JOHN RONALD REUEL TOLKIEN
LE DUE TORRI
Edizione italiana a cura di Quirino Principe
Prefazione alla seconda edizione inglese
di J.R.R. Tolkien
I LIBRI DI
J.R.R. TOLKIEN
Titolo originale
THE TWO TOWERS
Traduzione di
VICKY ALLIATA DI VILLAFRANCA
Traduzione riveduta e aggiornata in collaborazione
con la Società Tolkieniana Italiana
ISBN 978-88-452-7075-8
© Fourth Age Limited 1954, 1955, 1966
Edition published by arrangement with
HarperCollins Publishers Ltd. 77-85 Fulham Palace Road
Hammersmith, London W6 8JB
© 2011/2012 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
I edizione Tascabili Bompiani maggio 2012
Prefazione
di Quirino Principe
La cultura dell’interiorità, cui Tolkien, come ogni
narratore di rango, è lietamente estraneo, ci ha convinti che la qualità sia quasi una misura inversa della
quantità. Ciò è vero per gli oggetti afferrabili nel mondo quotidiano, solidamente terrestri e terricoli: un’essenza, un colore, un odore, un sapore, spiccano meglio
se circoscritti e concentrati. Hanno densità, acquistano
scatto, si fanno desiderare. Ma per le realtà inafferrabili e pure immanenti, quelle cui non dobbiamo neppure
pensare poiché sono troppo vertiginose e ci smarriremmo nel pensiero, esiste tra quantità e qualità una
proporzione diretta, non inversa: la qualità lampeggia
e raggiunge la massima intensità se l’estensione o la
mole sono immense, tendono all’infinito. L’azzurro del
cielo non sarebbe quell’azzurro se non fosse l’incommensurabile cupola che tutto avvolge: il colore deve la
propria tonalità all’ampiezza spaziale in cui si muove
l’occhio. Lo stesso accade con il violaceo delle distese
marine. Il plasma stellare non sarebbe incandescente e
inconcepibile nella sua temperatura, spaventosamente
contrastante con il gelo cosmico, se la stella non fosse
un globo di terrificante grandezza. Sempre, quando ci
troviamo per un attimo (di più non reggeremmo) dinanzi al sublime, qualcosa di spaventoso è oltre i confini della nostra sensazione, “poiché il bello,” ha scritto
Rilke, “altro non è se non il tremendo al suo inizio”.
Esiste nei libri una diversità analoga a quella che riconosciamo tra la qualità concentrata della miniatura
o del cammeo e la qualità del cielo o del mare o di un
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Prefazione
ammasso di galassie. Il fascino di un breve, perfetto
racconto è anche nella sua brevità; il fascino di un romanzo fluviale è anche nelle migliaia delle sue pagine.
Ma ogni scrittore veramente grande (Dante, Goethe,
Proust, Musil), purché l’esiguità dell’esistenza terrena
non l’abbia amputato sacrificando la giovinezza troncata agli dei cui essa fu cara (Leopardi, Kafka), lascia
intendere che le brevi e folgoranti opere d’esordio sono
abbozzi, studi, cartoni per il vasto affresco della maturità. Un’opera che narri di lunghi tempi e di spazi
sterminati ci richiede spazio e tempo, nell’atto esteriore
di leggere e nell’interiorità delle nostre emozioni. Così
John Ronald Reuel Tolkien in The Lord of the Rings.
Nel romanzo fluviale, il fascino è più intenso se esiste una scansione: bello è leggere a lungo, nel tempo
improvvisamente libero di un’intera estate o lungo un
anno di letture a blocchi di dieci o venti pagine prima
d’addormentarsi, con il libro appoggiato al cuscino, ma
d’irresistibile bellezza è concludere una fase del récit e
transitare a un’altra, riprendere e continuare, far pausa e ricominciare accostando alla maturità e alla dolce
stanchezza dell’aver letto la freschezza del dovere ancora leggere tutto un mondo nuovo in cui però il già
noto sarà certamente riconoscibile. A livello altissimo,
è questa la seduzione dei cicli di Balzac, in cui Vautrin e Rastignac e Rubempré “ritornano” o si reincontrano; a livello medio o medio-basso, è la tentazione
dolciastra dei feuilletons ottocenteschi di una Xavier
de Montepin, con il piacevole brivido del “vent’anni
dopo” o della “continuazione alla prossima puntata”; a
livello volgare, è l’ipnosi ottundente dei serials e delle
soap-operas.
Prima di capire perché The Two Towers, romanzo
centrale del ciclo ternario The Lord of the Rings, abbia
la sua luce particolare con “quel” colore derivante dalla sua centralità, domandiamoci: perché il récit tolkieniano è immenso, perché si estende a quasi millecin6
Prefazione
quecento pagine? I filosofi della modernità teorizzante
se stessa, Kant e Hegel, ci hanno spiegato che l’immensità finita, mare o cielo stellato, è immagine simbolica dell’infinito. Il ciclo di Tolkien è immenso poiché
è un universo. Propriamente, un universo parallelo al
nostro, che noi chiamiamo “reale” con la stessa presunzione con cui il nostro pianeta è ancora – per consuetudine storica – definito “il mondo” o una qualsiasi
delle geometrie possibili e metaeuclidee è definita “la
geometria” tout court. La Terra-di-Mezzo non è meno
reale del planisfero terrestre, proprio perché essa è una
totalità. La totalità della sua creazione consente a Tolkien la fascinosa reticenza che gli conosciamo. Reticenza soprattutto su tre misteri che legano gli uomini (della “nostra” terra, non gli Uomini della Terra-di-Mezzo)
al cielo o all’inferno: la religione e il divino, la storia e
la politica, la donna e la sessualità. In Tolkien nessuno
prega con gli occhi volti al cielo e le mani giunte o le
palme levate, nessuno è ministro di un culto, non ci
sono né Dio né dei né spiriti né idoli; nessuno allude
a ravvisabili metafore o metonimie (né, crediamo, ad
allegorie trasparenti “sotto il velame”) in cui si avverta
il sentore di qualche ideologia o fazione politica di cui
le nostre planetarie res gestae furono incubatrici; non
c’è traccia di amplessi, di alcove o di stupri, i quali ultimi sarebbero stati prevedibili in uno scrittore meno
trascendente, data la qualità degli elementi guerreschi,
avventurosi e selvaggi presenti in The Lord of the Rings
(i barbari Orchi, per esempio), e infatti sono presenti
nella fantasy posttolkieniana, massimamente in quella cinematografica. Però i misteri incombono da altre
parti: si avvertono forze superiori, mai nominate (un
dettaglio che esalta il talento narrativo dello scrittore),
che risalgono a un numinoso proiettato a distanze inconcepibili; agisce il meccanismo del potere, in forme
classiche; l’apparizione, proprio in The Two Towers,
di dama Eowyn, il primo oggetto femminile d’irra7
Prefazione
diazione amorosa sul piano non elfico (Galadriel) ma
terrestre, suscita un eros castissimo e sottilmente insinuante, che troverà il suo compimento alla fine del
ciclo, nell’amore quasi preadolescenziale tra la dama di
Rohan e l’austero Faramir.
Non c’è alcun filo che colleghi i due universi paralleli, il nostro creato dal big bang o da Jahweh e quello
creato dal filologo anglo-sudafricano? C’è, lo intuiamo. È un filo che corre non “attraverso”, bensì “sopra”:
è un archetipo primario. È il fantasma della letteratura. Distillato in essenza simbolica, il sangue che circola
nei tre grandi ambiti letterari che Tolkien prediligeva,
il romance bretone, il Lied nibelungico e il fairy tale celtico, filtra anche nell’universo tolkieniano. Tre ambiti,
e tre oggetti che cadono casualmente (?) nel testo. Li
troviamo proprio all’apertura di The Two Towers, nello
scenario della morte di Boromir. Il primo oggetto è il
corno di Boromir, che lo ha suonato disperatamente
prima di cadere ucciso dagli Orchetti. La scena è parallela alla morte di Roland che suona l’Oliphant fino a
farsi scoppiare il cervello, ma anche al combattimento
di Sétan nel ciclo irlandese di Candullino. Il corno è
così un simbolo carolingio-bretone, che nel passo tolkieniano è accostato a un oggetto, la spada di Aragorn,
quella che-fu-rotta, di palese gemellanza con la spada
nibelungica di Siegfried, la già spezzata Nothung. Il
terzo oggetto è l’onnipresente Anello, magico nucleo
di narratologia elementare nella tradizione della fiaba. Sarà un caso che i tre oggetti siano associati in un
memorabile evento del teatro wagneriano? È culturalmente indebito associare la lettura di The Lord of the
Rings alla musica di Wagner (un crimine analogo è stato commesso nel film Excalibur), ma è un fatto che nel
libretto wagneriano di Lohengrin (atto III), il cavaliere
del cigno prega Elsa di dare a Gottfried, qualora egli
ritorni, “dies Horn, dies Schwert, den Ring”: il corno,
la spada, l’anello.
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Prefazione
The Two Towers è il romanzo centrale, si diceva.
Tale collocazione dà al récit un carattere particolarmente doloroso e faticoso. È il momento in cui più
acuti sono i travagli del parto, in cui la serenità del
passato è ormai lontana e irrecuperabile e sembra non
essere mai esistita, mentre la liberazione e il riposo e la
felicità che Frodo, Sam, Aragorn, Merry, Pipino, Gimli, Legolas si ripromettono (sotto la meditabonda ed
enigmatica ala protettiva di Gandalf) sembrano lontanissimi, irraggiungibili e forse inesistenti. Il terreno di
The Two Towers è un deserto di spine, così come, in
una malattia il cui decorso prevedibile sia di tre giorni,
il secondo giorno è il più penoso. Qui, nel romanzo
centrale, nel tempo di mezzo della Terra-di-Mezzo,
all’ombra delle due torri che condensano in sé il Bene
e il Male radici delle res gestae universali, si attuerà il
compito di Frodo: gettare l’Anello supremo nel Monte
Fato, e distruggerlo per sempre. Questa, alla fine del
romanzo, sarà la svolta, la dolente battaglia vinta ad
altissimo prezzo che tuttavia condurrà, lentamente, al
diradarsi delle plumbee e ferrigne nubi in cui The Two
Towers ha il suo colore dominante. La fine di questo
secondo romanzo è la katastrophé tragica, in senso aristotelico e di segno rovesciato, dal Male al Bene. Tra
il primo romanzo, The Fellowship of the Ring, in cui il
clima da fiaba domestica e agreste si trasforma a poco a
poco in horror story, e il terzo romanzo, The Return of
the King, in cui una sorta di apocalisse con battaglia di
Armageddon finale e con tanto di apocalittici cavalieri
trascolora alla fine in un paesaggio alla George Eliot,
il secondo romanzo del ciclo tolkieniano conserva i riflessi d’acciaio della vera, grande poesia epica.
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Prefazione
alla seconda edizione inglese
del Signore degli Anelli
di J.R.R. Tolkien
La narrazione di questo racconto è cresciuta, fino a
diventare una storia della Grande Guerra dell’Anello
e a includere molti scorci delle storie ancora più antiche che l’hanno preceduta. Iniziò poco dopo che Lo
Hobbit fosse finito, e prima che venisse pubblicato nel
1937; però non continuai con questo seguito, poiché
desideravo prima completare e sistemare la mitologia
e le leggende dei Tempi Remoti, alle quali da alcuni
anni stavo dando forma. Desideravo farlo soprattutto
per mia soddisfazione, e nutrivo poche speranze che
altri potessero interessarsi alla mia opera, soprattutto
dal momento che la sua ispirazione era primariamente
linguistica, e che in principio era stata concepita solo
per fornire un necessario retroterra di “storia” alle lingue elfiche.
Quando quelli cui chiesi consiglio e suggerimenti
corressero “poche speranze” in “nessuna speranza”
tornai a dedicarmi al seguito, incoraggiato dai lettori
che richiedevano più informazioni sugli Hobbit e sulle
loro avventure. Tuttavia la storia fu attratta inesorabilmente dal mondo antico, e così divenne un resoconto
della fine di quel mondo, prima che l’inizio e lo svolgimento ne potessero essere narrati. Il processo era iniziato scrivendo Lo Hobbit, nel quale c’erano già alcuni
riferimenti ad argomenti più antichi: Elrond, Gondolin, gli Alti Elfi e gli Orchi, insieme a scorci di cose più
alte, profonde od oscure rispetto alla superficie di quel
libro, che si erano presentate inaspettate: Durin, Moria, Gandalf, il Negromante, l’Anello. La scoperta del
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Prefazione alla seconda edizione inglese del Signore degli anelli
significato di questi scorci e delle loro relazioni con le
storie antiche svelò la Terza Era, e il suo culmine nella
Guerra dell’Anello.
Chi mi aveva chiesto più informazioni sugli Hobbit
alla fine le ha ricevute, ma ha dovuto attendere a lungo;
la composizione del Signore degli Anelli infatti procedette saltuariamente negli anni fra il 1936 e il 1949, un
periodo durante il quale avevo molti doveri cui non mi
sottraevo, e spesso ero assorbito da molti altri interessi
come insegnante e come ricercatore. Il ritardo fu, naturalmente, aumentato anche dallo scoppio della guerra
nel 1939; per la fine di quell’anno il racconto non aveva
ancora raggiunto la fine del Libro Primo. Nonostante
l’oscurità dei cinque anni seguenti, scoprii che la storia non poteva essere abbandonata del tutto, e quindi
avanzai faticosamente, per lo più di notte, finché non
arrivai alla tomba di Balin a Moria, e lì mi fermai a lungo. Passò quasi un anno prima che riprendessi il cammino, e così nel 1941 arrivai a Lothlórien e al Grande
Fiume. Nell’anno successivo scrissi le prime bozze di
ciò che ora è il Libro Terzo, e l’inizio dei capitoli I e III
del Libro Quinto; e lì, mentre i fuochi di segnalazione
ardevano sull’Anórien e Theoden arrivava a Clivovalle,
mi fermai. Non sapevo più come andare avanti, e non
c’era il tempo per pensarci.
Fu durante il 1944 che, mettendo da parte le indecisioni e le perplessità causate da una guerra che era mio
dovere combattere, o almeno raccontare, mi sforzai di
affrontare il viaggio di Frodo a Mordor. Quei capitoli,
che alla fine divennero il Libro Quarto, furono scritti e
spediti a puntate a mio figlio, Christopher, che all’epoca si trovava in Sudafrica con la raf. Ciononostante, ci
vollero altri cinque anni prima che il racconto arrivasse
alla sua fine attuale; in quel periodo ho cambiato casa,
cattedra e college, e le giornate anche se meno cupe
non erano certo meno laboriose. Poi, quando finalmente raggiunsi la “fine”, l’intera storia dovette essere
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