SPECIALE AZALEA DELLA RICERCA
Donne
per le donne
Ricercatrici per le pazienti, donne attente
a se stesse nella prevenzione
BOMBONIERE AIRC.
Una promessa per la vita che arriva al cuore della ricerca.
Per celebrare il suo matrimonio e tutte le occasioni speciali della vita,
scelga le idee solidali di AIRC. Un modo concreto per sostenere, anche
con i suoi eventi da ricordare, chi ogni giorno si impegna a rendere il
cancro sempre più curabile.
Scopra le nostre proposte per tutte le occasioni
richiedendo il nostro catalogo al numero 035 419.9029
o direttamente sul sito www.airc.it
Una per tutte,
tutte per una
Sono centinaia e centinaia le donne ricercatrici che AIRC sostiene attraverso i propri
finanziamenti: si parte da chi comincia la carriera scientifica e ha bisogno di una borsa di
perfezionamento fino ad arrivare a chi, invece, è nella fase in cui mette le basi del proprio
laboratorio di ricerca per proseguire il percorso verso l’autonomia e, ancora, a chi è oggi
già leader di progetti competitivi. Per non parlare di tutte quelle ricercatrici che, pur non
avendo ruoli di primo piano, spesso rappresentano la maggioranza infaticabile nei grandi
gruppi di ricerca.
Tutto questo è una dimostrazione della grande vitalità femminile nella scienza, e in particolare nel mondo della ricerca sul cancro. Alle donne che lavorano per la salute di altre donne
AIRC ha voluto dedicare questo libretto allegato all’Azalea della Ricerca.
Non dimentichiamo che, a parte le grandi scienziate di cui raccontiamo la vita nelle pagine
che seguono, la battaglia contro il cancro non può essere vinta senza l’impegno di ciascuna
di noi. L’arma, questa volta, è una sola: la prevenzione. Per questo abbiamo dato ampio
spazio anche alle “ricette della salute”, semplici accorgimenti che, secondo gli esperti,
potrebbero aiutarci ad aumentare il numero delle diagnosi precoci, le uniche che consentono interventi curativi e tempestivi. Imparare ad ascoltare i segnali precoci del corpo e a
consultare il medico quando si ha un dubbio (senza per questo esagerare con la preoccupazione) può essere una strategia vincente, afferma l’American Society of Clinical Oncology,
che ha stilato la lista di cui vi parliamo nell’ultima parte del testo. Perché tutte possiamo
fare qualcosa contro il cancro, per noi stesse e per le altre donne: stando attente alla nostra
salute, contribuendo a finanziare la ricerca ma anche, specie in giovane età, aspirando a
una carriera di ricercatrice.
Editore: Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro
Via Corridoni 7, 20122 Milano, Tel. 02 7797.1,
www.airc.it - Numero Verde 800.350.350
Coordinamento redazionale: Patrizia Brovelli, Martina Perotti
([email protected])
Testi: Daniela Ovadia (Agenzia Zoe)
Progetto grafico e impaginazione: Silvia Ruju
Fotografie: Istockphoto, Corbis
Stampa: Roto2000 aprile 2012
1
Contro il cancro,
donne in prima fila
2
Sono state le pioniere
della ricerca al femminile, hanno sfidato
i pregiudizi della loro
epoca e le chiusure
preconcette; a volte
hanno persino dovuto
aspettare anni per vedersi riconoscere i
giusti meriti. Sono le donne che hanno
fatto la storia della scienza e in particolare
quella della ricerca sul cancro.
Ecco le loro storie, che possono essere d’ispirazione per le ragazze che immaginano
un futuro nella ricerca. Nella scienza non esiste
differenza di genere: è l’intelligenza che conta, la
capacità di vedere ciò che altri hanno trascurato,
la costanza di un duro lavoro quotidiano.
3
Rosalind Franklin
Quando Rosalind Franklin decise che avrebbe fatto la scienziata aveva quindici
anni. Non immaginava che di lì a pochi anni avrebbe contribuito alla scoperta
della struttura a doppia elica del DNA. Frequentava una delle poche scuole
femminili di Londra in cui in quegli anni – era il 1936 – si insegnavano fisica e
chimica. Suo padre, però, aveva in mente per lei un lavoro di assistente sociale,
e a lungo si oppose. Alla fine, però, le permise di iscriversi al college e di iniziare
una carriera scientifica che l’avrebbe portata a un passo dal premio Nobel.
Fu grazie alle fantastiche immagini prodotte da Rosalind – che dopo la laurea in chimica si era specializzata a Parigi nelle tecniche di diffrazione a raggi X – che la struttura del DNA fu chiarita e compresa.
Infatti solo dopo l’osservazione di queste immagini – che uno scienziato dell’epoca definì “le più
belle fotografie a raggi X mai scattate” – James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins riuscirono a
costruire un modellino della struttura tridimensionale del DNA.
Il premio Nobel, nel 1962, andò solo a Watson, Crick e Wilkins. Rosalind Franklin era deceduta quattro
anni prima, all’età di 37 anni, per un tumore dell’ovaio. La ricerca sul cancro, oggi, deve molto a questa
donna, che ha dato il via a un’era nuova: quella delle indagini genomiche per comprendere la natura
dei tumori.
Dorothy Crowfoot Hodgkin
Chi, se non una donna, poteva mettere in piedi un ambiente di lavoro “immancabilmente gioioso e produttivo” senza per questo rinunciare a competere ai
massimi livelli della ricerca scientifica, a sposarsi e crescere tre figli? Dorothy
Crowfoot Hodgkin era nata al Cairo nel 1910, dove il padre conduceva ricerche
archeologiche. Quando ebbe l’opportunità di aprire il suo laboratorio a Oxford,
non solo fu capace di creare un simile ambiente di lavoro, ma condusse tali
e tante ricerche nell’ambito della cristallografia a raggi X da meritarsi il premio
Nobel per la chimica nel 1964. Il Nobel le fu conferito per avere chiarito la struttura della
vitamina B12 e più in generale per l’immenso contributo alla visualizzazione della struttura tridimensionale di sostanze cruciali anche nel cancro. Il collega Max Perutz, anch’egli premio Nobel, la definì
“una grande chimica, un’amante delle persone, santa, gentile e tollerante, e una devota protagonista
della pace”.
May Edward Chinn
May Edward Chinn era figlia di uno schiavo, che era scappato giovanissimo dalle piantagioni di tabacco della Virginia, e di una nativa americana, appartenente a una tribù che per tradizione attribuiva
una grande importanza all’educazione. May crebbe nella casa dei Tiffany, i noti produttori di gioielli,
dove la madre lavorava come domestica. Da piccola sognava di diventare musicista, ma uno dei suoi
insegnanti la incoraggiò a fare studi scientifici. Dopo un percorso accidentato per via dell’estrema
povertà, riuscì a prendere il diploma di tecnico di laboratorio. Quindi, lavorando di giorno in un
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laboratorio di anatomia patologica, poté pagarsi gli studi universitari che svolgeva di notte. Fu così che
nel 1926 divenne la prima donna di colore a laurearsi in medicina al Bellevue Hospital di New York, e
la prima a lavorare all’ospedale di Harlem.
Girava anche – unica donna – sulle ambulanze e visitava a domicilio in zone da cui i medici di solito
si tenevano alla larga. Dopo la specializzazione in sanità pubblica alla Columbia University, negli anni
Quaranta cominciò ad occuparsi di cancro. Qui diede un importante contributo alla messa a punto del
Pap-test che sarebbe poi diventato un formidabile strumento per la diagnosi precoce del tumore della
cervice uterina.
Marie Curie
Nata in Polonia nel 1867, Marie Sklodowska-Curie è forse la scienziata più nota
al mondo. È stata infatti la prima persona ad aver vinto due volte il premio
Nobel, in fisica nel 1903 – insieme al marito Pierre Curie e al collega Henry
Becquerel – e in chimica nel 1911, da sola. Il merito e il successo però non
portarono solo gioie a questa scienziata polacca, francese di adozione. I membri dell’Accademia francese delle scienze infatti non gradivano avere fra loro
uno scienziato straniero che per giunta era donna. Così, proprio nel 1911, la Curie
non fu ammessa all’Accademia e per due voti le fu preferito un inventore che oggi nessuno
ricorda. La prima accademica donna di Francia sarebbe stata una studentessa della Curie, oltre mezzo
secolo più tardi.
L’ostracismo ottuso dei colleghi scienziati non impedì a Marie Curie di mettere a frutto i suoi studi
pionieristici sulla radioattività e le prime applicazioni della radioterapia nella cura dei tumori.
Fu proprio la passione per la ricerca in un campo che avrebbe offerto moltissime armi alla lotta contro
il tumore a ucciderla: morì nel 1934, a causa dalla prolungata esposizione alle radiazioni, di cui solo
più tardi si sarebbe scoperta la pericolosità per la salute. Fu sepolta nel cimitero di Sceaux, accanto
al marito Pierre che era morto nel 1906 in un incidente stradale. Le salme dei due coniugi sono state
successivamente trasferite con tutti gli onori, nel 1995, nel Panthéon di Parigi.
Irene Joliot-Curie
Figlia di Marie e Pierre Curie, Irene Joliot-Curie vinse anche lei il premio Nobel,
insieme al marito Frédéric. Il premio, per la chimica, assegnatole per gli studi
sulla radioattività artificiale (all’origine anche delle attuali tecniche di radioterapia) le fu conferito nel 1935, un anno dopo la morte della madre.
Irene si iscrisse giovanissima alla Facoltà di scienze della Sorbona, dove studiò
fino allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914. Dopo un anno trascorso
al sicuro in Bretagna, a 18 anni appena compiuti seguì la madre negli ospedali
mobili dotati di rudimentali apparecchiature a raggi X con cui le due donne contribuivano alla diagnosi dei traumi dei soldati feriti al fronte. Anche in questo modo Irene e Marie si esposero a
dosi massicce di radiazioni.
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Dopo la guerra Irene concluse l’università e prese un dottorato, durante il quale conobbe un giovane
ingegnere chimico che sarebbe passato alla storia con il cognome della moglie: Frédéric Joliot-Curie.
Insieme condussero gli studi su come trasformare un elemento in un altro.
Nel 1936 Irene Joliot-Curie divenne sottosegretario di Stato alla ricerca scientifica e contribuì a
fondare il Centre National pour la Recherche Scientifique, promuovendo fra le altre cose l’educazione
femminile. Morì di leucemia nel 1956, a Parigi, a soli 59 anni. Anche lei era stata colpita , come sua
madre Marie, dagli effetti delle radiazioni, ossia dal fenomeno cui doveva la sua fama di grande
scienziata.
Gertrude Belle Elion
A Gertrude Belle Elion, nata nel 1918 a New York da genitori immigrati, si deve la messa a punto di
farmaci rivoluzionari. Tra questi l’AZT, utilizzato nella terapia dell’AIDS, e il primo farmaco capace di
contrastare la leucemia.
Elion mise a punto un gran numero di composti mirati, in grado di colpire i tessuti malati senza
danneggiare quelli sani, grazie allo studio dell’attività biochimica delle cellule umane sane e degli
agenti infettivi.
Nel 1988 condivise il premio Nobel per la medicina con George Hitchings e Sir James
Black.
Rita Levi-Montalcini
Nel suo libro Elogio dell’imperfezione, Rita Levi-Montalcini racconta di quanto sia
stato difficile, per lei, donna ed ebrea, condurre le proprie ricerche nella Torino
degli anni Quaranta, in piena guerra e con le leggi razziali. Solo la determinazione di una grande scienziata, oggi ultracentenaria, può spiegare
la creazione di un laboratorio domestico, nella sua camera da letto,
che le permise di portare avanti le ricerche sul sistema nervoso: le
stesse grazie alle quali, nel 1947, fu invitata a trasferirsi negli
Stati Uniti. Fu lì che scoprì il fattore di crescita dei neuroni
o NGF, una sorta di fertilizzante che permette alle cellule
nervose di moltiplicarsi nella fase di sviluppo embrionale.
Per questa scoperta vinse il Nobel nel 1986. L’NGF è il primo
dei fattori di crescita cellulari a esser stato identificato:
oggi sappiamo che altri fattori di crescita giocano un ruolo
fondamentale nella genesi del cancro e possono essere
manipolati per curare la malattia. Da quando ha vinto il
Nobel, Levi-Montalcini non ha mai smesso di impegnarsi
per sostenere la ricerca italiana e favorire la carriera delle
donne nella scienza.
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Ada Yonath
Nata nel 1939 a Gerusalemme, Ada Yonath ha condiviso il Nobel per la chimica del 2009 con Venkatraman Ramakrishnan e Thomas A. Steitz per gli
studi sul ribosoma, la struttura in cui, in ogni cellula, vengono assemblate
le proteine.
Decise di studiare la cristallografia ispirata dalla figura di Marie Curie. Con
notevole determinazione si dedicò per anni a una linea di ricerca su cui il resto della comunità scientifica aveva espresso molto scetticismo. Ciò nonostante
è riuscita a diventare un’esperta del cosiddetto drug-design: l’approccio che permette di costruire
nuovi farmaci su misura del bersaglio con cui devono interagire. «Sopravvivere è molto più
complicato e impegnativo che fare scienza. Puoi sempre provare un altro approccio; o addirittura
cambiare argomento quando una strategia o un esperimento fallisce» ebbe a dire riferendosi agli
anni della gioventù, in cui la morte prematura del padre l’aveva obbligata a cominciare a lavorare
e a occuparsi della famiglia a 11 anni. «Invece quando hai fame hai fame!»
Elizabeth Blackburn e Carol Greider
Elizabeth Helen Blackburn, nata in Australia ma naturalizzata americana,
e la californiana Carol Greider hanno ricevuto insieme a Jack W. Szostak il
premio Nobel per la medicina nel 2009, per le loro scoperte sull’enzima telomerasi. Si tratta di una molecola fondamentale per assicurare il corretto
funzionamento dei telomeri, le strutture che proteggono le estremità dei
cromosomi.
Oggi presidente della American Association for Cancer Research, la Blackburn fu
nominata nel 2001 a far parte del President’s Council on Bioethics, da cui l’Amministrazione Bush
in seguito la rimosse per divergenze di visione: «È sempre più diffusa la convinzione che la ricerca
scientifica – che dopo tutto è la ricerca della verità – venga manipolata a fini politici» dichiarò.
Carol W. Greider era entrata nel suo laboratorio all’Università di Berkeley come
studentessa nell’aprile del 1984, e si era messa di buona lena – restando
al bancone del laboratorio anche per periodi di 12 ore filate – a cercare di
identificare l’enzima che continua a rifornire i telomeri del necessario per
non consumarsi. Si tratta di una molecola dal ruolo importante anche in
alcuni tipi di cancro.
Era il giorno di Natale del 1984 quando Greider annunciò a Blackburn di
aver portato a termine con successo la missione. Dopo altri sei mesi di puntigliose verifiche la conferma, sancita dalla pubblicazione sulla rivista Cell.
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Nella lotta contro il cancro
le donne hanno una marcia in più
Elisabetta Dejana è da molti anni alla guida del programma di ricerca sui meccanismi
dell’angiogenesi presso IFOM (l’Istituto FIRC di oncologia molecolare) a Milano. Oltre che
della sua attività di scienziata di successo, si occupa da sempre della relazione non sempre
idilliaca tra donne e carriera scientifica. “Parto da una considerazione personale: per arrivare dove
sono arrivata ho dovuto, in alcuni momenti, sacrificare la mia vita privata e non è stata sempre una
scelta facile né indolore”.
D’altronde per arrivare a diventare Ufficiale al Merito della Repubblica, onorificenza ricevuta dall’allora
Presidente Ciampi nel 2005 (una tra le poche donne insignite di tale riconoscimento) è facile immaginare che il lavoro abbia avuto una grande importanza anche in termini di investimento personale.
“Mi sono laureata in biologia a Bologna e subito dopo la laurea sono andata in Canada, a Toronto. Sono
quindi tornata in Italia e fino al 1993 ho diretto il Laboratorio di biologia vascolare dell’Istituto Mario
Negri” spiega. “Non mi sono mai fermata. Nel frattempo ho lavorato per alcuni periodi alla Harvard
Medical School di Boston, all’Ospedale Bicêtre di Parigi e all’Hadassah Medical School di Gerusalemme,
fino ad approdare a Grenoble, in Francia, dove per tre anni ho portato avanti ricerche presso il Centro di
energia nucleare”.
Ritorno in una nuova casa
È semplice comprendere che ci vuole una discreta tenacia per adattarsi a tanti cambiamenti. “Quando è
nato IFOM, ho pensato che fosse davvero un’opportunità per ricreare in Italia le modalità di fare ricerca
che ho conosciuto all’estero”.
Da allora dirige l’unità che si occupa di identificare nuovi farmaci antitumorali in grado di
bloccare la formazione di nuovi vasi, e quindi aggredire la malattia tagliandole viveri e vie
di diffusione.
È contenta della scelta di vita che ha fatto? “Moltissimo. Amo il mio lavoro e sono contenta di essere
arrivata in una posizione che mi consente di fare qualcosa per altre donne che amano la scienza”.
Dejana considera con attenzione tutti i dati relativi all’occupazione femminile nei laboratori (e non solo in quelli in cui si cerca una cura contro il cancro). “Le donne sono sempre di più:
la metà degli iscritti alle facoltà scientifiche sono donne e tra chi intraprende la carriera
di ricercatore si arriva addirittura al 60 per cento. E le giovani sono brave, con un tasso di
produttività scientifica mediamente più elevato di quello dei colleghi maschi”.
Dove sta il problema, allora? “Sta nella progressione di carriera: nelle posizioni apicali le donne sono
ridotte al 15 per cento del totale; sono solo l’1 per cento tra i grandi manager dell’industria farmaceu8
tica, il 16 per cento dei professori ordinari nell’università italiana e il 10 per cento tra i group leader del
Consiglio nazionale delle ricerche, che rimane pur sempre la nostra massima istituzione scientifica. I
rettori universitari donna sono solo due in tutto il Paese e gli stipendi delle scienziate sono mediamente
più bassi di quelli degli uomini del 30 per cento. Si tratta di dati inequivocabili, di una fotografia della
realtà che dovrebbe far riflettere”.
Questione di cultura
Anche sulle cause di questa differenza, che priva innanzitutto i pazienti di menti brillanti che potrebbero
trovare una soluzione ai loro problemi, Elisabetta Dejana non ha dubbi. “Si tratta di una questione
culturale, un perpetuarsi dei ruoli maschili e femminili tradizionali: e quando è così è più
facile che sia la donna a sacrificare una carriera anche brillante per non modificare gli
equilibri familiari”. Ci sono però anche questioni pratiche che concorrono a ostacolare la carriera
delle donne scienziato e l’Unione Europea sta cercando di porvi rimedio favorendo politiche di sostegno
all’occupazione femminile, con la creazione di asili nido e di orari consoni a una madre di famiglia che è
anche impegnata al bancone del laboratorio.
“Sono iniziative utili, ma resto convinta che il maggior ostacolo sia nella mentalità che vuole la scienza
area di eccellenza maschile, anche se sappiamo che ormai non è così. Una ricerca condotta a Harvard,
per esempio, dimostra che le donne sono più brave anche nella raccolta di fondi, vincono bandi prestigiosi e riescono a finanziare il proprio laboratorio”.
Cosa bisognerebbe fare, dunque? “Personalmente farei un appello alle
donne che già sono nella ricerca: unitevi ad altre donne, sostenetevi
a vicenda, formate le studentesse più brillanti, ovviamente se
ritenete che dal punto di vista del merito quella persona meriti
il vostro sostegno: perché i buoni cervelli non si distinguono per
genere e il merito deve sempre prevalere su tutto”.
Non sempre conviene bloccare
Gli studi sull’angiogenesi stanno cambiando, in questi ultimi anni, da
quando si è scoperto che non sempre conviene bloccare la formazione
di nuovi vasi intorno al tumore. “Talvolta il taglio dei viveri è una strategia
sufficiente per mettere il cancro in difficoltà, ma purtroppo i tessuti
mutati sono molto resistenti e spesso si adattano persino a sopravvivere in carestia” spiega Dejana. “In questi casi è meglio addirittura
favorire la formazione dei nuovi vasi per facilitare l’arrivo dei farmaci
fino alla massa da eliminare”. Ovviamente la scelta se distruggere o
potenziare la rete vascolare di un tumore non dipende solo da come
reagiscono i tessuti, ma anche dalla disponibilità di una terapia efficace per quel tipo di malattia. “Non avrebbe senso potenziare la rete
vascolare di un tumore contro il quale abbiamo le armi spuntate”.
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Da eRende
a
Houston
ritorno
A scorrere il curriculum di Ines Barone, giovane ricercatrice poco più che trentenne,
viene spontaneo chiedersi come sia riuscita a fare tante cose interessanti in così poco
tempo: studi brillanti, specializzazioni all’estero, premi scientifici e un lungo elenco
di pubblicazioni testimoniano una passione per la ricerca nata durante gli studi di
chimica e tecnologie farmaceutiche presso l’Università della Calabria a Rende.
“Durante lo svolgimento della mia tesi di laurea, che riguardava la relazione tra i recettori per gli
estrogeni nel cancro del seno e la leptina, un ormone i cui livelli sono alti nei
soggetti obesi, mi sono appassionata alla ricerca oncologica. Così dopo
la laurea ho scelto di proseguire con un dottorato di ricerca, sempre
qui in Calabria, presso i laboratori di patologia generale diretti dal
professor Sebastiano Andò”.
In viaggio per il Texas
Concluso anche il dottorato, durante il quale ha portato avanti le
sue ricerche sui tumori della mammella, si apriva per lei un’unica
opzione, quella di andare all’estero per qualche anno.
“Sono stata fortunata perché ho vinto una borsa post doc al Baylor College of Medicine di Houston, in Texas, che per gli studi che
conduco rappresenta un centro di eccellenza. Lì sono rimasta tre
anni. Avrei potuto scegliere di restare ancora all’estero, ma volevo
tornare a casa. Diciamo che il Texas non è il luogo più semplice
dove vivere, per un’italiana. Forse, se fossi stata altrove negli Stati
Uniti, sarei rimasta”.
È così che Ines Barone ha concorso per una delle borse
di studio congiunte Marie Curie – AIRC. Si tratta
di un programma speciale che la Comunità
europea sostiene in collaborazione
con l’Associazione italiana per la
ricerca sul cancro per favorire il ritorno in patria dei ricercatori che sono
all’estero.
“Senza questi strumenti sarebbe impossi10
bile ritornare, anche perché in questo periodo l’università italiana non prevede percorsi professionali per coloro che se ne allontanano, anche se è d’obbligo studiare e specializzarsi all’estero”.
Un recettore molesto
Ines Barone ha continuato le sue ricerche sul tumore mammario. “In questo periodo,
in particolare, mi occupo di un recettore per gli estrogeni, il recettore alfa, che, in una
forma mutata sembra essenziale per regolare le comunicazioni tra la cellula tumorale
e l’ambiente che la circonda”.
Attraverso queste comunicazioni il tumore regola la propria crescita.
“Le donne che possiedono una forma mutata del recettore alfa rispondono meno bene delle altre
alle terapie antiestrogeniche, cioè a quelle cure che vengono date dopo l’intervento per evitare
la recidiva tumorale”. Non solo: le cellule tumorali con questo recettore mutato danno origine a
malattie più aggressive. “Non è ancora chiaro quale sia la percentuale di donne malate che hanno
la forma mutata. Ci sono studi che hanno misurato fino al 50 per cento di forme mutate e altri
invece che non hanno trovato mutazioni. Il problema è che si tratta di una piccolissima variante
sul gene, quella che viene chiamata mutazione puntiforme, quindi per trovarla bisogna usare
tecniche di analisi del DNA particolarmente potenti”.
Conoscere il modo con cui il recettore mutato influenza le relazioni tra la cellula
e l’ambiente consente di creare terapie più efficaci e mirate per le donne che non
rispondono alle cure classiche.
“Per chiudere il cerchio, il gruppo di ricerca col quale lavoro qui presso l’Università della Calabria
ha dimostrato che proprio la leptina, l’ormone che è stato l’argomento della mia tesi di laurea,
è un importante mediatore nella comunicazione di cui si è parlato”. Questa scoperta fornisce tra
l’altro una importante chiave di comprensione del legame tra obesità e rischio aumentato di
cancro del seno, poiché la leptina è considerata uno degli ormoni correlati al sovrappeso e poiché
l’epidemiologia ci dice che le donne sovrappeso vanno incontro più facilmente alla malattia.
Un legame con l’estero
Ora che cosa si aspetta Ines Barone dopo il ritorno a casa? “Spero di poter concludere con successo
le ricerche che ho iniziato. Ho una borsa particolare che, oltre a essere più sostanziosa di quelle
che normalmente vengono erogate in Italia (perché utilizza standard europei e non locali),
comprende anche dei fondi per tornare una volta l’anno negli Stati Uniti, in modo da conservare i
legami scientifici che ho costruito nel tempo”.
Essere una donna non ha penalizzato la sua carriera, almeno fino a questo stadio:
“Sono ancora giovane e non ho una famiglia, questo rende molto più facile prendere certe
decisioni, come quelle di partire per l’estero e poi di tornare a casa, qui in Calabria. Certo, se
guardiamo quante donne ci sono nelle posizioni apicali della carriera scientifica
possiamo dire che sono davvero poche. Ma forse è solo questione di tempo: ora noi
‘ragazze’ siamo davvero tante e amiamo questo lavoro”.
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Le ricette
della salute
Si sa, e lo dimostrano anche le indagini epidemiologiche, che le donne tendono a essere più
attente degli uomini in materia di prevenzione. Si sottopongono con maggiore frequenza
ai controlli necessari e, soprattutto, hanno una certa dimestichezza nel riconoscere i segnali
precoci che il corpo è in grado di mandare quando qualcosa non va.
Nel caso della prevenzione oncologica, però, basarsi sui sintomi può non essere
una strategia vincente: quando un tumore da segno di sé, è in genere già oltre la
fase della cosiddetta diagnosi precoce, quella in cui gli interventi, sia farmacologici sia chirurgici, sono meno invasivi e più efficaci. Malgrado ciò, poiché non per tutti i
tumori sono disponibili esami di screening validati ed efficaci, c’è chi si è interrogato sul peso
da dare a eventuali sintomi. In delicato equilibrio tra giusto allarme per disturbi anche banali, ma che non passano, e il rischio di sopravvalutare determinate sensazioni e di angosciarsi
per nulla, l’American Society of Clinical Oncology (ASCO) ha stilato un elenco di “campanelli
d’allarme” riservato alle donne. Non si tratta solo di segni legati a tumori tipicamente femminili, ma anche di neoplasie che, purtroppo, sono in aumento anche nel gentil sesso, come il
cancro del colon o del polmone.
La raccomandazione di base è però di non farsi mai prendere dal panico: quelli
che vengono descritti di seguito sono sintomi comuni a moltissime malattie, la
maggior parte delle quali assolutamente benigne. Dare loro ascolto, andando a
farsi controllare dal medico di famiglia, può però essere una buona mossa, una
semplice ricetta che consente di restare a lungo in salute.
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La “sporca dozzina”
Perdita di peso immotivata
La maggior parte delle donne potrebbe essere davvero felice di perdere peso
senza ragione e, soprattutto, senza fatica. Rimane il fatto che se fluttuazioni
di piccola entità sono normali e possono dipendere da fattori stagionali, ormonali
o persino emotivi, legati allo stress, un dimagrimento di cinque o più chilogrammi in
un mese (o del cinque per cento del proprio peso in sei mesi, o meno) in assenza di una dieta o di
un aumento sostanziale dell’esercizio fisico merita una visita di controllo. Le cellule cancerose
sono infatti dotate di un metabolismo molto attivo e un aumentato consumo energetico da parte
dell’organismo è un segno che qualcosa non va per il verso giusto. Attenzione però: prima di
pensare a un tumore, bisogna escludere altre patologie più comuni, come un disturbo della tiroide
(molto frequente nel sesso femminile) oppure una patologia gastrointestinale che interferisce con
l’assorbimento delle sostanze nutritive.
Per accertarsene il medico potrà prescrivere alcuni esami del sangue, che verificheranno la presenza di carenze, di anemia o di infiammazione in corso. Inoltre verranno valutati i livelli degli ormoni
tiroidei. Solo se gli esami del sangue non saranno risolutivi e se la perdita di peso continuerà ad
aumentare, il medico ricorrerà a esami strumentali come ecografie, radiografie e TC.
Alcune domande sulla perdita di peso
Prima di attribuire una perdita di peso immotivata a un fenomeno neoplastico, il medico
indagherà alcuni aspetti importanti che possono spiegare il fenomeno. È bene, prima della visita,
essere pronti a rispondere alle seguenti domande:
• Ha problemi dentali? Le persone con problemi di denti o gengive possono ridurre improvvisamente
e inconsapevolmente il loro consumo di cibo.
• Ha disturbi gastrointestinali come vomito o diarrea?
• È molto stressata? Ci sono stati cambiamenti importanti nella sua vita negli ultimi tempi?
• Sta mangiando come prima? Di meno? Diversamente?
• Ha cominciato a fumare? Ha aumentato il numero delle sigarette? Ha aumentato il suo consumo di
alcol?
• Ha altri sintomi concomitanti?
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Gonfiore addominale
La maggior parte delle donne convive costantemente col gonfiore addominale,
che segue andamenti periodici legati all’alimentazione e alle fasi del ciclo. Eppure la pancia molto gonfia, specie se accompagnata da dolore addominale o pelvico
sembra essere uno dei pochi segni indicatori della presenza di un tumore ovarico in
fase iniziale. Altri elementi che caratterizzano questa malattia sono la sensazione di pienezza
anche dopo aver consumato pochi bocconi di cibo e difficoltà urinarie, come il bisogno di correre
in bagno più spesso del solito, oltre a un’aumentata circonferenza addominale in assenza di un
aumento di peso.
Ovviamente questo quadro sintomatologico deve persistere per tutto il giorno e per alcune
settimane di seguito prima di meritare un controllo medico.
Nel 2007, uno studio uscito sul British Medical Journal e recepito dalle linee guida dell’American
Cancer Society ha dimostrato che basandosi su questa breve lista è possibile anticipare la diagnosi
di carcinoma ovarico rendendo più efficienti le terapie in un tumore che è ancora tra i più temuti.
Anche in questo caso le società scientifiche raccomandano di non andare nel panico: è
possibile che gli stessi sintomi siano il segnale di malattie molto più benigne, come il
colon irritabile. In ogni caso, a dirimere ogni dubbio spesso basta un’ecografia addominale.
Il ginecologo interpellato, oltre all’ecografia addominale, procederà probabilmente con un esame
della pelvi e con un’ecografia transvaginale. Inoltre potrà richiedere, tra gli esami del sangue,
anche la misurazione di eventuali marcatori tumorali. Solo in caso di dubbi ulteriori si procederà
con una TC addominale o con una risonanza magnetica.
Quattro consigli per non preoccuparsi troppo
• Tutte le donne hanno questi sintomi di tanto in tanto e solo molto raramente sono
dovuti a un carcinoma ovarico. Quasi sempre sono provocati da questioni banali e passeggere.
• Impara ad ascoltare il tuo corpo. Vai dal medico solo quando hai uno o più sintomi ogni giorno per
molte settimane e soprattutto se sono inusuali, cioè se non si sono mai presentati prima.
• Sapere che cosa osservare è utile, consente di rivolgersi al medico quando ce n’è davvero bisogno.
• Non è necessario precipitarsi dal medico al primo manifestarsi dei disturbi: qualche settimana di
osservazione non cambia la prognosi e permette, nella maggior parte dei casi, di assistere alla
naturale scomparsa dei disturbi senza sottoporsi a esami inutili.
(dalle raccomandazioni della Gynecologic Cancer Foundation)
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Cambiamenti a carico del seno
La maggior parte delle donne conosce bene la conformazione del proprio seno
anche quando non ha l’abitudine (peraltro molto utile) di praticare l’autopalpazione. Gli esperti segnalano però un’eccessiva attenzione alla presenza di noduli e
formazioni solide e una scarsa attenzione ad altre manifestazioni che possono essere
indicative di un cancro del seno come un arrossamento persistente della cute in una
determinata zona della mammella e un ispessimento della pelle (che talvolta assume il
tipico aspetto a buccia d’arancia). In ambedue i casi questi sintomi potrebbero essere un segnale
di una forma di neoplasia con una forte componente infiammatoria.
Anche cambiamenti a carico del capezzolo meritano una visita dal medico: modifiche della forma (retrazioni o protrusioni inusuali), così come la perdita di sangue, siero o latte
(ovviamente in un momento in cui non si sta allattando) vanno verificate con un esperto. Questi
procederà a esaminare il seno al tatto, farà alcune domande riguardanti la salute della donna in
generale e il suo stato ormonale in particolare. In caso di perdite dal capezzolo vengono richiesti
anche alcuni esami del sangue, tra i quali la misurazione della prolattina, un ormone che stimola
la produzione di latte e che può aumentare anche in alcuni tumori benigni o in seguito ad alcune
terapie farmacologiche.
In caso di sospetto, il medico prescriverà, a seconda dell’età e del sintomo una mammografia (che
tra i 50 e i 70 anni andrebbe fatta periodicamente anche in assenza di disturbi) o un’ecografia del
seno.
Se nel seno c’è un nodulo
Sentire qualcosa sotto le dita quando si palpa il seno è sempre un elemento di ansia per
una donna. Eppure i cosiddetti “noduli” non sono, nella maggior parte dei casi, sintomi preoccupanti.
Come spiegano le linee guida della Società italiana di senologia, molto dipende dall’età di comparsa della formazione. Fra i 20 e i 30 anni sono molto comuni i fibroadenomi, duri e fibrosi, dovuti
alle variazioni ormonali tipiche dell’età. Possono essere dolorosi, specie in alcune fasi del ciclo, e
regrediscono o diminuiscono con le gravidanze e l’allattamento. Fra i 30 e i 50 anni, invece, sono
comuni le cisti sierose, costituite da una capsula contenente liquido. Il medico esperto è capace, già
alla palpazione, di distinguere una formazione benigna da una maligna. La prima in genere si muove
se spostata con i polpastrelli, mentre una formazione maligna rimane aderente al piano sottostante.
Inoltre fibroadenomi e cisti hanno un contorno regolare, mentre spesso le neoformazioni maligne
hanno bordi irregolari.
18
Perdite di sangue tra due cicli
Qualsiasi perdita di sangue al di fuori delle mestruazioni merita un
controllo ginecologico, a qualsiasi età. In particolare è bene farsi controllare
se il ciclo è già scomparso, quindi se la donna è già in menopausa.
Le donne più giovani tendono a non preoccuparsi per questo tipo di disturbo che, se nella stragrande maggioranza dei casi è dovuto a variazioni ormonali fisiologiche, talvolta può essere un
segnale della presenza di endometriosi (l’anomala proliferazione di tessuto tipico del rivestimento interno dell’utero al di fuori della sua sede naturale) o di cancro dell’endometrio. È possibile
assistere a sanguinamenti anomali anche in presenza di cancro della cervice uterina.
Il ginecologo, in questi casi, procede a una normale visita, esegue un’ecografia di controllo e
spesso anche un Pap-test, per controllare lo stato delle cellule cervicali.
Molte possibili cause
Il sanguinamento tra due cicli non è un evento raro e molte possono essere le cause non
oncologiche di tale fenomeno. Ecco le più comuni:
• infiammazione della cervice uterina (cervicite);
• polipi cervicali;
• infezioni sessualmente trasmissibili;
• lievi abrasioni della parete vaginale dopo rapporti sessuali.
19
Alterazioni della pelle
Come ben sanno le donne, la pelle, specie quella del viso e delle altre parti del
corpo esposte alla luce solare, subisce continui cambiamenti. E se tutte abbiamo ormai imparato a dare peso alle modificazioni dei nei, poche si preoccupano di
cambiamenti nella pigmentazione della cute o nel suo aspetto. Se è eccessivamente
arrossata in un punto preciso, o desquama, allora è possibile che la causa sia un tumore della pelle
diverso dal melanoma, come il basalioma o il carcinoma spinocellulare. Per fortuna si tratta di forme maligne a bassissima invasività, che nella stragrande maggioranza dei casi si asportano senza
bisogno di ulteriori cure. Gli esperti si sono però chiesti per quanto tempo è necessario che perduri
l’alterazione prima di rivolgersi al medico: non c’è una risposta univoca, anche se tutti concordano
nel dire che se si superano le 6-8 settimane è necessario consultare un dermatologo.
Tre diverse forme
Come riconoscere alla vista i diversi tipi di tumori della pelle?
Ecco qualche indicazione molto generale.
Basalioma:
• è un piccolo rigonfiamento di colore bianco perlaceo;
• in alternativa si presenta come una lesione tipo escoriazione, piatta, bruna.
Carcinoma spinocellulare:
• può essere un nodulo rosso e duro;
• talvolta è una lesione squamosa, piatta, arrossata.
Melanoma:
• può essere un neo bruno con puntini più scuri all’interno;
• può essere un neo che ha cambiato colore, forma o misura, oppure che sanguina spontaneamente;
• può essere una piccola lesione con bordi irregolari e un insieme di colori che vanno da bruno al
rosso, al blu;
• può essere una macchia scura e circoscritta sul palmo della mano o sulla pianta del piede, all’interno delle mucose della bocca o delle grandi labbra.
20
Sanguinamenti non comuni
Perdere sangue (tranne ovviamente durante il ciclo mestruale) è
sempre un segno di qualcosa che non va. E se la perdita ematica con le feci,
specie se rossa, è quasi sicuramente dovuta a emorroidi infiammate (ma merita, almeno fino
alla diagnosi, un controllo più approfondito), la presenza di sangue nelle urine richiede un esame
delle stesse e un’ecografia renale.
Nel primo caso il sangue potrebbe nascondere un cancro del colon, in costante aumento anche
tra le donne perché legato a scorrette abitudini di vita. In questo caso è spesso utile ricorrere alla
ricerca del sangue occulto nelle feci anche se si è al disotto dei 50 anni di età, momento a partire
dal quale questo esame è consigliato pur in assenza di sintomi. La tappa successiva è l’ecografia
addominale o più spesso, la colonscopia, che permette di fugare ogni dubbio.
L’esame delle urine e l’eventuale analisi di cellule epiteliali staccatesi dalla parete della vescica
permette di diagnosticare eventuali infezioni e di escludere un cancro della vescica. L’ecografia renale studia invece l’intero decorso dell’apparato urinario e può mettere in luce anche la presenza
di calcoli renali.
21
Se cambia qualcosa in bocca
A volte ad accorgersene è solo il dentista: una piccola piaga all’interno della
mucosa della bocca, un “brufolo” sulla lingua, una escoriazione delle gengiva…
Quando questi disturbi non scompaiono nel giro di qualche giorno o con trattamenti disinfettanti
o spennellature apposite, allora è il caso di farsi controllare da un medico.
I tumori della bocca sono infatti in aumento tra le donne anche a causa dell’abitudine al fumo e
dell’incremento nel consumo di alcol e superalcolici. Individuare precocemente un’alterazione della mucosa o della gengiva (per esempio una leucoplachia, che costituisce una forma
precancerosa relativamente semplice da trattare) consente di evitare cure invasive, chirurgie demolitive e gravi difficoltà conseguenti.
Per questa stessa ragione è buona norma sottoporsi annualmente a una visita dal dentista, che
provvederà anche a esaminare tutto il cavo orale.
22
Il dolore
Si dice sempre che se fa male, non è un cancro. Una voce popolare non priva
di fondamento che però non tiene conto di alcuni casi nei quali un dolore sordo
e persistente può essere un campanello d’allarme per una malattia neoplastica. Il dolore
osseo, specie alla schiena, merita sempre un approfondimento se non scompare nel giro di
qualche settimana o con l’aiuto di farmaci antinfiammatori.
Il dolore è un sintomo molto complesso da inquadrare, come ben sanno i medici,
poiché può avere molte cause. Ciò non significa che non sia necessario indagare approfonditamente, anche solo per non trascorrere troppo tempo in sofferenza, senza poter
accedere alla terapia corretta.
I linfonodi ingrossati
È bene ricordare che, quando si nota un linfonodo ingrossato, nella
maggioranza dei casi la causa del disturbo è infettiva. Questi piccoli noduli
posti nelle intersezioni strategiche del corpo umano (alla base del collo, sotto le ascelle, nell’inguine, nel torace tra i due polmoni) hanno infatti il compito principale di filtrare gli agenti infettivi e
favorire la produzione di anticorpi in grado di combatterli.
Trovare un linfonodo ingrossato è quindi un’evenienza piuttosto comune. I linfonodi sono anche
importanti in un gran numero di malattie autoimmuni, come il lupus eritematoso sistemico, e ciò
proprio per il loro ruolo di sentinelle del sistema immunitario.
Quando bisogna preoccuparsi? Secondo gli esperti dell’ASCO, bisogna far valutare dal medico qualsiasi linfonodo che non diminuisca di volume nel giro di una decina di giorni.
Inoltre se un linfonodo continua ad aumentare di volume, è necessaria una ecografia di controllo
ed eventualmente una biopsia. I linfonodi possono aumentare di volume sia per neoplasie del sistema linfatico stesso (come le leucemie) sia per invasione da parte di cellule maligne provenienti
da neoformazioni di organi vicini.
Febbre persistente
La febbre non è un sintomo tipico delle malattie oncologiche, almeno
in fase iniziale: è più comune nelle forme metastatiche e per questo in genere
non la si considera allarmante. Nonostante ciò è possibile che in alcuni casi un tumore alteri i
sistemi di controllo della temperatura corporea. Può accadere, per esempio, nel caso di tumori del
fegato e del pancreas.
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Stanchezza
Una stanchezza anomala che perduri a lungo può essere provocata da carenze
nutrizionali o da anemia. Ma anche l’anemia stessa è un sintomo che può fungere
da campanello d’allarme per una malattia oncologica. Ecco perché qualsiasi senso di spossatezza che duri oltre due settimane in assenza di una malattia o di una situazione
oggettiva che lo giustifichi deve essere riferita al medico, che valuterà la necessità di
procedere con altri esami.
Tosse persistente
La tosse persistente è tipica del fumatore e proprio per questa ragione è di
scarsissima utilità nella diagnosi precoce del tumore del polmone. È talmente
frequente che un fumatore soffra di infiammazioni dei bronchi da rendere pressoché inefficace
il naturale campanello d’allarme costituito dalla tosse. C’è però una caratteristica che deve
spingere tutti, fumatori compresi, a fare un ulteriore controllo ed eventualmente, su
prescrizione del medico, una radiografia del torace: se la tosse è secca, dura da settimane o
mesi e se si presenta in piccoli accessi circoscritti, per pochi minuti al giorno.
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