1
La nascita del teatro d’opera impresariale a Venezia e
“L’incoronazione di Poppea” di C.Monteverdi
di Gentilini Cristian
2
Il melodramma, concepito come spettacolo a pagamento, nacque a Venezia, alla fine degli
anni trenta del XVII sec. La società veneziana era interamente fondata sul commercio, e i ricchi
aristocratici, proprietari dei teatri, videro in questo genere una forma d’investimento. L’opera in
musica, dopo la sua prima fase “cortigiana” svoltasi a Firenze e Mantova, si era spostata a Roma
dove, grazie alla particolare organizzazione sociale dello stato pontificio e al lavoro di musicisti e
letterati di rilievo, mutò forma e soggetti. Fu questo nuovo tipo di spettacolo, sensibile al gusto del
pubblico per soggetti realistici (come quelli tratti dalla agiografia dei santi) e per lo sfarzo scenicorappresentativo, che una compagnia di cantanti romani fece arrivare nella città lagunare, dove in
pochissimo tempo proliferò e si evolse ulteriormente.
Nel 1637 il librettista Benedetto Ferrari, ed il musicista di Tivoli Francesco Manelli,
compositore e cantore della cappella di San Marco, alla guida di una compagnia di cantanti romani
e veneziani, affittarono il teatro S. Cassiano (utilizzato fino a quel tempo solo per le
rappresentazioni della commedia dell’arte) e misero in scena l’Andromeda. La serata inaugurale era
riservata ai soli invitati ma, alle repliche seguenti tutti poterono assistere agli spettacoli mediante
l'acquisto di un biglietto d’ingresso. Prima d'allora lo spettacolo d'opera era concepito come un
evento unico e irripetibile, riservato a principi e nobili che potevano disporre di un teatro privato. Il
pubblico accolse con entusiasmo quest’innovazione e il successo ottenuto dall'opera in musica fu
tanto grande che i teatri pubblici si moltiplicarono rapidamente. La stessa compagnia l’anno
seguente rappresentò nel medesimo teatro la Maga fulminata; mentre due anni dopo s’inaugurò il
teatro dei SS. Giovanni e Paolo, fatto costruire dalla famiglia Grimani; nel 1640 fu inaugurato il
teatro San Moisè per volontà della famiglia Giustiniani; nel 1641 si aprì il teatro Novissimo, e
prima della fine del secolo, a Venezia esistevano ben 16 teatri.
La famiglia che faceva costruire il teatro agiva come impresaria oppure affittava la sala a chi
voleva assumersi il rischio dell'impresa. I palchetti, innovazione veneziana, erano affittati per la
sola stagione d'opera, oppure per tutto l'anno: per accedervi si pagavano quattro lire venete, mentre
con trentadue soldi si aveva diritto ad una sedia in platea. L'apertura del teatro pubblico diede e
all'opera in musica una base sociale, facendo mutare il suo carattere di forma d'arte aristocratica,
nella quale l'artista creatore era l'unico arbitro, in quella di un genere destinato a tutti. Lo spettatore,
assolto il suo obbligo pagando il biglietto, poteva accettare l'opera applaudendo, oppure rifiutarla
fischiando. L’impresario quindi gestiva la macchina teatrale, seguendo i gusti del pubblico che
svolgeva un’azione determinante sull’indirizzo del genere. La figura del cantante, soprattutto quella
del castrato e del suo virtuosismo vocale, acquistò in questo periodo una grande importanza, e
contribuì alla rottura dell’equilibrio tra recitativo e aria. Su quest’ultima, musicalmente sempre più
3
seducente, si concentrava l’attenzione e l’interesse del pubblico, e in questo contesto l’aspetto
letterario perse notevolmente d’importanza. In questo genere i personaggi utilizzati non erano più
quegli arcadici (Orfeo, Euridice, Dafne), ma prevalsero soggetti concreti: magistrati romani,
imperatori, gente comune, che avevano più presa sul pubblico. Per il medesimo motivo si giunse
alla mescolanza tra genere tragico e comico.
Durante gli anni quaranta la maggior parte dei librettisti veneziani apparteneva all’accademia
degli “Incogniti”, e anche Gian Francesco Busenello, noto soprattutto per le sue poesie in dialetto
veneziano faceva parte di questa confraternita. Egli fu l’autore dei libretti delle prime opere del
Cavalli (Gli amori di Apollo, Dafne e Didone) e fu probabilmente proprio il Cavalli che lo mise in
contatto con Monteverdi. Il pubblico era sempre più attratto dalle opere spettacolari, complicate,
dove la bravura dello scenografo e dei macchinisti faceva passare in secondo piano la creazione del
poeta e del musicista. Il Busenello però non sembra interessato al lato spettacolare della
rappresentazione, ma ai caratteri dei personaggi, alle emozioni e alle passioni che li fanno agire.
Questo suo stile risultava congeniale a Monteverdi e alla sua concezione estetico-musicale di
rendere gli affetti in musica.
La prima dell’Incoronazione di Poppea avvenne presumibilmente la sera di Santo Stefano del
1642 nel Teatro di SS. Giovanni e Paolo a Venezia e proseguì per tutto il carnevale dell'anno
successivo. L’opera ebbe subito un clamoroso successo e fra gli interpreti si ricorda la celebre Anna
Renzi, romana, che vi sostenne la parte di Ottavia. L'opera venne ripresa sempre a Venezia nel 1646
ed infine a Napoli dalla compagnia dei "Febi harmonici" nel 1651; non è escluso però che la stessa
compagnia l'abbia rappresentata anche in altre località finora rimaste ignote. In seguito
l'Incoronazione cadde in oblio fino alla riscoperta avvenuta in epoca moderna. La partitura
dell’opera ci è giunta in due redazioni manoscritte con significative divergenze tra l'una e l'altra,
conservate a Napoli e a Venezia.
L’argomento de L’Incoronazione di Poppea è tratto dal XIV libro degli Annali di Tacito, fonte dalla quale la cultura dell'età barocca traeva una visione etica e politica in pieno accordo con il
moralismo utilitaristico del proprio tempo. Il secondo atto attinge anche dalla tragedia Octavia
attribuita a Seneca. Nelle mani del Busenello il soggetto tacitiano subisce tutta una serie di
trasformazioni e stravolgimenti determinati da un lato da ragioni di moralità (o amoralità) del mondo romano nel venire traslato nella dimensione teatrale barocca, dall'altro da evidenti ragioni di
carattere spettacolare. L'immoralismo di fondo che trionfa in questo melodramma non deve stupire:
siamo nei primi anni dopo il 1640 quando da buona parte dell'Italia si registra una sorta di
insofferenza per quel pesante ed oppressivo moralismo imposto negli ultimi decenni del XVI
secolo. Di conseguenza si assiste a palesi fenomeni di generale rilassamento dei costumi e segna-
4
tamente ad un’impensata e coraggiosa affermazione di un particolare aspetto dell'erotismo. È
evidente che le estasi amorose di Nerone e di Poppea sono palesemente di carattere erotico. Ciò che
invece in quest'opera è convenzionalmente morale viene stigmatizzato e deriso come avviene con
chiarezza per le figure di Ottavia e di Seneca. Questo clima di totale rilassamento etico rispecchia,
grosso modo, l'ambiente della corte dove si rappresenta l'opera. Quarant'anni prima una così cruda
rappresentazione del mondo cortigiano sarebbe stata pericolosa anche se traslata nell'antichità
(pensiamo all'innocente satira "Privilegi della corte" del Vecchi nel Convito Musicale). È vero che
le corti erano palesemente corrotte però raramente venivano rappresentate con tanto spietato
realismo. L'incoronazione rimane dunque, oltre che uno specchio delle convenzioni teatrali e
spettacolari del tempo, una configurazione forse pessimistica ma non improbabile della società
barocca veneziana. Secondo C. Sartori sotto il soggetto storico dell’Incoronazione ci sarebbe celato
anche un riferimento alle vicende della corte di Mantova, dove Vincenzo Gonzaga aveva fatto
annullare il suo matrimonio con Margherita Farnese, e aveva sposato Leonora de’ Medici.
Busenello interpreta la storia con una certa libertà creando una trama dove gli avvenimenti si
succedono con un crescendo d’interesse, mescolando abilmente il drammatico, il patetico, e il
comico, anche se non esistono veri e propri personaggi comici. Sappiamo che Monteverdi
imponeva ai librettisti il suo modo di vedere le cose, ed era sempre pronto a modificare egli stesso il
testo quando questo non gli piaceva (si pensi alla collaborazione con Striggio e al finale dell’Orfeo).
Certamente il Busenello non è grande poeta, e non sempre sa sottrarsi al gusto del suo tempo: il suo
linguaggio è retorico e pomposo, ma nonostante questo il suo lavoro rivela una notevole modernità.
Dopo l’Incoronazione la sua poesia degenerò cedendo al cattivo gusto dilagante, inserendo sempre
più scene comiche, autentiche volgarità, alternate al tragico e al tragicomico. Per la
rappresentazione del 1642 venne stampato solamente l’argomento dell’opera; il libretto vero e
proprio come lo aveva concepito il poeta, senza le numerose modificazioni apportate dal musicista,
venne pubblicato solo nel 1656, nelle Ore Ociose: una raccolta comprendente i cinque drammi per
musica scritti dal Busenello. Dal confronto fra questa stampa e il testo riportato sulla partitura
musicale, si può vedere quali siano stati gli interventi montevediani sul testo, e valutarne il valore e
l’efficacia teatrale. Monteverdi vaglia e implacabilmente taglia e modifica scene, episodi, versi con
un’intuizione sicura dettata dalla situazione drammatica, dal momento scenico e da tutte le esigenze
teatrali. Il musicista sopprime, probabilmente per problemi legati al ritmo dell’azione il coro di
Virtù che, secondo il volere del Busenello, dopo il congedo di Seneca dai famigliari, cantava il
coraggio e la dignità del filosofo dinanzi alla morte. Dopo la scena in cui Nerone festeggia con gli
amici la morte di Seneca, il Busenello aveva previsto un duetto d’amore, che Monteverdi elimina in
toto, forse perché per esigenze formali quattro duetti gli parevano eccessivi. Dopo la scena
5
dell’incoronazione il librettista voleva finire con l’apparizione di Venere e un coro di Amori che
insieme cantavano la gloria di Poppea; anche qui il musicista prende un’importante decisione
aggiungendo come finale dell’opera un appassionato duetto d’amore, tra Nerone e Poppea.
LA VICENDA
Prologo. Fortuna, Virtù e Amore (probabilmente comparendo sopra una nube scenografica)
annunciano allegoricamente la "moralità" dell'opera: Fortuna svillaneggia Virtù definendosi unica
fonte di felicità; Amore proclama la sua sovranità su ambedue e a questo scopo porta come esempio
lo spettacolo che sta per iniziare.
Atto primo. Ottone sotto le finestre della casa di Poppea sfoga la sua travolgente passione
amorosa, quando improvvisamente s'accorge che le sentinelle di Nerone, fortunatamente
addormentate, sono nei pressi. Da ciò Ottone arguisce il tradimento di Poppea e lamenta la sua
infelicità e le vane promesse dell'amata. Le sentinelle si svegliano deprecando la loro condizione di
continui custodi dell'incolumità dell'imperatore, il quale s'affida esclusivamente ai consigli di
Seneca e poco si cura del dolore di sua moglie, l'imperatrice Ottavia, e dei disordini che travagliano
l'Armenia e la Pannonia. Nerone e Poppea escono e quest'ultima vorrebbe ancora trattenere
l'imperatore fra le sue braccia. Nerone è costretto a lasciare la sua amante poiché a Roma nessuno
dovrà sapere della loro relazione finché Ottavia non sarà stata ripudiata. Poppea spera
ambiziosamente di giungere al trono ma la fida Arnalta le fa presente i pericoli di morte che
incombono su di lei: infatti Ottavia ha scoperto l'amore segreto del marito e trama vendetta. Ottavia
si lamenta del suo triste stato di moglie tradita e di regina disprezzata, la nutrice la consola
esortandola a vendicarsi. Seneca esorta Ottavia a sopportare con dignità l'avverso destino che la ha
colpita quando un valletto si rivolge villanamente al vecchio filosofo tacciandolo di ciarlataneria.
Ottavia intanto informa Seneca che Nerone progetta di ripudiarla; Seneca considera amaramente le
spine che spesso si nascondono sotto i manti regali e riceve da Pallade l'annuncio della sua morte
imminente. Sopraggiunge Nerone e in un drammatico duetto col suo maestro, che tenta di
dissuaderlo, afferma la sua risoluta volontà di ripudiare Ottavia e sposare Poppea. L'imperatore
esprime tutta la sua sensuale passione a Poppea e le comunica il proposito di elevarla a dignità
regale. La donna esulta di gioia, indi subdolamente insinua che il potere di Nerone è nelle mani di
Seneca. In uno scatto d'ira l'imperatore ordina di eseguire la condanna a morte del vecchio filosofo
entro la sera stessa. Ottone disperato lamenta con Poppea la sua condizione di amante inconsolabile,
essa lo esorta a dimenticarla poiché ormai l'aspettano i fasti regali. Drusilla, segretamente
innamorata di Ottone, gli rivela il suo amore che viene ricambiato anche se il ricordo di Poppea è
6
ancora vivo.
Atto secondo. Seneca accoglie con gioia da Mercurio l'annuncio della sua morte imminente
cui poco dopo fa seguito il messo di Nerone con l'ordine fatale. I familiari di Seneca a tale notizia
sono costernati e commossi mentre li filosofo si prepara con grande serenità al trapasso. Nerone, in
compagnia di Lucano, profana la memoria di Seneca cantando lodi alle bellezze di Poppea. Ottone
depreca di avere accarezzato progetti omicidi verso l'amata Poppea quando sopraggiunge Ottavia
che lo induce, suo malgrado, a promettere di sopprimere l'amante di Nerone servendosi di abiti
femminili al fine di introdursi in casa di Poppea con maggior facilità. Ottone confida il suo piano a
Drusilla la quale, non senza esortarlo alla prudenza, gli consegna i suoi vestiti. Poppea invoca
Amore affinché possa vedere realizzato il suo sogno di diventare imperatrice. Mentre la donna
dorme, Amore scende dal cielo e s'appresta a difenderla dall'insidia dell'imminente attentato.
Ottone, nelle vesti di Drusilla, sta per uccidere Poppea quando per intervento d'Amore l'attentato
fallisce. L'allarme dato da Arnalta mette in fuga Ottone che viene scambiato per Drusilla.
Atto terzo. Drusilla attende trepidante Ottone quando giungono i soldati di Nerone guidati da
Arnalta che l'arrestano e la conducono al cospetto dell'imperatore dal quale viene condannata a
morte. Ottone allora si palesa come unico colpevole dell'attentato e Nerone lo condanna all'esilio e
alla perdita dei beni, gli permette però di portare seco l'appassionata e fedele Drusilla. Infine Nerone
ripudia Ottavia ed annuncia a Poppea che finalmente potrà diventare sua sposa. L'ex imperatrice in
un toccante lamento esprime tutto il suo dolore nell'abbandonare la patria e gli amici, mentre
Nerone e Poppea, acclamati dal senato e dai popoli, celebrano il loro trionfo in un’apoteosi cui
prendono parte anche Amore e Venere dal cielo.
L’Incoronazione di Poppea è la prima opera composta su argomento storico, ma la vera
novità sta nel carattere realistico dell’argomento, scelto senza nessuna preoccupazione moralistica:
l’amore tra Nerone e Poppea, un amore vero, sensuale, passionale, e non “arcadico” come quello tra
Orfeo ed Euridice. Il libretto del Busenello offre al musicista un vero dramma, cioè un conflitto di
passioni che in una stessa situazione provocano reazioni diverse nei diversi personaggi, e
condizionano il loro modo di agire: il dramma si sviluppa in una serie di episodi ben congeniati in
una vera progressione di tensioni. Dal punto di vista spettacolare L'incoronazione di Poppea non diverge dalle consuete creazioni veneziane. La presenza dì deità che intervengono copiose nella vicenda che peraltro tranne Amore che salva Poppea dall'attentato di Ottone possono essere agevolmente soppresse senza danno per la sostanza del dramma costituiscono un elemento spettacolare
allora imprescindibile da ogni rappresentazione operistica.
7
In questa ultima opera Monteverdi raggiunge il culmine della sua maturità artistica. È un
compendio di tutta la sua esperienza, in una perfetta sintesi di struttura e di espressione.
Drammaticamente L'Incoronazione è il prototipo dell'opera storica che doveva, di lì a poco,
muovere i primi passi con Cavalli. Musicalmente anticipa l'ordinato Settecento. Nella descrizione
affettiva dei personaggi si giunge a personalità dalla netta definizione: Poppea, ambiziosa, perfida
ed esperta nell'arte raffinata della seduzione; Nerone, il cui tradizionale aspetto di cinica crudeltà si
attenua e si stempera in una dimensione del tutto insolita, dominata dall’insaziabile passione a cui
egli è pronto a sacrificare tutto; Ottavia, la regina ripudiata, che alterna momenti di cupa
rassegnazione ad aneliti di fremente gelosia; Seneca, figura nobile e austera di filosofo, non priva
talvolta di una certa pedanteria; Ottone, infine, è forse il personaggio più interessante dal punto di
vista della caratterizzazione drammatica. Se, infatti, per Monteverdi l'umana realtà delle passioni in
conflitto è uno dei più validi motivi d'ispirazione, la figura di Ottone colpisce fra tutte proprio per
quest’angoscioso e continuo dibattersi fra opposte passioni: gelosia e sete di vendetta da un lato,
dall'altro, l'amore vano e senza speranza per Poppea. Tutta questa molteplicità di atteggiamenti
trova riscontro in una altrettanto ricca varietà di forme musicali: arie e ariosi soprattutto, inquadrati
da sinfonie e ritornelli strumentali e movimentati da frequenti passaggi in tempo ternario, e poi
duetti e terzetti. Un cenno particolare meritano anche i due soli cori: il primo, quello dei familiari di
Seneca nella sua articolata varietà ci richiama alla memoria i cori dell'Orfeo intercalati dai ritornelli.
Mentre questo primo coro si riallaccia in qualche modo alla tradizione del coro tragico, il secondo
coro di consoli e tribuni del terzo atto che viene introdotto in scena da una sinfonia che ha tutta
l'aria di una marcia trionfale ha già tutte le con notazioni funzionali e decorative del coro d'opera
tradizionale.
L'aria vive in quest'opera l'ultimo e più significativo atto di una straordinaria stagione: quel
momento in cui la melodia, non ancora legata a rigidi schemi formali, poteva ancora muoversi con
una certa libera inventiva, alternando ritmi diversi o introducendo frasi di recitativo o anche
basandosi sul sistema delle variazioni strofiche, in cui non solo il canto, ma talvolta anche il basso
trovano sempre nuove soluzioni. Le voci, sono ormai definitivamente orientate verso l'espressione
degli affetti. In campo strumentale, alla ricerca dei nuovi mezzi espressivi, si affianca e ben presto
s’impone la conquista di una tecnica strumentale autonoma. Questa tecnica strumentale porta
all’evoluzione di un nuovo stile che arriva a influenzare lo stile vocale, come soprattutto appare evidente nel nuovo tipo di diminuzioni che infiorano il canto nelle opere di questo periodo, che riproducono la caratteristica tecnica degli strumenti ad arco. Nel volgere di pochi anni, la tendenza alle
forme chiuse renderà di nuovo possibile il connubio delle voci con gli strumenti, ma il momento
delle ultime opere del compositore cremonese coincide con una forma vocale ancora libera, che gli
8
strumenti avrebbero forzato nei loro nuovi modelli ritmici, offuscando irrimediabilmente l'originaria
intenzione espressiva della musica.
In quest’ultimo dramma per musica monteverdiano la partecipazione strumentale è ridotta ai
minimi termini: due parti di violini e un cembalo per i ritornelli, e il basso continuo per
accompagnare le parti vocali, anche perché il teatro Grimano disponeva di una scarna orchestra. Sul
manoscritto dell’opera non figura alcuna indicazione strumentale. Per quanto riguarda la mancanza
di indicazioni scritte nelle opere veneziane, non bisogna dimenticare che la rappresentazione de
l'Orfeo riveste ancora il carattere dell'avvenimento eccezionale, di cui le indicazioni contenute nella
partitura offrono una sorta di resoconto legato a quella manifestazione particolare. Al contrario, nel
più stabile assetto del teatro pubblico veneziano si era verificato senza dubbio un processo di standardizzazione dell'orchestra, dovuto probabilmente anche a ragioni contingenti, che prevedeva l'uso
di determinati strumenti associato a determinate situazioni. Ecco perché non era neanche più il caso
di indicare per iscritto la strumentazione che la consuetudine rendeva già noto in partenza.
L’espressione drammatico-musicale e tutta concentrata nella voce dell’attore-cantante.
L’impiego delle varie forme musicali è regolato dalla situazione drammatica. Per questo motivo
esse appaiono sempre nuove e diverse, e anche le parti più liriche non sono mai statiche e
cristallizzate come accadrà nel melodramma di pochi anni più tardi. L’impianto drammatico poggia
interamente su un declamato di ampio respiro, che comporta elementi felicemente fusi di recitativo,
di arioso, e di parlar cantando. La transizione tra questo e le forme chiuse avviene con grande
naturalezza. La musica non ha nulla di spettacolare o di decorativo: non mira a creare ambienti o
atmosfere. La caratterizzazione dei personaggi è ottenuta con la pura espressione vocale, che di
volta in volta rivela i diversi aspetti del carattere. Nei dialoghi con Poppea, Nerone appare
carezzevole e sensuale con un’ombra di malinconia nella scena iniziale, poi violento nel secondo
duetto; infine gioiosamente trionfante nella scena che conclude l’opera. Con Seneca prevale
l’aspetto collerico e intollerante reso magistralmente con l’uso del concitato, quando l’ira diventa
esasperazione “Tu mi sforzi allo sdegno”. Con Drusilla si presenta crudele “Flagelli, funi, fochi…”
ancora con l’uso del concitato. La sua durezza esce quando ripudia la moglie Ottavia e la condanna
all’esilio. Quando eleva al trono la propria amante “Ascendi, o mia diletta” l’accento solenne e
soddisfatto, è reso dai vocalizzi sulla parola “gloria”. Appare poi di nuovo appassionato e ardente
nel fremente e quasi morboso duetto finale “Pur ti miro…”che costituisce una delle pagine chiave di
tutta l'opera: in esso appunto l'amore travolgente dei protagonisti viene presentato in un’idealizzazione musicale che ne evidenzia tutta la smoderata passionalità. Qui la delirante passione dei due
amanti trova la sua più ardente configurazione musicale nell'incessante intrecciarsi di movenze
9
sonore e nell'avvinghiante moto del contrappunti sorretti nella parte grave da un ostinato martellante
che sembra volere alludere all'unico pensiero che travaglia i sensi e la mente dei due protagonisti.
È la prima volta che, nel teatro musicale, appare una donna in tutta la pienezza del suo
temperamento sensuale. Poppea si rivela subito nell’inflessione della sua prima frase “Signor, deh
non partite…”, in realtà ella è ambiziosa e decisa a ottenere ciò che vuole, e Nerone non è che un
giocattolo nelle sue mani, che sa come raggirare a suo piacimento come si capisce nell’intonazione
della parola “Tornerai?”. Ancora più esplicitamente il suo vero carattere si rivela nella scena dove
si confida con Arnalta “Per me guerreggia Amor…”, e quando convince Nerone a condannare a
morte Seneca. Nell’aria “Il mio genio confuso…” Poppea che sta per essere incoronata appare quasi
incredula di fronte alla realtà di aver raggiunto il suo scopo. Questo stato è reso con melismi
voluttuosi e svagati.
Il carattere di Ottavia si manifesta subito nel monologo dove esprime il suo dolore per la sua
oltraggiata dignità di sposa e sovrana “Disprezzata regina…”, un recitativo-arioso cupo e veemente
che sfocia nell’agosciosa progressione “Dove sei? In braccio di Poppea dimori e godi…”. La sua ira
esplode poi nell’invettiva piena di violenza “Giove, se fulmini non hai per punir Nerone…”. Il suo
dolore riaffiora poi nel sobrio recitativo “Addio Roma…”.
Seneca compare in scena con un recitativo vagamente pomposo con vocalizzi e fioriture,
mentre davanti all’annuncio della sua morte trova accenti di vera nobiltà, in un arioso d’ampio
respiro e intensamente espressivo. Il recitativo “Amici è giunta l’ora” è uno dei momenti di maggior
tensione drammatica. Mentre i parenti, con un lento sviluppo cromatico ascendente pronunciano
una funebre trenodia corale “Non morir Seneca…”.
Il primo personaggio che appare in scena nel primo atto è Ottone. Si presenta con un lungo
recitativo melodico che nell’invocazione all’infedele Poppea si trasforma in arioso, ed è seguito da
un recitativo concitato “Io son quell’Otton…” che si intensifica attraverso l’insistenza del testo resa
musicalmente con un breve motivo ossessionante. Egli viene così caratterizzato come un uomo
dominato da un contrasto di sentimenti: l’amore, l’odio e il desiderio di vendetta. Nel trepido ed
appassionato monologo di Ottone non sussistono più schematologie prècostituite ma si trapassa da
un mezzo espressivo all'altro con la maggiore libertà: dall'arioso espressivo al recitativo senza soluzione di continuità ma solo seguendo l'ispirazione dell'urgenza drammatica.
Drusilla esprime il suo amore per Ottone nella bellissima Aria da capo “Felice anima mia…”,
e nella breve aria, viva e intensa, che prepara la scena dell’arresto. I due brevi, snellissimi ariosi:
“Misera me…” e “Adorato mio ben…” esprimono con sincerità intensa e appassionata il sentimento
della fanciulla, decisa a sacrificarsi per l’uomo che ama.
10
Monteverdi non tralascia nulla dei suoi personaggi, neppure in quelli secondari. Il
temperamento godereccio e lussurioso di Lucano si manifesta in una breve scena pervasa da una
vera orgia di vocalizzi. La nutrice di Ottavia è il personaggio meno caratterizzato, mentre Arnalta è
meglio delineata nei suoi colloqui con Poppea. La ninna nanna di Arnalta “Oblivion soave” è
un’aria del sonno archetipica il forma di canzone con variazioni. Il Valletto, che anticipa moduli
pergolesiani e mozartiani, appare beffardo nell'aria sfolgorante di comicità dove deride e motteggia
il vecchio filosofo. Questo ondeggiare ambiguo tra il comico, il tragico e il grottesco è una delle più
significative componenti della connotazione barocca dell'Incoronazione. Il carattere comico, venato
di erotismo, entra anche nella deliziosa scena d’amore (un vero intermezzo d’opera) tra il valletto e
la damigella. Persino i due pretoriani che vegliano davanti alla casa di Poppea sono disegnati con
estrosa bravura: l’uno arrabbiato per l’ingrato lavoro che deve fare contrasta con il patriottismo del
secondo.
Nell’Incoronazione, che diverrà il prototipo dell’opera storica, gli unici personaggi difettosi
drammaticamente, e di conseguenza anche musicalmente sono quelli mitologici, cioè gli interventi
del deus-ex-machina: Amore che riallaccia l’opera del passato. Nonostante questo, singolari motivi
d’interesse presenta anche l’aria di Amore “O sciocchi, o frali sensi mortali”, dell’atto II che ha
oltre all’indicazione autografa “Aria”, unica del genere in tutta l’opera, ha uno schema addirittura
quadripartito ABBA.
In quest’opera Monteverdi realizza mirabilmente l’ideale equilibrio tra espressione
drammatica ed espressione musicale. Dopo di lui il dramma per musica si trasformerà in
melodramma, la declamazione e il canto diverranno recitativo e bel canto.
Dal punto di vista metrico il testo del libretto si presenta molto omogeneo, prevalentemente
basato sull’uso dei versi endecasillabo e settenario. Questa regolarità è rotta saltuariamente dall’uso
del quinario (piano e tronco) e dell’ottonario. La sottile differenziazione tra recitativo e aria
presente nella musica rispecchia la struttura testuale. Le arie presentano una grande varietà per
numero di versi, strutture metriche e rime, e formano un continuum con il resto del testo. Anche nei
recitativi non mancano rime baciate, e non solo a fine periodo.
Riporto qui di seguito il testo del duetto finale tra Nerone e Poppea, non presente nel libretto
del Busenello:
Pur ti miro, pur ti godo,
Io son tua, tuo son io,
Pur ti stringo, pur t’annodo;
Speme mia, dillo, dì.
Più non peno, più non moro,
Tu sei pur l’idolo mio,
O mia vita, o mio tesoro.
Sì, mio ben, sì, mio cor, mia vita sì.
11
Bibliografia
DE’ PAOLI DOMENICO, Monteverdi, Rusconi, Milano 1979
GALLICO CLAUDIO, Monteverdi: Poesia musicale, teatro e musica sacra, Einaudi, Torino 1979
BIANCONI LORENZO, Storia della Musica vol.5, E.D.T., Torino 1982
Scarica

La nascita del teatro d`opera impresariale a