giacomo costa
Etica cattolica ed economia di mercato
1. Introduzione.
Il tema indicato nel titolo è molto vasto, e procederemo subito a una
serie di restrizioni, relative sia alle fonti da considerare, sia alla materia. Considereremo una sola fonte. Sfruttando la struttura organizzativa accentrata della chiesa cattolica romana, prenderemo in considerazione non i contributi di singoli pensatori cattolici1, ma la Dottrina sociale della chiesa, esposta in numerosi documenti del magistero papale tra
i quali spiccano le cosiddette encicliche sociali. Queste sono distribuite
lungo il secolo 1891-1991. Del 1891 è la prima, la Rerum novarum (RN),
il documento capostipite del genere, dedicato alla «questione sociale»,
al quale tutte le altre si richiamano. Del 1991 è l’ultima, la Centesimus
annus (CA), pubblicata subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Di
grande interesse sono anche la Quadragesimo anno (QA, 1931), che riflette la crisi della Repubblica di Weimar e in qualche misura intuisce
l’imminente crisi mondiale, e la Populorum progressio (PP, 1967) dedicata ai problemi dello sviluppo economico. Senza ignorare del tutto le
altre, e un importante documento del Concilio Vaticano II, la Gaudium
et spes (GS, 1965)2, ci concentreremo sulle quattro su elencate. Esse sono state scelte, oltre che per la loro generale prominenza, anche perché
contengono rilevanti trattazioni di problemi economici. Altrettanto selettivo sarà il nostro approccio nella discussione di ciascuna delle encicliche indicate. Non daremo delle brevi sintesi, ma individueremo per
la discussione all’interno di ciascuna enciclica alcuni nuclei problematici. L’esposizione è articolata in cinque brevi capitoli. I primi quattro
vertono sulle quattro dette encicliche, in ordine cronologico. Il quinto
capitolo è dedicato alle conclusioni.
1
Come pure sarebbe interessante fare e in parte è già stato fatto, ad esempio da j.-y. calvez,
Chrétiens penseurs du social, I. Maritain, Mounier, Fessard, Teilhard de Chardin, de Lubac - 1920-40,
Cerf, Paris 2002; id., Chrétiens penseurs du social, II. Lebret, Perroux, Montuclard, Desroche, Villain,
Desqueyrat, Bigo, Chambre, Bosc, Clément, Giordani, Courtney Murray, Ellul, Mehl - 1945-67, Cerf,
Paris 2006.
2
Più formalmente, è la Costituzione apostolica pastorale della Chiesa sul mondo contemporaneo.
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Il linguaggio delle encicliche è spesso per diverse ragioni respingente. Discuteremo le idee ivi esposte, anche con delle citazioni, senza però
lasciarcene appesantire. Spesso i discorsi presentati nelle encicliche sembrano intollerabilmente astratti per la voluta assenza di riferimenti fattuali, storici, geografici, culturali. Cercheremo di riempire, almeno in
parte, questi vuoti, che sono peraltro un aspetto caratterizzante di questo tipo di composizione letteraria ecclesiastica3.
Vedremo che il contributo che le encicliche sociali recano al pensiero sociale ed etico contemporaneo è sorprendentemente modesto, anche nei termini della sua tradizione di riferimento. Le poche osservazioni sparse di Tommaso d’Aquino sulla funzione sociale della proprietà4
valgono largamente tutte le encicliche, che anzi non sanno sfruttarle.
Inoltre, le encicliche non sono in grado di accettare l’autonomia del discorso economico, che tendono a ricondurre al discorso politico normativo. Poiché la mentalità con cui affrontano importanti problemi sociali, a differenza del linguaggio e dello stile letterario, si discosta in realtà
molto poco da quella comune, una considerazione delle encicliche può
restare interessante e stimolante in quanto ci mette di fronte alle nostre
stesse incertezze, nebulosità, perplessità, dilemmi.
2. La «Rerum novarum»: la proprietà privata, l’associazionismo e la
giustizia nel contratto di lavoro.
2.1. Introduzione: la questione sociale.
Attorno al 1890, quando la RN fu scritta, la Rivoluzione industriale
si era estesa dalla sola Inghilterra, dove era iniziata attorno al 1770, a diversi paesi del continente: il Belgio, l’Olanda, alcune regioni settentrionali della Francia, la Germania; e, naturalmente, agli Stati Uniti. Era in
3
In questo il nostro lavoro è stato preceduto da quello di Villani (a. villani, Giustizia sociale, vocazione cristiana e dottrina sociale della Chiesa Cattolica, in g. mazzocchi e a. villani (a cura
di), Tesi sulla globalizzazione, F. Angeli, Milano 2004, pp. 455-518). Vale la pena di riferire come
egli stesso presenta la sua tesi: «Sia per quanto riguarda il momento descrittivo e interpretativo
dei fenomeni, sia per quanto riguarda i provvedimenti normativi, ciò che sta scritto nelle Encicliche è frutto di un’elaborazione laica di diversi decenni antecedente ogni singolo documento pontificio… Ci si potrebbe legittimamente porre la domanda sul motivo per cui questi autori famosi
non vengono menzionati, dal momento che il debito culturale e intellettuale nei loro confronti è
tanto evidente» (ibid., p. 458).
4
Esposte e commentate, ad esempio, da m. novak, The Catholic Ethic and the Spirit of Capitalism, Free Press, New York 1993 (trad. it. L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, Edizioni di
Comunità, Milano 1994, pp. 162-63).
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atto la «rincorsa» dell’Inghilterra da parte di tali paesi. Si era ormai creata una civiltà industriale, che estendeva a tutte le classi sociali i suoi benefici: naturalmente questa estensione era dovuta sia alla crescita in sé,
sia alle lotte sociali che ne avevano accompagnato la formazione, e che,
prima in Inghilterra, poi negli altri paesi, avevano fatto registrare una
serie di impressionanti riforme e conquiste. Il diritto di sciopero esisteva in Inghilterra dal 1827, nel 1848 vi era stato un allargamento del suffragio elettorale, diversi atti del Parlamento (Factory Acts) erano intervenuti a partire dal 1802 per migliorare le condizioni di lavoro e limitarne
gli orari in fabbrica e in miniera. Ad esempio il famoso «sabato inglese» (il sabato in tutto il Regno Unito il lavoro si sarebbe arrestato entro
le 14), introdotto in Italia dal regime fascista nel 1935, risale a un atto
del 1850. In Germania nel decennio precedente alla promulgazione della RN era stato creato con una serie di atti legislativi il primo sistema
integrato di sicurezza sociale al mondo, voluto da Bismarck e preconizzato da Lassalle.
In altri paesi, come l’Irlanda o l’Italia, l’industrializzazione era o di
là da venire o ai pre-esordi. La miseria a volte spaventosa delle campagne induceva i loro abitanti all’emigrazione in massa nelle Americhe,
appena i ribassi nel costo dei viaggi per mare lo consentissero. Su questo, mai nessuna enciclica. Il resoconto della situazione europea del 1890
come «scandalo provocato dall’impoverimento di larghi settori della classe lavoratrice in un mondo che stava quotidianamente diventando più
opulento a sue spese»5 avrebbe avuto forse un minimo di pertinenza se
riferito all’Inghilterra, tra, diciamo, il 1800 e il 18206. Del resto, la RN
non entra affatto in un’analisi o in un tentativo di definizione della «questione sociale». È il fatto che «è sorto un conflitto» tra le classi che la
turba. E più ancora, che la classe dei salariati rischi di lasciarsi conquistare dai socialisti, portatori di un’ideologia totalizzante, che la RN avverte come una pericolosa rivale. È questo che spiega lo strano ordine
espositivo della RN, la cui «Parte Prima» è dedicata a un attacco al socialismo.
5
Questa non è una citazione diretta dalla RN ma da un saggio di Ernest Fortin (e. fortin,
Sacred and Inviolable: Rerum Novarum and Natural Rights, in id., Collected Essays, III. Human Rights,
Virtue, and the Common Good: Untimely Meditations on Religion and Politics, Rowman & Littlefield, New York 1996, p. 191), che così sintetizza (correttamente ed efficacemente) il resoconto
che della «questione sociale» dà la RN.
6
Anche nell’attenta, approfondita rilettura della RN data nella CA (11) questo anacronistico refrain viene conservato: la RN sarebbe «un’enciclica sui poveri e sulla terribile condizione alla quale il nuovo e non di rado violento processo di industrializzazione aveva ridotto grandi moltitudini».
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Dedicheremo le pagine che seguono a quattro temi senza dubbio centrali nell’economia della RN: la proprietà privata, la politica della proprietà, l’associazionismo, la giustizia nel contratto di lavoro.
2.2. La proprietà privata.
La RN sceglie nel diritto alla proprietà l’argomento principale su cui
opporsi al socialismo. È dal fatto che lo rifiuta, in definitiva, che si può
vedere che il socialismo è sbagliato (anche se non è questo il suo errore
principale). La RN è un documento che si vuole ispirato al tomismo, allo studio del quale il suo autore, Leone XIII, aveva esortato i fedeli. Ma
nelle opere di san Tommaso il diritto di proprietà è presentato come una
questione di opportunità, di saggezza amministrativa, gli economisti direbbero oggi, di compatibilità con gli incentivi, non come un diritto soggettivo assoluto. A questo scopo, gli estensori della RN decisero di ricorrere a Locke. Come risolvere il problema dell’appropriazione individuale di ciò che è originariamente comune all’intera umanità? La
soluzione proposta è quasi esattamente quella di Locke: il lavoro individuale come fatto che da un lato compie, dall’altro, assai più esplicitamente che in Locke, giustifica, l’appropriazione:
Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior
parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, se un altro il
quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora7.
I «miglioramenti» darebbero, secondo la RN, diritto alla proprietà
della terra. Altra questione è il diritto ai «frutti» di quell’appezzamento reso più produttivo. Se vi lavorasse un soggetto diverso dal proprietario, una quota del prodotto spetterebbe presumibilmente a lui. Ma né
Locke, né la RN considerano questo problema.
Vediamo come la RN (8) tenta di rafforzare la soluzione di Locke.
I bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni, e, soddisfatti oggi, rinascono domani con nuove esigenze. Pertanto la natura deve aver
dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità dell’aiuto di cui egli ha bisogno, beni che può somministrargli soltanto la terra, con la sua
inesauribile fecondità. Non c’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato,
7
Si noti però che per Locke il problema non è facile. Infatti l’acquisizione originaria non può
essere basata sull’occupazione di una res nullius, precisamente perché nessuna res è nullius, bensì
communis. È perciò con sconcerto che si legge nel § 23 della QA: «Che la proprietà si acquisti e
con l’occupazione di una cosa senza padrone, e con l’industria e il lavoro, ossia con la specificazione, è chiaramente attestato… dall’insegnamento del Pontefice Leone XIII, nostro Predecessore».
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perché l’uomo è anteriore allo Stato; infatti prima che si formasse la società civile
egli dovette avere dalla natura il diritto di provvedere a se stesso.
Dunque la proprietà della terra dà diritto all’uomo ai prodotti presenti e futuri che egli saprà trarne. Se questo argomento serve per sfidare
il socialismo, esso parrebbe costituire altresì una sfida aperta al Vangelo. Poiché l’esigenza non della sussistenza oggi ma della certezza oggi della sussistenza domani parrebbe ripetutamente riprovata nel Vangelo.
Dopotutto, ci è stato insegnato a chiedere ogni giorno il pane per quel
giorno… La RN non nota il dilemma, che si presenta a ogni cristiano.
Ma in sé considerato, l’argomento lockiano, rafforzato o meno, funziona? Osservò il misterioso Morelly nel suo Code de la Nature (1755),
il capostipite di ogni teoria socialista: non può essere per caso che Dio
abbia dato agli uomini la terra in comune, a differenza di altre risorse (i
talenti naturali) che essi ricevono invece da lui individualmente. Il compito che Egli ha assegnato agli uomini deve essere quello di gestire le risorse collettive collettivamente8. Il minimo che si possa dire è che questo è altrettanto plausibile dell’argomento di Locke, sia pure rafforzato.
2.3. La politica della proprietà.
Altro sono i soggetti lockiani, con a disposizione terre a non finire
che essi devono solo contrassegnare con il loro lavoro per far proprie,
altra è la situazione di un proletario nel 1891. Questo secondo la RN rischia di vivere nell’anomia, sempre in mezzo a cattive compagnie, e senza alcuna preoccupazione per il domani. La preoccupazione per il domani gli va insegnata, è essa il motivo più potente di disciplinamento individuale e familiare. Essa induce al risparmio, e il risparmio porta alla
proprietà. Quando c’è la proprietà, c’è qualcosa con cui identificarsi,
una comunità nella quale radicarsi, un centro di interessi, l’incentivo a
moltiplicare gli sforzi per progredire. È questo che trasforma un povero di professione (o un misero, o un miserabile) in un lavoratore (temporaneamente) povero9. Purtroppo l’unico impiego del risparmio delle
famiglie lavoratrici al quale la RN sa pensare è l’acquisto di terra. Con
molta maggior perspicacia, Tocqueville aveva osservato:
8
Non si conosce l’identità dell’autore del Code de la Nature. Si è congetturato che dietro il cognome «Morelly» si celasse Denis Diderot.
9
L’osservazione è di Tocqueville (a. de tocqueville, Il pauperismo, a cura di M. Tesini, Edizioni Lavoro, Roma 1998, p. 135; contiene la traduzione di due monografie sul pauperismo scritte alla fine della decade 1830-40) ma è pienamente nello spirito della RN.
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A mio giudizio, tutto il problema da risolvere si riassume in questo: trovare il
sistema di dare all’operaio dell’industria, come al piccolo coltivatore, lo spirito e le
abitudini della proprietà. Si possono immaginare due modi. Il primo, che d’istinto
mi sembra il più efficace, consisterebbe nel dare all’operaio un interesse nella fabbrica. Ciò produrrebbe per le classi industriali effetti simili a quelli che la divisione
della proprietà fondiaria ha determinato tra il ceto rurale10.
A sua volta, notava Tocqueville, questo si può realizzare in due modi: l’investimento dei risparmi dei lavoratori nelle imprese di cui sono dipendenti, e la costituzione di cooperative industriali. Ma il primo non ha
suscitato l’interesse degli imprenditori, il secondo, quando è stato tentato, non ha avuto successo. Bisognerà attendere che i tempi maturino. Perciò conviene «favorire il risparmio sui salari e offrire agli operai un metodo facile e sicuro di capitalizzare tali risparmi e far loro produrre dei
redditi»11. Questo potrebbe essere il compito delle Casse di risparmio, a
parere di Tocqueville, se venissero indotte a differenziare e a distribuire
su ampia base geografica i loro investimenti (Tocqueville spiega esaurientemente che non conviene fidarsi dello stato francese come mutuatario).
2.4. L’associazionismo.
Se la politica della proprietà proposta dalla RN non era stata pensata a fondo, lo stesso non si può dire delle sue proposte sull’associazionismo. Su quali principî si fonda? Ecco una prima risposta (RN, 42):
Si può stabilire come regola generale e costante che le associazioni degli operai
si devono ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale.
È evidente poi, che conviene aver di mira, come scopo speciale, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento si deve indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni degenerano facilmente in altra natura,
né si mantengono superiori a quelle in cui della religione non si tiene conto alcuno.
Se qui i compiti specifici di queste associazioni non sono affatto indicati, vi è però una ferma presa di posizione sulla natura obbligatoriamente confessionale del sindacato. Anche gli altri sindacati sono, ritiene la RN, a loro modo confessionali: peggio, sono guidati da capi infidi
che professano un’ideologia sbagliata e pericolosa. Un’associazione di lavoratori deve anzitutto riconoscere la giusta gerarchia di valori: in primo luogo l’adesione alla chiesa, in secondo, l’attività di autoprotezione
10
11
Ibid., p. 138.
Ibid., pp. 139-40.
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sociale. In questo contesto, e non in quello della teoria dei bisogni o della proprietà, la RN cita Matteo 6,32-33.
Ma in altri punti (RN, 43) il discorso sui compiti specifici del sindacato si fa alquanto più chiaro:
Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione, è aperta la strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della loro convivenza e del loro benessere economico. Gli incarichi si distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità non pregiudichi l’unità. È sommamente importante che codesti incarichi vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente
determinati, perché nessuno dei soci rimanga offeso. I beni comuni della società siano amministrati con integrità, così che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e i doveri dei padroni armonizzino con i diritti e i doveri
degli operai. Quando poi gli uni o gli altri si credono lesi, è desiderabile che trovino
nella stessa associazione uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà ancora provvedere che all’operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle improvvise e inattese crisi dell’industria, ma altresì nei casi di infermità, di vecchiaia, di infortunio.
Dunque, i sindacati cristiani dovrebbero essere società di mutuo soccorso generalizzato. Fanno anche contratti collettivi? In RN (37) troviamo:
In questa [la misura del salario] e altre simili cose, quali l’orario di lavoro, le cautele da prendere per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità
non si ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi,
sarà più opportuno riservare la decisione ai sindacati… o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, gli interessi degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richieda, tutela e appoggio.
Dunque un cenno alla contrattazione collettiva c’è: sul salario (che
non deve essere inferiore alla sussistenza di un lavoratore «sobrio e onesto») e sulle condizioni di lavoro. E lo sciopero? Troviamo in RN (31):
Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di
rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre
che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli
operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si è prevenire il male con
l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimuovendo a tempo le cause da cui si
prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.
Dunque lo sciopero è ritenuto un fatto socialmente molto dannoso,
ma non pare che si invochi la repressione dello stato. Viene riconosciuta la serietà e l’urgenza dei motivi che possono indurre a dichiararlo.
Che i sindacati cristiani possano ricorrervi, sia pure in casi estremi, non
è affermato ma neppure negato. (In Inghilterra il diritto di sciopero era
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stato riconosciuto nel 1827, in Italia, nel 1890). Che i fondi raccolti dal
sindacato possano servire a finanziare uno sciopero, è anch’essa questione neppure sfiorata.
2.5. Il contratto di lavoro e la giustizia naturale.
La contrattazione, individuale o collettiva, è soggetta a un vincolo
posto dalla «giustizia naturale» (RN, 37): «la quantità del salario non
deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, sobrio e onesto».
Solo del lavoratore? Una «giustizia naturale» che chiedesse che il salario corrisposto a un lavoratore sia «sufficiente a mantenere se stesso e
la sua famiglia» sarebbe in contrasto con un fondamentale principio istituzionale del mercato del lavoro capitalistico, che il salario sia correlato alla prestazione svolta, e a quella soltanto. Qui vi potrebbe essere un
affondo della RN contro l’istituzione del mercato del lavoro. Ma non
c’è. La RN non esclude la partecipazione al mercato del lavoro di donne e ragazzi, per i quali richiede però limitazioni e cautele speciali (RN,
35). Il significato del vincolo resta pertanto oscuro. Vi è poi un limite
di giustizia naturale relativo alla durata del lavoro giornaliero: «le energie consumate con l’uso debbono essere riacquistate col riposo». Ma anche qui, manca ogni riferimento quantitativo e soprattutto mancano riferimenti alle legislazioni introdotte al riguardo nei paesi in cui l’industrializzazione era in corso (ad esempio, in Inghilterra il famoso Ten Hour
Bill – «legge delle dieci ore» – era stato approvato nel 1847). Supponiamo che una definizione di «sostentamento del lavoratore», che osservi
entrambi questi vincoli, si trovi in un modo o in un altro. E supponiamo che le uniche imprese disposte a offrire impiego al lavoratore non
siano in grado di accordargli il «sostentamento»: una situazione che ha
riguardato e purtroppo tuttora riguarda milioni di persone! Parrebbe
che la «giustizia naturale» presupponga un certo grado di avanzatezza
produttiva. In un’economia sottosviluppata la questione della giustizia
del contratto di lavoro sembrerebbe non potersi porre.
3. La «Quadragesimo anno»: la fine della concorrenza, il socialismo e
la restaurazione dell’ordine sociale.
3.1. La fine della concorrenza.
La QA si propone di aggiornare la RN, per rispondere ai nuovi problemi che gli sviluppi storici intervenuti nel quarantennio 1891-1930
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485
pongono alla coscienza cattolica. Il più importante di essi è l’estremo
grado di concentrazione raggiunto dall’industria capitalistica come esito dello stato di cose che secondo la teoria economica avrebbe dovuto essere permanente, la concorrenza. Ma la concorrenza, per essere stata «sfrenata», si è autoeliminata (QA, 108). Né la concentrazione capitalistica
ha riguardato solo l’industria. A fianco dell’industria vi è stato un rilevante sviluppo della finanza e dei mercati finanziari. Si è avuta la separazione della proprietà dalla direzione aziendale, ciò che comporta che
le decisioni imprenditoriali non sono più prese da soggetti che rischiano i propri capitali, si è creata una dipendenza delle imprese industriali dalle banche, e una concentrazione anche a livello internazionale di
queste ultime. Il risultato è che un enorme potere economico, che si dispiega anche a livello internazionale, è nelle mani di pochissimi imprenditori industriali e soprattutto di finanzieri e banchieri. Questo potere
economico è anche in grado di condizionare pesantemente la politica,
vincolando i governi al perseguimento degli interessi propri, non di quelli della collettività.
Tutte queste idee erano nell’aria nel mondo austrotedesco degli anni
Venti e primi anni Trenta. Basti pensare al classico Capitale finanziario
di Rudolf Hilferding (1911), al famoso opuscolo di Walter Rathenau L’economia nuova (1919), in cui l’autore sosteneva che la logica della gestione delle imprese industriali più tecnicamente avanzate portava da sé
a una centralizzazione delle decisioni a livello nazionale. Non a caso era
piaciuto a Lenin! O alle tesi dell’economista Heinrich von Stackelberg,
secondo il quale la gestione centralizzata nelle mani dello stato delle imprese industriali agenti in mercati oligopolistici era la sola alternativa al
caos derivante dalla vera e propria «guerra economica» che vi si stava
scatenando.
Secondo Michael Novak, dopo la seconda guerra mondiale i fondatori dell’economia sociale di mercato tedeschi avrebbero «fatti propri
due punti chiave dell’analisi di Pio XI: prevenire il formarsi di monopoli e garantire l’esistenza di un ampio numero di aziende di medie dimensioni»12. Forse questo programma di politica della concorrenza potrebbe a certe condizioni essere fatto discendere dalla diagnosi economica della QA. Non ve ne è tuttavia alcuna traccia nella QA stessa, che
riteneva irreversibili le tendenze alla concentrazione nei mercati che denunciava.
12
m. novak, The Catholic Ethic and the Spirit of Capitalism cit., trad. it. p. 71.
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3.2. Il socialismo.
Il secondo importante sviluppo storico intervenuto nel quarantennio
era il biforcarsi e il definirsi dell’antico nemico, il socialismo, in due movimenti, il comunista e quello che oggi diremmo il socialismo riformista. Al primo la QA attribuisce delitti e stragi innumerevoli, dando forse per scontato, ma non menzionando mai esplicitamente, il fatto che
esso ha costituito e modellato secondo la sua ideologia un potente stato, l’Unione Sovietica, in un grande paese europeo, la Russia. È questa
un’enorme novità storica, nel 1931 ormai ben consolidata, di cui nella
QA non vi è una menzione esplicita (come non c’è in nessuna altra enciclica tra la QA e la CA). Ma non è il comunismo, un aperto, sfrontato, mortale nemico, che pone i problemi più difficili alla chiesa: è piuttosto l’altro socialismo, che ha abbandonato quasi tutti i suoi tratti eversivi e propone una politica di riforme con cui i cattolici possono in grande
misura concordare. In particolare, è lecito ai cattolici aderirvi? La risposta è negativa. Anche il socialismo moderato ha un’ideologia che rifiuta la dimensione sociale, pubblica, della trascendenza. La società deve
porre come fine ultimo Dio, non semplicemente il benessere dei suoi
membri. Sennò è materialista! (QA, 117). Non basta che il socialismo
non impedisca ai suoi aderenti di essere individualmente credenti. La
fede cattolica deve improntare di sé le strutture della società. È dove
converge con il liberalismo, dunque, che il socialismo anche più moderato diventa inaccettabile per la chiesa.
3.3. La restaurazione dell’ordine e la «giustizia sociale».
Se la concentrazione del potere economico è l’esito inevitabile dell’economia di mercato, allora, riflette la QA è alla frammentazione individualistica imposta dal mercato che va cercato un rimedio. Il rimedio
consiste in una ripresa del pluralismo sociale. Si tratta di proseguire e
sviluppare l’invito all’associazionismo lanciato dalla RN. Ai sindacati
operai vanno affiancate le organizzazioni professionali, le uniche cellule
sociali in qualche misura «naturali» che il regime politico liberale non
abbia cancellato. La cooperazione armoniosa di queste organizzazioni deve ispirarsi a un principio superiore, della cui attuazione deve farsi carico lo stato. Così, alla ristabilita gerarchia delle attività, delle funzioni, e
dei fini, deve corrispondere una gerarchia sociale e statuale. Il principio
ideale cardine del nuovo ordine è chiamato «giustizia sociale» (QA, 87):
Perciò è necessario che alla giustizia sociale si ispirino le istituzioni dei popoli,
anzi di tutta la vita della società; e più ancora è necessario che questa giustizia sia
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davvero efficace, ossia costituisca un ordine giuridico e sociale a cui l’economia tutta si conformi.
L’espressione non ha quindi il significato di «insieme di politiche redistributive» che siamo attualmente abituati ad assegnarle. Benché sia
chiara la funzione potremmo dire di «principio costituzionale» che la
«giustizia sociale» dovrebbe svolgere, e il suo collegamento con la nozione tomistica purtroppo altrettanto vaga di «bene comune», in che cosa
essa consista la QA non dice. Il modello così troppo incertamente delineato assomiglia ai progetti di stato corporativo che il regime fascista
italiano stava varando proprio in quegli anni, e nella QA ve n’è una breve discussione, parrebbe di mano propria di Pio XI, non proprio entusiastica. In particolare, sono colti i pericoli di autoritarismo dello schema dello stato corporativo, e forse viene anche manifestata una certa consapevolezza della pericolosità di ogni simile struttura piramidale. Perché
non è poi detto che lassù, al vertice, l’autorità politica aderirà ai principî cattolici! Si può anche notare una certa incongruità tra la diagnosi
economica e la soluzione offerta. Infatti, secondo la diagnosi, la ricomposizione sociale si è già verificata, e la conseguenza più logica parrebbe
essere di approfittarne per imporre dall’alto un controllo statale sull’economia e la società tutta.
3 . 4 . L a p a r s d e s t r u e n s.
Forse alcuni aspetti della pars destruens della QA sono oggi di maggiore interesse della sua arrischiata e non ben definita costruzione di
uno stato corporativo e confessionale. Lo sviluppo della separazione tra
proprietà e gestione e della finanza pone in essere una quantità di importanti ruoli e relazioni fiduciarie, ossia, nel linguaggio degli economisti odierni, di rapporti principale-agente. Ma perché questi possano svolgersi regolarmente, occorre che gli individui che si ritrovano nelle posizioni di agente, o delegato, abbiano uno sviluppato senso morale. Da
quali ambienti, da quali istituzioni educative trarranno gli individui tale elevato senso morale? La considerazione è giustissima, e valida anche
oggi. Se l’industria e la finanza capitalistica riposano su una fittissima rete di deleghe multiple, riposano in definitiva sul senso morale degli individui. Ma allora, poggiano sulle sabbie mobili? Si potrebbe dire che una
parte del diritto commerciale penale c’è apposta per scoraggiare questi
tipi di reati: falso in bilancio, bancarotta, aggiotaggio, insider-trading, frodi fiscali, ecc. Tuttavia, in una società in cui il malaffare è largamente
praticato, esso è anche tollerato, e le leggi e i tribunali potranno poco.
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Anzi, come sappiamo, i loro interventi saranno denunciati come arbitrarie intrusioni negli affari privati dei cittadini!
Un’altra linea di riflessione importante presente nella QA, destinata ad avere un seguito nelle encicliche successive, è la seguente: forse
con alcuni opportuni accorgimenti e riforme il capitalismo industriale e
finanziario potrebbe anche funzionare con soddisfazione di tutti. Dopo
tutto, ammette la QA, il sistema capitalistico «non è di sua natura vizioso». Ma allora si creerebbe un ambiente in cui tutti potrebbero dedicarsi ad arricchirsi, e per di più riuscendovi! Costoro sarebbero traviati, indotti a perdere di vista il proprio destino celeste. È questa, in
definitiva, la stortura fondamentale del regime liberale: viene dal peccato originale, non da un particolare assetto politico, la tendenza dell’uomo ad «anteporre i beni caduchi di questo mondo a quelli imperituri del cielo». Ma, prosegue la QA (131), il «moderno ordinamento economico», rispetto all’Ancien régime, «offre alla fragilità umana incentivi
assai più numerosi». Il socialismo, in verità, li rimuove, anzi, tende a
imporre alla società «una costrizione veramente eccessiva», ma il suo regime «manca di una vera autorità sociale; poiché questa non può fondarsi sui vantaggi temporali e materiali, ma solo può venire da Dio Creatore e fine ultimo di tutte le cose» (QA, 118).
4. La «Populorum progressio»: sviluppo, scambi internazionali e programmazione economica.
4.1. Contro l’inuguaglianza.
Lo sviluppo economico diventa un obiettivo politico, per i paesi che
lo vogliono perseguire e per la comunità internazionale nel suo complesso, dopo la fondazione delle Nazioni Unite (1945), la fine della seconda guerra mondiale, la proclamazione universale dei diritti dell’uomo
(1948), e con il rapido passaggio all’indipendenza nazionale di molti dei
popoli africani e asiatici in precedenza sotto qualche forma di dominio
coloniale. La grande inuguaglianza nel reddito pro capite medio, e più
in generale nelle condizioni di vita, nei diversi paesi pone un interrogativo alla coscienza dei cittadini dei paesi industrialmente avanzati, almeno nei casi in cui essa si manifesta in forme di miseria estrema, sottoalimentazione, malnutrizione cronica, vulnerabilità alle più disparate
malattie infettive e contagiose, alta mortalità infantile, bassa vita media attesa. È certamente un male che tanti nostri simili versino in tali
condizioni. E noi, come singoli e come mondo avanzato, cosa facciamo
Etica cattolica ed economia di mercato
489
per aiutarli a trarsene fuori? Naturalmente la soluzione di questo problema dovrebbe appunto essere lo sviluppo economico di quei paesi. Ma
si potrebbe anche sostenere che l’attuazione delle migliori politiche per
lo sviluppo non esaurisce i problemi, etici e/o politici, posti dai mali presenti, urgenti, del sottosviluppo.
Non pare però che la PP, l’enciclica esplicitamente dedicata, almeno
nominalmente, ai problemi del sottosviluppo e dello sviluppo, accolga
questa impostazione. Né pare che essa pretenda di offrire dei principî
di politica economica dello sviluppo. Né che essa voglia offrire un’analisi culturale o sociale della natura del sottosviluppo, questione spinosissima dalla soluzione della quale tuttavia il successo delle politiche per lo
sviluppo inevitabilmente dipende! Essa si propone di offrire dei principî di giustizia nelle relazioni economiche internazionali, nell’assunto
implicito che, se fossero osservati dagli stati, i mali del sottosviluppo recederebbero rapidamente. E lo farebbero, parrebbe, anche se alcuni o
molti paesi restassero sottosviluppati! Almeno in parte, infatti, questi
principî si limitano a prescrivere degli esiti, ossia, a indicare degli obiettivi sociali mondiali. E l’obiettivo che li riassume tutti, è il raggiungimento dell’uguaglianza nelle condizioni di vita dei cittadini dei vari paesi, sviluppati e sottosviluppati. Se questo obiettivo venisse raggiunto
mediante delle politiche redistributive attuate a livello mondiale, il problema del sottosviluppo sarebbe, se non risolto, almeno aggirato. Bisogna, su scala mondiale, prendere ai cittadini dei paesi ricchi e dare a
quelli poveri (PP, 49). Questo, in definitiva, è il semilapalissiano contributo della PP ai dibattiti di quegli anni. Una parte dell’elaborazione
dottrinale della PP consiste nel tentativo di dedurre l’imperatività di
questo obiettivo da principî esistenti della tradizione cattolica.
4.2. Sviluppi dottrinali.
Il primo principio, è quello della «destinazione universale dei beni
della terra». Citando dalla GS, la PP (22) ricorda che
Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini di
tutti i popoli, dimodoché i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità,
e di suo precisa:
Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e
del libero commercio, sono subordinati ad essa [la regola della giustizia]: non devono quindi intralciarne, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria.
490
Giacomo Costa
Ricordiamo che secondo la RN la proprietà privata è l’unico assetto
istituzionale di appropriazione e gestione della terra che consente l’attuazione del principio della destinazione universale, e perciò non può in
alcun modo impedirne la realizzazione. La «giustizia naturale» pone dei
limiti al contratto di lavoro, non al diritto di proprietà. La natura della
«regola di giustizia» invocata in questi due passi resta oscura. Ma essi
pongono un problema di interpretazione più fondamentale: che cosa si deve intendere per «beni creati»? Certamente, secondo la GS e la PP, l’unico creatore è Dio, ma, tranne in qualche isola polinesiana, i beni da
Lui creati non sono di solito pronti a soddisfare i bisogni umani. A questo fine servono lunghi penosi processi di trasformazione produttiva, in
definitiva, il lavoro. E rispetto ai beni prodotti, che cos’ha da dire la «regola della giustizia»? Se non si distingue tra beni creati e beni prodotti, è facile passare dall’osservazione che alcuni sono ben provvisti di beni prodotti, e altri, anche se ben dotati di beni creati, no, alla conclusione che i primi devono in un modo o in un altro aver sottratto qualcosa
ai secondi. Giustizia vuole che lo restituiscano! La PP non dice esplicitamente questo. Ma un suo altrimenti incomprensibile accenno all’ira
potenzialmente esplosiva che le popolazioni dei paesi sotto-sviluppati
nutrirebbero verso i paesi sviluppati, ira che la PP (49) parrebbe ritenere giustificata, potrebbe trovare spiegazione in questa interpretazione
della «regola di giustizia».
In un altro passo della PP (48) viene invece affermato che devono
essere universalmente accessibili i beni creati e quelli prodotti. Questa
è la rinuncia a dedurre alcunché dal vecchio principio.
Il secondo principio che viene invocato (PP, 59) è quello della «giustizia naturale» della RN. Questo tentativo di applicazione avviene in
connessione con un’interpretazione del rapporto tra paesi sviluppati e
sottosviluppati che è, almeno in parte, una diagnosi sociale. Le modalità di tale rapporto sarebbero analoghe a quelle del rapporto tra proletari e capitalisti trattato nella RN. Così come la «giustizia naturale» pone
un limite minimo all’entità del salario, essa lo pone al rapporto di scambio tra i beni che sono oggetto di transazioni internazionali fra i due
gruppi di paesi. Ma, tranne a volte fra paesi nell’Urss, gli scambi internazionali non avvengono tra paesi, o tra le loro rappresentanze politiche (governi). Avvengono tra privati, operanti in mercati di transazioni anonime. Anche volendolo, sarebbe in generale impossibile rintracciare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di un certo
prodotto. Anche se fosse possibile identificare in una qualche impresa
esportatrice l’autrice di un particolare bene disponibile sul mercato mondiale, dovrebbe essere l’intero insieme dei compratori, compresi quelli
Etica cattolica ed economia di mercato
491
domestici, a farsi carico del sostentamento di chi ha concorso alla produzione di quel bene. Ora questo, naturalmente, in un’economia di mercato in generale avviene perché i ricavi sono distribuiti ai fattori produttivi. E i salari pagati dalle imprese esportatrici sono di solito tra i più
alti che si possono ottenere. Il problema è che non tutti lavorano per le
imprese esportatrici, di più, che nei paesi sottosviluppati sono pochi
quelli che hanno un regolare contratto di lavoro. Più in generale, se si
trovasse, squarciando il velo dei rapporti tra stati, che i lavoratori di un
paese sottosviluppato svolgono la loro attività unicamente a servizio di
un particolare altro paese (sviluppato o sottosviluppato), allora forse la
giustizia naturale della RN potrebbe essere invocata: i cittadini del paese ricevente dovrebbero farsi carico della sussistenza dei lavoratori del
primo. Ma non è così. E anche se fosse così, resterebbe il problema di sovvenire i molti poveracci che non sono lavoratori dipendenti: che non sono, purtroppo per loro, «proletari» o «operai» nel senso della RN.
4 . 3 . L’etica del commercio internazionale: liberos c a m bismo e protezionismo.
Non avendo osservato che più sottosviluppata una certa popolazione è, meno rapporti commerciali con il resto del mondo ha, e che l’uscita dal sottosviluppo è principalmente un delicato problema domestico
di evoluzione e/o trasformazione culturale, sociale e politica, al quale l’apertura al resto del mondo può dare per diversi canali un notevole impulso, la PP (56-61) si concentra in modo inatteso a caldeggiare una serie di dubbie misure di politica commerciale. E questo, dopo aver insistito che la chiesa è «maestra» solo «in umanità»! Una discussione
dettagliata di tali proposte è fuori luogo qui, anche perché dovrebbe inevitabilmente essere alquanto tecnica. Però possiamo indicare la fonte di
tali proposte, il loro contesto, e il loro senso generale. Il commercio mondiale era in quegli anni regolato in forma volontaria da un’associazione di
paesi, che si chiama gatt. Le regole del commercio mondiale potrebbero astrattamente ispirarsi al liberoscambismo o al protezionismo. Poiché la PP pretende di offrire dei principî di giustizia internazionale nelle relazioni economiche, ci si sarebbe aspettati che si pronunciasse su questi altri principî di livello, diciamo, minore. Il protezionismo, ad esempio,
proiezione in campo economico del nazionalismo, è intrinsecamente discriminatorio. La PP ha nulla da dire a suo riguardo? Nulla. In effetti
la PP neppure nomina il gatt.
Le regole di fatto adottate dal gatt erano una variante moderata di
protezionismo, con un riconoscimento della desiderabilità che i paesi
492
Giacomo Costa
membri si avvicinassero al liberoscambismo. In particolare, il gatt escludeva diverse forme di trattamenti discriminatori e di restrizioni quantitative al commercio. Nel 1967, ad esempio, stava concludendosi il Kennedy Round, un ciclo di negoziati iniziati sotto l’egida del gatt nel 1964
per impulso degli Stati Uniti. Il risultato fu una riduzione generalizzata di circa il 50% nei dazi praticati dai principali paesi industrializzati,
con però rilevanti eccezioni per alcuni specifici settori industriali in cui
i dazi rimasero invariati. Si noti il significato anche etico di questi accordi: mentre a ciascun governo può riuscire per svariate ragioni politicamente penoso allentare i limiti che pone ai suoi flussi commerciali, se
tutti lo fanno il risultato è positivo per tutti. L’economia mondiale diventa più efficiente!
Nella prima metà del decennio, nelle agenzie delle Nazioni Unite che
si occupavano di sviluppo economico cominciò a maturare l’opinione
che, da un lato, il commercio internazionale avrebbe potuto dare un contributo allo sviluppo dei paesi in via di sviluppo maggiore di quanto non
fosse avvenuto nel decennio precedente, dall’altro, che il complesso di
regole e accordi vigenti nel gatt non consentivano che ciò avvenisse. In
particolare, il gatt aveva tollerato che i paesi avanzati, e in particolare gli
Stati Uniti e l’Europa, erigessero delle barriere doganali e altre forme di
restrizioni al commercio allo scopo di proteggere i loro settori agricoli e
di industria leggera. Ma questi erano anche i settori in cui per la conformazione delle loro economie avrebbero potuto espandersi internazionalmente i paesi in via di sviluppo! Veniva così impedito loro di prendere
il giusto posto nel commercio internazionale e nella divisione internazionale del lavoro. Sotto la guida di Raúl Prebisch, un abile funzionario
delle Nazioni Unite, i paesi in via di sviluppo membri del gatt promossero una Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo
(unctad) che si tenne a Ginevra dal marzo al giugno del 1964 per esporre le loro critiche, riassunte sopra, e le loro richieste di una nuova politica commerciale. Benché la PP non citi il pamphlet scritto da Prebisch
per quell’occasione13, né la conferenza stessa, le proposte che ne uscirono, anticipate dal pamphlet di Prebisch, sono esattamente quelle che si
trovano nella PP. E chissà che questo non sia uno dei modi in cui la chiesa cattolica romana abbia esercitato la sua «opzione preferenziale per i
poveri». Ma qual è la natura generale di queste proposte? Invece di chiedere ai governi dei paesi industriali, e in particolare agli Stati Uniti, di
mettere in pratica i principî del gatt anche là dove politicamente imba-
13
Towards a new trade policy for development, United Nations, New York 1964.
Etica cattolica ed economia di mercato
493
razzanti per loro, e dare un netto indirizzo liberoscambistico alle loro
politiche commerciali, i paesi in via di sviluppo chiedevano un po’ di
briciole, e per giunta nella forma di ulteriori scostamenti, questa volta
a loro favore, dai già modesti principî non discriminatori del gatt. È
così che nella PP non vi è una parola sulla scandalosa pac, quella politica agricola comune della Comunità Europea che praticava (e pratica) dazi protettivi altissimi, offrendo in cambio un trattamento preferenziale
per i paesi africani che abbiano la fortuna di essere ex colonie francesi.
4.4. Lo sviluppo mediante la programmazione.
Come la RN si propone di affrontare la «questione sociale» senza dire in che cosa consista, la PP parla del «progresso dei popoli» senza alcuna analisi del sottosviluppo. Tuttavia la PP, dopo aver preso posizione sulle politiche commerciali, non esita a entrare nel campo altrettanto delicato delle politiche domestiche per lo sviluppo:
La sola iniziativa individuale e il semplice gioco della concorrenza non potrebbero assicurare il successo dello sviluppo. Non bisogna correre il rischio di accrescere ulteriormente la ricchezza dei ricchi e la potenza dei forti, ribadendo la miseria
dei poveri e rendendo più pesante la servitù degli oppressi.
Richiamandosi alla Mater et magistra (MM), la PP (33) così prosegue:
Sono dunque necessari dei programmi per «incoraggiare, stimolare, coordinare, supplire ed integrare l’azione degli individui e dei corpi intermedi»,
e di suo così conclude:
Spetta ai poteri pubblici di scegliere, o anche di imporre, gli obiettivi da perseguire, i traguardi da raggiungere, i mezzi onde pervenirvi, tocca ad essi stimolare
tutte le forze organizzate in questa azione comune. Certo, devono aver cura di associare a quest’opera le iniziative private e i corpi intermedi, evitando in tal modo
il pericolo di una collettivizzazione integrale o d’una pianificazione arbitraria che…
escluderebbero l’esercizio dei diritti fondamentali della persona umana.
A prima vista, non parrebbe molto chiaro se secondo la PP nei paesi in via di sviluppo di iniziativa individuale, e di concorrenza, ve ne sia
troppo poca o troppa; se voglia sbloccarne o bloccarne l’azione. Quanto spesso si sentiva dire, nell’Italia degli anni Cinquanta, impegnata a
fondo a tentare di risolvere il problema del Sud, che nel Meridione
«mancava l’iniziativa privata»? Parrebbe tuttavia dal primo di questi
passi, a leggerlo bene, che l’iniziativa individuale e la concorrenza potrebbero sì dare lo sviluppo, ma non uno sviluppo che riduca le differenze di reddito. Dal secondo, che richiama la MM, parrebbe invece che
iniziativa individuale e concorrenza siano insufficienti per dare qualsia-
494
Giacomo Costa
si sviluppo, e debbano essere integrate da programmi pubblici per funzionare, ossia, per assicurare uno sviluppo qualsiasi. Contrariamente alle attese suscitate dal primo passo, nel secondo il tema della distribuzione del reddito non è neppure sfiorato! Parrebbe, dal terzo passo, che le
misure di integrazione pubblica proposte nel secondo dovrebbero essere rafforzate, e i poteri pubblici divenire le vere guide dello sviluppo.
Lo sviluppo economico si trasformerebbe così in un compito dell’amministrazione dello stato. Ma uno sviluppo economico ottenuto forzando
la volontà dei privati, quanto è compatibile con il «principio di sussidiarietà»? L’intervento pubblico coattivo comporta d’altra parte che svariati mercati (dei cambi, del credito, dei beni di importazione) vengano
soppressi e sostituiti con delle pratiche amministrative discrezionali e
discriminatorie, non «integrati»! Scriveva al riguardo uno dei grandi
esperti di sviluppo di quegli anni, l’economista Gunnar Myrdal:
Questa situazione, in cui avviene così di frequente che pezzi di carta valgano
denaro, accresce la tentazione sia di corrompere che di lasciarsi corrompere. Quando, in quasi tutti i paesi sottosviluppati, la corruzione è così diffusa e tende da un
lato a crescere, dall’altro ad assumere forme molto simili malgrado le diversità di
sfondo storico, una parte importante della spiegazione è la tendenza all’uso di controlli discriminatori e la riluttanza all’adozione di politiche di prezzi e di altre misure politiche non-discrezionali14.
5. La «Centesimus annus»: democrazia, libertà, impresa, mercato, stato.
5.1. La democrazia.
Secondo la CA (46) la democrazia politica è una forma di governo
apprezzabile perché
assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in
modo pacifico, ove risulti opportuno.
La vera democrazia, però, «è possibile solo in uno Stato di diritto e
sulla base di una retta concezione della persona umana», una restrizione la seconda che si presta ad almeno due interpretazioni: 1) solo se «la
retta concezione della persona umana» sia correttamente recepita nella
Costituzione, o 2) solo se i cittadini ne siano animati. La questione resta sospesa. Altra questione, è quale sia «la retta concezione». Parreb14
g. myrdal, Against the Stream: Critical Essays on Economics, Pantheon Books, New York
1973 (trad. it. Controcorrente: realtà di oggi e teorie di ieri, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 128).
Etica cattolica ed economia di mercato
495
be che essa consista del riconoscimento della «dignità trascendente della persona», e della sua libertà. Ma, secondo la CA, la vera libertà dovrebbe riconoscere la verità. E la verità, sarebbe la verità cristiana, che
si distinguerebbe da ogni altra religione o concezione perché non ideologica e non invadente. Sarebbe tuttavia un contenuto, una serie di enunciati o forse (ahimè) di norme, non un atteggiamento, una prospettiva,
un orizzonte. È questa la proposta di una democrazia cristiana? Forse
è solo la richiesta che il singolo cristiano «proponga continuamente, secondo la natura missionaria della sua vocazione, la verità che ha conosciuto». Forse.
5.2. La libertà.
La libertà individuale è anche al centro delle riflessioni che la CA
(25) propone sul crollo dell’Unione Sovietica. L’errore del comunismo
è di ordine antropologico:
l’uomo tende verso il bene, ma è pure capace di male; può trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimanere ad esso legato.
Perciò:
L’ordine sociale sarà tanto più solido, quanto più terrà conto di questo fatto e
non opporrà l’interesse personale a quello della società nel suo insieme, ma cercherà
piuttosto i modi della loro fruttuosa coordinazione. Dove l’interesse individuale è
violentemente soppresso, esso è sostituito da un pesante sistema di controllo burocratico, che inaridisce le fonti dell’iniziativa e della creatività.
A dire il vero si potrebbe ricordare che una società socialista garantisce la soddisfazione dei bisogni di tutti, o almeno, di tutti quelli che
fanno il loro dovere. Pretende di risolvere il problema della «coordinazione» alla radice e, se le riesce di essere abbastanza produttiva, può realizzare la sua pretesa. Inoltre, se realizzerà la sua pretesa, le riuscirà di
essere abbastanza produttiva! A questo si può rispondere che forse in
una società socialista l’«opposizione tra l’interesse personale e quello
della società nel suo insieme» è solo apparente ma, se un compagno ha
un’immaginazione imperfetta, può desiderare di ricevere un corrispettivo più visibilmente, più immediatamente proporzionale alle sue prestazioni. Il socialismo, in quanto distinto dal comunismo, non esclude
questo, e non lo escludeva nell’Unione Sovietica. Nella quale vigeva il
principio «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo
lavoro», non quello pienamente comunista «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». La retribuzione del lavoro è
forse l’aspetto che meno differenzia capitalismo e socialismo. D’altra
496
Giacomo Costa
parte, è dubbio che «le fonti dell’iniziativa e della creatività» risiedano
nell’interesse individuale, se per questo si intende il desiderio di veder
remunerato in modo soddisfacente, sia in termini assoluti sia relativi, il
proprio lavoro. Non conosciamo l’ubicazione spirituale di tali fonti. «Lo
spirito soffia dove vuole». Chi è mosso da «iniziativa e creatività» chiede prima di tutto libertà di iniziativa, di espressione, di opinione, di
pensiero. E chi vuole lanciare una nuova impresa, avrà bisogno di credito, non della garanzia che la sua remunerazione sia proporzionata al
suo sforzo. Questi essenziali requisiti non sono riducibili a una nozione di «interesse individuale». In definitiva secondo la CA, come già
secondo la RN, il socialismo è sbagliato perché 1) è ateo e materialista,
e 2) sopprime la proprietà e vorrebbe obbligare gli uomini a prestazioni
non adeguatamente remunerate. Secondo il pensiero liberale e democratico, è sbagliato perché e in quanto sopprime le libertà politiche oltre che
le istituzioni legali ed economiche che permettono le libertà, politiche e
di impresa.
5.3. L’impresa.
La CA (32) dà un interessante resoconto dell’attività imprenditoriale, che consiste nella
capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini e le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a soddisfarli, organizzare un tale sforzo produttivo, pianificare la sua durata nel tempo, procurare che esso corrisponda in modo
positivo ai bisogni che deve soddisfare, assumendone i rischi necessari.
E nota la dimensione etica di tali attività
In questo processo sono coinvolte importanti virtù, come la diligenza, la
laboriosità, la prudenza nell’assumere ragionevoli rischi, l’affidabilità e la fedeltà
nei rapporti interpersonali, la fortezza nell’esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell’azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna.
5.4. Il mercato.
Nella CA l’atteggiamento di ostilità verso il mercato, manifestato ad
esempio nella PP, ma caratteristico di tutte le encicliche precedenti, viene abbandonato. Non è sottraendosi, ma partecipando alla «generale interconnessione delle attività economiche a livello mondiale» che si può
cominciare il cammino verso la prosperità. Potrebbe addirittura darsi,
secondo la CA (34), che «il libero mercato sia lo strumento più efficace
per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni», in asso-
Etica cattolica ed economia di mercato
497
luto il primo accenno fatto in un documento della Dottrina sociale della chiesa all’efficienza! Bisogna allora farsi carico degli esclusi (che non
sono sfruttati dal sistema capitalistico ma impreparati a farne parte), e
per questo serve qualche forma di azione collettiva.
5.5. I compiti dello stato riguardo all’economia.
La CA (48) offre su questo argomento una posizione su cui potrebbero concordare molte scuole di pensiero e gruppi politici. In primo luogo:
L’attività economica, in particolare quella dell’economia di mercato, non può
svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario,
sicurezza circa le garanzie della libertà individuale e della proprietà… Il principale
compito dello Stato… è di garantire questa sicurezza, di modo che chi produce e lavora possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà.
In secondo luogo,
lo Stato non potrebbe assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini
senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli… Tuttavia… lo Stato ha il dovere di assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi.
In terzo luogo, ha delle ulteriori funzioni di supplenza quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione,
sono inadeguati al loro compito. Ma deve evitare di «dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile».
Un breve commento sul «primo luogo». Nell’impresa moderna si realizza la partecipazione di ben più di «chi produce e lavora». Solo in Italia
la stragrande maggioranza delle imprese è a gestione e proprietà familiare. In generale, oltre ai dipendenti e ai loro sindacati, vi sono i manager, gli azionisti, i creditori, bancari e non. Vi sono a vario titolo gli enti locali. La compresenza di queste categorie di soggetti pone difficili
problemi, etici e giuridici. Ha ancora senso parlare dell’impresa, come
fa la CA, come di una «comunità di lavoro»? In particolare, quali fini
dovrebbe perseguire, nell’interesse prevalente di chi dovrebbe essere gestita? Peccato che la CA non abbia raccolto, su questo punto, il «testimone» offertole dalla QA. Nella QA, come abbiamo visto, era sottolineata la fragilità costitutiva della grande impresa, affidata in ultima analisi al senso del dovere di persone e gruppi che possono anche essere
totalmente estranei gli uni agli altri e avere, nell’ambito dell’organizzazione, interessi divergenti. Ma forse si può riflettere sull’enorme pro-
498
Giacomo Costa
gresso morale che segna una società nazionale in cui queste imprese costituiscono il nerbo nell’economia. Dal punto di vista della QA il capitalismo moderno, in quanto distinto da quello familiare, sarebbe (come
forse è) quasi un miracolo.
6. Osservazioni di sintesi.
Le encicliche sono risposte a problemi che si sono posti in un particolare momento storico e non ci si può aspettare che si compongano in
un trattato sistematico15. Per il loro richiamarsi ciascuna alle precedenti, e quasi a esse soltanto, si potrebbe ricevere l’impressione di una qualche forma di accumulazione di sapere morale, o teologico. Ma non sembra sia così. La PP ha poco o nulla a che fare con la RN: non solo non
ne condivide l’impostazione di fondo, ma neppure i suggerimenti più
concreti. Allo stesso modo la QA, forse la più rigorosa teologicamente,
e la più drammatica, resta in gran parte un corpo estraneo nell’insieme
delle encicliche successive. La CA si riallaccia in alcuni punti alla RN.
Ma deve inevitabilmente distanziarsi dalla PP. E non tiene presente la
QA, neppure dove le gioverebbe farlo.
Si potrebbe supporre che esse contengano delle proposte pratiche ai
diversi problemi con cui la storia ha fatto incontrare la chiesa, basate
però su alcuni principî fondamentali comuni. Ma anche questo pare difficilmente discernibile, data la grande vaghezza, e genericità, dei concetti più generali ai quali le encicliche di volta in volta ricorrono, e alla
disinvoltura con cui li usano. Basti pensare a quante declinazioni subisce il concetto di giustizia, o alle diverse concezioni proposte del diritto di proprietà, o alle diverse implicazioni affermate del famoso principio della destinazione comune dei beni della terra, o alle incertezze sulle implicazioni del «principio di sussidiarietà».
Allora si potrebbe prendere l’insieme di questi documenti non come
ciò che le autorità della chiesa hanno insegnato, ma piuttosto come resoconti di ciò che certi suoi uomini hanno pensato. E in effetti le encicliche portano fortissima l’impronta dei papi che le hanno firmate. Basti
pensare all’incredibile, impensabile cambio di tono di quelle di Giovanni XXIII: alla fiducia costruttiva, al rinfrescante brio con cui affrontano i problemi della pace mondiale. O al contrario alla mestizia farraginosa in cui sono immerse quelle di Paolo VI. Le encicliche sono anche dia15
Anche se ne è stata recentemente (2004) elaborata una sintesi, il Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa, a cura del Consiglio Pontificio della Giustizia e della Pace.
Etica cattolica ed economia di mercato
499
ri di anime. Tuttavia queste anime, questi uomini, si trovavano a essere a capo di una grande istituzione mondiale, ed era in questa veste, e
proprio per il fatto che la rivestivano, che scrivevano o facevano redigere le encicliche. Le encicliche non insegnano una forse inesistente etica cattolica (intesa come disciplina normativa sistematica), ma riflettono sul rapporto tra la chiesa cattolica e il mondo. Vorrebbero salvare il
mondo, trovando una giusta collocazione rispetto a esso. Questi due metaproblemi, che non sono di morale e neppure di morale cattolica ma di
politica ecclesiastica, o forse di politica tout court, sono imprescindibili
per le autorità della chiesa, prioritari e condizionanti. Ogni problema
specifico viene inserito nella prospettiva segnata da essi, e la sua soluzione da un lato dipende, dall’altro concorre, alla soluzione di quelli.
In definitiva, per la chiesa cattolica romana «rapporto col mondo»
significa principalmente rapporto con lo stato. Da un lato, lo stato è un
buco nero, la chiesa non vuole sapere nulla della strutturazione interna
dello stato liberale o liberal-democratico ed è estranea alla teoria del costituzionalismo moderno16. Né vuole sapere dell’equilibrio politico su
cui un governo si regge, e dei limiti al potere e alla capacità di iniziativa politica che ne derivano. Dall’altro, essa vede nelle «pubbliche autorità» le sue interlocutrici privilegiate, indispensabili, semionnipotenti.
Ma essa ha dello stato una concezione esclusivamente normativa. Non
come è, ma come dovrebbe essere è rilevante per lei. La determinazione nel non voler tener conto di questa distinzione può far sospettare, a
volte, che per le autorità della chiesa essa non esista17. Ma allora il confronto tra la soluzione decentrata del mercato e quella accentrata dello
stato ha un esito obbligato, e diventa irresistibile la tendenza ad assegnare allo stato compiti immani, anche se i governi, e le amministrazio16
Nella CA (44) viene sostenuto che la RN si sarebbe espressa a favore del principio costituzionale della separazione dei poteri e dello stato di diritto. Ma la blanda affermazione richiamata
in RN 27, che «vi saranno sempre governanti, legislatori, giudici, insomma uomini che governano
la nazione in pace, e la difendono in guerra», non sembra in grado di sostenere una tesi così impegnativa. RN 26 è invece esplicita nel respingere il principio della sovranità popolare, e nel rivendicare la validità di un approccio puramente normativo allo stato: «Noi parliamo dello Stato non
come è costituito e come funziona in questa o quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principî della retta ragione e confermano gli insegnamenti della divina Sapienza che noi stessi spiegammo nell’enciclica sulla Costituzione Cristiana degli Stati». Una specie di «Stato naturale», dunque.
17
Forse il locus classicus a questo riguardo è Octogesima adveniens 46, che ha colpito per la sua
franca irresponsabilità osservatori disparati come Heinz Arndt (h. w. arndt, Economic Development: The History of an Idea, University of Chicago Press, Chicago Ill. 1987; trad. it. Lo sviluppo economico: storia di un’idea, il Mulino, Bologna 1990, p. 220), e Peter Bauer (p. bauer, Ecclesiastical
Economics, in id., From Subsistence to Exchange and other Essays, Princeton University Press, Princeton N.J. 2000, p. 97). Ad esempio Bauer osserva sconcertato: «Secondo l’opinione esplicita del
Papa i governi agiscono sempre per il bene comune».
500
Giacomo Costa
ni pubbliche, in realtà, in molti casi sono o deboli o pessimi. È come se
nelle compagini politiche l’imperfezione, su una delle cui determinazioni, il peccato, tanto insiste la chiesa, non potesse insinuarsi. Come se la
sorprendente citazione dei Discorsi di Machiavelli fatta in RN 22 fosse
anche un addio, segnasse la rinuncia di tutta la successione delle encicliche future a prendere atto delle demoniache potenzialità di violenza,
sfruttamento, sopraffazione, regressione, insite nella politica. In particolare, l’aspirazione più profonda delle encicliche è di affidare a un processo politico-amministrativo facente capo a un’autorità politica centrale l’economia di ciascuna nazione, e magari l’economia mondiale. L’estensione mondiale di un’economia di comando è il sogno regressivo
della Dottrina sociale della chiesa.
La chiesa parla nelle sue encicliche ai fedeli, ma non direttamente alle loro coscienze: piuttosto, proponendo di introdurre elementi di cristianesimo nelle strutture sociali. Questo perché i principî che di volta
in volta propone sono o esiti sociali o principî di organizzazione sociale, non di etica individuale. Ma uno stato costituzionale moderno ne ha
già, ed è anch’esso impegnato nel perseguimento di molti obiettivi sociali. Le Costituzioni dei paesi dell’Europa continentale usciti dalla seconda guerra mondiale si presentano come tavole di valori e di fini, quasi tutti pienamente cristiani. L’irrefrenabile vocazione normativa della
chiesa è frustrata, e va in una specie di folle. Eccola allora tentare di
esercitare la sua influenza sulla vita delle comunità europee mediante
l’individuazione e la costruzione di atteggiamenti collettivi da denunciare: il materialismo, l’economicismo, il consumismo. A un attento esame, queste elaborazioni si rivelano sconcertantemente fragili18.
Tuttavia gli attacchi al «consumismo» rivelano alcune difficoltà che
dovrebbero essere portate alla luce. Una società prospera, può essere cristiana? Nella vecchia concezione, ricco e povero rientravano in uno schema provvidenziale, ed erano l’uno essenziale alla salvezza dell’altro. Ma
la Rivoluzione industriale l’ha fatta saltare. Quasi nessuno sente ormai la
sua povertà come una designazione divina, o un destino. Qual è allora il
significato odierno dell’ideale cristiano della povertà? A una lettura almeno superficiale dei Vangeli vi si trovano suggeriti atteggiamenti apparentemente contraddittori: da un lato, la totale insignificanza di qualsiasi attività lavorativa e produttiva; dall’altro, l’imperatività del bisogno fisico immediato e disperato, da cui il dovere incondizionato, sino
18
Si vedano al riguardo g. costa, La società dei consumi nelle recenti encicliche sociali della Chiesa Cattolica, in «Biblioteca della Libertà», n. 157 (novembre 2000 - febbraio 2001), pp. 3-32, e g.
filoramo, La Chiesa e le sfide della modernità, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 117-19.
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all’autospoliazione, dell’assistenza. Bisogna giungere a una comprensione profonda di questi testi per poterne trarre proposte utili ai cristiani di
oggi. Ora, la chiesa cattolica romana non è abituata a questo. Forse non
merita del tutto la famosa osservazione, buttata là da Von Mises quasi
con simpatia, di «uso opportunistico dei testi rivelati», ma è chiaro dai
suoi documenti che essa non è ancora pronta ad accettare la disciplina di
una teologia biblicamente ispirata e fondata19. Più sensibile è la chiesa all’altro gigantesco problema posto dai Vangeli, quello del passaggio dalla
situazione a tu per tu di, poniamo, il viandante che giace a terra bastonato e forse morto (e perciò accuratamente evitato per tema di contaminazione rituale dai vari funzionari del Tempio che sfilano davanti a lui), e
il Samaritano, alla soluzione di un qualunque problema sociale: problema che può essere affrontato solo con qualche forma di azione collettiva il cui esito è comunque incerto; azione collettiva, non necessariamente politica, e qui il profondo bisogno di fraternità, anche se non di lealtà
civica, di molta gente sta dando vita a forme organizzate di attività volontaria che forse sono la risposta tacita, totalmente non dottrinale, del
cattolicesimo romano ad alcuni dei problemi del nostro secolo.
Ma per le encicliche, il rapporto con la politica resta fondamentale.
E qui deve fare i conti con un’altra circostanza che caratterizza il cristianesimo (il cristianesimo in quanto distinto dal cattolicesimo: che però
è una forma di cristianesimo!): è la meno giuridica delle tre religioni monoteistiche20. Non solo il cristianesimo rifiuta di regolare minutamente
la vita individuale e sociale dei suoi fedeli. Respinge addirittura l’idea
di giustizia. Se un comportamento fosse giusto, in conformità ad esempio con lo jus gentium ellenistico, vi si uniformerebbero anche gentili e
peccatori! Il cristianesimo chiede ai singoli ciò che è supererogatorio,
fino a ciò che è impossibile. Il procedimento che porta dall’individuale
e impossibile al collettivo, politico e a volte (ma non sempre) possibile è
ben chiarito dall’economista Edmond Malinvaud:
Trattandosi del giusto prezzo del pane venduto ai poveri, il Vangelo dice al fornaio, come a tutto il prossimo: «dona il pane al povero, non venderglielo»; mentre
i dottori della Chiesa, indirizzandosi ai governanti, hanno spesso detto: «dovete imporre un prezzo massimo regolamentare al pane», per garantire il diritto alla vita
del povero21,
19
Come propose il valente biblista italiano Angelo Tosato (a. tosato, Vangelo e ricchezza, nuove prospettive esegetiche, a cura di D. Antiseri, F. D’Agostino e A. Petroni, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2002).
20
Come viene ripetutamente ricordato nei suoi saggi da e. fortin, Collected Essays cit.
21
e. malinvaud, «Mercato», in Dizionario di Dottrina Sociale della Chiesa: Scienze Sociali e Magistero, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 422.
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e questo è ben detto, ma mostra anche il profondo bisogno di poveri della chiesa. E se provassimo a pensare a un mondo senza poveri?
Nei suoi tentativi di imporre un ordine purchessia (purché non sia
quello del mercato), la chiesa finisce per non notare importanti sviluppi delle società occidentali che pure potrebbero essere visti come ispirati da valori cristiani, e favorevoli a essi. Abbiamo già detto del costituzionalismo liberal-democratico: la separazione dei poteri, i diritti individuali civili e politici, l’uguaglianza di fronte alla legge, il controllo di
costituzionalità delle leggi, se non la sovranità popolare. Un altro esempio è costituito dall’estendersi, articolarsi, ramificarsi di un mercato
mondiale. La chiesa dispone dell’antica dottrina della destinazione comune dei beni della terra, di cui non sempre ha fatto, come abbiamo visto, un uso convincente. I beni devono essere posseduti, essa seguendo
una lunga tradizione raccomanda, non come propri, ma come comuni.
Ma né la terra e le altre risorse naturali, né i beni finali che da esse si
possono ottenere sono beni pubblici. A differenza di un concerto diffuso in mondovisione, se ne godono i proprietari, non ne possono godere
altri. Può darsi allora che i frequenti, insistiti richiami a questa dottrina siano un mero espediente retorico per esortare alla carità. Fastidioso e inutile, dato che per un cristiano sarebbe un dovere, o forse un impulso del cuore, comunque! Tuttavia, attraverso il mercato, si realizza
un processo di divisione nazionale e internazionale del lavoro, si costituiscono in modo spontaneo reti estesissime di cooperazione inconsapevole e non pianificata tra gli uomini, che attraverso la produzione e lo
scambio di beni finali (o prodotti) permettono la massima valorizzazione a livello mondiale delle singole risorse naturali (o «create»). Così l’antica dottrina acquista un senso! Anche la più moderna dottrina della cocreazione potrebbe essere vista in questa prospettiva. Ciascun manufatto, insignificante come una macchinina giocattolo, o gioiello della tecnica
come un personal computer, reca in sé un qualche prelievo di risorse naturali e innumerevoli strati di componenti realizzate nelle fabbriche più
diverse e distanti.
Allo stesso modo, molti lettori potrebbero trovare difficile individuare qualche motivo di insegnamento o ispirazione nelle encicliche. Ma
non è del tutto così. La seguente osservazione viene da PP (41) che cita GS (19):
[La prosperità materiale] non costituisce per se stessa un ostacolo all’attività dello spirito, il quale anzi, reso così «meno schiavo delle cose, può facilmente elevarsi
all’adorazione e alla contemplazione del Creatore».
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