BIOGRAFIA
STAGIONE 2015 2016
LA LUPA
di Giovanni Verga
Libretto di sala a cura di Annalisa Degradi
Venerdì 18 dicembre 2015
Ore 21.00
La data di nascita di Giovanni Verga non è
specificata, ma si pensa che sia nato o il 31
agosto 1840 o il 2 settembre 1840 da una
famiglia di piccoli proprietari terrieri: fu
registrato all'anagrafe di Catania. Il padre,
Giovanni Battista Catalano, era di Vizzini,
dove la famiglia Verga - di lontane
ascendenze spagnole, visto che erano
giunti in Sicilia col nome di Vegas
nel 1282 circa- aveva delle proprietà e
discendeva dal ramo cadetto della famiglia
alla quale appartenevano anche i baroni di
Fontanabianca; la madre si chiamava Caterina Di Mauro e apparteneva ad una
famiglia borghese di Catania. Il nonno di Giovanni, come testimonia il De
Roberto in un articolo raccolto, insieme a molti altri, in un volume a cura di
Carmelo Musumarra, era stato carbonaro e, nel 1812, eletto deputato per Vizzini
al primo Parlamento Siciliano. Verga aveva due fratelli, Mario e Pietro.
La novella La Lupa fu pubblicata sulla «Rivista nuova di scienze, lettere ed
arti» di Napoli il 15 febbraio 1880, prima di essere inclusa, pochi mesi dopo,
nella prima edizione di Vita dei campi; molto più tardi Verga ne diede una
versione teatrale, messa in scena al teatro Gerbino di Torino nel 1896. Con
questa prima fase della sua produzione veristica, l’autore cambia
radicalmente l’orizzonte della comunicazione narrativa: la scoperta di una
nuova materia – il mondo siciliano dei contadini e dei pescatori – imponeva la
necessità di un nuovo sguardo. Nella sua teorizzazione del canone
dell’impersonalità, l’autore stesso manifesta l’intenzione di mettere al centro
della creazione artistica «il fatto nudo e schietto», presentato come se si fosse
«fatto da sé», narrato da una voce popolare che racconta i fatti “dall’interno”,
senza che la materia venga filtrata attraverso il linguaggio e la coscienza
dell’autore (come accadeva invece per la rappresentazione del mondo
contadino da parte di Manzoni). La narrazione verghiana procede in modo
rapido e immediato, affidandosi soprattutto - come nel caso di questa novella
- ad un incalzante dialogo, come se ci si trovasse su di una scena teatrale. Il
mondo rappresentato è quello rimasto a lungo fuori dalla Storia, regolato da
una necessità quasi fatale, che impone rapporti fatti di crude esigenze
materiali; la vita della campagna siciliana si rivela attraverso i suoi ritmi
sempre uguali, la costrizione della miseria, la violenza reciproca tra gli uomini,
motivata dall’egoismo individuale, dalle tradizioni e da precise regole di
comportamento.
La figura della protagonista di questa novella è modellata su un personaggio
reale: una donna che abitava una capanna nei pressi della casa di Luigi
Capuana. E’ lo stesso Capuana che in una recensione alla raccolta Vita dei
campi uscita sul «Corriere della sera» del 20 settembre 1881 scrive: «Quella
Lupa io l’ho conosciuta. Tre mesi fa, tra le colline di Santa Margherita, su quel
di Mineo, passavo pel luogo dov’era una volta il pagliaio di lei, fra gli ulivi,
presso una fila di pioppi che si rizzano gracili e stentati sul terreno umidiccio.
[…]Ora il pagliaio è distrutto, e quell’angolo di collina deserto. Io provavo un
gran senso di tristezza nel guardar quella rovina». E Verga stesso, ricordando
Capuana dopo la sua morte sul «Giornale dell’Isola» nel 1915, scrive:
«Capuana mi fece vedere la capanna di gnà Pina, la sciagurata madre
adultera; e assistendo al ballo dei contadini, la sera, dinanzi a quella candela
fumosa appesa al torchio delle olive mi parve di vedere anch’io viventi, le
fosche figure di quel dramma fosco». La figura fosca di questa protagonista,
con la sua sensualità incontenibile, cieca e distruttiva, domina tutto lo spazio
della novella, che precipita veloce verso l’esito tragico. Il personaggio è come
un’emanazione perversa della violenza e della densità del paesaggio bruciato
dal sole, tra i sassi infuocati e le stoppie
riarse. Tutto è spietato e implacabile,
come in una maledizione determinata da
sempre, in un mondo di primitiva
rozzezza.
IL TEATRO DI VERGA
Che Giovanni Verga avesse interesse per il teatro è cosa nota: dopo i primi
esperimenti giovanili (è del 1869 il dramma Rose caduche, traduzione teatrale
della tematica del romanzo Una peccatrice), sviluppò un più diretto impegno
teatrale, in vista di una effettiva pratica scenica, dopo l’affermazione della
poetica veristica: il successo dell’atto unico Cavalleria rusticana, ricavato
dall’omonima novella e rappresentato a Torino nel 1884, diede un impulso
fondamentale allo sviluppo del teatro realistico. Il
trionfo della versione musicata da Mascagni (1890)
spinse Verga a una lunga azione legale per vedere
riconosciuti i propri diritti economici: al termine della
causa incassò, nel 1893, la considerevole somma di
143.000 lire. Oltre a drammi di ambientazione
siciliana, tentò anche un teatro ambientato nel
mondo popolare milanese, sulla scia della raccolta di
novelle Per le vie, con il dramma in due atti In
portineria (1885). Tornò alla Sicilia proprio con la
versione teatrale della Lupa, rappresentata a Torino
nel 1896. Altri suoi testi teatrali andarono in scena al
teatro Manzoni di Milano sullo scorcio del nuovo
secolo; il più celebre, il dramma Dal tuo al mio,
analizza i conflitti sociali contemporanei tra la vecchia aristocrazia, la piccola
borghesia arrivista e la debole e divisa classe operaia dei lavoratori delle
solfare. Il fascino esercitato dal teatro sull’autore emerge anche nell’ultima
raccolta di racconti, apparsa nel 1894, Don Candeloro e C.i., che mette al
centro dell’attenzione il mondo del teatro e degli attori, dove la vita reale non
riesce a separarsi dalla finzione, dalla maschera e dalla scena.
LA LUPA IN SCENA E SULLO SCHERMO
La versione scenica diretta da Guglielmo Ferro e interpretata da Lina Sastri ha
riportato La lupa dopo cinquant’anni al
teatro Quirino di Roma: sullo stesso
palcoscenico nel 1965 a rivestire il ruolo fu
Anna Magnani diretta da Franco Zeffirelli e
affiancata da Osvaldo Ruggeri.
Anche il cinema si è sentito attratto da
questa storia cupa e tragica: a una versione
diretta da Alberto Lattuada nel 1953 ha
fatto seguito nel 1996 un film interpretato
da Monica Guerritore, Raoul Bova, Michele
Placido, Giancarlo Giannini, per la regia e sceneggiatura di Gabriele Lavia, con
le musiche di Ennio Morricone.
LUPUS (E LUPA) IN FABULA
Non solo le favole, ma le letterature di tutti i tempi e di tutti i paesi
presentano il lupo (e a volte la lupa, sua variante femminile) solitamente
come simbolo di malvagità, avidità, ferocia. Impossibile farne un censimento
esaustivo perché la casistica è sterminata; ma qualche esempio può servire a
dare un’idea della suggestione inesauribile che la figura di questo animale ha
esercitato e ancora esercita sull’immaginazione di chi scrive e di chi legge.
Della celebre fiaba di Cappuccetto Rosso, alla quale Perrault diede veste
scritta nel 1697, la versione più originale è quella proposta nel 1979 dalla
scrittrice inglese Angela Carter nella sua raccolta di racconti La camera di
sangue; diversi racconti hanno come tema il lupo, ma uno in particolare, La
compagnia dei lupi, rivisita in chiave femminista la favola di Cappuccetto
Rosso, trasformando il personaggio in una ragazza spavalda e coraggiosa
(uscendo di casa col cestino per la nonna, ci mette dentro anche un coltello).
Tutt’altro che ingenua, la giovane non è più preda del lupo, ma diventa la sua
salvatrice, la sola capace di vincere la sua natura bestiale. Restando sempre in
tema di lupi cattivi, anche in accezione metaforica, si può far cenno al
romanzo La bocca del lupo (1892), dello “scapigliato” Remigio Zena: un libro
quasi sconosciuto che può riservare più di una sorpresa. Ambientato nei vicoli
della Pece Greca, uno dei quartieri più poveri di Genova, ci mette di fronte al
brulicare di un’umanità affamata, sfruttata e derelitta; la giovane Marinetta,
figlia della “povera diavola” Bricicca, non esita a buttarsi nella bocca del lupo,
«ché dei lupi non ne mancano, saltano fuori da tutte le parti con la bocca
spalancata». Anche il lupo mannaro, versione più inquietante e terribile del
feroce animale, fa la sua comparsa già nei classici: ne troviamo uno nel primo
libro delle Metamorfosi di Ovidio, ed è presente in una “novelletta” inserita
nel Satyricon di Petronio. Dopo aver attraversato i secoli, anche questo tema
approda al Novecento: è la licantropia il Male di luna che dà il titolo a una
novella di Pirandello, pubblicata nel 1913 sul «Corriere della sera» e poi
inserita nella raccolta Novelle per un anno nella sezione Dal naso al cielo (i
fratelli Taviani ne trassero un episodio del film Kaos nel 1984). Ancora più
singolare è il trattamento di questo motivo nel romanzo breve Io venìa pien
d’angoscia a rimirarti (1990) di Michele Mari; qui l’autore si diverte a creare
un apocrifo leopardiano per raccontare una Recanati agitata dalla presenza
notturna di un lupo che semina terrore e morte; in questo ambiente si muove
un Leopardi quattordicenne alle prese, oltre che con lo “studio matto e
disperatissimo”, con l’angoscia della rivelazione del suo lato oscuro.
E veniamo alla lupa. Simbolo di avidità insaziabile, prevede due varianti,
testimoniate rispettivamente dall’allegoria della “fiera” che Dante incontra
nella selva oscura nel primo canto dell’Inferno e dalla leggenda di Romolo e
Remo nel racconto dello storico latino
Tito Livio. La belva dantesca è la
cupidigia sfrenata di beni materiali che
uccide l’anima di coloro che ne
diventano preda; per l’altra, la lupanutrice, occorre addentrarsi nella
spiegazione razionalistica che Livio offre
dell’episodio dopo averlo raccontato
così come la leggenda lo tramanda: può
darsi, suggerisce lo storico, che non si
trattasse di una vera lupa, ma di un soprannome per designare Acca Larentia,
moglie del pastore Faustolo (che si prese cura dei gemelli dopo il salvataggio
dal fiume), così chiamata perché si prostituiva: lupa era un termine usato in
Roma per le prostitute (da qui anche la parola “lupanare”). Ecco dunque un
filo lungo duemila anni che ci porta al personaggio verghiano. E, scendendo al
Novecento, c’è un’altra lupa, stavolta non metaforica, protagonista della parte
più tragica ed emozionante del bel romanzo di Cormac McCarthy Oltre il
confine (1984): una storia di frontiera, ambientata al confine tra gli Stati Uniti
e il Messico alla vigilia della seconda Guerra Mondiale. Il giovane Billy,
catturata una lupa che si sta accanendo sul bestiame della famiglia, decide di
non consegnarla al padre, che la ucciderebbe, ma di riportarla sulle montagne
messicane per restituirla al suo mondo. Comincia così un lungo viaggio
avventuroso, una sorta di insolita e struggente storia d’amore.
RASSEGNA STAMPA
La lupa, Lina Sastri è "Gnà Pina"
In scena al teatro Quirino la
commedia tratta da una novella di
Giovanni Verga
"Forse io faccio pensare a La lupa
di Giovanni Verga a causa del mio
carattere che si mostra spesso
energico, che si manifesta in modo
deciso. Ma qui sta l'equivoco. Non
ci si rende conto che chi è
apparentemente sicuro di sé o
quasi aggressivo, poi, di fatto, è
fragile, va in collera alla ricerca di una conferma o per sete d'amore.
Aggiungerei che chi s'esprime a sproposito fa un atto di generosità. Mentre le
persone veramente forti parlano poco, non dicono quello che pensano, si
preservano" gioca d'anticipo Lina Sastri, introducendo il tema del suo
impegno, come Gnà Pina, ne La lupa che da stasera è al Quirino, con regia di
Guglielmo Ferro.
"Pensi che mi chiedevano di fare Filumena Marturano a vent'anni, e col tempo
m'hanno proposta anche la Lupa, ma non mi sentivo adatta a interpretare
un'assatanata, una famelica, una negativa, una senza Dio, una ladra di uomini,
così come Verga la dipinge nella novella. Adesso è cambiato qualcosa...".
Cosa? "Ho preso più coscienza di certi ruoli di madre-madonne, sia a teatro
con Calenda sia in cinema nel film di Avati che sta per uscire. Ho preso meglio
atto che la Gnà Pina è protagonista di parola ma non a tutto tondo in quanto
la vicenda ha una struttura corale, e per la Pina non ci sono monologhi ma
solo un percorso di coscienza condivisa, e io sono più matura, e dopo un bel
po' di teatro musicale sulle mie spalle ho bisogno di una macchina di prosa
collettiva".
Nel cast, il contadino che si vorrebbe sistemare, il Nanni Lasca bell'uomo sano
che affascina la Lupa, è Giuseppe Zeno. "Il mio personaggio, una vedova sola
che ha cresciuta una figlia ventenne, una madre-padrona che non si cura degli
altri, nel sud è un individuo pericoloso agli occhi della società, e certo è una
figura che qualche libertà se la prende, ma per Nanni prova una vera passione
amorosa, e ha il coraggio di proporsi, e a lui che le risponde imbarazzato
"Datemi vostra figlia" risolve di fare così alla lettera: gli offre la figlia in sposa,
gli dà la terra, la casa, tutto, e più tardi, da vittima non gradita, da esclusa,
provoca Nanni fino a farsi ammazzare". Luci e ombre, sensi e colpe, ma anche
il retaggio di una tragedia lirica. "Ho
letto un libretto in versi, più poetico, che Puccini doveva musicare, e ho
chiesto al regista Ferro se l'adattamento di Micaela Miano ne poteva ricavare
qualche intimità. E poi oltre a uno stornello verghiano iniziale ("Garofano
pomposo...") arrangiato ora da Franco Battiato, c'è anche l'inserto di un canto
tradizionale". Niente impianto tradizionale, invece, nello spettacolo: né aia, né
casa, né sedie, né tavoli...
RODOLFO DI GIAMMARCO
«Repubblica.it», 17 novembre 2015
Lina Sastri sul palco: «Io, la Lupa
Ma con un’anima libera e sincera»
Quella di Lina Sastri è una Lupa in
qualche modo riabilitata, ma non si
tratta della solita attualizzazione. Il
celebre testo di Giovanni Verga,
riproposto dall’attrice napoletana
al Teatro Quirino dal 17 novembre
con la regia di Guglielmo Ferro,
ripercorre la vicenda della Gnà Pina
cogliendone l’archetipo letterario ancora valido oggi.
Siamo nella campagna della remota provincia siciliana, dove la mentalità dei
compaesani non prevede certo la libertà di una donna che vive da sola con
una figlia da maritare. I giudizi e i pregiudizi su di lei sono tanti, allora come
oggi, perché ancora adesso una donna che vive la sua sessualità viene
giudicata male e guardata con sospetto, come un pericolo per le regole sociali
costituite. E la Lupa si innamora del giovane Nanni (interpretato da Giuseppe
Zeno): «Si innamora perdutamente di lui –racconta Lina Sastri -, è disposta a
dargli tutto: la casa, la terra, persino sua figlia. Lui è altrettanto attratto da lei,
ma sposa la figlia perché vuole un matrimonio e un patrimonio sicuro, quindi
non può permettersi trasgressioni: Nanni vuole la “roba”. E quando avrà
ottenuto tutto, estrometterà Gnà Pina dalla sua nuova vita con la giovane
moglie. Lei rimane sola e, alla fine, deciderà di sacrificargli la propria vita».
Una figura femminile assai complessa. «Fatta di luci e ombre — commenta
Lina — perché è generosa e al tempo stesso violenta e aggressiva, è carnefice
e al tempo stesso vittima. D’altro canto nell’opera stessa di Verga non c’è
assoluzione o condanna del personaggio, il grande scrittore si limita a
disegnare un mondo di sentimenti, ma soprattutto di convenzioni, rigide
regole e pregiudizi. La sua Gnà Pina è sicuramente una persona che prende in
mano il proprio destino». Le donne libere di oggi hanno meno problemi con
uomini più giovani di loro? «Da un certo punto di vista sì — risponde Lina —
non sono più succubi di pregiudizi che le incatenano all’età anagrafica. Da un
altro punto di vista, però, le donne oggi hanno perso la centralità nella
famiglia, come mogli e madri, che da un lato le condannava ma dall’altro le
salvaguardava. Avevano una identità più forte, che forse hanno perso. La
donna — conclude l’attrice — è rimasta sola nel percorso di crescita e
maturità».
EMILIA COSTANTINI
«Corriere della sera», 11 novembre 2015
Lina Sastri è la “Lupa”
Come si coniuga al femminile “Homo homini lupus”? La “Lupa”, ci risponde
Giovanni Verga. Persino nel rapporto madre-figlia! Nella messa in scena e
riduzione in dramma teatrale del racconto di Verga, la Lupa è interpretata
dalla “divina” Lina Sastri, per la regia di Guglielmo Ferro. Lo spettacolo va in
scena al Teatro Quirino di Roma fino al 29 novembre. La riduzione teatrale
voluta dal regista e lo squadernamento ambientale della scenografia oscurano
parzialmente l’ombra felina di mangiauomini, che Verga ha costruito attorno
alla Lupa. Da un lato, infatti, lo
sfondo ha il giallo brillante e la
consistenza granulare di un
campo di grano in piena
maturazione,
che
attende
soltanto le braccia che lo
falceranno, e dalla cui parete
vegetale
compatta
e
impenetrabile fuoriescono, di
volta in volta, gli attori di scena.
Dall’altro, lo strapotere della protagonista è annullato, in pratica, dai rari
dialoghi tra la Lupa e i suoi interlocutori, con parti cantate riservate alla sola
‘gna Pina. Invece, l’aspetto corale è, a mio avviso, la cosa più interessante
dello spettacolo. E, forse, restituisce meglio il substrato verghiano che non è
ambientazione, contorno, ma sostanza socio-economica. Il primo quadro,
infatti, si apre con l’anziana contadina seduta sulla sedia, alla quale si
rivolgono con deferenza i giovani raccoglitori (ragazze e ragazzi) per ottenere
la magra paga quotidiana, alla fine del loro duro lavoro. E lei, la sostituta del
fattore, che ha fatto tutta la trafila da lavorante a fiduciaria del padrone per il
controllo del lavoro dei salariati, stabilisce il soldo che spetta a ciascuno di
loro, osservandone con occhio esperto i risultati della raccolta quotidiana. E la
sua non è, come si potrebbe immaginare, una auctoritas arcigna, fondata su
quel potere spocchioso e stupidamente dispotico di chi arriva ad avere un
minimo di potere sugli altri.
No, il suo è un occhio lungo ma soffice che esercita un controllo quasi dolce
dell’insieme: è lei a tenere ben salda la tradizione contadina, fatta di
pettegolezzi, preghiere, sogni delle ragazze da maritare, doti e mediazioni da
sensale, soprattutto quando interviene per mitigare l’ira del violento Nanni
mentre picchia la moglie Maricchia (la figlia della Lupa) e la madre di lei. C’è
molto più paese povero della Sicilia profonda che malanimo, in questa
rappresentazione. Le ragioni della vergogna di Maricchia (ragazza per bene e
benestante) non affiorano mai: il dialogo con la Lupa è teso, intriso dalla
vergogna che tutti sanno dei troppi amanti di sua madre. Ovviamente, la
risalita del diapason si ha nei momenti che preparano all’epilogo violento del
dramma, quando ‘gna Pina rinuncia a tutti i suoi averi per darli in dote alla
figlia, costretta a sposare controvoglia proprio il Nanni che è uno spiantato ma con smisurate ambizioni - senza mezzi economici per permettersi una
moglie da mantenere. La lite violenta tra madre e figlia ha come innesco lo
“scandalo” che tutto il paese conosce e sottace. Ovvero, che Nanni è marito
della giovane e amante della suocera convivente.
A nulla serve l’agognata depurazione dal peccato di incesto ed empietà, che
Nanni crede di avere ottenuto attraverso la confessione, in modo da poter
portare senza infamia lo stendardo della Madonna in testa alla processione,
sempre incombente e mai celebrata. Sì, è vero: la Lupa lo bracca come
farebbe con un cane da pastore, per masticarne i muscoli, la vigoria fisica, in
modo che il sangue giovane dia nuova linfa alla sua bellezza non più così
prorompente. Eppure, una spina velenosa nel fianco non basta a far dire
all’uomo: “Non è colpa mia. Il veleno è venuto dall’esterno, fuori dal mio
controllo”. Perché ciò non è mai vero. O almeno, non fino in fondo. Sarebbe
bastato portare lontano moglie e figlio, per sottrarsi al morso accanito della
Lupa. Ma non accade. E il dramma esce dalle mani sanguinanti di chi pace non
ha saputo darsi e dare. Grande Verga, inseguito da un teatro che, però, non
riesce mai ad avere il suo stesso passo.
MAURIZIO BONANNI
«L’opinione», 22 novembre 2015
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