SAGGISTICA
GIANCARLO PORCU
La parola ritrovata
Poetica e linguaggio in Pascale Dessanai
con una proposta di edizione critica
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
© EDIZIONI IL MAESTRALE 2000 NUORO
ISBN 88-86109-48-2
IL MAESTRALE
A mia madre
e alla memoria di mio padre
Grafica e impaginazione
Nino Mele
Foto della Tavola di p. 104
Alessandro Contu
Edizioni Il Maestrale
via XX Settembre, 46
Tel.+Fax 0784.31830
08100 Nuoro
www.edzionimaestrale.it
INDICE
Prefazione di Emilio Pasquini
Una introduzione-avvertenza
Abbreviazioni bibliografiche e linguistiche
Premessa linguistica
PARTE PRIMA:
13
17
20
21
DALLA KOINÈ REGIONALE ALLA PARLATA LOCALE
I. Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
31
II. Verso l’appropriazione poetica della parlata locale
49
PARTE SECONDA:
PASCALE DESSANAI. LA VITA E L’OPERA POETICA IN SARDO
I. La vita
Nota bibliografica
Appendice documentaria
II. Nel laboratorio della tradizione
II.1. Manierismo logudorese
II.2. L’esperienza di «Vita sarda»
III.Realismo nuorese
III.1. Mi ribello a s’arcádica manera. L’affrancamento dalla linea arcadica
III.2. Chilibru e ghilinzone. La discesa nel reale
III.3. Su pizzinnu finit in presone. La discesa morale nel reale
III.4. Una lettura del Dessanai nuorese
Appendice. La metrica di Néulas
PARTE TERZA:
63
72
75
79
79
87
95
95
103
111
118
137
PROPOSTA DI EDIZIONE CRITICA DELLE POESIE DI DESSANAI
Notizia sul testo
155
Criteri di edizione
163
Indice
Indice
TESTI
DA NÉULAS
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
XI.
XII.
XIII.
XIV.
XV.
XVI.
XVII.
XVIII.
XIX.
XX.
XXI.
XXII.
Si essere……
Non b’àt itte isperare
Indifferenzia
Ámami
In s’ora de sa partenzia
A Madalena
Moribunda
T’adoro
Luntana
A Miriade Bondinata
Dolore
A Diana Bideton
Violas
Prinzipios de amore
Vanas presunziones
Rimembranzia
A Luchia C….
A Maria Wagner
Juramentu
Abbandonu
A Maria
Ultima pagina
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202
205
209
211
216
219
220
225
229
231
XXXI.
XXXII.
XXXIII.
XXXIV.
XXXV.
XXXVI.
XXXVII.
254
255
257
258
259
260
264
RIME VARIE E D’OCCASIONE
XXXVIII.
XXXIX.
XL.
XLI.
XLII.
XLIII.
Passende in Pattada
Leghende S’O de Giotto
Mustarolu
Per ballottaggio
Cassa sentz’arma
Zigarru
271
272
273
274
275
278
Ammentu
A s’amigu Baddore
Disizu vanu
Nue
285
288
290
292
ALTRE LIRICHE
XLIV.
XLV.
XLVI.
XLVII.
DA STECCHETTI
XLVIII.
XLIX.
L.
TESTI SARDI COMPARSI IN RIVISTE DELL’OTTOCENTO
Cherrende
Siccagna
A unu signoriccu divertiu
Torrau
In s’abba
Sa morte de Pettenaju
Sos campanones de Santa Maria
Cando, ruttas sas fozas…
Issa mi nabat
A Chillina
295
296
297
Da «Vita sarda»
XXIII.
XXIV.
XXV.
XXVI.
XXVII.
Cuntrastu
Malinconia
A Lia
A tie, bella durmida!
Cántigos de su coro
237
238
239
241
243
Da altre riviste
XXVIII.
XXIX.
Tempesta
[Flagellan sos iscoglios de Caprera]
247
248
Ribellione
253
RIME NUORESI
XXX.
APPARATI CRITICI
300
Bibliografia
Indice dei testi
Indice dei nomi
317
329
331
PREFAZIONE
Ricordo ancora quell’assolato luglio del 1998, quando a Bologna si discusse la tesi di laurea di Giancarlo Porcu, maturata sotto la mia guida; e un sentore di Sardegna penetrò nell’aula severa dell’Alma Mater. Avere oggi davanti agli occhi lo splendido sviluppo di quel lavoro, già per tanti aspetti meritorio, è di grande soddisfazione per chi l’ha visto nascere, che è dunque il testimone dell’alba: principale, se non unico, titolo per arrogarsi il piacere di
qualche parola introduttiva al bel libro che vede la luce in terra sarda.
Molti sono i meriti del giovane studioso e non vanno taciuti. Egli ha saputo dissotterrare un nutrito manipolo di documenti inediti, facendoli parlare
eloquentemente: ne risulta, fra l’altro, un garbato e vivace ritratto biografico
di Pascale Dessanai, dove spiccano i contatti con la Deledda e la sua attività
di traduttore (specie dallo Stecchetti, ora reso letteralmente ora riproposto in
un “tenero” rifacimento). Ha messo in campo la sua acribia filologica nella restituzione del testo critico di queste poesie, distinguendo opportunamente
quelle vigilate e date alla stampa dall’autore e quelle postume o prive di ogni
controllo da parte dello stesso. Ha accompagnato gli originali con una fedele
e indispensabile traduzione e ne ha indagato puntigliosamente (in un’accurata appendice) la metrica così complessa (metri “torrados”, “pesada”, ma anche
gli echi della sestina petrarchesca, la ripresa della terzina dantesca, la struttura ferrea del sonetto, eccetera), grazie alla sua vasta conoscenza della poesia sarda sondata nel suo insieme. Si è misurato con le classiche tesi di Gianfranco
Contini e di Pier Paolo Pasolini (ma ha fatto in tempo a utilizzare i contributi recenti di Franco Brevini), non senza introdurre i debiti correttivi atti a
spiegare le multiple combinazioni di Dessanai; e ne risulta una diagnosi persuasiva di “trilinguismo”, che vede interagire l’italiano e il logudorese “illustre” con il dialetto nuorese.
Sicura l’individuazione di un itinerario che muove dal laboratorio della tradizione (Néulas, 1890, in collaborazione con Amico Cimino), passa attraverso
la produzione depositatasi fra il ’91 e il ’93 nella rivista «Vita sarda» (con addentellati in Carducci e Stecchetti), perviene infine al realismo nuorese, con
l’esplicita ribellione alla arcádica manera. Ciò si verifica già a partire da Cuntrastu, del ’91, memore (… ma in s’ierru, cando tottu imbiancat, / si cunvertit in
13
Prefazione
luttu s’alligria, / a su pastore s’ánimu li mancat; ‘ma in inverno, quando tutto
s’imbianca, / si converte in lutto l’allegria, / al pastore viene a mancare l’animo’) della scenetta bucolica del “villanello” nell’Inferno dantesco (XXIV 4 ss.);
e poi decisamente con l’adozione del dialetto nuorese nel sonetto Cherrende
(‘Setacciando’) (1893), armonico “quadretto di genere”, nel gusto dei fiamminghi, non a caso accompagnato da un disegno del pittore Antonio Ballero,
complice di quella svolta verso il quotidiano e il mondo degli umili. Tale passaggio trova la sua migliore giustificazione nel giudizio formulato da Giancarlo Porcu: La cantabilità dei versi brevi cede il passo alla gravità dell’endecasillabo, alla sua vocazione narrativa. (…) Il vellutato logudorese della tradizione poetica,
immancabilmente impreziosito da italianismi di matrice letteraria, fa posto a un nuorese che non rifiuta l’andamento del parlato (p. 18).
Prefazione
no e dello Jeli verghiano: senz’ombra di facile espressionismo o di compiacimento letterario. Non fosse che per questo capolavoro, Pascale Dessanai merita davvero un posto di rilievo nella storia del realismo occidentale.
Emilio Pasquini
Bologna, giugno 2000
La grande poesia di Dessanai si estende per appena trecento versi; ma sono
versi che pesano, improntati a un’energia dialogica e romanzesca che meriterebbe ben altra quotazione nella borsa dei valori letterari. Sul tema, Porcu
scrive alcune delle sue pagine più incisive e pregnanti; che non esauriscono
però le potenzialità dei testi, degni di figurare in un’ideale antologia della
poesia dialettale europea, fra Carlo Porta e Delio Tessa. Un tardo Ottocento,
che tuttavia conserva sapori più antichi, quasi archetipici. Ad esempio l’apertura di Siccagna (‘Siccità’), Mandat su sole ’e Aprile tristos rajos, / rajos tremendos
de sámbene, alluttos! / Ingrogan sos labores, mesu ruttos… (‘Il sole d’aprile manda
tristi raggi, / tremendi raggi di sangue, infiammati! / Le messi cadenti ingialliscono’) potrebbe suggerire i tratti di uno dei Sonetti di Quevedo (A todas
partes que me vuelvo veo / las amenazas de la llama ardiente…). Analogamente,
l’avvio di Miro este monte que envejece enero / y cana miro caducar con nieve / su cumbe… sembra quasi per miracolo riemergere nell’incipit di In s’abba (‘Alla fonte’): Fit una die ’e iberru mala e fritta, / fit bentu, fit froccande a frocca lada… (‘Era
una brutta e fredda giornata d’inverno, / faceva vento, fioccava a larghi fiocchi’): dove poi spicca la figurina di Mariedda, che ha fatto cadere la brocca e
si dispera pensando alla punizione che l’attende (chi li cazzan su frittu chin sa
socca; ‘che le levano il freddo con la frusta’).
Vertice assoluto del nuorese di Dessanai, ugualmente lontano dall’italiano
letterario e dal logudorese illustre praticati dal poeta nella sua giovinezza, resta però Sa morte de Pettenaju, dove il linguaggio della sottostoria si mescola a
una feroce bile anticlericale, come in certi esiti del Porta (On funeral o il Meneghin biroeu). Due quadri di taglio diverso, ma teatralmente complementari.
Da una parte, la morte del povero pescatore di stagni, cui si contrappone l’indifferenza del prete beone e linguacciuto; dall’altra la scena della famiglia del
defunto, che si prepara al funerale: il cagnolino ululante accanto al padrone ormai chiuso nella cassa, le donne in pianto e la contesa fra gli uomini per le reti di Pettenaju. Un supremo realismo creaturale, degno del Marchionn portia14
EMILIO PASQUINI insegna dal 1975 Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Studioso delle Origini e del Duecento, di Leopardi, Stendhal,
Montale, ma soprattutto di Dante e del Quattrocento (Le botteghe della poesia, 1991). Nel
campo filologico è noto quale editore delle Rime del Saviozzo (1965) e per interventi sul testo dei Trionfi di Petrarca (1975 e 1998). Commentatore dei Ricordi di Guicciardini (1975)
e, in collaborazione con A. E. Quaglio, della Commedia dantesca (1982-1986).
15
UNA INTRODUZIONE-AVVERTENZA
Chi intraprenderà la lettura di questo libro, magari saltando l’introduzione,
affidandosi da quel punto in poi e con diligenza all’ordine del compilatore e,
quindi, attendendosi fin dal principio quanto il titolo gli promette, si troverà
a dover fare i conti con un buon numero di pagine iniziali dove Pascale Dessanai (la promessa) è soltanto un volto sfuocato di una fotografia di gruppo. E se
non fosse per qualche accenno in cui il compilatore inadempiente si ricordi la
parola data, il lettore, tradito, si troverebbe a ricontrollare copertina e frontespizio, dubitando forse di un grossolano errore nell’allestimento.
Il fatto è che quando iniziai a frequentare Dessanai e i suoi corregionali che
prima, con e dopo di lui si erano cimentati nel verso, mi resi conto che per raccontare buona parte delle loro imprese occorreva assumere un modello estetico
che non fosse quello del dialettale avverso alla letteratura in Lingua ma, al contrario, omaggiante nei confronti di questa. Ma soprattutto mi accorgevo che
mancavano alcune irrinunciabili nozioni. Su tutte: quelle di logudorese illustre e
di tradizione logudorese. O meglio, se esisteva, la nozione di logudorese illustre,
non la si poteva di certo usare con disinvoltura, come se avesse passato il vaglio
di una secolare tradizione critica. Stranamente, quello dell’esistenza nella Sardegna centro-settentrionale di una lingua poetica sovraregionale su base logudorese era ed è fatto notorio ma non ha ricevuto che pochissime cure da parte
degli specialisti, fatta eccezione per qualche illuminante pagina del Wagner.
Perciò, dopo una necessaria Premessa linguistica sui due “tipi di sardo” usati da
Dessanai (il logudorese illustre, appunto, e il nuorese), le prime pagine di questo libro s’interrogano, da un punto di vista strettamente funzionale, sullo statuto di questa “lingua della poesia”. La cui presenza, indubbiamente forte, obbligava a non affidarsi ad uno schema di bilinguismo letterario (lingua [italiana]dialetto [nuorese]) mentre imponeva l’elaborazione di un sistema a tre elementi, un trilinguismo (Lingue [italiana e logudorese]-dialetto [nuorese]). Ciò sta a
significare (ed oggi mi è ancora più chiaro) che la qualifica di dialettale spetterebbe più giustamente al poeta in nuorese (o in altra lingua minoritaria che sia
altro dalle koinai nazionale e regionale), mentre il poeta in logudorese illustre
è pur sempre un poeta in Lingua, in lingua sarda.
Inoltre, questa tradizione interna logudorese assumeva un’importanza sempre
più centrale mano a mano che prendevo confidenza con quei poeti che dal Settecento in poi hanno operato nella Sardegna centro-settentrionale. Dessanai,
17
Una introduzione avvertenza
nella sua polemica contro l’usata poesia, ha per bersaglio privilegiato i colleghi
corregionali e non già illustri esempi italiani. La contesa aveva dunque bisogno
di un arbitraggio che tenesse conto di questa prospettiva regionale; e credo non
mancherà chi si stupirà della lettura prevalentemente sarda qui proposta. Chi
legge sappia che a chiedermela insistentemente è stato l’oggetto osservato.
Dessanai si rivela un fondamentale artefice dello svecchiamento della poesia
in lingua sarda. Ma è pensabile che non sia operatore isolato e solitario. Anzi,
credo che ulteriori ricerche possano rivelare nuovi compagni di viaggio o ricollegare il poeta nuorese a un preesistente filone alternativo rispetto alla tradizione illustre sarda. Sicuramente il suo operato si colloca al culmine di un accidentato percorso già intrapreso, anche se con più incertezze, dai suoi predecessori, specialmente nuoresi. Alla ricostruzione di questo cammino (prodromi,
se si prende come punto di arrivo Dessanai) è dedicato il secondo capitolo della prima parte (ulteriore rinvio della promessa inizialmente fatta al lettore), dove si tenta di illustrare un passaggio capitale nella storia della poesia sarda: l’annessione poetica delle parlate minori. È in verità un argomento che avrebbe richiesto spazio ben maggiore di quello che qui gli è stato riservato, ma lo scioglimento di una problematica così vasta, per un verso esula dallo scopo di questo lavoro, per l’altro richiede conoscenze e competenze che spero siano più in
là in mio possesso.
La seconda parte del libro riguarda finalmente Pascale Dessanai e, attraverso
un andamento cronologico e ascendente, ripercorre le tappe del suo tragitto
poetico, privilegiando un taglio linguistico che tiene conto del quadro più generale delineato nella prima parte. La tesi di fondo è limpida. Dal collaudo giovanile della tradizione logudorese, testimoniato dalla raccolta Néulas, si passa a
una fase sperimentale in cui vengono messi in discussione i modelli principali
della poesia sarda illustre; un mutamento di poetica che dovrà passare per il superamento della lunga arcadia sarda (un nodo essenziale nella storia della poesia isolana, già lucidamente indicato, fra gli altri, proprio dal figlio del Poeta,
Sebastiano Dessanay). Lasciati i toni elegiaci, i contrasti amorosi, le invettive
da amante gabbato, Dessanai si piega alla contemplazione di un reale fatto di
miserie e sopraffazioni, dove né si invoca la mala sorte e né si cede a un generico populismo, ma lo sguardo del poeta, disilluso, restituisce un mondo che
pare capace di produrre solo crudeltà, dove il rispetto si misura a beni immobili e col danaro. È una critica feroce quella di Dessanai, che non assume però
i toni comizianti di certa poesia protestataria, ma si traduce in gesti, azioni e
oggetti. La lucidità di questa rottura è dimostrata da un concomitante rivolgimento stilistico. La cantabilità dei versi brevi cede il passo alla gravità dell’endecasillabo, alla sua vocazione narrativa. L’Io lirico non lascia traccia nel narratore nuorese, teso verso l’oggettività, intento a dar voce ai suoi personaggi, immerso in una continua mimesi. Il vellutato logudorese della tradizione poetica,
immancabilmente impreziosito da italianismi di matrice letteraria, fa posto a
un nuorese che non rifiuta l’andamento del parlato.
18
Una introduzione avvertenza
La seconda parte, insomma, argomenta analiticamente queste faticose conquiste (per le quali rimane sempre vivo il rammarico che non siano meglio testimoniate: viene difficile pensare che il Dessanai grande abbia prodotto solo
quella manciata di testi che oggi abbiamo la fortuna di leggere). Spesso ho temuto che il lettore avrebbe potuto perdere le fila del discorso tra gli esami anche minuziosi cui i testi vengono sottoposti. In verità, questa mi è sembrata e
mi sembra tuttora l’unica via perseguibile, soprattutto per un poeta come Dessanai, per il quale non disponiamo di testimonianze dirette e d’autore, che ci
avrebbero certamente guidato a precisare meglio le intenzioni del poeta. In casi come questi (e Dessanai non è l’unico poeta sardo pre-novecentesco a patire
tale scarsità di documentazione) l’imperativo è dar voce ai testi. La mia speranza è quella di esservi riuscito.
La prima e la seconda parte di questo libro rappresentano un riadattamento della tesi di laurea da me discussa nel luglio del 1998 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Bologna (relatore prof. Emilio Pasquini). Nuovo, in parte, è il progetto di edizione critica, che in sede di dissertazione accademica riguardava la descrizione del patrimonio testuale dessanaiano reperito e la costituzione critica del testo dei
soli componimenti oggetto di trattazione. Mi rendo conto che sarebbe stato utile corredare i testi di un commento puntuale (linguistico ed esegetico), ma per questa occasione, d’accordo con l’editore, ci si è limitati alla proposta del testo critico (per ora, mi
illudo che, quale ideale commento ai testi, il lettore possa avvalersi della PARTE SECONDA di questo libro). Spero vivamente che in futuro si presenti l’occasione per allestire un’edizione commentata dei versi dessanaiani.
Ringrazio qui coloro che hanno di fatto contribuito al reperimento del materiale senza il quale questo lavoro non si sarebbe potuto considerare tale: Tzitzita Dessanay, Tiziana Floris, Valeria Guido, Laura Manca, Anna Offeddu, Fernando Pilia, Michele Pintore, Mario e Martino Salis, Paolina Sanna, Antonello Satta e la signora Fanny Satta.
Mi piace poi ricordare anche la cortesia del personale della Sezione Sarda della Biblioteca Sebastiano Satta di Nuoro, delle Universitarie di Sassari e Cagliari e dell’Archivio Storico Comunale di Cagliari.
Desidero inoltre ringraziare il prof. Emilio Pasquini che con rara disponibilità e
competenza ha riletto il testo. Tra i lettori privati un grazie va a Laura Pala e Gianfranco Coizza. All’amico Luca Reginelli devo una lettura scrupolosa e profondamente
partecipata. Un grazie affettuoso a Fausta.
G.P.
Núoro, aprile 2000
19
ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE E LINGUISTICHE
CPS
GIOVANNI SPANO [a c. di], Canzoni popolari di Sardegna, a c. di Salvatore Tola, prefazione di Alberto Maria Cirese, Nuoro, ILISSO, 1999, 4 voll.
DES
MAX LEOPOLD WAGNER, Dizionario etimologico sardo, 3 voll., Heidelberg,
1960-1964.
GSN
MASSIMO PITTAU, Grammatica del sardo-nuorese, Bologna, Pàtron, 1972.
HLS
MAX LEOPOLD WAGNER, Fonetica Storica del sardo [Historische Lautlehre des
Sardischen, 1941], introduzione, traduzione e appendice di Giulio Paulis,
Cagliari, 3T, 1984.
OS
GIOVANNI SPANO, Ortografia sarda nazionale, Cagliari, Reale Stamperia, 2
voll., 1840.
PDN
GONARIO PINNA [a c. di], Antologia dei poeti dialettali nuoresi [1969], Cagliari, ed. Della Torre, 1982.
log.
logudorese
log. ill.
logudorese illustre
nuor.
nuorese
PREMESSA LINGUISTICA
La produzione in sardo di Pascale Dessanai si muove entro due principali poli linguistici: il logudorese illustre (log. ill.) e il nuorese (nuor.). La prima è la lingua poetica sarda tradizionale; la seconda, codice più appartato e privo di tradizione letteraria, è la lingua materna del poeta. Per l’intelligenza linguistica della poesia di Dessanai è, dunque,
d’obbligo premettere qualche annotazione sulle differenze che intercorrono fra questi
due codici1.
Va subito precisato, ma lo si vedrà meglio in seguito, che il log. ill. non è una vera
e propria varietà dialettale, localmente circoscritta. Per esso s’intende quella lingua codificata nella prassi poetica sarda, a partire almeno dal Cinquecento, e diffusasi massimamente nella Sardegna centro-settentrionale. Se dal punto di vista strettamente dialettologico vale l’avvertenza del Pittau:
Il “logudorese” in effetti non è altro che una vera e propria “astrazione”, alla quale anche
noi linguisti siamo costretti a ricorrere al fine di indicare un’ampia serie di dialetti centrosettentrionali della Sardegna, i quali presentano un notevole numero di affinità, grammaticali e lessicali, fra loro. Nella realtà concreta dei fatti, invece, esistono, anche in quella zona
dell’Isola, tanti dialetti quanti sono i centri abitati2.
da un punto di vista letterario il logudorese poetico non è affatto una astrazione ma un
dato che inequivocabilmente appartiene alla versificazione tradizionale della vasta regione su indicata, la quale attesta nella lingua una concordanza di esiti fonetici comuni a più parlate logudoresi.
In queste pagine preliminari metteremo in evidenza esclusivamente i tratti separativi
di maggior frequenza tra questa koinè e il nuorese, corredando la discussione con esempi
presi da testi di Dessanai. Non si tratterà, quindi, di un esame comparativo sistematico
ed esaustivo. Su altre particolarità si avrà modo di tornare nel corso della trattazione.
1 La presente Premessa è stata divisa in brevi paragrafi, segnalati con cifre romane, per consentire un veloce rimando alla stessa nel corso della trattazione; ad es.: Prem. Ling. III, rimanderà al paragrafo terzo della Premessa linguistica. Ai testi di Dessanai si rinvia secondo la numerazione della edizione proposta in questo volume.
2 MASSIMO PITTAU, Lingua dialetti e poesia di Sardegna, in «Frontiera», a. I, n. 6, giugno 1968
(pp. 209-210), p. 209.
20
21
Premessa linguistica
Premessa linguistica
Le differenze più numerose tra log. ill. e nuor. riguardano il consonantismo.
I. In nuor., come in altri dialetti della Sardegna centrale, si riscontra il mantenimento delle occlusive sorde intervocaliche latine -P- e -K-: ape (‘ape’) e boche (‘voce’), che in log. si leniscono diventando fricative, abe [aβe] e boghe [boγe], e come
fricative vanno lette nella poesia logudorese, non trattandosi di sonorizzazione pura e semplice:
In nuor. si conserva anche CL- (ugualmente con rotacismo): CLAVE > crae; palatalizzato in log.: giae (‘chiave’).
V. Mentre il nuor. ha la semivocale -J- in posizione intervocalica: pejus (‘peggio’)
e oje (‘oggi’), in log. ill. vi è dileguo: peus e oe, voci poco usate dal Dessanai logudorese, mentre si possono citare casi in cui compare la forma nuorese:
Nuor.
Log. ill.
Nuor.
E chin boghe dolente3
una boche respondet: «Pettenaju»4
II. Il nuor. conserva anche -V- e -B- intervocaliche latine (con -V- condizionata
da betacismo) che divengono fricative: ribu [riβu] (‘fiume’) e ube [uβe] (‘dove’); in
log. ill. risponde il completo dileguo delle stesse: riu e ue:
Log. ill.
Nuor.
Si essere riu, deo toccare dia5
e lu juchet su ribu traza traza6
Le differenze fonetiche fin qui evidenziate testimoniano la maggiore fedeltà del nuorese alla radice latina, rispetto al logudorese. In un altro caso, esposto qui sotto, il nuor.
si comporta in maniera tutt’altro che conservativa
VI. In corrispondenza di participi passati e derivati (sostantivi deverbali e tempi verbali composti dagli ausiliari più participio), la -T- intervocalica latina sparisce, dando luogo, nella prima coniugazione, allo iato tra a e u. In log. la -T- si sonorizza in -d- (fricativa)13
I coniugazione (verbo torr-are):
Dileguo che consente anche di distinguere la forma log. della seconda persona del
pronome personale, a tie, da quella nuor., a tibe [tiβe], in caso dativo (anche il pronome personale di prima persona, allo stesso caso, differisce: log. a mie, nuor. a mimme).
III. In alcune voci logudoresi si registra il dileguo di -G- (occlusiva velare latina
> fricativa in nuor.) intervocalica: log. ill. nieddu7, nuor. nigheddu [niγeddu] (‘nero’):
Log. ill.
Nuor.
nieddas nues minettan sa tempesta8
porrin a Marcu su pannu nigheddu9
Log. ill.
Nuor.
3
22
II coniugazione (verbo pèrd-ere)
Log. ill.
Nuor.
Affliggidu e pienu ’e sentimentu10
Cuntentu prenat una perra ’e tzucca11
[E con voce dolente] II, 29.
[una voce risponde: «Pettenaju»] XXXVI, 6.
5 [Se fossi fiume, io toccherei] I, 13.
6 [e il fiume lo trascina con sé] XLIII, 38.
7 Cfr. HLS, 114.
8 [nere nuvole minacciano tempesta] XXVIII, 2.
9 [porgono a Marco il panno nero] XXXVI, 90.
10 [Afflitto e pieno di dolore] II, 22.
11 [riempie contento una mezza zucca] XXXVI, 27.
4
fis tue, chi torradu m’às poetta14
de ti lu bier s’onore torrau15
Il fenomeno non investe i participi al femminile della prima coniugazione, onde
evitare il contatto fra vocali omofone (a-a); in ciò il nuor. non differisce dal log. ill.
Dal verbo lassare si avranno i maschili lassadu e lassau (rispettivamente in log. e in
nuor.), ma il femminile lassada sarà comune al log. e al nuor. Nella seconda e nella terza coniugazione la scomparsa della -d- (-T- latina sonorizzata) dà luogo allo iato tra i e u, nei maschili, e tra i e a nei femminili:
IV. Nel nuor. i nessi latini PL- e FL- si conservano condizionati da rotacismo: prenu (‘pieno’) e frore (‘fiore’), la lingua poetica predilige le forme palatalizzate tipiche
del logudorese settentrionale: pienu e fiore
Log. ill.
Nuor.
sa curpa est tottu sua, pejus pro issa12
chi diccia mi às pérdidu ispassu e gosu!16
fintzas s’isettu pérdïu nd’aia17
12
[la colpa è tutta sua, peggio per lei] XXXIX, 11.
Probabilmente il nuor. condivideva un tempo con il log. la pronuncia sonorizzata della -T-,
poi dileguatasi completamente forse per un’innovazione proveniente dall’area meridionale dell’Isola, dove vige la pronuncia con dileguo. La -T- si conserva ancora in Baronia e nella zona che
i linguisti sono soliti denominare bittese.
14 [eri tu che m’hai restituito poeta] XIX, 32.
15 [di vederti restituito l’onore] XXXVII, 114.
16 [che mai levato felicità, spasso e godimento!] IX, 4.
17 [ne avevo perduta persino la speranza] XXXIV, 8.
13
23
Premessa linguistica
Premessa linguistica
III coniugazione (verbo battire)
log.
nuor.
Log. ill.
lass-aia
lass-aias
lass-aiat
lass-aiamus
lass-aiazis
lass-aian
lass-abo
lass-abas
lass-abat
lass-abamus
lass-abazes
lass-aban
Nuor.
ma deo maleighende cudda sorte
chi m’àt battidu a lughe18
battiu nd’às de binu nigheddu19
Il dileguo della -d- intervocalica si registra nel nuor. anche per la seconda persona plurale del presente indicativo, in tutte le coniugazioni:
I coniugazione: (torrare)
II coniugazione: (pèrdere)
III coniugazione: (battire)
log.
nuor.
torrades
perdides
battides
torraes
perdies
batties
VIII. In log. ill. il gerundio in tutte le coniugazioni ha l’uscita unica in -ende,
mentre il nuor. conserva la vocale tematica (a, e, i) dell’infinito:
I coniugazione: (lass-are)
II coniugazione: (cherr-ere)
III coniugazione: (batt-ire)
Allo stesso modo si comporta l’imperativo (log. ill. formade, lassade, nuor. formae,
lassae):
Log. ill.
Nuor.
Formade, sì, formade,
Ojos sentimentales, rios mannos20
Lassae a cando fachet sa finia21
log.
nuor.
lass-ende
cher-ende
batt-ende
lass-ande
cher-ende
batt-inde
IX. Il log. ill. contempla il tempo perfetto (passato remoto) uscente in -esi:
L’isco chi troppu azzardesi23
VII. Si notino queste altre divergenze riguardanti la flessione verbale. L’imperfetto indicativo della prima coniug. in nuor. ha la forma in -abo, il log. ill. in
-aìa22:
mentre il nuor. non ammette questo tempo verbale, usando solo il passato prossimo di forma composta (ausiliare áere [avere] più participio passato del verbo)24.
X. Altre differenze tra log. ill. e nuor. riguardano la flessione dei possessivi:
18
[Ma io maledicendo quella sorte / che mi ha dato alla luce] II, 43-44.
19 [hai portato del vino nero] Visita a Bitti, v. 8 (sonetto lacunoso, assente dalla nostra edizione critica, contenuto in SD; vedi Notizia sul testo).
20 [Formate, sì, formate, / occhi dolenti, grandi fiumi] XI, 31-32.
21 [Lasciate che sia tutto pronto] XXXVII, 104.
22 Dessanai usa anche la forma log. in -ao: contemplao (II, 13), incontrao (III, 26), dao (V, 8).
Così SPANO (OS, parte I, p.102): Questo tempo [l’imperfetto indicativo] nella 1 pers. sing. tiene anche la desinenza in ao, specialmente presso i Poeti. Tale forma contratta viene usata da Dessanai anche alla seconda persona singolare dello stesso tempo: Cando cara de giusta mi mustrâs [mustrabas] / In sos desizos ti cuntentaia (XX, 26-27); vicinissima alla forma in -aìa del v. 31. Nelle coniugazioni II e III l’imperfetto indicativo log. non differisce da quello nuor. (tranne per alcune
divergenze consonantiche). La desinenza log. -aìa della prima persona all’imperfetto indicativo
dei verbi appartenenti alla I coniugazione è il risultato dell’analogia con la desinenza in -ìa (imperf. indic., prima persona) delle coniugazioni II e III (vedi: M.L. WAGNER, Flessione nominale e
verbale del sardo antico e moderno, in «Italia Dialettale», XV, 1939, p. 82; ed E. BLASCO FERRER,
Storia linguistica della Sardegna, Tübingen, Max Niemeyer, 1984, pp. 103 e 274).
24
log.
nuor.
meu
mia
mios
mias
tou
sou
insoro
bostru
meu
mea
meos
meas
tuo
suo
issoro
brostu
23
[Lo so che troppo azzardai] III, 41.
nei dialetti centrali [della Sardegna] queste forme [quelle in -esi] si conoscono, ma non sono popolari (la lingua parlata fa uso del passato composto); sono frequenti però nei «muttos», in imitazione del
«sardo illustre» che serve di modello nella poesia; M.L.WAGNER, La lingua sarda [1950], Nuoro,
ILISSO, 1997, pp. 302-303.
24
25
Premessa linguistica
Premessa linguistica
Log, ill. e Nuor.
Dae s’amante coro meu25
Log. ill.
Pensende ’e t’incontrare, o vida mia26
Nuor.
Cudda fortuna mea27
Log. ill.
Sos tristos ojos mios28
Nuor.
In propriedades meas29
XII. La c e la g palatali, in prestiti italiani, vengono adattate nel nuor. rispettivamente con la zeta sorda [ts] e la zeta sonora [dz]35. Il log. ill. tende a conservare
e a ricercare le palatali italiane
Log. ill.
Nuor.
Mentras curret s’accesa fantasia36
In pettus m’àt azzesu nou fogu37
Log. ill.
De non tenner istima
mancu a sa patria gente38
Che fiore chi non s’ ’idet dae sa zente39
Nuor.
XI. Un’altra annotazione va fatta per i pronomi di prima e seconda persona (it.
‘me’ e ‘te’) che in log. ill. sono tali e quali all’italiano e in nuor. si appoggiano a un
-ne paragogico (mene, tene)30
Log ill.
Nuor.
Cuddu dae te abbandonadu amante31
So resortu pro tene e so dezisu32
Log. ill.
Nuor.
Est su chi tenes dae me33
[…] non fit pro mene34
Le pronunce palatali sono del tutto inconciliabili con il genuino sistema consonantico sardo, nella fattispecie nuorese, che serba la pronuncia velare latina: kelu
(‘cielo’), ghínghiba (‘gengiva’), per citare due esempi da manuale. Sulla stessa linea,
il log. ill. è propenso a ricevere il suono palatale della l, che il nuor. volge in -ll(nuor. cunillu; ‘coniglio’)40:
Log. ill.
Il quadro non sarebbe perlomeno sufficiente se non accennassimo a quella serie di
tratti fonetici italiani che entrano a far parte del log. ill. In questo senso la bifrontalità
linguistica (logudorese/nuorese) della poesia dessanaiana, indicata all’inizio della presente premessa, va intesa come semplificazione necessaria entro lo scopo della premessa stessa (una, seppure approssimativa, grammaticalizzazione della koinè poetica sarda).
Di fatto l’apporto linguistico dell’italiano è ingentissimo (soprattutto a livello lessicale) nella poesia di Dessanai (ad esclusione di una parte della sua produzione) e nella poesia in lingua sarda in genere.
[dal mio cuore che ama] XII, 24. Nello stesso testo (XII, 6) figura anche un miu, che è forma propriamente campidanese ma qui forse da considerare ipercorrettismo log. inserito per esigenza di rima (briu : miu); ma un altro miu (VI, 24) figura all’interno del verso.
26 [Pensando d’incontrarti, o vita mia] XI, 8.
27 [Quella fortuna mia] XI, 21.
28 [I miei occhi tristi] XI, 29.
29 [Nelle mie proprietà] XV, 13.
30 Cfr. GERHARD ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana: Fonetica, Torino, Einaudi,
1966 [1946], § 336. Il canonico Giovanni Spano, che può essere considerato il codificatore del
log. ill., in nota a un testo incluso in una delle sue raccolte di canti logudoresi (Columba, un’imbasciada nessi a fura di Bachisio Sulis, di Aritzo, in CPS, III, 304, v. 51: Si tue patis pro mene agonia), tiene a precisare: Dial.[etto] Aritzese, mene per me.
31 [Quell’amante da te abbandonato] VII, 4.
32 [per te son risoluto e son deciso] IV, 22t.
33 [È ciò che da me ottieni] X, 6.
34 [non faceva per me] X, 30.
Si è già notato che la palatalizzazione dei nessi latini FL- e PL- è tipica del logudorese settentrionale (fiore e pienu, per influsso del toscano) e da lì proviene al log.
ill. Ma la sua fortuna nella poesia in logudorese dev’essere attribuita anche all’analogia con l’italiano che ne ha garantito, per tensione nobilitante, la permanenza nei
testi poetici.
In genere si riscontra nel log. ill. l’avversione per le forme rotacizzate (L > r), diffuse nella gran parte dei dialetti sardi e sentite, probabilmente, come troppo vernacole. Tale avversione ha determinato la scelta di forme non rotacizzate relativamente a prestiti seriori (spagnoli, catalani e italiani)
Log. ill.
Log. ill.
Log. ill.
25
26
E tottu nde cugliat
sos lineamentos de sa cara ermosa41
Fissamilos sos ojos risplendentes42 [*risprendentes]
A donzi istante devo isclamorare43 [nuor.: iscramiare]
Affliggidu e pienu ’e sentimentu44 [nuor.: affriziu]
35
Cfr. GSN, p. 28.
[mentre corre l’accesa fantasia] XXVI, 7.
37 [M’ha acceso in petto un nuovo fuoco] XIX, 38.
38 [(stabilii) Di non provare più amore / neppure alla patria gente] XIX, 20-21.
39 [Come un fiore non visto dalla gente] XVIII, 9.
40 Cfr. GSN, p. 56.
41 [E tutto [il cuore] ne coglieva / i lineamenti del bel viso] II, 15-16.
42 [Fissameli gli occhi risplendenti] IV, 13t.
43 [Ad ogni istante devo gridare] II, 30.
44 [Afflitto e colmo di dolore] II, 22.
36
27
Premessa linguistica
e il rotacismo viene evitato (sempre secondo una tendenza tipica del log. settentrionale) anche al di fuori dei nessi pl-, cl- ed fl-:
Log. ill.:
Cudda festevole rima
non faghes pius iscultare45 [nuor.: ascurtare].
PARTE PRIMA
DALLA KOINÈ REGIONALE
ALLA PARLATA LOCALE
45
28
[Quella festevole rima / non vuoi più ascoltare] III, 7-8.
I
ITALIANO, TRADIZIONE LOGUDORESE E PARLATE LOCALI
1. Una delle più nette e moderne proposizioni sulla tradizione dialettale italiana in quanto linea anti-aulica rispetto alla tradizione illustre in lingua toscana, credo spetti a Gianfranco Contini. In un’interessante quanto in apparenza occasionale articolo datato 19541 il critico formulava il seguente sistema: annessione della lingua (stante per l’espressione in lingua letteraria italiana, nata
su base toscana) alla componente assoluta e classica, attribuzione del dialetto
(cioè: l’uso letterario del dialetto) alla componente romantica portatrice di un’istanza di espressività; quindi, corrispondenza fra lingua e monolinguismo da una
parte e fra dialetto e bi- o plurilinguismo dall’altra. La seconda componente, quella romantica, pertinente al dialetto, veniva di poi ad essere interpretata in antitesi alla letteratura in lingua di ascendenza petrarchesca.
Se sono indiscutibili il fascino e la fondatezza, rispetto alla tradizione italiana, della tesi continiana (che infatti ha avuto una legittima fortuna presso la
critica), va detto subito che questa si dimostra inadeguata alla comprensione di
buona parte della tradizione poetica in lingua sarda.
Non rientrando nello scopo di queste pagine l’indagine sulle ragioni storiche
di tale incompatibilità, da un punto di vista strettamente funzionale, che è quello che qui c’interessa, il problema riguarda il fatto che la concomitanza di due
o più lingue sulla pagina, il plurilinguismo, non va letta solo in prospettiva macaronica (estendendo l’etichetta, come in un altro scritto di Contini2). Di fatti,
in Sardegna si devono spesso fare i conti con una poesia “dialettale” dalle ambizioni classicistiche. Basti pensare a quanto è distante da esiti comico-macaronici il sardo-italiano-latino di Matteo Madau, dove l’italiano e il latino implicano un innalzamento di tono.
Compati a fugitiva Philomena
dae te, Philyra amabile, scapada:
1 GIANFRANCO CONTINI, Dialetto e poesia in Italia, in «L’approdo», a. III, n. 2, aprile-giugno
1954, pp. 10-13.
2 ID., Introduzione a Racconti della scapigliatura piemontese [1947], in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 533-566.
31
Dalla koinè regionale alla parlata locale
in cabbia fit mischina, e in manu anzena
senza culpa detenta, & captivada3
[Compatisci la fuggitiva Filomena / da te scappata, amabile Filira: / stava
in gabbia poverina, e in mano altrui / senza colpa tenuta e prigioniera]
Madau immerge la lingua sarda, già depurata, fortemente italianizzata, in un bagno di latino, spesso solo tramite una mera operazione di rivestimento grafico-fonetico. A parte il fatto che l’esito di questo sardo parvenu è quello di una goffaggine diametralmente opposta all’effetto nobilitante ricercato dal poeta di Ozieri,
la commistione linguistica, qui, è tutt’altro che mezzo stilistico deformante, non
viene attivata con intento comico-parodico. È altra cosa, insomma, sia dal macaronico che dal più tardo latino insertivo del Peppino Mereu di Lamentos de unu nobile4 (al modo delle sublimi inserzioni del Miserere portiano e dei più moderni Flores sententiarum di Marino Moretti). Non manca una ragione formale, strutturale
si direbbe, che accompagna lo scarto funzionale tra il macaronico e questo sardolatino: nel primo si fondono dialettalismi in una lingua morfologicamente e sintatticamente latina (l’effetto comico, degradante, può allora derivare anche solo
dall’attribuzione della desinenza latina al termine dialettale, come, per restare in
terra sarda, accade nella Passio di Salvatore Rubeddu5), mentre nel secondo vengono inseriti latinismi in un contesto linguistico sardo.
Esauriti gli slanci velleitari in direzione del latino, un atteggiamento poeticolinguistico del tutto assimilabile a quello del Madau si ricava anche dalla produzione che in seguito farà riferimento alla tradizione in lingua italiana. Anche qui
mancano decisamente esiti oppositivi alla Lingua e all’espressione aulica. Nel verso del Belli l’italianismo entra a scopo parodico, spesso deformato da qualche popolano; lì si può parlare di un abbassamento-svilimento della Lingua attraverso la
trasfigurazione dialettale. Nel sardo Paolo Mossa l’italianismo è indice di un gusto
per il segmento alto della cultura, è allusione a un codice linguistico più elevato:
Cantas tristas memorias m’ischidas
in s’attonita mente, o Addemala!6
3 MATTEO MADAU, Pro Victoriu Amedeu III Re de Sardinia, in ID., Le armonie dei sardi [1787],
a c. di Cristina Lavinio, Nuoro, ILISSO, 1997, p. 166, vv. 1-4.
4 Funesta rughe / ghi giug’a pala / per omnia secula / ba’ in ora mala. // In diebus illis / m’has
fatt’onore / ma oe ses simbulu / de disonore [Funesta croce / che porto in spalla / per omnia secula /
vai in malora. // In diebus illis / m’hai fatto onore / ma oggi sei simbolo / di disonore.] PEPPINO MEREU, Lamentos de unu nobile, in ID., Poesias, Cagliari, ed. Della Torre, 1982, p. 61, vv. 18. Le citazioni da Mereu si riferiscono sempre a questa edizione.
5 volebat furare bandieram et cazzottum habuit in concam. SALVATORE RUBEDDU, “Passio”- A su
Connottu, in PDN, p. 63.
6 PAOLO MOSSA, Baddemala, vv. 1-2; in ID., Tutte le poesie e altri scritti, introduzione di Michelangelo Pira e postfazione di Paolo Pillonca, Cagliari, Della Torre, 1993 [1978]. I rimandi
a Mossa si riferiscono sempre a questa edizione.
32
Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
Attonita, per esempio, è termine quanto mai estraneo all’idioma nativo, cultismo che Mossa si preoccupa di ostentare in sede d’esordio denotando una tensione ascendente; ed è solo uno degli innumerevoli esempi proponibili.
Accanto a una reazione del poeta dialettale alla letteratura in lingua, dunque,
va considerata un’approssimazione del poeta dialettale alla letteratura in lingua e
alla Lingua stessa, qualora quest’ultima non venga concepita in antitesi al dialetto ma, al contrario, stimata quale lingua-modello classica, nei cui confronti
il dialetto si pone in atteggiamento di riverenza e vi fa riferimento. Il poeta in
sardo non ha mirato, come spesso hanno fatto i dialettali continentali, a ricoprire zone che la lingua letteraria aveva trascurato, piuttosto si è impegnato a
ripercorrere i passi della tradizione in lingua. Perciò l’inapplicabilità della tesi
continiana alla storia della poesia in lingua sarda la dice lunga sull’alterità di
quest’ultima rispetto alla tradizione dialettale italiana e sul carattere che in essa ha predominato: la poesia sarda (non solo nella parte propriamente lirica) descrive, a suo modo, una linea petrarchesca a minore, persegue un suo assoluto linguistico. E il tiro è più spesso alto: poesia encomiastica, dottrinale e lirica amorosa sono le zone privilegiate dalla produzione poetica isolana.
Tornano utili al proposito alcune formulazioni contenute nella introduzione
al Canzoniere italiano di Pasolini, dove l’autore elabora uno schema di rapporti
tra segmento della cultura alta e segmento della cultura popolare. La poesia culta, con
caratteri di macaronico o di squisito (cioè: quasi tutte le poesie dialettali di ogni epoca letteraria), è per Pasolini il prodotto della direzione discendente dal segmento alto al segmento basso. Viceversa, la poesia popolare è il prodotto della direzione ascendente per un’acquisizione di dati culturali e stilistici provenienti dalla
classe dominante, processo che Pasolini condensa nello schema seguente:
[…] una lingua iniziale unica puramente ipotetica - diramazione di questa secondo l’immanente bilinguismo su due strati: alto e basso (bilinguismo nella specie sociologica) - formazione nello strato alto di una lingua speciale (letteraria, con
la sua evoluzione stilistica libera) - discesa di tale lingua speciale verso lo strato basso, conservatore, ritardatario, dotato di una attitudine psicologica ed estetica ormai
molto diversa - acquisizione di tale lingua da parte dello strato basso attraverso diversi caratteri stilistici.7
Difatti una dinamica quale quella descritta per la poesia popolare può essere
rintracciata anche nell’ambito della poesia dialettale, sarda nella fattispecie, la
quale può essere bene intesa come prodotto di una dinamica ascendente basso→alto. Pertanto, la tesi pasoliniana, attenuate le sue determinazioni socioideologiche e riferito lo schema non solo alla poesia popolare ma anche a quella dialettale, pare decisiva per comprendere la costante italianizzazione della
7 PIER PAOLO PASOLINI, Introduzione a Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare
[1955], Milano, Garzanti, 1992, p. 53 (scritto riproposto col titolo La poesia popolare italiana in
ID., Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1994 [1960], pp. 150-288).
33
Dalla koinè regionale alla parlata locale
poesia in lingua sarda, le sue tendenze linguistico-stilistiche con funzione elevatrice, di ammiccamento-avvicinamento al livello culturale più alto (quest’ultimo rappresentato dalla letteratura italiana e, ai tempi dell’Araolla, anche da
quella spagnola). Perché, sebbene il colorito linguistico italiano della poesia
sarda sia da imputare al dato tradizionale per cui essa nasce italianizzante
(Araolla), è pur vero che su questo ibridismo, alimentato senza soluzione di continuità dalla poesia dottrinale e religiosa, si è formato il paradigma esteticolinguistico dei successori.
2. Concentrando ora l’osservazione sulla produzione poetica della Sardegna
centro-settentrionale durante l’Ottocento, bisognerà tenere conto di una doppia
dinamica ascendente. Si ha a che fare, infatti, con due tradizioni di riferimento: l’italiana e la logudorese. In queste condizioni non si può semplicemente parlare
di bilinguismo letterario. Presa la produzione poetica nuorese dell’Ottocento,
vi si registra l’uso non di due ma di tre differenti codici linguistici: l’italiano
letterario, lingua colta ad uso prevalentemente scritto (a questa altezza cronologica non è dato ammettere un diffuso consumo orale della parlata nazionale); il
logudorese illustre, lingua della poesia; il nuorese, parlata locale ad uso prevalentemente orale. Mutuando il termine così come è stato adottato dalla dialettologia moderna, si può parlare di una competenza molteplice, che possiamo illustrare
nel modo seguente:
1.
2.
3.
Italiano letterario
Logudorese illustre
Nuorese
Tale competenza viene impiegata solo sulla pagina poetica, mentre ha un trascurabile riflesso, soprattutto per quanto riguarda il logudorese illustre, sullo
scambio linguistico quotidiano. Ma, poiché si sta trattando di un periodo che
abbraccia l’ultimo quarto dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento, occorrerà integrare lo schema proposto con un sottocodice che chiameremo italiano
usuale:
1.
1a.
2.
3.
Italiano letterario
Italiano usuale
Logudorese illustre
Nuorese
Ciò si spiega col fatto che l’italiano inizia verso la fine dell’Ottocento ad essere
impiegato in Sardegna come lingua d’uso, seppure molto timidamente e limitatamente a una esigua parte della popolazione. I contatti col Continente s’intensificano attraverso gli organi burocratici, la scuola, il servizio militare e il
commercio. Sempre più copiosa è l’affluenza di riviste e giornali peninsulari,
unita a una vivace e ricchissima attività editoriale sarda in lingua italiana. Sono, in particolare, gli ultimi due decenni dell’Ottocento, quelli che vedono il
34
Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
nascere di «Vita sarda» e il rinnovarsi dell’esperienza della «Stella di Sardegna», per citare solo alcune delle tante e valide riviste che circolano in questo
periodo. Nei poeti nuoresi di fine secolo si troveranno, quindi, anche tracce d’italiano usuale che andranno di volta in volta distinte, quando possibile, da quelle d’italiano letterario, innervanti ab antiquo l’espressione poetica sarda.
Ora, i tre codici fondamentali (italiano letterario, logudorese illustre e nuorese) rappresentano altrettanti piani che intersecandosi danno vita a componimenti linguisticamente ibridi (negli esempi sotto riportati si indicano, ma non
in maniera esclusiva8, il cod.1, italiano letterario, con il corsivo; il cod.2, logudorese illustre, col neretto; mentre il carattere normale indica il cod.3, il
nuorese). Preso il caso di Dessanai, la competenza molteplice dà luogo a combinazioni di logudorese illustre + italianismi (I tipo; XVI, 1-12):
Cando m’ ’enit a sa mente
su ridente
aspettu tou largos rios,
in sos ojos, de piantu
bundan tantu
Chi nde bagno sos pês mios.
In s’istanzia solu solu
a disconsolu
sempre afflittu pianghende,
chin sa bella gioventude
sa salude
troppu prestu ruinende.
5
10
[Quando in mente mi viene / il ridente / tuo aspetto larghi fiumi / di pianto negli occhi / abbondan tanto / che i miei piedi ne bagno. // Nella stanza
solo solo / pieno di sconforto / sempre afflitto piangendo / con la bella giovinezza / la salute / troppo presto rovinando]
8 Vale la pena avvertire quanto sia delicata l’operazione che ci accingiamo a fare. Non sempre
è possibile isolare con sicurezza una parola o un tratto fonetico per attribuirlo con certezza ad una
sola delle varietà indicate. Logudoresismo e italianismo spesso si sovrappongono (gioventude del I
tipo, v. 10, è stato ascritto al log. ill. perché è nella koinè sarda che si leggittima l’uso della palatale, ma potrebbe anche essere italianismo, anzi: lo è da un punto di vista lessicale). Nell’evidenziare gl’italianismi ci si può limitare ai casi in cui si ha un buon margine di certezza; così, al
v. 7 del I tipo non si è usato il corsivo (indicante l’italiano) per istanzia [stanza], a fine Ottocento equipollente, nella lingua d’uso, con lo spagnolismo apposentu [camera da letto] (appusentu, in
Dessanai, XI, 40, in Néulas). Anche bella (v. 10 del I tipo) è stato considerato come appartenente alla lingua d’uso del tempo (cfr. DES, II, 193); in generale, infatti, non possono essere considerati italianismi quei termini toscani di antica penetrazione, in quanto ormai sentiti come sardi (es.: sutzare ‹ ‘succhiare’), per non dire delle convergenze lessicali tra italiano e spagnolo. Così pure non si è ritenuto opportuno isolare come italianismi Parnasu (III tipo, v. 1) o musas (III
35
Dalla koinè regionale alla parlata locale
Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
oppure di nuorese + italianismi (II tipo; XXXIII, 1-8):
Curre puru a sos ballos signoriccu
in bratzos de s’amante iscandalosa
supra su pettus suo ti reposa
e sutza su velenu a ticcu a ticcu!
Atter gherret sa vida chin su piccu,
pro te bastat sa vida lussuriosa!…
e sichi puru… chie ti muttit cosa?
Tottu a tibi si passat sende riccu.
5
[Corri pure ai balli signorino / tra le braccia dell’amante scandalosa / sopra
il suo petto riposa / e succhia il veleno a centellini. // Altri combattano la
vita con il picco / a te basta la vita lussuriosa!… / e fai pure, chi ti rimprovera? / tutto a te si concede, dacché sei ricco.]
oppure ancora combinazioni oscillanti tra logudorese illustre e nuorese + italianismi
(III tipo; XXXIX, 1-8):
Bellu a biver de rendita in Parnasu
e de sas musas reposare in sinu
ma si gomente so troppu romasu
timo chi non che faga su caminu.
Mezus pro cussu m’app’a istare in pasu
inoghe, trinchettande bonu binu
ube de carchi musa appo su basu
chentz’ ispender nemmancu unu sisinu
5
[Bello viver di rendita in Parnaso / e riposare in grembo alle muse, / ma siccome sono troppo magro / temo che non riesca a compiere il cammino. //
meglio, per questo, me ne starò tranquillo / qui, trincando buon vino / dove da qualche musa ottengo il bacio / senza spendere nemmeno un soldo.]
tipo, v. 2), cultismi e tecnicismi che non hanno corrispettivi sardi. Una segnalazione esclusiva
non è poi e a maggior ragione pensabile laddove i punti di contatto tra nuorese e logudorese (che
è la base del log. ill.) sono numerosissimi. Entrambe le varietà sono riconducibili a quella grande famiglia linguistica comprendente buona parte della Sardegna centrosettentrionale. Per ciò:
del log. ill. sono stati evidenziati solo quei lessemi recanti tratti fonetici separativi rispetto al
nuor. Per quanto riguarda, invece, le voci appartenenti al nuor. e separative rispetto al log. ill. se
ne dà qui un elenco: Chin, I tipo, v. 10 e II tipo, v. 5 (log. ill. cun); sichi, II tipo, v. 8 (log. ill. sighi; Prem. Ling. I); tibi, II tipo, v. 8 (log. ill. tie; Prem. Ling. II), forma in apparenza latinizzante ma in uso in alcuni paesi della Sardegna centrale (cfr. DES, II, 481); supra, II tipo, v. 3 (log.
ill. subra; Prem. Ling. I); ube, III tipo, v. 7 (log. ill. ue).
36
È chiaro che le tre tipologie linguistico-testuali appena esemplificate descrivono andamenti generali, ragion per cui l’esempio del I tipo (log. ill. + italianismi) reca pure un nuor. chin (v. 10) e, simmetricamente, quello relativo al II tipo (nuor. + italianismi) ha un log. te (v. 6; accolto per “far tornare” l’endecasillabo che risulterebbe ipermetro con l’inserimento dell’equivalente nuor. ‘tene’,
bisillabo).
Nel quadro delle realizzazioni linguistiche in un poeta-tipo nuorese rientrano anche i componimenti vergati esclusivamente in lingua italiana: i soli che
non subiscono contaminazioni. Infatti, conformemente a quell’atteggiamento
della gran parte dei poeti sardi che si è definito classicistico, non si dà mai il
caso che un testo in lingua sia nutrito di limba. L’italiano è lingua “alta” non
passibile di intrusioni dal basso (a delicati innesti provvederanno la Deledda,
secondo una moderata mimesi naturalistica, e Sebastiano Satta, ma quest’ultimo in direzione classicistica e limitatamente al lessico; del tutto particolare è
il caso dell’italiano porcheddinu di Peppino Mereu9), mentre è raro che manchino italianismi, come si può vedere negli esempi sopra riportati, nella poesia in
sardo. Ciò accade per diversi motivi. Per l’influenza di una tradizione letteraria
forte e riconosciuta, per l’esigenza di attingere all’italiano-lingua di cultura in
modo da esprimere concetti astratti che in sardo, lingua rustica, non hanno nome (ma va detto che il poeta in sardo italianizza anche quando questa necessità
non si presenta) e da ottenere un effetto nobilitante. Dalla nostra campionatura emerge però anche un dato sul quale torneremo dopo più diffusamente: il
tasso d’italianizzazione tende a diminuire in quei testi in cui si riscontra un
maggior uso della parlata locale; di una lingua quindi priva di tradizione letteraria, il cui utilizzo in poesia poteva avvenire o per ragioni mimetiche, e allora personaggi assolutamente dialettofoni non possono parlare italiano, o per ragioni di poetica, di presa di distanza dalla tradizione aulica, italianizzante e logudorese. A tale tradizione si rifà l’esempio di I tipo sopra riportato, non per
altro costellato d’italianismi.
Il cod.1 (italiano letterario) ha influito sulla poesia sarda dell’Ottocento sia
per via diretta e sia per via mediata attraverso la pratica del cod.2, quest’ultimo, come già detto, caratterizzato da una forte italianizzazione fin dalle sue origini. I poeti nuoresi di questo periodo sono buoni lettori di poesia italiana e
poetano essi stessi in italiano, conoscono i classici così come autori a loro contemporanei o di poco anteriori, quali Giusti, Carducci e il meno famoso, oggi
ma non allora, Lorenzo Stecchetti (pseudonimo di Olindo Guerrini), protagonista di una vera e propria moda letteraria nazionale con consistenti propaggini sarde. Di sicuro la prolungata fortuna di rime stecchettiane e consimili non
ha giovato molto alla poesia “dialettale” isolana e tanto meno alla produzione
sarda in lingua italiana, anche per quella tendenza del poeta sardo a congelare
9 Il riferimento va a pochi componimenti di Mereu (Signor Ciarla a su fizu Ciarlatanu, Sas
giarrettieras e Solferino) raccolti in Poesias, cit.; cui si aggrega, per l’ultima terzina, il sonetto In
Conziliatura che compare ne «La Piccola rivista» (a. I, n. 9, 29 aprile 1899, p. 9).
37
Dalla koinè regionale alla parlata locale
in maniera la novità d’oltremare e non a superarla o ad innestarla con elementi endogeni. Bisognerà riflettere in futuro su questo carattere di spiccata eteronomia stilistica della poesia sarda. Per trovarne le tracce non si deve attendere
l’intensificarsi, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, della circolazione culturale tra Sardegna e Continente: i contatti tra la cultura isolana e quella letteraria italiana non sono mai venuti meno, neppure durante i secoli di dominazione catalana e spagnola. L’assimilazione di letture “classiche” è sempre stata
costante e non solo relativamente ad élite culturali ma anche a livelli bassissimi, come testimonia, ad esempio, il forte processo di popolarizzazione che ha
interessato autori italiani come Tasso e Dante, mandati a memoria da pastori e
contadini.
3. Finora si è implicitamente fatto ricorso alla categoria di logudorese illustre
(log. ill.); essa, però, necessita di una spiegazione più approfondita, dato che lo
statuto di tale codice è lontano dall’essere chiaro, quando non è del tutto ignorata l’esistenza stessa di una koinè poetica sarda.
Il log. ill. è “lingua speciale”, destinata al solo ambito poetico, che non viene
mai parlata da nessuno nella pratica, nemmeno dagli autori che la usano nei loro componimenti poetici10. Lingua della poesia, dunque, sia essa scritta o orale. Per questo motivo non è possibile isolare secondo la dicotomia scritto/orale il log.ill.
dalle parlate locali; vale a dire che esso non si distingue nettamente da queste
ultime (lingue essenzialmente orali) in quanto “lingua di cultura scritta”. La
presenza del log. ill. in testi eminentemente popolari, quali i mutos, appartenenti alla tradizione e a una trasmissione orali, il fatto che venga usato nella
poesia estemporanea, impongono di non considerare tale codice quale variante
diamesica (scritto/orale). Una delimitazione potrà invece essere indicata sul piano diafasico; nel senso che il log. ill. è un codice il cui utilizzo è condizionato
da particolari situazioni comunicative; nel nostro caso: il discorso in versi. A
Nuoro (e più in generale nel Logudoro meridionale, nelle Baronie e nelle Barbagie; ma lo studio della diffusione areale del log. ill. è ancora tutto da avviare) ha agito quella che qui si nomina tradizione logudorese, con cui s’intende indicare la quasi totalità della tradizione poetica della Sardegna centrosettentrionale, comprendente un arco cronologico che va dal Cinquecento all’Ottocento,
con massicce propaggini novecentesche.
Pasquale Tola (1838), in riferimento alle poesie dell’arcade sardo Luca Cubeddu, poteva dire, senza precisare altro: canzoni… scritte in pretta lingua logudorese,
ossia nella vera lingua nazionale della Sardegna11. In un esperto di cose sarde, come il canonico Giovanni Spano, la coscienza di una tradizione illustre è netta.
Nella seconda parte della sua OS (1840)12, lo Spano affronta il compito di trac-
MASSIMO PITTAU, Lingua dialetti e poesia di Sardegna, cit., p. 209.
PASQUALE TOLA, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, Torino, Chirio e Mina, 1838, vol. II, p. 253.
12 Consultabile in un’accessibile riproduzione anastatica: Cagliari, GIA editrice, 1995.
10
11
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Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
ciare una storia dell’idioma sardo, in un capitolo, il sesto, intitolato: Crisi della
sarda favella ossia cambiamento e progresso dal tempo della sua origine13. E per sarda
favella il poliedrico studioso intende nient’altro che il Logudorese dialetto, altresì detto il comun dialetto… che dovrà sempre adattare il Catechista nei suoi discorsi,
ed il letterato nei suoi componimenti14. La storia del sardo, dunque, viene fatta coincidere con quella del logudorese, la varietà linguistica regionale che vanta il
maggior numero di attestazioni scritte, anche antiche, e una tradizione letteraria (più precisamente: poetica) pienamente operante: stilarne una storia è operazione necessaria per la sua elevazione a rango di lingua sarda (nazionale)15.
L’OS può essere considerata la prima vera opera descrittivo-comparativa sui
dialetti sardi, anche se non informata, per ovvie ragioni cronologiche, della moderna scienza linguistica. In essa vengono confrontate principalmente le tre
maggiori varietà isolate dallo studioso: logudorese, campidanese e gallurese; sistematicamente e sinotticamente paragonate fra loro, con l’italiano e con il latino. Viene anche fornito un saggio comparativo16, dei diversi dialetti speciali,
sulla base del Pater noster (vi sono compresi 19 dialetti). D’altra parte, non è raro che tale interesse “glottologico” sia in subordine a un’istanza normativa. Il
quadro in cui il Pater noster viene proposto nei vari suddialetti, previo il separato confronto di quelli principali, è in funzione di un adeguamento di quelli al
comune (che dovrà sempre adattare il Catechista nei suoi discorsi, ed il letterato nei suoi
componimenti17). Così, quell’interesse che per comodità si è definito glottologico
si esplica anche nella annotazione non sistematica, spesso relegata in nota, di
tratti linguistici appartenenti ai suddialetti e separativi rispetto alle tre macrovarietà isolate, principalmente rispetto al logudorese. Ma, ad esempio, è sintomatico che nel considerare la presenza dell’occlusiva laringale in alcune parlate della Sardegna centrale, lo Spano si affretti a dire:
Queste particolari osservazioni di suono niente influiscono sulla rozzezza della
Lingua del Logudoro cui una è presso tutti i Popoli e le Tribù. Servono solamente
all’erudito ed al curioso che vorrebbe essere informato della gorgia particolare con
13
OS, parte II, pp. 82-116.
14 ID., pp. XV-XVI.
15 Proprio in conclusione
della sua breva storia linguistica della Sardegna, lo Spano scrive: …ed
io gli esorto [riferito ai Parrochi e Predicatori perché diano alla luce qualche loro sacro facondo discorso] tutti che abbiano a cuore di non discostarsi mai dai precetti che in questo lavoro debolmente ho riordinato, affinchè una sia da qui in avanti la lingua, come una è la patria nel di cui seno tutti fratellamente viviamo (ID., parte II, p. 116).
16 ID., parte II, pp. 116-120.
17 In altro luogo viene confermata tale doppia possibilità operativa del log. ill., ma con implicazioni stilistiche forse artificiose: anderebbe… bene se cantassi - Deus sos Chelos et sa Terra dai
su niente formesit, s’omine de ludu impastesit ecc. ma predicando direi - Deus formesit (criesit) sos Chelos,
et i sa Terra dai su niente, et impastesit s’homine de fangu ecc. … (ID., parte I, p. 182). Siamo in pieno clima normativo: stile elaborato in poesia (costruzione alla latina, a guisa del Boccaccio è detto più avanti), piano e prosastico per la predica.
39
Dalla koinè regionale alla parlata locale
cui si distinguono gli uni dagli altri, non però per imitarla nel Pulpito, nelle istruzioni e come di fatti è bandita dagl’illetterati posti ne’ loro poetici aringhi, usando
sempre la chiara e distinta latina pronuncia, come quella de Menomeni, la Sarda
Toscana, e che io chiamerò il dial. comune…18
È, sì, intendimento dell’autore illustrare la frammentazione dialettale della
Sardegna (il che avrebbe aggiunto punteggio all’alterità linguistica dell’isola,
portata sullo stesso piano di un piccolo continente dove convivono diversi idiomi) ma anche evidenziare e illustrare gli scarti dalla norma logudorese (in una ipotetica Appendix Probi spaniana si leggerebbe: casu non hasu… fogu non hogu).
Eppure, e veniamo al punto, anche considerato il carattere normativo dell’OS, quella avanzata non è una proposta ex nihilo, ma trova fondamento nella
uniformità linguistica che le antiche testimonianze scritte tramandano e in un
altro datum receptum, stavolta vivente: una lingua poetica sovraregionale, approssimante in direzione logudorese. È questa la lingua letteraria sarda, passibile di sistemazione e codificazione, che s’impone agli occhi dello Spano.
Questa operazione di ulteriore legittimazione del logudorese comune implica il confronto con quella tradizione linguistico-letteraria che in Sardegna ha
goduto di costante prestigio, anche durante i secoli di dominazione spagnola:
l’italiana. Ecco, allora, comparire l’equazione Menomeni = Sarda Toscana vista
più sopra; equivalenza che non stenta a svilupparsi nelle seguenti proporzioni:
Sebbene possa dire della lingua sarda ciò che diceva l’Alighieri del volgare italico, esser quello che appare in ciascuna Città d’Italia, ed in niuna riposa, ma rispetto al
luogo stava più in Toscana, che nelle altre provincie. Così la lingua sarda sta a preferenza in questo dipartimento. Questo io chiamo sempre dialetto comune, e tutta
questa regione può appellarsi con ragione l’Attica del Logudoro, o la Sarda Toscana; ma fra tutte le terre compresevi, Bonorva segnatamente, se mi fosse lecito il paragone, potrei chiamare col suo circuito la Sarda Siena.19
Tali proporzioni, il Menomeni sta alla Sardegna come la Toscana sta all’Italia, Bonorva sta al Menomeni come Siena sta alla Toscana (è implicita qui la
stima del senese come “vero” toscano), tentano di legittimare, attraverso il paragone con una tradizione illustre e riconosciuta, una tradizione linguisticoletteraria autoctona, fino ad allora quasi totalmente trascurata e ignorata fuori dall’isola. E come la promozione del logudorese comune a lingua di cultura, da parte dello Spano, non può essere giudicata artificiosa, dal momento che
muove da una tradizione consolidata e verificabile, così non si potrebbe tacciare di velleitarismo l’atteggiamento sotteso a quelle proporzioni. Il discorso
del canonico ploaghese contiene, implicitamente, una verità: nel senso che la
presenza di una lingua poetica sovraregionale sarda va ricondotta a ragioni di
18 ID.,
19 ID.,
40
parte I, p. 31.
parte I, pp. 197-198.
Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
diffusione letteraria, non dissimili da quelle che si è soliti citare per spiegare
le modalità dell’imporsi del toscano lungo la penisola italiana. In effetti, in
Sardegna si è verificato qualcosa di analogo a ciò che è accaduto in Italia a partire dal XIV secolo, con una nettissima prevalenza, però, della trasmissione
orale su quella manoscritta.
Non è questa la sede per aprire una “questione di origini”; si è voluta semplicemente indicare la natura latamente letteraria del diffondersi del logudorese illustre e, quindi, del costituirsi di una tradizione logudorese. Per ora, in
mancanza di uno scavo sulla documentazione, ancora tutto da avviare, non rimane che rivolgersi ai testi, che qualche risposta la danno. Quando si legge in
Dessanai: Sos tristos ojos mios / de lajmas perennes forman rios XI, 29-30; oppure:
largos rios / in sos ojos, de piantu, / bundan tantu XVI, 3-6; o ancora: Bundende sun
sas lajmas a rios XVII, 6; occorre sapere che ci si imbatte in un’immagine che
ritorna con frequenza nella tradizione poetica in logudorese (quale che sia la sua
vera origine, più probabilmente iberica). Da Girolamo Araolla (In lacrimas prorumpit tantu forte, / Qui mai canale d’abba non fuit vistu / falare cum pius furia, et
fagher rios, / quantu falant de custos ojos pios20; Et eo minimu verme peccadore, / qui
meritant de fagher largos rios / custos ojos ogn’ora, non mi accendo, / de te, Factore meu,
nen s’alm’emendo21), si passa all’attestazione del secentesco Canzoniere ispano-sardo (de lagrimas formo rios; e ancora et si custu non bastat, ojos mios, / de sanben bos
fag’ide largos rios22) e poi alle coplas da cantarsi per sa quenabura Santa [venerdì
Santo] contenute nel laudario dei Battúdos (Battuti o Disciplinati) di Torralba
(Pianguet cun sos oios pios, / Cun bogue trista, et piadosa. / Fatan funtanas, et rios /
Fatan unda lacrimosa!; la redazione del ms. risale al 176223), fino all’Ottocento
di Pietro Cherchi24 e Paolo Mossa (per limitarci a pochissimi nomi), autore, quest’ultimo, molto vicino a Dessanai (a lui è dedicato il libretto giovanile Néulas):
De piantu largos rios / formo25.
Credo che la trafila mostri la vitalità e la continuità della tradizione logudorese, visibile non solo nel caso esposto. Ma ci fermiamo qui, un esteso sondaggio
richiederebbe una trattazione a parte.
20 GIROLAMO ARAOLLA, Sa vida, su martiriu et i sa morte de sos gloriosos martires Gavinu, Brothu
et Januariu, [1582] pubblicato dallo Spano in appendice all’OS, parte II, pp. 127-219. I versi
su riportati si riferiscono all’ottava CLV. Le citazioni da Araolla si riferiscono sempre a questa
edizione.
21 ID., ottava CCXIX.
22 TONINA PABA [a c. di], Canzoniere ispano-sardo, [testi sardi a c. di Andrea Deplano], Cagliari, CUEC, 1996; i luoghi citati si trovano rispettivamente alle pp. 300 e 306.
23 Vedi ANTONIO VIRDIS, Sos Battúdos. Movimenti religiosi penitenziali in Logudoro, [s. l.], Asfodelo Editore, [finito di stampare nel 1987], pp. 162-165, strofa 1.
24 Da chi sa mala sorte, in CPS, I, 226, vv. 9-12 [contando la pesada di tre versi]; vedi anche
Dai su primu istante (di varia attribuzione), in CPS, III, 100 vv. 26-28 e Non dia eo suspirare, in
CPS, IV, 400, vv. 55-56.
25 PAOLO MOSSA, A Dori lontana, vv. 5-6; ma pure Una öghe rara (de piantu faghinde largos rios,
v. 50).
41
Dalla koinè regionale alla parlata locale
Dalla fine dell’Ottocento in poi, la coscienza critica di una tradizione letteraria interna all’isola si fa sempre più chiara ed insistente. Importanti indicazioni si trovano soprattutto in studiosi forestieri. Già nel 1893 Egidio Bellorini scriveva: Bisogna insomma confessare che c’è un vero e proprio linguaggio poetico [nella poesia popolare nuorese], composto per la massima di parole d’altri dialetti sardi,
o di parole italianizzate e in parte anche derivate dall’italiano26. La confessione veniva da un continentale curioso (di una curiosità tale da regalarci una delle più
preziose ed accurate collezioni di canti popolari sardi), che si dovette stupire
non poco nel notare sensibili differenze tra lingua d’uso (Bellorini, dal 1890,
insegnava lettere presso il ginnasio di Nuoro) e prassi poetica nuoresi. L’interesse per queste divergenze lo portò a fornire in appendice un inventario di parole poetiche, come oju (nuor. ocru), oe (nuor. oje), ecc.27, foneticamente logudoresi. Alla pura registrazione egli aggiunse alcune intuizioni che potrebbero
tranquillamente sottoscriversi anche oggi:
Credo che il dialetto della poesia semidotta e un po’ anche quello della eloquenza sacra, ripuliti, per così dire, e nobilitati, quasi uniformi per tutto il Logudoro,
abbiano, se non dato origine, almeno favorito nel suo formarsi questo linguaggio
poetico popolare e gli abbiano prestato una parte delle sue forme.28
La questione non poteva di certo sfuggire all’occhio attento di Max Leopold
Wagner, che alla lingua della poesia dedicava un intero capitolo del suo La lingua sarda29 (1950), dandole il meritato rilievo. Nell’esperto linguista non mancano, a differenza di Bellorini, importanti precisazioni:
…i canti amorosi di Nuoro, raccolti dal Bellorini, contengono molte forme che
non sono nuoresi, ma tolte dal logudorese «illustre»; si dice ocros (nuor.), ma anche
ojos (log.), nobu (nuor.) e nou (log.) […]. In parte questa indifferenza si spiega per il
fatto che i muttos migrano da una regione all’altra e che spesso, per necessità della
rima o per ragioni eufoniche, si conservano le forme della regione dove nacque il rispettivo muttu; ma vi entra anche la predilezione per il sardo «illustre», che, come
ho già detto ripetutamente, è la lingua modello di tutta la zona logudorese30
Delle due spiegazioni fornite (a: oscillazione log./nuor. come prodotto della
provenienza geografica; b: prodotto dell’approssimazione alla lingua modello) è
preferibile la seconda, che soprattutto torna utile all’economia del presente discorso. La prima soluzione non consente di spiegare l’uso di voci logudoresi in
EGIDIO BELLORINI, Canti popolari amorosi raccolti a Nuoro [1893], ed. anastatica: Bologna,
Forni, [s.d.], p. 34.
27 ID., pp. 221-223.
28 ID., pp. 34-35.
29 MAX LEOPOLD WAGNER, La lingua sarda, cit., pp. 354-364.
30 ID., p. 360.
26
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Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
mutos (o muttos) che non sono affatto di provenienza log. ma composti ex novo da
dialettofoni nuoresi (a maggior ragione non potrà essere usata per motivare l’uso del log. in componimenti d’autore). Per accoglierla bisognerebbe immaginare il Logudoro come unico centro d’irradiazione di mutos, il che pare francamente improbabile ed aprirebbe un mal documentabile problema di origini. In
linea di principio, se la migrazione dei mutos da una zona all’altra generasse continue influenze linguistiche, si registrerebbe una certa reciprocità, mentre accade che la direzione d’influenza sia in netta prevalenza quella logudorese → altre
varietà (fra le quali il nuorese). Ma, probabilmente, le due spiegazioni date da
Wagner andranno viste in prospettiva diacronica: la stima del logudorese quale lingua poetica di prestigio sarà stata preceduta e favorita da una fortunata diffusione di testi originariamente logudoresi (laddove deve aver avuto un ruolo
non secondario l’attività delle confraternite, con la diffusione di laude e gosos).
L’intervento del linguista tedesco si chiudeva con l’espressione di una visione molto equilibrata (per gli scopi linguistici, la lingua della poesia non deve considerarsi come norma, testi provenienti da un dato paese non rispecchiano generalmente con
fedeltà la rispettiva parlata […] malgrado ciò meriterebbe uno studio approfondito anche la lingua poetica in generale e quella dei singoli poeti31), che spiace non incontrare anche presso un insigne linguista nostrano, Massimo Pittau. Egli lamenta per il nuorese l’assenza di attestazioni scritte, il che, aggiunge, vale in modo
particolare per la prosa (un solo scritto in prosa, Sa lampana di Berto Cara, nativo di Barisardo, più brevi novelline popolari). E se pure ci soccorre un maggior
numero di testimonianze in versi, queste non hanno alcuna validità per il linguista che vorrà usarle come documenti della parlata nuorese, in quanto redatte in una lingua poetica sovraregionale che non corrisponde al dialetto locale.
Ma lasciamo la parola direttamente all’autore:
Insomma, dico io, il poeta popolare nuorese - e analogamente si può dire del poeta popolare di un qualsiasi paese della Sardegna - quando compone le sue poesie,
non usa propriamente il suo dialetto nativo, bensì usa una specie di lingua poetica,
la quale ha, sì, una prevalente forma logudorese, ma non appartiene a Nuoro più di
quanto appartenga a Bitti, a Bonorva o a Ploaghe. Questa specie di lingua poetica
potrebbe riuscire interessante anche al linguista, se fosse composta solamente di vocaboli sardi; sta invece di fatto che i componimenti poetici sardi sono infarciti di
vocaboli italiani sardizzati o, peggio, crudamente italiani, i quali rendono quei
componimenti in generale insopportabili non meno al linguista che al cultore di
letteratura od anche di etnologia.32
Se, da una parte, è vero che la poesia nuorese tradizionale non può essere usata
come attestazione del linguaggio autenticamente nuorese, dall’altra, occorre
31 ID., p. 361.
32 MASSIMO PITTAU,
Grammatica del sardo-nuorese (GSN), Bologna, Pàtron, 1971, pp. 6-7 (versione ampliata dell’edizione del 1956, Il dialetto di Nuoro).
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Dalla koinè regionale alla parlata locale
rendersi conto che la presenza stessa di una lingua poetica regionale è un fatto
di una certa rilevanza nella storia della cultura sarda. Affermare, nell’approntare un’opera scientifica rigorosa, quale è la grammatica di Pittau, che i testi poetici nuoresi sono inservibili in quanto linguisticamente non-nuoresi, non equivale a dire che gli stessi non rivestono alcun interesse linguistico. Invero, quelli che sono vizi per il dialettologo che si accosta ai testi nuoresi per riceverne
un conforto testimoniale, non è detto che siano tali per lo storico della poesia
sarda. E si può pensare soltanto a quanto lo studio del fenomeno dell’italianizzazione risulterebbe utile a una storia dell’influenza della tradizione letteraria
italiana in terra isolana e quindi del linguaggio poetico sardo.
Nota
1. Per la linea “continiana” si vedano: CESARE SEGRE, Polemica linguistica ed espressionismo dialettale nella letteratura italiana, in ID., Lingua, stile e società, Milano, Feltrinelli,
1974, pp. 397-426; ID., La tradizione macaronica da Folengo a Gadda (e oltre), in ID., Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979, pp. 169-183; ALFREDO STUSSI, Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993, p. 52 (già in Storia d’Italia, vol. I: I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972) e IVANO PACCAGNELLA, Plurilinguismo letterario: lingue,
dialetti, linguaggi, in Letteratura italiana, diretta da Albero Asor Rosa, vol. II: Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 103-167.
Oltre al sardo latinizzante, in esperimenti più arditi Madau crea versi ambivalenti
(leggibili sia in sardo sia in latino); per operazioni similari condotte in territorio italiano e tendenti a dimostrare la prossimità del toscano al latino, si veda l’appendice 35
in TULLIO DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita [1963], Bari, Laterza, 1993, p.
322; dove è pure ricordato l’autore sardo.
Discorrendo di approssimazione del poeta dilettale alla letteratura in lingua, non si intende recuperare alcune convinzioni di Benedetto Croce, contenute in un famoso scritto sulla letteratura dialettale riflessa (CROCE, La letteratura dialettale riflessa, le sua origine nel Seicento e il suo ufficio storico, in Uomini e cose della vecchia italia, I, Bari, Laterza,
1927, pp. 222-234). Alla situazione sarda poco o niente si addicono almeno due considerazioni espresse in quella sede: la posizione subalterna riservata alla letteratura dialettale nel puro compito di integrare quella nazionale (L’epico, il cavalleresco, il tragico,
l’alta lirica d’amore e di religione, la novella di passione e di caratterologia, avevano avuto ormai opere classiche nella letteratura nazionale; ma mancavano, accanto ai toni maggiori e ad alcuni minori, altri toni minori, che solo la letteratura dialettale d’arte poteva fornire, p. 228) e
la convinzione che gli autori dialettali facciano quasi parte di un moto unico, teso al
consolidamento dello spirito nazionale (lo svolgimento della letteratura dialettale in Italia
nel seicento non fu un processo antiunitario, ma, per l’opposto, un processo di unificazione, perché
non mirò a combattere e sostituire la letteratura nazionale, da tutti riverita, accettata e coltivata, ma la prese a modello per far entrare nella cerchia della vita nazionale voci fin allora inascoltate o piuttosto inarticolate, p. 229).
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Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
L’inadeguatezza degli assunti crociani rispetto alla poesia in lingua sarda esprime,
più in generale, un’incompatibilità di fondo fra le tesi elaborate sullo studio della poesia dialettale italiana e la realtà poetica dell’Isola. Un discorso di questo tipo, per quanto importante, esula chiaramente dalle finalità di questo lavoro. A prima vista il concetto di approssimazione qui proposto parrebbe inscrivibile nel sesto dei sei filoni della poesia dialettale italiana isolati da FRANCO BREVINI (a c. di, La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, Milano, Mondadori, 1999, vol. 1, pp. LXXXIXLXCVII; quest’opera fondamentale è stata pubblicata quando il presente lavoro era già
in bozze e mi duole il non potermene servire abbondantemente), quello che l’autore definisce dei poeti in simil-lingua (p. LXCVI). Ma anche in questo caso si tratta di un accordo apparente, poiché la corrente individuata da Brevini implica comunque un concetto di espressione dialettale in subordine alla letteratura in lingua che non è dato riferire alla produzione sarda preunitaria. Tale incompatibilità può trovare una ragione
valida, almeno per quanto riguarda la parte centro-settentrionale della Sardegna, nell’affermazione di quella forte e prestigiosa tradizione regionale che si è cercato di mettere in luce. D’altronde, su un piano più generale, è lo stesso Brevini, a porre l’accento
su una questione che non dev’essere elusa: Allo stesso modo in cui il sardo non può essere considerato un dialetto italiano, difficilmente la Sardegna, a causa della sua posizione decentrata e
della sua peculiarissima storia, segnata dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in
un discorso di storia letteraria rigorosamente italiana (ID., p. 1532).
2. Per l’uso in dialettologia del concetto di competenza molteplice si veda: EDUARDO
BLASCO FERRER, Storia linguistica della Sardegna, cit., p. 187. Ma il termine, come segnala lo stesso Blasco Ferrer, è di VARVARO, La Lingua e la società. Le ricerche sociolinguistiche, Napoli, Guida, 1978, p. 53.
Dall’illustrazione della competenza molteplice del poeta nuorese qui esposta, restano
fuori le lingue iberiche, castigliano e catalano, che molta parte hanno avuto nella nutrizione del lessico sardo. Lo schema proposto è in funzione di un isolamento dei codici che interferiscono sincronicamente nella poesia nuorese del secolo scorso, non riguarda la stratificazione linguistica in essa verificabile. Quando si riscontrano iberismi
nella poesia nuorese del periodo preso in esame, si tratta di materiale lessicale ereditato, ormai presente nella lingua sarda di tutti i giorni (cullera [cucchiaio]; bentana [finestra], e così via). E anche se la tradizione poetica spagnola ha influito molto sulla poesia sarda (nel lessico e nell’uso di numerose forme metriche), non si tratta di tradizione attiva nei poeti nuoresi di fine Ottocento. Si parlerà, allora, di poetismi attinti dalla tradizione logudorese e ad essa consustanziali (ermosura, abblandare, e tanti altri), usati non in riferimento alla tradizione d’origine ma a quella di mediazione. I modelli letterari spagnoli sono attivi in Girolamo Araolla (fine XVI secolo), forse lo sono stati fino a Luca Cubeddu (XVIII secolo), ma non lo sono in Dessanai. Riguardo alla poco indagata (in termini stilistici) influenza della poesia spagnola su quella sarda si veda JOAQUIN ARCE, La Spagna in Sardegna [1960], Cagliari, Editrice T.E.A. [s.d.; finito di
stampare nel 1982], pp. 212-231
Per le realizzazioni linguistiche nei poeti nuoresi dell’Ottocento si possono citare an45
Dalla koinè regionale alla parlata locale
Italiano, tradizione logudorese e parlate locali
che altri tipi di ricorsi, più che altro pertinenti a sperimentalismi individuali. Antonio
Giuseppe Solinas (1872-1903) si è servito del sassarese in A F. M. (SOLINAS, Poesie, a c.
di D.P. Mingioni e F. Satta, Cagliari, Fossataro, 1977, p. 85) e del bittese nel sonetto
Su gappotte nobu (ID., p. 77). Una lunga inserzione di sassarese, sempre di Solinas, è pure in Corbu chin corbu (ID., p. 55, vv. 89-100), preceduta da un’altra in italiano (Ibid.,
vv. 49-54). Essendo la lingua di base di questo componimento un nuorese spruzzato di
logudorese, si tratta di una delle punte di plurilinguismo in un testo di un poeta nuorese (logudorese, nuorese, italiano e sassarese insertivi, più italianismi). Un esempio
estremo è anche la Passio (in prosa) di Salvatore Rubeddu (1847-1891) che si può leggere nell’Antologia di Gonario Pinna (PDN, p. 63). La voce narrante, quella dello historicus, è in latino maccheronico (sardo/latino) mentre il discorso diretto è in nuorese,
più un breve intervento in mamoiadino, nuoresizzato in PDN ma conservato da un
apografo (MR) inedito, forse risalente a originali rubeddiani (MR contiene una settantina di componimenti di Rubeddu, i quali spesso recano la nota copia conforme che potrebbe riferirsi ad autografi).
PDN
MR
Et Mariantonia Mamujadinensis: «Corfu e balla a
nos cheren […] a sa limusina» - et asinus lasciavit
in farina manducans, - et dum regreditur,
cum farinam non invenit, asinum mazzucavit et filens dicebat: «Ja mi l’happo pizicanda»
Et Mariantonia Mamujadinensis: - Orfu | e balla, a
nos heren torrare a sa limusina, - Et asinus | lasciavit
in farina manducans - , et dum regreditur,
quum | farinam non invenit, asinum mazzucavit et flens dicebat: Ja mi l’appo pizihada!
MR appare più fededegno dell’ed. Pinna proprio perché conserva queste particolari forme mamoiadine (Orfu, heren, pizzihada); è difficile che si tratti di innovazioni attribuibili alla mano che ha trascritto MR. Inoltre il testo di PDN presenta una lacuna, [torrare], e riporta un incomprensibile filens (ma potrebbe trattarsi di un refuso) in luogo
del participio presente flens. Le forme mamoiadine, nuoresizzate in PDN, si riconoscono per l’occlusiva laringale (segnalata da MR con la h, heren e pizzihada, o con il completo dileguo, Orfu), presente in alcuni paesi della Sardegna centrale, qui definite mamoiadine perché uscite di bocca da una Mariantonia Mamujadinensis.
Numerosi sono i segni della presenza della moda stecchettiana in Sardegna. Di Dessanai abbiamo due traduzioni (XLIX e XLVIII) tratte rispettivamente da Postuma LII e
Postuma XIV (oltre a un rifacimento inedito, L, di Postuma VI); di Antonio Giuseppe
Solinas, interessante figura di poeta nuorese, si conoscono due traduzioni, No, non mi
james giovanu e Frores de sepe (Poesie, cit., p. 85), rispettivamente tratte da Postuma X e
Postuma LXIX, ed altre testimonianze ancora ci parlano di una fortunata accoglienza in
terra sarda della gaia impostura stecchettiana (Borgese; vedi: STEFANO BIANCHI, La “gaia
impostura stecchettiana”. Una lettura dei Postuma (1877), in «Critica letteraria», Napoli,
Loffredo editore, anno XXII, fasc. IV, n. 85, 1994, pp. 655-668). Una traduzione in gallurese, ad opera di Leone Chispima (pseudonimo di Michele Pisanu), di un sonetto di
Postuma, si trova in un numero della rivista di fine Ottocento «Vita sarda» (vedi FRANCESCO CORDA, Poesia sarda in «Vita sarda», Cagliari, ed. 3T, 1992, pp. 26 e 97-98); più
46
in generale si consideri l’influenza stecchettiana su poeti come Peppino Mereu, e la perduta opera giovanile del poeta nuorese in lingua Francesco Cucca, intitolata Stecchettiane (cfr. l’introduzione di DINO MANCA a Francesco Cucca, Veglie beduine [1912], a c. di
Dino Manca, Cagliari, Astra editrice, 1993, p. 17; e ora, sempre dello stesso studioso,
la monografia Voglia d’Africa. La personalità e l’opera di un poeta errante, Nuoro, Il Maestrale, 1996, p. 249).
3. I termini diamesico e diafasico, qui liberamente usati, derivano da lavori più strettamente linguistici; rispettivamente: ALBERTO M. MIONI, Italiano tendenziale: osservazioni su alcuni aspetti della standardizzazione (in AA.VV., Scritti linguistici in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pisa, Pacini, 1983, pp. 459-517); e GAETANO BERRUTO, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987 (ma diafasico risale a COSERIU, Lezioni di linguistica generale, Torino, Boringhieri, 1973).
Ricostruire, per quanto possibile, le tappe del costituirsi della tradizione logudorese
credo debba essere uno dei compiti principali e più affascinanti degli studiosi della letteratura in sardo. Indicazioni persuasive, anche se non d’ambito propriamente poetico,
vengono da ANTONIO VIRDIS (Op. cit., in particolare si vedano le pp. 47-52), che, attraverso l’analisi dei codici recanti la regola de sos Battúdos (appendice sarda dei Disciplinati o Battuti), individua una tradizione confraternitale sassarese-logudorese (più antica), dalla quale deriverebbe una seconda tradizione, denominata algherese-bisarcese-ottanese (comprendente anche Nuoro dunque).
Proprio l’ambiente delle confraternite, infatti, potrebbe essere stato un veicolo importante di diffusione di temi e stilemi poetici, come già sembra concretamente indicare la trafila testuale individuata a proposito dell’immagine fagher rios de piantu (vedi
p. 41), che passa per antichi esemplari laudistici. Che l’attività delle confraternite avesse assunto un ruolo importante nell’acculturamento della popolazione è confermato
dalla testimonianza riportata da SALVATORE LOI (Cultura popolare in Sardegna tra ’500 e
’600, Cagliari, AM&D, 1998, p. 73), dove il vescovo di Ampurias, Ludovico Cottes,
nel 1547 informa il Consiglio dell’Inquisizione spagnola sull’attività dei Battuti sardi:
Nella maggior parte dei paesi c’è una confraternita intitolata alla Croce e che qui chiamano dei
Battuti. […] Ogni domenica nelle loro chiese particolari recitano gli uffici e tutta la gente dei
villaggi va ad ascoltarli, non frequentando così la messa principale delle chiese (parrochiali).
47
II
VERSO L’APPROPRIAZIONE POETICA DELLA PARLATA LOCALE
1. Mano a mano che ci si avvicina ai nostri tempi si riscontra nella poesia nuorese un uso sempre meno frequente dell’italiano e del log. ill. L’abbandono di tali spinte eteronome coincide con un vero e proprio mutamento di gusto. Cambia l’orizzonte ricettivo della poesia in lingua sarda, processo che può essere considerato avviato ai primi del Novecento e compiuto solo oggi. Nel favorire questo mutamento hanno avuto un ruolo importante la glottologia e la dialettologia, secondo un antica sintonia, particolarmente forte in Sardegna, tra scienza
linguistica e prassi letteraria. La nobilitazione del lessico, attraverso l’adozione
di italianismi, è simultaneamente presente, dal Settecento all’Ottocento, nel fare poetico e nei progetti grammatici e lessicografici (Madau, Spano, Angius,
Rossi), nei quali si propone un ampliamento lessicale del sardo attraverso l’apporto della lingua italiana. Al mutamento di paradigma che si verifica in ambito scientifico, intorno alla fine dell’Ottocento (passaggio da criteri normativi a
esigenze di descrizione; da trattazioni unificanti tese ad appiattire la varietà, a
monografie dedicate ad aree ristrette; da un atteggiamento linguistico di contaminazione, con l’italiano ma anche con il latino, spacciato per ripulimento, Araolla e Madau, a uno conservativo e separativo), corrisponde un nuovo indirizzo linguistico nella produzione poetica. Anche qui si ha un recupero della lingua autentica, delle varietà minori che ancora non hanno avuto cittadinanza poetica.
La sintonia, e sincronia, di atteggiamenti tra prassi poetica e scienza linguistica è visibile in Luca Cubeddu e Matteo Madau (entrambi propensi alla contaminazione), più tardi in Paolo Mossa e Giovanni Spano (a metà strada tra deferenza nei confronti dell’italiano e purismo), e ancora più in là in Predu Mura ed
Antonio Sanna1 o in Antonio Mura (figlio di Predu) e Massimo Pittau. Da Predu
Mura, quello degli anni successivi al 1950, in poi, si può parlare con sicurezza
di una definitiva appropriazione poetica della parlata locale (nella fattispecie
nuorese). Nei successori (già in Antonio Mura, poi in Giovanni Piga e Franceschino Satta) si può indicare una seconda fase di questo lungo e lento processo;
quella che in senso strettamente linguistico si potrà definire di ripescaggio arcaizzante (questa seconda fase pare piuttosto inserirsi in quel più generale di1 Vedi la corrispondenza Mura-Sanna pubblicata da Nicola Tanda in: PREDU MURA, Sas poesias d’una bida, Sassari, 2D Editrice Mediterranea, 1992.
49
Dalla koinè regionale alla parlata locale
stacco dalle koinài regionali che Franco Brevini ha individuato a proposito della
poesia dialettale italiana del Novecento2; ma questa è appunto storia in gran parte novecentesca e, quindi, per i limiti cronologici e geografici che ci siamo qui
imposti, è un’altra storia).
Accade, insomma, in parte della poesia sarda della seconda metà dell’Ottocento, il contrario di ciò che si verifica in molte zone della storia della poesia
dialettale peninsulare, dove l’italianizzazione si mostra in crescita lungo l’asse
diacronico. In una pagina della sua Storia linguistica dell’Italia unita3, De Mauro ha evidenziato l’uso sempre più diffuso della lingua nazionale in testi dialettali attraverso un sondaggio della lingua di Belli, Pascarella e Trilussa. Ne
è risultato il 60% di parole di forma identica all’italiano in Belli, il 70% in
Pascarella ed il 71% in Trilussa. Un confronto quantitativo tra queste percentuali e quelle che risulterebbero da una campionatura di testi nuoresi non sarebbe operazione corretta, in quanto il romanesco ha molti punti di contatto
con la fonetica e il lessico italiani e dunque la possibilità di restituirci percentuali altissime (per la marcata differenza di sistema vocalico e consonantico tra
sardo e italiano, l’italianismo subisce sempre un qualche adattamento fonetico; preso, infatti, anche il caso in cui il poeta tradizionale serbi i suoni palatali appartenenti a parole di provenienza italiana, secondo una tendenza tipica
del log. ill., rimarranno altri elementi differenzianti: giustu è pur sempre diverso dall’it. ‘giusto’, aggiustada non è ‘aggiustata’). Un confronto proporzionale potrebbe, invece, tornare utile. Da una nostra campionatura è risultato
l’8,3% d’italianismi in Nicola Porcu Daga (1833-1898), il 6,6% in Salvatore
Rubeddu (1847-1891) e lo 0,8% in Dessanai (1868-1919)4. Si è ottenuta una
tendenza di segno opposto, discendente, a quella registrata da De Mauro per
la poesia romanesca. Identico risultato si raggiunge per il log. ill.: 8,3% in
Porcu Daga, 4,5% in Rubeddu e 0% in Dessanai. L’evolversi della lingua poetica nuorese descrive una linea di progressivo abbandono sia dell’italiano, sia
del logudorese.
Nelle pagine seguenti limiteremo l’indagine all’individuazione delle dinamiche culturali e stilistiche che stanno alla base di questo processo, che poi sono
quelle fondamentali in relazione agli autori e al periodo presi in esame. Non è
2 Vedi il fondamentale volume: FRANCO BREVINI, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro
secolo, Torino, Einaudi, 1990, passim e specialmente le pp. 67-70.
3 TULLIO DE MAURO, Storia linguistica…, cit., pp. 157-159.
4 Di Porcu Daga si è saggiato Su teraccu anzenu (composizione di 62 vv. tratta da un dattiloscritto, qui siglato DS, conservato presso la biblioteca Satta di Nuoro, per il quale si veda la sezione Fonti inedite e manoscritte della Bibliografia); per Rubeddu si è fatto ricorso ai primi 62 vv.
de La resurrezione di Bobore Bardile (al testo di PDN, non integrale, si è preferito quello contenuto nel ms. M, per ulteriori dettagli si vedano le Fonti inedite e manoscritte della Bibliografia); mentre per Dessanai ci si è serviti de Sa morte de Pettenaju (primi 62 vv.; in questo componimento, dopo la porzione di testo esaminata, compare un logudoresismo, chérfidu, ma è l’unico ed è dettato
da precise esigenze prosodiche.). Criteri generali seguiti: scelta di testi affini in quanto al genere
(seguendo De Mauro), esclusione dal computo in percentuale di congiunzioni, articoli e copule.
50
Verso l’appropriazione poetica della parlata locale
possibile qui affrontare un altro ordine di problemi, più propriamente novecenteschi, che concernono in primo luogo la questione capitale del passaggio, nella
società sarda, da una fase di tendenziale bilinguismo a una di diglossia, con il secondo conflitto mondiale a fare da cesura. Su tale passaggio si fonda l’apparente
paradosso per cui nella fase di bilinguismo, e quindi di minore compromissione
del sardo con la lingua nazionale, si ha una poesia in lingua sarda (logudorese)
italianizzante, mentre nella fase di diglossia (la situazione attuale, per intenderci) si ha una poesia dialettale (e qui l’etichetta risulta più appropriata) sarda che
tende a rifuggire il vocabolario nazionale e la koinè regionale.
2. Quando uno dei poeti nuoresi più imbevuti di tradizione linguistica logudorese, Rubeddu (la cui attività poetica si concentra negli anni ’70 dell’Ottocento), si troverà a dover riferire le parole come escono tuttodì (Belli) dalla bocca dei suoi compaesani, ricorrerà di necessità alla parlata locale. In sede d’esordio dell’inedito Dialogu tra Zizedda, Grassia Catzu e Antonia Petitu5, è una volontà letteraria che porta Rubeddu a logudoreggiare e ad italianizzare. I nomi
contenuti nel titolo si riferiscono a tre teraccas (serve, domestiche) che s’incontrano ad una fonte cittadina per riempire le loro brocche. Le tre decidono de si
facher a comares (lett. ‘di farsi a comari’), cioè di pettegolare un po’ e di scambiarsi qualche raccontino piccante6. Inizialmente ricorrono voci logudoresi7,
poi, quando da un pacifico scambio di notizie si passa a un reciproco rinfaccio
di illecite relazioni amorose, il nuorese esplode dalle labbra delle protagoniste
e, se si esclude la comparsa di un log. tie (r. 60), dalla r. 41 fino alla conclusione del dialogo è esclusa qualsiasi possibilità di una seppur minima lucidatura
logudorese. L’intento letterario, sotteso all’uso della koinè, va inizialmente scemando per poi scomparire quando lo scontro verbale si farà più acceso; allora
sarà una mimesi totale a spodestare il color poetico, l’autore si farà prendere la
mano dai suoi personaggi di paese. D’altronde intrusioni provenienti dall’alto
avrebbero suonato decisamente stonate in pezzi parlati come il seguente:
Catzu G. - Bastet, e deo puru,/ bos naro carchi contu curiosu,/ costau in beridai,/ Missente Funedda, bastet chi lu / ere piccau, lassabat / sa fiza de Bobore Frore./
Ant. Petitu - Ahi, sessae, favularja,/ custas [non] sunu cosas de bocare,/ pro
sa bellesa chi tenies bos piccabat;/ si non fit pro iffundere.
5 Conservato nel ms. MR. Il testo è riportato in 113 brevi righe che non pare si possano considerare versi; perciò s’indicherà la singola riga con r.; se il riferimento andrà a più d’una riga
si userà rr.
6 La situazione ricorda un sonetto di altro poeta nuorese, Issa funtana di Sebastiano Manconi
(in PDN, p. 206).
7tardades r. 3 [Prem. Ling. VI]; fuo r. 6 [Prem. Ling. III]; mie rr. 21 e 37 [Prem. Ling. II]; istudiende r. 21; nende r. 23 [Prem. Ling. VIII]; me r. 30 [Prem. Ling. XI]; mia r. 41 [Prem. Ling. X]; tie
r. 60 [Prem. Ling. II]; gente rr. 8 e 68; forma propriamente italiana ma frequente nel log. ill. [Prem.
Ling. XII], lo stesso si dica per la forma metatetica sempre r. 23 [nuor. semper]; e per infelice r. 26.
51
Dalla koinè regionale alla parlata locale
Catzu G. - Aitte so favularja,/ e itte so sa fiza de Bonapetitu,/ d’unu cane
’e mola / chi paret su missu bandidore?
[C. G. - Basta, anch’io voglio raccontare qualche fatto curioso, davvero accaduto; Missente Funedda, bastava che lo volessi, lasciava la figlia di Bobore Frore.
A. P. - Ahi, piantatela, bugiarda, non sono cose da dire, mica per la vostra bellezza vi avrebbe preso, voleva bagnare il biscotto. C. G. - Come sarebbe a dire
bugiarda, non sono mica la figlia di Bonapetitu, di un buono a nulla che pare il
messo banditore.]
Verso l’appropriazione poetica della parlata locale
limetrica, la cui composizione risale al 1877. I due testi sono reciprocamente ed
intimamente legati in quanto il primo fa da introduzione al secondo. Staccando
idealmente la coda dal sonetto, si possono individuare tre parti, che si distinguono per un discreto divario linguistico, come illustrato qui sotto:
it.
log.
A) introduzione (72 vv.)
9%9
1,7%10
B) sonetto (14 vv.)
12,5%11
19,5%12
C) coda (25 vv.)
12%13
6,5%14
o in campioni di scurrilità (filtrata da metafore popolari) come questo:
Catzu G. - Boi[s] muda iscoffada,/ chi Orzeniu Tola bos hat iscoffau,/ pro
cussu andaes a iscroccadura.
[C. G. - Voi state zitta, che Orzeniu Tola vi ha sfondato e per questo camminate a gambe larghe.]
In quanto al resto della sua produzione, se si escludono certi passaggi de Su
zudissiu universale, Rubeddu rimane fedele al logudorese. I trentasette sonetti
amorosi conservati in MR (il piccolo canzoniere rubeddiano) sono, c’era da
aspettarselo, redatti quasi interamente in log., con l’aggiunta di italianismi anche forti (aulicissimi, come empidu, sonetto XIII, v. 4). In tutto si rilevano una
ventina di forme nuoresi, un dato che parla da sé, considerato il totale di 518
versi in cui ricorrono (siamo nell’ordine dell’1%).
Ma Rubeddu è talmente attaccato alla norma tradizionale che il nuorese fatica ad emergere anche in componimenti propriamente satirici e comunque non
lirici, come il Brindisi a su connottu, dove il rapporto log./nuor. può considerarsi
paritario (molti ed evidenti sono gli italianismi). Tra i due estremi, nuorese mimetico in basso e logudorese “arcadico” in alto, si estende una zona grigia in cui
vige una sostanziale equipollenza tra i due poli linguistici. Una netta bipartizione (testi assolutamente in logudorese / testi assolutamente in nuorese), secondo una perfetta corrispondenza tra lingua e tematica, non coinciderebbe con
la realtà testuale, più flessibile. Si riscontreranno tensioni, non genera elocutionis.
Esemplari compatti di log. ill. si trovano in prossimità di temi ipertradizionali,
altrove nuor. e log. si alternano quasi con indifferenza nel medesimo testo. L’uso del nuorese non è, in Rubeddu, oggetto di un profondo interesse poetico, ma,
piuttosto, viene spontaneamente attirato, come più sopra si è verificato, da modalità mimetiche (nonché emergente in quanto lingua materna del poeta).
3. Prendiamo ora due composizioni di Giovanni Antonio Murru8 (1853-1891):
una serie di strofe in sesta serrada (ABABCC) ed un sonetto con una lunga coda po8
52
In PDN, pp. 77-82.
Il dato che salta subito agli occhi riguarda la sproporzione tra la percentuale di
log. di A (1,7%) e quella di B (19,5%), nettamente più alta in quest’ultimo.
Occorre pertanto chiedersi se si può dare una ragione di tali pesanti differenze
tra componimenti così intimamente legati.
A mette in scena il momento in cui il poeta riceve la commissione di due sonetti. Il committente, certo Prede Paulu, si raccomanda subito con il poeta: Ma
mih! Non ch’essas in istravaganzia / fachemi duos sonettos de sustanzia [ma bada a non
scrivere stravaganze, fammi due sonetti di sostanza] (vv. 11-12); prescrizione
che equivale a una sorta di clausola contrattuale. La istravaganzia è qui lo scarto dalla consuetudine, ciò che contravverrebbe alla normale ricettività del manufatto poetico (al modo delle sconvenienti pale d’altare di un pittore manierista). Si potrebbe così parafrasare: ‘fammi un sonetto dove tutto stia al posto giusto’. Ma l’ironia del poeta non tarda a fare giustizia dell’assurda proposta, ed
agisce su singole parole. Il termine istravaganzia si ritorcerà contro il committente stesso ai vv. 40-42, dove è l’autore a parlare: Mando tottu sas musas a galera, / maleighende a cudd’istravaganzia / de mi cherrer sonettos de sustanzia. [Mando in
galera tutte le muse / maledicendo quella stravaganza / di pretendermi due sonetti di sostanza.]. Ricollocando i due termini chiave parallelamente alla posizione originaria (cioè nuovamente esposti in sede di rima nel distico che chiude
la strofa), Murru fa argutamente coincidere quei termini che per Prede Paulu
9 a dogni costu 21; arrabiat 36; coda 72; commissione 56; concludere 28; estru 24; finalmente 29; geniu 60; giustu 51; incivile 39; in disparte 59; iscandescenzia 30; istravaganzia 11e 41; moda 71; momentu 3; natura 60; naturale 51; per esempiu 63; professione 62; raru 57; replicat 5; sustanzia 12 e
42; talentu 44.
10 dadu 44; istrazzadu 34; maleighende 41; paraula 15; segundu 71.
11 carissimu 4; certu 6; considero 4; donu 7; felice 14; sentimentos 8; senza 12.
12 agradessidu 8; algunu 12; amigos 3; dogni 7; fatto 2; istimadu 1; mie 3; pius 2 e 11; tie 4 e 5.
13 civile 31; compiacher 18; complimentos 16; delizia 39; distinghia 28; gentile 30; pacifica 35; paragone 29; tranquilla 35.
14 benzende 22; godidu 20; gosende 20; te 28; tie 21.
53
Dalla koinè regionale alla parlata locale
Verso l’appropriazione poetica della parlata locale
si opponevano. L’istravaganzia, ora, non è più reato contro il canone ma s’identifica con la stessa richiesta di sonettos de sustanzia. Ed infatti è proprio dopo i
versi appena citati che si sviluppa la parte più ostensiva di A, contenente una
latente dichiarazione di poetica già anticipata al v. 40 (Mando tottus sas musas a
galera) con un gesto forse di maniera ma sintomatico di un atteggiamento antitradizionale non riducibile a una protesta, per altro significativa, nei confronti della poesia su commissione. Il poeta, dice Murru, è altra cosa dal barbiere o
dal calzolaio: l’arte non tollera imposizioni esterne ma deve attendere che giunga un’ispirazione e seguire il genio del suo produttore (vv. 55-60).
Detto questo, per l’economia del presente discorso è importante osservare che
tali rivendicazioni sono affidate (dall’inizio alla fine dell’introduzione in rima)
al nuorese, non già al logudorese, il che esprime almeno una presa di distanza
da un uso poetico alquanto diffuso. D’altro lato, basterà dare un’occhiata alla
percentuale di log. che figura in B (19,5%) per capire che il frutto stesso della
commissione, il sonetto, allude alla tradizione regionale:
Istimadu Antonicu in custa die
sos augurios ti fatto pius sinzero
ca in sos amigos prus caros a mie
pro carissimu a tie considero.
Chi custos versos aggradan a tie
non lu merito certu e non l’ispero,
ma est dogni donu aggradessidu a chie
tenet de amicu sentimentos vero.
Si sas grassias chi deo ti desizo
de ti las cunzeder si dignabat Deu
tue non dias connoscher pius fastizos;
5
10
e dias viver senza algunu anneu
paris chin sa muzere ei sos fizos
sempre felice e semper in recreu.
[Amato Antonicu, in questa occasione / i più sinceri auguri ti faccio / ché tra
gli amici a me più cari / te considero carissimo. // Che questi versi a te piacciano / non lo merito e non lo spero, / però ogni dono è gradito da chi / ha veri sentimenti d’amicizia. // Se i beni che io per te desidero / si degnasse di concederteli Dio, / tu non conosceresti più affanni; / e vivresti senza alcuna angoscia / insieme a tua moglie e ai tuoi figli / sempre felice e sempre in riposo.]
Pertanto, se A difende la genuina ispirazione, la sincerità poetica, la quale non
può che realizzarsi nella sincerità verbale (in lingua materna), con B Murru fornisce un esemplare d’ipocrisia poetica, compilato nella convenzionale koinè letteraria sarda e consistente in un elenco di sentimenti generici e di luoghi co54
muni, dall’iniziale topos di falsa modestia (vv. 5-6) al “vissero felici e contenti”
finale15. E se A conserva una discreta percentuale d’italianismi, occorre avvertire che molti di questi rientrano in quel processo di progressiva italianizzazione che intorno alla fine del secolo scorso ha iniziato ad interessare i dialetti sardi, patente in termini ed espressioni come finalmente, a dogni costu, in disparte,
professione, talentu, non rientranti tra i tipici italianismi della poesia logudorese
(di origine poetica) e dunque dotati di un basso indice di letterarietà.
Il dato sicuro è che Murru sembra decisamente poco propenso alla pratica del
log. ill. ed anche poco vicino ai modi della tradizione logudorese; è di per sé
indicativo il fatto che di lui non si conoscano componimenti di genere amoroso, fra i temi privilegiati nella storia della poesia sarda. Si può notare, più da
vicino, che nei suoi pochi componimenti giunti sino a noi non si riscontra un
rapporto paritario tra log. e nuor., come si è ad esempio osservato in Rubeddu.
Il verbo fáchere [fare], considerando i testi pubblicati in PDN, ricorre in tutto
sedici volte, di cui quattordici nella forma nuorese e due in quella logudorese
[Prem. Ling. I] (guarda caso la prima in un testo satirico su tema amoroso e la
seconda nel nostro sonetto B); la forma nuor. prus [più] prevale su quella log.
pius [Prem. Ling. IV] (quattro contro due, queste ultime tutte in B).
Resta ancora da vedere come si comporta linguisticamente la lunga coda polimetrica del sonetto (C; vv. 15-39). Questa si apre con il dubbio sull’efficacia
che il sonetto potrà avere sul destinatario (Ma prite, o amicu meu, / Dego custos complimentos appo a facher? / Dego tottu m’abbizzo / chi los iscurtas pro mi compiacher. [Ma
perché, o amico mio, / io farò tutti questi complimenti? / Io m’accorgo / che li
ascolti solo per compiacermi]); quindi la polemica non investe soltanto il formalismo espresso dal produttore di un genere di poesia quale è quello a cui appartiene B, ma anche la formalità di chi lo riceve, l’ufficiale compiacimento del
destinatario del prodotto commissionato. Così il verso scivola nella satira, ma
bonaria, della persona a cui il sonetto è dedicato e, neanche a dirlo, sparirà ogni
logudoresismo, che pure non mancava di comparire all’inizio della coda:
Cuddu chi ti desizo
tue ti l’has godidu e ses gosende
ca su tempus a tie
comente lu desizas ti est benzende.
Ses grassu che mannale
e pares, foras male,
su cumpanzu chi hat su santu tuo.16
E si deo ambos duo
15 Non è da escludersi che l’autore ci abbia dato un segnale del doppio registro linguistico
vigente nella poesia nuorese, laddove si consideri che log. e nuor. vengono fatti reagire in due
versi contigui: sos augurios ti fatto PIUS sinzero / ca in sos amigos PRUS caros a mie (cfr. Prem.
Ling. IV).
16 Nell’iconografia popolare Sant’Antonio è accompagnato da un maiale.
55
Dalla koinè regionale alla parlata locale
pro sorte bos bidia
su porcu dae te non distinghia.
Si custu paragone
non ti paret gentile
t’appo a narrer in modu prus civile
chi de cantu ses grassu
pares Collette cando fachet bassu:
prova de mente ispipilla
e de vida pacifica e tranquilla.
Però lassemus custa chistione
e andemus a dommo de Basolu
ube b’at unu bellu mustarolu
chi est sa delizia de sos imbriacones.
Verso l’appropriazione poetica della parlata locale
e dignità artistica, prendendo le distanze dalla comune poesia d’occasione e dimostrando già una coscienza linguistico-poetica in senso nuorese; in B si diletta a costruire un sonetto d’occasione in logudorese; in C rivela, suo malgrado, la debolezza di una satira superficiale e di uno stile poco controllato (anche
se non si dovrebbe pretendere troppo da un testo ad uso privato quale è il presente). Ciò non toglie che Murru abbia già fatto un passo avanti verso una posizione critica nei confronti della tradizione, nella fattispecie quella logudorese, e, complementarmente, in direzione di una legittimazione poetica del nuorese, seppure all’interno di un disegno non coerente.
4. Una testimonianza speciale della presenza della koinè regionale nella poesia
nuorese ci è offerta da un sonetto di Sebastiano Satta (1867-1914), A Piera:
Piera, non ti mustres tantu avara
de amore e surrisos delicados
chin custu coro meu, chi ti prepara
basos e carignos mai provados.
[Ciò che per te desidero / l’hai goduto e lo stai godendo / perché il tempo
a te / come lo desideri ti sta venendo. / Sei grasso come un maiale / e sembri, Dio mi perdoni, / il compagno del tuo santo. / E se io ambedue / per
caso vi vedessi / il maiale da te non distinguerei. / Se questo paragone non
ti pare gentile / ti dirò in modo più civile / che da quanto sei grasso / sembri Collette quando fa il basso: / segno di mente sveglia / e di vita pacifica
e tranquilla. / Però lasciamo questa questione / e andiamo a casa di Basolu /
dove c’è un bel vinello / che è la delizia degli ubriaconi.]
Iscurta, bella, iscurta, rosa rara,
iscurta sos piantos infiammados
chi notte e die pro te, columba cara,
m’essin dae sos ojos disdizzados.
Non è certamente un bel pezzo di poesia, ma, a parte le considerazioni estetiche, qui importa capire il modo in cui log. e nuor. si distribuiscono lungo il
testo. La ripartizione dei logudoresismi è diseguale (dal v. 15 al v. 22 se ne contano quattro; dal v. 23 al v. 31 uno; neppure uno dal v. 32 alla fine17). Dopo i
primissimi versi della coda (15-18), che mettono in dubbio la finalità del sonetto, Murru finta una ripresa del tono e della tematica elogiative: sono i vv.
19-22, quelli dove non a caso compare la maggior concentrazione di voci logudoresi. Con il v. 23, che apre la seconda parte qui isolata, viene introdotta
l’irrisione satirica del personaggio; qui Murru mette da parte il logudorese e
adotta, quasi con un movimento istintivo, il nuorese. Dal v. 23 fino alla chiusa della coda non compare che il logudorese te (v. 28). Sul finale si fuoriesce dal
tema satirico e la situazione si circoscrive a serate paesane che potrebbero avere un valore al limite folcloristico (il lassismo metrico dell’ultima parte è spia
di una più generale gracilità di tono).
Riassumendo. In A Murru appare intento ad affermare la propria autonomia
17 Tale ripartizione, oltre a seguire i passaggi di tono qui di seguito illustrati, poggia su un
criterio metrico-strutturale: la prima parte (vv. 15-22) mostra un’alternanza settenario/endecasillabo con andamento binario (7 11 7 11 7 11 7 11), la seconda (vv. 23-31) ha un andamento
ternario (7 7 11 7 7 11 7 7 11), la terza (vv. 32-39) è priva di una struttura metrica definita,
in cui prevale l’endecasillabo (7 11 8 11 11 11 11).
56
Pache, columba mea, pache tesoro,
istella mattutina de s’oriente
chi costante mi brillas in su coro.
5
10
Semus unidos in unu destinu:
e dego aspetto cuss’istante ardente
chi amus a dormire sinu a sinu.18
[Piera, non mostrarti tanto avara / d’amore e sorrisi delicati / con questo mio
cuore, che ti prepara / carezze e baci mai provati. // Ascolta, bella, ascolta, rosa rara, / ascolta i pianti infiammati / che notte e giorno per te, colomba cara /
mi escono dagli occhi disperati. // Pace, colomba mia, pace tesoro, / mattutina
stella dell’oriente / che sempre mi brilli in cuore. // Siamo uniti in un solo destino: / ed io aspetto quell’istante ardente / in cui stretti insieme dormiremo.]
È indubbiamente un esercizio in lingua poetica sarda. Non si può, alla luce
della limpida coscienza poetica che accompagna l’operato sattiano, riconoscervi un’ingenua adesione al canone: si è alle prese con un pastiche. Satta mostra
18
SEBASTIANO SATTA, A Piera, in PDN, p. 101.
57
Dalla koinè regionale alla parlata locale
Verso l’appropriazione poetica della parlata locale
una perfetta consapevolezza dei codici che intervengono nella produzione poetica locale, sa bene che nella retorica popolare il tema amoroso rappresenta una
delle più vaste giurisdizioni del log. ill., conosce il legame che corre tra quest’ultimo e la produzione di tipo occasionale (tale è A Piera, stando alla testimonianza fornita da Mario Ciusa Romagna, che si accorda bene a una consolidata tradizione di serenate e poesie d’amore su commissione19). E il componimento occasionale, che sia indirizzato a una coppia di sposi o ad un battezzato, o ideato per riconquistare una ragazza, muoverà le corde di una tastiera
nota, si rifarà ad un codice riconosciuto e riconoscibile. Si ammetta anche
un’origine spesso estemporanea, e i versi tenderanno ad utilizzare materiale di
seconda mano, acquisito dalla tradizione e depositatosi nella memoria. Difficile che tali merci non abbiano passato lo sdoganamento logudorese: gli esemplari che stanno sotto gli occhi del poeta nuorese appartengono a quella tradizione. Non è per caso, si crede, che lo stesso Satta, in una serie di rime
estemporanee, indulga verso forme linguistiche (in corsivo) che a quella scuola vanno riferite:
Tristas campanas sonade
ch’ana fertu su Sansone,
ana fertu su leone,
su billiardu cuzzicade.
Cuzzicadelu a luttu
chin billudinu nigheddu,
tottus semus in corruttu
dae Nugoro a Casteddu.
In dogni mare e rejone
tristas campanas sonade
ch’ana fertu su Sansone
.................
Su Re at cherfiu ischire
notissias de su fattu
e ha detto: - Questo misfatto
mi ha fatto soffrire.20
5
10
15
19 Il sonetto A Piera nacque d’improvviso per un fatto occasionale. L’amico del Satta, Emilio Secchi,
aveva rotto con la fidanzata. Da un po’ di giorni, perciò, era triste e spesso scontroso anche con le persone
più vicine. Il poeta volle conoscere la causa di tanta tristezza […]. Il poeta, nuovo Cirano, dettò lì per lì
all’amico la missiva poetica […]. MARIO CIUSA ROMAGNA, in PDN, p. 101 (Pinna ha pubblicato
i sonetti dialettali di Satta accompagnati dal commento di Ciusa Romagna, già apparso in «Sardegna oggi», n. 59, 1-5 dicembre e 15-31 dicembre 1964).
20 Questi versi figurano in un giornale studentesco ciclostilato («La livella», Nuoro, Istituto
58
A Piera è un testo fortemente italianizzato. Non staremo qui ad elencare l’elevatissimo numero d’italianismi che vi si riconoscono, basti sapere che siamo
nell’ordine della quindicina e che ci troviamo di fronte ad un italiano sardizzato piuttosto che ad un sardo con qualche condimento italiano. Il ricorso alla
lingua d’oltremare è, come si è già detto nelle pagine precedenti, legittimato
dalla prassi poetica logudorese, almeno fin da Araolla. L’uso di italianismi da
parte di Satta è un segno di adesione, seppur simulata, a quella tendenza contaminatrice in direzione nobilitante tipica della poesia tradizionale sarda. A
questa considerazione di carattere generale si aggiunga che gli stessi italianismi visibili nel nostro sonetto si prestano al reperimento di istruttivi rapporti
intertestuali. In una deghina glosa21 di Gavino Capitta, Mentras chi tantu t’adoro22,
ritroviamo le stesse parole rima di Satta: cara (v. 2), avara (v. 20), rara (v. 21),
coro (v. 4), tesoro (v. 10); appartenenti a un codice comune ma piuttosto riferibili a Capitta per il contatto flagrante tra il suo non ti mustres tantu avara (v. 31)
e l’identico emistichio sattiano (v. 1). E non mancano citazioni più illustri: l’esortazione Iscurta (vv. 5 e 6) ci riporta a Cubeddu: Isculta, Clori hermosa /… /… /
Isculta pro un’istante23 (anche in Satta in posizione anaforica).
Di tutt’altro tenore è la restante, anche se esigua, produzione sarda di Satta24,
quella che si rivolge al versante nuorese. In essa non compare un solo logudoresismo (si potrebbe al limite citare il latinizzante flores di Santa Maria) e pochissimi sono anche gli italianismi (se ne contano cinque in Santa Maria: gridos, allegria, signorile, gloria, a tue25; uno solo in Sa ferruvia: ingrediente; neppure
uno in S’abbocau e in Su battizzu). Ma si noti che, preso l’unico caso di Sa ferruvia (ingrediente), questo non sarà da ricondurre a un dato codice letterario, apparterrà piuttosto all’italiano usuale. Qui l’italianismo mira a creare un effetto
d’ironia linguistica, messo com’è in bocca a un personaggio e inserito in un sonetto dialettofoni; con ingrediente Satta rimarca l’estraneità e la novità dell’oggetto
tecnologico “treno” dalla società rurale dell’Ottocento (il treno non può avere no-
tecnico, anno scolastico ’54-’55), accompagnati da una breve nota (Improvvisazione inedita di Satta, gentilmente procurataci dal sig. Emilio Secchi, caro amico del poeta), sulla quale si fa affidamento
sia per l’autorità della fonte e sia per la presenza nella redazione del giornalino del futuro scrittore nuorese Romano Ruju, personalità attentissima e sensibilissima alle tradizioni locali (immaginiamo che sia lui l’autore della nota). Al testo si è aggiunta la punteggiatura e si è ipotizzata la caduta del v. 12, soluzione altamente congetturale vista la natura estemporanea della
composizione.
21 Vedi l’Appendice di questo lavoro.
22 In CPS, I, 201.
23 LUCA CUBEDDU, Isculta, Clori hermosa (vv. 1 e 3), in Cantones e versos, a c. di Salvatore Tola,
introduzione di Michelangelo Pira, Cagliari, Della Torre, 1981.
24 Per tutti i componimenti citati si veda PDN. Sa ferruvia e Su battizzu erano già in Nella
terra dei nuraghes. Versi di Sebastiano Satta, Pompeo Calvia, Luigi falchi, Sassari, Dessì, 1893, pp.
21 e 41.
25 Calco morfologico dall’italiano che in sardo genuino suona come vero solecismo, la corretta forma nuorese è a tibe.
59
Dalla koinè regionale alla parlata locale
me preciso, perciò lo chiama ingrediente, qualcosa di straordinario e di non definibile26),
sceglie una parola estranea all’idioma locale per designare un oggetto estraneo
alla realtà locale. I sonetti in nuorese sono calati e ci calano in una dimensione
storica: è poesia realistica distante dall’acronicità e dalla indeterminatezza
espressiva di molta poesia tradizionale.
5. Al culmine del processo di appropriazione poetica della parlata locale (il
nuorese), si colloca l’opera di Pascale Dessanai, nel quale l’operazione assume
un carattere quasi programmatico ed è sostenuta da una precisa e verificabile
coscienza poetica.
Anticipando i risultati esposti nelle pagine seguenti: una considerazione diacronica dell’opera dessanaiana mette in risalto un’evoluzione linguistico-poetica in direzione del nuorese. A una fase giovanile certamente segnata dalla fedeltà alla tradizione (Néulas, 1890), segue un periodo di sperimentalismo (18911893), durante il quale Dessanai perviene in alcuni casi a una totale cassatura
di elementi italiani e logudoresi. È una fase in cui si può misurare tutto il tormento del trapasso: Cherrende (1893), il testo dessanaiano che per primo certifica una decisa sterzata in direzione del nuorese, convive con Cántigos de su Coro (pure del 1893), poemetto in prosa interamente impostato su un logudorese
fortemente italianizzato (e a un logudorese italianizzante Dessanai ricorrerà in
Tempesta, del 1895, e in Flagellan sos iscoglios de Caprera, del 1896). Una fase “di
mezzo” che prelude alla più matura produzione in nuorese (i cui esemplari,
però, inediti o pubblicati postumi a partire dagli anni Sessanta del Novecento,
sono di datazione incerta o databili soltanto per via stilistica), dove potremo assistere a quella che Franco Brevini ha chiamato, unificando molte manifestazioni della poesia dialettale italiana dell’Ottocento, la rivendicazione del dialetto
come lingua della realtà, della moralità, della verità27.
26
27
60
MARIO CIUSA ROMAGNA, in PDN, p. 98.
FRANCO BREVINI, Le parole perdute, cit., p. 20.
PARTE SECONDA
PASCALE DESSANAI
LA VITA E L’OPERA POETICA IN SARDO
I
LA VITA*
E stavamo infatti per varcare la soglia della taverna, quando un misterioso personaggio, sbucando da un vicoletto vicino, si appressò a noi, accolto subito con viva gioia dagli amici, e salutato con il lusinghiero appellativo di poeta. Era costui
un giovinetto imberbe, alto, magro, di una magrezza fenomenale, col mento aguzzo, poveramente vestito, in occhiali, e con un capello di paglia ripiegato sulla fronte. – Pascale – gli disse tosto Antonio Pau, caro amico morto giovanissimo e che allora era uno dei più feroci nichilisti della giovane letteratura sarda – vieni con noi
a bere la vernaccia, ed intanto, ci leggerai parecchi chilometri de’ tuoi versi in dialetto! Il poeta sorrise leggermente e, senz’altro, fece l’atto di trarre dalla saccoccia
un voluminoso incartamento.
Il presente ritratto, che dobbiamo alla penna del giornalista Stanis Manca1, oltre a costituire una delle poche testimonianze dirette e attendibili sulla personalità e la figura di Pascale Dessanai, pare quasi assumere un valore simbolico
in relazione alla fortuna del poeta: si può dire che Dessanai scompaia dalla Storia (letteraria e non) così come all’improvviso sbuca da quel vicoletto in un assolato pomeriggio nuorese. Gli archivi dicono che egli nasce a Nuoro all’una del
23 agosto 1868, figlio primogenito della nuorese Maria Antonia Nurra Sini
(classe 1849) e di Luigi Sanna (Laconi 1830). Risulta pertanto oscura l’origine
del cognome Dessanai, che figura nei registri degli Atti di nascita del Comune
di Nuoro2 ma non nel Liber Baptizatorum della Cattedrale cittadina (Doc.2), dove compare l’autentico cognome paterno che il poeta userà, accanto a Dessanai,
per firmarsi nella raccolta giovanile Néulas. Questi primi e scarni dati d’archivio suggeriscono già la misura del fascino ma anche dell’aura enigmatica che avvolge la vicenda biografica dessanaiana, sulla quale rimangono ben pochi do-
*
Con l’abbreviazione Doc., seguita da cifra araba, si rimanda ai relativi documenti contenuti nell’Appendice documentaria posta in fine di questo capitolo (ad es.: Doc.1 = Documento 1).
1 STANIS MANCA, Il poeta di Nuoro, in ID., Sardegna leggendaria. Vecchie cronache ed antiche escursioni, Roma, Enrico Voghera Editore, 1910 (pp. 133-147), p. 135.
2 Anno 1968, Atto n. 43, Parte 1, Serie A. Non disponibile al pubblico e, dunque, non riprodotto nell’Appendice documentaria.
63
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
cumenti ufficiali, ivi incluse corrispondenze epistolari (cui va aggiunto, non ultimo, che al momento ci restano di pugno del poeta soltanto la firma apposta all’atto del suo matrimonio con Cicita Dore, alcuni testi in lingua e il sonetto in
nuorese In s’abba, la cui autografia può essere stabilita tramite il confronto con
la suddetta firma).
Il primo dato sicuro è quello della pubblicazione del già citato libretto di liriche in logudorese intitolato Néulas, scritto insieme a Cam (alias Amico Cimino, giovane poeta di Bitti praticamente coetaneo di Dessanai). Ben poco si
evince dalla prefazione al libretto, scritta dai due giovani autori, dove si narra
di una scampagnata nell’agro di Oliena (presso la fonte de Su Gologone), durante la quale l’editore Gaetano Mereu Canu ingaggiò i due poeti in erba. La raccolta dovette suscitare un qualche interesse nei lettori di lirica sarda e non soltanto nella piccola comunità nuorese. Già nel 1892 il giornalista di origine sassarese Stanis [Stanislao] Manca (ormai familiare al lettore di questo profilo biografico), vivente e operante a Roma, richiede alla Deledda poesie di Dessanai;
e costei, sfoderando la sua nota civetteria giovanile, risponderà:
Vi scrivo per scusarmi se non v’ho mandato prima le poesie che desideravate leggere del Dessannai. Ve le spedisco insieme a questa. Gliele ho fatte chiedere da un
suo professore, - ché il Dessannai frequenta la scuola normale, - mio amico, perché
io non ho con lui relazione alcuna, benché m’abbia già dedicato molti versi, fra cui
gli originalissimi che vi unisco: li dedicò a me forse credendo che la voce udita da
lui cantare fra i silenzi incantati degli elci illuminati dalla luna, fosse la mia.3
Dalla lettera si apprende anche il grado d’istruzione del poeta, che, in ritardo
con gli studi (nel gennaio del 1892 ha 23 anni), frequenta la Scuola Normale di
Nuoro. Non si sa quali testi pervennero via posta al Manca, la questione si chiude con la missiva della Deledda. All’epoca Dessanai ha già alle spalle tre pubblicazioni sulla «Vita sarda» (VS) di Antonio Scano (Cuntrastu, Malinconia e A
Lia; le ultime due attireranno, un anno dopo, l’interesse dello scrittore cagliaritano Felice Uda, che, in un articolo ugualmente uscito sulle pagine della rivista
cagliaritana4, procederà ad un’esaltazione della prima e ad una parziale stroncatura della seconda), cui affiderà un’altra prova sempre nel 1892, (A tie bella durmida), e altre due l’anno seguente (Cántigos de su coro e Civetta).
Proprio il 1893 segna un periodo importante nella formazione culturale di
Dessanai, risalendo a tale anno la prima testimonianza del rapporto con il futuro pittore nuorese Antonio Ballero (Nuoro 1864-Sassari 1932), che allora si
cimentava nella scrittura con articoli di costume (anche questi apparsi in VS)
che rivestono ancora oggi un certo interesse documentario e con i romanzi di
ispirazione regionalistico-naturalista Don Zua e Vergini bionde. Si pensa al sonetto
3
GRAZIA DELEDDA, Lettera del 9 gennaio 1892, spedita da Nuoro a Stanis Manca (in FRANCESCO DI PILLA, a c. di, Grazia Deledda. Lettere inedite, Milano, Fabbri, 1966, pp. 246-247).
4 FELICE UDA, Critica di casa nostra, in VS, a. II, n. 5, 10 aprile 1892, pp. 1-2.
64
La vita
Cherrende, ospitato sulle pagine della rivista sassarese «Sardegna artistica» (SA)
e corredato di un disegno del giovane Ballero; che, se è importante per la storia interna della poesia e della poetica dessanaiane, è più in generale sintomatico di un periodo che vede una stretta e fruttuosa collaborazione tra artisti votati a discipline diverse. E si tratta anche di eclettismo in seno ad ogni singola
personalità, se si pensa allo stesso Ballero o al Sebastiano Satta (1867-1914) autore di quadri che paiono informati del realismo pittorico di fine Ottocento.
Fonti orali, infatti, riferiscono di un Dessanai buon disegnatore e, nota curiosa,
vincitore di alcune gare ad uncinetto, alle quali partecipava sotto falso nome,
essendo le stesse riservate a sole donne. Forse così si spiegherebbe la invero sbrigativa annotazione psicologica (mezzo matto) della Deledda che, in una lettera
del 1894 indirizzata a Epaminonda Provaglio, scrive:
Rispondendo alle domande che mi fai, ti dirò che il Dessannai è un famoso poeta vernacolo sardo, povero impiegatuccio, mezzo matto, giovanissimo.5
Intanto risulta che Dessanai ha un impiego e che dunque ha lasciato gli studi regolari: sarà stato già impiegato come scrivano, qualifica che figura nell’atto di
matrimonio del Comune di Nuoro (Doc.4). Le pratiche d’ufficio non lo distolgono dall’impegno poetico, che prosegue nel 1895 con apparizioni di singoli testi nelle riviste letterarie sarde. È la volta delle sassaresi «Mente e Cuore» (MC)
e «La Giovine Penna» (LGP), dove dei cinque testi che compaiono uno solo è in
sardo (Tempesta), segno, forse, di una ricerca di una più vasta notorietà attraverso
il cimento in lingua (quello di Sebastiano Satta, anch’egli eccellente dialettale in
gioventù, è forse l’esempio più classico del passaggio all’italiano per desiderio di
ottenere un’udienza più larga). Il 6 maggio 1896 (l’8 dello stesso mese si terrà la
celebrazione religiosa) Dessanai si sposa con la allora venticinquenne nuorese
Maria Francesca (familiarmente: Cicita) Dore (vedi Doc.3 e Doc.4). Dall’atto di
matrimonio del Comune di Nuoro (Doc.4) risulta che il mestiere svolto in quegli anni dal poeta è quello di scrivano (impiegatuccio, dunque, secondo la definizione della Deledda; più preciso, ma mica tanto, Stanis Manca: alunno di cancelleria o qualcosa di simile al tribunale di Nuoro6). Di un certo significato anche la presenza fra i testimoni di quel Menotti Gallisai che sarà da individuare nel Ricciotti Bellisai polemicamente tratteggiato da Salvatore Satta ne Il giorno del giudizio.
Singolare figura di politico locale, Gallisai fu tra i primi, a Nuoro, a sposare la
causa del socialismo (confrontandosi disperatamente sul fronte elettorale con il
futuro costituente Pietro Mastino), prendendo le difese del locale ceto contadino. Il che è ben in sintonia con le passioni politiche di Dessanai, che, proveniente da una tradizione repubblicana, mazziniana e garibaldina, approda presto a un
5 GRAZIA DELEDDA, Lettera del 22 settembre 1894, spedita da Nuoro a Epaminonda Provaglio, (in ID., Opere scelte, a c. di Eurialo De Michelis, Milano, Mondadori, 1968 [1964], vol. I,
pp. 1078-1082, p. 1081).
6 STANIS MANCA, Il poeta di Nuoro, cit., p. 140.
65
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
socialismo non privo di venature anarchiche. Sulle convinzioni politiche del poeta rimane soltanto qualche aneddoto. In quanto a un suo sentimento anticrispino (forte era l’avversione per Crispi sulle pagine del quotidiano «L’Isola» di Sebastiano Satta e Gastone Chiesi, certamente presente a Dessanai), si narra che fosse solito rivolgersi al proprio cane con il nome Crispi; l’ingiurioso appellativo fu
ben presto, e a quanto pare su richiesta delle autorità, mutato in Ciccio, vezzeggiativo di Francesco (Francesco Crispi, s’intende). Per l’antimonarchismo del poeta si parla addirittura di una vicenda giudiziaria: appresa la notizia dell’assassinio
di Umberto I a Monza, il 29 luglio del 1900, Dessanai scrisse su un tavolino da
caffè alcuni versi inneggianti alla morte del Re, che gli procurarono l’arresto:
In occasione della uccisione di Umberto I, mio padre fu tratto in arresto e condannato ad alcuni mesi di carcere perché aveva fatto l’apologia di regicidio in pochi versi scritti con matita copiativa sul marmo di un tavolino di caffè.
Un’arma a due punte è un grande terrore.
Con una si lacera ai poveri il cuore,
con l’altra si taglia la gola dei re!
Ben morto il re!7
Purtroppo non rimane alcun documento ufficiale (verbali o altro) che possa
comprovare la notizia.
Nel 1897, il 2 di febbraio, nasce il primo figlio di Cicita e Pascale, Ignazio
(che morirà giovanissimo, durante il primo conflitto mondiale, il 20 settembre
1917; un lutto che il poeta, morto nel 1919, dovette soffrire). È l’anno in cui
continua, anche se indirettamente, il sodalizio Dessanai-Ballero. Il poeta, sollecitato dal compositore nuorese Priamo Gallisay (Nuoro 1853-Ozieri 1930),
trae liberamente dal Don Zua di Ballero (a partire dal capitolo XVI) il libretto
per melodramma Rosella, musicato da Gallisay ed eseguito il 5 ottobre del
1897 presso il Teatro Sociale di Varese; direttore d’orchestra: Giacomo Armani (Milano 1868-19548); direttore dei cori: Alfredo Donizetti (Smirne 1867Rosario, Argentina 1921; che non ha niente a che vedere con il ben più famoso Gaetano; infatti Alfredo Donizetti è lo pseudonimo di Alfredo Ciummei9).
Sulla preistoria del libretto c’informa un articolo, non firmato, de «La Nuova
Sardegna» (1896), che dà anche un curioso profilo psicologico di Pascale, in
parte coincidente con quello, più sintetico, fornito dalla Deledda:
La vita
Pasquale Dessanai, il poeta che pareva dovesse restare eternamente scapigliato, si
è dato a lavorare sul serio. Da parecchio tempo intende ridurre in versi il Don Zua
del Ballero e ne sta venendo fuori un libretto che gli intelligenti dicono pieno di
brio e di freschezza. Certamente l’amico ha del talento; e se riuscisse a romperla con
quella… modestia eccessivamente accidiosa che l’ha soverchiato sinora, potrebbe
far cosa degna di plauso. Il nob. Priamo Gallisai ha potuto gustare i nuovi versi del
Dessanai e musicarne quelle parti che suonavano più melodiosamente al suo gusto
di artista finissimo. Deve aver trovato dei motivi veramente originali, e splendidi
devono essere la romanza di Don Zua, che lavora nell’orto, il duetto fra Don Zua e
Boella, il recitativo di Boella che confida a Don Zua un suo sogno, la romanza che
depone il dono votivo a San Maoro.
Per contro, la fattura dei versi risulterà alquanto deludente, segno di un Dessanai poco avvezzo al genere e al verso in lingua italiana.
Nel 1898 (il 27 maggio) nasce un altro figlio del poeta, Giovanni (noto come
Nicheddu). Ma da quest’anno in poi le notizie si fanno sempre più scarse. Fernando Pilia10 colloca intorno al 1900 la partenza del poeta da Nuoro, per andare
a stabilirsi a Terralba e poi a Uras (paesi del circondario di Oristano). I motivi di
quella che sembra essere stata una vera e propria fuga non sono chiari, Pilia riferisce di un ricatto da parte di alcuni fuorilegge; fonti orali narrano che alcuni malviventi avessero preteso da Dessanai, allora impiegato presso la cancelleria del Tribunale di Nuoro, le chiavi per accedere alla stessa, in modo da poter, così, sottrarre ed eliminare documenti scomodi relativi a procedimenti che, evidentemente, li interessavano. Tutto qui. Se si esclude la comparsa di due sonetti in lingua nella rivista cagliaritana «La Domenica sarda», poche tracce ci restano del
Dessanai del nostro secolo. Stando ad Uras, gli nacquero altri due figli: Sebastiano, nel 1903, che raggiungerà una meritata notorietà per la sua attività politica,
nonché culturale, e Delfino, nel 1906. La sua vita in Campidano dovette essere
non facile. Abitò con la famiglia, prima al n. 110 di via Eleonora e, dopo, al n.97
della stessa via. Per il biennio 1914-15 risulta nominato barracello (a seguito di
una delibera consiliare del Comune di Uras) e riconfermato in quella veste per gli
anni 1915-16 (intanto la moglie Cicita si adatta a fare lavori di cucito). Di lì a
poco Pascale Dessanai muore (a Uras il 29 ottobre del 1919); causa del decesso
sconosciuta; professione indicata nell’atto di morte: mandatario alle liste11.
Nota
SEBASTIANO DESSANAY, Repubblicani e socialisti a Nuoro, in ID., Identità e autonomia in Sardegna. Scritti e discorsi, cit., p. 54. Originariamente in «Cronache provinciali», Nuoro, a. I, n. 2,
giugno 1960; poi anche in CESARE PIRISI, Giornale di Barbagia, Cagliari, ed. Sarda Fossataro,
[s.d.], pp. 441-449.
8 Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti: Le biografie, diretto da Alberto
Basso, UTET, vol. I, p. 140.
9 ID., vol. II, p. 522.
7
66
L’unico profilo biografico originale su Dessanai lo si deve a FERNANDO PILIA, Pasquale Dessanay il poeta della scapigliatura nuorese, cit. [trascrizione di un intervento di
10 FERNANDO PILIA, Pasquale Dessanay il poeta della scapigliatura nuorese, in «Sardegna oggi»,
a. III, 15-31 gennaio 1964, p. 14.
11 Registro degli atti di morte del Comune di Uras, a. 1919, n. 32, parte I.
67
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
Pilia del 10 dicembre 1963 su Radio Cagliari, nella rubrica Alla scoperta d’una Sardegna
minore]. Notizie più precise sull’ultimo periodo della vita del poeta stanno in FRANCESCO
SONIS, I Dessanay a Uras, in ID., Uras un paese del Campidano tra XIX e XX secolo, Cagliari, ed. della Torre, 1994, pp. 257-264.
Volendo spiegare l’esistenza del cognome Dessanai si potrebbe pensare, in prima battuta, ad un soprannome di famiglia, specificamente del padre, registrato all’anagrafe
(per confusione degli incaricati o per chissà quale altro motivo) come vero e proprio cognome (non sarebbe il primo ed il solo caso). Nel registro dei matrimoni della Cattedrale di Nuoro, relativo agli anni 1868-1869 (Doc.3), compare la grafia Desannai, con
s scempia, e sonora, secondo la norma nuorese della s intervocalica [Cfr. GSN, p. 25],
e doppia n). Questa particolare dizione, che non pare attribuibile ad un errore di trascrizione (nel documento compare due volte ed è la sola a figurare nel già citato articolo di Stanis Manca), potrebbe rispecchiare una reale pronuncia, tenendo anche conto
del fatto che Grazia Deledda, in due occasioni, nel 1892 e nel 1894 (vedi le lettere citate in questo capitolo), scriverà (ma con s geminata) Dessannai, grafia, questa, che figura anche nel libretto che il poeta scrisse per il melodramma Rosella. Scomponendo il
cognome come appare nel suddetto registro, De-sanna-i, vi si riconosce, in mezzo, il cognome Sanna (che, in fonosintassi, trovandosi dopo vocale, la -e di de, è da leggersi con
s sonora). Si tratterebbe di una delle più tipiche e diffuse modalità di neoformazione di
cognomi (risultante dall’unione tra la preposizione de [di], indicante origine, ed il cognome paterno), contro la quale va però la -i finale di Desannai. Si è portati a pensare
ad un iniziale mancato riconoscimento da parte dei genitori, di fronte al quale gli ufficiali dello Stato Civile procedevano all’attribuzione di un cognome fittizio, che spesso, come accadeva in questi casi, risultava inconsueto rispetto ai soliti cognomi locali;
peregrino è, infatti, il cognome del poeta. Tant’è che i Dessanai nuoresi (oggi: Dessanay) appartengono tutti ad un unico ceppo, il cui capostipite va individuato proprio in
Pascale. È probabile che solo in seguito vi sia stato un riconoscimento; da qui, forse, la
presenza del cognome paterno nell’atto di battesimo riportato più sopra, risalente al
quarto giorno successivo alla nascita. Può darsi, allora, che le grafie dell’atto di matrimonio, dell’articolo del Manca e della lettera della Deledda riflettano una sorta di ricostruzione etimologica operata dai compaesani del futuro poeta, i quali, conoscendo e
il cognome arbitrariamente registrato dall’ufficio anagrafe e quello del padre di Pascale, avrebbero interpretato il primo alla luce del secondo (Dessanai > De Sanna(i) > Desannai), conservando ugualmente la -i del cognome “burocratico”.
Seppure siano esistiti documenti relativi alla vicenda giudiziaria che vide Dessanai
accusato di apologia di regicidio, la nostra ricerca si è rivelata infruttuosa; anzi: impraticabile, visto che è purtroppo in corso una politica di smaltimento degli archivi dei
tribunali, per la quale tutti i verbali di cause risalenti all’Ottocento (tranne quelli che
si riferiscono a processi per omicidio) hanno mestamente preso la strada del macero,
senza che sia stata fatta alcuna opera di archiviazione informatica, o previsto un trasferimento presso l’Archivio di Stato.
Numerosi furono, nell’occasione dell’assassinio del Re, gli anarchici arrestati in Sardegna per lo stesso reato commesso da Dessanai, come è risultato da uno spoglio delle
68
La vita
cronache del tempo (specie quelle riportate nel quotidiano La Nuova Sardegna), nelle
quali, salvo nostra svista, non compare mai il nome del poeta. Sulla formazione politica
di Dessanai si veda quanto riferisce Antonello Satta a proposito di Sebastiano Dessanay:
Un giorno un poliziotto acculturato gli sequestra […] una edizione rara di Bakunin. Bustianu
soffre per quel Bakunin: l’aveva ereditato dal padre ed era pieno di ricordi e nostalgie; in ANTONELLO SATTA, Bustianu tra oralità e scrittura, saggio introduttivo a: SEBASTIANO DESSANAY, Identità e autonomia in Sardegna discorsi (1937-1985), Cagliari, EDES, 1991, p. 14.
Per quanto riguarda le opere dessanaiane edite citate in questo capitolo, si rimanda
senz’altro alla Nota bibliografia e alla Notizia sul testo. Si tratta soprattutto di singoli testi comparsi in rivista. In quest’ambito si è rivelata priva di fondamento la notizia, fornita da FERNANDO PILIA (Op. cit.) e dopo di lui ripetuta da molti di coloro che si sono
occupati di Dessanai, di una collaborazione del poeta alla rivista «Stella di Sardegna».
Utile per orientarsi nel panorama delle pubblicazioni periodiche dell’Ottocento: CECARO-FENU-FRANCIONI, I giornali sardi dell’Ottocento. Quotidiani, periodici e riviste della
Biblioteca universitaria di Sassari. Catalogo (1795 - 1899), Cagliari, Regione Autonoma
della Sardegna [tip. STEF], 1991.
Due delle riviste cui Dessanai ebbe modo di collaborare, LGP ed MC, rappresentavano la medesima iniziativa editoriale. Il direttore di MC, Cesare Pieroni (quello stesso che nel 1896 scriverà l’epitalamio per il matrimonio tra Dessanai e Cicita Dore),
mutò la testata in LGP a seguito di un accoltellamento subito da un collaboratore della rivista (Antonio Cano Lintas), da parte di certo Ludovico Satta, che ritenne di riconoscersi in alcuni offensivi ammiccamenti contenuti in un articolo di Cano Lintas. La
curiosa ma anche tragica vicenda è riassunta in CECARO-FENU-FRANCIONI, cit., p. 156.
Riguardo al sostanziale fallimento del melodramma Rosella, un esemplare del libretto, gentilmente fornito da Michele Pintore (studioso dell’opera di Priamo Gallisay), riporta le correzioni dell’autore di drammi Fulvio Fulgonio (Firenzuola d’Arda 1832-Milano 1904), al quale si rivolse Gallisay per una integrale revisione delle parole dessanaiane. Ne risultò una cassatura pressoché integrale, motivata da un appunto in apertura che si conclude definendo l’opera il presente sbagliato libretto.
Amico Cimino è quello stesso che la Deledda, celandolo sotto il nome di Fortunio,
rievocò in alcune pagine agrodolci di Cosima (se ne veda l’impietoso ritratto iniziale: era
un ben piccolo e triste e meschino poeta, in tutto. Era zoppo [in realtà soffriva di una forte miopia], fin dalla nascita; non poteva studiare per mancanza di mezzi, non riusciva a trovare un
posto decoroso per mancanza di studio: era figlio illegittimo della serva del cancelliere […] e, si
diceva, del cancelliere stesso, che non lo riconosceva ma se lo tirava appresso, lo manteneva, gli faceva fare il copista, e gli permetteva di scrivere versi. GRAZIA DELEDDA, Cosima [1937], in
ID., Opere scelte, a c. di Eurialo De Michelis, Milano, Mondadori, 1968 [1964], vol. 2,
p. 932). Cimino nasce a Bitti nel 1867, frequenta le scuole elementari nel suo paese natale e il Ginnasio a Nuoro, che non termina per la sopravvenuta morte del padre. In seguito risulta impiegato come scrivano; mestiere che lascia, dopo essersi sposato (1902),
per la gestione di una cartolibreria a Nuoro. Muore a Olbia nel 1934 (si veda la Nota
biografica premessa dall’editore a: AMICO CIMINO, Bitti Eroica, Bitti, Tipografia La Bit69
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
tese, 1996 [Cagliari, Ledda, 1920]). All’attività di scrivano, certamente svolta presso il
tribunale di Nuoro (come Dessanai), dovranno ricollegarsi le imputazioni di falsità in
atti risalenti al 1900-1901, risultanti da uno spoglio del Registro generale del giudice
istruttore (nn. 747 e 748, rispettivamente, dei registri 835 e 836). Oscura rimane, invece, la vicenda giudiziaria che lo vide accusato del reato di minaccia (1901), dalla quale, per altro, uscì assolto per insufficienza di prove.
Un poco più informati siamo su Stanis Manca (Stanislao Manca dell’Asinara: Sassari 1865- ? 1916). Giornalista, soprattutto di critica teatrale, collaborò stabilmente alle riviste «Almanacco del teatro italiano», «Eroi ed eroine del teatro italiano», «Fantasio», «La Revue d’Italie et Courier d’Europe» (rivista fondata dal giornalista di origine sarda Onorato Mereu), «Il Tirso», «La Tribuna»; fu inoltre corrispondente de La
Nuova Sardegna (cfr. TEODORO ROVITO, Dizionario dei letterati e Giornalisti Italiani Contemporanei, Napoli, Melfi & Joele, 1907, parte seconda, p. 153). Manca tenne un’interessante corrispondenza epistolare con la giovane Deledda (vedi Grazia Deledda. Lettere
inedite, cit.); su di lui ci resta un medaglione comparso in «Vita sarda» a firma di Dycks
(a. II, n. 15, 21 agosto 1892, pp. 5-6). Non è comprovata la notizia fornita da Francesco di Pilla (in nota alla citata lettera della Deledda risalente al 1892; in Grazia Deledda. Lettere inedite, cit.), secondo la quale le poesie contenute nel capitolo Il poeta di Nuoro del libro di Manca (Sardegna leggendaria, cit.) siano da individuare in quelle accluse
alla lettera dalla scrittrice nuorese; il giornalista, tra l’altro, narra, in quella sede, del
primo incontro personale avvenuto a Nuoro con il poeta, il quale gli avrebbe fornito in
quell’occasione i componimenti che figurano nel capitolo su citato (s’ignora la data dell’incontro; sicuramente posteriore al 9 gennaio 1892).
La vita
Così Antonello Satta: Nicheddu, il fratello maggiore di Bustianu, quando a Nuoro arrivava
un gerarca fascista, si presentava spontaneamente al carcere, Sa Rotunda, con la roba dentro un
fazzolettone annodato. Tanto sapeva che per il periodo della visita del gerarca lo avrebbero comunque tenuto al fresco. (ANTONELLO SATTA, Bustianu tra oralità e scrittura, cit., p. 14).
Stessa sorte toccherà al più giovane dei figli del poeta, Delfino Dessanai, anche costui
registrato dal regime fascista tra i sovversivi: Sarto. Comunista. Politicamente di sentimenti avversi al regime e al Governo Regionale (Annotazioni al fascicolo n. 37 della Questura di
Nuoro, aperto il 4 agosto 1923 e chiuso l’1 giugno 1938). I più importanti interventi
politici e culturali di Sebastiano Dessanay, il più celebre dei figli del poeta, sono ora
raccolti nel già citato volume Identità e autonomia in Sardegna. In gioventù Sebastiano
tentò anche la poesia (cfr. il documento riportato da DINO MANCA in Voglia d’africa. La
personalità e l’opera di un poeta errante, cit., pp. 229-230); suoi componimenti compaiono nella rivista cagliaritana «Rassegna poetica dialettale» (dove pure verranno riproposti alcuni testi di Pascale; vedi Bibliografia), due dei quali (Su logu nativu, a. I, n. 5,
15 gennaio 1928, p. 2; Mors suavis, a. I, n. 6, 22 gennaio 1928, p. 2) risultano attribuiti al padre in SD (con titoli diversi, rispettivamente: Su ribu e Morte suave); cosa che
pare strana, se si considera che SD è di mano della moglie di Sebastiano, la signora
Fanny Satta.
Le prove narrative di Antonio Ballero (Don Zua. Storia di una famiglia nobile nel centro della Sardegna e Vergini bionde, Sassari, Giuseppe Dessì, 1894) sono ora leggibili in
ANTONIO BALLERO, Don Zua, a c. di Luisa Mulas, Nuoro, ILISSO, 1997; dove si trovano (alle pp. 233-240 e 241-245) anche i contributi giornalistici originariamente apparsi su VS (Feste e costumi sardi. San Mauro, a. I, n. 17, 8 novembre 1891, pp. 5-7; La
festa de s’Itria. Usi e costumi sardi, a. II, n. 11, 26 giugno 1892, pp. 7-8). Per il Satta pittore si può vedere almeno il Pastore con gregge riprodotto in NAITZA-SCANO, Antonio Ballero, Nuoro, ILISSO, 1986, p. 38.
Ignazio Dessanai è ricordato in un opuscolo di epoca fascista, traboccante di retorica militarista (Ignazio Dessanay. Medaglia d’argento, in Quaderni eroici, n. 3, Federazione nuorese dei fasci di combattimento, Nuoro, Tipografia Editrice, 1933), per il conferimento della medaglia d’argento al valor militare (così recita la motivazione: Comandante di un plotone lo trascinava allo attacco di ben muniti trinceramenti gettando lo scompiglio fra i difensori. Gravemente ferito mentre assaliva una caverna, non si allontanava dal
combattimento fino a quando il nemico la ebbe sgombra). Proprio in quegli anni in cui la propaganda fascista cercava di assicurarsi la memoria del fratello maggiore Ignazio, Giovanni Dessanai (noto come Nicheddu) verrà registrato tra i sovversivi, con l’annotazione: Sarto. Socialista. Accanito contro il regime e contro il Governo Nazionale (Fascicolo
n.26 della Questura di Nuoro, aperto il 3 ottobre 1927 e chiuso l’8 maggio del 1943).
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71
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
NOTA BIBLIOGRAFICA*
Dessanai edito
L’esile vicenda del Dessanai edito si apre con l’ormai rarissimo (per ora l’unico esemplare conservato risulta essere quello della Biblioteca Sebastiano Satta di Nuoro) volumetto di liriche giovanili, scritto col sodale CAM (Amico Cimino), Néulas (de Cam e Dessanai), Nuoro, Gaetano Mereu Canu Tipografo Editore, 1890. Per il resto si tratta di
episodiche apparizioni di singoli testi in rivista: «Vita sarda»: Cuntrastu, numero di
saggio, 29 marzo 1891, p. 3; Malinconia, a. I, n. 2, 20 aprile 1891, p. 8; A Lia, a. I, n.
8, 4 luglio 1891, p. 2 [poi in «Rassegna poetica dialettale», n. 5, gennaio 1928]; A tie
bella durmida, a. II, n.12, 10 luglio 1892, p. 2 [poi in «Rassegna poetica dialettale», n.
3, gennaio 1928]; Civetta [in lingua], a. III, n. 4, 19 marzo 1893, p. 4; Cantigos de su
coro, a. III, n. 12, 9 luglio 1893, p. 3. «Sardegna artistica»: Cherrende, a. I, n. 9, 17 settembre 1893 [poi in «Rassegna poetica dialettale», n. 2, dicembre 1927]. «Mente e
Cuore»: Ingrata [in lingua], a. I, n. 6, 30 giugno 1895, p. 45; Le muse [in lingua], a. I,
n. 8, 14 luglio 1895, p. 64. «La Giovine Penna»: A Rita Deccio [in lingua], a. I, n. 17,
20 ottobre 1895, p. 133; Tempesta, a. I, n. 22, 24 novembre 1895, p. 173; Quadretto [in
lingua], a. I, n. 24, 8 dicembre 1895, p. 194. «Alba letteraria»: Paesaggio sardo [in lingua], a. I, n. 3, 26 aprile 1896, p. 21; Flagellan sos iscoglios de Caprera, a. I, n. 7, 2 giugno 1896. «La Domenica sarda»: Uras [in lingua], a. IV, n. 4, 28 gennaio 1906, p. 3;
Terralba [in lingua], a. IV, n. 11, 18 marzo 1906, p. 3. In lingua è il melodramma Rosella, Milano, G. Ricordi, 1897.
Nuove acquisizioni del Dessanai in sardo si avranno dapprima con STANIS MANCA, Il
poeta di Nuoro, cit.; poi con FERNANDO PILIA, cit. Decisamente più esteso nonché organico il contributo di GONARIO PINNA, Pasquale Dessanay, in Antologia dei poeti dialettali nuoresi (PDN), Cagliari, ed. Della Torre, 1982, [Cagliari, Fossataro,1969], pp. 107-133;
che ha il grande merito di aver rimesso in circolazione i testi nuoresi di Dessanai, fino
ad allora affidati alla trasmissione orale o ai quaderni di qualche appassionato.
Bibliografia su Pascale Dessanai
Per la critica e la biografia dessanaiane il solo contributo di rilievo è quello di G. PINNA, cit., che per la parte biografica si rifà esplicitamente all’articolo pure citato di F. PILIA, intervento occasionale ma intelligente, come quello (parzialmente dedicato a Dessanai) di MANLIO BRIGAGLIA, Poeti nuoresi dei moti contadini, in «Sardegna oggi», a. IV,
n. 72, 1965, p. 13. Inservibile GIOVANNI PIGA, Chi era Pasquale Dessanay, in Premio letterario Barbagia di poesia e prosa sarda, Nuoro, tip. AR.P.E.F., 1985-1987, pp. 97-99
(che ricalca ampiamente e persino verbalmente G. PINNA, cit.). Sulla personalità di Des-
*
Per dettagli e altre indicazioni bibliografiche si rimanda alla Notizia sul testo di questo volume.
72
Nota bibliografica
sanai si veda S. MANCA, cit.; oltre al quale, per il giudizio presso i contemporanei, si
può leggere FELICE UDA, Critica di casa nostra, in VS, a. II, n. 5, 10 aprile 1892, pp. 12; da confrontare con una veloce notizia di SEBASTIANO MADAU in Malattie di questo ventennio, in «La Piccola rivista», a. I, n. 17-18, 31 agosto 1899, pp. 13-17. Per la maggior parte incentrato su Rosella è il breve intervento a firma di P. DEP., Un poeta dialettale sardo. “Rosella” di Pascale Dessanay, in «Nuoro littoria», maggio 1937. Strettamente di carattere biografico, e limitatamente agli ultimi anni di vita del poeta, sono
le notizie contenute in FRANCESCO SONIS, I Dessanay a Uras, cit. Dedica una breve voce a Dessanai MARCELLO SERRA, Enciclopedia della Sardegna, Giardini editori e stampatori di Pisa, 1978, ad vocem. Un paragrafo su Dessanai figura in GIANNI ATZORI-GIGI
SANNA, Sardegna. Lingua Comunicazione Letteratura, Cagliari, Edizioni Castello, 1998,
pp. 291-301 (vi compaiono antologizzate Ribellione e Sa morte de Pettenaju; rispettivamente nn. XXX e XXXVI della nostra edizione). Da segnalare anche due lettere di
GRAZIA DELEDDA in cui si parla brevemente di Dessanai: Lettera a Stanis Manca del 9
gennaio 1892 (da Nuoro), in FRANCESCO DI PILLA (a c. di), Grazia Deledda. Lettere inedite, Milano, Fabbri, 1966, pp. 246-247; Lettera a Epaminonda Provaglio del 22 settembre 1894 (da Nuoro), in G. DELEDDA, Opere scelte (a c. di Eurialo De Michelis), Milano, Mondadori, 1968 [1964], vol. I, pp. 1078-1082.
Brevissimi cenni o semplici menzioni stanno in:
FRANCESCO ALZIATOR, Storia della letteratura di Sardegna, Cagliari, Edizioni Della
Zattera, 1954, p. 406; SEBASTIANO DESSANAY, Note per un’indagine sull’ambiente di Grazia Deledda, in ID., Identità e autonomia in Sardegna. Scritti e discorsi (1937-1985), Cagliari, EDES, 1991, pp. 90-96 (già in M. Ciusa Romagna, a c. di, Onoranze a Grazia Deledda, Nuoro, 2 giugno 1959, ed. Stef.); ID., Repubblicani e socialisti a Nuoro, in ID., Identità…, cit., pp. 51-58 (originariamente in «Cronache provinciali», Nuoro, a. I, n. 2,
giugno 1960; poi anche in Cesare Pirisi, Giornale di Barbagia, Cagliari, ed. Sarda Fossataro, [s.d.], pp. 441-449); SALVATORE SATTA, Lettera da New York. I ricordi del libertario, in «Cronache provinciali», Nuoro, anno I, n. 4, settembre 1960 (poi in Cesare Pirisi, Giornale di Barbagia, cit., pp. 452-453); MANLIO BRIGAGLIA, Peppino Mereu. Uno
scapigliato di paese, in Il meglio della grande poesia in lingua sarda, introduzione di Michelangelo Pira e cappelli introduttivi di Manlio Brigaglia [si riproducono testi che Brigaglia redasse nel 1962], Cagliari, Della Torre, [finito di stampare nel 1975], (pp. 261266), pp. 263 e 265; FRANCESCO DI PILLA, cit., pp. 46, 47, 48 e 246-247 nota; MANLIO BRIGAGLIA, La poesia e la vita di Pompeo Calvia, introduzione a Pompeo Calvia, Sassari mannu, Sassari, Chiarella, 1967, pp. XXIV-XXV; SALVATORE MATTANA, Dalla arguta vena di un poeta popolare la sfortunata inaugurazione delle nuove campane, in «La Nuova Sardegna», 31 gennaio 1967, p. 3; ALBERTO MANCA, Parnaso contestatore in Sardegna,
in «Frontiera», Cagliari, a. IV, n. 3, marzo 1971, pp. 616-618; ANTONELLO SATTA, Prologo per il lettore acculturato, introduzione a Sa scomuniga de Predi Antiogu arrettori de Masuddas, a c. di Antonello Satta, Cagliari, Della Torre, 1983, pp. 25 e 28; MARIO MASSAIU, Sardegnamara. Una donna, un canto, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1983,
p. 69 e nota; SALVATORE NAITZA-MARIA GRAZIA SCANO, Antonio Ballero, Nuoro, ILISSO,
73
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
1986, pp. 20-21, 23 e 41; GIOVANNI PIRODDA, La cultura letteraria tra Otto e Novecento,
in «Archivio Sardo del Movimento operaio, contadino e autonomistico», n. 20-22,
1984 (pp. 189-196), pp. 195 e 196; NATALINO PIRAS, I poeti di Nuoro, in AA.VV., Tutti i libri della Sardegna, Cagliari, Della Torre, 1989, pp. 241-243; G. PIRODDA, Sardegna, Brescia, Editrice La Scuola, 1992, p. 43; NICOLA TANDA, Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni, Roma, Bulzoni, 1992, pp. 72 nota e 79 nota; FRANCESCO
CORDA, Poesia sarda in «Vita sarda» (1891-1893), Cagliari, 3T Gianni Trois editore,
1992, pp. 10 e 11; DINO MANCA, Voglia d’Africa. La personalità e l’opera di un poeta errante, Nuoro, Il Maestrale, 1996, pp. 41 e 44; G. PIRODDA, Prefazione a Montanaru, Boghes de Barbagia [e] Cantigos d’ennargentu, a c. di Giovanni Pirodda, Nuoro, ILISSO,
1997, pp. 9 e 10; M. BRIGAGLIA, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo, in AA.VV.,
Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a c. di Luigi Berlinguer e Antonello Mattone, Torino, Einaudi, 1998 (pp. 499-629), p. 568; G. PIRODDA, La cultura
letteraria tra Otto e Novecento, in AA.VV., Storia d’Italia. Le regioni…, cit. (pp. 10811122), p. 1092; ANTONIETTA DETTORI, Italiano e sardo dal Settecento al Novecento, in
AA.VV., Storia d’Italia. Le regioni…, cit. (pp. 1153-1197), p. 1192.
APPENDICE DOCUMENTARIA
Documento 11
Luigi Sanna | Meloni | e | Maria Antonia | Sini [a margine]
L’anno del Signore mille ottocento sessanta otto il quattordici del mese | di Agosto premesse le
pubblicazioni nella Parrocchia di Nuoro, però | in una volta fatte ed in quella di …… | con dispensa …… e dall’impedimento di …… | alla presenza del sac. [erdote] Giovanni Nieddu spe=
| cialmente dal Vescovo Autorizzato. | È stato celebrato Matrimonio secondo il rito di S. M. Chiesa tra Luigi Sanna | d’anni trenta otto | nativo di Laconi domiciliato in Nuoro | figlio del fu Pasquale del fu Giovanni Antonio | e della Ignazia Meloni vivente del fu Francesco | già vedovo di
…… |. E Maria Antonia Nurra Sini d’anni diciannove | nativa di Nuoro domiciliata in Nuoro |
figlia del fu Giovannantonio del fu Pasquale | e della vivente Marianna del fu Cosma | già vedova
di …… |presenti a testimoni Giampietro Fadda ed Antonio Pirari Nuoresi | e col consenso dei rispettivi maggiori. | [a sinistra]Firma dello Sposo | Luigi Sanna | Firma della Sposa [croce] [a destra]Firma del 1° testimonio | Gio Pietro Fadda
Documento 22
Pasquale | Sanna | Nurra [a margine]
L’anno del Signore mille ottocento sessantotto addi venti= | sette Agosto è stato dal teol.[ogo] Giovanni Nieddu Battezzato | in questa Cattedrale Chiesa un fanciullo, cui si è posto nome | Pasquale figlio dei coniugi Sanna Meloni Luigi del fu | Pasquale e della vivente Ignazia da Laconi, e di Maria
Anto= | nia Nurra Sini del fu Giovanni Antonio e della vivente | Marianna - fu Padrino Giampietro Fadda e matrina la di lui | moglie Francesca Musina. In fede ecc | Teol.[ogo] Giovanni Nieddu.
Documento 33
Desannai Pasquale | e | Dore Francesca [a margine]
L’anno del signore mille ottocento | novanta sei, ed addì otto del mese di Maggio | premesse due pubblicate nelle forme cano- | niche nella Catted.le di Nuoro, è stato celebrato | il matrimonio secondo il
rito di S.[anta] M.[adre] C.[hiesa] | tra Pasquale Desannai di Luigi e di | Maria Antonia Nurra d’anni 28; e Francesca Dore | di Salvatore e della fu Delfina Corsi d’anni 25; | alla presenza del
Benef.to [Beneficiato] Matteo Denti, a ciò | delegato dal Sott.o [Sottoscritto] e dei testimoni Be-
1 Dal libro degli atti di matrimonio della Cattedrale di Nuoro (NU. CATT. 8 1868-1871;
N. 11, p. 41)
2 Dal Liber baptizatorum della Cattedrale di Nuoro (NU. CATT. 21 BATT. 1868-1869; N. 124).
3 Dal registro dei matrimoni della Cattedrale di Nuoro (Vol. 9, N. 716 / 7, a. 1896, cc. 158r
e 158v).
74
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
Appendice documentaria
nef.to [Beneficiato] Seb.no [Sebastiano?] | Cambosu ed il Sig. Antonio Maria Presta del fu Efisio;
| ed in fede | Serra Canto Parroco.
Sorgi, gentil poeta; i baci ambiti,
Quali sognasti ognor ne’ tuoi bei canti,
Un accento d’amor e ognor graditi
A la tua lira accordi sian costanti;
Lungi il genio da te, che a te dettava
Estro nato da ‘l pianto, che straziava!…
Documento 44
L’anno milleottocento novanta sei, addì sei di maggio, | a ore meridiane dieci e minuti …… ,
nella Casa Comunale | di Nuoro, aperta al pubblico. | Avanti di me Avvocato Giuseppe Sotgiu Sindaco | Uffiziale dello Stato Civile, vestito in forma ufficiale, sono personalmente comparsi: | 1.°
Dessanai Pasquale, | di anni ventisette, scrivano, celibe, nato in Nuoro, | residente in Nuoro, figlio di
Luigi, residente | in Nuoro, e di Nurra Mariantonia, resi- | dente in Nuoro; 2.° Dore Maria Francesca, | di anni venticinque, casalinga, nubile, nata in Nuoro, | residente in Nuoro, figlia di Salvatore, residente | in Nuoro, e della fu Corsi Delfina, resi- | dente in Nuoro; i quali mi hanno richiesto di unirli in matrimonio; a questo effetto mi | hanno presentato il documento sottodescritto;
e dall’esame di questo, nonchè di quelli già prodotti | all’atto della richiesta delle pubblicazioni, i quali tutti, muniti del mio visto, inserisco nel volume degli alle- | gati a questo registro,
risultandomi nulla ostare alla celebrazione del loro matrimonio, ho letto agli sposi | gli articoli centotrenta, centotrentuno e centotrentadue del Codice Civile, e quindi ho domandato allo
sposo | se intende di prendere in moglie la qui presente Dore Maria Francesca, | e a questa se intende di prendere in marito il qui presente Dessanai Pasquale; | ed avendomi ciascuno risposto
affermativamente e a piena intelligenza anche dei | testimoni sotto indicati, ho pronunziato in
nome della legge che i medesimi sono uniti in matrimonio. | A quest’atto sono stati presenti:
Mesina Giovanni Maria di anni trenta, | avvocato, e Menotti Gallisai di anni trenta, | Impiegato, entrambi residenti in questo Comune. Il documento presentato è il | certificato delle pubblicazioni eseguite in Nuoro nelle due domeniche | successive [delli] diecinove e venticinqueA dello scorso mese di aprile |
Letto il presente atto e gli intervenuti meco sottoscrivono. A cancellato leggasi | ventisei
Di giovine candor il suo bel viso
Entusiasmi ‘l tuo slancio di poesia;
Sai, quando s’ama, amico, il paradiso
Si schiude per due cori ‘n armonia!…
A te ‘l gaudio, l’osanna, a te la pace!
Ne l’alcova d’Amore ‘l duolo tace…
A te convien cantar: “La vita è bella!…
Ingrato fui se un giorno ó maledetto
E ‘l mare, e ‘l piano, e ‘l cielo, ed ogni stella!…”
Così cantar dovrai oggi che lieto
In cor ti senti, ché la stella amata,
Che cercavi pe ‘l ciel, ài ritrovata!…
In quel tuo cielo nero e senza sole
T’appare oggi la stella che la fede
A te ridà, le gioie e le carole ….
Daccanto a lei, che ‘l cor a ‘l cor tuo diede,
O mio gentil, a i baci e a le carezze –
Riparatori de le dure asprezze
E de le lotte che ci dà la vita –
S’inspiri la tua musa e canti ognora
Per l’anime la gioia indefinita,
Oggi che Maggio il vostr’amore infiora:
S’inspiri poi la musa tua a la madre
In te fidente, lieti d’esser padre.
[seguono firme] Pasquale Dessanai | Dore Maria Francesca | avv. Giomaria Mesina | Menotti
Gallisai | Sotgiu
Documento 55
O vaghi fior di maggio profumati,
Germogliaste propizî, o vaghi fiori!…
Ghirlandaronsi oggi due beati,
Imene, a i quali lega ardenti i cuori!…
Documento 66
Porgi ghirlande le più belle, o Flora,
A lor, cui nasce una novella aurora!!…
4 Dai Registri del Comune di Nuoro (Anno 1896, atto n. 11). Trattandosi di un modulo prestampato, si sono indicate con il corsivo le parti scritte a penna. Le sottolineature sono originali.
5 CESARE PIERONI, Epitalamio (da AL, a. I, n. 5, 10 maggio 1896, p. 36).
76
Permitti chi sa tumba venerada
turbe un istante, o poeta dormente,
ca unu sole nou in s’oriente
cheret totta Sardigna illuminada.
6
AMICO CIMINO, A Pascale Dessanai (da RPD, a. I, n. 1, 11 dicembre 1927, p. 2).
77
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
II
Cudda fulgida lughe chi bramada
fit dae te de coro et cun sa mente,
totta ti cheret inoghe presente
pro chi l’adores a s’imbenujada.
NEL LABORATORIO DELLA TRADIZIONE
Pesa, o poeta geniale et forte
chi versos immortales has cantadu
et chi dent tenner meritada sorte,
et des bider su chelu rinnovadu,
et ti des olvidare de sa morte
in cussa lughe bella estasiadu.
[Permetti che la venerata tomba / turbi un istante, o poeta dormente, /
ché un nuovo sole ad oriente / bisogna che illumini tutta la Sardegna. //
Quella fulgida luce che bramata / fu da te e col cuore e con la mente, / ti
vuol tutta qui presente / perché tu in ginocchio la adori. // Alzati, o geniale e forte poeta / che hai cantato versi immortali / che avranno meritata sorte, / e vedrai il cielo rinnovato, / e ti dimenticherai della morte / in quella
bella luce estasiato.]
II.1. Manierismo logudorese
La prima e giovanile fase dell’opera poetica di Pascale Dessanai è testimoniata dalla raccolta di liriche intitolata Néulas, scritta a quattro mani con il
compagno Amico Cimino, per l’occasione firmatosi con lo pseudonimo di
Cam. Il libretto, novantasei pagine in tutto (ventidue testi di Dessanai, quattordici di Cam), uscì nel 1890 per i tipi dell’editore nuorese Gaetano Mereu
Canu. Scarsissimi i dati e i materiali di cui si dispone per poter ricostruire i
retroscena dell’iniziativa editoriale. Rimane, quale lieve compenso, la romanzata testimonianza dei due giovani poeti che, nella premessa Al cortese lettore,
parlano del Mereu Canu come di un solerte ed instancabile editore occupato nella ristampa di poesia logudorese (già edita dal canonico Spano e sotto sua concessione riprodotta) ed anche nella pubblicazione di materiale inedito:
Il solerte ed instancabile editore Gaetano Mereu Canu, già noto ad una buona
parte degli ammiratori della sarda poesia, fin dai primi anni della sua gioventù alacremente impegnossi ad empiere il vuoto che continuamente regnava, ed in porzione regna tuttora, della raccolta di canti Logudoresi. Avendogli il chiarissimo archeologo Can. Giovanni Spanu, dopo una sua pubblicazione di tai canti, fatta gentilmente la cessione, egli non si limitò a riprodurre le edizioni con le sole poesie
raccolte dall’illustre Spanu; ma, messosi più fervente all’opra, riuscì a procurare una
buona parte dei canti del Logudoro e li aggiunse ai menzionati volumi.
Pare, dunque, che l’attività di questo tipografo di paese debba essere collocata
in quel generale e diffuso risveglio editoriale che contraddistingue il panorama
culturale sardo di fine Ottocento, riguardante soprattutto la pubblicazione di
vecchie e nuove poesie in lingua sarda, di cui il vero iniziatore fu proprio il canonico Giovanni Spano (menzionato nel passo sopra riportato), che già dal 1863
pubblicava inedite canzoni logudoresi. Grazie a locali operatori culturali quali
Mereu Canu, sinceri estimatori della poesia regionale, editori per passione, venne a crearsi, accanto ad un già esistente e nutritissimo pubblico di uditori, anche
un pubblico di lettori di poesia sarda. Le edizioni uscite dalle loro botteghe, anche se non filologicamente informate, costituirono la base per un assaporamento più meditato dei vecchi testi logudoresi, più di quanto non avesse consentito e non consentisse la tradizione orale e cantata. Cimino e Dessanai apparten78
79
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
Nel laboratorio della tradizione
gono a questa seconda categoria di fruitori, quella dei lettori, e sono, inoltre,
poeti scriventi, compongono a taulinu [al tavolino], secondo la definizione che ne
hanno dato e danno tutt’oggi, non senza una punta di disprezzo, gli autori e i
sostenitori della poesia estemporanea, molto stimata in Sardegna. Sono, insomma, poeti istruiti (istudiaos, lett.: ‘studiati’) che operano comunque nell’ambito
della poesia in lingua sarda, oltre a comporre in italiano.
Tale posizione privilegiata consente loro di osservare in prospettiva storica
la tradizione, ma anche di acquisire una più larga visione sincronica rispetto
ai generi. Tutto ciò, come si vedrà meglio in seguito, è d’importanza decisiva
per la più tarda svolta dessanaiana, per la messa in discussione dei modelli. Intanto, al poco più che ventenne poeta di Néulas, la propria condizione di poeta lettore permetteva un’applicazione sistematica e meditata sulla tradizione
logudorese, un sondaggio attivo (più che una ricezione passiva, quale potrebbe essere registrata nel poeta semicolto), che comunque non lo porterà, nei limiti della raccolta stessa, ad un’interpretazione personale della poesia tradizionale. Un risultato assai evidente di questa tenace e programmatica applicazione sulla tradizione poetica è anche la varietà di metri presente in Néulas, alla quale è dedicata l’Appendice posta in fondo alla seconda parte di questo libro.
Néulas è un giovanile canzoniere amoroso. Nella scelta del tema i due poeti aderiscono al filone forse più copioso della tradizione logudorese. Sulla forte interconnessione tra tema amoroso e log. ill. si è già detto nella prima parte di questo
volume, e non a caso la lingua di queste liriche aderisce a quel canone, facendo
rarissime concessioni alla parlata locale. Ma la raccolta accoglie anche alcune tendenze della poesia italiana di qualche decennio prima. Néulas significa ‘nebbie’,
ed è con questo nome che Cam e Dessanai, rispettivamente nel sonetto proemiale (Primos umores) e in quello di commiato (Ultima pagina), intesero chiamare i loro versi. La metafora climatica starebbe per ‘l’umore dell’anima agitata’ (de sa mente mia / s’umore de cand’est pius agitada1 [l’umore della mia mente quando essa è più
agitata]), e dunque rimanda a un concetto d’instabilità, di effimero, nonché a
quello stato di sospensione tra speranza e delusione (tra il soleggiato e il nuvoloso) che pertiene alla vicenda amorosa. È, comunque, un’immagine d’inquietudine sentimentale e, si starebbe per dire, adolescenziale, con una sfumatura d’autocommiserazione. Questa sorta di romanticismo proverrebbe, infatti, da suggestioni stecchettiane, come pare consigliare il rapporto tra Ultima pagina, il sonetto di Dessanai che chiude la raccolta, e October di Stecchetti, l’ultimo dei Postuma:
Stecchetti
(Postuma LXXXV, 1-4)
Dessanai
(XXII, 1-2)
Muoio. Cantan le allodole
ferme sull’ali nel profondo ciel,
e il sol d’ottobre tepido
albeggia e rompe della nebbia il vel.
Sos rajos de su sole dissipare
bos den de certu, néulas amadas,
1
80
CAM, Primos umores, vv. 12-13.
[I raggi del sole dissipare / vi dovranno
di certo, amate nebbie,]
venendo anche fuori dalla prima terzina del testo sardo (Inie sa civetta e i s’istria,
/ pius trista rendende sa natura, / den formare sa östra cumpagnia… [Colà la civetta
e il barbagianni, / rendendo più triste la natura, / saranno a voi di compagnia])
certa poesia “del funesto” o “del sinistro”, variante del cimiteriale romantico, anch’essa contemplata in Postuma2. Il rimando assume consistenza alla luce di una
simmetria che non pare fortuita: l’incipit di Primos umores, il sonetto proemiale di Cam, si sovrappone a quello pure proemiale dei Postuma:
Stecchetti (Postuma I, 1)
Cam (Primos umores, 1-2)
Poveri versi miei gettati al vento
Bos affido in s’aèra a donzi entu,
neuleddas appenas cundensadas,
[Vi affido nell’aria ad ogni vento, / piccole nebbie
mie appena condensate,]
Tale unità della raccolta, indicata nel sonetto liminare e in quello finale, è, però,
per questa stessa topografia, sopraggiunta, in quanto non risponde ad alcun criterio di progettualità. Se si prescinde dall’unità di tema, la silloge non ha uno
svolgimento organico, né un ordinamento preciso. Riguardo alla porzione di
testi dessanaiani, che ci interessa più da vicino ed è anche quantitativamente
più rilevante di quella del collega, è possibile, al limite, ravvisarvi una debolissima sistemazione cronologica. Questo se si bada più a una cronologia inerente alla vicenda amorosa che a un’ipotetica relazione tra la successione dei testi e la biografia reale di Dessanai3. La biografia ideale (Contini) dessanaiana si
apre con i primi entusiasmi amorosi di Si essere…… [Se fossi……] e prosegue
con la delusione degli stessi nella immediatamente successiva Non b’àt itte isperare [Non c’è speranza] (il titolo parla da solo), che a sua volta inaugura la serie di lamentazioni, qui e là disseminate nel libretto, rivolte all’ingratitudine,
all’indifferenza (Indifferenzia s’intitola il componimento che segue immediatamente Non b’àt itte isperare) e alla durezza dell’amata. La vicenda amorosa si sviluppa ulteriormente in quelle canzoni di invettiva-vendetta, in cui il poeta, si
augura, senza mezzi termini, che l’amata possa fare una brutta fine (come in A
Miriade Bondinata) o in cui la situazione si ribalta, e allora sarà il poeta a farsi
“duro” nei confronti della spasimante (Vanas presunziones), fino ad arrivare a una
ricusazione (Abbandonu).
Ma inutile sarebbe seguire queste manierate oscillazioni dell’animo, quando
non è neppure dato un unico oggetto amoroso: Dessanai si perde dietro a donne
2 Si veda, ad es., Postuma II (Natalizio), vv. 1-4: Triste chi errando in quella notte cieca / col terror
dell’ignoto alle calcagna / per queste selve, udì strider la bieca / voce del gufo ed ulular la cagna.
3 In questo senso l’unico collegamento certo è quello tra In s’ora de sa partenzia e Juramentu, i
più autobiografici di Néulas. Nel primo, un sonetto, il poeta lamenta la propria partenza per il
servizio militare, che al tempo si svolgeva oltre Tirreno; nel secondo dichiara, temporaneamente continentale, di non voler più torrare […] a sardu portu.
81
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
dai nomi esotici ed evocativi (con quei cognomi ossitoni, così peregrini rispetto
a quelli sardi usuali, questi, troppo prosaici), come Elvira Enatarèg, Marianna Iule Tepeté, Diana Bideton (chissà se appartenuti a qualche viaggiatrice capitata per
caso in paese o alle figlie di qualche impiegato o carabiniere continentale confinato in Sardegna), che convivono accanto alle più locali Madalena, Luchia e Maria. Non è nemmeno il caso di cedere alla tentazione di ricercare stringenti agganci biografici; soprattutto riguardo alle donne dessanaiane. Il libretto giovanile si consuma per buona parte entro una dimensione letteraria, ed è questa che va
considerata. Che le suggestioni letterarie provengano d’oltremare o siano esse di
origine autoctona, in Néulas Dessanai riesce raramente a trovare accenti e parole
affatto personali; egli è in una fase in cui l’acerba sperimentazione, da una parte,
e il consumo acritico dei modelli, dall’altra, lo portano ad un uso poco metabolizzato del materiale poetico ricevuto dalla tradizione.
Al fine di illustrare questo assunto non sarà qui possibile soffermarsi sul molto materiale verbale rimontante al lessico chiuso della poesia amorosa logudorese (si pensi ad esempio alla fissità della rima coro : adoro4). In tal senso, i rilevamenti si approssimerebbero, per quantità e per qualità, a vere e proprie trafile popolari, e sarebbe pedanteria insistervi in questa sede (operazione altrimenti necessaria qualora si ambisca, com’è auspicabile, alla costituzione di una ancora assente grammatica del linguaggio poetico appartenente alla versificazione tradizionale isolana).
Più interessante, per ora, è notare come nel lamento amoroso collocato al centro di Dolore (XI, 25-36) si sfrutti un’immagine (fagher rios de piantu [far fiumi di
pianto]), già affrontata in questo lavoro (cfr. p. 41 per altri riscontri), che ha i suoi
incunaboli sardi nientemeno che nel Girolamo Araolla del poema sui martiri turritani: In lacrimas prorumpit tantu forte, / Qui mai canale d’abba non fuit vistu / falare cum pius furia, et fagher rios, / quantu falant de custos ojos pios5 [Fortemente prorompe in lacrime, / che mai canale d’acqua non fu visto / precipitare con maggior
furia, e formare fiumi, / di quanto precipitano lacrime da questi occhi pii]; e ancora: Et eo minimu verme peccadore, / qui meritant de fagher largos rios / custos ojos ogn’ora6 [Ed io misero verme peccatore,/ cui meritano di fare larghi fiumi / gli occhi
ogn’ora…]. L’immagine figura poi nelle coplas (gosos) de sa quenabura Santa [venerdì Santo] del laudario dei Battúdos di Torralba (1762): Pianguet cun sos oios pios,
/ Cun bogue trista, et piadosa. / Fatan funtanas, et rios / Fatan unda lacrimosa!7 [Piange [Maria] con gli occhi pii, / Con voce triste, e pietosa. / Facciano fontane, e fiu-
Nel laboratorio della tradizione
mi / facciano onda lacrimosa!], indicando nei gosos la zona di mediazione; e verrà
in seguito adottata dalla poesia logudorese di tono elegiaco, specie da quella ottocentesca, con, ad esempio, Pietro Cherchi (Tissi, 1779-1855): e i sos ojos mi faghene rios. // Rios formant de tantu lagrimare8; ma la s’incontra, avvicinandoci decisamente a Néulas, anche in Paolo Mossa (Bonorva, 1818-1892 che di alcune strofe del poema araolliano diede un saggio di traduzione sulle pagine della “sua”
«Stella di Sardegna»9): De piantu largos rios / formo10. Nel Dessanai di Néulas l’immagine ricorre ben altre due volte (XVII, 6 e XVI, 3-5).
A testimonianza del manierismo profuso in queste strofe di Dolore si dovrà
evidenziare anche un altro tic tradizionale, stavolta di natura sintattica e metrico-ritmica oltreché lessicale. Il v. 35 (sas penas sas pius duras [le più dure pene]; ricalcando l’ordine dei membri nella frase: ‘le pene le più dure’) è costruito su un’anastrofe di una certa frequenza nella tradizione logudorese, che si produce in presenza del superlativo relativo di maggioranza, introdotto da pius
[più], preceduto da articolo determinativo. Ma, sintassi a parte, vi è da notare
come fin da Araolla al modo di procedere illustrato si lega una costante lessicale (penas): Non ti perdas ti narro, fue sa morte / qu’est s’ultima de penas sa pius forte11 [Non perderti ti dico, fuggi la morte / che è l’ultima delle pene la più forte]). Tale impronta stilistica passerà dal contesto martiriologico all’elegia amorosa: Cun pena sa piùs dura12 (Mossa); e in contesto amoroso ricorrerà nuovamente in Dessanai: Si, tue mi às postu in olvidu / e battidu / mi às a penas sas pius
duras (XVI, 91-93)13.
Appartiene piuttosto alla topica l’ultimo lemma di questo sondaggio meramente esemplificativo. La ricusazione di Abbandonu (XX; il corsivo è nostro):
Allargu dae mene sos carignos
avvelenados de su fagher tou,
mancari tue nde ponzas de impignos
no lu balanzas su coro de nou;
credemi puru chi non sunu dignos
sos ojos de ti dare una mirada,
rèstadi puru afflitta e attristada
ne alzes pius oju a mi mirare.
10
15
8
In CPS, I, 230, vv. 8-9.
PAOLO MOSSA, Tutte le poesie, cit., pp. 253-257.
10 A Dori lontana, vv. 5-6. L’espressione compare in Mossa anche in contesto satirico, con evidente caricatura ironica (de piantu faghinde largos rios, in Una öghe rara, v. 50).
11 Ottava LVII, vv. 7-8.
12 In su tribunale de amore, v. 4.
13 Lo stilema si trova anche in altri territori: in un’ottava torrada di GIOMMARIA PIU, pubblicata dallo Spano, che narra di un uragano accaduto nel 1844, si legge: moviat sa rocca sa pius dura [muoveva la roccia più dura], Padria si nde devet ammentare, in CPS, III, 103, v. 26 (pesada
compresa)
9
4 Dieci occorrenze su un totale di diciotto presenze di coro in sede finale di verso. Le restanti
combinazioni si esauriscono in oro, tesoro (anzi, la triade adoro : coro : tesoro compare per ben tre
volte: VIII, 28 : 31 : 32; XIV, 26 : 27 : 30; XVII, 18 : 20 : 22), e in casi isolati: imploro, innamoro, addoloro, disonoro e Nuoro (quest’ultimo da leggersi piano per ragioni rimiche, come in un
consistente numero di mutos amorosi).
5 GIROLAMO ARAOLLA, Sa vida… (1582), cit., ottava CLV, v. 8.
6 Ottava CCXIX, v. 6.
7 In ANTONIO VIRDIS, Sos Battúdos…, cit., p. 162, strofa 1.
82
83
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
Non cherzo pius burdellos in s’ereu
bastantemente bi nd’às causadu,
[Via da me le carezze / avvelenate del tuo fare, / anche impegnandotici troppo / non conquisti nuovamente il mio cuore; / credimi che neppure son degni / gli occhi miei di rivolgerti uno sguardo, / rimani pure afflitta ed intristita / e non alzare più lo sguardo per guardare me. // Non voglio strascichi di turbamento / a sufficienza me ne hai causato,]
ha come precedente più prossimo, certamente noto a Dessanai, il Paolo Mossa
di Non pius feminas [Non più donne] (un rifiuto evidentemente radicale), un’ottava torrada la cui pesada si apre con: Feminas, totu allargu da-e me; e si chiude
con: bastante m’hazis fattu iscur’ e cinu [nella traduzione aulicizzante dello stesso
Mossa: Abbastanza m’ebbi da voi d’afflizioni e di miserie]. La fedeltà al genere dell’avverbio bastante (in Dessanai camuffato dal suffisso italianizzante in -mente;
che il sardo genuino non contempla) si ricava anche in una deghina glosa di Domenico Migheli, Bastante bi so istadu14, tematicamente affine ai testi dessanaiano e mossiano (Canta lo svincolo dalle catene d’amore, così l’intestazione dello Spano). Il testo si apre con la seguente pesada (il luogo del testo più suscettibile di
memorabilità): Bastante bi so istadu, / no isto pius tristu no: / cuntentu vivo, ca so /
isoltu sende ligadu. Costante è, dunque, la collocazione in sede d’esordio delle
formule allargu dae me (mene in Dessanai per ragioni prosodiche) e bastante; riconfermata in un altro passo con buona probabilità noto a Dessanai, non di genere amoroso ma ben aderente alla topica del rifiuto: le strofe proemiali della
Jerusalèm victoriosa del canonico Melchiorre Dore, un volgarizzamento in sardo
della Bibbia, pubblicato, come si è detto, dallo stesso editore di Néulas nel
1883 (già curato dal canonico Spano nel 1845). È una requisitoria contro le
muse profane, dove la prima ottava si apre col verso: Allargu dae me, Musas profanas; mentre la terza con: Bastante m’azis postu in confusione15.
Incursioni nel grande codice della tradizione logudorese come quelle mostrate finora sono possibili a partire da molti luoghi di Néulas. La voce di Dessanai mal si distingue dal coro della tradizione (questo, per giunta, già poco
versato alla polifonia). Così, queste convenzionali liriche giovanili, sono, neanche a dirlo, lontanissime dalla produzione più matura di Dessanai sotto l’aspetto linguistico: niente di nuovo nel log. ill. della raccolta. Irregolarmente disseminati, si contano appena una sessantina di nuoresismi fonetici (su poco me-
14
In CPS, II, vv. 325-326.
Di tutto ciò si ricorderà nuovamente Domenico Migheli in Prefassione poetica (vedi: MIGHELI, Sa briga ’e sos santos e altre poesie, a c. di Mimmo Bua e Nino Pericu, con un saggio introduttivo di Mimmo Bua, Cagliari, ed. Della Torre, 1986), dove le parole del Dore verranno richiamate in chiave polemica: Allargu dae me musas mezanas / bastante m’hazis postu in confusione
(vv. 1-2).
Nel laboratorio della tradizione
no di un migliaio di versi), tutti, per altro, riconducibili a precise e calcolate
motivazioni prosodiche e rimiche. Si tratta, insomma, di quelle che un tempo
si sarebbero dette licenze poetiche. Pertanto, se ci si imbatte in un possessivo
mea, si deve considerare che esso deve rimare con Dea o con idea (XI, 21; XIX,
120), laddove il log. mia non avrebbe risposto adeguatamente; e ciò vale per addoloria [log. -ida] : gelosia (XX, 71); bier [log. bider] : rier : occhier (III, 20); connoschia [la genuina forma nuor. del participio è ‘connotta’ [conosciuta], ma la
terminazione è nuor. in luogo di -ida log.] : amaia (XX, 13); favoria [log. -ida]
: Luchia (VIII, 3); ischios [log. -idos] : mios (XIV, 23); meas [log. mias] : ideas :
creas (XV, 18); mene [log. me] : bene (X, 92); naschia [log. -ida] : tenia (XIX, 29);
partia [log. -ida] : Luchia (XVII, 56). D’altro lato, la presenza di alcuni pronomi nuoresi paragogici, mene e tene (Prem. Ling. XI), è giustificata prosodicamente: l’uso degli equivalenti logudoresi, me e te, avrebbe dato in tutti i casi
esaminati un verso ipometro, basti l’esempio dell’endecasillabo So resortu pro tene e so dezisu (IV, 22).
Nota
Dell’editore Mereu Canu si hanno poche notizie. La tipografia aveva sede al numero
2 di via Siotto Pintor e, oltre a Néulas, pubblicò Il metodo idofonimico-sillabico illustrato
(1890) di Matteo Miraglia, ovviamente di nessun interesse letterario, e Sa Jerusalèm victoriosa del canonico Melchiorre Dore, il più celebre e accreditato rifacimento poetico (in
ottave e in logudorese) della Bibbia. Il titolo di quest’opera per esteso è: Sa Jerusalem
victoriosa osiat s’istoria de su populu de Deus, reduida ad poema historicu-sacru, cun breves adnotationes de su sac Johanne Ispanu; una prima edizione uscì nel 1883, una terza nel 1900;
nella Biblioteca Universitaria di Sassari sono conservati solo questi due esemplari; nessuna traccia della seconda edizione. La conferma di un Mereu Canu editore di vecchie
poesie logudoresi (così come si afferma nella prefazione a Néulas) proviene da una porzione di silloge, recante l’impressione G. Mereu Canu, Tip. Edit., rilegata insieme alle
Poesie popolari sarde curate da Salvatore Mele (si tratta del vol. I, Cagliari, Tipografia Nazionale, 1883) e ad una piccola raccolta di testi sardi di Gian Raffaellini (Versi sardi, Lanusei, Tipografia sociale, 1885), conservata presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari (coll.: 8. B. 59 / 1-2). L’antologia uscita per i tipi dell’editore nuorese doveva essere di mole più estesa, dato che la porzione riportata nella “raccolta” cagliaritana principia dalla p. 193, terminando con la p. 288. Che Mereu Canu fosse solito trarre questo materiale dalle raccolte dello Spano è testimoniato dal fatto che di queste ultime
egli riporta testualmente anche le annotazioni che il curatore premetteva ai testi (come, d’altronde, accade anche nella su citata raccolta del Mele ed in altre raccolte ottocentesche nate sulla scia dei lavori del canonico ploaghese).
15
84
Sulla diffusione dell’immagine “araolliana” fagher rios de piantu si aggiungano ancora: Da chi sa mala sorte di Pietro Cherchi, in CPS, I, 226, vv. 9-12 (sos tristos ojos mios /
ca vivo cun azios / formende largos rios / de tantu lagrimare); Dae su primu istante di autore
incerto, in CPS, III, 100, vv. 25-28 (Dìana narrer cantu / s’affannana pro te sos ojos mios /
85
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
chi dai tantu in tantu / formana de piantu largos rios); Non dia eo suspirare ancora di autore
incerto, in CPS, IV, 401, vv. 55-56 (Sos ojos amaramente / de lagrimas faghent rios). Per la
trasmissione di questa iperbole dobbiamo pensare, come si è già accennato, a testi paraliturgici, ma non si può escludere che la diffusione ottocentesca di stilemi già presenti in Araolla si sia verificata in coincidenza con il rinnovato interesse per la produzione di questo poeta. Dopo le due edizioni cinquecentesche del poema di Araolla viene soltanto quella ottocentesca curata dallo Spano (1840). Testi tratti dall’altra opera
araolliana, le Rimas spirituales (1597; leggibili nell’edizione a c. di Max Leopold Wagner, Dresden, Max Niemeyer, 1915) si trovano in raccolte pure dell’Ottocento (PIETRO PASELLA, Canti popolari della Sardegna, Cagliari, Timon, 1833; TOMMASO PISCHEDDA, Canti popolari dei classici poeti sardi, Sassari, Ciceri, 1854).
Nel laboratorio della tradizione
II.2. L’esperienza di «Vita sarda»
1. Il ventunenne poeta di Néulas (1890) rende omaggio fino in fondo alla tradizione logudorese. Nel periodo successivo alla pubblicazione della raccolta
poetica giovanile si possono notare alcuni tentativi di superamento rispetto a
quella stessa tradizione, prove di svecchiamento formale per le quali Dessanai
viene ricordato anche in contributi recenti come un novatore della poesia in
sardo1. Di fatto, come si vedrà, questa fase sperimentale non porta a risultati
veramente rilevanti né stilisticamente, né sul piano dei contenuti. Si tratta del
periodo dell’attività poetica dessanaiana legata alla rivista «Vita sarda» (VS),
che accoglie dal 1891 al 1893, dunque per il suo intero arco vitale, sei testi del
giovane poeta nuorese2.
Tra questi merita un’attenzione particolare l’ode alcaica A Lia. Il modello è
già denunciato, ma non v’era bisogno, dall’epigrafe posta sotto il titolo, tratta
da Ragioni metriche (v. 11) di Giosuè Carducci (batta l’alcaica strofe trepidando l’ali). Si tratta, a quanto risulta, di un raro caso moderno di metrica barbara nella poesia in limba, che, tecnicamente, appare come un decente compromesso tra
accentazione barbara e accentazione tradizionale3. Un Dessanai proveniente dal
melismo logudorese (la cantabilità, quando non il canto propriamente detto, è
un valore inscindibile dalla poesia tradizionale sarda) non poteva che tendere a
una interpretazione musicale della metrica barbara. La capfinidad che apparenta i vv. 4-5 (pro chi m’eres su coro ligadu // e m’às ligadu su coro)4 e la concomitante inversione del sintagma su coro ligadu in ligadu su coro, non devono far pensare semplicemente a una disposizione a chiasmo (che di per sé non avrebbe nulla di caratterizzante in senso tradizionale), ma alla massiccia presenza di versus
transformati (o versi varianti o, meglio ancora, trobeados, per usare il termine della metricologia popolare sarda) nella prassi versificatoria sarda tradizionale. Tale
1 FRANCESCO CORDA, Poesia sarda in «Vita sarda» (1891-1893), cit., p. 11 (il libretto curato
da Corda è interessante in quanto raccoglie i testi dialettali apparsi su «Vita sarda»); GIOVANNI PIRODDA, La cultura letteraria tra Otto e Novecento, cit., p. 195.
2 Del 1891 sono Cuntrastu, Malinconia e A Lia; del 1892 la sola A tie bella durmida; del 1893
Civetta [in lingua] e Cántigos de su coro.
3 Pur trattandosi di un’alcaica prosodicamente esatta, vi si riscontra la tendenza a ricondurre
le misure agli accenti fissi consacrati dall’uso. Il decasillabo alcaico (quarto verso della strofa alcaica) è costantemente modellato sugli accenti di quello canonico (3a-6a-9a: pro chi m’eres su coro
ligadu), mentre Carducci ammette altre soluzioni accentuative (il decasillabo chiabreriano, invece, evita l’accento di 6a). L’endecasillabo alcaico (primo e secondo verso) ha spesso il secondo emistichio piano (quinario piano + quinario piano), il che si verifica ai vv. 1-2, 9-10, 17-18 e 21,
che se non è lassismo, rispetto alla versificazione barbara, potrebbe rispondere a una voluta strategia strutturale: in tal modo secondi emistichi piani e secondi emistichi sdruccioli si alternano
sistematicamente (la prima strofa li ha piani, la seconda sdruccioli, la terza piani, la quarta sdruccioli, la quinta piani e, infine, la sesta ha il primo sdrucciolo e il secondo piano).
4 Vedi di Dessanai anche II, 12 // 13.
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87
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
fenomeno non si limita alla poesia popolare (mutos) e neppure ai metri retrogados (tipologie metriche che ne pretendono l’uso) ma è del tutto reperibile anche presso componimenti in ottave e, appunto, da ottava a ottava (ottave capfinidas; cfr. la Nota in fondo a questo paragrafo).
Ripescaggio squisito o inerzia tradizionale che sia, quei versi, d’altra parte,
non traggono granché giovamento dalla materia verbale di cui si compongono. Decisamente poco prezioso, per essere buoni, è l’uso figurato di ‘ligare’5.
Ma basterebbe, ad illustrare quanto questo Dessanai sia ancora legato alla norma stilistica del tempo, la presenza della preposizione log. cun (XXV, 6 e 11)
[it. ‘con’; nuor. ‘chin’], se si pensa che anche il tradizionalissimo Dessanai di
Néulas usa con maggior frequenza chin6. E se l’ode rivela un inedito velo d’ironia (che ha per bersaglio la volubilità femminile), avvertibile dal contrasto
istituito fra l’allusione conclusiva a un amore finito per volontà della donna e
la passione trepidante dalla stessa mostrata in passato, quest’ultima condensata in una scena tutta movimento:
Su notte tue tendias s’urija
e: «est issu» nabas «itte delizia!»
e manu cun manu battias
a sa janna pressosa currende.
[La notte tu tendevi l’orecchio / e: «è lui» dicevi «che delizia!» / e entrambe le mani portavi / verso la porta correndo ansiosa]
occorrerà, qui, ravvisare la matrice tutta stecchettiana: Tu ti levasti sul tradito letto / e l’orecchio tendendo / Ai nostri rumor - viene ! - dicesti / - Ecco il suo passo - e sola ricadesti / sull’origlier piangendo (Postuma LXIV, vv. 20-24).
Della novità puramente tecnica di tale cimento dessanaiano si avvide già il giornalista e romanziere cagliaritano Felice Uda (1832-1900; proprio VS nel 1892
pubblicava un suo intervento a puntate dal titolo Critica di casa nostra7), che riten-
5 L’immagine si trova, col suo bel corredo mitologico (le frizzas [frecce] sono ovviamente
quelle di Cupido), nel Dessanai di Néulas: Tantas bortas cun frizzas / E cun cadenas duras, / Amore m’àt ligadu e m’àt feridu (VI, 9-11); un esempio tratto da un poeta logudorese anteriore a Dessanai (Sos sensos m’has ligadu de dulzura / Cun cadenas d’amore, e non de Moro; PASQUALE CAPECE,
Possibile chi sias tantu dura, in CPS, I, 182, vv. 3-4) ci riporta decisamente a PETRARCA, Rvf,
CLXVII, 9: Ma il suon che di dolcezza i sensi lega. Ma si vedano anche: Rvf CXCVII, 1-4; Rvf
CCCVII, 4; Rvf III, 4; LXI, 4; Rvf CCLXXXIV, 5 (Amor che m’à legato e tienmi in core); Rvf VIII,
14 (legato con maggior catena); Rvf CCLXVI, 9-11.
6 La forma nuorese è attestata anche nei testi di VS (vi compare cinque volte) insieme a quella logudorese, e delle quattro occorrenze di quest’ultima in VS tre si trovano, appunto, nella
nostra ode.
7 In VS, a. II, n. 5, 10 aprile 1892, pp. 1-2 (si cita solamente il numero della rivista in cui
si parla di Dessanai).
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Nel laboratorio della tradizione
ne A Lia un’ode alcaica riuscita8 ma la biasimò per mancanza di novità ed incapacità di comunicare alcunché. Tali conclusioni venivano fuori al termine di un accostamento contrastivo fra l’ode in questione e un’altra prova di Dessanai ugualmente apparsa su VS, il sonetto Malinconia), cui va il giudizio positivo del critico:
Questo sonetto è bello, e rende psicologicamente l’idea dell’autore con una forma un tantino arcadica; il che però è nel genere di quasi tutta la poesia del Logudoro che ha forme teocritiane spiccatissime. Il concetto del poeta è questo: È luce
nel creato, è bujo nel mio cuore. Concetto tremendo, ma fatalmente vero per tutti.9
Mentre:
Non avviene lo stesso quando, invece di restare nel semplice e nel naturale, che
sono come a dire le fonti di ogni potenza e sublimità di pensiero, vogliamo uscirne per falsità di sentimento o per non so qual vaghezza di novità nella forma. Ho
la prova di ciò in un’alcaica [A Lia] che il Dessanai volle tentare in vernacolo.10
Fermo restando che l’esperimento dell’alcaica si qualifichi soprattutto come
un’operazione di solo maquillage metrico, va notato però che la Critica di Uda
appare tendenziosa quando si tratta di mettere in risalto i risultati poetici conseguiti nel sonetto. A partire dall’assunto di mostrare come si possa operare validamente non uscendo dalla prassi versificatoria tradizionale (qual bisogno hanno i poeti dialettali delle strofe alcaiche?11) e come, di converso, si possa cadere in
errore andando alla ricerca di novità strutturali, lo scrittore cagliaritano fa un
uso strumentale dei due testi dessanaiani presi in esame, sottintendendo un improbabile determinismo metrico. Se il sonetto Malinconia, come è costretto ad
affermare il recensore stesso, non è un grande esempio di novità, e se dunque il
“criterio del nuovo” non è discrimine sufficiente fra il sonetto e l’ode, intervengono principi estetici generici quali il semplice e il naturale (che sarebbero i caratteri espressi in Malinconia), i quali vengono fuori in ragione di un’indebita
irradiazione di predilezioni morfologiche sul piano dei contenuti e della valutazione estetica. In altre parole: se per Uda la scelta di un metro tradizionale, nella fattispecie il sonetto, implicherebbe una resa di semplice e naturale, d’altro
canto, l’adozione della strofa alcaica (per non so qual vaghezza di novità nella forma)
ne sancirebbe l’allontanamento.
Per altre vie, stilistiche, sia l’ode A Lia sia il sonetto Malinconia rappresentano prodotti poetici ancora legati a moduli tradizionali, con una fondamentale
differenza che non dev’essere trascurata: nella prima Dessanai si cimenta in un
metro estraneo alla lirica sarda, ciò che è indice di una tendenza sperimentale
8 ID., p.
9 Ibid.
10
11
2.
Ibid.
Ibid.
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
significativa anche se espressa solo in termini di esercizio tecnico-applicativo12.
È vero: in Malinconia sono già avvertibili tracce di palinodia di esperienze poetiche già consumate. Il finale della terzina di chiusura (in cui l’allegria del poeta non può derivare dalla ermosura dell’amata di turno) riconduce a un testo di
Néulas (A Madalena) dove la bellezza (l’ermosura) privat de tristura [priva di tristezza] (VI, 16) il cuore dell’amante-poeta, è cura, insomma, per la sua ‘malinconia’, mentre nel sonetto di VS è rimedio insufficiente (e il capovolgimento di
una tematica giovanile è spia di una incipiente incrinatura dei motivi tradizionali nella coscienza poetica di Dessanai). Ma che dire delle frequenti concessioni alla lirica logudorese, ben suggellate dal famigerato spagnolismo ermosura13?
E non bastano le letture stecchettiane14 (che lo stesso Uda condanna nell’articolo citato, ma non gli è evidentemente riuscito di scovarne traccia in Malinconia) a dare nuova linfa al sonetto, quando quel modello, pur entro una dimensione di finzione letteraria (il placido bibliotecario Olindo Guerrini fa passare
i propri versi come opera di un non meglio identificato Lorenzo Stecchetti,
morto tisico) ma facendo comunque professione di verismo poetico (questa
tutt’altro che fittizia e riconfermata nelle prove più serie, come il Prologo ai Polemica), non smentiva il suo fondamentale epigonismo e si allacciava direttamente alla linea classicista carducciana (il cui effetto ritardante nei confronti
della poesia italiana è ben noto15) che andava, in Dessanai, ad innestarsi su un
moribondo apparato mitologico di derivazione arcadico-logudorese.
2. Un’altra novità di rilievo che l’esperienza dessanaiana in VS offre è il poemetto in prosa Cántigos de su coro (forma inedita nella tradizione letteraria sarda,
che storicamente è povera di prosa d’arte). Si tratta di una breve composizione in
logudorese caratterizzata da un evidente simmetrismo, già a partire dalla macro-
12 Pone nella giusta dimensione l’esperimento dessanaiano un testimone contemporaneo: Pasquale Dessenai [sic!], forte ingegno nuorese, nel 91 deliziava i barbari con l’alcaica “A Lia” [segue citazione della prima strofa, con qualche lieve divergenza dall’originale]. Felice Uda, che allora partecipava da padre nobile alle nostre farse letterarie, prendeva sul serio il tentativo barbaro dialettale e si adoperava a reprimerlo, pur lodandone la parte veramente lodabile. Altri ci fu che ne rise (SEBASTIANO MADAU, Malattie di questo ventennio, in «La Piccola rivista», a. I, n. 17-18, 31 agosto 1899, p. 17).
13 XXIV, 14; usatissimo da Luca Cubeddu ma in genere frequente nella poesia amorosa logudorese.
14 Tracce stecchettiane sono avvertibili nel non frequente italianismo ispásimo (v. 13), riconducibile allo spasimo di Postuma III (v. 60); in su sambene m’iscurret agitadu (v. 8) da confrontare
con Postuma LXXVII (Ed un possente palpito di vita / m’agita il sangue; vv. 7-8); anche nella locuzione un’ora sola (v. 12), pari pari in Postuma III (v. 68). L’esordio dell’interrogazione al v. 5 (Ma
pro itte duncas) è l’esatta traduzione dello stecchettiano Ma perché dunque (Postuma XXVIII, v. 5),
con simmetria riguardo alla posizione nel testo, anche nel modello l’interrogazione apre la seconda quartina del sonetto.
15 La poesia minore dell’Ottocento, compresa buona parte dell’opera di Carducci (Giambi ed Epodi,
per esempio), testimonia la formidabile forza di inerzia del linguaggio poetico italiano (ALFREDO STUSSI, Lingua, dialetto e letteratura, cit., p. 52).
90
Nel laboratorio della tradizione
scopica divisione in due parti quantitativamente equivalenti e dalla messa in evidenza, attraverso i rientri tipografici, di ben definiti e brevi blocchi di testo. Lo
schema generale di ognuna delle due parti consiste nell’esposizione di una allegoria articolata in due momenti (un primo momento positivo ed un secondo negativo) cui segue lo svelamento della stessa. La violetta che emana profumi tra le
dure rocce, stimolata dai ‘baci del sole’ e successivamente rinsecchita dal sole stesso col sopraggiungere dell’estate, sta per l’amore che ‘manda profumi’ (qui, come
in altri punti, Dessanai non si perita di creare alcuna divaricazione fra simbolo e
ciò che viene simboleggiato, per cui l’attributo dell’oggetto-icona violetta, il profumare, rimane identico nel sentimento rappresentato, l’amore) tra le rocce del
duro cuore dell’amata, stimolato da baci in senso proprio. Così, nella seconda parte, all’usignolo che intona un canto delizioso in richiamo della compagna, ammaliato da una serpe che lo inghiotte, risponde l’amante che chiama l’amata con
inni d’amore. Intento vanificato dalle ‘lingue serpentine’ (in più che chiara relazione con la serpe propriamente detta) che hanno fatto maturare un sentimento
ostile nell’amata, quasi al modo dei “maldicenti” della lirica occitanica.
Inutile nascondere che siamo di fronte ad un allegorismo piuttosto elementare ma soprattutto scoperto e, in quanto tale, distante da un trattamento simbolico della materia. Se si pensa, poi, che a suturare esposizione dell’allegoria e
relativo svelamento intervengono i Gai s’amore meu [Così è per il mio amore]
(XXVII, 3 e 8) e i comente [come] (XXVII, 10), appare chiaro il forte schematismo di una prosa che veramente non ha segreti. Questa sorta di concettismo
caratterizzato da insipide agudezas, puro esercizio di simmetrizzazione, penalizza il tentativo di prosa poetica in logudorese che è di un Dessanai esclusivamente immerso nella sua ricerca di forme nuove. Per il resto, si registra in Cántigos la permanenza di forti venature tradizionali, il che di per sé non inficerebbe la validità dell’opera se quelle non si accostassero decisamente al cliché,
all’automatismo, la cui zona nevralgica è l’aggettivazione (e gli aggettivi sono
spesso preposti al nome, come insegna la poesia “culta” sarda16, mentre nel sardo genuino e parlato è d’obbligo la posposizione) vincolata da juncturae piuttosto frequenti. È il caso di chin sa ’oghe armoniosa [con la voce armoniosa] (XXVII, 6), giacché quell’aggettivo, comune per l’italiano ma letterariamente connotato in un contesto linguistico sardo, lo si ritrova, come in Dessanai associato all’usignolo, in Paolo Mossa (presso il quale s’incontra pure un armoniosu rosignolu), mentre con Luca Cubeddu ci imbattiamo in una armoniosa cardellina17
16 bella violetta 1; umile violetta 1 e 5; nuscosa violetta 2; duru coro 4 e 9; duras roccas 5; gelosu coro 5; crudele Maria 5 e 11; bellu rosignolu 6 e 10; amenu rosignolu 7. Vedi: M.L. WAGNER, La lingua sarda, cit. p. 360. Un altro uso tipico del logudorese illustre presente nel poemetto è il pronome enclitico con l’infinito, es.: de infiammáreti (XXVII, 4).
17 Di Mossa si vedano: Una oghe rara, v. 10 e S’isula de sa fortuna, strofa 3. Di Cubeddu: Clori bella, strofa 12. Lo stesso Dessanai in Néulas aveva già detto: Si essere un’usignolu, onzi momentu / posadu in su balcone, / chin boghes armoniosas pius de chentu, / a tie sa canzone / dio narrer de su coro sa pius cara, / cudda chi amore solu mi preparat. (I, 7-12)
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
(e il dato tradizionale dimora già nel rimarcare in presenza di codesti poetici
pennuti il carattere della loro voce, quasi per attrazione, con la formula chin/cun
boghe, e facendo spesso seguire un aggettivo italiano; tanto nella poesia popolare, probabilmente per discendenza colta, che in quella d’autore di marca logudorese18). Ma è anche il caso di laras corallinas [labbra coralline] (XXVII, 4),
conforme alla descriptio arcadica della donna dove quella parte anatomica è immancabilmente di un rosso acceso; sintagma (tale e quale in Peppino Mereu19)
che è già nel più giovane rimatore di Néulas : in cussas laras finas, / tumidas, vellutadas, corallinas (XI, 47-48; con ben quattro aggettivi di derivazione italiana
uno dietro l’altro); E i sas laras corallinas (XVI, 46). Quanto basta per collocare Cántigos nell’orbita stilistica del primo Dessanai. L’artigiano, insomma, rifonde vecchio materiale in nuovo stampo, e l’operazione di riciclaggio è accertata
allorché si considera che la terza strofa di Rimembranzia (XVI, 13-18) si rivela
quale vero e proprio nucleo tematico del poemetto:
Mi figuro sos amores
che fiores
chi a su benner de s’istiu
cuddas fozas coloridas,
appassidas
chinan mortas, senza briu.
[Mi figuro gli amori / quali fiori / che col giunger dell’estate / quelle foglie
colorite / appassite / chinan morte, senza brio].
Tanto più che qui ritroviamo per intero la locuzione (a su benner de s’istiu) che
ricorrerà in Cántigos (XXVII, 2) con leggera variante logudorese (’enner per
benner; con aferesi log.). L’immagine dell’amore-fiore ci riporta alla donna-fiore
dell’Aleardi, precisamente a un testo del poeta veronese che Dessanai tradusse, abbastanza liberamente, in Néulas20. Così recita la terza strofa logudorese
(vv. 9-12):
Che fiore chi non s’ ’idet dae sa zente,
ma ch’isparghet s’odore suavemente,
tue, fior ’e cortesia,
sos tuos profumos mandas, o Maria.
In Peppino Mereu troviamo proprio cun boghe armoniosa (Alberto La Marmora, v. 2).
Adultera, strofa 3.
20 A Maria Wagner. L’originale dell’Aleardi, recante il medesimo titolo, lo si può leggere in
ALEARDO ALEARDI, Canti, Firenze, G. Barbera editore, 1864, pp. 413-414 (apre la serie delle
Poesie volanti).
18
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Nel laboratorio della tradizione
e così l’originale:
Come incognito fior che non si vede
Ma si sente olezzar söavemente
Tu, fior di cortesia
Mandi i profumi in sino a noi, Maria
In Cántigos tornerà puntuale l’espressione aleardiana ‘mandi i profumi’ (v. 12):
àt mandadu sos primos profumos (XXVII, 4).
Con questo tipo di riscontri credo risulti chiaro quanto il Dessanai del poemetto, e più in generale di VS, sia sostanzialmente quello di Néulas, anche nel
suo far riferimento a una produzione continentale dell’Ottocento (Aleardi) che
la critica ha sempre valutato come stilisticamente arretrata. Ben aldilà di laccature formali potremo assistere all’imminente colpo d’ala della poesia dessanaiana.
Nota
1. Per un generale approccio storico-critico a VS si vedano: GIOVANNA CERINA, Un
episodio dell’attività culturale in Sardegna («Vita sarda» 1891-1893), in in «Archivio Sardo del Movimento operaio, contadino e autonomistico», n. 20-22, 1984, pp. 196-205;
PAOLA SANNA, Note su «Vita sarda» (1891-1893), in «Studi sardi», vol. XVIII (19621963), pp. 555-569; e il saggio introduttivo di ANTONIO ROMAGNINO a «Vita sarda.
Periodico quindicinale di scienze, lettere ed arti» (1891-1893) [riproduzione anastatica di
tutti i numeri pubblicati], Sassari, EDES, [1978].
Riguardo alla diffusione della metrica barbara in Sardegna, alla fine del Settecento
risalgono gli esperimenti di Matteo Madau sui quali possono avere influito gli esempi
rolliani di endecasillabo falecio, adottato soprattutto nella forma quinario piano + quinario sdrucciolo, e di gliconeo, settenario sdrucciolo (vedi: MATTEO MADAU, Le armonie dei sardi [1787], cit.); interessante anche un esempio di ode saffica di Efisio Pintor
Sirigu in DEPLANO, Rimas. Suoni versi strutture della poesia tradizionale sarda, Cagliari,
Artigianarte editrice, 1997, p. 56.
Per i problemi relativi alla metrica sarda affrontati in questo paragrafo si rimanda ad
ALBERTO MARIA CIRESE, Struttura e origine morfologica dei mutos e dei mutettus sardi [1964],
ora in ID., Ragioni metriche, Palermo, Sellerio, 1988, pp. 222 e segg.; e all’Appendice posta in fondo a questa seconda parte. Riguardo a quel procedimento metrico-formale che
si potrebbe chiamare, con espressione sardo-provenzale, capfinidad trobeada, si vedano i
seguenti esempi velocemente tratti da CPS: Mi l’hant cantos l’hant bidu malignadu // Malignadu mi l’hant cantos l’hant bidu; GIOVANNI LORIA, II, 117, vv. 8 // 9); Ch’a tie non ti
mancat congiuntura // S’a tie congiuntura non ti mancat (BACHISIO SULIS, Columba un’imbasciada nessi a fura, III, 303, vv. 12 // 13); Deo pato pro te piùs pena dura // Sa piùs pena dura pro te pato (ibid., vv. 52 // 53); Ch’as dadu a dogni mesa cumpostura // Ch’as dadu cum93
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
postura a dogni mesa (PAOLO COSSU, Rosa in su colore et biancura, I, 275, vv. 22 // 23, comprese pesada e torrada); Inoghe devet paura leare // Inoghe devet leare paura (ID., Un autore
cheret raccontare, I, 281, vv. 56 // 57).
III
REALISMO NUORESE
III.1. Mi ribello a s’arcádica manera
L’affrancamento dalla linea arcadica
1. Verso la fine dell’Ottocento, Dessanai doveva ancora emanciparsi dalla poesia di stampo arcadico, che in Sardegna godeva ed aveva goduto di una estesa
fortuna. Estensione che vale a dire anche ampia escursione attraverso diversi livelli di produzione, se anche i popolari mutos non ne andarono esenti:
Jant’eris i ssa tanca.
Cantu ti dechen bella.
Sar duar melar d’oro
i ssu pettur biancas.1
Da unu monte artinu.
Pare chi t’à pintau
s’anzelu pintadore
sar melar de su sinu.2
La descriptio della donna, nella poesia italiana del Settecento, richiede quasi obbligatoriamente la medesima immagine (mele = seni) esposta in questi mutos,
accompagnata dalla determinazione, si fa per dire, cromatica che figura nel primo esempio (basti un solo e breve estratto: O molli e bianche / poma acerbette3).
1 [Avantieri nella tanca / quanto ti stanno bene, o bella, / le due mele d’oro / nel petto bianche; trad. Bellorini] in EGIDIO BELLORINI, Canti popolari amorosi…, cit., n. 76. Si noti, fra l’altro, l’incongruenza, derivante dalla formularità dei mutos, delle mele d’oro che nel verso immediatamente successivo diventano bianche.
2 [Da un monte alto. / Pare che t’ha dipinto / l’angelo pittore / le mele del seno; trad. Bellorini] in ID., n. 77.
3 PAOLO ROLLI, Con dolce forza, vv. 13-14; in AA.VV., Poeti erotici del ’700 italiano, a c. di Luigi Tassoni, Milano, Mondadori, 1994, p. 45.
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
L’immagine passò presto alla poesia sarda del Settecento (si rammentino le melas de latte di Cubeddu4), per poi discendere, come si è visto, a livello popolare
e mettere radici in molta poesia d’autore. Dessanai ne fa uso in A tie bella durmida (vv. 13-15):
in su pettus, chi pálpitat continu,
apparin, mesu cuadas e preziosas,
duas cándidas melas …5
e più laconicamente in Rimembranzia (v. 67): sas melas de su sinu [le mele del seno].
Estesa ma anche duratura la fortuna dell’Arcadia in terra sarda. Il persistere
di moduli arcadici nella produzione poetica isolana assume un che di sorprendente, se si pensa al frequente imbattersi, fino a Novecento inoltrato, in autori ancora alle prese con ninfe ed affini:
Asculta, bella Clori, unu momentu,
asculta, bella Clori, custu cantu
chi ti fatto, ca tenes bell’assentu
e ca ses geniosa tantu tantu.6
I versi citati aprono una breve serie di ottave in lode a Clori, risalenti al 1928,
dell’avvocato-poeta di Gavoi Salvatore Canio. Siamo a un secolo di distanza dalla morte del principale mediatore sardo dell’Arcadia: padre Luca (o Lucca, come
recitano, con geminazione locale, alcune raccolte poetiche sarde) Cubeddu di Pattada. Proprio a Clori è dedicata gran parte dei versi di questo caposcuola, che è infatti modello ancora attivo in Canio, qualora si consideri la ripresa (con replica
del vocativo e sostituzione dello spagnolismo hermosa con bella), nell’impostazione dialogica, della celebre anafora del predecessore, anche là in sede d’esordio:
Isculta, Clori hermosa,
si comente ses bella ses amante,
isculta pro un istante7
4 LUCA CUBEDDU, Si fit a modu de tinde furare, v. 70, in ID., Cantones e versos, cit. Le citazioni
da Cubeddu incluse in questo capitolo si riferiscono, salvo diversa indicazione, alla già citata
ediz. Tola-Pira.
5 [sul petto, che palpita di continuo, / appaiono, preziose e semi nascoste, / due candide mele].
6 [Ascolta, bella Clori, un momento, / ascolta, bella Clori, questo canto / che ti faccio, ché sei
ben giudiziosa / e perché sei tanto tanto piacente.] SALVATORE CANIO, Laudes a Clori, in e su fodde li servit de sonette [il titolo della raccolta inizia con la minuscola], BIBLIOTECA COMUNALE DI
GAVOI, raccolta di poesie a cura di Pier Gavino Sedda e Gristolu, Sassari, Iniziative culturali,
1986, vv. 1-4.
7 [Ascolta, bella Clori, / siccome sei bella e sai amare / ascolta per un istante] CUBEDDU, Isculta, Clori hermosa, vv. 1-3.
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Realismo nuorese
L’episodio del poeta gavoese non è isolato. Al contrario, va inserito in una moda che non accenna a scomparire dalla versificazione in lingua sarda del Novecento. Tanto che una personalità senza dubbio raffinata come Antoninu Mura
Ena (Bono 1908 - Roma 1994) sentirà ancora l’esigenza di ribadire:
Luvula no si dat bantu
de Elèna e Clori ermosa,
bellas son atterettantu
Matalena e Nicolosa.8
Si può allora comprende quanto il rifiuto delle tematiche arcadiche, avanzato
da Dessanai, si presentasse ancor più rivoluzionario ai suoi tempi.
Non a caso, il principale idolo polemico di quella sconfessione pare sia proprio da indicare in Cubeddu. Testimonianza di una certa incrinatura della stima nutrita dal poeta nuorese per questo padre della poesia sarda, oltre al sonetto Ribellione (dove l’illustre predecessore viene verbalmente e allusivamente
evocato, senza che se ne faccia il nome), è il sonetto intitolato Passende in Pattada (‘Passando a Pattada’; cioè il paese natale di padre Luca). Vi si manifesta la
poca propensione al topos del sopravanzamento (la donna amata che supera in bellezza e in altre doti le dee dell’Olimpo) rispetto alle figure femminili della mitologia che popolano i versi del pattadese: le donne da ‘onorare’ (XXXVIII, 12)
sono, sì, deas [dee], ma chi terrenas bestin bestes [che vestono vesti terrene] (XXXVIII, 13). La formula del v. 9 (Tirsi, Clori, Amarilli istene a parte), ricalcando verbalmente il topos su nominato, finta una dichiarazione d’inferiorità delle ninfe
rispetto alla donna terrena per esprimere la rinuncia al ricorso delle stesse in
poesia: le donne dessanaiane rifiutano la comparazione alta e l’auctoritas mitologica che significhi le loro doti. Un assunto, in verità, che soffre di sensibili
ricadute (le donne pattadesi rimangono pur sempre Veneres celestes e sirenas), e
non degnamente sostenuto sul piano dello stile, manifestando il testo chiari segni di deferenza verso la poesia amorosa tradizionale, specie nel linguaggio aulicizzante (visos, fiammeggiante, grand’arte, solo per limitarci a poche espressioni), ricco di italianismi e di logudoresismi. Il pregio del sonetto potrà essere
piuttosto indicato nella sua inosservanza, viste le premesse, di quella che si può
chiamare la topica della laus villae (la pratica retorica dell’elogio di paesi è molto diffusa nella versificazione sarda9). Qui il tema del transito in un paese non
comporta più l’adesione al topos tradizionale: saltati i convenevoli, i complimenti
8 [Lula non mena vanto / di Elena e Clori bella / belle sono altrettanto / Maddalena e Nicolosa] ANTONINU MURA ENA, Luvula, vv. 13-16, in ID., Recuida, introduzione, edizione critica e
traduzione a cura di Nicola Tanda, Sassari, EDES, 1998.
9 Chiamo così tale topica in riferimento alle antiche laudes Romae, riportando alla radice latina il sardo bidda (< VILLA), ‘centro abitato’. Lo spunto viene da CURTIUS (Letteratura europea e
medioevo latino [1948], a c. di Roberto Antonelli, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1992, pp.
174 e segg.).
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
e le indeterminate annotazioni paesaggistiche, Dessanai s’immerge in questioni di poetica con l’ingombrante padre (nei due sensi: religioso e letterario) della lirica sarda ottocentesca, cui Pattada diede i natali. La constatazione della bellezza delle giovani conterranee di Cubeddu non è uno dei tanti elementi che entrano a far parte del “catalogo di bellezze” della laus villae, ma costituisce lo spunto di una seppur elementare riflessione sull’uso degli oggetti poetici.
2. Già a partire dal 1891, con il primo testo dessanaiano apparso su VS, Cuntrastu, si manifestano i sintomi di una certa insofferenza verso la tradizione arcadica sarda. Se, infatti, i primi otto versi del sonetto filtrano la realtà attraverso le trame del genere primaverile-pastorale (il pastore canta all’ombra: Tityre
tu patulae…; le donne al fiume sono ‘sirene’; il canto degli uccelli; i ‘cantici’ d’amore), lungo le terzine è inscenato un breve ed invernale locus asper (non a caso
memore di un celebre quadro dantesco10) che è già l’elusione dell’idillio logudorese. Ma la testimonianza più perspicua di un tentativo di affrancamento dalla poesia arcadica sarda da parte di Dessanai, è certamente Ribellione (A Lia in
PDN; da qui in avanti Rib); testo giustamente famoso, sebbene presso pochi addetti ai lavori, per essere una sorta di manifesto poetico dell’opera dessanaiana
(un manifesto, sia detto subito, felicemente privo di enfasi oratoria, scritto in
punta di piedi).
Le quartine di Rib mettono ironicamente in gioco la descriptio arcadica della
donna nei suoi caratteri convenzionali (motivo floreale, annotazioni anatomiche fisse, come le guance colorite e il biondo dei capelli), donde i versi sono
contesti di ricordi poetici che rinviano innanzitutto all’Arcadia mediata di Luca Cubeddu, ma anche a quella attardata di Paolo Mossa11. Le citazioni, più o
10 Si confrontino le terzine del sonetto dessanaiano con Inf. XXIV, vv. 4-10, dove è notevole
il richiamo delle rime in -anca. Di memoria dantesca si può già parlare per Violas (in Néulas).
Colte le viole cresciute presso una tomba e venuta fuori da quelle, mosse dal vento, la voce di
un amante colà sepolto, così commenta il poeta-personaggio: Gasie mi narzesit, e in s’ora / so restadu confusu. / Credia ch’esseret faeddadu ancora / ma non faeddesit piusu [Così mi disse, e al momento / rimasi confuso. / Credevo che parlasse ancora / ma non parlò più] (vv. 37-39). La matrice dei versi dessanaiani è ovviamente l’episodio di Pier della Vigna (Inf. XIII), ricalcato anche verbalmente dal poeta nuorese: Credendo ch’altro ne volesse dire (v. 110).
11 Per Cubeddu, oltre i passi che citeremo più avanti, cfr. XXX, 5 (t’appo sa testa brunda coronadu [t’ho la testa bionda coronato]) con: Iscultami benigna, Clori hermosa / …. /…. / una corona
t’hap’ a preparare [Ascoltami benigna, bella Clori /… /… / ti preparerò una corona] (Sa femina
honesta, vv. 13 e 16); si veda anche XXX, 3, dove le massiddas coloridas [guance colorite] surrogano quelle del pattadese (in sas massiddas sa rosa incarnada / confundet cun sos lizos su candore [Nelle guance la rosa incarnata / si fonde col candore dei gigli], A su primu ispuntare, vv. 75-76). In
quanto a XXX, 6 (girende in sas campagnas fioridas [girando per le campagne fiorite]) si osservi
che il motivo floreale è ben diffuso nella produzione di Cubeddu: cfr., per esempio, la donna de
fiores zinta di A su primu ispuntare de su die (v. 11) o l’intera canzonetta Custu fiore. Riguardo a
Mossa, parla da sé il titolo di una delle più celebri composizioni del poeta di Bonorva: Sa bellesa de Clori; così recitano alcuni versi di questo testo: A mes’abrile non fiorit rosa / colorida che a tue
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Realismo nuorese
meno esplicite, disseminate nel testo sono in funzione di una allusività letteraria
attuata allo scopo di evocare l’orizzonte di attesa12 del lettore contemporaneo di lirica amorosa sarda. Preso il dessanaiano t’appo sa testa brunda coronadu (XXX, 5), la
memoria non potrà che riportare ai seguenti luoghi cubeddiani:
Cum sa corona ’e fiores in testa13
Custa ghirlanda ’e fiores immortales
lassami ponner in s’onorada testa14
L’italianismo testa, tradizionalmente il sostituto poetico del termine genuino
‘conca’, è uno dei casi più emblematici della “dinamica ascendente” che opera
nella poesia logudorese: il termine italiano permette l’elevazione del dettato
poetico rispetto alla prosaicità del quotidiano (come a dire: ‘conca’ va bene
per: ‘mi dolet sa conca’ [mi fa male la testa] o ‘appo iscuttu sa conca’ [ho battuto la testa], ma guai affibbiarlo alla scatola cranica dell’amata, e più radicalmente, guai usarlo se si intende fare opera poetica, visto che la diffusione di
testa va ben oltre il solo genere amoroso). Vigendo nella lirica sarda l’uso di un
linguaggio sostenutissimo, come avrebbe potuto Padre Luca, dopo aver fatto
bella mostra di ghirlanda e fiores immortales, mettere a braccetto l’esornativo e
nobile onorada con la vile ‘conca’? Il mancato ricorso al significante locale la
dice lunga sulla presenza di un registro alto nella produzione poetica sarda,
che è poi quello prevalente. L’ammicamento verbale operato da Dessanai investe un codice poetico ben riconosciuto: testa non è un italianismo qualsiasi,
e attraente [In pieno aprile non fiorisce alcuna rosa / come te colorita ed attraente] (strofa 1), per
i quali la memoria andrà naturalmente a coloridas (XXX, 3). Sulla traccia di echi rimici, fioridas : vidas (XXX, 6 : 7) rimanda a una strofa di Mossa in cui è allestito un piccolo locus amoenus (Posca in totue padros e giardinos / sullevan de profumos una nue, / allegros puzzoneddos in totue /
cantan umpare, faghene festinos; / in totue rizolos cristallinos / rinfriscan sa campagna fiorida… / vida
de paradisu est cussa vida, / e proite tardamos a b’andare? / Flora mia, ponzemus pe’ in mare [Poi dappertutto prati e giardini / emanano una nube di profumi, / dappertutto allegri uccelli / cantano in coro, facendo festa; / dappertutto ruscelli cristallini / rinfrescano la campagna fiorita… /
vita di paradiso è questa vita, / allora perché tardiamo ad andarvi? / Flora mia, mettiamo piede
in mare.], S’isula de sa fortuna, strofa 8), dove è notevole il contatto con l’intero sintagma dessanaiano sas campagnas fioridas (XXX, 6).
12 Si veda almeno: HANS ROBERT JAUSS, Perché la storia della letteratura? [1967], Napoli, Guida, 1989, pp. 45-47. È pur vero che i primi otto versi di Rib potrebbero già preannunciare una
sconfessione (pacifico è il significato irrisorio di ‘cucinare in tutte le salse’; XXX, 2). Ma Dessanai gioca con questo tipo di ambiguità: le quartine di Rib potrebbero anche costituire una
buona protasi per una apodosi tutta elegiaca (che lamenterebbe l’ingratitudine della donna per
gli sforzi compiuti dall’amante o l’esaurimento delle tecniche di corteggiamento da parte dello stesso); oppure ancora funzionerebbero quale rampa di lancio per una successiva e più alta
iperbole.
13 A su primu ispuntare, v. 47.
14 Sa femina honesta, vv. 206-207.
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
neutro, ma un termine forestiero che nella poesia in lingua sarda assume un
colore letterario. Quindi un poetismo15.
Ora, visto che a stuzzicare la memoria dessanaiana di Rib è proprio quel Paolo Mossa cui sono dedicate le rime giovanili di Néulas (chiaro segno del rispetto del nuorese verso il cesellatore di Bonorva; rispetto, d’altronde, riconfermato anche nelle più mature prove in nuorese, come in Sos campanones de Santa Maria, dove il v. 81, A s’intender su toccu lamentosu, è un ricordo ritmico, sintattico
e lessicale del mossiano A s’intender su cantigu donosu16), va da sé che, facendo il
verso al maestro, il discente rivisiti il proprio e individuale passato poetico. In
altre parole: accanto a un rilevamento intertestuale (echi di altri poeti in Dessanai), Rib si dimostra disponibile a rilievi intratestuali (echi di Dessanai in
Dessanai)17. Ed i rinvii interni, se con la citazione si può condannare oltre che
approvare, rappresentano già un’attivazione della palinodia che troverà pieno
svolgimento nell’ultima terzina di Rib, la porzione propositiva del testo, dove,
dopo aver definito quale non dovrà essere il suo atteggiamento verso la donna e
verso la poesia (prima terzina: fase negativa), l’autore svolge la pars construens del
proprio assunto:
e solu t’app’ a narre duos faeddos
craros e - s’accussentis - cras a sera
t’app’ a dare unu basu a pittigheddos.
[e ti dirò soltanto due parole / chiare e - se acconsenti - domani sera / ti
darò un bacio a pizzicotti.]
15 Sulla natura poetica di testa potranno venirci incontro alcuni versi dello stesso Cubeddu,
che, quando vorrà fare la sua dichiarazione di patriottismo linguistico, userà il termine sardo
(qui in tondo): In sardu iscrio: in sa limba imparada / dae totu senza mastru in pizzinnia, / in conca
mia restadu non b’hada / ne latina ne itala poesia [In sardo scrivo: nella lingua imparata / da tutti
nell’infanzia senza maestro, / nella mia testa non vi è rimasta / né latina né italiana poesia] (Sa
cantone ’e sos sardos, ottava 90; in CUBEDDU GIOVANNI PIETRO LUCA, Poesie profane e sacre, a c. di
Antonio Boi Dessì, Cagliari, Tip. Unione Sarda, 1905; parzialmente leggibile anche in Cubeddu, Cantones e versos, cit., p. 145). Tra l’altro, sarebbe stato contraddittorio usare un italianismo
molto forte dopo aver dichiarato che nella propria testa non vi è rimasta itala poesia.
16 Una öghe rara, strofa 4.
17 Cfr. XXX, 6 (girende in sas campagnas fioridas) con XLVI, 43-44 (e poder de amore faveddare /
in s’amena campagna fiorida) e con XVI, 19-24 (Penso semper a sos momentos / chi cuntentos / in sos
campos fioridos / a sos rajos de sa luna, / pro fortuna, / girabamus senza bidos). Il rapporto tra Rib e quest’ultimo testo (XVI, Rimembranzia) va anche oltre: cfr. XVI, 43-48 (Sas massiddas incarnadas, /
delicadas, / assimizzan a duas rosas; / e i sas laras corallinas, / tantu finas, / paren de ’asos disizosas; dove si nota pure la ripresa dell’aggettivo cubeddiano, incarnadas, di A su primu ispuntare; d’altronde la struttura metrica di Rimembranzia è quella della canzonetta chiabreriana, adottata da
Cubeddu, e da lì proveniente a Dessanai); e cfr. ancora XVI, 61-63 (Cudda fronte alabastrina, /
che reina / coronada es de ghirlandas). La rima idea : dea (XXX, 9 : 11), segno di un’inequivocabile contestazione rivolta a Paolo Mossa (Ma proite in cust’idea / prosigo a delliriare? / Proite pre-
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Realismo nuorese
Anche quest’ultima operazione avviene non senza che l’autore rinunci a richiamare polemicamente quanto asserito in una sua lirica si presume giovanile o
comunque anteriore a Rib, Ammentu (XLIV, 49-56):
Ammentu
Ribellione
e nárrerti s’arcanu
limbazu de s’amore e de s’affettu
e i sas parolas caras
(vv. 53-55)
e solu t’app’a narre duos faeddos
craros…
(vv. 12-13)
frequente baséndeti in sas laras
(v. 56)
…e -s’accussentis- cras a sera
t’app’a dare unu basu a pittigheddos
(vv. 13- 14)
C’è una bella differenza tra frequente baséndeti in sas laras [baciandoti frequentemente sulle labbra] (enunciato italianizzante e logudorese, tutto trasporto eccessivo) e t’app’a dare unu basu a pittigheddos, segnato da una maggiore confidenza linguistica ed attenuato dalla condizione-concessione parentetica s’accussentis. Ancora più densa è, verbalmente, l’altra opposizione evidenziata. Arcanu
[arcano] può ben essere l’antonimo di craru [chiaro], e i prosaici duos faeddos
[due parole] liquidano, per la loro immediatezza, il lungo e italianissimo giro
di s’arcanu / limbazu de s’amore e de s’affettu / e i sas parolas caras [l’arcano / linguaggio dell’amore e dell’affetto / e le parole care]. Parolas caras è un binomio
italiano intinto velocemente in salsa sarda18 (tramite un apporto semplicemente desinenziale), distantissimo dalla “purezza” di faeddos craros (nonostante la
forma logudorese faeddos, nuor. faveddos, ma compensata dall’aggettivo nuorese), e pare che con l’equivalenza prosodica delle due espressioni (quinarie) e la
sovrapponibilità fonica tra craros e caras, Dessanai abbia voluto decisamente al-
tendo amare / sende mortale una Dea? [Ma perché in tale idea / continuo a delirare? / Perché pretendo di amare, / io mortale, una Dea?], Amore disisperadu (strofa 6); e cfr. anche S’incontru fortunadu (strofa 4), dove l’amata: boltat in bona sa mala fortuna, / tantu chi fissa tenzo sa idea / chi
piùs che mortale siat dea… [trasforma in buona la mala sorte, / tanto che ormai son dell’idea / che
più che mortale sia dea.]), allude anche a una ritrattazione tutta personale, come si può verificare richiamando XIX, 25 : 28. Si tratta di una delle liriche giovanili (Juramentu) più colpite
dalla prima terzina di Rib, laddove si espone, per iperboli, il concetto di una amore ideale. Concettualmente e verbalmente la prima terzina di Rib si oppone ad espressioni come ti manifesto
ideas amorosas (XIX, 109); e in maggior misura ritratta il finale di Juramentu ([…] chi non podes impedire / chi, a su mancu in idea, / ti repute sa sola vida mea [che non puoi impedire / che almeno idealmente / reputi te la sola vita mia.], XIX, 116-118; dove vida mea sta ovviamente per
‘mia donna’, come in IX, 5-8: Tristura fittiana, / no mi lassat un’ora de riposu, / e, solu in tribulia /
m’as lassadu, partinde, o vida mia (con variante log. mia).
18 Almeno, in III, 10 aveva detto paráulas caras (la forma è log., il nuorese è parágula). Come
precedente più probabile si può citare Stecchetti (parole care, in Postuma XXXIV, v. 3).
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
ludere al sintagma risalente al suo apprendistato poetico. Abbondantemente
consumate le possibilità che la lirica amorosa tradizionale offriva (Néulas, 1890);
fallito anche il tentativo di restituire vitalità al genere (come è per il ricorso alla moda stecchettiana, protrattasi oltre quell’esperienza giovanile), Dessanai
non vede altra strada se non quella che risolva la comunicazione del sentimento amoroso nel puro gesto, al limite, in ‘due parole chiare’ (ugualmente di maniera sarebbe risultata la soluzione, sempre in prospettiva anti-arcadica, di un
rovesciamento licenzioso). È, quella di Rib, una dichiarazione oggettivata di
poetica realistica, ben in sintonia con la produzione in lingua nuorese.
Nient’altro che un gesto, infatti, si oppone all’iperbolismo delle quartine (condensato nell’asserzione t’appo puru promissu milli vidas19; XXX, 7). Come a dire:
concretezza fisica vs. idealizzazione/astrazione poetica. Corollario formale di una simile posizione è una voluta semplicità elocutiva, in polemica con la lingua
spesso ampollosa della lirica logudorese. Si tratta di un passo decisivo verso l’adozione poetica del nuorese, riscontrabile a partire da Cherrende (1893), ed esperita, ad esempio, in Sa morte de Pettenaju.
Realismo nuorese
III. 2. Chilibru e ghilinzone
La discesa nel reale
Allo stato attuale della documentazione, il primo testo in nuorese redatto da
Dessanai è il sonetto Cherrende (1893). Per dare ragione di questa prima manifestazione occorre partire da un livello forse elementare ma irrinunciabile: il
soggetto. E quello di Cherrende, una ragazza intenta a setacciare la farina, è un
soggetto basso, da scena di genere, per usare un termine proprio della critica d’arte. Il riferimento all’ambito figurativo è, infatti, quanto mai pertinente al caso
presente: i versi di Dessanai appaiono sulla rivista sassarese «Sardegna artistica»1 (SA) accompagnati da un disegno di Antonio Ballero (1864-1932), valente pittore nuorese. Compagnia non occasionale e, ciò che più importa, non immotivata: testo poetico e arte figurativa sono, qui, strettamente legati. La riscoperta della comune e originaria sede dei versi e del disegno (sulla scorta di
una nota di Eurialo De Michelis2) consente, restituendo una realtà filologicamente attendibile, di correggere una convinzione comune alla pur sparuta
schiera d’interpreti dessanaiani. Così Fernando Pilia:
Il pittore Antonio Ballero aveva ritratto una giovane popolana di Nuoro che in
una pausa del lavoro di setacciatura della farina si era fermata incantata a pensare,
con la mano sulla guancia, in un languido atteggiamento di sogno. Pasquale Dessanay rimase colpito dall’efficacia di suggestione del quadro e trovò l’ispirazione per
questo sonetto.3
19 L’espressione rimanda alla produzione poetica precedente (Melchiorre Murenu: totalmente ti
ses ismentigada / de cuddu chi pro te sacrificada / a sa morte mancari milli vidas [totalmente ti sei dimenticata / di colui che per te sacrificava / alla morte anche mille vite], S’amante in disisperu,
strofa 5, in MURENU, Tutte le poesie, a c. di Fernando Pilia, Cagliari, ed. Della Torre, 1982; Pasquale Capece: De morrer pro t’amare so resortu / impigno milli vidas pro una vida, / ma tue, ermosa
Dea, de importu / da chi morzo des esser afliggida [Per amarti son risolto a morire / impegno mille
vite per una vita, / ma tu, bellissima Dea, da rimorso / poiché muoio sarai afflitta.], Possibile chi
sias tantu dura, in CPS, I, 183, vv. 55-58). Anche in questo caso ricorrono richiami interni,
guarda caso proprio in Ammentu (XLIV, 45).
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Seguito da un più cauto e meno fantasioso Gonario Pinna, che ha parlato di interpretazione psicologica d’un quadro di Antonio Ballero4. Ma soprattutto il nuovo
acquisto autorizza una interpretazione storico-critica del testo più fondata, proprio a partire dall’intimo rapporto tra arte figurativa e poesia che esso testimonia. Ci si domanda: se Cherrende è da considerarsi il primo esemplare poetico dessanaiano in dialetto nuorese, tale svolta ha forse il suo primum nelle convinzioni estetiche di Ballero?
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento si avverte negli ambienti artistici sardi il
bisogno di rifarsi al quotidiano, rinunciando al trattamento di soggetti aulici:
da una eteronomia tematico-stilistica si passa a un interesse per soggetti autoctoni; nella poesia in lingua sarda corrisponde un progressivo abbandono delle
tradizioni illustri (italiana in particolare). In questo contesto svolgono un ruolo
importante le riviste letterarie, tra le quali, nonostante la sua effimera esistenza,
1
In SA, a. I, n. 9, 17 settembre 1893.
In GRAZIA DELEDDA, Opere scelte, a c. di Eurialo De Michelis, Milano, Mondadori, 1968
[1964], vol. I, p. 1071.
3 FERNANDO PILIA, Pasquale Dessanay il poeta della scapigliatura nuorese, cit.
4 GONARIO PINNA, Pasquale Dessanay, in PDN, p. 110.
2
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
Realismo nuorese
va annoverata proprio SA. In particolare, è interessante rileggere l’editoriale apparso sul terzo numero, firmato L’amministratore (potrebbe essere Luigi Falchi,
o Antoniandrea Mura):
C’è un mondo di gente, persone dabbene e anche istruite, per le quali l’arte è rappresentata esclusivamente da un quadro o da una statua. Ora, noi non abbiamo questa arte; le nostre miserie, le piaghe insanabili, l’isolamento immeritato ed ingiusto
in cui siamo lasciati non ci permettono questo lusso. E quindi abbiamo avuto torto di chiamare artistica la nostra Sardegna, perché non abbiamo quadri, non statue,
non musei, non opere architettoniche di gran pregio - non abbiamo insomma l’esteriorità dell’arte, che colpisce gli occhi e tanto più meraviglia, quanto meno si capisce - come le citazioni latine dei predicatori. […] V’è una Sardegna ignorata, che
attende i suoi illustratori, che può essere fonte di inesauribili emozioni allo storico,
al poeta, all’artista…5
Le parole ora lette costituiscono una chiara testimonianza di quel mutamento
di paradigma dell’arte isolana cui si è accennato sopra. Ballero occupa in questo contesto culturale una posizione di primo piano, rivelando una poetica chiara e insieme consapevole. Al proposito va notata, all’interno dell’excursus di storia dell’arte affidato ad alcune lezioni che il pittore ebbe occasione di tenere nel
1906 presso la Scuola Normale di Nuoro, la preferenza accordata ai fiamminghi. La pagina è da leggere per intero:
Il primo popolo che conobbe le forme di un arte nuova, di un’arte libera fu appunto un popolo libero: quello dei fiamminghi e degli Olandesi, dei Paesi Bassi.
Là gli artisti in generale e specialmente i pittori cominciarono a parlare degli umili, degli oscuri, degli ignorati, della massa, lasciando un po’ in seconda linea Dio
e Santi, re e nobili. Nacque il quadretto di genere che illustrava la modestissima
vita degli umili, le loro gioie e le loro tristezze, la feste di famiglia ed i lutti domestici. E per quanto sembri che questa nuova arte modesta e minuscola avesse
poco risalto a fianco dell’arte superba e cortigiana, fosse poco adatta ad allargare
gli orizzonti intellettuali e non riuscisse gran fatto ad alleviare e a consolare le
amarezze della vita, pure segnò un momento decisivo della storia. Fu essa il principio di quei rivolgimenti sociali che dovevano in seguito far cambiare la faccia del
mondo.6
Non più Dio e santi, re e nobili ma gli umili gli oscuri, gli ignorati, la massa. L’artista è perfettamente cosciente della rivoluzione estetica conseguente alla nascita della pittura di genere, quella forma di pittura che più si è avvicinata al
quotidiano e si è rivolta a soggetti dimessi, non ufficiali. Si potrà obiettare che
con queste dichiarazioni ci si è cronologicamente allontanati dal nostro punto
Pascale Dessanai - Antonio Ballero, Cherrende, in SA, a. I, n. 9, 17 settembre 1893
(Archivio Storico Comunale, Biblioteca Studi Sardi di Cagliari)
104
5
6
L’amministratore, Pro domo nostra, in SA, Sassari, a. I, n. 3, 6 agosto 1893, pp. 17-18.
In SALVATORE NAITZA-MARIA GRAZIA SCANO, Antonio Ballero, cit., p. 254.
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Realismo nuorese
di partenza, ma ai tempi di Cherrende Ballero è ormai un trentenne che avrà già
maturato i convincimenti esposti tredici anni dopo a Nuoro. E, notizia evidentemente non accessoria, risalgono all’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento
i cimenti del Ballero romanziere “regionalista”, con il Don Zua (da cui Dessanai trarrà le parole per il melodramma Rosella) e Vergini bionde7. Lo stesso episodio di Cherrende è una prova di ciò che andiamo affermando. Non si crede, insomma, che sia indispensabile attendere il pur importante incontro con Pellizza da Volpedo (1903) perché sorga in Ballero una coscienza artistica volta in direzione di un realismo a carattere sociale.
Indubbiamente quello di Cherrende (disegno e sonetto) è un soggetto dimesso e, in quanto tale, coerente con la poetica sopra illustrata. La cherridora, colta
nel suo ambiente lavorativo, è altra cosa rispetto alla figure femminili borghesi, vanitosette e capricciose, con le quali il poeta aveva fatto conoscenza in certa poesia italiana dell’Ottocento; tanto meno è la donna superficialmente divinizzata della ritardataria e dialettale arcadia sarda. Si spiega in tal modo quell’abbassamento verso un’affettuosità domestica che pervade il testo (ben riassunta nel finale puddu e puddichina). Le metafore amorose non vengono più reperite presso esempi letterari, magari mitologici, ma sono direttamente prelevate dalla materialità pertinente al mondo poeticamente assunto. Il rapporto
amoroso non ancora consolidato trova un correlato nel ghilinzone (XXXI, 14),
la ‘crusca’, che dovrà essere ancora ben lavorata perché diventi bianca farina:
Cherre!… e cherrende dae attenzione,
ca jà ischis chi puddu e puddichina
no si gustan de solu ghilinzone!
(XXXI, 12-14)
[Setaccia!… e setacciando fai attenzione, / lo sai bene che galletto e pollastra / non si saziano di sola crusca.]
Vale a dire, parafrasando e surrogando l’originale: ‘e nel setacciare fai attenzione, poiché l’amore non si sazia di sola crusca’; con possibile riferimento a un futuro e probabile rapporto coniugale. Così, entro tale sistema di immagini frumentarie, assume maggior coerenza testuale l’elemento della farina ben raffinata (in sardo póddine) quale ammaliante strumento di seduzione:
Cherre!… det benner…. prus incantadora
parrer li des cherrende e impoddinada.
Ora, anche Antioco Casula (detto Montanaru, 1878-1957), considerato il
campione della poesia in sardo della prima metà del Novecento, aveva espresEntrambi ora leggibili in ANTONIO BALLERO, Don Zua, (1997), cit.
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Mi lessi in tale vigilia d’anni tutti i nostri poeti vernacoli che vanno dall’Araolla a Paolo Mossa. […] Un’arcadia lunga, snervante, un’adorazione stupida di simboli, una nebulosità continua tra l’idea e il sentimento […]. Ma in tutti nessun accenno alla nostra terra con le sue pene e le sue speranze, le sue tradizioni e le sue
costumanze originali. Io come sardo e specialmente come poeta non potevo, su tale indifferenza e silenzio sulle nostre cose, fare dell’arte per l’arte.8
E, difatti, spetta a Montanaru il merito di aver aumentato l’escursione della
poesia in lingua sarda sul reale; un reale sardo. A tale rivoluzione riguardante
gli oggetti poetici non hanno corrisposto, però, analoghi rivolgimenti sul piano linguistico: rimangono e il ricorso al logudorese illustre e la tendenza ad italianizzare il dettato (dove non sarà da trascurare la potenza del modello sattiano). Per Dessanai, invece, la scelta contenutistica implica anche una scelta linguistica; da qui l’adozione di una parlata locale, il nuorese, lingua priva di tradizione letteraria e a suo modo anticlassica. Così, sfruttando ancora imprudentemente il campo delle arti figurative, si può dire che, se il realismo pittorico
poté trovare nella luce caravaggesca (luce vera) il medium tecnico più adatto ai
suoi scopi rappresentativi, Dessanai lo va trovando nel nuorese. Bastano pochi
ritocchi perché il nuovo acquisto linguistico si qualifichi come scarto rispetto
alla norma tradizionale, il logudorese illustre: pessas (XXXI, 1; log. ill. ‘pensas’); pessamentos (XXXI, 3; log. ill. ‘pensamentos’); facher e fachet (XXXI, 4 e
10; log. ill. ‘fagher/faghet’); prus (XXXI, 7 e 10; log. ill. ‘pius’); puddichina
(XXX, 13; log. ill. ‘puddighina’). Si prenda il caso di itte pessas [che pensi]. Il
Dessanai di Néulas aveva detto: Ca custu pensamentu non permitto (XIX, 75); oppure: pensende de commover custu coro (XX, [2])9. Tale forma denuncia la sua origine spagnola (pensamiento), e in riferimento a quella tradizione, ma con un occhio rivolto agli amati poeti italiani, la usa l’Araolla (Muda su falsu erroneu pensamentu10). Da lì in poi, quella con nesso ns sarà la forma normalmente contemplata nella poesia sarda (ma anche in molte parlate isolane), forma che, a
partire dall’Ottocento, riceverà per i poeti isolani una legittimazione nell’uso
italiano. Se dunque in Cherrende non è detto ‘itte pensas’, è perché la soluzione
riporterebbe a una lingua di cultura e/o poetica che segnerebbe una distanza tra
mezzo linguistico e soggetto; quasi che il sollevamento della lingua provocato
(XXXI, 7-8)
[Setaccia!… verrà… più attraente / gli parrai setacciando e imbiancata.]
7
so l’esigenza di ridurre le distanze tra la poesia e la realtà sarda. Rievocando i
tempi del suo apprendistato poetico (fine Ottocento), ebbe a dire:
8 Lettera di Antioco Casula a Giuseppe Susini (spedita da Desulo, paese natale del poeta, il 1
agosto 1939), in GIUSEPPE SUSINI, Antologia lirica di Montanaru, Cagliari, Gianni Trois editore,
1993, p. 187.
9 Nel libretto giovanile si registrano altre quattordici occorrenze della forma con ns; una sola volta pessas, ma in rima con lessas (III, 63).
10 GIROLAMO ARAOLLA, Sa vida…, LVII, v. 3. Si vedano anche: XXXV, v. 1; XLV, v. 1; LXVII,
v. 1; LXXVIII, v. 2.
107
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
dalla nasale implichi una elevazione tonale, enfatica. L’assunzione di tratti locali riporta, al contrario, ai toni di una confidenzialità che ha anche il vantaggio
di accordarsi al tu dialogico del nostro sonetto. Vengono così in mente le osservazioni di Giacomo Debenedetti su Noventa:
C’è una vecchia frase francese che dice le latin brave l’honnêteté, il latino sfida la decenza: per dire qualcosa che farebbe scandalo, basta rifugiarsi in una citazione latina. Il dialetto di Noventa è come una citazione latina rovesciata: invece che la sublimità di un parlare classico ed aulico, l’umiltà di un’apparente bonomia, di un
parlare che smorza la grandezza del tono.11
Con la differenza che in Noventa il critico interpreta l’uso del dialetto come
strumento atto a restituire senza enfasi tematiche solenni (che è poi una delle
doti principali della parola dialettale), mentre in Dessanai opera piuttosto, e si
dica pure più artigianalmente, l’urgenza di aderire al soggetto. Quello che conta è lo scarto minimo dalla lingua letteraria operante sia in Noventa che in Dessanai, quella deviazione che consente al dettato di qualificarsi altro dalla koinè
poetica. Con ciò non si vuole dire che i versi dessanaiani non siano sottoposti
ad alcun filtro culturale: l’espressione abbandonada / ti ses a pessamentos (XXXI,
2-3) è un chiaro calco dell’italiano ‘abbandonarsi a pensieri’ nel senso di ‘lasciarsi andare a…’. L’uso del verbo cumbidare in ti cúmbidan a facher sa firmada
(XXXI, 4) risponde al significato di ‘allettare/indurre’, mentre in sardo genuino ha un significato solo concreto (ad es.: ‘cumbidare a bibere’ [invitare da bere])12. La novità consiste nel fatto che trasposizioni di questo genere non incidono minimamente sulla forma linguistica, che raramente è italianizzante.
La preziosità dei risultati raggiunti da Dessanai con Cherrende è un punto saldo nell’evoluzione poetica dell’artista nuorese. Si tratta di un passaggio fondamentale che ci si guarderà bene dall’inserire in uno schema rigidamente evoluzionistico e modernista; poiché in tal modo si farebbe torto ad una realtà testuale più articolata e tormentata, che è propria dei momenti di travaglio poetico-stilistico. Il poemetto in prosa Cántigos de su coro, comparso in rivista lo
stesso anno di Cherrende, contiene una buona dose di tradizionalismo poetico, è
GIACOMO DEBENEDETTI, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1993, p. 194.
Non si creda però che tale uso sia di conio moderno: le prime attestazioni (per non citare
un passo controverso della Carta de Logu, dove Wagner ipotizza cumbidare = ‘autorizzare’; cfr.
DES, kumbidáre) sono già nel linguaggio della poesia religiosa: a saluatione / su mundu fit conbidadu (Cobles sardas de Sancta Rugue; in VIRDIS, Sos battúdos, cit., n. XVIII, vv. 15-16; la compilazione del ms. in cui compaiono le Cobles risale al 1616); combidende oñi cristianu / a qui lu sigat
de veras (T. PABA [a c. di], Canzoniere ispano-sardo, cit., n. XIV dei Testi sardi (curati da Andrea
Deplano), vv. 3-4; si tratta di un ms. la cui compilazione risale al 1683). Per i contemporanei
di Dessanai si veda Abrile di SEBASTIANO MADAU (in VS, a. I, n. 1, 12 aprile 1891): s’abrile fioridu / cumbidat sos puzones a cantare (vv. 13-14). Vedi di Dessanai anche XXVI, 38.
11
12
108
Realismo nuorese
fortemente italianizzante ed è interamente redatto in logudorese. In log. ill. sono pure una serie di ottave serradas in memoria di Garibaldi (Flagellan sos iscoglios de Caprera) affidate nel 1896 alle pagine della rivista «Alba letteraria»
(AL), che con un appello aveva promosso un numero speciale in commemorazione di Giuseppe Garibaldi. L’ufficialità dell’occasione (il numero speciale di AL
uscì il 2 maggio del 1896 e in una veste anche sontuosa per una rivista di provincia; nelle pagine centrali trovò posto, insieme a quello dessanaiano, tutta una
serie di interventi poetici, in lingua e in limba) e l’altezza del tema proposto (un
eroe, non vi è dubbio, anzi, s’Eroe [l’Eroe]) persuasero certamente Dessanai a non
avventurarsi nell’esperire in quel caso la lingua nuorese, che muoveva ancora incerti passi sul terreno poetico. Di fronte a Dessanai stavano gli esempi di Felice Cavallotti (A Giuseppe Garibaldi è del 1880) e, come modello di contestazione politica in versi, il famoso inno in logudorese di Francesco Ignazio Mannu
(vissuto tra Settecento e Ottocento): Su patriottu sardu a sos feudatarios, presente
in numerose raccolte di poesia sarda, immediatamente adottato dai cantori e
riecheggiato in Flagellan con la geminatio del v. 39: gherra, gherra (Mannu: gherra, gherra a s’egoismu / e gherra a sos oppressores; strofa 46).
Per spiegare la coabitazione Flagellan-Cherrende non basta dunque appellarsi
a quelle fluttuazioni che sono tipiche di ogni momento sperimentale ma bisogna tener d’occhio il sistema retorico cui si è più volte accennato in questo lavoro. Il Garibaldi logudorese e la setacciatrice nuorese convivono per una fondamentale e a suo modo classica bifrontalità stilistica: Flagellan → soggetto alto (un eroe) → log. // Cherrende → soggetto basso (un’anonima cherridora nuorese) → nuor. In virtù di questo sistema con il sonetto di SA ci muoviamo entro una scelta essenzialmente retorico-stilistica: l’attenzione verso il soggetto
basso non vi ha implicazioni etiche, come nelle più considerevoli prove nuoresi (Sa morte de Pettenaju, A unu signoriccu divertiu, In s’abba, Torrau), dove si tratterà di realismo tragico e, insieme, sociale.
La sintonia con l’arte di Ballero riguarda anche quest’ultimo punto. Pur considerato il tono militante delle già riportate affermazioni contenute nella sua
conferenza nuorese, Ballero forse non volle penetrare fino in fondo moralmente quella realtà che andava fissando sulla tela. Egli era mosso da un’incredibile
curiosità per le cose sarde, sempre immerso nella ricerca delle tecniche che gli
avrebbero consentito di dare a quelle cose piena espressione pittorica, teso a cogliere sottili sfumature psicologiche, con interesse quasi antropologico per i tipi umani, come nei ritratti (ad olio e ad inchiostro), piuttosto che problematiche sociali. Basterebbero, a condensare lo spirito di quest’arte, alcune dichiarazioni che il pittore nuorese inserì nella brevissima autobiografia scritta in terza persona13:
Egli è, come si dice oggi, uno strapaesano convinto. Dipinge sempre oggetti isolani, studiandosi d’interpretare la Sardegna com’è, senza deformazioni caricaturali
13
Le Linee per un’autobiografia si leggono in NAITZA-SCANO, Antonio Ballero, cit., pp. 263-264.
109
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
facilone. Della sua terra ama riprodurre i toni accesi e squillanti, le belle donne, i
pastori adusti, i costumi variopinti.14
Tali confessioni non sarebbero immaginabili nel poeta de Sa morte de Pettenaju,
che rivela un rapporto ben più problematico e drammatico con la realtà. La cifra psicologica balleriana è la solarità, quella del Dessanai maggiore pende piuttosto verso una fosca rassegnazione. Così, pare che sia sottoscrivibile quanto detto da Salvatore Naitza a proposito del rapporto tra Ballero e Sebastiano Satta:
Credo che quanto scriveva, in poesia e sulla stampa, il Satta al riguardo [circa gli
avvenimenti carichi di novità civili che s’andavano insolitamente e drammaticamente addensando nell’Isola] rispecchi attendibilmente anche opinioni di Antonio Ballero.
Tuttavia, la passione per la propria gente e per la propria realtà storica e fisica, non
trova ancora [1905] in Ballero il versante eroico o drammatico, nemmeno quello
patetico e cordiale che verrà subito dopo, ma si esprime in un assoluto lirico, esaltato e felice.15
Sul Dessanai di Cherrende agisce questa visione solare e felice del mondo popolare, dove l’interesse realistico si consuma completamente nella dimensione artistico-espressiva.
Realismo nuorese
III.3. Su pizzinnu finit in presone
La discesa morale nel reale
Nel 1893 vede le stampe un volumetto a tre voci intitolato Nella terra dei nuraghes, in cui compaiono versi di Sebastiano Satta, di Luigi Falchi, ed i gioielli
dialettali di Pompeo Calvia. Si tratta del pendant, più corposo, dell’omonima rivista letteraria fondata dal Falchi. Dell’indirizzo di questa effemeride si farà
erede, essendosi momentaneamente interrotta quell’esperienza col numero del
30 aprile 1893, proprio quella «Sardegna artistica» cui Pascale Dessanai, sempre in quell’anno, affidava quella che è risultata essere una delle sue prime prove in lingua nuorese, Cherrende. Non a caso in nuorese sono pure due testi sattiani inclusi in Nella terra dei nuraghes (Su battizzu e Sa ferruvia): in questa Sassari condita da qualche spirito barbaricino vengono alla luce i prodotti di una
poesia dialettale realisticamente impegnata e, per i nuoresi Satta e Dessanai, in
lingua materna, non più alle dipendenze della koinè regionale logudorese.
Su battizzu1 proietta il lettore nel bel mezzo di un’antica festa di battesimo.
S’offrono dolci agl’invitati e si odono canti che augurano al neobattezzato un roseo avvenire:
Compare, barbi fattu che un isposu,
colat a inghiriu chi sa caraffina,
a sos pizzinnor da su maricosu
e a comare caffè de coraddina.
Iffora, i sa cortitta, ziu Cambosu
li pesat una boche, i sa cuchina
zaiu cuntentu i mmesu ’e sa chisina
s’est tottu isterriu che cane runzosu.
E a su pizzinnu tottus sa fortuna
leghene i ssas istellas e i su binu
e li cantana a inghiriu sa cantone.
5
10
Ma Antoni, chi nd’ha bibiu prur de una,
zura chi tottus han zirau su tinu,
ca su pizzinnu finit in presone.
[Compare, sbarbato come uno sposo, / passa intorno con la caraffa; / ai bam14
In ID., p. 264.
p. 38. Si deve osservare, però, che questo assoluto lirico, esaltato e felice vale anche per il
Ballero più maturo, dato che per la redazione delle Linee autobiografiche, che confermano l’analisi di Naitza, non si può scendere sotto il 1928 (vi si cita la personale del pittore tenuta a Sassari in quello stesso anno).
15 ID.,
110
1 SEBASTIANO SATTA, Su battizzu, in Nella terra de nuraghes, cit., p. 21. Il sonetto si può anche
leggere anche nella più accessibile PDN. Qui si riporta il testo nella lezione originale, interessante anche per lo sforzo di rendere graficamente la reale pronuncia nuorese. Le modifiche apportate al teso riguardano refusi o sviste del tipografo: v. 7 ’e per e; v. 12 chi nd’ha in luogo di
chin d’ha; vv. 9 e 12 pizzinnu per pizzinu.
111
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
bini dà l’amaretto / e a comare dà caffè di corallina. // Fuori, nel cortile,
tziu Cambosu / intona un canto; in cucina / nonno tutto contento, sulla cenere / s’è sdraiato come un cane rognoso. // E al bambino tutti la fortuna /
leggono nelle stelle e nel vino / e gli cantano intorno la canzone. // Ma Antonio, che ne ha bevuto più d’una, / giura che tutti hanno perso la ragione /
ché il bambino finisce in prigione.]
Unico imprevisto: Antoni. Il velo idilliaco si squarcia colpito da parole affilate: ca su pizzinnu finit in presone (v. 14). Sarebbe difficile trovare un’interpretazione più persuasiva di quella che Mario Ciusa Romagna ha fornito di questa
chiusa sattiana:
Antoni, però, che di bicchieri ne ha bevuto più d’uno, non si contiene e lascia che
la sua strofa salga dritta dal subcosciente e cada ghiaccia in mezzo al coro ed agli
astanti. L’aver troppo bevuto gli ha dissipato dalla mente miraggi e illusioni e gli
ha fatto perfino smarrire il senso dell’opportunità. Lo ha ridotto creatura spoglia,
libera da ogni convenzione…2
Ma occorrerà pure vedere in cosa consista tale convenzione. Certo Satta deve aver
pensato al frasario di rito annesso alla celebrazione del battesimo (lu pottadas bier
mannu e birtudosu [possiate vederlo [il bambino] grande e pieno di virtù]3), oppure a quella sorta di corredino apotropaico da affidare al bambino (al cui collo si appendevano fiche di corallo e piccoli corni per il malocchio4), oppure ancora (tenendo a mente i vv. 9-10 del sonetto: sa fortuna / leghene i ssas istellas) a testi popolari quali il seguente:
Naschidu est unu pupittu,
e vivat a largos annos,
su destinu appat iscrittu
chi, cantu girat sa luna,
non lu tocchent sos affannos.5
2 L’analisi di MARIO CIUSA ROMAGNA è in PDN, pp. 94-96; ma già (insieme al commento su
altri sonetti dialettali di Satta) in «Sardegna oggi», nn. 59 (1-5 dicembre 1964) e 60 (15-31
dicembre 1964). La citazione riportata qui sopra è a p. 94 di PDN (il corsivo è nostro).
3 Così la giovane Deledda: Dopo la benedizione del sacerdote, la madrina bacia la comare, dicendole : – Commo, comente l’azes bidu fattu a cristianu, l[u] pottadas bier mannu e birtudosu. (Ora,
come l’avete visto fatto cristiano, lo possiate vedere grande e virtuoso). GRAZIA DELEDDA, Tradizioni popolari di Sardegna (a c. di Dolores Turchi), Roma, Newton Compton-Edizioni Della Torre, 1995,
p. 178. In origine pubblicato a puntate presso la «Rivista delle tradizioni popolari italiane»
(1893-1894).
4 ID., p. 179.
5 [È nato un bambino, / e viva a cent’anni, / il destino abbia scritto / che, come è vero che gira la luna, / non lo tocchino gli affanni.]. In FRANCESCO POGGI, Usi natalizi e funebri della Sardegna, Vigevano, Mortara, 1897 [rist. anast., Bologna, Forni, s.d.].
112
Realismo nuorese
Con ciò si comprende, innanzitutto, che la frase di Antoni, rispetto al limpidissimo
augurio della formula, rispetto a quell’apparato esorcizzante e a versi di tal genere, assume un significato senz’altro sacrilego. Inoltre, per l’ultimo elemento
addotto (la strofa augurale), l’infrazione pare interessare territori in qualche
modo letterari; andrebbe a colpire i codici della poesia d’occasione, ovviamente encomiastica, giocata su un tono ottimistico, riservata a momenti ufficiali e
dunque armata di mezzi elocutivi estremamente formalizzati. Rispetto alla formalità del canto augurale, il malaugurio di Antoni è l’aberrante sconfinamento nella realistica e concreta probabilità che il bambino, una volta cresciuto,
possa finire in prigione. Possibilità che quel canto non può funzionalmente
contemplare. Ma questa elusione della realtà e questa funzione obliosa e consolatoria rispetto alle vicissitudini quotidiane, sono caratteri attribuibili a quella
convenzione più estesa che è la tradizione poetica. La determinazione che accompagna nel sonetto la canzone intonata dai festanti (v. 11: sa cantone e non “una”
canzone) allude ad una larga tipologia di prodotti in rima, già soggetti ad un
processo di popolarizzazione:
Queste canthones [= ‘cantones’] sono gradite al popolo quanto i mutos e le battorinas. I giovinotti […] se le ripetono l’un l’altro, chi sa scrivere se ne fa delle copie, ed è assai apprezzato chi ne sa comporre […]. Di questo genere sono p.e. quasi tutte quelle lunghe canzoni che si trovano nelle raccolte dello Spano come autore incerto.6
Le lunghe canzoni riordinate dallo Spano, opportunamente indicate da Bellorini,
rappresentano al meglio quella che qui si è definita tradizione logudorese. Per
mezzo di tali testi, diffusi oralmente e col canto (specie con quello a tenore), si
alimentava d’immagini e stilemi la poesia prodotta in terra nuorese. Il riferimento diviene ancora più stringente se si pensa che tecnicamente cantone indica, nella metricologia popolare sarda, il componimento torradu (di gran lunga
il tipo più diffuso nella prassi versificatoria), vale a dire quel genere di testi che
principiano con una strofa introduttiva detta pesada. Sicché a tale nomenclatura va riferito il v. 6 di Su battizzu: li pesat una boche [attacca con un canto] (nella prassi canora, l’esecuzione della pesada è, in apertura, affidata al solista, sa boche [la voce], nel nostro caso ziu Cambosu, cui tiene dietro l’esecuzione corale). In
ultima istanza, allora, l’accusa sattiana coinvolgerebbe l’acriticismo e il disimpegno propri della poesia tradizionale sarda (ciecamente idillica, refrattaria a
prendere atto di pur disagevoli condizioni economico-sociali), metonimicamente indicata con sa cantone.
Il salvataggio della tradizione regionale operato da Satta con Ai rapsodi sardi
non ostacola la nostra lettura, anzi, contiene una limitazione che ad essa si attaglia perfettamente, poichè ai rapsodi viene attribuita una funzione fondamental6 EGIDIO BELLORINI, Canti popolari amorosi raccolti a Nuoro (1893), cit., p. 13 (nota 1). Bellorini era stato, dal 1890, insegnante di lettere presso il ginnasio di Nuoro.
113
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
mente consolatoria (per cui: il mesto… affanni e pene / Dimentica e si abbevera di
gioia7). Come ha acutamente osservato Giovanni Pirodda, lì vi si esprime la coscienza che la tradizione dei rapsodi, di cui [Satta] aveva evidenziato il carattere sostanzialmente evasivo e consolatorio (pur nei toni celebrativi), non può essere assunta come modello primario da un poeta sardo teso verso la modernità, e pertanto animato da ideali di
impegno civile e consapevole delle drammatiche contraddizioni in cui si dibatteva la comunità isolana8. Satta non può rinunciare al vero ed esprime la volontà di assumerlo attraverso una visione critica che ne metta a nudo le contraddizioni. E se,
da un lato, buona parte della poesia tradizionale, accontentandosi di stare in superficie e fregiandosi dell’indeterminatezza d’alti concetti, faceva uso di un logudorese decisamente italianizzato, d’altro canto Su battizzu, e non a caso, è il
testo linguisticamente più nuorese nella pur esigua produzione sattiana in limba, dove non compare neppure un italianismo. Ciò significa che l’istanza realistica non può che stare in rapporto d’interrelazione con la messa in dubbio e l’accantonamento di quella tradizione poetica che al reale non ha concesso e continua a non concedere audizione. L’ammicamento sattiano de sa cantone dice soprattutto questo, e il testo che include quell’allusione non si ferma a un livello
propositivo e programmatico, non è involucro di velleitarie intenzioni ma realizza poeticamente quell’istanza in una tranche de vie linguisticamente motivata,
nell’intento di trasmettere una situazione e un ambiente socialmente e storicamente determinati. È su questi presupposti che si fonda il superamento della
tradizione poetica in quanto “poesia della letteratura” (poesia fatta su altra poesia), vale a dire attraverso l’annessione letteraria del reale, ciò che effettivamente accade nel testo sattiano esaminato e nel Dessanai “nuorese”.
Nota
1. L’idea di Cherrende quale lavoro iniziato e finito a quattro mani è evidente anche
nella disposizione tipografica: sopra, il disegno; sotto, il testo; in mezzo, il titolo comune ed ai lati del titolo le indicazioni degli autori (a sinistra Versi di Pasquale Dessenai [refuso], a destra Disegno di Antonio Ballero). Tuttavia non siamo informati sulla genesi del prodotto. Si può immaginare che lo spunto sia venuto a Dessanai da Ballero;
niente vieta di pensare l’immagine della mano abbandonata sulla guancia come frutto
dessanaiano, ma essa pare piuttosto ispirata dalla posa, veramente ‘abbandonata’, fissata dal disegnatore. In seguito il lavoro potrebbe essere andato avanti per rapidi confronti e pareri; contrariamente alla posa, che sembra suggerire una derivazione Ballero→Dessanai, l’elemento figurativo del galletto e del pulcino/-a (in basso al centro del
disegno) pare di provenienza dessanaiana, come se il disegnatore avesse voluto dare cor-
7 SEBASTIANO SATTA, Ai rapsodi sardi, vv. 63-64; in ID., Canti, a c. di Giovanni Pirodda, Nuoro, Ilisso, 1996.
8 GIOVANNI PIRODDA, dalla Prefazione a S. SATTA, Canti, cit., p. 16. Pirodda si riferisce in
particolare ai vv. 7-20 di Ai rapsodi sardi.
114
Realismo nuorese
po all’allusione del poeta, che ha celato sotto i nomi di puddu e puddichina (XXXI, 13)
i due giovani amanti. Filiazioni non verificabili, se non alla luce di documentazioni che
per ora non ci soccorrono.
L’appello redazionale dell’«Alba letteraria» perché i collaboratori contribuiscano al
numero speciale su Garibaldi si legge in AL, a. I, n. 5, 10 maggio 1896, p. 36 (L’Alba letteraria prega caldamente i suoi egregi collaboratori ed amici di voler spedire manoscritti per
il numero speciale del 2 giugno in commemorazione di Giuseppe Garibaldi).
Riguardo alla veste linguistica del contributo dessanaiano va comunque osservata la
presenza di istruttive oscillazioni tra log. e nuor. Accanto agli esiti log. sonorizzati
(inoghe 16, 17, 21, 29; boghe 25; sighi 35; antigu 37) si hanno anche quelli nuor. con la
velare sorda (fachet 2; fachende 6; Prem. Ling. I), impensabili nel Dessanai di Néulas.
Allo stesso modo, il nuor. pranghen (v. 7) convive con il log. pienu (v. 22; Prem. Ling.
IV), nande (v. 17) con narzende (v. 26; Prem. Ling. VIII) e zente (vv. 31 e 36) con gioventude (v. 40; per citare solo una delle forme palatali non adattate presenti nel testo;
Prem. Ling. XII). Ciò significa che nel 1896 Dessanai, che ha già alle spalle tentativi
di poesia in nuorese (sicuramente Cherrende), si lascia sfuggire, persino in questa controllatissima prova, nuoresismi che sarebbero stati inconcepibili in Néulas (1889), ma
anche nei testi di VS (1891-1893). E questi nuoresismi non si giustificano prosodicamente o rimicamente, come nella produzione logudorese giovanile del poeta: solo nande (v. 17) può ricevere una simile motivazione, dato che il log. narzende avrebbe causato ipermetria, ma fachet, fachende, pranghen e zente, non mutano la quantità sillabica del
verso. Tutto il resto dell’impianto linguistico è, comunque, in log. ill. (e dunque contesto anche di numerosi italianismi): passato remoto della terza persona in -esit (isfidesit 18; affrontesit 20; Prem. Ling. IX); forme verbali e sostantivi deverbali recanti -dlenita intervocalica (bagnádela 24; bagnade 24; dádemi 27; bides 31; insuperbida 32; feridu 10; Prem. Ling. IX); dileguo di -b- fricativa intervocalica (nou 19; Prem. Ling. II),
di -g- velare intervocalica (aèra 4; Prem. Ling. III) e della semivocale -j-, sempre intervocalica (oe 7; Prem. Ling. V); assenza di rotacismo (alza 11; falsa 36; esultare 48;
Prem. Ling. XIII).
2. Il libretto di FRANCESCO POGGI (Usi natalizi e funebri della Sardegna, cit.), da cui si
è tratta la strofetta augurale, mostra sorprendenti punti di contatto con Su battizzu: Talora dai fanciulli, presenti alla festa, sono cantate poesie d’occasione, nelle quali si augurano al
neonato tutti i beni di questo mondo (p. 33); ed in riferimento al festeggiamento del battesimo: Oggi […] debbono contentarsi di una semplice chicheretta di caffè (p. 11). Ma non è
escluso che Poggi si sia lasciato suggestionare proprio dalla lettura dei versi del poeta
nuorese; in caso contrario (cioè: se Poggi riferisse notizie ricavate dall’osservazione diretta), il sonetto riceverebbe, dalle analogie su esposte, una conferma del suo carattere
realistico.
Andrebbe poi approfondito anche il rapporto che pare esservi tra Su battizzu e un sonetto di GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI, Er battesimo der fijjo maschio, dove si legge: Se fa
ttant’alegrìa, tanta bbardoria, / pe bbattezzà cchi fforzi è ccondannato / prima de nassce […];
vv. 9-11.
115
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
Il carattere realistico de Su battizzu è avvertibile anche a un livello puramente grafico. La questione non è di poco conto. Già Paolo Mossa (1818-1892) si era dichiarato
contrario alla grafia latinizzante in uso presso autori ed editori di poesia sarda (basti
pensare alle proposte normative avanzate dal canonico Giovanni Spano nella OS), dichiarando nel suo italiano arcaizzante: punto non andandomi a sangue il vezzo di coloro, che
dal sardo dialetto pretendono fare una brutta copia dell’idioma latino [Dall’Avvertimento al lettore scritto da Mossa per una raccolta delle sue poesie che non vide mai le stampe. Il
testo compare inizialmente nell’edizione mossiana curata dal Carta Raspi (Cagliari,
Edizioni della Fondazione “Il Nuraghe”, [1928]), è stato riproposto in Tutte le poesie
(cit., da questa edizione si cita il testo) e in Opera omnia (cit.), accompagnato, in quest’ultima edizione, dalla riproduzione fotografica del ms. originale]. Mossa esprimeva
in quella sede l’esigenza di rispettare graficamente la reale pronuncia sarda: Avegnachè
i precetti della grammatica basar devono sull’indole della lingua di cui s’imprende a scrivere, e
l’indole appunto della sardo-logudorese, se non importando che al plurale le terze persone dei verbi abbiano la loro desinenza in ant, ent, int, come amant, cherent, cosint; ma aman, amana; cheren, cherene; cosin, cosini; ché quel t in cima alle parole suona male nel Logudoro, è
veramente ci sta a pigione. […] Da ciò assai di leggieri si comprende, che io intendo scrivere la
lingua che oggi dai Sardi si parla e come appunto viene parlata. Satta, a un anno dalla morte del Mossa, va anche oltre le pur innovative soluzioni del predecessore; vuole rendere in tutta la sua pienezza il “suono” del sardo-nuorese, specie nella riproduzione di precisi fenomeni fonosintattici. Passaggio -s > -r davanti a occlusiva sonora: v. 3 a sos pizzinnor da su maricosu (dove la -s di sos rimane invece inalterata davanti a occlusiva sorda); v. 12 prur de una. Assimilazione della -n alla consonante che la segue nella catena
parlata: vv. 2 chi[n] sa; 5 e 6 i[n] sa; 10 i[n] sa; e in alcuni casi allungamento sintattico conseguente all’assimilazione: v. 7 i[n] mmesu (dove, più esattamente, la -n finale si
labializza, come d’altronde accade nell’italiano) e v. 10 i[n] ssas. Caduta della -t dinanzi a parola iniziante per consonante: v. 3: da[t] su maricosu; da confrontare con il v. 6 (li
pesat una boche) e il v. 14 (finit in presone), casi in cui la -t si conserva in posizione antevocalica. Per assistere a simili realizzazioni grafiche della effettiva pronuncia sardo-nuorese si dovrà attendere l’opera di Antonio Mura, che, quasi ad un secolo di distanza da
Mossa, sentirà l’esigenza di spiegare le ragioni della sua personalissima grafia in una
Avvertenza dalla quale ci piace riportare qualche stralcio, con la convinzione che essa sia
un’eccellente testimonianza di quella appropriazione poetica del nuorese che si è tentato di illustrare nella prima parte di questo libro: Ho usato il nuorese per la sua arcaica,
rude bellezza. In ogni modo, ho voluto scartare, per quanto possibile, ogni forma di loqutio artificialis, aulica, eletta, com’è nella tradizione poetica sarda, […] Una lingua sarda astratta, artificiosamente normalizzata, costruita secondo criteri di adeguamento alla lingua latina, non trova mai rispondenza nella concreta realtà dei parlanti. Noi parliamo un linguaggio riferito alle
cose e pieno di cose gli orpelli e gli artifici sono estranei al nostro spirito e alle forme della nostra
lingua. Anche nell’ortografia ho cercato di conservare queste sue caratteristiche (ANTONIO MURA, Lingua e dialetto. Poesie bilingui, introduzione di Raffaello Marchi, Nuoro, Edizioni
Barbaricine, 1971, p. XXXI).
Realismo nuorese
In quanto al termine cantone (o canthone), la sua pertinenza ai metri torrados è stata di
recente ribadita da ANDREA DEPLANO (Rimas, cit., p. 37). Aggiungo che negli autografi di Paolo Mossa (un autore della cui consapevolezza tecnico-teotica sarebbe difficile dubitare) la dicitura cantone accompagna il titolo di ogni testo torradu (gli autografi
mossiani si trovano riprodotti fotograficamente in P. MOSSA, Opera omnia, a c. di Angelo Dettori e Tore Tedde, Cagliari, 3T, 2 voll. [s.d.; finito di stampare nel 1979], vol.
II, pp. 2-243).
Per il canto a tenore si rimanda alla più completa e informata monografia in circolazione: ANDREA DEPLANO, Tenores, Cagliari, AM&D Edizioni, 1994.
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
III.4. Una lettura del Dessanai nuorese
Se si dovesse giudicare il Dessanai poeta in sardo dal materiale che egli ebbe
occasione di pubblicare in vita (Néulas e i testi comparsi in varie riviste), forse
non si stenterebbe a inserirlo tra i poeti di media levatura. Al limite, ed eccettuato Cherrende, figurerebbe quale scaltrito verseggiatore in logudorese. Il Dessanai maggiore va ricercato nella produzione “non autorizzata”, in particolare
in quella in nuorese, nota per trasmissione orale o attraverso quaderni e fogli
manoscritti (opera di pochi appassionati), prima che Gonario Pinna, nel 19691,
si decidesse a dare alle stampe il frutto delle sue meritorie ricerche.
Questo Dessanai maggiore è purtroppo anche quello di cui ci sono pervenute più ridotte testimonianze testuali, quasi che beffardamente la fortuna abbia
preferito arridere a tanto materiale giovanile ed occasionale o ad altro anche interessante ma pur sempre preparatorio, concedendo ai posteri qualche gemma
preziosa giusto perché rimpiangano probabili giacimenti perduti. Eppure, ciò
che ci resta di più valido dell’opera dessanaiana (fosse pure la testimonianza non
di una disgraziata trasmissione testuale ma di qualche momento di grazia da parte dell’artefice) basta a posizionare quest’ultima fra le massime espressioni della poesia sarda tra Ottocento e Novecento. Tanto più che a respingere il carattere eventualmente occasionale ed episodico di questa manciata di testi vi è la
progettualità che li mette insieme. Diversi sono gli elementi di unità che si
avrà modo di indicare attraversando i pochi testi che testimoniano la maniera
grande di Dessanai (la maggior parte di quelli qui raggruppati nella sezione Rime nuoresi, cioè: A unu signoriccu divertiu, Torrau, In s’abba, Sa morte de Pettenaju e
Sos campanones de Santa Maria; in tutto meno di trecento versi, appena l’equivalente di due canti della Divina commedia); un’unità in cui impegno etico, scelta
tematica e stilistica convergono e solidarizzano. Le trame che compongono questa rete di relazioni e di rimandi verranno precisate nel corso di questa lettura,
per la quale si è preferito un andamento monografico in quanto ai testi; dei
quali, non essendo stati finora oggetto di un commento puntuale, si rendeva
necessario svelarne perfino la lettera. Saranno di volta in volta gli individui a
dichiarare il sistema.
1. L’intenzione ideologica sottesa alla produzione nuorese di Dessanai è riferibile a un atteggiamento che per comodità si potrà definire di “denuncia sociale”. Questo carattere assume toni scoperti (per non parlare di quelli acidi di Siccagna) nell’urgenza anticlericale di Sos campanones de Santa Maria, dove si narra
dell’installazione di nuove campane nella cattedrale di Nuoro2, intitolata a Santa Maria della Neve. È invero una prova che risente di un respiro municipalistico,
GONARIO PINNA, Pasquale Dessanay, in PDN, pp. 107-133.
La composizione de Sos campanones potrebbe risalire alla permanenza del poeta in terra campidanese, se si tiene conto del fatto che la “fuga” da Nuoro è da collocarsi intorno al 1900, e
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Realismo nuorese
sebbene riscattato qua e là da qualche pezzo di bravura. Prevale e domina in questa ottava torrada (la scelta del metro si ricollega a quella sorta di cronache paesane in versi cui si erano dedicate schiere di produttori ottocenteschi) un uso anche sapiente dell’ironia. L’esordio è infatti tutto modulato su un registro enfatico, costruito su iperboli (místicu limbazu [mistico linguaggio] v. [2]; Si ziras mesu mundu non accattas / símile portentosa galania [Se giri mezzo mondo non trovi /
una simile portentosa bellezza] vv. 7-8; mancari istes sett’annos fittianu [ci stessi
pure (nel letto) vent’anni di fila] v. 12; chi faghen solas sa precadoria [che da sole (le
campane) fanno la preghiera] v. 16) e sull’infrazione della consuetudo nella disposizione delle parole. In quest’ultimo caso ci si muove in due direzioni: l’iperbato vero e proprio (de su brunzu a connoscher su valore [nel conoscere del bronzo il
valore] v. 28; tenner depiat su ruju elementu [doveva raggiungere il rosso elemento]
v. 30; Invocan de su Chelu sa Reina [Invocano del Cielo la Regina] v. 35) e la semplice preposizione dell’aggettivo al nome cui si riferisce, aliena dall’uso sardo in
cui è d’obbligo la posposizione (e perciò l’artificio assurge a vera e propria anastrofe, per altro del tutto normale nella poesia tradizionale; cfr. il già citato místicu limbazu; portentosa galania v. 8; fine talentu v. 26; ruju elementu v. 30).
Chi ha un po’ di confidenza con la poesia logudorese ottocentesca (o, spero, chi
avrà letto le pagine che qui precedono) avrà di certo avvertito quanto in questa
parata di artifici Dessanai offra un compendio del linguaggio poetico tradizionale. Una grammatica che accoglierebbe benissimo in epigrafe (se non per titolo) l’espressione místicu limbazu, dove convergono l’iperbolica attribuzione di
un ‘mistico linguaggio’ al suono delle campane e la preposizione dell’aggettivo, rigorosamente accompagnate dall’uso dell’italianismo (che come sappiamo
di quella grammatica costituisce uno dei capitoli principali). È infatti la notevole presenza d’italianismi nell’esordio de Sos campanones3 (delimitabile tra l’incipit e i primi versi della quarta ottava) che contribuisce in maniera decisiva all’innalzamento tonale, in ragione di una simulata adozione d’intenzioni elogiative, secondo il più classico dei procedimenti ironici4 (l’anticlericale Dessanai fa
il vanto delle campane della cattedrale cittadina). E se ogni grammatica classica che si rispetti contempla i suoi auctores, Sos campanones non manca di riferirsi a stilemi appartenenti a testi seriamente elogiativi rientranti nell’alveo
della tradizione logudorese e gravitanti intorno a occasioni e temi ugualmente
che, da rilevamenti personalmente condotti (cfr. la nota al testo de Sos campanones), l’unica campana alla quale Dessanai avrebbe potuto riferirsi, nel caso egli avesse preso spunto da un episodio reale, risale al 1904.
3 Il dato (17 su poco più di 35 versi: místicu [2]; limbazu [2]; armunia [4]; símiles 4; assai 5;
adattas 6; símile 8; portentosa 8; solen 10; faghes a mancu 14, calco dell’italiano ‘fare a meno di…’;
ammirare 15; printzipalmente 18; fine 26; talentu 26; intentu 27; elementu 30; supraffina 38) è ovviamente da confrontare con quello ricavabile da un sondaggio degli italianismi compresi nella parte centrale (16 su 72 versi: istesas 49; collocan 50; piatzale 58; senza 59; carculau 60; preparau 61; Èccolas 73; finalmente 73; collocau 75; a donzi costu 77; diventat 84; furiosu 84; decretan 89;
errore 98; discuntentu 100; restat 100).
4 Vedi HEINRICH LAUSBERG, Elementi di retorica [1949], Bologna, Il Mulino, 1969, p. 237.
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
“ecclesiastici”. Possono servire da esempio le prime strofe di un testo di Ciriaco Antonio Tola (Bitti 1785-1868), contenuto in una delle raccolte curate dallo Spano5 e scritto, come avverte il curatore, Per la riedificazione della parrocchia
di Bitti nel 1861:
De su martire nostru titulare
Totu invochemus sa protessione
In sa solenne benedissione
De custu tempiu riedificadu,
chi su populu a issu hat dedicadu
Pro cantu Bitti in pes podet durare.
Cum pagos fundos et cum pagu intrada
Et senza tenner prontu su contante
Pro cura de su parracu zelante
S’opera grandiosa est accabbada,
Sa populassione si bi est portada
Cum impignu chi est dignu de ammirare.
[Del martire nostro titolare / tutti invochiamo la protezione / nella solenne benedizione / di questo tempio riedificato, che il popolo a lui ha dedicato / per
quanto Bitti possa durare. // Con pochi fondi e poche entrate / e senza aver
pronto il contante / per cura del parroco zelante / la grandiosa opera è terminata, / la popolazione vi ha contribuito / con impegno che è degno di ammirare.]
A parte la diffusa italianizzazione del modello6 (per l’appunto polemicamente
mimata in Sos campanones), l’esordio del bittese viene ricalcato verbalmente e,
per l’iperbato, sintatticamente in XXXVII, 35: Invocan de su Chelu sa Reina (Tola: De su martire nostru titulare / totu invochemus sa protessione; e qui l’allusione coinvolge più in generale la poesia dei gosos, le laude sacre sarde, che si aprono frequentemente con un complemento di specificazione introdotto da de cui segue
l’oggetto relativo al complemento; basti l’esempio, vicinissimo al verso dessanaiano: Alta Reina Singulare / De su Chelu Imperadora7). Ancora, in XXXVII, 15
(dignas de ammirare) si riprende quasi alla lettera il secondo emistichio del v. 6
di Tola (dignu de ammirare).
Non diversamente da quanto accadeva con Ribellione, Dessanai ingaggia un
duello imitativo con i codici tradizionali (stavolta tocca alla poesia paraliturgica
e a quella encomiastica filo-clericale), per poi dissolverli in seconda battuta. Infatti, anche in Sos campanones la simulazione di partenza si svelerà gradualmente.
5
Ora leggibile in CPS, III, vv. 331-332.
6 Limitandoci alle strofe riportate: solenne 3; Tempiu 4; riedificadu 4; dedicadu 5; contante 8; cura 9; zelante 9; opera 10; grandiosa 10.
7 In GRAZIA DELEDDA, Tradizioni popolari…, cit., p. 106.
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Realismo nuorese
Nella parte centrale del componimento, che riferisce le fasi di fusione, trasporto e installazione delle campane nuove, l’indugio descrittivo è in funzione dell’attesissimo collaudo. Raggiunto il culmine dell’attesa (XXXVII, 73-74), ecco uscire dalle campane un suono d’agonia (s’intenda: l’agonia delle donazioni
della cittadinanza per l’importante acquisto; Dessanai gioca sull’anfibolia del
termine, il quale può normalmente significare la diminuzione delle forze vitali in un essere prossimo alla morte, ma, più ristrettamente, gli stessi rintocchi
a morto, che in quel modo vengono nominati in diverse località sarde). Immediatamente dopo sarà un toccu lamentosu (XXXVII, 81) a venir fuori dalle campane, ma Dessanai, non pago, prosegue a definire quei rintocchi per mezzo di
similitudini e comparazioni che abbassano gradualmente il místicu limbazu di
partenza a una materialità ben poco divina; incominciando con l’impressionismo fonico del v. 82 (surdu comente in puttu unu puale [sordo come un secchio in
fondo al pozzo]; tutto giocato sul timbro grave della u e sull’allitterazione PUttu … PUale), affondando il colpo con un accostamento che rimanda alla più
bassa corporalità (XXXVII, 85-86: don Diegu […] / zurat chi sonat menzus s’urinale [Don Diego […] / giura che suona meglio l’orinale]), mitigata, si fa per
dire, dalla successiva affermazione corale di pride Verachi e pride Pascale, i quali:
trochen de conca e naran ch’est lapia [fan cenno di no con la testa e dicono che è un
paiolo]). Si tratta di utensili (puale, urinale, lapia), s’intende, ben poco ‘mistici’,
e i cui suoni difficilmente potrebbero ambire ad articolarsi in ‘linguaggio’, a
meno che non si tratti di un discorso alquanto scurrile8.
2. Parodia e procedimento ironico sono le modalità attraverso le quali passa
la denuncia sociale ancora scopertamente espressa de Sos campanones. Di questo
tenore è anche la satira del sonetto A unu signoriccu divertiu (trattandosi, come
ebbe a dire Gonario Pinna, della rappresentazione di un giovine signore paesano9). Il
testo ruota tutto intorno alla contrapposizione signoriccu vs. attera zente [signorino / altra gente] (XXXIII, vv. 1 e 12. Quasi entità innominate, al fine di rappresentare due tipologie sociali), polarità principale che si sviluppa in altre particolari che ad essa si riconducono: vida lussuriosa vs. vida chin su piccu [vita lussuriosa / vita col piccone] (XXXIII, vv. 6 e 5), e durches e rosolios (XXXIII, 11;
dittologia giocata su un sapiente impiego di liquide) vs. irmulatta [dolci e liquori / rafano selvatico] (XXXIII, v. 14).
Tale articolazione antitetica non stenta a configurarsi quale principio ordinatore del testo. Quartine e terzine sono organismi impermeabili, che esordiscono con
brusche aperture (segnate da parole bisillabiche accentate sulla prima sillaba: curre, atter, nudda). A una fase ironicamente ottativa, riguardante il signoriccu, che si
8 Il declassamento delle campane prosegue anche dopo il secondo collaudo (v. 97), nelle due
ottave conclusive, dove si ristabilisce la degradazione delle campane a lapiolu [paiolo] (v. 116;
ironicamente riscattato dall’aggettivo balente [valente]), indicandone, quindi, una nuova e più
appropriata destinazione d’uso, e un possibile e degno sostituto: un mojolu [tramoggia] (v. 117).
9 PDN, p. 109.
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
svolge nella prima quartina, si contrappone la seconda quartina, inaugurata dall’atter [altri] del v. 5, anticipazione dell’áttera zente che apre la seconda terzina.
Simmetricamente, dunque, ad una terzina nuovamente ottativa, piena di caldo
ambiente signorile, si contrappone l’ultima terzina, brevissimo squarcio realistico
su un ambiente di miseria. Non sorprenderà, allora, per questa capacità di tradurre in termini formali l’assunto di fondo, notare come il disegno venga tracciato ricorrendo a parallelismi basati su strumenti retorico-stilistici. Se a caratterizzare una delle azioni del signoriccu è l’iterazione superlativa a ticcu a ticcu [sorso a
sorso= a centellini; a piccoli sorsi] (XXXIII, v. 4), identica figura verrà attribuita
all’attera zente (a pacu a pacu [a poco apoco] XXXIII, v. 13). A parte la chiara funzione mimetica attribuibile all’uso di queste espressioni (atte, conformemente a
una poetica realistica, a trasmettere una realtà in movimento e “nel tempo”, fatta
di gesti caratterizzanti, che fissa saldamente, dinanzi agli occhi del lettore, le immagini del signorino e dell’innominata famiglia riunita intorno al focolare10), non
pare inutile avvertire che in tal modo si è al cospetto di una di quelle capacità che
è delle menti poetiche più avvertite; quella di suggerire, mediante spie stilistiche,
connessioni, divergenze, similarità e diversità. Tanto più che Dessanai non si limita a seminare allusioni entro lo stesso testo. Quello stesso marchio (a ticcu a ticcu) impresso sull’eroe negativo di A unu signoriccu, ricorre per un altro gaudente
dessanaiano, il Foddaju del poemetto in terzine Sa morte de Pettenaju (Biber cumbenit como a ticcu a ticcu [Ora conviene bere sorso sorso] XXXVI, v. 10); e, d’altronde, è tutto il sistema di rime ad essere comune al sonetto e alle terzine: rispettivamente ticcu : piccu : riccu (XXXIII, vv. 4 : 5 : 8) e riccu : ticcu : piccu (XXXVI, vv.
8 : 10 : 12). L’impronta formale denuncia e rimarca l’affinità fra i due personaggi, in quanto entrambi rappresentanti di quel mondo contestato dal poeta.
3. Il caso sopra esposto è sintomatico di quella più generale solidarietà esistente tra i testi nuoresi di Dessanai di cui si diceva all’inizio di questo discorso. Ma da A unu signoriccu a Sa morte il salto è notevole, approdando con il secondo a quel Dessanai che riesce a dare al proprio impegno morale una più decisa fisionomia poetica. Dato anche in Sa morte un contrasto sociale (palese nella macroscopica bipartizione del testo: nella prima parte si fa conoscenza con
Foddaju, prete benestante, beone e linguacciuto, mentre la seconda inscena il
funerale di Pettenaju, misero pescatore di pojos [pozze]), il modo in cui questo
vi è maneggiato ci parla di un realismo tutt’altro che rozzo. Non vi compaiono,
ad esempio, clichés di un populismo persino ridicolo (alla stregua di quelli già
stigmatizzati da Remy de Gourmont proprio sul finire del secolo scorso: i padroni che s’ingrassano col sudore del popolo11) cui Dessanai indulgeva nella produzione
10 L’iterazione superlativa, in quanto determina un’azione ripetuta e in via di svolgimento,
può essere definita, scomodando una categoria aspettuale, durativa
11 REMY DE GOURMONT, Il cliché, in ID., Retorica e stile, a c. di Alessandra Pavignani, post-fazione di Paolo Bagni, Firenze, Alinea, 1995, p. 55 [originariamente: Le cliché, in L’Esthétique de
la langue française, 1899].
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Realismo nuorese
in lingua (I sudori / bastano ad in〈n〉affiar la pancia sazia / dei sordidi signori!12).
Se in questo genere di passaggi si rivela un uso stereotipo dell’idioma nazionale (lingua di non-appartenenza, letterariamente appresa), nell’artista in nuorese s’impone, invece, la messa in moto di una realtà quotidiana, fuori da mediazioni da parte di un ipotetico poeta-oratore e vate. L’immoralità epulonica del
sacerdote (prossimo in questo e per altri tratti a certi esemplari portiani e belliani) non passa mai per annotazioni ostensive13. Il compito di delineare lo status dei due personaggi del poemetto è interamente demandato ad oggetti ed
azioni14. L’intentio operis, quindi, oltre ad essere veicolata da pure immagini alimentari (ad es.: frissura de berbeche vs. ambidda e trottiscone [spezzatino di pecora
/ anguille e minutaglia di trote]), si affida direttamente ad altri procedimenti
parallelistici, come l’omoteleuto tra i nomi dei due protagonisti (Fodd-AJU:
Petten-AJU), l’opposizione tonale tra le chiuse delle due parti (solenne e beffarda la prima, mesta e tragica la seconda), le quali, in un movimento circolare Foddaju → Pettenaju → Foddaju, attuano un attento gioco di richiami (la
prima rimanda alla seconda parte attraverso il binomio ambidda e trottiscone, che
allude al mestiere di Pettenaju; la seconda si ricollega alla prima parte per l’accenno alla religione di cui Foddaju è indecente rappresentante, e s’imbrenucan e
precan a Deu / chi si collat cudd’ánima biada [e s’inginocchiano e pregano Dio /
che si prenda quell’anima beata]).
Presa, quale banco di prova di questo condensare, la caratterizzazione ambientale (dove il realismo sociale ottocentesco non mancava d’investire gran parte
delle proprie risorse), si può notare quanto il lavoro proceda ancora per soppressione, per ellissi, non concedendosi al descrittivismo. Pochi ma essenziali accorgimenti, l’uno nel senso dell’estensione e l’altro in quello dell’altezza (la sorella
di Foddaju si presentat [si presenta] nell’atrio della casa, e dunque proviene da un
altro ambiente, XXXVI, 13; la dimora del prete ha una cantina, il gamasinu [can-
12 Versi leggibili in MANLIO BRIGAGLIA, Poeti nuoresi dei moti contadini, cit. La lezione riportata dallo studioso reca inafiar, che, se non si tratta di refuso, potrebbe essere un ipercorrettismo dell’autore.
13 Quando Foddaju appare sulla scena (v. 4) è già alticcio, si affaccia sulla soglia a tontonadas
[barcollante]; si può stare certi che egli si trovava già in cantina quando le campane a morto
hanno richiamato la sua attenzione, ed infatti al v. 19 si legge: e torrat a sas cupas de su binu [e
ritorna alle botti del vino]. Prima di far rientro nella sua stanza preferita, egli ha già risposto alla sorella, la sua perpetua che tutta divertita gli offriva qualcosa da mangiare, di essere già sazio, ma lo si vedrà comunque fare le scale con pane e formaggio nascosti in grembo (in sinu).
Tali predilette attività si susseguono senza soluzione di continuità, in una ciclicità dalla quale
non rimane fuori neppure quella parte di vita incosciente che è il sonno (vv. 37-42).
14 Che Foddaju sia un sacerdote lo si ricava dal suo soliloquio (vv. 7-9; cantare vale ‘cantare la
messa’; roder allude alle offerte che vi sarebbero state se si fosse trattato di un interru riccu, di un
‘funerale di persona facoltosa’); che Pettenaju sia un pescatore d’acqua dolce appare dalle parole di Zori (Sa luba como nessi frorit [Almeno ora fiorisce l’euforbia] v. 51; luba = pianta euforbiacea utilizzata per avvelenare i pesci), dai “soprammobili” della sua casa (sas tramas de filau [le
reti], v. 54; la frúschina [fioccina], v. 56) e dalla preghiera conclusiva, riferita in terza persona
123
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
tina] dove il padrone di casa scende a sbevazzare, finendo per ubriacarsi ed addormentarsi, XXXVI, 36), sono sufficienti a darci un’idea di casa a più ambienti e a più livelli, il che basta a farne una di quelle “padronali” della Sardegna
agro-pastorale di fine Ottocento (non diversamente, ma entro una modalità pienamente descrittiva, si comporta la Deledda quando intende fornire i dati di una
condizione sociale alta, fosse pure la decaduta potenza della famiglia Pintor di
Canne al vento, insistendo, direbbe il tecnico, su prospetti, sezioni e planimetrie).
Di contro, la totalità delle azioni della seconda parte de Sa morte (il cane ulula; le
donne pregano; Zori se ne sta in disparte; Zori e Muria altercano) si svolge in un
solo ambiente, attorno alla salma, e in quell’unico locale sono depositati tutti gli
attrezzi da lavoro del defunto pescatore (frúschina [fioccina]; tramas de filau [reti]; insomma, ferramenta e trastos [ferramenta; attrezzi]). Si potrebbe anche riflettere sul fatto che questo realismo presuppositivo assume (paradossalmente?) i caratteri dell’evidenza; ma qui ci limiteremo a osservare che tale maniera di operare si colloca al di là di quel “realismo di particolari” che aveva piuttosto soddisfatto esigenze quali il godimento del dato peregrino, basso e desueto rispetto
al pudore della tradizione letteraria e specie poetica. Quest’ultimo atteggiamento muoverebbe piuttosto da una visione dall’alto e il suo prodotto è un realismo
estetico (Auerbach) cui Sa morte è tutt’altro che assimilabile.
In tutto questo dovette influire non poco un acculturamento su scritture narrative (o su poesia con vocazione narrativa, e si pensa a Pascarella). Tant’è che
l’aura realistica che avvolge Sa morte, e più in generale il Dessanai nuorese, deve molto al tono del dettato, che sovente rasenta quello della prosa o, meglio,
quello del romanzo (“genere” cui spetta un’indubbia paternità riguardo al realismo moderno). Ne fa fede l’incipit narrativo (Nobe lassas sa cámpana àt toccau /
e i su sonu innedda ’e Cuccu Baju / in s’ághera drinninde nd’est colau [Nove rintocchi a morto la campana ha suonato / e il suono più in là di Cuccu Baju / nell’aria risuonando se n’è andato] XXXVI, 1-3), un attacco che fa pensare a una
novella in terza rima (d’altronde quale altro metro meglio di quello della Commedia avrebbe potuto rispondere a un’istanza di racconto?). Infatti la narratività
è un altro filo rosso del Dessanai nuorese, e sempre accentuata in sede incipitaria; come mostrano gli attacchi di In s’abba (Fit una die ’e iberru mala e fritta [Era
una brutta e fredda giornata d’inverno]) e di Torrau (Su sero ch’est ghirau tziu Andria [Quella sera che fece rientro tziu Andria]). Di questa tensione al racconto
sono inoltre eloquente testimonianza le dominanze temporali del testo, presente ed imperfetto indicativo, tempi eminentemente narrativi15. Ma si potrà
dall’autore, pronunciata dalle astanti (e s’imbrenucan e precan a Deu / chi si collat cudd’anima biada /
ch’istabat in sos pojos a rodeu [e s’inginocchiano e pregano Dio / che si prenda quell’anima beata /
che andava in giro per le pozze], vv. 91-92). Per questa via, l’allusione alla grassezza di Foddaju
è affidata al nome semantico, da ricondurre al sardo fodde [sacco]; in parallelo, un altro nome
semantico figura nella seconda parte, Muria, cognome vero e proprio ma anche nome della salamoia (usata per la conservazione del pesce).
15 Cfr. HARALD WEINRICH, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo [1964], Bologna, il Mulino, 1978.
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Realismo nuorese
altresì notare che quell’assenza di diffuso e particolareggiato descrittivismo più
sopra illustrata sta a significare, in una prospettiva diremo così narratologica, una
fusione fra tempo del racconto e tempo della storia, garantisce una sincronia fra tempo della narrazione e tempo narrato. Anche quando Dessanai vorrà fornire il ritratto caricaturale di Foddaju16, si comporterà in modo che quella sincronia non
venga meno: atteso che il personaggio si congedi bruscamente dalla propria sorella e imbocchi le scale per la cantina, viene sfruttata la durata di quel “viaggio” per inserire la terzina descrittiva (XXXVI, 22-24); e quella discesa ci è data in tutta la sua natura durativa, attraverso il gerundio (grattándesi [grattandosi] XXXVI, 20) e l’iterazione (a passu a passu [passo dopo passo] XXXVI, 20),
gettando le basi formali dell’operazione imminente. Chiusa la terzina descrittiva, si torna sulla scena (ecco che ritroviamo Foddaju in cantina, nei pressi della
botte del vino e direttamente colto nel gesto di aprirne il rubinetto).
Non di meno, ad accostare il testo ai toni del narrato risponde naturalmente
l’uso fittissimo del discorso diretto; che spiega anche la vocazione drammatica di
questi versi. L’entrata in scena della sorella di Foddaju (XXXVI, 13-15) è immaginabile che avvenga da una porta del fondale, e pare davvero una fugace apparizione da comprimaria macchietta di commedia. Bisogna resistere però alla tentazione di additare per queste soluzioni accolte in Sa morte un possibile referente teatrale nella commedia dialettale (tra l’altro per nulla o scarsamente attestata nella
non urbanizzata area logudorese-nuorese). In quei paraggi l’annessione del vernacolo aveva piuttosto portato alla classica derisione, anche se bonaria, dello zotico,
come più tardi in Sardegna accadrà nel Ziu Paddori di Melis, con la sua caricatura linguistica del paesano, piacevolmente assaporata dalla ben pensante borghesia
cagliaritana. Niente di più remoto dal poeta nuorese (anche perché, a voler limitare le differenze al piano sociologico, egli non fu né cittadino e né benestante).
Se dunque per questo Dessanai si deve sicuramente invocare la categoria auerbachiana di realismo serio (non puramente estetico e divertito), inserti “comici” come
quello brevissimo messo in bocca a Zori (Sa luba como nessi frorit XXXVI, 51; vedi p. 123 nota 14), a tutta prima leggibile come un tentativo di alleggerire la tensione drammatica o di esorcizzare il patetico, rivelano, in fondo, un contenuto tragico. L’enunciato restrittivo, con valore psicologico di consolazione (vi si allude al
fatto che Pettenaju, assiduo frequentatore di pozze, doveva essere suo malgrado
un instancabile raccoglitore di luba [euforbia], tanto da non lasciare alla pianta il
tempo di fiorire), sta ad indicare che, anche di fronte alla morte del compagnocollega, Zori non può dimenticare la fonte del proprio sostentamento. Se ne è andato un concorrente nella lotta per la sopravvivenza, un monopolizzatore di euforbia. Lo stesso genere di considerazioni vale anche per la successiva e indecorosa
zuffa tra Muria e Zori (XXXVI, 59-79), dove i due si contendono i pochi e umi-
16 Un ritratto che, con quella pancia ancora più tonda di quanto la traccerebbe il compasso
(vv. 22-24), rasenta il grottesco e la deformazione espressionistica; carattere, questo, che viene
sottolineato con il successivo istimpanau / de recattu (vv. 34-35; a s’istimpanare vale ‘sfondarsi i
fianchi’: sos timpanzos).
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Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
li attrezzi del morto (sa frúschina, compresa poi in un più generale ferramenta,
XXXVI, 60). Da una parte, la messa in atto dell’alterco (che non è divertito ricorso all’improperium o colorita scenetta che riesca a movimentare l’azione) fa in
modo che la polarità su cui si fonda il testo (Pettenaju : Foddaju= oppressore : oppresso) non assuma propositi manicheistici, mentre insinua anche entro la seconda parte il motivo dell’avidità umana, che risulta così trasversalizzata, attribuita
all’una e all’altra “razza” di uomini dessanaiani (non mancando anche in questo
caso segnali stilistici: alla metafora alimentare riguardante Foddaju, roder [rosicchiare], stante per l’ingordigia umana, si può affiancare l’ingurtis [inghiottisci]
che Muria rinfaccia a Zori). D’altra parte, l’attaccamento a sos trastos [gli attrezzi]
del morto quasi si tratti di un ingente patrimonio immobiliare, mira a dar conto
dell’alto indice di miseria dei personaggi. Insomma, aveva già visto bene Gonario Pinna quando affermava: La scena che si svolge in casa del morto durante “sa ria”
(il duolo funebre), con gli ululati del cane accanto alla salma del padrone, il pianto delle
donne che tratto tratto s’interrompe per i commenti saporosi degli amici ma riprende più alto appena entra il falegname “chi su baule a terra hat iscracau” (che ha buttato rumorosamente a terra la cassa da morto), è d’un realismo forte e triste che induce al sorriso ma
persuade anche alla meditazione17 (e, significativamente, la meditazione di Pinna non
pare distante dalla pirandelliana riflessione che porta al sentimento del contrario18).
Questo scavare nella realtà degli umili e dei nullatenenti con adesione simpatetica ma controllata da uno stile tendenzialmente oggettivo, implica una scelta contenutistica per la quale sarebbe difficile citare precedenti nella poesia sarda19. Oggettivare questa problematica sulla pagina poetica, doveva poi implicare anche un indirizzo stilistico nuovo: la messa in moto del reale, già preannunciata nel gesto conclusivo di Ribellione, di un reale anche basso, sperimentato in
Cherrende e assunto eticamente in A unu signoriccu e in Sa morte, trova una coerente risposta formale nella lingua della realtà rappresentata: il nuorese20.
17
PDN, p. 108.
LUIGI PIRANDELLO, L’umorismo [1908], Milano, Mondadori, 1992, pp. 126 e segg.
19 Al proposito va considerata con attenzione la precisa scelta della figura del pescatore di acqua dolce, che nella Sardegna centrale dell’Ottocento non può che indicare una condizione di
sopravvivenza, alla stessa stregua di quel popolo di mangiatori d’erbe selvatiche cui Dessanai
allude in A unu signoriccu divertiu. Quando la deleddiana Noemi Pintor apprenderà che il nipote Giacinto, nato e vissuto in Continente, ha intenzione di recarsi in Sardegna per cercare lavoro
e stabilirsi, sentenzierà: “Egli forse crede di venir qui a fare il signore. Venga, venga! Andrà a pescare al fiume” Come a dire: “verrà a fare il disoccupato” (GRAZIA DELEDDA, Canne al vento [1913],
Milano, Garzanti, 1994, p. 15).
20 Lungo i novantatré versi de Sa morte si trova una sola voce log.: chérfidu (XXXVI, 65, Prem.
Ling. VI; scarsa è anche la presenza d’italianismi, difficile da immaginare in qualsiasi testo coevo, indice di una netta tendenza antitradizionale), per di più accolta per motivi di prosodia (il
nuor. ‘chérfiu’ avrebbe dato una misura decasillabica). Il testo P (vedi apparato critico) ha pure un
log. pianghiana, che non figura né in GP e né in M; è vero che in questi due testimoni si riscontra una tendenza a nuoresizzare le forme logudoresi (vedi, per GP, l’apparato critico relativo a Ribellione: vv. 2, 3 e 14), ma pare soluzione più economica quella di supporre l’autenticità del nuor.
18
126
Realismo nuorese
Mutato l’orizzonte poetico, mutate le tematiche e sopraggiunto un superiore impegno etico, nonché linguistico, questo Dessanai mostra anche di aver dato una rispolverata al settore poetico della propria biblioteca personale. Che Dessanai abbia una viscerale propensione per l’ammiccamento letterario lo si è già
visto e documentato a proposito di Ribellione. Lì, i riferimenti alla produzione altrui erano in funzione di pastiche satirico ed andavano ricercati lungo la tradizione logudorese (alla quale vanno ovviamente ricondotte le citazioni che il poeta dissemina nella sue prove liriche). Ora ritornano letture di ben altro tipo. E
si capisce: la lirica logudorese, aulica, italianizzante, poco propensa al quotidiano e poco pregnante semanticamente, risultava inservibile come repertorio a
cui ispirarsi per scopi mimetici e realistici; ed infatti Sa morte appare completamente scevra di ricordi letterari risalenti a quella tradizione. Più prossimo a
Dessanai era invece un altro maestro di realismo: Pompeo Calvia, che infatti da
par suo, ed anch’egli pratico del codice logudorese, andava sperimentando il sassarese, altro codice privo di degnità letteraria. Difficile dubitare che l’attacco
dessanaiano:
In domo ’e Pettenaju unu cateddu
urulabat a curtzu ’e su mere
(XXXVI, 43-44)
[In casa di Pettenaju un cagnolino / ululava accanto al padrone]
non tenga presente la Veggia di morthu [Veglia del morto] di Calvia in cui: Ululegia lu cani pibbiosu21; o che sempre la Veggia, con le sue tre lampani murendi (v. 9),
non s’insinui nel mucculittu mori mori (XXXVI, 47) delle terzine nuoresi (mori mori è pure in Calvia, associato a un fenomeno acustico: E la bozi sizz’anda mori mori22). Certo: non si escludono altre diramazioni, magari continentali; però si noti
come questi lacerti sassaresi assumono una pertinenza tutta particolare, poiché
così si è fatto significativamente ritorno a quelle giovanili e promettenti prove di
Sebastiano Satta (sodale di Calvia nell’occasione della raccolta poetica Nella terra
dei nuraghes, dove per la prima volta apparve la Veggia) che aprono il presente discorso, e a quella Sassari, venata di Nuoro, piena di fermenti.
Fortemente ridimensionati l’imitazione dei modelli logudoresi e l’utilizzo di
blocchi verbali preconfezionati, scoperta, dunque, la risorsa nuorese, Dessanai
si piega anche a un assaporamento fonico del nuovo acquisto (vv. 2-3):
pranghiana, sia perché si può appoggiare a XXXVI, 49 e 88, versi per i quali i testimoni attestano unanimemente la forma nuor., e sia perché per pianghiana/pranghiana non valgono le motivazioni prosodiche che valevano per la scelta chérfidu/chérfiu. Più in generale si tenga conto dell’assenza, nel testo, di forme palatalizzate (Prem. Ling. IV): prus (vv. 24 e 66; vs. ‘pius’); prenat (v. 27;
vs. ‘pienat’); frorit (v. 51; vs. ‘fiorit’), lezioni in comune a P, GP ed M.
21 POMPEO CALVIA, Veggia di morthu, v. 5, in ID., Sassari mannu, Sassari, Chiarella, 1967 (III
ediz.), [Sassari, tip. Libertà, 1912; in origine in Nella terra de nuraghes, cit.].
22 ID., Vizzilia, v. 5.
127
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
e i su sonu INNedda ’e Cuccu Baju
IN s’ághera drINN-INDE ND’Est colau.
Una degustazione che non è soltanto musicale, ma mimeticamente motivata, se il
nesso in rimanda alla più classica delle voci imitative del suono delle campane (din
don), cui si riconduce più strettamente la successione D(r)IN(n)IND(e)ND(e)23. La
tessitura fonica che percorre tutti i primi tre versi de Sa morte risulta ancora più
preziosa per la sovrapposizione di una seconda trama tutta giocata sulla a (tredici
volte, delle quali quasi la metà sono a toniche [lassas, cámpana, toccau, Baju, ághera, colau], alcune in rilievo per la loro posizione proparossitona nella parola):
Nobe lÁssAs sA cÁmpAnA Àt toccÁu
e i su sonu inneddA ’e Cuccu BÁju
in s’ÁgherA drinninde nd’est colÁu.
Percussione nuovamente motivata: la vocale di massima apertura mima, qui, il
propagarsi del suono nell’aria e l’ampiezza dei lenti rintocchi a morto24. Notevole,
su questa linea d’indagine, è anche il fatto che il disumano disprezzo di Foddaju
per il defunto Pettenaju passi per rime veramente aspre e chiocce, tutte in successioni serrate: mortu : tortu : resortu (XXXVI, 5 : 7 : 9); riccu : ticcu : piccu (XXXVI,
8 : 10 : 12); corru : afforru (XXXVI, 28 : 30); interru : ifferru : ferru (XXXVI,
29 : 31 : 33); particolarmente forti le ultime due serie, che s’incrociano mantenendo intatta la loro massa consonantica (la polivibrante) e la vocale finale.
4. Una studiata disposizione dell’armamentario fonico contrassegna anche il
pezzo forse più conosciuto dell’intera produzione dessanaiana: In s’abba [Alla
fonte]. Anche qui all’apertura vengono affidate equilibrate testure foniche:
FIT una die ’e iberru mala e FRITTa,
FIt bentu, FIt FRoccande a FRocca lada
e Mariedda, ToTTu TosTorada,
ghirabat chin sa BRocca da IsTiriTTa.
[Era una brutta e fredda giornata d’inverno, / faceva vento, fioccava a larghi
fiocchi / e Mariedda, tutta intirizzita, / rientrava con la brocca da Istiritta.]
23 Il fulcro dell’allitterazione coinvolge ben tre semantemi (drinnire, nde, est): il gruppo di fonemi che fanno parte della desinenza del gerundio (drinn-iNDE) viene esattamente richiamato
dall’avverbio (nde, ‘ne’) eliso e unito alla terza persona del verbo “essere” (est, ‘è’; da leggersi es
in questo contesto fonetico): ND’Est.
24 Il fatto che la a sia anche la vocale tonica delle prime quattro rime non fa che accrescere l’effetto, considerando anche che si tratta di rime a prevalente massa vocalica, dunque, in iato, senza alcuna occlusività (e al proposito non sarà inutile ricordare che iato viene dal latino hiatus, da hiare, ‘stare a bocca aperta’), che incontrano, per enjambement, le vocali con cui iniziano i versi successivi.
128
Realismo nuorese
dove l’insistenza riguarda i suoni costitutivi della parola-tema frittu [freddo] (le
consonanti f e t e il nesso fr-), sulla quale insistono più da vicino il fit (FrITTu)
d’attacco, che anticipa la parola-tema in fine di verso (secondo un procedere ben
diffuso nella Commedia dantesca25), e i successivi fi(t) (dove la -t, però, è grafica, non sentendosi, per fonosintassi, nella pronuncia). La t, poi, rimanda alla tipica interiezione sardo-nuorese esprimente la sensazione di freddo: tittia (già di
per sé onomatopeica, ad imitazione del battere dei denti), che un coetaneo di
Dessanai, Peppino Mereu, rendeva in un balbettio ancora più esasperato: Titti,
ite frittu, ite notte infernale [Titti, che freddo, che notte infernale]26.
Grazie anche a questa architettura sonora, il sonetto, che ha beneficiato di una
prontissima diffusione orale, accelerata dall’esser stato musicato e armonizzato dal
Coro di Nuoro27 (il primo ed il più famoso dei cori nuoresi che, intorno agli anni
Sessanta, avviarono un’opera di rivisitazione delle varie forme di canto polifonico
sardo), possiede un alto grado di memorabilità, che può ben giustificare la compattezza della lezione testuale nelle diverse testimonianze manoscritte28 e, soprattutto, nella esecuzione orale di quelle non poche persone che tutt’oggi conoscono
il sonetto a memoria. Il portato della popolarità cui è andato soggetto In s’abba
consiste, oltreché in una parziale condizione di anonimia e nell’attribuzione di un
nuovo titolo, classicamente desunto dal nome della protagonista (Mariedda), anche
in un’interpretazione vulgata sovente riduttiva, laddove In s’abba è stato assimilato a certa bozzettistica paesana. Per questa via è venuto meno, si crede, il suo carattere essenzialmente tragico. Mariedda, in vero, rientra pienamente nella piccola
schiera dei miserabili che Dessanai espone nella sua produzione nuorese, accanto ai
mangiatori d’irmulatta di A unu signoriccu e al Pettenaju del componimento parzialmente eponimo. Se all’áttera zente di A unu signoriccu (XXXIII, 13) non è concesso
il privilegio di un’esistenza confortevole e spensierata, all’insegna del divertimento e della degustazione dolciaria; se a Pettenaju, dopo una vita di stenti, sarà negato un dignitoso funerale (anzi il suo corpo senza vita dovrà subire le martellate
del becchino), a Mariedda non è concesso neppure di vivere un attimo, come dire,
di poesia. Quell’improvviso e primordiale rapimento estetico, causato dallo spettacolo dei fiocchi di neve (sa frocca XXXV, 10) che scendono a larghe falde, la tradirà impietosamente, facendole cadere la brocca. L’immagine della brocca rotta in
terra, icasticamente isolata in un enunciato parentetico che la separa dalla voce narrante (quasi un cinematografico cambio di prospettiva, per cui l’immagine passa
ora per gli occhi del personaggio), riporta in modo fulmineo la protagonista alla
dura realtà, alla punizione, senza che quest’ultima, si badi, la si possa pensare in
ipotesi, ma, al contrario, ineluttabile, già in atto (li cazzan, v. 14, è un presente indicativo). La brocca spaccata oggettiva, è proprio il caso di dirlo, il sogno infran-
25 Si veda il saggio di GIAN LUIGI BECCARIA, Allitterazioni dantesche, in ID., L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1989 [1975], pp. 91-92.
26 PEPPINO MEREU, Titti tittia, v. 1.
27 Lo si può ascoltare in Canti popolari della Sardegna, Cetra, s.d.
28 Vedi la nota al testo nella terza parte di questo lavoro.
129
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
to; frocca (il sogno) e brocca (l’oggetto spezzato) rimano fra di loro, e entrambi con
il successivo socca (la punizione): le rime descrivono una climax discendente,
frocca→ brocca→ socca, che è una ridiscesa verso una realtà ben poco idilliaca.
Dessanai non era nuovo alla rappresentazione di ragazze sognanti. Ovviamente si pensa a Cherrende, dove il contrasto sogno/realtà rientra tutto nel motivo amoroso che regge il componimento, mentre con In s’abba siamo nuovamente nell’orizzonte di un realismo sociale. Infatti, posto anche che la figura di
Mariedda non alludesse propriamente a una condizione “servile”, essa rimanderebbe comunque a quelle condizioni di subalternità della donna che trapelano
anche da alcune pagine della Deledda.
Si può affermare che l’operazione di trascrizione di quella particolare fetta del
reale (gli aspetti deteriori della società nuorese dell’Ottocento), che la scrittrice,
in prosa e in lingua italiana, e Dessanai, in poesia e in lingua nuorese, si sforzavano di compiere sulla propria pagina, aveva in fondo una funzione eversiva. La
contemplazione letteraria di un reale spiacevole ma drammaticamente quotidiano, andava, da una parte, contro un’immagine stereotipa della Sardegna (formulata a partire dai romanticheggianti viaggiatori sbarcati sul suolo isolano, nutriti del mito del buon selvaggio, i quali avevano finito o per esaltare o per deprezzare ciò che avevano visto); dall’altra, specie con Dessanai, contro il rassicurante
ed idilliaco disimpegno della poesia sarda tradizionale. Tolte quelle lucide e comode vesti, della realtà si esaminarono le cicatrici, gli strati adiposi, le rughe (e
possiamo anche immaginare il dolore provato dagli autori nel portare a termine
quei referti). L’arte dessanaiana, demitizzante e poco rassicurante, è per questa via
in grado di restituire una lettura dall’interno della società nuorese (dove gioca un
ruolo determinante la scelta linguistica), rendendocela nella sua verticalità. Relatori impietosi dell’ambiente paesano, e con questo di un intero modello sociale,
Dessanai, con Salvatore Rubeddu, troveranno una risposta moderna e suprema in
Salvatore Satta29, anche lui intento a levare, con sofferenza, uno per uno, i velami
che coprono le storture della società sardo-nuorese. In maniera più ingenua, già
il capostipite dei poeti nuoresi, Nicola Porcu Daga, contadino (massaju) a mezzadria, ebbe a raccontare la misera condizione del lavoro dipendente:
Su mere si piccat sa parte mazzore,
e deo sos traballos pacu bene,
e cantas bortas, poveru ’e mene,
mi soe bidu infustu ’e suore,
issu si leat saccos de laore
e deo a dolores a su rene,30
[Il padrone si prende la fetta più grande, / ed io, ahimè, le fatiche, / e quante volte, povero me, / mi sono ritrovato inzuppato di sudore, / lui porta via
sacchi di grano / ed io con le reni doloranti,]
29
30
130
SALVATORE SATTA, Il giorno del giudizio, cit.
Su Jubarzu anzenu, in DS, vv. 7-12.
Realismo nuorese
Ed ecco archiviata, anche se, per il gusto moderno, non in modo poeticamente
eccelso, tanta letteratura su un presunto rapporto paritario tra servo e padrone.
Di questo passo si lascia intravedere una linea nuorese, in cui produzione in
lingua e produzione in limba interagiscono e sono in sintonia sulla medesima
istanza di verità, la cui attuazione ha a sua volta effetto scardinante sui topoi che
circondano l’immagine della Sardegna. Luoghi comuni elaborati dentro e fuori
dell’isola, che la gran parte della produzione poetica in sardo alimentava e, comunque, non contrastava, rifugiandosi nella rappresentazione della Sardegnalocus amoenus, nelle tribolazioni amorose, nella parafrasi di passi biblici, etc. Se
si guarda alla sola versificazione in lingua sarda, questa alterità della linea nuorese si qualifica anche stilisticamente, per una progressiva conquista poetica
dell’idioma locale, che sarà da relazionare alla diffidenza verso il lessico chiuso
della tradizione logudorese, alla sua consustanziale italianizzazione, in quanto
tratto differenziante rispetto al reale ed implicante un sovrappiù tonale in accordo all’abito linguistico delle topiche tradizionali. Dessanai, giova ripeterlo,
si colloca al culmine di questo processo, lo porta a compimento con coscienza.
5. Tra gli stereotipi più diffusi della produzione poetica in sardo dell’Ottocento va annoverata l’eroicizzazione del fuorilegge. Non mancano versi scritti in onore di banditi d’indubbia spietatezza; gli aedi ne ritraevano il profondo sentimento di umanità e ne elencavano le disavventure. Con ciò non si dica che quelle numerose ottave encomiastiche fossero comunque mendaci; certo è che vi si forniva
un’immagine estremamente idealizzata del bandito. Alcune voci contrarie a tale
andazzo si erano già levate. Nell’antologia di poesie logudoresi curata dall’editore Uras di Oristano31 figura un componimento anonimo in ottave serradas che reca la dicitura: Canzone critica di autore incerto contro la poesia scritta da Antioco Pireddu di San Pantaleo dedicata al famoso bandito Giovanni Tolu; e nella raccolta dattiloscritta (DS) delle poesie del già citato Nicola Porcu Daga, conservata presso la
Biblioteca S. Satta di Nuoro, compare un duro testo anti-banditesco la cui torrada recita: pro culpa d’un’eroe prepotente, / c’hat tanta zoventude assassinada.
A quella tendenza glorificante Dessanai aveva risposto in modo del tutto personale con Torrau. Il testo si apre, similmente a Sa morte e a In s’abba, con un
incipit narrativo (Su sero ch’est ghirau tziu Andria [Quella sera che fece rientro
tziu Andria]); relazione formale che vuol dire ancora una volta solidarietà tematico-ideologica entro i pochi testi che costituiscono il Dessanai realisticonuorese: Peppe Lardu è un altro vinto dessanaiano, cui non è data alcuna possibilità di riscatto. Per quanto costui occupi lo spazio di un solo verso, si tratta
di una tragica figura di beffato dalla sorte (e, ciò che è peggio, dai suoi simili).
Già vittima dell’ex galeotto tziu Andria (s’anzone [l’agnello] del v. 12 allude a un
figlio morto ammazzato o, per metonimia, a un gregge rubato, secondo le due
interpretazioni già date da Pinna32), Peppe Lardu dovrà sopportare l’oltraggio di
31
32
Raccolta di canzoni…, cit., pp. 373-380.
PDN, p. 119.
131
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
vedersi passare davanti proprio il carnefice, per giunta accompagnato da un
complice corteo di compaesani (la santificazione del fuorilegge è qui ben mediata da sicuri elementi testuali, soprattutto laddove si parla di prutzissione [processione]). Dinanzi al quale, il vinto è soltanto in grado di ‘pensare’, non già
pronunciare, un desiderio tragicamente rivolto al passato: menzus ch’esseret mortu in recrusione [meglio fosse morto in reclusione] XXXIV, 14).
Con questa chiusa ci viene fornita la reale condizione in cui si trova tziu Andria al momento del suo arrivo in stazione, il quale non torna da emigrato e neppure dal fronte: torna dal carcere. Tuttavia, già il concentratissimo ritratto del v.
2 (a zanchetta ’e cusinu e conchi tusu [con la giacca da borghese e i capelli tagliati])
mira a comunicare quella sorta d’incivilimento che una discreta permanenza in
carcere comportava (è stando in cella che uomini provenienti da un mondo agropastorale, la maggior parte dei sardi di fine Ottocento, avevano, ad esempio, la
possibilità d’istruirsi o di avere contatti con uomini appartenenti a culture diverse, cittadine, specie se andavano a finire in qualche carcere continentale). I segni tangibili di quella trasformazione erano, lasciato il tradizionale costume, gli
abiti “civili” e i capelli rasati. I medesimi tratti ricorrono nella scena iniziale di
uno dei più famosi romanzi deleddiani: Elias Portolu. Il protagonista della storia, Elias, trascorso un periodo di carcerazione, torna in paese e giunge a casa sua
scortato come tziu Andria e, come costui, con i capelli neri rasati33. A coloro che
lo accolgono la Deledda mette in bocca una formula augurale che riveste identico significato del Custa ti siat sighidda! di Torrau (XXXIV, 9). Dapprima è la
madre di Elias che si rivolge al figlio con: «Fra cento anni un’altra, fra cento anni
un’altra…»34; poi è la volta delle altre donne: «Un’altra disgrazia simile fra cento
anni»35; fino al: tutti gli auguravano: «Fra cent’anni un’altra»36. Ma il culmine è
rappresentato dall’intervento di Arrita Scada (la “futura suocera” del fratello di
Elias), i cui atti non sfigurerebbero accanto a quelli della tzia Maria dessanaiana: «Figlio mio!», declamò con enfasi la vedova slanciandosi a braccia aperte verso Elias.
«Il Signore ti mandi fra cento anni un’altra di queste disgrazie»37.
Precisazioni di questo genere non sono gratuite né nei romanzi della scrittrice
nuorese e né in Dessanai. Tali contatti fanno pensare a un rapporto diretto fra i
due, peraltro mal verificabile, soprattutto se si volesse individuare la direzione
d’influenza, che non è detto sia quella Deledda → Dessanai. Ad ogni modo, il parallelo mostra come i due autori partissero da un fondo comune e da un comune
e riconosciuto codice socio-comportamentale, che entrambi tentavano di portare
sulla loro pagina. Tentativo, in Dessanai, assistito da una coscienza formale inedita per un poeta isolano di fine Ottocento. A parte il primato dell’idioma locale, in
33 GRAZIA DELEDDA, Elias Portolu [1903], si cita da ID., Opere scelte, Milano, Mondadori,
1968, p. 63.
34 Ibid.
35 Ibid.
36 ID., p. 69.
37 Ibid.
132
Realismo nuorese
Torrau si fanno i conti con locuzioni che rimandano decisamente al livello del
parlato, come ferruvia (v. 4; metonimia per ‘treno’); tèttera che fusu (v. 6; similitudine domestica atta a dare l’idea di un rigido contegno nel portamento); in cui
rientrano espressioni cristallizzate, formulari, quale è appunto Custa ti siat sighidda! (v. 9) e metafore popolari come anzone per ‘figlio’ (v. 12). Ma il massimo
della mimesi è raggiunto, c’era da aspettarselo, in sede di discorso diretto, in
particolare nel riferire le parole di tzia Maria (vv. 7-8). L’enunciato messo in bocca al personaggio è governato da un ardito iperbato, ma non si è soltanto al cospetto di un accorgimento stilistico d’ambito puramente poetico, poiché quell’ordine dei costituenti della frase non è alieno dalla consuetudo. Anche la lingua
parlata si serve frequentemente d’inversioni e di anticipazioni a scopo espressivo-emozionale; e pur possedendo il sardo una maggiore libertà, rispetto, ad esempio, all’italiano, nel collocare i costituenti della frase38, il grado normale della
successione dei membri compresi negli ultimi versi della seconda quartina sarebbe stato:
1
nd’aia
2
perdiu
3
fintzas s’isettu
4
de ti bier prusu
rispetto al quale Dessanai opera una completa inversione:
4
3
de ti bier prusu fintzas s’isettu
2
perdiu
1
nd’aia
che, a sua volta, intende mettere in risalto la compassatezza di quel plateale atteggiamento da consumata matrona nuorese (espresso in un portamento tutt’altro che scomposto: tèttera che fusu). Dopo aver bloccato icasticamente la ieratica
posa di tzia Maria, il poeta le mette in bocca una solenne frase da retore di paese. E se l’unico logudoresismo presente in Torrau (basadu vs. nuor. ‘basau’, v. 6)
dovesse risalire ad una precisa volontà d’autore (cfr. la nota al testo e l’apparato
critico relativi al sonetto), l’assunzione di elementi enfatici riguarderebbe anche
la porzione di testo riservata alla voce narrante. Il verso risulterebbe in tal modo caricato (per il rinvio a una riconosciuta tradizione poetica) in direzione di
una solennità tonale che prelude all’intervento pure solenne del personaggio.
Siamo così giunti al termine di questa lettura del Dessanai nuorese. Lo abbiamo fatto soffermandoci su quello che forse è uno dei risultati più ragguardevoli
di quest’arte (oltre ad essere quello più rappresentativo della poetica dessanaiana): l’uso profondamente consapevole e motivato di livelli e codici linguisticostilistici ma soprattutto funzionalizzato in direzione di una serissima e morale
comprensione del reale. Il riuso poetico della parlata locale, previa l’operazione
di distacco dalla koinè illustre, non prende la strada tutta in discesa verso terri38
Cfr. GSN, § 223.
133
Pascale Dessanai. La vita e l’opera poetica in sardo
tori comici e macchiettistici (quanto di caricaturale c’è nella descrizione del Foddaju de Sa morte è in funzione di una precisa condanna morale). La mimesi non
può essere, per Dessanai, strumento semplicemente ludico, bensì strumento di
verità. A questa scelta più complessa si deve appunto la serietà e la drammaticità dei versi nuoresi esaminati, che portano sulla scena un mondo immobile e
tragicamente immutabile (e basterà dare una veloce scorsa alle sconsolate chiuse dessanaiane per misurare il grado di questa disillusione).
Il valore di tali risultati assume un significato tutto speciale, se si considera
che la loro origine è nella onesta e sommersa attività poetica di un uomo che fu
pur sempre quel povero impiegatuccio mezzo matto di cui ha riferito privatamente
la Deledda. Dessanai coltivò la poesia tra le carte del tribunale (quando non impegnato, suo malgrado, nella ricerca di un’occupazione) e munito di una cultura letteraria nemmeno liceale. Se si tiene conto di questa estrazione socio-culturale, come si deve fare, le quote notevoli che la poesia dessanaiana è in grado
di raggiungere appaiono come il frutto di un lavorio tutto interno, che, passando per il sofferto ripensamento della tradizione regionale approda a quella
maniera corposa ed essenziale dove la lingua nuorese risulta strumento quanto
mai necessario, soprattutto per la sua proprietà (che è poi quella di ogni lingua
non limata da una tradizione coltivata esclusivamente nel verso) di tradurre immediatamente la brutalità del reale.
Per questa ed altre scelte Dessanai si rivela autore dialettale di razza, cui crediamo vada restituita una posizione di primo piano nel rinnovamento letterario della Sardegna di fine Ottocento, se non si dovrà anche assegnargli un posto nella storia della poesia italiana in dialetto.
134
APPENDICE
LA METRICA DI NÉULAS
1. La descrizione di alcuni metri della poesia tradizionale sarda esperiti da Dessanai
in Néulas, richiede un preliminare chiarimento sui particolari modi di classificazione
metrica qui adottati. Si tratta di strutture il cui schema non può essere rappresentato
sinteticamente con i mezzi tradizionali: ancora non esiste una metricologia sarda che
abbia fissato sistemi di classificazione adeguati e unanimemente accolti1.
La soluzione è relativamente semplice per i metri torrados. Questi sono costituiti da
una strofa introduttiva (detta pesada oppure isterrida e talvolta tema; qui si preferirà la
prima dicitura), composta da un numero variabile di versi (più spesso quattro con schema teorico ABBA); da strofe (con prevalenza di sestas, sei versi, e di ottavas, otto versi)
in numero variabile, il cui ultimo verso ha una rima fissa in tutte le strofe, prelevata da
una di quelle della pesada (chiameremo questo verso: camba torrada, ‘verso ritornato’).
Al termine dell’ultima strofa si colloca la ripresa dell’intera pesada o di alcuni versi di
essa, questo congedo-refrain prende il nome di torrada. Con lo stesso nome si indica,
qualora si verifichi, la ripresa della pesada ad ogni fine di strofa.
1 Descrizioni metriche antiche sono quella del MADAU (Le armonie dei sardi, Cagliari, Reale
stamperia, 1787; consultabile in riproduzione anastatica, Bologna, Li Causi editore, s.d. [stampata nel 1983], e nella riedizione curata da Cristina Lavinio, Nuoro, ILISSO, 1997) e quella dello SPANO (1840), contenuta nei capitoli I e II della parte II dell’Ortografia sarda (OS, II, pp. 164). Tra i contributi recenti va citato il manuale di ANDREA DEPLANO, Rimas. Suoni versi strutture della poesia tradizionale sarda, Cagliari, Artigianarte editrice, 1997. Trascurabile l’appendice metrica di FRANCESCO CORDA alla sua Grammatica moderna del sardo logudorese (Cagliari, Della Torre, 1994, pp. 199-216), che si conclude, poi, in modo francamente irragionevole: Si ritiene superfluo accennare ad altri metri (come, fra i tanti, su trintasès e sa retroga torrada), essendo spesso la
loro composizione un puro gioco di perizia metrica (p. 216). Preziosi i lavori di ALBERTO MARIA CIRESE su specifiche forme metriche sarde, specie popolari come i mutos e i mutettus, di validità anche generale per i criteri di classificazione ivi esposti (i due principali contributi di Cirese sulla metrica sarda compongono ora la Parte seconda del suo Ragioni metriche, significativamente
intitolata L’arte del trobear; Palermo, Sellerio, 1988, pp. 183-370; si tratta di: Struttura e origine
morfologica dei mutos e dei mutettus sardi, [1964], rist. anast., Cagliari, 3T, 1977; Questioni terminologiche: mutu, mutettu, battorina, taja, [1959], rist. anast., id., in appendice). Ricordiamo anche
il contributo di RAFFA GARZIA, Ritmica sarda, appendice a Augusto Boullier, I canti popolari della Sardegna, Bologna, Stabilimenti Poligrafici Riuniti, 1916, pp. 197-222.
137
La metrica di Néulas
Appendice
Per questo tipo di metro si può senz’altro adottare il sistema di rappresentazione dello
schema rimico della ballata antica italiana, in uso presso i metricisti italiani: le rime
della pesada (corrispondente alla ripresa della ballata) si indicheranno con le ultime lettere dell’alfabeto (x, y, z, per i versi di misura inferiore all’endecasillabo; X, Y, Z, per
gli endecasillabi). Si prenda ad esempio Prinzipios de amore di Dessanai, un’ottava torrada, tenendo conto che: pes. = ‘pesada’; str. = ‘strofa’; c.torr. = ‘camba torrada’:
[pes.]
Intreghemus sos coros a s’amore
pro chi paris los pottat colloc-ARE.
Si tue ses columba in m’istim-ARE
mustrami de s’affettu su fervore.
X
Y
Y
X
[str. I]
Mustrare deo ti deppo veru affettu,
bastet chi fagas tue atter’e tantu;
e tantu amore des lograre, cantu
nde podet inserrare umanu pettu.
Chin tegus, bene meu, appo s’isettu,
Tue ses su ch’istimo solitantu,
pro cussu no mi cáuses piantu
chin cherrer de s’affettu dubit-ARE.
A
B
B
A
A
B
B
Y
[c. torr.]
La metricologia italiana, d’altra parte, non risponde all’esigenza d’indicare la ripresa
di versi interi, quale quella che si realizza nella torrada propriamente detta (nel caso di
Prinzipios de amore, come qui sotto illustrato, costituita dal distico che chiude il componimento, in cui si replicano i primi due versi della pesada). A questo scopo si porrà
un numero in esponente alla lettera che si riferisce alla rima del verso ripreso. Perciò
anche nella pesada verranno indicati, attraverso questo sistema, i versi che saranno oggetto di ripresa (torr. = ‘torrada’):
[pes.]
[ultima str.]
[torr.]
138
Intreghemus sos coros a s’amore
pro chi paris los pottat collocare.
Si tue ses columba in m’istimare
mustrami de s’affettu su fervore.
X1
Y1
Y
X
[pes.]
Itte amabile ermos - URA
ammiro in tegus, Luch - IA!
Troppu bene favor - IA
t’àt s’amorosa nat - URA!
x1
y1
y2
x2
[str. I]
A cussos ojos brillantes
chie podet resistire?
Chie det poder fuire
sas attrattivas galantes?
Bella, a sos coros amantes
no, non cherzas esser d - URA,
ca troppu grande trist - URA
diat tenner chie t’amat,
diat tenner chie esclamat:
itte amabile ermos - URA!
a
b
b
a
a
x
x
c
c
x1
Tra tottus sos chi t’ammiran
deo so su chi ti ammiro,
deo so su chi suspiro
tra tottus sos chi suspiran.
Tra tottus sos chi regiran
pro sa tua leggiadr - IA,
mancunu creo chi s - IAT
che a mie regiradu,
d
e
e
d
d
y
y
f
[1]
[2]
[3]
[4]
[str. II]
Non sunu sos vulcanos tantu ardentes
Cantu est ardente pro tene s’amore,
Flora no amat tantu sos fiores
cantu deo t’adoro immensamente.
A tie dono tottu, e coro, e mente,
a tie de s’affettu dò s’ardore,
e crede, nos det ponne in bonumore
cust’amore chi eternu det durare.
Intreghemus sos coros a s’amore
pro chi paris los pottat collocare.
Come si sarà notato, si è aggiunta allo schema anche una particolare numerazione dei
versi, la quale consente di individuare immediatamente quelli della pesada e dalle eventuali ripetizioni, gli uni e le altre numerati tra parentesi quadre; il che consente di distinguerli da quelli di contenuto (il termine è di Deplano2), indicati da numeri semplici, come si potrà vedere nella schema successivo.
Il sistema di rappresentazione appena esposto per l’ottava torrada consente una fedele riproduzione dello schema di un altro genere metrico che fa uso sistematico della ripresa di
versi interi: la deghina glosa (o, con pronuncia più recente, glossa), metro di origine spagnola. Essa si compone di innanzitutto di una pesada tetrastica (con schema XYYX, di gran
lunga meno frequente quello XYXY), cui seguono quattro strofe (tante quanti sono i versi della pesada) di dieci versi. Ogni strofa riprende, seguendo l’ordine imposto dalla strofetta introduttiva (ad es.: XYYX), una delle rime della pesada al sesto e al settimo verso, e si
chiude con la ripetizione di un intero verso della stessa; vale a dire: la prima strofa riprende la prima rima della pesada (X) e si chiude con il primo verso della stessa; la seconda strofa riprende la rima del secondo verso della pesada (Y) e si chiude con il secondo verso di
quella, e così via, sino all’esaurimento delle quattro possibilità. Prendiamo T’adoro di Dessanai (avvertendo che la numerazione dei versi delle strofe principia dalla prima strofa):
X1
Y1
[1]
[2]
2
[1]
[2]
[3]
[4]
5
[1]
10
15
DEPLANO, Rimas, cit., passim.
139
La metrica di Néulas
Appendice
[str. III]
[str. IV]
pro chi s’amore incarnadu
ammiro in tegus, Luch - IA!
f
y1
Si, regiro onzi momentu
pro ti poder adorare,
ca in su bider, provare
solet su coro cuntentu,
su pius grande ch’appat tentu
in sa pius grande allegr - IA
Crede, crede, tue ebb - IA
m’às dadu sa cuntentesa,
ca t’àt natura in bellesa
troppu bene favor - IA!
g
h
h
g
g
y
y
f
f
y2
Chin tantu affettu t’adoro
chi non lu podes cumprender,
ca tue cherfidu prender
m’às chin cadenas su coro.
Ses tue veru tesoro
chi mi privat de trist - URA,
in tegus tottu est dulz - URA
dae cando ses naschida,
e pro me, dadu sa vida
t’àt, s’amorosa nat - URA.
l
m
m
l
l
x
x
n
n
x2
[2]
20
OTTAVAS
x1 y1 y2 x2
strofa I
strofa II
strofa III
strofa IV
a b b a a x x c c x1
yy
y1
yy
y2
xx
x2
[3]
30
35
[4]
Questi criteri generali dovrebbero bastare per la comprensione degli schemi, schedati più sotto, che si riferiscono ai metri torrados e glosados. Maggiori difficoltà, in fatto di
rappresentazione sintetica, presentano quei testi che fanno uso di versi trobeados (‘varianti’), per i quali vedremo di suggerire più avanti una soluzione.
2. Tra i componimenti di Néulas prevalgono le ottavas, le quali non sono, però, di un
solo tipo: tre sono le ottavas torradas (Indifferenzia, Prinzipios de amore e Abbandonu), mentre le altre due (A Luchia C. e Luntana) sono ottavas liras serradas (lira è termine spagnolo, dalla Spagna infatti proviene il genere), vale a dire ottave che alternano settenari ed
endecasillabi e che terminano con un distico a rima baciata. Proprio dalla presenza di
140
pes.
str.
torr.
Indifferenzia
x1 y1 y x6
abbaaccy
x1 y1
Prinzipios de amore
X1 Y1 Y X
ABBAABBY
X1 Y1
Abbandonu
X1 Y Y X
ABABACCX
X1
25
Nel caso si volesse avere una visione più sintetica dello schema teorico della deghina
glosa, avremmo ciò che segue:
pesada
questo distico, che chiude la strofa, dovrebbe derivare l’appellativo di metro serradu,
‘chiuso, sbarrato’. Ma le differenze sono anche interne al genere metrico prescelto, dato che delle tre ottavas torradas una è in ottonari (Indifferenzia), e le altre due (Prinzipios
de amore e Abbandonu) sono entrambe in endecasillabi ma differenti in quanto a schema
rimico, come si può vedere nel prospetto sottostante
A Luchia C.
aBaBaBcC
Luntana
aBaBaBcC
Un altro genere di ottavas è rappresentato in Juramentu e A Madalena, che hanno lo
schema seguente:
Cando su primu amore
mustradu s’est cuntrariu
a sos disignos mios pius costantes,
chin acerbu dolore,
in s’ora necessariu
a sos martirios pius istraziantes,
fattesi juramentu
de non dare a su coro pius cuntentu.
a
b
C
a
b
C
d
D
3. Proseguendo in ordine decrescente di frequenza, vengono le sestas (tre esemplari;
quattro se s’include, come si dovrà fare, Non b’àt itte isperare). Violas e Dolore sono ambedue sestas liras serradas canoniche, con schema: aBaBcC (settenari + endecasillabi, come si è detto); ma Si essere……, che conserva lo schema rimico della sesta lira serrada,
ha un endecasillabo come quinto verso, dove il genere richiederebbe un settenario;
inoltre, tale schema ricorre nelle prime tre strofe, mentre la quarta ed ultima si compone di soli endecasillabi e cambia anche la disposizione delle rime, pur rimanendo i
versi in numero di sei (AABBCC). La distinzione strutturale dell’ultima strofa, rispetto alle precedenti, sottolinea la sua funzione di chiusa, in cui si realizza, lo schema sommatorio3 che ha lo scopo di riepilogare il contenuto delle strofe che la precedono.
3
Cfr. ERNST ROBERT CURTIUS, Letteratura europea e medioevo latino, cit., p. 321.
141
La metrica di Néulas
Appendice
4. Anche per le deghinas glosas (T’adoro; Vanas presunziones; A Maria) non mancano varianti interne al genere. A Maria è un raro esemplare in endecasillabi, essendo il verso
preferito della deghina l’ottonario.
SESTAS
str.
Violas
AbAbcC
Dolore
AbAbcC
Si essere……
A b A b C C [per tre strofe] + A A B B C C
DEGHINAS GLOSAS
Tra le sestas di Néulas va anche annoverata la già citata Non b’àt itte isperare, che è sostanzialmente una sesta torrada. Il testo consta di otto strofe di settenari ed endecasillabi, con schema: pes. x1x2Y1; strofe AbbAaYx1x2Y1; dove Yx1x2Y1 (la torrada) è fisso per
tutte le strofe:
[pes.]
Ià chi s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre; non b’àt itte isperare!
x1
x2
Y1
[str. I]
Essende dae sas frizzas de Cupidu,
continu trapassadu,
credia chi abblandadu
fit su fogu chi tantu àt consumidu;
ma pius addoloridu
e miseru mi rendet su penare,
ià chi s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre e non b’àt itte isperare!
A
b
b
A
a
Y
x1
x2
Y1
[torr. I]
Lo schema della pesada è quello che più spesso ricorre nella noina (o novena) torrada; ma
a tale genere metrico non si rifanno le strofe di Dessanai, che seguono altre tipologie
di metri torrados (quelli con schema di base: abbab; ben più comuni). Le analogie terminano qui, poiché la disposizione di settenari ed endecasillabi che figura in Non b’àt
itte isperare pare poco reperibile nella prassi versificatoria sarda4. Pare, insomma, che
Dessanai, una volta assunto uno schema torradu e adottata la pesada di una noina, impieghi una forma mista di endecasillabi e settenari (non riducibile al genere lira, che fa
uso sistematico della medesima combinazione di versi, ma con diversa disposizione) di
modo che, con l’aggiunta della camba torrada (il sesto verso, che riprende la rima x della pesada) e della torrada (la pesada ripetuta) risulti una strofa di nove versi perfettamente simmetrica, sia sotto l’aspetto rimico sia per quanto riguarda la collocazione degli endecasillabi e dei settenari: AbbA / a / YxxY; 11 7 7 11 / 7 / 11 7 7 11.
4 Sarà un caso, ma la distribuzione di endecasillabi e settenari dei primi cinque versi della
strofa dessanaiana ricorre in una sesta lira di Amico Cimino (il Cam di Néulas) citata da DEPLANO (Rimas, cit., p. 71), senza peraltro segnalare la fonte.
142
pes.
str.
A Maria
X1 Y1 Y2 X2
A B B A A X X C C X1
YY
Y1
YY
Y2
XX
X2
Vanas presunziones
x1 y1 y2 x2
a b b a a x x c c x1
yy
y1
yy
y2
xx
x2
T’adoro
x1 y1 y2 x2
a b b a a x x c c x1
yy
y1
yy
y2
xx
x2
5. Veniamo ora, come si è promesso, a quei testi (Ámami e A Miriade Bondinata) in cui
Dessanai si cimenta con i versi trobeados (adottando il termine riferito dallo Spano nell’OS). Il verso trobeadu consiste nell’inversione dei membri di un altro verso che lo precede (ad es.: sa puresa, su briu e i s’affettu muta in s’affettu, sa puresa e i su briu). Questo
modo di procedere diventa sistematico, secondo un uso metricamente costruttivo (Cirese),
nei metri retrogados, così detti per il fatto che l’uso dei versi trobeados in essi contenuti
sono, come fra poco vedremo, in funzione di una retrogradazione di rime.
La struttura di Ámami richiama da vicino quella del trintases5, così come presentato
dallo Spano in OS (II, pp. 41-42). Si ha innanzitutto una pesada di sei versi, dei quali
solo i primi tre verranno ripetuti al termine di ogni strofa, formando, cioè, la vera e
propria torrada:
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
Questi primi tre versi sono costituiti da parole-rima (ermosura; risu; trattu; colores; pilos;
5 Sul trintases si veda ora la monografia di MIMMO BUA (Trintasex: il metro e le figure, Oristano, S’Alvure, 1997), che s’interroga soprattutto su possibili implicazioni cabalistiche per l’origine del nome del metro.
143
La metrica di Néulas
Appendice
laras; puresa; briu; affettu). Indicando con lettere minuscole comprese fra parentesi tonde le parole-rima interne al verso si ottiene ciò che segue:
…………………………………
[torr. I]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
(a) (b) X
(c) (d) Y
(e) (f) Z
Dove: (a)= ermosura; (b)= risu; X= trattu; (c)= colores; (d)= pilos; Y= laras; (e)= puresa;
(f)= briu; Z= affettu (X, Y e Z sono maiuscole semplicemente perché in questo inizio
di componimento rappresentano quelle parole-rima che figurano a fine verso e che,
dunque, costituiscono la vera terminazione del verso, che essendo a sua volta endecasillabo richiede, secondo la diffusa prassi già ricordata, l’indicazione con la maiuscola).
La prima torrada, immediatamente successiva alla pesada di sei versi, ripete esattamente lo schema appena esposto. Tale riproposizione è in funzione di un sistema ben
preciso, poiché è a partire dalla rima Z (aff-ettu) che s’innesca la retrogradazione delle
nove parole-rima, quale si realizzerà, gradualmente, nell’ultimo verso di ciascuna torrada. Lo strumento del quale il poeta si serve per raggiungere questo risultato è quello dei versi trobeados, vale a dire l’inversione degli elementi che compongono il verso (le
parole-rima sopra isolate). Dunque, data ed espressa anche numericamente la disposizione iniziale delle nove parole-rima:
1.(a)
ermosura
2.(b)
risu
3.X
trattu
4.(c)
colores
5.(d)
pilos
6.Y
laras
7.(e)
puresa
8.(f)
briu
9.Z
affettu
il poeta esporrà a turno ciascuna di esse alla fine del terzo verso di ogni torrada (perciò,
per completare l’operazione, occorreranno nove torradas), ma ripercorrendo a ritroso l’ordine di partenza: 9-8-7-6-5-4-3-2-1 (la prima torrada espone la parola-rima 9; la seconda la parola-rima 8 e così via); come può finalmente mostrare lo schema seguente,
limitato all’illustrazione della retrogradazione della pesada nelle torradas:
1
[pes.]
144
2
3
S’ermosura, su risu e i su trattu,
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
(e) (f) Z
9
(z) (e ) F
8
(f) (z) E
7
[strofa III]
…………………………………
[torr. IV]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras. (c) (d) Y
6
[strofa I]
…………………………………
[torr. II]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
s’affettu, sa puresa e i su briu.
[strofa II]
…………………………………
[torr. III]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su briu e i s’affettu sa puresa.
[strofa IV]
…………………………………
[torr. V]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa su briu e i s’affettu,
sos colores, sas laras chin sos pilos. (c) (y) D
[strofa V]
…………………………………
[torr. VI]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos pilos chin sas laras, sos colores. (d) (y) C
[strofa VI]
…………………………………
[torr. VII]
Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
s’ermosura, su risu e i su trattu.
5
4
(a) (b) X
4
5
6
sos colores, sos pilos chin sas laras,
(c) (d) Y
7
8
9
sa puresa, su briu e i s’affettu.
(e) (f) Z
[strofa VII]
(a) (b) X
3
…………………………………
145
La metrica di Néulas
Appendice
[torr. VIII] Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su trattu, s’ermosura e i su risu.
[torr. I]
(x) (a) B
2
[strofa VIII] …………………………………
[torr. IX]
Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su risu e i su trattu, s’ermosura.
[strofa I]
(b) (x) A
[torr. II]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
regirare, dechida, m’àna fattu,
fissendemi in sa mente sas pius caras
ideas de ti amare, caru oggettu!
(a) (b)
(c) (d)
(e) (f)
X1
Y1
Z1
X
Y
Z
[1]
[2]
[3]
[4]
[5]
[6]
[strofa II]
[torr. III]
6 Tale tipo di legame viene tradizionalmente indicato con il termine allattu (oggi gli improvvisatori usano l’espressione tentu a maglia, ‘legato a maglia’). Il termine, con grafia latinizzante (allactu), è segnalato dallo SPANO (OS, II, pp. 34-35), con la spiegazione: perché una rima
deve allattar l’altra. Più plausibile la seconda spiegazione fornita dallo Spano, sempre in OS (II,
p. 19), ma non ripetuta alle pp. 34-35, secondo la quale allattu deriverebbe da lactu (‘lattu’),
cioè: ‘laccio’; nel senso di strofe prese al laccio.
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
s’affettu, sa puresa e i su briu.
Tue de grassias ses bundante riu,
e ti desizat donzi coro amante,
tue de grassias ses riu bundante,
ne nd’incontro eguale in sa bellesa.
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su briu e i s’affettu sa puresa.
[strofa III] Si gai in sos amores ses cortesa,
comente ses brillante in sos colores,
si gai ses cortesa in sos amores,
in su coro un’isettu mi preparas.
[torr. IV]
(g)
(z)
[strofa V]
(z) (e )
(h)
(f)
(f) (z)
(c)
(e)
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras.
[strofa IV] Chin tegus cessan sas penas amaras,
tottu sos patimentos tue allenas,
chin tegus cessan sas amaras penas,
duncas tantos turmentos leamilos.
[torr. V]
146
Pro no lu perder mai tale isettu
pro te s’amore det essere assai,
pro no lu perder tale isettu mai
t’app’a amare pro canto duro biu.
(e) (f)
X1
Y1
Z1
[1]
[2]
[3]
Z
G
G
F
1
2
1t
3
X1
Y1
F
[1]
[2]
[3a t]
F
H
H
E
4
5
4t
6
X1
Y1
E
[1]
[2]
[3b t]
E
C
C
Y
7
8
7t
9
X1
Z1
Y1
[1]
[3]
[2]
Y
I
I
D
10
11
10t
12
X1
Z1
D
[1]
[3]
[2a t]
D
L
L
C
13
14
13t
15
1
Questo schema, come si diceva, tiene conto solo della pesada e del suo sviluppo in torradas, mentre non include le strofe di quattro versi (con schema teorico ABBC) che si alternano alle torradas (come mostrano le linee tratteggiate). Anche le strofe presentano un
verso trobeadu, il terzo verso di ogni strofa non è altro che il primo invertito, e sono fatte in modo che il loro primo verso rimi con l’ultimo della torrada precedente ed il quarto con l’ultimo della torrada seguente, il quale a sua volta rimerà, dunque, con il primo
della strofa successiva, con una concatenatio che coinvolge strofe e torradas senza soluzione di continuità6, fino al termine del componimento, che si chiude, ultimando la retrogradazione, con la rima A (quella della prima parola-rima della pesada), e con un distico finale a rima baciata sempre su rima A. Si può, così, dare lo schema definitivo, completandolo con l’indicazione del numero in esponente per segnalare la ripetizione di versi interi; e con una numerazione dei versi (colonna a destra) che, oltre a tenere conto della distinzione fra versi della pesada e, quindi, delle torradas (fra parentesi quadre) e i versi di contenuto (numero semplice, a partire dalla prima strofa), segnala anche i versi trobeados, indicandoli con una t posta accanto al numero del verso oggetto d’inversione (per
ciò 1t altro non indica che il v. 1 invertito); qualora le inversioni siano più d’una, si sono poste, tra l’indicatore del verso e la t, lettere minuscole: a, b, … (da non confondersi, ovviamente, con quelle che indicano le parole-rima interne).
[pes.]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa su briu e i s’affettu,
sos colores, sas laras chin sos pilos.
Sos ojos risplendentes fissamilos
dende miradas sas pius ardentes,
fissamilos sos ojos risplendentes
ca rinnovare faghes sos amores.
(i)
(y)
(c) (y)
(l)
(d)
147
La metrica di Néulas
Appendice
[torr. VI]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos pilos chin sas laras, sos colores.
[strofa VI] Non sun tantu gentiles sos fiores
cantu ses tue, chi mi às fattu icantu;
non sun gentiles sos fiores tantu
ca tue ses de Venussu retrattu.
(d) (y)
(m)
(c)
[torr. VII] Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
s’ermosura, su risu e i su trattu.
X1
Z1
C
[1]
[3]
[2b t]
C
M
M
X
16
17
16t
18
Z1
Y1
X1
[3]
[2]
[1]
X
N
N
B
19
20
19t
21
Z1
Y1
B
[3]
[2]
[1a t]
B
O
O
A
22
23
22t
24
Z1
Y1
A
[3]
[2]
[1b t]
A
A
25
26
A Miriade Bondinata si apre con una pesada di sei versi, dei quali gli ultimi due costituiranno la torrada al termine di ogni strofa. Ognuna delle strofe, però, è preceduta da sottopesadas ugualmente formate da sei versi, i cui ultimi tre serviranno per formare torradas interne alla strofa (ma, più che di strofa, si tratta di un avvicendarsi di quartine e torradas).
Quindi si hanno: una pesada pr. (= principale) che dà luogo a torradas pr., e quattro (quante sono le strofe del componimento) pesadas sec. (= secondarie) che dànno luogo a torradas
sec. Con una differenza riguardo al modo di ripetizione: le torradas pr. ripetono senza inversioni gli ultimi due versi della pesada pr., mentre le torradas sec. replicano gli ultimi tre versi della pesada sec., invertendo l’ordine degli elementi che compongono il terzo verso (sesto
della pesada sec.), ottenendo, così, nuove rime. Vediamo per ora, come si è fatto per Ámami,
soltanto il sistema che governa pesadas e torradas (tenendo presente che quart.= quartina):
[pes. pr.]
[strofa VII] Incantu tale a su coro m’às fattu,
chi pius atter’oggettu no adoro;
incantu tale m’às fattu a su coro
chi non miro pius atteru visu.
[torr. VIII] Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su trattu, s’ermosura e i su risu.
[strofa VIII] So resortu pro tene e so dezisu
de semper t’adorare fin’a mortu,
pro tene so dezisu e so resortu
de cunservare un’amore sicura.
[torr. IX]
Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su risu e i su trattu, s’ermosura.
Ámami, bella, non ti mustres dura
e prívami su coro de tristura.
(n)
(x)
(x) (a)
(o)
(b)
(b) (x)
Un altro componimento di Néulas che fa uso di versi trobeados è A Miriade Bondinata, corrispondente al genere metrico denominato noe boltadu allattu (traducibile in ‘nove rivoltato [in riferimento ai versi trobeados] con allacciamento’7); la prima indicazione (noe; nuor. ‘noße’; it. ‘nove’), deriva dal numero di versi di contenuto presenti nelle
strofe, esclusi, dunque, quelli ripetuti e quelli trobeados. Ma più in generale si potrà parlare di retroga torrada.
7
Cfr. nota precedente.
148
[strofa I]
Murinde pro bona sorte
ses, in saludes non floris
ca perdidu às tale donu!
Chirchende t’est già sa morte,
e tue, cando ti moris.
Mi pones su coro in bonu.
[pes. sec.] Cand’às a esser sepultada,
e ti desizas sos annos
de sa frisca pizzinnia.
Cust’ánima liberada
det esser de sos affannos
chi pro te sola suffriat.
[quart. I]
…………………………
[torr. sec. I]
Cust’ánima liberada
det essere de sos affannos
chi suffriat pro te sola.
[quart. II]
…………………………
[torr. sec. II]
Cust’ánima liberada
det esser de sos affannos
sos chi suffriat pro te.
[quart. III]
…………………………
[torr. pr. I]
ca tue cando ti moris
mi pones su coro in bonu.
x
y
z
x
y
z
(d) (e)
a
b
c
a
b
c
(c) (d)
a
b
e
(c)
a
b
d
y
z
Come si può notare, il sistema è nuovamente quello della retrogradazione, qui limitata
al solo terzo verso delle torradas sec. (dunque sesto della pesada sec.): da una disposizione
149
La metrica di Néulas
Appendice
iniziale (c)(d)e, il poeta, procedendo a ritroso, esporrà a fine verso: la rima d nella torr. sec.
I e quella c nella torr. sec. II.
Anche le strofe (di quattro versi) prevedono, come accadeva per Amami, un verso trobeadu al loro interno (il terzo verso corrisponde al primo invertito), e si legano alle torradas
confinanti attraverso lo stesso sistema di rimandi rimici ugualmente notato in Amami:
[pes. pr.]
Murinde pro bona sorte
ses, in saludes non floris
ca perdidu às tale donu!
Chirchende t’est già sa morte,
e tue, cando ti moris.
Mi pones su coro in bonu.
x
y
z
x
y1
z1
Lo stesso schema verrà riproposto per altre tre strofe, con nuove pesadas e torradas sec.
L’indugio su queste particolari e complesse forme metriche darà certamente al lettore un’idea del barocchismo metrico logudorese cui il giovane Dessanai offriva il suo
personale tributo. Non s’ignora il fatto che le rappresentazioni sintetiche degli schemi
qui proposte siano talvolta di difficile lettura. Chi scrive pensa comunque che questa
sia, per ora, la via percorribile in vista di auspicabili compilazioni di repertori metrici
sulla poesia sarda.
6. In Néulas s’incontrano anche metri di origine propriamente italiana. Non manca
il sonetto (invero presente nella poesia sarda già a partire dalle Rimas spirituales di Girolamo Araolla), rappresentato da tre esemplari:
SONETTI
[strofa I]
[pes. sec.] Cand’às a esser sepultada,
e ti desizas sos annos
de sa frisca pizzinnia.
Cust’ánima liberada
det esser de sos affannos
chi pro te sola suffriat.
[quart. I]
[torr. sec. I]
[quart. II]
[torr. sec. II]
[quart. III]
[torr. pr. I]
.
150
Det torrare s’allegria
pustis de tantu penare,
s’allegria det torrare
chi custu coro consolat.
Cust’ánima liberada
det essere de sos affannos
chi suffriat pro te sola.
S’amarantu, sa viola,
eo ti ponzo in campusantu,
sa viola, s’amarantu
est su chi tenes dae me.
Cust’ánima liberada
det esser de sos affannos
sos chi suffriat pro te.
Cantu ti naro lu crè,
sos fiores ti los preparo,
crédelu cantu ti naro,
tàpp’a fagher tale donu,
ca tue cando ti moris
mi pones su coro in bonu.
(d) (e)
(f)
(c)
(c) (d)
(g)
(e)
(c)
(h)
(d)
a
b
c
a1
b1
c
c
f
f
e
a1
b1
e
e
g
g
d
a1
b1
d
d
h
h
z
y1
x1
Moribunda
ABBA ABBA
CDC EDE
In s’ora de sa partenzia
ABBA ABBA
CDC DEE
Ultima pagina
ABBA ABBA
CDC DCD
Anche qui non mancano le sorprese. Di contro alla regolarità delle quartine (sempre a
rima incrociata), alla canonicità delle terzine ad andamento binario di Ultima pagina,
colpisce lo schema delle terzine di Moribunda, ma soprattutto l’irregolarità delle terzine
di In s’ora de sa partenzia: quattro versi a rima alterna più distico a rima baciata8. Si dovrà parlare d’imperizia? Malgrado la giovane età del poeta, sarebbe azzardato farlo. Tenendo d’occhio la tradizione sarda, ci si accorge che le terzine di In s’ora de sa partenzia
riproducono lo schema della sesta serrada: ABABCC; esattamente come si può riscontrare nelle terzine del sonetto dessanaiano. Se di autentica menda non si può parlare, vista
anche l’impeccabilità degli altri sonetti disseminati nell’opera dessanaiana, si dovrà invocare una certa dose di sperimentalismo giovanile, patente nell’eclettismo metrico di
Néulas, e riconfermato, poco più tardi (1891), con l’adozione della strofe alcaica in A Lia
(in VS). Quello del 1891 sarà un tentativo di accordare la lirica sarda alle novità barbare del Carducci, mentre lo sperimentalismo di Néulas è tutto rivolto alla tradizione interna all’isola, per la tensione al confronto con la tradizione di lirica logudorese.
Anche lo schema dell’ode-canzonetta (a8a4b8c8c4b8), esperito in Rimembranzia e in A
Diana Bideton, diffusissimo nella tradizione melica del Settecento italiano e anche oltre,
8 Si tratta di uno schema non tanto peregrino nella sonettistica italiana antica, ma pare limitato al Trecento ed al Quattrocento (cfr. P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, il Mulino, 1991, p. 237 nota). A rima baciata terminano anche le terzine di quattro sonetti petrarcheschi (Rvf XIII, XCIV, CLXVI, CCCXXVI), ma con perfetto parallelismo tra prima e seconda terzina (CDD DCC); cfr. GUGLIELMO GORNI, Le forme primarie del testo poetico, in ID., Metrica
e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, p. 76 [già in: Letteratura italiana, a c. di A. Asor
Rosa, III. Le forme del testo. 1. Testo e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 439-518].
151
Appendice
invenzione del Chiabrera (ma mutuato da Ronsard), sarà da riferire più opportunamente
alla mediazione di padre Luca Cubeddu (1749-1829), che l’ha usato in Custu fiore9, Clori bella10 (la più celebre), Unu bentu infuriadu11 (tutte tre già presenti nelle sillogi dell’Ottocento, comprese quelle confezionate dallo Spano).
Invitano verso questa direzione, pur non essendo le canzonette dessanaiane pedissequa imitazione di quelle del vecchio arcade pattadese, alcune suggestioni cubeddiane
presenti nei due testi di Néulas, come nei versi:
Est pro cussu, chi su cantu
tristu tantu
solet esser, bella mia,12
PARTE TERZA
memori della chiusa della quarta strofa di Clori bella, dove si legge pari pari il sintagma tristu cantu; o in questi altri:
Sas massiddas incarnadas,
delicadas,
assimizan a duas rosas13
che amplificano in similitudine la contratta metafora del predecessore:
tando a lagrimas copiosas
cuddas rosas
ch’as in cara, ti bagnesti14
e si tenga presente che anche incarnadas è aggettivo ben cubeddiano.
Così, oltre che all’arcadia verbale e tematica, il Dessanai di Néulas rendeva omaggio
all’arcadia metrica di Cubeddu, un’arcadia sarda, si è notato da più parti, decisamente
in ritardo. Testimonianza di certo gusto arretrato in fatto di modelli italiani è anche la
traduzione da Aleardi15 contenuta in Néulas, A Maria Wagner. Dell’originale Dessanai
conserva: il numero di versi delle strofe (quartine; a mo’ di capitolo quadernario), la disposizione di endecasillabi e settenari (11 11 7 11), la rima fissa X. Cambia, nell’imitazione del nuorese, lo schema delle rime: Aleardi, ABxX; Dessanai, AAxX.
CUBEDDU, Cantones e versos, cit., pp. 86-87.
pp. 93-96.
pp. 124-127.
12 [È per questo che il canto / triste tanto / suole essere, o mia bella,] XII, 43-45; il corsivo
è nostro.
13 [Le guance incarnate, / delicate, / somigliano a due rose] XVI, 43-45.
14 [allora con lacrime copiose / quelle rose / che hai sul viso, ti bagnasti] Cubeddu, Clori bella, strofa 8.
15 A Maria Wagner, in A. ALEARDI, Canti, cit.
9
10 ID.,
11 ID.,
152
PROPOSTA DI EDIZIONE CRITICA
DELLE POESIE DI DESSANAI
NOTIZIA SUL TESTO
L’opera poetica di Pascale Dessanai ci è pervenuta in maniera alquanto eterogenea e
fortunosa (basti pensare che al momento, per quanto riguarda i testi sardi, possiamo individuare un solo autografo del poeta: In s’abba). L’unica scelta organicamente costituita di testi dessanaiani sta in PDN (GP), opera meritoria e fondamentale per la fortuna
del poeta ma non per quanto riguarda la lezione testuale e i criteri “ecdotici” ivi seguiti
(non dichiarati o, quando dichiarati, chiaramente pericolosi, se si pensa al manifesto ricorso alla tradizione orale). I soli testi che possono essere ritenuti rispondenti a una sicura volontà d’autore sono quelli che Dessanai forniva alle riviste letterarie sarde di fine Ottocento o pubblicava in volume (un solo caso e per giunta costituito di acerbe liriche giovanili: Néulas); mentre le testimonianze postume o, se non proprio postume,
non controllate direttamente dall’autore (vedi SM) sono da considerarsi, in linea di
principio, alla stregua di una qualsiasi copia (a ritenerle tali obbliga anche la reticenza
sui metodi seguiti e sulle fonti utilizzate dagli occasionali editori dessanaiani).
Per quanto detto, i testimoni che trasmettono l’opera dessanaiana possono essere divisi in Testimoni a stampa e Testimoni inediti e manoscritti (questi ultimi siglati γ1); all’inα) da
terno del primo gruppo andranno distinti i materiali fatti pubblicare dall’autore (α
β).
quelli pubblicati postumi o senza diretto controllo dell’autore (β
Nella seguente descrizione dei testimoni i componimenti contenuti in ciascuno di
essi figurano in ordine alfabetico e numerati progressivamente. Quando nel testimone
non è riportato alcun titolo preciso, si è trascritto l’incipit tra parentesi quadre. Le parentesi quadre poste accanto all’indicazione del titolo e alla eventuale indicazione di pagina (tra parentesi tonde), contengono i rimandi ad altri testimoni che conservano il testo al quale il titolo si riferisce (viene indicata la sigla relativa al testimone e il numero progressivo relativo al componimento).
Testimoni a stampa α
AL
«Alba letteraria. Rivista mondana illustrata», Sassari, Tipografia Gallizzi.
1.
2.
[Flagellan sos iscoglios de Caprera], anno I, n. 7, 2 giugno 1896. [D, I, 1]
Paesaggio sardo [in lingua], anno I, n. 3, 26 aprile 1896, p. 21.
1 In questa Notizia, sotto la sigla γ, è inclusa la descrizione di quei materiali che riportano
testi in lingua, ma anche sardi, come S II, non riprodotti in questa edizione.
155
Notizia sul testo
LDS
I testi di Dessanai sono:
A Rita Deccio, [in lingua] anno I, n. 17, 20 ottobre 1895, p. 133.
Quadretto, [in lingua] anno I, n. 24, 8 dicembre 1895, p. 194.
Tempesta, anno I, n. 22, 24 novembre 1895, p. 173 [SD, 14]
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
«Mente e Cuore. Rivista settimanale artistica-letteraria-scientifica», Sassari, Tipografia Gallizzi [poi: «La Giovine Penna» (vedi)].
1.
2.
Néulas
Terralba, anno IV, n. 11, 18 marzo 1906, p. 3.
Uras, anno IV, n. 4, 28 gennaio 1906, p. 3.
«La Giovine Penna. Rivista settimanale artistica-letteraria-scientifica», Sassari, Tipografia Gallizzi [già: «Mente e Cuore» (vedi)].
1.
2.
3.
MC
se il desiderio di volerne compilare un volume. | Rispondemmo con una strimpellata di
chitarra e con alcuni versi esprimenti le nostre meraviglie per simile proposta. | Ma il
Gaetano Mereu, ritornati che fummo Nuoro, ci diè nuovi e reiterati assalti; finalmente vinse e noi oggi, colla speranza che verranno dai sardi accolti, non come capilavori d’arte, ma come l’espressione di due cuori giovanili che semplicemente amano la
poesia, a lui affidiamo il presente volume, poco curando l’immane ed inconscio naso dei
critici. | Nuoro, Settembre 1889. | Cam e Dessanai.
«La Domenica sarda», Cagliari-Sassari.
1.
2.
LGP
Notizia sul testo
Ingrata, [in lingua] anno I, n. 6, 30 giugno 1895, p. 45.
Le muse, [in lingua] anno I, n. 8, 14 luglio 1895, p. 64.
| de | CAM E DESSANAI | PRIMA EDIZIONE | NUORO
GAETANO MEREU CANU | Tipografo-Editore | 1890 | [in 16°, pp. 96]
NÉULAS
|
Raccolta poetica giovanile (il poeta si firma con il doppio cognome, cfr. Capitolo La vita, Dessanai Sanna Pasquale), scritta con Cam (pseudonimo di
Amico Cimino). In epigrafe figurano due versi di certo Cigno (E nos den olvidare / Ca su tempus cancellat d’ogni ardore). A p. 3 campeggia la dedica: A
PAOLO MOSSA; segue una presentazione (AL CORTESE LETTORE, datata 1889) a firma dei due autori:
Il solerte ed instancabile editore Gaetano Mereu Canu, già noto ad una buona parte degli ammiratori della sarda poesia, fin dai primi anni della sua gioventù alacremente impegnossi ad empiere il vuoto che continuamente regnava, ed in porzione regna
tuttora, della raccolta di canti Logudoresi. | Avendogli il chiarissimo archeologo Can.
Giovanni Spanu, dopo una sua pubblicazione di tai canti, fatta gentilmente la cessione, egli non si limitò a riprodurre le edizioni con le sole poesie raccolte dall’illustre
Spanu; ma, messosi più fervente all’opra, riuscì a procurare una buona parte dei canti del Logudoro e li aggiunse ai menzionati volumi. | Ma qui non fermossi il solerte
editore. Poichè, avendo egli per una gran parte soddisfatto al desiderio di detti ammiratori, cercò e riuscì a pubblicare delle poesie di autori contemporanei, non ancora
date alla luce. | Or sono due mesi, essendoci col Mereu recati nel Gologone, amenissimo sito delle campagne di Oliena, a farvi una delle tante deliziose scampagnate che
sono solite in Sardegna; mentre il sole cadeva e i servi affacendati sgozzavano agnelli, sventravano porcetti ed accendevano i fuochi, per cucinarli assieme ad una quantità di pesca squisitissima, colà abbondante, noi, confinati sotto un’annosa quercia,
recitavamo alcuni canti, ora compresi in questo volume, il Mereu, accortosi del nostro
genere di passatempo, abbandonò la comitiva degli adulti; e da noi sen venne, chiedendo di chi fossero tai canti; e saputo essere poveri parti della nostra mente, ci espres156
SA
«Sardegna artistica. Periodico settimanale di lettere ed arti», Sassari, Tipografia Gallizzi.
1.
VS
A Diana Bideton (pp. 52-54)
A Luchia C… (pp. 78-81)
A Madalena (pp. 26-27)
A Maria (pp. 93-94)
A Maria Wagner (p. 82)
A Miriade Bondinata (pp. 41-45)
Abbandonu (pp. 88-91)
Amami (pp. 19-22) [M, 4]
Dolore (pp. 47-49)
In s’ora de sa partenzia (p. 25) [G, 1; D, I, 2; SM, 4]
Indifferenzia (pp. 16-18)
Iuramentu (pp. 83-87)
Luntana (pp. 36-39)
Moribunda (p. 28)
Non b’at itte isperare (pp. 11-13)
Prinzipios de amore (pp. 63-66)
Rimembranzia (pp. 70-74)
Si essere… (pp. 9-10)
T’adoro (pp. 33-34)
Ultima pagina (p. 96)
Vanas presunziones (pp. 68-69)
Violas (pp. 60-63)
Cherrende, anno I, n. 9, 17 settembre 1893 [GP, 3; P, 4; M, 1; SD, 9; RPD, 3]
«Vita sarda. Periodico quindicinale di scienze, lettere ed arti», Cagliari, Tipografia del Corriere.
1.
2.
A Lia, anno I, n. 8, 4 luglio 1891, p.2
A tie bella durmida, anno II, n. 12, 10 luglio 1892, p.2 [RPD, 2]
157
Notizia sul testo
3.
4.
5.
6.
Notizia sul testo
Cantigos de su coro, anno III, n. 12, 9 luglio 1893, p. 3
Civetta [in lingua], anno III, n. 4, 19 marzo 1893, p. 4
Cuntrastu, numero di saggio, 29 marzo 1891, p. 3 [SD, 13]
Malinconia, anno I, n. 2, 20 aprile 1891, p. 8
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Testimoni a stampa β
B
MANLIO BRIGAGLIA, Poeti nuoresi dei moti contadini, in «Sardegna oggi», anno IV, n. 72, 1965, p. 13. Articolo contenente testi di Rubeddu, Solinas e
Dessanai; di quest’ultimo:
1.
2.
3.
D
P
[Cando, rutta sas fozas, a chircare] [SM, 2]
Ribellione [D, 2; GP, 1; P, 1; RPD, 1; SM, 1]
Sa morte de Pettenaju. Frammento di due terzine: vv. 42-48. [GP, 7; P, 5; M, 3]
Con tale sigla si indicano le citazioni (qui classificate per il prestigio della
fonte, non certo per la loro estensione) di testi dessanaiani, sparse in alcuni
articoli di SEBASTIANO DESSANAY, ora contenuti in Identità e autonomia in
Sardegna. Scritti e discorsi (1937-1985), Cagliari, EDES, 1991. La prima indicazione delle pagine si riferisce a questo volume.
[Flagellan sos iscoglios de Caprera]. Citazione dei vv. 45-46. [AL, 1]
In s’ora de sa partenzia. Citazione dei vv. 3-4. [G, 1; Néulas, 10; SM, 4]
[Un’arma a due punte è un grande terrore], frammento in lingua.
SM
1.
GP
GONARIO PINNA, Pasquale Dessanay, in Antologia dei poeti dialettali nuoresi
[1969], Cagliari, ed. Della Torre, 1982, pp. 107-133.
1.
2.
3.
4.
158
2.
3.
4.
Ribellione. Citazione dei vv. 9-11 [P, 1; GP, 1; RPD, 1; B, 1; SM, 1]
A Lia [=Ribellione] (p. 113) [P, 1; RPD, 1; B, 1; SM, 1; D, II, 1]
A unu signoriccu divertiu (p. 122)
Cherrende (p. 121) [P, 4; RPD, 3; SA, 1; M, 1; SD, 9]
In s’abba (p. 125) [P, 3; M1, 2; S, I,1 e III,1]
A Lia [=Ribellione], n. 5, gennaio 1928 [D, II, 1; GP, 1; P, 1; B, 1; SM, 1]
A tie bella dormida, n. 3, gennaio 1928 [VS, 2]
Cherrende, n. 2, dicembre 1927 [GP, 3; P, 4; SA, 1; M, 1; SD, 9]
STANIS MANCA, Il poeta di Nuoro, in Sardegna leggendaria, Roma, ed. Voghera, 1910, pp. 133-147.
1.
II. Note per un’indagine sull’ambiente di Grazia Deledda (pp. 90-96). Già in M.
CIUSA ROMAGNA (a c. di), Onoranze a Grazia Deledda, Nuoro, 2 giugno 1959,
ed. Stef.
A Lia [= Ribellione] [D, II, 1; GP, 1; RPD, 1; B, 1; SM, 1]
Cando, ruttas sas fozzas, a chircare [SM, 2]
In s’abba [GP, 4; M1, 2; S, I,1 e III,1]
Sa cherridora [RPD, 3; GP, 3; SA, 1; M, 1; SD, 9]
Sa morte de Pettenaiu [B, 3; GP, 7; M, 3]
Sos campanones de Santa Maria. Frammenti : vv.1-4 e 81-88 [SD, 12; GP, 9]
«Rassegna poetica dialettale», Cagliari.
1.
2.
3.
I. Repubblicani e socialisti a Nuoro (pp. 51-58) Originariamente in «Cronache
provinciali», Nuoro, anno I, n. 2, giugno 1960; poi anche in CESARE PIRISI,
Giornale di Barbagia, Cagliari, ed. Sarda Fossataro, [s.d.], pp. 441-449.
1.
2.
3.
FERNANDO PILIA, Pasquale Dessanay il poeta della scapigliatura nuorese, in
«Sardegna oggi», anno III, 15-31 gennaio 1964, pp. 14-15 [Trascrizione di
un intervento di Pilia su Radio Cagliari, nella rubrica Alla scoperta d’una
Sardegna minore (10 dicembre 1963)].
1.
2.
3.
4.
5.
6.
RPD
Mutu (p. 110)
Nue (p. 120)
Sa morte de Pettenaiu (pp. 114-118) [B, 3; P, 5; M, 3]
Siccagna (pp. 123-124) [SD, 11; S, I,4]
Sos campanones de Santa Maria (pp. 126-133) [SD, 12; P, 6]
Torrau (p. 119) [SD, 15]
[Si tinde ammentas, Lia, cuchinadu,] (pp. 144-145) [D, II, 1; GP, 1; P, 1; B,
1; RPD, 1]
[Cando, ruttas sas fozzas, a chircare] (p. 142) [P, 2]
[Issa mi nabat: non ses mai giucundu] (p. 143)
[Su re m’at ordinadu] (p. 146) [G, 1; D, I, 2; Néulas, 10]
Testimoni inediti e manoscritti γ
G
Foglio di protocollo manoscritto, mm 205x295, non autografo, in possesso
di Valeria Guido (pronipote del poeta), contenente tre sonetti di Dessanai:
1.
2.
3.
In s’ora de sa partenzia [Néulas, 10; D, I, 2; SM, 4]
Mustarolu [M1, 3; SD, 7; S, I,3]
Per ballottaggio, elezioni politiche 1909 [M1, 1]
159
Notizia sul testo
M
Quaderno manoscritto (vedi Fonti inedite e manoscritte della Bibliografia) di
mm. 205x150, cc. 39, non autografo, conservato nell’archivio dell’avv. Mastino; contiene componimenti di diversi poeti nuoresi (Salvatore Rubeddu,
Francesco Ganga, Sebastiano Satta). I testi attribuiti a Dessanai sono i seguenti:
1.
2.
3.
4.
5.
M1
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
Cherrende (cc. 36v-37r) [SD, 9; GP, 3; P, 4; RPD, 3; SA, 1]
I fangosi (c. 36v)
In morte de Pettenaiu (cc. 29v-31v) [B, 3; GP, 7; P, 5]
La bellezza di una donna (cc. 31v-33r) [Néulas, 8]
[Zigarru ca Capello l’hat mandadu] (cc. 34v-36r) [SD, 18]
Ballottaggio fra Dore e Garavetti [G, 3]
Mariedda [GP, 4; P, 3; S, I,1 e III,1]
S’iscopile [G, 2; SD, 7; S, I,3]
1.
2.
SD
I. Fotocopie relative ad una silloge manoscritta, non autografa, organicamente costituita, contenente poesie numerate con cifre romane. A nostra disposizione sono stati messi i seguenti testi:
Anninia
In s’abba [GP, 4; P, 3; M1, 2; S, III,1]
Mustarolu [G, 2; M1, 3; SD, 7]
Siccagna [GP, 8; SD, 11]
II. Un gruppo di testi dattiloscritti; tutti messi a nostra disposizione:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
160
A Filumena
A Flora
A Grassia
A Rosa
A un’amante infidele
Columba
SD1
In s’abba [GP, 4; P, 3; M1, 2; S, I,1]
Torrau [GP, 10; SD, 15]
Carte Satta-Dessanay, manoscritte, non autografe. Si tratta di fogli sparsi e
di varia misura in cui la signora Fanny Satta (vedova di Sebastiano Dessanay, figlio del poeta) ha trascritto diverse poesie di Pascale Dessanai, molte
delle quali inedite. Si elencano i titoli dei testi messi a nostra disposizione:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
Incartamento di discreta mole, contenente poesie di Dessanai non autografe (tranne In s’abba, attribuibile alla mano dell’autore), in possesso di Antonello Satta, studioso della letteratura e della cultura sarda, fratello della signora Fanny Satta (vedi SD). Tra i fogli contenuti nella cartella si possono
distinguere almeno tre tipi di raccolte:
1.
2.
3.
4.
Cusizzos a s’amante
De istiu - Dialogu
Disizu vanu [SD, 5]
Firmesa in s’amare
In me cunfida
Ojos, pios, pensamentos
Semper amore
Una trizza
III. Fogli sparsi e di varie dimensioni, tutti manoscritti. A nostra disposizione sono state messe due riproduzioni fotografiche, ciascuna delle quali
reca un sonetto:
Foglio di quaderno manoscritto, mm. 205x150, di sole due cc., non autografo, posto alla fine di M e presumibilmente, rispetto a questo, di mano
seriore. Contiene tre sonetti di Dessanai:
1.
2.
3.
S
Notizia sul testo
A Chillina
A s’amigu Baddore
Ammentu
Cassa senz’arma
Disizu vanu [S, II,9]
Leghende S’O de Giotto
Mustarolu [G, 2; M1, 3; S, I,3]
Passende in pattada
Sa cherridora [GP, 3; P, 4; RPD, 3; SA, 1; M, 1]
Sas tuas bentanas
Siccagna [GP, 8; S, I,4]
Sos campanones de Santa Maria [GP, 9; P, 6]
Su pastore o Cuntrastu [VS, 5]
Tempesta [LGP, 3]
Torrau [GP, 10; S, III,2]
Tramontu
Visita a Bitti
Zigarru [M, 5]
Sotto tale sigla vanno due testimoni affini, ambedue contenenti testi di
Dessanai in lingua italiana.
161
Notizia sul testo
I. Fotocopie relative ad un libretto manoscritto (di discreta mole, considerando che una delle fotocopie messe a nostra disposizione riproduce una
pagina numerata 141) e, per dichiarazione della signora Satta, autografo.
Sennonché il confronto con la firma originale del poeta (cfr. l’apparato critico relativo a In s’abba) non pare confermare l’autografia di tale testimone.
In via cautelativa, non è da escludere che si tratti di differenze di ductus o
che, altrimenti, il libretto, rappresentando un tardo riordinamento delle
proprie poesie da parte del poeta, testimoni una grafia più matura rispetto
a quella della firma suddetta. I testi sono numerati con cifre romane, e dovettero essere divisi in sezioni, poiché componimenti diversi hanno identica numerazione. I testi messi a nostra disposizione sono tutti in lingua italiana:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Brindisi [SD1, II, 6]
[E la neve scendea…. Pallida e sola,]
Il mio cagnetto
[La mia pipa non è di fina schiuma]
[Nuvole dense per il plumbeo cielo]
Preghiera [SD1, II, 7 ]
Quadretto [ LGP, 2]
[Una bruna saracena] [MC, 1; SD1, II, 5]
II. Dal libretto sopra descritto derivano alcuni fogli dattiloscritti (ugualmente in possesso della signora Satta); a nostra disposizione sono stati messi i seguenti testi:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
[Ardon per te d’amore i cuori a mille,]
Brindisi [SD1, I, 5]
Dolores…
[Eri bella e sorridente]
Foglie, fiori e lacrime
[Non io sospirerò l’ore fugaci]
[Pallida larva, lasciami sognare]
Preghiera [SD1, I, 7]
Rosa ed Artos
[Una bruna saracena] [MC, 1; SD1, I, 4]
CRITERI DI EDIZIONE
Criterio generale nel presentare la lezione testuale è stato quello di distinguere nettamente le testimonianze di tipo α (testi a stampa fatti pubblicare dall’autore) da quelle di tipo β (testi pubblicati postumi o senza diretto controllo dell’autore), che sotto l’aspetto editoriale fanno corpo unico con γ (apografi non d’autore, eccetto In s’abba, inediti e manoscritti).
Per quanto concerne α (comprendente i testi contenuti nelle sezioni di questa edizione intitolate: Da Néulas e Testi sardi comparsi in riviste dell’Ottocento, I-XXIX; cui va
aggiunto Cherrende, XXXI, inserito in altra sezione per motivi di ordinamento tematico-stilistico dell’opera dessanaiana), si è riprodotto fedelmente il testo così come figura nella sede originaria, salvo correzioni di evidenti sviste tipografiche (refusi, punteggiatura, etc.). Tale criterio conservativo coinvolge anche i presunti autografi di In s’abba (XXXIV) e di Ribellione (XXX). In tutti questi casi, degli interventi fatti sul testo
originale si dà ragione collocando in apparato le lezioni originali scartate.
Altro dev’essere il discorso per i testi β + γ (inediti o pubblicati senza il benché minimo controllo da parte dell’autore e per buona parte giunti in attestazione plurima),
per i quali, previa un’estesa recensio (che non può comunque ritenersi conclusa, considerati gli incerti e occulti percorsi dei testi di Dessanai, e tenuto conto che per questo
progetto di edizione non ci si è potuti avvalere di tutti i materiali in possesso della signora Fanny Satta e del signor Antonello Satta), si è proceduto alla collazione dei testimoni. Vista la disorganicità della tradizione testuale dessanaiana, i risultati dell’operazione sono stati esposti caso per caso negli Apparati critici.
Grafia
Il principio di fedeltà all’originale applicato ai testi di tipo α è stato seguito anche
per la grafia, con la convinzione che per questa via si dovesse fornire anche una testimonianza storico-culturale. D’altra parte, ciò non poteva esimerci dall’intervenire sul
testo attraverso una seppur minima regolarizzazione, la quale, però, è consistita nell’estensione a tutto il testo di usi già presenti negli originali, anche se non applicati dall’autore in maniera coerente e costante. Segnaliamo qui di seguito questo tipo d’interventi, ricordando che altri tipi di oscillazione negli usi grafici appartengono tutti all’originale:
162
163
Criteri di edizione
1. Alcune forme del verbo áere (‘avere’) figurano sempre senza la h e con accento
diacritico sulla à. In particolare la 2ª e la 3ª persona singolare, al presente indicativo, figurano sempre nella forma: às / àt, laddove Dessanai in Néulas usa, accanto a
tale forma, has/hat, oppure semplicemente as. Allo stesso modo, la 3ª persona plurale, sempre del verbo áere al presente indicativo, è: àn (àna con paragogica), in luogo di han (hana).
2. La copula (terza persona singolare, presente indicativo, verbo èssere) è sempre
espressa nella forma est (in Néulas si hanno anche occorrenze di es; mai di er).
3. La distinzione tra affricata sorda [ts] e sonora [dz] intervocaliche è sempre indicata rispettivamente con: -zz- e -z-; seguendo un uso, non sempre costante, dello
stesso Dessanai. In corrispondenza di altri nessi (-zione; -ziosa; etc.) il testo segue l’uso italiano. Lo stesso si dica per manifesti italianismi (es. orizzonte).
4. L’aferesi che si produce nella preposizione de e l’aferesi logudorese intervocalica in fonosintassi (mi ’attit = ‘mi battit’) sono state sempre segnalate con il segno di
elisione (’e; ’attit), laddove in Néulas si trovano anche senza tale segno; per quanto
riguarda ’e, negli originali si trova anche la è (accentata).
5. Si sono segnati gli accenti sdruccioli; es.: chérfidu; le parole senza alcuna indicazione d’accento sono da leggersi piane (perciò, quando a fine verso si troverà cherfidu, senza accento, deve essere letto parossitono per diastole dovuta ad esigenza di
rima).
6. Sono state inserite le virgolette uncinate («…») per il discorso diretto, in luogo del trattino (-…-).
7. Sono state eliminate le maiuscole ad inizio verso, tranne quelle che seguono
punto fermo, interrogativo ed esclamativo.
A questi principi ci si attiene anche per quei testi contenuti nelle sezioni Da Stecchetti
e Altre liriche, non perché vi si ravvisa una volontà d’autore in merito alla grafia, ma
perché redatti nella koinè poetica sarda, ragion per cui il loro carattere tradizionale è stato rispettato anche nella veste grafica.
Riguardo ai testi β+γγ la scelta, lo confessiamo, è stata più sofferta. Per i testi contenuti in Rime nuoresi e Rime varie e d’occasione si affacciava l’opportunità di tenere una via
di mezzo tra l’esigenza di rendere l’usus dessanaiano (anche se poco attestato: testi α +
Cherrende, peraltro non sicurissimi, e In s’abba) e quella di approssimare, per certi punti critici, la grafia alla pronuncia nuorese. Tale istanza non è trascurabile, se si considera l’importanza dei valori fonici del testo poetico in genere e del Dessanai nuorese in
particolare. L’adozione della grafia tradizionale dà infatti luogo a tutta una serie di
fraintendimenti che non consentono, a prima vista ed al lettore profano, di comprendere la realtà fonetica del testo (nei limiti in cui questa può essere espressa con i tradi164
Criteri di edizione
zionali sistemi grafici). Tuttavia, anche per questa tipologia di testi dessanaiani ci si rifarà, con qualche innovazione illustrata qui di seguito, all’usus dell’autore, il quale ha
perlomeno il vantaggio di accostarsi sensibilmente alla normalizzazione grafica del sardo che ai giorni nostri viene da più parti proposta.
Si avverte, dunque, che non vengono riprodotti graficamente i mutamenti cui vanno soggette le consonanti finali -t, -s, -r, -n (le ultime due di più limitata frequenza rispetto alle prime) in determinate condizioni fonosintattiche2 (dipendentemente dal fonema col quale inizia la parola che segue nella frase). Tali consonanti originarie possono: conservarsi, cadere o mutarsi in altra consonante.
La -t scompare se precede una qualsiasi consonante; -s ed -r scompaiono quando
precedono [n] e [l]; il dileguo di -n avviene invece davanti ad [f], [l], [r] ed [s]. In
questi casi si verifica il raddoppiamento della consonante che segue (es.: a tontonadas nande = ‘a tontonada nnande’; Sa morte de Pettenaju, v. 5).
Quando -s ed -r sono seguite nella frase da una parola che inizia per consonante
(diversa da [n] ed [l]), si trasformano, scambiandosi reciprocamente: se -s incontra
[g], [b], [d], [m], [r], e [ j] muta in -r (casi in cui -r originaria si conserva); se -s incontra [k], [p], [t], e [s] rimane inalterata (casi in cui la -r cambia in -s). Es.: tramas
de filau= ‘tramar de…’; biber cumbenit = ‘bibes cumbenit’. Un caso particolare riguarda est (III pers. sing., pres. ind., verbo èssere), da pronunciarsi: invariato quando
la parola che segue nella frase inizia per vocale; es (senza -t) quando la parola che segue nella frase inizia per uno di quei fonemi che consentono la conservazione della
-s (vedi sopra; es.: est colau= ‘es colau’); er davanti a quei fonemi che prevedono il
passaggio -s > -r (vedi sopra; est ghirau= ‘er ghirau’).
Quando -n è seguita da [b], [p] ed [m] si trasforma in -m (più esattamente, dunque, si labializza); rimane inalterata dinanzi a d-, n-, t-, fricativa interdentale e zsorda e sonora.
Le suddette consonanti non subiscono alterazioni anche quando si trovano in posizione finale assoluta e quando si verifica una pausa nel discorso; in tal caso si appoggiano ad una vocale paragogica, di norma identica alla vocale che precede la consonante finale. Nel discorso in versi una condizione di pausa si genera a fine verso, dove la
paragogica è stata segnalata quando si giustifica prosodicamente e rimicamente (cfr.
XXXIV, 6 : 7, fusu : prusu [= prus]). D’altra parte, la paragogica è ammissibile anche all’interno del verso in assenza di pausa graficamente marcata (punteggiatura), così che
alcune apparenti ipometrie presenti nei testi dessanaiani pare debbano essere sanate
proprio ricorrendo ad essa (di questi interventi si dà conto, quando necessario, in apparato; si avverte che l’uso della paragogica all’interno del verso è inequivocabilmente
attestato in Néulas, XX, 13: crédemi puru chi non sunu dignos). Il v. 61 de Sa morte de Pettenaju (che la tradizione riporta nella forma: Assumancu ti serbit de irfadu), risulta un en-
2 Per l’intelligenza dell’esatta pronuncia nuorese, non riproducibile con i mezzi grafici tradizionali (si pensi, ad esempio, alla pronuncia lenita di -b-, -d- e -g-; o al particolare trattamento della -f-), si rimanda alla scrupolosa e affidabile GSN di PITTAU; da affiancare alla HLS di WAGNER.
165
Criteri di edizione
decasillabo se si suppone una lettura maggiormente scandita, in cui si sentano la -t di
serbit (che altrimenti, davanti a d-, cadrebbe) e la paragogica (serbiti), la quale, acquistando in tal modo un non trascurabile valore prosodico nonché espressivo, va riprodotta (più faticoso sarebbe ammettere la dialefe deVirfadu). Tale tipo d’intervento riguarda anche i testi contenuti nelle sezioni Da Stecchetti e Altre liriche.
Esponiamo qui sotto i pochi altri aggiustamenti (salvi restando quelli 1, 2, 4, 5 e 6
segnalati per i testi α) apportati alla grafia dei testi contenuti in Rime nuoresi e Rime varie e d’occasione:
Criteri di edizione
Nota alla traduzione
Quella qui proposta è una traduzione di servizio, che si attiene, per quanto possibile, alla lettera del testo sardo. Per A Maria Wagner (XVIII), libera traduzione di un testo di Aleardo Aleardi, si è riproposto l’originale. Lo stesso si dica per le traduzioni da
Stecchetti, Cando ruttas sas fozas… (XLVIII) e Issa mi nabat (XLIX). Mentre nel caso di
A Chillina (L), rifacimento da Stecchetti, figurano sia il testo originale e sia la nostra
traduzione.
- l’approssimante palatale [j] in posizione iniziale ed intervocalica è sempre indicata
con j (es.: Pettenaju).
- la distinzione tra affricata sorda [ts] e sonora [dz] è segnata rispettivamente attraverso il digramma tz (tziu) e la z semplice (sonazu).
- la congiunzione copulativa negativa ne (it. né) è costantemente senza accento, non
confondendosi in sardo con altre particelle (pronome e avverbio nde [ne]).
I segni di dieresi ( ¨ ) e dialefe ( V ) sono sempre editoriali, salvo diversa segnalazione
in apparato.
Numerazione dei versi
In questa edizione si adotta una nuovo tipo di numerazione dei versi per quei componimenti che seguono alcuni particolari sistemi strofici appartenenti alla tradizione sarda. Per
i metri torrados e glosados3, i versi della strofa introduttiva (pesada) e la loro ripetizione si segnalano tra parentesi quadre; i numeri senza altra indicazione indicano pertanto i versi
semplici e principiano dal primo verso della prima strofa (pesada esclusa quindi). Quando
il verso viene ripetuto con qualche variazione (lessicale, sintattica, etc.), tale differenza viene contrassegnata affiancando al numero una lettera minuscola (es.: in Non b’àt itte isperare
con [1b] si indica la seconda variazione nella ripetizione del v. [1]). Questo schema generale è arricchito quando non si tratta più di semplice ripetizione, ma di versi trobeados (cioè:
ripetuti invertendo l’ordine delle parole), come in Ámami e A Miriade Bondinata, dove il
verso trobeadu è contrassegnato da una t e, se si tratta di più inversioni, anche da una lettera minuscola (es.: l’indicazione [3a t] significa che si tratta della prima inversione del v.
[3]). In un solo testo (A Miriade Bondinata) si ha a che fare con una pesada principale e pesadas secondarie; in tal caso si è ritenuto opportuno adottare differenti segni per distinguere le varie sotto-pesadas, per la visione dei quali si rimanda direttamente al testo.
3 Per questi ed altri termini della metricologia sarda usati nella presente nota si rimanda all’Appendice di questo volume.
166
167
TESTI
DA NÉULAS
I. Si essere ……
I
Si essere ……
Si essere un’ape, deo posare dia
in su pius dulze fiore,
e i sas essenzias chi nde suzzaia,
essenzias de amore,
tottus las dio cherrer cuncentrare
in sas tuas laras, chin su meu basare.
Si essere un’usignolu, onzi momentu
posadu in su balcone,
chin boghes armoniosas pius de chentu,
a tie sa canzone
dio narrer de su coro sa pius cara,
cudda chi amore solu mi preparat.
Si essere riu, deo toccare dia
sos pedes tuos de fada,
e, murmurende, narrer ti cheria
cantu ses tue amada;
e in sas límpidas undas ispijadu,
dio bider su visu innamoradu.
O ape, o rusignolu, o riu d’arghentu,
cherio èssere pro ti dare onzi cuntentu;
e ti dio amare cantu ape su fiore,
cantu usignolu sos cantos d’amore,
e cantu amat su riu sas ispundas
chi bagnat chin sas suas nettas undas.
5
10
15
20
[Se fossi…… Se fossi un’ape, io poserei / sul più dolce fiore, / e le essenze che succhierei, / essenze d’amore, / tutte le vorrei concentrare / nelle tue labbra, col mio baciare. // Se fossi un usignolo, ogni momento / sulla finestra posato, / con più di cento voci armoniose, / a te la canzone
/ direi del cuore la più cara, / quella che solo amore mi prepara. // Se fossi fiume, io toccherei / i
tuoi piedi di fata, / e, mormorando, vorrei dirti / quanto tu sei amata; / e nelle limpide onde specchiato, / vedrei il viso innamorato. // O ape, o usignolo, o fiume d’argento, / voglio essere per dare a te ogni contento; / e ti amerei quanto l’ape il fiore, / quanto l’usignolo i canti d’amore, / e
quanto ama il fiume le sponde / che bagna con le sue pure onde.]
173
II. Non b’àt itte isperare
Da Néulas
sos lineamentos de sa cara ermosa;
ma como ahi dura cosa!…
Non cheres chi ti mire, e deppo istare
nende: s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre; non b’àt itte isperare!
II
Non b’àt itte isperare
Ià chi s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre; non b’àt itte isperare!
Essende dae sas frizzas de Cupidu,
continu trapassadu,
credia chi abblandadu
fit su fogu chi tantu àt consumidu;
ma pius addoloridu
e míseru mi rendet su penare,
ià chi s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre e non b’àt itte isperare!
Non b’àt itte isperare: eppuru ispero
chi tanta tribulia
lasset s’anima mia
in paghe. Ma no; chi disispero,
si bene cunsidero
chi sa vida de tríbulos est mare;
e chi s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre e non b’àt itte isperare!
Cando ti contemplao, o grassiosa,
su coro si apperiat
e tottu nde cugliat
[1]
[2]
[3]
20
[1c]
[2]
[3]
5
[1]
[2]
[3]
10
[1a]
[2]
[3]
Bi sias o non bi sias, indifferente
ti mustras de continu,
e solu deo, meschinu,
piango s’indifferenzia amaramente;
e chin boghe dolente
a donzi istante devo isclamorare:
ahi s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre e non b’àt itte isperare!
A cando isto suffrende tantas penas
pro pagas dies solu,
e piango a disconsolu
pro non bider sas formas tantu amenas,
in lontanas arenas
senza te, e comente app’a restare
si non chin duru piantu
25
30
[1d]
[2]
[3]
35
[1e]
15
[Non c’è di che sperare. Dacché l’amaro pianto / di questo cuore affranto / continua sempre; non
c’è di che sperare! // Essendo dalle frecce di Cupido / continuamente trapassato, / credevo che placato / fosse il fuoco che tanto ha consumato; / ma più addolorato / e misero mi rende il penare, /
dacché l’amaro pianto / di questo cuore affranto / continua sempre e non c’è di che sperare! //
Non c’è di che sperare: eppure spero / che tanto patimento / lasci l’anima mia / in pace. Ma no;
che dispero, / se bene considero / che la vita di triboli è mare; / e che l’amaro pianto / di questo
cuore affranto / continua sempre e non c’è di che sperare! // Quando ti contemplavo, o graziosa, /
il cuore si apriva / e interamente coglieva / i lineamenti del bel viso; / ma ora, ahi, che cosa du-
174
Su sero, su manzanu, onzi momentu,
benzo pro ti mirare;
ma mi nde devo andare
affliggidu e pienu ’e sentimentu,
ca tue su cuntentu,
senz’èssere bida, no mi podes dare.
Solus s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre e non b’àt itte isperare!
[1b]
[2]
[3]
ra!… / non vuoi che ti guardi, e devo continuamente / dire: l’amaro pianto / di questo cuore affranto / continua sempre; non c’è di che sperare! // La sera, la mattina, ogni momento / vengo
per guardare te; / ma me ne devo andare / afflitto e colmo di dolore, / perché tu contento, / senza che ti veda, non mi puoi dare. / Solo l’amaro pianto / di questo cuore affranto / continua sempre e non c’è di che sperare! // Che tu ci sia o non ci sia, indifferente / ti mostri continuamente, /
ed io solo, meschino, / piango l’indifferenza amaramente; / e con voce dolente / ad ogni istante
devo gridare: / ahi l’amaro pianto / di questo cuore affranto / continua sempre e non c’è di che
sperare! // Talvolta soffro tante pene / solo per pochi giorni, / e sconsolato piango / poiché non
vedo le forme tanto amene, / in lontani lidi / senza te, e come potrò restare / se non con duro
175
III. Indifferenzia
Da Néulas
de custu coro affrantu
chi sighit e non b’àt itte isperare?
[2]
[3]
III
Indifferenzia
Forsis pro m’avesare goi suffrire
dae como mi lassas,
e crudele mi passas
chin frizzas chi mi solen consumire,
senza nemmancu ischire
si amore o velenu àn’a inserrare?
Su ch’isco est chi su piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre e non b’àt itte isperare.
Ma deo maleighende cudda sorte
chi m’àt battidu a lughe,
chi m’àt dadu sa rughe
pro m’affidare in brazzos de sa morte;
chin propositu forte,
prima de s’ora l’appo a invocare,
ià chi s’amaru piantu
de custu coro affrantu
sighit sempre e non b’àt itte isperare!
40
[1f]
[2]
[3]
45
[1]
[2]
[3]
pianto / di questo cuore affranto / che continua sempre e non c’è di che sperare? // Forse perché
io mi abitui, così sofferente / mi lasci già da ora, / e crudele mi trapassi / con frecce che mi sogliono consumare, / non sapendo neppure / se amore o veleno racchiuderanno? / Quello che so è
che il pianto / di questo cuore affranto / continua sempre e non c’è di che sperare. // Ma io, maledicendo quella sorte / che mi ha dato alla luce, / che mi ha dato la croce / per affidarmi nelle
braccia della morte, / con proposito forte, / prima che arrivi quel momento la invocherò, / dacché l’amaro pianto / di questo cuore affranto / continua sempre e non c’è di che sperare!]
Pro itte tanta allegria
às chérfidu abbandonare?
T’àt fattu forsis mudare
sa frequenzia mia?
Semper allegra e giocunda
los passabas sos momentos,
tottus sos dulzes cuntentos
como invece non t’abbundan,
pius sos versos non t’inundan
sas laras comente a prima,
cudda festèvole rima
non faghes pius iscultare.
Cuddos discursos festantes,
cuddas paráulas caras,
como pius non mi las naras,
ti sun bénnidas mancantes;
possíbile ch’aguantes
senza dare contentesa
a tanta dura frittesa
chi soles como mustrare?
Donzi borta in su ti bier
su coro mi l’azzendias,
pro chi semper mustraias
sa cuntentesa in su rier;
como tentas de m’occhier
[1]
[2]
[3]
[4]
5
10
15
20
[Indifferenza. Perché tanta allegria / hai voluto abbandonare? / T’ha fatto forse cambiare / la
mia insistenza? // Sempre allegra e gioconda / li passavi i momenti, / tutti i dolci contenti / adesso in te non abbondano, / non più i versi t’inondano / le labbra come prima, / quella festevole rima / non vuoi più ascoltare. // Quei discorsi festanti, / quelle care parole, / ora non più me le dici, / ti sono venute meno; / com’è possibile che tu regga / senza dare contentezza / a tanta dura
freddezza / che ora sei solita mostrare? // Ogni volta che ti vedevo / m’accendevi il cuore, / perché sempre mostravi / la contentezza nel ridere; / ora tenti di uccidermi / mostrandoti indiffe-
176
177
III. Indifferenzia
Da Néulas
de cantos versos ti do
a nudda torras risposta,
lu faghes forsis apposta
pro mi fagher delirare?
mustréndeti indifferente;
e soles fagher sa mente
de continu regirare.
Semper sa tua presenzia
l’incontrao incantadora,
pariat minutu s’ora,
ti lu naro in cussenzia,
ma como s’indifferenzia
chi tue mustras continu,
maleigher su destinu
mi faghet e suspirare.
Dae cando declaradu
t’appo unu férvidu amore,
su sólitu bonumore
tue l’às abbandonadu;
tantu in tottu às variadu
chi non ti leo cumpresa;
forsis tue ti ses offesa
ca so dispostu a t’amare?
L’isco chi troppu azzardesi,
chi so istadu indiscrettu,
ma tantu téneru affettu
pius frenare no l’ischesi,
però, si deo manchesi,
mi devias cumpatire,
pro chi ja podes ischire
itt’est su veru istimare.
M’áeres dadu unu no,
e fia istadu cuntentu;
ma tue currer che bentu
lassas s’amore però;
55
25
30
35
40
Torra, torra a s’usuale,
non sias crudele tantu!
De mi lassare in piantu
no est legge naturale,
custu corpus tantu frale
passionare no lu lessas,
allígradi e tando pessa
o sì o no de mi dare.
Pro itte tanta allegria
às chérfidu abbandonare?
60
[1]
[2]
ti versi che ti do / non dai alcuna risposta, / lo fai forse apposta / per farmi delirare? // Torna, torna come prima, / non essere tanto crudele! / Lasciarmi in pianto / non è legge di natura, / questo corpo tanto frale / non lo lasciare sofferente, / rallegrati e allora pensa / di darmi un “sì” o un
“no”. // Perché tanta allegria / hai voluto abbandonare?]
45
50
rente; / e suoli far la mente / di continuo impazzire. // Sempre la tua presenza / l’ho trovata incantatrice, / sembrava minuto l’ora, / te lo dico con coscienza, / ma ora l’indifferenza / che tu mostri di continuo, / maledire il destino / mi fa e sospirare. // Da quando dichiarato / t’ho un fervido amore, / il solito buonumore / tu l’hai abbandonato; / del tutto sei cambiata, tanto / che non
riesco proprio a capirti; / ti sei forse offesa / perché sono disposto ad amarti? // Lo so che azzardai troppo, / che sono stato indiscreto, / ma tanto tenero affetto / più frenare non seppi, / però,
se io mancai, / mi dovevi compatire, / giacché ben puoi sapere / cos’è il vero amare. // M’avessi
dato un “no”, / e sarei stato contento; / ma tu correre come il vento / lasci l’amore però; / ai tan-
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179
IV. Ámami
Da Néulas
IV
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su briu e i s’affettu, sa puresa.
[2]
[3b t]
Si gai in sos amores ses cortesa,
comente ses brillante in sos colores,
si gai ses cortesa in sos amores,
in su coro un’isettu mi preparas.
7
8
7t
9
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras.
[1]
[3]
[2]
Chin tegus cessan sas penas amaras,
tottu sos patimentos tue allenas,
chin tegus cessan sas amaras penas,
duncas tantos turmentos leamilos.
10
11
10t
12
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sas laras chin sos pilos.
[1]
[3]
[2a t]
Sos ojos risplendentes fissamilos
dende miradas sas pius ardentes,
fissamilos sos ojos risplendentes
ca rinnovare faghes sos amores.
13
14
13t
15
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos pilos chin sas laras, sos colores.
[1]
[3]
[2b t]
Non sun tantu gentiles sos fiores
16
Ámami
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
sa puresa, su briu e i s’affettu,
regirare, dechida, m’àna fattu,
fisséndemi in sa mente sas pius caras
ideas de ti amare, caru oggettu!
[1]
[2]
[3]
[4]
[5]
[6]
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
sa puresa su briu e i s’affettu.
[1]
[2]
[3]
Pro no lu perder mai tale isettu
pro te s’amore det èssere assai,
pro no lu perder tale isettu mai
t’app’a amare pro cantu duro biu.
1
2
1t
3
S’ermosura, su risu e i su trattu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
s’affettu, sa puresa e i su briu.
[1]
[2]
[3a t]
Tue de grassias ses bundante riu,
e ti desizat donzi coro amante,
tue de grassias ses riu bundante,
ne nd’incontro eguale in sa bellesa.
4
5
4t
6
S’ermosura, su risu e i su trattu,
[1]
[Amami. La bellezza, il riso e l’aspetto, / il colorito, i capelli con le labbra, / la purezza, il brio e
l’affetto, / impazzire, bella, m’han fatto, / fissandomi nella mente le più care / idee d’amarti, caro
oggetto! // La bellezza, il riso e l’aspetto, / il colorito, i capelli con le labbra, / la purezza, il brio e
l’affetto. // Per non perdere mai tale speranza / per te l’amore sarà assai, / per non perdere tale attesa mai / ti amerò finché sarò vivo. // La bellezza, il riso e l’aspetto, / il colorito, i capelli con le labbra, / l’affetto, la purezza e il brio. // Tu di benefici sei abbondante fiume, / e ti desidera ogni cuore che ama, / tu di beni sei fiume abbondante, / né mi viene in mente una uguale a te in bellezza. //
180
La bellezza, il riso e l’aspetto, / il colorito, i capelli con le labbra, / il brio e l’affetto, la purezza. // Se
sei negli amori sì cortese, / come sei brillante nel colorito, / se sei sì cortese negli amori, / prepara
per me nel cuore una speranza. // La bellezza, il riso e l’aspetto, / la purezza, il brio e l’affetto,/ il colorito, i capelli con le labbra. // Con te cessano le pene amare, / tutti i patimenti tu lenisci, / con te
cessano tutte le amare pene, / dunque liberami da tanti tormenti. // La bellezza, il riso e l’aspetto, /
la purezza, il brio e l’affetto, / il colorito, le labbra coi capelli. // Gli occhi risplendenti fissameli /
lanciando i più ardenti sguardi, / fissameli gli occhi risplendenti / perché rinnovare fai gli amori. //
La bellezza, il riso e l’aspetto, / la purezza, il brio e l’affetto,/ i capelli con le labbra, il colorito. // Non
sono tanto gentili i fiori / quanto lo sei tu, che m’hai incantato; / non sono gentili i fiori tanto /
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V. In s’ora de sa partenzia
Da Néulas
cantu ses tue, chi mi às fattu incantu;
non sun gentiles sos fiores tantu
ca tue ses de Venussu retrattu.
17
16t
18
Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
s’ermosura, su risu e i su trattu.
[3]
[2]
[1]
Incantu tale a su coro m’às fattu,
chi pius atter’oggettu no adoro;
incantu tale mi às fattu a su coro
chi non miro pius atteru visu.
19
20
19t
21
Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su trattu, s’ermosura e i su risu.
[3]
[2]
[1a t]
So resortu pro tene e so dezzisu
de semper t’adorare fin’a mortu,
pro tene so dezzisu e so resortu
de cunservare un’amore sicura.
22
23
22t
24
Sa puresa, su briu e i s’affettu,
sos colores, sos pilos chin sas laras,
su risu e i su trattu, s’ermosura.
[3]
[2]
[1b t]
Ámami, bella, non ti mustres dura
e prívami su coro de tristura.
25
26
perché tu sei di Venere il ritratto. // La purezza, il brio e l’affetto,/ il colorito, i capelli con le labbra, / la bellezza, il riso e l’aspetto. // M’hai fatto al cuore un incantesimo tale / che più non adoro
altro oggetto; / incantesimo tale m’hai fatto al cuore / che più non guardo altro viso. // La purezza,
il brio e l’affetto,/ il colorito, i capelli con le labbra, / l’aspetto, la bellezza ed il riso. // Per te sono
risoluto e sono deciso / ad adorarti per sempre fino alla morte, / per te sono deciso e risoluto / a conservare un amore sicuro. // La purezza, il brio e l’affetto,/ il colorito, i capelli con le labbra, / il riso
e l’aspetto, la bellezza. // Amami, bella, non mostrarti dura / e privami il cuore di tristezza.]
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V
In s’ora de sa partenzia
Parto, e bos lasso solas e affliggidas
memorias de un’amore isfortunadu;
parto, pro chi su re m’àt ordinadu
de fagher sas estremas dispedidas,
dae su coro meu disunidas
gioias istade, ca mi azes lassadu
a sas angustias solu abbandonadu,
mentras dao pro bois milli vidas.
Ti lasso, o Marielena e Grassiarosa,
bos lasso sorres, frade, babbu e mama,
ti lasso, amante bella e grassiosa.
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De bos istare accurzu tenio brama,
ma non si avveran sos disignos mios
e dare devo unu dolente adios.
[Nell’ora della partenza. Parto, e vi lascio sole ed afflitte / memorie d’un amore sfortunato; / parto, perché il Re m’ha ordinato / di fare gli estremi saluti, // dal cuore mio lontane / statevi gioie,
ché m’avete lasciato / in angustia solo e abbandonato, / mentre per voi davo mille vite. // Ti lascio, o Marielena e Grassiarosa, / vi lascio sorelle, fratello, padre e madre, / ti lascio, amante bella e graziosa. // Avevo desiderio di starvi accanto, / ma i miei disegni non si avverano / e dare devo un doloroso addio.]
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VI. A Madalena
Da Néulas
o coro infiammadu,
refrena sos delirios de s’amare!
Non pensas chi su piantu
chi tue às derramadu,
forsis si diat poder rinnovare,
si esseret Madalena
azuntu chin su no pius forte pena?
VI
A Madalena
Dae cando, o Madalena,
sos ojos àn miradu
sos trattos de su visu soberanu,
intro de onzi vena,
mi abbizo chi inserradu
b’àt unu fogu ardente e fittianu;
unu fogu de amore
chi b’àt postu su tou risplendore.
E chie, nara, e chie
non dias incantare,
cum su risu chi alleviat onzi dolu?
In su mirare a tie,
a su momentu istare
mi às fattu privu de onzi disconsolu,
ca sa tua ermosura,
su coro meu privat de tristura.
Tantas bortas cun frizzas
e cun cadenas duras,
Amore m’àt ligadu e m’àt feridu,
però sas tuas trizzas
cum sa tua ermosura,
tantu m’àna ligadu e abbatidu,
chi non potto restare
senza s’amore miu declarare.
Ma no avanzes tantu,
5
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Ma no, cherzo tentare,
mi rispondet su coro
brujadu dae fiamas eccessivas,
ca devo declarare
chi tantu deo l’adoro:
ne credo chi paráulas negativas
nerzan sas bellas laras
chi d’amore su risu mi preparan.
Cumbenit obbedire,
o bella Madalena,
a cantu custu coro mi suggerit:
e cherrer diat ischire,
o rosa tantu amena,
su pensamentu meu, chi t’offerit
su pius costante amore,
si pena sentis de su meu dolore.
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gerti troppo, / o cuore infiammato, / raffrena i deliri dell’amare! / Non pensi che il pianto / che
tu hai versato, / si potrebbe rinnovare, / se Maddalena, / aggiungesse con un “no” più forte pena? // Ma no, “voglio tentare”, / mi risponde il cuore / bruciato da fiamme eccessive, / perché devo dichiarare / che io l’adoro tanto: / né credo che parole negative / possano dire le belle labbra /
che il riso amoroso mi preparano. // Conviene che obbedisca, / o bella Maddalena, / a quanto questo cuore mi suggerisce: / e vorrei sapere, / o rosa tanto amena, / il mio pensiero, che ti offre / il
più costante amore, / se alcuna pena provi per il mio dolore.]
25
[A Maddalena. Da quando, o Maddalena, / gli occhi hanno guardato / i tratti del viso regale, /
dentro ogni vena, / m’accorgo che racchiuso / v’è un fuoco ardente e continuo; / un fuoco d’amore / che ha acceso il tuo splendore. // Chi, dimmi, chi / non incanteresti, / con il riso che allevia
ogni duolo? / Nel guardare te, / sul momento m’hai fatto sentire / privo di ogni angoscia, / perché la tua bellezza / priva il mio cuore di tristezza. // Tante volte con frecce / e con catene dure, /
Amore m’ha legato e m’ha ferito, / però le tue trecce / insieme alla tua bellezza, / a tal punto
m’hanno legato e abbattuto, / che non posso stare / senza l’amore mio dichiarare. // Ma non spin-
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VII. Moribunda - VIII. T’adoro
Da Néulas
VII
VIII
Moribunda
T’adoro
Cando in su lettu afflitta e agunizzante
in brazzos de sa morte des istare,
des, chin sos ojos velados, chircare
cuddu dae te abbandonadu amante.
Ma solu, tue, des bider lagrimante,
onzi parente prontu a t’attittare;
e invanu est si des cherrer esclamare:
amante mi consola in custu istante!
Consolazione da issu ne confortu
des tenner in cuss’ora dolorosa!
Forsis innantis tuo issu nd’est mortu.
Itte amabile ermosura
ammiro in tegus, Luchia!
Troppu bene favoria
t’àt s’amorosa natura!
5
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Forsis, est mortu pro su sentimentu
de non tenner a tie pro isposa;
e dare non ti podet pius cuntentu.
[Moribonda. Quando sul letto afflitta e agonizzante / nelle braccia della morte sarai, / cercherai,
con gli occhi velati, / quell’amante da te abbandonato. // Ma soltanto, tu, vedrai lacrimante / ogni
parente pronto a farti il lamento funebre; / e sarà invano che tu vorrai esclamare: / “amante: consolami in quest’istante!” // Da lui né consolazione né conforto / otterrai in quell’ora dolorosa! /
Forse egli prima di te è morto. // Forse, è morto dal dolore / di non avere te in sposa; / e non può
darti più contento.]
A cussos ojos brillantes
chie podet resistire?
Chie det poder fuire
sas attrattivas galantes?
Bella, a sos coros amantes
no, non cherzas esser dura,
ca troppu grande tristura
diat tenner chie t’amat,
diat tenner chie esclamat:
itte amabile ermosura!
Tra tottus sos chi t’ammiran
deo so su chi ti ammiro,
deo so su chi suspiro
tra tottus sos chi suspiran.
Tra tottus sos chi regiran
pro sa tua leggiadria,
mancunu creo chi siat
che a mie regiradu,
pro chi s’amore incarnadu
ammiro in tegus, Luchia!
[1]
[2]
[3]
[4]
5
[1]
10
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[2]
Sì, regiro onzi momentu
[T’adoro. Quale amabile bellezza / ammiro in te, Lucia! / Troppo ben favorita / t’ha l’amorosa
natura. // A quegli occhi brillanti / chi può resistere? / Chi potrebbe sfuggire / alle attrattive galanti? / Bella, con i cuori amanti, / no, tu non voler essere dura, / ché tristezza troppo grande /
ne avrebbe chi ti ama, / ne avrebbe chi esclama: / quale amabile bellezza! // Fra tutti quelli che
ti ammirano / io sono quello che t’ammira, / io sono quello che sospira / fra tutti quelli che sospirano. / Fra tutti quelli che impazziscono / per la tua leggiadria, / credo che nessuno vi sia / al
pari di me impazzito, / poiché l’amore incarnato / ammiro in te, Lucia! // Sì, ogni momento son
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IX. Luntana
Da Néulas
pro ti poder adorare,
ca in su bider, provare
solet su coro cuntentu,
su pius grande ch’appat tentu
in sa pius grande allegria.
Crede, crede, tue ebbia
m’às dadu sa cuntentesa,
ca t’àt natura in bellesa
troppu bene favoria!
Chin tantu affettu t’adoro
chi non lu podes cumprender,
ca tue chérfidu prender
m’às chin cadenas su coro.
Ses tue veru tesoro
chi mi privat de tristura,
in tegus tottu est dulzura
dae cando ses naschida,
e pro me, dadu sa vida
t’àt s’amorosa natura.
20
IX
Luntana
Ad Elvira Enatarèg
25
[3]
30
35
[4]
fuori di me, / per poterti adorare, / perché nel vederti, provare / suole il cuore contentezza, / la
più grande che abbia avuto / nella più grande allegria. / Credimi, credimi, tu sola / m’hai dato
contentezza, / poiché t’ha la natura in bellezza / troppo ben favorita! // Con tanto affetto t’adoro /
che non puoi capirlo, / ché tu voluto legare / m’hai il cuore con catene. / Sei tu il vero tesoro /
che mi priva di tristezza, / tutto è dolce in te / da quando sei nata, / e per me dato la vita / t’ha
l’amorosa natura.]
Partida ses luntana
senza mancu mi dare un’adiosu.
Ahi! sorte tirana,
chi diccia mi às pérdidu ispassu e gosu!
Tristura fittiana,
no mi lassat un’ora de riposu,
e, solu in tribulia
m’às lassadu, partinde, o vida mia.
M’às lassadu in tristura
senza ti bider sa cara dechida,
in continua isventura
consumare si devet custa vida,
solu sa sepoltura
paghe det dare a s’ánima affligida,
ca pro cantu isto in terra,
m’intiman sos dolores aspra gherra.
Ahi, coro crudele
partire senza mancu una mirada!
Troppu, troppu infidele
in s’amore, columba, ses istada!
Solu s’amaru fele
às lassadu a cust’ánima affannada,
chi tenet pro consolu
amarguras, affannu e forte dolu!
Affannu e dolu forte,
5
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25
[Lontana. Partita sei lontana / senza neppure darmi un addio. / Ahi! Sorte tiranna, / che mai
levato felicità, spasso e godimento! / Tristezza continua, / non mi concede un’ora di riposo, / e,
solo in patimento / m’hai lasciato, partendo, o vita mia. // M’hai lasciato nella tristezza / senza
vedere il tuo viso avvenente, / in continua sventura / si dovrà consumare questa vita, / soltanto
la sepoltura / darà pace all’anima afflitta, / ché finché sto al mondo / i dolori m’intimano aspra
guerra. // Ahi, cuore crudele / partito senza degnarmi di uno sguardo! / Troppo, troppo infedele
/ nell’amore, colomba, sei stata! / Solo l’amaro fiele / hai lasciato a quest’anima affannata, / che
ha per consolazione: / amarezze, affanno e forte duolo! // Affanno e duolo forte, / m’hai lasciato per
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IX. Luntana
Da Néulas
m’às lassadu pro sempre in testamentu,
chi mi ’attit a sa morte
déndemi penas e duru turmentu,
contraria m’est sa sorte,
mi girat e m’atterrat donzi bentu,
ca, senza un’isperanzia,
de tene tenzo solu s’incostanzia.
Nudd’átteru mi restat
si non de su passadu sa memoria;
cuddas dies, ch’attestan
de s’amore sa facile vittoria,
a sa mente, funestas,
luttuosas apparin senza gloria,
apparin luttuosas
ca siccadas pro me si sun sas rosas.
Tue cuntenta passas
sas dies in sas undas divertende,
tue semper t’ispassas
e deo chin dolore pianghende,
tue sos dolos lassas
e deo tottu los isto suffrende,
tue penas non curas,
deo passo sa vida in amarguras.
Cando su sole apparit
su manzanu in su cándidu orizzonte,
cando su sole isclarit
chin sos pállidos rajos onzi monte,
a tie ti comparit
s’allegria pintada in mesu fronte,
a tie s’allegria,
a mie sa pius dura tribulia.
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Mancari ingrata tantu
sias istada pro s’amore meu,
mancari su piantu
m’àppas dadu, donosa, pro recreu,
intro ’e su coro, cantu
pro te siat s’amore l’ischit Deu,
ne i sas laras àn pasu
si non t’offerin un’úrtimu basu.
Finis pro cuddu amore
chi sempre app’inserradu intr’ ’e su coro,
pro su tantu dolore
pro te sola suffridu, o mela d’oro,
un’últimu favore
e un’última grassia t’imploro;
chi prima ’e sa partida
benzas columba pro sa dispidida.
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sempre in testamento, / che mi porta alla morte / dandomi pene e duro tormento, / m’è contraria la sorte, / mi gira e mi atterra ogni vento, / perché, senza alcuna speranza, / di te mi rimane
l’incostanza. // Nient’altro mi resta / se non del passato la memoria: / quei giorni, che attestano /
dell’amore la facile vittoria, / alla mente, funesti, / luttuosi appaiono senza gloria, / appaiono luttuosi / perché seccate per me si sono le rose. // Tu contenta passi / le giornate divertendoti in mezzo alle onde, / tu sempre te la spassi / mentre io dolorosamente piango, / tu i duoli ignori / ed io
tutti quanti li soffro, / tu di pene non ti curi, / ed io passo la vita amaramente. // Quando il sole
appare / al mattino nel candido orizzonte, / quando il sole schiarisce / con i pallidi raggi ogni monte, / a te compare / l’allegria dipinta sulla fronte, / a te l’allegria, / a me la più dura tribolazione. //
190
Prestu parto eo puru
e pius no nos demus incontrare,
però troppu m’est duru
partire senza mancu ti mirare.
No, non parto siguru
senza prima columba t’abbrazzare,
no, non cherzo partire
senza s’últimu adios t’offerire.
Presto anch’io parto / e non c’incontreremo mai più, / però mi è troppo duro / partire senza neppure vederti. / No, non parto sicuro / se prima, colomba, non t’abbraccio, / no, non voglio partire / senza offrirti l’ultimo addio. // Sebbene tanto ingrata / sei stata verso il mio amore, / sebbene il pianto / mi abbia dato, graziosa, per sollazzo, / dentro il cuore, quanto / per te sia l’amore lo sa Dio, / né le labbra hanno riposo / se non t’offrono un ultimo bacio. // Finis per quell’amore / che sempre ho tenuto racchiuso dentro al cuore, / per il tanto dolore / per te sola sofferto, o mela d’oro, / un ultimo favore / e un’ultima grazia t’imploro: / che prima della partenza /
venga, colomba, per il saluto.]
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X. A Miriade Bondinata
Da Néulas
X
A Miriade Bondinata
Murinde pro bona sorte
ses, in saludes non floris
ca pérdidu às tale donu!
Chirchende t’est già sa morte,
e tue, cando ti moris
mi pones su coro in bonu.
[1]
[2]
[3]
[4]
[5]
[6]
Cand’às a esser sepultada,
e ti desizas sos annos
de sa frisca pizzinnia,
cust’ánima liberada
det esser de sos affannos
chi pro te sola suffriat.
〈1〉
〈2〉
〈3〉
〈4〉
〈5〉
〈6〉
Det torrare s’allegria
pustis de tantu penare,
s’allegria det torrare
chi custu coro consolat.
Cust’ánima liberada
det esser de sos affannos
chi suffriat pro te sola.
S’amarantu, sa viola,
eo ti ponzo in campusantu,
sa viola, s’amarantu
est su chi tenes dae me.
Cust’ánima liberada
det esser de sos affannos
sos chi suffriat pro te.
1
2
1t
3
〈4〉
〈5〉
〈6a t〉
4
5
4t
6
〈4〉
〈5〉
〈6b t〉
[A Miriade Bondinata. Per fortuna stai morendo, / la tua salute non è in fiore / ché hai perso
tale dono! / Ti sta già cercando la morte, / e tu quando morrai / darai pace al mio cuore. // Quando verrai sepolta, / e desidererai gli anni / della fresca gioventù, / quest’anima liberata / sarà dagli affanni / che per te sola soffriva. // Tornerà l’allegria / dopo tanto penare, / l’allegria tornerà /
che questo cuore consola. / Quest’anima liberata / sarà dagli affanni / che soffriva per te sola. /
L’amaranto, la viola, / porrò sulla tomba, / la viola, l’amaranto / è ciò che da me ottieni. / Quest’anima liberata / sarà dagli affanni / che soffriva per te. / Quel che ti dico credilo, / appresto i
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Cantu ti naro lu crè,
sos fiores ti los preparo,
crédelu cantu ti naro,
t’app’a fagher tale donu,
ca tue cando ti moris
mi pones su coro in bonu.
7
8
7t
9
[5a]
[6]
Su coro meu affannadu
lograre det su cuntentu
chi lograbat unu die;
su coro meu, privadu
det esser de patimentu
ca non bidet pius a tie.
1
2
3
4
5
6
Morte prestu ajò, l’occhie,
si cheres chi mi cunforte,
ajò prestu l’occhie morte
chi non reste goi confusu.
Su coro meu, privadu
det esser de patimentu
ca a tie non bidet piusu.
De s’amore às fattu abusu,
operende chin furore,
fattu abusu às de s’amore
ma custu coro nde riet.
Su coro meu, privadu
det esser de patimentu
ca pius a tie non biet.
Sa pena pius no m’occhiet,
torrat sa mente serena,
non m’occhiet pius sa pena,
ca m’àt postu in abbandonu;
e tue cando ti moris
mi pones su coro in bonu.
10
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10t
12
4
5
6a t
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13t
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4
5
6b t
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[5]
[6]
fiori per te, / credilo quanto ti dico, / ti farò tale dono, / ché quando morrai, / darai pace al mio
cuore. // Il cuore mio affannato / otterrà il contento / che una volta otteneva; / il mio cuore, privato / verrà del patimento / poiché non più ti vede. // Morte presto, dài, uccidila, / se vuoi essermi di conforto, / dài presto uccidila morte / che io non rimanga così confuso. / Il mio cuore,
privato / verrà del patimento / poiché te non vede più. / Dell’amore hai abusato, / operando con
furore, / abusato hai dell’amore / ma questo cuore se la ride. / Il mio cuore, privato / verrà del
patimento / poiché a te più non vede. / La pena più non mi uccide, / torna la mente serena, /
non mi uccide più la pena / poiché m’ha abbandonato; / e tu quando morrai / darai pace al mio
cuore. // Ti ricordi quanti tormenti / in ogni momento mi provocavi / senza volermi compatire? /
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X. A Miriade Bondinata
Da Néulas
T’ammentas cantos turmentos
a donz’ora mi daias
senza cherrer cumpatire?
Ma como sos patimentos,
ma como sas tirannias
tue las deves suffrire.
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{5}
{6}
Mi solias affliggire,
piangher semper mi faghias,
affliggire mi solias,
sas cuntentesas fin breves.
Ma como sos patimentos,
ma como sas tirannias
tue suffrire las deves.
Como a mie sunu leves
sas penas de donzi die,
como sun leves a mie
sos martirios de tottue.
Ma como sos patimentos,
ma como sas tirannias
las deves suffrire tue.
Sa morte est colada cue
d’una farche longa armada,
sa morte cue est colada
faghende istrépitu e sonu.
E tue cando ti moris
mi pones su coro in bonu.
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19t
21
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{5}
{6a t}
22
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24
{4}
{5}
{6b t}
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25t
27
[5]
[6]
Pro ti dare pius fastizu
app’a benner a sa tumba
finghende de lajimare,
app’a narrer chi desizu
tenia de te, columba,
ca dias confortu dare;
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ma bene ischis, chi s’amare
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a tie non fit pro mene,
chi s’amare, l’ischis bene,
no mi fit de accunortu,
app’a narrer chi desizu
tenia de te, columba,
ca dias dare cunfortu.
Ma in frisca edade mortu
mi bias s’est veridade,
ma mortu in frisca edade,
s’est veridade, mi bias.
App’a narrer chi desizu
tenia de te, columba,
ca dare cunfortu dias.
A tie, sas cosas mias
ti den esser dolorosas,
a tie sas mias cosas,
però, ti dan su perdonu.
In paca chi cando moris,
mi pones su coro in bonu.
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[5b]
[6]
di conforto. / Dirò che desiderio / avevo di te, colomba, / perché daresti conforto. / Ma in giovane età morto / tu mi veda se è questa verità, / ma morto in giovane età, / se questa è verità, tu
mi veda. / Dirò che desiderio / avevo di te, colomba, / perché conforto daresti. / Per te i miei argomenti / risulteranno dolorosi, / per te gli argomenti miei, / però, ti offrono il perdono. / A
compenso della tua morte, / avrò pace nel mio cuore.]
Ma ora i patimenti, / ma ora le tirannie / tu le devi soffrire. // Solevi affliggermi, / sempre mi facevi piangere, / affliggermi solevi, / erano brevi i momenti di contentezza. / Ma ora i patimenti, /
ma ora le tirannie / tu soffrire le devi. / Ora per me son lievi / le pene quotidiane, / ora son lievi
per me / i martirî d’ogni dove. / Ma ora i patimenti, / ma ora le tirannie / le devi soffrire tu. / La
morte è passata colà / di una falce lunga armata, / la morte colà è passata / facendo strepito e suono. / E tu quando morrai / darai pace al mio cuore. // Per darti ancora più fastidio / verrò alla tua
tomba / fingendo di lacrimare, / ti dirò che desiderio / avevo di te, colomba, / perché daresti
conforto; // ma ben sai, che l’amare / te non faceva per me, / che l’amare, lo sai bene, / non mi era
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XI. Dolore
Da Néulas
Torréndemi a sa mente
sas oras chi minutos mi parian,
cuddas chi solamente
sullevu a custu coro cuncedian;
sos tristos ojos mios
de lajmas perennes forman rios.
XI
Dolore
O die dolorosa
in penas angustiosas consumada;
passada corruttosa
senza bider sa cara delicada,
su visu amadu tantu
chi a su coro meschinu àt fattu incantu.
Mi presento tres bortas
pensende ’e t’incontrare, o vida mia,
però, invanu, a sa porta
chin manu tremulante toccaia;
benzo puru a sas otto
e mancu tando bider non ti potto.
Dolente mi retiro
e mi sento su coro piagadu,
e m’attristo, e suspiro
su tempus de continu disizadu,
chi invanu appo perdidu
chirchende su fiore pius nodidu.
Chirchende cudda dea
ch’allattesin sas musas d’Elicona,
cudda fortuna mea
de custu coro amábile padrona,
passesi tribuladas
sas oras chi creio fortunadas.
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Formade, sì, formade,
ojos sentimentales, rios mannos,
e tottu nde bagnade
sos sentimentos mios, sos affannos,
sas penas sas pius duras,
chi mi den ponner prestu in sepoltura
E tue, coro affrantu,
de suspiros pienu e de lamentu,
presèntati cun piantu
a cuddu venerábile appusentu,
ue istat sa turtura
pro sa cale t’incontras in tristura;
e chin boghe dolente,
sos duros patimentos li declara;
pianghende amaramente
unu basu depóneli in sas laras,
in cussas laras finas,
túmidas, vellutadas, corallinas.
E, pustis isfogadu
de sas fiamas tuas tantu ardore,
prègala, chi ligadu
ti tenzat a su pettus de amore,
e chi de duos coros
issa formet un’únicu tesoro.
Gasie ismenticare
[Dolore. O giorno doloroso, / in angosciose pene consumato; / trascorso dolente / senza vedere
il viso delicato, / il viso tanto amato, / quello che ha fatto al cuore l’incantesimo. // Mi presento
tre volte / pensando d’incontrarti, o vita mia, / però, invano, alla porta / con mano tremolante
bussavo; / vengo anche alle otto / e neppure allora vedere ti posso. // Dolente mi ritiro / e mi sento il cuore piagato, / e mi rattristo, e sospiro / quel tempo passato in desiderio continuo, / che
invano ho consumato / cercando il fiore più prezioso. // Cercando quella dea / che allattarono le
muse d’Elicona, / quella mia fortuna / di questo cuore amabile padrona, / passai in tribolazione /
quelle ore che ritenevo fortunate. // Ritornandomi alla mente / quelle ore che parevano minuti, /
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quelle che sole / concedevano sollievo a questo cuore; / i tristi occhi miei / formano perenni fiumi di lacrime. // Formate, sì, formate, occhi dolenti, grandi fiumi, / e bagnate tutti / i miei dolori, gli affanni, / le mie più dure pene, / che presto mi porteranno alla tomba. // E tu, cuore affranto, / pieno di sospiri e di lamento, / presentati in pianto / a quella venerabile stanza, / dove
sta la tortora / per la quale sei triste; // e con voce dolente, / i duri patimenti dichiarale; / piangendo amaramente / un bacio deponile sulle labbra, / su quelle labbra fini, / tumide, vellutate,
coralline. // E, dopo aver sfogato / il tanto ardore delle tue fiamme, / pregala, che legato / ti tenga al petto d’amore, / e che da due cuori / lei formi un unico tesoro. // Così dimenticare / puoi,
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XII. A Diana Bideton
Da Néulas
podes, coro, sas duras tribulias
ch’às déppidu provare,
cando deris invanu chircaias
cudd’adoradu oggettu
pro su cale conservas tantu affettu.
XII
A Diana Bideton
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cuore, le dure tribolazioni / che hai dovuto provare, / quando un giorno invano cercavi / quello
adorato oggetto / per il quale serbi tanto affetto.]
Sa cantone mia dolente,
a sa mente
t’àt torradu cuddu briu
chi una die mustraias,
si leggias
s’amorosu cantu miu?
T’àt torradu cuddu ardore
de s’amore
chi in sos ojos mustraias,
ma chi mai chin sas laras,
tantu caras,
isvelare lu cherias?
So cuntentu, e so resortu
fin a mortu,
de mantenner veru affettu
pro te, bella incantadora,
chi a donz’ora,
unu fogu ardente, in pettu
soles ponner chin su risu
’e paradisu,
chi t’inundat chin recreu
cussas laras vellutadas,
istimadas
dae s’amante coro meu.
Ma s’impulsu de s’amore,
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[A Diana Bideton. La canzone mia dolente, / alla mente / t’ha ridato quel brio / che un giorno mostravi, / se leggevi / l’amoroso canto mio? // T’ha ridato quell’ardore / dell’amore / che
dagli occhi mi mostravi, / ma che mai con le labbra, / tanto care, / svelare volevi? // Son contento, e son risoluto / fino alla morte, / di conservare vero affetto / per te, bella incantatrice, /
che ad ognora, / un fuoco ardente, in petto // suoli trasmettere con il riso / paradisiaco, / che t’inonda con piacere / quelle labbra vellutate, / amate / dal mio cuore che ama. // Ma l’impulso
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XII. A Diana Bideton
Da Néulas
pius mazore
diat esser, si unu solu
narrer tou affirmativu,
fattu privu
m’áeret de onzi disconsolu.
Si su duru dubitare
dissipare
dias cherrer dae su coro,
itte dulze cuntentesa
mai intesa
mi dias dare, prenda d’oro!
Ma tue soles affliggire
e intristire
chin sa tua indifferenzia,
e pro me chi tantu adoro,
in su coro,
non de sentis de clemenzia.
Est pro cussu, chi su cantu
tristu tantu
solet esser, bella mia,
e pianghet su destinu,
chi continu
mi l’accreschet s’agunia.
Si festante lu desizas,
contipiza
de mi dare unu consolu;
e des bider, si armoniosu
e amorosu
ispiccare det su bolu.
Faghe duncas, fada mia,
s’agunia
iscumparrer prestamente,
ja chi cuddos versos mios,
sos tuos brios
rinnovadu àn in sa mente.
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parire prestamente, / giacché quei versi miei, / i tuoi brii / hanno rinnovato nella tua mente.]
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dell’amore, / più grande / sarebbe, se una sola / tua risposta affermativa, / reso privo, / m’avesse di ogni sconsolazione. // Se l’ostile dubitare / dissipare / vorrai dal cuore, / che dolce contentezza / mai udita, / mi daresti, pegno d’oro! // Ma tu suoli affliggere / ed intristire / con la tua
indifferenza, / e verso me che tanto adoro, / dentro al cuore, / non mostri clemenza. // È per questo, che il canto / tanto triste / suole essere, bella mia, / e piange sul destino, / che di continuo /
m’accresce l’agonia. // Se desideri che sia festante, / risolvi / di darmi una consolazione; / e vedresti, se armonioso / e amoroso / spiccherebbe il volo. // Fai dunque, mia fata, / l’agonia / scom-
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XIII. Violas
Da Néulas
XIII
Violas
A Luchia C…
A tie chi de sos fiores ses amante
regalo custas violas;
sun modestas, de odore penetrante,
incantan e consolan;
lea, tènende cura,
naschidas sun in logu de tristura.
Sun violas bagnadas dae su piantu
de un’amante amorosa,
guddias eo las appo in campusantu
a pedes de una losa,
inue est sepultadu
unu chi est mortu pro áer tottu amadu.
E mentras custa manu las guddiat,
las agitat su bentu
e nd’essit una boghe chi nariat:
«e cantu so cuntentu
d’esser in sepoltura!
Inoghe non connosco s’amargura.
Benit s’amante mia donzi die
pregande fervorosa,
e chin piantu lastimende a mie,
e bido chi amorosa
sa viola coltivat
bagnèndela de piantu pro chi vivat.
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[Viole. A te che dei fiori sei amante / regalo queste viole; / son modeste, di un odore penetrante, / incantano e consolano; /prendi, abbine cura, / sono nate in un luogo di tristezza. // Son
viole bagnate dal pianto / di un’amante amorosa, / per te le ho colte in camposanto / ai piedi di
una tomba, / dove sta sepolto / uno che è morto per avere troppo amato. // E mentre questa mano le coglieva, / le agita il vento / ed esce una voce che diceva: «quanto son contento / di stare
nella tomba! Qui non conosco amarezza. // Viene ogni giorno la mia amante / pregando fervorosa, / e rimpiangendo la mia scomparsa, / e vedo che con amore / la viola coltiva / bagnandola
di pianto perché viva. // Mai ho goduto un tale godimento / ed il cuore lo brama; / piange l’a-
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Gudidu tale gosu no appo mai
e i su coro lu bramat;
pianghet s’amante pius fidele, e gai
so siguru chi m’amat,
e in mesu a tantu amore
non connosco in sa tumba itt’est dolore.
Goddi, gódditi puru sas violas
e dalas a Luchia,
isco chi t’amat, e aman issas solas
s’amante tua e i sa mia,
atter supra sa terra
amore tantu in pettu no nd’isserrat».
Gasie mi narzesit, e in cuss’ora
so restadu confusu.
Credia ch’esseret faeddadu ancora
ma non faeddesit piusu,
e solu so restadu
chin sos fiores chi t’appo presentadu.
Cunsèrvalos, ti prego, custos fiores,
nd’ischis sa dipendenzia,
ischis chi in nd’unu logu de dolores
àn áppidu esistenzia,
e chi fin coltivados
dae coros chi affettuosos sun istados.
Tènelos caros, ja chi m’amas tantu,
e in cuddu estremu die
chi benner des bestida ’e brunu mantu
pro accumpagnare a mie,
non ti des olvidare
chi eo puru so mortu pro t’amare.
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mate più fedele, e così / son sicuro che m’ama, / e tra tanto amore / non so, nella tomba, cosa
significhi il dolore. // Cogli, cogli pure le viole / e dalle a Lucia, / so che t’ama, e solo loro amano / la tua e la mia amante, / non altri sulla terra / racchiudono tanto amore in petto». // Così
mi disse, e al momento / rimasi confuso. / Credevo che parlasse ancora / ma non parlò più, / e
solo son rimasto / con i fiori che t’ho regalato. // Conservali, ti prego, questi fiori / conosci la
loro provenienza, / sai che in un luogo di dolori / hanno avuto esistenza, / e che erano coltivati /
da cuori che affettuosi sono stati. // Tienili per cari, ché m’ami tanto, / e in quell’estremo giorno / in cui verrai vestita di uno scuro manto / per accompagnare me, / non dimenticherai / che
anch’io son morto per amarti. // E ricordandoti, in quel momento, / questi tristi fiori / dei quali
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XIV. Prinzipios de amore
Da Néulas
E torréndeti in s’ora a sa memoria
custos tristos fiores
de sos cales intesu nd’às s’istoria,
frenende sos dolores,
pensare des chi bramo
sos fiores deo puru, dae sa ch’amo.
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XIV
Prinzipios de amore
Dialogu tra omine e femina
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Omine
E a pedes de sa tumba luttuosa
tue puru des piantare
violas, amarantu, lizu e rosa;
e los des poi bagnare
de piantu amorosu
chi dulze mi den render su riposu.
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Intreghemus sos coros a s’amore
pro chi paris los pottat collocare.
Si tue ses columba in m’istimare
mústrami de s’affettu su fervore.
[1]
[2]
[3]
[4]
Femina
Ah! cando tue des benner affliggida
e pro mene lajmende,
in sa tumba app’a viver noa vida;
e a tie faeddende
app’a narrer: «sa losa
no est beru ch’est tantu dolorosa!»
70
hai appreso la storia, / frenando i dolori, / penserai che bramo / anch’io i fiori, da colei che amo. //
E ai piedi della tomba luttuosa / anche tu pianterai / viole, amaranti, gigli e rose; / e li bagnerai / con pianto amoroso / che dolce mi renderebbero il riposo. // Ah! Quando tu verrai afflitta /
e lacrimante per me, / nella tomba vivrò nuova vita; / e con te parlando / dirò: «la tomba / non
è poi vero che è tanto dolorosa!»]
Mustrare deo ti deppo veru affettu,
bastet chi fagas tue átter’e tantu;
e tantu amore des lograre, cantu
nde podet inserrare umanu pettu.
Chin tegus, bene meu, appo s’isettu,
tue ses su ch’istimo solitantu,
pro cussu no mi cáuses piantu
chin cherrer de s’affettu dubitare.
5
Omine
Cantu sun differentes, bella mia,
sas paráulas tuas consolantes,
dae sos fattos troppu variantes
chi fatta mi l’àn perder s’allegria,
déndemi sa pius dura tribulia
chi pottan tollerare sos amantes;
però, si sas paráulas sun costantes,
si det su coro meu consolare.
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[Principi d’amore. Affidiamo i cuori all’amore / perché li possa mettere insieme. / Se tu, colomba, sei in procinto di amarmi / dimostrami dell’affetto il fervore. // Devo io dimostrarti vero affetto, / a patto che tu faccia altrettanto; / e tanto amore ne otterresti, quanto / ne possa contenere umano petto. / In te, o mio bene, ho riposto la mia speranza, / te soltanto amo, / per ciò
non causarmi pianto / col voler dubitare del mio affetto. // Quanto sono differenti, bella mia, /
le tue parole consolanti, / dalle azioni troppo incostanti / che m’hanno fatto perdere l’allegria, /
dandomi la più dura tribolazione / che gli amanti possano tollerare; / però, se saranno costanti
le tue parole, / il mio cuore si consolerebbe. // Non riesco a capire il lamento / che tu rivolgi al-
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XIV. Prinzipios de amore
Da Néulas
Femina
Cumprender no lu potto su lamentu
chi tue faghes de sos fattos mios,
no los appo pensados ne ischios
sos fattos chi ti ponen in turmentu,
causare ti solen patimentu
privéndeti de tottu cuddos brios,
però, nadu t’aio «adiu adios»
si in gustu non mi fit de t’istimare.
Omine
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Omine
Persuáditi, cándidu zarminu,
chi feridas mi cáusas in coro,
ca tue, sende chi tantu t’adoro,
mi bides e mi cambias caminu
pro chi privu m’incontre, miserinu,
de bider tantu amabile tesoro
e, sende chi de tene m’innamoro,
galu ses a mi poder faeddare.
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E si fagher lu dia pro iscusa,
tue, non mi devias cumpatire?
In sos prinzipios, ja podes ischire
chi sa birgonza mi rendet confusa,
e senza chi lu mérite, m’accusas
chi indifferente ti faga suffrire.
Sa birgonza det benne’ a isparire,
e demus cantu cheres faeddare.
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Omine
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le mie azioni, / né le ho pensate è né le conosco / le azioni che ti danno tormento, / che ti causano patimento / privandoti di tutti quei brî, / però, t’avrei detto «addio, addio» / se non avessi gradito l’amarti. // Persuaditi, candido gelsomino, / che ferite mi arrechi al cuore, / perché
tu, mentre tanto t’adoro, / mi vedi e cambi strada / di modo che mi ritrovi privato, o me infelice, / della vista di tanto amabile tesoro / e, mentre di te m’innamoro, / non ancora m’hai rivolto la parola. // Quando non si presenta l’occasione, / del tutto vano è il voler parlare; / tu credi
che il mio cuore sia tiranno, / eppure lo trapassa una spada, / dacché la tua vista è stata per me /
una freccia che punge senza sosta, / una freccia di un amore che è umano, / sebbene tu non voglia rendertene conto. // Le occasioni non mancano mai / quando si ha il piacere di parlare, /
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Femina
Femina
Cando s’occasione no si dada,
su cherrer faeddare est tottu invanu;
su coro meu lu credes tiranu,
eppuru lu trapassat un’ispada,
pro chi sa vista tua m’est istada
una frizza chi punghet fittianu,
una frizza de amore chi est umanu,
mancari non bi cherzas calculare.
Occasiones non de mancat mai
cando su faeddare est in aggradu,
ca dae cando t’appo dimandadu,
occasiones tentu nd’às assai;
ma tue, siat de goi, siat de gai,
un’istrobbu l’accattas preparadu,
e nas chi non t’ammentas su costadu
pro ti cherrer chin megus iscusare.
Como m’às consoladu, m’às battidu
a su coro una mássima allegria,
leadu mi nd’às tue s’agunia
chi su coro m’aiat abbattidu.
Como l’às de delizias arrichidu
nende tales paráulas ebbia;
cunsèrvati amorosa, anzona mia,
comente deo mi appo a cunservare.
60
perché da quando mi son dichiarato, / di occasioni ne abbiamo avute assai; / ma tu, in un modo o nell’altro, / hai sempre pronto un qualche intoppo, / e affermi che non ricordi l’accaduto /
per volerti scusare con me. // E se pure lo dicessi come scusa, / tu, non dovresti forse capirmi? /
Ben puoi sapere che al principio / la vergogna mi rende confusa, / e senza che io lo meriti, m’accusi / che con indifferenza io ti faccia soffrire. / La vergogna verrà a sparire, / e parleremo allora quanto lo desideri. // Ora m’hai consolato, m’hai recato / al cuore una massima allegria, /
m’hai levato l’agonia / che m’aveva abbattuto il cuore. / Ora l’hai di delizie reso ricco / dicendo soltanto tali parole; / conserva il tuo amore, agnello mio, / così come io lo conserverò. // Se
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XV. Vanas presunziones
Da Néulas
Femina
Si fidele cunservas sa promissa,
comente la cunservo deo donz’ora,
des tenner un’amada, chi ti adorat
chin amorosidade semperfissa.
In amore des bider si so issa
o si mi appo a mustrare traitora,
pro te depp’esser cudda incantadora
chi ti det in sas penas sullevare.
XV
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Vanas presunziones
A Marianna Iule Tepeté
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Itte servit sa ficcanzia
in d’un’amore siccadu?
Non det esser rinnovadu,
non nde tenzas isperanzia…
Omine
Non sunu sos vulcanos tantu ardentes
cantu est ardente pro tene s’amore,
Flora no amat tantu sos fiores
cantu deo t’adoro immensamente.
A tie dono tottu, e coro, e mente,
a tie de s’affettu do s’ardore,
e crede, nos det ponne in bonumore
cust’amore chi eternu det durare.
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Intreghemus sos coros a s’amore
pro chi paris los pottat collocare.
[1]
[2]
75
sarai fedele alle tue promesse, / così come io lo sono costantemente, / possederai un’amata, che
ti adora / con costante sentimento d’amore. / In amore vedrai se sarò tale / o se mi mostrerò traditrice, / per te sarò quella incantatrice / che ti allevierà dalle pene. // Non sono i vulcani tanto ardenti / quanto per te è ardente l’amore, / Flora non ama tanto i fiori / quanto io t’adoro immensamente. / A te dono tutto, cuore e mente, / a te do l’ardore dell’affetto, / credimi, ci metterebbe di buonumore / quest’amore che in eterno dovrà durare. // Affidiamo i cuori all’amore /
perché li possa mettere insieme.]
Itte servit chi t’attristes,
chi ti mustres affliggida,
chi cherzas perder sa vida
chi t’affannes e ti pistes?
Chi corruttosa ti nd’istes
pro s’anzena noncuranzia
e piangas s’incostanzia
de un’amore isvanessidu?
in su coro chi às perdidu
itte servit sa ficcanzia?
[1]
[2]
[3]
[4]
5
[1]
Lassa sas maccas ideas,
atteru amore ti busca,
ca est invanu si nuscas
in propriedades meas;
de mi cumbincher non creas
chin su fagher affannadu.
Si t’appo innantis amadu,
como ses abbandonada;
non crettas d’áer intrada
in d’un’amore siccadu.
10
[2]
Si los cheres osservare
tottu sos mios cunsizos,
20
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[Vane pretese. A che serve la speranza / in un amore seccato? / Non potrà rinnovarsi, / non averne speranza… // A che serve che t’attristi, / che ti mostri afflitta, / che voglia perdere la vita / che
ti affanni e ti maltratti? / Che lamentosa tu rimanga / per l’altrui noncuranza / e pianga l’incostanza / di un amore svanito? / Nel cuore che hai perduto / a che serve la speranza? // Lassa le pazze idee, / procurati un altro amore, / poiché fai cosa vana se metti il naso / nelle mie proprietà; /
non credere di convincermi / col tuo fare affannoso. / Se prima t’ho amato, / ora sei abbandonata; / non credere d’avere accesso / in un amore seccato. // Se vuoi osservare / tutti i miei consigli, /
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209
XVI. Rimembranzia
Da Néulas
lassa istare sos fastizos
e pensa ’e t’arranzare;
si podes coro buscare
in cale si siat istadu,
non ti servat de isfadu,
ia chi gai l’às cherfidu;
tantu s’amore perdidu
non det essere rinnovadu.
Bides, ses abbandonada
dae me, chi t’amaia;
solitaria in tribulia
ti restas e attristada;
ma, pro esser consolada
abbandona tale usanzia;
non sigas in s’arroganzia
de narrer chi eo so tou,
ca de mi tenner de nou
non nde tenzas isperanzia.
XVI
Rimembranzia
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lascia stare i fastidi / e pensa ad arrangiarti; / se puoi ottenere un qualche cuore / in qualsiasi stato esso sia, / non ti sia di fastidio, / dal momento che così l’hai voluto; / è inutile: l’amore perduto / non potrà rinnovarsi. // Vedi, sei abbandonata / da me, che ti amavo; / solitaria in tribolazione / rimani ed intristita; / ma, affinché tu venga consolata / abbandona tale usanza; / non persistere nell’arroganza / di affermare che io son tuo, / perché: di riavermi / non averne speranza.]
Cando m’ ’enit a sa mente
su ridente
aspettu tou largos rios,
in sos ojos, de piantu,
bundan tantu
chi nde bagno sos pês mios.
In s’istanzia solu solu
a disconsolu
sempre afflittu pianghende,
chin sa bella gioventude
sa salude
troppu prestu ruinende.
Mi figuro sos amores
che fiores
chi a su benner de s’istiu
cuddas fozas coloridas,
appassidas
chinan mortas, senza briu.
Penso semper a sos momentos
chi cuntentos
in sos campos fioridos,
a sos rajos de sa luna,
pro fortuna,
girabamus senza bidos;
e mi abbizo chi passados
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[Rimembranza. Quando mi viene in mente / il ridente / tuo aspetto, larghi fiumi, / negli occhi,
di pianto, / abbondano tanto / da bagnare i piedi miei. // Nella stanza solo solo / privo di consolazione / piangendo sempre afflitto, con la bella gioventù / la salute / troppo presto distruggendo. // Mi figuro gli amori / quali fiori / che col giunger dell’estate / quelle foglie colorate / appassite / chinan morte, senza brio. // Penso sempre a quei momenti / in cui contenti / nei campi
fioriti / sotto i raggi della luna, / per fortuna, / giravamo non visti; // e mi accorgo che passate /
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XVI. Rimembranzia
Da Néulas
sos biados
gosos nostros sun che bentu,
e chi como, pro consolu,
restat solu
custu isquállidu apposentu.
Però, míseru! itte miro
cando giro
s’oju meu isconsoladu?
Bido e ammiro in cussu muru
tristu e iscuru,
su retrattu tou appiccadu!
Lu cuntemplo a fine a fine,
e de omine
pius non tenzo su coraggiu.
Riverente m’inbenujo,
e mi brujo
de amore che unu paggiu.
Sas massiddas incarnadas,
delicadas,
assimizan a duas rosas;
e i sa laras corallinas,
tantu finas,
paren de ’asos disizosas.
Forman issas unu risu
’e paradisu
chi incadenat onzi coro;
e in su rier tantu est bella,
chi un’istella
paret fatta tottu d’oro.
In sos ojos amorosos,
piedosos,
paret bolet sempre amore,
pro chi lighet e bolande
issu abbrandet
de onzi coro su rigore.
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le beate / gioie nostre sono come vento, / e che ora, per consolazione, / resta solo / questa squallida stanza. // Però, misero! Cosa guardo / quando ruoto / il mio occhio sconsolato? / Vedo e ammiro su quel muro / triste e scuro, / il ritratto tuo appeso! // Lo contemplo attentamente, / e di
uomo / più non ho il coraggio. / Riverente m’inginocchio, / ed ardo / d’amore come un paggio. //
Le guance incarnate, / delicate, / assomigliano a due rose; / e le labbra coralline, / tanto fini, /
sembrano desiderose di baci. // Esse danno forma ad un riso / di paradiso / che incatena ogni cuore; / e nel ridere tanto è bella, / come una stella / pare fatta tutta d’oro. // Negli occhi amorosi, /
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Cudda fronte alabastrina,
che reina
coronada est de ghirlandas
bellas, brundas, lugorosas,
preziosas,
chi de mirra odore mandan.
E i sas melas de su sinu
chi continu
tottus solen disizare,
in passiones m’àna postu,
e dispostu
m’àn su coro a suspirare.
Ma sas formas delicadas,
retrattadas,
sun non veras che unu die,
cando impare divertende
e abbrazzende
istabamus, rie rie.
Dolorosu est custu ammentu
chi turmentu
battit solu a custu coro;
ca no si nde dat dolore
pius mazore
pro su cale mi addoloro.
Tue, ingrata e cori dura,
chin tristura
mi às lassadu ispasimare,
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pietosi, / pare voli sempre amore, / perché leghi e volando / lui plachi / di ogni cuore il rigore. //
Quella fronte alabastrina, / come regina / è incoronata di ghirlande / belle, bionde, lucenti, / preziose, / che di mirra odore mandano. // E le mele del seno / che continuamente / tutti sogliono desiderare, / m’hanno indotto alla passione, / e disposto / m’hanno il cuore a sospirare. // Ma le forme delicate, / ritratte, / non sono vere come una volta, / quando insieme ci divertivamo / e ci abbracciavamo / ridendo. // Doloroso è questo ricordo / che tormento / da soltanto a questo cuore; /
ché non esiste dolore / più grande / di quello per il quale mi addoloro. // Tu, ingrata e dura di cuore, /
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XVI. Rimembranzia
Da Néulas
ca de me chi tantu affettu
serrao in pettu
ti ses chérfida olvidare.
Sì, tue mi às postu in olvidu
e battidu
mi às a penas sas pius duras
e i como, non cuntenta,
m’aumentas
sos dolores, sas marguras!
Ma t’ammenta chi t’amesi,
e t’adoresi
che di esseras una dea;
ca fidele so istadu,
maltrattadu
m’ ’ido como, e in pelea,
sì, de tottu tue olvidada,
ses istada
traitora e ispergiura!
Ma si duras calchi istante
su tou amante
bider des in sepoltura.
Ma si passas in sa terra
sa ch’inserrat
custu coro trapassadu,
ti det narrer: «e itte chircas?
Mortificas
Como puru su meu istadu?
No mi turbes su riposu,
ja chi gosu
mai m’às chérfidu donare!
Non t’accurzies! Bessi fora,
traitora
non ses digna de b’istare!!»
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giacché godimento / non mi hai mai voluto donare! / Non avvicinarti! Vai via, / traditrice / non
sei degna di star qui!!»]
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con tristezza / m’hai lasciato spasimare, / perché di me che tanto affetto / tenevo chiuso in petto /
ti sei voluta dimenticare. // Sì, tu mai messo nel dimenticatoio / e condotto / m’hai alle più dure
pene / ed ora, non contenta, / aumenti / i miei dolori, le mie amarezze! // Ma ricordati che ti amai, /
e ti adorai / come se tu fossi una dea; / poiché fedele son stato, / maltrattato / mi vedo ora, ed in affanno, // sì, totalmente dimentica, / sei stata / traditrice e spergiura! / Ma se vivi ancora un poco /
il tuo amante / vedrai nella tomba. // Ma se passi sulla terra / che copre / questo cuore trapassato, /
ti direbbe: «cosa cerchi? / Mortifichi / ora anche la mia condizione? // Non turbarmi il riposo, /
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XVII. A Luchia C….
Da Néulas
Itte siat affettu,
itte siat amare verdaderu,
ahi! l’ischit custu pettu
chi s’incontrat pro tene in disisperu
ca tue ses s’isettu,
s’isettu pius amábile e sinzeru,
chi pottat in su mundu
render su coro plácidu e giocundu.
XVII
A Luchia C….
Amábile Luchia,
luntana t’istas dae sos ojos mios;
fattu appo sa partia
senza ti poder narrer mancu adios;
privadu de allegria,
bundende sun sa lajmas a rios,
pro ch’istat luntana
dae me s’ermosura pius galana.
Non di’ áer pensadu mai
chi tantu dura esserat luntananzia,
chi causadu guai
m’esserat custa sola circustanzia;
ma mi abbizo chi assai
t’amat su coro meu chin costanzia,
si gai non fit istadu,
zertu non di’ esser tantu addoloradu.
Eppuru su dolore
est tantu forte, amábile tesoro,
chi un’ora ’e bonumore
incontrare non podet custu coro,
lu turmentat amore,
e lu turmentas tue chi tantu adoro,
e non podet pasare
si non s’istruit in duru lajmare!
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[A Lucia C…. Amabile Lucia, / lontana te ne stai dagli occhi miei; / son partito / senza nemmeno poterti dire addio; / privo d’allegria, / a fiumi abbondano le lacrime, / poiché è lontana /
da me la bellezza più graziosa. // Non avrei mai pensato / che tanto dura fosse la lontananza, /
che causasse tanta disgrazia / questa sola circostanza; / ma mi accorgo che assai / t’ama il mio
cuore con costanza, / se così non fosse stato, / di certo non sarebbe tanto addolorato. // Eppure
il dolore / è tanto forte, amabile tesoro, / che un’ora di buonumore / non può avere questo cuore, / lo tormenta amore, / e lo tormenti tu che tanto adoro, / e non può riposare / se non si distrugge nel duro lacrimare! // Cosa sia l’affetto, / cosa sia l’autentico amare, / ahi! lo sa questo
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Riende mi cumparis
quasi donzi sero in bisione,
apperzo s’oju e isparis,
e m’abbizo ch’est tottu illusione;
sogno chi semus paris,
e assai nd’est luntana sa pessone
chi sognat custa mente,
ma chi est a ojos mios ausente.
Sa fortuna est chi prestu
a Núoro app’a fagher sa torrada;
si no, cantu funestu
diat esser su non t’áer, prenda amada!
Non bider su modestu
aspettu tuo, columba delicada,
diat esser tristura
chi cancellat sa sola sepoltura.
In Sárdara unu visu
non b’àt ch’egualet su ’e s’amante mia;
mancuna, chin su risu,
che a tie mi consolat, o Luchia!
Pro cussu so dezzisu
de mi privare tanta tribulia,
faghende sa partida
a ue est coro meu e mea vida,
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petto / che si trova per te nella disperazione / perché tu sei l’attesa, / l’attesa più amabile e sincera, / che possa al mondo / rendere il cuore placido e giocondo. // Ridendo mi appari / in sogno quasi ogni sera, / apro gli occhi e scompari, / e m’accorgo che è tutta un’illusione; / sogno
che stiamo insieme, / ed è assai lontana la persona / che sogna questa mente, / infatti è dai miei
occhi assente. // Per fortuna presto / a Nuoro tornerò; / quanto funesto, altrimenti, / sarà il non
averti, amato pegno. / Il non vedere il modesto / tuo aspetto, fragile colomba, / darebbe una tristezza / che solo la tomba cancella. // A Sardara un viso / non c’è che eguagli quello della mia
amante; / non una, col sorriso, / come te mi consola, o Lucia! / Per ciò ho deciso / di privarmi
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XVIII. A Maria Wagner
Da Néulas
sì, a inue ses tue
solamente, columba, est su disizu;
ca cando so inue
ses tue, non de tenzo pius fastizu,
ses sole senza nue,
ses pius bianca d’unu biancu lizu,
e ti desizo invanu
ca m’incontro dae te troppu lontanu.
Como, nárami, e chie
m’assigurat chi tue ses dolente
pro non bider a mie,
comente lu so deo chi presente
non t’appo biancu nie
e semper ti piango amaramente?
Ah, chi si tue ses gai
affliggida, m’istimas zertu assai,
ma non tenzas paura,
chi prestu det torrare cuddu amante,
a bider s’ermosura
de una lughente istella pius brillante!
Ma deh! non sias dura
a custu coro meu chi t’est costante,
e finas a sa tumba
restat amante, cándida columba!
XVIII
A Maria Wagner
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dalle poesie volanti di Aleardo Aleardi
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E custu numen, m’andat a su coro
pro una morta, chi ancoras adoro.
Si jamabat Maria
un’ánghelu chi fit sa mama mia!
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Che fiore chi non s’ ’idet dae sa zente
ma ch’isparghet s’odore suavemente,
tue, fior’ ’e cortesia,
sos tuos profumos mandas, o Maria.
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Póveru presoneri, no appo nudda
d’imbiáreti, o gentile, si non cudda
pòvera mea armonia
Chi tuccat como in chirca de Maria.
Sardara 25 giugno 1889
di tanta tribolazione, / partendo / verso dove sta il mio cuore e la mia vita, // sì, verso dove stai
tu / solamente, colomba, è rivolto il mio desiderio; / perché quando sto là / dove sei tu, non ho
più noie, / sei sole senza nuvola, / sei più bianca di un bianco giglio, / ed invano ti desidero /
perché mi trovo da te troppo distante. // Ora, dimmi, chi mai / m’assicura che tu provi dolore /
per il non vedermi, / così come lo provo io che di persona / non ti ho, bianca neve / e sempre
piango amaramente? / Ah, se tu sei così / afflitta, mi ami di certo assai, // ma non aver paura, /
ché presto tornerà quell’amante, / per vedere la bellezza / più brillante di una stella lucente! /
Ma deh! Non essere dura / verso questo cuore mio che ti ama con costanza, / e persino nella
tomba / conserva l’amore, candida colomba!]
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Non t’appo ’idu mai, ne forsis mai
deo t’app’a bider. Chi ses bella assai,
chi ses zòvana e pia
isco, e chi a numen ti naran Maria.
Ma pro áer a sa Musa deo juradu
chi non di’ áer inoghe cantadu,
si las ’ides in sa via,
chi cantesi non nerzas, o Maria!
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[ALEARDI, A Maria Wagner. Io non ti vidi mai, né forse mai / in terra ti vedrò. So che sei bella, /
che sei giovine e pia, / so che rispondi al nome di Maria. // E questo nome mi va dritto al core /
per una morta che tuttora adoro; / chiamavasi Maria / anche quell’angiol de la madre mia. // Come incognito fior che non si vede / ma si sente olezzar / söavemente / tu, fior di cortesia / mandi i profumi in sino a noi, Maria. // Povero prigioniero, io non ò nulla / da inviarti, o gentil, tranne quet’una / fuggevole armonia / che passa il muro in cerca di Maria. // Ma siccome ò giurato a
la mia Musa / di non cantar fuor dell’Italia mai, / se la incontri per via, / non le dir ch’io cantai,
bella Maria.]
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XIX. Juramentu
Da Néulas
occupada tenia
sa mente dae sas penas affliggida,
m’apparit una Dea,
in s’Olimpu naschia,
chi felice m’àt rendidu sa vida,
e i custa Dea diletta
fis tue, chi torradu m’às poetta.
XIX
Juramentu
Cando su primu amore
mustradu s’est cuntrariu
a sos disignos mios pius costantes,
chin acerbu dolore,
in s’ora necessariu
a sos martirios pius istraziantes,
fattesi juramentu
de non dare a su coro pius cuntentu.
Sonesin sos vint’annos,
e cumandu m’àn dadu
d’abbandonare su logu natiu,
in ue sos affannos
m’àn tantu dissipadu,
chi a estremos de sa morte m’àn battiu,
e tantu mi àn afflittu
ch’appo su logu meu maledittu.
Appenas cuss’intima
app’áppidu presente,
su juramentu fattu cunfirmesi;
de non tenner istima
mancu a sa patria gente
in su coro dolente istabilesi,
e in tottu appo resortu
de non torrare pius a sardu portu.
Mentras in custa idea
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E in tegus mirende
cudda chi solamente
sanare diat poder custu coro,
su passadu olvidende,
ecco firmo in sa mente
de torrare prestíssimu a Nuoro,
su fattu juramentu
affidende a sas alas de su bentu.
Tenia s’isperanzia
in tegus, Venus mia,
cunfidente in sa tua bonidade;
ma custa cunfidanzia,
in tottu est isvania,
ca tue no às tentu piedade
de su coro meschinu,
chi tantu forte abbattit su destinu.
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[Giuramento. Quando il primo amore / mostrato s’è contrario / ai miei più decisi disegni / con
acerbo dolore, / al momento necessario / ai più strazianti martirî, / feci giuramento / di non dare mai più al cuore contentezza. // Suonarono i vent’anni, / e mi comandarono / d’abbandonare il
luogo natio, / dove gli affanni / m’hanno dissipato, / tanto che prossimo alla morte m’han condotto, / e tanto m’hanno afflitto / che ho il mio paese maledetto. // Appena quel comando / mi
giunse, / il giuramento già fatto confermai; / di non provare più amore / neppure alla patria gente / nel cuore dolente stabilii, / totalmente fui risoluto / a non tornare mai più in sardo porto. //
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Torradu m’às sa musa,
sa chi aiat privada
cust’ánima meschina de onzi isfogu.
In sas primas confusa,
tando, in tottu ischidada,
in pettus m’àt azzesu nou fogu
pro alavare a tie,
rosa cándida e frisca pius de nie.
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Mentre in questa idea / avevo occupata / la mente dalle pene afflitta, / m’appare una Dea / nell’Olimpo nata, / che felice m’ha reso la vita, / e questa Dea diletta / eri tu, che m’hai restituito
poeta. // M’hai restituito la musa, / quella che aveva privato / d’ogni sfogo quest’anima meschina. / Dapprima confusa, / poi, del tutto svegliatasi, / m’ha acceso in petto nuovo fuoco / per
lodare te, / candida rosa più che neve fresca. // E vedendo in te / quella che solamente / potrebbe guarire questo cuore, / dimenticando il passato, / ecco che penso costantemente / di tornare
prestissimo a Nuoro, / affidando il giuramento fatto / alle ali del vento. // Riponevo la speranza / in te, mia Venere, / confidando nella tua bontà; / ma tale confidare, / è del tutto svanito, /
ché tu non hai avuto pietà / del cuore meschino, / che tanto forte abbate il destino. // Mi dici
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XIX. Juramentu
Da Néulas
Chi mi amas mi lu naras,
ma no mi das promissa
de benner unu die tottu mia;
sas dies sun amaras
pro cussu e semper fissa
mantenen in su coro s’agunia
chi prestu det finire
chin sa vida, sas penas, su patire.
Sun bellas sas ideas
chi tue mi presentas,
cunsizéndemi solu a isperare;
però no mi recreas,
anzis mi discuntentas
lasséndemi gosie passionare,
ca, senz’esser siguru,
su penare si rendet pius duru.
Non nerzas chi esperienzia
mi mancat chin edade,
ca custu pensamentu non permitto
ma mezus, chin cussenzia,
sa propria voluntade
chi est líbera mi nara, e ti l’amitto
e i su propriu t’amo,
però sigura una risposta bramo.
Si comente disizo
sa tua risposta est tale
chi sullevare pottat custu coro,
mi affanno e mi fastizo
custu corpus mortale,
pro te chi tantu istimo e tantu adoro
e pustis sos chimb’annos
dae te fissados, cessan sos affannos.
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che m’ami / ma non mi prometti / che diverrai un giorno tutta mia; / le giornate sono amare /
per questo e inalterata / conservano nel cuore l’agonia / che dovrà presto finire / con la vita, le
pene, il patire. // Son certo belle le idee / che tu mi presenti, / consigliandomi soltanto di sperare; / però non mi conforti, / anzi mi dai scontento / lasciandomi così in passione, / perché,
quando non si hanno certezze, / la pena diventa più dura. // Non dire che manco d’esperienza /
e che sono troppo giovane, / poiché non ammetto simili argomenti, / ma meglio, in coscienza, /
la tua esatta volontà, / la quale è libera, comunicami, ammetti / e t’amo anche così, / ma una
risposta sicura desidero comunque. // Come la desidero / sarà la tua risposta, tale / da poter sollevare questo cuore, / do affanno e fastidio / a questo mio corpo mortale, / per te che tanto amo
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Ma pro no esser certa,
pro istare dubbiosa,
mezus nárami no addirittura;
e gai mi est apperta
cudda via iscabrosa,
chi forsis mi det ponne in sepoltura
ma chi est su refrigeriu
a donzi affannu meu su pius seriu.
Luntanu dae sa terra
inue so naschidu,
su restu ’e custa vida app’a colare.
Sempre in contina gherra,
dolente e affligidu,
pensende a su passadu deppo istare
appende pro cunsorte
sos fruttos de sa mia mala sorte.
Mancari in luntananzia
non ti credas peroe
chi olvide custas dies preziosas;
ma sempre in sa costanzia
amendeti che öe
ti manifesto ideas amorosas,
chi deppo cunservare
finzas chi custa vida app’a lassare.
Ses tue cuddu oggettu
chi deo intro ’e su coro
app’a cherrer pro semper imprimire!
Pro te sola s’affettu
mantenzo, e solu adoro
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e tanto adoro / e dopo i cinque anno / da te fissati, cesseranno gli affanni. // Ma piuttosto che
non essere sicura, / piuttosto che essere dubbiosa, / meglio dimmi persino “no”; / e così mi verrà
aperta / quella via scabrosa, / che forse mi porterà alla tomba / ma che sarà pure il refrigerio /
ad ogni mio più serio affanno. // Lontano dalla terra / dove sono nato, / passerò il resto di questa vita. / Sempre in guerra continua, / dolorante ed afflitto, / ripensando al passato dovrò vivere / avendo per consorte / i frutti della mia malasorte. // Sebbene sei lontana / non credere
però / che io dimentichi questi giorni preziosi; / ma sempre e con costanza / ti manifesto idee
amorose, / che devo conservare / fino a quando lascerò questa vita. // Sei tu quell’oggetto / che
io dentro il cuore / vorrò imprimere per sempre! / L’affetto per te sola / mantengo, e solo te
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XX. Abbandonu
Da Néulas
a tie chi non podes impedire
chi, a su mancu in idea,
ti repute sa sola vida mea!
XX
Abbandonu
adoro / che non puoi impedire / che almeno con l’idea / ti reputi la sola vita mia!]
Invanu est chi ti cherzas tribulare
pensende de commover custu coro;
si ti appo amadu, como non t’adoro,
pro me pius nemmancu a bi pensare.
Non de faco perunu pensamentu,
non de sento in su coro piedade,
ca non ses digna de tenner cuntentu
si non sa pius indigna crudeltade;
sos ahis chi ti servin de appentu
no los curat su coro indifferente,
innantis dae tottus ausente
che ti cherrer sos dolos abblandare.
Allargu dae mene sos carignos
avvelenados de su fagher tou,
mancari tue nde ponzas de impignos
no lu balanzas su coro de nou;
crédemi puru chi non sunu dignos
sos ojos de ti dare una mirada,
rèstadi puru afflitta e attristada
ne alzes pius oju a mi mirare.
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Non cherzo pius burdellos in s’ereu
bastantemente bi nd’às causadu,
como cherzo chi b’intret su recreu
[Abbandono. Vano è che tu ti voglia tribolare / pensando di commuovere questo cuore; / se
t’ho amata, ora non t’adoro, / non più mi tocchi neppure il pensiero. // Non mi do più alcune
pensiero, / pietà più non provo nel cuore, / perché non sei degna di ottenere contentezza, / ma
piuttosto la più indegna crudeltà; / quegli “ahi” coi quali ti trastulli / non li considera il cuore
indifferente, / fra tutti il primo ad esimersi / dal volerti i dolori calmare. // Via da me le carezze / avvelenate del tuo fare, / anche impegnandotici troppo / non conquisti nuovamente il mio
cuore; / credimi che neppure son degni / gli occhi miei di rivolgerti uno sguardo, / rimani pure afflitta ed intristita / e non alzare più lo sguardo per guardare me. // Non voglio strascichi di
turbamento / fin troppo me ne hai causato, / ora che vi sia il riposo / in quel cuore che era
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XX. Abbandonu
Da Néulas
in su coro chi fit attribuladu!
Pius no l’incontras su favore meu
ca non ses digna de tenner favores,
e in cambiu de tottu sos amores
odiu eternu ti cherzo mustrare.
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Est beru chi de coro t’amaia
cando cara de giusta mi mustrâs,
in sos desizos ti cuntentaia
ma in abusu leadu ti l’às,
como chi t’appo bene connoschia
de ti trattare non mi nde dat coro,
ca chin tegus a mie disonoro,
cosa chi no la cherzo cumproare.
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Atter de te pius sentimentale
det lograre s’amore pius sinzeru,
tenetilu pro legge naturale,
non de tenzas de me pius isperu;
pro chi ti bida in istadu mortale
non ti consolan sas lusingas mias.
Sola sola chin duras angustias
priva de me pro semper des istare.
Como ti lean sos attaccos fortes
mentre prima fis sempre non curante,
como non tenes chie ti cunfortet
e in prima nd’aias abbastante;
como non ti secundat pius sa sorte,
mentras prima cumpagna la tenias,
gai perdes sa frisca pizzinnia,
senza perunu cunfortu lograre.
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T’offendias ca oro no às tentu…
mancari pari esserat su valore,
e áppidu nd’às tale attrivimentu
de narrer chi fit unu disonore;
ma però, in su propriu momentu
pro chi papiru esseret l’às ispesu…
e i su decoro tue l’às offesu
pensende solamente a ti mudare.
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tribolato! / Più non avrai modo d’imbatterti in me favorevole / ché non sei degna d’ottenere favore, / ed in cambio di tutti gli amori / odio eterno ti voglio dimostrare. // È vero che t’amavo
con tutto il cuore / quando mi mostravi il viso benigno, / accontentavo i tuoi desideri / ma ne
hai abusato, / ora che t’ho ben conosciuta / non m’importa di aver rapporti con te, / perché la
tua compagnia mi disonora, / una cosa che non voglio comprovare. // Un’altra con più sentimento di te / otterrà il più sincero amore, / considerala come legge di natura, / non riporre su
di me alcuna speranza; / perché io ti veda in stato mortale / non ti consolano le mie lusinghe. /
Sola sola tra dure angosce / priva di me per sempre vivrai. // Ora ti prendono i forti attacchi /
mentre prima eri sempre noncurante, / ora non hai chi ti conforti / e prima ne avevi abbastanza; / ora non ti seconda più la sorte, / mentre prima l’avevi in tua compagnia, / così perdi la fresca gioventù, / senza ottenere alcun conforto. // Quando hai abbandonato la tua casa, / credevi
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Cando às sa domo tua abbandonada,
credias chi s’amore fit eternu;
pro cussu est chi benias affannada
fidende ind’ unu gosu sempiternu,
e ti ses de me solu interessada
ponende fattu a sos capriccios mios,
però narrer cumbenit como «adios»
a tottu sos delirios de s’amare!…
De pustis ti àt intradu gelosia
e maltrattabas un’átteru oggettu,
e andabas continu addoloria…
timende de ti perder tantu affettu.
In tale modu tottu tue perdias!
Perdias vantu, perdias onore,
perdias de s’amante cuddu amore
chi costante cheriat cunservare!
Pro finis, cuddu oggettu maltrattadu
dae sa limba tua serpentina,
intro ’e su coro si m’est inserradu
de te sola formende sa ruina.
Como mustras su coro piagadu
ma ti servit invanu su lamentu,
65
70
75
che l’amore fosse eterno; / per questo venivi affannata / fidando in un godimento sempiterno, /
e ti sei interessata solo di me / tenendo dietro a tutti i miei capricci, / però ora conviene dire
«addio» / a tutti i deliri dell’amare!… // T’offendevi poiché non avevi ottenuto oro… / sebbene fosse pari di valore, / e hai avuto un tale ardire / di dire che era un disonore; / però, nel medesimo momento, / come fosse carta l’hai speso… / ed hai offeso il decoro / pensando che saresti soltanto cambiata. // Poi t’ha preso la gelosia / e maltrattavi un altro oggetto, / e vagavi di
continuo addolorata… / temendo di perdere tanto affetto. / In tale modo perdevi tutto! / Perdevi il vanto, perdevi onore, / perdevi dell’amante quell’amore / che costante voleva conservare! //
Infine, quell’oggetto maltrattato / dalla tua lingua serpentina, / dentro il cuore mi si è racchiuso /
formando la rovina solo tua. / Ora mostri il cuore piagato / ma invano ti torna utile lamentarti, /
227
XXI. A Maria
Da Néulas
de su soffrire tou so cuntentu,
ne paráula ispendo a t’allegrare.
80
Invanu est chi ti cherzas tribulare.
[1]
XXI
A Maria
del tuo soffrire son contento, / né spendo una parola per rallegrarti. // Vano è che tu ti voglia
tribolare.]
Non tind’ammentas pius, bella Maria,
de cantu promittias tue a mie?
Non ti l’ammentas cuddu santu die
chi tue jurâs e deo juraia?
Ahi, chi cundennadu às a s’olvidu
cudd’amore tra nois cunfirmadu!
Cudd’amore ch’aiat consoladu
su viver meu tristu e affliggidu.
Creïa chi su coro êret finidu
tantas penas e tanta tribulia;
ahi però, chi semper agunia
suffrit su coro meu, e patimentu,
ca tue de su fattu juramentu
non tind’ammentas pius, bella Maria!
Cando penso chi tue, dulze fiore,
mi faeddâs continu appassionada,
una profunda e bárbara lanzada
trapassat custu pettu de amore,
e a forza ’e su bárbaru dolore
morit e torrat frittu cale nie.
Mentras prima m’amâs como m’ucchies?
Pro itte tantu às chérfidu mudare?
Pro itte ti ses chérfida olvidare
de cantu promittias tue a mie?
[1]
[2]
[3]
[4]
5
[1]
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15
[2]
[A Maria. Non ricordi più, bella Maria, / di quanto tu mi promettevi? / Non ricordi più
quel santo giorno / che tu giuravi ed io giuravo? // Ahi, che hai condannato all’oblio / quell’amore tra noi confermato! / Quell’amore che aveva consolato / il viver mio triste ed afflitto. /
Credevo che il cuore avesse esaurito / tante pene e tanta tribolazione; / ahi però, che sempre
agonia / soffre il mio cuore, e patimento, / ché tu il giuramento fatto / non ricordi più, bella
Maria! // Quando penso che tu, dolce fiore, / mi parlavi di continuo appassionata, / un profondo e barbaro colpo di lancia / trapassa questo petto d’amore, / e a forza di barbaro dolore /
muore e ridiventa freddo come neve. / Ora mi uccidi, mentre prima m’amavi? / Perché hai voluto cambiare così tanto? / Perché ti sei voluta dimenticare / di quanto tu mi promettevi? //
228
229
XXII. Ultima pagina
Da Néulas
XXII
Cantas felicidades e cuntentos
fuidos si nde sun tottu in d’un’ora!
Ahi, falsa, incostante e traitora,
cantas penas mi das e patimentos!
Sos suspiros chi dadu appo a sos bentos,
e chi solu mandados fin a tie,
torran in su momentu tottu a mie
a rinnovare in coro su dolore,
ca tue d’allegria e de amore
non ti l’ammentas cuddu santu die.
Pensa però chi s’ánima est afflitta
e chi mai perdonu ti det dare.
Cando des cherrer a ti perdonare
tando de te det fagher sa vinditta.
Tando des suspirare, poveritta!
E piangher des continu addoloria,
esclamende, meschina, in s’agunia:
«est giustu. Deo l’appo meritadu,
ca cuddu santu die appo olvidadu
chi tue jurâs e deo juraia!»
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[3]
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Sos rajos de su sole dissipare
bos den de certu, néulas amadas,
e dezis isparire inosservadas
pro chi un’umbra non b’àt de bos salvare.
Confusas in s’aera caminare
dezis, néulas mias, non curadas;
ma a sas muntagnas chi bos àn formadas
dezis, nessi su sero, retirare.
Inie sa civetta e i s’istria,
pius trista rendende sa natura,
den formare sa östra cumpagnia…
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[4]
Quante felicità e gioie / sono fuggite in un’ora! / Ahi, falsa, incostante e traditrice, / quante pene mi dai e patimenti! / I sospiri che affidato ho ai venti, / e che solo a te erano spediti, / in un
attimo tornano tutti a me / a rinnovare in cuore il dolore, / ché tu non ricordi più quel santo
giorno d’amore e d’allegria. // Pensa, però, che l’anima è afflitta / e che mai perdono ti darà. /
Quando vorrai essere perdonata / allora farà di te la vendetta. / Allora sospirerai: «me poveretta!» / E piangerai di continuo addolorata, / esclamando, meschina, nell’agonia: / «è giusto. Me
lo sono meritato, / perché quel santo giorno ho scordato / che tu giuravi ed io giuravo!»]
230
Ultima pagina
eppuru in mesu de tanta tristura,
dezis bider chin Cam s’ánima mia
chircare a bois in sa notte oscura.
[Ultima pagina. I raggi del sole dissipare / vi dovranno di certo, amate nebbie, / e sparirete inosservate / poiché non vi è ombra che possa salvarvi. // Confuse nell’aria camminerete, / nebbie mie,
non curate; / ma alle montagne che v’hanno formate / dovrete, almeno a sera, ritornare. // Colà la
civetta e il barbagianni, / rendendo più triste la natura, / saranno a voi di compagnia… // eppure
in tanta tristezza, / vedrete con Cam l’anima mia / cercare voi nella notte scura.]
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TESTI SARDI COMPARSI IN RIVISTE
DELL’OTTOCENTO
Da «Vita sarda»
XXIII. Cuntrastu
XXIII
Cuntrastu
Gudíndesi sas umbras, in s’istiu
a murmucchiu cantat su pastore;
muttettan sas sirenas de su riu
mazzocchende sos pannos cun ardore;
faghen sos puzoneddos ciu ciu
issos puru fuende su calore;
cantat onzi mortale postu in briu
e sun sos cantos cántigos d’amore;
ma in s’ierru, cando tottu imbiancat,
si cunvertit in luttu s’alligria,
a su pastore s’ánimu li mancat.
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Sos furiosos bentos, sa iddia,
s’abba, su nie donzi janna tancat
e famen e tristura b’àt ebbia.
Nuoro
[Contrasto. Godendosi l’ombra, in estate / mormorando canta il pastore; / cantano strofette le
sirene al fiume / battendo i panni con ardore; // fanno gli ucellini cip cip / anche loro fuggendo il
caldo; / canta ogni mortale con brio / e sono i canti cantici d’amore; // ma in inverno, quando
tutto s’imbianca, / si converte in lutto l’allegria, / al pastore viene a mancare l’animo. // I venti
furiosi, la gelata, / la pioggia, la neve ogni porta chiude / è rimangono solo fame e tristezza.]
237
XXIV. Malinconia - XXV. A Lia
Testi sardi comparsi in riviste dell’Ottocento: Da «Vita sarda»
XXIV
XXV
Malinconia
A Lia
Batta l’alcaica strofe trepidando l’ali
G. Carducci
Est notte, ma su chelu est istelladu,
pioen sos rajos de sa luna piena…
appassionada mandat Filumena
un innu de amore a su criadu…
ma pro itte duncas frittu e angustiadu
proat su coro meu forte pena?
Ma pro itte ista notte in donzi vena
su sámbene m’iscurret agitadu?
No isco. Ma crudele est s’agunia
chi sempre mi consumit, sa tristura
mi turmentat continu, amada Lia!
Brundos sos pilos, celeste s’oju,
biancas sas manos, sas laras rujas
t’àt dadu s’amante Natura
pro chi m’eres su coro ligadu.
5
E m’às ligadu su coro e i s’ánima
cun sas promissas, cun sas paráulas
chi Amore continu suggerit
a sas caras dilettas amantes.
Su notte tue tendias s’urija
e: «est issu» nabas «itte delizia!»
e manu cun manu battias
a sa janna pressosa currende,
10
Non dormo un’ora sola, appo paura,
ispásimo, frastimo, né allegria
dare mi podet sa tua ermosura!
«Nuoro ’91»
[Malinconia. È notte, ma il cielo è stellato, / piovono i raggi della luna piena… / con passione
manda Filomena / un inno d’amore al creato… // ma perché dunque, freddo e angosciato, / prova il mio cuore forte pena? / Perché questa notte in ogni vena / il sangue mi scorre agitato? //
Non so. Ma crudele è l’agonia / che sempre mi consuma, la tristezza / mi tormenta di continuo,
amata Lia! // Non dormo una sola ora, ho paura, / spasimo, maledico, né allegria / mi può dare
la tua bellezza!]
e: «beni» nabas «beni e abbrázzami,
e de su coro totu sos palpitos
isculta, e cumprende si amore
in su pettus ansante bi regnat».
E deo, de amore in sos delirios,
t’abbrazzaia néndeti: «Gioia!
Comente su coro m’azzendes
cun sos basos e abbrazzos dechidos!»
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Onzi cunfortu, onzi delizia,
onzi consolu mi cunzedíasa,
[Biondi i capelli, celeste l’occhio / bianche le mani, le labbra rosse / t’ha dato l’amante natura /
perché tu mi legassi il cuore. // E m’hai legato il cuore e l’anima / con le promesse, con le parole / che amore continuamente suggerisce / alle amanti care e dilette. // La notte tu tendevi l’orecchio / e: «è lui» dicevi «che delizia!» / e entrambe le mani portavi / verso la porta correndo
ansiosa, // e: «vieni» dicevi «vieni e abbracciami / e del cuore tutti i palpiti / ascolta, e comprendi se amore / vi regna nell’ansante petto». // Ed io tra amorosi deliri / ti abbracciavo dicendoti: «Gioia! / Come m’infiammi il cuore / con baci e abbracci deliziosi!» // Ogni conforto,
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XXVI. A tie, bella durmida!
Testi sardi comparsi in riviste dell’Ottocento: Da «Vita sarda»
e deo, mischinu, creia
chi durerent sos basos eternos!
XXVI
A tie, bella durmida!
Nuoro
ogni delizia, / ogni consolazione mi concedevi, / ed io, poveretto, credevo / che i baci durassero eterni!]
Falan sas trizzas nieddas mesu isoltas
subra su pettus tou palpitante….
Dormi, columba mia, e si ti ’oltas
non timas de niente in custu istante.
Chin sas laras de púrpura iscanzadas,
tue pares riende, gioia mia;
sas cándidas massiddas velluttadas
ti creschen s’ermosura e simpatia,
e dae sas trizzas nieddas profumadas
paret ch’essat sa gioia, s’allegria,
mentras curret s’accesa fantasia
a sognos incumpresos de un’amante.
In su mórbidu e cándidu cuscinu
sa testa delicada tue reposas,
dae su fronte finas a su sinu
ses isparta de lizos e de rosas;
in su pettus, chi pálpitat continu,
apparin, mesu cuadas e preziosas,
duas cándidas melas, tantu ermosas,
chi mi renden su coro agunizante.
Ses felice, dormende in cussu lettu
chi de cuglire tenet sa fortuna
su corpus tou, amábile e perfettu,
de carre delicada appena bruna!
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[A te, bella che dormi! Scendono le trecce semi sciolte / sopra il tuo petto palpitante… / Dormi, mia colomba, e se ti volti, / non temere di nulla in questo istante. // Con le labbra di porpora appena aperte, / pare che tu rida, gioia mia; / le candide guance vellutate / accrescono la
tua bellezza e la tua simpatia, / e dalle nere trecce profumate / pare che esca la gioia, l’allegria, /
mentre corre l’accesa fantasia / nei sogni incompresi di un amante. // Sul morbido e candido cuscino / la testa delicata tu riposi, / dalla fronte fino al seno / sei cosparsa di gigli e di rose; / sul
petto, che palpita di continuo, / appaiono, preziose e semi nascoste, / due candide mele, tanto
belle, / che rendono il mio cuore agonizzante. // Sei felice, dormendo su quel letto / che ha la
fortuna di accogliere / il tuo corpo, amabile e perfetto, / dalla pelle delicata e appena bruna! /
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241
XXVII. Cántigos de su coro
Testi sardi comparsi in riviste dell’Ottocento: Da «Vita sarda»
Eo dormende ti miro e de affettu
paráulas ti mando, a una a una;
tue dormis e illúminat sa luna
su balcone chi mirat su levante!
Su balcone est abbertu e i sos serenos
rajos de sa celeste abitadora
pènetran in s’istanzia, e i sos amenos
trattos tuos carignan e indoran;
sos ojos tuos de sonnu sun pienos,
d’unu sonnu chi s’ánima innamorat!
Si sognas, bella, sogna chie ti adorat
su ch’istat pro tene lagrimante.
Sas laras a sos basos mi cumbidan,
però timo, columba, a t’ischidare.
Si ti basere goi, ’ende durmida,
ti dia forsis su sognu turbare;
dormi duncas, e solu si t’ischidas,
sas laras den sas laras incontrare!
Dormi, dormi, non cherzo disturbare
sos sognos celestiales de un’amante.
XXVII
Cántigos de su coro
I
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2
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Ecco chi a passu a passu mi retiro
e ti lasso sa gioia ’e su reposu;
a su respiru tou, ecco suspiro,
cuntemplende su visu portentosu.
Ti lasso sola, o bella, e pius non miro,
pro custa notte, s’aspettu amorosu!
Bastet a custu coro aguniosu
su t’áer cuntemplada palpitante.
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Dormi, columba bella, e si ti ’oltas
non timas de niente in custu istante!
[3]
[4]
3
4
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Io ti osservo mentre dormi e di affetto / parole ti mando, a una a una; / tu dormi e illumina la luna / la finestra che dà a levante! // La finestra è aperta ed i sereni / raggi della celeste abitatrice /
penetrano nella stanza e gli ameni / lineamenti tuoi accarezzano e indorano; / i tuoi occhi son pieni di sonno, / di un sonno che l’anima fa innamorare! / Se sogni, bella, sogna chi t’adora, / colui
che sta sempre lacrimando per te. // Le labbra a baciarti m’invitano, / però temo, colomba, di svegliarti. / Se ti baciassi così, mentre dormi, / turberei forse il tuo sonno; / dunque dormi, e solo se
ti dovessi svegliare, / le labbra si incontrerebbero! / Dormi, dormi, non voglio disturbare / i celestiali sogni di un amante. // Ecco che passo dopo passo mi ritiro / e ti lascio alla gioia del riposo; /
al tuo respiro, ecco sospiro, / contemplando il viso portentoso. / Ti lascio sola, o bella, e più non
guardo, / per questa notte, l’aspetto amoroso! / Basti a questo cuore in agonia / l’averti contemplata palpitante. // Dormi, mia colomba, e se ti volti, / non temere di nulla in questo istante!]
In mesu ’e sas roccas, una bella violetta àt ispartu sos primos profumos a sos basos giocundos de su sole, chi tepios sos rajos li mandabat; e i s’úmile violetta isparghiat pomposa su fiore delicadu.
Ma, a su ’enner de s’istiu, cando su sole chin sos rajos infogados leesit a sa paga
terra sa sustanzia, e in d’unu punzu ’e pruer l’àt reduida, sa nuscosa violetta perdesit sos profumos, intisichidas ruesin sa fozas de su frore delicadu, e siccu e senza
umore, est mortu in cussu pruer de sas roccas.
Gai s’amore meu.
In mesu ’e sa roccas de su duru coro tou, àt mandadu sos primos profumos a sos
basos giocundos de sas laras corallinas; pomposu e in totu su vigore, àt chircadu
d’infiammáreti su coro.
Ma su coro tou, ingelosidu e duru, àt fattu su matessi de sos rajos infogados chi
sicchesin sa fozas de s’úmile violetta. S’amore meu intisichidu ruesit, e morzesit
non connottu, in sas duras roccas de su gelosu coro tou, o crudele Maria!
II
6
Nuoro, Giugno 1892
242
a Maria
25
Unu bellu rosignolu, in mesu ’e sos ruos, chin sa ’oghe armoniosa, isparghiat su
cantu deliziosu a su ’eranu, chi sa terra ’estiat de fiores delicados. Allegru e amorosu sa cumpagna jamaiat chin innos de amore, e cando lamentosu, e cando pianghente fit su cantu.
[Cantici del cuore. I - Tra le rocce una tisica violetta ha sparso i primi profumi ai baci giocondi
del sole che le mandava i tiepidi raggi; e l’umile violetta spargeva pomposa il fiore delicato. Ma
col sopraggiungere dell’estate, quando il sole con i raggi infuocati privò la poca terra della sua
sostanza fino a ridurla a un pugno di polvere, la violetta odorosa perse i profumi, intisichite caddero le foglie del fiore delicato, e secco e privo di umore, è morto in quella polvere delle rocce.
Cosi il mio amore. Tra le rocce del tuo duro cuore, ha mandato i primi profumi ai baci giocondi delle labbra coralline; pomposo e nel pieno del suo vigore, ha cercato d’infiammarti il cuore.
Ma il tuo cuore, duro e ingelosito, ha fatto come i raggi infuocati che seccarono le foglie dell’umile violetta. Il mio amore cadde intisichito, e morì ignoto tra le dure rocce del tuo cuore geloso, o crudele Maria!
II - Un bell’usignolo, tra i rovi, con voce armoniosa, spargeva il canto delizioso alla primavera, che la terra vestiva di fiori delicati. Allegro ed innamorato chiamava la compagna con inni
d’amore, ed il canto era ora lamentoso ed ora piangente. Ma presso i rovi, una serpe incantatrice,
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Testi sardi comparsi in riviste dell’Ottocento: Da «Vita sarda»
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Ma accurzu a sos ruos, una terpe incantadora, chin sos ojos maghiarzos, mirabat
in sos ojos s’amenu rosignolu chi, ammaghiadu, andesit a cantare s’innu de sa morte, in bucca de sa terpe incantadora.
Gai s’amore meu.
Allegru e amorosu, a tie jamaiat chin innos de amore, e cando lamentosu, e cando pianghente fit su cantu, chi creiat de arribare a su duru coro tou.
Ma comente sa terpe incantadora àt traittu su bellu rosignolu, sas limbas serpentinas àn postu sa discordia in coro tou, chi senza piedade àt sepultadu s’amore
meu.
E i s’amore meu non curadu, andesit a cantare s’innu de sa morte in sa tua indifferenzia, o crudele Maria!
Da altre riviste
«Nuoro»
con gli occhi ammaliatori, guardava negli occhi l’ameno usignolo che, ammaliato, andò a cantare l’inno della morte, in bocca alla serpe incantatrice. Così il mio amore. Allegro e amoroso, a te
chiamava con inni d’amore ed ora lamentoso ed ora piangente era il canto, che credeva di arrivare al tuo duro cuore. Ma come la serpe incantatrice ha tradito il bell’usignolo, così le lingue
serpentine hanno messo discordia nel tuo cuore, che senza pietà ha seppellito il mio amore. E il
mio amore trascurato, andò a cantare l’inno della morte tra la tua indifferenza, o crudele Maria!]
244
XXVIII. Tempesta
XXVIII
Tempesta
Su sole est oscuradu; in s’orizzonte,
nieddas nues minettan sa tempesta;
su ’entu, a mulios, passat in su monte
e faghet tremulare sa foresta.
Falat muda e terríbile in su ponte
s’unda chi luttu séminat, funesta!
Tue, in s’isprigu, ti miras sa fronte,
sos fines pilos de sa brunda testa!
Ses bella e ti nde tenes, non si negat;
ma su coro no apperis a su prantu
de chie suffrit e invanu ti pregat!
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Ah, tue, chi ses bella e ricca tantu
non ti curas de chie in s’unda annegat
senz’isettu de rughe in campusantu!
Nuoro…
[Tempesta. Il sole è oscurato; all’orizzonte, / nere nubi minacciano tempesta; / il vento, mugghiando, passa sulla montagna / e fa tremolare la foresta. // Scende silenziosa e terribile sul ponte / l’onda che il lutto semina, funesta! / Tu, allo specchio, ti osservi la fronte, / i capelli sottili
della bionda testa! // Sei bella e te ne vanti, non si nega; / ma il cuore non schiudi al pianto / di
chi soffre e invano ti prega! // Ah, tu, che sei bella e ricca tanto / non ti curi di chi nell’onda annega / senza speranza di una croce in camposanto!]
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XXIX. Flagellan sos iscoglios de Caprera
Testi sardi comparsi in riviste dell’Ottocento: Da altre riviste
Ma dae su frittu mármaru una boghe
essit narzende: «Dádemi s’ispada,
chi salve custa terra isventurada!…
S’ispada mia, s’ispada… a inoghe, a inoghe,
o pópulu indolente, ajò ti moghe!…
Non bides tanta zente isfidiada,
insuperbida, ladra e traittora
ch’ingannat e corrumpet a donz’ora?
XXIX
[Flagellan sos iscoglios de Caprera]
Flagellan sos iscoglios de Caprera
sas tempestosas undas de su mare,
fachende unu chimentu in s’addobbare
chi rimbumban sos corfos in s’aera…
Pro itte sa burrasca e i sa chimera
chi fachet sos navios naufragare?
Ahi, finzas sas undas pranghen oe
rinnovande su luttu pro s’Eroe!…
O isula dicciosa e fortunada,
chi su feridu inserras de Asprumonte,
alza sa birde coronada fronte
e ammustra sa tumba lagrimada
in mesu ’e sos cipressos collocada,
chi severos saludan s’orizzonte,
nande: «Sardigna, Italia, mundu interu,
inoghe istat s’Eroe verdaderu!»
«Inoghe istat su grande Generale
chi de Marte isfidesit su valore,
su nou de Italia Redentore
ch’affrontesit pro issa donzi male!…
Inoghe est cuddu spíritu immortale
de coraggiu pienu e de ardore…
in custa tumba creschet s’amarantu,
bagnádela, bagnade de piantu!»
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Cando, pópulu amadu, sa vittoria
des bènnere a cantare a custa tumba,
altu sonende sa gherrera trumba
chi annunziare det sa vera gloria,
cando, atterrada custa infame boria,
de libertade sa boghe rimbumbat,
tando, sì, tando solu, intro ’e sa fossa,
de Garibaldi àt a esultare s’ossa!»
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Nuoro, 1896
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[Flagellano gli scogli di Caprera. Flagellano gli scogli di Caprera / le tempestose onde del mare, / facendo un frastuono nell’infrangersi / che i boati rimbombano nell’aria… / A che la burrasca e la lotta / che fa le navi naufragare? / Ahi; pure le onde oggi piangono / rinnovando il
lutto per l’Eroe!… // O isola felice e fortunata, / che proteggi il ferito d’Aspromonte, / alza la
fronte verde e incoronata / e mostra la tomba lacrimata / tra i cipressi collocata, / che severi salutano l’orizzonte, / dicendo: «Sardegna, Italia, mondo intero, / qui sta l’Eroe più vero! // Qui
sta il grande generale / che sfidò di Marte il valore, / il nuovo d’Italia Redentore / che affrontò
per lei ogni male!… / Qui sta quello spirito immortale / pieno di coraggio e d’ardore… / in
questa tomba cresce l’amaranto, / bagnatela, bagnatela di pianto!» // Ma dal freddo marmo una
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Lassa su luttu, lassa su dolore,
sighi s’esemplu meu, abbatti, atterra!…
A custa falsa zente pone gherra,
mustra s’antigu vantu, su valore,
ca vile est cuddu chi non àt amore
a custa bella e isfortunada terra! …
Gherra, gherra, pro dare sa salude
de sa patria a sa bella gioventude! …
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voce / vien fuori dicendo: «Datemi la spada, / che salvi questa terra sventurata!… / La mia spada, la spada… qui, qui, / dai, muoviti, o popolo indolente!… / non vedi tanta gente crudele, /
insuperbita, ladra e traditrice / che inganna e corrompe di continuo? // Metti da parte il lutto,
metti da parte il dolore, / segui il mio esempio, abbatti, atterra!… / A questa falsa gente dai
guerra, / mostra l’antico vanto, il valore, / perché vile è chi non prova amore / per questa bella
e sfortunata terra!… / Guerra, guerra, per donare la salute / della patria alla bella gioventù!… //
Allorquando, popolo amato, la vittoria / verrai a cantare presso questa tomba, / suonando forte
la tromba di guerra / che annuncerà la vera gloria, / allorquando, atterrata questa infame boria, /
rimbomberà la voce della libertà, / allora, sì, solo allora, dentro la fossa, / di Garibaldi esulteranno l’ossa!»]
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RIME NUORESI
XXX. Ribellione
XXX
Ribellione
Si t’ammentas, o Lia, cughinadu
t’appo in tottus sas sarzas connoschidas
e i sas massiddas tuas coloridas
appo a cuddas de Clori assimizzadu.
T’appo sa testa brunda coronadu
girende in sas campagnas fïoridas,
t’appo puru promissu milli vidas
tales ch’eres d’amore faeddadu.
Ma como istraccu de ti narrer dea
mi ribello a s’arcádica manera
de ti chèrrere amare chin s’idea,
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e solu t’app’ a narre duos faeddos
craros e - s’accussentis - cras a sera
t’app’ a dare unu basu a pittigheddos.
[Ribellione. Se ti ricordi, o Lia, cucinato / t’ho in tutte le salse conosciute / e le tue guance colorite / ho a quelle di Clori assomigliato. // T’ho la bionda testa coronato / girando per le campagne fiorite, / t’ho pure promesso mille vite / tali che tu m’avessi parlato d’amore. // Ma ora
stanco di chiamarti Dea / mi ribello all’arcadica maniera / di volerti amare con l’idea, // e ti dirò
soltanto due parole / chiare e - se acconsenti - domani sera / ti darò un bacio a pizzicotti.]
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XXXI. Cherrende - XXXII. Siccagna
Rime nuoresi
XXXI
XXXII
Cherrende
Siccagna
Itte pessas, galana cherridora,
a manu in sa massidda?… abbandonada
ti ses a pessamentos chi tott’ora
ti cúmbidan a facher sa firmada?…
Cherre!… sos passos ch’intendes in fora,
non sun passos de prima iscuricada……
Cherre!… det benner… prus incantadora
parrer li des cherrende e impoddinada.
Su chilibru ti muttit a su ballu
chi fachet prus bianca sa farina…
lassa sos sognos,… torr’a su traballu!…
Mandat su sole ’e Aprile tristos rajos,
rajos tremendos de sámbene, alluttos!
Ingrogan sos labores, mesu ruttos,
e precan eVirrocan sos massajos.
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Cherre!… e cherrende dae attenzione,
ca jà ischis chi puddu e puddichina
no si gustan de solu ghilinzone!
[Setacciando. A che pensi, bella che setacci, / con la mano appoggiata sulla guancia?… abbandonata / ti sei a pensieri che di continuo / t’invitano a fare la sosta?… // Setaccia!… i passi che
senti fuori, / non sono passi del primo imbrunire… / Setaccia!… verrà… più attraente / gli parrai setacciando e imbiancata. // Il crivello ti chiama al ballo / che fa più bianca la farina… / lascia stare i sogni,… riprendi il lavoro!… // Setaccia!… e setacciando fai attenzione, / lo sai bene
che galletto e pollastra / non si saziano di sola crusca.]
Precan chi s’abba lestra s’iscadenet
e currat in sos campos, aVundadas…
ma, de tantas campagnas desoladas,
su chelu pïedade non de tenet.
Irrocan forte su sole chi ucchidet
tottu sas isperántzïas prus bellas
ma su sole, crudele! si nde ridet.
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Sun adornas de frores sas gappellas,
paret chi onzunu in sas Vírgines fidet,
ma si mustran sas Vírgines ribellas!
E tando, istraccu, su pópulu, e tristu,
biende chi non b’àt avemaria
chi cummovat sa mama ’e Zesu Gristu
cantat a Deus custa litania:
«S’est beru chi ses tue soberanu,
s’est beru chi ses tue criadore,
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[Siccità. Il sole d’aprile manda tristi raggi, / tremendi raggi di sangue, infiammati! / Le messi cadenti ingialliscono / e i contadini pregano e imprecano. // Pregano che presto l’acqua si scateni / e corra per i campi, a ondate… / ma, di tante campagne desolate, / il cielo non ha alcuna pietà. // Maledicono forte il sole che uccide / tutte le speranze più belle / ma il sole, crudele, se la ride. // Sono adorne di fiori le capelle, / pare che ognuno nelle Vergini fidi / ma le Vergini si mostrano ribelli!
E allora, stanco, il popolo, e triste, / vedendo che non c’è avemaria / che commuova la madre di
Cristo / canta a Dio questa litania: // «Se è vero che tu sei sovrano, / se è vero che tu sei creatore, /
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XXXIII. A unu signoriccu divertiu
Rime nuoresi
pr’itte non pones a s’ispica granu
cantu lu siccas sentz’esser in frore?
XXXIII
A unu signoriccu divertiu
S’est beru chi ses zustu e pïedosu
pr’itte lassas siccare sa funtana
a ube curret su pópulu bramosu?»
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Ma tottu est frassu! Ses crudele ebbia,
tue chi lassas morrer de sa gana
sos chi ti cantan custa litania!
perché non dai alla spiga grano / così come lo secchi prima che sia in fiore? // Se è vero che sei
giusto e pietoso / perché lasci che si secchi la fontana / dove corre il popolo bramoso?» // Ma è
tutto falso! Sei solo crudele, / tu che lasci morire di fame / coloro che ti cantano questa litania!]
Curre puru a sos ballos signoriccu
in bratzos de s’amante iscandalosa
supra su pettus suo ti reposa
e sutza su velenu a ticcu a ticcu!
Atter gherret sa vida chin su piccu,
pro te bastat sa vida lussuriosa!…
e sichi puru… chie ti muttit cosa?
Tottu a tibi si passat sende riccu.
Diverti e zoca in su lettu caente…
e cando ses istraccu ’e tantu jocu,
de durches e rosolios ti tatta.
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Nudda t’importet si pro áttera zente,
a pacu a pacu, fumiet in su focu
una padedda de sola irmulatta!…
[A un signorino senza preoccupazioni. Corri pure ai balli signorino / tra le braccia dell’amante
scandalosa / sopra il suo petto riposa / e succhia il veleno a goccia a goccia. // Altri combattano
la vita con il piccone / a te basta la vita lussuriosa!… / e fai pure, chi ti rimprovera? / tutto a te
si concede, dacché sei ricco. // Divertiti e gioca sul caldo letto… / e quando sei stanco di tanto
gioco / saziati di dolci e liquori. // Nulla t’importi se per altra gente, / a poco a poco, fumi sul
fuoco / una pentola di solo rafanistro.]
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XXXIV. Torrau - XXXV. In s’abba
Rime nuoresi
XXXIV
XXXV
Torrau
In s’abba
Su sero ch’est ghirau tziu Andria
a zanchetta ’e cusinu e conchi tusu,
sas femineddas de josso e de susu
sun addoppadas a sa ferruvia;
appenas chi l’àt bidu, tzia Maria,
ja l’àt basadu tèttera che fusu,
nándeli: «coro!… de ti bier prusu
fintzas s’isettu pérdïu nd’aia».
Custa ti siat sighidda! l’àna nau
sas chi fachian sa prutzissïone
chi a domo sua l’àt accumpanzau…
Fit una die ’e iberru mala e fritta,
fit bentu, fit froccande a frocca lada
e Marïedda, tottu tostorada,
ghirabat chin sa brocca da Istiritta.
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ma Peppe Lardu ch’àt perdiu s’anzone,
pessábataVa un’ala accantonau:
«menzus ch’esseret mortu in recrusione».
[Tornato. Quella sera che fece rientro tziu Andria / con la giacca da borghese e i capelli tagliati, / le femminucce dei quartieri di sopra e di sotto / gli si fecero incontro al treno; // non appena lo vide, tzia Maria, / se lo baciò rigida come un fuso, / dicendogli: «cuore mio!… di mai più
vederti / ne avevo perduta persino la speranza». // Questa ti sia di lezione! Gli dissero / quelle
che facevano la processione / che lo accompagnò fino a casa sua… // ma Peppe Lardu che ha perduto il suo agnello, / pensava accantonato in disparte: / «meglio fosse morto in reclusione».]
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Buffándesi sas úngras, poveritta…
fachiat a cada passu s’arressada,
e dae sa fardettedda istrazzulada
nch’essiat un’anchichedda biaitta.
Mentras andabat gai arressa arressa,
istabat annottándesi sa frocca
ch’imbïancabat una murichessa,
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cando trabuccat e – a terra sa brocca! –
Marïedda pranghende tando pessat
chi li cazzan su frittu chin sa socca!
[Alla fonte. Era una brutta e fredda giornata d’inverno, / faceva vento, fioccava a larghi fiocchi /
e Mariedda, tutta intirizzita, / rientrava con la brocca da Istiritta. // Soffiandosi le unghie, poveretta… / faceva la sosta ad ogni passo, / e dalla gonnella stracciata / sbucava una gambetta livida. // Mentre andava così di sosta in sosta, / stava a osservare i fiocchi / che imbiancavano un gelso, // quando inciampa e - la brocca in terra!- / Mariedda allora piangendo pensa / che il freddo
glielo levano con la frusta!]
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XXXVI. Sa morte de Pettenaju
Rime nuoresi
XXXVI
Sa morte de Pettenaju
I
Nobe lassas sa cámpana àt toccau
eVi su sonu innedda ’e Cuccu Baju
in s’ághera drinninde nd’est colau.
A s’intesa ’e s’ispiru essit Foddaju
a tontonadas nande: «Chi est su mortu?»
Una boche respondet: «Pettenaju».
«Pacu itte roder b’àta, bio chi a tortu
l’appo pessada credéndelu riccu
e de cantare fippo già resortu!
Biber cumbenit como a ticcu a ticcu»
narat Foddaju «ma de sa currenta
bae chi non mi tenen mancu a piccu».
Tando in cussu sa sorre si presentat
e li narat ridende: «Ajò, Bobò,
si cheres unu pizu ’e tunda lenta».
Issu a búffidas li respondet: «No!
Chi como mi nche falo a gamasinu
a buffettare chi tattau ja so».
E torrat a sas cupas de su binu
grattándesi sa conca a passu a passu
chind unu cantu ’e pane e casu in sinu.
Non fachet gaï zustu su cumpassu
s’arcu chi daë truccu a issu tuccat
e falat a s’imbílicu e prus bassu.
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II
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[La morte di Pettenaju. I - Nove rintocchi a morto la campana ha suonato / ed il suono più in là
di Cuccu Baju / nell’aria risuonando se n’è andato. / Sentito il rintocco funebre viene fuori Foddaju / barcollante domandando: «Chi è morto?» / Una voce risponde: «Pettenaju». / «C’è ben
poco da rosicchiare, mi rendo conto che a torto / ho pensato, credendo che fosse un ricco / ed
ormai a cantare ero risoluto. / Ora conviene bere a goccia a goccia» / dice Foddaju «ma dal trangugiare / va’, che non mi si strappa nemmeno col picco». / In quell’attimo si presenta la sorella / e dice a lui ridendo: «Vieni, Bobò / se vuoi una sfoglia di pane morbido». / Lui sbuffando
risponde: «No! / che ora me ne vado giù in cantina / a sbevazzare, che già sazio sono». / E fa ritorno tra le botti del vino / grattandosi la testa ad ogni passo / con un pezzo di pane e formaggio in grembo. / Non fa così esatto il compasso / l’arco che dal collo gli parte / e scende all’ombelico ed anche più in basso. / Prima si flette in avanti ed apre il rubinetto, / cosa che viene
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Prima s’incurbiat e apperit sa bucca,
cosa chi benit a áttere a pettorru,
cuntentu prenat una perra ’e tzucca;
e nabat: «Oh Bobò, picca unu corru»,
pessande chi pro facher cussu interru
non piccan daë cresia mancu afforru.
«Ello, ello. A s’ifferru, a s’ifferru,
mancari chi ti sias cuffessau
ja ti nde istraccas de trazare ferru!»
Cando s’est bene bene istimpanau
de recattu e de binu fattu a feche
in gamasinu ’e tottu s’est corcau.
Una bella frissura de berbeche
sende in su sonnu s’àt bidu in bisione
pro s’irmurzare s’incrasa a sar deche.
E pessabat issoru ’e su cupone:
«Una frissura chin binu nigheddu,
átteru cheVambidda e trottiscone».
In domo ’e Pettenaju unu catteddu
urulabat accurtzuV ’e su mere;
sas féminas pranghíana a suppeddu,
intonande unu bellu miserere
eVunu mucculittu mori mori
fachiat luche a tantu dispiachere.
AVun’ala pranghende bi fit Zori
chiVa punzos a brente s’addobbabat
nande: «Sa luba como nessi frorit».
In su muru benian eVandaban
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già difficile ad altri, / Contento riempie una mezza zucca; / e diceva: «Bobò, beccati un corno», /
pensando che per fare quel funerale / non prendono dalla chiesa un solo drappo. / «Come no,
all’inferno, all’inferno, / pure che tu ti sia confessato / va’, che ti stancherai di trascinare ferro!» /
Quando s’è ben bene spanciato / di cibo e per il vino ridottosi una poltiglia d’uomo / direttamente in cantina s’è sdraiato. / Un bello spezzatino di pecora / mentre dormiva gli è apparso in
sogno / per far colazione l’indomani alle dieci. / E pensava accanto alla botte: / «Uno spezzatino con vino nero, / altro che anguille e minutaglia di trote».
II - In casa di Pettenaju un cagnolino / ululava accanto al padrone; / le donne piangevano a singulti, / intonando un bel miserere / e una candela morente / faceva luce a tanto dispiacere. / Da
una parte piangendo stava Zori / che si batteva la pancia coi pugni / dicendo: «Almeno ora fiorisce l’euforbia» / Appese al muro andavano e venivano / al vento le reti / che da molto tempo
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XXXVI. Sa morte de Pettenaju
Rime nuoresi
a su bentu sas tramas de filau
chi dae meda tempus assuttaban.
Muria chin s’ocru a múricu est intrau
e biende sa frúschina impiccada
ambas manos a supra l’àt ghettau.
Però Zori ch’àt bidu s’ammiada
«Lassa!» li narat «pro chi su biadu
sa ferramenta a mimme l’àt lassada».
«Assumancu ti sérbiti de irfadu
su bíere una cosa in manu mea;
pessas chi como ch’ingurtis su Pradu?».
Gai nabat Muria, e Zori chin s’idea
ch’issu puru eret chérfidu sa parte,
rispondet pro li dare prus pelea:
«E baetinde! Chi non ses de s’arte,
tue non faches onore a su cumpanzu;
pro caridade, abbárrati in disparte.
Chin mecus non nde faches de balanzu
e non mi muttas nemmancu unu tzascu,
si non cheres chi perdas su timpanzu.
Tuë sos trastos piccas in su frascu
pro chiVa mimme àt fattu testamentu
cando fachende fit s’úrtimu cascu».
Gaï sichin a facher su chimentu
fintzas chi tando s’aggarran a beru
e dobbo a costa longa in su pamentu.
«Ohi! Sa zente chene cussideru!»
dae su cuzone narat una tzia,
cando s’est bida tottu a disisperu.
Però a s’intrada de Marcu Caria,
chi su baule a terra àt iscracau,
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tottu ind unu sa briga s’est finia.
Marcu sos puntzittones àt cravau,
iscudèndel’a corfos de marteddu
l’àt bene in su baule collocau.
Tando torran a prangher a suppeddu
sas femineddas, nande: «Oddeu, oddeu!»
porrin a Marcu su pannu nigheddu
e s’imbrenucan e precan a Deu
chi si collat cudd’ánima biada
ch’istabat in sos pojos a rodeu.
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grossi chiodi ha piantato / battendolo a colpi di martello / lo ha bene nella cassa collocato. / Allora nuovamente piangono a singulti / le donnine, dicendo: «Oddio, oddio!» / Porgono a Marcu
il panno nero / e s’inginocchiano e pregano Dio / che si prenda quell’anima beata / che andava in
giro per le pozze.]
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asciugavano. / Muria con l’occhio ispezionante è entrato / e vedendo la fiocina appesa / vi si è gettato sopra con ambedue le mani. / Ma Zori che ha notato il gesto / «Molla!» gli dice «perché il
morto / a me la ferramenta l’ha lasciata» / «Almeno ti sia di fastidio / il vedere una cosa in mano mia; / pensi forse ora d’inghiottire il pascolo comunale?» / Così diceva Muria, e Zori pensando / che anche lui volesse la sua parte, / risponde per pungerlo di più: /«E vattene! Che non sei
del mestiere, / tu non fai onore al compagno; / per carità, tieniti in disparte. / Ci guadagni ben
poco a confrontarti con me / e non dirmelo neanche per scherzo / se non vuoi rimetterci il fianco. / Tu gli attrezzi infilaceli nel fiasco / perché a me ha fatto testamento / mentre faceva l’ultimo sbadiglio» / Così vanno avanti col bordello / finché non s’accapigliano per davvero / e bum
stesi giù sul pavimento. / «Ahi! La gente che non ha alcun rispetto!» / da un angolo diceva un’anziana / quando s’è vista in preda alla disperazione. / Ma con l’ingresso di Marcu Caria / che ha
fragorosamente lasciato cadere in terra la cassa da morto, / di botto la rissa è cessata. / Marcu i
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XXXVII. Sos campanones de Santa Maria
Rime nuoresi
printzipalmente sa cámpana manna.
Si nde pesaban tètteras che canna
de sa corona tottu sas amicas.
Si nch’intendian fin’ a Sas Cradicas,
custas appen’appena a Badde Manna
troppu zusta est istada sa cundanna:
secare a matza sa chi fit cannia.
Sos campanones de Santa Maria…
XXXVII
Sos campanones de Santa Maria
Sos Campanones de Santa Maria
àn ispartu su místicu limbazu
nan sos malinnos ch’est bogh’ ’e sonazu
sende ch’est zusta e bella s’armunia.
Ite cherides?… Su popolu est gai…
cámpanas non connoschet bene fattas!
nan chi sun tappuladas eVannattas,
ma símiles non nd’amus tentu mai.
Si burdellaban sas betzas assai,
custas a donzi cosa sun adattas.
Si ziras mesu mundu no accattas
Símile portentosa galania.
Sos campanones de Santa Maria…
Cando isparghen sa boghe su manzanu,
su sonnu non ti solen disturbare,
ti lassan in su lettu reposare,
mancariVistes sett’annos fittianu…
ca pessas chi sunu sonos de tianu
faghes a mancu de tinde pesare.
Cámpanas bellas dignas d’ammirare
chi faghen solas sa precadoria.
Sos campanones de Santa Maria…
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Si bivat a chent’annos Mussennore,
ca l’àt discurta chin fine talentu!
A battire sor mastros aVintentu
de su brunzu a connoscher su valore,
ch’íscana cantos grados de calore
tenner depiat su ruju elementu,
proViscallare sas petzas de chentu
aneddos e buttones chi b’aiat.
Sos campanones de Santa Maria….
Prontas sas formas e prontu su metallu,
si ponen custos mastros in faina.
Invocan de su Chelu sa Reina
chi lo assestat in cussu traballu!
Tottu cantu resessit sentza irballu
pro chi connoschen s’arte supraffina.
Ecco, nch’essit Maria Carmellina
de su píscamu nostru vida e ghia!
Sos campanones de Santa Maria…
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In fattu e cussa nch’essin tottu cantas
e las impiccan pro sa maravilla:
curret sa zenteValligra e ispipilla
pro bier sa Maria chin sas Santas
Issurdaban su locu sas anticas,
[I campanoni di Santa Maria. I campanoni di Santa Maria / hanno sparso il mistico linguaggio, / i maligni dicono che è suon di sonaglio / stante che è giusta e bella l’armonia. // Che volete?… Il popolo è fatto così… / non conosce campane ben fatte / dicono che sono rattoppate e
aggiunte / ma di tal fatta non ne abbiamo mai avute. / Se le vecchie facevano frastuono assai, /
queste ad ogni scopo sono adatte. / Se giri mezzo mondo non trovi / una simile portentosa bellezza. // Quando al mattino spargono la voce, / non son solite turbarti il sonno, / ti lasciano nel
letto riposare, / ci stessi pure sett’anni di fila… / dal momento che pensi che son suoni di catinella / fai a meno di alzarti. / Campane belle, degne d’esser ammirate / che da sole fanno la preghiera. // Intronavano l’aria le antiche, / principalmente la campana grande. / Schizzavano in
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piedi tese come canne / tutte le amiche del rosario. / Si percepivano fino a Sas Cradicas, / queste appen’appena fino a Badde Manna / troppo giusta è stata la condanna: / rompere a colpi di
mazza quella incrinata. // Possa vivere a cent’anni Monsignore, / ché l’ha escogitata con fine talento! / Per aver portato quei maestri esperti / nel conoscere del bronzo il valore, / che sappiano quanti gradi di calore / doveva raggiungere il rosso elemento, / e per fondere i pezzi da cento / e tutti i bottoni e gli anelli offerti. // Pronti gli stampi e pronto il metallo, / si affaccendano questi maestri. / Invocano del Cielo la Regina / perché li assista in quel lavoro! / Tutto quanto gli riesce senza fallo / perché conoscono l’arte sopraffina. / Ecco, vien fuori Maria Carmelina /
del vescovo nostro luce e vita! // Appresso a lei vengon fuori tutte quante / e le appendono perché le si ammirino: / corre la gente allegra e agitata / per vedere la Maria con le sante / e tziu
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XXXVII. Sos campanones de Santa Maria
Rime nuoresi
e tziu Longu bidèndende tantas,
narat: «Però sa menzus billa, billa!
Annottatila… non de juchet tilla
ca su furru l’àn fattu in domo mia».
Sos campanones de Santa Maria….
Provadas eVistesas in su carru
nche las collocan chin bona manera
chin duos jubos tottu galavera
che las antzian a sonuV’e tambarru.
Tzocca sas manos cumpare bambarru
e narat: «chi mi ghetten a galera
si tres cantares no est prus lizera
de sa ch’átteras bortas bi drinnia!»
Sos campanones de Santa Maria…
Abellu abellu, a passu regulau
ecco nche crómpeneVa su piatzale.
Inibe nche las falan sentza male
pro chi totu fit bene carculau
de pustis chi fit tottu preparau,
essit Demartis in pontificale
eVarmadu de mitra e pastorale
las battizat chin pompaVe allegria
Sos campanones de Santa Maria…
Pustis iscontzan s’iscala e sa turre
pro che las antzïare in tallïora,
ca non cumbenit dae s’alaV’e fora:
s’inzenïeri Mura bi discurret.
Istat totu sa zente curre curre
de las toccare non bíene s’ora
precan a Deus e a Nostra Sennora
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Èccolas finalmente tottu a postu
prontas a su repiccu disizau!
Cada limbeddu est bene collocau
de coriu crudu cheVattariu tostu…
las cheren repiccare a donzi costu…
però issas, appena comintzau,
de s’oro chi su focu àt consumau
toccan, a surdas lassas, s’agonia.
Sos campanones de Santa Maria…
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Longu, vedendone tante, / dice: «Però, eccola la migliore, eccola! / Osservala… non ha un difetto / perché il forno l’hanno fatto a casa mia». // Provate e distese sul carro / le posizionano
con cura. / Con due gioghi in pompa magna / le portano su per la salita a suon di tamburo. /
Batte le mani compare Bambarru / e dice: «che mi schiaffino in galera / se di tre cantari non è
più leggera / di quella che altre volte risuonava!» // Pian pianino, con passo regolato / ecco che
giungono sul piazzale. / Li le scaricano senza danno / giacché tutto era ben calcolato, / quando
tutto fu ben allestito, / vien fuori Demartis in pontificale / e armato di mitra e pastorale / le
battezza con pompa ed allegria. // Poi, smontate la scala e la torre, / per issarle con la carrucola, / poiché non conviene dall’esterno: / l’ingegner Mura ne discute. / La folla è in un corri-corri
generale / non vedono l’ora di suonarle / pregano Dio e la Madonna / che riescano nell’impresa //
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chi nche resessan in sa balentia.
Sos campanones de Santa Maria…
A s’intender su toccu lamentosu,
surdu comente in puttu unu puale,
totus comintzan a nde parrer male,
Mussennore divèntata furiosu,
Don Dïegu non tenet prus reposu:
zurat chi sonat menzus s’urinale,
pride Verachi chin pride Pascale
trochen de conca e naran ch’est lapia.
Sos campanonos de Santa Maria….
A sa fine decretan chi collana
non nde depian zucher sos limbeddos,
ca, essende presos che catteddos,
no lis fachiat de drinnire gana.
Che lïas catzan a donzi campana
e las torran a grantzos eVaneddos.
Comente mastru de bonos cherbeddos
mastru Zizi l’àt fatta s’attrivia.
Sos campanones de Santa Maria…
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Eccole finalmente, tutto è a posto, / pronte al rintocco desiderato! / Ogni batacchio è ben sistemato, / di cuoio crudo come duro acciaio… / le vogliono suonare ad ogni costo… / ma loro,
appena cominciato, / dell’oro che il fuoco ha consumato, / suonano, a sordi rintocchi a morto,
l’agonia. // Sentendo il rintocco lamentoso, / sordo come un secchio in fondo al pozzo, / tutti
iniziano a dirne male, / Monsignore diventa furioso, / don Diego non si ferma più un attimo: /
giura che suona meglio l’orinale, / prete Veracchi con prete Pascale / fan cenno di no con la testa e dicono che è un paiolo. // Infine decretano che guinzagli / non dovevano avere i batacchi, /
ché, essendo come cagnolini legati, / a voglia di mettersi a suonare. / Glieli levano ad ogni campana / e li riducono a ganci ed anelli. / Quale maestro di menti fine / mastro Zizi ha compiuto
l’impresa. // Riprendono a suonarle con giudizio / credendo d’avere all’errore riparato, / ma, a
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Rime nuoresi
Torran a repiccare chin assentu
credéndelu s’errore reparau,
ma comintzande dae su bichinau
su popolu nde restat discuntentu!
A cad’ora fachende sun chimentu.
E est ca non l’àn bene carculau:
galu su brunzu no est iffrittau,
lassae a cando fachet sa finia.
Sos campanones de Santa Maria….
Cando l’essit su sonu armunïosu,
tand’alligrare ti podes Nugoro!
Chi no às postu de badas tant’oro
nde des podes andare orgollïosu
supra totu sos populos famosu
ca de ramen lu tenes su tesoro.
Non ti lu ponzas goi tantu a coro
fintzas a bier cussa resissia.
Sos campanones de Santa Maria…
In úrtimu des tenner su cossolu
de ti lu bier s’onore torrau
cando de custos toccos istraccau,
nde des fáchere balente lapiolu
in campanile chin d’unu mojolu
podes suprire su chi nd’às piccau
e, de tant’oro in focu consumau,
toccare, a surdas lassas, s’agonia.
Sos campanones de Santa Maria…
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RIME VARIE E D’OCCASIONE
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incominciare dal vicinato, / il popolo ne rimane scontento! / Fanno un continuo bordello. / Ma
è perché non l’han ben calcolato: / il bronzo deve ancora raffreddare, / aspettate che sia tutto
pronto. // Quando vi uscirà il suono armonioso, / allora Nuoro potrai rallegrarti! / Che non hai
messo inutilmente tanto oro, / potrai andarne orgoglioso / sopra tutti i popoli famoso, / ché di
rame hai il tuo tesoro. / Che non ti stia troppo a cuore / finché non vedrai quel risultato. // Infine avrai la consolazione / di vederti restituito l’onore / quando da questi rintocchi stancato, /
ne farai supremo paiolo, / sul campanile, con una tramoggia, / potrai sostituire ciò che vi hai
preso / e, di tanto oro nel fuoco consumato, / potrai toccare, a sordi rintocchi a morto, l’agonia.]
268
XXXVIII. Passende in Pattada
XXXVIII
Passende in Pattada
A Luca Cubeddu
In sa patria tua, Vo sardu Dante,
de sa grana bi regnat su colore;
cussos visos pïenos deVamore
renden su coro meu agunizante.
Sì, padre Luca, chin rejone amante
ti faghias de Clori e de s’onore
d’una Elena chi ’inchiat in rujore
sa rosa cale fogu fiammeggiante.
Tirsi, Clori, Amarilli isten a parte
pro chi in Pattada, Veneres celestes
amore àt seminadu chin grand’arte.
5
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Crédemi, padre Luca, sas chi onoro
sun deas chi terrenas bestin bestes
sun sirenas chi miran a su coro.
[Passaggio a Pattada. Nella tua patria, o sardo Dante, / il color del rosso vi regna; / quei visi
pieni d’amore / rendono agonizzante il mio cuore. // Sì, padre Luca, con ragione amante / ti facevi di Clori e dell’onore / di una Elena che superava in rossore / la rosa, quale fuoco fiammeggiante. // Tirsi, Clori, Amarilli si tengano in disparte, / perché a Pattada, Veneri celesti / amore
ha seminato con grand’arte. // Credi a me, padre Luca, quelle che onoro / sono dee che vestono
vesti terrene / son sirene che mirano al cuore.]
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XXXIX. Leghende s’O de Giotto - XL. Mustarolu
Rime varie e d’occasione
XXXIX
XL
Leghende s’O de Giotto
Mustarolu
A Stanislao Manca
Bellu a biver de réndita in Parnasu
e de sas musas reposare in sinu,
ma sigomente so troppu romasu
timo chi non che faga su caminu.
Mezus pro cussu m’app’a istare in pasu
inoghe, trinchettande bonu binu,
ube de carchi musa appo su basu
chentz’ispender nemmancu unu sisinu.
Non mantenzo pro nudda sa promissa
ch’àt fattu sa granatza ’e su Milesu:
sa curpa est tottu sua, pejus pro issa.
Alligros, cumpazetes! tzia Gabina
àt postu in su portale s’iscupile,
medas bi nd’àt in intro de cuchina
a tassa in manu, in s’oru ’e su fuchile.
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Pro como m’isto seriu, ma s’issonu
lu den intender accurtzu e attesu
cando m’essit sa barba a fizu bonu.
[Leggendo l’O di Giotto. Bello viver di rendita in Parnaso / e riposare in grembo alle muse, /
ma siccome sono troppo magro / temo che non riesca a compiere il cammino. // Meglio, per questo, me ne starò tranquillo / qui, trincando buon vino, / dove da qualche musa ottengo il bacio /
senza spendere nemmeno un soldo. // Per nulla mantengo la promessa / che ha fatto la vernaccia
del Milese: / la colpa è tutta sua, peggio per lei. // Per ora me ne starò quieto, ma la fama / si farà
sentire vicino e lontano / quando mi sarà cresciuta la barba a puntino.]
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Lestra Paschedda, chin sa garaffina,
bocat binette a sa zente tzivile,
tantes de s’assucare s’istintina
chi juchen fortzicada che tittile.
Lampaneddu non mancat chin Gabinu,
Zurreddu apperit bett’ ’e gorgobena
e trincat a sa longa Zacuminu…
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e tottu cantos, a cussentzia anzena,
sententzian e sustenen chi su binu
si deppet biber sempre a tassa prena!
[Novello. Allegri, compagnoni! tzia Gabina / a messo sull’entrata la scopa, / in tanti si trovano
già nella cucina / bicchiere alla mano, intorno al focolare. // Svelta Paschedda, con quella caraffa, / offre il vinello alle persone civili, / quel tanto che gli occorre per sciacquarsi l’intestino / che
gli si è attorcigliato come straccio. // Non mancano Lampaneddu e Gabinu, / Zurreddu spalanca un’enorme gola / e trinca lungamente Zacuminu… // e tutti quanti, incoscienti, / sentenziano e sostengono che il vino / si deve sempre bere a bicchieri colmi!]
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XLI. Per ballottaggio - XLII. Cassa sentz’arma
Rime varie e d’occasione
XLI
XLII
Per ballottaggio
Cassa sentz’arma
Sos isbirros e corbos cullegaos
si sun pro guvernare custa terra;
si sun contr’ a s’onestu iscadenaos
chin viles artes, in sa santa gherra;
ma bois, elettores onoraos,
non timedas in custa cuntïerra
sa lista de sos botos comporaos
pro chi si torret a s’afferra afferra.
De sa canaglia pro bincher sa boria
de sa libera ischeda a bonu portu
juchíende sa barca cinta ’e gloria.
Comare est tantos lèpores currende!
Cherende fagher cassa a donzi fera,
in fattu ’e sos guruttos cada sera
che bona cassadora est punterende.
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Punterende che bona cassadora
approfittat de donzi occasïone:
curret da unu a s’átteru cantone
cando de leporare benit s’ora;
mai s’istraccat ne mai s’isporat
fintzas chi biet sa fera arribende.
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E naze a custos prides insensaos
chi si ghèttene a unu cane mortu;
sos tempos de Pio Nono sun passaos.
[Per ballottaggio. Gli sbirri e i corvi collegati / si sono per governare questa terra; / si sono contro l’onesto scatenati / con vili arti, nella santa guerra; // ma voi, elettori onorati, / non abbiate timore, in questa contesa, / della lista dei voti comprati / perché si torni al piglia piglia. // Per vincere la boria di tale canaglia / conducete a porto sicuro la barca / della libera scheda cinta di gloria. // E dite a quei preti insensati / che si diano a un cane morto; / i tempi di Pio IX son passati.]
Pro prúvera costumat sos faeddos
e pro ballas costumat sas ocradas,
benzan sas cassadoras lumenadas
e cassen a sa lughe ’e sos isteddos,
comente usat comare, leporeddos,
sentza fogu sa fera brusiende!
Unu nde cassat ind unu cantone,
tando curret a s’átteru pressosa;
est veramente cosa curïosa
cando comare a beru si bi ponet!
Lèpores e crapolos e mugrones
a pedes de comare sun rughende.
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[Caccia senza armi. Comare va rincorrendo tante lepri! / Volendo dar la caccia ad ogni preda, /
a zonzo per i vicoli ogni sera / quale buona cacciatrice va puntando. // Puntando quale buona cacciatrice / approfitta di ogni occasione: / corre dall’uno all’altro angolo / quando viene l’ora della
caccia alla lepre; / mai si stanca e mai si dispera / fin quando non vede avvicinarsi la preda. // Le
parole le servono da polvere da sparo / e le occhiate le servono da pallottole, / vengano pubblicamente nominate le cacciatrici / e caccino alla luce delle stelle, / come usa comare, i leprotti, / bruciando senza fiamme la preda! // Ne pesca una in un angolo, / allora corre verso l’altro frettolosa; / è veramente un fatto curioso / quando comare ci si mette per davvero! / Lepri, caprioli e mufloni / ai piedi di comare stanno cadendo. // Lei [marmina] si prende gioco di loro e ride / e si di-
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XLII. Cassa sentz’arma
Rime varie e d’occasione
Issa †marmina† los giocat e ridet
e si divertit, pustis de sa cassa;
a sa fera ch’àt tentu dat balassa,
la carinnat de coro e non l’ucchidet,
trista si mostrat si fera non bidet
e nde tuccat in cherta suspirende.
Si carchi crapolittu impertinente
si ponet a zocare chin comare,
issa prestu lu solet abbratzare
ca lu juchet su sámbene caente
e in cuss’ora l’importat niente
s’est in fuga sa fera ch’est sighende.
Si totus sas chi cassan finin gai,
itte bellu su ruer in su lattu!
Si che a comare totus eren fattu,
prus non teniat sa fera guai
pro chi comare non s’istraccat mai
d’esser in tale modu divertende.
Però sa fera si mustrat ingrata,
de comare si faghet brulla e zogu!
A prima in pettus l’atzendet su fogu
e tando si nde torrat a sa matta;
de bonas erbas comare la tattat
e gai s’istat su tempus perdende.
Credet comare chi los incordessat
però sa fera zocat e si nd’andat,
unu saludu nemmancu bi mandat
e nessunu de issa si nd’appenat,
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comare credet sas manos pienas
e sentza nudda in manos est restende.
Comare pro sa cassa est rughinada
ca donzi fera si l’àt posta sutta
e tantu l’àna pistada e derrutta
chi prus non si connoschet, disdicciada,
ma issa como est tantu ingulumada
ch’est de nou sa cassa cumintzende.
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Gai passat sa frisca pitzinnia
a zocu de sa fera prus abbista
chi la juchet cuntinu pista pista,
pro cantu cussa petta est saporia,
cando cumintzat a benner tuffia
a sicuru crapolu non nde prendet.
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Comare est tantos lèpores currende…
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comare crede di aver le mani piene / e invece resta con un bel nulla in mano. // Comare è rancorosa per la caccia andata male, / poiché ogni preda di lei si è presa gioco / e a tal punto l’hanno pestata e distrutta / che più non si riconosce, la sfortunata, / ma lei, ora, è così presa dall’ingordigia / che ha ripreso nuovamente a cacciare. // Così passa la fresca gioventù / in balia della preda più furba / che la mena di continuo e la sballotta, / per quanto quella carne sia saporita, / allorché inizia a guastarsi / non lega più al sicuro alcun capriolo. // Comare va rincorrendo tante lepri… ]
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verte, dopo aver cacciato; / alla preda che ha catturato da confidenza, / l’accarezza amorevolmente e non la uccide, / triste si mostra se preda non scorge / e sospirando va alla ricerca. // Se qualche capriolo impertinente / si mette a giocare con comare, / lei subito suole abbracciarlo, / ché le
bolle il sangue, / e sul momento per nulla le importa / che sia in fuga la preda che sta inseguendo. // Se tutte le cacciatrici finissero così, / sarebbe bello restare intrappolati nel laccio! / Se tutte avessero fatto come comare, / la preda non correrebbe più pericolo alcuno / poiché comare non
si stanca mai / di divertirsi in tale modo. // Ma la preda si mostra ingrata / e di comare si prende gioco e si fa beffa! / Dapprima il fuoco le accende nel petto / dopo di che ritorna tra i cespugli; / con buone erbe comare la sazia / così che continua a perdere del tempo. // Comare crede
così di averle in trappola / ma invero la preda gioca e se ne va / nessuna per lei prova pena, /
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XLIII. Zigarru
Rime varie e d’occasione
Abbandonat su tunniu zigante
e chircat si nd’atzappat prus minuju;
«cadamassestat si nde boddo ruju»
jubilabat chin propósitu costante.
E comintzat a progher in s’istante
e Zigarru si biet apprettadu.
XLIII
Zigarru
Zigarru ca Capello l’àt mandadu
a tunniu si nd’andat volontariu.
Tottu pro gurpas de su Comissariu
su traghinu a Zigarru nd’àt leadu.
Capello, ca teniat una gattu
e cherèndela bene cuchinare,
a Zigarru risolvet de mandare
a tunniu a sa Tanca ’e su Palattu,
ma timende de facher disaccattu
li narat chi si nd’andet a su Pradu.
Tuccat Zigarru portanta portanta
a passu lestru mancari anchi curtzu
e cando de su Pradu fit accurtzu
jubilabat: «Custa est sa Terra Santa!»
si ralligrat, si ballat e si cantat
ca su locu ’e su tunniu àt sejadu.
Atzappat unu tunniu bïancu
chi fit s’ispantu ’e tottu sa cussoria,
bocat pro lu boddire sa lesoria
maVuna tacca non fachet nemmancu;
«CorfuV’e balla ti trunchet su fiancu»
narat Zigarru, «lampu itte tostadu!»
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[Zigarru [= ‘sigaro’]. Zigarru, poiché Capello l’ha mandato / a cogliere funghi, se ne va volontario. / Tutto per colpa del Commissario / il torrente si è preso via Zigarru. // Capello, poiché aveva un gatto / e intendeva cucinarla per benino, / decide di mandare Zigarru / a cogliere
funghi alla Tanca ’e su Palattu, / ma temendo di provocare qualche danno / gli dice che se ne vada a Su Pradu. // S’incammina Zigarru con bel portante, / con passo svelto, benché corto di
gambe, / e quando si appressava a Su Pradu, / gridava: «Questa è la Terra Santa!» / si rallegra,
se la balla e se la canta / perché ha scoperto il sito dei funghi. // Trova un fungo cardarello / che
era la meraviglia di tutto il territorio, / tira fuori il coltello per coglierlo / ma neppure lo intacca; / «Una fucilata ti spacchi il fianco» / dice Zigarru, «caspita quant’è indurito!» // Ab-
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«Cristo santo! Itte bette temporale!
Su raju chi bi falet, itt’abbera!»
Narat Zigarru «Custa sì ch’est fiera!
Átteru chi diluviu universale!
Nara chi mi reparo, mancu male,
in su tunniu biancu sinzoladu».
Tuccat a cuddu tunniu-pinnettu
ma li secat su passu unu traghinu,
li lássinat su pede e Zigarrinu
de nd’issire non tenet pius isettu;
tando narat chin ira e chin dispettu:
«Su dialuV’e tunniu e su formadu».
De sa pagura cacat su cartzone
e lu juchet su ribu traza traza,
s’addobbat a sa preda e si mazat
e si fachet in conca burruttone,
si pistat finzamente unu buttone
e in tottu sa carena est pistoradu.
Colat pro bona sorte unu pastore
e nche lu bocat prus mortu che bibu,
innedda nde lu juchet de su ribu,
fachet su focu e a fortza de calore
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bandona il fungo gigante / e vede un po’ se ne trova di taglia più piccola; / «Per Dio: che possa
raccogliere prataioli» / gridava con ferma intenzione. / Ma inizia a piovere in quell’istante / e Zigarru si sente sollecitato. // «Cristo santo! Che gigantesco temporale! / Tuoni e fulmini, che acquazzone!» / Dice Zigarru «Questo sì che è tremendo! / Altro che diluvio universale! / Vedi un
po’ se almeno non mi metto al riparo / sotto il fungo cardarello già segnalato». // S’incammina
verso quel fungo-capanna / ma gli interrompe il cammino un torrente, / mettendo in fallo un piede scivola Zigarrinu / e non ha più speranza di uscirne; / allora dice con ira e disappunto: / «Al
diavolo quel fungo e le sue dimensioni». // Dalla paura si caga i pantaloni / e il fiume lo trascina
con sé, / sbatte ed è percosso sulle rocce / e si fa in testa un bernoccolo, / si pesta finalmente anche
un coglione / ed è tutto un livido nel corpo. // Passa in quei pressi per fortuna un pastore / e lo tira fuori più morto che vivo, / lo porta lontano dal fiume, / accende un fuoco e a forza di calore /
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XLIII. Zigarru
Rime varie e d’occasione
li torran a Zigarru sos alores,
ma non s’abbizat itte l’àt costadu.
Capello chin su tunniu l’isettat
ma Zigarreddu non torrat in presse;
«ell’inube diaulu àt a esser»
narat Capello e tottu s’inchiettat,
d’issire a lu chircare ja minettat
ma tando a differente s’est pessadu.
Pustis de duas dies, atturdidu
colat a sa butteca ’e Predu Tanda,
a issu a lu chircare raccumandat
e narat: «a Zigarru m’azis bidu?
dae janteris a tunniu est bessidu
e mancu sentza tunniu est torradu».
Essin ambos impare a lu chircare
e zai nd’aian perdiu s’isperantzia
cand’ecco chi lis benit sa contantzia
chi Zigarru s’est chérfidu bagnare;
in su traghinu cherfende jumpare,
impare chin sas abbas est tuccadu.
Addoppan a Zigarru in su caminu
sentza jucher assutta mancu trama
e li naran: «bocada l’às sa fama
de tind’áer leadu unu traghinu!
Ajò, ca bibes mesu litru ’e binu
in contu ’e tottu s’abba ch’às buffadu».
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«Cadamassestat, tenides resone,
ajò» narat Zigarru «ca bibimus,
antzis si l’acconcaes nos cochimus
e andámusu a cocher su gattone,
e gai manicamus a cumone
ja chi deo tres dies so mancadu».
«Si non ti jocas balla a istoccadas»
nat ride ride Roberto Capello
«Sa gattu cheres cocher ello ello,
sa gattu ch’est da eris manicada,
píccati como duas pugnaladas
ja chi tue tres dies ses mancadu».
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«Ti picchet» nat Zigarru «un’accidente,
su diaulu ’e sa mama chi t’àt fattu,
como chi manicau ch’às sa gattu
ti nde rides in fatza de sa zente,
e deo nadrande in mesu ’e sa currente
pro pacu non m’accattan affocadu».
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Tottu pro gurpas de su Cumissariu
su traghinu a Zigarru nd’àt leadu.
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garru «Così beviamo, / anzi, se vi salta in testa, ci ubriachiamo / e andiamo a cuocere il gattone, / così mangiamo tutti insieme / dacché per tre giorni son mancato». // «Quando il pugnale batterà il fucile» / dice ridendo Roberto Capello / «allora, sì sì, cucinerai il gatto, / ma il gatto ce lo siamo finito ieri, / beccati questa stoccata / dacché tu per tre giorni sei mancato». // «Ti
prenda» dice Zigarru «un accidente, / quel diavolo della mamma che ti ha generato, / ora che
hai mangiato il gatto / ti prendi gioco di me apertamente, / ed io che nuotavo in mezzo alla corrente, / che quasi mi trovano affogato». // Tutto per colpa del Commissario / il torrente si è preso via Zigarru.]
Zigarru risente nel corpo tepore, / ma non si rende conto di ciò che gli è accaduto. // Capello lo
attende con i funghi / ma Zigarreddu non torna subito; / «Dove diavolo sarà andato a finire» /
dice Capello tutto arrabbiato, / già minaccia di andare a cercarlo, / ma per il momento cambia
proposito. // Dopo due giorni, sgomento / si presenta nel negozio di Predu Tanda, / a costui si
raccomanda per andarlo a cercare / e dice: «avete visto Zigarru? / dall’altro giorno è andato a
funghi / e nemmeno senza funghi è rientrato». // Escono insieme per andarlo a cercare /e già
avevano perso ogni speranza / quand’ecco che giunge loro la notizia / che Zigarru s’è voluto fare un bagno; / volendo saltare dentro al torrente, / insieme alla corrente se n’è andato. // Incontrano Zigarru sulla strada / senza neppure un filo di tessuto asciutto / e gli dicono: «l’hai ben
diffusa la fama / di esserti ingurgitato un torrente! / Andiamo, che ti bevi mezzo litro di vino /
a compenso di tutta l’acqua che hai bevuto». // «Per Dio, avete ragione, / andiamo» dice Zi-
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ALTRE LIRICHE
XLIV. Ammentu
XLIV
Ammentu
Solu in s’istanzia mia
de sa notte sas oras numerende
semper in malincunia,
su sonnu, chi non benit, invochende
e suspirende ebbia,
aVistentu sas lácrimas frenende,
m’incontro, disdicciadu,
chin su coro derruttu e affannadu.
O nottes fortunadas,
nottes de gioia vera e non cumpresa
a ue sezis dadas?
Boladas bo nde sezis in lestresa!
Prestu sezis passadas
lasséndemi sa mente troppu accesa
de basos deliziosos
e de dulzes istantes affettuosos!
Cuntemplende s’amante,
cun issa faeddende in allegria
e riende ogn’istante
sas nottese tranquillas passaia
e i como distante
dae me s’incontrat sa columba mia
e inoghe resto solu
cuntinu suspirende a disconsolu.
Si t’ammentas sas oras
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[Ricordo. Solo nella mia stanza, / contando le ore della notte / in continua malinconia, / soltanto
invocando e sospirando / il sonno, che non viene, / frenando a stento le lacrime, / mi ritrovo, sfortunato, / col cuore distrutto ed affannato. // O notti fortunate, / notti di gioia vera ed incompresa /
dove siete finite? / Siete volate via velocemente! / Presto siete passate / lasciandomi la mente troppo accesa / di baci deliziosi / e di dolci istanti affettuosi! // Contemplando l’amante, / con lei parlando allegramente / e ridendo ad ogni istante / tranquille passavo le notti, / ed ora distante / da me
si trova la mia colomba / e qui resto solo / sospirando continuamente sconsolato. // Se ricordi le
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XLIV. Ammentu
Altre liriche
troppu breves ma puru celestiales,
ahi, troppu ti addoloras
coro, ca ti trapassan sos pugnales
e de cudda chi adoras
podes solu mirare sos signales,
sos signales d’affettu
chi cunservas serrados a su pettu.
Si ’enit su reposu
a sullevare su corpus affrantu,
unu sognu penosu
benit a mi affliggire a dogni tantu
e m’ischido affannosu
mentras bundat in ojos su pïantu
pensende a s’ermosura
chi mi dabat istantes de dulzura.
Eppuru sun fuidas
cussas nottes chi eternas sognaia
e tristas sun bennidas
a ponner custu coro in agunia.
Si aere milli vidas,
ahi, chi totuVe milli las daia
pro poder rinnovare
cussas nottes de gioia singulare.
Però totu mi est vanu
e totu mi est inutile s’isettu,
o fiore sovrumanu,
de t’istringher pius a custu pettu
e nárrerti s’arcanu
limbazu de s’amore e de s’affettu
e i sas parolas caras
frequente baséndeti in sas laras.
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Puru, columba, ispero
de poder cussu tempus rinnovare,
forzis su primu sero
de pustis benedittos in s’altare.
Si in custu cunsidero
paret chi mi det banda su penare
e torret s’allegria
de rier in sa tristura, ánima mia!
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bra. // Pure, colomba, spero / di poter quel tempo rinnovare, / forse la prima sera / dopo esser stati
benedetti sull’altare. / Se a questo pongo mente / pare che si plachi la pena / e ritorni l’allegria / di
rider nella tristezza, anima mia.]
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ore / troppo brevi eppure celestiali, / ahi, che troppo ti addolori / o cuore, ché ti trapassano i pugnali / e di colei che adori / puoi solo guardare i segni, / i segni dell’affetto / che conservi racchiusi nel petto. // Se viene il riposo / a sollevare il corpo affranto, / un sogno penoso / viene ad affliggermi ogni tanto / e mi sveglio affannoso / mentre abbonda negli occhi il pianto / pensando a quella bellezza / che mi dava istanti di dolcezza. // Eppure son fuggite / quelle notti che eterne sognavo / mentre tristi son venute / a metter questo cuore in agonia. / Se avessi mille vite / ahi, tutte e
mille le darei / per poter rinnovare / quelle notti di singolare gioia. // Però tutto m’è vano / e m’è
del tutto inutile l’attesa, / o fiore sovrumano, / di stringerti più a questo petto / e pronunciare l’arcano / linguaggio dell’amore e dell’affetto / e le parole care / baciandoti frequentemente sulle lab-
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XLV. A s’amigu Baddore
Altre liriche
in cust’ardente inferru ue brujan sos coros, sas mentes
de nois totus dae su sole arrustidos.
Egoista ses tue si unu consolu non dasa
a s’amigu chi tantu affettu t’aiat.
Mógheti d’una ’orta, su mare o sa ’inza abbandona
pro un’istante e lea in manu sa pinna
e abberi su coro e isfoga cun prosas e rimas
sas gioias puras de tanta allegra vida.
Forsis tando leggende comente felice si vivet
in cussu logu gai deliziosu e amenu
a gudire un’istante de dulze recreu e de gioia
det benner s’amigu chi às tue ismentigau.
XLV
A s’amigu Baddore
(alla maniera di Orazio) Littera
Cando penso a sas undas in ue continu si bagnan
sas brundas fizas de s’aspra e forte Jcnusa,
su metru de Oraziu su dísticu antigu e sonante
sas tínnulas cordas píttigat de sa lira
e mi tentat. Dae coro prorumpit su cántigu in s’ora
bolende che apes a murmuttu a murmuttu,
e «brundas sirenas chi sezis de coros mortoras»
narat su cantu «nadrade in sas ispumas
cándidas de s’oceanu, nadrade, nadrade, nadrade
ponende in mustra sas nudidades cándidas».
Curret su dulce cantu bolende ’e Durgale su lidu
inue forzis cuntentu tue ti bagnas,
disizende sa ninfa chi s’istat luntana luntana
e chi suspirat s’attraente marina.
In su lidu si firmat e cantat: «O tue felice
chi intro ’e s’abba oras e oras t’arreas!»
Tue s’ardente sole isfidas a s’umbra ’e s’iscogliu
e t’incoronan sas ermosas bagnantes;
e deo meschinu, finidas sas forzas, su briu,
non pius talentu tenzo non pius attendo
a niente… su sole m’atterrat, mi ’occhit, m’isfínidi
ne tue forzis Baddore mi lu credes.
Olvidadu ti ses de s’amigu ca allegru t’incontras
ne cunsideras sas penas chi si suffrin
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sto ardente inferno dove bruciano i cuori, le menti / di noi tutti dal sole arrostiti. / Egoista sei
tu se non dai una sola consolazione / all’amico che tanto affetto provava per te. / Muoviti subito,
abbandona il mare e la vigna / almeno un istante e prendi in mano la penna / ed apri il cuore e
sfoga con prose e versi / le pure gioie di tanta allegra vita. / Forse allora nel leggere come si vive
felici / in quel luogo così delizioso e ameno, / arriverà a godere di quel dolce conforto e di quella gioia / l’amico che hai tu dimenticato.]
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[All’amico Salvatore. Quando penso alle onde dove di continuo si bagnano / le bionde figlie dell’aspra e forte Ichnusa, / il metro d’Orazio, il distico antico e sonante / pizzica le tintinnanti corde
della lira / e mi tenta. Dal cuore allora prorompe il canto / prendendo il volo quale mormorante
sciame d’api, / e «o bionde sirene che siete del cuore assassine» / dice il canto «nuotate tra le schiume candide dell’oceano, nuotate, nuotate, nuotate / mettendo in mostra le nudità candide». / Corre il dolce canto sorvolando il lido di Dorgali / dove forse contento tu ti bagni, / desiderando la
ninfa che se ne sta lontana lontana / e che sospira l’attraente marina. / Sul lido si ferma e canta: «O
tu felice / che ore e ore indugi nell’acqua!» / Tu l’ardente sole sfidi all’ombra dello scoglio / e t’incoronano le belle bagnanti; / ed io, poveretto, esaurite le forze, il brio, / non ho più talento, a niente più attendo… / il sole m’atterra, mi uccide, mi sfinisce / né tu forse Baddore credi che sia così. /
Ti sei scordato dell’amico poiché te ne stai in allegria / né consideri le pene che si soffrono / in que-
288
289
XLVI. Disizu vanu
Altre liriche
a sas delizias de unu amore veru
e mi abizo chi semper est sinzeru
su coro tou, preziosaVulia.
XLVI
Disizu vanu
Columba, mentras ti amo immensamente
cun megus un’istante ti cheria
a ti narrer sos sognos de sa mente,
totu sos sognos de sa fantasia.
Ti cheria un’istante a ti abbrazzare
a custu pettus meu addoloridu
a custu coro chi tue às feridu
pro ti poder s’amore cuncentrare,
a custu coro chi podes sanare
mostréndeti pro me costante e pura
e cunvertinde su luttu e tristura
in continu consolu eVallegria.
Si ischeres cantas tristas bisïones
mi ’enin in su sonnu a mi affliggire!
S’ischeres cantu mi faghes suffrire
cun fortes amorosas passïones!
Si cumprèndese sas afflizïones
chi eo provo continu pro ti amare,
non mi dias lassare ispasimare
in sa pïus terríbile agunia.
Cando ti bido passare pressosa
e iscanzare a su risu sas laras
m’ammento cuddas dies tantu caras
chi ti mustrabas pro me pïedosa,
chi cunzedias sas laras de sa rosa
[1]
[2]
[3]
[4]
5
10
15
Ámami bella cantu t’amo e rie
pro dissipare tottus sos dolores
e rennovare sos dulzes amores
chi consoladu nos àna una die,
ite delizia si ’idere a tie
paris cun megus suspirare
e poder deVamore faeddare
in s’amena campagna fïorida.
Inie, paris cun su rosignolu
innalzende a s’amore dulzes cantos,
diat intender s’aera sos bantos
de sa bella chi a mie dat consolu,
diat lassare su coro su dolu
infïamadu d’amore pro tene!
Semper costante e firma ti mantene
e faghe chi affliggidu pius no sia.
Columba, mentras t’amo immensamente
chin megus un’istante ti cheria!
25
30
35
40
45
[1]
[2]
20
[Vano desiderio. Colomba, dal momento che t’amo veramente / con me un solo istante ti vorrei, / per riferirti i sogni della mente, / tutti i sogni della fantasia. // Vorrei stringerti un solo
istante / a questo petto mio addolorato / a questo cuore che tu hai ferito / per potervi l’amore
concentrare, / a questo cuore che puoi guarire / mostrandoti verso di me ferma nell’amore e pura / e convertendo il lutto e la tristezza / in ininterrotta consolazione e allegria. // Se sapessi quante tristi visioni / mi giungono in sogno ad affliggermi! / Se sapessi quanto mi fai soffrire / con
forti sofferenze amorose! / Se comprendi le afflizioni / che io provo di continuo per l’amarti, / non
mi lasceresti spasimare / nella più terribile agonia. // Quando ti vedo passare frettolosa / e aprire appena le labbra al sorriso / ricordo quei giorni tanto cari / in cui ti mostravi verso di me pietosa, /in
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Non m’istracco de semper cuntemplare
su risu totu serenu e benignu,
sèmpere pro chi t’ ’ida ponzo impignu
e semper so resoltu a ti adorare.
Bella, si si podian rennovare
cuddas dies sas pïus deliziosas
dian torrare a fozire sas rosas
chi sun siccadas in s’ánima mia!
cui concedevi le labbra della rosa / alle delizie d’un vero amore / e m’accorgo che sempre è sincero / il tuo cuore, preziosa oliva. // Non mi stanco di contemplare costantemente / il tuo sorriso sereno e benigno, / per sempre, perché ti possa vedere, con te m’impegno / e per sempre
son risoluto ad adorarti. / Bella, se si potessero rinnovare / quei giorni più di tutti deliziosi / rifiorirebbero le rose / che si sono seccate nell’anima mia! // Amami, bella, quanto io t’amo e ridi / per dissipare tutti i dolori / e rinnovare i dolci amori / che un giorno ci hanno consolato, /
che delizia se ti vedessi / insieme a me sospirare / e poter d’amore parlare / nell’amena campagna fiorita. // Colà, con l’usignolo / innalzando all’amore dolci canti, / sentirebbe l’aria i vanti /
della bella che a me dà consolazione, / il dolore lascerebbe il cuore / infiammato d’amore per te! /
Conservati sempre ferma e costante nell’amore / e fai in modo che più afflitto non sia. // Colomba, dal momento che t’amo veramente / con me un solo istante ti vorrei!]
291
Altre liriche
XLVII
Nue
Un’oscurosa nue
a s’orizzonte s’oro,
sa púrpura àt leadu.
DA STECCHETTI
Un’oscurosa nue
àt puru custu coro
de sa paghe privadu.
5
Bella chi rides, tue
ses s’oscurosa nue.
Tue às postu tempesta
ube totu fit festa.
10
[Nube. Una nube oscurante / l’orizzonte dell’oro / e della porpora ha privato. // Una nube oscurante / ha pure questo cuore / della pace privato. // bella che ridi, tu / sei quella nube oscurante. //
Tu hai fatto tempesta / dove tutto era in festa.]
292
XLVIII. Cando, ruttas sas fozas…
XLVIII
Cando, ruttas sas fozas…
Cando, ruttas sas fozas, a chircare
des benner tue sa rughe in campusantu,
ind unu oreddu la des incontrare
ue forman sos fiores bellu mantu.
Cogli sos fiores, pro sas trizzas brundas,
naschidos dae me; sun sas giucundas
cantones no iscrittas chi pintesi;
sas promissas d’amore chi non fesi!
5
[STECCHETTI, Postuma XIV. Quando cadran le foglie e tu verrai / a cercar la mia croce in camposanto / in un cantuccio la ritroverai / e molti fior le saran nati accanto. // Cògli allora pe’ tuoi
biondi capelli / i fiori nati dal mio cor. Son quelli // i canti che pensai ma che non scrissi, / le parole d’amor che non ti dissi.]
295
XLIX. Issa mi nabat - L. A Chillina
Da Stecchetti
XLIX
L
Issa mi nabat
A Chillina
Issa mi nabat: «non ses mai giucundu,
ne mai t’appo ’idu imbenujadu;
proitte su mirare às gai profundu,
e i su risu brulleri e astragadu?»
Deo li nabo: «O ánghelu biundu,
gulu dubbiu tue no às provadu;
deo rido gasie a custu mundu
dae sa borta chi appo dubitadu».
Issa mi nabat: «Tue non bi credes
In Cristos e in sos ánghelos custodes?
No isperas de Deus sa mercedes?»
In sos benujos Chillina
beni e alligra ti sede
e a mie, bella, cunzede
cuss’ermosura divina.
5
Beni e i su tuju dilettu,
Chillina bella, m’abbrazza
ca tando deo sa fazza
t’app’a cuare in su pettu
e de mi tenner affettu
tue tando determina.
[1]
[2]
[3]
[4]
5
10
Deo li nabo: «Tue ses s’ánghelu meu,
tue sa fide ses chi de me podes…
d’amore faedda e lass’istare a Deu!…»
[STECCHETTI, Postuma LII. Ella dicea: tu non sei mai giocondo, / io non t’ho mai veduto inginocchiato: / perché il tuo sguardo par così profondo / e il tuo sorriso beffardo ed agghiacciato? //
Io le dicea: sovra il tuo capo biondo / l’atroce dubbio non ha mai pesato: / io con quest’ironia sorrido al mondo / da che la prima volta ho dubitato. // Ella dicea: l’anima tua non crede / al Cristo, al tuo custode angelo pio? / L’occhio della speranza in te non vede? // Io le dicea: tu sei l’angelo mio, / tu sei la mia speranza e la mia fede: / parla d’amore e non parlar di Dio.]
Beni e i s’oju brillante
fissa in custos ojos mios
e chin sos basos dechios
consólami bella amante,
e chin firmesa costante
custos amores cuntina.
Istrintos ambos impare,
basèndenos in sas laras,
cuntentesas pius caras
mai podimus lograre
e nos det imbidiare
totu sa zente meschina.
Cun cuntentu e allegria
oras e oras passamus,
10
15
20
[A Caterina. Sulle ginocchia Chillina / vieni e siediti allegra / e a me, bella, concedi / quella bellezza divina. // Vieni e il diletto collo, / Chillina bella, abbracciami / che allora io la faccia / nasconderò nel tuo petto / e di essermi affettuosa / tu allora sii decisa. // Vieni e l’occhio brillante / fissa in
questi occhi miei / e con i bei baci / consolami bella amante, / e con fermezza costante / questi amori continua. // Abbracciati insieme, / baciandoci sulle labbra, / di più cara contentezza / non si potrebbe godere / e c’invidierebbe / tutta la gente infelice. // In contentezza ed in allegria / ore ed ore
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Da Stecchetti
impare nos ispassamus
chin tegus, Chillina mia!
Pro t’áere in cumpagnia
mando su mundu in ruina!
Beni e alligra ti sede
in sos benujos Chillina!
[2]
[1]
passiamo, / insieme ce la spassiamo / con te, Chillina mia! / Per stare con te / mando il mondo
in rovina! // Vieni e allegra siediti / sulle ginocchia Chillina!]
[STECCHETTI, Postuma VI. Vieni, Nerina! Siediti / lieta sui miei ginocchi / e ti scintilli cupida /
la voluttà negli occhi. // Vieni ed il collo cingimi / con le soavi braccia, / io nel tuo sen che palpita / nasconderò la faccia. // Squarci la terra i fumidi / visceri suoi profondi, / crollino i cieli e
riedano / infranti al nulla i mondi, // a me non cal! Se il roseo // labbro sul labbro mio / serri,
Nerina, impavido / sfido la morte e Dio.]
298
APPARATI CRITICI
Apparati critici
L’apparato è in genere positivo: viene prima la lezione buona (sempre trascritta secondo la grafia del testimone da cui è tratta), delimitata a destra da
parentesi quadra, e seguono le lezioni considerate deteriori. È, invece, di tipo
negativo quando in presenza di attestazione binaria (effettiva o risultante da
eliminatio) si è fatto completo affidamento, per ragioni dichiarate nella nota
al singolo apparato critico, ad uno solo dei due testimoni (vedi ad es. Sos campanones de Santa Maria). Allo stesso modo, degli interventi fatti sui testi α e
su quei testi β+γγ riportati da un solo testimone, si dà ragione segnalando in
apparato soltanto le lezioni dell’originale rifiutate. Non si è tenuto conto di
varianti meramente grafiche (come: k / ch oppure oscillazioni scempia/geminata), a meno che non implicassero significative differenziazioni linguistiche
e stilistiche.
La prima riga dell’apparato elenca le sigle dei testimoni in cui è riportato il
singolo testo (salvo diversa indicazione, per i testi di Néulas è implicito che si
trovano soltanto in quella raccolta); la seconda, il titolo figurante in ciascun
testimone (quando il testimone non riporta il titolo del componimento compare l’abbreviazione anep.=anepigrafo); seguono le varianti. Quando figurano
più varianti in un solo verso, queste sono state separate con ||.
Apparati critici
Per la trascrizione diplomatica di lezioni appartenenti a testimoni in cui
compaiono correzioni (aggiunte, cancellature, etc.; vedi ad es. Zigarru) si è fatto ricorso ai seguenti segni1 (oltre a […] con cui si indicano le lacune):
\a/
a scritta in interlinea
/a\
a aggiunta in linea
\\ a //
a aggiunta a margine
[a]
a erasa ma leggibile
[ + a]
a ricalcata su lezione indecifrabile
[b + a]
a scritta su b
[d + \ e]
e scritta in interlinea in sostituzione di d non erasa né depennata
[d + \[- e]/]
e aggiunta in interlinea in sostituzione di d e poi erasa
1 Proposti da Masai ed in seguito perfezionati da Clemente Mazzotta; la questione è riassunta in: ALFREDO STUSSI, Nuovo avviamento agli studi di filologia italiana [1983], Bologna, il Mulino, 1988, pp. 167-169.
300
301
Apparati critici
Apparati critici
II. Non b’àt itte isperare
[2]. colloccare poi con la scempia nella torr. 5. isettu 20. turmentu 27. adoro
28. bides, 31-32. innamoro. Galu 35. Tu un’altra correzione può essere tue 55. bennè
31. suffrendes
XV. Vanas presunziones
III. Indifferenzia
11. naras 41. azzardesi 42. indiscretu in omaggio all’etimologia ma non alla rima 45. ti
63. pessas
[4]. de
XVI. Rimembranzia
IV. Ámami
Test. Néulas M
Tit. La bellezza di una donna M
[2]. I torr. laras. 1. isettu. [1]. II torr. S’ermosura [3bt]. s’affettu 10. Chi
21. […]n 43. massidas 64. bella 66. mirran 69-70. disizare. In 72. suspirare
74. retrattadas 75. sun, 78-79. rie rie, dolorosu 88. me.
XVII. A Luchia C....
10. durat 15. sigai 16. di cfr. v.9 || addoloradu 20. coro 22. tanto 29. s’es
48. sepoltura 56. vida 60. fastizu 72. assai 76. lunghente
VI. A Madalena
17. Tantas,
XVIII. A Maria Wagner
VIII. T’adoro
18. di cfr. XVII, 9 19. insa
35. dal [4]. t’at,
XIX. Juramentu
IX. Luntana
3. costantes 8. cuntentu
81. rispota 98. vida,
21. Solus amaru 37. ,funestas 49. Sole,
53. tue,
58. bener
59. su
63. vida
XX. Abbandonu
X. A Miriade Bondinata
[5]. moris. 〈3〉〉. pizzinnia. 〈6〉〉. solat 9. àpp’a
31. infrisca 33. vridade 35t. cosas 36. perdonu
12. ne,
16t. pena.
30. accunortu
40. istare 74. salimba 75. so
XXIII. Cuntrastu
XI. Dolore
16. disizzadu 17. invanu, 19. Chirchende, 31. si 38. lamentu
Test. VS SD
6. pure VS 9. imbiacat VS
XII. A Diana Bideton
XXIV. Malinconia
22. laras, 30. aeret, 31. dubitare,
Test. VS
XIII. Violas
XXV. A Lia
15. nariat 41. o restadus 43. fiores 58. doloros
Test. VS
Il verso in epigrafe reca nell’originale batta, qui corretto ricorrendo all’originale carducciano
(Ragioni metriche, v. 11)
XIV. Prinzipios de amore
302
303
Apparati critici
XXVI. A tie, bella durmida!
Test. VS
4. potrebbe anche non trattarsi di e congiunzione, ma di ’e (refuso piuttosto frequente); allora il significato del verso risulterebbe: ‘accrescono la (tua) bellezza con la simpatia’
26. rajos, 47. coru
XXVII. Cántigos de su coro
Test. VS
1. bella] altri esemplari della rivista hanno tisica.
XXVIII. Tempesta
Test. LGP SD
Tit. Tempesta LGP SD
XXIX. [Flagellan sos iscoglios de Caprera]
Il testo figura anche in: ELETTRIO CORDA, Garibaldi in Sardegna, Milano, Rusconi, 1991, pp.
182-184 [tit.: Al Grande Eroe]. La lezione non diverge dall’originale.
Test. AL
XXX. Ribellione
Apparati critici
titolo da un autografo di Dessanai3 mostratogli dal figlio del poeta, quello stesso Sebastiano che, probabilmente, prestava i versi del padre alla RPD, e dal quale Gonario
Pinna (GP, 1969) dichiara di aver ricevuto il sonetto con il titolo A Lia; titolo, quest’ultimo, che figurava già nell’articolo di Fernando Pilia (P, 1964), studioso legato a
Sebastiano Dessanay da lunga amicizia. La situazione è confusa o perlomeno si mostra
incerta: in vita il poeta pare non aver battezzato con precisione il sonetto (Stanis Manca lo dà anepigrafo4); in seguito, sembra che, da una parte, Sebastiano Dessanay divulgasse il testo col titolo A Lia (RPD, P, GP), e che, dall’altra, lo facesse col titolo Ribellione (B). Nell’impossibilità di prendere visione dell’autografo utilizzato da Brigaglia, irreperibile secondo quanto riferitoci dallo studioso, si dà momentanea fiducia alla testimonianza dataci dallo stesso, adottando il titolo Ribellione; anche perché l’adozione consente di non generare confusione con un altro componimento di Dessanai intitolato A Lia, pubblicato su VS. Così, fra i vari testimoni, SM, B, P, GP, RPD (D limitatamente ai vv. 9-12), si è preferito B, apportandovi lievissime modifiche (al v. 7
non pare accettabile la lezione mille, forma italiana che costituisce un vero hapax anche
rispetto alla poesia sarda più italianizzante).
Test. B D vv. 9-11 GP SM P RPD
Tit. Ribellione] B anep. M A Lia GP P RPD
1. t’] B tinde GP RPD ti P || ,o Lia,] B ,Lia,GP SM RPD ,Lia P || cughinadu]
B cuchinadu GP SM P RPD 2. totus] B SM P RPD tottu GP 3. coloridas] B SM
P RPD kolorias GP 7. milli] GP SM P RPD mille B 9. istraccu] B D GP P RPD
istraceu M refuso 10. ribello] B D M P RPD rebello GP 11. de] B D GP P RPD
che M || cherrere B M P] cherrer D GP RPD 13. -s’accussentis-] B M P ,s’acussentis, RPD s’akkussentis GP || sera] B M P RPD sero GP 14. pittigheddos] B
pittikeddos GP pitticheddos M P pitticcheddas RPD
Col nome di A Lia questo sonetto compare per la prima volta (1928) in RPD, rivista presso la quale il figlio del poeta, Sebastiano, pubblicava le proprie rime giovanili;
è, dunque, probabile che questi fosse diretto fornitore dei manufatti paterni2 (escluso
il sonetto Cherrende, messo a disposizione, come la rivista dichiara, da Amico Cimino,
il Cam di Néulas), ragion per cui si potrebbe prestar fede all’intitolazione A Lia. D’altra parte, Stanis Manca (SM) aveva già pubblicato, nel 1910 (ma per una probabile anteriorità si veda l’apparato critico relativo a Leghende s’O de Giotto), il sonetto senza alcuna indicazione in quanto al titolo; stando a quanto afferma il Manca, fu il poeta stesso a fornirgli il testo, in occasione di un incontro che i due ebbero a Nuoro. Il titolo
Ribellione spunta fuori nel 1965, in un articolo, uscito su «Sardegna oggi», di Manlio
Brigaglia (B), il quale, interpellato personalmente, ha assicurato di aver tratto testo e
La riscoperta della sede originaria di questo importante sonetto (SA) consente di non
tenere conto, ai fini della costituzione del testo, della sua pur nutrita tradizione (SD,
GP, P, RPD, M). Ci si è dunque attenuti alla lezione originaria, salvo per un emendamento (gustan in luogo di gustat), per motivi di ovvia discordanza sintattica (la terza
persona singolare, gustat, non si accordava ai soggetti puddu e puddichina). Segnaliamo,
vista la sua sostanzialità, una variante (d’autore?) limitata al solo GP: v. 4, ti rendene pessosa e attristada.
2 Sulle pagine della RPD, almeno limitatamente ai numeri conservati presso la Biblioteca
Universitaria di Cagliari, figurano due poesie di Sebastiano Dessanay: Su logu nativu (a. I, n. 5,
15 gennaio 1928, p. 2. Datato: “Dicembre, 1927”) e Mors suavis (a. I, n. 6, 22 gennaio 1928,
p. 2. Datato: “S. Nicolò Gerrei, Nadale 1927”). Entrambi i testi figurano in SD come appartenenti a Pascale ed anche con titoli diversi, rispettivamente: Su ribu e Morte suave (traduzione
sarda dell’originale titolo latino).
3 Brigaglia dà Ribellione come appartenente alla raccolta poetica Néulas, il che è inesatto. È
probabile che lo studioso non avesse sotto mano il libretto giovanile di Dessanai, altrimenti non
sarebbe incorso in questa imprecisione.
4 Ma si tenga conto che nell’articolo di Manca compare anepigrafo anche un altro sonetto che
aveva già un titolo sicuro (In s’ora de sa partenzia, in Néulas).
304
XXXI. Cherrende
305
Apparati critici
Apparati critici
Test. SD GP P RPD SA M
Tit. Cherrende] GP RPD SA M Sa cherridora P SD
10. fachet] da leggersi probabilmente con paragogica (fachete) 14. gustat
XXXII. Siccagna
Tra i testimoni di Siccagna, S, GP, ed SD, pare probabile una filiazione S (più antico) → GP; alla quale non si oppongono le seguenti divergenze:
S
Test. S SD GP
Tit. Siccagna] S SD GP
2. sambene,] S sambene SD GP 3. ,mesu ruttos,] S GP mesu ruttos SD 9. Irrocan forte su sole] S GP Irrocan a su sole SD 11. sole, crudele] S GP sole es crudele SD
12. Sun adornas] S Mudadas sun SD Sun bestidas GP 13. paret chi onzunu (ognunu
GP) in sas Virgines fidet,] S GP ca isettu in sar Birg(h)ines si biet SD 14. Ma si mustran sas virgines ribellas!] S GP ma sar birg(h)ines puru sun rebellas SD 17. chi cummovat] S GP ki nd’appéne(t) SD 25. bramosu?] S GP disizzosu SD
XXXIII. A unu signoriccu divertiu
GP
Test. GP
v. 12
adornas
bestidas
v. 12
gapellas
capellas
v. 13
onzunu
ognunu
XXXIV. Torrau
non densissime le ultime due; inesistente la prima, chiaro lapsus dell’ultimo minuto da
parte del curatore di GP, dal momento che la traduzione del testo in GP riporta puntualmente adorne (= ‘adornas’). Rilevanti, al contrario, le varianti di SD, pesantemente
separative rispetto ad S+GP:
S+GP
v. 9
Irrocan forte su sole ch’ucchidet
SD
Irrocan a su sole ki okkidet
v. 11 Ma su sole, crudele!
Ma su sole es crudele
v. 12 Sun adornas
Mudadas sun
v. 13 Paret chi onzunu in sas Virgines fidet
Ca isettu in sar Birg(h)ines si biet
v. 14 Ma si mustran sas virgines ribellas
ma sar birg(h)ines puru sun rebellas
v. 17 Chi cummovat
ki nd’appéne(t)
v. 25 bramosu?
disizzosu
Lezioni che restituiscono per di più un testo scorretto (v. 25 ipermetro), per cui si può
ipotizzare che SD abbia ricopiato una stesura primitiva di Siccagna, contenente lezioni
in seguito scartate dall’autore.
306
Per Torrau disponiamo di tre testimoni: S, GP ed SD, l’ultimo dei quali è certamente descriptus di S. Il materiale che va sotto quest’ultima sigla, ora in possesso di Antonello Satta, era già appartenuto al figlio del poeta, Sebastiano, e quindi alla vedova di
costui, Fanny Satta, sorella del già citato Antonello. I testi dessanaiani classificati con
SD sono per la maggior parte copie di quelli S; in Torrau la filiazione S→SD è confermata dall’identità di lezione, patente anche per minimi particolari grafici (puntini di
sospensione, punti esclamativi, trattini, etc.). Dal confronto emergono due sole divergenze (v. 6: ja SD si S; v. 9: sighiddu SD sighidda S); ma: la prima potrebbe essere stata ricavata da GP, certamente noto a SD (si consideri, inoltre, che nella grafia dell’apografo s e j sono mal distinguibili) e la seconda denuncia un errore comunissimo (la
lezione di S è, infatti, confermata, nel terzo testimone: GP). L’esame della lezione dovrà pertanto limitarsi ad S e a GP, ma la scelta è caduta sul primo dei due, per il dichiarato ricorso a fonti orali nell’antologia di Pinna (cfr. l’apparato critico relativo a Sa
morte de Pettenaju). Tracce di trasmissione orale in Torrau potrebbero essere la lezione torrau del v. 1, dovuta ad attrazione esercitata dal titolo, e la coloritura nuorese in basau
(v. 6); che sembrerebbe legittima in un testo interamente nuorese, sennonché la lezione log. basadu (S) può essere ricondotta (vedi il paragrafo III.4. della PARTE SECONDA,
p. 133) a precise ragioni stilistiche. È pur vero che per le altre lezioni divergenti tra S
e GP non ci si può muovere con molta disinvoltura, ed anzi, si potrebbe pensare a varianti d’autore (è il caso di formaban, v. 10; e di accontonau, v. 13); per questa ragione le
abbiamo messe a disposizione nell’apparato. Giova però avvertire che anche in presenza di lezioni come accontonau (preziosa per la vicinanza col sardo contone, ‘angolo’), si
può cadere nel tranello dei competenti “copisti” nuoresi (i cui materiali erano fonti privilegiate da Gonario Pinna), il cui purismo (accantonau è italianismo) li avrebbe potuti
condurre a inserire personali anche se intelligenti congetture.
Test. S GP
Tit. Torrau S GP
1. ghirau] S torrau GP attrazione del titolo 4. addoppadas] S attoppadas GP cfr.
XLIII, 67 || ferruvia] S ferrovia GP 5. Maria,] S Maria GP 6. basadu] S basau GP
307
Apparati critici
Apparati critici
7. coro!..] S Coro GP 10. fachian] S formaban GP || pruzissione] S prozissione GP
13. pessabat] S GP oltre alle possibili dialefi, potrebbe correggere questo verso la paragogica ||
accantonau] S accontonau GP
XXXV. In s’abba
Il testo qui proposto si rifà ad S, probabilmente autografo (così come risulta da un
confronto con la firma del poeta che figura nell’atto del matrimonio tra quest’ultimo e
Cicita Dore; cfr. Capitolo La vita ). La tradizione si mostrava comunque compatta, anche in assenza di S. La dieresi del v. 3 è d’autore; quella del v. 13 è editoriale.
Test. GP P M1 S
Tit. In s’abba] GP S P Mariedda M1
3. Marïedda] dieresi d’autore
XXXVI. Sa morte de Pettenaju
Fra i tre testimoni che tramandano Sa morte de Pettenaju, M, P e GP, va probabilmente eliminato l’ultimo citato, inaffidabile sotto l’aspetto della trasmissione testuale.
Innanzitutto per il ricorso alla tradizione orale, come Pinna stesso informa:
In certi casi, quando era da pensare che valesse la pena di raccogliere una poesia di cui si
conoscevano il titolo e alcuni versi, chiamavo nel mio studio vecchi nuoresi che ne custodivano il ricordo e me la facevo ripetere due tre volte per registrarla con la maggiore fedeltà
possibile. […] mi fu largo d’aiuto un nuorese di antico stampo, Guiso Giuseppe noto Marrapisellu, che ricordava benissimo brani interi de Su Zudissiu universale di Rubeddu, de Sa
morte de Pettenaiu di Dessanay… (PDN, p. 7)
Inoltre, l’esame della lezione permette di notare l’assenza di varianti comuni a P ed M
e separative rispetto a GP, mentre quest’ultimo si accorda ora all’uno e ora all’altro. Limitandoci alle lezioni veramente sostanziali:
v. 31
v. 81
v. 38
v. 60
v. 71
v. 78
GP + M
P
e nabat issu
in tottu
Ello, ello
tottu
GP + P
M
[…]
ferramenta
mi
dobbo
sende
testamentu
[…]
dubbu
Autografo di In s’abba (S).
Firma del Poeta apposta all’atto del matrimonio.
308
309
Apparati critici
Si può quindi avanzare l’ipotesi che P ed M siano indipendenti e che per GP si debba
trattare di un testo alquanto eterogeneo, che contamina P, certamente presente a Pinna (che cita espressamente l’articolo del Pilia ed anzi ne riporta larghi passi per la parte biografica su Dessanai), con un testo di tipo M (se non con M stesso, dato che tra le
fonti principali di Pinna vi era proprio il materiale raccolto dall’avv. Mastino) e con la
tradizione orale. Nell’apparato sono state comunque riportate anche le lezioni GP, da
considerarsi talvolta buone, trattandosi però il più delle volte di facili congetture, spesso riguardanti problemi di punteggiatura.
Test. M GP P B vv. 42-48
Tit. Sa morte de Pettenaiu] GP P B In morte de Pettenaiu M
2. e i] GP P e M 6. Una] GP P E una M || respondet] P rispondet GP M 7. itte] GP M ite P cfr. XIX, 5 8. riccu] GP riccu, P ,credendelu riccu, M 9. resortu!].
P resortu… GP resortu. M 10. a ticcu a ticcu] GP M a ticcu a ticcu, P 16. Issu] GP
P E issu M || respondet] P rispondet GP M 19. binu] P M binu, GP 21. ’e pane] e pane P GP M 25. bucca,] P GP bucca M 26. pettorru,] GP pettorru P M
31. Ello,] ello P E nabat issu GP M 35. recattu] P GP reccattu, M 38. sende] M
[…] P GP la lezione di M restituisce un endecasillabo corretto, in P e GP ipometro; potrebbe
anche trattarsi di accorta congettura e P e GP andrebbero letti o con paragogica dopo àt (àta), o
con dieresi in bisione (bisïone), oppure ancora con dialefe tra bidu e in 39. incrasa] GP in
crasa P M 40. nigheddu,] GP M nigheddu P 44. ’e] P e GP a M || mere;] P mere GP mere, M 45. pranghiana] M GP pianghiana P || suppeddu,] GP M suppeddu P 47. mucculittu] GP P mucculeddu M 51. Sa luba como nessi frorit] GP
P Sa luba \ commo / nessi frorit M 52. In] P GP [A + I] M 59. Lassa!] P M lassa
GP || narat] P GP na \ ra / t M 60. sa ferramenta] P GP in testamentu M probabile congettura di M, che, leggendo male ferramenta, si è appoggiato sul successivo v.74 || lassada] P GP lassau M 61. «Assumancu] GP M Assumancu P è Muria che replica a Zori e non quest’ultimo che continua a parlare 62. mea;] GP mea P M 63. Pradu?] Pradu
P GP M il tono della frase è interrogativo 64. Gai nabat Murja,] P M Gai li nat
Murja; P 65. parte,] M parte P GP 67. baetinde!] P baetinde GP M || arte,] GP
arte P arte! M 68. cumpanzu;] GP cumpanzu P cumpanzu, M 69. caridade,] P caridade GP M || in disparte] P GP a disparte M la lezione promossa a testo pare più corretta, trattandosi di un calco dall’italiano ‘rimanere in disparte’ 70. nde] P de GP ’de M
71. mi] P GP […] M || zascu,] zascu P GP M 73. piccas] GP piccasa P M la paragogica potrebbe essere d’autore, vista la concordanza P+M, ma la soluzione implica una dialefe faticosa (piccasaVin) 78. dobbo] P GP dubbu M la lezione dobbo ha il vantaggio di
appoggiarsi a espressioni affini e semanticamente vicine a quella omomatopea, come addobbare
(cfr. v. 50) 79. Ohi!] P Ohi GP 80. narat] P GP na [r + b] at M || zia,] GP zia P
81. tottu] P in tottu M GP 82. Caria,] M Caria GP P 83. iscracau,] P iscracau GP
M 85. cravau,] M cravau P GP 86. iscudendel’] P iscudende GP M 89. femineddas] P M feminas GP 90. porrin] P GP e porrin M || nigheddu] P nigheddu. M GP
91. e s’imbrenucan e precan’ a Deu] P E cominzesin a precare a Deu M pustis cuminzan a precare a Deu GP si potrebbe ipotizzare la presenza di varianti d’autore; si è preferita
quella di P, rispetto alla quale quelle di GP ed M paiono banalizzazioni
310
Apparati critici
XXXVII. Sos campanones de Santa Maria
Si è fedelmente seguito GP, facendo affidamento sulla dichiarazione di Gonario Pinna, dunque supponendo che il curatore si riferisca ad un esemplare autografo:
Quando il manoscritto [di PDN] era in tipografia, ho avuto la fortuna di ottenere da prof.
Sebastiano Dessanay, figlio del poeta, il testo originale completo del poemetto Sos campanones de Santa Maria (PDN, p. 111)
Di un manoscritto de Sos campanones de Santa Maria gelosamente conservato dall’avvocato
Martino Offeddu di Nuoro ebbe a riferire Fernando Pilia (P), ma le nostre ricerche in questa direzione non hanno avuto esito positivo. Considerata la notizia fornita da Pinna, è
comunque curioso che l’altro testimone de Sos campanones de Santa Maria (SD), proveniente dalla medesima fonte di GP, rechi lezioni divergenti, seppure non di natura sostanziale, rispetto a GP stesso. Per questa ragione si è ritenuto opportuno riportare cautelativamente in apparato le varianti SD (oltre a una, v. 86, relativa alla scarsa porzione di testo presente in P, per altro in accordo con SD).
Riguardo ad una possibile datazione del testo, si può indicare un termine post quem
nell’anno 1904. Da rilevamenti personalmente condotti, l’unica campana alla quale
Dessanai avrebbe potuto riferirsi, nel caso egli avesse preso spunto da un episodio reale, risale al 1904 (due sono del 1953, una è del 1968, un’altra è del 1851, e un’altra
ancora è del 1859).
Test. GP SD P vv. [1]-[4] e 81-88
Tit. Sos campanones de Santa Maria GP SD P
[3]. malignos SD [4]. giusta SD || armonia SD 1. populu SD 3. annatas SD
4. mai SD 13. pensas SD 17. insurdaban SD 25. Mussennore SD 26. cun SD
28. valore SD 33. Verso ipermetro, non sanabile se non attraverso la soppressione della e
34. faina SD 50. ch’ in SD 52. la SD 58-59. piazzale | inube SD 66. talliora SD
76. attarzu SD 80. toccana \ a / surdas lassas SD 81. lamentosu SD 83. male SD
84. furiosu SD 85. reposu SD 86. orinale SD P 87. chin preide SD 88. sa conca
SD 90. limbeddos SD 91. verso ipometro 92. gana SD 93. lios SD 94. los SD ||
ganzos SD 95. aneddos SD 98. reparau SD 101. cadoro SD 103. isfrittau SD
104. lassae cando SD 105. armoniosu SD 112. resessia SD 113. consolu SD 115. istraccau SD 116. lapiolu: SD 120. agunia SD
XXXVIII. Passende in Pattada
Test. SD
1. tua 2. r [e + a]jone 7. [ + in]chiat \\ binchiat // 9. istene 14. Mirana
XXXIX. Leghende s’O de Giotto
Il titolo riguarda la probabile sede originaria dell’articolo di Stanis Manca (Il poeta di
Nuoro, cit.) cui il sonetto si riferisce: la rivista «O di Giotto» (attiva durante l’ultimo
decennio dell’Ottocento) di cui è però risultato irreperibile il numero contenente l’articolo su Dessanai.
311
Apparati critici
Test. SD
6. binu
XL. Mustarolu
Riportato in quattro testimoni: S, SD, G ed M1; il primo dei quali pare, per inchiostro e caratteristiche materiali, il più antico; mentre SD e G paiono molto più recenti, ed ancora più vicino a noi sembra essere M1. La lezione qui riportata non tiene
conto di quella M1, da ritenersi il prodotto di tradizione orale. Francamente non è
possibile dare una prova certa della presenza di quest’ultima, ma, viste le pesanti divergenze testuali di M1 rispetto al resto della tradizione, non sarebbe plausibile, d’altro canto, invocare la presenza di varianti d’autore in un sonetto che deve aver rivestito ben poca importanza per l’autore stesso. È improbabile che Dessanai sia ritornato sul testo di un componimento quale Mustarolu rimaneggiandolo da cima a fondo.
Vero è, invece, che testi di questo genere sono piuttosto stimati dai “fedeli di Bacco”
nuoresi, e ancora oggi accade di leggere affissi alle pareti di qualche iscopile [bettola]
versi inneggianti al luogo di mescita, ai suoi avventori e, ovviamente, a ciò che vi si
mesce. È plausibile che Mustarolu abbia avuto una discreta diffusione tra i lettori nuoresi e che M1 non sia altro che la trascrizione di una dizione a memoria del testo o l’apografo di una copia riportante uno stadio alquanto corrotto e recenziore della trasmissione testuale. Comunque sia, le varianti di M1 figurano in apparato, perché il
lettore si faccia un’idea di tale versione nuorese e dell’entità delle varianti da questa
tramandate.
La lezione leggibile negli altri testimoni è abbastanza compatta. C’era da aspettarselo: S, SD e G sono strettamente imparentati (i testi di S erano già in possesso della signora Fanny Satta, colei che in seguito ha redatto i testi di SD; da parte sua G proverrebbe, per dichiarazione della fornitrice, una pronipote del poeta, dalle carte Satta-Dessanay: SD). Eppure non mancano divergenze che meritano di essere osservate (non certo per l’importanza che questo sonetto assume all’interno dell’opera dessanaiana ma per
una certa loro istruttività). A parte il bucca (v. 10) aggiunto in G, che pare un’interpolazione (il verso risulta ipermetro), la lezione divergente più importante è quella del v.
13: sustenen in S e argumentan in SD e G; il che suggerisce almeno due ricostruzioni. La
prima è che i testi derivino da un autografo o da una copia di questo recante ambedue
le varianti (una delle quali accettata da S e l’altra da SD+G). La seconda ipotesi, che
non cambia la sostanza del discorso, è che SD e G siano copie di un subarchetipo y portatore della variante argumentan, il quale l’avrebbe tratta da un archetipo x contenente
ambedue le lezioni, escludendo che SD sia descriptus di G o viceversa.
Apparati critici
bogat SD boga G boca M1 || binette] S SD G su binu M1 || zivile,] M1 zivile
S SD G 7. tantes de] S SD G ca est pro M1 || assuccare] S assucare SD G M1 8. juchen] S M1 SD (iuchen) jughen G || tittile] S SD G titile M1 10. Zurreddu] S
SD G Zurrittu M1 || bette] S M1 bett’ ’e SD bette bucca e gorgobena G 12. totu] S tottu SD G M1 13. sentenzian] S SD G juran M1 || sustenen] S argumentan SD G proponen M1
XLI. Per ballottaggio
Due soli testimoni (M1 e G) riportano integralmente il testo, scritto, secondo quanto riferisce SALVATORE SATTA (Lettera da New York. I ricordi del libertario, in «Cronache
provinciali», Nuoro, anno I, n. 4, settembre 1960; poi in CESARE PIRISI, Giornale di
Barbagia, Cagliari, ed. Sarda Fossataro, pp. 452-453), per il ballottaggio fra Are e Garavetti. Unica divergenza quella dei vv. 10-11:
G
M1
cun sa libera ischeda a bonu portu de sa libera ischeda a bonu portu
fin juchende sa barca cinta ’e gloria juchiende sa barca cinta ’e gloria
dove si è preferito M1, interpretando la lezione di G come un’interpolazione dovuta a
cattiva interpretazione o a scarsa leggibilità della parola juchiende (tutta la terzina è resa difficile da iperbati piuttosto forti), contenuta nel suo ipotetico antigrafo, dove può
facilmente essersi verificata la caduta della -i-: juch(i)ende > juchende. La qual cosa avrebbe reso poco comprensibile il passo (juchende è gerundio presente; juchiende è un imperativo presente plurale), sanato in G con due interventi: cun in luogo di de; aggiunta di
fin prima di juchende. L’incipit del sonetto è ricordato da Salvatore Satta nell’articolo citato, con una variante, congregados (cullegados G M1).
Test. G M1 Satta (v. 1)
Tit. Per ballottaggio, elezioni politiche 1909] G Ballottaggio fra Dore e Garavetti M1
1. cullegaos,] G M1 congregados Satta 2. terra;] M1 terra G 3. iscadenaos] M1 iscadenados G 4. artes,] M1 artes G 5. onoraos] M1 onorados G 6. cuntierra] G contierra M1 7. comporaos,] G comparaos M1 10. de] M1 cun G 11. juchiende] M1
fin juchende G 12. custos] M1 cussos G
XLII. Cassa sentz’arma
Test. S SD G M1
Tit. Mustarolu] S SD G S’iscopile M1
1. Alligros,] S Alligros SD G Corazzu M1 || cumpazzettes] S SD cumpanzettes G
M1 3. Medas bind’at in] S SD G Currimus totu a M1 || de] S SD G e sa M1
4. a tassa in manu, (manu SD G) in s’oru] S SD G bellu e su focu e largu M1 ||
\su/ fuchile] S su fochile SD M1 su fughile G 5. Lestra] S SD G Curre M1 || Paschedda,] S M1 Paschedda SD G || garrafina,] S M1 garrafina SD G 6. bocat] S
312
Test. SD
Tit. Cassa senz’arma SD
6. arrib[a + e]nde 11. leporeddos 19. marmina sic! Potrebbe essere anche fraintendimento
di In sa mardina (‘Nel branco’) 21. [balansa + \ balassa] 22. ucchidet 26. comare 31.
gai 33. fattu 37. ingrata 46. appenat 52. disdicciada 57. pista pista 58. saporia; 60. [ + pre]ndet
313
Apparati critici
XLIII. Zigarru
Tra i due testimoni che riportano il testo (M ed SD) non s’impone alcuna scelta sicura in presenza di lezioni equipollenti. Con buona approssimazione si può affermare
che sia M e sia SD non risalgono ad autografi dessanaiani: entrambi non rispettano il
rapporto rimico tra i vv. [1] e [4] della pesada (la strofa introduttiva di quattro versi) e
l’ultimo verso di ogni strofa (le cambas torradas). La struttura della sesta torrada (in cui
tutti gli ultimi versi di ogni strofa devono rimare fra loro, oltre che con due dei versi
che compongono la pesada; in tal caso, il primo ed il quarto) impone, fino a prova contraria, il ripristino editoriale della desinenza log. -adu (nuoresizzata nei due testimoni:
-au) ad ogni fine strofa e nei versi della pesada interessati, dato che l’autenticità di -adu
è assicurata dalla parola esposta in rima al v. 6: Pradu, toponimo nuorese con terminazione indubbiamente genuina. Dunque: non sejau (v. 12, SD), ma sejadu; non tostau (v.
18, SD ed M), ma tostadu; e così via. Oltre al già citato v. 6, riportano correttamente
la forma log. i vv. [1] e [4] di ambedue i testimoni (anche se in M, che presenta correzioni, limitatamente alla scriptura prior) e il v. 12 in M, le altre cambas torradas terminano tutte con desinenza nuor. Per quanto riguarda le varianti sostanziali si è fatto
maggiore affidamento ad M (più corretto), ricorrendo ad SD esclusivamente in presenza di errori manifesti di M, ai quali SD rispondeva positivamente.
Test. M SD
Tit. Zigarru M SD
[3]. gurpas] M curpas SD || Comissariu] M commissariu 1. Capello,] Capello M
SD || ca teniat] M [ca teniat una gattu + \ pro c’aiat una gattu] SD 2. cuchinare,]
cuchinare M SD 4. Tanca] M Tan [g + c]a SD || Palattu,] Palattu M SD 5. disaccattu,] SD disacattu M 7. portanta portanta] M portante portante SD 10. Custa est
sa Terra Santa;] M Custa \ si / est Terra Santa SD 11. si ralligrat] M si nde ralligrat SD
|| cantat] cantata M SD 15. boddire] M goddire SD 16. fachet] M faghet SD 17. Corfu] M cor [p + f]u SD 19. zigante] M [g + z] igante SD 21. cadamassestat] M gadamassesta, SD || boddo] M goddo SD 22. ipermetro 23. e cominzat] M ma cuminzat SD 24. [e Zigarru si biet apprettau. + \ e Zigarreddu s’er bidu apprettau]] SD
e Zigarreddu s’incontrat bagnau.M 26. falet,] falet M SD 28. universale!] SD universale. M 29. reparo,] SD riparo M || male,] male M SD 34. pius] M p[i + r]us
SD 36. formadu] formau M SD 37. su carzone] M in \ sos / carzone SD
40. burruttone] M burruttones SD 44. bocat] M [tirat + \ bocat] SD || bibu,] M
bibu SD 45. ribu,] ribu M SD 47. torrana] SD torrat M || alores,] alores M SD
49. chin] SD chi M 50. Zigarreddu] M Zigarru SD 51. ell’inube] M ello! ube SD
54. a differente] SD differente M 55. dies,] dies M SD || atturdidu] atturdiu SD
attordiu M 56. a sa] M in sa SD || Tanda,] Tanda M SD 58. e narat] M [e narat
+ \ nandeli] SD || azir] M [azis + \ azes] SD 59. bessidu] bessiu M SD 62. zai]
SD zà M 63. cand’ecco chi lir] SD e cando ecco lir M 64. cherfidu bagnare] M cherfiu [accunnortare + \ [- bagnare] /] SD 65. e] SD in M || cherfende] M cherende
SD || jumpare,] iumpare M SD 66. impare] M impari SD 69. bocada] M bogada
SD 71. aiò,] SD aiò M 73. Cadamassestat] M Gadamassesta, SD 75. acconcaes] M
acconcades SD 79. iocar balla] M iocas, balla! SD 81. cocher ello ello] M cocher, ello! ello! SD 82. manicada,] manicada M SD 85. accidente,] M a [(cc) + \ zz] idente
SD 86. diaulu ’e sa mama] diaulu sa mama M SD 87. manicau] M man[d]icau SD
89. [nad / r \ ande in sutta + \ nadrande in mesu]] SD i sa M
314
Apparati critici
XLIV. Ammentu
Test. SD
3. ipermetro; con sempre in luogo di semper (tutt’altro che improbabile la confusione tra le
due forme, entrambe usate da Dessanai) si avrebbe un settenario 7. disicciadu 17. amante
24. [cuntentu + continu] 26. celestiales 31. so[n + s] 34. affrantu 45. vidas 50. isettu 51. sovrumanu 57. ,columba 60. a[r + l ]tare
XLV. A s’amigu Baddore (alla maniera di Orazio) Littera
Test. SD
26. totu
XLVI. Disizu vanu
Le due copie coincidono, salvo trascurabili varianti grafiche. Ci si è comunque attenuti a SD.
Test. SD S
Tit. Disizu vanu SD S
[1]. Columba cfr. [1] della torrada conclusiva [3]. mente 9. ischires 14. amare 26. benignu 42. cantos 44. consolu [2]. istante […] cheria
XLVII. Nue
Test. GP
XLVIII. Cando, ruttas sas fozas
Le due stampe non divergono.
Test. SM B
XLIX. Issa mi nabat
Test. SM
L. A Chillina
Test. SD
29. sedi SD
315
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Fonti
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Polemica; Adjecta (Liber Caiaphas; Interludium; Civilia)].
«Vita sarda. Periodico quindicinale di scienze, lettere ed arti» (1891-1893), riproduzione anastatica con un saggio introduttivo di Antonio Romagnino, Sassari, EDES, [1978].
II. Inedite e manoscritte
AA. VV.
M
Quaderno (mm. 205x150, cc. 39) conservato presso l’archivio dell’avv. Pietro
Mastino. Testi di Salvatore Rubeddu, Pascale Dessanai, Francesco Ganga, Sebastiano Satta. Sulla c. 1r compare, a matita, la dicitura: Pintori Giov[anni] Maria (insegnante) | Mimiu Zizi (probabile estensore della raccolta; si tratta infatti
della stessa persona: indicata prima con cognome e nome, e di seguito con nome in sardo e soprannome). La c. 1v è bianca; seguono i testi, divisibili nelle seguenti sezioni:
I. Salvatore Rubeddu (ampia sezione: cc. 2r-29r)
[cc.]
Resurrezione della carne | “Su zudissiu universale” |
di Salvatore Rubeddu
Resurrezione di “Lot”
Resurrezione di “Bobore Bardile”
Sa Bibbia
Sonetti a “Prade Puddinu” | 1°
2°
3° | Il sogno del frate
Per onomastico (A Tatana) | Sonetto
Sonetto a Bobore Balente, impiccatosi ad | un gelso
Dialogo fra San Pietro e San Gioacchino | Sonetto caudato
Ode a Clorinda
L’usignolo (idillio)
A Pipiolu
A Zoseppedda nemmos
[2r-5r]
[5r-8r]
[8r-21v]
[21v-22v]
[23r]
[23v]
[24r]
[24v]
[25r]
[25v]
[26r]
[26v-27r]
[27v]
[28r-29r]
II. Pascale Dessanai (piccola sezione: cc. 29v-37r; cfr. Nota ai testi), spezzata al
centro da una composizione in lingua di Francesco Ganga:
Festino Daziario
[33r-34v].
319
Bibliografia
Fonti
Su teraccu anzenu
[Mortu Michel’Allena coraggiosu]
A Murineddu
[Como bisonzat de li ponner frenu]
[Mai no happ’ischidu ite fit dolu]
Versi del figlio Giovanni dal carcere di Bologna al padre
Su Jubarzu anzenu
[Medas mi nana chi ti ses bantau]
[Como ti cheres s’onore torrare]
[Da chi ses pacos annos coiubadu]
[Sacriliga pruite no cunfessas]
A Sorrrer Ferraris
[Cand’iscanzas sas laras]
[Iscurta unu momentu]
[Una d’atteru modu]
A Picottu
[Su prus chi fachet prest’a ti leare]
[Como chi ses’in su carrasecare,]
[Menzus s’omine mortu e sepurtadu]
[Ha femina isfazzada e avvilida]
III. Sebastiano Satta:
Su battizzu
[37r-37v]
IV. Francesco Ganga (cc. 37v-38v):
A Pasquale Mattu
alla bionda normalità
Marietta ballabene
[37v-38r]
[38r]
[38v]
[cc. 39r-39v bianche]
PORCU DAGA, NICOLA
DS
Dattiloscritto (sulla coperta in cartoncino: POESIAS SARDAS | de | ZIU DAGA poeta famoso di Nuoro | PORCU Nicola), mm. 280x210, cc. 48 scritte solo
sul recto, conservato presso la Biblioteca Sebastiano Satta di Nuoro (collocazione: MISC 851.8 PO SARD). Probabilmente compilato da Antonio Porcu (come si evince dalla nota a penna che figura sull’interno della coperta: Omaggio del
nipote A. Porcu e Fois Sebastiana), contiene trentaquattro componimenti di Nicola Porcu Daga divisi in due sezioni:
[19-20]
[21]
[22]
[22]
[22]
[22]
[23-26]
[27-28]
[29]
[30-32]
[33-34]
[35]
[35]
[36-37]
[38-39]
[40]
[40]
[41-42]
[43-45]
[46-48]
RUBEDDU, SALVATORE
[I] Poesias sardas de su famosu Poeta Nicola Porcu | notu Ziu Daga [cc. 1-17]:
MR
[cc.]
[Sole de raios d’oro ]
[Cara istella luchente]
[Un’amorosa cantilena]
[Cando ti happ’intesu faeddare]
[Grillu si tind’essit su beranu]
[Columba ite mi nasa]
[Bides columba mia]
[Bella nos’isponzamus de s’affettu]
[Baddu chie mi dada un’accunnortu]
[Nara istimadu amante]
[Gesusu cun Battista]
[Amante pruite m’hasa abbandonadu]
[Pius bella non torro a istimare]
[Pro comente faeddas cun sas laras]
[1-2]
[2]
[2]
[3]
[3]
[4-5]
[6]
[7-10]
[10]
[11-12]
[12]
[13-15]
[16]
[17]
[II] CRITICAS - DISPREZIOS | E LAMENTOS | de | ZIU DAGA [cc. 18-48],
contenente trenta testi:
320
Incartamento grossolanamente rilegato, mm. 295x205 (da p. 125 a p. 166:
mm. 270x205), conservato nell’archivio dell’avv. Mastino. Contiene settantasette (due dei quali trascritti due volte) testi attribuiti a Salvatore Rubeddu. La
raccolta si presenta organicamente riordinata, le pagine sono numerate, in cifre
arabe, da p. 3 a p. 166, ma con tre salti: da p. 42 a p. 85, da p. 120 a p. 125,
da 152 a 155 che fanno pensare a lacune dovute a smembramento. In apertura
figurano due pagine fuori numerazione, contenenti un indice dei testi (la quarta facciata è bianca), di mano seriore rispetto alla compilazione del ms., poiché
tiene conto delle lacune su indicate, dando l’elenco dei testi così come si presentano allo stato attuale del ms.
La raccolta risulta, invece, composita in quanto a tipi di grafia e a tipologia del
materiale cartaceo utilizzato. Vi si riconoscono principalmente due mani (A e
B): la parte di A va da p. 3 a p. 42, dove s’interrompe momentaneamente la numerazione (pp. 3-16: formato protocollo; pp. 17-24: righe, senza margini; pp.
25-32: formato protocollo; pp. 33-42: righe, senza margini), e riprende da p.
125 fino al termine, salvo l’intrusione di una terza mano, C, che ha vergato il
breve testo intitolato Poesia per il battesimo di Malaspina (p. 152; non incluso nell’indice che apre il ms., e dunque aggiunto successivamente); questa sezione è
interamente composta di fogli con reticolato a rettangoli. La parte di B comprende il corpo centrale del ms. (pp. 85-120), cambia anche il tipo di fogli (pp.
85-104: tipo libro mastro; pp. 105-120: righe, senza margini); contiene sonet321
Bibliografia
Fonti
ti numerati con cifre romane (si trattava verosimilmente di una silloge costituita a parte).
Elenco dei testi:
pp.
“Passio” a su connottu
Brindisi - a su connottu
Antonica Petitu e Duttor Pirisi
Su rosignolu
Ode a Clorinda
Mutu [Cando essit s’aurora]
Mauru e Chiricu
Sa chitarra de Ziu Faragone
Su bichinau de cumbentu
Sonetto | Pro su Zibileu
Sonetto- a Pin…Ches..Vit..
Sonetto. A Piccolina (Tatana Seddone)
A Costanza Pirisi | Gosos
Melis de Sa Posta | Gosos
Lode a Carmena Chessa
A Maria Chessa
Sonetto Sardo-Onomastico | Per S. Giuseppe
Patriarca-alla Società Operaja
Sonetto Sardo. (a Soru)
Versi Italiani | Giorno Onomastico
Sonetto (Nuoro 27 aprile 1870) | Dono d’un fiore
Sonetto [Ceda una Elena di bellezza il vanto]
Terzine [Rovini il mondo oppur cadan le stelle]
Sonetto[Orfeo scenda con la lira e suoni]
A Dott. Leone | Sonetto
Dottor Leone | La Medicina | Sonetto Sardo
[p.42 bianca]
[Inizia sezione sonetti: pp.85-120]
Sonetto 1° [Sende in su sonnu amante mi so bidu]
II Si rivolge ad un uccello
III Si desidera morto
IV Si rivolge ad un usignolo
V Esprime le bellezze della sua amante
VI [Certu chi Tisbe non fit che a tie]
VII [Ah! Itte dura ispada tenzo fitta]
VIII [Amore de continu mi maltrattat]
IX [O tue, chi no ischis de s’amore]
X [Lessen s’honore tottu a sa Sardigna]
XI [Cale rosa ch’ispuntat su manzanu]
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3-4
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93
94
XII [Lassami morrer lassa consumare]
XIII [A s’istante sos ojos chi si han bidu]
XIV [Mi sognesi partinde a seportura]
XV [Bois, muros, onz’ora mi bidides]
XVI [Tu m’has a sa morte reduiu]
XVII [Tue furadu nd’has su coro meu]
XVIII [Benindemi a sa mente Venus bella]
XIX [Non credo chi sa limba appat podere]
XX [Essende ancora in su primu timore]
XXI [Unu puzone ch’istat disperadu]
XXII [Cando su coro mi mustras in laras]
XXIII [Si bidére sas penas allenadas]
XXIV [O maleditta mente chi has fissadu]
XXV [Orfeu, chin su liutu sonante]
XXVI [Visione. | Vide morta l’amante]
XXVII [Rammentandemi cudd’ora fatale]
XXVIII [Cando penso e non bido sa chi adoro]
XXIX [Mentres sezzidu fia ripensende]
XXX [Non t’amat coro chi non restet vintu,]
XXXI [Venus resto pro tene male biu]
XXXII [Cando su dardu furibundu tiras]
XXXIII [Mira unu navigante in artu mare]
XXXIV [Cale mama chi sola istat mirande]
XXXV [Apollo chi fra tottus ses bantadu]
XXXVI [Maju chi cun sa fronte ricca e bella]
XXXVII Risposta del mese di Maggio
[termina sezione sonetti]
Tragedia
Brindisi[cfr. pp. 4-6]
Dialogu | tra | Zizedda-Grassia Catzu- e Antonica Petitu
Dialogo | tra | San Gioacchino e San Pietro
Traduzione del dialogo
Terzine [cfr. p. 38]
[p. 144 bianca]
Sa Bibbia
[pp. 149-151 bianche]
Poesia per il battesimo di Malaspina
Sonetto | A Prade Puddinu
Sonetto | A Signor Paddeu
Sonetto a R. C.
Sonetto. | Testamento di Fra Pollastro
Sonetto. | A Bobore Balente. Appicatosi ad un gelso
A L. F. di Nuoro
Canzone a Pipiolu
Anacreontica Sarda
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131-134
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158
159
160-161
162
163
323
Bibliografia
Gosos [Viva Naniu Bobore]
Gosos [Abba dimandat Segnore]
Opere e articoli utilizzati
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327
INDICE DEI TESTI
A Chillina
A Diana Bideton
A Lia
A Luchia C....
A Madalena
A Maria
A Maria Wagner
A Miriade Bondinata
A s’amigu Baddore
A tie, bella durmida!
A unu signoriccu divertiu
Abbandonu
Ámami
Ammentu
Cando, ruttas sas fozas...
Cántigos de su coro
Cassa sentz’arma
Cherrende
Cuntrastu
Disizu vanu
Dolore
[Flagellan sos iscoglios de Caprera]
In s’abba
In s’ora de sa partenzia
Indifferenzia
Issa mi nabat
Juramentu
Leghende S’O de Giotto
Luntana
Malinconia
Moribunda
Mustarolu
Non b’àt itte isperare
Nue
n.
testo
apparato
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Indice dei testi
Passende in Pattada
Per ballottaggio
Prinzipios de amore
Ribellione
Rimembranzia
Sa morte de Pettenaju
Si essere......
Siccagna
Sos campanones de Santa Maria
T’adoro
Tempesta
Torrau
Ultima pagina
Vanas presunziones
Violas
Zigarru
330
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314
INDICE DEI NOMI
Aleardi, Aleardo, 92-93 e n., 152 e n., 219
Alziator, Francesco, 73
Angius, Vittorio, 49
Antonelli, Roberto, 97 n.
Araolla, Girolamo, 34, 41 n., 45, 49, 59,
82 e n., 86, 107 e n.
Arce, Joaquin, 45
Are, Luigi, 313
Armani, Giacomo, 66
Asor Rosa, Alberto, 44, 151 n.
Atzori, Gianni, 73
Auerbach, Erich, 124, 125
Bagni, Paolo, 122 n.
Ballero, Antonio, 64-65, 66-67, 70, 103106, 109-110 e n., 114-115
Bakunin, Michail, 69
Basso, Alberto, 66 n.
Beccaria, Gian Luigi, 129 n.
Belli, Giuseppe Gioacchino, 32, 50, 115,
123
Bellorini, Egidio, 42 e n., 95 n., 113 e n.
Beltrami, Pietro G., 151 n.
Berlinguer, Luigi, 74
Berrutto, Gaetano, 47
Bianchi, Stefano, 46
Blasco Ferrer, Eduardo, 24 n., 45
Bocaccio, Giovanni, 39 n.
Boi Dessì, Antonio, 100 n.
Borgese, Antonio Giuseppe, 46
Boullier, Augusto, 137 n.
Brevini, Franco, 13, 45, 50 e n., 60 e n.
Brigaglia, Manlio, 72, 73, 74, 123 n.,
158, 305-306 e n.
Bua, Mimmo, 84 n., 143 n.
Calvia, Pompeo, 111, 127 e n.
Cam, vedi Cimino, Amico
Canio, Salvatore, 96-97 e n.
Cano Lintas, Antonio, 69
Capece, Pasquale, 88 n., 102 n.
Capitta, Gavino, 59
Cara, Berto, 43
Caravaggio (Michelangelo Merisi), 107
Carducci, Giosuè, 13, 37, 87 e n., 90 e n.
Carta Raspi, Raimondo, 116
Casula, Antioco, vedi Montanaru
Cavallotti, Felice, 109
Cecaro, Rita, 69
Cerina, Giovanna, 93
Cherchi, Pietro, 41 e n., 82, 85
Chiesi, Gastone, 66
Chispima, Leone, vedi Pisanu, M.
Cimino, Amico, 13, 64, 69-70, 72, 77-78
e n., 79, 80-81 e n., 142 n., 156, 305
Cirese, Alberto Maria, 93, 137 n.
Ciummei, Alfredo, 66
Ciusa Romagna, Mario, 58 e n., 60 n.,
73, 112 e n., 158
Contini, Gianfranco, 13, 31 e n., 81
Corda, Elettrio, 304
Corda, Francesco, 47, 74, 87 n., 137 n.
Cossu, Paolo, 94
Cottes, Ludovico, 47
Crispi, Francesco, 66
Croce, Benedetto, 44-45
Cubeddu, Giovanni Pietro, vedi Cubeddu, L.
Cubeddu, Luca, 38, 45, 49, 59 e n., 90
n., 91 e n., 96 e n., 97-99 e n., 100 n.,
331
Indice dei nomi
152 e n., 271
Cucca, Francesco, 47
Curtius, Ernst Robert, 97 n., 141 n.
Dante Alighieri, 14, 38, 40, 98 e n., 124,
129
da Volpedo, Pellizza, 106
De Mauro, Tullio, 44, 50 e n.
De Michelis, Eurialo, 65 n., 69, 103 e n.
Debenedetti, Giacomo, 108 e n.
Deledda, Grazia, 13, 37, 64 e n., 65 e n.,
66, 68, 69, 70, 73, 103 n., 112 n., 120
n., 124, 126 n., 130, 132 e n.
Deplano, Andrea, 41 n., 93, 108 n., 116117, 137 n., 142 n.
Dessanai, Delfino, 67, 71
Dessanai, Giovanni, 66, 70
Dessanai, Ignazio, 66, 70
Dessanay, Sebastiano, 18, 66 e n., 67, 69,
71, 73, 158, 161, 305 e n., 312
Dettori, Angelo, 117
Dettori, Antonietta, 74
di Pilla, Francesco, 64 n., 70, 73,
Donizetti, Alfredo, vedi Ciummei, A.
Donizetti, Gaetano, 66
Dore, Maria Francesca (Cicita), 64, 65,
66, 69, 75, 76, 309
Dore, Melchiorre, 84, 85
Falchi, Luigi, 103, 111
Fenu, Giovanni, 69
Francioni, Federico, 69
Fulgonio, Fulvio, 69
Gallisai, Menotti, 65, 76
Gallisay, Priamo, 66-67, 69
Ganga, Francesco, 160
Garavetti, Filippo, 313
Garibaldi, Giuseppe, 109, 115
Garzia, Raffa, 137 n.
Giusti, Giuseppe, 37
Gorni, Guglielmo, 151 n.
Gourmont, Remy de, 122 e n.
Gristolu (Christophe Thibaudeau), 96 n.
Guerrini, Olindo, vedi Stecchetti, L.
Guido, Valeria, 159
Guiso, Giuseppe, 308
Jauss, Hans Robert, 99 n.
332
Indice dei nomi
Lausberg, Heinrich, 119 n.
Lavinio, Cristina, 32 n.
Loi, Salvatore, 47
Loria, Giovanni, 93
Madau, Matteo, 31-32 e n., 44, 49, 93,
137 n.
Madau, Sebastiano, 73, 90 n., 108 n.
Manca, Alberto, 73
Manca, Dino, 47, 71, 74
Manca, Stanis, 63 e n., 64 e n., 65 e n.,
68, 70, 73, 159, 272, 305-306 e n., 311
Manconi, Sebastiano, 51 n.
Mannu, Francesco Ignazio, 109
Marchi, Raffaello, 116
Massaiu, Mario, 73
Mastino, Pietro, 65
Mattana, Salvatore, 73
Mattone, Antonello, 74
Mazzotta, Clemente, 301 n.
Mele, Salvatore, 85
Melis, Efisio Vincenzo, 125
Mereu, Onorato, 70
Mereu Canu, Gaetano, 64, 79, 85, 156
Mereu, Peppino, 32 e n., 37 e n., 47, 92
e n., 129 e n.
Migheli, Antonio Domenico, 84 e n.
Mingioni, Diego Pasquale, 46
Miraglia, Matteo, 85
Mioni, Alberto, M. 47
Montanaru, 106-107 e n.
Moretti, Marino, 32
Mossa, Paolo, 32-33 e n., 41 e n., 83 e n.,
84, 91 e n., 98-99 e n., 100-101 n.,
107, 116, 117
Mulas, Luisa, 70
Mura Ena, Antoninu, 97 e n.
Mura, Antoniandrea, 103
Mura, Antonio, 49, 116
Mura, Predu, 49 e n.
Murenu, Melchiorre, 102 n.
Murru, Giovanni Antonio, 52-57
Naitza, Salvatore, 70, 73, 105 n., 109 n.,
110 e n.
Noventa, Giacomo, 108
Nurra Sini, Maria Antonia, 63
Offeddu, Martino, 311
Paba, Tonina, 41 n., 108 n.
Paccagnella, Ivano, 44
Pascarella, Cesare, 50, 124
Pasella, Pietro, 86
Pasolini, Pier Paolo, 13, 33 e n.
Pasquini, Emilio, 19
Pau, Antonio, 63
Pavignani, Alessandra, 122 n.
Pellegrini, G. Battista, 47
Pericu, Nino, 84 n.
Petrarca, Francesco, 88 n., 151 n.
Pieroni, Cesare, 69, 76-77 e n.
Piga, Giovanni, 49, 72
Pilia, Fernando, 67 e n., 69, 72, 102 n.,
103 e n., 159, 306, 312
Pillonca, Paolo, 32 n.
Pinna, Gonario, 46, 58 n., 72, 103 e n.,
118 e n., 121, 126, 132, 158, 306, 307,
311
Pintor Sirigu, Efisio, 93
Pintore, Michele, 69
Pio IX, Papa, 274
Pira, Michelangelo, 32 n., 59 n.
Pirandello, Luigi, 126 e n.
Piras, Natalino, 74
Pireddu, Antioco, 131
Pirisi, Cesare, 66 n., 158, 313
Pirodda, Giovanni, 74, 87 n., 114 e n.
Pisanu, Michele, 46
Pischedda, Tommaso, 86
Pittau, Massimo, 21 e n., 38 n., 42-43 e
n., 49, 165 n.
Piu, Giommaria, 83 n.
Poggi, Francesco, 112 n., 115
Porcu Daga, Nicola, 50 e n., 130-131
Porta, Carlo, 14, 32, 123
Provaglio, Epaminonda, 65 e n., 73
Quevedo, Francisco de, 14
Raffaellini, Gian, 85
Rohlfs, Gerhard, 26 n.
Rolli, Paolo, 93, 95 n.
Romagnino, Antonio, 93
Rossi, Giuanni, 49
Rovito, Teodoro, 70
Rubeddu, Salvatore, 32 e n., 46, 50 e n.,
51-52, 130, 160
Ruju, Romano, 59 n.
Sanna, Antonio, 49 e n.
Sanna, Gigi, 73
Sanna, Luigi, 63, 75
Sanna, Paola, 93
Satta, Antonello, 69, 70-71, 73, 160,
163
Satta, Fanny, 71, 160, 161-162, 163
Satta, Franceschino, 46, 49
Satta, Ludovico, 69
Satta, Salvatore, 65, 130 e n.
Satta, Sebastiano, 37, 57-60 e n., 65, 66,
70, 110, 111-114, 115-116, 127, 160
Scano, Antonio, 64
Scano, Maria Grazia, 70, 73, 105 n., 109 n.
Secchi, Emilio, 58 n., 59 n.
Sedda, Pier Gavino, 96 n.
Segre, Cesare, 44
Serra, Marcello, 73
Solinas, Antonio Giuseppe, 46
Sonis, Francesco, 68, 73
Spano, Giovanni, 24 n., 26 n., 38-41, 49,
79, 84, 85, 113, 116, 137 n., 156
Stecchetti, Lorenzo, 13, 37, 80-81 e n.,
87 e n., 90 e n., 101 n., 143, 146 n.,
295-297
Stussi, Alfredo, 44, 90 n., 302 n.
Sulis, Bachisio, 26 n., 93
Susini, Giuseppe, 107 n.
Tanda, Nicola, 49 n., 74, 97 n.
Tasso, Torquato, 38
Tassoni, Luigi, 95 n.
Tedde, Tore, 117
Teocrito, 89
Tessa, Delio, 14
Tola, Ciriaco Antonio, 120
Tola, Pasquale, 38 e n.
Tola, Salvatore, 59 n.
Tolu, Giovanni, 131
Trilussa, pseudonimo di Carlo Alberto
Salustri, 50
Turchi, Dolores, 112 n.
Uda, Felice, 64 e n., 88-90 e n.
333
Indice dei nomi
Umberto I, Re, 66, 68
Varvaro, Alberto, 45
Verga, Giovanni, 14
Virdis, Antonio, 41 n., 47, 82 n., 108 n.
Wagner, Max Leopold, 17, 24 n., 25 n.,
42-43 e n., 86, 91 n., 108 n., 165 n.
Weinrich, Harald, 124 n.
334
Finito di stampare nell’ottobre 2000
presso Studiostampa - Nuoro
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La Parola Ritrovata - Genealogia Dessanay / i