Messaggi ai cerebrolesi di Umberto Eco Non è diseducativo "raccontare" i libri. Purché chi lo fa li abbia letti. Il "mediatore" può invogliare alla lettura anche persone che altrimenti non si sarebbero azzardate ad affrontare i classici (16 febbraio 2012) Sul sito de "Il fatto quotidiano" trovo un pezzo tutto sommato divertente di Diego Marani che s'intitola "I Karamazov spiegati da Topo Gigio" e continua parlando di una serie di libri che venivano allegati a "Repubblica". Ecco l'inizio: "Nel trionfo dell'universale ignoranza sempre più i libri non si leggono ma si guardano solo da fuori e così infuria la moda del "facilitato per non intelligenti". "Don Giovanni" raccontato da Alessandro Baricco, "I promessi sposi" raccontato da Umberto Eco (due dei classici allegati a "Repubblica"), il lettore del tempo dell'iPad non è capace di leggersi i libri da sé: ha bisogno dello spiego. Così è nata la nuova letteratura assistita per cerebrolesi". Pensando che questi libri siano dovutamente purgati per piacere all'utente di Internet, Marani immagina che Zeffirelli scriva un "Anna Karenina" in cui Anna non prende mai il treno e che ne "Il processo" raccontato da Roberto Saviano, Josef K. diventi un pentito, patteggi la pena e ammetta di essere uomo di Cosentino Marani ha persino inventato un gustoso linguaggio internazionale, l'Europanto, e quindi non è nuovo a ingegnose invenzioni. Per cui non sospetteremo che anche lui abbia una lesione cerebrale, ma colpisce il fatto che parli di libri che evidentemente non ha mai visto. Altrimenti si sarebbe accorto che sono concepiti per bambini (non cerebrolesi) dai sei ai dodici anni, i quali (tranne casi di straordinaria precocità) non sono sospettabili di leggere "Guerra e Pace". Il mio riassunto del racconto manzoniano inizia con un appello collodiano ai "miei piccoli lettori" e quindi non ha nulla a che vedere coi famosi romanzi sintetizzati in cui eccelleva il "Reader's Digest". Se avevo accettato di tentare l'esperimento manzoniano era perché avevo il lieto e riconoscente ricordo della "Scala d'Oro" una collana Utet della metà del secolo scorso (tra l'altro divinamente illustrata) dove scrittori capaci di scrivere in un bell'italiano raccontavano a bambini e ragazzi (le serie erano divise per fasce d'età, le favole di Grimm per i più piccini e "I miserabili" per i più grandicelli) i grandi capolavori di tutti i tempi. Ero un ragazzo fortunato a cui il padre aveva regalato "I promessi sposi" prima che la scuola glielo rendesse odioso, e quindi quello lo avevo letto in originale, ma avevo avvicinato altri grandi capolavori proprio attraverso i volumi dalla "Scala d'oro". E siccome erano fatti così bene che, anziché esimere dal leggere un giorno gli originali, ne facevano venire la voglia, quando poi ho letto quei testi nella versione completa mi sono accorto che "La scala d'oro" aveva reso bene il senso di quelle opere. Anche se, in periodo fascista in cui non si poteva parlare di suicidi sul giornali, ne "I miserabili" Javert, anziché gettarsi a fiume, andava a dare le dimissioni, ma il suo dramma morale era espresso ugualmente molto bene. Perché Marani analizza così argutamente libri che non ha mai visto? E' vero che Pierre Bayard aveva pubblicato un divertente ma non mendace libretto (che avevo recensito in una Bustina) sul fatto inconfutabile che noi siamo capaci di parlare di libri che non abbiamo letto: una vita intera non basterebbe a leggere tutti quelli che sono stati scritti, e tuttavia ci accade di accennare, senza dire castronerie, al "Kamasutra" o alla "Tebaide" di Stazio. Ma Bayard non aveva giustificato coloro che "scrivono" di libri che non hanno letto. Marani, proseguendo nelle sue riflessioni sulla decadenza dei costumi, minaccia (e, avendo io letto lui, lo cito letteralmente) "I fratelli Karamazov" raccontati da Topo Gigio, "Alla ricerca del tempo perduto" raccontato da Aldo, Giovanni e Giacomo, "L'uomo senza qualità" raccontato da Milly Carlucci, "Finnegans wake" raccontato da Christian De Sica, "Com'era verde la mia vallata" raccontato da Calderoli. Beh, Calderoli a parte, non riuscirei a condannarli, purché il libro da divulgare ai cerebrolesi l'avessero almeno letto - con indubbio vantaggio per la loro crescita morale e civile. Il classico? La scelta migliore di Umberto Eco Aumentano le iscrizioni al liceo nonostante l'opinione pubblica consideri sorpassato il tempo degli studi umanistici. Ed è un dato positivo. Perché anche nel mondo della tecnologia l'avvenire è di chi sappia ragionare. Proprio quello che assicura una preparazione umanistica (30 novembre 2011) Leggevo le settimane scorse di un (rinato) dibattito sulla sopravvivenza del liceo classico. Dibattito motivato dal fatto che pare che le iscrizioni al classico stiano aumentando, e proprio mentre gli allievi si lamentano di quanto siano faticosi lo studio del greco e del latino, e l'opinione pubblica ritenga che non è più tempo di dedicarsi a studi umanistici bensì a una preparazione scientifica. Idea che ha ispirato il governo a tagliare i fondi alle facoltà umanistiche - anche se peraltro non ne dà in misura sufficiente neppure alle facoltà scientifiche. Ora nessuno più di me ritiene che ci si dovrebbe iscrivere in maggior numero alle facoltà scientifiche, che all'università molti si iscrivono a facoltà umanistiche perché sono aree di parcheggio ritenute più facili, e che bisognerebbe lavorare con incentivazioni generose per far sì che, se mancano laureati - che so - in agraria o in chimica, chi si iscrive a queste facoltà abbia borse di studio, posti in collegi universitari e altri incoraggiamenti. Ma l'idea che alcuni ragazzi delle medie scelgano il classico, anche se appare più esigente, mi consola. Evidentemente non si tratta di "bamboccioni" ma di una élite di volonterosi (e si può essere élite anche essendo figlio di un nullatenente). Però viene avanzata l'obiezione che il figlio di nullatenente che si iscrive prima al classico e poi a una facoltà umanistica abbia molte probabilità di rimanere un nullatenente di seconda (o decima) generazione. Qui c'è un errore. Tutti sappiamo che, per dirla in parole povere e con inevitabili anglicismi, il futuro sarà sempre più dominato dal "software" a scapito dello "hardware", ovvero dalla elaborazione di programmi più che dalla produzione di oggetti che ne consentono l'applicazione. Steve Jobs è diventato quel che è diventato non perché ha progettato degli oggetti che si chiamano computer o tavolette (che ormai li costruiscono i paesi del Terzo mondo) ma perché ha ideato programmi innovatori che hanno reso i suoi computer più efficienti e creativi di quelli di Bill Gates, che fa peggio a ogni nuova versione di Windows. Quindi, anche nel mondo della tecnologia, l'avvenire è di chi sappia ragionare in modo da inventare programmi. E si dà il caso che chi abbia fatto una tesi di logica formale, di filologia classica, di filosofia, abbia allenato una mente più adatta a inventare programmi (che sono materia del tutto mentale) di chi abbia studiato come fabbricante di "ferraglia". Naturalmente conosco laureati in ingegneria che sanno inventare ottimi programmi ma che, appunto e guarda caso, hanno anche un'ottima cultura umanistica, e non di rado hanno studiato bene il loro latino e il loro greco al liceo. Serve studiare greco per ideare un buon programma per computers? Sì. Perché? Non lo chiedete a una Bustina che dispone di poco spazio. Se non lo avete capito da soli, datevi al contrabbando di droga e vivrete felici e contenti. C'era una volta un signore che si chiamava Adriano Olivetti, il quale , quando ancora i computers occupavano ciascuno una stanza - e ricordo che i tecnici del primo computer Olivetti, l'Elea, avevano perso giorni o settimane per programmarlo in modo che suonasse la prima strofa del "Ponte sul fiume Kwai" (cosa che adesso può fare anche un bambino), assumeva laureati in materie umanistiche, che magari avevano fatto una tesi (ma una buona rigorosa ricerca) su Aristotele o su Esiodo, poi li mandava a fare gavetta per sei mesi in fabbrica, perché capissero per chi dovevano lavorare, e alla fine ne faceva delle menti altamente produttive per un futuro tecnologico. Italiani, allora, cercate certo di coltivare un poco di più le materie scientifiche, ma vi invito alle "humanitates": non abbandonate (e non condannate a morte) gli studi umanistici. Il futuro è di chi sappia con mente agile unire quelle che P. C. Snow (che non aveva capito gran che) chiamava le "due culture", ritenendole irrimediabilmente separate.