Comunità Magnificat
CAMMINO 2015-2016
un Padre col cuore di Madre
PRO-MANUSCRIPTO
AD USO INTERNO E RISERVATO DELLA COMUNITÀ MAGNIFICAT
I testi del presente sussidio, opportunamente adattati per il Cammino formativo della
Comunità Magnificat, sono tratti principalmente dai seguenti libri:
– Mauro Orsatti, Un Padre dal cuore di madre. Meditazioni, Àncora, Milano 1998
– Davide Caldirola, La compassione di Gesù. Meditazioni bibliche, Milano 2007.
In prima di copertina il particolare dell’abbraccio e in quarta l’intera immagine del
Ritorno del figliol prodigo (1668), di Harmenszoon van Rijn Rembrandt (1606-1669),
che si trova nel Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo.
3
PRESENTAZIONE
IL VOLTO DELLA MISERICORDIA
«Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre». Con queste parole papa Francesco apre la Bolla di indizione del Giubileo
Straordinario della Misericordia, ricordandoci che nella misericordia
la fede cristiana trova la sua sintesi. «Essa è divenuta viva, visibile
e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth [...] [che] con
la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la
misericordia di Dio» (n. 1).
Noi, afferma papa Francesco, «abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità
e di pace. È condizione della nostra salvezza» (n. 2). Questo anno
giubilare vuole allora ricordarci che «la misericordia sarà sempre più
grande di ogni peccato, e nessuno può porre un limite all’amore di
Dio che perdona» (n. 3). Infatti «“è proprio di Dio usare misericordia
e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza”1. Le
parole di san Tommaso d’Aquino mostrano quanto la misericordia
divina non sia affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qualità dell’onnipotenza di Dio2 [...] Dio sarà per sempre nella storia
dell’umanità come Colui che è presente, vicino, provvidente, santo
e misericordioso» (n. 6).
Il papa ricorda poi che, attraverso la misericordia, Dio «rivela il
suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente
il caso di dire che è un amore «viscerale». Proviene dall’intimo
come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di
compassione, di indulgenza e di perdono» (n. 7).
1
2
Tommaso D’aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4.
Sempre san Tommaso d’Aquino in un altro passo afferma: «Il rigore della giustizia
divina è sempre subordinato alla sua carità, da cui procede».
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4
Presentazione
La risposta a tutto questo, ci ricorda ancora il papa, è: «l’amore
misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli.
Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri» (n. 9). Per giungere a questo
siamo invitati a riflettere sulle opere di misericordia corporale e
spirituale. «Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso
assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di
più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della
misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste
opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no
come suoi discepoli [...] Non possiamo sfuggire alle parole del
Signore e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da
mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto
il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare
con chi è malato e prigioniero3. Ugualmente, ci sarà chiesto se
avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e
che spesso è fonte di solitudine; se saremo stati capaci di vincere
l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini
privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se
saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; se avremo perdonato chi
ci offende e respinto ogni forma di rancore e di odio che porta
alla violenza; se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio che è
tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella
preghiera i nostri fratelli e sorelle. In ognuno di questi «più piccoli»
è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile
come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga...
per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non
dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: “Alla sera
della vita, saremo giudicati sull’amore”» (n. 15).
Il papa ci ricorda che questo «è un programma di vita tanto
impegnativo» e «per essere capaci di misericordia dobbiamo in
primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio» (n. 13).
3
Cfr. Matteo 25, 31-45.
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Presentazione
5
Per rispondere a questo invito del papa, il nostro cammino di
quest’anno percorrerà il tema della misericordia attraverso alcuni
brani biblici tratti dal Vangelo di Luca4.
Partiremo con tre parabole che narrano aspetti diversi della misericordia di Dio. La prima è la parabola del padre misericordioso, la
più bella che Gesù abbia regalato alla letteratura universale. Con
essa rifletteremo sulla caratteristica fondamentale della misericordia,
quella di essere amore che supera la giustizia. Poi passeremo alla
parabola del buon Samaritano, in cui saremo portati a considerare
l’aspetto più concreto della misericordia: le opere corporali. Infine
affronteremo il tema della misericordia e del giudizio attraverso la
parabola del fariseo e del pubblicano che salgono al tempio a pregare.
Lasciando la sponda delle parabole, faremo poi la conoscenza
di uomini veri, in carne e ossa, che sperimentano la paternità e
maternità di Dio incontrando Gesù di Nazareth. Fisseremo dapprima l’attenzione sulla figura di Zaccheo, capace di ribaltare la
propria esistenza dopo aver ottenuto misericordia, stima e fiducia
da Gesù che lo ha «promosso» a vita nuova. Passeremo poi ai
due discepoli di Emmaus: essi diventano oggetto di tutta una
serie di azioni da parte del misterioso viandante, loro compagno
di cammino, azioni che sono esattamente quelle che la Chiesa
chiama opere di misericordia spirituali. Infine incontreremo i
dieci lebbrosi, anzi, uno in particolare, un Samaritano: egli ci farà
riflettere sulla necessità di passare dall’esperienza della bontà
misericordiosa di Gesù, al bisogno di dire grazie a prima di tutto
a Dio, poi anche ai fratelli.
Come scriveva Giovanni Paolo ii, la misericordia «è la dimensione
indispensabile dell’amore, è come il suo secondo nome»5. Il segreto
del cuore di Dio è questa misericordia, ed «essere credenti significa
4
5
«L’evangelista che tratta particolarmente questi temi nell’insegnamento di Cristo è
Luca, il cui Vangelo ha meritato di essere chiamato “il Vangelo della misericordia”»
(Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 3).
Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 7.
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6
Presentazione
essere sicuri che l’amore esiste e che ha il volto della misericordia»6.
Solo esponendoci alla luce e al calore della misericordia divina ci
sentiamo compresi, amati, perdonati, rinnovati.
Gli apostoli stessi sono diventati annunciatori del vangelo della
misericordia, dopo essere stati essi stessi oggetto delle viscere di
misericordia di Gesù.
L’augurio che ci facciamo, all’inizio del cammino di quest’anno,
è che possiamo anche noi, come gli apostoli, sperimentare l’amore
misericordioso del Padre, questo amore sovrabbondante, esagerato che travolge ogni logica di razionalità e di giuste proporzioni,
per diventare a nostra volta annunciatori credibili del «volto della
misericordia del Padre».
I responsabili generali
6
J.-P. Van schoote, J.-C. Sagne, Miseria e misericordia, Qiqajon, Bose 1992, p. 46.
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7
NOTA PREVIA
PER BEN USARE IL LIBRO
Il libro del cammino si presenta particolarmente ricco. Non
è assolutamente necessario percorrerlo in tutte le sue parti, ma
– oltre al testo delle catechesi – viene dato materiale per l’approfondimento e la meditazione, che può essere letto e meditato
liberamente anche al di là delle tappe del cammino. Ecco alcune
indicazioni per poterne fare un buon utilizzo.
TESTI INTRODUTTIVI
Tutti i testi introduttivi, oltre che per la lettura personale,
possono essere utili per presentare il cammino nelle Fraternità.
Presentazione
La presentazione dei responsabili generali dà le motivazioni per
cui è stato scelto il tema del cammino.
Nota introduttiva
Questa nota è una breve spiegazione dei termini che la Bibbia
adopera per definire la misericordia.
La copertina
Questo breve testo, tratto da L’abbraccio benedicente di Henri J.
Nouwen, commenta l’immagine di copertina, introducendo in
maniera efficace il tema della misericordia.
CATECHESI CON IL LORO APPARATO
Catechesi
Le singole catechesi sono pensate in due parti: la prima è una
lectio meditata sul brano evangelico da cui è tratto il tema alla
catechesi, la seconda contiene qualche spunto per attualizzarla.
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Nota previa
Note
Tutte le catechesi sono arricchite da note a piè di pagina. Esse
contengono, oltre ai riferimenti biblici, altre notizie importanti,
ma non strettamente necessarie. Questo aiuterà a rendere più
scorrevole il testo per tutti, e darà, a chi lo desidera, la possibilità
di approfondire il discorso.
Approfondimenti
Abbinati ad ogni catechesi si trovano due testi che possono essere
letti liberamente per la riflessione personale o venire utilizzati –
come approfondimento – per un incontro di fraternità.
a) La compassione di Gesù
Il primo testo riguarda una serie di pagine evangeliche che mostrano aspetti diversi della compassione di Gesù. Esse sono un fil
rouge che, di tappa in tappa, richiama questo tema. Ogni brano
è accompagnato da qualche semplice considerazione esegetica e
da qualche spunto per viverlo nella nostra vita. Questi approfondimenti costituiscono un percorso non legato direttamente alla
catechesi.
b) Ci hanno lasciato un esempio
Il secondo testo è costituito dalla vita di un testimone attinente
al tema della tappa.
Spazi per gli appunti
Gli spazi per appuntare riflessioni sulla catechesi, proposito, revisione di vita, rendono il libro un prezioso strumento per verificare
il cammino fatto, farne memoria e rendere grazie a Dio per questo.
ACCORDO FINALE
A conclusione delle catechesi, un’ultima pagina evangelica,
quella del buon ladrone, icona per eccellenza della misericordia.
Anche questo testo può essere utile per la presentazione del
cammino nelle Fraternità.
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Nota previa
APPENDICI
Struttura del cammino a tappe
In cenacolo è bene che l’animatore ricordi, almeno per gli incontri
della prima tappa, la modalità con cui vivere i vari momenti (risonanza, condivisione, revisione di vita). Potrà fare questo anche
rileggendo assieme ai fratelli queste note. Tale confronto aiuterà a
migliorare la qualità degli incontri e a correggere abitudini sbagliate.
Per gli stessi motivi, è bene che anche i responsabili di Fraternità, al
loro interno, rileggano all’inizio dell’anno le note che li riguardano,
prima dell’inizio del cammino.
La Revisione di vita
Ogni anno viene riportato questo testo di padre Andrea Gasparino.
È bene rileggerlo per evitare di cadere nella routine e per rivedere
il proprio modo di approcciarsi alla revisione di vita.
✴
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NOTA INTRODUTTIVA
LE PAROLE DELLA MISERICORDIA
N
el definire la misericordia la Bibbia adopera soprattutto due
termini, ciascuno dei quali ha una sfumatura diversa. Anche
se il tema della misericordia non può essere ridotto ai testi
nei quali ricorrono esplicitamente queste parole sarà tuttavia utile
partire dalla precisazione di tali termini.
Hesed – Éleos
Anzitutto, c’è il termine ebraico hesed, che indica un profondo
atteggiamento di bontà. Scrive Giovanni Paolo ii nella sua enciclica
Dives in misericordia: «Nell’antico Testamento hesed viene riferito
al Signore [...] sempre in rapporto all’alleanza, che Dio ha concluso
con Israele. Tale alleanza fu, da parte di Dio, un dono e una grazia
per Israele»7. Continua poi dicendo che Dio si era impegnato a
rispettarla con un impegno formale, «giuridico», ma tale impegno
cessava di obbligarlo, quando Israele infrangeva l’alleanza e non
ne rispettava le condizioni. «Ma proprio allora hesed, cessando di
essere obbligo giuridico, svelava il suo aspetto più profondo: si
manifestava ciò che era al principio, cioè come amore che dona,
amore più potente del tradimento, grazia più forte del peccato»8.
Hesed è allora la fedeltà amorosa di Dio alla propria alleanza: Dio
resta fedele anche quando il popolo tradisce, perché è il «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà»9.
Nel Nuovo Testamento il termine greco corrispondente all’ebraico hesed è éleos. «Con Gesù si rivela pienamente la misericordia
divina che ci salva. Gesù è la misericordia divina incarnata. Infatti è
venuto a prendersi cura di noi, facendosi “in tutto simile ai fratelli,
Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, nota 32.
Ivi.
9
Esodo 34, 6.
7
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12
Nota introduttiva
per diventare un sommo sacerdote misericordioso (eleémon) [...] allo
scopo di espiare i peccati del popolo”10»11. E Paolo ci ricorda che
Dio «ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute,
ma per sua misericordia (éleos)»12. Questo amore misericordioso
è infatti gratuito: «Dio, ricco di misericordia (éleos), per il grande
amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati
ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati»13.
Chiedendo a Dio misericordia, l’uomo si richiama, allora alla fedeltà di Dio. «All’uomo che grida: “Abbi pietà, Signore!”14, Gesù
risponde offrendo misericordiosamente il suo aiuto, beneficando
tutti»15. E questo è quello che accade ogni volta che ripetiamo:
«Kyrie eleison».
Rachamìm – Splànchna
Scrive Giovanni Paolo ii: «Il secondo vocabolo, che nella terminologia dell’Antico Testamento serve a definire la misericordia,
è rachamìm. Esso ha una sfumatura diversa dal termine hesed.
Mentre questo pone in evidenza i caratteri della fedeltà verso se
stesso e della responsabilità del proprio amore (che sono caratteri
in certo senso maschili), rachamìm, già nella sua radice, denota
l’amore della madre (rehem = grembo materno). Dal più profondo
e originario vincolo, anzi dall’unità che lega la madre al bambino,
scaturisce un particolare rapporto con lui, un particolare amore.
Di questo amore si può dire che è totalmente gratuito, non frutto
di merito, e che sotto questo aspetto costituisce una necessità
interiore: è un’esigenza del cuore. È una variante quasi femminile
della fedeltà maschile a se stesso, espressa dalla hesed. Su questo
sfondo psicologico, rachamìm genera una gamma di sentimenti,
Ebrei 2, 17.
Domenico Cancian, Il Vangelo della misericordia, in AA.VV, Misericordia, volto di
Dio e dell’umanità nuova, Paoline, Milano 1999, p. 39.
12
Tito 2, 11.
13
Efesini 2, 11.
14
Cfr. Matteo 9, 27; 15, 22; 17, 15; 20, 30; Luca 17,13.
15
Domenico Cancian, op. cit., ivi.
10
11
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Nota introduttiva
13
tra i quali la bontà e la tenerezza, la pazienza e la comprensione,
cioè la prontezza a perdonare. L’antico Testamento attribuisce
al Signore appunto tali caratteri, quando parla di lui servendosi
del termine rachamìm. Leggiamo in Isaia: “Si dimentica forse una
donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del
suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece
non ti dimenticherò mai”16»17.
Nel Nuovo Testamento il termine corrispondente a rachamìm
è splànchna. Esso «vuol dire l’amore viscerale o sviscerato della
madre, ma anche del padre18, del fratello19. Si tratta del legame di
sangue che unisce i parenti stretti con la forza dell’istinto vitale e
affettivo, non con­trollato dalla ragione. È la misericordia colta nel
suo fondamento biologico che la configura come non-razionale,
esagerata, fuori dal senso comune, addirittura pazza, secondo le
espressioni dei mistici. Quando i santi parlano di Dio che perde
la testa, ragiona col cuore e perdona tutto, impazzisce d’amore per
l’uomo peccatore, forse si riferi­scono proprio a questo istinto dell’amore paterno, materno, fraterno, sponsale, amicale... che proviene
dalla natura stessa di Dio padre, madre, sposo, amico... In ogni
caso, questo amore misericordioso è la nota che più caratteriz­za
Gesù e il suo Vangelo, è il cuore della conversione cristiana. L’uomo
è chia­mato a diventare misericordioso come Gesù, come Dio20. Il
verbo [corrispondente] splanchnìzomai indica avere viscere di compassione, provare commozione viscerale, misericordia e tenerezza;
è lo stringersi del cuore alla vista di qualche miseria umana [...].
È interessante notare che questo verbo si riferisce quasi sempre
a Gesù o al Padre: esso caratterizza la misericordia messianica
dinanzi all’uomo malato e peccatore, al popolo disperso senza
pastore. Nelle parabole il verbo è al centro del racconto ed imprime
18
19
20
16
17
Isaia 49, 15.
Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, nota 32.
Cfr. Isaia 63, 7.15.
Cfr. Genesi 43, 30.
Cfr. Luca 6, 36.
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14
Nota introduttiva
la svolta principale alla vicenda. Il padre del figlio prodigo, solo
mosso dalla misericordia, aspetta il figlio ribelle, gli va incontro,
lo abbraccia, lo perdo­na e gli fa festa, e ciò in perfetto contrasto
con il com­portamento del fratello maggiore21. Solo mosso dalla
compassione, il padrone condona tutto il debito, mentre il servo
condonato non ha pietà del proprio compagno22, attirandosi con
ciò la propria condanna. Solo dopo aver sentito compassione nelle
proprie viscere, il buon Samaritano presta soccorso all’uomo ferito,
evitato da chi invece aveva mantenuto il cuore duro23»24.
***
Da questo breve excursus possiamo trarre alcune conside­razioni.
«Le parole evocano spesso immagini che vanno messe insieme
come tessere di un mosaico per com­porre in qualche modo il volto
di Dio. Ci troviamo davanti a Dio padre, madre, sposo, medico,
buon Samaritano, buon pastore, amico... È chiaro che nessuna
singola immagine e nemmeno tutte insieme esaurisco­no la descrizione di Dio. Forse proprio le viscere di misericordia costituiscono
l’attributo più misterioso e qualificante della sua natura. In verità,
scegliendo misericordiosamente Israele e rinnovando continua­
mente le alleanze fino a stabilire quella definitiva in Cristo, Dio si
rivela Amore misericordioso: “Dio infat­ti ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unige­nito, perché chiunque crede in lui non muoia
ma ab­bia la vita eterna”25»26.
✴
23
24
25
26
21
22
Cfr. Luca 15, 20.28.
Cfr. Matteo 18, 27.33.
Cfr. Luca 10, 33.
Domenico Cancian, op. cit, p. 42-43.
Giovanni 3, 16.
Domenico Cancian, op. cit, p. 44.
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LA COPERTINA
UN PADRE COL CUORE DI MADRE27
Il vero centro del dipinto di Rembrandt è costituito dalla mani
del padre. Su di esse si concentra tutta la luce; su di esse si focalizzano gli occhi degli astanti; in esse si incarna la misericordia; in
esse confluiscono perdono, riconciliazione e guarigione e con esse
sia il figlio esausto che il padre sfinito trovano riposo.
[...] Sembra che le mani che toccano le spalle del figlio che ha
fatto ritorno siano gli strumenti dell’occhio interiore del padre.
[...] Tutto prende ispirazione delle sue mani. Esse sono molto
diverse tra loro. La mano sinistra, posata sulla schiena del figlio, è
forte e muscolosa. Le dita sono aperte e coprono gran parte della
destra del figlio prodigo. Posso intuire una certa pressione, special27
Tratto da: Henri J. Nouwen, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figlio prodigo, Queriniana, Brescia 2006.
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16
La copertina
mente del pollice. Quella mano sembra non soltanto toccare, ma
anche, con la sua forza, sorreggere. Anche se la mano sinistra del
padre si posa sul figlio con delicatezza, è una mano che stringe con
energia. Come è diversa, invece, la mano destra! Essa non sorregge
né afferra. È una mano raffinata, delicata e molto tenera. Le dita
sono ravvicinate e hanno un aspetto elegante. La mano è posata
dolcemente sulla spalla del figlio. Vuole accarezzare, calmare, offrire
conforto e consolazione. È una mano di madre.
[...] Appena mi sono reso conto della differenza tra le due mani
del padre, mi si è dischiuso un nuovo mondo di significati. Il Padre
non è semplicemente un grande patriarca. È sia madre che padre.
Tocca il figlio con una mano maschile e con una femminile. Lui,
sorregge, lei accarezza. Lui rafforza e lei consola.
È dunque Dio, nel quale sono pienamente presenti l’essereuomo e l’esser-donna, la paternità e la maternità. Quella mano
destra delicata che accarezza, evoca, secondo me, le parole del
profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così
da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse
una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai.
Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani»28.
✴
28
Isaia 49,15-16.
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i tappa
LA PARABOLA
DEL PADRE MISERICORDIOSO
21
LA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO
MISERICORDIA E GIUSTIZIA
U
n uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre:
«Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli
divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là
sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando
ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia
ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi
al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò
nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con
le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.
Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno
pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da
mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te;
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come
uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli
disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono
più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare,
mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello
grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo
mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu
vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli
domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo
fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso,
perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva
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I
T
A
P
P
A
I
T
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22
La parabola del padre misericordioso
entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo
padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito
a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far
festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il
quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai
ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei
sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa
e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in
vita, era perduto ed è stato ritrovato»29.
PER LEGGERE IL VANGELO30
«Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i
peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro questa parabola»31.
Così si apre il capitolo quindicesimo del vangelo di Luca che contiene le tre parabole della misericordia. L’atteggiamento abituale
di Gesù di lasciarsi avvicinare da quelli che avevano un comportamento pubblicamente peccaminoso e osare addirittura condividere
con loro la tavola accendeva gli animi di scribi e farisei, incapaci di
comprendere il suo agire con i peccatori, così lontano e contrario
alle buone regole di un maestro ebreo32. «Gesù deve dunque spiegare
il suo comportamento, e lo fa [...] con una parabola, suddivisa in
Luca 15, 11-32.
«Nelle parabole dedicate alla misericordia, Gesù rivela la natura di Dio come quella
di un Padre che non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e
vinto il rifiuto, con la compassione e la misericordia. Conosciamo queste parabole,
tre in particolare: quelle della pecora smarrita e della moneta perduta, e quella
del padre e i due figli (cfr. Luca 15, 1-32). In queste parabole, Dio viene sempre
presentato come colmo di gioia, soprattutto quando perdona. In esse troviamo il
nucleo del Vangelo e della nostra fede, perché la misericordia è presentata come la
forza che tutto vince, che riempie il cuore di amore e che consola con il perdono»
(Francesco, Misericordiae vultus, 9).
31
Luca 15, 1-3.
32
«Per i farisei e gli uomini religiosi prima era necessaria la conversione, la riconciliazione con Dio, e solo dopo si poteva stare insieme a tavola. Per Gesù invece la
conversione non è una condizione previa al mangiare insieme: basta voler vivere
l’amicizia con lui, e da questa amicizia può nascere il cammino di conversione,
29
30
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La parabola del padre misericordioso
23
tre parti: la similitudine della pecora perduta, quella della moneta
perduta e infine l’ampia parabola del padre misericordioso e i due
figli»33. Rispondendo così Gesù lascia capire che il suo comportamento è il fedele riflesso dell’amore di Dio, il Padre buono. Nei
confronti di tutti, buoni e cattivi (effettivi o presunti), Dio manifesta
la sua paterna comprensione, sempre accompagnata dal pressante
invito al ravvedimento e alla conversione.
Il padre e due figli
«Un uomo aveva due figli». Con un inizio sobrio ed essenziale
sono presentati i personaggi che animeranno la parabola: il padre
e i due figli.
«Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta». Il minore si affaccia sulla scena con i tratti
dell’arrogante e del prepotente, esigendo ciò che un giorno potrà
essere suo, ma che ora appartiene ancora al padre34. Questi avrebbe
potuto reagire in molti modi: rifiutare, adducendo la giustizia e
il suo diritto vigente contro il diritto del figlio ancora lontano a
venire; convincere il figlio dell’inutilità o della pericolosità di tale
richiesta, prevedendo un poco oculato uso di tanta ricchezza
affidata a mano inesperta; rispondere duramente all’insolenza e
tracotanza della richiesta del figlio minore.
«Il padre divise tra loro le sostanze». Il padre sceglie una strada
lontana dalla logica comune, la strada di una sconcertante arrendevolezza: non un’obiezione, non una parola, non un estremo
tentativo di impedire questo dissennato progetto del figlio più
giovane35.
come mostra anche il suo incontro con il pubblicano Zaccheo» (Enzo Bianchi, Raccontare l’amore, Rizzoli, Bergamo 2015, p. 67).
33
Enzo Bianchi, op. cit., p. 69.
34
«L’azione del figlio minore verso il padre è certamente sfrontata. È come se ne
avesse chiesto la morte, come se gli avesse detto: “Non ho tempo di aspettare che
tu muoia. Dammi la parte che mi spetta, perché voglio essere autonomo e libero”»
(Enzo Bianchi, op. cit., p. 76).
35
«Il padre non parla, non risponde, non reagisce non segue neppure il consiglio della
sapienza d’Israele raccolto nel libro del Siracide: «Finché vivi e in te c’è respiro, non
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Cerchiamo di metterci dalla parte del padre e di capirlo. Trattenere in casa uno che trova pesante l’aria che respira, equivale a
rompere un rapporto che la permanenza forzata non potrebbe più
riparare. Il padre che volesse a ogni costo tenere il figlio in casa,
sarebbe forse mosso da amore, ma educare significa rispettare la
libertà dell’altro, soprattutto quando l’altro è un adulto, anche se
si può prevedere un uso non corretto di tale libertà. Il seguito del
racconto mostrerà che il suo agire non nasce dall’indifferenza o
dalla leggerezza, bensì dalla capacità di rischiare e di sperare nel
valore del bene.
Il minore si allontana e ritorna dal padre
«Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose,
partì per un paese lontano». La scelta di un paese lontano vuole
significare la distanza fisica dal padre, ma più ancora il desiderio di
sottrarsi a una sua possibile influenza36. La partenza avviene all’insegna delle più lusinghiere prospettive, perché il figlio minore possiede quegli elementi che in tutti i tempi sono considerati come gli
ingredienti indispensabili della felicità: giovinezza, ricchezza e libertà.
«Là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto». Il nostro
giovane appartiene alla lunga schiera di persone che nel gioco, nel
vizio e nei bagordi, hanno dilapidato in breve tempo una fortuna
accumulata da altri con impegno e sacrificio.
«Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia
ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno». Nella logica del racconto la
carestia rappresenta l’imprevisto da considerare sempre nella vita.
abbandonarti al potere di nessuno. È meglio che i figli chiedano a te, piuttosto che tu
debba volgere lo sguardo alle loro mani […] Quando finiranno i giorni della tua vita,
al momento della morte, assegna la tua eredità» (Siracide 33, 21-22.24). Questo padre invece divide l’eredità, pur non essendo obbligato dalla Legge, ma lo fa secondo
la Legge: due terzi al figlio maggiore, un terzo al figlio minore (Cfr. Deuteronomio
21, 17), sicché i due fratelli entrano in possesso dell’intero patrimonio paterno»
(Enzo Bianchi, op. cit., p. 75).
36
Come ricorderà più avanti la parabola, questo «lontano» equivale al superamento
della frontiera del paese, perché si parlerà di allevamento di porci, animali che gli
ebrei non potevano mangiare e che quindi non allevavano.
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Le persone sagge, in qualche modo, si premuniscono per affrontare l’imprevisto; le persone insipienti, invece, vivono all’insegna
della spensieratezza, come se la vita dovesse sempre obbedire alla
logica dei loro sogni.
«Allora si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione che
lo mandò nei campi a pascolare i porci». Lavorare non è degradante
per un ebreo, ma non tutti i lavori sono accettabili nella mentalità
ebraica: tra questi, la custodia dei porci, animali immondi la cui
carne non si poteva mangiare né toccare.
«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci,
ma nessuno gliene dava». All’umiliazione di tale lavoro si aggiunge
quella del disinteresse degli altri per la sua persona: ovviamente
il padrone era più interessato a ingrassare i suoi porci che non a
sfamare questo avventuriero di passaggio.
«Allora rientrò in se stesso». Questa situazione incresciosa fa
scattare un meccanismo di ripensamento. Perché questo «rientrò»?
Che cosa significa? Rientrare in se stesso significa che prima era
uscito da se stesso; si credeva libero, e invece si riconosce in uno
che aveva inseguito una chimera come se si trattasse della realtà.
«Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza
e io qui muoio di fame!». Il bisogno fisico, cioè la fame, spinge il
giovane al ritorno sia morale che materiale.
Il ritorno morale è il riconoscimento del proprio errore e la coscienza di aver perso il rapporto padre-figlio: «Padre, ho peccato
contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato
tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni». Qui troviamo la
grandezza morale di chi è capace di riconoscere e di ammettere il
proprio sbaglio, con lucidità e senza reticenze; è lo slancio sincero
e umile del giovane che si assume tutta la sua responsabilità, è
l’umile ammissione del suo errore.
Il ritorno materiale («Partì e si incamminò verso suo padre»), consiste in una risoluta decisione, maturata alla luce di una seria riflessione.
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Come sono diversi la partenza e il ritorno37! Il figlio ha perso
tutto, però ha riscoperto la capacità di riflettere e di apprezzare
qualcosa della casa del padre (il cibo) e la segreta speranza di
una possibile accoglienza: spera di trovare accoglienza come
domestico, certamente non come figlio. Pur con tutto il bagaglio
di esperienze negative e di sbagli che il giovane porta con sé, dimostra un aspetto non consueto che lo rende grande, in quanto è
disposto a riconoscere il proprio errore e ad assumersene tutte le
conseguenze, prima fra tutte la perdita del suo rapporto di figlio.
Con questi sentimenti il giovane viene liberato dal grande peccato
dell’uomo: credere alla propria autosufficienza.
L’incontro tra il padre e il figlio minore
«Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». La figura di un padre
apparentemente indifferente e insensibile, che lascia partire il figlio
senza una parola o un estremo tentativo per trattenerlo, rivela
ora la sua infondatezza, perché il testo mostra tutta la sollecitudine di questo padre. Egli era in attesa, segno che l’amore non
si arrende mai e crede nella vittoria del bene sul male. Il ritorno
del figlio è la risposta all’arte educativa del padre: egli non aveva
mai abbattuto il ponte di fiducia che lo legava al figlio, anche se
la fiducia era stata momentaneamente tradita. Il padre raccoglie
i frutti del suo rischiare, avvenuto in un contesto di amore e di
speranza, viene premiata dal ritorno del figlio alla casa paterna.
L’amore si concretizza in una serie di gesti che del padre verso
il figlio: gli corre incontro, lo bacia, lo accoglie. Solo ora il testo
parla dei sentimenti del padre e lo fa con una parola efficace:
37
Accade esattamente l’opposto di ciò che dice il salmo 126, 6: «Nell’andare, se ne
va piangendo […] ma nel tornare, viene con gioia». Era partito ricco e ritorna povero, era partito baldanzoso e sicuro di sé e ritorna umiliato e con tutte le sue sicurezze
infrante; era partito giovane e ritorna invecchiato dal lavoro e dalle esperienze; era
partito figlio e ritorna non figlio; era partito libero dal padre, ritorna libero da sé,
dalla sua sprezzante autosufficienza.
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«commosso»38, a indicare una commozione profonda che interessa
tutta la persona, quasi uno sconvolgimento interiore.
«Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te;
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”». Il padre lascia
parlare il figlio, perché, la confessione che esprime il pentimento,
fa bene, ha un benefico effetto liberatorio. Non accetta però le
conclusioni proposte dal figlio e non gli lascia terminare con:
«Trattami come uno dei tuoi garzoni»; questo è veramente impensabile per il padre. Egli non rimprovera, non richiama il passato,
perché sarebbe l’inutile riacutizzazione di una ferita non ancora
rimarginata39. La punizione più grave e il rimprovero più severo se
li è dati il figlio che accetta di essere non figlio.
«Portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli
l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa». Alle parole del figlio, il padre
risponde con una serie di gesti che valgono assai più delle parole.
Si rivolge ai servi perché si prendano cura del figlio, come avveniva
per il passato, anzi, ancora di più. Il vestito bello (la veste lunga,
come dice il testo greco) indica la situazione di straordinarietà; i
calzari, che in quel tempo portavano solo poche persone, la dignità; l’anello sul quale era impresso il sigillo di famiglia, l’autorità40;
infine l’uccisione del vitello e lo stare insieme a mensa, la gioia
della festa e della condivisione41.
«Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è
stato ritrovato». Il padre aveva visto partire un giovane presuntuoso
Il termine splangnizomai tradotto in italiano con «commosso» ricorre qui e in due
altri contesti dell’evangelista Luca: quando Gesù si commuove davanti al figlio
unico defunto della vedova di Nain (Luca 7, 33) e quando il buon Samaritano ha
compassione dello sventurato caduto in mano dei ladroni (Luca 10, 33).
39
Rievocare il passato sarebbe sadismo oppure un’inconscia rivincita, magari con un
sarcastico «Hai voluto andar via, ora che sei nei pasticci ritorni?».
40
L’anello è il sigillo della famiglia: il padre cioè gli restituisce autorità su tutto, gli
ridà fiducia, scegliendo di correre il rischio di essere nuovamente tradito.
41
Forse non del tutto comprensibile risulta il comportamento del padre, ma a lui
Pascal presterebbe il suo celebre pensiero: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione
non riesce a comprendere».
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e arrogante e ora vede ritornare un uomo maturato dal dolore,
dalla lontananza e dal pentimento42.
«E cominciarono a far festa». La scena appare dominata dalla
commozione iniziale, che diventa prima un abbraccio e poi festa
di famiglia. Colui che si professava non figlio, viene accolto e
amato come «questo mio figlio»: la situazione risulta esattamente
capovolta.
Il ritorno a casa del maggiore
«Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu
vicino a casa, udì la musica e le danze». Anche il figlio maggiore
ritorna a casa, ma il suo è un ritornare abituale e scontato, quello
del rientro quotidiano dopo il lavoro nei campi. Nell’avvicinarsi
sente un’insolita e imprevista festa con musica e danze; è logico,
quindi, che si informi presso un servo, dal quale viene a sapere:
«Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso,
perché lo ha riavuto sano e salvo».
«Egli si indignò, e non voleva entrare». La notizia, lungi dal procurargli gioia come era avvenuto per il padre, lo stizzisce: come
è possibile che per quello scapestrato spendaccione si organizzi
una festa? E inoltre, come è possibile che per lui sia stato ammazzato il vitello ingrassato per qualche grande occasione, in molti
casi per le nozze del primogenito? Egli non solo non capisce il
motivo di quella festa, ma addirittura si sente, in qualche modo,
defraudato di un suo diritto e posposto al fratello minore. L’ira
del maggiore contrasta con la commozione del padre nel riavere
il figlio minore.
42
Il pentimento è il mezzo con il quale si cambia il passato. Mentre i greci ritenevano
questo impossibile e spesso ripetevano: «Gli dèi stessi non saprebbero cambiare
il passato», san Gregorio di Nissa affermava: «Quaggiù si va sempre di inizio in
inizio fino all’inizio senza fine», quasi a ricordare la bellezza e la necessità di saper
ricominciare.
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L’incontro tra il padre e il figlio maggiore
«Suo padre allora uscì a supplicarlo». Il padre va incontro a lui
come era andato incontro al minore. È sempre il padre a prendere
l’iniziativa e a muovere il primo passo per accorciare le distanze.
«Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un
tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa
con i miei amici». Il maggiore rivendica i suoi diritti proprio come
il minore quando chiedeva la parte di patrimonio per andarsene.
Nelle sue parole si legge l’orgogliosa sicurezza del suo perbenismo, la sua incondizionata e assoluta fedeltà al padre, con un
non troppo velato rimprovero al padre, considerato un padrone,
come rivelato dal pesante verbo «ti servo», tipico degli schiavi.
Il lavoro, più che collaborazione e compartecipazione, è vissuto
come dipendenza servile43.
«Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le
tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Parla al padre di «questo tuo figlio», incapace di riconoscere
l’altro come fratello. Mentre il padre aveva festosamente salutato
il ritorno del minore e nella sua grande bontà non pensava al passato, proprio perché «l’amore copre una moltitudine di peccati»44,
il maggiore sembra conoscere solo l’aspetto negativo del fratello.
«Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». Il padre
riconosce le ragioni del maggiore: quanto afferma non è né falso né
esagerato, perché egli ha sempre lavorato presso il padre, mentre
l’altro invece ha vissuto egoisticamente all’insegna di una riprovevole spensieratezza che lo ha portato a dilapidare il patrimonio.
Il padre ascolta il figlio maggiore e poi gli rivolge la parola chiamandolo «figlio», ricordandogli così quella relazione di comunione
Nella sua dura accusa al padre, dimentica un fatto importante: il padre, nel dividere il patrimonio, ha dato anche a lui la parte spettante, perché si è detto che «Il
padre divise tra loro le sostanze». In fondo, il minore ha fatto la figura di chiedere e
il maggiore ha goduto il beneficio derivato dall’arroganza del fratello. Tutto questo,
nel momento delle recriminazioni, è tralasciato e inspiegabilmente dimenticato.
44
1Pietro 4, 8.
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che il maggiore ha sempre vissuta, senza capirla pienamente. Il
padre difende la posizione privilegiata del maggiore che non consiste in una fredda logica di dare e avere – io presto la mia opera
e tu mi ripaghi –, bensì in un rapporto di indissolubilità, cioè di
impossibilità di separazione, di comunione interpersonale, a cui
segue la comunione dei beni: «Tutto ciò che è mio è tuo». Anche
il figlio maggiore, non meno del minore, ha bisogno di capire e
scoprire suo padre.
«Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita». Finché il
maggiore non riconoscerà e accetterà l’altro non come «questo
tuo figlio», bensì come questo mio fratello, non potrà rivolgersi al
padre chiamandolo padre. Non basta essere sempre rimasti nella
casa del padre per partecipare al banchetto; non basta neppure non
aver fatto nulla di riprovevole: occorre perdonare, accettare l’altro
che ha sbagliato, ridargli fiducia e possibilità di ricominciare. Tutto
questo equivale a passare dalla logica umana alla logica divina,
da quello che tutti capiscono a ciò che attuano solo coloro che
stanno dalla parte di Dio.
PER VIVERE IL VANGELO
La misericordia: amore che supera la giustizia
Questa parabola ci porta al cuore stesso della misericordia di
Dio, rivelandocela come amore che supera la giustizia. Scrive Giovanni Paolo ii nella Dives in misericordia: «Il rapporto della giustizia
con l’amore che si manifesta come misericordia viene con grande
precisione inscritto nel contenuto della parabola evangelica. Diviene più palese che l’amore si trasforma in misericordia quando
occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e
spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze ricevute dal padre, merita – dopo il ritorno – di guadagnarsi da vivere
lavorando nella casa paterna come mercenario, ed eventualmente,
a poco a poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali,
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forse però mai più nella quantità in cui li aveva sperperati. Tale
sarebbe l’esigenza dell’ordine di giustizia, tanto più che quel figlio
non soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli,
ma inoltre aveva toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua
condotta»45. Sappiamo bene invece come il padre accoglie il figlio
«gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò».
Scrive papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia: «La misericordia non è contraria alla
giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore,
offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere. L’esperienza del profeta Osea ci viene in aiuto per mostrarci
il superamento della giustizia nella direzione della misericordia.
L’epoca di questo profeta è tra le più drammatiche della storia del
popolo ebraico. Il Regno è vicino alla distruzione; il popolo non
è rimasto fedele all’alleanza, si è allontanato da Dio e ha perso la
fede dei Padri. Secondo una logica umana, è giusto che Dio pensi
di rifiutare il popolo infedele: non ha osservato il patto stipulato e
quindi merita la dovuta pena, cioè l’esilio. Le parole del profeta lo
attestano: «Non ritornerà al paese d’Egitto, ma Assur sarà il suo re,
perché non hanno voluto convertirsi»46. Eppure, dopo questa reazione
che si richiama alla giustizia, il profeta modifica radicalmente il suo
linguaggio e rivela il vero volto di Dio: «Il mio cuore si commuove
dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo
all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono
Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella
mia ira»47. Sant’Agostino, quasi a commentare le parole del profeta
dice: «È più facile che Dio trattenga l’ira più che la misericordia»48.
È proprio così. L’ira di Dio dura un istante, mentre la sua misericordia dura in eterno. Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di
essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto
Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 5.
Osea 11, 5.
47
Osea 11, 8-9.
48
Agostino, Enarr. in Ps. 76, 11.
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della legge. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna
che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va
oltre la giustizia con la misericordia e il perdono»49.
«Il primato dell’amore sulla giustizia non si­gnifica fuggire dalle
responsabilità; al contrario, l’a­more misericordioso ci spinge fortemente a imitare colui che per salvare l’uomo è salito in croce,
portan­do su di sé le nostre malattie e i nostri peccati»50.
***
Anche nell’esperienza comunitaria abbiamo appreso che la
giustizia, che potremmo definire il fare le cose giuste, da sola non
basta: non è sufficiente né per realizzare l’opera del Signore né per
vivere sane relazioni. Dice il cardinal Kasper che «la giustizia è il
minimo della misericordia, è il minimo di ciò che siamo obbligati
a dare agli altri perché è un loro diritto»51.
Nella vita comunitaria accade lo stesso: la fedeltà agli impegni,
il vivere santamente il cammino, il partecipare agli incontri, l’essere
presenti alla preghiera comunitaria, il servizio, rappresentano la
nostra «giustizia», cioè quello che il Signore ci ha indicato come il
nostro stile di vita. Si tratta di una giustizia impegnativa, certo, ma
questo è il minimo che dobbiamo dare ai nostri fratelli: è il loro diritto.
Tutto ciò, tuttavia, pur necessario perché la nostra sia una
vita comunitaria reale e non virtuale, non basta! La misericordia
presuppone questa giustizia, ma va oltre. Un mondo che è solo
giustizia, può essere molto freddo, come una comunità cristiana
che è solo adesione alla norma, è fredda, cioè incapace di scaldare. Certo la giustizia è fondamentale, ma la misericordia, senza
cancellarla, va oltre: prende l’uomo non soltanto come uno che
ha diritto, ma come vera persona che ha bisogno di molto altro.
Tutto ciò non può non spingerci a interrogarci se noi siamo
tra i giusti con la g minuscola (cioè coloro che si accontentano
Francesco, Misericordiae vultus, 21.
Domenico Cancian, op. cit., p. 96.
51
Intervista alla pagina web: http://www.famigliacristiana.it/articolo/kasper.aspx.
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del precetto) o se ci sforziamo di cercare una giustizia superiore,
quella che si riveste di misericordia.
Capita a volte che il nostro sforzo per vivere il cammino cristiano
diventi il metro con cui misuriamo i fratelli. Le insufficienze altrui
diventano allora motivo di fastidio, perché rovinano il progetto di
Dio, lo rendono imperfetto. Quanto sarebbe più bella la Comunità –
o la Chiesa – se non ci fossero questi fratelli pigri, non convertiti e
poco spirituali! Ma questo è esattamente il ragionamento del fratello
maggiore, che non vedeva del minore altro che i difetti, incapace di
uno sguardo misericordioso e paziente. Dio si china volentieri su
una comunità di imperfetti, se è piena di amore e accogliente; vuole
una Chiesa testimone della verità ma non occupata a distribuire
giustizia, gentile anche nei confronti di chi oggettivamente sbaglia.
L’apostolo Paolo ricorda a Tito che la nostra salvezza non
proviene dalle opere giuste da noi compiute, bensì dalla sua misericordia52. Anche nelle nostre relazioni più dirette e vicine vige
la stessa legge. Esse non possono essere salvate dalla giustizia:
perché siano esse stesse capaci di donare salvezza, devono essere
ricche di misericordia. Occorre spingersi oltre la giustizia nel mare
della misericordia che fa leggere le situazioni con occhio diverso. L’occhio del padre vede un figlio ritrovato; l’occhio del figlio
maggiore vede una contabilità di errori di cui è ingiusto non tener
conto. Il nostro fratello imperfetto è l’occasione che ci è offerta di
indagare, con umiltà e attenzione, su cosa vede il nostro occhio
e cosa esce dal nostro cuore.
Questo esame è vero cammino di conversione: cambia il nostro
atteggiamento verso i fratelli, ci insegna ad accogliere le loro debolezze con pazienza e i loro successi con gratitudine, a lasciarci
stupire dall’opera che il Signore compie nella loro vita, senza farci
scandalizzare dalle loro povertà.
✴
52
«Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia»
(Tito 3, 5).
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IL PROPOSITO:
LA REVISIONE DI VITA:
LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho
accolto la sua Parola?
I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia,
nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di
costruzione dell’amore?
I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono
stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?
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LA COMPASSIONE DI GESÙ
LO SGUARDO DELLA COMPASSIONE
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esù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia
e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse
ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai!
Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua
messe!»53.
Qualche considerazione per leggere il testo
✴«Vedendo le folle». Sembra una segnalazione inutile, eppure è possibile
camminare, entrare nelle città e nelle case della gente, salutare delle
persone, perfino far loro del bene, senza vederle. È evidente che non
è un problema di occhi, ma di cuore.
✴«Ne sentì compassione». Il vedere di Gesù si trasforma immediatamente
nel provare compassione, nell’avvertire nelle viscere tutta la fatica, la
miseria e insieme la grandezza e la dignità di ciascuna delle persone che
gli stanno di fronte. Questa compassione è dolore, è sconvolgimento
viscerale. Porta con sé l’affanno di ogni uomo. È un provare, cioè uno
sperimentare, un pagare di persona; è come l’aprirsi di un’inguaribile
ferita dello spirito e del cuore. Per Gesù vedere è lasciarsi ferire. Nel
linguaggio comune la parola compassione ha perso la sua bellezza
originaria di sentire con, soffrire con che ne dicono tutta la forza e la
profondità. Compatire significa trovarci di fronte a qualcuno che soffre
e decidere di entrare nella sua vita, di assumerci il suo dolore come se
fosse il nostro. Per Gesù è sempre stato così. Dalla sua nascita nell’assoluta povertà, al suo battesimo in fila coi peccatori, alla sua morte in
croce in mezzo a due ladri, non distinguibile da loro, il suo amore per
l’uomo non è stato mai calato dall’alto come generosa concessione,
ma vissuto dall’interno. Non si può consolare o compatire senza
spendere troppo, senza sporcarsi le mani, senza compromettersi.
53
Matteo 9, 35-38.
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La compassione di Gesù
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✴«Perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore».
Matteo ci dice anche il perché di questa compassione: le folle sono
«stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Gesù non
prova compassione per le folle, perché sono composte da gente brava, onesta, giusta, rispettosa. Non si commuove di fronte a questa
gente, perché merita qualcosa, perché si è guadagnata l’affetto e la
comprensione del Maestro grazie all’esercizio di chissà quali virtù, o
alla fedeltà assoluta alla Legge, o all’intelligenza, o alla bontà d’animo...
In realtà l’unico titolo di merito che questa gente può vantare, è quello
di essere povera, di non avere nulla, di trovarsi nel bisogno. È gente
stanca, che fa fatica, che sente il peso della vita. È gente sfinita: non
ce la fa più. Non hanno più risorse, sono prostrati. Non sono preda di
una stanchezza da cui ci si può riprendere con un po’ di riposo, non
hanno modo di alleggerire la pressione. Sono, infine, senza pastore.
Se anche per qualche fortuita coincidenza o per qualche improbabile
miracolo dovessero riprendere forza, non ce la farebbero mai a muovere
un passo, perché non saprebbero dove andare. Sono senza pastore:
nessuno più ha cura di loro, nessuno più li vede. Nessuno tranne il
Signore che guarda e si commuove.
✴«Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua
messe». E che cosa fa questo Signore che si commuove, come decide
di agire? Non inventa seduta stante qualche miracolo, non compie
gesti clamorosi. Semplicemente, guarda i discepoli e parla con loro.
La compassione di Gesù vuole avere bisogno di loro per dispiegarsi e
per esprimersi. Vuole che anche loro imparino a farsi carico della gente
che attende e che soffre. La prima cosa che Gesù chiede ai discepoli,
non è di darsi da fare, ma di «pregare il padrone della messe», come a
ricordare loro che niente di ciò che faranno sarà fatto in nome proprio,
e se dimenticheranno di pregare il padrone della messe, la loro opera
sarà sterile e priva di significato, sarà polvere e cenere.
Spunti per vivere la compassione
✴ Gesù mi guarda, Gesù mi vede. Nella vita molte cose dipendono
da come ci vedono e da come ci guardano gli altri. Uno sguardo
d’amore cambia la vita. Ci sono persone che si sentono attraversate
dagli sguardi altrui: «È come se non mi vedessero... è come se fossi
trasparente». Tutto questo si traduce, a volte, in pensieri depressivi:
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La compassione di Gesù
non ci sentiamo apprezzati, considerati, presi sul serio. Non funziona
cosi, davanti a Dio; il suo sguardo sulla nostra vita la raggiunge e la
trasforma. Dio è uno che si prende cura di me. Gli sto a cuore, gli
interesso, vigila sui miei passi non per punire gli sbandamenti, ma per
sorreggere le cadute. E se mi guarda ogni giorno, in ogni momento,
non è per tenermi sotto controllo, ma perché mi vuole talmente bene
che non riesce a staccarmi gli occhi di dosso. Così mi vede Gesù.
✴ Gesù raccoglie la mia stanchezza: posso lasciarmi andare, dormire
tra le sue braccia, affidare a lui ogni sbandamento e ogni insicurezza.
Non raggiungo Dio con il mio sforzo. Lo raggiungo quando mi lascio
raggiungere, quando mi fermo, quando accetto che il suo sguardo si
posi su di me e il suo cuore si riempia di compassione. Ho bisogno di
sentirmi dalla parte della folla, dei poveri, degli ultimi... e quando ho
il coraggio di farlo, vengo raggiunto dalla compassione di Gesù, che
mi dice: «Ti voglio bene proprio perché sei così». Una delle situazioni
più tristi della vita è quando decidiamo di sottrarci a uno sguardo
così, quando pensiamo di poter fare a meno dei suoi gesti, della sua
compassione.
✴ Guardare il fratello con compassione non è uno sforzo di volontà, ma
un moto dello Spirito che mi fa uscire da me stesso, per incontrare lo
sguardo dell’altro.
✴
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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO
FAUSTINA KOWALSKA
«Amate Dio, perché è buono e di grande misericordia!»
E
lena Kowalska – terza di dieci figli – nasce da una famiglia contadina nel
1905 in un paesino della Polonia. La piccina ha il compito di condurre le
mucche al pascolo; qualche volta ha strani dialoghi interiori e visioni. Frequenta
due classi elementari, quindi inizia a lavorare come cameriera. A quindici anni
dice in casa che deve farsi religiosa, ma per il papà è un’impossibile fantasia:
non ci si può fare suore senza avere una dote. Davanti al rifiuto Elena prova a
«distrarsi» frequentando i balli domenicali. Un giorno, però, accade qualcosa:
«Non appena cominciai a ballare, vidi improvvisamente vicino a me Gesù
martoriato, spogliato dalle vesti, tutto coperto di ferite, che mi disse queste
parole: «Fino a quando ti dovrò sopportare? Fino a quando mi ingannerai?»».
Fuga a Varsavia
Parte senza dir nulla ai genitori, dopo essersi confidata solo con una
sorella. Ha soltanto i soldi per il treno, e una voce interiore che la guida.
A Varsavia un prete la indirizza a una famiglia in cui c’è bisogno di una
bambinaia. La sistemazione le permette di mettersi alla ricerca del convento giusto, ma nessuno vuol saperne di lei: appena si tocca il tasto
della dote, le porte si chiudono. A vent’anni si presenta al convento delle
Suore di Nostra Signora della Misericordia. La Superiora, dopo un breve
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dialogo, spinta da uno strano impulso interiore, le dice: «Va’ a chiedere al
Padrone di casa, se ti vuole!». Elena ricorda: «Andai con grande gioia nella
cappella e chiesi a Gesù: «Signore di questa casa, mi vuoi tu?», e subito
udii una voce che mi diceva: «Ti voglio, sei nel mio cuore!». Tornata che
fui, la Madre mi domandò: «Ebbene, ti ha ricevuto il Signore?». Risposi di
sì. «Se il Signore ti ha ricevuta, ti ricevo anch’io»».
In convento, suora coadiutrice
Nel 1925 diviene postulante tra le suore coadiutrici, quelle che si
occupano dei lavori di casa. Elena si ritrova a lavorare in cucina e – nei
momenti liberi – nell’orto e nel panificio. È sorpresa: aveva desiderato il
convento per poter dare più tempo a Dio, nel silenzio e nel dialogo con
Lui, e ora di tempo e silenzio non ne ha più... comincia a dubitare d’aver
capito male la volontà di Dio e si mette a pregare: «La cella si illuminò e
vidi sulla tenda il volto di Gesù assai addolorato: tutto il suo volto era
coperto da piaghe vive, e grandi lacrime cadevano sulla sopracoperta del
mio letto. Non sapendo che cosa volesse significare tutto ciò, domandai
a Gesù: «Chi è stato a procurarti un simile dolore». E Gesù disse: «Tu mi
procurerai tale dolore se uscirai da questa congregazione religiosa. Qui
e non altrove io ti ho chiamata, e qui ho preparato per te molte grazie»».
Da quell’istante, viene liberata per sempre dalla tentazione di credere che
Dio possa essere amato e contemplato solo quando le condizioni sono
favorevoli. Impara così ad amarlo e vederlo tra le pentole e i fornelli, quando
ha la zappa in mano ed è sporca di terra, anche quando è attorniata da
un continuo e logorante via vai di gente indaffarata.
Annunciare al mondo la Misericordia di Dio
Nel noviziato assume il nome di suor Faustina e qui le si rivela il grande,
terribile disegno che Dio ha su di lei: annunciare al mondo la Misericordia
di Dio. Sembra bello a dirsi, ma in un attimo Faustina intravede le indicibili
sofferenze che le sono riservate. Dio chiede sempre che la sua parola si
incarni, come ha fatto con suo Figlio. Se è con la misericordia che Dio
risponde alla nostra perdizione, salvandoci dalla dannazione, allora solo
chi è stato a un passo dalla dannazione, e si è ormai creduto dannato,
potrebbe davvero parlare consapevolmente di questa misericordia.
Santa Faustina Kowalska ebbe la missione di scendere là dove poteva
essere sperimentato tutto il dolore dei dannati, e tutto il disprezzo e la
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derisione del mondo, continuando a sognare, a immaginare, a dire che
Dio è... soltanto misericordia.
Abbandonata da Dio...
«Alla fine del primo anno di noviziato, comincia a farsi buio nella mia
anima. Non sento nessuna consolazione nelle preghiere; la meditazione mi
costa grande sforzo; comincia ad afferrarmi la paura; penetro più a fondo
in me stessa e non scorgo nulla, all’infuori di una grande miseria. Eppure
vedo chiaramente la grande santità di Dio; non oso alzare gli occhi fino a
Lui, ma mi prostro nella polvere e, ai suoi piedi, mendico misericordia... Al
pensiero che dovrò pronunciare i voti, l’anima mia rabbrividisce; qualsiasi
cosa io legga non la capisco; non sono in grado di meditare, mi pare che
la mia preghiera non sia accetta a Dio e, quando mi accosto ai sacramenti,
mi pare di offendere il Signore... A un certo momento mi venne con grande
insistenza il pensiero di essere reietta da Dio, un pensiero spaventoso che
mi trafisse da parte a parte... questa è una tortura che soffrono davvero
i dannati... Mi recai davanti al Santissimo Sacramento e cominciai a dire
a Gesù: «Gesù, tu hai detto che è più facile per una madre dimenticare
il suo bambino, che per te dimenticare la sua creatura... Gesù, ascolta
come geme l’anima mia...!», Non riuscii però a trovare sollievo nemmeno
per un istante... La disperazione si è impadronita di tutta la mia anima...».
«Tornata dall’aldilà...», ma le prove sono solo all’inizio
Quando la prova finisce è cambiata radicalmente: «Mi sembra di
essere tornata dall’aldilà...». Comincia, però, a pesare su di lei lo sguardo
sospettoso di alcune consorelle. C’è anche chi la considera un’illusa,
una malata di mente. Altre pensano che la ragazza sia caduta in preda
al demonio; o sia stata travolta dal proprio orgoglio.
La sua vita è immersa in umili lavori: cuoca, giardiniera, venditrice di
pane, portinaia. Diranno alcune testimoni: «Non si distingueva in nulla dalle
altre sorelle», ma altre affermeranno: «Era molto diversa da tutte noi... Amava il Signore Gesù così teneramente come gli sposi... Pensava solo a Lui».
«Gesù confido in te»
Nel 1931 Dio le parla: «Vidi Gesù con una veste bianca; teneva una
mano alzata per benedire e l’altra toccava sul petto la sua veste; dalla
veste socchiusa sul petto uscivano due grandi raggi, uno rosso e l’altro
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bianco... Dopo un istante, Gesù mi disse: “Dipingi un quadro secondo
l’immagine che vedi, con sotto la scritta: Gesù confido in te. Desidero
che questo quadro venga venerato nel mondo intero...”». Riferisce la
visione al confessore che le risponde: «La cosa riguarda la tua anima.
È nell’anima tua che devi dipingere l’immagine di Dio». Gesù, dentro al
suo cuore, ribatte subito: «La mia immagine, nell’anima tua, c’è già. Io
invece desidero che vi sia una festa della mia misericordia: voglio che
questo quadro, da te dipinto con un pennello, venga solennemente
benedetto la prima domenica dopo Pasqua e che questa domenica
diventi la festa della Misericordia... Desidero che i sacerdoti annuncino
questa mia grande misericordia... Anche se l’anima fosse come un cadavere in putrefazione, anche se umanamente non ci fosse più rimedio,
non è così davanti a Dio... Nessun peccatore, fosse pure un abisso di
abiezione, esaurirà mai la mia misericordia, perché più vi si attinge e
più aumenta... Io sono più generoso con i peccatori che con i giusti,
perché è per loro che sono sceso sulla terra. È per loro che ho versato
il mio sangue... La festa della Misericordia è nata nel mio cuore per la
consolazione del mondo intero...».
Dio, per annunciare al mondo intero la sua misericordia, ha scelto
una suorina derisa già nel suo stesso convento. Confessori e superiori la
avvertono del rischio di cedere a strane suggestioni interiori e parlano di
illusioni. Lei prega: «Gesù, sei tu, il mio Dio, o sei qualche fantasma?». E
Gesù sorride e la benedice. Tra le consorelle c’è chi la chiama stravagante, isterica e visionaria; qualcuna la spia per sorprendere qualche strano
comportamento e qualcun’altra «prova piacere a tormentarla».
Nel 1933 viene inviata a Wilno, in Lituania. Qui riceve un vero Direttore
spirituale che la fa visitare da uno psichiatra e, dopo aver ricevuto una
diagnosi di sanità mentale, comincia a prenderla sul serio. Le impone di
scrivere un diario. Gesù è d’accordo: «Scrivi sulla mia misericordia». «E se io
scrivessi sulla tua misericordia cose esagerate?», chiede Faustina. «Anche se
tu parlassi contemporaneamente tutte le lingue degli uomini e degli angeli,
non diresti mai troppo della mia misericordia!» ribatte Gesù.
Il confessore, alla fine, fa realizzare il dipinto; a Faustina non piace
affatto, ma Gesù si contenta e spiega il significato dei due raggi di luce:
l’acqua e il sangue usciti dal suo costato sulla croce. Ora «Gesù esige che
il nuovo quadro venga esposto nel santuario di Ostra Brama durante il
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triduo che deve chiudere il Giubileo della Redenzione, la prima domenica
dopo Pasqua». Sembra impossibile, ma, contro ogni speranza, ci riescono.
Fondare una congregazione
Faustina, a Wilno, svolge l’ufficio di ortolana, dalla mattina alla sera,
come una qualunque operaia. La sua missione sembra conclusa, ma Gesù
le chiede ora di fondare una congregazione dedita a diffondere nel mondo
il mistero della Divina Misericordia. Faustina prega: «Signore, non ne sono
capace». Gesù ribatte: «Da te stessa non riusciresti a fare nulla, ma con
me puoi fare ogni cosa». Il confessore, per metterla alla prova, le chiede di
scrivere le regole del nuovo Istituto, convinto che Faustina non saprebbe
nemmeno da dove iniziare, ma lei scrive «sotto dettatura di Gesù». Il
testo che consegna è un tale capolavoro di equilibrio, armonia e saggezza pedagogica che il sacerdote smette di dubitare. Le superiore, invece,
dubitano eccome, e comincia una dolorosa lacerazione: da un lato Gesù
insiste nel suo progetto, dall’altro le superiore si oppongono. Faustina sa
perfino che Gesù vuole che lei obbedisca loro, e tuttavia – paradossalmente – sente anche che egli non recede dai Suoi disegni. È Gesù che la
manda ed è Gesù che la trattiene, e lei subisce l’inevitabile lacerazione.
Malata non creduta
È malata, lo sanno solo lei e il Signore, le restano due anni appena
di vita. La inviano a Cracovia. È malata ai polmoni, spesso ha la febbre,
ma le superiore – di solito piene di carità con le malate – sembrano stranamente accecate quando si tratta di lei: le danno consigli spirituali per
esortarla a «prender familiarità con la sofferenza». L’infermiera, poi, ha
deciso che quella giovane suora si vezzeggia troppo: «Suor Faustina vuole
essere santa», dice, «ma non lo diventerà mai, perché si crogiola come
una principessa». L’idea che ella sia una privilegiata alla quale è concesso
un particolare e immeritato riposo, acceca molte consorelle. Il fatto di
vederla sempre dolce e sorridente le conferma nel loro sospetto. In realtà la
poverina è allo stremo, ma non si accorgono nemmeno che non riesce più
a mangiare, perché la tubercolosi ha cominciato ad attaccare gli intestini.
Nel dicembre del 1936, temendo il contagio, la mandano in un sanatorio. Dopo alcuni mesi, dichiarandola guarita, la rimandano in convento,
il che vuol dire – pensano tutte – che finalmente può ricominciare a
lavorare. A volte non ce la fa più e chiede di poter riposare. Non è raro
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che si senta dire: «Ma che fatiche ha sostenuto, sorella, che debba andare
ancora a coricarsi? Vada a farsi benedire con queste smanie di coricarsi».
All’inizio del 1938, non riesce ad andare alla Messa di Capodanno.
«Una festa simile e lei non va nemmeno alla messa» le dice l’infermiera
con disprezzo e la lascia due giorni senza cure, prendendo l’occasione
per farle predicozzi sulla virtù. La superiora le dice infastidita: «Sorella,
è ora di finirla con questa malattia... Così non può durare», facendole
capire che, una suora che si rispetti, ha il dovere di guarire o di morire.
Anche questi episodi fanno parte della missione di Faustina. Come
le è stato comandato da Gesù, lei annota tutto nel suo «piccolo diario»,
«a consolazione di altre anime che saranno esposte a simili sofferenze».
«Con la grazia di Dio, ho ricevuto nel cuore la disposizione di non essere
mai così felice come quando soffro per Gesù che amo con ogni palpito
del mio cuore». Gesù vuole associarla alla Sua passione, per la salvezza
dei lontani e dei perduti. Lei prega così: «Gesù, trasformami in te perché
io sia il tuo riflesso vivente... Aiutami: fa’ che i miei occhi siano misericordiosi..., fa’ che il mio udito sia misericordioso..., fa’ che la mia lingua
sia misericordiosa..., fa’ che le mie mani siano misericordiose..., fa’ che i
miei piedi siano misericordiosi..., fa’ che il mio cuore sia misericordioso».
Muore il 5 ottobre 1938, a trentatré anni, l’età del suo Sposo Gesù. Ha
lasciato scritto: «Amate Dio, perché è buono e di grande misericordia!».
***
Giovanni Paolo ii il 3 aprile del 2000 ha canonizzato Faustina Kowalska
e il 5 maggio di quello stesso anno ha istituito la Festa della Divina Misericordia, da celebrarsi ogni prima domenica dopo Pasqua.
Il 2 aprile 2005 – proprio nei primi vespri di quella festa – Papa Wojtyła
stesso è nato al cielo.
✴
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ii tappa
LA PARABOLA
DEL BUON SAMARITANO
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LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO
MISERICORDIA
E OPERE CORPORALI
E
d ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù
gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta
la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo
prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo
e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio
prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a
Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo
percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per
caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando
lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e
passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli
accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò
le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura,
lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò
fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui;
ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». Chi di questi
tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei
briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù
gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così»54.
PER LEGGERE IL VANGELO
«Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Nel grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme55, gli viene richiesto di indicare la
54
55
Luca 10, 25-37.
«Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la
ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» Luca 9, 51.
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strada che conduce alla vita eterna. «Che cosa sta scritto nella Legge?
Come leggi?». Gesù non rifiuta di dare chiarimenti e addita la strada
abituale, quella che tutti conoscono e possono percorrere, quella
indicata dalla Legge. Non si devono cercare, quindi, scorciatoie e altre
strade. È lo stesso dottore della Legge che aveva posto la domanda
a Gesù, a citare i passi dove si parla dell’amore a Dio e al prossimo.
«Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Gesù approva la risposta,
cui imprime un vistoso carattere operativo: «Fa’ questo». La domanda iniziale verteva sul fare («che devo fare per») e di conseguenza
la risposta indica come comportarsi.
«E chi è il mio prossimo?». Il dottore della Legge cerca di parare
il colpo e di scansarsi dall’impegno concreto, preferendo disquisire
con un’altra domanda. Gesù risponde proponendo la parabola
del buon Samaritano e arrivando alla medesima conclusione: «Va’
e anche tu fa’ lo stesso». La vita di fede si gioca sul terreno della
concretezza dell’esistenza quotidiana56.
La parabola prende le mosse dalla domanda del dottore della
Legge: «Chi è il mio prossimo?», domanda chiaramente tendenziosa,
mirante a cogliere Gesù in fallo57. Il mondo giudaico non riusciva
ad accordarsi serenamente sul concetto di prossimo. Certamente
rientrava nel concetto ogni israelita e poi il forestiero che aveva
fissato la sua dimora in Israele, come prescrive il libro del Levitico58.
Perché il lettore non si illuda che la vita cristiana sia solamente un fare e un fare
qualunque, l’evangelista ha sapientemente fatto seguire il brano di Marta e Maria
(10, 38-42), dove si privilegia l’ascolto rispetto al fare. Quindi, sembra suggerire
Luca, si deve distinguere tra fare e fare. C’è un fare doveroso e inderogabile come
quello del buon Samaritano, e c’è un fare che – non urgente – può essere rimandato per cedere il posto all’ascolto della parola di Gesù. Questi merita la precedenza
rispetto a qualsiasi attività e solo dopo un’attenzione a Lui, per essere riempiti
del suo amore, si potrà operare, riversando sugli altri quell’amore che è stato precedentemente ricevuto in dono. Solo così amore di Dio e amore del prossimo si
integrano e portano a perfezione la vita del credente.
57
Il termine italiano prossimo deriva dalla forma superlativa del latino prope, cioè il
vicinissimo.
58
«Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in Egitto. Io sono il Signore
vostro Dio» (Levitico 19, 34).
56
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E il forestiero di passaggio? Le scuole rabbiniche si dividevano su
questo punto: c’era chi era favorevole a riconoscerlo come prossimo e chi no. Tutte, poi, erano concordi nell’escludere dal concetto
di prossimo il nemico. Poiché per gli ebrei i peggiori nemici erano
coloro che attentavano all’integrità e alla purezza della loro fede,
gli eretici Samaritani erano sicuramente esclusi dal concetto di
prossimo. Mai un giudeo avrebbe salutato o tanto meno prestato
qualsiasi forma di aiuto a un Samaritano.
Origine dei Samaritani
I Samaritani sono propriamente gli abitanti di Samaria, nome
che designa sia la regione centrale della Palestina, sia la capitale
della stessa regione. La loro notorietà evangelica non è legata a
motivi geografici, bensì religiosi. Ecco in breve la loro storia.
Nel 721 a.C. il re assiro Sargon II pone fine al Regno del Nord e
distrugge la sua capitale, Samaria. Secondo le usanze militari del
tempo, parte della popolazione locale viene deportata e alcune
persone straniere sono importate. A partire da questo momento,
il gruppo locale, composto originariamente solo da ebrei, finisce
per mescolarsi con i nuovi venuti che introducono usi e costumi
diversi, e, soprattutto, favoriscono il culto di divinità straniere. La
popolazione che ne risulta, si presenta ibrida dal punto di vista
etnico, culturale e religioso. Gli ebrei presenti sono considerati
eretici dagli altri ebrei e chiamati semplicemente Samaritani senza
ulteriori specificazioni59.
Al tempo di Gesù i rapporti con i Samaritani erano molto tesi,
proprio ai ferri corti. L’odio era viscerale e si evitavano al massimo
i contatti. Lo stesso nome di Samaritano era in bocca a un giudeo
una grave offesa: non fu risparmiata neppure a Gesù, che un giorno
59
La situazione si acuisce quando i Samaritani vedono rifiutata la loro offerta di collaborazione agli ebrei ritornati da Babilonia e impegnati per la costruzione del tempio
e delle mura di Gerusalemme. In seguito a questo rifiuto, verso il 330 a.C., costruiscono sul monte Garizim un tempio concorrenziale a quello di Gerusalemme.
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si sentì dire: «Non diciamo noi con ragione che sei un Samaritano
e hai un demonio?»60.
Con queste premesse poco lusinghiere, si comprende l’audacia
di Gesù nel presentare la parabola del Samaritano che soccorre e
diventa esempio per un giudeo. Una chiara provocazione!
La parabola
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico». Sebbene fittizia,
la parabola è ambientata realisticamente nella zona del deserto di
Giuda, nel tratto che da Gerusalemme conduceva a Gerico. Per coprire quella trentina di chilometri si impiegavano 5 o 6 ore passando
in una zona inospitale, ricca solo di anfratti e di luoghi scoscesi:
un luogo ideale per predoni, perseguitati politici e tutti coloro che
avevano i conti in sospeso con la giustizia. Gesù, proponendo la
parabola ai suoi ascoltatori, richiama loro un luogo tristemente
famoso e permette loro di ambientarsi facilmente nel racconto.
«Cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto [...]
lasciandolo mezzo morto». Il dato di partenza è la situazione di
bisogno in cui versa lo sventurato che, assalito e depredato, si
trova «mezzo morto» lungo la strada. Le persone che transitano
sulla medesima strada sono tre, in realtà si potrebbero ridurre a due
personaggi, perché sacerdote e levita sono riprodotti in fotocopia. Il
sacerdote è probabilmente diretto a casa, dopo il servizio al tempio.
La vista del malcapitato non lo spinge a intervenire, e prosegue.
Comportamento analogo da parte del levita, membro cioè di quella
categoria affine a quella sacerdotale, con compiti di custodia e di
protezione del tempio. Entrambi vedono e passano oltre. Perché
questo assurdo comportamento? Si è voluto parzialmente giustificare i due, ricordando la loro mentalità e formazione religiosa:
per non contaminarsi, era importante evitare scrupolosamente
ogni contatto con i cadaveri, secondo la prescrizione del libro del
60
Giovanni 8, 48.
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Levitico61. La situazione dell’uomo «mezzo morto» poteva essere
facilmente assimilabile a quella di un cadavere. Anche accettando
come possibile questa interpretazione, la sostanza non cambia.
Nella rappresentazione del sacerdote e del levita Gesù polemizza
con il ritualismo giudaico, tanto scrupolosamente attento alle formalità quanto consapevolmente lontano dalla carità. È riprovevole
che i due preferiscano conservarsi intatti davanti a Dio, piuttosto
che prestare soccorso a un disgraziato.
«Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto,
vide e ne ebbe compassione». Passa per la medesima strada un Samaritano. Lo spettacolo non lo lascia insensibile. Con tutta probabilità
il disgraziato che giace a terra è un giudeo, un rivale quindi, ma
ciò non impedisce l’intervento del soccorritore che agisce in nome
del bisogno presente. Anche lui «vide» e da questo vedere nasce
un «ebbe compassione», sentimento che mette in moto tutta una
serie di interventi operativi. Prima di parlarne, occorre mettere a
fuoco la causa che li ha generati. La compassione è affidata a quel
ricco verbo greco (splangnizomai), attestato anche per l’intervento del padre nella parabola del Padre misericordioso62. Il termine
denota un’intima partecipazione all’evento, una compassione che
non nasce dalla commiserazione, da un’istintiva solidarietà con
gli sfortunati, ma proviene dalla radice più pura dell’amore, dalla
sorgente stessa della vita. Viene addirittura richiamata la tenerezza
materna: è questione di viscere, non di testa soltanto. Ancor più
evocativo è questo termine, se teniamo presente che nella suddetta
parabola era stato attribuito al padre, chiara rappresentazione di
Dio stesso. Già qui si riconosce il salto qualitativo del Samaritano
cui vengono attribuiti nientemeno che sentimenti divini! È tanto
forte e tanto vera questa nuova commozione nata in lui alla vista
dello sventurato, che nemmeno pensa a fare spazio a possibili
«Un sacerdote non dovrà rendersi immondo per il contatto con un morto della sua
parentela, se non per un suo parente stretto» (Levitico 21, 1).
62
«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro,
gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15, 20).
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risentimenti o a vecchie ruggini: non si sofferma a considerare che
è un odiato giudeo, ma interviene perché c’è un urgente bisogno;
nemmeno lo trattiene il pensiero del viaggio intrapreso, e quindi
eventuali impegni o appuntamenti che lo potrebbero sollecitare.
Il momento presente, tanto carico di sofferenza per il povero disgraziato, occupa totalmente l’orizzonte del suo interesse. Tutto
il resto passa in seconda linea: se è un rancore, si dimentica; se è
un impegno, si rimanda.
«Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi
lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura
di lui». L’espressione «ebbe compassione», che potrebbe richiamare
solo un vago sentimento, produce in realtà una serie di azioni
molto concrete, per questo viene affiancata e illustrata da quel
«gli si fece vicino», premessa dei successivi interventi operativi.
Qui si capisce bene il concetto di prossimo: si intende colui che,
superando possibili e a volte anche ragionevoli ostacoli, è pronto a
offrire generosa collaborazione. Prossimo si diventa: prossimo non
è necessariamente colui che ha già dei rapporti di sangue, di affari
con un altro. Prossimo si diventa nel momento in cui, davanti a un
uomo – anche al forestiero o al nemico – si decide di compiere quel
passo che avvicina. Farsi vicino è già farsi prossimo, rendersi attento
e disponibile all’altro, proprio come il Samaritano che modifica i suoi
progetti in funzione dell’altro: prima la persona, poi i programmi
e le ideologie. Il Samaritano mette in atto una serie di interventi.
Gesù si attarda fin nel dettaglio, quasi a ricordare che il vero amore
fa appello all’intelligenza, alla volontà, al buon senso, alla fantasia,
all’ingegnosità, insomma, a tutte le risorse della persona umana.
Questo per combattere ancora una volta la semplicistica equivalenza
di amore e sentimento, un’identificazione spesso reclamizzata e,
altrettanto spesso, falsa. Il vero amore è una realtà complessiva,
capace di attingere a tutta la ricchezza della persona. Il Samaritano
incomincia con l’improvvisarsi infermiere e interviene come meglio
può, con i mezzi di cui dispone: vino e olio. Poi, utilizzando la sua
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cavalcatura come autoambulanza, trasporta il poveretto a un pronto
soccorso improvvisato.
«Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore,
dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò
al mio ritorno”». Di lui si interessa e si interesserà. Si interessa
sborsando due denari – l’equivalente di due giornate lavorative –
tanto più preziosi quanto più si considera che non ogni giorno si
poteva trovare lavoro e, quindi, guadagnare. Rimane un poco con
lo sventurato, forse quanto basta per rendersi conto che la situazione va migliorando, e solo «il giorno seguente» riprende il viaggio,
impegnandosi a sborsare di più al ritorno, qualora fosse necessario.
All’interessamento presente fa riscontro l’interessamento futuro.
Non si è trattato di un aiuto sporadico, momentaneo, affrettato,
di un soccorso solo perché non si poteva farne a meno. L’aiuto
contiene tutte le caratteristiche dell’amore: avvicinamento, attenzione all’altro, farsi carico dei suoi problemi, pagare di persona sia
in denaro sia in tempo, interessamento presente e futuro. E notare,
tutto questo senza che sia registrata una parola63. Qui si riportano
solo i fatti che hanno l’eloquenza della concretezza.
La domanda finale
«Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è
caduto nelle mani dei briganti?». Alla fine del suo racconto, Gesù
pone la domanda al dottore della Legge. È lui che ora interroga.
Gesù sposta l’asse della discussione, e non risponde alla domanda
teorica, astratta su «Chi è il mio prossimo?», preferendo dimostrare
con un esempio come si diventa prossimo, che cosa si deve fare
per diventare prossimo, come ci si deve avvicinare all’altro, sia con
i sentimenti sia con gli interventi concreti. Lo spostamento consiste in ciò: non gli altri verso di te, ma tu verso gli altri. Il punto
saliente della parabola sta nel concetto che se uno davvero ama,
sa trovare da sé il suo prossimo, quello che ha bisogno. Il bisogno
63
Quante volte, purtroppo, si fa un gran parlare, piani faraonici, progettazioni pluriennali, discussioni e sedute-fiume... per arrivare spesso a nulla di fatto.
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è titolo sufficiente perché si debba intervenire, come si può e con
i mezzi a disposizione, senza tentennamenti, rimpianti, proroghe
o demandando agli altri.
«Va’ e anche tu fa’ così». Non è solo il dottore della legge ad
imparare chi è il prossimo; anche il lettore della parabola evangelica,
il cristiano di tutti i tempi, non potrà esimersi dai suoi impegni o
sottrarsi alle sue responsabilità, nascondendosi dietro una giustificazione ipocrita, quale «non sapevo» o «tocca agli altri». Chi
ha ascoltato la parabola, deve passare all’azione64. La parabola si
chiude con una rovente battuta, un duro colpo per la presunzione
farisaica. Dire a un dottore della legge e, attraverso lui, a tutto il
gruppo farisaico: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso», cioè «comportati
bene come ha fatto il Samaritano», equivale a una dichiarazione di
guerra. Come è possibile che un esperto della legge divina impari
da un eretico? La scelta di Gesù del personaggio Samaritano include
pure la lezione che tutti sono potenziali maestri ed hanno qualcosa
da insegnare, come pure tutti sono potenziali discepoli ed hanno
qualcosa da imparare.
PER VIVERE IL VANGELO
Le opere di misericordia corporali
La parabola non intende semplicemente proclamare un generico amore verso l’uomo: sarebbe troppo poco per essere vangelo;
dimostra piuttosto che chi ama il prossimo, ha accolto in sé la
stessa passione di bene che Dio ha verso i suoi figli. Questo spiega
la comunione intima fra il comandamento dell’amore a Dio e quello
64
Sulla necessità della prassi Gesù si era già espresso: «Perché mi chiamate: Signore,
Signore e poi non fate ciò che dico?» (Luca 6, 46). Solo chi ascolta e mette in pratica
è come l’uomo saggio che costruisce la sua casa sulla roccia, sicuro che nulla riuscirà ad abbatterla (Cfr. Matteo 7,24-25).
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La parabola del buon samaritano
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dell’amore al prossimo, che sono in realtà due facce dell’unica
medaglia, perché non è possibile l’uno senza l’altro65.
Gesù dice: «siate misericordiosi, come il Padre vostro è
misericordioso»66, ma la misericordia non è semplicemente un’emozione: essa nasce come acuta risonanza in me del soffrire altrui,
ma diventa poi prassi, azione, amore concreto, operativo, pratico67.
La misericordia la si fa: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso». Il capitolo 25 di
Matteo enumera tutta una serie di opere concrete sulle quali saremo
giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete
e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi
avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti
a trovarmi»68. Proprio a partire da questo testo, nel xii secolo, venne
a stabilirsi una lista convenzionale di sette opere di misericordia,
quelle che chiamiamo corporali69. Ovviamente questo elenco non va
inteso in senso restrittivo, quasi che solo le situazioni e le categorie
di bisognosi indicate debbano essere destinatarie dell’aiuto, ma in
senso indicativo della molteplicità di atti di misericordia che possono
nascere dall’esperienza dell’amore di Dio e realizzano il comando
dell’amore del prossimo70. Dovremmo chiederci: come rispondiamo
Come una medaglia a una sola faccia è falsa, così la mancanza di uno dei due
aspetti invalida l’altro. Non si può separare Dio dall’uomo e l’uomo da Dio. Per
questo non si può prediligere l’uno e misconoscere l’altro. Ignorare l’uomo significa non aver conosciuto Dio, e la misura dell’amore a Dio è l’uomo, che è la sua
immagine più perfetta.
66
Luca 6, 36. Prima di essere un comando, queste parole sono la rivelazione di una
possibilità: esse attestano la possibilità per l’uomo di partecipare alla misericordia
di Dio, ovvero di dare vita, di mostrare tenerezza e amore, di fare grazia, di soffrire
con chi soffre, di sentire l’unicità dell’altro e di essergli vicino.
67
Così avviene per il Samaritano della parabola, che fa tutto ciò che è in suo potere per
alleviare concretamente le sofferenze dell’uomo lasciato moribondo ai lati della strada.
68
Matteo 25, 35,36.
69
Le sei di Matteo 25 più la sepoltura dei morti attestata nel libro di Tobia: 1. Dare
da mangiare agli affamati; 2. Dare da bere agli assetati; 3. Vestire gli ignudi; 4. Alloggiare i pellegrini; 5. Visitare gli infermi; 6. Visitare i carcerati; 7. Seppellire i morti.
70
Che essi non vadano compresi in senso legalistico e non costituiscano una casistica, lo esprime bene sant’Ambrogio mostrando che è l’altro nel suo bisogno che
suscita la creatività e l’intelligenza della carità: «Sarebbe una grave colpa se un fedele, pur essendone tu informato, versasse nel bisogno; se tu sapessi che egli è senza
mezzi, patisce la fame, soffre tribolazioni, specialmente se si vergogna della sua in65
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a questa richiesta di Gesù? Nel mondo c’è tanta sofferenza alla quale
non si può rispondere con le belle parole, e neppure con le sole
preghiere. Quando è stata l’ultima volta che ho speso il mio tempo
con un ammalato o che ho speso soldi, energie e inventiva,per venire
incontro alle necessità materiali dei fratelli?
«Noi cristiani dovremmo coltivare questa sensibilità per il dolore
altrui [...] Gesù ci ha chiesto di vivere un amore fattivo, concreto,
reale, quell’amore che assume il nome di compassione, dopo
averci preceduto lui stesso in questo cammino»71. La compassione
si esprime in gesti concreti, a partire da quell’«invece» che, nella
parabola, introduce l’entrata in scena del Samaritano. Non è detto
che tu debba per forza, nella vita, passare oltre, non vedere, non
accorgerti; non devi dare per scontata l’indifferenza. C’è un modo
di vedere le cose che lascia spazio ai gesti della compassione: il
tuo prossimo è colui che tu decidi di rendere prossimo.
Occorre non passare oltre, ma passare accanto, avvicinarsi, farsi
prossimo. Proprio questo avvicinarsi, approssimarsi all’uomo ferito
permette al Samaritano di vedere davvero, e di provare quella commozione che diventa il motore di tutte le sue azioni successive.
La compassione di Dio non può fare a meno della concretezza
dei gesti, non può fare a meno di una prossimità estrema, di una
vicinanza che diviene cura.
Come il Samaritano, per accostarsi ad un uomo ferito, non si
può rimanere in piedi, o a cavallo. Occorre raccoglierlo da terra,
scendere con lui nella polvere. In questo gesto c’è tutta la parabola
della vita di Gesù, c’è il gesto di lui chinato sui piedi dei discepoli
nell’ultima cena, il suo rendere nulla se stesso di cui parla san Padigenza; sarebbe grave colpa la tua se, ridotto in schiavitù dai suoi o calunniato, tu
non lo aiutassi; se un giusto si trovasse in carcere per debiti, tra pene e tormenti, e
non ottenesse nulla da te nella sua sofferenza; se nel momento del pericolo, quando
viene condotto a morte, per te fosse di maggior valore il tuo denaro della vita di chi
sta per morire» (Ambrogio di Milano, Trattato sui doveri, I, 30, 148-150).
71
Enzo Bianchi, op. cit., p. 54-55.
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olo72. C’è qui da riflettere sulla difficoltà che proviamo a toccare
davvero la sofferenza altrui. Il Samaritano oltrepassa di slancio
quella istintiva ripulsa, quella paura di coinvolgersi troppo che,
purtroppo, ci affligge spesso e diventa una barriera di vetro fra noi
e il dolore degli altri.
Da qui, da terra, il Samaritano comincia la sua opera di medico
paziente. E versa «olio e vino», dice la Scrittura. C’è una compassione dell’olio che lenisce ma non guarisce; c’è bisogno anche del
linguaggio forte del vino che può anche far male, ma senza il quale
la ferita non si rimargina, la piaga non si disinfetta. I gesti della
compassione sanno miscelare con sapienza olio e vino, e sanno
usarli al momento giusto.
Il Samaritano fascia le ferite, le copre con gesto che deve essere insieme delicato e preciso, tenero e quasi professionale, ci
verrebbe da dire. Dove ha imparato un gesto così, quest’uomo?
Senza tradire l’intenzione del testo biblico, si può dire che ha
imparato a curare e guarire, perché guarito e curato lui stesso
da qualcuno, nel momento in cui ne aveva avuto bisogno. È da
guaritori feriti che possiamo vivere la solidarietà e la forza dei
gesti della compassione.
Il Samaritano, poi, è disposto a pagare di persona: ci rimette
del suo, presumibilmente a fondo perso, senza che sia sperabile
qualunque tipo di risarcimento.
Nello stesso tempo, però, non si attacca alla persona che sta
aiutando, non lascia i suoi affari per dedicarsi interamente a lui, non
lo lega a sé con debiti di riconoscenza. Si fida dell’albergatore: è convinto che altri come lui, forse meglio di lui, sapranno prendersi cura
dell’uomo ferito, e condurlo alla salvezza. Lo troverà ancora al suo
ritorno, quando passerà per pagare la rimanenza? Probabilmente no,
ma non importa. Il Samaritano ha trovato la via sapiente di chi vive la
carità e la compassione senza soffocare nessuno e senza attendersi
72
«[Cristo Gesù] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Filippesi 2, 7).
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nulla in cambio; il suo andarsene non è segno di disinteresse, ma
un modo semplice per vivere la gratuità dei gesti di amore.
Il Samaritano dispiega una carità creativa, carica di gesti di
attenzione. Anche a noi viene chiesto non solo di fare il bene,
ma di farlo bene. La compassione è sempre pronta nell’imboccare
nuovi sentieri, sempre attenta al bene del povero.
E se qualche volta quel povero sono io, siamo noi, il Signore ci
dia la gioia di ringraziare per chi ci ha curato con olio e vino, ci ha
caricato sulla sua cavalcatura e ci ha portato a casa.
✴
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APPUNTI DELLA CATECHESI:
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IL PROPOSITO:
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LA REVISIONE DI VITA:
LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho
accolto la sua Parola?
I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia,
nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di
costruzione dell’amore?
I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono
stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?
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LA COMPASSIONE DI GESÙ
LA COMPASSIONE E LE RELAZIONI FERITE
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enne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva:
«Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo
toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò
via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece,
a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè
ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto,
tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma
rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte73.
Qualche considerazione per leggere il testo
✴«Venne da lui un lebbroso». Gesù, che era appena fuggito da chi lo
cercava e lo acclamava, non prende, invece, nessuna precauzione per
evitare questo incontro scomodo, per sfuggire a questa imbarazzante vicinanza con un uomo da cui bisogna stare alla larga, del quale
bisogna evitare la compagnia, con cui non c’è nulla da guadagnare,
e c’è solo da perdere. Stavolta Gesù si rende reperibile, avvicinabile,
anzi, riduce le distanze, non si trincera dietro la severità della Legge
che lo separerebbe per sempre da colui che gli sta di fronte.
✴«Lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi”».
Il lebbroso non lo chiama né Maestro, né Signore, né Gesù, né Nazzareno, né con qualunque altro nome. «Se vuoi, puoi purificarmi»: è
tutto quanto riesce a dire.
✴«Ne ebbe compassione». In tutto il primo capitolo la compassione di
Gesù traspariva dai molti prodigi e miracoli operati, ma solo qui si
parla esplicitamente di un Gesù che si muove a compassione, forse
per la forza della supplica e la tristezza della solitudine dell’uomo
lebbroso. La forza della supplica, anzitutto: una supplica diretta, personale. Il lebbroso non è un malato come gli altri. È un uomo avvilito,
73
Marco 1, 40-45.
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La compassione di Gesù
costretto a vivere la propria storia e la propria vocazione con addosso
un insopportabile senso di fallimento. È prostrato nell’atteggiamento
di chi prega, ma è prostrato anche al modo di colui che non potrà
mai più elevarsi allo stato della piena dignità di uomo. Perfino le sue
parole, così concise, tradiscono questo sconforto senza rimedio. «Se
vuoi...»; è come se dicesse: «Forse nemmeno tu vuoi, forse nemmeno
tu mi vuoi bene». Il lebbroso è convinto dentro di sé che per lui sia
impossibile qualunque forma di guarigione e di amore. È questa la
sua lebbra più profonda, quello che lo rende inavvicinabile e apparentemente inguaribile. Ma c’è un secondo motivo che ci permette di
capire meglio il perché della compassione di Gesù, ed è quello legato
al dramma della solitudine. Le norme a cui doveva attenersi il lebbroso
implicano l’assenza assoluta di possibilità di relazioni se non con i suoi
pari, reietti e rifiutati come lui. Il lebbroso è un uomo che non solo
è privo di relazioni, ma – quel che è peggio – ha perduto le relazioni
che aveva. Il suo, probabilmente, era lo stesso mondo di tutti, fatto
di traffici, di incontri, di scambi, di parole dette e ascoltate, magari
perfino di gesti di affetto e di amore. Tutto questo non c’è più, tutto
questo è perduto per sempre. Resta solo una solitudine senza fine,
disperata, nella quale, poco alla volta, si spegne la speranza di essere
amati.
✴«Tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato”». Di per
sé Gesù non ha bisogno di toccare qualcuno per guarirlo. Se tocca
il lebbroso, è perché lo vuole fare. E, nel farlo, va contro ogni forma
di convenienza, e perfino di legalità. Toccando un lebbroso rischia
di contrarre la sua malattia, o quanto meno la sua impurità, diventa
lebbroso lui stesso, si fa lebbroso lui stesso per poterlo guarire. La
compassione di Gesù diviene un farsi carico della miseria e della pena
dell’altro. Questo toccare di Gesù è il gesto della sua compassione,
quello che guarisce la disperazione legata a una vita, a un affetto, a un
amore, a una relazione che si credevano perduti e traditi per sempre.
✴«E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». Perché questo
«subito»? Perché in realtà il lebbroso è già guarito dentro. Prima ancora
della lebbra è stata guarita la sua capacità e possibilità di incontrare di
nuovo qualcuno. Se uno non ha avuto paura o schifo di lui, allora vuol
dire che c’è spazio per una vita diversa. Basta un tocco per far uscire
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La compassione di Gesù
dalla solitudine, anche se poi è lungo il cammino di purificazione e di
ripresa.
Spunti per vivere la compassione
✴ Capita di incontrare persone impermeabili a qualunque tipo di parola,
di discorso, di gesto di affetto. Troviamo la strada della compassione
sbarrata da un dolore che si rende inconsolabile, insensibile e sordo
a qualunque gesto di vicinanza e di attenzione. Questo ci fa capire la
complessità dell’atteggiamento della compassione, che da una parte
richiede un’enorme finezza (quante volte a fin di bene, per consolare o
aiutare qualcuno si creano disastri peggiori!), ma dall’altra non esclude una certa forza, una costanza che non si spaventa di fronte alle
resistenze. Provare compassione, consolare qualcuno, non significa
fare qualche carezza, entrare in un sentimentalismo a buon mercato.
Significa scontrarsi a volte con una volontà negativa che ci mette
spesso nella dolorosa condizione di scacco, di non poter aiutare, di
riconoscere anche un fallimento. Provare compassione significa riconoscere e accogliere anche questa parte di male che l’altro infligge a
se stesso, e non restarne scandalizzati.
✴ A volte la cosa che ci sconcerta di più è l’implacabile volontà di perdono da parte del Signore. Non ce ne sentiamo degni. Ci sembrerebbe
più giusto essere puniti, ma Dio non vuole vincere la partita con noi
attraverso la punizione. La vuole vincere con l’amore.
✴
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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO
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VINCENZO DE’ PAOLI
«I poveri sono le membra di Cristo»
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incent de Paul cresce con la voglia di uscire dalla miseria del villaggio,
nel sud-est della Francia, dove è nato nel 1581, da una famiglia di
contadini, dove fin dai 6 anni ha il compito di guardare i porci. Un signorotto locale, osservata la sua intelligenza, convince il padre a farlo studiare
presso un prete nella città più vicina. Fuggito dalla povertà, Vincenzo vive
dell’ambizione di costruirsi una carriera e, a diciotto anni, proprio per
questo, si fa ordinare prete. Qualche anno dopo si trova al seguito del
Legato pontificio che lo conduce con sé a Roma. Lì conosce l’ambasciatore
di Francia e con lui torna a Parigi, dove ottiene un’udienza dal re. Si fa
assegnare un beneficio ecclesiastico ed entra tra i cappellani della regina.
Un gesto di generosità gli apre una strada nuova
Un giorno qualcuno deposita nelle sue mani la favolosa somma di
15 mila lire-oro. L’indomani va all’Ospedale e lascia l’intera somma.
Ecco ciò che Dio si attendeva da lui. Ora vuol diventare prete sul serio,
impegnandosi generosamente nel ministero sacerdotale, nella parrocchia
della periferia di Parigi, assegnatagli. Si sente felice: «Sono felice perché
ho attorno a me un popolo tanto buono, tanto obbediente a quello che
gli dico... Neppure il Papa è felice quanto me!». Il direttore spirituale però
convince Vincenzo ad abbandonare la parrocchia per diventare precettore
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Ci hanno lasciato un esempio
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della nobile famiglia dei Gondi, una tra le più illustri e potenti. A trentadue
anni, trovandosi a fare una vita comoda, non tralascia tuttavia di occuparsi
dei poveri contadini delle tenute dei suoi signori e, vinto dal bisogno dei
poveri, segretamente fugge dal castello, per farsi parroco d’una misera e
abbandonata comunità.
Organizzare la Carità
Un giorno sta per iniziare la Messa domenicale, quando vengono a
dirgli che, in un casolare sperduto, un’intera famiglia muore nella più
assoluta indigenza: si sono ammalati tutti gravemente e nessuno riesce
a dare aiuto all’altro. Vincenzo sale sul pulpito e racconta, affidando al
cuore dei suoi cristiani quella famiglia abbandonata. Tutta la parrocchia si
muove e tanti vanno ad aiutare la famiglia bisognosa. Vincenzo, tuttavia
si irrita; la carità è sì grande, ma non è organizzata: a tutta l’abbondanza
di quel giorno sarebbero succeduti ben presto giorni di trascuratezza e di
privazioni. Così decide di riunire tutte le «signore» in associazione, dando
loro una regola nella quale tutto è previsto: come accostare la famiglia
bisognosa, come e con quale ordine garantire un servizio a rotazione,
come procurarsi gli aiuti necessari e tenerne la contabilità, come servire gli
ammalati per amore di Gesù, come dar loro da mangiare, come utilizzare
intelligentemente il tempo disponibile... Chiama l’associazione «Carità».
In breve la Francia è disseminata di gruppi chiamati «le Carità».
Intanto i de’ Gondi vogliono riavere il loro precettore e, dopo l’intervento dell’arcivescovo di Parigi e di altre personalità, Vincenzo cede:
vuol stare coi poveri e deve abitare coi ricchi. Proprio da qui passa la sua
missione: nella casa dei ricchi, imparerà a diventare responsabile dei poveri.
A più di quarant’anni, volendo fare la volontà di Dio, non ha più impazienze: «Le opere di Dio non si fanno quando lo desideriamo noi – scrive
– ma quando piace a Lui. Non bisogna saltate avanti alla provvidenza...
Bisogna donarsi a Lui in modo che Egli si possa servire di noi». Più tardi,
ai suoi ormai molti collaboratori, dirà: «Quando sarete vuoti di voi stessi,
allora Dio vi riempirà».
Le missioni parrocchiali
La Francia, in quel momento, può dirsi scristianizzata; c’è da fare
tutto daccapo. Comincia a immaginare un nuovo stile d’azione pastorale:
in maniera organica, insieme ad altri tre preti, percorre i villaggi privi di
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Ci hanno lasciato un esempio
assistenza religiosa, si fermano due settimane, e predicano «le missioni».
Avvengono conversioni commoventi, a volte in massa; la gente, disabituata alla Parola di Dio, ne riascolta l’eco con nostalgia umile e intensa:
hanno l’impressione di rivedere gli apostoli in quei preti poveri, decisi
e appassionati... Alla morte di Vincenzo saranno state predicate 840
missioni e il santo avrà a disposizione 25 case, 131 preti, 44 chierici e
52 coadiutori.
Le Dame della Carità
Le figlie di san Vincenzo sono signore nobili e borghesi; le chiama
Dame della carità. Vincenzo ne aggrega attorno a sé un numero notevolissimo ricevendone gli aiuti economici di cui ha bisogno. Ad esse
chiede la carità – anche operativa – di cui sono capaci. Tra le dame che
imboccano i poveri negli ospedali, ci sono duchesse, principesse, la Regina
Anna d’Austria e la principessa Maria di Gonzaga, futura regina di Polonia.
Le Figlie della Carità
Il 14 giugno 1623, una giovane vedova di famiglia nobile, depressa,
viene spedita controvoglia a parlare con Vincenzo. Madamigella de Marillac viene inserita da Vincenzo tra le Dame della carità ed egli si mette
a osservarla: quella donna piena di angosce, dal sistema nervoso scosso,
a contatto coi poveri diventa dolce, tenera come una madre. Vincenzo le
insegna a «dilatare il cuore prendendo su di sé il fardello degli altri». Luisa
de Marillac (oggi santa) diviene, così, la sua più stretta collaboratrice e a
lei Vincenzo si rivolge per attuare la più sorprendente invenzione: le suore
di vita attiva. Fino a quel tempo, nella Chiesa, una donna che voleva consacrarsi a Dio aveva una sola strada: la vita monastica e relativa clausura.
Vincenzo raduna alcune ragazze che intendono consacrarsi al Signore,
restando nel mondo, a completo servizio dei poveri: nascono le Figlie della
carità. «Esse avranno per monastero le case degli ammalati... Per cella,
una camera d’affitto. Per cappella, la chiesa parrocchiale. Per chiostro, le
strade della città. Per clausura, l’obbedienza. Per grata, il timor di Dio.
Per velo, la santa modestia. Per professione, la confidenza costante nella
divina Provvidenza e l’offerta di tutto il loro essere». Il popolo le chiama
le suore grigie e Vincenzo e Luisa le mandano là dove più grandi sono la
sofferenza e l’orrore.
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Ci hanno lasciato un esempio
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Opere diverse e difficili
Cominciano con l’enorme Ospedale di Parigi, un luogo orribile. Vincenzo dapprima vi invia centinaia di Dame della carità (fino a 620, compresa
la Regina) per un servizio organizzato a turni, ma temporaneo; poi aggrega
stabilmente all’ospedale le sue Figlie della carità che cominciarono a gestirlo totalmente dal di dentro. Dà contemporaneamente inizio all’Opera
dei bambini trovatelli. L’istituzione ufficiale che gestisce il servizio, fino
a quel momento lo fa in modo abominevole: non li curano e, quelli che
non muoiono, vengono venduti. Scrive Vincenzo: «Li vendevano per
otto soldi ai mendicanti che rompevano loro le braccia e le gambe per
eccitare la gente alla pietà e li lasciavano poi morire di fame». Nel 1638 le
suore grigie ne raccolgono 12; nel 1647 saranno 820. Non si tratta solo di
accoglierli in fasce, ma di farli crescere fino all’autonomia. Vincenzo dice
alle suore: «Somiglierete alla Madonna, perché sarete madri e vergini al
tempo stesso. Vedete figlie mie quel che ha fatto Dio per voi e per loro?
Sin dalla eternità ha stabilito questo tempo per ispirare ad alcune signore
il desiderio di prendersi cura di questi piccini che Egli considera suoi: sin
dall’eternità ha scelto voi, figlie mie, per servirli. Che onore è questo per
voi! Se le persone del mondo si tengono onorate di servire i figli dei grandi,
quanto più dovete sentirvi onorate di servire i figli di Dio!».
Dopo i trovatelli ci sono i carcerati e i galeotti. Le carceri sono antri
pericolosi e maleodoranti dove i prigionieri marciscono vivi, attendendosi
ogni giorno la sorte più crudele, quando, raggiunto il numero sufficiente
per formare una catena (cioè una fila di prigionieri incatenati l’uno all’altro)
vengono diretti al porto dove diventano galeotti: inchiodati con una catena
ai banchi di legno fissati lungo i corridoi della nave, «ridotti a bielle viventi,
per far correre la nave al ritmo cadenzato della frusta a nodi di ferro».
Vincenzo diventa, dunque, cappellano capo di tutte le galere del Regno e vi invia le sue Figlie della carità. «Avendo noi preso le carità delle
parrocchie, Dio ci ha ricompensato con l’Ospedale, allora, contento di
noi, per ricompensarci ci ha affidato l’opera dei trovatelli poi, avendo visto
che noi abbiamo accettato tutto con tanta carità, ha detto: “voglio dar
loro un altro incarico!”. Sì, sorelle mie, è stato Dio a darcelo senza che
noi ci pensassimo, neanche Madamigella de Marillac, né tanto meno io.
Ma qual è questo incarico? È l’assistenza dei poveri forzati! Oh, sorelle
mie, che felicità servire quei poveri forzati abbandonati in mani senza
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pietà! Io ho visto quei poveretti trattati come bestie, per questo Dio ne
ha avuto compassione!». Si tratta di un servizio difficile in un contesto
– com’è immaginabile con delle ragazze in mezzo a galeotti e soldati –
difficilissimo. In una parola – egli dice loro – dovete «essere come i raggi
del sole che si posano continuamente sopra l’immondizia, e nonostante
questo non si sporcano».
Alla cura dei galeotti si aggiunge quella dei soldati, durante le periodiche guerre, quando le suore sono mandate sui campi di battaglia «a
riparare in qualche modo quello che gli uomini han voluto distruggere».
Nelle terre e nei villaggi devastati, Vincenzo stabilisce centri di soccorso, di raccolta e smistamento di generi alimentari e di sussistenza.
Ma ancora non basta. Alla periferia di Parigi si raccoglievano stuoli di
vecchi malvissuti, asociali, storpi, colpiti da mal caduco, alienati: insomma tutti coloro che in quel tempo venivano definiti «pazzi». Scrive
alle suore: «Ah, sorelle mie, ve lo dico ancora una volta, non c’è stata
mai una compagnia che debba lodare Dio più della nostra! Ce n’è forse
qualcuna che si occupa dei poveri pazzi? No, non ce n’è nessuna. Ed
ecco che questa fortuna tocca a voi! Oh, figlie mie, quanto dovete
essere grate a Dio!».
Davanti a quella massa di disgraziati, Vincenzo sceglie venti uomini
e venti donne, tra quelli che avevano avuto un mestiere, e li affida a
degli operai che li aiutino a riprendere il mestiere, a ritrovare il gusto del
lavoro dal quale possano trarre un guadagno. Nascono così delle case
che sono veri «centri di riabilitazione al lavoro». Con lo stesso criterio
soccorre quelle persone anziane che, benché mendicanti, mantengono
legami familiari e che sarebbero stati separati a forza, smistati per legge
in differenti reparti (maschili e femminili). Vincenzo organizza per loro
l’Opera delle piccole case in cui mendicanti, marito e moglie, hanno
diritto a vivere assieme.
«Padre della Patria», difensore della fede cattolica
Monsieur Vincent diviene di fatto quasi un ministro del regno che
interloquisce con re e regine, con Richelieu e Mazarino, coi responsabili
delle province e delle città, e che organizza dovunque associazioni di
uomini e donne destinati a ogni tipo di interventi e urgenze. Cominciano
a chiamarlo «il Padre della Patria».
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Ci hanno lasciato un esempio
Quando il Re Luigi xiii è sul letto di morte nel 1643, lo fa chiamare e
gli dice: «Ah, Monsieur Vincent, se ritorno in salute, voglio che tutti i
vescovi stiano tre anni in casa vostra».
Alla morte del Re, la Regina Anna d’Austria lo sceglie come Consigliere
e così Vincenzo diviene un potente personaggio pubblico, una specie
di Ministro per l’assistenza sociale, ed egli se ne serve senza pudori per
rafforzare tutte le sue opere: moltiplicare le missioni, fondare i seminari,
dotare ospedali e opere caritative.
Difende anche la Verità cattolica dall’eresia allora dilagante: il giansenismo. La condanna di questa deviazione da parte di papa Innocenzo x fu
opera sua. Vincenzo, tutto immerso nelle questioni della carità, considera
ancor più decisive le questioni dell’ortodossia: «Fin da quando ero piccolo
– scrive – ho sempre avuto un segreto timore nell’anima mia e niente
mi ha tanto spaventato come potermi trovare per disgrazia impigliato in
qualche eresia che mi trascinasse via e mi facesse fare naufragio nella fede».
Ha scritto di lui lo storico francese Henri Brémond: «Non è stata la
carità di Vincenzo de’ Paoli a fare di lui un santo, ma è stata la sua santità che lo ha reso veramente caritatevole». E santità vuol dire appunto
appartenenza a Cristo e alla Chiesa. Si diffonde spesso tra i cristiani l’idea
che quel che importa è fare del bene al prossimo e che questo, in ultima
analisi, lo può fare chiunque, anche chi non crede in Cristo e chi non
appartiene alla Chiesa... Diceva però Vincenzo: «Il fine principale per il
quale Dio ci ha chiamati è per amare Nostro Signore Gesù Cristo... Se ci
allontaniamo anche di poco dal pensiero che i poveri sono le membra di
Gesù Cristo, infallibilmente diminuiranno in noi la dolcezza e la carità».
«Gesù!», ci racconta il biografo, è l’ultima parola che Vincenzo pronuncia prima di morire.
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iii tappa
LA PARABOLA
DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO
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LA PARABOLA
DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO
MISERICORDIA E GIUDIZIO
D
isse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima
presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due
uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti
ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti,
adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte
alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il
pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi
pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell’altro,
tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato74.
PER LEGGERE IL VANGELO
Questa parabola è stata collocata da Luca all’interno di una
breve catechesi sulla preghiera. Quando pregare? «Sempre, e con
intensità», risponde la parabola del giudice iniquo e della vedova
insistente75. Come pregare? «Come il pubblicano e non come il fariseo», risponde la nostra parabola. Ma «in questa seconda parabola
è in gioco qualcosa di più della preghiera. O meglio, Gesù tratta sì
di due atteggiamenti diversi nella preghiera, ma in realtà attraverso
di essi allarga di molto l’orizzonte: ci insegna che la preghiera rivela
qualcosa che va oltre se stessa, riguarda il nostro modo di vivere,
la nostra relazione con Dio, con noi e con il prossimo»76. È la preghiera dei due uomini che filtra i loro sentimenti e mette a nudo il
Luca 18, 9-14.
Luca 18, 1-8.
76
Enzo Bianchi, op. cit., p. 137.
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loro animo. Ai farisei, poco prima, Gesù aveva rimproverato: «Voi
vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori:
ciò che è esaltato tra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio»77.
Da qui il suo intervento: «Disse ancora questa parabola per alcuni
che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano
gli altri». È chiara allora la volontà di Gesù di impartire un preciso
insegnamento a chi distribuisce giudizi privi di misericordia.
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Due uomini al tempio
«Due uomini salirono al tempio a pregare». La situazione di partenza dovrebbe essere simile: due uomini si trovano nello stesso
luogo di culto, per mettersi di fronte a Dio e per confrontare con
lui la loro vita. Questo li dovrebbe spingere a sentirsi figli dello
stesso Padre e, quindi, ad essere solidali e rispettosi. Entrambi
dovrebbero far risuonare la preghiera del salmista: «O Dio, tu sei il
mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la
mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua. Così nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria»78.
Nel tempio, oltre che sperimentare la sua presenza, dovrebbero
ringraziarlo per il bene compiuto e chiedere perdono per il male
commesso o per il bene tralasciato.
«Uno era fariseo e l’altro pubblicano». Di fatto il racconto
non accomuna i due uomini e il lettore è già preparato a una
diversità fin dal primo momento, quando sente che si tratta di
un fariseo e di un pubblicano. I due, infatti, appartengono a opposti gruppi sociali e religiosi: il fariseo, al gruppo di élite dedito
all’osservanza integrale e scrupolosa della legge79; il pubblicano,
Luca 16, 15.
Salmo 63, 2-3.
79
I farisei erano membri di un movimento laico, composto di mercanti, artigiani,
contadini, che sotto la guida di maestri della Legge (rabbini), si impegnavano ad
osservare scrupolosamente i 613 precetti che questi individuavano nella Legge
orale e scritta di Mosè. Si trattava di persone serie, impegnate. I farisei erano uomini spesso esemplari e stimati. Con questa parabola Gesù non intende affatto denigrare l’intera categoria, ma stigmatizzare l’orgoglio spirituale che caratterizzava
alcuni di essi e li rendeva intolleranti.
77
78
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La parabola del fariseo e del pubblicano
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alla classe più bassa della società giudaica, ben lontana da ideali
etici e religiosi80.
La preghiera del fariseo
«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Prima delle
parole, abbiamo una fotografia che ritrae il fariseo in piedi e nella
parte anteriore del luogo sacro. Il fatto che stia in piedi, rientra
nel normale rituale della preghiera giudaica, ma l’essersi collocato
davanti può tradire un segreto desiderio di farsi notare81.
«O Dio, ti ringrazio». Apparentemente la sua preghiera è magnifica, pura: non chiede nulla per sé, rende solo grazie a Dio.
D’altronde, che cosa dovrebbe chiedere? Nulla gli manca, è colmo
di beni, vive alla presenza di Dio, non ha peccati (non è ladro, né
ingiusto, né adultero), moltiplica le sue buone opere e non solo
quelle obbligatorie82. Ma quali siano i suoi veri sentimenti, lo
sappiamo dalle parole che seguono.
«Non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure
come questo pubblicano». Nemmeno lo sfiora il dubbio che ci possa
essere qualche ombra a turbare la sua condotta e il suo rapporto
con Dio e con gli altri. Gli altri esistono e sono ricordati solo per
fare risaltare la loro malvagità, condensata nei tre peccati tipici di
I pubblicani erano appaltatori dei dazi, dei pedaggi e degli affitti demaniali per conto dello Stato. Erano odiati e disprezzati, perché ritenuti collaboratori dei romani
che occupavano la Palestina, inoltre perché erano esosi nell’esigere le gabelle nel
loro stesso interesse e tentavano di arricchirsi anche con mezzi illeciti. Insomma,
oltre che collaborazionisti, erano considerati avari e ladri irrecuperabili. Erano perciò scomunicati, cioè privati dei diritti civili e religiosi: erano inabili a testimoniare
in tribunale, non potevano ricoprire cariche pubbliche, non si dovevano accettare
da loro prestiti o doni. Erano evitati da tutti e ritenuti incapaci di pentimento e di
perdono. Erano ritenuti insomma peccatori pubblici e lo sapevano.
81
Da altri testi conosciamo la mania di protagonismo che animava non pochi farisei;
risuona minaccioso l’avvertimento di Gesù: «Quando pregate, non siate simili agli
ipocriti che amano pregare stando diritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze,
per essere visti dagli uomini» (Matteo 6, 5).
82
Annota con finezza sant’Agostino: «Era salito al tempio per pregare; ma non volle
pregare Dio, bensì lodare se stesso» (Discorso 115, 2).
80
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furto, ingiustizia e adulterio83. Rappresentante classico di questa
genia di persone è l’esattore delle tasse che si trova in fondo al
tempio a pregare. Costui è la personificazione vivente dei peccati
degli uomini. Il fariseo, oltre che sentirsi esente da qualsiasi colpa,
si permette di ergersi a giudice degli altri, usurpando un diritto
che appartiene unicamente a Dio, il quale, solo, conosce il cuore
degli uomini.
«Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello
che possiedo». All’apice della sua preghiera, il fariseo si riconosce
creditore nei confronti di Dio. La sua, pare di cogliere dalle parole,
è una vita integerrima, radicata in una fede inossidabile e con una
generosità da manuale. Dio non può che riconoscerlo giusto e
accreditargli alcune opere sul suo conto corrente di galantuomo
irreprensibile, perché digiuna due volte alla settimana – anche se
era obbligatorio solo nel giorno dell’Espiazione e in momenti di
grave calamità84 – e paga le decime di tutti i prodotti, anche di
quelli non tassabili85. Di fatto questa preghiera rivela il peccato
originale del fariseo, che si rende evidente in due crepe.
La prima crepa consiste nel fatto che tutta la sua preghiera gira
come un ballo di valzer sulla stessa mattonella senza superare
il perimetro dell’io: io ti ringrazio, io non sono come gli altri, io
digiuno, io pago. «La preghiera di quest’uomo potrebbe essere parafrasata in tal modo: “O Dio, io ti rendo grazie non per quello che
tu hai fatto per me e in me, ma per quello che io ho fatto e faccio
per te”. Il problema è che egli si sente sano e non ha bisogno del
«Come gli altri» vuol dire: tutti eccetto lui. «Io – diceva – sono giusto, tutti gli altri
sono peccatori».
84
Esistevano poi varie forme di digiuno privato, praticato unicamente da alcuni farisei, i più zelanti, che lo consideravano un modo per espiare le colpe dei peccatori,
degli altri ovviamente! Anche nel digiuno il nostro fariseo si dispensa dal sentirsi
peccatore e lo pratica solo per gli altri.
85
La decima era una tassa consistente nel consegnare la decima parte di alcuni prodotti della terra (soprattutto frumento, olio e vino) e del bestiame, da parte dei
produttori al padrone del terreno che è Dio stesso, unico padrone della terra di
Israele. Il fariseo che sembra essere un consumatore, non avrebbe questo obbligo;
in ogni caso non ha certamente l’obbligo di versare le decime su tutto.
83
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La parabola del fariseo e del pubblicano
91
medico, si sente giusto e non ha bisogno della santità di Dio, si
sente senza peccato e non ha bisogno della sua misericordia»86. In
questa luce, tutto quello che dice, dà l’immagine di uno che agisce
nei riguardi di Dio come nei riguardi di un banchiere: presenta il
conto delle sue ricchezze e si sente soddisfatto. Con Dio ha un
conto aperto che documenta una specie di scambio commerciale:
in cambio del digiuno, della decima e della sua integerrima osservanza della Legge, il fariseo si attende la vita eterna.
La seconda crepa della sua preghiera è rappresentata dal fatto
che tutte le azioni enumerate sono pratiche di pietà e ascetiche,
individuali, le quali non riguardano il prossimo. Nulla di quello che
fa sta nello spazio dell’amore e del bene a favore degli altri. Gli altri
– come già ricordato – compaiono nella sua preghiera solo come
«ladri, ingiusti, adulteri», per non parlare del pubblicano che è con
lui nel tempio. La seconda crepa è, allora, l’assenza degli altri e lo
spietato giudizio di condanna nei loro confronti87. Il fariseo non
si trova sicuramente in sintonia con quel Dio che, come insegna
Gesù in Luca, è tutto misericordia, della quale devono accendersi
coloro che gli sono figli88.
Il suo monologo dichiara lontananza dagli uomini, verso i quali
non ha misericordia, e lontananza da Dio, della cui misericordia
non sente la necessità.
La preghiera del pubblicano
«Il pubblicano, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare
gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». Anche il pubblicano, il
peccatore pubblico89, è salito al tempio. Se il fariseo è venuto per
Enzo Bianchi, op. cit., p. 145.
Percepiamo qui l’acuto stridore con la vera preghiera che è comunione con Dio e,
per suo tramite, comunione con gli altri.
88
«Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Luca 6, 36).
89
«Tutti siamo peccatori – e pecchiamo finché ci è possibile, in modo nascosto – ma
Gesù aveva compreso una cosa semplice: quelli che sono peccatori pubblici sono
esposti al giudizio e al biasimo altrui, e perciò sono più facilmente indotti al desiderio di cambiare la loro condizione; essi possono cioè vivere l’umiltà quale frutto
delle umiliazioni patite, e di conseguenza possono avere in sé quel cuore contrito
86
87
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ringraziare, lui è venuto per confessarsi. Si prepara stando in fondo
al tempio («fermatosi a distanza»), segno evidente di indegnità a
procedere oltre, con gli occhi rivolti verso il basso e battendosi il
petto. Così fotografato nella sua preparazione a confessare la sua
indegnità, egli, poi, dichiara i suoi peccati.
«O Dio, abbi pietà di me peccatore». Il pubblicano pronuncia
solo questa frase. È una preghiera rivolta a Dio e che ha Dio come
soggetto. Lui e Dio: il suo stato di consapevolezza e la fiducia
nel Dio misericordioso. Gli altri esistono nella sua preghiera
come vittime del suo peccato, perché, dicendosi peccatore, implicitamente accoglie gli altri come vittime del suo peccato. Egli
pensa alla sua colpa, l’unica realtà che cita, e si batte il petto per
denunciare la propria colpevolezza anche con un gesto esteriore
che gli altri possono notare.
Per quale motivo Dio dovrebbe perdonarlo? Il testo non dà
un’esplicita motivazione; la tradizione biblica fornisce il motivo che
è sempre unico: «per amore del tuo nome»90. Il motivo del perdono
non si trova mai nell’uomo, nei suoi meriti o nelle penitenze con cui
vorrebbe riparare il suo peccato. Nessuno ha la capacità di riparare
il male fatto. L’unica àncora di salvataggio è l’umile richiesta di
perdono, gettandosi nelle braccia misericordiose di Colui che ha
dichiarato per mezzo del suo profeta: «Forse che io ho piacere della
morte del malvagio e non piuttosto che desista dalla sua condotta
e viva?»91. E Dio, perdonando, dimostra di essere il Santo, perché
vince il male, riabilita l’uomo, lo rimette in una giusta relazione
con sé. La tragedia del peccato sta proprio nell’interrompere la
relazione con Dio, come ricorda con finezza teologica il giovane
della parabola del Padre misericordioso: «Ho peccato contro il cielo
e contro di te»92.
e spezzato in grado di spingerli a cambiare vita sia nel rapporto con Dio sia nel
rapporto con gli altri e con se stessi» (Enzo Bianchi, op. cit., p. 149).
90
Salmo 79, 9.
91
Ezechiele 18, 23.
92
Luca 15, 18.
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La parabola del fariseo e del pubblicano
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Il pubblicano è il modello del povero: non possiede nulla in
se stesso che gli possa dare fiducia in Dio; può solo affidarsi
totalmente in lui. Nella sua preghiera c’è un vero confronto con
Dio: mettendosi alla sua presenza, si sente interpellato da lui
e vede con chiarezza quello che è. La sua è una vera risposta a
Dio: «Sì, sono peccatore; ma abbi misericordia di me». E questo è
l’unico modo corretto di porsi di fronte al Signore, nella preghiera
e nella vita: quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo
perdono e del suo amore.
Il giudizio di Gesù
«Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato». Si badi bene che qui non si dice giusto, ma «giustificato»,
cioè graziato, messo in una giusta relazione con Dio.
Il giudizio di Gesù è introdotto da un solenne e autorevole: «Io
vi dico». Gesù vuole insegnare quali siano le condizioni per essere
in una giusta relazione con Dio, per essere oggetto del suo favore,
per ricevere il perdono dei propri peccati, per essere sicuri di essere
in grazia con lui. L’errore del fariseo è di considerare le sue opere
come causa della salvezza, mentre sono soltanto una conseguenza
dell’essere già in una situazione di salvezza. Il pubblicano invece
si rimette alla misericordia divina. Questa è la conversione a cui
Dio ci chiama in Gesù.
Il cristiano non è un uomo giusto, bensì un giustificato, non
è un essere grazioso, bensì un peccatore graziato. Gesù dimostra di avere una conoscenza profonda del cuore dell’uomo:
egli garantisce che il pubblicano torna a casa perdonato, grazie
al suo atteggiamento di umile riconoscimento di se stesso (in
fondo, non ha fatto altro che essere sincero). Come egli «a Dio
si è affidato, si è abbandonato, invocando come unico dono di
cui aveva veramente bisogno la sua misericordia [...] [così noi]
non dobbiamo perdere tempo a guardare fuori di noi, scrutando
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gli altri con occhio cattivo e spiando i loro peccati»93. Gesù fa
pure sapere che il fariseo torna a casa con la propria colpa, anzi
con una in più, e non solo perché ancora una volta è stato tanto miope da non accorgersi che anche lui è peccatore e la sua
onestà non può salvarlo se non interviene la misericordia di Dio,
ma anche perché non è stato misericordioso con il pubblicano,
e così non ha trovato misericordia: «Beati i misericordiosi, perché
troveranno misericordia»94.
PER VIVERE IL VANGELO
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La misericordia ha sempre la meglio nel giudizio
Per vivere questo insegnamento ci vengono in aiuto la lettera
di Giacomo e la Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia.
Scrive san Giacomo: «Parlate e agite come persone che devono essere
giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza
misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia
ha sempre la meglio sul giudizio»95. E Papa Francesco aggiunge:
«Gesù afferma che la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma
diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma,
siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è
stata usata misericordia»96. Aver avuto misericordia è, quindi, il
criterio base per ottenerla dal Padre nel giudizio che ci attende.
Consideriamo, dunque, i nostri atteggiamenti per conformarli,
con sempre maggior decisione, ai sentimenti che furono di Cristo
Gesù97.
Gli ambiti nei quali il nostro giudizio corre il grave rischio di
mancare di misericordia, sono essenzialmente due: quando giu
95
96
97
93
94
Enzo Bianchi, op. cit., p. 155.
Matteo 5, 7.
Giacomo 2, 12-13.
Francesco, Misericordiae vultus, 9.
Cfr. Filippesi 2, 5.
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La parabola del fariseo e del pubblicano
95
dichiamo la nostra vita e quando giudichiamo il comportamento
degli altri.
Usare misericordia con se stessi
Per quanto riguarda la nostra vita, non di rado, quando ci
riconosciamo – dolorosamente e con verità – peccatori, dentro
di noi si scatena una lotta: da una parte sentiamo il desiderio di
essere perdonati, dall’altra sorge la voce dell’accusatore98: «Non
sei degno del perdono, non puoi stare alla presenza di Dio, per
un po’ stagli lontano...». Questa voce, qualora trovi spazio, ha il
potere di separarci dall’unica fonte di giustificazione che può darci
il perdono e la pace. In un frangente simile, sforzarsi per ricorrere
alla misericordia di Dio nel sacramento della Riconciliazione, è
avere misericordia verso se stessi. Infatti: «La misericordia di Dio
non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla
attraverso il pentimento respinge il perdono dei propri peccati e la
salvezza offerta dallo Spirito Santo»99.
Nel Dialogo della Divina Provvidenza Gesù dice a Santa Caterina
da Siena: «Nella disperazione l’infelice spregia la mia misericordia,
stimando il suo difetto, maggiore della misericordia e bontà mia
[...] La mia misericordia è maggiore di tutti i peccati che potesse
commettere qualunque creatura. Perciò mi dispiace molto che essi
stimino maggiori i loro difetti. Questo è quel peccato che non è perdonato né di qua né di là»100. Un primo atto di misericordia, allora,
lo dobbiamo a noi stessi, imparando ad accettarci con tutti i nostri
limiti e fragilità, e ricorrendo con fiducia all’amore misericordioso
del Padre. Tra l’atto di umiltà e di confidenza e il superbo indurimento nel giudicarci passa la differenza tra l’inferno e il paradiso.
Cfr. Apocalisse 12, 10.
Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1864.
100
Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, cap. 132.
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Usare misericordia verso gli altri
Per quanto riguarda il giudizio verso gli altri torna prepotente
alla memoria la parabola del re misericordioso e del servo spietato:
«Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi
servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato
un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado
di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie,
i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo,
prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e
ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo,
lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo
trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese
per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il
suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza
con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in
prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che
accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a
riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto
quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà
del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il
padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito
tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non
perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello»101. Perdonare di
cuore significa propriamente essere misericordiosi.
Non c’è dubbio che il re di questa parabola è Dio stesso, mentre
il primo debitore simboleggia ogni persona umana oggetto del suo
perdono e della sua misericordia. Che miracolo accade quando,
al posto della meritatissima punizione, riceviamo un abbraccio di
101
Matteo 18, 23-35. È questo un insegnamento che il Vangelo ha in comune con
il Talmud. Dice, infatti, Rabbi Gamliel Berabbì: «Chi ha misericordia del proprio
prossimo, di costui si ha misericordia in cielo, e chi non ha misericordia del proprio
prossimo, di costui non si ha misericordia in cielo» (Talmud ba­bilonese, Shabbàt,
151b).
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La parabola del fariseo e del pubblicano
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misericordioso perdono! A noi il Padre lo riserva sempre, quando
come il pubblicano della parabola ci battiamo il petto riconoscendoci per quel che siamo, e sappiamo bene quale sollievo ci reca
tanto amore.
Gesù lo ha ripetuto tante volte come per esser certo che lo
avremmo capito almeno per quante volte questo principio è ripetuto: la misericordia deve avere sempre l’ultima parola. Infatti, chi
ha ricevuto il perdono per i propri peccati come potrebbe avere
un comportamento diverso nei confronti di chi, come lui stesso,
è peccatore? Vorremo forse negare a chi, al pari di noi è segnato
dal peccato, una simile consolazione?
Scrive papa Francesco: «Se non si vuole incorrere nel giudizio
di Dio, nessuno può diventare giudice del proprio fratello [...] Non
giudicare e non condannare significa, in positivo, saper cogliere
ciò che di buono c’è in ogni persona e non permettere che abbia
a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra presunzione di
sapere tutto. Ma questo non è ancora sufficiente per esprimere la
misericordia. Gesù chiede anche di perdonare e di donare. Essere
strumenti del perdono, perché noi per primi lo abbiamo ottenuto da
Dio. Essere generosi nei confronti di tutti, sapendo che anche Dio
elargisce la sua benevolenza su di noi con grande magnanimità»102.
Dare l’ultima parola alla misericordia ci provoca anche a riconsiderare il nostro atteggiamento verso coloro che vivono immersi
nel mondo. Non c’è dubbio che intorno a noi fiorisca un ambiente
corrotto e orgoglioso di peccare, una vera Babilonia: ma essa è
composta comunque di persone che la misericordia ci obbliga a
considerare sempre per il bene che c’è in loro, senza nulla togliere
alla condanna del peccato. Il confronto con il mondo fa, invece,
facilmente apparire il fariseo che è in noi, sotto forma di giudizi
trancianti, dito puntato e talvolta anche violenza verbale. Per chi
fra noi frequenta i social network su Internet (che notoriamente
facilitano l’emergere del lato peggiore delle persone), è sorpren102
Francesco, Misericordiae vultus, 14.
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La parabola del fariseo e del pubblicano
dente constatare quanti post dichiaratamente cristiani sembrino
usciti dritti dritti dalla bocca del fariseo.
A conclusione di questa riflessione, torna ancora opportuno
soffermarci sulla raccomandazione dell’apostolo Giacomo che esorta
a vivere la concretezza della vita tenendo presente questa regola
aurea: parlare e agire come persone che sanno che tutto verrà misurato con il metro della misericordia. Dobbiamo vivere sapendo che
la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio, cambia la nostra
prospettiva e ci dona un valido criterio di discernimento per capire
cosa è bene fare o non fare, cosa è meglio dire e, specialmente,
non dire.
✴
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APPUNTI DELLA CATECHESI:
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IL PROPOSITO:
LA REVISIONE DI VITA:
LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho
accolto la sua Parola?
I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia,
nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di
costruzione dell’amore?
I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono
stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?
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LA COMPASSIONE DI GESÙ
LA COMPASSIONE
E L’ABISSO DEL CUORE DELL’UOMO
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iunsero all’altra riva del mare, nel paese dei Geraseni. Sceso dalla
barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da
uno spirito impuro. Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno
riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato
legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i
ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto
Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi e, urlando a gran voce,
disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in
nome di Dio, non tormentarmi!». Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!». E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio
nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti». E lo scongiurava
con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese.
C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. E lo
scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». Glielo
permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la
mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia
nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse
accaduto.
Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. Quelli che
avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il
fatto dei porci. Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio.
Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: «Va’
nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la
misericordia che ha avuto per te». Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decapoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano
meravigliati103.
103
Marco 5, 1-20.
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La compassione di Gesù
Qualche considerazione per leggere il testo
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✴«Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei Geraseni». È un azzardo,
una sfida. Varcare il confine e andare in territorio pagano, è andare a
combattere il nemico in casa sua. Nel confronto con l’indemoniato
Gesù varcherà un’altra linea di confine, arriverà dove nessun altro è
mai arrivato, in una profondità che nessuno ha mai raggiunto.
✴«Sceso dalla barca». Giunsero all’altra riva, ma solo di lui si dice che
scese dalla barca: Gesù rimane solo in questa sua visita nel cuore
infernale dell’uomo, i discepoli restano sullo sfondo, probabilmente
ancora impreparati alla durezza e al rischio di questa sfida.
✴«Subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito
impuro». Gesù deve affrontare subito l’impatto duro con l’uomo che
esce dai sepolcri, che arriva da una regione dove c’è solo morte, da una
regione senza speranza, dove l’indemoniato abita. Egli non vive una
condizione di solitudine e di morte in qualche modo passeggera, ma
abita nel sepolcro, in uno stato oscuro e inaccessibile, dove nessuno
osa addentrarsi, dove è impossibile rimanere se non con un grande
coraggio, dove c’è bisogno di pazienza e di compassione. Quest’uomo
è posseduto. È un uomo che non è più se stesso, non è più padrone
di sé: è espropriato, in preda a forze ostili, privato di qualsiasi traccia
di umanità.
✴«Nessuno riusciva a tenerlo legato [...]. Continuamente, notte e giorno
[...] gridava». Gesù capovolge la prassi che normalmente viene adottata nei confronti di quest’uomo. La gente lo fugge; lui non si sottrae
all’incontro. La gente prova inutilmente a legarlo; lui lo scioglie. La
gente è abituata a sentirlo gridare; lui gli rivolge la parola. Queste
differenze chiedono di essere guardate più da vicino.
✴ La gente è abituata a fuggire l’indemoniato, eppure è proprio l’uomo
posseduto ad andare incontro a Gesù, esprimendo una sete e un desiderio di relazione e di vita anche se è ancora scomposto, disturbato
da innumerevoli ombre. Eppure questo desiderio c’è, e Gesù sembra
l’unico disposto a prenderlo sul serio. Ecco una prima forma della
compassione di Gesù, nel suo incontro con l’indemoniato. Il Signore
sa interpretare con pazienza e senza paura un desiderio di relazione
ancora incapace di trovare un’espressione adeguata, che può essere
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La compassione di Gesù
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confuso con una seria minaccia alla propria incolumità. Gesù non si
ritrae di fronte a un approccio tutt’altro che invitante e consolante;
non si ferma alle difficoltà della soglia: sa che c’è molto di più, oltre
l’impatto duro, incomprensibile, apparentemente senza speranza.
✴ La gente ha provato a lungo, inutilmente, a tenere legato quest’uomo, e ha ottenuto l’effetto contrario a quello desiderato. Ha provato
a renderlo inoffensivo con la forza e ne ha accresciuto la malattia e
il senso di ribellione. Diverso è l’approccio di Gesù, che si avvicina
non per incatenarlo, ma per scioglierlo, per liberarlo. Ecco un secondo
passo concreto attraverso cui il Signore esprime tutta la propria compassione; non si avvicina con l’intenzione di renderlo inoffensivo, ma
per liberarlo dal suo male; accetta l’azzardo di entrare nei suoi segreti,
di farsi strada nel suo male.
✴ La gente è abituata a sentire gridare quest’uomo. È l’unica forma relazionale che gli è concessa: può solo gridare il proprio dolore. Anche
quando si rivolge a Gesù, lo fa gridando, buttandogli quasi addosso
tutta la sofferenza e il dolore che si porta dentro. Gesù fa ciò che
forse non ha mai provato a fare nessuno: gli rivolge la parola, e lo fa
chiedendogli il nome. «Qual è il tuo nome?». Gesù spende tempo ed
energie con quest’uomo, ascolta, accoglie, presenta se stesso come
farmaco e fa dell’incontro lo spazio di trasformazione della persona.
Spunti per vivere la compassione
✴ A volte incrociamo storie dove ci viene da dire: «qui non c’è proprio più
nulla da fare, nulla da sperare». Malati mentali con patologie gravissime,
personalità segnate da lacerazioni inguaribili e profonde, situazioni
sociali e morali al di là dell’immaginabile, deviazioni o perversioni che
hanno fatto sprofondare in un baratro di miseria insostenibile... C’è
un’umanità intera che grida dai sepolcri. Che cosa significa entrare in
un mondo così, valicare la linea oscura del cuore dell’uomo? Che cosa
significa entrarvi chiedendo un nome, cioè provando a ridare dignità a un
dolore, a una malattia, a una sofferenza, a un comportamento violento,
spesso segno di fragilità e di insicurezze enormi, di lacerazioni e ferite
dolorosissime e segrete? Per Gesù la malattia non espropria la persona
dalla propria identità: il malato non è ad esempio un Alzheimer, ma una
persona con un nome proprio, con un volto, con una storia.
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La compassione di Gesù
✴ Alla fine del racconto l’uomo è «seduto, vestito e sano di mente». Ma
non sempre è così, a volte i margini di miglioramento o di cambiamento sono davvero risicati. Ma là dove c’è traccia della compassione
di Gesù e di un’opera concreta di chi si fa carico di regalarla e offrirla,
si ritrova una dignità che pareva smarrita, una compostezza anche
nel dolore e nella sofferenza che commuove e stupisce, una bellezza
nascosta che viene gioiosamente alla luce.
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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO
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GIUSEPPE MOSCATI
«Il mio pensiero è contentare Dio»
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iuseppe Moscati nasce nel 1880. Cresce con la famiglia a Napoli,
dove, nel 1903, si laurea in medicina e vince il concorso per Aiuto
straordinario agli Ospedali Riuniti di Napoli. Nel 1908 è Assistente ordinario nell’Istituto di Clinica Fisiologica. Nel 1911 diventa Aiuto ordinario;
è nominato socio della Regia Accademia Medico-chirurgica; ottiene la
Libera Docenza in Chimica Fisiologica. Nel 1919 è nominato Primario della
Sala degli Incurabili. Nel 1922 una Commissione nominata dal ministero
della Pubblica Istruzione gli conferisce la Libera Docenza per titoli in Clinica Medica Generale. Nel 1923 è rappresentante del Governo Italiano al
Consesso internazionale di fisiologia, a Edimburgo. Di gran valore sono
le sue pubblicazioni scientifiche. È medico e scienziato di riconosciuta
e indiscussa fama, in un tempo in cui si fa di tutto per far credere che
scienza e fede devono stare su piani opposti.
Disinteressato al denaro
Celebre è, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per
il denaro: «Egli che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di
Cristo, non voleva ricevere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente.
Se visitava dei ricchi o dei benestanti, certo accettava il denaro dovuto,
ma la sua preoccupazione restava tuttavia quella di non essere mai un
approfittatore».
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Ci hanno lasciato un esempio
Ecco una sua lettera indirizzata alla moglie di un paziente: «Egregia
Signora, vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi abbiate
dato troppo. Certo, da altri, che fossero pescecani, io prenderei di più, ma
da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi doni la gioia della guarigione di
vostro marito. E fate che costui non si allontani da Dio e frequenti la fonte
della salute (la S. Comunione). Vi saluto. G. Moscati».
Un giorno viene chiamato ripetutamente al capezzale di un ragazzo
quindicenne di cui egli si prende cura fino alla completa guarigione. Quando
tutto è finito, riceve una busta con l’onorario. La apre mentre torna a casa, e
si accorge che contiene una somma notevole: mille lire. Torna bruscamente
indietro, sale agitato le scale e tende nervosamente la busta: «O voi siete
pazzi o mi avete preso per un ladro». I parenti pensano che il celebre professore sia scontento d’aver ricevuto troppo poco e il padre del ragazzo,
impacciato, gli tende un altro biglietto da mille, ma il professore non solo
scarta con impazienza la nuova offerta, anzi, aprendo il portafoglio, restituisce ottocento lire, affermando che duecento erano più che sufficienti.
I ricchi se lo contendono per la sua fama di diagnostico, i poveri gli si
riversano addosso perché sanno che non sarà chiesto loro nulla, o addirittura
ci potrebbero guadagnare: infatti egli talvolta mette qualche banconota in
mezzo alla ricetta del paziente di cui intuisce le ristrettezze, soprattutto
quando s’accorge che la malattia è provocata o aggravata dalla denutrizione.
C’è un vecchietto povero e solo che un tempo era stato compositore di
canzoni: le sue condizioni sono critiche anche se non disperate, e il male
può aggravarsi improvvisamente. Avrebbe bisogno di controlli quotidiani,
ma Moscati non glieli può garantire, assorbito com’è dal lavoro in ospedale.
Si mettono d’accordo così: tutte le mattine il vecchietto si fa trovare in un
caffè, lungo la strada che Moscati deve percorrere, e lì consuma (a spese del
Professore, s’intende) una bella tazza di latte caldo e biscotti. Il Professore
passa, mette dentro la testa, controlla che egli ci sia, gli sorride e se ne va
in fretta. Se qualche mattina non lo vede, allora sa di doverlo raggiungere
al più presto nel suo tugurio fuori mano, per soccorrerlo.
Un lavoro massacrante, sorretto dall’Eucaristia
La carità di Moscati non è quella di un tranquillo benefattore, ma quella
di un medico di prestigio alle prese con una professione stressante: come
studioso deve aggiornarsi, fare esperimenti di laboratorio, scrivere relazioni
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Ci hanno lasciato un esempio
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scientifiche; come medico la sua presenza è necessaria sia all’ospedale, sia
nelle case dei privati che gli inviano continue richieste e sollecitazioni; come
libero docente deve preparare lezioni, insegnare, seguire i discepoli e c’è la
sua decisione cristiana di non sottrarsi mai alle richieste dei più poveri. A
chi gli chiede come faccia a resistere, risponde: «Chi fa la Comunione tutte
le mattine ha con sé un’energia che non viene mai meno».
L’ininterrotto lavoro di Giuseppe Moscati ha luogo in ospedale, attorniato
dai discepoli ai quali insegna mediante l’osservazione dei malati: «Vicino
all’ammalato non ci sono gerarchie. Tutti veniamo qui per apprendere:
direttori, coadiutori, assistenti, siamo tutti presso il letto dell’infermo
perché l’ammalato rappresenta il libro della natura». I discepoli lo venerano
letteralmente e molti lo accompagnano fino a casa continuando per la via
a discutere con lui e a interrogarlo. E quasi tutti finiscono, dopo il giro
domenicale nelle corsie, per accompagnarlo a Messa. Il professore stesso
scrive: «Ho formato come una comunità religiosa di frati: i miei amici e io
lavoriamo insieme con emulazione, con idealizzazione. Siamo tanto sentimentali! Iddio ci guida (11 settembre 1923)». E aggiunge: «Ho pensato che
fosse debito di coscienza istruire i giovani aborrendo dall’andazzo di tenere
gelosamente misterioso il frutto della propria esperienza, ma rivelarlo loro...».
Laico in un ambiente ostile
In un tempo in cui le vocazioni si dividono in forma piuttosto netta
(o matrimonio o convento), Moscati sceglie di restare nel mondo, completamente laico, ma scegliendo coscientemente la condizione verginale.
Scrive: «Mio Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore
mi santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le creature,
all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza».
«Amare Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore»; questa è
la massima che identifica assieme sia la sua missione di medico cristiano,
sia lo sguardo con cui osserva i malati.
I tempi e l’ambiente non sono per nulla facili; dirà un testimone: «[Moscati] subiva la lotta che gli facevano tutti i medici iscritti alla massoneria
per la sua aperta professione cristiana e anche di quelli che vedevano in
lui un competitore valentissimo benché di giovane età». L’odio massonico
contro Moscati è forte. Viene disprezzato e deriso da quelli che non vedono
bene la sua franca, schietta e coraggiosa professione di fede cattolica: lo
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chiamano maniaco, isterico, esaltato, fanatico, iettatore, pazzo da manicomio, medico di preti e suore. Certi testimoni parlano esplicitamente
e senza mezzi termini dell’atteggiamento che la setta ha verso Moscati:
«Vogliono distruggerlo, annientarlo», ma notano anche che la lotta non
lo scalfisce neppure. Dice ad un amico: «Che cosa m’importa degli altri? Il
mio pensiero è contentare Dio».
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Curare l’anima e il corpo del malato
Ciò che più da fastidio di Moscati consiste in questo: egli è assolutamente convinto «che il medico non deve guardare solamente la salute del corpo
dell’infermo, ma anche sopperire ai bisogni del malato e della sua famiglia,
sotto qualunque aspetto si possa considerare il bisogno». Perciò egli si è
imposto quell’atteggiamento caritatevole verso tutti, ma egli considera
come prioritario il bisogno spirituale dei pazienti e la cura delle loro anime.
I malati sanno che per essere curati da Moscati bisogna frequentare
i Sacramenti. A tutti i malati domanda se sono in grazia di Dio, se sono
in regola con la loro coscienza. Insomma, cura prima l’anima e poi il
corpo degli infermi che vanno da lui. Moscati sostiene che nell’ospedale
la missione di tutti è collaborare alla misericordia di Dio.
Espressioni come «confessatevi», «mettetevi in grazia di Dio», «accostatevi al Signore», «pensate all’anima immortale», «Dio è il padrone della
vita e della morte» entrano o prima o poi nelle indicazioni «sanitarie» che
Moscati dà ai suoi pazienti, soprattutto quando si accorge che la loro vita
è in pericolo e in pericolo è il loro destino eterno.
A un illustre avvocato milanese, dopo aver fatto la diagnosi sul suo stato
di malattia, consegna una lettera in cui gli indica il nome d’un prete della
sua città «perché si mettesse in pace con Dio, siccome da anni se ne era
allontanato, altrimenti non avrebbe potuto curargli il corpo». A un altro che,
dopo un mese di cura, non sembra reagire alla terapia, dice candidamente:
«Voi non vi siete confessato, perciò non guarite. Iddio così ve lo ricorda».
A un giovane la cui più grave malattia sembra l’assoluta mancanza di spina
dorsale, dà una ricetta su cui c’è scritto: «Cura di Eucarestia».
Bisogna considerare, però, che Moscati non fa il guaritore o il santone: fa
il medico e lo fa alla perfezione: mai devia nello spiritualistico, trascurando
il corpo. A una suora che lo vuol trascinare a una sacra funzione durante
l’orario di lavoro, risponde brusco: «Suora, Iddio si serve lavorando». A una
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pia signora che rifiuta di curarsi, perché dice che le basta pregare ribatte:
«Per la vostra anima vale più fare una sola iniezione per la vostra malattia
che dire molte preghiere».
Un miracolo portentoso e significativo
È il febbraio 1927 (due mesi prima della morte di Moscati, che nulla fa
prevedere). Viene a Napoli, per parlare a un congresso medico, il celebre
prof. Leonardo Bianchi: titolare della cattedra di Psichiatria e Neurochirurgia, prima a Palermo, poi a Napoli, poi Ministro della Pubblica Istruzione,
quindi Ministro della Difesa e Vice presidente della Camera dei Deputati.
Inoltre è uno tra i più noti massoni che, appena qualche anno prima, ha
tenuto una pubblica conferenza contro Gesù Cristo. Il professore parla davanti a un’aula gremita di medici e docenti ed ecco che, mentre scrosciano
gli applausi, egli si accascia al suolo. Sono presenti medici specialisti per
ogni urgenza e tutti si accostano, compreso Moscati. Scriverà, in seguito,
egli stesso: «Non volevo andare a quella conferenza essendomi da lungo
tempo allontanato dall’ambiente dell’Università, ma quel giorno una forza
sovrumana, alla quale non seppi resistere, mi ci spinse... Si avverò quello
che dice la parabola del Vangelo che i chiamati alla undicesima ora avranno
la stessa ricompensa di quelli chiamati alla prima ora del giorno. Sento
ancora ora l’impressione di quello sguardo (del morente) che cercava me tra
tanti docenti convenuti... E Leonardo Bianchi sapeva bene i miei sentimenti
religiosi, conoscendomi fin da quando io ero studente. Gli corsi vicino,
gli suggerii parole di pentimento e di fiducia, mentre egli mi stringeva la
mano, non potendo parlare...». Un prete (fatto chiamare da Moscati) entra
nell’aula con i Sacramenti e li amministra al vecchio massone morente,
mentre Moscati recita a voce chiara l’Atto di dolore e il Credo.
Il motivo della santità di Moscati, Gesù
Moscati ha la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come
espressione totale del senso e dello scopo della sua esistenza, ed essa investe tutto il suo essere ed esistere. Considera la professione medica come
una vocazione e una missione che devono «esaurirlo» anche fisicamente,
perché soltanto così il progetto di Dio può compiersi. Perciò accetta semplicemente e totalmente quell’essere avvolto e tirato da ogni parte.
Nessuno, guardando la vita e le opere di Moscati, può dubitare che egli
ami personalmente e dichiaratamente Cristo. A chi rifiuta il Signore Gesù,
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Moscati appare come un maniaco da combattere e da eliminare. Nessuno
però può sbagliarsi, nemmeno per un attimo, pensando che si tratti di una
fortunata naturale bontà del professore. L’impegno ascetico-caritativo è
per lui il presupposto, la carta di credito, il «titolo» che gli dà occasione
di annuncio integrale del suo Signore Gesù: si stacca dal denaro per poter
parlare di tutto senza ambiguità, si fa tutto a tutti per poter indicare Colui
che era «tutto», lascia che gli «consumino questa vita» per avere il diritto di
parlare della vita eterna. Arriva fino a chiedere al malato che invece dei soldi,
gli faccia il regalo di accostarsi all’Eucarestia, di tornare alla fede perduta.
La relazione con Cristo dona all’attività medica di Moscati, specie in
campo diagnostico, un acume straordinario. Scrive: «È tale l’intuito chiaro
che mi concede il Signore che non mi sembra possibile trattenerlo, e non
rare volte vedo anche le deformità delle loro anime». Un giorno torna a casa
turbato e racconta alla sorella: «Sai cosa mi è accaduto oggi? È venuta da me
una signora con la figlia. La signorina poteva avere ventiquattro o venticinque
anni. Guardandola le ho detto: “Signorina, lei non ha ancora fatto la prima
Comunione!”. Da alcune lacrime mi sono accorto che la cosa era vera. Poi
ho fissato la signora e le ho detto: “Signora, lei convive con un sacerdote
apostata”. Sai, era tutto vero e non riesco a spiegarmi come ho fatto!».
Scrive a Benedetto Croce sulla riforma sanitaria di Gentile: «Il dolore
va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come
il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza
dell’amore, la carità».
Muore, improvvisamente il 12 aprile del 1927, appena terminata una
visita, senza nemmeno poter avere per sé un attimo di conforto e di aiuto.
Mentre il corteo funebre si snoda per le vie di Napoli, un vecchietto, sul
registro delle condoglianze, scrive con mano tremante: «Noi lo piangiamo
perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù,
e i malati poveri hanno perso tutto».
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iv tappa
ZACCHEO
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Zaccheo
ZACCHEO
MISERICORDIA E CONVERSIONE
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ntrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco
un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla,
perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a
vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo,
scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in
fretta e lo accolse pieno di gioia.
Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io
do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi
per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di
Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare
ciò che era perduto».
PER LEGGERE IL VANGELO
Il racconto è collocato alla conclusione del grande viaggio che
porta Gesù a Gerusalemme, la città santa dove morirà e risorgerà.
Questo episodio è preceduto dal racconto del cieco di Gerico104 che
chiede a Gesù di poter recuperare la vista, e proprio in forza della sua
fede ottiene la guarigione. Questi due episodi, ambedue avvenuti a
Gerico, sono affini soprattutto per il comune itinerario, dalle tenebre
alla luce, dalla lontananza da Cristo alla comunione con lui.
Entrò nella città di Gerico
«Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando». Gesù passa
attraverso Gerico. Sicuramente è transitato da qui tante volte,
104
Luca 18, 35-43.
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Zaccheo
quando doveva salire a Gerusalemme. Egli è, quindi, conosciuto,
tanto più che siamo verso la conclusione della sua vita pubblica, e di
sé avrà fatto parlare sia per i suoi interventi prodigiosi sia per i suoi
discorsi di ben altro spessore rispetto a quelli dei maestri abituali.
«Un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco». A Gerico vive un uomo, chiamato Zaccheo. Il suo nome, abbreviazione
di Zaccaria, significa il giusto, il puro: una vera beffa del destino,
perché egli è capo dei pubblicani e ricco, due qualifiche che gravano
sulla sua reputazione. In quanto pubblicano, era un peccatore per
i giudei; in quanto ricco, era un caso difficile anche per Gesù che
aveva detto: «Quant’è difficile per coloro che possiedono ricchezze
entrare nel Regno di Dio»105. Che la sua ricchezza non sia pulita,
lo si apprenderà in seguito dalla pubblica confessione dell’interessato. Gliela garantiva la sua professione, che poteva esercitare
con profitto a Gerico, città di esportazione del balsamo, e perciò
serbatoio di facili affari dei pubblicani.
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Il mestiere di pubblicano
Pubblicano è un nome comune che designa genericamente un
esattore di tasse. Per maggior precisione occorre distinguere tra
impresari doganali e semplici impiegati doganali. Gli impresari
concludevano con l’amministrazione romana degli accordi per
la riscossione delle tasse: pagavano anticipatamente l’appalto e
durante i dodici mesi che seguivano – tanto durava l’appalto –
cercavano di trarre il massimo profitto. Probabilmente Zaccheo
appartiene a questo gruppo, perché di lui si dice che era «capo dei
pubblicani» e l’aggiunta «ricco» denota che aveva fatto fortuna.
L’impresario affidava, poi, il lavoro vero e proprio di dogana ad
altri che lo svolgevano come impiegati. Il loro lavoro consisteva
essenzialmente nella riscossione del dazio, tassa che si pagava per
l’introduzione di merci in una città o in un particolare territorio,
per l’esportazione, per pedaggi ecc.
105
Luca 18, 24.
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Zaccheo
123
È superfluo ricordare il disprezzo che suscitava questo mestiere
già detestato, perché visto come collaborazione con l’occupante
romano, e poi, soprattutto, perché si trattava di un autentico
strozzinaggio. Ecco perché il nome di pubblicano, etimologicamente colui che riscuote il denaro pubblico, da nome designante
una professione finì per classificare una categoria disprezzata di
persone che tutti temevano. Da parte loro i farisei, cultori della
purità legale, nutrivano nei loro confronti una vera antipatia e li
tenevano lontano da sé.
L’incontro con Gesù
Con queste premesse c’è poco di buono da sperare da quest’uomo che può essere etichettato facilmente. Il seguito del racconto
di Luca documenterà invece proprio il contrario.
«Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa
della folla, perché era piccolo di statura». Zaccheo offre con il suo
comportamento una prima nota positiva perché «cercava di vedere
chi fosse Gesù», voleva cioè vederlo in faccia, non accontentandosi
del sentito dire. Il suo desiderio non si può dire estemporaneo o
fugace perché il testo dice che «cercava», verbo all’imperfetto che
denota un’azione prolungata nel tempo. Lo dimostrano le difficoltà
della bassa statura e della numerosa folla che vengono superate
con l’ingegno e la ricerca di mezzi idonei. Quando si vuole, molte
difficoltà cessano di essere tali perché vinte con la tenacia, con
l’intuito e l’aguzzare l’ingegno.
«Corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché
doveva passare di là». Zaccheo corre avanti per precedere il corteo che sta attraversando la città e trova rifugio su un albero. In
quel momento non pensa alla sua dignità, alla ridicolaggine cui si
espone davanti a quelli che lo conoscono. A Gerico egli è di casa,
perché qui lavora e, con tutta probabilità, qui abita. Non pensa a
questo, e sale come un ragazzino su un sicomoro. Si tratta di una
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pianta che permette una facile ascesa, perché ha un tronco basso;
inoltre le foglie larghe garantiscono a Zaccheo un rifugio sicuro. La
postazione è quindi ottima per vedere senza essere visto. Questo
atteggiamento è un punto a sfavore di Zaccheo. Non è corretto
l’atteggiamento del guardone: chi vuol vedere, deve anche lasciarsi
vedere, solo così si pongono i fondamenti del dialogo. Zaccheo
vuole vedere Gesù, senza compromettersi, vuole soddisfare la
sua curiosità, forse anche rispondere a un desiderio profondo,
senza offrire però la controparte. Con la complicità involontaria
delle foglie pensa di riuscire facilmente nel suo intento. Lascia
che Gesù si avvicini, senza avvicinarsi lui stesso. In questo caso
il movimento è solo da una parte, quella di Gesù. Si riflette qui la
logica umana, quando si pretende la vicinanza di Dio, la gioia del
cuore, l’armonia della vita, senza contemporaneamente offrire a
Dio la disponibilità nell’andare a lui con l’obbedienza del cuore e
della vita: un gioco egoistico che non può durare a lungo.
«Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo». Gesù passa
sotto l’albero, è visto da Zaccheo e soddisfa il suo desiderio.
Contemporaneamente gli rivolge la parola e lo invita a compiere
quel movimento che Zaccheo non voleva o non poteva fare. Non
voleva, perché occorreva rinunciare a una vita che, tutto sommato, aveva rivestito come un abito; o non poteva, perché impedito
dal giudizio dei benpensanti che spesso blocca molto più di una
catena. Gesù lo invita in due modi, prima con lo sguardo e poi
con la parola. Il guardare si differenzia dal semplice vedere: vedere
è un fatto esterno, meccanico, tipico di tutti gli animali. Guardare
invece coinvolge anche la volontà ed è proprio della persona. Per
questo lo sguardo possiede spesso una carica tale da sostituire
bene un fiume di parole. Lo sguardo è il primo elemento di comunicazione usato da Gesù per Zaccheo, il primo segno per dirgli che
si interessa a lui; poi arriva la parola che, preparata dallo sguardo,
non giunge più forestiera.
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La parola di Gesù
«Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa
tua»106. La prima parola che risuona è Zaccheo, il nome proprio,
quello che identifica una persona e la distingue da un’altra. Zaccheo
si sente chiamato per nome, conosciuto personalmente nella sua
identità più vera e profonda. Forse gli altri lo chiamano «pubblicano,
strozzino, quello là» o anche peggio. Gesù, un estraneo, uno di
passaggio, lo conosce e lo chiama per nome. Chiamato per nome,
Zaccheo è posto nella condizione di rispondere e, ancora di più,
di entrare in dialogo con Gesù, da persona a persona, da eguali.
La seconda parola è un imperativo: «Scendi subito». Gesù invita Zaccheo a lasciare il suo rifugio per mettersi allo scoperto, lo
spinge a compiere quel passo che prima non voleva o non poteva
fare. Se prima Gesù si era avvicinato a Zaccheo, tocca ora a Zaccheo avvicinarsi a Gesù. È la logica del dialogo: guardare in faccia,
parlarsi, compiere ciascuno un passo verso l’altro. I farisei e tutti
i benpensanti rifuggivano dalla compagnia dei pubblicani e dei
peccatori in genere, perché era gente sporca che contaminava. Con
il suo imperativo Gesù dichiara che non teme nessun contagio, che
non mantiene le distanze dell’indifferenza o del disprezzo. Questo
imperativo viene accompagnato, quasi rinforzato, dall’avverbio
«subito» per aiutare Zaccheo a rompere ogni indugio, a superare
eventuali perplessità che possono insorgere. Proprio perché l’imperativo non suoni come violenza sull’altro, Gesù aggiunge la
motivazione che vale quanto un concentrato di teologia: «Oggi
devo fermarmi a casa tua».
«Oggi»: l’avverbio può essere letto come una semplice precisazione temporale, nel senso di oggi, e non di domani. Luca,
106
«Gesù non comincia mai con l’accusare l’uomo peccatore. Piuttosto lo accoglie
senza giudicarlo, sen­za pretendere nulla; con i gesti e le parole gli rivela la misericordia del Padre. In questa inaspettata e festo­sa accoglienza l’uomo confessa
il proprio peccato e si sente fortemente provocato a cambiare vita, cioè a vi­vere
anche lui nell’amore e nella misericordia» (Domenico Cancian, op. cit., p. 96).
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però, usa spesso questo termine dandogli un valore teologico107,
collocandolo in un contesto di salvezza e soprattutto di salvezza
che si realizza. Anche qui l’oggi viene collegato con la salvezza,
come confermato dalle successive parole di Gesù: «Oggi la salvezza
è entrata in questa casa».
«Devo»: il verbo esprime la volontà divina, il piano salvifico e
la sua urgenza. Gesù intende arrivare a tutti, nessuno escluso,
soprattutto agli emarginati. Il modo più completo per arrivare a
tutti sarà il dono della sua vita. Intanto si manifesta nell’annuncio a
tutti del vangelo, che è la rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo.
«Fermarmi»: non è il salutino fatto in fretta, e poi via di corsa
perché c’è molto da fare. È un verbo che esprime la calma, l’indugio, il tempo prolungato, tanto che in greco ha spesso il valore di
dimorare, abitare. È il verbo della residenza108.
«A casa tua»: voler entrare in casa è una manifesta provocazione,
uno strappo irrimediabile nel tessuto della teologia farisaica, che
disdegnava ogni contatto con i peccatori. Soggiornare in casa di
uno di questi era il colmo della vergogna. Come sempre accade fra
Gesù e i farisei, questi considerano la persona da una posizione di
fissità: ciò che è stata, rimane e sempre sarà. Gesù, al contrario, la
considera da una posizione di movimento, almeno possibile: nonostante un passato rovinoso, si può, anzi, si deve cambiare, progredire
e migliorare. La persona può diventare diversa da quello che è stata.
Ecco alcuni testi, tutti teologicamente significativi. «Ecco, vi annunzio una grande
gioia [...] oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore» (Luca 2, 10-11). È il
momento in cui la salvezza, a lungo profetizzata e attesa, prende corpo con la
nascita di Gesù. «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri
orecchi» (Luca 4, 21). Luca fa diventare questo discorso tenuto a Nazareth l’inizio
pubblico e ufficiale dell’attività di Gesù che si presenta come il profeta atteso.
«Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: Oggi abbiamo
visto cose prodigiose» (Luca 5, 26). Dopo le parole, ecco i fatti prodigiosi. Gesù conferma con essi la salvezza annunciata e promessa e si qualifica come il vero inviato
di Dio. «In verità ti dico: Oggi sarai con me in paradiso» (Luca 23, 43). Il crocifisso
Gesù garantisce al crocifisso ladrone l’accesso alla salvezza.
108
Nel vangelo di Giovanni questo verbo si colora ancor più teologicamente ed esprime la
comunione interpersonale, il legame intimo e profondo fra due persone che si amano.
107
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«Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia»: Zaccheo raccoglie la
felice provocazione, reagisce facendo quanto Gesù ha richiesto e
scende in fretta. Il desiderio di vedere Gesù è finalmente appagato.
Non sa che cosa l’aspetta, non aveva preventivato – e non poteva
certo preventivarlo – ciò che ora prova e decide. Accoglie Gesù
con una gioia che nasce, tra l’altro, dalla possibilità offertagli di
compiere quel passo che prima non voleva o non poteva compiere.
La parola di Gesù lo ha messo in condizione di effettuarlo; ora
però deve giocare a carte scoperte, e non gli è più consentito di
mimetizzarsi, sia pure dietro le foglie di un albero.
«Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”». In stridente contrasto con la gioia di Zaccheo si colloca
la mormorazione prolungata (ancora il tempo all’imperfetto)
degli altri, riuniti in quel significativo «tutti». Si tratta dell’altra
parte, quella diversa e in opposizione a Gesù. È la parte che non
conosce il dinamismo innescato da Gesù nel cuore di Zaccheo,
di cui non capisce e non apprezza la gioia. Prova esattamente il
sentimento opposto, una specie di disgusto, di irritazione nei
confronti di un comportamento che l’ortodossia giudaica non
poteva che biasimare: «È andato ad alloggiare da un peccatore».
Inaudito! Uno scandalo! Questo dicono loro109. Certo, nella loro
logica il comportamento di Gesù risulta del tutto anomalo, addirittura offensivo nei confronti della teologia dominante, tanto
da diventare causa scatenante di quella valanga di critiche che si
riversano come un fiume in piena su Gesù e sul povero Zaccheo.
Anche questo è un dato abbastanza comune: la volontà salvifica
di Dio inciampa nella fredda incomprensione e nella critica. Gesù
si era premunito ricordando ai suoi discepoli e a tutti: «Beato è
chiunque non sarà scandalizzato da me»110. Chi rimane fermo nel
passato perde il treno della vita. La naftalina può proteggere, ma,
«I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: “Come mai mangiate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori?”» (Luca 5, 30); «I farisei e gli scribi
mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (Luca 15, 2).
110
Luca 7, 23.
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se non usata bene, finisce per avvelenare. In tale condizione sono
i farisei che non accolgono il messaggio e lo stile nuovo di Gesù.
Zaccheo, alzatosi, dice al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà
di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco
quattro volte tanto». Le critiche dei benpensanti non raggiungono
Gesù, e neppure sfiorano Zaccheo. Questi si alza in piedi, quasi
a rendere più solenni le sue parole, e fa una promessa. Quello
che dice, dimostra la sua intima contrizione e blocca la reazione
della gente: alle parole vuote e denigratorie egli oppone dei fatti
sostanziosi che documentano la sincerità della sua conversione e
la serietà del suo distacco dal denaro. Un atteggiamento giusto,
genuino, coraggioso: Zaccheo si riconosce semplicemente colpevole e tenta di riparare.
Segue due vie. La prima è quella di dare la metà dei propri beni
ai poveri111. Molti di coloro che sono stati defraudati da Zaccheo,
non sono più rintracciabili, altri non sono neppure identificabili:
dare la metà dei propri beni ai poveri, a fondo perduto, ha il valore
di una restituzione. Egli si tiene l’altra metà per riparare il danno
a persone conosciute. In che misura? La legge contemplava la
restituzione dell’intero valore, più un quinto per indennizzo112,
percentuale che, secondo i rabbini, doveva essere aumentata a
un quarto. Zaccheo decide di restituire il quadruplo e in questo
si allinea o con la legge romana o con la legge dell’Esodo113. Al Già la predicazione del Battista aveva orientato in tal senso: «Chi ha due tuniche ne
dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto» (Luca 3, 11).
112
«Il Signore parlò a Mosè dicendo: “Quando qualcuno peccherà e commetterà un’infedeltà verso il Signore, perché inganna il suo prossimo riguardo a depositi, a pegni o
a oggetti rubati, oppure perché ricatta il suo prossimo, o perché, trovando una cosa
smarrita, mente in proposito e giura il falso riguardo a una cosa in cui uno commette
peccato, se avrà così peccato, si troverà in condizione di colpa. Dovrà restituire la
cosa rubata o ottenuta con ricatto o il deposito che gli era stato affidato o l’oggetto
smarrito che aveva trovato o qualunque cosa per cui abbia giurato il falso. Farà la
restituzione per intero, aggiungendovi un quinto, e renderà ciò al proprietario nel
giorno in cui farà la riparazione”» (Levitico 5, 20-24).
113
«Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo scanna o lo vende, darà come
indennizzo cinque capi di grosso bestiame per il bue e quattro capi di bestiame minuto per il montone» (Esodo 21, 37).
111
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Zaccheo
lineandosi con la legge più severa, con il caso estremo, Zaccheo
dimostra di essere diventato un altro. Assistiamo con questo al
salto di qualità dal nulla al tutto, dalla vita grigia di una professione
disprezzata all’esultanza dell’incontro con Gesù, dall’attaccamento
schiavistico al denaro alla gioiosa liberazione da esso.
«Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è
figlio di Abramo». La parola conclusiva di Gesù è: «Oggi la salvezza
è entrata in questa casa». Salvezza è una parola che implica l’idea
di vittoria, di salvataggio da una condizione negativa e la restituzione della pienezza o dell’integrità. Parlando di Dio, la salvezza è
la liberazione dal peccato e, positivamente, novità di rapporto con
Dio. È, in fondo, il dono di poter partecipare alla stessa vita divina.
D’ora in poi Zaccheo può essere autorevolmente annoverato tra i
figli di Abramo, quelli veri, destinatari delle promesse di salvezza,
anzi, già parzialmente possessori di tale salvezza.
«Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che
era perduto». Alla fine, con un detto che esprime il senso della
sua missione, Gesù ricorda che in Zaccheo si realizza pienamente
l’imperativo di andare in cerca di ciò che è perduto per salvarlo114.
PER VIVERE IL VANGELO
Dalla misericordia ricevuta alla conversione
In Zaccheo abbiamo il percorso della conversione. Gesù passa e
suscita in Zaccheo il desiderio di vederlo, desiderio che si traduce
in una serie di azioni orientate a raggiungere l’obiettivo, ma a
senso unico: vedere senza essere visto, ricevere senza dare. Gesù
fa compiere a questo desiderio un salto di qualità e, incontrando
Zaccheo, gli permette di trovare in se stesso le energie di bontà
che ogni uomo conserva nel profondo del proprio essere. La gioia
114
«Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò
quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò
con giustizia» (Ezechiele 34, 16); «Egli rispose: “Non sono stato mandato se non alle
pecore perdute della casa d’Israele”» (Matteo 15, 24).
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Zaccheo
di Zaccheo è grande, la sua riconoscenza senza limiti. Con la sua
promessa egli testimonia l’avvenuto cambiamento e si presenta
come uno che ama perché pensa agli altri, rompendo il circuito
dell’egoismo. Non è semplice giustizia, restituzione di un bene
rubato, è piuttosto l’inizio di una vita nuova, radice di vita eterna115: questa è la salvezza di Gesù.
Se Gesù si avvicina all’uomo e questi si lascia avvicinare da Gesù,
da questo incontro nasce una comunione che è condizione di vita,
comunione che è già vita eterna. Se l’uomo è peccatore, bisogna
dirgli che sbaglia, ma questo non deve intaccare l’accoglienza, il
perdono, la fiducia, anzi, favorirla, affinché possa ripartire da capo.
Occorre aiutarlo a sentirsi accolto da Dio come Padre, a scoprire
il suo volto luminoso che risplende nella persona di Gesù. Grazie
a lui è restituita quell’immagine che il peccato aveva deturpato.
Scrive Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia: «[La conversione] è la più concreta espressione dell’opera dell’amore e
della presenza della misericordia nel mondo umano. Il significato
vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello
sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto
verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove
e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e
nell’uomo»116.
«Se Dio è misericordioso, l’uomo è chiamato a ricevere con
gratitudine la misericordia di cui ha profondamente bisogno perché
limitato, malato, peccatore; ma è allo stesso tempo interpellato
a diventare misericordioso col prossimo, col fratello, col nemico.
Scrive papa Francesco nella bolla d’indizione del giubileo straordinario della misericordia: «Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma
l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono» (Misericordiae vultus, 21).
116
Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 6.
115
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Altrimenti non può entrare nel regno di questo Dio. La misericordia
sollecita la profonda conversione dell’uomo»117.
L’incontro con Gesù ha prodotto cambiamenti reali nella vita
di ciascuno di noi, così come era avvenuto per Zaccheo. Ma, a
distanza di anni dalla nostra discesa dal sicomoro, quanto è rimasto del quattro volte tanto promesso al Signore? Quanto il nostro
cambiamento di vita si è consolidato e stabilito col passare del
tempo? Quanto, invece, ci siamo ripresi mano a mano che il tempo
passava e la nostra riconoscenza si affievoliva?
E non è solo al passato che ci dobbiamo rivolgere, ma anche al
presente. Infatti ogni giorno noi veniamo sommersi nell’abisso del
suo amore e della sua misericordia a causa della disgrazia che abbiamo di offenderlo ogni giorno tante volte118 con il nostro peccato.
Chiediamoci allora: come rispondo al suo amore e alla sua misericordia che perdona le mie colpe e mi spinge a cambiare la mia
condotta e a testimoniare la mia fede con le opere e ad ardere nel
fuoco della sua carità119.
Se la misericordia ottenuta non saprà portare frutti di conversione vera e duratura, se non mi farà crescere nello zelo per
il regno di Dio infiammando le mie giornate col desiderio di mostrare a tutti quanto è stato buono il Signore con me, se non sarò
pronto a restituire quadruplicato tutto ciò che con il mio peccato
ho sottratto alla costruzione del Regno di Dio, se non andrò con
nuovo slancio verso il prossimo... allora nonostante l’esperienza
dell’amore misericordioso di Gesù che mi ha perdonato senza
giudicarmi e, come un amico, si è invitato a casa mia... non potrò
sentirmi dire: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza».
Occorre che la misericordia che ogni giorno ricevo nella mia vita
susciti la conversione, e che essa a sua volta si esprima in scelte
concrete di vita. È illusorio credere di vivere una vera esperienza
Domenico Cancian, op. cit., p. 44.
Cfr. Madre Speranza di Gesù, Novena all’amore misericordioso.
119
Cfr. idem.
117
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dell’amore di Dio, se questa non provoca scelte concrete di conversione nel mio cammino di fede quotidiano.
Dalla conversione alla misericordia
Se il segno della conversione di Zaccheo è la restituzione
sovrabbondante del maltolto, il segno della nostra conversione
è anch’esso una restituzione senza riserve: quella della misericordia che abbiamo ricevuto da Gesù. È facile incontrare persone
tutt’altro che raccomandabili, con storie personali rovinose per
sé e per altri. È in questi contatti che possiamo restituire con la
maggiore abbondanza. Toccando i vari Zaccheo che incontriamo,
fermandoci a casa loro (non solo in senso metaforico), impariamo
a sporcarci le mani, respingiamo la tentazione di non voler aver
nulla a che fare con loro.
Prendere questa attitudine richiede però un onesto lavoro su
noi stessi e sulla nostra coerenza di vita e, naturalmente, il ricorso
alla grazia.
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APPUNTI DELLA CATECHESI:
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APPUNTI...
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IL PROPOSITO:
LA REVISIONE DI VITA:
LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho
accolto la sua Parola?
I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia,
nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di
costruzione dell’amore?
I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono
stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?
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LA COMPASSIONE DI GESÙ
LA COMPASSIONE
E IL PERDONO DEI PECCATI
G
esù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di
nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e
si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una
donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè,
nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne
dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di
accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di
voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi
di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per
uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là
in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti
ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse:
«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più»120.
Qualche considerazione per leggere il testo
✴«Gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo...».
Ai farisei e agli scribi non sembra vero: hanno trovato un’occasione
d’oro, un pretesto (e che pretesto!) per mettere in difficoltà Gesù. La
donna che è stata sorpresa in flagrante adulterio, è posta al centro
dell’attenzione, gettata nel mezzo, sotto lo sguardo di tutti. Non
sappiamo nulla di lei. Forse c’è del rimorso per quanto compiuto,
ma sicuramente c’è una grande paura per l’imminente giudizio e la
vergogna nel trovarsi in mezzo alla folla, svergognata pubblicamente, senza possibilità di difendersi, senza averne il diritto, visto che il
peccato è stato scoperto, è sotto gli occhi di tutti. Non è trattata da
persona, ma è soltanto una figura anonima, in attesa di un giudizio
120
Giovanni 8, 1-11.
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La compassione di Gesù
inappellabile, senza nessuna speranza di giustificazione. E che cosa
fa Gesù, di fronte a questa donna? Chinatosi, scrive, e, così facendo,
a poco a poco costringe i presenti a distogliere lo sguardo dalla donna
e a volgerlo su di lui.
✴«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Il
brano del Vangelo ci fa passare in un istante da parole scritte a terra, di
cui non sapremo mai nulla, a parole che colpiscono al cuore gli astanti
e rimangono incise per sempre nella storia. «Chi di voi è senza peccato,
getti per primo la pietra contro di lei». E di nuovo Gesù si china verso
terra, quasi estraneo a quanto succede intorno. Ha pronunciato, a suo
modo, una sentenza di giudizio, che costringe gli astanti a distogliere
di nuovo lo sguardo dalla donna, per provare a guardarsi dentro.
✴«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Gesù
rimane solo con la donna, dopo che tutti se ne sono andati. Sciolto
anche l’ultimo dubbio della donna («Neanch’io ti condanno», e avrebbe
potuto farlo...), la lascia andare con parole che a noi appaiono fin troppo leggere: «Va’ e non peccare più». Davvero il Signore è così ingenuo
da pensare che basti una raccomandazione così ovvia, così generica,
così poco spirituale ci verrebbe da dire, inutilmente esortativa, come
quando diciamo: «Fa’ il bravo» ai nostri bambini, sapendo che non lo
faranno di sicuro... Possibile che non le chieda qualcosa in più, che
non le domandi se è pentita, che non le chieda precise assicurazioni
e solenni promesse riguardo al suo futuro? In questo momento le potrebbe chiedere tutto: questa donna gli deve la vita, ma la misericordia
del Signore non si basa né sul pentimento del peccatore né sulla sua
reale capacità di cambiamento. Essa è implacabilmente gratuita, è
scandalosamente priva di qualsiasi forma di interesse o di scambio. È
umile e, forse per questo, è così impegnativa.
Spunti per vivere la compassione
✴ La domanda che si fa Gesù non è «qual è la punizione giusta per questo peccato», ma qual è la strada per cui questa donna possa ritrovare
se stessa, al di là del male compiuto. Il Signore non è preoccupato di
emettere un verdetto, ma di incontrare una persona. La compassione di
Gesù si esprime in questa incrollabile fiducia in me. Mi viene data fiducia
nel momento in cui io stesso sono consapevole di non meritarla, e non
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La compassione di Gesù
ho alcun argomento per domandarla e richiederla. Mi viene data fiducia
nel momento in cui mi vergogno di me stesso e il peso del mio peccato
è insostenibile. Mi viene data fiducia dal Signore nel momento in cui
nessuno me la darebbe, perché tutti possono vedere il mio peccato. Il
Signore mi considera degno di fiducia nel momento in cui io ho tradito
la fiducia, sono venuto meno alla parola data, ho lacerato un rapporto
prezioso, mi sono mostrato assolutamente inaffidabile, anche agli occhi
di me stesso.
✴ La compassione di Gesù invita a distogliere lo sguardo. Non si tratta
di far finta di non vedere, come se il peccato non esistesse. Si tratta di
imparare a guardare altro. Quando l’adultera è sotto lo sguardo di tutti,
Gesù attira l’attenzione su di sé con il gesto misterioso dello scrivere
per terra. È come se dicesse: «Guardate me, non guardate lei. Guardate
me che sono l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, che mi
porto addosso il peccato di ogni uomo, quello di questa donna e anche
il vostro, di voi che la giudicate e condannate». Non esiste solo il mio
peccato, per quanto grande possa essere; esiste la sua misericordia,
la sua compassione, che è infinitamente più grande. E quando uno si
sente così amato, così consolato, così accolto, almeno prova a vivere
nella logica della compassione, a entrare nella ferita dell’altro, a portare
su di sé almeno un poco del suo male e della sua umiliazione.
✴ La compassione di Gesù non dipende dal nostro pentimento e nemmeno dalla nostra capacità di non ricadere nel peccato. Niente lascia
supporre che l’adultera sia realmente pentita: il Vangelo non dice nulla
in proposito, non parla di una sua conversione, e neppure l’annovera tra
le donne che hanno seguito Gesù fino alla Pasqua. Magari ha cambiato
vita davvero, magari è ricaduta nello stesso peccato, o in molti altri...
Noi non lo possiamo sapere, resta chiaro solo che la compassione di
Gesù non è abituata a fare calcoli, a fare scommesse: è dono allo stato
puro.
✴
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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO
MARGHERITA DA CORTONA
«Voglio te, mio Signore, nient’altro che te»
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argherita nasce a Laviano, tra Umbria e Toscana, nel 1247. Suo padre
coltiva terreni affittati dal Comune di Perugia. I suoi primi anni sono
sereni e felici, ma la felicità è breve perché, quando ha solo otto anni, le
muore la madre. Il padre si risposa, ma, la donna portata in casa dal padre
le è doppiamente matrigna.
Fuga da casa
A quindici anni le si presenta il primo – e anche ultimo – amore della
sua vita: Arsenio, un giovane nobile e ricco di Montepulciano. Margherita
è bella e ha anche notevoli qualità di carattere, così da non sfigurare in
ambienti sociali diversi dal proprio. Da una parte respinta da una famiglia
che non sente più come sua, dall’altra attirata da un affetto che le pare
promettente, decide di correre il rischio e di accogliere l’invito di Arsenio a
fuggire, per andare a vivere a casa sua. Fugge, dunque, da sola e di notte,
a sedici anni. Discende da Laviano verso il fondo acquitrinoso della Val
di Chiana, dove corre il rischio di rimanere impigliata fra i canneti o addirittura di affogare, essendosi la barchetta, guidata con mano malsicura,
capovolta. Il Signore la protegge dall’«antico avversario», e la libera dal
pericolo, anche se la strada avventurosa, da lei iniziata, conduce a un
lungo periodo d’inquietudine.
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A Montepulciano crede di entrare in una casa nella quale guadagnerà
un grado di rispettabilità sociale: sarà salutata da nobili e popolani come
una signora; attraverserà la città sul cavallo bardato, orgogliosa del suo
giovane uomo, e la sua fama giungerà fino ai contadini di Laviano curvi
sulle biolche...
La realtà si rivela ben diversa. La famiglia di Arsenio si oppone alle
nozze: troppa la differenza sociale. Così, dopo esser fuggita di casa per
trovare una famiglia, si trova a non averne alcuna. Margherita alterna la
residenza in città con quella in campagna, dove sempre più viene relegata
da Arsenio, con la vana promessa che le cose cambieranno: in realtà è
ormai solo la sua concubina. Dopo alcuni anni nasce anche un bambino
e Margherita spera, inutilmente, che finalmente si possa riparare a quella
convivenza peccaminosa col sacramento del matrimonio. La situazione si
protrae, immutata, per nove anni.
L’assassinio di Arsenio
Margherita, dopo aver tanto atteso una soluzione che non arriva mai,
si trova ora davanti a un passo ben più arduo, per la piega drammatica
degli eventi. Arsenio muore assassinato durante una partita di caccia, a
pochi chilometri da Palazzi dove Margherita attende il suo ritorno. Vi
arriva invece, abbaiando disperatamente, il cane, che afferra Margherita
per la veste e la trascina al luogo dove l’uomo giace cadavere insanguinato, sotto una quercia.
Oltre che alla morte del giovane, al quale è stato legato il destino della
sua esistenza, Margherita non può sfuggire agli interrogativi ch’essa lascia
in sospeso: è un castigo di Dio? E in tal caso non è rivolto anche a lei? Quale
sarà ora il suo futuro? Il senso di colpa le esplode nel cuore e si sente persa.
Viene cacciata dalla casa di colui che doveva essere suo marito; anzi
proprio coloro sui quali ricadeva la responsabilità d’averne impedite le
nozze, si ergono a suoi giudici per un soprassalto di moralismo. Lei si
trova all’improvviso come una mendicante col suo bambino ancor piccolo ad affrontare la via del ritorno, come il figliol prodigo della parabola,
sperando nella bontà di suo padre, dopo nove anni di assenza. È un’altra
cocente delusione: la matrigna non le ha perdonato la fuga, tanto meno la
sbandierata prosperità; il padre si rifiuta di riceverla in casa. Sconfortata
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e smarrita, si dirige verso la chiesetta delle sue preghiere di bambina, si
getta a sedere per terra, in preda a mille pensieri contrastanti.
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La svolta
Nella disperazione di quel momento, Margherita ha ancora un sussulto
d’orgoglio e di rabbia: è l’«antico serpente» che la tenta. Una ragazza ancora bella come lei può avere tanti modi per guadagnarsi il pane: potrebbe
rifarsi una vita. Dopotutto non le sono mancati gli ammiratori nel tempo
della fortuna, e, con un po’ d’audacia, potrebbe ricercarne qualcuno. E
poi, dal momento ch’è stata respinta dal padre, di fronte alla propria
coscienza, se non una giustificazione, ha certo una scusa.
Ma si tratta solo di qualche momento d’oscurità, dettato dalla disperazione. Una luce, un’ispirazione improvvisa, le attraversa l’anima nel
profondo: capisce che la bellezza del corpo con la quale avrebbe potuto
ricostruire una fugace fortuna, non è destinata a durare, e neppure a darle
l’amore. Comincia a sentire dentro di sé una voce, riprende coraggio, si alza
in piedi, prende per mano il suo piccolo, e si mette in viaggio per Cortona.
La voce le ha suggerito di andare a mettersi sotto la protezione dei
frati di san Francesco: più che un suggerimento, era stato un comando
al quale bisognava obbedire senza indugio e con fiducioso abbandono.
Proprio questa forza irresistibile, questa soave violenza ch’è il contrassegno della presenza dello Spirito, è la grazia della conversione.
«Che cosa vuoi, poverella?»
Margherita sale alla città sul colle, entra da una porta e si ferma in
attesa. La provvidenza di Dio non si fa attendere: due nobili signore che
hanno il loro palazzo lì vicino, notano la ragazza col bambino e l’accolgono
offrendole ospitalità, protezione, mettendola in condizione di lavorare.
La presentano ai frati del Convento di san Francesco e lì, Margherita
comincia una nuova vita.
Nella grande chiesa c’è un crocifisso di legno che diverrà il fulcro
della sua attenzione; lei comincia a prostrarsi, tra le lacrime per i peccati
commessi, davanti a Gesù sofferente, desiderosa della sua misericordia.
Sente l’irrefrenabile desiderio di confessarsi e, dopo una prima confessione
generale, lo farà ogni giorno. Desidera espiare e la sua nuova vita prende
una ritmo regolare: fervida penitenza, carità verso i poveri, assistenza
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alle ore canoniche e alle celebrazioni liturgiche. Le pie signore le hanno
predisposto una celletta che le consente una discreta solitudine, dove
vive col figlio, riceve i poveri e i malati; da qui si reca nelle loro abitazioni
per servirli e curarli. Per guadagnare di che vivere assiste le partorienti e
prepara da mangiare «vivande saporite», cercando, per quanto possibile,
di continuare anche in casa altrui, l’austera vita di penitenza e di preghiera
già iniziata. Il Signore le fa capire che deve andare nella chiesa dei frati,
perché lì riceverà il necessario per lei e i suoi poveri.
Frattanto, cresce sempre più il suo bisogno di solitudine e di totale
dedizione alla contemplazione. Vorrebbe dare il suo tempo, la vita e tutte
le sue cose ai poveri e malati, ma nello stesso tempo – per l’amore a Cristo
che diventa sempre più impellente – desidera stare il più a lungo possibile
a parlare solo con lui. Per conciliare le due esigenze, ha bisogno di una
assoluta autonomia spirituale e materiale, e anche di una cella più isolata.
Ottiene la prima cosa dopo tre anni del suo arrivo a Cortona, entrando
nel Terz’Ordine Francescano della Penitenza. Le occorre insistere, perché i
frati dubitano della sua perseveranza e anche perché è «troppo giovane e
bella» e l’ammissione al Terz’Ordine è cosa di grande impegno e rigore. A
vincere ogni perplessità giova il suo straordinario fervore nella preghiera
e nell’amore di Dio, che i frati possono direttamente osservare nelle molte
ore da lei passate in contemplazione estatica, nell’oratorio. Un giorno
prostrata davanti al grande crocifisso, ne ode – per la prima volta – la
voce: «Cosa vuoi, poverella?». «Voglio te, mio Signore, nient’altro che te!».
Tutta per Gesù, nella preghiera e nei poveri
Ora è «una donna nuova». Colloca il figlio presso un precettore, quindi
le diviene possibile abbandonarsi a lacrime, austere penitenze, amorosi
colloqui con Cristo in solitudine, e all’assistenza dei poveri. Per questi ultimi
si accorge che occorre qualcosa di più stabile per aiutarli efficacemente.
Persuade, perciò, un «generoso signore» ad appoggiarla; convince, quindi,
una nobile signora a mettere a disposizione la sua casa e a collaborare,
dotandola di ogni bene «mobile ed immobile», perché nulla manchi ai
bisognosi. È questo l’inizio dell’Ospedale di Santa Maria della misericordia
per il cui sostegno fonda una Confraternita.
La Casa di misericordia è l’opera del cuore di Margherita; vuole che non
si risparmi nulla perché i poveri vi siano soccorsi con larghezza. Per lei la
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povertà è una scelta volontaria, liberatrice ed espiatrice; ma non sopporta
che gli altri, i poveri, i sofferenti, specialmente le mamme e i bambini,
soffrano senza trovare in lei una mamma e una sorella, per amore di Dio.
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Penitenza incessante e umiltà straordinaria
Margherita continua a lottare con la percezione del proprio peccato
dinanzi all’infinita misericordia di Dio che l’ha perdonata. L’umiltà eccezionale con cui denuncia pubblicamente – con grandi grida di dolore – il
proprio passato, sconcerta e fa piangere la gente che l’ascolta; inizialmente
considerata pazza, ora diviene credibile proprio per la penitenza che pratica,
espiando i propri e gli altrui peccati (lei ne soffre come per i suoi, nel momento in cui li denuncia o li scopre, nei secolari o nei sacerdoti e persino
nei vescovi). Il Signore l’ha costituita come specchio e luce delle anime.
Alle opere di carità Margherita aggiunge, con un crescendo spaventoso,
una penitenza incessante. Vorrebbe persino deformare il proprio volto,
se l’insano proposito non le fosse fermamente proibito dal confessore.
Vorrebbe recarsi a Montepulciano col volto bendato come una cieca,
trascinata per mano e vituperata da una donna: ma anche questo le
viene vietato. Riesce a ottenere di recarsi almeno a Laviano, suo paese
natale, un giorno di domenica, dove chiede pubblicamente perdono per
lo scandalo arrecato, durante la Messa nella chiesa parrocchiale. Forse
questo le pesa di più perché deve comparire davanti ai suoi parenti e a
coloro che da giovane l’avevano conosciuta, condannata e respinta.
«Figlia»
Il tormentoso ripensare al passato può tuttavia divenire paralizzante,
perciò, il Signore, la eleva a un confidente abbandono. Un giorno il Crocifisso, davanti al quale suole fermarsi in contemplazione amorosa, risponde
al suo desiderio chiamandola «Figlia», ed è per lei subito un’estasi di gioia.
Da quel momento il pensiero dell’amore di Cristo, il desiderio di parlare
con lui, la contemplazione della sua passione ripercorsa mentalmente ogni
giorno, sono il tormento e, insieme, il gaudio della sua anima.
Un mattino, prima che spunti il sole, Margherita si reca, per invito
del Signore, alla chiesa dei frati, per esservi «mentalmente crocifissa».
Così avviene: dall’ora di Terza fino al tramonto, resta assorta, in mezzo
alla folla commossa, soffrendo visibilmente ad uno ad uno i dolori del
Crocifisso, fino alla morte: «All’ora Nona, in cui il Signore aveva esalato lo
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spirito, ella piegò il suo capo obliquamente sul petto, tanto che noi – dice
il testimone – la credevamo morta, avendo pure perduto ogni sensibilità e
movimento». Un’altra volta, di Venerdì Santo, la si vede uscire dalla cella
e correre per le vie della città e per le Chiese, gridando «come una madre
che abbia perduto il suo figlio». Se è follia, è follia d’amore.
«Amarti sempre»
Quando i fenomeni mistici diventano così frequenti da non potersi occultare, Margherita sente il bisogno di salire più in alto, verso la rocca, in una
celletta vicino ad una chiesetta in rovina che lei stessa restaurerà. Nei nove
anni che vi trascorre, come «del tutto reclusa», ci sono la contemplazione e
il combattimento. Il silenzio è rotto frequentemente da sospiri e da gemiti,
o da esclamazioni gioiose nei rapimenti mistici, e anche dai colloqui che
intrattiene con Gesù, la Vergine, e con i santi. Un giorno, Gesù le mostra
come il trono lasciato vuoto da Lucifero, sia stato assegnato a san Francesco.
A volte il silenzio si riempie di incubi infernali: l’«antico nemico» compare a Margherita in forme grottesche e spaventose, le rinfaccia le sue
penitenze suicide, le presunte apparizioni, le insinua la disperazione. Lei
invoca l’angelo Dio e non smette di implorare: «Signore, tu sai che dove
sei tu, là è vera e perfetta letizia! Io non chiedo altro che d’amarti sempre
e di servire alla tua maestà!».
Gesù rivela a Margherita l’ora e il giorno in cui verrà a prenderla, e lei vi
si dispone con allegrezza. Per diciassette giorni le vengono meno le forze,
tanto da non poter né mangiare né bere. Finalmente, il 22 Febbraio 1297,
festa della cattedra di san Pietro, poco prima che spunti il sole, il volto le
si illumina di gioia e di bellezza; poi spira, mentre i presenti avvertono una
misteriosa dolcezza e un soave profumo, segno dei tanti doni di grazia e
di santità di cui Margherita era stata ricolmata dalla misericordia divina.
✴
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v tappa
I DISCEPOLI DI EMMAUS
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I DISCEPOLI DI EMMAUS
MISERICORDIA E OPERE SPIRITUALI
E
d ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per
un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri
da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era
accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in
persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano
impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi
discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli rispose: «Solo
tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in
questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò
che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e
in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse
colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre
giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne,
delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla
tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di
aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli
è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato
come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che
hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste
sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè
e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli
fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero:
«Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».
Egli entrò per rimanere con loro.
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I discepoli di Emmaus
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi
e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero
l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli
conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove
trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed
essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano
riconosciuto nello spezzare il pane121.
PER LEGGERE IL VANGELO
I due discepoli di Emmaus non compiono solo un cammino
materiale, da un luogo ad un altro, ma maturano un nuovo modo
di rapportarsi a Cristo. Essi passano dalla presunta conoscenza
di Cristo a una conoscenza autentica che si costruisce in loro
progressivamente, grazie all’intervento personale di Gesù.
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Personaggi e circostanze
«Quello stesso giorno due di loro erano in cammino [...] e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto». Siamo nel pomeriggio del giorno di Pasqua. «Due di loro», cioè due del gruppo dei
discepoli, lasciano Gerusalemme per recarsi a Emmaus, un villaggio
distante circa unici chilometri dalla città santa, probabilmente loro
paese d’origine. Questo allontanamento ha il sapore amaro di una
sconfitta, l’atroce delusione del tutto finito, il crollo rovinoso di
una speranza coltivata con passione per qualche tempo. Eppure
essi non possono troncare nettamente con il passato, che non si
cancella dalla propria vita con un colpo di spugna: infatti «conversavano di tutto quello che era accaduto».
Tutto è finito, ma Cristo continua a suscitare il loro interesse:
per questo conversano e il loro dialogo è animato, tanto che la
121
Luca 24, 13-35.
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I discepoli di Emmaus
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conversazione si trasforma in discussione, con opinioni divergenti
e dubbi insoluti.
«Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro». Gesù si
unisce a loro, perché il cammino materiale diventi un cammino
di fede; cammina insieme a loro per aiutarli a crescere, ad aprirsi
ad orizzonti nuovi e a dare senso pieno alla loro esistenza. È lì,
vicino ai due, «ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». I
due non possono riconoscere Gesù, perché i loro occhi umani non
sono in grado di riconoscere il corpo trasfigurato di Cristo risorto.
Questo è possibile solo per grazia, che è dono di Dio. Solo chi
riceve questo dono, può riconoscere Gesù, e il dono è dato a chi
cammina nella fede. Gesù con la sua presenza aiuta a progredire i
due discepoli, che devono passare da una conoscenza carnale di
Gesù a una conoscenza di fede.
Quello che noi pensavamo e speravamo in lui
È facile, e quasi normale, costruirsi un Cristo su misura, capace
di entrare senza troppi sforzi nei nostri schemi e programmi: a
questa tentazione hanno ceduto anche i due discepoli. Il dialogo
inizia con una provocazione di Gesù, orientata proprio a demolire
l’idolo che i due si sono fatti. Gesù prende l’iniziativa per entrare
in dialogo con loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo
tra voi lungo il cammino?». La prima risposta, immediata e istintiva,
rivela una meraviglia stizzosa: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme!
Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?».
«Domandò loro: “Che cosa?”. Gli risposero: “Ciò che riguarda
Gesù, il Nazareno...”». Con il «Che cosa?» di Gesù viene posta la
premessa perché i due si aprano allo sconosciuto viandante, manifestando i loro sentimenti e l’idolo che si erano fatta di Gesù.
I due conservano per Gesù un’ammirazione ormai diventata
nostalgia; essi delineano sinteticamente l’immagine di Gesù che
si sono costruiti nel tempo. Nei confronti di Gesù nutrono una
grande stima: la sua grandezza era legata sia alla sua parola sia
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I discepoli di Emmaus
ai suoi miracoli; la sua opera era mirabile e lo accreditava tanto
presso Dio quanto presso il popolo. Tuttavia la morte, e tanto più
la morte in croce, ha gettato un’ombra sulla persona di Gesù e
ha incrinato – se non proprio spezzato – la ferrea fiducia riposta
in lui. Nessun ebreo poteva dimenticare la severa condanna della
legge: «Colui che è appeso è una maledizione di Dio»122.
«Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele».
È questa la frase chiave, indizio della mentalità dei due, per i quali
Gesù doveva essere il Messia politico, il liberatore in senso umano,
quello che tutti potevano vedere e capire, quello che tutti attendevano, per restituire a Israele il prestigio di un tempo, liberandolo
dall’assoggettamento ai Romani123.
«Alcune donne sono venute a dirci di aver avuto una visione
di angeli, i quali affermano che egli è vivo». Quanto queste idee
fossero profondamente radicate, lo dimostra il fatto che la novità
non viene accolta, e tanto meno vissuta: il sepolcro vuoto, la testimonianza delle donne, la conferma dei discepoli, tutto accade
senza incidere minimamente. Il loro atteggiamento di chiusura,
di non disponibilità a una realtà che pure orienta verso qualcosa
di nuovo, ha come conseguenza la desolazione interiore che si
riflette nella tristezza del loro volto.
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Quello che Gesù aiuta a pensare e a sperare
«Stolti e lenti di cuore a credere». Ora non sono più i due discepoli a parlare, a dire ciò che pensano di Gesù, ma è lui a rivelare
quello che devono pensare, per mettersi in cammino e accogliere il
messaggio e la novità della risurrezione. L’inizio è duro: si è «stolti»
(incapaci di comprendere) e «lenti di cuore» (ostinati e riluttanti
davanti alla testimonianza) quando, davanti alla parola dei profeti,
122
123
Deuteronomio 21, 23.
A questo si aggiunge l’inconciliabilità per la mentalità ebraica dell’idea di sofferenza-morte con l’idea di potenza-vita di Dio: se Gesù fosse stato l’inviato di
Dio, avrebbe dovuto necessariamente partecipare della sua potenza e, quindi, non
avrebbe potuto né soffrire, né morire.
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I discepoli di Emmaus
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non ci si mette in viaggio alla ricerca di un orizzonte nuovo. Si
è «stolti e lenti di cuore» quando, ostinatamente, non si vogliono
leggere i segni dei tempi – parola di Dio scritta negli avvenimenti
– e si rimane prigionieri dei propri schemi.
«Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare
nella sua gloria?». Gesù inizia per i due e con i due un entusiasmante viaggio attraverso la parola profetica: viene annunciata la
croce come strumento di redenzione e di salvezza, viene presentata
la morte come germe di vita124.
Quali brani della Legge o dei profeti ha citato Gesù? Il testo
evangelico non si esprime, e a noi non resta che fare congetture.
Forse ha ricordato il Salmo 22, da lui stesso gridato sulla croce:
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»125. La prima parte
del salmo è tenebrosa, carica di abbandono e di morte, la seconda parte, invece, si apre a una speranza piena di attesa, ardente
di vita. Non è il grido strozzato di un morente disperato, bensì
l’anelito sofferto di colui che rimette tutto all’imperscrutabile
volontà divina.
Molto probabilmente Gesù ha citato i canti del servo di JHWH,
soprattutto il quarto, dove si esalta l’amore gratuito di un solo
uomo che muore per gli altri. Isaia afferma per la prima volta, in
modo inequivocabile, che la sofferenza può avere valore redentivo: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre
iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le
sue piaghe noi siamo stati guariti»126.
Poiché era proprio la sofferenza, inclusa la morte intesa come
suprema sofferenza, a creare difficoltà, dobbiamo supporre che
Gesù abbia insistito su questo punto. Si trattava di far vedere come
Scrive Giovanni Paolo ii nella sua enciclica Dives in misericordia: «La croce è il più
profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose
dell’esistenza terrena dell’uomo».
125
Matteo 27, 46.
126
Isaia 53, 5.
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la sofferenza non fosse necessariamente segno della lontananza
di Dio e marchio di infamia, ma potesse assurgere a impensato
strumento di salvezza. Gesù non è venuto a spiegare la sofferenza
in forma astratta, né a sopprimerla, ma a riempirla con la realtà
della sua croce, e, da allora, «tutta la sofferenza che c’è nel mondo
non è la sofferenza dell’agonia, ma il dolore del parto» (Paul Claudel). Con un improvvisato mini-corso esegetico, Gesù ha cercato
di spiegare questa sublime verità ai due discepoli.
Gesù insegna a capire il mistero della vita (risurrezione) partendo dalla sofferenza e dalla morte. Fa questo aprendo la loro intelligenza alla comprensione delle Scritture e camminando con loro;
li aiuta a compiere il passo decisivo che porta al di là del semplice
fatto della morte, per scorgere la luce della vita. Gesù esegeta ha
inaugurato un modo nuovo di fare scuola: è la scuola della vita,
la scuola del maestro che cammina con i discepoli.
«Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece
come se dovesse andare più lontano». Hanno compreso i due la
lezione? Il tentativo di Gesù di andare più lontano, ha la funzione
di un mini-esame, appendice del mini-corso biblico che si è appena
concluso. Spontaneo e logico arriva il: «Resta con noi». La presenza
di Gesù non solo non dà fastidio, ma piace. Il misterioso viandante
ha aperto prospettive nuove, ha aiutato a leggere la realtà in profondità e con occhi nuovi. Come d’incanto, tutto ha acquistato un
senso, e perfino la sofferenza e la morte sono valorizzate nel piano
di Dio. Il desiderio di trattenere l’ospite significa che le sue parole
sono state comprese e accolte. L’esame è brillantemente superato.
«Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione,
lo spezzò e lo diede loro». Gesù accetta l’invito a restare, perché
la sua missione non si è ancora conclusa: vuole ricordare che il
cammino inizia con la Scrittura e termina, anzi culmina, nell’azione
sacramentale dello spezzare il pane. A questo punto «si aprirono
loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dallo loro vista». Prima
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I discepoli di Emmaus
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lo vedevano e non lo riconoscevano, ora lo riconoscono, ma non
lo vedono più.
«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava
con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Emmaus,
luogo iniziale di destinazione e tomba delle speranze, si colora
di fiducia: il cammino non termina, ma a Emmaus si è rischiarato
l’orizzonte e la vita ha ripreso a pulsare. Il battito del cuore che
torna a sperare è stato avvertito, quando si leggevano e comprendevano le Scritture in modo nuovo. Se, prima, dubbi e incertezze
si dipingevano sul loro volto con i tratti della tristezza, ora, al
contrario, è di casa la gioia ardente e incontenibile, la comprensione luminosa che permette di integrare tutto nel piano di Dio,
realizzato dal Messia Gesù e preannunciato dalle Scritture. Ora
sono uomini con il cuore traboccante di gioia: il loro cammino ha
toccato un traguardo importante, ma non ha raggiunto ancora la
meta definitiva.
Il risultato del cammino
«Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme». La
scoperta di Cristo li rende necessariamente annunciatori, missionari. Non valgono le motivazioni, pur vere, della stanchezza
e dell’ora tarda: ripartono per compiere, con il cuore colmo, quel
cammino che poche ore prima avevano percorso tristi. Ritornano
a Gerusalemme ad annunciare che il loro cammino verso Emmaus
non è stato tanto e solo il passare da un luogo a un altro, quanto piuttosto il cammino da una visione miope del Messia a una
visione profonda, serena e completa della realtà da loro vissuta.
Tutto questo è stato reso possibile dal misterioso pellegrino che,
unitosi al loro cammino verso Emmaus, li ha aiutati ad accettare
come indispensabile il passaggio attraverso la sofferenza e la donazione totale, perché così insegnano le Scritture e in ciò consiste
il pane spezzato.
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I discepoli di Emmaus
I due ritornano da coloro che condividevano la stessa fiducia
in Gesù, da coloro che avevano vissuto la tragedia del Venerdì e
il conseguente crollo delle speranze e, al loro arrivo, sono accolti
dagli amici che, a loro volta, testimoniano: «Davvero il Signore è
risorto ed è apparso a Simone». Come i due discepoli, tutti gli uomini
che leggono questa pagina del vangelo, sono invitati a ripercorrere
la stessa strada che porta a una conoscenza sempre più profonda
e personale di Cristo, per annunciarlo e testimoniarlo, facendosi
a loro volta compagni di cammino, affiancandosi ai fratelli, così
come Gesù ha fatto con loro.
PER VIVERE IL VANGELO
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Le opere di misericordia spirituali
Come abbiamo già ricordato, l’elenco normativo delle opere di
misericordia corporali, ha origine dal famoso racconto del giudizio
universale del vangelo secondo Matteo127, in cui il Figlio dell’uomo
ricompensa i buoni per la misericordia usata verso il prossimo. Si
tratta di una misericordia che, d’altronde, dice carità semplice,
spicciola: non occorrono, infatti, grandi studi per comprendere il
senso di queste opere (dar da mangiare a chi ha fame, dar da bere
a chi ha sete...)128.
Ma accanto all’elenco delle opere di misericordia corporale, la
Chiesa ci propone un altro settenario che riguarda lo spirito, proprio
perché l’uomo non è solo corpo, e la misericordia non riguarda
solo la materia. Esiste, infatti, una misericordia ugualmente seria e
salvifica attinente lo spirito dell’uomo, alle sue necessità profonde
e irrinunciabili, che lo costituiscono ben oltre la sua fisicità. Queste
opere sono: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammo-
Matteo 25, 31-46.
Potremmo dire che si tratta di quella misericordia essenziale che l’essere umano
non può non conoscere a motivo della sua stessa vita.
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I discepoli di Emmaus
nire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare
pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti.
Nella pagina di vangelo che meditiamo in questa tappa, notiamo
che Gesù stesso compie queste opere di misericordia consigliando, insegnando, ammonendo, consolando i due discepoli: e forse
potremmo aggiungere che ha anche perdonato la loro incredulità,
ha sopportato la loro durezza di cuore e ha pregato per loro...
mettendole così in pratica tutte e sette le opere...
Proviamo anche noi a confrontarci con questo modo di agire di
Gesù, con queste opere spirituali. Ogni giornata che ci viene data
da vivere è ricca di possibilità di bene che noi possiamo operare
facendoci vicini ai nostri fratelli e loro compagni di viaggio.
✴
Qui di seguito sono riportate con brevi commenti tutte e sette
le opere di misericordia spirituali. Non sarà necessario fermarsi
a riflettere su tutte, ma solo su quelle che interpellano di più la
nostra vita.
Consigliare i dubbiosi
È la prima dell’elenco. Questa scelta potrebbe stupirci. È così
importante? Certo non stiamo parlando del dubbio davanti alla
scelta della cravatta da abbinare a un vestito; il dubbio a cui ci
riferiamo, riguarda la felicità vera, cioè la qualità della nostra vita
e, quindi, per il cristiano, la ricerca della volontà di Dio129. Non si
fa fatica a trovare consiglieri nella vita: sembra che tutti sappiano, tutti vedano e siano capaci di risolvere (sulla pelle degli altri,
ovviamente). A volte Gesù sembra divertirsi a mettere in ridicolo
tanti consiglieri improbabili: «Può forse un cieco guidare un altro
cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?»130 e, poco più avanti
Tanti davanti alle scelte importanti della vita rimangono paralizzati. Specialmente i
giovani oggi rinunciano a prendere delle decisioni per la propria vita, bloccati come
sono da tante insicurezze
130
Luca 6, 39.
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aggiunge: «Come puoi dire al tuo fratello: Fratello, lascia che tolga la
pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu stesso non vedi la trave che
è nel tuo occhio?»131. Per occuparsi degli altri, bisogna sgombrare
gli occhi da tutto ciò che li acceca. Chi non ha ancora capito cosa
fare della propria vita, come potrà essere un buon consigliere per
gli altri? E chi non è capace di vedere il male nella sua vita, come
potrà occuparsi degli altri per indirizzarli al bene? Ciò non significa che bisogna essere perfetti, e impeccabili per poter dare un
consiglio, altrimenti chi potrebbe farlo? È necessario, però, saper
discernere almeno il bene dal male!
Pensiamo a quale importanza possa avere per una donna incinta
in difficoltà, avere a fianco una persona che abbia il senso sacro
della vita. Ecco allora i tratti del buon consigliere: abbia occhi
limpidi, sia sapiente di quella sapienza che è dono dello Spirito
Santo, sia amante e cercatore della verità, non sia guidato da altri
interessi se non il vero bene della persona.
Questo è l’ambito tipico dell’accompagnamento spirituale. Esso
«può essere un luogo importante per dare consigli, avendo presente
che non si tratta di dire all’altro ciò che deve fare, ma di aiutarlo
a trovare la risposta a ciò che già abita in lui e che egli non sa o
non osa far emergere, oppure di suggerirgli delle possibilità a cui
lui non aveva ancora pensato»132.
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Insegnare agli ignoranti
Questa seconda opera, che potrebbe suonare presuntuosa
per gli uni e avvilente per gli altri, in realtà non implica l’idea di
ritenersi superiori a qualcuno. È così che da sempre funziona il
nostro mondo: il più esperto istruisce il meno esperto. Pensiamo
alla schiera dei santi educatori, fondatori di istituti dediti all’educazione dei ragazzi, perché «avevano capito che l’ignoranza è la
forma più grave di povertà e dedicarono tutta la loro vita e la loro
131
132
Luca 6, 42.
Luciano Manicardi, La fatica della carità: le opere di misericordia, Qiqajon, Torino
2010, p. 143.
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missione per cercare di «costruire uomini» istruendoli, affinché
avessero in mano la propria vita in modo responsabile»133.
È chiaro che non è tanto la cultura universitaria che il mondo
deve attendersi dai cristiani, quanto la sapienza di Cristo e della
croce. Insegnare agli ignoranti è unirsi allo stesso compito di Gesù
Maestro, ed è un compito urgentissimo «oggi che c’è quasi bisogno
di alfabetizzazione della fede»134. Si tratta, quindi, non tanto del
kerygma, il primo annuncio, ma del problema fondamentale della
trasmissione della fede, attraverso la catechesi e l’insegnamento.
Il primo e importantissimo ambito di educazione e istruzione
è la famiglia. I genitori hanno un compito fondamentale, e non
demandabile a nessun altro, nella trasmissione della fede: è un
loro preciso dovere, derivante dal sacramento del matrimonio.
È triste, oggi, dover constatare che spesso abdicano a questo
ruolo, perché trovano più facile accontentare che educare. Ma
non dimentichiamo un altro ambito importantissimo: quello dei
catechisti, chiamati ad educare i bambini alla fede. Quale grande
dono poter orientare ad una visione cristiana della vita e aiutare i
piccoli a vedere il volto di Dio135. Quanto sentiamo nostra questa
responsabilità?
Ammonire i peccatori
In questa epoca di relativismo, in cui ognuno crede di poter
decidere ciò che è bene e ciò che è male, diventa davvero difficile
praticare questa opera di misericordia, ma quello di essere sentinelle
gli uni per gli altri è un ruolo profetico non demandabile136.
Ammonire il peccatore rientra in quel delicato compito che è
la correzione fraterna. Essa non significa giudicare o condannare il
mio prossimo, né dà il diritto di dire sempre quello che si pensa,
Rocco Camillò, Posseduti dall’amore, Fede & Cultura, 2013, p. 23.
Rocco Camillò, op. cit., p. 36.
135
E non solo ai bambini, ma anche a tutti quei battezzati che sono ignoranti del
proprio cristianesimo.
136
Cfr. Ezechiele 33, 1.
133
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ma l’unica sua motivazione – la dà Gesù stesso – è guadagnare il
proprio fratello137. «La correzione è valida e può essere ben accolta se avviene all’interno di un rapporto d’amore reale e sincero,
altrimenti può diventare un giudizio gratuito. [...] Prima di fare
una correzione, bisogna essere sicuri che abbiamo nel cuore una
fondamentale disposizione di accoglienza verso la persona, che
siamo animati da un amore sincero, dal dolore vero di vedere lo
sbaglio, non da stizza, rabbia, o superiorità [...] Prima di arrivare
a dire una parola bisogna aver pregato e sofferto per lo sbaglio
di quel fratello. Solo l’amore mi suggerirà se è il caso o no di intervenire, se è il momento opportuno o no di dirgli una parola, e
mi darà anche le parole giuste da dire»138. Ma non dimentichiamo
che ammonire i peccatori comporta anche il dovere di denunciare
al mondo cosa è secondo Dio e cosa non lo è. Non si può tacere
davanti a leggi e ideologie che sono palesemente contro l’uomo
e la verità: la carità, perché sia autentica, esige che il bene sia
indicato come tale e il male sia denunciato come tale.
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Consolare gli afflitti
Questa è l’opera di misericordia che ci fa accorgere del dolore
degli altri e ci offre, allo stesso tempo, una via d’uscita dal nostro
egoismo. I motivi dell’afflizione possono essere diversi: una grave
malattia, nostra o di una persona cara, un lutto, l’abbandono di
chi ti amava, l’incomprensione, i fallimenti. Vedere l’afflizione di
chi ci sta accanto, in ogni caso, non deve lasciarci indifferenti.
San Pietro raccomanda ai cristiani che siano «tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno,
misericordiosi, umili»139. Sono indicazioni preziose che ci fanno
comprendere cosa voglia dire consolare chi è nell’afflizione. L’arte
di consolare consiste in una presenza, per condividere gioie e
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui
solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Matteo 18, 15).
138
Rocco Camillò, op. cit., p. 44.
139
1Pietro 3, 8.
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dolori140. La consolazione, dunque, non deve tanto preoccuparsi
di discorsi o di gesti, ma va nella direzione del far sentire una
prossimità, di esserci come presenza fraterna.
Occorre, però, ricordare sempre che Gesù Cristo è la consolazione donata da Dio al mondo. «Dio ti consola mostrandoti che
lui ha sofferto per liberarti dalle tue afflizioni, per liberarti dalla
morte e offrirti la pienezza della vita [...] Consolare gli afflitti vuol
dire entrare in questa consolazione: offrirsi perché le persone siano alleggerite nel loro dolore, perché vogliamo portarlo insieme
a loro; consolare è darsi per diventare segno della consolazione
di Dio»141.
Perdonare le offese
Davanti al riconoscimento umile delle proprie colpe e alla richiesta sincera di perdono, difficilmente si nega il perdono... ma
non sempre è così facile nella vita. Il problema è che nei nostri
rapporti ci sono spesso muri di orgoglio che si ergono uno contro
l’altro, ragioni personali che non vogliono essere messe da parte,
dolori e delusioni grandi che generano desideri di rifarsi del male
ricevuto, di superarlo in intensità, per far provare agli altri quanto
abbiamo sofferto a causa loro.
Nella vita possono capitare cose terribili per le quali perdonare
non è per nulla facile. Eppure Gesù, su questo tema, è quanto mai
chiaro. Quante volte dovrò perdonare mia moglie o mio marito che
mi manca gravemente? Quante volte dovrò perdonare mio padre o
mia madre? Quante volte dovrò perdonare il mio collega di lavoro
dal quale subisco un’ingiustizia? Quante volte dovrò perdonare i
tradimenti, le slealtà, le ferite? Devi perdonare settanta volte sette. Vale a dire che devi perdere il conto. Vuol dire che non esiste
nessun caso in cui sia sbagliato perdonare, non esiste una volta
in cui sia colma la misura. Perdonare significa avere un amore più
Il verbo che indica l’atto di consolare è parakalein (da cui l’attributo dello Spirito
Santo: paraclito) che si traduce con chiamare accanto, far venire a sé.
141
Rocco Camillò, op. cit., p. 64.
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grande del male ricevuto. «Nessuno è perdonato perché lo merita,
ma perché il perdono parte da Dio che è buono, e tutti, in quanto
salvati, dobbiamo diffondere questa sua misericordia»142.
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Sopportare pazientemente le persone moleste
C’è un’iniziale sorpresa nel ritrovarsi davanti a quest’opera di
misericordia spirituale, ma, a pensarci bene, che cosa c’è di più
concreto? Esiste forse qualcuno che non abbia a che fare con persone moleste nella sua vita143? Quest’opera di misericordia ci spinge
ad andare oltre il negativo che appare in superficie, e ci costringe
a riflettere sul fatto che forse, un giorno, dovremo addirittura
ringraziare queste persone, perché magari ci avranno permesso
di santificarci. Sì, santificarci, perché praticare quest’opera ha
in sé qualcosa di veramente meritevole: un amore puro con una
motivazione alta, lontana dall’egoismo; un amore gratuito che
costruisce pace e ponti dove umanamente si alzerebbero muri.
Valga per tutti l’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino: «C’è
in comunità una consorella la quale ha il talento di dispiacermi
in tutte le cose, le sue maniere, le sue parole, il suo carattere mi
sembrano molto sgradevoli. Tuttavia è una santa religiosa che
deve essere graditissima al Signore, perciò io, non volendo cedere
all’antipatia naturale che provavo, mi son detta che la carità non
deve consistere nei sentimenti, bensì nelle ope­re; allora mi sono
dedicata a fare per questa consorella ciò che avrei fatto per la
persona più cara. Ogni volta che la incontravo, pregavo il buon
Dio per lei, offrendogli tutte le sue virtù e i suoi meriti. Sentivo
che ciò era bene accetto a Gesù, perché non c’è artista al quale
non piaccia ricevere lodi per le sue opere, e Gesù, l’artista delle
anime, è felice quando non ci si ferma all’esterno, e invece, pene142
143
Rocco Camillò, op. cit., p. 79.
Le persone moleste, fastidiose, noiose, opprimenti, assillanti o insopportabili sono
una categoria diversa dai nemici, per i quali tuttavia è prevista una forma d’amore
nel Cristianesimo. Ma i nemici sono coloro che si possono tenere lontani, al contrario, le persone moleste sono molto spesso proprio quelle più vicine. Esse fanno
parte di quel prossimo che Gesù mi chiede di amare come me stesso.
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trando fino al santuario intimo che egli si è scelto come dimora,
se ne ammira la bellezza. Non mi contentavo di pregar molto
per la sorella che mi suscitava tanti conflitti interni, cercavo
di farle tutti i favori possibili, e quando avevo la tentazione di
risponderle sgarbatamente, mi limitavo a farle il più amabile dei
miei sorrisi, e cercavo di stornare la conversazione perché è detto
nell’Imitazione: “E meglio lasciar ciascuno nel suo sentimento
piuttosto che fermarsi a contestare”. Spesso anche, quando non
ero in ricreazione (voglio dire durante le ore di lavoro), avendo a
che fare per ufficio con que­sta consorella, quando i miei contrasti
intimi erano troppo vio­lenti, fuggivo come un disertore. Poiché
ignorava assolutamen­te quello che sentivo per lei, mai ha supposto i motivi della mia condotta, e rimane persuasa che il suo
carattere mi è pia­cevole. Un giorno in ricreazione mi ha detto
pressappoco que­ste parole, tutta contenta: “Mi potrebbe dire,
suor Teresa di Gesù Bambino, che cosa l’attira verso me, perché
ogni volta che mi guarda, la vedo sorridere?”. Ah, quello che mi
attirava, era Gesù nascosto in fondo all’anima di lei... Gesù che
rende dolce quello che c’è di più amaro. Le risposi che le sorridevo
perché ero contenta di vederla (beninteso non aggiunsi che era
dal punto di vista spirituale)»144.
Pregare Dio per i vivi e per i morti
L’ultima opera di misericordia spirituale riguarda la preghiera. La
preghiera di intercessione è la prima forma concreta di dedizione
per i fratelli. La consolazione più grande che posso offrire ad un
fratello, è la preghiera per lui e per le sue necessità: intercedo
presso Dio per ottenergli le grazie di cui il fratello ha bisogno, e
non lo lascio solo nelle sue difficoltà; perciò egli sente che qualcuno lo ama, condivide con lui i suoi sentimenti e intercede per
lui presso Dio.
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Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo. Storia di un’anima, manoscritto C, 292.
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Gesù ci ha comandato di pregare addirittura per i nostri nemici.
Attraverso la preghiera per i nemici i sentimenti verso di loro certamente cambiano: si comincerà a guardarli con più benevolenza,
a placare la rabbia, a sentire la compassione, a lasciare che il cuore
sia purificato dal risentimento.
Anche la preghiera per i defunti è annoverata tra le opere di
misericordia: dopo la morte, noi non vediamo più i nostri fratelli,
ma la comunione vissuta in vita non è spezzata. Coloro che vivono in Cristo i loro giorni sulla terra, restano uniti a coloro che
sono morti in Cristo, nella realtà misteriosa della comunione dei
santi. L’intercessione per i vivi e per i defunti è un mistero che sarà
rivelato pienamente solo alla fine dei tempi, quando vedremo la
realtà e il valore delle nostre azioni nella loro totalità.
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APPUNTI DELLA CATECHESI:
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IL PROPOSITO:
LA REVISIONE DI VITA:
LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho
accolto la sua Parola?
I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia,
nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di
costruzione dell’amore?
I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono
stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?
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LA COMPASSIONE DI GESÙ
I DISCEPOLI E LA COMPASSIONE
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li apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello
che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse
loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un
po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano
neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un
luogo deserto, in disparte.
Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero
là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla,
ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno
pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto
tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto
ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i
villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». Ma egli rispose
loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare
a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». Ma egli
disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi,
sull’erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. Prese i
cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione,
spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro;
e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di
pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli
che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini145.
Qualche considerazione per leggere il testo
✴«Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». La
prima parola di compassione di Gesù è rivolta al gruppo degli apostoli.
Prima ancora della folla affamata, allora, siamo portati a rispecchiarci
nella stanchezza e nell’affanno dei Dodici, una stanchezza che non
esiteremmo a definire sana, ma pur sempre una stanchezza seria, con
cui imparare a fare i conti. Partendo da questo, il Signore fa compiere
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Marco 6, 30-44
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La compassione di Gesù
ai discepoli, attraverso quattro passaggi, un percorso per educarli alla
compassione.
✴«Non avevano neanche il tempo di mangiare». Gli apostoli sono tanto
impegnati nelle cose da fare che dimenticano, quasi per un eccesso di
zelo, la propria fame, si sottraggono in qualche modo al loro essere
uomini tra gli uomini, affamati e assetati come la gente comune, desiderosi di quiete e di riposo come lo è ogni uomo. Ma anche loro, come
la folla, hanno bisogno di fermarsi ad ascoltare la parola del Signore, di
essere guariti, di essere saziati. Il loro commuoversi per la gente non li
esime da una sana cura di sé. Il Signore darà da mangiare a tutti: tra i
cinquemila sfamati ci saranno anche loro Dodici. La compassione di Gesù
non dimentica la fame del discepolo, anche quando il discepolo stesso
rischia di perderla di vista e di ritrovarsi senza energia e senza forze.
✴«Congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». I discepoli si avvicinano a Gesù
presentando il loro progetto sano, logico, razionale. Non è una cattiva
idea: è frutto di un ragionamento prudente, avveduto, fatto da gente
pratica non priva di senso organizzativo, ma incontra l’opposizione di
Gesù. Ecco allora il secondo passaggio con cui Gesù si prende cura dei
Dodici: insegna loro a ragionare secondo il suo cuore, secondo il suo
progetto, secondo la sua compassione. Insegna loro che cosa significhi
essere il pastore che cura il gregge, il padre che sfama i figli, il padrone
di casa che invita al banchetto. E i discepoli capiscono che entrare nel
mistero della compassione significa fare i conti con un progetto che è
altro rispetto al loro, così pieno di buon senso ma così povero di fantasia,
così logico, ma così poco evangelico.
✴«Quanti pani avete? Andate a vedere». Questo progetto imprevedibile
– ed è il terzo passaggio – fa i conti con i limiti delle risorse dei Dodici.
Parlare di limiti non significa parlare di assenza, si parla di sproporzione, senz’altro, ma non di assenza. Per questo Gesù insiste in una
domanda apparentemente inutile: «Quanti pani avete?». È come se
dicesse: «Andate a vedere quali sono le vostre risorse, tutte le vostre
risorse. Non ho bisogno di molto per fare grandi cose, ma voi datemi
tutto quello che avete, poco o tanto che sia». In altre parole, Gesù
porta gli apostoli a prendere coscienza di due realtà: i limiti delle loro
risorse e la necessità di deporre tutto quanto si ha, nelle sue mani.
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La compassione di Gesù
✴«Voi stessi date loro da mangiare». Più volte è stata fatta notare
l’ambiguità di questa frase: se da una parte può significare «datevi da
fare per procurare voi qualcosa da mangiare per loro», dall’altra può
significare «date voi stessi, cioè tutta la vostra vita, in cibo a loro».
È come se Gesù dicesse: «Questa gente non ha soltanto bisogno di
un po’ di pane che potete dar loro. Vuole voi, la vostra vita, la vostra
dedizione, il vostro tempo, tutto quanto avete». Gesù invita gli apostoli a entrare in una logica eucaristica, la stessa dell’Ultima Cena,
quando darà se stesso da mangiare. La compassione del cuore porta
alla totale consegna di sé, come Gesù ha fatto per noi.
Spunti per vivere la compassione
✴ Anzitutto, Gesù mi aiuta a prendere consapevolezza della mia fame.
Non possiamo dimenticare la nostra fame, il nostro bisogno di mangiare. Non possiamo scordare la nostra pochezza, la nostra povertà,
mentre proviamo a correre a destra e a sinistra per fare un po’ di bene.
La compassione di Gesù guarisce questo nostro affanno: essa ci propone
la bellezza della sosta e la forza del cibo contro la pretesa di salvare
tutti con la nostra opera, mentre ci stiamo svuotando, perché privi di
nutrimento vitale e di riposo nella pace del Signore.
✴ Gesù che ha compassione di me, mi insegnando a ragionare secondo il
suo cuore. Mi dimostra la sua compassione, quando mi aiuta ad aprirmi
alla sorpresa, a cambiare registro, quando mi educa a non decidere mai
niente che non sia secondo il suo cuore.
✴ Gesù mi insegna a valutare le mie risorse e ad affidare a lui la mia povertà
per farla divenire ricchezza. La compassione di Gesù regala una dignità
tutta particolare alla mia miseria, al mio essere povero, al mio avere così
poco. Al Signore può bastare, purché io impari a farne dono.
✴ Infine, Gesù mi insegna a fare quello che posso, senza tirarmi indietro.
Non sarò in grado di fare miracoli, ma posso sempre far sedere la folla,
posso distribuire il pane e i pesci, posso raccogliere gli avanzi nelle ceste.
lo vivo il dono totale di me stesso giorno per giorno, nella concretezza
dei gesti semplici, un passo alla volta. E se mi capitasse di non riuscire
a fare più niente, posso sedermi tra la gente e aspettare che il Signore
mi nutra. Il Signore si siederà al mio fianco e mangerà con me, come
avrà di certo fatto al termine di quella memorabile giornata.
✴
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TESTIMONI DELLA FEDE
GIOVANNI BOSCO
«Noi andiamo diritti ai poveri»
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er parlare di don Bosco, bisogna parlare anzitutto della madre: una povera
contadina che non sapeva né leggere né scrivere, rimasta vedova quando
Giovanni ha ancora due anni. Mamma Margherita conosce alcuni brani del
Vecchio Testamento a memoria e gli episodi del Vangelo; i principi fondamentali della vita cristiana: il paradiso e l’inferno; il valore redentivo della
sofferenza; uno sguardo fiducioso alla Provvidenza; i Sacramenti e il Rosario.
Dice di lei don Bosco stesso: «Ricordo che fu lei a prepararmi alla
prima confessione. Mi accompagnò in Chiesa, si confessò per prima,
mi raccomandò al confessore e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento.
Continuò ad aiutarmi fino a quando mi credette capace di fare da solo
una degna confessione». Ancora: «Nel giorno della prima Comunione, in
mezzo a quella folla di ragazzi e di gente, era quasi impossibile conservare il raccoglimento. Mia madre, al mattino, non mi lasciò parlare con
nessuno. Mi accompagnò alla Sacra Mensa. Fece con me la preparazione
e il ringraziamento. Quel giorno non volle che mi occupassi di lavori
materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare. Mi ripeté più volte
queste parole: “Figlio mio, per te è stato un grande giorno. Sono sicura
che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che ti impegnerai
per conservarti buono per tutta la vita...”».
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Quando Giovanni le parla di una possibile vocazione, gli dice: «Se ti
facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in
casa tua». E il giorno dell’ordinazione sacerdotale: «Ora sei prete, e sei
più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare
a dir messa vuol dire cominciare a soffrire. D’ora in poi pensa solo alla
salvezza delle anime e non prenderti nessuna preoccupazione di me».
Quando avrà appena incominciato a far la nonna dei nipotini dell’altro
figlio, Giovanni va da lei e le dice: «Un giorno avete detto che se diventavo ricco non sareste mai venuta a casa mia. Ora invece sono povero e
carico di debiti. Non verreste a fare da mamma ai miei ragazzi?». Mamma
Margherita risponde: «Se credi che questa sia la volontà di Dio... ». E passa
gli ultimi dieci anni della sua vita (1845-1856) a fare da mamma a decine
e centinaia di figli non suoi fino a sfinirsi, prendendo forza – quando non
ne può più – da uno sguardo umile e paziente rivolto al crocifisso. I santi
nascono e crescono così.
Un sogno guida tutta la vita
Fin da bambino Giovanni Bosco ha fatto un sogno che, perfino durante
il sonno, gli sembra «impossibile»: cambiare delle piccole «belve» in figli di
Dio; da allora un impulso interiore lo spinge a dedicarsi alla gioventù abbandonata. Per loro vuole, a ogni costo, diventar prete superando umiliazioni
e fatiche di ogni genere. Negli anni di studio – per mantenersi o per passione – fa il pastore, il giocoliere e il saltimbanco, il sarto, il fabbro ferraio,
il barista e il pasticciere, il segnapunti al tavolo del biliardo, il suonatore di
organo e di spinetta. Più avanti farà anche lo scrittore e il compositore di
canzoni... ma preoccuparsi degli altri ragazzi privi di pane, di istruzione e
di fede, gli sembra «l’unica cosa che devo fare sulla terra».
A Torino, la prima industrializzazione, ha portato decine di migliaia di
immigrati. La città è invasa da orde di ragazzi che si offrono per tutti i lavori
possibili (ambulanti, lustrascarpe, fiammiferai, spazzacamini, mozzi di stalla,
garzoni...) e non sono protetti da nessuno. Si formano vere e proprie bande
che infestano i sobborghi, soprattutto nei giorni festivi in cui non si lavora.
Molti si danno al furto e finiscono, prima o poi, nelle carceri della città.
L’oratorio, meraviglioso e contrastato
Don Bosco ne avvicina più che può e li raccoglie in un oratorio, continuamente a cercare un luogo abbastanza ampio per poterne ospitare un numero
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sempre crescente. I politici sono preoccupati del potenziale rivoluzionario
di quelle bande che obbediscono a un solo cenno di don Bosco; la polizia
li sorveglia. Alcuni pensano che l’oratorio sia una fucina di immoralità. I
parroci della città lo criticano: «L’oratorio bisogna farlo nelle parrocchie!».
Ma gli oratori parrocchiali – quando ci sono – sono solo nei giorni festivi
e don Bosco li immagina quotidiani, con una compromissione totale del
prete; inoltre quelli che ne hanno più bisogno, sono ragazzi che non si
avvicinerebbero mai a una parrocchia. L’oratorio istituito da don Bosco è...
don Bosco stesso, la sua energia, il suo stile, il suo metodo educativo: e
questo non può essere trasportato da una parrocchia all’altra.
L’Arcivescovo decide di visitare personalmente l’Oratorio. Passa una
giornata piena d’allegria e si diverte di gusto. Dà la Comunione a più di
trecento ragazzi, e poi la Cresima. Per sua decisione tutti i verbali delle
cresime vengono raccolti dalla Curia e inviati successivamente ai rispettivi
parroci: così l’Oratorio è praticamente accettato come «la parrocchia dei
ragazzi che non hanno parrocchia».
Don Bosco subisce anche la lotta da parte delle persone convinte che
lui è veramente e irrimediabilmente impazzito. Mentre con i suoi ragazzi
trasloca ripetutamente da un misero luogo all’altro, don Bosco parla loro
con assoluta convinzione di vasti oratori, chiese, case, scuole, laboratori,
ragazzi a migliaia, preti numerosissimi a disposizione. I ragazzi gli credono.
Al contrario, perfino i più affezionati amici dicono: «Povero don Bosco, si è
tanto infatuato dei giovani che gli ha dato di volta il cervello».
A chi gli obietta che la realtà è infinitamente lontana dalle sue descrizioni
(case, scuole, chiese ecc...), lui risponde: «Lo so, ma esistono, perché io le
vedo». Questo è il fatto più sconvolgente.
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Amato dai ragazzi
Intanto i ragazzi crescono e preoccupano sempre di più. «Devo riconoscere – scrive don Bosco – che l’affetto e l’obbedienza dei miei ragazzi
toccavano vertici incredibili». Bisogna, dunque, capire chi era don Bosco
per loro. Un episodio lo rivela sufficientemente. Nel luglio del 1846, ha uno
sbocco di sangue e sviene; in breve è in fin di vita e riceve unzione degli
infermi e il viatico. Resta otto giorni tra la vita e la morte. In quegli otto
giorni ci sono ragazzi che lavorando sulle impalcature sotto il sole rovente,
non toccano una goccia d’acqua, per chiedere a Dio la sua guarigione. Si
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danno il cambio notte e giorno al Santuario della Consolata, per pregare
per lui, dopo le consuete dodici ore di lavoro. Alcuni promettono di recitare
il rosario per tutta la vita, altri di restare a pane e acqua per mesi, per un
anno, qualcuno per sempre. I medici dicono che quel sabato don Bosco
certamente morirà, gli sbocchi di sangue sono ormai continui, ma don Bosco
guarisce. Li ritrova tutti – pallidissimo e senza forze – in una cappella. Dice
solo: «La mia vita la devo a voi. D’ora in poi la spenderò tutta per voi». Lo
fa davvero ed è impossibile raccontarla. Possiamo solo elencare alcuni dati.
Un’attività impressionante
Nel 1847, quando già centinaia di ragazzi frequentano l’Oratorio, alcuni
tra loro che non sanno dove andare, perché non hanno casa, cominciano a
vivere stabilmente con don Bosco e mamma Margherita. Sono sei alla fine
dell’anno, trentacinque nel 1852; centoquindici nel 1854; quattrocentosessanta nel 1860; seicento nel 1862, fino ad un tetto di ottocento.
Nel 1845 don Bosco fonda la scuola serale, con una media di trecento
alunni ogni sera. Nel 1847 fonda un secondo oratorio. Nel 1850 una società di mutuo soccorso per operai, nel 1853 un laboratorio per calzolai e
sarti, nel 1854 un laboratorio di legatoria di libri, nel 1856 un laboratorio
di falegnameria, nel 1861 una tipografia, nel 1862 una officina di fabbro
ferraio. Intanto nel 1850 è aperto anche un convitto per studenti, con
dodici studenti che diventano centoventuno nel 1857. Nel 1862, dunque,
l’oratorio conta seicento ragazzi interni e altrettanti esterni. Oltre i sei
laboratori, ci sono scuole domenicali, scuole serali, due scuole di musica
vocale e strumentale, e 39 salesiani che con don Bosco hanno dato inizio a
una congregazione religiosa. Nel frattempo – a seminario diocesano chiuso
– egli ha curato anche le vocazioni sacerdotali. Al termine della sua vita
(1888), saranno diverse centinaia i preti usciti da Valdocco. Nel frattempo
– sempre per i suoi ragazzi – don Bosco è diventato scrittore: scrive una
storia sacra ad uso delle scuole, una storia ecclesiastica, una storia d’Italia,
molte biografie e opere educative: in tutto una cinquantina di titoli.
Abbiamo seguito don Bosco fino agli inizi degli anni ’60: manca ancora
un quarto di secolo alla sua morte. Fino ad allora apre i primi cinque collegi, fonda una congregazione femminile, costruisce il Santuario di Maria
Ausiliatrice e la Chiesa del Sacro Cuore a Roma, fonda 64 case salesiane
in sei nazioni, e missioni in America Latina, conta 768 salesiani. Compie
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viaggi apostolici trionfali in Francia e Spagna, paesi in cui tutti vorranno
conoscere «l’uomo della fede».
«Pensare e credere, come pensa e crede il Papa»
Davanti a don Bosco qualcuno storce il naso perché in politica – in
quella situazione politica – da un lato preferisce astenersi (gli bastava, come
diceva, «la politica del Pater noster»); dall’altro fa la scelta, apparentemente
facile, di stare col Papa. Egli è attaccato al pontefice «più che il polipo allo
scoglio»: «Io sono col Papa, sono cattolico, obbedisco al Papa ciecamente.
Se il Papa dicesse ai piemontesi: «venite a Roma», allora io pure direi: «andate». Se il Papa dice che l’andata dei piemontesi a Roma è un furto, allora
io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici, dobbiamo pensare e credere,
come pensa e crede il Papa».
«Diritti ai poveri»
Davanti a don Bosco si storce il naso perché egli non contesta l’assetto
sociale del suo tempo e le divisioni in classi, ma aiuta i poveri, restando
dentro quel sistema, cioè chiedendo l’elemosina ai ricchi. Egli rifiuta di fare il
«prete sociale» e il politico, perché sente che la sua vocazione è l’intervento
immediato, l’amore che subito si rimbocca le maniche e si mette al lavoro.
«Lasciamo agli altri ordini religiosi più formati di noi – dice – le denunce,
l’azione politica. Noi andiamo diritti ai poveri».
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Il sistema preventivo dell’educazione della gioventù
Nel 1877 don Bosco dà alle stampe un libretto rivoluzionario: Il sistema
preventivo dell’educazione della gioventù. La prima prevenzione è la persona
stessa dell’educatore: «Ho promesso a Dio che fino l’ultimo mio respiro
sarebbe stato per i miei poveri giovani. Io per voi studio, per voi lavoro, per
voi vivo, per voi sono anche disposto a dare la vita». I direttori delle sue
case devono stare in mezzo ai ragazzi in tutti i momenti, anche ricreativi:
devono essere visibili, percepibili, presenti, familiari. La disciplina non deve
essere ottenuta col castigo ma con la persuasione. L’ideale è che non ci
siano file ben ordinate, ma l’assembramento intorno all’educatore. L’allegria
deve essere la molla naturale che aggancia il soprannaturale: «Devi sapere
– spiega il piccolo Domenico Savio a un compagno appena arrivato – che
qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri».
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L’imposizione è abolita in un tempo in cui ogni ambiente educativo
la confessione e la comunione sono obbligatorie. Don Bosco confessa e
comunica tutti i ragazzi, ma nessuno è tenuto a farlo, anzi raccomanda
sempre di non annoiarli con gli obblighi, ma solo di incoraggiarli.
D’altra parte, don Bosco è profondamente convinto che senza familiarità
con Dio, senza «religione», non è possibile educare. «L’educazione è cosa del
cuore e Dio solo ne è il padrone e non potremo riuscire a niente se Dio non
ci dà in mano la chiave di questi cuori». E aggiunge: «Soltanto il cattolico
può con successo applicare un metodo preventivo». «Che i giovani non
solo siano amati, ma che essi stessi sappiano di essere amati». Questa è
la genialità di don Bosco: non basta amare, bisogna far vedere che si ama,
renderlo percepibile: «un amore che si esterna in parole, atti e perfino nella
espressione degli occhi e del volto». Questo esige un’ascesi profonda, un
coinvolgimento totale e quotidiano.
Nel 1883 va a trovarlo un pretino che diventerà Papa Pio xi, colui che
proclamerà «santo» don Bosco. Egli, divenuto ormai Papa, raccontava così
quell’incontro: «C’era gente che veniva da tutte le parti, chi con una difficoltà, chi con un’altra. Ed egli in piedi come se fosse cosa di un momento,
sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento
a tutto quello che accadeva attorno a lui e nello stesso tempo si sarebbe
detto che non badava a niente, che il suo pensiero fosse altrove. Ed era
veramente così: era altrove, era con Dio. E aveva la parola esatta per tutti,
così da meravigliare. Questa la vita di santità, di assidua preghiera che don
Bosco conduceva tra le occupazioni continue e implacabili».
Negli ultimi mesi si trascina a fatica: «Dove andiamo don
Bosco?» gli dicono. Risponde: «Andiamo in Paradiso!».
È proclamato santo alla chiusura dell’anno
della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934,
ed è il primo santo della storia per il quale, il
giorno dopo la canonizzazione, anche
lo Stato tiene una celebrazione in
Campidoglio, con un discorso del
Ministro della Pubblica Istruzione.
✴
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vi tappa
I DIECI LEBBROSI
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I DIECI LEBBROSI
MISERICORDIA E GRATITUDINE
L
ungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro
dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce:
«Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse
loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano,
furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro
lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non
ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si
è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio,
all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua
fede ti ha salvato!»146.
PER LEGGERE IL VANGELO
Alla fine del nostro cammino, meditiamo su un episodio che
presenta ancora i segni tangibili della misericordia divina. Esso contiene una modalità di risposta, quasi a sottolineare che l’incontro
tra Dio e l’uomo avviene sempre in contesto di rapporto dialogico,
personale, amoroso. Dio tende la mano amica attraverso la persona
del suo Figlio, l’uomo deve rispondere. Una giusta risposta è il suo
atteggiamento di grata accoglienza del dono.
In genere, il ringraziamento non è spontaneo: quante volte
bisogna richiamare un bambino a dire «grazie!», prima che in lui
diventi una civile abitudine! E una volta divenuto adulto, non è
detto che l’abitudine si conservi. La capacità di ringraziare e, di
conseguenza, la virtù della riconoscenza (o gratitudine), è una
espressione di affetto, come ricorda un proverbio africano: «La riconoscenza è la memoria del cuore». Essa è la capacità di ricordare
146
Luca 17, 11-19.
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e, pertanto, di amare. La connessione tra ricordo e amore diventa
evidente con un semplice richiamo etimologico: l’italiano ricordare
viene dal latino re-cordari che significa, alla lettera, far ritornare
(re) nel cuore (cor). Non è perciò solo un’attività dell’intelligenza,
ma anche della volontà e del cuore. Ricordare è pensare con amore.
Il Samaritano del racconto, una volta guarito dalla lebbra, conserva memoria dell’autore della sua guarigione e torna a ringraziare.
Quel grazie è all’origine di un miracolo ancora più sorprendente
del primo.
Tutti guariti
«Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che
si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: Gesù, maestro, abbi
pietà di noi!». Gesù, in cammino verso Gerusalemme attraversa
le due regioni della Galilea e della Samaria. Al suo ingresso in un
villaggio, dieci lebbrosi lo supplicano di guarirli. Essi si tengono a
debita distanza, secondo le rigide prescrizioni del tempo. Queste,
più che circoscrivere il male, impedendone il contagio avevano una
valenza cultuale: la lebbra, secondo il pensiero religioso ebraico,
rende impuri, e colui che ne è colpito, trasmette l’impurità non
solo alle persone e agli oggetti che tocca, ma anche alla casa in cui
entra. Perciò egli deve vivere segregato, portare vesti strappate e il
capo scoperto, coprirsi la barba e gridare: «Impuro! Impuro!»147. I
lebbrosi portavano i segni del lutto e, oltre alla pena della malattia,
dovevano subire quella della emarginazione: erano abbandonati
inesorabilmente al loro destino di morte. Il lebbroso è un contaminato che contamina, solo Dio può guarirlo con un prodigio che
equivale alla risurrezione.
Non è la prima volta che Gesù guarisce la lebbra; un suo precedente incontro con un lebbroso aveva provato che egli è Signore e
può comandare anche alla malattia: «Lo voglio, sii guarito»148. CerVI
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«Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al
labbro superiore, andrà gridando: «Impuro! Impuro!»« (Levitico 13, 45).
148
Luca 5, 13.
147
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tamente i dieci lebbrosi si rivolgono a lui con la speranza di essere
guariti ed esprimono il loro desiderio con una preghiera: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!». È l’invocazione che si eleva dal profondo del
cuore di chi ha un impellente bisogno reso pubblico con un grido.
«Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi
andavano, furono purificati». Gesù non è sordo al grido di aiuto e
risponde con un intervento immediato, appena ha visto i dieci e
sentito la loro richiesta.
Il Signore, anziché dire una parola risanatrice, come di solito
avviene in situazioni analoghe, o andare incontro agli ammalati
superando certi tabù, stranamente comanda loro di recarsi dai
sacerdoti. Tra gli uffici sacerdotali c’era pure quello di verificare la
presenza o meno della lebbra, e quindi di dichiarare immonda o no
la persona149. Era necessario avere il riconoscimento di guarigione
per la riammissione dell’ex malato nella comunità. La parola di
Gesù potrebbe essere disattesa, e perfino irrisa: non è troppo poco
per procurare una guarigione? Invece no, riceve subito credito e i
dieci si avviano per recarsi dai sacerdoti. Durante il tragitto avviene
il miracolo di guarigione: «furono purificati». Il verbo greco non
richiama primariamente l’ambito medico o clinico, bensì quello
morale e religioso. La lebbra, infatti, comportava una esclusione
che la rendeva molto simile al peccato.
A questo punto, a miracolo avvenuto, ci aspetteremmo la reazione osannante degli interessati o della folla, come avviene spesso
a conclusione di racconti analoghi perché, ancora una volta, la misericordia di Gesù si è concretizzata in modo potente. L’obiettivo,
invece, si sposta, dal gruppo in quanto tale, a un individuo. Su di
«Se la lebbra si propaga sulla pelle in modo da coprire tutta la pelle di colui che ha
la piaga, dal capo ai piedi, dovunque il sacerdote guardi, questi lo esaminerà e, se
vedrà che la lebbra copre tutto il corpo, dichiarerà puro l’individuo affetto dal morbo: essendo tutto bianco, è puro. Ma quando apparirà in lui carne viva, allora sarà
impuro. Il sacerdote, vista la carne viva, lo dichiarerà impuro: la carne viva è impura;
è lebbra. Ma se la carne viva ridiventa bianca, egli vada dal sacerdote e il sacerdote
lo esaminerà: se vedrà che la piaga è ridiventata bianca, il sacerdote dichiarerà puro
colui che ha la piaga; è puro» (Levitico 13, 12-17).
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lui si accendono i riflettori dell’interesse, imprimendo al miracolo
un elemento di novità.
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Un solo salvato
«Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a
gran voce». Il cammino verso i sacerdoti subisce un arresto. Sarebbe logico pensare a una corsa per ottenere il certificato medico
di sanità che permette il ritorno al consorzio degli uomini, la fine
della segregazione e dell’umiliazione. Il gruppo segue questa linea
logica. Tutti e dieci hanno obbedito prontamente al comando di
Gesù, hanno superato la prova della fede. Solo uno è in grado di
superare la prova della gratitudine, ben più difficile. Egli, in cammino con gli altri, interrompe la corsa e inverte la marcia. La sua
guarigione non lo porta a pensare al dopo, ma al prima; non a che
cosa può succedere a lui, ora che è come gli altri, ma a chi gli ha
permesso di diventare come gli altri. Insomma, non pensa a sé,
ma a Gesù che con la sua parola lo ha risanato. Egli ricorda (fa
passare dal cuore), e da qui nasce la sua riconoscenza. La voce che
prima gridava per invocare e ottenere l’intervento di Gesù, è ora
impiegata per lodare Dio. La glorificazione di Dio, risposta abituale
in Luca davanti al miracolo150, attesta da parte del miracolato la
sua percezione dell’intervento divino nella persona di Gesù.
«Si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un
Samaritano». Gettarsi ai piedi di Gesù è un gesto che prepara la
parola di ringraziamento. Solo ora Luca dà l’identità di quell’uomo
che si è distinto dal gruppo. «Era un Samaritano». La precisazione,
tenuta in serbo fino alla fine quasi a creare suspense, diventa una
voluta provocazione: significa che gli altri non erano Samaritani,
ma Giudei. Luca ama rappresentare con simpatia gli odiati Samaritani, pur conoscendone anche i limiti, che, all’occorrenza,
non tace: «i Samaritani non vollero riceverlo perché era diretto a
Gerusalemme»151. Infatti, era successo che alcuni discepoli, mandati
150
151
Luca 5, 25-26; 7, 16; 13, 13.
Luca 9, 52.
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in avanscoperta in un villaggio Samaritano per fare i preparativi,
incontrassero un secco rifiuto. L’episodio resta poco più di una
parentesi, perché subito dopo il gruppo Samaritano si riscatta con
la stupenda parabola del buon Samaritano, che Gesù addita come
esempio perfino a un dottore della Legge! E ora, non più una parabola, ma una vicenda storica mostra la squisita finezza spirituale
di un Samaritano, capace di ringraziare. Prima che il grazie fiorisca
sulle labbra, esso attecchisce nel cuore.
«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?». La
reazione di Gesù è un misto di disappunto e di approvazione. Il
disappunto nasce dall’amara constatazione che la maggioranza è
stata ingrata. Si badi bene che Gesù non richiede un grazie per sé,
ma un atto di lode a Dio, il riconoscimento che Dio è all’opera nella
sua persona. Rendere gloria a Dio è il modo semitico di esprimere
il proprio grazie, tanto più se teniamo conto che la lingua ebraica
non ha un vocabolario specifico per esprimere il ringraziamento
e la riconoscenza, e per questo utilizza l’espressione della lode
a Dio. Gesù deve constatare amaramente che nessuno è tornato
all’infuori di questo «straniero».
«Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Di salvezza si parla nel
versetto conclusivo. Il ritorno dona al Samaritano la salvezza spirituale, dopo quella corporale, una salvezza integrale che richiama
quella del paralitico152. «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato!». Sono
le parole della nuova nascita, del rinnovamento del cuore, grazie
al miracolo dell’amore che si chiama perdono. La salvezza, anche
se offerta a tutti, diventa efficace solo quando è accettata dalla
fede che consiste nell’accorgersi del dono e nel rivolgere il cuore
al donatore. Il miracolo, più che per il benessere che produce, vale
per la trasformazione dei sentimenti e per il cambiamento morale
a cui dà origine: dieci sono stati guariti, ma uno solo salvato.
Ancora una volta un Samaritano è proposto a modello. Il sentimento della gratitudine ha appianato la strada e gli ha meritato
152
Luca 5, 17-26.
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di ricevere in dono la salvezza. Così dalla misericordia iniziale di
Gesù che compie il miracolo si passa alla gratitudine che genera
una misericordia ancora più grande: il dono della salvezza integrale
dell’uomo, guarito nel corpo dalla lebbra e nell’anima dal peccato.
PER LEGGERE IL VANGELO
Dalla misericordia alla gratitudine
La misericordia ricevuta ci porta alla gratitudine, che è il sentimento di chi riconosce di essere debitore e non ha la pretesa
di estinguere il debito con una parola, né con una manciata
di denaro. La gratitudine è una restituzione che continua, un
contraccambiare, senza la pretesa di raggiungere il pareggio. È
accettare, gioiosamente, che la vita sia legata a un Altro e a tanti
altri. Perciò, tra le poche parole veramente necessarie che devono
sempre fiorire sulle nostre labbra, si deve annoverare un maiuscolo
Grazie a Dio e agli uomini.
Ricordava papa Francesco che «sembra facile pronunciare questa parola, ma sappiamo che non è così... Però è importante! La
insegniamo ai bambini, ma poi la dimentichiamo! La gratitudine
è un sentimento importante! Un’anziana, una volta, mi diceva a
Buenos Aires: “La gratitudine è un fiore che cresce in terra nobile”. È necessaria la nobiltà dell’anima perché cresca questo fiore.
Ricordate il Vangelo di Luca? Gesù guarisce dieci malati di lebbra e
poi solo uno torna indietro a dire grazie a Gesù. E il Signore dice:
“E gli altri nove dove sono?”. Questo vale anche per noi: sappiamo ringraziare?»153. «La gratitudine per un credente, è nel cuore
stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che
ha dimenticato la lingua di Dio»154.
Guardiamo allora alcuni ambiti in cui dobbiamo imparare ad
esercitare la gratitudine.
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Francesco, Incontro con i fidanzati, 14 febbraio 2014.
Francesco, Udienza generale, 13 maggio 2015.
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Imparare a dire grazie a Dio nella preghiera
Così Padre Andrea Gasparino introduce il capitolo sulla preghiera di ringraziamento, nella sua scuola di preghiera.
«Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia. Nel Vangelo di
Luca quando vide che dei dieci leb­brosi guariti ne era tornato uno
solo a dire grazie, escla­mò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E
gli altri no­ve dove sono?”.
“E gli altri nove dove sono?”. È pesante questa de­nuncia di
Cristo. La percentuale di chi pensa e ringra­zia sarà sempre così
ridotta? L’uomo è proprio ingua­ribile nel suo egoismo? Abbiamo
addosso la lebbra dell’ingratitudine. Il Signore aspetta il nostro
ringraziamento come lo­gica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio
è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci
apria­mo alla gratitudine. Il Signore non ha dato ai nove leb­brosi
guariti un ordine, ma si attendeva che i nove gua­riti dessero un
ordine a se stessi. La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del
cuo­re retto. Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno
di ringraziare. Per questo non esiste un comando specifico per il
ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo;
avrebbe senso la riconoscenza imposta?
“E gli altri nove dove sono?”. In quei nove ci sia­mo tutti, perché
sono innumerevoli le nostre negligen­ze verso la bontà di Dio.
Purtroppo in quei nove sia­mo presenti tutti, perché tutti siamo
colpevoli di ingra­titudine a Dio. L’uomo non riuscirà mai a stare al
pas­so coi doni di Dio. I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena
del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano.
Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma
deve almeno capire che c’è!
“E gli altri nove dove sono?”. La denuncia amara di Cristo deve
spingermi a rappresentare gli assenti. Quando avremo capito e
saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presentarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e
rappresentar­li: Signore, perdonali, perché non sanno quello che
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fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dam­mi la capacità
di poterli rappresentare sostituendomi ad essi...»155.
Imparare a dire grazie in famiglia
Papa Francesco più volte è tornato a ribadire la necessità della
gratitudine all’interno delle famiglie, tanto da farne uno dei suoi
cavalli di battaglia: «Certe volte viene da pensare che stiamo diventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole,
come se fossero un segno di emancipazione. Le sentiamo dire
tante volte anche pubblicamente. La gentilezza e la capacità di
ringraziare vengono viste come un segno di debolezza, a volte
suscitano addirittura diffidenza. Questa tendenza va contrastata
nel grembo stesso della famiglia. Dobbiamo diventare intransigenti
sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della
persona e la giustizia sociale passano entrambe da qui. Se la vita
famigliare trascura questo stile, anche la vita sociale lo perderà»156.
E parlando ai fidanzati ha detto: «Nella vostra relazione, e domani
nella vita matrimoniale, è importante tenere viva la coscienza che
l’altra persona è un dono di Dio, e ai doni di Dio si dice grazie! E
in questo atteggiamento interiore dirsi grazie a vicenda, per ogni
cosa. Non è una parola gentile da usare con gli estranei, per essere
educati. Bisogna sapersi dire grazie, per andare avanti bene insieme
nella vita matrimoniale»157.
Imparare a vivere la Messa come un’eucaristia
Se la nostra vuole essere una comunità eucaristica, dobbiamo
allora diventare più eucaristici (eucaristia = rendimento di grazie).
Questa dimensione deve essere vissuta come uno stile di vita
facendo nostra l’esortazione dell’Apostolo: «In ogni cosa rendete
grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di
Andrea Gasparino, Maestro, insegnaci a pregare, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1999,
45-46.
156
Francesco, Udienza generale, 13 maggio 2015.
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Francesco, Incontro con i fidanzati, 14 febbraio 2014.
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voi»158. Ciò vale in modo particolare per le nostre celebrazioni eucaristiche che per definizione sono rendimento di grazie al Signore.
Esse devono diventare il luogo privilegiato per esprimere la nostra
gratitudine a Dio. L’eucaristia mi porta a questo attraverso i riti e
le preghiere, in particolare con la grande preghiera eucaristica che
partendo dall’invito a elevare i cuori e rendere grazie al Signore
nostro Dio, culmina con la grande acclamazione di lode al Padre
«per Cristo, con Cristo e in Cristo».
Scrive padre Andrea Gasparino: «Ringraziare è aprire gli occhi
su un dono ricevu­to, è aprirci alla riconoscenza [...] [è] accorgerci
dell’amore d’una persona per noi. La morte di Cristo non è il più
grande segno d’a­more di Cristo e del Padre per noi? [...] Chi ringrazia con l’Eucaristia si impegna a unirsi così totalmente a Cristo
da fondere la sua vita con lui, si impegna cioè ad affrontare la vita
con la mente di Cristo, col cuore di Cristo!»159. Dobbiamo perciò
crescere nel dare alle nostre celebrazioni eucaristiche questa dimensione di gratitudine unendo alla rinnovata offerta della nostra
vita il ringraziamento per l’opera della nostra salvezza.
Dalla gratitudine alla lode
Non va trascurata, infine, la dimensione del ringraziamento
nell’ambito della preghiera carismatica. Abbiamo ascoltato che
per il popolo ebraico la lode rappresenta il modo di ringraziare
Dio perché con la lode si esalta la maestà di Dio e si riconosce che
tutto viene da lui, datore di ogni dono. In questa ottica la lode e
il ringraziamento rappresentano un’attività privilegiata all’interno
della nostra Comunità, specie nelle preghiere comunitarie.
Anche Giovanni Paolo ii ci ha ricordato la bellezza della preghiera
di lode e come questo sia un carisma che il Rinnovamento carismatico non deve mai abbandonare: «In modo speciale continuate
ad amare e far amare la preghiera di lode, forma di orazione che
158
159
1Tessalonicesi 5, 18.
Andrea Gasparino, La Messa, cena del Signore, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1999,
passim.
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più immediatamente riconosce che Dio è: lo canta per se stesso,
gli rende gloria perché Egli è prima ancora che per ciò che fa»160 .
Eppure frequentemente nelle nostre assemblee vediamo una
crescente difficoltà a lodare e ringraziare il Signore, perché si tende
a spostare l’attenzione verso noi stessi e i nostri problemi, quasi
che il Signore non li conoscesse già. Viviamo, dunque, la lode e il
ringraziamento come atteggiamento costante nella nostra preghiera comunitaria, perché è partendo da questo che il Signore apre i
cuori ad un ascolto più profondo della sua Parola e a manifestazioni
della sua potenza.
✴
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Giovanni Paolo ii, Udienza alla delegazione del Rinnovamento nello Spirito Santo,
14 marzo 2002.
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APPUNTI DELLA CATECHESI:
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IL PROPOSITO:
LA REVISIONE DI VITA:
LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho
accolto la sua Parola?
I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia,
nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di
costruzione dell’amore?
I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono
stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?
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LA COMPASSIONE DI GESÙ
LA COMPASSIONE E LA MISSIONE
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uand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio
di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore,
tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di
nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli
rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola
le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli
domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto;
tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In
verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e
andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un
altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare
con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse:
«Seguimi»161.
Qualche considerazione per leggere il testo
✴ Pietro è stato chiamato tra i primi, ha potuto restare vicino al Signore
nei momenti più importanti, ha potuto assistere da vicino ai suoi
miracoli più grandi, è salito con lui sul monte della Trasfigurazione.
Il Maestro gli ha assegnato un ruolo di rilievo nella comunità dei Dodici e più volte è stato istruito a parte, con una cura speciale. Pietro
ha ricevuto illuminazioni dallo Spirito, ha ricevuto la promessa delle
chiavi del regno dei cieli, ha potuto camminare sulle acque... Non si
può certo dire che Gesù si sia risparmiato nel prendersi cura di lui. Ma
come ha saputo rispondere Pietro a tutta questa premura? Ha osato
rimproverare Gesù pubblicamente di fronte all’annuncio della passione,
è rimasto ottusamente chiuso di fronte ai progetti del Maestro, ha
fatto grandiose promesse senza mai mantenerne una, è fuggito dal
Getsemani dopo aver reagito malamente usando la spada contro uno
dei servitori, ha rinnegato vergognosamente il Maestro, non ha saputo
usare della sua autorità quando – forse – si sarebbe ancora potuto far
161
Giovanni 21, 15-19.
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La compassione di Gesù
qualcosa per Gesù che subiva il processo finale. Ma, di fronte a un
quadro così desolante, si rivela in maniera inaspettata tutta la forza
della compassione di Gesù.
✴«Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Innanzitutto Gesù restituisce fiducia a Pietro che si vede riportato alla stima di sé, alla capacità
di essere di nuovo qualcuno. E la cosa sorprendente è che Gesù fa tutto
questo non con un interrogatorio sui fatti, ma con un interrogatorio
sull’amore: non gli chiede se ha capito la lezione, se è diventato più
forte, più astuto, più prudente, più santo, ma gli chiede soltanto se
ha imparato ad amare. Quando Gesù chiede a Pietro: «Mi vuoi bene?»,
Pietro pensa: «Ma questa è la domanda che avevo in mente io per lui.
Avrei voluto chiedergli: “Dopo quello che è successo, mi vuoi ancora
bene?”». L’apostolo resta completamente spiazzato da questa domanda. Gesù gli dice: «Io desidero la tua amicizia, la tua comunione con
me». È come se gli dicesse: «Io non posso smettere di amarti, ma non
posso obbligarti a seguirmi. Cosa desideri fare, cosa decidi di fare? Mi
vuoi ancora bene?». Il Signore, come un mendicante, domanda amicizia
a colui che se ne è dimostrato incapace. Sembra quasi che sia stato
lui, il Signore, a rinnegare e a tradire, a fuggire lontano, a sciupare le
mille occasioni di bene.
✴«Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Di fronte a una
domanda così, anche la durezza di Pietro si scioglie, e trova la risposta
giusta, quando finalmente riesce a dire: «Tu lo sai, tu sai tutto». Non
prova a dire: «Forse sì, forse sono cresciuto, sono maturato, non farò
più quello che ho fatto». Semplicemente, si arrende a questo amore
invincibile. Capisce che con tutta la sua pochezza, la sua fragilità, la
sua testardaggine, perfino la sua cattiva volontà, non riuscirà mai a
vincerlo. Capisce che la sua conversione e la sua stessa missione non
potranno essere altro che una resa alla bontà del Signore.
✴«Pasci le mie pecore». Allora questo comando significherà aiutare gli
uomini a convertirsi all’immagine di un Dio che è «pietà e tenerezza», a
incontrare un Dio mendicante che tende la mano in cerca di amicizia e
di amore, che desidera soltanto che tu impari a voler bene e a lasciarti
voler bene. Significherà aiutare a incontrare la compassione di Gesù,
così come Pietro stesso l’ha incontrata.
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La compassione di Gesù
✴«Seguimi». Non ci poteva essere commiato migliore. È soltanto ora che
Pietro può cominciare davvero a seguire Gesù: dopo aver attraversato
l’amarezza del peccato, dopo aver tradito, dopo aver visto franare tutte
le illusioni che si era fatto su di sé. E dopo essere stato confermato,
dopo aver ritrovato la fiducia attraverso la domanda sull’amore. Finalmente Pietro è pronto a partire. Ma partire significherà riscoprirsi
discepolo, rinunciare a mettersi davanti al Signore, seguire i suoi passi,
dovunque essi conducano.
Spunti per vivere la compassione
✴ Dal momento che c’è nella mia esistenza questo punto fermo che è
l’amore di Gesù per me, in che modo decido di vivere? Questa è una
domanda molto diversa da quella che spesso mi faccio, che suona più in
questo modo: «Che cosa devo fare per conquistarmi l’amore di Gesù?».
Non devo fare nulla per conquistarmelo: c’è già. Ma quando scopro che
c’è, che non è mai venuto meno, che cosa decido di fare della mia vita?
✴ Non è sempre semplice lasciarsi amare. È difficile stare di fronte a questo sguardo di implacabile misericordia, di perdono assoluto, di attesa
infinitamente paziente. Ma il Signore non vuole usare altri mezzi per
raggiungerci. E proprio perché amato e accolto dalla compassione del
Signore io posso essere annunciatore della sua compassione.
✴ Ho bisogno di gesti, di sguardi, di un altro che mi voglia bene davvero,
di perdono, di pace, del senso della sproporzione tra la mia chiamata e
le mie capacità. Ho bisogno di sentirmi accolto dal Crocifisso che muore
per me e restituito alla vita dal Risorto che mi chiama a seguirlo. Ho
bisogno di qualcuno che guarisca le mie ferite, di infiniti legami d’amore... Ho bisogno di tutto, insomma. Forse sono abbastanza povero per
incominciare.
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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO
DAMIANO DE VEUSTER
«Mi sono fatto lebbroso tra i lebbrosi
per conquistarli tutti a Cristo»
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amiano de Veuster nasce nel 1840. Ancora non si ha una conoscenza
accurata, dal punto di vista medico, della lebbra; è un male che non si
può curare e non se ne conoscono le vie di trasmissione. Dal 1850 la malattia
comincia a diffondersi in maniera rapida e terrificante nell’arcipelago delle
Hawaii, dopo un secolo di altre epidemie. Da duecentocinquantamila abitanti la popolazione è scesa a cinquantamila. Gli indigeni considerano tutte
quelle sventure come una maledizione portata dagli stranieri; gli stranieri
incolpano di tutto i nativi, noti per l’ostentata promiscuità sessuale. Come
arginare l’epidemia? I collaboratori occidentali della casa regnante premono
per un’assoluta e rigida segregazione di tutti i malati e dei casi sospetti; i
nativi, invece, considerano i legami familiari e di sangue più importanti della
stessa malattia. Così scienziati, politici e autorità religiose (quelle calviniste)
predicano la segregazione come un alto dovere morale. Gli insegnamenti
dell’Antico Testamento, al riguardo, vengono ripresi alla lettera: la lebbra è
una maledizione divina, e come tale va trattata.
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Molokai
Viene dunque realizzato l’insediamento di Kalawao, nell’isola di Molokai, scelta proprio perché inaccessibile. A partire dal 1866, ogni mese,
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Ci hanno lasciato un esempio
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da Honolulu, la capitale, parte una nave carica di lebbrosi requisiti a forza.
«Lo spettacolo è terribile: i parenti e gli amici degli infelici lebbrosi non
possono separarsi dagli amati partenti. Senza il minimo timore di contrarre
la lebbra, essi se li tengono fortemente stretti tra le braccia e li ricoprono
di interminabili baci. E ogni volta che uno degli esiliati si allontana dalla
folla per andare a prendere posto nell’imbarcazione... è un’improvvisa
esplosione di grida di disperazione, lamenti e gemiti».
La polizia preleva a forza uomini e donne sospetti di lebbra e li invia
a Molokai, ma tutto avviene tra la ribellione dei parenti: i malati vengono
occultati; i nuclei familiari fuggono nei villaggi più sperduti; alla polizia ci
si oppone anche con le armi. Non è infrequente il caso di amici e parenti
che si fingono malati per accompagnare i loro cari. Si giunge a permettere
a qualche congiunto di partire coi malati.
La colonia dei lebbrosi viene aperta nel 1865. Fino al 1873 – quando
giunge padre Damiano – nessun bianco vi ha mai soggiornato. Gli hawaiani sospettano che ai bianchi interessi piuttosto il loro sterminio e che
le loro cure e le loro medicine siano un inganno. A Molokai si vedono
i malati versare per terra, ridendo, i flaconi di medicinali: non possono
essere veramente interessati a loro quei bianchi che fuggono via pieni
di orrore al solo vederli! Ogni lebbroso custodisce con cura soprattutto
due oggetti: uno specchio in cui spiare giorno per giorno i progressi del
male sul proprio viso, e un coltello di legno per pareggiare le punte delle
dita, man mano che diventano insensibili.
Alla rovina fisica, si aggiungono quella psicologica e morale. Il governo
ha previsto che la colonia diventi autosufficiente col lavoro della terra e
la pastorizia, ma i lebbrosi non se ne curano affatto. Li hanno imprigionati? Che almeno li mantengano! Ma nulla è stato predisposto per loro:
abitazioni, ospedali, dispensari, uffici amministrativi, chiese, cimiteri.
L’unico bianco
Quando Padre Damiano de Veuster, trentatreenne religioso della Congregazione dei Sacri Cuori, vi giunge nel 1873, vi sono già stati portati a
forza 797 lebbrosi, dei quali più di trecento sono deceduti. Ma in quel solo
anno ne vengono trasferiti sull’isola più di quanti ne erano stati portati in
tutto il periodo precedente. Al momento del suo arrivo ci sono seicento
malati. È l’unico bianco. Giunge solo col breviario e un piccolo crocifisso.
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Ci hanno lasciato un esempio
Le prime settimane vive all’aperto, dormendo sotto un albero e mangiando su una roccia, sceglie subito di immergersi volontariamente in quel
mondo in putrefazione. Ciò che più lo sconvolge è il fetore persistente
che, quando i malati gli si stringono attorno, lo prende alla gola; ed egli lo
percepisce come una specie di bruciore. Dopo qualche settimana dall’arrivo
scrive ai confratelli: «Tutta la mia ripugnanza verso i lebbrosi è scomparsa».
Non è così vero, ma il rifiuto di ammettere quella ripugnanza anche a se
stesso è il metodo scelto per donarsi senza riserve. Capisce subito che
i malati non lo accetterebbero se egli cominciasse a preservarsi, a usare
precauzioni, a evitare i contatti. Fin dalla prima predica, invece di rivolgersi
loro col tradizionale «fratelli miei», dice semplicemente: «noi lebbrosi».
Non si preoccupa di poter essere contagiato. Dice «d’aver affidato
la questione a Nostro Signore, alla Vergine Santa e a san Giuseppe». È
difficile per un prete «rifiutarsi di toccare», quando bisogna deporre l’ostia
consacrata su lingue rose dal male, o ungere con l’olio santo mani e piedi
cancrenosi, o curare le piaghe. Egli non agisce così solo per rispettare la
sensibilità dei malati, vuole rispettare «la sensibilità della Chiesa». Essa è
«corpo di Cristo»; tutti i suoi sacramenti e le sue opere sono segni di un
«contatto fisico», salvifico, tra l’Umanità di Cristo e la nostra sofferente
umanità. Perciò a tavola mangia intingendo le mani, assieme ai lebbrosi,
nel piatto comune; beve nelle tazze che gli offrono; passa la sua pipa se
gliela chiedono; gioca coi bambini che gli si gettano addosso a grappoli.
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Preparare alla morte per vivere
Alla fine del suo secondo anno di permanenza scrive: «Con le lacrime
agli occhi semino la Buona Novella tra i miei poveri lebbrosi, e dalla mattina
alla sera sono immerso in una miseria fisica e morale che spezza il cuore,
ma cerco di sembrare sempre allegro, per stimolare il coraggio nei miei
pazienti; presento loro la morte come la fine dei loro mali, se si convertono
sinceramente. Molti vedono arrivare la loro ultima ora con rassegnazione,
altri con gioia e, durante quest’anno, ne ho visti un centinaio morire in
ottime disposizioni di cuore». La preparazione alla morte diventa il senso
della sua missione e del suo apostolato. Non c’è altro da fare; impossibili
e inutili le cure, certa la morte. L’ovvio iter pedagogico, «insegnare a ben
vivere per insegnare a ben morire» a Molokai non è più possibile. Bisogna
capovolgere l’itinerario: insegnare a morire bene, perché possa acquistare
senso e dignità (e perfino «gioia»), quella parvenza di vita che ancora resta.
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Ci hanno lasciato un esempio
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Se in tutto il resto del mondo la morte è l’ultimo atto del dramma
dell’esistenza, a Molokai la morte è l’atto continuamente rappresentato.
Padre Damiano sa che quella morte lo riguarda: egli non è e non vuole
essere uno spettatore; comincia, dunque, a «celebrare la morte», nel senso
di darle dignità umana. Se si pensa che, al suo arrivo, i cadaveri venivano
abbandonati all’aperto e dati in pasto ai maiali, si può comprendere la dignità
di chi si mette a costruire un cimitero. «Uno steccato bianco, una grande
croce, terra consacrata... ». Il senso di dignità emerso grazie a questo semplice fatto (nessuno vuol più morire come una bestia) suscita un’incredibile
polemica da parte dei protestanti hawaiani contro quella iniziativa che, a
loro dire, permette a padre Damiano di aumentare il numero dei convertiti.
Non è «un cimitero per soli cattolici», ma è chiaro che tutti finiscono per
affidare anche l’anima a colui che con tanta tenerezza si cura dei loro corpi.
Damiano fonda la Confraternita dei funerali, che prepara le bare di legno,
e accompagna, pregando, il defunto al cimitero, al suono della musica e al
ritmo dei tamburi. Le vesti dei membri della confraternita sono particolarmente dignitose. Padre Damiano ha scelto per sé, nel cimitero, il posto
vicino alla grande croce. Scrive in una lettera: «Mi piace andare lì a dire il
Rosario, a meditare sulla felicità eterna che molti di loro già godono, sulla
infelicità eterna di alcuni che in nulla vollero obbedire... Ti giuro, fratello mio,
che il cimitero e il letto dei moribondi sono i più bei libri di meditazione
che ho, sia per nutrire il mio corpo che per preparare la catechesi». Dopo
sette anni di permanenza a Molokai, tutti i lebbrosi che ha conosciuto al
suo arrivo, sono morti e la colonia si è interamente ripopolata.
Aiutare a vivere
Dopo la liturgia della morte, viene quella dei Sacramenti che ancorano
alla vita. La festa più grande nell’isola diviene quella del Corpus Domini.
Padre Damiano ha perfino introdotto la pratica dell’adorazione perpetua.
Ciò che massimamente commuove, durante le cerimonie sacre, è il coro.
Gli hawaiani hanno una spiccata sensibilità per la musica; ma è cosa unica
al mondo vedere eseguire una Messa di Mozart, anche se il pianista deve
suonare con un pezzo di legno attaccato alla mano, anche se il coro deve
spesso cambiare i cantori quando la malattia arriva alla gola. C’è poi la
Confraternita della sant’infanzia, per i bambini abbandonati; quella di san
Giuseppe, per le visite ai malati a domicilio; quella della Madonna, per
l’educazione delle ragazze.
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Ci hanno lasciato un esempio
Damiano costruisce chiese, cappelle, un porticciolo, realizza la strada
di collegamento tra il porto e il villaggio, due acquedotti e i relativi serbatoi
d’acqua, una serie di magazzini, uno spaccio, un edificio di raccolta per
i nuovi arrivati, due dispensari, due orfanotrofi, un centro di formazione
per ragazze; e inizia la costruzione di un ospedale. Queste sono le sue
occupazioni nel tempo libero dalla cura dei malati... Ripete: «Mi sono
fatto lebbroso tra i lebbrosi per conquistarli tutti a Cristo».
Quando la Commissione Ministeriale di Igiene gli offre la carica di
Sovrintendente di Molokai, con una paga annua di diecimila dollari risponde: «Se accettassi una paga per il mio lavoro, mia madre non mi
riconoscerebbe più per suo figlio».
Fin dagli inizi ha domandato ai superiori un confratello, soprattutto
per confessarsi. Non lo vogliono ascoltare. Le leggi sono ferree: chi entra
a Molokai non ne deve più uscire. Una volta impediscono di sbarcare a
un confratello che si è recato a fargli visita, e padre Damiano – giunto
vicino alla nave con una barchetta – si confessa gridandogli i peccati da
lontano. Qualche altro più intraprendente trasgredisce gli ordini e va a
trovarlo. Infine i superiori gli mandano un aiuto, un confratello che però
gli rende la vita ancora più amara: non è d’accordo con lui su nulla. Ne
scrive ai superiori, ma riceve critiche. Il Provinciale fa pressione sul vescovo e questi scrive a padre Damiano di smetterla di «fare tanta poesia
sui lebbrosi... ». Egli risponde: «Dagli stranieri oro e incenso, dai superiori
la mirra». Il vescovo si offende: «Dopo l’oro e l’incenso, la mirra non è
stata di vostro gradimento e me l’avete gettata in faccia...». Il Provinciale
scrive a Roma che padre Damiano s’è montato la testa, si è «intossicato
di lodi» e sta diventando «pericoloso». Padre Damiano, invece, da qualche
anno, è diventato soltanto lebbroso.
VI
T
A
P
P
A
Lebbroso
Se ne è accorto per caso, una sera che ha immerso i piedi in una bacinella d’acqua calda; ha visto immediatamente arrossarsi la pelle e formarsi
delle vesciche. Stupito ha toccato l’acqua con la mano: era bollente e non
se n’era accorto! Ha perso la sensibilità agli arti inferiori e capisce così
inequivocabilmente d’aver contratto la lebbra. Scrive ai superiori: «Non
avendo alcun dubbio sul vero carattere della mia malattia, io resto calmo,
rassegnato e felicissimo in mezzo al mio popolo. Il Buon Dio sa bene ciò
che vi è di meglio per la mia santificazione, e ogni volta ripeto con tutto
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
215
Ci hanno lasciato un esempio
il cuore: Sia fatta la tua volontà!». Gli risponde il Provinciale: «Vi sono
due luoghi dove potete andare: alla Missione o all’ospedale. Alla missione
voi sarete rinchiuso in una camera che non potrete abbandonare fino alla
vostra partenza [...] Se invece volete andare all’ospedale, voi andrete nella
cappella dei lebbrosi senza potervi celebrare la Messa, perché né padre
Clemente né io consentiremmo di celebrare la Messa con lo stesso calice
e con gli stessi paramenti usati da voi».
Si reca all’ospedale di Honolulu, per confessarsi col vescovo che, dopo
averlo ascoltato, – contagio o non contagio – l’abbraccia piangendo,
convinto d’aver ascoltato un santo. All’Ospedale viene personalmente il
Re delle Hawaii a ringraziarlo di tutto quello che egli fa per i suoi sudditi
lebbrosi. Ma a Damiano resta in cuore la pena profonda di quelle incomprensioni. Scrive nel diario: «Prega per ottenere lo spirito di umiltà, in
modo da desiderare il disprezzo. Se vieni schernito, devi gioirne. Non
lasciamoci incantare dalle lodi degli uomini, non siamo soddisfatti di noi
stessi, siamo grati a chi ci causa dolore o ci tratta con disprezzo e preghiamo Dio per loro. Per fare questo c’è bisogno, oltre che della grazia,
di una grande abnegazione e di una costante mortificazione, grazie alla
quale veniamo trasformati in Cristo Crocifisso».
Qualche mese prima di morire, lo colpisce la triste notizia che stanno
tentando di infangare lui e la sua missione. Alcuni protestanti – gelosi della
fama del prete cattolico – hanno approfittato della teoria che attribuisce
il contagio alla promiscuità sessuale. Se padre Damiano si è ammalato
di lebbra, è una prova chiara che il suo comportamento nell’isola non è
stato irreprensibile. Ne ha il cuore spezzato e tuttavia trova la forza di
scrivere: «Io procuro di salire molto dolcemente la via della Croce, e spero
di trovarmi presto alla sommità del mio Golgota».
Al termine della Quaresima del 1889, padre Damiano s’accorge che la
fine è ormai prossima. È contento di andare a celebrare la Pasqua in cielo.
Quando muore, il lunedì santo, ha quarantanove anni, e ne ha passati
sedici tra i suoi lebbrosi.
✴
VI
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
T
A
P
P
A
216
Accordo finale
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
217
ACCORDO FINALE
LADRONI GRAZIATI
U
no dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il
Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava
dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato
alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che
abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto
nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel
tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel
paradiso»162.
L’immagine dei due ladroni è ormai parte integrante dell’icona
cristiana del Crocifisso. Tutti e quattro gli evangelisti ne ricordano
162
Luca 23,39-43.
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
218
Accordo finale
la presenza, e la tradizione ha sempre dato un grande rilievo a
questo fatto, giungendo perfino ad attribuire un nome a ciascuno
dei malfattori. Gesù, il benefattore, è annoverato fra i malfatto­ri, è
assimilato ai pec­catori che lui aveva amato in modo preferenziale.
Questa icona evangelica è l’emblema stesso della misericordia.
La gente che passa di là, probabilmente non distingue nemmeno
Gesù dagli altri due. Si ferma un attimo e magari pensa: «Finalmente
ne hanno presi tre, meno male che ogni tanto ne prendono qualcuno». Soltanto Luca, però, parla di un ladrone pentito, o di un
buon ladrone, come viene normalmente chiamato nella tradizione
cristiana; anche se buono, a rigor di termini non lo era affatto. Lui
stesso dice di sé che sta ricevendo il giusto per le sue azioni. E non
è certo facendo appello all’integrità della propria fede o della propria
morale che strappa al Signore la promessa del paradiso.
Gesù invoca il perdono per gli uomini suoi crocifissori. Condannato, giudicato, disprezzato, crocifisso, non solo non maledi­ce,
ma invoca il perdono, mettendo in atto, lui per primo e in modo
straordinario, l’amore misericordioso per i suoi nemici. Gesù vede
ignoranza e debolezza dove noi vediamo cattiveria.
Solo un anonimo ladrone, colpito dalle parole di perdono di
Gesù e dal suo regale comportamento, apre il cuore al suo mistero
d’amore. Ricono­scendo l’Amore crocifisso che perdona, riconosce
il proprio peccato: «Noi abbiamo fatto male, lui no; la croce di
Gesù è ingiusta perché lui ha vissuto facen­do solo del bene; lui,
innocente, è qui con noi che sia­mo malfattori!». E poi, sempre
guidato da questo Amore, rivolge a Gesù la sua semplice e accorata
pre­ghiera: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
Il ladrone è l’unico che chiama amichevolmente Gesù per nome,
senza aggiungere altro. Gesù signifi­ca Dio salva. Non usa nessun
altro titolo per ottenere la sua misericordia, lo chiama con il nome
più familiare, quello di battesimo, diremmo noi. Questo è l’ultimo
furto della vita del ladrone, quello che gli è venuto meglio: ha
aperto la porta del Regno dei cieli, e il grimaldello per far saltare
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
Accordo finale
219
la serratura è stata l’invocazione del nome, dell’unico che ti può
dare salvezza.
Il ladrone chiede di essere ricordato, non dice: «Ricordati del
bene che ho fatto, delle mie opere, dei miei sacrifici, delle mie offerte»; non dice: «Ricordati che ne abbiamo passate tante insieme,
abbiamo mangiato e bevuto insieme, abbiamo studiato insieme,
siamo parenti...». Non dice nulla di tutto questo per il semplice
fatto che non può vantare nulla nei riguardi di Gesù, né una storia
di amicizia o di complicità che possa giustificare in extremis uno
strappo alla regola, un favore contro le leggi, né una presunta
giustizia o una bontà d’animo e di comportamento che possa
rivendicare un premio meritato.
«Ricordati di me» significa: «Ricordati di chi sono, dei miei peccati, del fallimento che è stata la mia vita, degli errori che l’hanno
fatta finire male, delle occasioni di bene che ho perduto, della mia
fragilità. Tu mi conosci, sai chi sono; proprio per questo ti chiedo
di ricordarti di me, perché non ti posso nascondere nulla, perché
davanti a te sono scoperto, non posso fingere; e il mio essere
così disarmato e così perduto è motivo sufficiente ai tuoi occhi
per volermi bene, per darmi come regalo ciò che non mi merito».
La risposta di Gesù è immediata: «In verità io ti dico: oggi con
me sarai nel pa­radiso». È questa l’ultima parola di Gesù, secondo
il van­gelo di Luca, rivolta all’umanità prima di morire. È il suo testamento. È la parola della misericordia più impensata. Si noti la
solennità e la sicurezza con cui Gesù gli promette infinitamente
più di quel che gli aveva chie­sto.
«In verità...». La verità della sua vita è questa: è la misericordia, è
il dono gratuito del Regno a chi non ha fatto nulla per meritarselo,
è la parola scandalosa della croce la quale dice che Gesù muore
per i peccatori.
«Oggi», dice Gesù. Il tempo della misericordia di Gesù è un
oggi che non ha mai fine. L’ora della salvezza non è quella appena
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220
Accordo finale
passata o quella che verrà in futuro, ma è l’oggi in cui il Signore
ti incontra.
«Con me sarai nel paradiso». Al ladrone il Signore offre molto
di più. Non gli dice: «Sarai accolto in paradiso», ma: «Sarai con me
in paradiso». «Tu sarai con me, perché io, l’Emmanuele, sono con
te. Tu non sei stato con me, sei fuggito lontano. E io sono venu­to
lontano, fin qui sulla croce. Voglio stare con te, perché tu possa
stare con me. Ora concludo con te un’alleanza. È nuova, come la
nostra amicizia che co­mincia oggi. È eterna, come la mia fedeltà
che è più forte della morte».
Qui si compiono le parabole della misericordia. Gesù è il buon
pastore che è andato in cerca della pe­cora perduta, l’ha trovata e
ora tutto contento la por­ta alla festa del Regno. Gesù è venuto a
cercare i suoi fratelli perduti e li accompagna alla casa del Padre che
li sta aspettando per la grande festa. Che cosa sarebbe il regno di
questo re crocifisso senza il malfattore pentito? A un regno così,
dove hanno diritto di cittadinanza i derelitti della terra, non può
mancare questo povero: la compassione di Gesù ha bisogno di lui.
Il Signore non può immaginare un paradiso senza portarsi dietro
questa umanità alla deriva.
Questo è il marchio di fabbrica di Dio. Questo è il volto della
misericordia del Padre che ci ha rivelato Gesù. Questo è il culmi­ne
della misericordia. Qui appare in tutta la sua grandezza la regalità
di Gesù che sul trono della croce offre il perdono e il Regno. La
sua è la regalità dell’amore misericordioso di Dio che ha mandato
il Figlio non per giudicare e condannare, ma per salvare; e Gesù
ci salva morendo al posto no­stro sulla croce, carico delle nostre
malattie e dei no­stri peccati.
Gesù, a braccetto con un ladro, va in paradiso e ci ricorda che
noi tutti siamo ladroni graziati.
✴
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APPUNTI...
APPUNTI...
223
STRUTTURA DEL CAMMINO A TAPPE
Perché queste tappe di cammino portino frutto occorre viverle con
impegno. La puntualità è importante ed è segno di carità: che si stabilisca
e si rispetti l’ora precisa dell’inizio e del termine degli incontri. Nei cenacoli,
è bene favorire momenti di festa e di fraternità, ma al di fuori dell’incontro:
o dopo l’incontro (come naturale prolungamento) o in altri momenti.
1. STRUTTURA GENERALE DEL CAMMINO
Ogni tappa del cammino è strutturata in sei incontri.
a) Incontri in Fraternità:
I Catechesi
IVIncontro degli Alleati
VIIncontro della Fraternità
− Sono guidati dai Responsabili di Fraternità.
− Sono finalizzati globalmente a far crescere la Fraternità, e a farla
crescere come un solo corpo.
b)Incontri in Cenacolo:
II Risonanza
IIICondivisione
V Revisione di vita
− Sono guidati dall’animatore di Cenacolo.
− Gli incontri in Cenacolo hanno lo scopo di permettere una
condivisione più profonda che non sarebbe altrimenti possibile
all’interno di tutta la Fraternità
− Per questo motivo il Cenacolo:
– deve essere costituito da un numero ristretto di fratelli per
dare a tutti la possibilità di intervenire ad ogni incontro;
– non deve essere un gruppo fisso (senza per questo dover
variare ogni anno) per dare la possibilità a tutti di vivere questa
condivisione col maggior numero di persone all’interno della
Fraternità.
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
224
Struttura del cammino a tappe
2. RESPONSABILI DI FRATERNITÀ
E ANIMATORE DI CENACOLO
Le figure di riferimento per il cammino a tappe sono due:
a) Responsabili di Fraternità
− Essi devono fare proprio il cammino per poterlo far vivere bene a
tutta la Comunità.
− Sono loro che lo guidano, intervenendo anche, ogni volta che
vedono calare la tensione della Comunità.
b) Animatore di Cenacolo
− È estremamente opportuno che le persone incaricate a questo
ministero siano anziani di Comunità, cioè fratelli e sorelle che:
– abbiano tutta l’autorevolezza per poter presiedere i momenti
di Cenacolo;
– sappiano trasmettere con il cuore il progetto di Dio sulla
Comunità.
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
225
Struttura del cammino a tappe
I INCONTRO
CATECHESI
Fraternità
a) Struttura dell’incontro
− L’incontro si apre con un momento di preghiera di lode. Circa
la durata di questo primo momento, occorre considerare bene
l’orario nel quale si tiene l’incontro: se infatti l’incontro è dopo
cena, la preghiera non potrà essere troppo lunga perché se si prega
per un’ora e poi c’è una catechesi da accogliere, l’attenzione delle
persone non potrà più essere alta.
− Dopo l’insegnamento si faccia ancora un breve momento di preghiera (è sufficiente anche un canto) per non disperdere subito
quanto detto e anche per ricordarci che il tutto deve essere ora
meditato nella preghiera.
− Prima di concludere, i Responsabili di Fraternità comunichino le
notizie riguardanti la vita della Fraternità.
− A questo incontro partecipano gli Alleati e coloro che fanno parte
dei Gruppi di condivisione.
b)Finalità dell’incontro
− La finalità di questo primo incontro è quello di far vivere a tutti
un momento di ascolto della Parola che sia poi di nutrimento per
tutto il tempo della tappa.
c) Ruolo dei Responsabili di Fraternità
− Spetta a loro preparare e guidare questo incontro.
– introducendo e animando i momenti di preghiera;
– tenendo la catechesi (o affidandola a qualcuno con cui hanno
però condiviso il contenuto e il taglio da dargli);
– ricordando di meditare durante la settimana sull’insegnamento ascoltato e sulla catechesi letta nel libro, per preparare la
risonanza;
– comunicando, alla fine dell’incontro, le notizie riguardanti la
vita della Comunità.
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
226
Struttura del cammino a tappe
− Per la preparazione della catechesi i Responsabili di Fraternità
devono mettersi in ascolto del Signore per comprendere come
il tema dovrà essere affrontato, quali sottolineature dare, quali
attualizzazioni concrete proporre per la Fraternità. Per questo
risulta estremamente importante che le catechesi siano tenute, per
quanto possibile, dagli stessi Responsabili che hanno la visione di
Dio sulla loro Fraternità. Se si decide di affidare ad altri la catechesi,
non basta che questi siano bravi catechisti, ma occorre che siano
persone che abbiano chiaro il disegno di Dio sulla Comunità e
ancora di più che abbiano compreso come il Signore voglia parlare a quella Fraternità a questo punto del cammino. Per questo,
coloro che terranno queste catechesi dovranno aver condiviso
ampiamente il contenuto e il taglio da dare con i Responsabili di
Fraternità. È quindi inopportuno incaricare persone esterne alla
Comunità per tenere queste catechesi. Inoltre, se non è necessario
che nelle catechesi si dica tutto quello che è scritto nel libro, è
però necessario che siano fatte tenendo conto, in maniera stretta
del testo riportato in esso.
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
227
Struttura del cammino a tappe
II INCONTRO
RISONANZA
Cenacolo
a) Struttura dell’incontro
− Dopo un momento di preghiera segue la risonanza personale dove
ciascuno condivide qualche aspetto della sua meditazione sulla
catechesi.
− Alla fine del proprio intervento ciascuno indicherà l’impegno di
conversione che ha scelto.
− Circa l’impegno di conversione:
– dovrà essere semplice e concreto in modo che si possa realmente verificare al momento della revisione di vita;
– non ha senso prendersi impegni già contemplati nell’impegno
di Alleanza (messa quotidiana, adorazione settimanale...);
– non ha senso assumersi più volte lo stesso impegno: quando
possibile, dovrebbe normalmente continuare ad essere adempiuto.
− Circa la meditazione:
– La Chiesa l’ha sempre raccomandata come necessaria alla vita
cristiana, ma essa richiede impegno e tempo per ruminare la
catechesi.
– Uno dei segni che non si è meditato è quando, invece che
condividere le proprie riflessioni nate dalla catechesi, si scivola
nella revisione di vita, o verso la sterile ripetizione pedissequa
di quanto scritto nel libro, senza alcun arricchimento personale.
–Il Catechismo degli adulti ricorda che «ha grande importanza»
(n. 939) e che «consiste nel riflettere su qualche verità della
fede, per crederla con più convinzione, amarla come un valore
attraente e concreto, praticarla con l’aiuto dello Spirito Santo.
Implica riflessione, amore e proposito pratico. Di solito ci si
aiuta con la lettura di un passo biblico, di un testo liturgico o
di un libro di spiritualità» (n. 996)
– Anche il Catechismo della Chiesa cattolica dedica molto spazio
all’argomento dicendo che: «la meditazione è soprattutto una
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
228
Struttura del cammino a tappe
ricerca» (n. 2705); «un cristiano deve meditare regolarmente,
altrimenti rassomiglia ai tre primi terreni della parabola del
seminatore» (n. 2707); «la meditazione è necessaria per approfondire le convinzioni di fede, suscitare la conversione del
cuore e rafforzare la volontà di seguire Cristo» (n. 2708).
b)Finalità dell’incontro
Scopi principali di questo incontro sono:
− assimilare con maggior profondità l’insegnamento (tramite la
risonanza che ha avuto nella meditazione dei fratelli);
− stimolarne la sua attuazione nella quotidianità della vita (tramite l’impegno di conversione che si assume).
Per questo è necessario che l’incontro sia ben preparato durante la
settimana: attraverso la propria meditazione e la scelta di un proposito.
c) Ruolo dell’animatore di Cenacolo
− È l’animatore di cenacolo che introduce il momento di risonanza
personale dopo la preghiera iniziale.
− È suo compito vigilare anche affinché sia una vera condivisione
della propria meditazione, cioè della riflessioni personali nate
dalla catechesi.
− L’animatore di Cenacolo dovrà essere particolarmente attento alla
reale verificabilità dell’impegno di conversione che ogni fratello
sceglierà di assumersi.
− Nel caso in cui qualcuno non abbia ancora formulato in maniera
seria (cioè, dopo averci riflettuto in settimana e non improvvisandolo lì per lì) l’impegno di conversione, lo si richieda durante
la settimana, in modo che nell’incontro successivo tutti possano
conoscerlo: non si deve lasciare cadere la cosa come se fosse un
fatto strettamente personale.
− È utile richiamare alla mente questi impegni durante la tappa.
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Struttura del cammino a tappe
III INCONTRO
CONDIVISIONE
Cenacolo
a) Struttura dell’incontro
− È un momento che non ha uno schema preciso da seguire, ma
non per questo deve essere meno ordinato.
− In questo incontro si deve dare spazio alla condivisione dei fratelli
sulla propria vita.
− Se lo si ritiene opportuno si può anche pregare per i fratelli che
hanno fatto la loro condivisione.
b) Finalità dell’incontro
− È un momento per crescere nella comunione attraverso una profonda condivisione dove si apre il cuore ai fratelli.
c) Ruolo dell’animatore di Cenacolo
− Alla fine dell’incontro di Risonanza (o prima di iniziare questo
incontro), l’animatore inviterà chi desidera condividere qualche
aspetto della propria vita con gli altri a farsi avanti.
− Dovrà anche fare in modo che a turno, nell’arco dell’anno, tutti
(compreso se stesso) abbiano il loro momento di condivisione.
− Alla fine dell’incontro darà inizio alla preghiera per chi ha fatto la
sua condivisione.
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Struttura del cammino a tappe
IV INCONTRO
INCONTRO DEGLI ALLEATI
Cenacoli riuniti
a) Struttura dell’incontro
− I responsabili di Fraternità possono utilizzare secondo le necessità
questo incontro per: comunicare qualche Parola alla Fraternità,
mettersi in ascolto del Signore assieme a tutti gli alleati, vivere un
momento di condivisione su alcuni aspetti particolari della vita
della Fraternità, ...
b) Finalità dell’incontro
− Lo scopo principale dell’incontro è quello di fare corpo tra gli
alleati e crescere insieme nella propria identità di Fraternità che
vive in un territorio.
c) Ruolo dei Responsabili di Fraternità
− Spetta a loro organizzare e guidare l’incontro.
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Struttura del cammino a tappe
V INCONTRO
REVISIONE DI VITA
Cenacolo
a) Struttura dell’incontro
Tutto l’incontro deve svolgersi in un clima di preghiera: non si deve
scivolare nella battuta, nei commenti inutili o in altro, ma l’atteggiamento
da tenere è quello dell’ascolto.
− La revisione di vita va annotata per iscritto.
− Si inizia con l’invocazione dello Spirito Santo.
− Normalmente ci si esamina nei seguenti ambiti:
– LA PREGHIERA
Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
– LA PAROLA DI DIO
Come mi ha parlato Dio in questo tempo?
Come ho accolto la sua Parola?
– I RAPPORTI CON GLI ALTRI
Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità?
Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di
costruzione dell’amore?
– I NOSTRI DOVERI
Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...?
Sono stato fedele agli impegni comunitari?
Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
– L’IMPEGNO DI CONVERSIONE
Come l’ho vissuto durante la tappa?
− Occorre concludere la revisione con un breve momento di preghiera nel quale invocare la guarigione per le nostre debolezze e
ringraziare il Signore per quanto operato, facendo calare così la
presenza di Dio su tutto.
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Struttura del cammino a tappe
b) Finalità dell’incontro
− È il momento più importante della tappa perché tende a comunicare
qualcosa di me stesso, vissuto durante la tappa, prendendo in considerazione sia gli aspetti negativi (quanto ho da migliorare) sia quelli
positivi (testimoniando quello che il Signore ha compiuto in ciascuno).
− Per raggiungere questo obbiettivo si deve perciò scendere in
profondità. Soprattutto si deve sempre guardare alle proprie
responsabilità, non a quelle degli altri.
c) Ruolo dell’animatore di Cenacolo
− Dopo l’invocazione dello Spirito Santo l’animatore di Cenacolo
introduce il momento di revisione di vita e quando tutti hanno
parlato conclude l’incontro introducendo un breve momento di
preghiera.
− I pericoli più comuni e verso i quali l’animatore deve sempre
vigilare sono diversi:
– l’improvvisazione, che fa scadere tutto nella banalità;
– il voler far scuola agli altri con la propria revisione di vita;
– una revisione di vita che va per le lunghe (in quel caso vuol
dire che non è stata preparata bene o che ci si nasconde dietro
alle parole);
– l’essere pessimisti (la nostra revisione di vita deve avere sempre
il marchio della speranza);
– l’intervenire a sproposito e il rispondersi gli uni gli altri;
– un clima di distrazione;
− Solo dopo la preghiera conclusiva l’animatore dia gli avvisi necessari.
− Si ricordi anche di identificare delle testimonianze da riportare
nell’incontro seguente.
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Struttura del cammino a tappe
VI INCONTRO
INCONTRO DELLA FRATERNITÀ
Fraternità
a) Struttura dell’incontro
− È il momento gioioso di «unione fraterna» (Atti 2, 42) nel quale la
Comunità intera è chiamata a esprimere «quanto è buono e quanto
è soave che i fratelli vivano insieme» (Salmi 133, 1).
− Due sono gli elementi portanti di questo incontro conclusivo della
tappa, che si rifanno direttamente all’esperienza della comunità
di Gerusalemme:
– le testimonianze (sul cammino fatto nella tappa o su altro)
che, rispondendo al comando «ogni cosa era fra loro comune»,
fanno crescere la comunità sempre più come «un cuore solo e
un’anima sola» (Atti 4, 32);
– un momento di convivialità fraterna nello stile della prima
comunità cristiana che si adunava «prendendo i pasti con letizia
e semplicità di cuore» (Atti 2, 46).
− A questo incontro partecipano tutti coloro che vivono la vita della
Fraternità
b) Finalità dell’incontro
− È il momento nel quale maggiormente si esprime la Fraternità,
qui riunita al completo. Attraverso di esso si vuole vivere la gioia
della comunione fraterna, facendo festa assieme e dare gloria al
Signore per il cammino compiuto in questa tappa, attraverso le
testimonianze dei fratelli.
c) Ruolo dei Responsabili di Fraternità
Spetta a loro:
− organizzare e guidare l’incontro;
− individuare per tempo le testimonianze da fare;
− incaricare qualcuno perché il momento di fraternità sia bello e
gioioso
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235
LA REVISIONE DI VITA
L
a revisione di vita è uno dei più grandi doni di Dio per crescere nella
vita cristiana generosa e profonda. Occorre subito dire che la revisione
di vita è un impegno esigente; lo è come ogni dono che ci fa veramente
crescere, perché crescere costa. Ma è solo crescendo che noi maturiamo,
diversamente la nostra vita si fossilizza.
Cerchiamo allora di capire alcuni meccanismi fondamentali della revisione di vita; praticandola poi, capiremo molto meglio ciò che adesso
può apparire un po’ teorico e non sufficientemente chiaro.
CHE COSA È
Non è un momento di discussione, né di scambio di riflessioni, né
tanto meno un incontro organizzativo. La revisione di vita interpella la
nostra più profonda capacità di comunicare. Possiamo definirla così: È
comunicare qualcosa di noi stessi, in un clima di sincerità, amicizia e fede,
con lo scopo di crescere nello spirito del Vangelo.
Clima di sincerità, amicizia e fede
− Sincerità: la schiettezza è la base di ogni rapporto tra persone; è
un dato di esperienza che la sincerità fa vivere i rapporti e quindi
l’amicizia; la falsità mina alla radice anche i rapporti più belli.
La revisione di vita ci è data dunque, non per nasconderci, ma
per venire allo scoperto, manifestarci. Ci sono diversi modi per
nascondersi: chiudersi, chiacchierare, dare spettacolo, deviare
l’attenzione su cose di poca importanza. Se ognuno si impegna
a uscire dai propri nascondigli mette il presupposto per la buona
riuscita della revisione di vita.
− Amicizia: è per questo che ci dividiamo in piccoli gruppi, per
favorire un clima di conoscenza reciproca e di vera amicizia. Certo, l’amicizia non si improvvisa, ma poco a poco, si sviluppa e
ognuno di noi compirà una meravigliosa esperienza di quello che è
l’amicizia profonda e costruttiva. Ecco cosa dobbiamo prefiggerci:
la stima profonda per ogni persona del gruppo e la disponibilità
ad accogliere ognuno come fratello, come sorella.
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La revisione di vita
− Fede: non sono sufficienti la sincerità e la disponibilità all’amicizia,
perché non dobbiamo dimenticare che centro e anima del gruppo
è il Signore. Desideriamo prendere molto sul serio e sperimentare
la parola di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono
in mezzo a loro». (Matteo 18, 20). Per questo preghiamo prima e/o
dopo la revisione di vita, appunto per consegnarla a lui e viverla
alla sua presenza.
La revisione di vita non è quindi una semplice terapia di gruppo, ma un
momento di fede, in cui il Signore passa per ricreare le menti, i cuori e le
volontà di ciascuno. I responsabili del gruppo hanno la funzione specifica
di vigilare perché il clima della revisione di vita non scada nella superficialità, ma si mantenga sul piano della vera amicizia, con al centro il Signore.
Comunicare qualcosa di noi stessi
La revisione di vita non deve essere semplice cronaca o scambio di
qualche idea. È comunicare qualcosa di me stesso, vissuto durante la tappa.
Si deve scendere in profondità perché la revisione di vita sia costruttiva,
soprattutto si deve sempre guardare alle proprie responsabilità, non a
quelle degli altri. Se per esempio ho avuto uno scontro con mio padre, non
rientra nella mia revisione di vita parlare dei difetti di mio padre e delle sue
colpe in quel frangente: a me è richiesto di riferire, con sincerità, delle mie
colpe in quell’occasione e come ho cercato di superare quella difficoltà.
Comunicare qualcosa di sé, non solo in negativo, ma anche in positivo.
La nostra vita è intessuta di cadute e di vittorie, di momenti difficili e di
altri gioiosi: la revisione di vita deve rispecchiare questa realtà.
È importante impostare con chiarezza il tema della revisione.
Normalmente ci si esamina nei seguenti ambiti:
LA PREGHIERA
− Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?
− Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?
LA PAROLA DI DIO
− Come mi ha parlato Dio in questo tempo?
− Come ho accolto la sua Parola?
I RAPPORTI CON GLI ALTRI
− Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità?
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
237
La revisione di vita
− Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costruzione dell’amore?
I NOSTRI DOVERI
− Ho vissuto da cristiano nella scuola, nella femiglia, nel lavoro...?
Sono stato fedele agli impegni comunitari?
− Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?
L’IMPEGNO DI CONVERSIONE
− Come l’ho vissuto durante la tappa?
Crescere nello spirito del Vangelo
Non possiamo accontentarci di fare delle analisi, sia pure sincere,
della nostra vita. Sarebbe troppo poco. La revisione di vita ci è data per
aiutarci a crescere, a modificarci, a convertirci. Se vogliamo immaginare
la nostra vita come una salita con tante rampe di scale, la revisione di
vita rappresenta i diversi pianerottoli che ci permettono una breve pausa
per riprendere fiato e continuare a salire. È essenziale aver chiaro che la
revisione di vita non è fine a se stessa, ma è ordinata a vivere, quindi a
cambiare, a crescere. Se una revisione di vita non mi modifica in nulla,
ha fallito il suo scopo, non è stata una autentica revisione di vita, ma un
semplice sfogo psicologico.
COME PREPARARSI
Intanto è il caso di precisare che è essenziale prepararsi alla revisione
di vita! Senza preparazione c’è superficialità, non c’è comunicazione nella
verità. Ci vuole tempo e sforzo per spezzare il muro della superficialità
che ci avvolge e per poter entrare nel profondo di noi stessi. Perciò ci vogliono riflessione e molta preghiera; preghiera per ognuno del mio gruppo
e preghiera per me; attraverso la preghiera tutto diventa più semplice e
vero e il comunicare si riveste di umiltà e di schiettezza.
Due consigli pratici:
− È bene spendere tutto il momento di preghiera del giorno in cui
facciamo revisione di vita per prepararla davanti a Dio;
− È necessario annotare per iscritto le cose che intendiamo comunicare. È un mezzo pratico per essere essenziali e per non
dimenticare le cose; non leggeremo la revisione di vita, ma l’avere
il foglio sotto gli occhi può aiutarci a esporla meglio.
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
238
La revisione di vita
COME PARTECIPARE
L’atteggiamento essenziale è l’ascolto. Esso è tra le attitudini umane
più impegnative ed esige molta formazione. L’ascolto è qualcosa di molto
diverso dal semplice sentire; io posso sentire la musica mentre faccio un
lavoro manuale, ma non posso ascoltare una persona se non sono lì presente con tutta la mia attenzione. L’ascolto esige una notevole capacità
di rinuncia nei confronti del nostro io che vuole essere sempre al centro.
Ascoltare significa far tacere il proprio io per accogliere il fratello. Alla
base dell’ascolto c’è la convinzione che ogni persona, quando comunica
qualcosa di sé, è un frammento della Parola di Dio che mi raggiunge per
istruirmi, richiamarmi e rafforzarmi. Se io mi metto nell’atteggiamento
giusto, quel frammento crea sempre qualcosa di nuovo in me. Per questo
possiamo definire l’ascolto anche come la sete di imparare da ciascuno. E
facciamo attenzione perché normalmente Dio parla attraverso le persone
meno brillanti.
La voce di Dio cammina per le vie dell’umiltà e della semplicità. Ecco
dunque un test per capire se c’è ascolto in un gruppo: se anche il più
timido si trova a suo agio per esprimersi. Se questo non succede, la colpa
non è della timidezza di quel fratello, ma del gruppo, o di qualcuno nel
gruppo che non sa ancora vivere l’ascolto.
Nell’ascolto, dunque, sono impegnati più il cuore e la mente che le
orecchie. Teniamo presente, però, che il nostro atteggiamento esteriore,
mentre un fratello parla, dice se il nostro è ascoltare o è solo sentire. Se,
durante la revisione di vita di un fratello, io guardo in giro, giocherello
con una penna, parlo con il mio vicino o dormo quello è segno che non
ascolto. Io non posso ricevere nulla e in più paralizzo il comunicare di
quel fratello, facendo danno a tutto il gruppo.
I PERICOLI DA EVITARE
I pericoli più comuni e verso i quali occorre sempre vigilare sono diversi:
− L’improvvisazione della revisione di vita. È forse il male più
grave che fa scadere tutto nella banalità. E quando si improvvisa,
cioè non si viene preparati alla revisione di vita, la cosa salta subito all’occhio di chi ha un minimo di esperienza. Si chiacchiera,
si gira a vuoto, si va per le lunghe, non si comunica qualcosa di
vero di se stessi. Quando, per qualche grave motivo, non siamo
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
La revisione di vita
239
riusciti a preparare bene la revisione di vita, è molto semplice: lo
diciamo e ascoltiamo gli altri, oppure ci limitiamo a dire qualcosa
di vero che sentiamo in quel momento.
− Il voler far scuola agli altri con la mia revisione di vita. Questa
non è più revisione di vita la cui finalità è prima di tutto la mia
conversione. Guardiamoci da questa insidia! È ovvio, a maggior
ragione, che la revisione di vita non è mai un accusare gli altri. La
revisione mette in questione me, soltanto me.
− L’andare per le lunghe riferendo cose secondarie per la revisione
di vita e togliendo così lo spazio agli altri. Un buon incontro di
revisione di vita non dovrebbe superare l’ora e mezza: è già molto.
È impegnativo l’ascolto profondo per un’ora e mezza. Se dunque il
gruppo è di dieci persone e uno parla per venti minuti, ruba tutto
lo spazio di un altro fratello. Allo stesso modo bisogna evitare
di intervenire per suggerire soluzioni a difficoltà di un fratello,
a meno che non sia il responsabile stesso a invitare qualcuno a
farlo. Il motivo è sempre lo stesso: la prima preoccupazione della
revisione di vita è il comunicare qualcosa di me nella verità. Non
dimentichiamo poi che l’ascolto autentico offre più soluzioni di
tante parole.
− Il pessimismo. Non possiamo mai essere pessimisti, anche se in
quella determinata settimana avessimo avuto continui fallimenti.
Esiste il perdono di Dio e la sua presenza è qui per sostenere e
guidare la mia ripresa. Attraverso quelle cadute qualche grammo
di presunzione si è staccato dal mio cuore, dunque sto crescendo.
Vigiliamo perché la nostra revisione di vita porti sempre il marchio della speranza: lo avrà se siamo in atteggiamento di lotta
per crescere. Possiamo allora aggiungere che dobbiamo essere
attenti perché la revisione di vita non si limiti ad essere uno sfogo
psicologico, ma sia un momento attraverso il quale cresciamo in
qualcosa.
Di tanto in tanto qualche persona un po’ timida ci dice: «io non
so parlare bene, come farò a fare bene la revisione di vita?». Non deve
preoccupare questo. Non è chi è più brillante nel parlare che fa meglio
la revisione di vita, anzi questo a volte può essere di impaccio, perché
chi parla bene ha più facilità a nascondersi. La revisione di vita consiste
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
240
La revisione di vita
non nel parlare ma nel comunicare, e le due cose sono diverse, possono
coincidere o non coincidere affatto.
I FRUTTI PIÙ BELLI DELLA REVISIONE DI VITA
− Porta ad una conoscenza sempre più profonda di sé stessi, conoscenza non solo delle debolezze, ma anche della luce che il Signore
coltiva in noi;
− educa alla verità e semplicità dei rapporti con ogni persona;
− il confronto con gli altri, il sentire la schiettezza degli altri, fa nascere
in noi il bisogno vivissimo di abolire ogni maschera;
− è imparare a diventare più forti attraverso la forza degli altri;
− fa sperimentare l’amicizia, la comunione, il comunicare e l’ascoltare;
− si gusta la gioia di sentirsi accolti e stimati così come siamo, e la
gioia di accogliere e stimare ogni fratello come qualcosa di sacro;
− tiene vivo in noi il problema della conversione continua;
− abitua ad una vita spirituale ordinata e concreta: non c’è più posto
per le illusioni;
− la generosità degli altri sarà sempre una grazia per non accontentarci
di un cristianesimo meschino;
− ci fa sperimentare la verità della Parola di Gesù «Dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18, 20).
La revisione di vita è l’esperienza viva che il Signore è passato a guarire,
perdonare e ricolmare della sua pace.
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
241
INFORMAZIONI COMUNITARIE
L
a Comunità Magnificat si compone di 34 fraternità di cui: 27 in Italia,
5 in Romania, 1 in Turchia e 1 in Argentina; 12 di esse sono ancora in
formazione. Esistono tre Zone: Perugia, Romania, Toscana. Gli incontri
di preghiera comunitaria settimanale che la Comunità anima sono complessivamente 40 e di seguito se ne indicano i luoghi, il nome e l’e-mail
del relativo moderatore o referente.
FRATERNITÀ NELLA ZONA DI PERUGIA
APIRO (mc) (in formazione)
Parrocchia dei Santi Urbano e Michele Arcangelo
Aldo Mancini ~ mancini,[email protected]
CITTÀ DI CASTELLO (pg)
Parrocchia di San Giuseppe alle Graticole
Valter Berliocchi ~ [email protected]
FOLIGNO (pg)
Chiesa di San Feliciano
Emilia Ricci ~ [email protected]
MARSCIANO (pg)
Oratorio di Santa Maria Assunta
Maria Gabriella Corradi ~ [email protected]
PILA (pg) (in formazione)
Parrocchia di San Giovanni Battista
Daniele Ruggeri ~ [email protected]
SAN BARNABA in PERUGIA
Parrocchia di San Barnaba
Francesca Tura Menghini ~ [email protected]
SAN DONATO ALL’ELCE in PERUGIA
Parrocchia di San Donato all’Elce
Cattedrale S. Gervasio e S. Protasio (Città della Pieve - pg)
Susanna Garofanini ~ [email protected]
BETANIA in PONTE FELCINO (pg)
Chiesa di San Pietro - Lidarno (pg)
Stefano Ragnacci ~ [email protected]
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
242
Informazioni comunitarie
TERNI
Parrocchia di San Paolo
Nunzio Sorrentino ~ [email protected]
FRATERNITÀ NELLA ZONA DI ROMANIA
ALBA IULIA (in formazione)
Parrocchia Romano-Cattolica Santa Croce
Toth Maria ~ [email protected]
SHALOM in BACAU (in formazione)
Parrocchia Romano-Cattolica Sf. Nicolae
Rosu Cristina ~ [email protected]
MISERICORDIA in BUCAREST
Cappella della Cattedrale Romano-Cattolica
«San Giuseppe» di Bucarest
Angela Catau ~ [email protected]
POPESTI-LEORDENI (in formazione)
Parrocchia Romano-Cattolica Regina del S. Rosario
Molnar Ovidiu Dacian ~ [email protected]
RÂMNICU-VÂLCEA (in formazione)
Parrocchia Greco-Cattolica Sf. Rita
Hodea Ana ~ [email protected]
FRATERNITÀ NELLA ZONA DELLA TOSCANA
BIBBIENA (ar)
Convento dei Cappuccini, Ponte a Poppi
Lucia Bartolini ~ [email protected]
CORTONA (ar)
Parrochia di Cristo Re in Camucia
Casa del Sacro Cuore in Terontola
Giuseppe Piegai ~ [email protected]
GENOVA (in formazione)
Parrocchia di Santa Caterina da Genova
Maria Rosaria Di Donato ~ [email protected]
S. MARIA DELLA MISERICORDIA in MAGIONE - AGELLO (pg)
Chiesa di Santa Maria delle Grazie, Magione (pg)
Rita Sateriale ~ [email protected]
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
Informazioni comunitarie
243
MARTI (pi)
Parrocchia di Santa Maria Novella
Federico Luisi ~ [email protected]
FRATERNITÀ FUORI DALLE ZONE
AGRIGENTO (in formazione)
Parrocchia di San Gregorio - Contrada Cannatello
Francesco Guarasci ~ [email protected]
CAMPOBASSO
Chiesa di San Pietro apostolo
Marinella Pattavina ~ [email protected]
CASSANO ALLO IONIO (cs)
Chiesa di Santa Maria di Loreto
Carla Selvaggi ~ [email protected]
FOGGIA (in formazione)
Chiesa di Gesù e Maria
Teresa Ciociola ~ [email protected]
ISTANBUL - Turchia (in formazione)
Parrocchia di Sant’Antonio
2 incontri di preghiera (uno in lingua turca e uno in lingua inglese)
Anton Bulai ~ [email protected]
MAGUZZANO (bs)
Parrocchia di Santa Maria Assunta
Giacomo Lancini ~ [email protected]
MILANO
Cappella dell’Ospedale «Città di Sesto» - Sesto San Giovanni (mi)
Enrico Cattaneo ~ [email protected]
PARANÀ - Argentina (in formazione)
Parrocchia di Nuestra Señora de La Piedad
Alejandra Cecilia Lujan Omar Rostom ~ [email protected]
PIACENZA
Parrocchia Nostra Signora di Lourdes
Sergio Seravalle ~ [email protected]
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
244
Informazioni comunitarie
POMPEI - NAPOLI - SALERNO (in formazione)
Parrocchia di San Giuseppe - Pompei (na)
Parrocchia di San Francesco al Vomero - Napoli
Parrocchia di Maria SS.ma Immacolata - Salerno
Oreste Pesare ~ [email protected]
ROMA
Parrocchia di San Giuseppe al Trionfale
Maria Annunziata Nazzaro ~ [email protected]
SAN SEVERO (fg) (in formazione)
Chiesa di San Giuseppe Artigiano
Daniele Mezzetti ~ [email protected]
SIRACUSA
Parrocchia Madre di Dio
Maria Villaruel ~ [email protected]
TORINO
Chiesa di Maria Ausiliatrice
Cappella del Santissimo Sacramento - Montanaro (to)
Graziella Vaudagna ~ [email protected]
TREVISO
Chiesa Beata Vergine Immacolata
Gianni Carlesso ~ [email protected]
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
Informazioni comunitarie
INFORMAZIONI GENERALI
RESPONSABILI GENERALI
[email protected]
Andrea Orsini
Daniele Mezzetti (moderatore)
Francesco Fressoia
Michele Rossetti
Paolo Bartoccini
SEGRETERIA GENERALE
Via Fra Giovanni da Pian di Carpine, 63
c/o Complesso di San Manno – 06127 – Perugia
Tel: 075 5057190
E-mail: [email protected]
SITI INTERNET DELLA COMUNITÀ
www. comunitamagnificat.org
http://www.comunitateamagnificat.ro
http://www.facebook.com/group.php?gid=47765906067
http://www.facebook.com/comunitamagnificat
http://www.operazionefratellino.it
http://comunitamagnificat.org/venite-e-vedrete/
Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016
245
INDICE
presentazione
IL VOLTO DELLA MISERICORDIA ........................................................ pag. 3
nota previa
PER BEN USARE IL LIBRO ........................................................................... 7
nota introduttiva
LE PAROLE DELLA MISERICORDIA ............................................................ 11
la copertina
UN PADRE DAL CUORE DI MADRE .......................................................... 15
i tappa
LA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO
Misericordia e giustizia .................................................................................... 21
Lo sguardo della compassione .......................................................................... 42
Faustina Kowalska ............................................................................... 45
ii tappa
LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO
Misericordia e opere corporali .......................................................................... 55
La compassione e le relazioni ferite .................................................................. 75
Vincenzo de’ Paoli ............................................................................... 78
iii tappa
LA PARABOLA DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO
Misericordia e giudizio ..................................................................................... 87
La compassione e l’abisso del cuore dell’uomo ............................................... 107
Giuseppe Moscati .............................................................................. 111
iv tappa
ZACCHEO
Misericordia e conversione . ........................................................................... 121
La compassione e il perdono dei peccati ......................................................... 140
Margherita da Cortona ...................................................................... 143
v tappa
I DISCEPOLI DI EMMAUS
Misericordia e opere spirituali ........................................................................ 153
I discepoli e la compassione ........................................................................... 177
Giovanni Bosco ................................................................................. 180
vi tappa
I DIECI LEBBROSI
Misericordia e gratitudine .............................................................................. 189
La compassione e la missione ........................................................................ 207
Damiano de Veuster .......................................................................... 210
accordo finale
LADRONI GRAZIATI ...............................................................................
STRUTTURA DEL CAMMINO A TAPPE ....................................................
LA REVISIONE DI VITA ...........................................................................
INFORMAZIONI COMUNITARIE .............................................................
217
223
235
241
Finito di stampare, a lode di Dio, nel settembre 2015
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Il libretto del cammino 2015-2016