martedì 14 agosto
ore 21,15 chiesa di San Francesco
LA MUSICA NEL MILLEOTTOCENTODODICI:
i vertici beethoveniani e la freschezza rossiniana.
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Lanfranco Marcelletti
. . . . . . . . direttore
Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Sinfonia n. 7 in La magg. Op. 92 - 1812
- Poco sostenuto. Vivace
- Allegretto
- Presto. Assai meno presto
- Allegro con brio
Gioachino Rossini (1792-1868)
da L'inganno felice - Venezia, Teatro San Moisé, 1812
e da Ciro in Babilonia - Ferrara, Teatro Comunale, 1812
- Sinfonia
da La scala di seta - Venezia, Teatro San Moisé, 1812
- Sinfonia
da L'occasione fa il ladro - Venezia, Teatro San Moisé, 1812
- Sinfonia
da La pietra del paragone - Milano, Teatro alla Scala, 1812
- Sinfonia
uell’anno 1812, al quale solo
per il mancato ritrovamento di
documenti precedenti si fa risalire la formazione dell’Accademia Filarmonica di Mercatello, non è certo
uno qualunque, e non lo è nemmeno
per la Musica, legata come tutte le arti
agli avvenimenti storici e alle vicende
umane che le scorrono parallele; in questo caso in gran parte legate a quel Napoleone Bonaparte che al tempo stava
occupando anche la nostra cittadina.
La data è ben impressa nelle menti
degli appassionati di musica attraverso
le note della conosciutissima Ouverture
Q
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1812, che annovera nell’organico del pirotecnico finale, tra campane e colpi di
cannone, perfino ottoni e percussioni di
una banda aggiunta all’orchestra.
Con essa Tchaikovsky celebrava la rovinosa ritirata delle armate napoleoniche dalla Russia. Una vera e propria
svolta nella storia europea che porterà
ad un’ampia coalizione antifrancese e
alla cruenta battaglia delle Nazioni di
Lipsia, da dove l'esercito francese fu costretto a ritirarsi attraverso una Germania
in piena insurrezione, mentre la Spagna
era ormai stata persa ad opera di Sir Arthur Wellesley, duca di Wellington.
J.L. David, Napoleone nel suo studio - 1812
C. Rohling, L’incidente di Teplitz del 1812
Strettamente collegata a tali episodi
è l’organizzazione e programmazione
della celebre serata musicale viennese
in cui fu presentata per la prima volta al
pubblico la Settima Sinfonia di Ludwig
van Beethoven, compositore allora vicinissimo al culmine della fama e che nel
1812 impressionò perfino Goethe: «Non
avevo mai incontrato un artista così fortemente concentrato, così energico,
così interiore [...] Il suo ingegno mi ha stupefatto; ma egli è purtroppo una personalità del tutto sfrenata, che, se non ha
certamente torto nel trovare detestabile
il mondo, non si rende così più gradevole a sé e agli altri», come del resto dimostra anche il suo sdegnoso rifiuto ad
inchinarsi davanti alla famiglia imperiale.
Episodio accaduto proprio nel luglio del
nostro fatidico anno e testimoniato dal
dipinto a lato, in cui uno scontroso Beethoven si allontana mentre Goethe è impegnato nel doveroso ossequio.
A quel tempo la Settima delle sue sinfonie era stata appena ultimata; distaccandosi nettamente dalle precedenti,
composte senza interruzioni tra il 1801 e
il 1808, e tornando a valorizzare elementi
squisitamente costruttivi; attenuando
progressivamente i violenti contrasti dialettici, come quelli dipanati nel finale
della Quinta Sinfonia (già ascoltata con
gli stessi interpreti della serata in programma nella stagione 2010).
Nell’opera proposta quest’oggi non vi
sono conflitti da risolvere ma un vortice
costante che l’ultimo movimento non
concluderà, bensì porterà al parossismo.
Una sensazione di vitalità estrema, sicurezza, coraggio, determinazione, apertura alla vita, fiducia nel futuro, gioia
strappata con rabbia ai propri fantasmi
interiori, come quelli della sordità, dell'incomunicabilità e della solitudine.
Nel vigore e nella carica trascinante si
susseguono, con improvvise accelerazioni e rasserenati passaggi di tenerezza
infinita, colori e suggestioni dinamiche
capaci di trasportare l’ascoltatore fuori
dal tormento, con masse sonore di vaste
proporzioni ottenute con la sconvolgente capacità di orchestrare un organico ridotto rispetto ai precedenti lavori.
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La prima della Settima venne diretta
dal compositore all'Universitätssaal di
Vienna l’8 dicembre 1813, durante un
concerto benefico a vantaggio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau, combattuta e perduta
nel tentativo di tagliare la ritirata da Lipsia di Napoleone, e organizzato da quel
Johann Nepomuk Mälzel che proprio in
quel periodo stava perfezionando il
primo metronomo.
Del resto Beethoven, che proprio nel
1812 dedicava all’inventore del prezioso
meccanismo il Canone a 4 voci Ta ta ta
ta (WoO 162), fu il primo autore ad aggiungere indicazioni di tempo metronomiche alle sue composizioni, generando
un acceso dibattito, non ancor spento,
sulle sue effettive intenzioni e sull’affidabilità di quei primi strumenti.
Certo è che qualsiasi fosse la frequenza di battuta della bacchetta beethoveniana la serata viennese, che si
avvaleva di un’orchestra formata dai
migliori strumentisti, compositori e solisti
disponibili, fu un vero trionfo, il maggiore
ottenuto in vita dal compositore; al
punto che il celebre Allegretto, una
delle più stupende creazioni di tutta la
musica, dovette essere per il gran entusiasmo ripetuto, come poi puntualmente si verificò in ogni esecuzione per
molti anni a seguire.
Con nostra odierna delusione e comprensione, visto il vibrante stimolo patriottico del tempo, la prima dell’opera
immortale fu però offuscata dall’occasionale marcia militare la Vittoria di Wellington, con la quale il genio di Bonn
volle celebrare i successi degli inglesi
sulle truppe francesi attraverso un pastiche di inni nazionali e di effetti onomatopeici appositamente creati da Mälzel
ad imitazione delle cannonate, sparate
per l’occasione da artisti come Meyerbeer, Hummel e Salieri.
Beethoven ci aveva regalato però
una partitura maestosa, drammatica e
allo stesso tempo luminosa, forse la più
perfetta tra le sue sinfonie per ricchezza,
varietà ed equilibrio dei temi ma soprattutto per il grande impeto ritmico che la
caratterizza e gli conferisce vitalità, ro32
bustezza, nerbo; dove l'energia scatenante è sempre in equilibrio con il dominio formale, spinto qui a miracolosi
vertici di controllo.
Un tripudio luminescente, un’orgia di
ritmo, che i critici contemporanei non
colsero appieno, soffermandosi esclusivamente sull’aspetto estroso, ai limiti
della stravaganza e del lecito, ed etichettandola come una composizione
scritta «in preda ai fumi dell'alcool» da
una mente si sublime, ma malata, ormai
matura per il manicomio.
Solo più tardi Richard Wagner l’etichettò come «l'apoteosi della danza»,
intesa come sublimazione di una essenza ritmica che pervade per intero la
partitura, in un graduale e costante crescendo d'intensità metrica e impeto; accumulando via via energia, dalla lenta
messa in moto all’apoteosi finale. Il tutto
sottolineato, non da smielate danze settecentesche, ma da vorticosi balli di
massa che trascinano sentimenti e passioni risvegliate dalla lotta contro l’oppressione napoleonica.
Il successo immediato della composizione è comunque attestato dalle molteplici trascrizioni pubblicatene nel 1816,
fra cui anche quella per le numerose
bande musicali che stavano nascendo
ovunque in quegli anni.
Sarebbe interessante verificare se la
nostra Accademia Filarmonica di Mercatello, nella sua veste di banda sinfonica abbia mai avuto in repertorio
questo capolavoro, o abbia magari utilizzato per le sue funzioni istituzionali l’Allegretto, accompagnando una delle
tante meste processioni che ancor oggi
attraversano con cadenza regolare le
vie del centro storico.
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Il primo movimento, Poco sostenuto, è
aperto dai quattro possenti accordi orchestrali della poderosa e inusualmente
lunga introduzione lenta, ai quali, sulle
ondate staccate degli archi, oppongono il loro tenero canto i fiati, in un'atmosfera carica di attesa. Su di essa
irrompe una fragorosa espansione sonora interrotta momentaneamente da
una delicata frase bucolica che poi si dirada e rallenta fino ad indugiare su una
sola nota puntata che, nella sua ostinata ripetizione si frantuma nel cambio
di ritmo e diventa il geniale avvio della
sinfonia.
Lo scalpitante Vivace, «il movimento
sinfonico più impetuoso e fantastico
della storia della musica», è aperto dal
flauto che s'invola in un clima gioioso
verso quella continuità di tensioni e distensioni armoniche, di alternanze di volumi sonori, di mutamenti di timbro e
registro, che attraverso una semplice
cellula tematica sottoposta a una stupefacente serie di elaborazioni, cancella i
tradizionali confini fra temi principali e
secondari; del tutto irrilevanti rispetto all'unicità dello slancio vitale.
Il contrasto con il celeberrimo e più intimo Allegretto, inserito al posto del tradizionale Adagio o Andante, è violento e
sostanzialmente dovuto alla sua andatura immateriale, a quel suo librarsi in
una sorta di stratosfera della coscienza,
racchiusa fra i due dolenti accordi di
apertura e chiusura. Su un’inarrestabile
pulsazione ritmica, in un misurato incedere di marcia che lo costringe a muoversi, si sviluppa un tema inizialmente
scarno, basato su una melodia marcata, ripetuta e progressivamente arricchita fino allo splendido fugato, e un
altro dall’andamento dolcissimo, tranquillo e cantabile.
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Il terzo movimento, Presto, è il momento più gioioso, frizzante e danzante
della sinfonia. Dopo i toni cupi e riflessivi
dell’Allegretto, l'accelerazione ritmica riprende con scatto il sopravvento e tutto
si fa leggero, fresco, brioso, con impeti
improvvisi, uniti da movimenti veloci e
virtuosistici frutto di un uso massiccio
della ripetizione che può interessare incisi o singoli frammenti, così come diramarsi alle strutture portanti e influenzare
la grande forma.
Nel ritornello centrale compare anche
una distesa melodia, Assai meno presto,
morbida e leggiadra che a quanto sembra riprende un canto popolare dei pellegrini austriaci. Questa non va però ad
interrompere la continuità ritmica, per
merito della nota del Presto tenuta costantemente dai violini in sottofondo e
che riduce il Trio ad un suo indugio o parentesi, senza sfociare in un più classico
contrasto.
Il movimento finale, Allegro con brio,
sullo spunto di una melodia popolare irlandese, riassume e porta a conclusione
con una straordinaria vitalità ritmica tutti
gli aspetti trascinanti colti dalla definizione wagneriana.
In esso gli impulsi dei precedenti tempi
arrivano al loro violento dispiegamento
in un'esaltazione dionisiaca, un vero e
proprio baccanale in cui è unico il senso
di sfrenata libertà e potenza.
Una festa subito presentata con una
variopinta e trascinante girandola sonora, con una scoppiettante fanfara
che ingoia voracemente i temi secondari durante il suo sviluppo ascendente
ricco di spunti e in cui riappaiono esaltate idee ritmiche ed armoniche già
udite e che confluiscono nel luminoso
vortice conclusivo che ci conduce all’intervallo, prima del cambio di clima.
Pesaro, Teatro G. Rossini
Sempre nel 1812, contemporaneamente al consolidamento della fama
del compositore di Bonn, sbocciava più
a sud un altro genio musicale, destinato
in pochi anni a sedurre con la sua spaventosa produttività ed inventiva, i suoi
inarrestabili lampi, sogni e giochi, il pubblico italiano, viennese ed europeo:
Gioachino Rossini.
Egli, uno dei maggiori vanti della nostra bella Provincia, era nato a Pesaro,
da madre di Urbino, solo 20 anni prima,
l’ultimo di febbraio di un anno bisestile
come l’attuale e come quel 1812 che lo
rese celebre dall’oggi al domani e lo
elevò al grado di uno di quei preziosi
maestri in grado di riempire i teatri solo
per il loro nome: «un titano di potenza e
di audacia, il Napoleone di un’epoca»
come lo definì Mazzini, «il musicista più significativo del suo tempo» come ebbe
a dire lo stesso Beethoven.
La stima reciproca fra i due grandi
protagonisti della nostra serata musicale
è del resto testimoniata anche dalle parole di Rossini - fin da piccolo soprannominato il Tedeschino per il suo amore
verso le musiche di Mozart e Haydn che dopo aver ascoltato la sinfonia
Eroica affermò: «si può anche diventare
sordi, come colui che l’ha scritta; non
c’è nulla di più da sentire!», così come
dal celebre incontro fra i due, dieci anni
dopo, nel 1822, in cui l’ormai vecchio e
sordo maestro, complimentandosi per il
lavoro del più giovane collega così lo
esortava, senza malizia: «Non cercate di
far altro che opere buffe. Voler riuscire
in un altro genere sarebbe far forza alla
vostra natura».
In effetti la produzione drammatica
del pesarese, sminuita dai crescenti
ideali romantici e realistici, fu in gran
parte e per lungo tempo complessivamente incompresa, al contrario di
quella buffa che l’aveva reso famoso
con le sue farse che, seppur concepite
freneticamente in un’ottica di consumo
immediato, andarono a costituire il nucleo fondante di un voluminoso repertorio in gran parte riscoperto per merito
dell’encomiabile lavoro della Fondazione Rossini e del Rossini Opera Festival.
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Ricche di humour e di nonsense, queste prime composizioni teatrali andate in
scena nel 1812, dopo le due esperienze
operistiche del biennio precedente,
sono infatti gioielli di prodigiosa leggerezza ed energia, artefici di un avvio di
carriera sfolgorante e vertiginoso, anche
per merito del fortunato incontro, avvenuto l’anno precedente, con una delle
prime donne più apprezzate del periodo, il contralto Marietta Marcolini.
Comprendendone le doti e divenutane amante, essa lo impose come
compositore con evidente profitto di entrambi, destinati ad essere consacrati
con la messa in scena de La pietra del
paragone e, poi, de L’italiana in Algeri.
La mirabolante annata vide la nascita
di ben cinque nuovi titoli in cui Rossini affinò il suo personalissimo stile, fatto di un
brillante canto fiorito, nonché di una vivacità teatrale e orchestrale capace di
sottolineare perfettamente ogni situazione scenica, e già presente nelle fantasiose sinfonie d'apertura e nei loro
trascinanti crescendo, divenuti ben presto la firma e la caratteristica più nota
del pesarese.
Nonostante l’immediato successo il
numero delle rappresentazioni delle
opere del 1812 sarà comunque destinato a scemare ben presto. Le brillanti
messe in scena vennero infatti eclissate
e scalzate dalle più celebri opere buffe
scaturite di lì a poco dalla mente del
compositore. Queste manterranno però
in seno i germi della strepitosa inventiva
giovanile, sopravvissuta e valorizzata attraverso i frequentissimi autoimprestiti.
La prassi di riutilizzare, ritagliare, incollare, riciclare e modificare materiale già
utilizzato in composizioni precedenti è
frequentissima in Rossini, capace di inserimenti e adattamenti sempre puntuali e
azzeccatissimi, e presente fin dai suoi lavori giovanili, come testimonia già il nostro primo ascolto.
La sinfonia de L'inganno felice - opera
semiseria presentata l’8 gennaio 1812 al
Teatro San Moisè di Venezia, palcoscenico in cui Rossini aveva debuttato due
anni prima con La Cambiale di matrimonio, e con la quale il pesarese ottiene il
suo primo grande successo - è infatti la
riproposizione di una Sinfonia scritta nel
1808 quando era ancora studente del
Liceo Musicale di Bologna e che verrà
nuovamente usata anche per il
dramma Ciro in Babilonia, messa in
scena due mesi dopo, il 14 marzo, al
Teatro Comunale di Ferrara.
Visto il successo ottenuto da L’inganno felice, l’esperto impresario del
San Moisè, teatro destinato a scomparire nel 1818, si affrettò a garantirsi la collaborazione dell’astro emergenze per
altre 3 imminenti opere da mettere in
scena entro l’anno: ultima delle quali fu
Il Signor Bruschino, rappresentata nel
gennaio 1813 ed in questi giorni in scena
al ROF con protagonista, come nella nostra serata, l’Orchestra Sinfonica Rossini.
Così, il 9 maggio 1812, i veneziani poterono godersi la farsa comica La scala
di seta, con librettista lo stesso Giuseppe
Maria Foppa che aveva scritto i testi per
L’inganno felice e che scriverà quelli de
Il Signor Bruschino.
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Come le altre operine anche La scala
di seta cadde però presto nell’oblio, ad
eccezione della sua ouverture, entrata
fin da subito a diritto nel repertorio sinfonico. Essa è infatti un gioiello dall’inizio
bizzarro, con quella rapida cascata di
note disegnata dagli archi. Il dialogo fra
corno ed oboe porta poi all’allegro con
un virtuosistico passo di quest’ultimo e al
più dolce e cantabile tema secondario
che sfoga nel fatidico crescendo, prima
di ripetersi e terminare in fortissimo nella
coda. Il dinamismo e lo scatto ritmico
sono accompagnati da una straordinaria freschezza melodica che immette
nella gioiosa vitalità e vorticosa rapidità
della farsa.
Completamente differente nel clima
è l’apertura musicale, non una vera sinfonia, dell’opera scritta per il San Moisè
e andata in scena il 24 novembre del
1812: L’occasione fa il ladro.
La deliziosa introduzione orchestrale,
che dopo un breve preludio accompagna i tuoni e i lampi che avviano la vicenda teatrale, è basata sul temporale
già utilizzato ne La Pietra del paragone
e successivamente ripreso per la ben più
celebre scena de Il Barbiere di Siviglia.
Altra dimostrazione di quanta buona
musica fosse già nella testa del giovane
Rossini, che il 26 settembre aveva debut-
tato con grande successo alla Scala di
Milano proprio con il melodramma gioioso La Pietra del Paragone.
Questa riprendeva numeri da precedenti lavori e ne proponeva altri del
tutto nuovi; una vera miniera di idee da
riutilizzare nella sua gloriosa carriera e al
contempo causa principale del precipitoso oblio dell’opera milanese.
Esempio ne è la stessa Sinfonia, che
visto lo svincolo dall’opera, i tempi ristretti e le distanze allora improponibili
per i melomani, venne trasferita nel 1813
di sana pianta all’inizio del primo importante successo del genere serio rossiniano: il Tancredi per il teatro La Fenice
di Venezia, al quale è da allora legata.
Il brano si apre con un’introduzione
cauta, quasi titubante, che immette nell’allegro dall’esplicito carattere buffo e
gioioso, con inflessioni tipiche delle migliori ouvertures rossiniane.
Il successo dell’opera milanese fu
tanto clamoroso - ben 53 repliche, vicinissime alle 57 del record assoluto ottenuto poi dal Nabucco verdiano - che il
comandante francese del presidio di
Milano esentò Rossini degli obblighi del
servizio militare: vantaggio certamente
non trascurabile, specie in quel 1812 così
fortemente segnato dalla disfatta napoleonica in Russia.
Mappa di Mercatello subito dopo la cacciata dei Francesi (1814)
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