1. I due significati della parola giustizia
Traggo dal libretto Amore e giustizia del filosofo Paul Ricoeur1 qualche idea per
inquadrare le riflessioni sul fatto storico che andiamo ad osservare. La parola giustizia,
nel discorso corrente, ha due significati distinti ma non separati: l'apparato giudiziario in
uno stato di diritto e la sua attività di giurisdizione; la giustizia come valore ideale “il cui
confine con l'amore è meno facile da tracciare”. Nel primo significato, la giustizia è una
pratica sociale che è “una parte dell'attività comunicativa”, ha carattere formalistico “non
come un difetto, ma come un punto di forza”, ed ha anche una sua etica: audi alteram
partem. Nel secondo significato, la identifichiamo quasi totalmente con la giustizia
distributiva di ruoli, compiti, diritti e doveri, vantaggi e svantaggi, benefici e impegni,
secondo il principio suum cuique tribuere.
Nelle aspirazioni etiche della coscienza comune, e nella tensione civile, i due
significati dovrebbero tendere a coincidere: cioè ogni giudice dovrebbe riuscire a
riconoscere ad ogni cittadino ciò che gli spetta, considerando i diritti secondo
un’uguaglianza aritmetica rispetto all'equivalenza di valore di tutti i cittadini, e
distribuendo vantaggi e impegni secondo un’uguaglianza proporzionale rispetto alle
diseguali condizioni e bisogni di ciascuno (trattare in modo simile casi simili).
La giustizia come pratica sociale segue una logica dell'eguaglianza e l'amore
come punto ideale di compimento di ogni giustizia segue una logica della
sovrabbondanza. I due piani non sono perfettamente sovrapponibili. La società deve
chiedere ai cittadini l'eguaglianza - quella aritmetica e quella proporzionale - e può
esigerla anche con la forza. Può anche chiedere loro la generosità - sentirsi in debito
reciproco, e non solo in contrapposizione di interessi - perché ne ha bisogno per non
vivere soltanto a livelli minimi o insufficienti di solidarietà, ma non può assolutamente
esigerla con la forza, per la natura dei valori in gioco. L'amore supera la giustizia. Tra i
due piani non c'è opposizione né estraneità totale, ma non può esservi coincidenza. Non
∗ Direttore de Il foglio, Centro studi Sereno Regis, Torino.
1 P. Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000.
sulla mediazione nei suoi vari aspetti, sul rispetto - che la nostra Costituzione impone dei diritti umani del reo, sono sempre attuali, e sono sempre riproposte sia da vari fatti di
cronaca, sia dalla riflessione etica e civile. La giustizia penale minorile, in particolare, in
questi ultimi anni ha tratto linfa da tali nuovi contributi e stimoli.
2. Le indicazioni dell’esperienza del Sudafrica in due studi italiani
A questo riguardo mi sembra molto importante l'esperienza fatta nella Repubblica
Sudafricana, per superare le conseguenze delle gravi ingiustizie del regime razzista
dell'apartheid3. Due libri, oltre a vari articoli e un’importante lezione accademica di
Johan Galtung, ci informano su questa vicenda ricca di indicazioni: un libro è di
Marcello Flores, Verità senza vendetta4, l'altro di Antonello Nociti, Guarire dall'odio5.
Molte parti del rapporto finale, pubblicato nell'ottobre 1998, della Truth and
Reconciliation Commission (TRC) sudafricana, presieduta dal vescovo protestante
Desmond Tutu, compaiono, con un'ampia introduzione del curatore, nel libro di Flores.
L'obiettivo, dopo la fine del regime di apartheid, non era e non poteva essere la
"giustizia dei vincitori", tipo Norimberga, ma la verità dei fatti per la necessaria
riconciliazione della società. Infatti, quella società non avrebbe potuto sopportare una
resa penale dei conti senza lacerarsi irreparabilmente. Inoltre, non c'erano vincitori
perché il conflitto, di cui tutti prima prevedevano la conclusione in un bagno di sangue,
si era chiuso con un saggio compromesso, senza vincitori né vinti. Avevano commesso
delle violenze non solo i bianchi nella difesa violenta della violenza sistematica
dell'apartheid, ma anche membri dell'African National Congress nella loro lotta, sentita
come “guerra giusta”. Ai colpevoli la TRC non chiedeva il pentimento morale, a scanso
di facili ipocrisie, ma l'ammissione completa delle loro colpe, e concedeva l'amnistia in
cambio della verità, restando su di loro solo la sanzione morale della società. Questi
2
Cfr. E. Peyretti, “Giustizia, anzi convivialità”, in Rocca, 15 dicembre 1991, p. 27.
Posso indicare il sito http://www.truth.org.za e un indirizzo elettronico: [email protected]
4 M. Flores, (a cura di), Verità senza vendetta. L’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la
riconciliazione, manifestolibri, Roma 1999.
5 A. Nociti, Guarire dall'odio, Franco Angeli, Milano 2000.
3
che “la più bassa vendetta”8. In una società democratica e laica, “la funzione della
giustizia non è di punire una colpa, ma di giudicare un delitto, non è di castigare un
colpevole, ma di mettere in condizioni di non nuocere un uomo pericoloso”9, e dunque,
in molti casi è possibile, in alternativa al carcere - che, così com'è, separa e de-socializza
invece di ri-socializzare - sviluppare le forme di mediazione ricostruttiva del rapporto
spezzato tra autore del delitto e vittima, e le misure di restituzione nel caso di infrazioni
contro i beni altrui.
Flores inquadra la singolare vicenda sudafricana del superamento dell'apartheid,
tra i fenomeni di transizione verso la democrazia di molti paesi a regime autoritario o
dittatoriale, avvenuta negli anni '90. Le rivoluzioni popolari nonviolente del 1989 che
hanno permesso l'abbattimento del Muro di Berlino10 sono il simbolo migliore di questa
transizione, insieme al processo sudafricano. In tutti questi casi sorge il delicato
problema del “fare i conti con il proprio passato”. Ma anche in paesi già democratici si
nota la tendenza verso una lettura giudiziaria della storia dell'ultimo cinquantennio:
processi ai nazisti in Francia e Italia, caso Pinochet, tribunali internazionali per exJugoslavia e Rwanda, fino alla futura più vasta competenza della Corte penale
internazionale, avviata a Roma nel luglio 1998. Sintomi, questi, ci pare, di un bisogno
positivo nel nostro tempo, che è violento, di giudicare la propria violenza. Ma questo
nostro tempo è anche, più di altri momenti storici, consapevole e allarmato della propria
violenza: ha bisogno, da un lato, di smascherare e perseguire violenze finora per lo più
coperte dall'impunità del potere politico, e dall'altro di contenere nei limiti del diritto
(che sono chiaramente violati dalle cosiddette “guerre umanitarie”) e in forme quanto
più possibile ristrette di forza, con nuovi princìpi e istituzioni, la risposta della giustizia a
quelle violenze, per evitare di prolungarne la catena.
6 J. M. Muller, Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris 1995, p. 14.
7 J. M. Muller, op. cit., pp. 145-149.
8 S. Weil, Écrits de Londres, Gallimard, Paris 1957, p. 41.
9 J. M. Muller, op. cit., pp. 146.
10
La migliore analisi comparativa di una dozzina di differenti interpretazioni delle vicende del 1989 si trova nel primo
capitolo del libro di G. Salio, Il potere della nonviolenza, Dal crollo del Muro si Berlino al nuovo disordine mondiale,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995. Salio sceglie infine ed espone come la più accurata e convincente l'interpretazione di
Johan Galtung, che valorizza in quelle vicende le possibilità reali di rivoluzione popolare nonviolenta in un regime
oppressivo.
è da conoscere e da meditare, anche per promuovere e proseguire dinamiche di riduzione
della violenza legalizzata di cui gli stati anche democratici hanno il monopolio e che
sembra tuttora, fatalisticamente, necessaria e irrinunciabile per l'ordine e
l'amministrazione della giustizia.
Davanti a crescenti fenomeni e ideologie di razzismo e intolleranza - che Nociti
segnala con forza serpeggianti nella società italiana nei confronti degli immigrati non
europei, col pericolo di un prossimo apartheid in Italia! -, di fronte a conflitti ad alta
temperatura di odio patito e riversato sull'avversario, i cercatori di pace nonviolenta
guardano alla coraggiosa e geniale esperienza sudafricana come proposta di un cammino
realistico e concreto, da ripensare in ogni determinato contesto, per il quale una società
lacerata, un'umanità lacerata, può guarire dall'odio. In Jugoslavia, tra Israele e Palestina,
è mancata questa consapevolezza, l'intelligenza di saper uscire dalla guerra.
3. L’interpretazione di Johan Galtung
Né Flores né Nociti hanno potuto citare la lectio magistralis tenuta a Torino da
Johan Galtung, laureato honoris causa in sociologia del diritto nel gennaio 199811. In
quell’occasione Galtung per primo rilevava bene gli aspetti di quest’esperienza
sudafricana fortemente innovatori dello stesso processo penale tradizionale, verso il
superamento della sua relativa violenza, innegabile sebbene sottratta ai privati e regolata
dalle garanzie processuali. Nella TRC sudafricana, più della punizione l'obiettivo è la
restituzione di dignità alle vittime offese (presenti solo marginalmente e non da
protagoniste nel processo tradizionale, spesso anche causa per loro di nuove dolorose
esperienze), attraverso il pubblico ristabilimento della verità dei fatti, e possibilmente
attraverso la ricostruzione del rapporto sociale e umano tra offensore e vittima. La
vittima, più che di vendetta, ha sete di riconoscimento delle proprie ragioni, che sono la
sua dignità violata, disconosciuta ma non perduta, a causa delle quali fu perseguitata e
violentata. Il colpevole, confessando, può anche esporre i motivi che, in quel dato clima
11 La lectio, dal titolo After the Violence: Truth and Reconciliation? South Africa, Latin America: Reflections on a New
Jurisprudence, è pubblicata in inglese sul Notiziario dell'Università di Torino L'Ateneo, anno XIV, n. 5, novembredicembre 1998, pp. 17-22; testo italiano presso il Centro Studi Sereno Regis, via Garibaldi 13, 10122 Torino.
risorse ci sono, vanno scoperte e valorizzate.
I "conti col passato" fatti dalla TRC si differenziano sia da soluzioni quali
l'amnistia generale italiana del 1946, oppure il "punto final" (data limite per
l'accusabilità dei militari della dittatura argentina, poi scagionati in massa per
"obbedienza dovuta"), sia dal processo penale tradizionale, che esercita una giustizia
quasi solo retributiva, o correttiva. In questo c'è verità (e pena) senza riconciliazione.
Nel "punto final" c'è riconciliazione senza verità. L'ambizione e necessità del Sudafrica è
la verità con la riconciliazione.
Ma ciò, segnala Galtung, è una proposta di progresso nella nonviolenza per ogni
comune processo penale. In esso, lo Stato che accerta il reato e punisce il reo, si
sostituisce alla vittima, espropriandola del diritto di vendetta, e a Dio, esercitando il
diritto di castigo. Questa dello Stato è una violenza legittimata, regolata, limitata,
razionale e non passionale, certamente preferibile alla vendetta privata, ma è pur sempre
una violenza, che dunque non opera davvero per liberare la società da questa infezione.
Come l'economia è un “mercato dei beni”, c'è qui un “mercato dei mali”, che non riduce
il male complessivo di cui la società soffre. La giustizia retributiva (anche quando non
vuole essere vendicativa, ma rieducativa, come prescrive la Costituzione italiana, art. 27)
accoppia ad un delitto una pena, cioè una sofferenza; risponde al male col male. Alla
violenza dell'autore sulla vittima risponde la violenza dello Stato sull'autore.
Nel processo giudiziario, protagonisti sono il criminale e il giudice. La vittima è
tagliata fuori, quasi invitata a saziarsi della pena inflitta al condannato (caso estremo: i
familiari che assistono all'esecuzione mortale, in Usa!). Soluzione arcaica, forse
deterrente (o eccitante? la criminalità è altamente recidiva), ma per nulla risolutiva. La
frattura sociale rimane, e quando spacca un'intera società è insopportabile: fascistiantifascisti in Italia dopo il '45; bianchi-neri in Sudafrica dopo il 1990-94. Ma le due
“Ubuntu” è il concetto, tratto dalla tradizione africana, che ha guidato e ispirato l'esperienza
sudafricana della Truth and Reconciliation Commission. Esso dice anche l'importanza che vi ha avuto
la componente morale e religiosa, sottolineata da Desmond Tutu, presidente della TRC, nel presentare
il rapporto conclusivo. Egli scrive che ubuntu “implica umanità, gentilezza, ospitalità, una
predisposizione ad impegnarsi a favore degli altri e ad essere vulnerabile. Comprende compassione e
spontaneità. Riconosce che il mio essere persona è legato al tuo essere persona perché noi possiamo
essere umani soltanto insieme”.
12
interpersonali e della coesione sociale13. Galtung, senza alcun’illusione di rapide
realizzazioni di una giustizia priva di ogni pena, propone che nel tradizionale “modello
giustizia” si introducano gradualmente elementi del “modello verità e riconciliazione”:
potrebbe restare la pena, ma accompagnata dall'obbligo del condannato di riflettere, di
scusarsi con la vittima (o la sua famiglia), di fare qualcosa che significhi una
restituzione. Il giudice, la vittima, il colpevole possono dialogare tra loro per
determinare la forma di questa restituzione-riconciliazione, che, insieme alla pena
stabilita14, chiuderebbe il caso. Ci sono studi, iniziative, prime attuazioni di questa
ricerca, che gli esperti conoscono. L'esperienza sudafricana è un nuovo impulso
importante.
A questo modello sudafricano non si è pensato per chiudere in modo alto e non
liquidatorio l'emergenza del terrorismo in Italia. Ad esso si dovrebbe ora pensare per
cercare di sanare le ferite degli odii etnici e della guerra in Kossovo, in tutta la vecchia
Jugoslavia, e in ogni simile conflitto, come quello così aspro e profondo tra Israele e
Palestina. Certo, occorre un'ispirazione morale superiore all'idea prevalente di politica,
ottusamente forzista15.
Tre sono i pilastri del "modello verità e riconciliazione" in Sudafrica, indicati da
Galtung:
13 Di questo o analogo concetto di giustizia, che egli chiama "trasformativa", tratta anche Chaiwat Satha-Anand, in Islàm e
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997, pp. 53-56.
14 Una notizia dell'agosto 1999 dice che in Italia otto condanne su dieci non vengono eseguite. Se il fatto è vero, significa
una vasta impunità dei reati, certamente negativa e corruttrice. Fuori dal caso di necessità di sopravvivenza della società,
come nella vicenda sudafricana, la pena, concepita ed eseguita in funzione positiva, correttiva, rieducativa, incoraggiante,
caratterizzata dalla certezza più che dalla durezza, appare ancora necessaria.
15 Alberto L'Abate ([email protected]) docente di Metodologia della ricerca sociale nell'Università di Firenze, presente per
circa un anno a Pristina per studio e come ambasciatore di pace, tra il 1995 e il 1997, e poi per iniziative di riconciliazione
in periodi anche successivi alla guerra), in un saggio “Kossovo: verità senza vendetta ma con giustizia?”, pubblicato nella
rivista Filosofia e teologia, n. 1/2000, riassume ampiamente il lavoro di Flores sul Sudafrica, e dedica le ultime pagine ad
un paragrafo intitolato "Sudafrica e Kossovo: c'è qualcosa da imparare?", nel quale presenta alcune possibilità esistenti,
nonostante lo strascico di vendette e di contro-pulizia etnica seguito alla guerra, e fa alcune importanti proposte per
applicare in Kossovo il metodo sudafricano. Il saggio è stato diffuso in lingua albanese da un settimanale di Pristina e poi in
inglese su richiesta di alcuni componenti della forza civile di pace dell'Onu in Kossovo. Di L'Abate si veda anche Kossovo,
una guerra annunciata, ed. La Meridiana, Molfetta, 2ª ed., 1999, che contiene l'attività e le proposte della diplomazia non
ufficiale per prevenire la destabilizzazione dei Balcani.
processo ricostruttivo della relazione rotta, con la possibilità di affermare pubblicamente
la propria dignità negata ed offesa; dall'altro lato, il colpevole non è solo colpito, ma
invitato ed aiutato ad uscire dal ruolo negativo.
Il Sudafrica, posto nella necessità di evitare la giustizia penale tradizionale per
salvare la propria società, - conclude Galtung - ha aguzzato l'ingegno e l'inventiva, e così
ha aperto nuovi sentieri nella giurisprudenza e nella nonviolenza positiva e concreta, col
considerare il crimine sia nella relazione autore-società-Stato (in funzione di Dio
giustiziere), sia nella relazione autore-vittima, con lo scopo primario di ricostruire
entrambe queste relazioni, e non solo la prima17.
16
Questo aspetto non è affatto nascosto dai lavori di Flores e di Nociti. Per la situazione generale del Sudafrica si veda, per
esempio: Sud Africa: riconciliazione, un processo molto lungo, in Riforma, 1-9-2000; Riconciliazione incompiuta,
intervista al vescovo di Durban Wilfried Napier, a cura di Maria Elisabetta Gandolfi, in Il Regno-Attualità, 15-11-2000, pp.
699-701.
17 Sul lavoro della Commissione Verità e Riconciliazione in Sudafrica, vedi anche: R. Ally (membro della stessa
Commissione), “Il primo esperimento al mondo”, in Donna, supplemento a Il Corriere della Sera, 11-17 marzo 1998, pp.
19-26; A. O'Hagan, “Sudafrica, la memoria dimezzata”, in Internazionale, 12 dicembre 1997, pp. 17-24; M. E. Gandolfi,
“Rivivere il dolore, riconoscere le colpe”, in Il Regno Attualità, 15 novembre 1998, pp. 649-652. Vedi infine la Conferenza
Internazionale Ubuntu (dal termine tradizionale africano sopra illustrato), tenutasi a Milano dal 3 al 5 maggio 2000, che
spera di avere una ripresa in futuro con la presenza di Desnond Tutu e Nelson Mandela (Comitato Ubuntu, tel 02-2901
4509; fax 02-700 428 598; e-mail: [email protected]).
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1. I due significati della parola giustizia Traggo dal libretto Amore e