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Cristina
Il racconto ci aveva tenuti col respiro sospeso
attorno al focolare, ma, salvo l’ovvia osservazione che era raccapricciante come è giusto
che sia una strana storia narrata la vigilia di
Natale in una vecchia casa, non ricordo che
da principio suscitasse commenti, finché qualcuno accennò che era il primo caso a sua
conoscenza, in cui una prova del genere fosse
toccata a un fanciullo.
Henry James
Un giro di vite
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XI
Non ho mai saputo se invidiare oppure detestare questo suo modo di fingere che tutto sia sempre così terribilmente facile. Probabilmente
Virginio fa di necessità virtù, lo posso capire,
ma io non ne sono assolutamente capace.
Perché non mi parla dell’altra notte? Perché
non mi dice niente su quello che ha detto
Morgana? E poi che cosa significa quello stupidissimo massaggino alla spalle? E’ la prima
volta che si azzarda a tanto; sul luogo di lavoro, poi. Non sono mai stata d’accordo con chi
sostiene che “preferisce non sapere”; se è il
caso, io voglio iniziare subito a farmene una
ragione. Continuo a darmi della stupida per
essermi permessa di cancellare il messaggio
dalla segreteria telefonica, la notte scorsa. Con
quel gesto avventato molto probabilmente non
ho fatto altro che prolungare la mia agonia.
Accipicchia però, sono stati loro, o meglio lei,
a coinvolgermi fino a questo punto e non ho di
certo la bacchetta magica da picchiettarmi sulla
testa per trasformarmi a piacimento in quello
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che mi viene chiesto.
Se fossi rimasta incinta veramente? Non voglio
pensare cosa potrebbe succedere. Non credo
che Morgana sarebbe realmente disposta a dividere il marito con me solo perché diventerei la
madre di suo figlio. A essere sinceri non lo vorrei neppure io; poi certe cose le ho viste succedere solo nelle soap, e tutto questo invece è
dannatamente vero. Il risultato comunque non
cambia: è salito da poco più di venti minuti e
già mi manca da morire. Non riesco a sopportare l’idea che stia con lei invece che non me.
Devo fare un profondo respiro e cercare di
metabolizzare tutto questo. Santo cielo che terribile confusione. Scappo o resto? Scappo o
resto? Certamente questa sera resto, ma solo
per la mia serietà professionale. Non lo mollerei mai a poche ore dall’apertura.
Poco fa, mentre mi massaggiava le spalle, mi
sarei voluta girare per baciarlo con tutta la passione e la voglia che mi ritrovo in corpo, dopo
quel rapporto veloce e vorace. Invece eccomi
qui a pulire dei funghi e neppure sono una
cuoca. Ho sempre lavorato in sala e aiutato con
gli approvvigionamenti, ma tra i fornelli di
certo non sono mai stata un asso. Se non mi
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aiutano un pochino, a volte confondo pure un
astice con un’aragosta. La smetto di commiserarmi e decido di far passare subito in padella i
gambi per impedire che anneriscano, come il
nostro “sultano” ha comandato. Prendo il burro
dal frigorifero e mi accorgo che è finito il vino
bianco necessario per sfumare. Come da abitudine, in questo stupidissimo periodo mi sovviene un’altra frase di papà: “Chi non ha testa, ha
gambe.”
Oppure non era di papà, ma di quella zoccola di
mia cugina Ottavia?
Mi lavo le mani e scendo in cantina con questo
terribile cruccio.
Percorro le scale con estrema cautela per evitare di finire pure io con il culo a terra.
Venire fin qui mi mette i brividi e non lo faccio
mai senza portare con me una torcia nel caso
dovesse saltare ancora una volta il contatore.
Mi avvicino agli scaffali che portano tutte quelle bottiglie e ne afferro una.
Leggo la complicata etichetta, senza capirne
nulla. Però riesco benissimo a immaginarmela,
immersa dentro un cestello pieno di ghiaccio,
per un improvvisato pic-nic davanti al fuoco,
mentre mangiamo io e lui, senza nulla addosso.
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La ripongo nel suo buco e mi scrollo di dosso i
brividi di eccitazione e paura che hanno deciso
di colpirmi simultaneamente.
Faccio ancora qualche metro e prendo una bottiglia di “vino dei poveri”, come è solito chiamare Virginio quello che utilizza per cucinare.
“E per certa gente è già tanto che non usiamo
quello in cartone”, l’ho sentito dire più volte.
Mi dirigo verso le scale per risalire, ma qualcosa fuori posto attira la mia attenzione.
Non capisco subito bene di cosa si tratti, ma
quello che sembra un pezzo di stoffa grigia è
appoggiato a terra, vicino ai freezer. Senza
muovere un muscolo, accendo la torcia e cerco
di fare più luce nel punto esatto. Mi avvicino
cautamente di qualche metro fino a quando non
capisco che si tratta di una sciarpa. Sono certa
che questa mattina quando sono scesa non
c’era. Non si tratta neppure di un indumento
che ho visto indossare ai Patà in questi giorni.
Allora di chi è?
Decido di non toccarla e di avvisare subito
Virginio. Non sia mai che qualcuno, di cui
ignoriamo l’esistenza, abbia le chiavi di questo
posto e faccia dentro e fuori a suo piacimento.
Ho già un piede sul primo gradino, ma una ter186
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ribile sensazione di panico mi risale dall’intestino e mi afferra la gola. Mi accorgo di stringere la bottiglia e la torcia con una tale forza da
avere le nocche delle mani gialle. L’impulso di
dare una sbirciata è irrefrenabile.
Mi volto e vado verso i freezer ripensando a
quello che Virginio mi ha fatto fare quando
abbiamo trovato quella roba. Va bene che non
sono in grado di distinguere un gambero da uno
scampo, ma quelle frattaglie le ho riconosciute
subito. Ci siamo domandati come fosse possibile che Omar tenesse polmoni, reni, occhi e
tutte quelle schifezze congelate qui sotto, ma
non siamo riusciti a darci una risposta.
“Forse li utilizzava per qualche esperimento
culinario. Non voglio credere che li rifilasse ai
clienti. Questo proprio non lo voglio credere”
urlava Virginio tra un conato e l’altro. Io stoicamente sono riuscita a non vomitare, anche
perché a certi odori, simili a quelli della putrefazione, mi ci sono abituata pulendo i cessi
dove ho lavorato all’inizio della mia “carriera”.
All’epoca non importava quello che mi facevano fare. Ero disposta a tutto pur di mettere da
parte i soldi per rifarmi le tette. E visto il risultato, se tornassi indietro ripeterei tutta la trafila,
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senza battere ciglio.
“Se l’ufficio d’igiene ci becca questa roba non
riusciremo mai ad aprire. Cristina ti prego, devi
aiutarmi a portarla fuori di qui e a distruggerla.”
E così ho fatto. E non certo per lo stipendio.
Ho appoggiato la pila e adesso stringo la maniglia del freezer. Proprio mentre sto per sollevare il grande coperchio, un rumore mi fa saltare
il cuore in gola e lancio un “cazzo” talmente
forte da farne rimbalzare l’eco tra le pareti per
diversi secondi.
Riapro gli occhi e mi ritrovo davanti una ragazzina che si sfrega velocemente il naso con l’indice della mano.
«Scusami ti prego, ma con tutta questa polvere
non posso fare a meno di starnutire. Tu devi
essere Cristina. Piacere, Federica.»
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Morgana
…e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi
L’infinito
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XII
…Abbraccia Morgana. Con l’amore che tu sai.
Omar. Leggo l’ultima parola dell’ultima pagina, dopo aver fatto sporgere il braccio fuori dal
letto, lascio cadere il libro a terra.
Se quanto provato nei giorni scorsi credevo
fosse stanchezza, ciò che percepisco in questo
momento non può essere altro che la morte,
vicina a raggiungere e spegnere quel poco di
vitale ancora rimasto in me.
Forse ho ancora la forza per un’ultima cosa,
giusta o sbagliata che sia.
Sì, giusta o sbagliata, oramai ha poca importanza.
Non ho più saliva da sputare per schifarmi e
non ho più brividi da far scorrere lungo il mio
corpo. Non ho più la capacità di riuscire a
distinguere il giusto dallo sbagliato, il buono
dal cattivo. Adesso, il tutto è solo un alternarsi
tra il rosso della rabbia e il nero della disperazione. Sento un cattivo odore provenire dal mio
corpo, ma non sono minimamente interessata a
capire se è reale oppure solo una fantasia indot191
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ta dallo sconforto.
Il debole barlume di speranza che sembrava
aver riacceso una recondita possibilità di salvezza, ormai non è più in grado di sostenere il
gigantesco peso della sciagura.
Giro faticosamente la testa verso il pavimento e
osservando il libro a terra percepisco un’ulteriore fitta di dolore. Già, il dolore che ho imparato a conoscere così bene sin da piccola, quando mi ritrovai con il cadavere di mia madre nel
letto. Poi Filippo. Adesso questo.
Che giorno è oggi? Forse è sabato, il giorno
dell’apertura del Monroe…
Poco fa mi è parso di sentire il campanello
della porta. Chiunque sia, farebbe meglio a
girare alla larga da qui, da gente come noi che
ha permesso che accadesse tutto questo cercando poi di vivere come se nulla fosse. Com’era
quella scritta sulla soglia della “città dolente”?
Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate. Ecco
come avremmo dovuto chiamare questo stramaledetto luogo, e non con uno dei nomi stupidi che piacciono tanto a mio marito.
A differenza di Virginio io non credo alle coincidenze. E infatti è solo un caso se proprio
mentre penso a lui la sua testa fa capolino dalla
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porta.
«Dormivi?» domanda con quel tono tenero che
ora ho capito di odiare.
«No, vieni pure.»
Cammina lentamente e, nel profondo silenzio,
posso sentire la gomma della sue schifose scarpe da tennis strusciare sulla moquette. Mi raggiunge e si siede sul bordo del letto.
«Hai riposato?»
«Non sono riuscita a chiudere occhio.»
«Mi spiace tesoro. Non ti preoccupare per questa sera. Se vuoi rimanere a letto, ce la caveremo anche da soli, e poi è arrivata…»
Si interrompe con lo sguardo fisso a terra. Il
suo viso diventa bianco come un cencio e il
respiro gli si fa affannoso.
Rimaniamo fermi così, come congelati in quella posizione entrambi a fare i conti con le
nostre coscienze. Sembriamo due statue di sale.
Vengo assalita dalla netta convinzione che
resteremo così per sempre. Questa sarà la
nostra punizione, non potremo più osservarci,
non potremo più toccarci. L’unica cosa che
saremo in grado di fare sarà soffrire per l’accaduto.
Mi sbagliavo; rimanendo seduto sul letto,
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Virginio si piega in avanti e raccoglie il libro.
Con un impulso e una forza che credevo di non
avere più, picchio violentemente la mano sul
suo braccio. Il libro cade, ma da lui non esce un
solo sussulto. Senza battere ciglio, con un
movimento quasi meccanico, ripete la flessione
e lo recupera un’altra volta.
Vedo il sudore imperlargli la fronte. Posso
addirittura distinguere una gocciolina dall’altra. Sono talmente grandi che, volendo, sarei in
grado di contarle. Inizia anche con quella fastidiosa abitudine di grattarsi furiosamente la
testa.
Senza distogliere la mia attenzione dal centro
della sua fronte, come se avesse gli occhi proprio lì, infilo delicatamente la mano sotto le
lenzuola, tiro fuori il coltello e gli appoggio
dolcemente la punta sul petto; esattamente
dove si trova il suo cuore.
Lui non si scompone, concentrato e imperscrutabile. La statua di sale ha compiuto l’unico
movimento concessogli e adesso non può far
altro. So che non è possibile, ma mi sembra di
percepire il battito del suo organo vitale attraverso la fredda lama. Le pulsazioni diventano
talmente forti da fondersi in un unico ritmo
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assieme a quelle impazzite del mio polso.
«Dove lo hai trovato?» chiede parlando molto
lentamente e avvicinandomi il libro a pochi
centimetri dalla faccia.
«Lo aveva la moglie di Omar» rispondo con
una voce stridente e infantile.
Le sue sopracciglia scattano all’insù. Il tono
l’ha spaventato più dell’arma e della risposta.
«E’ il libro di ricette con la copertina di pelle
marrone che abbiamo scritto io e Omar, tanti
anni fa. Sperava diventasse il testo di cucina
più famoso di tutti i tempi. Te ne ho parlato,
vero?»
Non dico una parola. Cerco i suoi occhi in ogni
punto del suo volto, ma non in quello giusto. So
bene che nell’esatto momento in cui incontrerò
il suo sguardo, arriverà la fine.
«E non era solo un libro di ricette» continua lui.
«Omar lo utilizzava anche come diario e nelle
ultime pagine, aveva l’abitudine di ricopiare a
mano ogni singola lettera che scriveva.»
Adesso i miei occhi schizzano alternativamente tra i lobi delle sue orecchie e il suo torace,
tracciando un triangolo perfetto; quasi a voler
calcolare il centro preciso di un bersaglio.
Posso sentire il rumore delle pagine che scorro195
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no sempre più velocemente. Mentre legge, non
fa nulla per sottrarsi alla lama che gli ha scavato una piccola ferita all’altezza dello sterno,
macchiandosi di un rosso scuro e denso.
«Infatti» riprende improvvisamente e senza
nessuna inflessione della voce, come se stesse
leggendo un libretto di istruzioni, «quest’ultima è la lettera che ha scritto prima di morire.
Era indirizzata a me e il notaio mi ha fatto avere
l’originale con le pratiche del testamento. Dice
che ha scoperto di avere un cancro e che non
sopporta l’idea di vedersi morire, giorno dopo
giorno.»
La mia bocca è talmente serrata che posso sentire il sapore ferroso del sangue scorrermi tra le
gengive.
«Se vuoi parlare del resto della lettera, possiamo farlo, Morgana. Adesso però posa quel coltello e cerca di guardarmi.»
All’improvviso la voce di Cristina esplode dal
piano di sotto; dalla cantina forse. Ho come una
specie di scossone e attraverso la nebbia totale
in cui sono immersi i miei sensi, vedo Virginio
che sobbalza per lo spavento e si gira verso la
porta della camera. Nella frazione di secondo
che impiega a riportare la sua attenzione su di
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me, trovo il coraggio e la forza che negli ultimi
minuti mi sono mancati: lo fisso dritto negli
occhi per l’ultima volta.
Non credevo fosse così semplice.
La lama che ho rivolto nella mia direzione, grazie al movimento deciso, compiuto con forza e
senza paura, penetra nel mio morbido petto. La
piccola goccia di sangue di Virginio s’infila
come fosse una chiave nella serratura dello
scrigno che contiene tutto il mio dolore.
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