L’AMICIZIA
CHE FA BENE
Un ricordo di p. Giuseppe Carollo
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PREFAZIONE
“Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché
amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il
proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in
se stesso la vita eterna.
Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi;
quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha
ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli
chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli, non
amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.” (1Gv
3,14-18)
A dieci anni dalla morte di p. José (noi tutti in Ecuador lo si
chiamava col cognome, p. Carollo o Carolito, Pepe), voglio tentar di
raccontare cosa rimane dell’esperienza vissuta nei nove anni in cui sono
stato in contatto frequente con lui. M’intratterrò sui fatti, gli interessi, le
scelte concrete che parlano di ciò in cui egli credeva, più di mille parole.
Di tutto ciò già si è scritto a un anno dalla sua morte nel libro Un Canto
a la Vida, molto apprezzato. Mi limiterò a rilevare quello che p. José
continua a insegnarmi col suo esempio.
DATE IMPORTANTI
Giuseppe Carollo nacque a Carré il 13 aprile 1931. L’otto
dicembre 1960 fu ordinato sacerdote salesiano. Cooperatore nella
parrocchia di El Girón, in Quito - Ecuador, fu parroco della stessa fino
al 31 gennaio 1976, quando fece la scelta di lasciare i salesiani e stare
con i poveri, non solo per aiutarli, come aveva fatto fino allora. Nel
1977 dà inizio alla Parrocchia di Cristo Resuscitado, nel quartiere di
Quito Sur. E’ nominato decano (1982) e poi Vicario episcopale (1992)
da mons. Antonio Gonçales, arcivescovo. In quello stesso anno, la
Associazione Tierra Nueva fu trasformata in Fondazione. Nel 1993
inizia la sua formazione come sacerdote del Prado, convinto discepolo
di p. Chevrier. Nel 1999 fa il suo primo impegno solenne nel Prado. Il
13 dicembre 2002 ebbe la prima operazione di tumore allo stomaco. La
diagnosi del 2004 fu di cancro terminale al pancreas. Da qui, al 13
maggio 2005, è vissuto offrendo a tutti il suo esempio di vita e di
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preparazione alla morte, come un grande testimone di fede e di
donazione della sua vita a Dio e al popolo povero che aveva servito.
MISSIONARIO - Alla luce dei cambiamenti in atto oggi nella Chiesa
con il pontificato di papa Francesco, sono più evidenti alcuni tratti della
spiritualità e delle scelte pastorali che p. Carollo aveva anticipato. Essi
riflettevano un ritorno al Vangelo, alla Parola più che alla tradizione di
una chiesa che si aggrappava ancora alle sue strutture di potere, anche
localmente, e che era vista da molti preti e seminaristi come un
ambiente di privilegi e non di servizio. Egli non era arroccato a
difendere una chiesa che faceva la sua brutta figura nel mondo con i
paludamenti, cerimonie e formalità non capite, con titoli altisonanti che
p. Carollo aveva ormai cancellato nel suo linguaggio, tanto ne era
avverso. Non partecipava a consegne di titoli e riconoscimenti e se ne
fosse stato costretto, giunto in casa, cestinava il tutto.
Era riuscito a capovolgere, prima di tutto in se stesso, l’immagine di
piramide imperante nella chiesa, nonostante il Concilio, dove alla base
c’era la moltitudine di fedeli. C’è voluto papa Francesco per affermare
chiaramente: I laici sono semplicemente l’immensa maggioranza del
popolo di Dio. Al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati.
E’ cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella
Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente,
con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno
della carità, della catechesi, della celebrazione della fede (EG 102).
P. José, era uscito dalle “mura” della chiesa: duc in altum (prendi il
largo) era risuonato nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II "Novo
Millennio ineunte". Questo atteggiamento p. José lo stava vivendo da
tempo molto intensamente, anzi era uscito addirittura dai salesiani! Il
papa insiste oggi nell’uscire dalla propria comodità e avere il coraggio
di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del
Vangelo (EG 20). Questo aveva fatto p. José quando decise di spostarsi
dal centro di Quito alla periferia Sur. Era guidato da questo spirito
missionario anche nella scelta delle costruzioni da fare. Uscire verso le
periferie significava avere occhio attento ai gruppi umani poveri, alle
loro necessità sia da un punto di vista della fede, come anche sociale. A
questo gli serviva conoscere le autorità dell’amministrazione locale alle
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quali segnalava i casi. Sentiva quasi una urgenza di esserci
nell’occupare il territorio, esserci nelle invasioni che i poveri facevano,
nella espansione fisica delle periferie. La presenza sul territorio di una
comunità di suore e di una piccola sala per riunirsi era estremamente
significativa per la gente, proveniente dai più distanti punti
dell’Ecuador, che aveva bisogno di riconoscersi prima ancora di parlare
di fede.
Mi sembra molto significativo ciò che scrive di lui Francisco Febres
Cordero (EL UNIVERSO – Quito, Ecuador - nov. 2004 - Un Canto a la
vida):
C'è qualcosa in lui che impressiona: un modo tutto suo, tutto personale,
di fare le cose come se non facesse nulla.
C'è qualcosa in lui che impressiona: un modo tutto suo, tutto personale,
di suscitare solidarietà negli altri.
C'è in lui qualcosa che commuove: un modo tutto suo, tutto personale,
di pregare per gli altri, per chi ha più bisogno, per l’emarginato.
C’è in lui qualcosa che rivitalizza: un modo tutto personale, tutto suo, di
non piegarsi di fronte alle avversità.
Molti anni fa fu parroco al nord di Quito, là dove le necessità della gente
sono minori, finché un giorno vide che c'era l'altro estremo, verso il sud,
la miseria cresceva man mano che i quartieri si estendevano con l’arrivo
dei migranti.
Allora, lui andò là, senza altro patrimonio che la sua tenacia e senza
altro bagaglio che la sua idea di servizio.
Cominciò a costruire una chiesa e un'altra e un'altra; ma poi si fermò.
Alla gente non servono più chiese ma asili, scuole, abitazioni.
Cominciò a costruirle, come altra forma di servire il suo Dio attraverso
il servizio agli uomini. Ma subito si fermò.
Si fermò perché vide che tuttavia era più urgente costruire un posto che
proteggesse i malati. E così, come se niente fosse costruì un ospedale
dotato delle più moderne tecnologie.
Se gli si domanda, dirà che è Dio che ha provveduto. Se lo si segue, si
vedrà che è lui che bussa a tutte le porte e, per la fiducia che ha
conquistato per l'amministrazione scrupolosa dei fondi e la sicura
destinazione degli stessi, riceve donazioni dal paese e dall'estero.
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Tuttavia, oltre a tutto ciò che ha costruito, c’è di più: la dignità che ha
dato alle persone che serve, i più poveri. Essi sentono che non è
elemosina ciò che ricevono, ma è qualcosa che la società deve loro per il
duro lavoro che hanno svolto, per l’istruzione che non hanno ricevuto,
per la molta fame che hanno patito, per tutto ciò che hanno sofferto.
Così, nessuno resta con il proprio dolore addosso. Nessuno rimane
prostrato. Nessuno si sente solo.
Tutti loro, tutti, sanno che ai piedi del loro letto di ammalati c'è sempre
quest'uomo che, come dice il Vangelo, si spoglia del suo vestito perché
essi abbiano un riparo. E’ una consolazione.
Ora ha cominciato la costruzione del secondo ospedale, sempre nel Sur.
“Un canto alla vita” si chiama.
Questo nome, che è un nome di ottimismo e speranza, contiene anche
l'uomo che ha plasmato in questo canto, il proprio canto in favore degli
altri: Josè Carollo.
AMICO - La difficoltà della distanza, io vivevo in Manabí, non era un
ostacolo insormontabile per incontrarci. Avevo imparato a conoscere ed
evitare le buche della strada a Santo Domingo e della salita alla Sierra,
con i punti di fermata più convenienti per comprare frutta o riposare un
po’.
Ma di più avevo imparato ad apprezzare la cura con cui il p. Carollo mi
teneva presente e mi valorizzava nonostante i miei evidenti limiti.
Sentivo da lui uno stimolo sincero che elevava il mio ottimismo e la mia
fiducia in Dio. Era attento alle mie necessità materiali oltre che
spirituali. Eravamo riusciti a coinvolgerci reciprocamente nel cammino
di fedeltà al Signore e solidarietà ai poveri come ci insegnavano nel
Prado. Era ed è bello avere amici così!
Lungo la via a Quito erano rare le soste perché portavano via del tempo
prezioso in un viaggio che non stancava più di tanto, se l’auto si
comportava bene. Dico questo perché un giorno capitò che nella salita
della Sierra l’auto si rifiutasse di procedere. A chi ricorrere? Una
chiamata al p. Carollo e subito egli mise in moto “l’organizzazione”.
Egli stesso venne a soccorrermi, interessandosi di tutto.
Alle volte era lui a venire a Toságua, a 300 km. soprattutto dopo l’inizio
dei lavori di costruzione della chiesa. Per lui “ci voleva poco,” da Quito
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alla Costa, di cui cantava le bellezze del clima, dei fiori e della natura:
era una passeggiata. Partiva prima dell’alba con l’autista Alfonso,
faceva colazione e poi, appena parlato con me lo stretto necessario e
resosi conto di come stessi, riprendeva il cammino di ritorno a Quito.
Mi chiedevo: ma perché tutto ‘sto viaggio per così poco tempo? Ho
capito da lì il bene che mi voleva; era un amico sincero, gli bastava
vedermi, sapere che non avevo bisogno di nulla e, sempre parco di
suggerimenti, solo i fondamentali, ripartiva. Poche parole ma con la sua
presenza diceva tutta la cura che aveva nei miei confronti. Sorrideva
sempre, anche davanti ai problemi che doveva affrontare e che non
confidava facilmente, anche per non pesare. Se doveva fare qualche
appunto o rimprovero, abbassava la voce e, se uno capiva e si rendeva
conto dell’errore, bene! Altrimenti non ripeteva molte volte la stessa
cosa. Come amico sincero e presbitero più anziano, egli mi permise di
conoscere, di condividere e farmi sentire in sintonia con i valori in cui
credeva e che si sforzava di mettere in pratica. Era sorretto da
motivazioni forti che gli permettevano di affrontare qualsiasi sfida. Uno
diventa come un Cristo visibile che possiamo imitare in silenzio, senza
commenti, perché c’è una sintonia evidente di convinzioni, se non di
capacità, per imitare Cristo e il vangelo. Così anch’io, pur diverso, lo
imitavo nella misura in cui vedevo egli imitare Gesù Cristo. (1 Cor 4,16;
1,11; Fil 3,17; 1Ts1,6)
TERRITORIO – Padre Carollo era sempre molto ospitale e chi lo
visitava si sentiva al centro delle attenzioni. Queste giungevano al punto
che lui stesso trovava il tempo di farsi ora guida turistica, ora
albergatore, ora autista affinché la permanenza di un ospite presso di lui
fosse piacevole. La sua casa nella Quito Sur era ormai la mia posada
abituale, sia quando dovevo rimanere qualche giorno per sbrigare
faccende a Quito, sia di passaggio nelle mie andate o rientri dall’Italia.
Era costruita su uno spuntone di terrapieno a strapiombo sul fiume che,
nel suo corso, l’aveva risparmiato dalla erosione. Il tracciato naturale
dei torrenti obbedisce a delle logiche che non capisco del tutto, a volte
bizzarre: forse per rallentare la sua corsa in quel punto formava un’ansa.
P. José ne approfittò e mise a difesa di quella sporgenza delle gabbie di
rete metallica piene di pietre onde evitare sorprese, soprattutto nelle
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piene e vi costruì la sua residenza. Le erosioni nel Sur di Quito erano
molte e profonde e i vari governi tentavano di imbrigliare il corso
d’acqua per diminuire gli effetti negativi nell’ecosistema del tessuto
urbano che andava già estendendosi enormemente verso sud.
Padre Carollo era stato nominato Vicario del Sur in un momento di
espansione della parrocchia, senza essere nominato vescovo ausiliare, e
si occupava di tutto: avvicendamento del clero, nomine, permessi, tutto
in stretta sintonia con l’arcivescovo. Cominciò ad affidare le parrocchie
a Laici e Religiose. Non usava formalità, affidava e basta, convinto che
fossero in grado di condurre una comunità in formazione, senza il prete
residente, il quale rimaneva a servizio di più realtà.
Quando giunsi in Ecuador, Carollo aveva già occupato tutta la riva
sinistra del torrente Machángara, con le strutture parrocchiali. L’elenco
definisce bene gli interessi del p. Carollo: deposito per il materiale edile,
sale di catechismo, casa delle suore, chiesa parrocchiale Cristo
Resucitado con campanile, mercatino alimentare, segreterie dei vari
progetti, biblioteca, falegnameria, stamperia, banca di credito popolare,
comedór, sala de velación, casa degli ospiti, Mi Casita, centro medico
“Tierra Nueva” con ambulatori, sale di degenza e sala chirurgica. C’era
spazio anche per la sede di qualche gruppo musicale giovanile e una
panetteria e, un po’ scostata, una casa famiglia per bimbi abbandonati o
bisognosi, gestita da Madre Sigmunda. Erano strutture decise sotto
l’impulso di qualche urgenza, senza molta programmazione, tanto da
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subire vari cambiamenti nel corso di quei nove anni in cui fui testimone
del suo operato, soprattutto sotto l’urgenza di dare risposte al bisogno di
salute della popolazione povera in crescita. Aumentò così il numero di
stanze della sua casa per trasferirvi gli ospiti, adattò la casa degli ospiti
per accogliere lungodegenze o gente che veniva a farsi curare da
lontano, senza punti d’appoggio nella capitale e senza risorse … Erano
interventi rapidi, efficaci, fatti con poco cemento e molto compensato.
CASA – Era ben nota a tutti la sua sobria casa, piano terra, con i suoi
otto vani per dormire, con letti a castello! Questi vani insistevano su un
quadrato interno formato da un corridoio e un patio, piacevole quando
c’era il sole, dove ci si fermava volentieri attorno a un tavolo a
chiacchierare, visto che ci si incrociava spesso. Due bagni - doccia
comuni e arredo spartano. I soffitti di compensato e i pavimenti in
linoleum attutivano un po’ i rumori, ai quali non ci si abituava in fretta.
Abbellita da vasi di fiori, di cui la Sierra è avara, e di frasi messaggio di
Mons. Leónidas Proaño, sulle pareti non c’era alcun diploma, titolo,
attestato o medaglia, anche se ne riceveva molti. Completavano la casa
due uffici costruiti sull’area rubata all’officina meccanica e un vano
cucina - refettorio con grande tavolo rettangolare, dove si svolgevano
tutti gli incontri importanti, si mettevano in comune esperienze,
curiosità, barzellette, incontri con autorità, programmazioni di varia
natura, progetti, dove si leggeva il giornale e, naturalmente, dove si
prendeva anche cibo.
A Carollo non piaceva chiacchierare, ma operare. Era evidente
l’educazione salesiana alla concretezza. Tuttavia il mattino presto ci si
incontrava (ore 6,00 ca.) per le lodi e la condivisione del Vangelo.
Quando non era impegnato in Radio Maria, vi partecipava ponendo una
domanda che contribuisse a districare il senso del testo. Invitava a
questo momento di preghiera tutti, anche gli ospiti e quei seminaristi
che soggiornavano per un periodo di formazione pastorale nella sua
casa. Spesso lo si sentiva esclamare: “Levántate ocioso que la vida es
corta” dimostrando una preoccupazione sincera a far bene e con
premura anche la preghiera mattutina. “Tu solo hai parole di vita eterna,
da chi andremo?” (Gv 6,68) “Passeranno i cieli e la terra, la mia parola
non passerà!” (Mc 13,31).
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Nella preghiera, nello studio della Parola, p. Carollo poneva sempre
una domanda chiave. Era importante e orientava la riflessione dei
presenti perché, assonnati nonostante la doccia, non si perdessero in
elucubrazioni vane ma rimanessero nel contesto della vita dei poveri di
quei quartieri. L’ho imitato in questo a Toságua adibendo una stanzetta
per cappella dove ogni giorno, il mattino presto, mi fermavo con il
collega e coloro che erano in casa, secondo il desiderio di ciascuno, si
pregava e si studiava il Vangelo.
Perché l’eterno entri nel tempo, non basta ascoltare la Parola, studiarla,
bisogna anche viverla ed annunciarla, mettendo in pratica in speciale
modo la spogliazione dell’Incarnazione di Cristo e il dono totale di sé
vincendo l’egoismo e l’orgoglio. Solo da questa pratica coerente prende
il volo l’esperienza di Dio, l’esperienza della fede.
La sua attenzione ai poveri era evidentemente a partire dalla preghiera:
lode, intercessione, ringraziamento, richiesta di perdono sempre nella e
dalla prospettiva dei poveri e del Cristo incarnato e crocefisso, donato
nell’Eucaristia. Preghiera spesso condita da critiche ai ricchi del mondo
e ai grandi della chiesa, che erano scandalo ai poveri, anzi spesso causa
della loro sofferenza.
Quella piccola cappella lo vedeva poi spesso intrattenersi con i
miserabili che lo ricercavano per qualche aiuto speciale o per conversare
delle loro situazioni penose, o celebrare il sacramento della
riconciliazione.
In quella casa vivevano permanenti anche p. Graziano e, per qualche
anno una coppia di amici volontari italiani. Con scadenze abbastanza
regolari erano presenti anche i gruppi delle missioni mediche italiani o
altri. C’erano pure dei visitatori dall’Italia che vi si stabilivano per
qualche mese per uscire dalla rutine italiana e respirare aria d’impegno.
Il cibo preso possibilmente insieme era preparato dalla signora Rosita e
c’era sempre un posto libero per chi arrivasse all’ultima ora. Si
condivideva ciò che c’era. Non ha mai chiesto un contributo - spese per
l’ospitalità. Accettava gli alimenti che erano messi in comune con il
cuore.
SPIRITUALITA’ E PRADO - Lo studio spirituale del vangelo e i
poveri erano diventati le prospettive spontanee che si sentivano
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emergere in tutto ciò che faceva: conversazioni, opere, incontri
personali e pubblici, formazione, celebrazioni. Aveva fatto la sua
formazione pradosiana con p. Federico Carrasquilla di Colombia, con
cui manteneva una bella amicizia, sempre in contatto anche con il p.
Luis Canal del Brasile e il Responsabile internazionale, p. Antonio
Bravo; si sentiva particolarmente vicino agli italiani D. Roberto e D.
Pino. Questi contatti gli permettevano di considerarsi del Prado latinoamericano e italiano … fratello di tutti!
Probabilmente all’inizio della sua conversione ha risentito della
Teologia della Liberazione, ma fu il Prado, con la sua proposta
formativa, a rispondere alle esigenze profonde di spiritualità del p.
Carollo. Aveva come riferimento il gruppo base di Quito cui anch’io
appartenevo con p. José Spin, p. Cornelio e p. Cristobal, responsabile
nazionale, tra gli altri. P. Manolo Medina responsabile della formazione,
lo aiutava nel proporre il Prado anche ad alcuni seminaristi, con pochi
risultati.
Per gli incontri nazionali e internazionali, che avvenivano a Quito,
metteva a disposizione il suo mezzo di trasporto, perché nessuno avesse
la scusa di non parteciparvi e ci ospitava nel Centro di Spiritualità, da
lui costruito per gli incontri formativi dei laici e religiosi, non solo della
parrocchia. Spesso si cambiava luogo per favorire tutte le zone
dell’Ecuador: a Cuenca dove si faceva visita al grande vescovo Luna
Tobár, a Loja o nel Foyer de Charité vicino a Latacunga, La Cruz del
Sur.
Negli incontri vigilava perché la programmazione non avesse tempi
morti, ma ogni istante fosse ben utilizzato nello studio del vangelo o
nella revisione di vita. Pungolava tutti: “Fare tanto sforzo e tanta strada
per poi perdere tempo!” Vedeva la proposta di p. Chevrier, fondatore
del Prado, di formare preti poveri per evangelizzare i poveri, come
l’unica via efficace per la sua radicalità. Se Cristo si è fatto povero nella
Incarnazione, nella Croce e nella Eucaristia, chi siamo noi che lo
seguiamo come discepoli e vogliamo essere suoi apostoli, a esimerci da
questa scelta di povertà? L’orgoglio e la vanità, il potere e il denaro
sono tentazioni reali per un sacerdote che, nel caso, non sarebbe per
niente efficace nel suo ministero perché darebbe una contro
testimonianza del Vangelo che predica.
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Li conosceva bene i suoi poveri e da qualcuno p. José si nascondeva se
lo coglieva interessato solo ai soldi. Non accettava la prospettiva di
assistenzialismo paternalista senza che l’interessato accogliesse una
qualche soluzione che lo impegnava. A p. José non piaceva che
chiedessero l’elemosina, cercava di mettere i poveri sulla strada della
soluzione del problema. Oppure li indirizzava ai vari sportelli di quello
che qui in Italia chiameremmo Caritas diocesana, funzionanti in
parrocchia. Il suo impegno nelle opere, nelle costruzioni era frutto
evidente dello spirito salesiano radicato in lui. Aveva però lasciato i
salesiani per non imborghesire, perché aiutavano i poveri da una
situazione di sicurezza. Voleva poter condividere più liberamente con i
poveri la loro vita, gomito a gomito, in una periferia concreta, Quito
Sur.
Il giorno in cui era impegnato in Radio Maria si alzava alle quattro e
mezzo e lo si sentiva ticchettare sulla macchina da scrivere Olivetti i
suoi appunti. Ci ha lasciato più di 100 cartelle scritte in ambo i lati su
temi del vangelo, sacramenti, vita cristiana nel quotidiano, liturgia,
poveri, preghiera, ecc., da cui emerge tutta la sua originalità anche nella
lettura - interpretazione del Prado. Al sorgere del sole era già in sala di
trasmissione nella Quito Nord, percorrendo il tragitto contento e sereno
nell’aria frizzante del mattino. Quando lui era alla guida dell’auto,
chiamava sempre qualcuno che lo accompagnasse e usava il tempo non
per banalità, ma per fare le sue domande profonde, personali, quasi una
revisione di vita fatta insieme o una direzione spirituale reciproca, o
semplicemente conoscersi meglio.
Alcune espressioni significative o ricorrenti della sua spiritualità:
“Davanti alla esperienza di Dio, ciò che più ci sorprende è il suo
abbassamento, la sua umiltà estrema, davanti a questo amore così
traboccante, sentiamo la necessità assoluta di una risposta.”
“Abbiamo due alternative, dedicarci a raccogliere cose, accatastarle per
esibire, dominare, avere onori inimmaginabili, essere ammirato, avere
potere oppure spendere le energie per suscitare la vita, essere fonte di
vita, generare vita, appoggiare la vita.”
“Abbiamo bisogno di un’ora al giorno di interiorità, di silenzio, è il
grido del nostro essere, altrimenti ci asfissiamo.”
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“Accogliamo la vita che come fiume traboccante ci giunge da ogni
parte: se la vita non è accolta, si perde, tradisco il mio essere aperto
all’infinito”.
“Accolgo la tua tenerezza, Padre, che mi giunge attraverso la natura, gli
avvenimenti, ma soprattutto dalle persone che sono SACRAMENTO
del tuo amore”.
“Tento di dare una risposta attiva, impegnata, entusiasta di tutto il mio
essere, perché questo fuoco che esce da te si accenda in me con tutto il
suo splendore e la sua forza”.
“Possa sentire l’esperienza della vita aperta all’infinito e senta la gioia
di vivere e di vivere intensamente”.
CELEBRAZIONI – Le assemblee liturgiche sono fatte di persone e di
riti. P. José era riuscito, mal imitato da molti, a far pendere
spontaneamente l’ago della bilancia dall’attenzione alla cerimonia a
quella della persona. Sapeva coinvolgere con semplicità i presenti nella
conversazione sulla realtà e sulla Parola ascoltata. Nella condivisione di
fede era evidente che ciò nasceva da un’esperienza personale fatta di
umiltà e di profonde convinzioni. Le imitazioni di altri preti, dicevo,
non presentavano le stesse caratteristiche di “parlare con autorità”. Nella
chiesa sempre gremita, usava meno il linguaggio codificato e più quello
del popolo povero. Erano comuni le espressioni come “Papito Dios”,
“Mamita Virgen”, “lucha” e il clima che si respirava era di una calma
gioia di stare insieme. Celebrava tutti i giorni anche più messe per
radunare la gente dei quartieri durante la settimana. La chiesa
parrocchiale, dedicata a Cristo Risorto, aveva una leggera pendenza del
pavimento verso l’altare centrale per facilitare la partecipazione dei
convenuti. Erano molti i cristiani laici coinvolti nella celebrazione e nei
vari ministeri.
Lo Spirito di Dio era diffuso nei cuori di quelle semplici donne e uomini
del popolo, disponibili a visitare malati, a curare gli ambienti, ad
accogliere chi arrivava tra loro, a consolare i bisognosi con qualche
dono, dare catechismo ai bimbi, dirigere lo studio del vangelo. La sua
idea fissa era promuovere, difendere e curare la vita dei poveri che
incontrava o che accorrevano a lui. Dio papà era la fonte della vita, il
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Dio della vita in Cristo, reso visibile nei segni, negli interventi concreti
che p. José poneva nella realtà.
Per questo dicevo che il suo impegno non erano solo parole, il Vangelo
non era una dottrina ma l’incontro personale con Cristo. A partire da
questo impegno evangelizzava i poveri e si lasciava evangelizzare da
loro. Dedicava molto tempo anche alle visite familiari, soprattutto dei
malati con i quali celebrava i sacramenti degli infermi. Era sempre di
corsa, ma aveva tempo per tutto, senza affanno. Rispettava la religiosità
popolare, soprattutto quella indigena, cercando di trasferirvi contenuti
nuovi. Nel caso dei defunti, per esempio, vegliava spesso il morto fino a
ore piccole nella notte insieme ai parenti in preghiera, ricordando la vita
del defunto.
I POVERI che andavano ad ingrossare le misere periferie di Quito
erano in maggioranza gli Indigeni della Sierra, anche se non mancavano
i Costegni. Costituiscono ancora la categoria di poveri più grande
nell’Ecuador di oggi. Non si tratta solo di poveri in senso economico,
ma di persone verso le quali esiste un forte rifiuto razziale. Nonostante
siano già passati decenni dall’abolizione del Huasipungo (Jorge Icaza)
realtà coloniale ben nota, e l’attuazione della riforma agraria, la natura
ostile e il forte preconcetto razziale facevano e fanno di questa gente i
poveri per definizione che, con il Vescovo di Riobamba, Mons. Proaño,
tentavano e tentano un riscatto sociale. Diceva Mons. Leonidas: «Agli
indigeni vorrei dare terra, educazione, autostima, cultura e religione».
La sottile suddivisione razziale della società è evidente nel linguaggio
popolare, a volte addolcito da diminutivi, ma segno di inclusione sociale
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mal digerita da parte dei bianchi e meticci, e segno di una guerra tra
poveri. Io per p. Carollo ero mono, lui per me era longo, termini usati
per indicare da parte dei meticci due specie di scimmie, della Costa e
della Sierra, cui sono paragonati gli indigeni. Anche p. Carollo usava
questa terminologia scherzosamente per sdrammatizzare un po’ le
situazioni e riderci su. P. José conosceva bene i suoi poveri della Sierra.
Tra di essi, soprattutto donne e giovani emigranti dai loro villaggi in
cerca di fortuna, si sentiva chiamato a operare. Egli offriva loro
opportunità di impiego nelle costruzioni che realizzava e cure nel suo
Centro Medico. Organizzava gruppi di donne che attraverso
l’artigianato di tipo turistico, procuravano alla famiglia un aiuto per la
sussistenza. Una società razzista, difficile da cambiare, in cui anche la
chiesa era coinvolta: il lavoro di p. José era criticato perché si rivolgeva
a queste popolazioni per un riscatto sociale, a partire da una fedeltà al
Vangelo dell’Incarnazione, sorpassato numericamente dalle chiese
evangeliche protestanti che si occupavano di più della formazione
biblico – spirituale.
Sembrava quasi che avesse fatto una esperienza mistica della presenza
di Cristo nei poveri, tanto è radicale e coerente la sua decisione di
dedicare tutto il tempo nel promuovere, nel difendere la vita e la fede
dei poveri. Tutto il resto era dipendente da questa convinzione: nessun
interesse economico, convenienza sociale o ordine superiore poteva
prevalere su questa decisione di servire i poveri concreti del SUR di
Quito. Si capisce perché avesse aderito al Prado e alla proposta
spirituale e pastorale del beato Antonio Chevriér.
L’evangelizzazione dei poveri passa attraverso la condivisione della
loro povertà, testimoniando il Cristo che spogliò se stesso per
condividere la condizione umana. Usava e credeva nei mezzi poveri;
sembra una contraddizione vista la quantità di opere finanziate. Erano
poca cosa invece se consideriamo l’immensità dei bisogni dei poveri di
vita che riempivano quelle periferie. Mancavano case, scuole,
alimentazione, lavoro, ma soprattutto fiducia in se stessi e in Dio più
che nei potenti di turno. p. Carollo non accumulava mai, quello che
riceveva andava subito a saldare qualche debito urgente! Alcuni sono
convinti invece che per aiutare bisogna prima ingrandire la “torta”
(capitale) per poi suddividerla! I soldi non sfioravano neppure le sue
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mani, passavano via sfrecciando e restava male quando un seminarista o
un qualsiasi laico, volontario o stipendiato suo, non si metteva in
quest’ordine di idee, per vivere invece nel proprio benessere o
comodità.
Era così convinto che bastasse leggere e studiare il Vangelo per capire
ed accogliere questa proposta, che diceva: “Non si può vivere per regola
ciò che deve essere vissuto per amore” e non riteneva necessario dare
nessuna ulteriore istruzione scritta ai suoi, se non verso la fine della sua
vita e dopo insistenti richieste. Quando si rese conto della gravità della
malattia, stilò dieci punti orientativi per la Fondazione Tierra Nueva.
SPIRITUALITA’ NELLA FONDAZIONE TIERRA NUEVA - Il
gruppo che stava alla base della ”organizzazione” che sorreggeva
l’attività proposta da p. Carollo era chiamato Tierra Nueva, e dava peso
di legalità alle decisioni prese. Si consideravano membri effettivi della
fondazione i professionisti della salute e tutti coloro che in qualche
modo si interessavano per far funzionare il servizio ai poveri. C’è un
direttorio eletto, e quello che presentiamo qui è uno statuto “morale”
della Fondazione che secondo p. Carollo non aveva bisogno di statuti
perché avrebbe dovuto bastarle il Vangelo.
“A tutti i membri della Fondazione Tierra Nueva, a coloro che in essa
hanno lavorato e stanno lavorando a servizio dei poveri e a tutti coloro
che collaborano in ogni modo con risorse per i progetti:
Principi fondamentali e mistica
1- Essere una famiglia dove si dà il primato al tratto umano, affettuoso
e pieno di Fede nella vita del malato e di fronte a qualsiasi
situazione.
2- La qualità professionale è assunta in tutta la sua ampiezza.
3- A partire dalla nostra fede cristiana si offre a tutti i servizi medici;
nessuno rimane escluso: se non si possono coprire le spese, si
cercherà il cammino più opportuno attraverso il “fondo sociale.”
4- Davanti alla vita tutti siamo uguali; il tratto umano allora sarà
degno, rispettoso e pieno di tenerezza. Ogni persona ha un valore
infinito.
5- Tutti i nostri gesti, parole e atteggiamenti devono riflettere un vero
servizio alla vita e non una fredda professionalità.
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6- Tierra Nueva vuol vivere una missione: essere per tutti specialmente
per i poveri, una speranza di vita e una vita degna.
7- La presenza del Dio della Vita nel nostro campo di lavoro ci darà
una creatività trasbordante. Niente ci ferma davanti ai problemi e
le difficoltà. Il cuore è inesauribile quando camminiamo con Dio.
8- Tierra Nueva non ha padrone, non è un’istituzione finanziaria,
Tierra Nueva appartiene ai poveri della nostra terra.
9- Vogliamo essere Buona Notizia per i poveri.
10- Il cammino lo facciamo insieme; siamo coscienti delle difficoltà e
situazioni di conflitto, le risolveremo con il dialogo, con il nostro
generoso contributo personale.
11- La paga è una necessità indiscutibile, ma il nostro lavoro porterà il
sigillo della gratuità, per l’amore, la vita e l’entusiasmo che
metteremo in tutto.
12- La vita si genera a partire dal dono, ogni dono passa per la strada
del sacrificio. Dio ci ama mettendosi in ginocchio davanti a noi.
Senza umiltà non si genera la vita.
Per il mistero dell’Incarnazione che ci fa vedere in ogni persona Cristo,
e di conseguenza in ogni uomo e donna un fratello o sorella, la
Fondazione Tierra Nueva si dirige ai poveri come fratelli e sorelle parte
dell’umanità sofferente che chiede rispetto per la sua dignità.
Tutti i membri della Fondazione ci impegniamo a donarci con le nostre
capacità e talenti, con la nostra professionalità e intelligenza a Cristo
realmente presente nei malati poveri, bambini senza difesa, bambini
disabili e ad ogni persona che richieda la nostra attenzione.
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CRITICHE - Chi non lo conosceva bene diceva di lui che fosse una
figura contraddittoria: “Parla di povertà … e manipola molti soldi”.
Molti si sono fermati a questo aspetto intrigante del padre, egli si fece
povero questuante per i suoi poveri. Qualcuno ha vergogna di chiedere
l’elemosina e si sentiva in dovere di criticare p. Carollo per questo.
Costoro non si sono dati il tempo di approfondire il perché lo facesse,
quale spiritualità lo sostenesse. Non si capisce il padre omettendo questo
atteggiamento francescano. Posso testimoniare che tutto ciò che
raccoglieva dai benefattori finiva nelle opere a servizio dei poveri, o
nelle loro mani direttamente, non tratteneva niente per sé.
Altra critica: “Fa molte costruzioni, ma trascura la formazione dei laici”.
Sono testimone del suo impegno nella predicazione e nella formazione
di formatori. Organizzava talleres per tutti gli operatori pastorali della
Vicaría del Sur. Prima della costruzione di una chiesa, doveva essere
costituito un comitato rappresentante della comunità che non solo
seguisse i lavori, ma che responsabilmente contribuisse nella spesa, se
pur poveramente, e che si radunasse per pregare e leggere la Parola.
Affidava la responsabilità di questi percorsi oltre ai laici, anche alle
molte congregazioni religiose femminili che giungevano da ogni parte
disposte a lasciarsi coinvolgere più profondamente in una realtà
pastorale di poveri, dando aperture nuove alla congregazione stessa.
Erano concrete comunità di base che nascevano dall’interesse di
identificarsi nella fede in Gesù Cristo e che avevano bisogno di spazi
comunitari. Con questo coinvolgimento intendeva anche offrire una
occasione di protagonismo alla donna ecuadoriana non proprio
considerata così importante nel contesto sociale e all’interno della
chiesa. Il papa Francesco ora riconosce che “le rivendicazioni dei
legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che
uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa
domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente
eludere … Qui si presenta una grande sfida per i pastori e per i teologi,
che potrebbero aiutare a meglio riconoscere ciò che questo implica
rispetto al possibile ruolo della donna lì dove si prendono decisioni
importanti, nei diversi ambiti della Chiesa”. (EG 104)
Qualcuno lo criticava perché si sostituiva agli obblighi dei politici al
governo. Tuttavia, con il suo intervento riusciva a tamponare per un po’
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le situazioni concrete di bisogno in attesa che intervenisse
l’amministrazione pubblica. Non poteva passare oltre, indifferente,
davanti a una qualsiasi forma di mancanza di vita. “Il sogno di Dio papà
è che il nostro esistere, tutto sia una fonte di vita, sia al servizio della
VITA”.
Ha gestito, con i suoi operai anche la costruzione di molte case per
poveri e strutture non annesse alla parrocchia o di proprietà di enti
religiosi, come l’Università Politecnica Salesiana, il Centro studi
(talleres) dei Giuseppini, il Centro di spiritualità, ecc. In questo senso si
può dire che fosse anche imprenditore! Il suo sogno era inaugurare il
nuovo ospedale del Sur: Un Canto a la Vida nel quartiere Quitumbe.
Ma questo sarà un altro capitolo.
Spesso si faceva vedere in Italia, soprattutto quando aveva bisogno
urgente di fondi: i soldi degli amici, dei conoscenti, delle imprese, dei
gruppi organizzati (Tierra Nueva di Ferrara o di Trento e tanti, tanti altri
gruppi, associazioni e singoli), generosità che sapeva suscitare, convinto
che le più di 200 costruzioni realizzate, dovunque testimoniavano per
lui. Molte erano anche le imprese ecuadoriane che lo rifornivano di
materiali di costruzione. Chi lo seguiva in tutte le vicende era la sua
segretaria, Carmen, sempre disponibile perfino a fare da autista,
conservava con cura l’amministrazione di tutte le iniziative, incaricata
dei pagamenti; aveva una particolare cura dei disabili, ospiti nelle
strutture di Amaguaña. Questo Centro diurno di terapia per disabili
raccoglieva ogni giorno più di ottanta persone, accolte, seguite, curate,
alimentate convenientemente da operatori specializzati. Erano i bambini
preferiti di p. José che egli visitava spesso, a più di un’ora di strada da
casa sua.
TOSAGUA – Ma torniamo alle sue opere, testimoni di povertà e di
amicizia. Dopo che sono stato trasferito nella parrocchia di Tosagua in
seguito alle minacce che ricevetti a S. Pablo dove ero stato assaltato, mi
resi conto che non si poteva organizzare la pastorale senza un minimo di
strutture. Senza Chiesa, senza canonica, senza sale per la catechesi e per
l’assistenza ai poveri; d’accordo con il vescovo mi rivolsi a p. José per
un progetto di ricostruzione. Le strutture precedenti, poste su una
collina, erano crollate in seguito agli smottamenti provocati dalle
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piogge. Scegliemmo il terreno nuovo, più adatto per tale progetto che
prevedeva una chiesa capace di 700 posti a sedere, una casa canonica,
un centro medico e un centro catechistico. Detto fatto. Il terreno piano
facilitava le costruzioni, ma era soggetto a inondazioni: fu necessario
costruire un terrapieno di un metro per evitare problemi in futuro.
Inoltre essendo zona sismica era evidente la necessità di adeguare le
strutture a questa realtà. Studiammo i progetti con un architetto e
l’ingegnere dell’equipe di p. José, sottoponemmo il tutto
all’approvazione della Curia vescovile di Portoviejo e al parere della
gente di Tosagua che era incredula sulla possibilità di realizzarlo e
studiammo i tempi e le scadenze. Pensammo anche di dividere i lavori
tra operai che venivano dalla Sierra e operai locali. Iniziammo con il
terrapieno fatto con camion e macchinari di Tosagua. In seguito scesero
venti operai della Sierra per porre le basi della chiesa, mentre si
preparava la struttura del tetto di ferro a Quito. Nel frattempo venti
operai di Tosagua iniziavano le basi della Canonica. La supervisione
generale era affidata all’ingegnere di Carollo, le spese erano per la
maggior parte sostenute dalla Curia di Portoviejo. Anche le porte e
finestre di legno furono fatte a Quito nella falegnameria di p. Carollo.
Il coraggio e la determinazione che ebbe p. José in questa fase mi
entusiasmarono e mi fecero dimenticare la brutta avventura vissuta a S.
Pablo di Portoviejo. La costruzione di queste strutture durò più di un
anno, tenendo conto della stagione delle piogge durante la quale si
sospesero i lavori, ma non mancava settimana che p. José non mi
facesse visita, per rendersi conto di persona come avanzavano i lavori e
come era coinvolta la comunità locale. A dire il vero, non l’avevo
interessata più di tanto, occupato com’ero in tante attività, sia pastorali
sia amministrative. Anzi, all’esigere dagli operai locali una resa nel
lavoro simile a quella dei serrani, i costegni rinunciarono all’impiego
non reggendo il confronto. Rimasi dispiaciuto perché la ritenevo in
qualche modo una opportunità di collaborare e di stare insieme, gente
delle due regioni. Frattanto apparivano evidenti i criteri delle opere di p.
José: semplicità, funzionalità, sicurezza, accoglienza e luminosità. Così
si presentano tuttora la Chiesa, il Centro medico, il Centro catechistico e
la casa Canonica. E’ stato scelto come nome del Centro medico, Cielos
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Nuevos completando il Tierra nueva del p. Carollo a Quito: la vita che è
dono di Dio, va rispettata e difesa.
VITA - Diceva p. José: “Come il sole, come la terra, come il cuore di
Dio papà, il sogno è che tutto il nostro esistere sia una fonte di vita, sia
al servizio della VITA. Tutte le qualità, tutto ciò che abbiamo imparato,
la nostra professione, TUTTO assolutamente tutto diventi fonte di vita,
questo è AMARE”. Il suo sogno stava per realizzarsi nel nuovo
ospedale: un Canto alla Vita che vide in uno stato bene avanzato, ma
non poté portare a termine. Nonostante le vanità e l’orgoglio esistenti
nella società, era pieno di fiducia nel futuro, avvicinando sempre più il
sogno alla realtà. Diceva: “In fondo, ciò che riempie il cuore del povero
non sono le cose, ma sentirsi amati, rispettati, valorizzati, stimati, tutti
con la stessa dignità”. Altro slogan suo era: “Pane e ottimismo”. “Dio si
commuove quando ci vede solidali, amici veri.” Ancora una volta pone
l’accento sulla necessità di vivere contenti nel raggiungere un minimo di
dignità. “Di solito diamo le briciole, non condividiamo, viviamo la vita
come se fosse sempre sotto attacco, in competizione”. L’amore di Dio è
incontenibile!
Non ultime, organizzava e accoglieva spesso le missioni mediche che
giungevano da ogni parte del mondo. Diceva: sono persone di tutti i
paesi e continenti uniti in questo cammino di solidarietà. Pakistani,
indocinesi, filippini, sudafricani, tedeschi, italiani, statunitensi e
latinoamericani: la solidarietà ci unisce, la preoccupazione per la
persona umana ci vincola, ci sentiamo più figli tuoi, Papito Dios!
Si era preparato alla morte. In tempi non sospetti, alla “Radio Maria”
diceva: “Apparentemente in questo momento si entra come in un tunnel
di tenebre. È la caduta di Paolo da cavallo, è la spogliazione totale nel
cammino di Cristo, dobbiamo cominciare a relativizzare tutto e
cominciare ad abbracciare la persona di Cristo. Importante in questo
momento è fare esperienza di questa persona, che illuminerà e sosterrà
la mia fragilità, la mia spogliazione da ogni orgoglio. Per me questa
stessa esperienza sarà nel momento della morte, davanti al capitolare
radicale. Solo la tua mano, Signore mi sosterrà, tutto il resto è relativo.
Tutto ciò è frutto di una scelta, di una opzione libera. Che nella mia
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morte, Signore, possa vivere questa opzione per incontrarti come
l’abbraccio di due amici e vivere una relazione eterna di amicizia”.
MALATTIA - Il mio rientro in Italia coincise con la scoperta e
l’aggravamento del male che lo affliggeva e quando peggiorò corsi da
lui lasciando in bianco la parrocchia nella quale avevo appena fatto
l’ingresso. Condivisi la sua pena, la sua caparbietà nel credere alla vita,
nel non cedere al male, sottomettendosi a tutti i trattamenti che gli
suggerivano i suoi poveri. Nella comunità della Santiago accettò in quei
giorni il desiderio delle suore di pregare celebrando l’unzione dei malati
comunitariamente. Incluso anche un momento di raccomandazioni come
sono soliti fare i padri di famiglia, in punto di morte, ai loro figli.
Dovetti interrompere la mia permanenza alla Quito Sur perché mi
giunse improvvisa la notizia della morte di mia madre. La mattina della
partenza, egli avrebbe voluto accompagnarmi all’aeroporto, come
faceva sempre, ma debole com’era, ci lasciammo piangendo in silenzio,
convinti che non ci saremmo più rivisti. Mi affidò i ciclostilati della sua
formazione pradosiana, come un vademecum. Era il 21 novembre del
2004. Non fui testimone delle sue ultime sofferenze se non attraverso i
racconti di chi lo assistette fino alla fine che sopraggiunse il 13 maggio
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2005 nella sua abituale, povera e disadorna cameretta, vicino alla
cappella.
Padre José aveva cercato e trovato soluzioni per i mali della gente,
penso alle tante strutture, in special modo agli ospedali che aveva
costruito, ma per il suo male non si incontrò rimedio. Mi vengono in
mente due esperienze: Gesù sulla croce e Santa Bertilla. Dicevano a
Gesù sulla croce: “Ha salvato altri, salvi se stesso” se è così sicuro della
sua fede. Fu la sfida finale per il suo credere alla VITA, così radicale
come abbiamo visto. E parafrasando Santa Bertilla ho pensato: a Dio la
lode, agli altri la salute, per sé la croce. Aveva dato tutte le sue energie
agli altri e, svuotato, rese lo spirito.
CONCLUSIONE – E’ stata una amicizia che a me ha fatto bene e
continua a farne, perché non solo ho imparato cose o idee, ma ne ho
visto qualcuna praticata coerentemente nella vita di tutti i giorni e
proveniente direttamente dal Vangelo. Per me, l’amicizia con p. Carollo
è stata un punto di riferimento nel passato, ed è una roccia anche nel
presente, ad essa accorro quando cerco testimoni della luce del Vangelo
così offuscata nel nostro tempo. Perché la sua vita è stata un modo
benedetto di vivere il Vangelo: attraverso di lui ho visto il Cristo. Ogni
santo, incarnando un aspetto del vangelo, mi aiuta a viverlo tutto e a
trovare una particolare via che diventi la mia.
Quando p. Carollo si rese conto che quello che stava vivendo poteva
essere l’ultimo giorno, accettò di condividere la sua fede con José
Castilla, che riporta le sue riflessioni alla fine del succitato libro che
spero di vedere presto tradotto. E’ come un testamento spirituale che
manifesta il suo amore alla preghiera, il suo modo di intendere il
rapporto Dio – Poveri – Vita e la fonte del suo impegno per le opere di
assistenza da lui costruite. Si è sforzato di accettare il Vangelo della
croce su cui lo Spirito lo aveva spinto non sempre dolcemente. E’ stato
circondato dalla tenerezza di tanti poveri che da lui l’avevano attinta, e
che sempre esigeva dal personale medico.
A questa tenerezza si riferisce nei nostri giorni papa Francesco: <Anche
se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare
avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il Signore a san
Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente
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nella debolezza» (2Cor 12,9). Il trionfo cristiano è sempre una croce,
ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con
una tenerezza combattiva contro gli assalti del male. Il cattivo spirito
della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il
grano dalla zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica.
(EG 85)
E ancora: “Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo
la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei
ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza
dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare
in contatto con l'esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza
della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre
meravigliosamente e viviamo l'intensa esperienza di essere popolo,
l'esperienza di appartenere a un popolo.” (EG 270)
Non è detto che sia facile!
D. Gaetano Bortoli
2015
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TESTIMONIANZE
Padre Carollo, un nome che per me vuol dire molto di più di
un’amicizia, mi rimanda ad un volto, ad una fisionomia ben definita
anche se di tempo ne è passato tanto dal nostro ultimo incontro. Padre
Josè Carollo per me è prima di tutto un “papà” che mi ha permesso di
aprirmi alla VITA.
Mi chiamo Mauricio Josè Polelli, nato a Quito nel luglio del 1986.
Subito dopo la nascita sono stato lasciato all’orfanotrofio delle suore
San Vicente de Paul, dove il p. Carollo mi ha visto e subito ha cercato
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una famiglia per me. Sono stato adottato da una famiglia italiana all’età
di sei mesi, ed oggi vivo a Ferrara e svolgo la professione di insegnate
di Religione per le scuole d’infanzia del Comune.
Leggendo le pagine di questo libretto mescolandole ai tanti ricordi che
ho del p. Carollo vorrei lasciare questa immagine di lui: “L’uomo della
Periferia”. Solo chi ha fede e amore per il prossimo si spinge verso le
periferie, senza portare nulla con sé se non la fede semplice in un Dio
che ama tutti e la passione per il bene di ogni uomo e donna che
incontra nel cammino della vita. Padre Josè Carollo non ha fatto altro
che mettersi al servizio della vita di ogni persona, in ogni luogo e
circostanza.
Dai suoi scritti personali posso testimoniare questi due pensieri che sono
per me certezza di vita: “la bontà di Dio”. Dio ama sempre, e ci ama
attraverso le persone che vivono al nostro fianco quotidianamente. Per
me p. Josè Carollo è stato un vero papà che mai mi ha fatto sentire figlio
non voluto ma dono provvidenziale e autentico di Dio. Il p. Carollo è il
mio papacito ecuadoriano!
“Dignità di ogni figlio e figlia di Dio”. In ogni persona c’è un’enorme
potenziale di bene da mettere a frutto. Grazie al p. Carollo ho una
famiglia che mi ama e che amo. Non meno importante, ho avuto la
possibilità di avere un’istruzione scolastica e una educazione a cui il p.
Josè teneva tanto: spesso nelle lettere che mi inviava mi ricordava il
dono di avere un’istruzione.
Piccole sfumature ma ben definite di quello che oggi sono, un uomo
italiano fiero della sua origine ecuadoregna. Grazie PADRE!!!
Mauricio Josè Polelli
“Para Luisa. Un grácias infinito por tu preséncia de bendición en esta
tierra de Dios, pero especialmente entre los pobres ... hácia los cuales te
sientes como signo de Dios y manifestación de su ternura incontenible.
Junto a Renzo y a tus hijos una bendición especial; te pido que cada día
junto con los tuyos eleve a Dios una oración para este hermano tuyo de
América. Besos y abrazos infinitos.
Con afecto especial”
p. José Carollo
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Quando partivo dall’Ecuador la prima cosa in aereo era leggere il
biglietto di p. Carollo, frasi immeritate, stupende. Conservo tutti questi
biglietti e le lettere speciali in cui ci chiedeva aiuti … impossibile non
attivarsi !!!
Così ho iniziato a vivere con il “famoso cuore inquieto” e questa nuova
dimensione di vita non cambierà più. Ho trascorso l’ultimo mese di vita
di p. Carollo vicino a lui, un grande dono.
Grazie a Carollo abbiamo conosciuto p. Gaetano Bortoli e questo è un
altro grande regalo che tuttora posso gustare.
Un abbraccio a tutti, in particolare a Maddalena e Mario.
Luisa e famiglia – Ferrara
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