ai suoi occhi sussurro:
<< Mio caro amico, ci vorrebbe un amore ! E se poi dovessimo trovarlo che
faremmo? >>
Già lui che è messo peggio di me, che per parlare usa bene gli occhi, lui che
sa ascoltare il vento, non guaisce ma si limita a guardarmi e seduto su un
cumulo di sabbia ascolta le mie stupidaggini.
Nell’ombra di uno scoglio sotto un cielo screziato dei vari colori, prendo
fiato, per dare tempo al cuore di tornare nei ritmi normali mentre lui il mio
compagno di viaggio invece si è lasciato andare, nell’intera ombra di un muro
cadente.
Entrambi in silenzio con lo sguardo fisso in un maledetto ovunque di cose
diverse, dal quale potrebbe giungere qualcosa, magari un viandante con il
quale scambiare qualche parola raccontandoci del presente o del sogno più
bello rimasto impresso nella memoria, per alleviare il dolore di un pensiero,
fisso come un chiodo nelle carni.
Tutto questo per un niente che da sempre si verifica lasciando traccia di se
sospesa nell’aria: l’indifferenza, il male peggiore.
E’ propiziatrice di cose buone la sera che si appresta, bianca di sale e di luna e
di un mare calmo, aderente al volto propiziato dalla mente e spiagge come
lastre di vetro che riflettono colori fiabeschi di un tramonto atteso, è dolce
eclisse d’acqua il volto che s’intravede per un cuore che si disperde in onde
recenti.
Felicità remota, giovane ed estesa solitudine su un mare che va crescendo di
onda in onda; provata nuovamente e all’improvviso dopo tanto tempo, mentre
mi reco all’accampamento degli zingari per incontrare colei che lo fece
sobbalzare e battere a ritmi inusuali.
Questo pensiero è andato avanti e indietro in testa per tutto il pomeriggio, mi
ero preparato soprattutto all’incontro e un discorso per lei.
Giunto lì davanti incontrai un ragazzo che conduceva sulla spiaggia un
cavallo:
<< che vuoi, che cerchi? >>
Preso alla sprovvista risposi timidamente con la prima cosa che mi balenò in
testa: << voglio farmi leggere la mano. >>
<< E tu, alla tua età credi ancora a queste cose. Ma non farti ridere appresso,
io sono sicuro che questa è una scusa, tu sei qui per un altro motivo, un buon
motivo credo, è vero che è così?>>
<< Si è vero! Ascolta devo chiederti un’informazione: Ero sulla spiaggia ieri
mattina a passeggiare quando mi sono sbucati davanti due cavalli montati da
due ragazze, al ritorno feci loro cenno di fermarsi ed invece hanno proseguito
senza degnarmi di uno sguardo, sapresti dirmi chi erano? >>
<< Certo che lo so, una di queste è Lucinia … facciamo sempre le gare in riva
al mare. Vive là, guarda in quel carro sotto l’albero, l’altra è una ragazza
spagnola che si è unita a noi per raggiungere il suo fidanzato a Bari, ma perché
le cerchi? >>
<< Perché, perché voglio parlare con loro! E poi scusa a te cosa interessa cosa
devo fare io. >>
Il sorriso gli rimase sul viso leggero come un segno, quando stavo per andar
via prendendomi per il braccio aggiunse:
<< Buone cose amico ma, come ti chiami? >>
<< Goffredo!>>
<< Carlo… >>
L’accampamento è rischiarato dai falò sparsi un po’ ovunque e intorno ad essi
donne e bambini, anziani; in me sento una incontenibile allegria e questa sera
mi pare sia una di quelle rare notti in cui il silenzio è rotto dalle risate e dai
canti. Passo vicino ai cavalli legati ad una grossa fune, accanto ad uomini
affaccendati, quando in lontananza vedo lei accanto ad un falò insieme ad
altre giovani donne.
Il volto illuminato è incorniciato dai crespi capelli, dalla penombra la guardo
ed è come se si fosse ripetuta la scena sulla spiaggia, nuovamente rapito dalla
sua bellezza; più la guardavo e più sentivo in me una forte emozione, della
quale non ricordavo più la piacevole stretta, da quando ero rimasto solo.
Si alzò, vedendomi mi venne incontro, ed ero già preda del timore, non so
come fece ad avvertire la mia presenza, ma per me non fu importante quello,
ma il trovarmela davanti agli occhi.
<<Ciao, ti aspettavo! Sapevo che saresti venuto a cercarmi, dopo la paura che
hai preso sulla spiaggia, quando ti siamo sbucate davanti io e la mia amica,
all’improvviso dalla curva. >>
Disse lei porgendomi la mano.
<< Più che spaventato, direi meravigliato, stupito da tanta destrezza, ed eri
così bella che non ho potuto fare a meno di applaudire fino a quando non sei
sparita dalla mia vista. >>
<< Scusami! >>
<<Goffredo Ventura, piacere di conoscerti. >>
<< Lucinia ! >>
<< A dire il vero sono qui per poterti rivedere, parlarti. >>
Teneva un fiore selvatico in mano che spesso annusava, lei con un cenno mi
indicò il tratto di spiaggia antistante l’accampamento, verso cui ci avviammo
tenendoci per mano come se fossimo stati amici chissà da quanto tempo; ci
accovacciammo dietro una barca appoggiandoci con le spalle allo scafo,
restammo entrambi in silenzio senza profferire una parola, ad ascoltare la
risacca; poi guardandomi dritto negli occhi mi chiese:
<< Cosa vuoi da me? Siamo entrambi adulti, e credimi non ho voglia di storie
che potrebbero finire male, ne essere presa in giro, quindi prima di continuare
a rimanere qui, voglio sapere cosa vuoi esattamente da me!>>
Il suo volto mutò repentinamente, come un giorno all’improvviso prima di un
temporale, assunse l’espressione triste, seria. Preso alla sprovvista non seppi
subito cosa rispondere ero confuso, dalle troppe cose in testa che volevo dire.
Avevo molti pensieri sospesi nell’aria, ma quello che più mi premeva era di
rimanere là con lei, sentire il suo profumo di donna, poter toccare i suoi
capelli, guardare da vicino il suo volto i suoi occhi, toccare con mano la sua
pelle! Era quello lo scopo che mi ero prefissato.
Ma c’era anche la mia vita, mi sentivo forte e sicuro non più ex di nessuna
donna, di nessuna storia, del mio passato, del mio essere. Cose che avrei
voluto magari ce ne fosse stato tempo fargliele conoscere, correndo anche il
rischio di non rivederla più.
<< Non è nelle mie intenzioni di prendermi gioco di te, dei tuoi sentimenti.
Ma se questa sera, da questo incontro potrà nascere qualcosa di bello ne sarò
felice.>>
<< Allora perché restare qui, che senso ha, quando entrambi sappiamo già che
nulla fra noi potrà funzionare, troppe cose diverse in mezzo, distanze,
pregiudizi..>>
Lasciamo stare le dissi, come se fossi tornato in quel preciso momento da un
altro mondo:
<< queste cose, come i pregiudizi, i timori, le diversità, a cui ti riferisci, io non
le ho mai tenute in seria considerazione, e lo dimostra il fatto che io questa
sera sono qui. Piuttosto guardiamo questa situazione da un’altra prospettiva,
cominciamo col chiederci se noi vogliamo veramente giungere a qualcosa. Se
la desideriamo entrambi , forse qualcosa potrà già nascere questa sera stessa.
Ma se tu già parti con il piede sbagliato ….. beh, possiamo già fare ritorno
ognuno da dove è venuto.>>
<< Io ho già sofferto abbastanza e non vorrei più provare certi dispiaceri che
da poco mi sono lasciata alle spalle. Non voglio più soffrire per cose andate
storte, non ci sono rivincite; lo sai meglio di me che con la vita si giocano
sempre partite nuove, che non cancellano mai le altre che sono andate perse.
Per questo sto molto attenta a quel che faccio. >>
<< Scusa, quanti anni hai?>>
<< Trentacinque, e tu? >>
<< Quaranta! , hai già avuto storie con altri uomini ? >>
<<Una,ma niente di serio e tu? >>
<< Molte e l’ultima me la sto levando piano piano dalla testa. So di avere un
figlio che neanche conosco..>>
<< Dove vive questo tuo figlio? >> mi chiese.
<< In Messico>>
<< Ma come in Messico? >>
<< E’ una storia molto lunga e un po’ complicata potrò raccontartela più
avanti.>>
<< Sai che fra un po’ di giorni andremo via e succederà forse che non ci
ricorderemo più l’uno dell’altro in questo rassomigliamo alle onde che vanno
e vengono senza mai avere il tempo di conoscere la sabbia su cui vanno a
morire. Noi non abbiamo niente di più della speranza di ritrovarci, chissà
magari anche domani.>>
L’ascoltavo con molta attenzione e mentre parlava immaginai di baciarla, fare
l’amore con lei, immaginai il suo corpo senza veli, la fantasia mi fece prendere
il volo; con molta fatica la seguivo, mentre parlava, e le chiesi una breve di
pausa per riordinare le idee.
Nel buio pesto vedevo appena i contorni del suo viso, a brillare di più erano i
suoi occhi, avvertivo la sua emozione e il mio disagio; e mi sentivo un
perfetto idiota perché mi trovai sospeso tra il desiderio di abbracciarla e il
rispettare la distanza ancora fra noi. A riportarmi alla realtà furono le sue
domande incalzanti.
<< Mi racconti di te ? >> mi chiese con voce ferma, quasi autorevole.
<< Cosa dovrei dirti e cosa vuoi conoscere di me? >>
<< Ogni cosa, che ti riguarda.>>
<< A cosa servirebbe?>>
<< A conoscerci, penso!>>
<< Che imbecille che sono! Ma è così elementare che desidero dirti di portami
via con te, è con te che vorrei vivere, dividere il mio tempo. Credo di essermi
innamorato.>>
<< Ti innamori facilmente tu, in un solo giorno!, questo mi mette paura, si ho
paura, mi fai paura! L’amore è una faccenda molto seria, è di sentimenti che
si tratta.>>
<< Forse è a causa del mio passato che dici queste cose … e come potrei,
volendo smentire il mio “passato”, ritorna sempre!, nel bene o nel male con
lui bisognerà sempre pareggiare i conti sospesi. Ora, in questo momento sento
di amarti e che sei la donna giusta per me e che amandoti potrò sicuramente
scoprire che mi sarà dolce amare la vita assieme. Quel che provo per te è una
tenerezza indescrivibile, insomma sento di poterti amare veramente!>>
<< Penso che sia meglio per entrambi rimandare a più avanti certe decisioni,
ora godiamoci questa notte bellissima. >>
Preda di una fortissima attrazione fisica, e dal desiderio di sentire la
morbidezza e il sapore delle sue labbra, la strinsi fra le braccia per baciarla; lei
si divincolò, e scappò via sparendo poco più avanti nel buio pesto.
Deluso ed amareggiato dal forte senso di perdita, e da una specie di aridità
interiore ,tornai verso casa ancora col suo profumo di donna addosso; mi
sentivo vuoto, come una barca con le vele flosce di vento. Scoprii i lati
sconosciuti e le misteriose estasi della condizione in cui ci si viene a trovare
quando scopriamo l’amore, che richiama alla memoria emozioni visive e le
suggestioni dell’immaginario.
Le parole che udivo nella mia mente erano diventate fastidiosi rumori, ed i
sogni meridiani della notte, i pensieri sassi nelle mani della risacca che
facendoli rotolare li consuma. Il mio mondo si popolò di ombre che
aspettavano di animarsi per un qualcosa che avevano intravisto solamente da
lontano, come me che lì aspettavo e mi riconoscevo nel silenzio e nella
solitudine.
Si era logorato improvvisamente ciò che i miei sogni propizi mi avevano
lasciato, e le ultime parole rimaste nell’aria le mie parole sono vele su una
distesa azzurra. Parole in cerca di un porto, una banchina a cui fare approdo e
ripartire per compiere un nuovo viaggio tra un dentro e fuori della mia vita di
sconfitte e delusioni, di quotidianità triste; che a volte ha lo stesso aroma di
un’estate che si spalanca su distese marine assolate, sfinita dal canto delle
cicale e grilli, nelle campagne.
Camminai sulla spiaggia, prigioniero anch’io come un sasso della risacca
quella notte triste, la mia notte marina luminosa e vasta d’orizzonti, in
compagnia delle mie parole che in testa risuonavano come barattoli
intrappolati fra gli scogli, parole rapite dal vento e disseminate fra gli azzurri
appuntati agli orli di un foglio, che racconterà ciò che si è dissolto in una
notte remota e nebbiosa fissata nella memoria come una lettera da consegnare.
Parole piene di rabbia e dissenso, posate sulla sabbia in attesa di un’onda che
se le portasse via per farle sprofondare nella notte più buia.
Era per me il giorno, e non uno dei tanti, un giorno tratteggiato dai grigi, che
allontana da ogni tutto e luogo; pensavo queste cose quando giunto alla curva
della torre del saraceno, il mio sguardo venne attratto da un ramo dal quale
sventolava una striscia di stoffa rossa, a ridosso di un cumulo di sabbia, la
stessa con cui lei quel giorno che l’incontrai teneva legati i suoi capelli.
Mi avvicinai più per curiosità, e notai un biglietto su cui era scritto:
<< Devo parlarti, ti prego questa notte di raggiungimi al campo di ginestre. >>
Ero sorpreso da quell’inatteso invito, e felice alla stessa maniera di quando si
vive: la prima giovanile storia d’amore che brucia il tempo all’impazzata,
l’innocente primo bacio, la strana mescolanza di paure e d’inquietudini,
proprie del primo appuntamento, e il pensiero di tenere questo momento,
fissato nella memoria per sempre.
Io in quel preciso momento non mi sentii più un ex, da molto tempo non ero
più un ex di nessuna donna, di nessuna storia d’amore; né avevo più voglia di
vendetta o di rivincite anche se avevo perso molte persone strada facendo.
E’ triste, ma ci sono situazioni di attesa, funziona così, le amicizie nascono
con la stessa facilità con cui si perdono, cosi pure le persone che più si amano,
ed è come aver giocato moltissime partite a scacchi e averle perse tutte.
Situazioni in cui immagino che l’esistenza rimanga sospesa in attesa di
qualcuno o di qualcosa, come di un amore, di un approdo felice, e quella che
stavo vivendo in quel momento lo era.
Nella mia mente le cose cominciarono ad essere più chiare e si erano pure
ormai create certe distanze, ed era rimasto solamente lo strano gioco illogico e
perverso del rimpiangere quanto era andato perso. Ma la cosa peggiore è che
manca la voglia di ricominciare, in questo mio tempo a rilento o accelerato
dentro il quale scorrono fuori come da una finestra le immagini di un tempo
felice.
E’ una strana mescolanza di colori ricadenti sul mare, e risalenti al cielo,
questa sera trapuntata di stelle, magica quanto il mare ed il cielo, mentre
faccio questi ragionamenti dall’alto della riva davanti casa, nudo dentro un
asciugamano; che una volta conclusi, lasciano nell’aria pensieri e scie di
parole che non c’erano mentre ora frullano nella mente, che probabilmente la
memoria sadicamente come ragno tesse pazientemente per riproporre tutto più
avanti in brevi attimi di eternità, davanti allo stesso mare e sotto lo stesso
cielo.
Sorvolato e attraversato allo stesso tempo da una nuvola grande e bassa,
svaporata ai bordi; e all’improvviso la luce i colori la voce della risacca
scivolano assieme a tutte le cose me compreso, dentro la sua grande ombra
catramata, immensa e remota trasformando il presente in passato remoto.
Per me è come cadere improvvisamente su superfici sfuggenti senza provare
dolore, svanire nel nulla senza lasciare tracce.
E’ una maniera diversa e di difendere l’ultimo scampolo di vita, per eludere la
realtà distruttiva e opprimente a cui forse ho cercato di sfuggire da un mai.
Ma come sempre succede, va a finire che sono alla ricerca di un significato o
di tanti significati in quanto sta accadendo silenziosamente entro gli orizzonti
di questa età mia misera e sconosciuta. Che porta in se la nostalgia di un si
mancato che quasi sempre trasforma la memoria in inventario a cui attingere
in certe occasioni e alla quale consegnare il rendiconto della propria
coscienza. Riemergono così dal passato le occasioni perdute, le amicizie
mancate, gli incontri; perduti per un niente di niente.
Il più grande tiranno dell’uomo, è la memoria del proprio vissuto che non
scorda nulla, nemmeno il sogno che appena l’ha sfiorata e impressa come pure
gli occhi miei; ai quali il tempo ha dato nuove pupille per farmi tornare a
guardare l’amore in tutte le sue forme e colori, l’amore che sopravvive e fa
volare su ali di gabbiano,che si consuma e si perde.
L’amore che mi fa desiderare quello che non posso o non potrò mai avere, e
mi fa sognare la felicità,che finisce e mi lascia senza un sorriso.
L’amore che non smette mai di infiammare il cuore.
Davanti alla finestra spalancata al buio immagino distese d’erba alta frusciare
e piegarsi al vento e distese di gelsomino, macchie colorate di oleandri,
l’odore acre dell’erba bruciata, e profumi, essenze forti e dolci; mare viola e
rocce a fior d’acqua, gabbiani.
Succede così che ogni notte io faccia lo stesso sogno, ed è come un colpo di
mare bastardo che irrompendo nella quiete guasta il sonno, così pure l’aria
nella stanza che d’improvviso diventa secca e irrespirabile, cambiando perfino
gli odori, l’umore.
La brezza che sale dal mare gonfia come vele le lunghe tele bianche alle
finestre, scompiglia le pagine di un libro ancora da finire di leggere e in questo
vedo la mia vita che lentamente si avvia verso il nulla; vita che fino a poco
tempo addietro avevo immaginato diversa e no piena di paure e incertezze e
che ora stanno rovinando addosso.
Non è solo una sensazione ma è quel che io percepisco e mi pare una strana
combinazione di polvere e dolore che va sempre più espandendosi nel lento
scorrere del tempo in cui si accumulano gli anni, tutto in una sorte di calma
che nasconde in se uragani di rabbia e di disagi.
Così vivendo sono mio malgrado diventato come un ragno, costretto a vivere
nella penombra di me stesso, e come lui che ricorda di ogni ragnatela il luogo
e ogni punto d’incontro dei fili argentei, anch’io corro il mio tempo ricordando
ogni cosa .
Ed è come compiere un viaggio dentro l’orrore che ho in me, per questo che
lotto e spero in un destino diverso, ma sono reali e forti le distanze che si sono
venute a creare coi distacchi da quel mondo mio
distante e nostalgico; quando ero perdutamente innamorato, e che ancora
adesso a distanza di tempo ricordo senza rancore.
Plinio il Giovane scrisse: << Ad quae noscenda iter ingredi, transmittere
mare solemus, ea sub oculis posita negligemus. >>
Oltre al rancore nutrito finora verso l’avversa sorte, non ho realizzato nulla di
più, e mi sento come una barca in mare aperto con le vele vuote di vento alla
deriva, nell’attesa di un soffio vitale in grado di farle riprendere il viaggio.
Sono nato e cresciuto in questa casa poco distante dal mare, dal quale la separa
la linea ferrata che unisce la costa jonica alla tirrenica; che prima è stata di mio
padre e del padre di suo padre e che ora rischia di rimanere vuota di allegria
che solo i bambini sanno dare; ho sempre desiderato dei figli e nipoti, a cui
raccontare nelle serate d’inverno storie di pesci e di mare.
In questo giorno di vele piegate e chiglie sommerse, nella penombra di un
quieto tramonto si accentua la felicità per l’imminente incontro che cerco di
contenere con la preziosa lettura di libri antichi, alla luce di candele per
incamminarmi nella via dei sogni .
Per superare il baratro della solitudine in cui sono precipitato, ho iniziato non
so da quanto tempo ad annotare ciò che mi passa per la testa su fogli di carta
che sono diventati via via pagine, diario, racconto dall’aria un po’ visionaria
con una sua verità forte come la propria verità deve essere.
Un diario che racconta la mia vita frammentata, sconvolta da una realtà
rifiutata; in cui confesso di essere colpevole di azioni, ammesse senza
imposizioni, spontaneamente.
Insomma una sorta di documento in cui rappresento con segni e forme i miei
pensieri, che lasciano tracce di se nella mente; quindi questi pensieri
divengono percorsi, documenti di per se importanti e necessari, cose che
portano a nuove narrazioni, nuove pagine.
Quantunque io fossi tranquillo come il mare, su cui non so più da quanto vi sto
navigando, sentii in me un vento nuovo, improvviso, che sollevandomi come
onda mi lasciò poi ricadere su me stesso, pensai questa potrebbe essere la mia
fine.
E’ una forza distruttiva quella che ho dentro, sono assetato di giustizia da
eseguirsi magari con rivendicazione; il mio “ io” non tace e vuole, cerca
giustizia ad ogni costo, e so che per ottenerla dovrei ritornare a oltrepassare
certi confini che da tempo ho abbandonato.
Questo mi fa tornare sui miei passi e non mi piace molto, è come arrendersi,
perché comunque sono venuti meno la dignità e l’onore, che fare dunque?
E’ tanto che provo a far tornare le cose a posto com’erano prima, e non
riuscirci è come subire un’ulteriore sconfitta, anche se Il tempo scorrendo
inesorabilmente, cambia continuamente con l’uso dell’inganno i ruoli e le
scene, provoca dolore.
La sottile vena di tristezza è un dolore muto, privo di misura che alla fine si
tramuta in esperienza, saggezza, ma anche disillusione, rimpianto delle
occasioni perdute di ciò che è stato a portata di mano che come treno
velocissimo è passato dinanzi a me senza fermarsi. Un treno di cose che
avrebbero potuto cambiare la mia vita e condurmi verso una felicità
sconosciuta, tanto desiderata, tanto irraggiungibile. Ed è come vivere dentro
una placenta dove tutto si consuma, si fanno esperienze più o meno positive,
molte delusioni, insomma una situazione poco felice che serba in se un forte
desiderio di fuga.
Esperienze a volte orribili e dolorose, che hanno in se un finale tragico, per
cui, l’unica via di scampo e per salvarsi, è necessario indossare una maschera.
E vivere anonimamente in mezzo a tanti altri che con disinvoltura le
indossano da tempo, maschere uguali con la stessa espressione un po’ felice e
disperata, tristi.
Ma è un non vivere!
Ora che sono lontano da un mondo che mi fa schifo,vivo a ridosso di esso, con
la piacevole illusione di stargli lontano, dentro un territorio pulito e genuino;
lontano dalle soluzioni facili, dalla promessa di una felicità improbabile, in cui
tutto è possibile e modificabile.
Un territorio più di silenzio che di parole, con spazi infiniti e cieli bassi. In cui
rimango a lungo a seguire il sole tagliare i monti e il mare che ho davanti,
cambiare i profili con forti pennellate di accesi colori; sento un nodo alla gola
e trattengo a stento il pianto per la felicità improvvisamente esplosa dentro e
una sorta di paura di vivere.
Per vincerla, accenno nudo un ballo sulla sabbia, quasi rassomigliante al
sirtaki, stringendo fra le mani l’ampio asciugamano che si riempie d’aria.
Da lontano i gabbiani per un attimo si fermano a guardarmi e mi piacerebbe
sapere cosa stanno pensando, forse lo so pure, ma che importa. Sono dolci
invece la sensazione di libertà che l’aria lascia sulla mia pelle e le emozioni
taciute e sepolte nel limo della memoria, la speranza di un ritorno, il lamento
del cuore.
Non so perché io sento queste cose, forse non lo saprò mai, ma so che sono
cose mie e stanno là, in fondo al cuore ora che ho imparato ad amarmi e ad
amare.
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Il sole in un asciugamano - Vincenzo Calafiore, un autore sul Web