6,00 EURO - TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB ROMA Iran: una nuova «guerra preventiva»? MARZO 3 2010 CONFRONTI 3/MARZO 2010 Anno XXXVII, numero 3 Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Stefano Toppi (vicepresidente), Rosario Garra, Gian Mario Gillio, Rita Maria Maglietta. Le immagini Iran: una nuova «guerra preventiva»? · Umberto Gillio, copertina La speranza africana · Archivio dell’associazione Itinerari africani 3 Gli editoriali Regionali: votare per i meno raccapriccianti · Felice Mill Colorni, 4 Ricordando Basaglia, a 30 anni dalla morte · Giuseppe Dell’Acqua 5 L’islam «alla Maroni» · Mostafa El Ayoubi, 6 Manovre in Curia, conclave sullo sfondo · David Gabrielli, 7 Direttore Gian Mario Gillio Caporedattore Mostafa El Ayoubi In redazione Luca Baratto, Umberto Brancia, Demetrio Canale, Lucia Cuocci, Antonio Delrio, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Cristina Mattiello, Daniela Mazzarella, Gianluca Polverari, Elisabetta Rovis, Luigi Sandri, Iacopo Scaramuzzi, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi, Eva Valvo. Collaborano a Confronti Stefano Allievi, Massimo Aprile, Alessia Arcolaci, Giovanni Avena, Jasmine Barahman, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Giovanna Caggia, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio De Giovanni, Augusta De Piero, Ottavio Di Grazia, Jayendranata Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Piera Egidi, Mahmoud Salem El Sheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Francesco Gentiloni, Maria Rosaria Giordano, Giorgio Girardet, Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Michele Lipori, Franca Long, Anna Maffei, Valerio Marconi, Domenico Maselli, Enzo Mazzi, Lidia Menapace, Mario Miegge, Adnane Mokrani, Renée Mortellaro, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Luisa Nitti, Silvana Nitti, Paolo Odello, Enzo Pace, Alda Radaelli, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Josè Ramos Regidor, Paolo Ricca, Riccardo Romano, Sergio Rostagno, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Stefania Sarallo, Daniele Solvi, Sandro Spanu, Stefano Specchia, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Luana Stinziani, Serena Tallarico, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi. Redazione tecnica e grafica Daniela Mazzarella Programmi Lucia Cuocci Abbonamenti, diffusione e pubblicità Nicoletta Cocretoli Amministrazione Gioia Guarna Registrato presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551. I servizi Santità Iran Niger Politica Africa Irlanda del nord Medio Oriente Società Perù Se le virtù private non bastano ad un papa · David Gabrielli, 9 Wojtyla e il caso Ior: quale «fortezza»? · Giovanni Franzoni, 12 «Occorre continuare a dialogare» · (intervista a) Renzo Gattegna, 13 Il papa in visita alla Sinagoga. Cui prodest? · Bruno Segre, 15 La guerra che l’Occidente ha già deciso? · Franco Cardini, 16 Tensioni e speranze nella regione dei tuareg · Donato Cianchini, 19 Una Repubblica fondata sugli affari? · Nicola Tranfaglia, 21 Quando di lavoro si muore · (intervista a) Mimmo Calopresti, 22 I conflitti nella regione dei Grandi Laghi · Giusy Baioni, 24 Pace precaria tra cattolici e protestanti · Donato Di Sanzo, 26 Attese, speranze e ostacoli alla pace · Francesco Farina, 29 Costruire il futuro investendo sui giovani · (intervista a) Massimo Gnone, 31 Quando le parole uccidono più della spada · Azzurra Carpo, 33 Le notizie Cdb Stati Uniti Iran India Cultura Immigrazione Società Ambiente Politica Chiesa italiana Eluana Englaro Dossier «Berlusconi non vede il muro? Regaliamogli un paio di occhiali», 35 A Guantanamo prosegue la linea Bush, nonostante le promesse di Obama, 35 Giustiziati due manifestanti delle proteste post-elettorali, 35 La popolazione danneggiata da miniere e raffinerie, 36 Una mostra fotografica per raccontare rom e sinti, 36 Un romano su dieci è di origine immigrata, 36 Un incontro per conoscere la comunità cinese a Roma, 37 A Milano la XV Giornata della memoria contro le mafie, 37 Legambiente si mobilita contro il ritorno al nucleare, 37 M’illumino di meno, per il risparmio energetico, 38 Giovani per la Costituzione compie cinque anni, 38 L’appello dell’Associazione vittime dell’uranio impoverito, 39 A Firenze il secondo incontro dei cattolici autoconvocati, 39 Bonafede: «Basta con l’uso politico della vicenda», 40 Su «Riforma» un approfondimento a cura della Fcei sui temi dell’immigrazione, 40 Le rubriche Osservatorio sulle fedi Note dal margine Opinione Opinione Cinema Libro «Tranquilli, è in arrivo l’Apocalisse» · Antonio Delrio, 41 Il vero volto di Eluana · Giovanni Franzoni, 42 «Se Dio è maschio, il maschio è Dio» · Stefania Sarallo, 43 Haiti: i dannati della Terra · Giuliano Ligabue, 44 Se il tagliatore di teste si toglie la corazza · Umberto Brancia, 45 La lettura del Corano e le domande del nostro tempo · Giorgio Piacentini, 46 Hanno collaborato a questo numero: G. Baioni, M. Bevilacqua, M. Calopresti, F. Cardini, A. Carpo, D. Cianchini, G. Dell’Acqua, D. Di Sanzo, A. Esposito, F. Farina, R. Gattegna, M. Gnone, G. Piacentini, B. Segre, N. Tranfaglia. 2 LE IMMAGINI LA SPERANZA AFRICANA Tra dittature e colpi di Stato militari vari, il Niger resta oggi uno dei paesi più poveri e martoriati del mondo: reddito annuo per persona, 700 dollari; speranza di vita, 52,6 anni; tasso di alfabetizzazione, 28,7%. La sua unica via d’uscita sono i suoi «figli», ma sulla loro istruzione sono in pochi a investire. Le immagini che illustrano questo numero sono dell’archivio dell’associazione Itinerari africani (www.itinerariafricani.net) fondata da Donato Cianchini e Monica Pellegrino e si riferiscono al servizio a pagina 19. 3 GLI EDITORIALI Regionali: votare per i meno raccapriccianti Felice Mill Colorni E’ una pietosa bugia, ripetuta da quando furono istituite con un ritardo più che ventennale le Regioni a statuto ordinario, che il potere politico sia tanto più controllabile dai cittadini quanto più è loro vicino geograficamente. La prossimità della politica non dipende dalla distanza fisica ma dai media. E i media più influenti e potenti si strutturano al più alto livello geografico utile alla politica e consentito dalla raccolta della pubblicità: nel caso italiano, dall’area di diffusione della lingua italiana, ancor oggi miglior veicolo pubblicitario dei vernacoli locali. Non che i media nazionali più diffusi e decisivi – in particolare la televisione, che è il principale canale di informazione politica per l’80 % dei nostri concittadini – siano ormai molto più che protuberanze della politica; ma insomma un minimo di informazione, per quanto in prevalenza deferente e devota, sono pur sempre obbligati a fornirla. E quindi il potere politico nazionale un minimo di visibilità, non sempre al cento per cento idolatrante e sottomessa, è pur sempre obbligato a sopportarla. Il potere regionale no. Le Regioni sono il più potente canale di redistribuzione di risorse pubbliche sottratto a un vero controllo democratico diffuso. Una redistribuzione delle risorse che, per conseguenza, tende a funzionare all’inverso rispetto alle previsioni costituzionali: a vantaggio di clienti, postulanti e amici della politica molto più che secondo i virtuosi criteri equitativi fissati dai costituenti nel ’48. Se molti sono almeno i cittadini informati su chi li governa a livello nazionale, molto pochi fra i non addetti ai lavori (e fra i non appartenenti a corporazioni e gruppi di potere o di pressione) potrebbero anche solo ricordare i nomi di qualche politico regionale di rilievo, oltre magari a quello del presidente della propria Regione. Semmai, in un paese che da sempre riconosce come dimensione identitaria principale quella campanilistica, un minimo di interesse è ancora capace di suscitarlo la politica municipale. Per questo è vero che le elezioni regionali sono sempre, molto più delle amministrative, un test per gli equilibri politici nazionali. Un test di quel mistero sempre più doloroso che appare la politica italiana, a patto di guardarla come fa il resto del mondo democratico anziché attraverso il filtro della sua rassicurante rappresentazione televisiva italiana. Dobbiamo purtroppo riconoscere che, secondo tut- Le Regioni sono il più potente canale di redistribuzione di risorse pubbliche sottratto a un vero controllo democratico diffuso. Una redistribuzione che tende a funzionare a vantaggio di clienti, postulanti e amici della politica molto più che secondo i virtuosi criteri equitativi fissati dai costituenti nel ’48. Le elezioni del 28 e 29 marzo saranno – come sempre – un test per gli equilibri politici nazionali e nell’Italia dove trionfano il malaffare e una barbarie ormai apertamente razzista non ci si può proprio permettere di essere «schizzinosi»: andare a votare è un triste obbligo morale e civile. 4 ti i sondaggi, la maggioranza degli italiani ha accettato l’idea di farsi governare da un tycoon [il magnate Berlusconi] che, chiamato a testimoniare in un processo di mafia, si è avvalso della facoltà di non rispondere; da uno che non solo non pretende, come la legge gli consentirebbe, di difendersi nel merito contro le imputazioni infamanti pendenti sul suo capo, ma che anzi fa di tutto per cavarsela con proscioglimenti per prescrizione: cose che nessun governante occidentale si permetterebbe mai di fare. Di farsi governare da uno che ha assecondato le peggiori inclinazioni della società italiana e imposto mentalità e stili di vita e di governo da basso impero. Pare che ai nostri concittadini non faccia senso. Naturalmente non è solo colpa loro, ma anche, certamente in misura maggiore, di chi dall’opposizione ha «responsabilmente» accettato questo andazzo, e, persa con le certezze del passato anche ogni bussola per valutare i comportamenti propri e altrui, tratta da anni B come se fosse la versione italiana di Merkel, Sarkozy, Cameron, Rajoy o McCain. È per questo che i test più significativi saranno quelli delle Regioni in cui ai rappresentanti della maggioranza di governo nazionale non si contrappongono normali politici di partito, ma esponenti di una politica insolita rispetto all’opposizione mainstream. Non a caso è proprio nelle due importanti Regioni in cui la battaglia è più aperta che il Partito democratico, per avere qualche minima chance, ha finito per accettare di sostenere candidati eccentrici. Il Lazio, innanzitutto. Subìta più che ricercata, la candidatura di Emma Bonino, nella Regione in cui il Pd credeva già di avere perso in partenza e sembrava ritenere solo possibile farsi rappresentare da un cattolico ratzingeriano, potrebbe essere la chiave di volta di un generale e salutare ripensamento. Un ripensamento su chi siano oggi gli elettori cattolici, su che cosa significhi fare i conti con la modernità, su che cosa comporti adottare standard di trasparenza amministrativa finora sconosciuti alle nostre latitudini. Altrettanto significativo sarà il risultato del tentativo di assalto leghista al Piemonte, la Regione in cui il Pd si presenta forse con il suo volto migliore e più solidamente laico, con serie e buone amministrazioni della Regione e del capoluogo (che non possono essere giudicate solo per la vicenda dell’alta velocità), e la destra con quello più aggressivamente populista della Lega, proprio nella culla della laicità e della modernità italiane. Si spera in una ripetizione del fallimento leghista di qualche anno fa in Friuli. Tuttora purtroppo scontati, a giudicare dai sondaggi, il radicamento del granducato ciellino in Lombardia e di qualunque destra si presenti in Veneto, sarà interessante misurare l’appannamento del centrosinistra nelle sue Regioni, tradizionalmente rosse o dal Pd GLI EDITORIALI conquistabili a intermittenza, a cominciare da quelle in cui sembra intenzionato a presentarsi con i volti, per ragioni in parte diverse assai logori, di Liguria e Calabria: in quest’ultima Regione, sarà significativo indice della volontà di superare lo sfacelo il risultato di Pippo Callipo, sulla carta per ora sostenuto solo da Idv e radicali. E sarà interessante vedere come andrà in Puglia Nichi Vendola, esponente di una sinistra che nel Centro-nord probabilmente sembrerebbe alla maggior parte degli elettori del centrosinistra eccessivamente onirica, ma cui ha conferito credibilità e prestigio l’ostilità manifestata dalla nomenklatura di partito. Di incerta interpretazione, invece, sarà comunque il risultato della Campania, dove Pd e Idv marcano una doverosa rottura di continuità con un passato indecoroso, ma affidandosi ai modi maneschi di un sindaco cui piace atteggiarsi a sceriffo. In ogni caso, nell’Italia di B non ci si può proprio permettere di essere schizzinosi: davanti al trionfo del malaffare e a una barbarie ormai apertamente razzista, andare a votare comunque è un triste obbligo morale e civile. Se sulla scheda non vi riesce proprio di trovare il male minore, vedete di accontentarvi del meno raccapricciante. Ricordando Basaglia, a 30 anni dalla morte Giuseppe Dell’Acqua Q uasi 6 milioni di persone hanno visto in televisione «C’era una volta la città dei matti». Il racconto del lavoro di Franco Basaglia nei manicomi di Gorizia e Trieste ha illuminato 30 anni di storia del nostro paese: il ritorno nel contratto sociale dei «malati di mente», la chiusura dei manicomi, la consapevolezza che un altro modo di curare è possibile. Della storia dei manicomi e della loro fine non possiamo perdere la memoria. Il ritorno di quella memoria ha fatto affiorare domande che sembravano ormai improponibili, datate, ideologiche. Per 30 anni, mentre faticosamente i cambiamenti avviati da quelle coraggiose scelte andavano avanti, e le persone tra infiniti ostacoli e resistenze conquistavano margini di possibilità, una pesante coltre ha coperto la molteplicità e la diversità delle esperienze, singolari o collettive, di grandi istituzioni o di piccole imprese sociali, gioiose o dolorose che fossero, col luogo comune della «legge da cambiare». Basaglia quando entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia, di fronte alla violenza e all’orrore che scopre è costretto a chiedersi angosciato: «che Ad agosto ricorrerà il trentennale della morte del «padre» della legge 180 sui manicomi. Negli anni Settanta, Peppe Dell’Acqua era un giovane psichiatra che collaborava con Basaglia. Di quella rivoluzione, cui partecipò in prima persona, resta una testimonianza ricca e complessa nel suo libro «Non ho l’arma che uccide il leone». Oggi è direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. 5 cos’è la psichiatria?». Da qui la spinta formidabile ad «aprire le porte», al rifiuto di qualsiasi complicità con quelle istituzioni, all’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita, il manicomio, le culture e le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento che presto si rivelerà irreversibile: «il malato e non la malattia». La legge 180 non è altro che questo. Non è più lo Stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non più il malato di mente «pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo», ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo Stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale. I cambiamenti legislativi, culturali e istituzionali, che malgrado tutto sono avvenuti, hanno restituito nella ruvidezza della vita, ora reale, la possibilità ai «malati di mente», ovvero alle persone, di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, di trovare identità differenti, perfino di guarire. Lo scorso ottobre, prima del Basaglia televisivo, una dichiarazione del ministro della Salute Ferruccio Fazio al Convegno della Società italiana di psichiatria ha sorpreso tutti: «Al momento attuale non pensiamo ci siano delle grosse modifiche da fare alla legge 180, piuttosto pensiamo sia opportuno fare una revisione della situazione territoriale di tutta l’assistenza per la salute mentale in Italia. Come tutte le leggi anche in quelle buone come la legge Basaglia ci sono a volte delle criticità. In questo caso la situazione delle strutture psichiatriche del nostro paese non è uniforme». E tutti abbiamo pensato che forse, finalmente, cominceremo a lavorare sulle organizzazioni, sulle risorse, sulle buone pratiche, sulla formazione, su una efficace comunicazione sociale. Molte cose sono accadute in questi anni e di recente il «cambiamento» ha trovato ulteriori conferme. La presenza dei servizi è ormai diffusa in tutto il territorio nazionale. Malgrado spesso funzionino poco e male. Le persone sono finalmente consapevoli dei loro diritti e pretendono cure e trattamenti appropriati. Molte resistenze ancora persistono. Le risposte dei servizi sono spesso improntate a un modello medico che propone ambulatori, farmaci, ricoveri, trattamenti sanitari obbligatori, reparti psichiatrici, porte chiuse, contenzione, residenzialità senza fine. Le amministrazioni regionali e aziendali (e la psichiatria) fanno fatica a concretizzare risposte efficaci intorno alle persone, alle famiglie, ai loro bisogni e ai loro affetti. Eppure di recente atti di indirizzo sono stati prodotti dai governi che si sono succeduti e dal Parlamento europeo perché fosse sempre più chiara la scelta a sostegno di una salute mentale comunitaria. Richiamando i governi locali, le Regioni, alle loro responsa- GLI EDITORIALI bilità nella programmazione, nella disposizione delle risorse, nell’offerta di servizi vicini alle persone. In occasione delle imminenti elezioni regionali bisognerà esercitare ogni forma di pressione sui candidati presidenti perché costringano i loro programmi a una attenta definizione dei servizi, delle risorse, dei dispositivi che solo le Regioni possono mettere in atto e che – per carità! – non parlino più della legge 180. In tal senso è in atto un’iniziativa del Forum Salute Mentale (www.forumsalutementale.it) che suggerisce di inviare una lettera programma ai candidati presidenti. I familiari e le loro associazioni, spesso inascoltati o peggio manipolati, sanno bene che il cambiamento avviene attraverso l’impegno e la programmazione regionale. Essi sono stati nella fase iniziale i più forti sostenitori del cambiamento e hanno creduto fino in fondo al diritto riconquistato, alla possibilità di ripresa, alla speranza di una vita che possa, malgrado tutto, essere vissuta. Ora cominciano a essere sulla scena le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale. Hanno cominciato ad associarsi, a riconoscersi e a parlare. Non più con un filo di voce per «ringraziare il bravo dottore», né con urla di disperazione e di dolore, ma con parole esperte che pretendono di essere ascoltate. E questa è la cosa più meravigliosa che mai avremmo potuto immaginare. Le persone che vivono questa esperienza parlano di futuro, di desideri, di lavoro, di amore, di protagonismo. Di guarigione. Francesco, 23 anni, studente di architettura, da 4 anni cerca di farcela. «Quando è cominciata la malattia – ha detto al gruppo del Centro di salute mentale – sentivo un muro davanti a me. Un muro che mi impediva di incontrare gli altri. Ero sempre più schiacciato da questo muro. E sempre più solo. Ho provato a scavalcarlo più volte e sempre mi sono fatto male. Molto male. Adesso ho cominciato, piano piano, a picconarlo». L’islam «alla Maroni» Mostafa El Ayoubi N el bene o nel male, il governo italiano riapre il dossier «Islam in Italia». Un nuovo organo consultivo, battezzato «Comitato per l’islam italiano», è stato istituito all’inizio di febbraio scorso dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Il suo compito, secondo una nota del Viminale, sarà quello di esprimere pareri e proposte su temi indicati dal ministro con «l’obiettivo di migliorare l’inserimento socia- Il Ministero dell’Interno ha istituito il Comitato per l’islam italiano. Tra i suoi esperti, accanto a nomi autorevoli, spiccano anche alcuni noti fan di Oriana Fallaci, decisamente ostili al mondo musulmano. 6 le e l’integrazione delle comunità musulmane nella società nazionale, anche nell’ottica di sviluppare la coesione e la condivisione di valori e diritti nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica». I temi che stanno a cuore – si fa per dire – a Maroni sono in sostanza due: moschee/imam e velo islamico. Il neo comitato, che dovrà fornire delle indicazioni su questi delicati argomenti, è composto da 19 membri. Che cosa contraddistingue questo Comitato per l’islam italiano dalla Consulta islamica creata da Pisanu nel 2005, confermata da Amato e poi affossata da Maroni stesso? Un primo elemento che differenzia i due organi è che la squadra di Maroni, come è stato chiaramente dichiarato, non ha pretese di rappresentatività della complessa comunità islamica in Italia (8 dei 19 membri del comitato sono italiani non musulmani), cosa che per la Consulta (dei 16 musulmani) non era così specificato. Un secondo elemento è che la Consulta non aveva un mandato preciso – ha cercato di elaborarne uno, ma ha finito per creare quel pasticcio della cosiddetta «Carta dei valori» – mentre il neo comitato avrà un ruolo ben definito: fungere da supporto politico al ministro nelle più che probabili future normative sulla formazione degli imam e sul velo. Riguardo la prima questione, l’orientamento pare sia quello di conferire al Viminale l’autorità di decidere a chi assegnare la «patente» di imam e, di conseguenza, disporre del controllo totale dei luoghi di culto islamico. Un’azione in piena violazione della Costituzione italiana. La stessa Costituzione che il ministro vuol far rispettare ai musulmani, nel suo articolo 8 afferma che le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti. Maroni invece intende istituire un albo degli imam gestito dallo Stato. E se così sarà, una data comunità islamica potrà avere qualche chance di avere una sala di preghiera solo se è rappresentata da un imam «benedetto» dal ministro dell’Interno. E chissà, il sermone del venerdì potrebbe anche essere faxato all’imam dal Viminale stesso, proprio come avviene nelle dittature arabe. In sostanza l’orientamento sarà: moschee poche e addomesticate; stessa sorte anche per gli imam. Quanto alla seconda questione, è evidente che lo scopo principale è quello di creare i presupposti per una legge che vieti il velo integrale – per motivi puramente ideologici – nei luoghi pubblici. In effetti, per la maggioranza attuale (spronata dalla Lega), la preoccupazione principale non è tanto il serio nodo della discriminazione della donna musulmana «burqata», quanto i musulmani stessi, la cui presenza sul territorio italiano rappresenta un problema. C’è da osservare che il comitato chiamato a pronunciarsi su una questione fondamentale quale quella del velo comprende GLI EDITORIALI una sola donna, il che fa molto riflettere sulla vera motivazione di una eventuale legge in materia. In merito alla questione, gli effetti di una simile legge saranno dannosi in primo luogo per le donne che indossano il velo integrale, le quali saranno costrette a rimanere chiuse in casa e quindi ulteriormente isolate; in secondo luogo, una tale normativa potrebbe scatenare una smisurata reazione della comunità islamica e contribuire alla sua radicalizzazione. Ed è proprio quello a cui qualcuno vuole arrivare, ovvero: dimostrare che i musulmani non sono integrabili. I criteri di scelta dei componenti del Comitato per l’islam italiano sono in perfetta linea con questa tesi. Vediamo allora per sommi capi chi sono i nuovi consulenti del ministro. Alcuni membri – pochi – sono rappresentanti di comunità e di organizzazioni islamiche in Italia, ma tutti «area establishment». L’Ucoii – di cui fa parte un significativo numero di centri islamici – come era prevedibile, è stata esclusa. Altri sono cittadini di origine straniera di cultura islamica – in maggioranza marocchini – anch’essi uomini di corte: uno ha anche vinto nel 2007 il premio Oriana Fallaci (promosso dall’associazione «Una via per Oriana»). Altri ancora, pescati tra gli «esperti», sono dichiaratamente «fallacisti» e islamofobi: Carlo Panella e Andrea Morigi. Panella, per chi non lo sa, è l’autore del libro Fascismo islamico, in cui afferma che il mondo musulmano è fondamentalmente fascista, anzi nazista! Morigi, giornalista del quotidiano Libero, è noto per le sue crociate contro i musulmani: egli sostiene che «l’islam vuole la conquista dell’Occidente con il suo cavallo di Troia che è il Corano, da imporre gradualmente ma inesorabilmente anche ai cristiani». Un’altra presenza ambigua all’interno di questo gruppo di lavoro è quella di Massimo Introvigne, membro del direttivo dell’associazione Alleanza Cattolica nella quale milita anche il sottosegretario Mantovano, indirettamente compartecipe nell’istituzione del suddetto comitato. Riguardo alle polemiche sulle moschee, Introvigne ritiene di non aver bisogno di lezioni sulla libertà religiosa né da Fini né da Rosy Bindi e che «si può essere a favore della libertà religiosa ma contro le autorizzazioni indiscriminate a costruire moschee e minareti». In questo team di Maroni, in effetti, pochi si intendono della questione islamica e del suo collocamento nel quadro della libertà religiosa in Italia. Sono persone sicuramente in grado di dare un serio contributo a far progredire il dibattito sull’integrazione dell’islam in Italia. Ma i presupposti di questa operazione del Viminale lasciano supporre che essi non avranno voce in capitolo e che in realtà le loro serietà e competenze servono solo per non far sembrare poco credibile e poco competente il neo comitato per l’islam italiano. Manovre in Curia conclave sullo sfondo David Gabrielli L’evidente distonia tra «Avvenire» e «Osservatore romano» sul caso Boffo è solo la punta dell’iceberg di una battaglia che vede contrapposti i cardinali Bertone e Ruini e la cui vera posta in gioco è il futuro conclave. Di qui le pressioni sul papa in attesa del concistoro per la creazione di nuovi porporati. 7 I l contrastato dibattito sul sistema di governo ai vertici della Chiesa cattolica romana e, indirettamente, le manovre in vista del futuro conclave sono lo sfondo, a nostro parere, nel quale vanno situate, per essere comprese, le tensioni tra le gerarchie vaticane delle quali la vicenda Boffo, con annessi e connessi, è solo la piccola punta visibile di un grande iceberg sommerso. I fatti più recenti sono noti: il 9 febbraio la Sala stampa della Santa Sede rendeva noto un comunicato che, su L’Osservatore romano del pomeriggio (datato 10), è stato posto, in prima pagina, con la premessa: «Il Santo Padre ha approvato il seguente comunicato e ne ha ordinato la pubblicazione». Il testo smentiva fermamente le ricostruzioni di molti media che, a partire dal 23 gennaio, avevano sostenuto che il direttore del quotidiano vaticano, Gian Maria Vian, era implicato nella vicenda che il 3 settembre scorso aveva portato alle dimissioni di Dino Boffo, direttore di Avvenire, quotidiano controllato dalla Conferenza episcopale italiana. Alcuni media, cioè, avevano affermato che, quest’estate, era stato lo stesso Vian a passare a Vittorio Feltri, direttore de Il Giornale, un foglio anonimo che in sostanza accusava Boffo di aver molestato una signora perché egli voleva avere rapporti sessuali con il marito (sulla vicenda, si veda Confronti 10/2009). Il comunicato vaticano definiva «azione immotivata, irragionevole e malvagia» quella dei propagatori di calunnie tali da dar luogo «ad una campagna diffamatoria contro la Santa Sede, che coinvolge lo stesso Romano Pontefice». Avvenire, scontento – si vede – del comunicato, lo ha pubblicato senza commento, e non in prima pagina (come invece campeggiava sui principali giornali nazionali). Ma perché mai questa distonia tra i vertici della Cei, presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, e la Segreteria di Stato vaticana guidata dal cardinale Tarcisio Bertone? Per decifrarla, è necessario fare un passo indietro. Giovanni Paolo II, nel 1991, nominò presidente della Cei il cardinale Camillo Ruini, da lui scelto anche come vicario di Roma. Cinque anni dopo, alla scadenza del suo mandato, Wojtyla lo rinnovò, e per la terza volta lo fece nel 2001. Da qualche parte dell’episcopato si levò sommessamente la richiesta che fossero i vescovi stessi a scegliere il presidente della Cei, analogamente a quanto accade in tutte le Conferen- GLI EDITORIALI vista al Corriere della Sera, Vian criticava (cosa mai vista!) il giornale della Cei, non parlava a caso: egli era, nei fatti, il portavoce di Bertone che aveva convinto Ratzinger a scegliere lui come direttore dell’Osservatore. Dunque, silurando per interposta persona la barchetta di Boffo, il segretario di Stato tentava di colpire anche la corrazzata Ruini (orgoglioso poi di annunciare urbi et orbi di aver invitato a pranzo, il 20 gennaio scorso, Silvio Berlusconi) e la nave scorta Bagnasco. E perché mai? Perché – e qui, ci sembra, si apre il vero scenario – Bertone pensa anche al futuro conclave, dove spera, se non proprio di essere eletto, di diventare almeno il king maker, l’uomo decisivo per convincere gli eminentissimi colleghi a scegliere, come nuovo papa, quello che lui indicherà. In tale contesto, cruciale sarà il concistoro, certo entro un anno, per la creazione di nuovi cardinali. Se rimane in vigore l’attuale normativa (i cardinali ad 80 anni perdono il diritto di entrare in conclave, e il «tetto» dei votanti è di 120), a fine marzo i porporati «votanti» sarebbero 108: dunque, per ora, sarebbero solo dodici i posti «liberi». Ma se il pontefice darà la porpora a quella decina di monsignori che al momento reggono dicasteri curiali che di norma dovrebbero essere guidati da un cardinale, al papa resterebbero solo un paio di posti per premiare ben più numerosi vescovi che reggono importanti diocesi del mondo, da Hanoi a Kinshasa, da Washington a Varsavia, da Antananarivo a Brasilia, da Westminster a Tokyo, da Monaco a Quito, per non parlare di diocesi italiane «cardinalizie», come Firenze e Palermo. A fine 2010 Ratzinger avrebbe più posti (altri sette porporati compiranno 80 anni), ma non sufficienti a... coprire tutte le caselle. La vera «battaglia» all’ombra del cupolone è dunque quella di cercare – soavemente – di sollecitare Ratzinger a dare la porpora a Tizio ma non a Caio. In quest’opera si stanno spendendo Bertone e Ruini, ciascuno per i suoi scopi e per i propri uomini. E i cardinali di Curia non italiani, mentre assistono silenti allo sconcertante scambio di sgarbi tra Osservatore e Avvenire, segno di torbide manovre italiote, si danno anch’essi da fare, come possono, per prepararsi all’ora in cui il conclave dovrà decidere se scegliere un pontefice che prosegua nella linea del tandem Wojtyla-Ratzinger – restrittiva, per molti aspetti, nell’interpretazione del Vaticano II – oppure rilanciare il Concilio. Dunque, ogni cardinale può essere decisivo per scegliere l’una o l’altra strada. Perciò, pur sempre fiduciosi nell’opera dello Spirito santo, alcuni prelati operano per alleviarGli il compito favorendo alcune promozioni e impedendone possibilmente altre. Alla maggior gloria di Dio. ze episcopali del mondo. Ma Wojtyla rifiutò, adducendo come motivo che il papa è vescovo di Roma e primate d’Italia, e come tale ha il diritto naturale di scegliere il presidente della Cei. Nella Chiesa italiana serpeggiava un crescente malessere per lo strapotere di Ruini, delegato da Wojtyla anche a guidare la politica (politica) della Cei, e dunque a trattare con il governo, oltre che a lanciare le parole d’ordine alla cattolicità italiana. Queste grida di dolore furono ignorate da Giovanni Paolo II che, tramite Ruini, di fatto «commissariava» la Cei. Con questo vento in poppa il cardinale vicario coltivava l’ambizione suprema: essere eletto successore di Giovanni Paolo II. Ma il 19 aprile 2005 il conclave elesse papa il cardinale Joseph Ratzinger, anch’egli del resto da tempo in corsa per il soglio di Pietro. Ruini non si scoraggiò e, proprio nel passaggio da un pontificato all’altro, guidò la Cei all’ultima battaglia: impedire, nel giugno 2005, che passasse un referendum che avrebbe allargato la possibilità della procreazione assistita. La scelta di Ruini (e della Cei che, improvvida, lo seguì) fu di invitare caldamente tutti, e dunque non solo i cattolici, ad astenersi dall’andare al voto, così da far mancare il quorum e rendere nullo il risultato del referendum. E accadde proprio così. Al di là del peso effettivo (millantato?) del proclama di Ruini, un dato era chiaro: la «presenza» della Chiesa (cattolica) nella società italiana significava che spettava ai vescovi dare la linea, al paese intero, sui temi etico-politici. Benedetto XVI era della stessa idea; tuttavia sapeva anche che una parte notevole dell’episcopato era stufa di Ruini. Ma chi, allora, porre al suo posto? Sarebbe stata l’occasione di affidare all’assemblea della Cei la scelta, finalmente attuando la tanto proclamata collegialità episcopale e il tanto annunciato «nuovo modo» di esercitare il ministero petrino; ma anche Ratzinger rifiutò. E dopo contrastanti pareri giuntigli da più parti, infine (marzo 2007) si orientò su Bagnasco. A favorire questa scelta – non proposta dalla maggioranza delle Conferenze episcopali regionali – fu proprio Bertone. Il quale, segretario di Stato dall’estate 2006, mise subito in chiaro, al neo-eletto, che spettava a lui stesso, e non già al presidente della Cei, gestire la politica della Chiesa cattolica in Italia. Era la fine, formalmente, dell’era Ruini, rafforzata dal fatto che il papa scelse poi come vicario a Roma il cardinale Agostino Vallini. Il «pensionato» riusciva però a rientrare in orbita facendosi nominare a capo del «Progetto culturale» dalla Cei corposamente finanziato. Ma a guidare Avvenire rimaneva Boffo, pedina di Ruini non solo là, ma anche in altre importanti cariche. Allora, quando nell’estate scorsa, in un’inter- 8 SANTITÀ Se le virtù private non bastano ad un papa David Gabrielli La proclamazione delle «virtù eroiche» di Pio XII e Giovanni Paolo II – il passo che apre la via alla loro beatificazione – ha riaperto il dibattito sul «silenzio» di Pacelli a proposito della Shoah, e su alcuni aspetti del pontificato di Wojtyla. La questione teologica sul fondamento biblico della canonizzazione in se stessa. L a proclamazione delle «virtù eroiche» di Pio XII e di Giovanni Paolo II ha riaperto un dibattito che, partendo dai casi singoli, si allarga all’istituto stesso delle beatificazioni e delle canonizzazioni, cioè al gradino meno solenne, e più solenne, sul quale una persona viene proposta ai fedeli cattolici, dal papa, come esempio da imitare, e, con la canonizzazione almeno, affermando con assoluta certezza che quella tal persona è stata salvata ed è nel regno di Dio. Un dibattito che investe una questione di fondo: che cosa significa, per la Chiesa cattolica, indicare a modello di tutti i fedeli una persona? E, per chi ha avuto in vita grandi responsabilità di governo, ed ha compiuto scelte che hanno diviso l’opinione pubblica e il giudizio degli storici, come distinguere le intenzioni soggettive dalle oggettive conseguenze (positive, discutibili o negative) di certe sue scelte? Interrogativi di sempre ma che, oggi, per la maturazione di sensibilità un tempo meno evidenti, si ripropongono in maniera più alta e forte. È lecito anticipare sulla terra, qui e ora, il giudizio di Dio? Di solito – nei tempi recenti, almeno – è nei giorni prima di Natale che ogni anno la Congregazione delle cause dei santi (il dicastero della Curia romana che si occupa di tali problematiche) promulga, su mandato del papa, decreti che riguardano appunto l’iter cui sono giunti alcuni candidati/e per essere proposti alla pubblica venerazione. Così, il 19 dicembre scorso Benedetto XVI ha autorizzato monsignor Angelo Amato, prefetto del citato organismo, a promulgare decreti riguardanti miracoli attribuiti all’intercessione di dieci uomini e donne, di vari paesi, vissuti in secoli assai differenti, dal Quattrocento al Novecento; alcuni, già beati, con l’attribuzione del nuovo miracolo saranno canonizzati; altri, solamente «servi-serve di Dio», diverranno beati. È stato quindi proclamato un martirio (quello del «servo di Dio» Jerzy Popieluszko, «ucciso in odio alla Fede», nel 1984, da agenti del regime comunista polacco); e, quindi, le «virtù eroiche» di dieci persone, otto delle quali del 9 tutto sconosciute al grande pubblico; ma due notissime: Eugenio Pacelli, nato a Roma nel 1876, eletto papa Pio XII il 2 marzo 1939 e morto il 9 ottobre 1958; e Karol Wojtyla, nato a Wadowice, in Polonia, il 20 maggio 1920, eletto papa Giovanni Paolo II il 16 ottobre 1978, morto il 2 aprile 2005. Proclamare le «virtù eroiche» significa, nel linguaggio curiale, affermare che una determinata persona ha vissuto in modo eminente le tre virtù teologali (fede, speranza e carità) e poi le quattro cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza): cioè, sempre volendo compiere solamente la volontà di Dio e servire al bene delle anime, e mai lasciandosi guidare dallo spirito mondano o dal tornaconto personale. Una tale proclamazione è l’ultimo passaggio prima della beatificazione, ed è il pontefice che decide quando fissare la data della relativa cerimonia e dove tenerla (Ratzinger si è riservato le canonizzazioni, di solito a Roma, mentre usualmente delega un cardinale a presiedere la cerimonia della beatificazione, nel paese ove il beato ha operato ed è morto. Wojtyla, invece, di solito faceva anche le beatificazioni). L’istituto delle canonizzazioni pone naturalmente problemi teologici cruciali, ai quali qui accenniamo soltanto: infatti, nelle parabole e nelle similitudini che, nell’Evangelo di Matteo (capo 13), Gesù usa per descrivere il Regno – il campo ove crescono il frumento buono e la zizzania, la rete che raccoglie pesci buoni e pesci cattivi – Egli rinvia alla fine dei tempi la separazione del buono dal tristo e il giudizio del Signore sull’uno e sull’altro. Dunque, se le autorità di una Chiesa (il discorso vale anche per l’Ortodossia, perché anch’essa, con una sua autonoma procedura, «canonizza») proclamano con certezza che una determinata persona è salva, di fatto anticipano qui e ora il giudizio di Dio. Per evitare questo azzardo, da qualche parte si suggerisce che, invece che usare la categoria di «santo canonizzato» (ma nella prima Chiesa con «santo» si intendeva ogni seguace del messaggio di Cristo), si preferisca quella di «testimone». Il che significa che una comunità di cristiani ritiene di aver sentito risuonare l’Evangelo in modo particolare nella vita, le opere e/o gli scritti di una determinata persona. Però, dicendo «testimone», la comunità ritiene che quella persona le ha parlato di Dio in modo coinvolgente, ma non anticipa il giudizio escatologico. Del resto, nei primi secoli della Chiesa era chiamato esattamente «martire», che in greco significa «testimo- i servizi marzo 2010 confronti Santità. Se le virtù private non bastano ad un papa ne», chi avesse affrontato la morte pur di non venir meno alla propria fede nel Dio di Gesù. Tra convinzioni soggettive e conseguenze oggettive A prescindere da tali considerazioni, che sollevano un problema generale, vediamo più da vicino che cosa possa significare, per un papa, aver vissuto in modo «eroico» le virtù teologali e cardinali (mutatis mutandis, analogo problema si porrebbe per un re o un uomo politico che ha guidato un paese). In questione non è, ovviamente, l’intima convinzione di coscienza e la motivazione interiore, sulle quali solo Dio può giudicare; in questione sono le conseguenze oggettive e pubbliche – umane, sociali, ecclesiali, geopolitiche – di certe scelte, di certe affermazioni, di certi atti. E qui si pone una domanda inevitabile: se un pontefice fa una scelta che ha gravi conseguenze su alcune persone, queste la patiscono anche se egli ha agito in buona fede. Perciò quale senso ecclesiale e «geoecclesiale» può avere porre sugli altari questa persona? Se la «prudenza» e la «fortezza» di un papa non sono state all’altezza di ciò che la situazione richiedeva e, anzi, il suo deficit di discernimento pone dubbi fondati sul suo agire obiettivo, come ci si potrebbe riparare semplicemente sostenendo che quel papa aveva una grande pietà, o era convinto di fare il bene operando come ha operato, o omettendo come ha omesso? In dicembre sono state proclamate le «virtù eroiche» di Pio XII e di Giovanni Paolo II: significa, nel linguaggio curiale, che i due papi hanno vissuto al massimo grado la fede, la speranza e la carità, e poi la prudenza, la fortezza, la giustizia e la temperanza. Perché, piuttosto che di «santi», sarebbe più opportuno parlare di «testimoni». 10 Nei tempi recenti, la questione è esplosa con il caso di Pio IX. Il 20 dicembre 1999, su mandato di Giovanni Paolo II, la Congregazione per le cause dei santi aveva promulgato un decreto su un miracolo attribuito all’intercessione del «servo di Dio» Pio IX (†1878), e un altro sulle «virtù eroiche» di Giovanni XXIII (†1963). L’annuncio attirò l’attenzione sul papa dell’Ottocento e, tra l’altro, fonti ebraiche riaprirono una pagina non ignota, ma quasi dimenticata dal grande pubblico: quel pontefice, nel 1858 aveva benedetto il rapimento, a Bologna (allora negli Stati pontifici), di un ragazzino ebreo, Edgardo Mortara, perché questi era stato battezzato di nascosto da una cameriera cattolica. Dunque, ormai il piccolo doveva essere sottratto alla famiglia per essere portato a Roma ed educato cattolicamente. «I diritti del Padre celeste vengono prima dei diritti del padre terreno», sostenne Pio IX che, malgrado le proteste innescate dalla vicenda, anche in Europa, difese a spada tratta il suo operato (vedi Confronti, 3/2000). Pio IX agì, si può presumere, in perfetta buona fede, e traendo le conseguenze dalla teologia che gli avevano insegnato; e con ciò, si porta ad esempio dei fedeli un papa che benedisse il rapimento di un bambino? La questione si arroventò ancor più quando fu annunciato che papa Wojtyla il 3 settembre del 2000 avrebbe beatificato, contemporaneamente, Pio IX e Giovanni XXIII: un papa che negava il principio della libertà religiosa e fomentava il disprezzo dell’ebraismo, e un altro papa che aveva voluto il Concilio Vaticano II anche per affermare il principio della libertà religiosa e recidere, nella Chiesa cattolica, il disprezzo teologico verso l’ebraismo. Cattolici critici e comunità ebraiche – partendo da punti di vista differenti, ma infine convergenti – protestarono. Ma Wojtyla tirò dritto. Rispondendo ai critici, il giorno della beatificazione puntualizzò: «La santità vive nella storia e ogni santo non è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtù, a lode della grazia divina che in esse risplende». Insomma, quello che conta sono le virtù private; se un papa, in buona fede, benedice il rapimento di un bambino, non esiste problema e, in un tempo nel quale tale decisione appare intollerabile, lo si propone a modello. i servizi marzo 2010 confronti Santità. Se le virtù private non bastano ad un papa Il «silenzio» di Pio XII sulla Shoah La questione del comportamento di Pio XII riguardo alla Shoah – la decisione nazista di sterminare programmaticamente il popolo ebraico – è ormai posta da tempo nelle sue linee essenziali. Senza riandare ad una polemica quarantennale (innescata nel 1963 dall’opera teatrale di Rolf Hochhuth, Il Vicario, che accusava appunto Pio XII per il suo «silenzio»), riprendiamo la questione così come è stata condensata il 17 gennaio scorso, in occasione della visita di Benedetto XVI al tempio maggiore (la grande sinagoga) di Roma. Il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, dopo aver ricordato «con immensa riconoscenza» un istituto di suore che, durante la guerra, salvò alcuni della sua stessa famiglia, disse a Ratzinger: «Questo non fu un caso isolato né in Italia né in altre parti d’Europa. Numerosi religiosi [cattolici] si adoperarono, a rischio della loro vita, per salvare dalla morte certa migliaia di ebrei, senza chiedere nulla in cambio. Per questo, il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz. In attesa di un giudizio condiviso, auspichiamo, con il massimo rispetto, che gli storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano quel periodo e tutte le vicende successive al crollo della Germania nazista». E il pontefice, nella sua risposta: «In questo luogo, come non ricordare gli ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta». Il papa si è riferito alla deportazione degli ebrei romani (e prima di entrare in sinagoga aveva deposto una corona di fiori davanti alla lapide che ricorda il tragico evento del 16 ottobre 1943), ma su Pio XII ha glissato. Comunque, sembrerebbe scelta prudente e saggia, per la Santa sede, il non procedere alla beatificazione di Pio XII fino a che non siano aperti e studiati tutti gli archivi che lo riguardano: l’analisi di questo vastissimo materiale potrebbe – in teoria – portare motivi per confer- In un uomo di governo (papa o re), è possibile distinguere tra scelte soggettive, pur in buona fede, e gravi conseguenze negative che oggettivamente possono derivare da decisioni storicamente inadeguate o sbagliate? Pio XII fu «prudente» nel non denunciare la Shoah, o non piuttosto mancò alla virtù della fortezza? E Giovanni Paolo II, che impedì alla giustizia italiana di accertare le responsabilità dello Ior (la banca vaticana) nel crack del Banco Ambrosiano? mare, o per smentire, la plausibilità del suo «silenzio». Perché affrettarsi, dunque? Ma se, tra qualche anno, dopo l’analisi degli archivi, il giudizio degli storici e dell’opinione pubblica, dentro e fuori la Chiesa romana, fosse incomponibile esattamente come lo è oggi? Replicando alle critiche per la possibile beatificazione di Pio XII, il Vaticano ha, in sostanza, ripreso la tesi che Wojtyla apportò a proposito di Pio IX. Ma regge, una tale, distinzione? Anche dal punto di vista strettamente teologico intra-cattolico pende un dilemma: Pacelli, con il suo «silenzio», visse in modo «eroico» la virtù della prudenza (se avesse denunciato i nazisti – questa la tesi vaticana – avrebbe peggiorato ulteriormente la sorte degli ebrei), o mancò alla virtù della fortezza (che, ad esempio, avrebbe forse suggerito un gesto semplice ma decisivo: il papa che si reca al Portico di Ottavia, dove il 16 ottobre del’43 furono radunati gli ebrei romani da mandare ai lager nazisti, e là si inginocchia e prega in silenzio). Naturalmente, la questione degli ebrei non è l’unica che, nel pontificato di Pio XII, pone problemi. Nota, ad esempio, Ettore Masina: «Il papa che con pronta generosità aveva trasformato le sue ville di Castelgandolfo in bivacco di profughi dai bombardamenti romani, pochi mesi più tardi con i decreti del suo Sant’Offizio [riferimento alla scomunica dei comunisti, del primo luglio 1949] espulse, o fece espellere, dalle chiese italiane, milioni di operai, contadini, pensionati accusandoli di essere “senza Dio” mentre era evidente che la stragrande maggioranza di loro aveva scelto di dare il proprio voto alle forze di sinistra soltanto per ottenere, per sé, per i figli ma anche per tutti i poveri, una vita più degna». Luci ed ombre di Wojtyla La questione delle virtù della prudenza e della fortezza si ripropone – in altro contesto – anche per Giovanni Paolo II. Fu, il suo, un pontificato multiforme, non riassumibile in poche parole. Si stanno moltiplicando libri e scritti che esaltano la sua figura, e lo reclamano «santo subito», come recitava un grande cartello innalzato in piazza san Pietro l’8 aprile 2005, il giorno del suo funerale. In tale clima di apoteosi le voci problematiche, che cercano di indicare luci e ombre, aspetti coraggiosi e flagranti contraddizioni delle sue scelte, sono state tacitate. Ma alcune domande restano, come quelle poste (vedi articolo seguente) da Giovanni Franzoni quando fu convocato al Vicariato di Roma per deporre davanti alla Postulazione per la causa di beatificazione di Karol Wojtyla. Una, in particolare: esercitò egli in grado «eroico» la virtù della prudenza, quando impedì che la giustizia italiana indagasse su personalità vaticane connesse con i torbidi rapporti tra il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e lo Ior (Istituto per le opere di religione, la banca che è in Vaticano, guidato da monsignor Marcinkus), o, al contrario, venne sostanzialmente meno 11 i servizi marzo 2010 confronti Santità. Se le virtù private non bastano ad un papa alla virtù della fortezza, che avrebbe dovuto dargli il coraggio di accettare che si facesse luce su uno scandalo che ancora oggi turba molte coscienze? Non vi è bisogno di ribadire la complessità dei pontificati di Pacelli e di Wojtyla, nei rispettivi contesti storici. Proprio tenendo conto di essi, sorge l’impressione che, elevandoli agli onori degli altari, si voglia sorvolare sulle loro contraddizioni, per esaltare l’istituzione papale in sé. Negli ultimi 150 anni si sono susseguiti, escluso il pontefice regnante, dieci papi: tra essi vi è un santo (Pio X, canonizzato nel 1954), due beati (Pio IX e papa Giovanni), e due possibili prossimi beati (Pacelli e Wojtyla). Una media alta di «santità» che, però, finisce per... mettere a disagio il papa non proclamato beato/santo. Una regia istituzionale guida la «politica» di certe beatificazioni: Pio X fu esaltato sottacendo le sue responsabilità nella repressione esasperata del Modernismo; Wojtyla «accoppiò» Pio IX e papa Giovanni per sottolineare la continuità del magistero ecclesiastico, anche quando sostiene tesi contrapposte, e fare così contenti «conservatori» e «progressisti». E, adesso, la proclamazione contemporanea delle «virtù eroiche» di Pacelli e di Giovanni Paolo II obbedisce alla stessa logica. A ben scavare non sarebbe così, ma i lefebvriani esulterebbero se fosse beatificato Pio XII. E invece rimarrebbero sconcertati i diciotto accademici cattolici – statunitensi, tedeschi ed australiani – che a metà febbraio hanno scritto a Benedetto XVI «implorandolo» di soprassedere a quella beatificazione fino a che non siano studiati tutti i documenti d’archivio su Pacelli. Ma, per ora, sembra estranea nel palazzo apostolico vaticano, l’idea che sia opportuno lasciare questi pontefici nel loro «chiaroscuro» e che possa essere saggio non elevare alla gloria degli altari papi Wojtyla e il caso Ior: quale «fortezza»? Giovanni Franzoni Convocato dal Vicariato di Roma per una deposizione di testimonianza nel processo di beatificazione di Giovanni Paolo II, Franzoni ha espresso motivati dubbi sulle virtù della prudenza e della fortezza del pontefice, in particolare per aver egli obiettivamente impedito l’accertamento delle responsabilità dello Ior (la banca vaticana) nel crack del Banco Ambrosiano. la cui eredità è oggetto di contrapposte valutazioni, e le cui virtù private hanno talora avuto, volenti essi o nolenti, gravi conseguenze pubbliche che ancora costituiscono scandalo per molti, cattolici e non. 12 L’apertura ufficiale, il 25 giugno 2005, del processo di beatificazione di Giovanni Paolo II innescò un coro di voci osannanti; tuttavia alcuni teologi e teologhe europei, nel dicembre successivo, in un pubblico appello espressero voci dissonanti. Nel piccolo gruppo vi era Giovanni Franzoni che, il 7 marzo 2007, fu convocato dal Vicariato di Roma per rendere la sua deposizione giurata in merito all’avviato processo. L’ex abate di san Paolo fuori le Mura, e padre conciliare, ha mantenuto il segreto sulla sua deposizione, fino a che la causa, nel novembre scorso, non è stata chiusa, per la fase che riguardava il Vicariato. Dopo di allora, diversi prelati hanno espresso alla stampa testimonianze di fatti che, a loro giudizio, dimostrano appunto la santità di Wojtyla. Nessun cenno era fatto alle voci critiche emerse in sede di Tribunale contro la beatificazione. In tale contesto Franzoni ha ritenuto di non essere più tenuto al segreto e ai primi di dicembre rendeva nota la sua testimonianza, dalla quale qui riportiamo solo il punto che riguarda il caso Ior-Banco Ambrosiano (per il testo completo, si veda il sito www.confronti.net). Sul pontificato di Giovanni Paolo II incombe un’ombra nera che, a mio parere, mostra come quel pontefice violò gravemente le virtù della prudenza e della fortezza: mi riferisco a come egli gestì la vicenda dell’Istituto per le opere di religione [Ior, la banca vaticana] in connessione con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è, questo, il luogo per esaminare in lungo e in largo la complessa vicenda; mi limito a rilevare che giudici italiani erano giunti alla conclusione che monsignor Paul Marcinkus, presidente dello Ior, aveva avuto gravissime responsabilità per il crack dell’Ambrosiano e, dunque, dalla Città del Vaticano doveva essere estradato in Italia per essere arrestato e interrogato. Del resto, questa era anche la possibilità, per lui, di dimostrare limpidamente la sua innocenza e l’infondatezza delle accuse addebitategli. La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda, non fu quella di accertare se le accuse a Marcinkus fossero fondate, ma solamente quella di respingere, in quanto a suo parere contrastanti con i Patti lateranensi, le richieste della magistratura italiana, perché queste avrebbero interferito in un àmbito e in uno Stato (Vaticano) in cui l’Italia non poteva entrare. In effetti, dopo una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, la stessa Corte di Cassazione nel luglio 1987 diede ragione alle tesi vaticane. Senza entrare in questioni giuridiche, la i servizi marzo 2010 confronti Santità. Se le virtù private non bastano ad un papa domanda da porsi è la seguente: Giovanni Paolo II favorì l’accertamento della verità sul caso Ior? La risposta, mi pare, è negativa. Infatti, il papa decise, o lasciò che decidessero, di impedire, con pretesti giuridici, l’accertamento della verità. Infatti, ammesso e non concesso che i giudici italiani non avessero titolo a chiedere l’estradizione di Marcinkus, nessun processo pubblico si è tenuto nella Città del Vaticano per accertare i fatti. Wojtyla diede allora, e offre anche oggi, motivi fondatissimi per dubitare dell’innocenza di Marcinkus e, anche, della trasparenza della gestione economica della Santa Sede. Pochi mesi dopo i fatti sopra citati (l’appello ai Patti lateranensi per evitare l’estradizione di monsignor Marcinkus), Wojtyla, il 26 novembre 1982, così affermava alla conclusione di una plenaria del Collegio cardinalizio che aveva discusso anche dello Ior: «La Santa Sede è disposta a compiere ancora tutti i passi che siano richiesti per un’intesa da entrambe le parti perché sia posta in luce l’intera verità. Anche in questo, essa vuole solo servire la causa dell’amore». Mai parole tanto impegnative sono state altrettanto contraddette: infatti, pubblicamente, nulla ha fatto Wojtyla per fare accertare la verità. È vero, ha poi riformato lo Ior e allontanato Marcinkus: ma la verità sui rapporti tra il prelato e Calvi, e il crack dell’Ambrosiano, non si è potuta sapere, da parte vaticana. E il fatto che la Santa Sede, pur dicendosi estranea al crack dell’Ambrosiano, abbia dato, a titolo di buona volontà, un sostanzioso contributo per aiutare chi da quel crack aveva subito ingenti danni economici, non risolve affatto, ma rende più aspro, il problema di fondo. Beatificare un papa che, su un tema tanto scottante, non ha fatto luce, mi sembrerebbe assai grave. L’impressione – dall’esterno – che molti hanno è che, al dunque, Wojtyla abbia sacrificato l’accertamento della verità per non compromettere l’istituzione ecclesiastica che avrebbe subito danni rilevantissimi se il mondo intero avesse scoperto trame incredibili e imbrogli economici inimmaginabili. Per non parlare dello sbigottimento di milioni di semplici fedeli cattolici nel mondo intero. Dal punto di vista religioso, a me pare che, nel caso citato, Wojtyla sia venuto meno, in modo obiettivamente gravissimo, alle virtù della prudenza e della fortezza: la prudenza che avrebbe dovuto imporgli, come capo della Chiesa cattolica romana, di salvaguardare il buon nome di tale Chiesa, e dunque di fare ogni cosa per accertare la verità; la fortezza, che avrebbe dovuto spingerlo ad opporsi alle prevedibili resistenze dell’apparato ecclesiastico della Curia romana restia a «scoprire gli altarini». Quali che siano state le motivazioni soggettive per cui il papa agì come agì (motivazioni che io non so), il risultato pubblico di tale decisione è aver obiettivamente impedito l’accertamento della verità. Come persona il papa forse non ha fatto nulla di male o, soggettivamente, ha creduto di non farlo; ma come pontefice ha compiuto un gesto gravido di conseguenze. «Occorre continuare a dialogare» Renzo Gattegna «È opinione diffusa che probabilmente papa Pio XII avrebbe potuto fare di più. Ma per una valutazione storica seria, condivisa e completa, occorre a nostro avviso attendere la possibilità di visionare i documenti contenuti negli archivi vaticani. È un lavoro che dovranno fare gli storici». Gattegna è presidente dell’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane. Una questione preliminare: molti ambienti ecclesiastici ritengono che nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica, possa interferire nella decisione del papa di beatificare o canonizzare una persona. Le riserve di larga parte del mondo ebraico – in Italia, in Israele e nel mondo – alla possibile beatificazione di Pio XII non sono dunque – in linea di principio – passibili di essere respinte dal Vaticano al mittente? Nel dicembre scorso, con un comunicato congiunto firmato assieme a me dal Rabbino Capo di Roma rav Riccardo Di Segni e dal presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, abbiamo avuto occasione di esprimere con chiarezza la nostra posizione: «Noi non possiamo in alcun modo interferire su decisioni interne della Chiesa, che riguardano le sue libere espressioni religiose. Se tuttavia la decisione dovesse implicare un giudizio definitivo e unilaterale sull’operato storico di Pio XII, ribadiamo che la nostra valutazione rimane critica». In sintesi, sappiamo bene che si tratta di un procedimento sul quale non abbiamo alcuna voce in capitolo. Ma si tratta di un atto pubblico, e beatificare vuol dire anche «mostrare ad esempio», dare un giudizio positivo sull’operato di qualcuno. Il comportamento di Pio XII nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista, a giudizio di molti storici, ha lasciato diverse ombre, per questo sono in molti ad esprimere le proprie riserve. È per il «silenzio» di Pio XII sulla Shoah che molti ebrei, pur evitando ovviamente di entrare nelle questioni canoniche legate ai processi di beatificazione, ritengono del tutto legittimo esprimere opinioni assai critiche sulla possibile «promozione» di Pio XII? Sì. È opinione diffusa che probabilmente papa Pio XII avrebbe potuto fare di più. Ma per una valutazione storica seria, condivisa e completa, occorre a nostro avviso attendere la possibilità di visionare i documenti contenuti negli archivi vaticani. È un lavoro che dovranno fare gli storici. Le gerarchie vaticane – e il 17 gennaio lo ha ribadito Benedetto XVI nella grande sinagoga di Roma – insistono nel ribadire due tesi, strettamente legate: 1) molti cattolici – preti, laici, suore – durante la Seconda guerra mondiale aiutarono molti ebrei, spesso salvandoli da sicura morte, e questo fecero con grande generosità, e anche a rischio della vita; 2) Pacelli scelse la strada di un aiuto discreto proprio perché convinto che, in quelle dram- 13 i servizi marzo 2010 confronti Santità. Se le virtù private non bastano ad un papa matiche circostanze, quello fosse il modo più opportuno per aiutare gli ebrei e non offrire pretesti di ulteriori ritorsioni a Hitler. Nella Polonia occupata, per fare un esempio, c’erano oltre due milioni di ebrei: sono stati quasi tutti sterminati, in una carneficina senza precedenti e con la connivenza o il silenzio di parte della popolazione polacca, all’epoca fortemente e violentemente antisemita. In Italia, prima della guerra, vivevano circa 50mila ebrei, di mai più «restituiti» alla comunità ebraica? Certo è che la visita alla sinagoga si è svolta in un’atmosfera di amicizia, di franchezza e di sincerità. Abbiamo la certezza che anche gli argomenti più delicati e spinosi potranno essere affrontati e chiariti. Se su qualche tema non si giungerà ad opinioni condivise, il confronto sarà chiaro, sincero e rispettoso delle opinioni altrui. Dialogo vuol dire colloquio, scambio, confronto. e ne furono deportati circa ottomila; certo, in Italia le leggi antiebraiche furono recepite negativamente da buona parte della popolazione. E molti ebrei si salvarono grazie al comportamento, all’aiuto e all’ospitalità di parte del clero cattolico. Trovarono rifugio e protezione presso i singoli cittadini e in tanti conventi, e ciò è stato sempre riconosciuto. Alcuni preti e suore, che per salvare un ebreo hanno messo a rischio la propria vita, sono stati riconosciuti come «Giusti fra le Nazioni», un riconoscimento dato da Yad Va-shem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme. L’aspetto meno chiaro della vicenda è l’atteggiamento complessivo del papa. Perchè non portò avanti i progetti del suo predecessore di una pronuncia pubblica contro il nazismo? Perché non levò la sua voce e non espresse pubblicamente il suo sdegno? La beatificazione di Pio XII è problema dirimente tale che, se essa fosse attuata, voi interrompereste ogni dialogo con la Santa Sede, oppure tale evento, pure da voi indesiderato, almeno fino a che non siano esaminati tutti gli archivi, sarebbe infine tollerato? Ebraismo e cristianesimo sono fedi unite inscindibilmente e accomunate dalla comune visione monoteista: esse hanno pari dignità e senza dubbio il cammino verso il futuro avverrà, noi auspichiamo, in comune e nella concordia. Affinché ciò avvenga, occorre chiarezza. Non si possono prevedere ora le future decisioni della Santa Sede su Pio XII, e quindi neppure le nostre eventuali possibili risposte. Il 17 gennaio abbiamo avuto la conferma che su qualche punto, anche importante, non abbiamo la stessa opinione. Ma che sono molti i temi che ci uniscono, e sui quali possiamo e vogliamo continuare a dialogare e a lavorare insieme. Se vogliamo, guardiamo al passato: prendiamo atto di quanto la situazione è cambiata negli ultimi 60 anni e di quanti progressi ha fatto il dialogo tra gli ebrei e la Chiesa cattolica. E cerchiamo di lavorare insieme per il futuro. In concreto, quali sono le rassicurazioni che papa Ratzinger vi ha dato durante la sua visita alla sinagoga: quando saranno aperti tutti gli archivi vaticani riguardanti il cardinale Pacelli e papa Pio XII? E, a proposito delle ricerche dei bambini e ragazzi ebrei salvati da istituzioni cattoliche, durante la guerra, ma anche convertiti al cristianesimo, e quin- (intervista a cura di Gian Mario Gillio) 14 i servizi marzo 2010 confronti Santità. Se le virtù private non bastano ad un papa Il papa in visita alla sinagoga. Cui prodest? Nell’agosto 2005 Joseph Ratzinger, pontefice da soli quattro mesi, compì una storica visita alla sinagoga di Colonia. Amos Luzzatto, che all’epoca presiedeva l’Unione delle comunità ebraiche italiane, stimò quell’iniziativa un evento ricco di significato, destinato ad aprire una prospettiva «radicalmente diversa per gli ebrei d’Europa». Nelle parole e nei gesti di un papa tedesco che si diceva preoccupato per il risorgente antisemitismo e che stringeva le mani ai sopravvissuti dei lager, Luzzatto vide un segnale positivo per le comunità ebraiche del Vecchio continente. Significava che gli ebrei potevano impegnarsi a fianco dei cattolici nelle battaglie di civiltà, contro ogni discriminazione razziale e religiosa e ogni negazione della dignità umana. Ben diverso è stato l’umore con il quale lo stesso Luzzatto ha salutato l’incontro che Benedetto XVI ha avuto con gli ebrei romani il 17 gennaio scorso: «Non vado in sinagoga per un imbarazzante vertice diplomatico che nulla ha a che fare con il dialogo interreligioso – ha affermato –, su che cosa potrei confrontarmi con Ratzinger? Sulla riesumazione della preghiera per la conversione degli ebrei, sul ritorno nella Chiesa dei lefebvriani che negano la Shoah, sulla beatificazione di Pio XII che scomunicò i comunisti ma ignorò le persecuzioni naziste?». E ha aggiunto: «Incontro ogni giorno cattolici amareggiati quanto me per i passi indietro della Chiesa rispetto al Concilio. Wojtyla in sinagoga nel 1986 recitò un salmo e fu un gesto storico. Questa visita è una copia dannosa, una ripetizione inservibile». Alle manifestazioni di dissenso, non numerose fra gli ebrei italiani ma tutte ampiamente motivate, hanno fatto séguito alcune defezioni clamorose. Oltre a quelle di Luzzatto e di Piero Terracina, un romano superstite della «retata» del 16 ottobre 1943, l’assenza più notevole è stata quella di Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea dei rabbini italiani: una personalità che in qualità di rabbino capo di Milano ebbe a svolgere una funzione rilevante nel dialogo ebraico-cristiano quando alla guida della diocesi ambrosiana era il cardinale Martini. In un’intervista al giornale tedesco Jıdische Allgemeine Zeitung rav Laras ha ricordato, stigmatizzandola, la causa di beatificazione di Pio XII, il papa del quale la Curia vanta ora le «eroiche virtù», e ha tra l’altro affermato di ritenere che nel breve periodo l’incontro fra Ratzinger e gli ebrei romani «non avrà conseguenze positive sul dialogo ebraico-cattolico, e solo la Chiesa ne trarrà dei benefici, soprattutto con uno sguardo ai propri ambienti più retrivi. Potrà servirsi dell’evento per esibire la propria “sincera amicizia” nei nostri confronti». Bruno Segre Amos Luzzatto, Giuseppe Laras, Piero Terracina: pur se non maggioritarie, all’interno del mondo ebraico non mancano certo le voci critiche sull’incontro che Benedetto XVI ha avuto con gli ebrei romani, il 17 gennaio scorso, nel Tempio maggiore (la grande sinagoga di Roma). Lo storico Bruno Segre è direttore di «Keshet», rivista di vita e cultura ebraica. 15 Quali spinte, allora, hanno mai indotto la comunità ebraica di Roma a compiere la scelta unilaterale di confermare l’invito a Ratzinger, pur dopo la decisione della Sede apostolica di procedere alla beatificazione di papa Pacelli? Probabilmente Amos Luzzatto ci ha offerto la chiave di lettura corretta allorché ha bollato la visita come «un imbarazzante vertice diplomatico che nulla ha a che fare con il dialogo interreligioso». In realtà la visita papale si è tradotta in una grandiosa passerella mediatica, proprio come desideravano i registi e i vari figuranti che vi hanno preso parte: un’iniziativa di facciata seguita a raggio mondiale da seicento giornalisti, nella quale si sono sciorinati molti discorsi e la retorica ha fatto ampio sfoggio di sé. Ma si badi, non tutti i discorsi intendevano essere «aria fritta». Benedetto XVI, mediante sapienti citazioni bibliche, ha esposto la sua agenda per il «dialogo con i fratelli maggiori» fissandola attorno ai nuclei tematici che più gli sono congeniali: difesa della vita, sviluppo della famiglia, lotta al relativismo. Sull’altro versante si è presentato – quale portavoce della classe dirigente politica israeliana, oggi più isolata che mai – il vice primo ministro d’Israele Silvan Shalom, scortato dagli ambasciatori Mordechai Levy e Gideon Meir. Shalom, venuto a Roma per preparare gli incontri israeliani di Silvio Berlusconi, ha affermato che quella di Benedetto XVI era «una visita di importanza storica». E con ciò ha lasciato intendere che il peso dell’evento era tale da investire globalmente l’intero mondo ebraico, al centro del quale sta Israele che è impegnato da anni a portare avanti con la Santa Sede un negoziato privo per ora di sbocchi. A giocare di sponda con Shalom ha provveduto Riccardo Pacifici, presidente degli ebrei di Roma, che ha ricordato al papa i principali temi sui quali Israele intende richiamare l’attenzione della diplomazia vaticana: la minaccia dell’Iran, il terrorismo, il fondamentalismo islamico, le sorti del caporale israeliano Gilad Shalit, prigioniero di Hamas a Gaza da oltre milletrecento giorni. IRAN La guerra che l’Occidente ha già deciso? Franco Cardini Senza dubbio – sostiene lo storico Cardini – il governo iraniano abusa dei suoi poteri e non rispetta alcuni diritti umani. Questo va denunciato con forza, ma occorre anche fare chiarezza su alcuni luoghi comuni e alcune semplificazioni di comodo veicolate dai media occidentali per conto di Usa e alleati. Q ualcosa di molto grave si sta profilando in Occidente: qualcosa che forse minaccia il mondo. È uno scenario che purtroppo abbiamo già visto. Tra 2002 e 2003 i governi statunitense e britannico inscenarono una pietosa e vergognosa commedia cercando di far credere al mondo che l’Iraq di Saddam Hussein fosse in possesso di pericolose armi segrete di distruzione di massa. Era incredibile: e infatti chi aveva capacità di comprendere e di assumere informazioni precise si rese subito conto che si trattava di una colossale e infame menzogna. Ma i mass media insistevano, i politici – anche italiani – erano già decisi a seguire il sentiero tracciato dal sinistro signor Bush: il risultato fu la guerra e un’occupazione che perdura e dalla quale gli stessi italiani non sanno come fare a uscire. I media ci hanno poi informati che le armi di distruzione di massa non c’erano: ma nessun governante, nessun politico di quelli che a suo tempo avevano stragiurato sulla loro esistenza, nessun intellettuale o pubblicista di quelli che immaginavano scenari festosi (tipo i liberatori che arrivano a Baghdad in mezzo ai fiori e alle bandiere del popolo iracheno liberato...), nessun mezzobusto televisivo o opinion maker ha fatto ammenda dell’errore in cui aveva tentato d’indurci, o meglio della menzogna proferita. Anzi, a dimostrazione della longevità dei falsi miti, l’ex premier britannico Tony Blair, nel corso della sua pietosa autocritica che sigilla il fallimento della sua carriera di politico (dopo i danni che ha fatto, e che purtroppo paghiamo e pagheremo noi), è tornato sulle armi di distruzione saddamiste come se fossero davvero esistite, «dimenticando» la figuraccia sua e di altri. Sette anni dopo, siamo alle solite: analogo scenario, analoghe sfrontate bugie. La vittima designata, ora, è l’Iran. Auguriamoci che le dissennate dichiarazioni dei politici e dei mass media non preludano a qualcosa di simile al pasticcio iracheno: stavolta sarebbe molto più grave. La Repubblica islamica dell’Iran è una società molto complessa (vedi «Iran. Democrazia velata?» su Confronti 7-8/2009; L’Iran e il tempo. Una società com- 16 plessa, a cura di A. Cancian, Roma, Jouvence 2008; A. Negri, Il turbante e la corona. Iran trent’anni dopo, Milano, Tropea 2010), che non è certo retta da un regime totalitario, bensì da un sistema assembleare per certi versi paragonabile a una repubblica protosovietica controllata da un «senato» di teologi-giuristi. Nata da uno strappo violento che ha sottratto trent’anni fa agli Stati Uniti il suo più sicuro e fedele alleato-subordinato e che ha fatto tabula rasa d’importanti interessi petroliferi occidentali, è strutturalmente avversaria della superpotenza americana: dal momento che essa individua il principale supporto della politica statunitense nel Vicino Oriente in Israele, essa avversa radicalmente anche quest’ultimo. Non c’è dubbio che il governo iraniano attuale abusi dei suoi poteri, a cominciare da quello che gli consente di comminare pene capitali, e che non rispetti alcuni diritti della persona umana [vedi notizia a pagina 35, ndr]. Non è l’unico a far certe cose (tali diritti non sono rispettati nemmeno nell’illegale campo di detenzione di Guantanamo, tenuto aperto dalla «Prima democrazia» del mondo): ma le fa, e ciò dev’essere denunziato con deciso rigore. Ciò non toglie che sull’Iran il mondo occidentale in genere, e italiano in particolare, sia malissimo informato. Esaminiamo sinteticamente i quattro fondamentali capi d’accusa che vengono ormai rivolti abitualmente al governo di Ahmadinejad: si sarebbe reso responsabile di gravi brogli elettorali durante le ultime elezioni e di una pesante repressione delle proteste da parte dell’opposizione; minaccerebbe e programmerebbe un attacco contro Israele, con l’intenzione di distruggerlo; starebbe fabbricandosi un potenziale nucleare militare; sarebbe candidato a cedere, in quanto isolato internazionalmente. Si tratta sostanzialmente di quattro calunnie, per quanto ciascuna di esse riposi su un qualche elemento di verità. Vediamole in ordine. Prima. In una recente intervista (consultabile nella versione telematica di Panorama del 30/12/2009) una delle maggiori esperte di cose iraniane, Farian Sabahi, non ha escluso che vi siano stati brogli elettorali, ma ha sottolineato che essi non possono aver falsato sostanzialmente il responso delle urne, che è stato comunque con certezza largamente favorevole ad Ahmadinejad in quanto egli, a differenza dei suoi avversari, ha saputo guadagnarsi la fiducia della maggioranza degli iraniani non grazie alle sue tracotanti minacce contro Israele, bensì con una politica sociale che ha costantemente messo a disposizione i servizi marzo 2010 confronti Iran. La guerra che l’Occidente ha già deciso? dei ceti più deboli una massa ingente di pubbliche risorse, ha consentito a 22 milioni d’iraniani di accedere a efficaci cure mediche gratuite, ha aumentato molti stipendi (per esempio del 30% quello degli insegnanti), ha aumentato del 50% l’entità delle pensioni. Al contrario i suoi avversari, pur abilissimi a mobilitarsi su Twitter e forti nei ceti medi, specie della capitale, hanno fatto ben poca breccia nei centri minori e praticamente nessuna nelle campagne. I nostri mass media insistono sui deliri oratori hitleriani di Ahmadinejad (che peraltro riassumono sistematicamente, senza darci modo di capire che cosa effettivamente egli dica, e a chi, e in quali contesti), ma non ci informano per nulla della sua politica sociale, impedendoci di farci un’idea di che cosa realmente sia l’Iran di oggi. Seconda. Quanto all’atteggiamento di Ahmadinejad contro Israele, è indubbiamente una maldestra e odiosa misura propagandistica da parte sua la contestazione della Shoah; ma, quanto alle minacce, chi non si limita al materiale scaricato da Twitter si è reso facilmente conto che il presidente iraniano non ha mai affermato che Israele vada distrutta (cioè che gli israeliani siano eliminati o cacciati), bensì che la pretesa di uno stato ebraico che si presenti come etnocratico e confessionale, ma che nello stesso tempo pretenda di essere un modello di democrazia all’occidentale, è evidentemente insostenibile in quanto costituisce una contraddizione in termini. Oltretutto, nell’ormai radicato immaginario occidentale Ahmadinejad starebbe minacciando di distruzione nucleare Israele: ora, si domanda come può il leader di uno stato che non è ancora arrivato nemmeno al nucleare civile minacciare di distruzione nucleare un paese che invece dispone sul serio di un nucleare militare. Tutto ciò è assurdo. Terza, la questione nucleare. Qui siamo al ridicolo e all’infamia al tempo stesso. L’11 febbraio scorso, trentennale della rivoluzione khomeinista, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede Alì Akbar Naseri indiceva una conferenza stampa. Visto il momento «caldissimo» nell’opinione pubblica, si potrebbe supporre che essa sia stata presa d’assalto dai media. Macché. Né un Tg importante, né una testata di rilievo: è così che da noi si fa informazione. Tuttavia, le Il presidente iraniano non ha mai affermato che Israele vada distrutta (cioè che gli israeliani siano eliminati o cacciati), bensì che la pretesa di uno stato ebraico che si presenti come etnocratico e confessionale, ma che nello stesso tempo pretenda di essere un modello di democrazia all’occidentale, è evidentemente insostenibile in quanto costituisce una contraddizione in termini. 17 pacate dichiarazioni del diplomatico hanno richiamato un’ennesima volta a una verità obiettiva che ormai conosciamo. Il 4 febbraio scorso, il governo iraniano ha formulato alla authority internazionale nucleare, l’Aiea, una proposta molto flessibile e ragionevole: accettazione della prassi elaborata dal gruppo dei 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia e Germania) nell’ottobre scorso, sulla base della quale l’Iran consegnerà delle partite di uranio arricchito al 3,5% alla Russia, che lo porterà al 20% e lo passerà alla Francia incaricato di restituirlo all’Iran. Date però le circostanze e il macchinoso sistema elaborato, il governo dell’Iran – temendo evidentemente che l’uranio gli venga sottratto – chiede semplicemente che lo scambio avvenga in territorio iraniano e che ad ogni cessione di partita di uranio al 3,5% l’Iran venga risarcito con la consegna di una pari quantità arricchita al 20%. Non si capisce perché il governo statunitense abbia rifiutato come «non interessante» una proposta del genere e si ostini a pretendere dall’Iran la pura e semplice cessione del minerale, senza contropartite né garanzie. Ciò corrisponde solo a un vecchio e abusato trucco diplomatico: formulare pretese assurde e irricevibili per poi accusare l’avversario, reo di non averle accettate. Bisogna al riguardo tener presente due cose: primo, per avviare la costruzione del nucleare militare è necessario un arricchimento dell’uranio all’80%, mentre l’Iran non è ancora in grado nemmeno di arricchirlo al 20%, limite indispensabile per gli usi civili. E di sviluppare un nucleare civile l’Iran ha diritto, in quanto paese firmatario del trattato di non-proliferazione (gli unici tre stati che non hanno firmato sono Israele, India, Pakistan). Il punto è che sembra proprio che i soggetti occidentali più importanti (quindi il governo statunitense e la Nato, che da esso è largamente controllata) siano ben decisi a procedere su una strada pregiudizialmente tracciata. In un’intervista concessa a Luigi Offeddu del Corriere della sera, Adres Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato dall’agosto 2009, ha proferito affermazioni allucinanti nella sostanza non meno che nel tono: «Al momento dovuto, noi prenderemo le decisioni necessarie per difendere i paesi della Nato», ha dichiarato (L. Offeddu, «L’iran si fermi sul nucleare o i servizi marzo 2010 confronti Iran. La guerra che l’Occidente ha già deciso? la Nato dovrà difendersi», Corriere della sera, 20/2/2010). Ha parlato di un sistema missilistico difensivo, risultato di una triplice collaborazione tra Usa, Nato e Russia, fingendo di non sapere che in realtà la Russia è preoccupata delle installazioni missilistiche Usa-Nato in Romania e in Polonia, non è soddisfatta dei chiarimenti fornitile (secondo i quali esse sarebbero dirette contro la minaccia iraniana) e la sua richiesta di «collaborazione» a tale sistema è, in realtà, una richiesta di controllo. Rassmunsen, ignorando del tutto le proposte iraniane, continua a proporre un diktat: l’Iran consegni tutto il suo uranio che verrà arricchito all’estero, senza alcuna possibilità di controllarne il destino, senza alcun controimpegno e senza alcuna contropartita. C’è da chiedersi chi mai potrebbe accettare imposizioni del genere. Quarto. Si continua acriticamente a ripetere, da noi, che ormai l’Onu sarebbe pronta a inasprire l’embargo all’Iran e che lo stesso Consiglio di sicurezza sarebbe d’accordo: si tratterebbe solo di convincere la Cina a non usare il suo diritto di veto e a studiare sanzioni che colpiscano il governo iraniano, ma non la popolazione. Quest’ultimo proposito è manifestamente ipocrita: le sanzioni colpiscono sempre le popolazioni, e in genere rinsaldano la loro solidarietà con i propri governi (a parte l’ipocrisia del governo italiano, che sostiene di preoccuparsi per ragioni umanitarie mentre in realtà è in ansia per il grosso business iraniano dell’Eni, che potrebbe essere compromesso dalle sanzioni con un forte danno agli interessi italiani). Ad ogni modo, le sanzioni contro l’Iran non funzioneranno, perché il governo iraniano è a vari livelli in contatto positivo con molti paesi e ha stipulato o sta stipulando accordi non solo con Cina e Russia, ma anche con la Siria, col Venezuela e con la Turchia. È del 19 febbraio, stando a due «lanci» Agi, la dichiarazione del viceministro degli Esteri Serghiey Ryabkov, secondo la quale non solo la Russia è contraria a un inasprimento delle sanzioni contro l’Iran e indisponibile ad appoggiarle, ma si conferma intenzionata a fornire all’Iran i sistemi antiaerei S-300, come si era impegnata a fare. Insomma, il regime iraniano può non piacere: ma non ha la possibilità e forse nemmeno l’intenzione di costruire armi nucleari e non si trova affatto in una posizione di assoluto isolamento diplomatico. Ma allora perché gli Stati Uniti sembrano preoccuparsi dell’Iran di Ahmedinejad al punto di arrivare alle esplicite minacce? L’atomica, i diritti umani e le minacce a Israele non c’entrano. C’entra invece il modesto isolotto di Kish sul Golfo Persico, che gli iraniani hanno scelto a sede di una futura rete di scambi petroliferi mirante alla costituzione di un «cartello» che si fonderebbe sull’unità monetaria non più del dollaro, bensì dell’euro. Questa è la bomba nu- L’aggressione all’Iran probabilmente si farà. È molto più facile di quella all’Iraq del 2003: il sunnita e «laico-progressista» Saddam poteva contare su molti amici negli Usa, in Europa e nel mondo musulmano, l’Iran fondamentalista e sciita non ne dispone. Poi, tra qualche anno, qualcuno in gramaglie verrà a dirci che no, ci eravamo sbagliati, la bomba nucleare l’Iran proprio non ce l’aveva e nemmeno i terribili missili puntati contro l’Occidente. 18 cleare iraniana che davvero gli americani temono. E allora, immaginiamoci un possibile e purtroppo piuttosto probabile futuro. La guerra, lo sanno tutti, è un gran ricco business: vi sono cointeressate potentissime lobbies industriali e finanziarie internazionali; è rimasta l’unica attività produttiva statunitense che davvero «tiri»; le commesse vanno rinnovate e gli arsenali debbono essere vuotati se si vogliono riempire di nuovo; poi ci sono i generali (non solo i generaloni del Pentagono, quelli che ostentano nomi da conquistatore romano, tipo Petreus; ma anche i generalucci della Nato e i generalicchi italiani, per tacer degli strateghi-geopolitici da Tv...); inoltre c’è il sacrosanto spiegamento dei fondamentalisti cristiani, ebrei e musulmano-sunniti che non vedono l’ora di saltar addosso al demonio sciita; infine ci sono i poveri cristi che aspettano di venir ingaggiati come in Afghanistan e in Iraq, la folla dei portoricani in caccia della magica green card che fa di loro dei quasi cittadini statunitensi, i sottoproletari che sognano di ascendere al rango di contractors. Tutte insieme, queste forze sono – non illudiamoci – potentissime. Se non ci salva il duplice «veto» russo-cinese al Consiglio di sicurezza dell’Onu (ma anche quello non sarà sufficiente: basterà la Nato, come in Afghanistan nel 2001: poi, l’Onu sarà costretta ad avallare...), oppure, meglio ancora, un deciso «no» degli israeliani che – a differenza del loro governo – non hanno perduto il ben dell’intelletto e la voce dei quali potrebbe contare moltissimo dinanzi all’opinione pubblica mondiale, l’aggressione all’Iran probabilmente si farà. È molto più facile di quella all’Iraq del 2003: il sunnita e «laico-progressista» Saddam poteva contare su molti amici negli Usa, in Europa e nel mondo musulmano, l’Iran fondamentalista e sciita non ne dispone. Poi, tra qualche anno, qualcuno in gramaglie verrà a dirci che no, ci eravamo sbagliati, la bomba nucleare l’Iran proprio non ce l’aveva; e nemmeno i terribili missili puntati contro l’Occidente; qualcun altro sgamerà, altri ancora si rifugeranno nell’amnesia. Frattanto, nella migliore delle ipotesi, ci saremo infilati in un pantano sanguinoso e costoso, peggiore di quelli afghano e iracheno messi insieme: un pantano nel quale sguazzeranno allegramente solo le anatre e le rane tipo gli imprenditori, i militarastri e i sottoproletari del «finché c’è guerra c’è speranza», che ciascuno al suo livello ci guadagneranno («produzione e consumo» in alto, patacche e promozioni a mezza tacca, «posti di lavoro» in basso), o tipo La Russa, che già ora s’inorgoglisce dei suoi picchetti d’onore e delle sue finte uniformi militari. Se non altro, tutto ciò darà una nota comica alla vicenda. Ma non illudiamoci: quella sarà soltanto la migliore fra le ipotesi. NIGER Tensioni e speranze nella regione dei tuareg Donato Cianchini Anche in un paese povero, dove la popolazione è senza cibo, una scuola può contribuire alla crescita economica e culturale dell’intera comunità. Il progetto di sostegno scolastico nel villaggio di Dabaga, i cui abitanti sono di etnia tuareg, promosso dall’associazione «Itinerari africani - percorsi di cultura» di Cuneo. R Nota Proprio mentre stavamo mandando in stampa questo numero, abbiamo appreso del colpo di Stato in Niger: il presidente Tandja è stato deposto da una giunta militare (Consiglio supremo per la restaurazione della democrazia). La grave situazione di miseria in cui versa la popolazione e i problemi dei tuareg di cui tratta questo articolo restano comunque drammaticamente attuali. isale ormai a quindici anni fa – era il 24 aprile 1995 – l’ultimo accordo di pace siglato tra il governo di Niamey e il movimento tuareg del Niger che sanciva la fine di un periodo tumultuoso di lotta armata. Gli accordi, che prevedevano la costruzione di scuole e dispensari medici, il miglioramento delle infrastrutture nella regione dell’Air e delle condizioni di vita del popolo tuareg, non sono quasi mai stati rispettati dal governo. La storia sembra ripetersi tristemente anche all’inizio di questo nuovo anno. Tutte le organizzazioni internazionali presenti sul territorio, le Ong e le associazioni di volontariato lamentano l’assenza dello Stato e l’abbandono della popolazione che vive in condizioni di semipovertà. Non è un caso se il Niger è uno degli ultimi paesi dell’Indice di sviluppo umano del Programma dell’Onu (Undp), che classifica la qualità della vita in base al reddito procapite, all’istruzione e all’aspettativa di vita. A cavallo tra il Sahel e il Sahara, il Niger è il terzo produttore mondiale di uranio, con 3500 tonnellate estratte nelle miniere di Arlit, ma questa fonte di ricchezza non viene in alcun modo distribuita fra la popolazione. Sotto accusa il gruppo francese Areva, che agisce in regime di monopolio da più di 40 anni sui giacimenti, e la società cinese China Nuclear, new entry delle compagnie del Sol Levante con interessi commerciali in Africa occidentale. Entrambe sfrutterebbero questa ricchezza senza destinare alcun beneficio alla popolazione locale. Alla Areva, in particolare, viene contestato di aver inquinato gran parte dei territori utilizzati dai nomadi per il pascolo del bestiame. A nulla sono valse le proteste della società civile nigerina, appoggiata da alcune organizzazioni francesi, contro le attività di estrazione che stanno contaminando le già scarse risorse idriche con ripercussioni sulle persone e sull’ambiente. Per questi motivi, agli inizi di febbraio 2007 i tuareg – o meglio, un gruppo che fa capo al Mnj, Movimento dei nigerini per la giustizia, a cui si è aggiunto l’Fpn, Fronte patriottico del Niger – hanno ripreso la lotta armata con l’attacco ad una caserma nel 19 nord del paese. In più di 24 mesi si sono succeduti aggressioni mirate e combattimenti che hanno riportato l’insicurezza e la paura nella regione, da Agadez a Iferouane. I due gruppi ribelli sostengono di poter contare su qualche migliaio di combattenti grazie all’arrivo di militari che giornalmente disertano dall’esercito regolare per unirsi alla causa. È quanto è scritto sul blog del movimento. Sfruttando le capacità comunicative della rete, il Mnj ha raggiunto il suo scopo: ottenere una visibilità planetaria, far conoscere i motivi delle sue azioni e rivendicare l’opposizione al governo guidato da Mamadou Tandja [ora deposto con il colpo di Stato del 18 febbraio, ndr]. Apostrofato dal premier e dai partiti al potere come un gruppo di banditi, assassini e trafficanti di droga, il Mnj si sta dimostrando molto più che un semplice gruppo di sbandati armati. Hanno formato una struttura politica diretta da Agaly Ag Alambo, uomo di spicco nella comunità tuareg e amico fraterno di quel Mano Dayak che è stato figura simbolo di questo popolo durante gli anni della grande crisi iniziata nel 1980 con la lotta armata e terminata con la firma della pace nel 1995. Come allora, il movimento si fa carico del malessere del popolo tuareg rivendicando maggiori benefici sociali ed economici: più scuole, un congruo numero di dispensari e lavoro con salari dignitosi. Chiedono altresì una nuova ripartizione dei proventi derivanti dal settore minerario, visto che il prezzo dell’uranio è più che raddoppiato. Questa ulteriore impennata dei prezzi ha contribuito a dare il via ad una nuova spartizione coloniale in questa zona del Niger. Le domande di prospezione dal 2007 al 2009 si sono accumulate presso il Ministero delle Miniere di Niamey e sono stati concessi ben 139 permessi a società europee, asiatiche, nordamericane ed australiane per cercare l’uranio fra le sabbie del Sahara. Naturalmente la fetta più remunerativa è toccata alla Francia, partner di vecchia data, con il sito più ricco a Imouraren (200 km a nord di Agadez), che dal 2012 produrrà 5mila tonnellate di uranio l’anno per 35 anni, diventando il secondo giacimento al mondo, con gestione mista della francese Areva e dello stato del Niger. Naturalmente, di questa gigantesca torta, neanche un minimo assaggio sarà offerto alla popolazione nigerina, men che meno ai tuareg. Si tratta di uomini, donne e bambini che vivono, anzi sopravvivono, con il tristemente famoso dollaro al giorno! i servizi marzo 2010 confronti Niger. Tensioni e speranze nella regione dei tuareg «La popolazione di Iferouane e delle altre cittadine dell’Air sta abbandonando le proprie abitazioni perché è difficile reperire il cibo e per la paura di essere fra le “vittime innocenti” degli scontri». È quanto è stato denunciato l’estate scorsa dal quotidiano locale Le Republicain che, nel sottotitolo, scrive: «Più dell’80% degli abitanti sono già fuggiti da Iférouane per rifugiarsi più a sud a causa dell’insicurezza e della mancanza di cibo...». Fonti attendibili lo confermano: attualmente Iférouane è una cittadina tristemente deserta. A complicare le cose c’è il problema delle mine antiuomo e anticarro collocate nel nord del paese dai militari nigerini che stanno causando diverse vittime fra gli stessi soldati e qualche famiglia di pastori nomadi con il bestiame. Fonti giornalistiche locali confermano la presenza di questi micidiali ordigni anche nei dintorni della città di Agadez. Ad Agadez la presenza dei militari è palpabile, così come cresce la tensione e la paura fra la gente per alcuni arresti indiscriminati. Di fatto lo stato di messa in guardia è visto come un’imposizione restrittiva che viola i principi dei diritti dell’uomo, limitando la libertà d’opinione e di espressione, che normalmente si manifestano in situazioni del genere. Intanto la società civile del Niger si sta mobilitando affinché si giunga in tempi brevi ad una soluzione pacifica e si spera nella mediazione di paesi amici come la Libia di Gheddafi e il Burkina Faso di Blaise Compaoré, ma anche del Sudan, dove il partito al potere di Omar elBachir è alleato del premier nigerino Tandja. Nelle ultime settimane anche i leader religiosi si sono uniti alle voci dei notabili per chiedere con forza il ritorno definitivo della pace. Preoccupante, e al tempo stesso irresponsabile, l’ostinazione del presidente nel candidarsi per la terza volta consecutiva alla guida del paese. Nonostante il parere contrario della Corte costituzionale e dell’Unione africana, ha sospeso la Costituzione e vinto un referendum farsa che gli ha dato il via libera per un terzo mandato [il motivo principale che ha scatenato il colpo di Stato, ndr] Intanto l’intero paese è quasi al collasso. Il turismo, che garantiva una discreta risorsa economica, è praticamente fermo dal 2007 a causa della guerriglia. Al posto dei turisti sono subentrati i migranti dalla pelle scura per tentare la traversata del deserto del Ténéré e raggiungere la Libia e poi l’Europa. Sono loro, i disperati provenienti da Togo, Nigeria, Benin, Senegal e così via, ad alimentare la fragile economia di questa parte del paese. Mentre scrivo, timidi segnali di un possibile accordo fra le parti in causa potrebbero far sperare in una pace duratura. Lo speriamo tutti. A cavallo tra il Sahel e il Sahara, il Niger è il terzo produttore mondiale di uranio, con 3500 tonnellate estratte nelle miniere di Arlit, ma le società straniere sfruttano questa ricchezza senza destinare alcun beneficio alla popolazione locale e a volte inquinando gran parte dei territori utilizzati dai nomadi per il pascolo del bestiame. 20 Progetto scuola Dabaga Come già detto, il Niger è uno dei paesi più poveri al mondo e il tasso di alfabetizzazione non supera il 25% nei ragazzi e l’11% nelle ragazze. Le istituzioni locali non riescono ad assicurare l’istruzione di base e, laddove vi sono scuole, non provvedono al mantenimento degli alunni e degli stessi insegnanti. Quando si hanno difficoltà a reperire anche solo le più elementari forme di sussistenza, capiamo benissimo che alcuni bisogni essenziali, come la salute e la scuola, passino in secondo piano. L’istruzione ad esempio è un dovere che ogni Stato dovrebbe riuscire a garantire ai propri ragazzi. A questo punto l’educazione diviene un bisogno reale al pari di cibo e acqua, e può costituire nel tempo un’opportunità di sviluppo e di emancipazione. L’associazione di promozione sociale «Itinerari africani - percorsi di cultura» di Cuneo è convinta che una scuola, quando funziona, contribuisce alla crescita economica e culturale dell’intera comunità. Con questa premessa, nel febbraio 2005, ha deciso di avviare un progetto di sostegno scolastico nel villaggio di Dabaga, situato a 45 km a nord dalla città di Agadez. I 5.000 abitanti sono tutti tuareg che, a causa del perdurare della siccità, sono stati costretti ad abbandonare il nomadismo per convertirsi all’agricoltura e al piccolo commercio. Grazie alla fattiva collaborazione degli abitanti del villaggio di Dabaga e del direttore della scuola, il progetto si è arricchito di alcuni punti essenziali che hanno reso la vita più dignitosa ai piccoli allievi. Ad esempio, con la realizzazione di un primo dormitorio (ne prevediamo almeno due) arredato con materassi, stuoie e coperte, abbiamo dato la possibilità a 30 bambini di frequentare regolarmente le lezioni dal lunedì al venerdì, evitando agli stessi di dover percorrere giornalmente svariati chilometri a piedi per far ritorno ai propri villaggi. Grazie a donazioni private, abbiamo acquistato banchi e sedie, costruito i bagni e un locale per la materna, e abbiamo riparato il pozzo dell’orto scolastico, che consente di poter integrare l’alimentazione a base di sorgo e riso con verdure e legumi. Il pozzo è un elemento di vitale importanza in questa regione semidesertica a ridosso del deserto del Ténéré, dove l’acqua è un bene prezioso al pari della vita stessa. L’associazione è impegnata a fornire annualmente tutto il materiale didattico e a garantire il vitto agli alunni per l’intero periodo. Il 5 ottobre scorso è iniziato il nuovo anno scolastico 2009/2010 e il direttore della scuola, Liman Zarke, ci ha informati che gli alunni iscritti sono circa 214, suddivisi in 6 classi. Tutte le varie fasi del progetto sono visibili all’indirizzo internet www.itinerariafricani.net/progettoscuoladabaga.htm. POLITICA Una Repubblica fondata sugli affari? Nicola Tranfaglia Ogni tanto – si pensi al caso dell’incendio all’acciaieria ThyssenKrupp di Torino – i media italiani rompono il loro abituale silenzio sul tema dei morti sul lavoro (oltre 1000 ogni anno) o su questioni quali la deriva razzista in atto nel nostro paese, come il caso di Rosarno testimonia. I l bombardamento mediatico che caratterizza la vita degli italiani nel ventunesimo secolo ha alcune caratteristiche che non si possono dimenticare. È altamente selettivo e comporta il succedersi incessante di notizie e informazioni che vanno dai molti telegiornali pubblici e privati ai quotidiani e ai periodici che escono nel nostro paese. Ma ci sono alcune notizie che durano nel tempo e segnano simbolicamente punti di non ritorno. È il caso sicuramente della tragedia della ThyssenKrupp a Torino il 6 dicembre 2007, in cui persero la vita sette operai italiani, e degli scontri di Rosarno che il 7 e l’8 gennaio 2010 hanno provocato quattro feriti tra gli immigrati e condotto all’immediata «deportazione» (non si può usare altra espressione) di tutti gli immigrati da quel paese della Calabria. Per quanto i telegiornali – quasi tutti – e molti quotidiani abbiano cercato di nascondere alcuni aspetti dell’accaduto, è apparso chiaro che, nell’uno come nell’altro caso, i diritti umani delle vittime siano stati gravemente colpiti e che la deportazione di Rosarno sia stata da parte dello Stato una incomprensibile violazione dei diritti che spettano a tutti quelli che vivono sul suolo italiano e che, per quanto non ancora (almeno non tutti) cittadini italiani, hanno diritto a muoversi liberamente nella penisola, a meno che siano colpevoli accertati di gravi reati riconosciuti in maniera definitiva dall’autorità giudiziaria. Un procedimento, come sostiene Mimmo Calopresti nell’intervista che segue, indegno di un paese civile retto da una Costituzione democratica. Ma ci si deve chiedere: come è stato possibile arrivare a questi risultati nell’Italia di oggi e quali sono i responsabili di una simile situazione? Del resto, un recente sondaggio attribuisce a più della metà dei giovani italiani sentimenti razzisti nei confronti degli immigrati. Questo non fa che confermare una situazione di grave sbandamento e di forte propaganda razzista di cui si fa portavoce proprio il governo di Silvio Berlusconi (in particolare una delle forze politiche che lo costituiscono e che lo hanno in pugno, la Lega Nord di Umberto Bossi). 21 Chi conosce, per mestiere o per passione, la storia del nostro paese, sa che in Italia un governo tendenzialmente totalitario, quello di Benito Mussolini, ha incominciato fin dai primi anni Trenta una campagna di discriminazione razziale volta contro gli africani e gli ebrei che ha portato, nel novembre 1938, alla persecuzione antisemita con leggi specifiche che hanno escluso dalle scuole, dalle università e dalle fabbriche gli ebrei, come gli oppositori del regime. Nella seconda guerra mondiale, per l’infame alleanza del regime fascista con quello nazista tedesco, quella politica – racconta ancora la nostra storia – ha condotto a una indubbia complicità attiva dei seguaci della Repubblica sociale italiana con gli agenti dello sterminio europeo, portando nei lager di mezza Europa quasi diecimila ebrei italiani e oltre ventitremila oppositori politici. Le classi dirigenti italiane, purtroppo, hanno condotto tardi e molto male il necessario esame di coscienza rispetto a quella tragedia. L’avvento al potere negli anni Novanta di un leader populista come Berlusconi, che ha unificato le forze di destra alleandosi con la Lega Nord, ora ha ricondotto il paese a discriminazioni del medesimo tipo nei confronti degli immigrati che vivono nel nostro paese. La vicenda di Rosarno ha mostrato in maniera evidente l’assenza dei sindacati e dei partiti, ma anche delle autorità locali, nell’intervenire su una situazione di forte degrado e ha segnalato ancora una volta la scarsa presenza, soprattutto nelle zone periferiche del Mezzogiorno, di un quarto potere in grado di esercitare il controllo sulla politica che pure spetterebbe ad esso. Resta in piedi il problema di fondo che caratterizza l’Italia di oggi. Il problema sempre intatto, malgrado le ultime misure legislative che rimontano al secondo governo Prodi, di un numero, sempre troppo alto, di infortuni sul lavoro che chiamano in causa nello stesso tempo gli imprenditori e gli ispettori del lavoro e il Ministero a cui fanno capo. È accettabile che ogni anno più di mille lavoratori perdano la vita per svolgere il proprio lavoro e che addirittura possa succedere, come nel caso dell’Umbria Oli, che ci siano imprenditori che chiedono i danni alle famiglie delle vittime? Ed è possibile, ancora, che in troppi stabilimenti industriali o artigianali non si osservino le regole di sicurezza e che quindi quegli incidenti siano destinati a ripetersi in maniera sempre più forte e significativa? È così sproporzionato il prezzo che si fa pagare ai lavoratori per l’incuria o la trascuratezza delle aziende i servizi marzo 2010 confronti Politica. Una Repubblica fondata sugli affari? che sembra impossibile, se non la risoluzione, almeno una diminuzione costante degli infortuni. Eppure gli anni passano e la situazione rimane stabile o in lieve diminuzione. C’è da aggiungere, peraltro, che accanto a quelli noti come infortuni sul lavoro, sono emersi negli ultimi anni i casi in cui l’uso di materiali nocivi, a cominciare dall’amianto, ha condotto a processi che dimostrano il danno enorme per i lavoratori costituito da procedimenti che le imprese hanno adottato negli ultimi decenni a spese di chi ha dato le proprie prestazioni di lavoro non conoscendo il pericolo racchiuso in quelle lavorazioni. L’amianto, secondo statistiche ancora errate per difetto, ha provocato più di novemila vittime in alcune fabbriche del Piemonte e di altre regioni italiane e non c’è dubbio che ci siano stati ritardi negli interventi necessari a contenere, una volta scoperti a livello scientifico, i danni che l’uso di quei materiali comporta. Di qui l’inizio di controversie che non potranno in nessun caso restituire la vita ai lavoratori, ma che danno il senso della tragedia che ancora una volta ha caratterizzato il lavoro di tanti italiani per molti decenni. E in questo senso si può dire che il superamento, da tutti auspicato, della crisi economica rischi di condurre, se non si interviene sugli elementi strutturali che provocano gli incidenti, a una crescita piuttosto che a un calo nei prossimi anni. Ma la sensazione che si ha, da osservatori del tragico fenomeno, è che soltanto una forte volontà politica e una campagna condotta in tutte le sedi e non solo da parte di poche coraggiose associazioni, possa condurre a una svolta e a un cambiamento di fondo della situazione. Eppure sappiamo tutti che la nostra Costituzione racconta di una Repubblica democratica fondata sul lavoro e non sugli affari. Quando di lavoro si muore Mimmo Calopresti Il regista Calopresti ha raccontato con il film documentario «La fabbrica dei tedeschi» la tragedia della ThyssenKrupp, in cui persero la vita sette operai nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, proponendo la cronaca di ciò che successe quella notte, nelle settimane precedenti e nei giorni seguenti. Lo abbiamo intervistato sul tema del lavoro e delle morti bianche, ma anche sui fatti di Rosarno. Lei nasce a Polistena (Reggio Calabria): per questa intervista sul tema del lavoro e sulle morti bianche non potevamo che partire dai recenti fatti avvenuti a Rosarno... Conosco bene la situazione perché è vicina a dove sono nato. Un posto dove non c’è nulla e dove questi ragazzi immigrati, provenienti da diverse parti del mondo, erano costretti ad una vita terribile. Costretti a raccogliere mandarini, arance, in condizioni precarie e igienicamente difficili. Inoltre, esclusi da una vita sociale vera e propria con la popolazione locale. Insomma, mal pagati e vessati nella vita. «Negri», questo era l’aggettivo più usato per definirli. La loro reazione è stata forte. È inevitabile ad un certo punto alzare la testa e ribellarsi, non per partito preso, ma per difendere i propri diritti. Una reazione alle continue provocazioni che è esplosa dopo l’ultimo episodio con le pallottole ad aria compressa sparate da alcuni giovani ai loro danni. L’impossibilità di sperare in un futuro, di veder riconosciuti i propri diritti più basilari: questa è la vera motivazione della rivolta che ha causato, come conseguenza, la loro espulsione da quelle zone; cosa che ritengo inaccettabile per un paese che si dichiara civile e democratico. Il brutto di tutta questa storia è che, dietro allo sfruttamento di queste persone, altre invece ci guadagnano. Una vera integrazione basata su presupposti come quelli che ho elencato è davvero impossibile. Tutto, infatti, ha funzionato fino a quando il nero, l’immigrato, accettava – sottomesso e in silenzio – la sua condizione. Il silenzio è il vero dramma di tutta questa storia. Silenzio dei neri fino alla loro rivolta, silenzio della popolazione di quelle zone, silenzio della politica, silenzio dei sindacati. Tutti conoscevano la situazione di degrado di quei luoghi, ma mai nessuno si è mosso in tempo utile per cambiarla, una situazione che privava queste persone di un vero stato di diritto. Ritengo che solo il dialogo e la conoscenza tra mondi diversi possa essere la soluzione all’imbarbarimento sociale; e la politica deve farsene portavoce, con politiche serie di inclusione. Come regista e come intellettuale lei si spende in prima persona su temi importanti. Uno è quello del lavoro... L’informazione spesso non basta. L’informazione oggi è veloce e spesso viene assunta in modo superficiale. Tuttavia informare è importante, direi vitale. Una corretta informazione deve essere alla base dei fondamenti di uno Stato democratico. Parlare dei temi del lavoro è oggi più che mai necessario: occorre ricorda- 22 i servizi marzo 2010 confronti Politica. Una Repubblica fondata sugli affari? re che molte persone oggi il lavoro non lo hanno e non riescono a trovarlo, che molte persone vengono sfruttate, spesso ricattate, e che le nuove generazioni sono in balia di se stesse, con prospettive talmente nere da non poter sperare neanche nel futuro. Di tutto questo oggi poco si parla e quando lo si fa è per segnalare l’ennesimo caso di cronaca o la tragedia annunciata. Il cinema è un’altra cosa. Un film rimane, riesce ad arrivare ai sentimenti più reconditi di ogni singola persona. Quello che io voglio far arrivare a tutti è proprio l’idea che esistono cose che non possono essere accettate, come il fatto che la gente sul posto di lavoro possa morire, che non possa avere una vita famigliare normale per via dei logoranti turni di lavoro, che debba sottostare a regole non scritte per paura di perdere l’unica possibilità di stipendio. O come il fatto che per quel posto di lavoro (dove magari, proprio il datore per primo, non si prende cura dei propri lavoratori) gli stessi possano decidere a discapito della loro incolumità di salvare in caso di incendi o guasti le strutture e i macchinari della propria azienda, con la tragica conseguenza di dovere salvare i propri colleghi in seconda battuta. Cosa li spinge a farlo? Quali possono essere le motivazioni che spingono a tali gesti così estremi? Forse, se esistessero delle serie regole, tutto ciò non sarebbe necessario e, come fanno in altre realtà europee, si scapperebbe da una situazione di pericolo: la vita è la prima cosa da salvare. Qualcosa dunque in questo mondo, e in particolare in quello del lavoro, non va. Inoltre raccontare la tragedia della ThyssenKrupp mi ha fatto crescere, mi ha fatto incontrare persone meravigliose. Non è stato solo un incidente quello che ho raccontato, è stato molto di più, perché quando capitano queste cose, un mondo intero rimane coinvolto, si interrompono drasticamente storie d’amore, si lasciano soli figli piccoli e parenti, famiglie intere rimangono senza possibilità di sostentamento. E, proprio mentre questa tragedia collettiva si consuma, nulla cambia per le persone che non vengono coinvolte direttamente, o per chi avrebbe dovuto proteggere quelle persone. Sensibilizzare su questi temi non è certamente fare giustizia, ma almeno smuovere le coscienze e ricordare i ricatti che i lavoratori sono spesso costretti a subire per non perdere il proprio posto di lavoro; ricatti che passano attraverso le minacce di trasferimenti, di turni logoranti, di contratti precari, solo per citarne alcuni. Sensibilizzare su questi temi è anche un modo per ricordare ai sindacati e alla politica il ruolo determinante che hanno per cambiare questo stato di cose. «Parlare dei temi del lavoro è oggi più che mai necessario: occorre ricordare che molte persone oggi il lavoro non lo hanno e non riescono a trovarlo, che molte persone vengono sfruttate, spesso ricattate, e che le nuove generazioni sono in balia di se stesse, con prospettive talmente nere da non poter sperare neanche nel futuro». 23 A proposito di politica, faceva piacere vedere la sala delle Conferenze di Montecitorio piena, con molte persone in piedi, quando spesso quella stessa sala è solo frequentata da pochi addetti ai lavori, giornalisti o deputati. L’occasione era la «Proposta di legge di istituzione del Giorno della memoria delle vittime sul lavoro e altre disposizioni per l’informazione sui problemi della Sicurezza sul lavoro» promossa, tra gli altri, dai deputati Cesare Damiano, Giuseppe Giulietti, Antonio Boccuzzi, Fabio Granata e Catia Polidori. Lei era presente come testimonial impegnato in questo campo... È stata un’iniziativa importante, infatti il testo propone che la data sia, simbolicamente, quella del 6 dicembre, proprio per ricordare la triste giornata in cui avvenne lo scoppio e poi il rogo alla ThyssenKrupp di Torino e nel quale i sette lavoratori persero la vita. L’iniziativa parte anche da Antonio Boccuzzi, che oggi porta avanti con caparbietà il suo impegno sul tema del lavoro e della sicurezza sul lavoro come parlamentare. Il ricordo di quel giorno deve diventare una data simbolo e spingere a creare una nuova cultura su questo tema, che coinvolga tutti i soggetti in campo: le imprese, che devono capire che l’investimento in sicurezza non è un costo da evitare, ma una scelta corretta sulla via della competitività qualitativa a vantaggio del prodotto e della risorsa umana; i lavoratori, che devono pretendere che le norme sulla sicurezza siano effettivamente e correttamente applicate. Questa giornata deve unire le forze sociali, istituzionali e sindacali congiuntamente, per promuovere iniziative e incontri nelle scuole, nei luoghi di lavoro e soprattutto per non dimenticare, mai, tutte le vittime sul lavoro. (intervista a cura di Gian Mario Gillio) AFRICA I conflitti nella regione dei Grandi Laghi Giusy Baioni Le guerre che riguardano gli stati dell’Africa centro-orientale generalmente non presentano motivazioni specificamente religiose – anche se in alcuni casi si deve rilevare una componente religiosa, perlomeno utilizzata in modo strumentale – ma nella maggior parte dei casi sono legate a giochi di potere. T ra le molte guerre che insanguinano l’Africa, alcune presentano forti componenti religiose. In taluni casi, come in Nigeria tra cristiani e musulmani, si tratta di veri e propri «conflitti religiosi», anche se ridurre l’analisi delle cause alla presenza di fedi diverse è quantomeno semplicistico; in altri casi si assiste a scontri e giochi di potere tra le componenti moderate e quelle estremiste del medesimo credo, come in Somalia o in alcuni paesi del nord Africa. Al contrario, le guerre dei Grandi Laghi non presentano una netta motivazione religiosa. Dal genocidio ruandese alla guerra nell’est del Congo, le violenze hanno avuto e hanno motivazioni stratificate e complesse, che vanno da conflitti etnici (a volte originati o amplificati ad arte in epoca coloniale, seguendo il mai tramontato motto latino divide et impera) a interessi interni e internazionali legati alle immense risorse naturali di queste zone. Una componente religiosa può essere tuttavia riscontrata in alcuni casi, in forma marginale ma pur sempre interessante. È il caso ad esempio dell’ultimo leader ribelle che ha fatto parlare di sé, il generale Laurent Nkunda, tutsi congolese che fino all’inizio del 2009 ha seminato il panico nella regione congolese del Nord Kivu. Attualmente il leader è caduto in disgrazia, abbandonato dai suoi protettori e detenuto (in una prigione dorata) in Rwanda. Ma nella seconda metà del 2008 aveva costruito attorno a sé un’aura di potere quasi mistico. Davanti alla stampa internazionale che da tutto il mondo accorreva a intervistarlo sulle impervie montagne del Masisi, appariva in pubblico con abiti impeccabili: prima in alta uniforme, con stivali tirati a lucido e l’immancabile bastone con la testa d’argento; poi, da un certo punto in avanti, in vesti candide e con un agnellino sotto braccio. Un’icona che contribuiva a mostrarlo come una sorta di «liberatore» – così diceva di sé –, a cui sommare un altro elemento: in varie interviste mostrava con orgoglio la spilla appuntanta sulle vesti, recante lo slogan «Rebels for Christ» e vantava una sua affiliazione alla Chiesa avventista del settimo giorno, di cui si diceva pastore. 24 E infatti si vociferava da più parti che proprio dai pentecostali statunitensi gli fossero arrivati ingenti finanziamenti per le sue attività, anche se la Chiesa avventista degli Usa nega qualunque contatto o affiliazione di Nkunda, sia come pastore che come semplice membro. Difficile dire quanto la sua dichiarata appartenenza a questa Chiesa abbia influito sulle sue scelte politiche e militari. I biografi riportano una sua frequentazione fin dall’infanzia della Chiesa avventista, di cui la madre era fedele, e dicono che amava talmente l’atmosfera religiosa che vi si respirava che già a nove anni aveva espresso il desiderio di diventare prete. Era poi passato alla Chiesa cattolica, per rientrare definitivamente a quattordici anni nella Chiesa delle sue origini. Si dice che in quel periodo amasse intrattenere fratelli e sorelle dispensando loro la parola di Dio (Stewart Andrew Scott, Laurent Nkunda et la rébellion du Kivu. Au coeur de la guerre congolaise, Karthala, Paris 2008). Ci sono altre componenti religiose che giocano nella guerra congolese. Ma si tratta in questo caso di elementi che fanno riferimento a religiosità e credenze popolari. Penso in particolare ai mayi mayi, una delle fazioni che hanno combattuto e combattono in questi anni. Agli inizi venivano chiamati – con una certa semplificazione – i «partigiani congolesi», ma pian piano questi gruppi sono scivolati nel banditismo. Si raccontano molti aneddoti su di loro e sulla loro vita, su cui è difficile fare verifiche. Si dice ad esempio che il loro nome (che significa «acqua») sia dovuto alla credenza che un’immersione nelle acque dei fiumi o una boccetta d’acqua che porterebbero con sé li renderebbe invulnerabili alle pallottole. Questa regola, ispirata alle credenze tradizionali, sarebbe valida solo se il guerriero rispetta un rigoroso stile di vita che prevede un’alimentazione controllatissima e l’astinenza dai rapporti sessuali. E siccome – secondo tali superstizioni – solo chi è vergine avrebbe una chance di sconfiggerli, nel tempo ciò è divenuta una delle cause che ha provocato il sempre più frequente ricorso ai bambini soldato. Negli anni Novanta, le forze dell’allora dittatore Mobutu Sese Seko rapirono molte ragazzine allo scopo di neutralizzare i poteri dei mayi mayi. La loro presenza è diffusa anche in altre zone del Congo, come la provincia meridionale di Lubumbashi, nel Katanga, dove sono decine le storie e gli aneddoti su di loro. i servizi marzo 2010 confronti Africa. I conflitti nella regione dei Grandi Laghi Se dal Kivu si sale più a nord, nella provincia orientale al confine tra Congo e Uganda, ecco un altro scenario inquietante, dove una guerra a bassa intensità miete vittime nel silenzio e nell’indifferenza. Qui a seminare il terrore sono i ribelli dell’ugandese Joseph Kony, un «signore della guerra» che da oltre vent’anni impazza senza che nessuno riesca a fermarlo. Fondatore del Lord’s Resistence Army, l’Esercito di resistenza del Signore, Kony si ispira a strani precetti religiosi, adattati a piacimento alla sua causa. Al suo nascere, il Lord’s Resistence Army chiedeva al governo centrale ugandese che i dieci comandamenti divenissero legge di Stato. Nato all’inizio degli anni Sessanta in un villaggio acholi vicino a Gulu, nel nord dell’Uganda, Kony era un ragazzo brillante. Si dice sia cugino di Alice Lakwena, un’ex prostituta che nel 1986 fondò il Movimento dello Spirito santo, che prese piede dando voce alle popolazioni acholi, escluse dal potere quando al governo salì l’attuale presidente Yoweri Museveni. La donna prometteva l’immunità dalle pallottole dell’esercito, ma i suoi seguaci furono sconfitti e lei riparò in Kenya. Fu dopo questi fatti che Kony fondò il suo gruppo ribelle, presentandosi lui stesso come medium. Il primo spirito da cui disse di essere guidato era quello di Juma Oris, un ex ministro nel governo di Idi Amin che aveva poi guidato il movimento di ribellione West Nile Bank Front nel nord-est dell’Uganda. Attorno a sé Kony ha creato negli anni un’atmosfera di misticismo misto a paura e i suoi seguaci osservano regole e rituali precisi. Tuttavia, tra le fila del suo esercito, la maggior parte dei soldati sono bambini rapiti e costretti con la forza a divenire ribelli. Per le bimbe e le ragazzine rapite, la sorte è ancora peggiore: sono condannate ad essere schiave sessuali. Chi di loro è riuscito a fuggire in questi anni, racconta che Kony riceverebbe istruzioni direttamente dallo Spirito santo e predicherebbe con il dono delle lingue. «Quando andate a combattere, prima fatevi il segno della croce. Chi non lo fa, sarà ucciso», riferisce le sue parole un giovane fuggito in una testimonianza all’organizzazione per la difesa dei diritti umani Human Rights Watch: «Dovete prendere l’olio e tracciare una croce sul petto, la fronte e le spalle e dovete fare una croce con l’olio sul vostro fucile. L’olio è il potere dello Spirito santo». Kony userebbe citazioni bibliche per spiegare la necessità di uccidere la propria gente, che non sostiene la sua causa: vorrebbe dunque «ripulire» la popolazione acholi dai «traditori». Qualche anno fa si vociferava di una conversione di Kony all’islam, forse in corrispondenza con la sua fuga in sud Sudan, dove è stato raggiunto da un mandato di cattura internazionale emesso dalla Cor- Quando in una famiglia accade un fatto negativo, una disgrazia, nella mentalità popolare è necessario trovarne il colpevole. Questi fatti non possono «capitare», ma vengono senza dubbio alcuno invocati da qualcuno che ha compiuto un maleficio. Serve un capro espiatorio. E quasi sempre, ormai, lo si trova nei bambini, che vengono cacciati da casa, malmenati, a volte sottoposti a riti di esorcismo che sono vere e proprie torture. Baioni è direttrice del periodico saveriano «Missione giovani». 25 te dell’Aja. La realtà è forse un po’ diversa. Racconta uno dei ribelli fuggiti: «È una strana religione, quella cui Kony si professa fedele: la domenica prega il Dio dei cristiani, recitando il rosario e citando la Bibbia, ma osserva anche il venerdì, con la preghiera di Al-Jummah, come i musulmani. Festeggia il Natale, ma rispetta anche il digiuno di trenta giorni durante il Ramadan e proibisce che si consumi carne di maiale». Una sorta di inedito sincretismo tra cristianesimo e islam, che secondo alcuni avrebbe l’unico scopo di ingraziarsi il governo centrale del Sudan ed ottenerne appoggio e armi. Sta di fatto che dal 2005 Kony si è nuovamente spostato, per nascondersi nelle foreste impenetrabili del nordest del Congo, dove ha iniziato nuovamente a seminare il panico e a rapire bambini. Se si lasciano i terreni di guerra e ci si sposta a ovest, verso Kinshasa, la capitale del Congo, si incorre in un altro fenomeno, molto diverso ma a suo modo legato a credenze religiose e violenza. Si tratta degli enfants sorciers, i «bambini stregoni». Una realtà diffusa un po’ su tutta la costa occidentale dell’Africa nera, che si aggrava nelle aree metropolitane degradate. Negli ultimi anni il fenomeno si è incancrenito e sono molte le testimonianze di ong e missionari che hanno scelto come attività proprio l’aiuto ai bambini vittime di queste pratiche. In sostanza, quando in una famiglia accade un fatto negativo, una disgrazia (la morte improvvisa di qualcuno, la perdita di un lavoro...), nella mentalità popolare è necessario trovarne il colpevole. Questi fatti non possono «capitare», ma vengono senza dubbio alcuno invocati da qualcuno che ha compiuto un maleficio. Il malocchio, come si diceva da noi. Serve un capro espiatorio. E quasi sempre, ormai, lo si trova nei bambini, che vengono cacciati da casa, malmenati, a volte sottoposti a riti di esorcismo che sono vere e proprie torture. Chi sopravvive, è innocente. Una caccia alle streghe, con qualche secolo di ritardo sulla cattolicissima Europa. Cristianesimo e credenze ancestrali si sommano in un mix letale. Ma chi lavora a stretto contatto con le vittime offre anche una più prosastica, agghiacciante spiegazione: in megalopoli mostruose come Kinshasa, dove il «se débrouiller» [l’equivalente della nostra «arte di arrangiarsi», ndr] è la regola per sopravvivere, dove si tira a campare e non si sa cosa si mangerà domani, troppi bambini per casa sono un onere che non si riesce a sopportare. E così con una scusa, in modo più o meno consapevole, si cacciano di casa delle bocche in più da sfamare. IRLANDA DEL NORD Pace precaria tra cattolici e protestanti Donato Di Sanzo A quasi dodici anni dall’accordo di pace del Venerdì Santo dell’aprile 1998, l’abbandono della violenza e del terrorismo sembra essere un risultato definitivamente acquisito. La stabilizzazione del sistema politico e il dialogo fra le comunità cattolica e protestante sono, invece, processi ancora in evoluzione. E’ del 12 ottobre 2009 l’annuncio, salutato con soddisfazione pressoché unanime, del cessate il fuoco incondizionato da parte dell’Inla (Irish National Liberation Army), uno dei gruppi armati repubblicani ancora attivi sul territorio nordirlandese. Oggi le sei contee dell’Ulster che costituiscono lo stato dell’Irlanda del Nord sono un luogo pacificato, quantomeno dal punto di vista strettamente militare. Il comunicato di abbandono delle ostilità, diramato dai vertici dell’Inla, non è che l’ultimo in ordine di tempo. A partire dal 28 luglio del 2005, storica data della dichiarazione del definitivo cessate il fuoco da parte dell’Ira, quasi tutte le organizzazioni paramilitari che negli ultimi trent’anni hanno insanguinato le città del Nord Irlanda con bombe, attentati e migliaia di morti e feriti, sia in campo repubblicano che lealista, hanno deposto le armi. Gli ultimi sostenitori della lotta armata, i militanti del Real Ira, l’ala più estrema dell’esercito repubblicano che non condivise la svolta del 2005, sembrano sempre più isolati e disorganizzati. Mentre la Iicd, la commissione governativa britannica che supervisiona il progressivo smantellamento degli arsenali, lancia continui segnali di distensione. Una situazione così configurata rappresenta uno dei risultati sostanzialmente più significativi nel processo di implementazione del Good Friday Agreement, l’Accordo di pace del Venerdì Santo (10 aprile 1998), sottoscritto dai governi di Londra e Dublino con il consenso della maggioranza delle forze politiche dell’Ulster. Aver posto fine ad una guerra nel cuore dell’Europa ed aver avviato la cosiddetta «normalizzazione» della vita in Nord Irlanda consente di spostare l’attenzione sulla politica e sulle reali condizioni in cui versa il dialogo tra le due comunità, cattolica e protestante, che convivono nelle sei contee. Il governo degli estremi I partiti politici dell’Ulster sono tuttora alle prese con il sistema di governo delineato dall’accordo del ’98, che prevede il power sharing, la divisione/condivisio- 26 ne del potere e la formazione di esecutivi in cui le forze politiche sono rappresentate in termini proporzionali rispetto al numero di Mlas (Members of Local Assembly) che esprimono all’interno del riabilitato parlamento di Stormont. In seguito alla ratifica dell’accordo furono costituiti i primi governi, presieduti dal leader del Uup (Ulster Unionist Party) David Trimble e sostenuti da forze moderate come il Sdlp del premio Nobel per la pace John Hume. Già dalle elezioni per il rinnovo dell’assemblea del 2003, però, era emersa una tendenza alla polarizzazione del consenso verso i due partiti più radicali: il Dup (Democratic Unionist Party) del reverendo ultraprotestante Ian Paisley, di ispirazione fortemente unionista e contrario alla stipula dell’accordo del ‘98, e lo Sinn Fein dei leader repubblicani e cattolici Gerry Adams e Martin McGuinness, diretta emanazione politica dell’Ira. Le successive elezioni del 2007 non hanno fatto che accentuare questo dato, portando alla formazione di un governo di portata storica, sostenuto da Dup e Sinn Fein e presieduto da Paisley (poi sostituito da Peter Robinson), con McGuinness vice-primo ministro. Si tratta dei paradossi del power sharing, che ha condotto alla coabitazione di governo forze e uomini che negli ultimi trent’anni si sono combattuti con ogni mezzo possibile. Il reale funzionamento di un esecutivo così strutturato attende, per ora, la prova dei fatti. Certo è che i primi risultati della collaborazione non sono mancati. Alla fine di ottobre 2009, il premier britannico Gordon Brown ha reso nota la disponibilità del budget di un miliardo di sterline, che serviranno per operare la completa devoluzione dei poteri sulla giustizia e la polizia locale dal governo di Londra verso quello nordirlandese. Il primo ministro Robinson e il vice McGuinness hanno sottolineato che l’annuncio è giunto al termine di un duro lavoro di negoziazione fra le forze che governano l’Irlanda del Nord e Londra. In molti pensano che dietro l’enfasi che i rappresentanti dello Sinn Fein hanno dato alla notizia ci sia una graduale ma clamorosa rinuncia a perseguire l’obiettivo storico della riunificazione con la Repubblica d’Irlanda, dove i consensi per il partito di Adams e McGuinness sono piuttosto bassi. Non è di questo avviso Raymond McCartney, figura storica dell’Ira ed uno dei primi hunger strikers [persone in sciopero della fame, ndr] che all’inizio degli anni Ottanta scioperarono nel carcere di Longkesh per protestare contro l’internamento senza mandato e le condizioni in i servizi marzo 2010 confronti Irlanda del nord. Pace precaria tra cattolici e protestanti cui i prigionieri repubblicani erano detenuti. Oggi McCartney è uno degli Mlas dello Sinn Fein che sostengono il governo nel parlamento di Stormont, a Belfast: «La devoluzione dei poteri sulle materie della giustizia e della polizia – afferma – è un risultato di portata storica, frutto di un duro lavoro di negoziazione fra le forze politiche coinvolte e il governo di Londra. Il rafforzamento del governo del Nord in termini di competenze è una delle prerogative del Good Friday Agreement. L’obiettivo finale dello Sinn Fein come partito repubblicano è la riunificazione dell’Irlanda e questo non è che uno dei passi che si stanno compiendo in tal senso». Intanto, le elezioni per il rinnovo del Parlamento di Westminster [la data prevista dovrebbe essere il 6 maggio prossimo, ndr], che presumibilmente registreranno la vittoria di David Cameron e del Partito conservatore dopo tredici anni di guida laburista della Gran Bretagna, potrebbero rappresentare una strettoia anche per la politica nordirlandese. Il responso delle urne dirà, infatti, se il ticket degli estremi Dup-Sinn Fein sarà premiato dall’elettorato o se, invece, sarà bocciato ad appena tre anni dalla formazione del governo. «Quelle per Westminster – continua McCartney – sono una sorta di strane elezioni per lo Sinn Fein, perché i nostri eletti non accettano i seggi nel Parlamento britannico. Nonostante questo, una tornata elettorale è sempre importante per un partito politico, in quanto costituisce un valido test per misurare il gradimento della popolazione verso il proprio operato. Inoltre, le elezioni sono per noi una delle occasioni migliori per rendere noto il nostro programma incentrato sull’uguaglianza e la giustizia sociale». La probabile vittoria dei conservatori, storicamente più vicini alle posizioni unioniste, ha destato la preoccupazione dello Sinn Fein, tanto che durante le trattative per la definizione degli indirizzi di devolution il vice-primo ministro nordirlandese McGuinness ha incontrato David Cameron. Nell’incontro, il Mentre negli ultimi anni il sistema politico nordirlandese ha subito cambiamenti radicali e repentini, la società dell’Ulster non si è evoluta con la stessa rapidità e risulta ancora differenziata in due gruppi, non in aperto conflitto, ma che vivono in una condizione di «segregazione di fatto». 27 primo fra un leader repubblicano ed uno conservatore, si è ribadito che il possibile cambio al vertice del governo britannico non determinerà comunque la revisione degli impegni già stabiliti. Piccoli passi verso una possibile soluzione definitiva. La segregazione di fatto Sarebbe interessante verificare se, e in che modo, il dialogo instauratosi a livello istituzionale fra partiti dalle più distanti tradizioni ed aspirazioni abbia influito sul rapporto fra la comunità protestante e quella cattolica. Ma, probabilmente, per effettuare un’indagine di questo tipo è necessario attendere ancora qualche tempo. Ciò che si può affermare con una certa tranquillità, invece, è che mentre negli ultimi quindici anni il sistema politico nordirlandese ha subito cambiamenti radicali e repentini, la società dell’Ulster non si è evoluta con la stessa rapidità e risulta ancora differenziata in due gruppi, non in aperto conflitto, ma che vivono in una condizione di «segregazione di fatto». Prima di approfondire la questione, però, è opportuno precisare che quelle che vengono definite, spesso per semplicità espositiva, come «comunità cattolica» e «comunità protestante» non costituiscono, nei fatti, due blocchi monolitici ed omogenei che si contrappongono per motivi esclusivamente religiosi. È da evitare, per queste ragioni, l’uso di «etichette confessionali» troppo marcate, per non incorrere nell’errore grossolano di considerare le Chiese come parte integrante del conflitto. Da rigettare è anche la schematizzazione troppo rigida che qualifica i cattolici come repubblicani, nazionalisti e irlandesi, mentre definisce i protestanti come lealisti, unionisti e britannici. È stato ampiamente dimostrato che esistono, sia fra i componenti di una comunità che dell’altra, diversissime sensibilità rispetto all’appartenenza alla religione, ai modelli istituzionali di riferimento, alla percezione delle proprie identità e nazionalità. Si de- i servizi marzo 2010 confronti Irlanda del nord. Pace precaria tra cattolici e protestanti ve fare riferimento, perciò, a due gruppi profondamente eterogenei al loro interno che si differenziano non solo per motivi riconducibili alla religione. Ancora McCartney: «Io vengo da una comunità fortemente cattolica, ma le mie esperienze di impegno politico in campo nazionalista e repubblicano non sono frutto della mia appartenenza religiosa. Sarebbe un errore qualificare la questione come un conflitto di religione». Fatte queste necessarie precisazioni, però, è impossibile non rintracciare ovunque in Irlanda del Nord i residui di una contrapposizione che ancora oggi è molto forte. Nelle città più grandi, soprattutto a Belfast e Derry (Londonderry, per i protestanti), i segnali di una distanza sostanziale fra le due comunità sono persino visivi: nella capitale esiste ancora la cosiddetta «Peace line», il muro che divide fisicamente le zone abitate prevalentemente da protestanti da quelle in cui vivono i cattolici, con tanto di porte che si chiudono in orari prestabiliti; a Derry, dove il fiume Foyle ha svolto la stessa funzione della Peace line, si usa dipingere i lati delle strade con i colori della bandiera britannica o irlandese, a seconda che si tratti di quartieri protestanti o cattolici. Nonostante negli ultimi anni si sia registrato, su tutto il territorio, un incremento del numero di aree abitative a residenza mista, diventa impossibile non accorgersi di quanto le due comunità vivano a debita distanza. È importante non minimizzare questo aspetto perché trascorrere un periodo di tempo, anche relativamente breve, in un centro abitato dell’Irlanda del Nord rende sufficientemente l’idea di come i luoghi e le occasioni di interazione fra persone appartenenti alle due comunità siano davvero poche. Esistono pub, cinema, teatri, centri sportivi frequentati quasi esclusivamente da cattolici, e i loro corrispettivi per i protestanti. La contrapposizione è così forte da riprodursi persino nel tifo calcistico e così la maggioranza della popolazione si divide fra la squadra cattolica di Glasgow, il Celtic, e quella protestante, i Rangers. Si tratta di meccanismi che esprimono una «segregazione di fatto», non operata oggi attraverso regole scritte e ben definite, ma tramite diffidenze reciproche, usi e costumi difficili da estirpare, perché sedimentati da anni di conflitto e dalla continua riproposizione di simboli identitari dalle origini antiche. Uno dei mondi dove il perpetrarsi di fenomeni del genere ha effetti a lungo termine è quello della scuola. Il sistema scolastico nordirlandese è contraddistinto dalla presenza quasi esclusiva di scuole confessionali. Dati del 2006 riferiscono che il 46% della popolazione frequenta scuole cattoliche, il 44% scuole protestanti, mentre soltanto il 7% degli alunni frequenta scuole integrate. Benché gli alunni di istituti dichiaratamente confessionali, soprattutto nelle città, Va precisato che quelle che vengono definite, spesso per semplicità espositiva, come «comunità cattolica» e «comunità protestante» non costituiscono, nei fatti, due blocchi monolitici ed omogenei che si contrappongono per motivi esclusivamente religiosi. È da evitare, per queste ragioni, l’uso di «etichette confessionali» troppo marcate, per non incorrere nell’errore grossolano di considerare le Chiese come parte integrante del conflitto. 28 siano impegnati in progetti di cross community con i loro pari di altri istituti, è ancora tutta da misurare la reale utilità che questi progetti hanno nel favorire l’integrazione. È certo che un sistema educativo così concepito non favorisce le occasioni di interazione ma, forse, riduce la possibilità che ve ne siano. Uno dei pochi ambiti in cui gli effetti della nuova stagione di pacificazione si percepiscono di più è quello della pubblica sicurezza. La diminuzione del numero di attentati, seguita alla cessazione della violenza terroristica dell’Ira e delle altre organizzazioni paramilitari, ha reso più sicuri i centri abitati e ha, probabilmente, creato un clima di maggiore predisposizione alla collaborazione. Si sono moltiplicati nelle città i centri di pace e riconciliazione, associazioni che utilizzano fondi governativi e comunitari per promuovere la realizzazione di progetti di integrazione di varia natura. In particolare, sono notevolmente aumentati gli enti che lavorano alla riduzione del divario, in quei luoghi in cui è ancora facile riscontrare situazioni di disparità fra appartenenti alle diverse comunità. Anche in questo caso è ancora da studiare il reale impatto che possano avere sul miglioramento del dialogo intercomunitario, ma non si può che enfatizzare il fatto che solo pochi anni fa iniziative di questo tipo fossero impensabili. In questo quadro di graduale evoluzione, non sono scomparse però le occasioni in cui lo scontro torna a farsi violento. La scorsa estate, come tutti gli anni, la parata degli Apprentice boys, che celebra a Derry la resistenza protestante all’assedio cattolico della città operato dal re Giacomo II Stuart nel 1689, ha causato ancora disordini e feriti. Lo stessa cosa avviene il 17 marzo di ogni anno, giorno in cui i cattolici celebrano san Patrizio, patrono dell’Irlanda. Si tratta di episodi che stanno diventando sempre più circoscritti, ma dietro i quali potrebbe nascondersi la riproposizione di tensioni antiche e mai del tutto scomparse. Il passare del tempo dirà se le vicende dell’Irlanda del Nord si risolverano definitivamente con un patto di convivenza fra due mondi che si confrontano da secoli. A dodici anni dal Good Friday Agreement, gli obiettivi centrati sulla strada della pacificazione sono stati molti, ma tanti sono ancora i nodi da sciogliere: dal freddo dialogo intercomunitario che, probabilmente, richiederebbe politiche di integrazione più incisive, al permanere di un istituto giuridico come l’internment without trial, che permette alla polizia britannica di arrestare senza mandato le persone sospettate di legami con il terrorismo. Proprio dietro a tutto questo potrebbe nascondersi lo spettro di un ritorno alla violenza e la riproposizione, sotto nuove forme di una questione che ha radici nei secoli. MEDIO ORIENTE Attese, speranze e ostacoli alla pace Francesco Farina Riflessioni di un partecipante al viaggio di studio sulle frontiere della pace più difficile che Confronti ha organizzato a Capodanno in Israele e nei Territori occupati palestinesi. Gli incontri con persone ed organizzazioni impegnate per una pace giusta, la consapevolezza della complessità e durezza della situazione. I l nostro viaggio inizia a Yad Vashem che è, a Gerusalemme, il memoriale della Shoah. Come scrive Paolo De Benedetti, «è questo oggi nella “Terra santa” il luogo più santo, perché è il luogo dove abita il dolore di Dio». Partire da qui significa predisporre l’animo a comprendere questi luoghi dove a immagine e somiglianza del dolore di Dio abita il dolore degli uomini. Qui si comprende forse meglio che altrove l’ineffabile radicalità del male che sembra legato alla natura umana. In questo momento, non ci sono evidenze che facciano sembrare probabile il successo di iniziative di pace; la tragedia della guerra in ogni momento potrebbe ripetersi. Chi viene qui, a Gerusalemme e dintorni, non ha proposte di soluzioni da portare, può solo testimoniare impotente, accanto a coloro che qui vivono, la propria solidarietà. Per questo ci appaiono tanto più ammirevoli i tentativi di far germogliare, contro ogni ragionevole previsione, i piccoli «semi di pace» che vengono sparsi dagli uomini e dalle donne di buona volontà che abbiamo incontrato. Testimoni dell’amore, della solidarietà, della pace, della collaborazione, della coesistenza pacifica, hanno il coraggio di proporre la riconciliazione con il nemico. Gli incontri. Penso ai rappresentanti di Parents’ Circle, un gruppo di genitori in lutto che hanno perso i loro figli nella guerra fra i due popoli e che desiderano impegnarsi per portare la pace fra israeliani e palestinesi; penso a Interfaith Encounter Association, che si dedica alla promozione della pace nel Medio Oriente attraverso il dialogo interreligioso e gli studi interculturali; a Combatants for peace, il movimento formato da israeliani e palestinesi che hanno partecipato ad azioni di guerra dall’una o dall’altra parte e che hanno deciso di lavorare assieme nel tentativo di raggiungere una soluzione di pacificazione del conflitto attraverso la lotta non violenta contro l’occupazione israeliana dei Territori. Con ammirazione il pensiero torna a suor Donatella, una religiosa veneta che lavora al Caritas Baby Hospital di Betlemme, al suo fiducioso rimettersi alla Provvidenza di fronte a difficoltà di approvvigionamento di beni essenziali; difficoltà 29 che a volte sembrano dipendere solo dalla deliberata volontà delle autorità israeliane di frapporre inutili ostacoli. Ricordo, anche (per parlare del versante ecclesiale), come il patriarca latino Fouad Twal abbia insistito, incontrandoci, nel sottolineare come sia intollerabile la permanente occupazione israeliana dei Territori; e come l’attesa pace tra israeliani e palestinesi debba essere fondata sulla giustizia, perché questa darebbe sicurezza sia ad Israele che alla nascente Palestina, e finalmente aprirebbe il tempo nuovo tanto atteso. Ricordo poi come uno dei momenti più belli del nostro viaggio l’incontro con i ragazzi e le ragazze di Jenin che hanno partecipato al progetto Fiori di pace di Confronti, incontro reso bello dalla loro affettuosa accoglienza, dal loro fiducioso entusiasmo, dalla loro capacità di infondere ottimismo; ma il ricordo è offuscato dall’osservazione di uno di noi: è stato tutto molto bello, ma pensate che noi domani ce ne andiamo, mentre loro restano ad affrontare ogni giorno il cupo clima dell’occupazione, a vivere la chiusura sul loro futuro, quasi simbolicamente rappresentata dal muro di cemento che circonda la loro terra. Il centro di istruzione ebraico-araba Hand in hand è già un esempio concreto di realizzazione di una convivenza pacifica tra due popoli che vivono nello stesso territorio. Hand in hand gestisce quattro scuole – che vanno dalle elementari alle medie – nelle quali gli insegnanti parlano in ebraico o in arabo, secondo la rispettiva lingua-madre, e gli alunni imparano le due lingue: un nuovo modello didattico di istruzione bilingue e pluriculturale, nel quale bambini ebrei ed arabi possano vincere la segregazione studiando insieme e alla pari. L’altro volto della storia di Israele ci si rivela nella visita al kibbutz Lohamei ha-Ghetaot (combattenti del ghetto di Varsavia). Qui si ammira la tenace laboriosità dei coloni ebrei, l’assertiva sicurezza con cui ci vengono presentati i risultati raggiunti in questo kibbutz, il ruolo essenziale che i kibbutzim hanno svolto nella creazione dello Stato di Israele. Nel vicino museo Yad Layed si conserva la memoria delle vittime del ghetto di Varsavia, la memoria delle storie di quanti, sopravissuti, hanno raggiunto la terra di Israele, per consentire alle nuove generazioni di comprendere e di non perdere la memoria della Shoah. Lasciamo il kibbutz formulando in cuor nostro l’auspicio che questa storia si incontri e si fonda con le altre storie di ricerca di convivenza pacifica tra i due popoli che abbiamo ascoltato nei precedenti incontri. i servizi marzo 2010 confronti Medio Oriente. Attese, speranze e ostacoli alla pace La complessità che coinvolge. Al termine del nostro viaggio ci siamo resi conto della complessità della situazione mediorientale che si è determinata attraverso l’interazione di molte parti, di molte storie, di molti eventi che si sono influenzati e ancora si influenzano a vicenda. La complessità del Medio Oriente si manifesta nel giustapporsi di culture e di credi diversi, si evolve nel gioco degli equilibri politici, anche in correlazione con fatti ed elementi che sono molto lontani tra loro nel tempo e nello spazio. Perciò non esiste un altrove in cui potersi rifugiare per osservarla con tranquilla coscienza. «Il viaggiatore» sente di essere parte del sistema osservato, sente che sarà coinvolto nelle vicende viste da vicino, anche quando torna nell’altrove da cui proviene. Il nostro viaggio non potrà dunque dirsi terminato finché non ci sentiremo parte di una comune storia e non avremo maturato la convinzione che il loro problema è anche nostro, per- Testimoni dell’amore, della solidarietà, della pace, della collaborazione, della coesistenza pacifica, hanno il coraggio di proporre la riconciliazione con il nemico. tali complessi problemi, ma mi sembra che nulla giustifichi il non prendere posizione di fronte a ingiustizie palesi, a crudeltà a volte insensate, il non sostenere iniziative che mirano a combattere la sopraffazione e la prepotenza. Sullo sfondo del viaggio. Sono rimasti quasi solo sullo sfondo del nostro viaggio i templi grandiosi ed i sepolcri venerandi, i riti millenari di cui è ricca questa terra. Ci è sembrato che la solennità delle celebrazioni, la preziosità delle reliquie, l’oro delle icone non avessero nulla a che fare con le vicende degli uomini, delle donne, dei bambini che incontravamo. Il culto di luoghi santi trasforma in pratica devozionale l’impegno di cambiamento di mentalità che il messaggio evangelico richiede con perentorietà, a volte forse insostenibile per la sua radicalità. Come ha osservato qualcuno di noi, la pratica devozionale nasconde, invece di rivelare, la tragedia che si vive in Terra santa. Fuori dai rituali e dai templi, nell’immediatezza dell’incontro con le persone di buona volontà che abbiamo conosciuto, abbiamo intravisto le vie che portano a prendersi cura di chi ha fame, di chi ha sete, di chi è prigioniero... cioè a prendersi cura dell’unica realtà dell’uomo che, al di là di ideologie, dei miti e delle narrazioni, è incontrovertibile: il suo dolore. ché i problemi che si affrontano qui riguardano non solo questi territori, ma la globalità del pianeta. Sempre capiterà di dover partecipare nella nostra vita, in qualche modo, a eventi che influenzano con una pluralità di effetti la situazione di quaggiù. Potrebbe ritenersi atteggiamento saggio sospendere il giudizio su persone, movimenti, governi, di fronte a 30 SOCIETÀ Costruire il futuro investendo sui giovani Massimo Gnone Proseguendo nella nostra inchiesta su volontariato e solidarietà dentro la crisi sociale – iniziata nel numero di gennaio e proseguita su quello di febbraio – abbiamo posto alcune domande a Massimo Gnone, dell’Ufficio Servizio civile e volontariato Commissione sinodale per la diaconia della Chiesa valdese. L’ assassinio di un ragazzo egiziano in via Padova, a Milano, e le drammatiche proteste che ne sono seguite hanno rilanciato la discussione pubblica sul problema del razzismo e dell’assenza di politiche sociali: una discussione troppo spesso venata dalle strumentalizzazioni e dal populismo più becero. Si veda per tutti la infamante dichiarazione del deputato leghista Matteo Salvini, che invitava a dare la caccia agli immigrati clandestini «casa per casa»: un’espressione che – intenzionalmente – evocava un clima da rastrellamenti. Un osservatore attento delle dinamiche sociali come Guido Ruotolo ha commentato a caldo quella vicenda: «Colpisce l’episodio di via Padova. Un ragazzo, un egiziano, accoltellato su un autobus per futili motivi. L’aggressore, gli aggressori, una banda di sudamericani. Sembra di stare a Los Angeles, di assistere a uno scontro tra i Bloods e i Crips, le gang storiche. Immediata scatta la protesta etnica, perché la vittima è uno straniero, un egiziano. Pochi minuti, il tam tam funziona: centinaia di nordafricani si ritrovano per strada. Negozi e auto danneggiate... Colpisce e inquieta l’Italia dei conflitti etnici. Un fiume carsico, un magma incandescente è pronto a spuntare all’improvviso. Da Rosarno a Milano a Castel Volturno» (La Stampa, 14/2/2010). Questi avvenimenti hanno evidenziato l’aggravarsi della questione dei rapporti tra cittadini italiani e migranti in alcune zone socialmente «difficili» del paese: le grandi metropoli, il Mezzogiorno. Il tema sollecita interrogativi che toccano nodi etici e sociali decisivi come la solidarietà, la convivenza tra culture e religioni diverse e la difesa di importanti diritti (la casa, la salute, un lavoro dignitoso). Dalle prime reazioni a questi avvenimenti si conferma la percezione diffusa che sia ormai sedimentata in alcuni settori un’ostilità di stampo razzista contro lo «straniero» – dai connotati preoccupanti. Specialmente se si pensa che a giudizio degli esperti le migrazioni da altri continenti saranno il nodo centrale dei prossimi decenni. 31 Dagli anni Ottanta si è sviluppato un movimento di cittadini impegnati sui temi dell’emarginazione, delle nuove povertà e dell’immigrazione e vi è stato un forte dibattito su alcune questioni etiche e sociali (il senso del gratuito; il ruolo del volontariato e così via). Oggi le organizzazioni del Terzo settore sembrano segnare un bilancio negativo. Come giudica questo nodo così complesso rispetto alla presenza protestante nel sociale, che in Italia ha proprie peculiarità e tradizioni? Il quadro che stiamo vivendo nel sociale è segnato da almeno tre tendenze preoccupanti. Voglio esemplificarle con tre episodi vissuti dal sistema Servizio civile nazionale in Italia. La prima è il declino delle risorse assegnate dallo Stato allo sviluppo della partecipazione e della cittadinanza attiva; basti pensare che, dopo aver investito in un progetto all’avanguardia in Europa, in soli due anni le risorse destinate al Servizio civile sono state tagliate del 50% (da 45mila a 20mila volontari in servizio), quando in altri paesi, come la Francia e gli Stati Uniti (e costruendo «servizi civici»), i governi stanno dimostrando che investire sulla cittadinanza attiva e sui giovani significa costruire un futuro per la nostra società. La seconda tendenza preoccupante è lo svuotamento dei valori: per il Servizio civile, l’obiezione di coscienza, la difesa armata nonviolenta, la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Basti pensare che l’Ufficio nazionale per il servizio civile ha da poco firmato una convenzione per l’assegnazione dei rimborsi ai volontari con una banca (la Bnl - Gruppo Bnp Paribas) che, secondo il Rapporto dello stesso presidente del Consiglio sulle esportazioni di armamenti italiani (dati 2008), è la prima nella lista degli istituti di credito che hanno offerto servizi ad aziende di armamenti. La terza, non meno importante per noi protestanti, è l’affossamento della laicità: lo dimostra il fatto che l’anno scorso un’udienza di papa Benedetto XVI poteva essere riconosciuta come una delle attività messe in campo dall’Ufficio nazionale per festeggiare la legge istitutiva del Servizio civile e soprattutto come formazione generale per i volontari che vi avessero partecipato. Alle proteste della Commissione sinodale per la diaconia della Chiesa valdese, cui si aggiunse quella della Fcei, è arrivata la replica dell’Ufficio nazionale in cui si diceva che «non è consentito a chi è ispirato da pregiudizi ideologico-religiosi, valutare la portata formativa dell’incontro dei giovani del Scn con Sua Santità Benedetto XVI, illustre cattedratico». i servizi marzo 2010 confronti Società. Costruire il futuro investendo sui giovani Finalmente sono arrivate le scuse telefoniche del sottosegretario Carlo Giovanardi, e l’udienza del papa con i volontari, che si è tenuta regolarmente, almeno non è stata riconosciuta come parte del percorso formativo. Una piccola vittoria dell’Italia laica. Un cattolico come Giuseppe De Rita, ad un Convegno sul Terzo settore svoltosi di recente, ha ripetuto una provocazione: se le realtà del Terzo settore si inseriscono in una logica di mercato, si trasformano in imprese. Per dare un nuovo impulso al mondo del sociale, occorre rimettere in moto il volontariato, ossia le esperienze di gratuità. Le Chiese protestanti in Europa hanno una tradizione che sembra andare in un’altra direzione: quella di una forte valorizzazione delle capacita professionali dei laici impegnati nella società. È un diverso rapporto verso il mercato. Come valuta questo problema che ha valenze pratiche e teologiche? Condivido la provocazione di De Rita, che riprende e valorizza la figura del volontario e il valore della reciprocità. Ricordo a questo proposito una tesi simile espressa da Marco Revelli qualche anno fa nel suo libro Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro. È senz’altro vero che il volontariato, inteso come protagonismo del cittadino, può rappresentare un contributo importante al manteni- «L’elogio del volontariato tout-court – in una società come quella italiana dove il lavoro è di fatto precarizzato, senza ammortizzatori sociali di lungo periodo – rischia di portare acqua al mulino di chi osanna questi anni come un periodo di grande mobilità sociale, quasi che lo sfruttamento non esista più, i rapporti di produzione siano mutati e che tutti siano nelle condizioni di veleggiare in un oceano di “lifelong learning”, mercato e flessibilità positiva». anni come un periodo di grande mobilità sociale, quasi che lo sfruttamento non esista più, i rapporti di produzione siano mutati e che tutti siano nelle condizioni di veleggiare in un oceano di lifelong learning, mercato e flessibilità positiva. Il vero ammortizzatore è quasi sempre la famiglia e il suo risparmio ed è quello che sta difendendo il ceto medio italiano dalle unghie affilate della crisi. Sempre meno l’operaio di oggi, che esiste eccome, ha speranze di vedere il suo figlio dottore. Per quanto riguarda l’impegno diaconale, in questo contesto ci sono due livelli che devono essere mantenuti: il primo è quello delle grandi imprese diaconali, perché di imprese già si tratta (chi paga se queste vanno in perdita per centinaia di migliaia di euro?), come le case di riposo per anziani e i centri per disabili, dove c’è bisogno di professionalità, di manager capaci e personale preparato e appassionato, per affrontare le sfide di questo tempo. Contemporaneamente, questo è il secondo livello, nelle Chiese protestanti italiane si stanno sviluppando centri locali di diaconia comunitaria, nelle chiese e nelle città, dove il contributo volontario, spesso non valorizzato pienamente, gioca un ruolo fondamentale. Sono centinaia le persone impegnate quotidianamente in questi progetti che creano e sviluppano reti corte e lunghe di solidarietà. Sono due livelli che vanno tenuti insieme, se si vuole sopravvivere al mercato e affrontare i bisogni dei territori, variabili e cronici, con volontà di successo. Le Chiese protestanti hanno una presenza consistente e significativa nelle comunità di migranti, specie in alcune zone del nord Italia. Quali problemi incontrano le comunità evangeliche rispetto alle forme crescenti di intolleranza e di razzismo verso gli stranieri? È possibile in questo momento così difficile su questo tema un lavoro comune tra le comunità protestanti e il tessuto del mondo cattolico sul territorio? Nelle regioni del nord-est molti sindaci si rifiutano di autorizzare la modifica di destinazione d’uso degli immobili, quando ricevono la richiesta perché capannoni industriali lasciati vuoti di macchinari per la crisi possano essere riempiti di fedeli in preghiera, che tra l’altro vorrebbero pagare regolarmente l’affitto. È un problema che sta affrontando non solo la comunità musulmana, ma anche le chiese metodiste e valdesi nel triveneto. Su questo terreno, quello del riconoscimento di spazi di cittadinanza e contro l’idea di un’Europa fortezza, un lavoro comune già esiste e ci aspettiamo ancora uno sforzo comune con la realtà cattolica di base. mento e alla ri-costruzione dei legami sociali, in una società post capitalista e atomizzata. Tuttavia la realtà è più complessa e il terreno scivoloso. L’elogio del volontariato tout-court – in una società come quella italiana dove il lavoro è di fatto precarizzato, senza ammortizzatori sociali di lungo periodo – rischia di portare acqua al mulino di chi osanna questi (intervista a cura di Umberto Brancia) 32 PERÙ Quando le parole uccidono più della spada Azzurra Carpo La violenza sulle lingue dei popoli indigeni e l’imposizione di spagnolo e inglese come strumenti di destrutturazione delle tradizioni locali. L’autrice ha lavorato nell’Amazzonia peruviana in vari progetti di cooperazione internazionale per la promozione dei diritti dei popoli indigeni. H uampanì (periferia nord di Lima, Perù), 7, 8 e 9 ottobre 1999, è in corso un grande confronto: da un lato, i rappresentanti delle organizzazioni del popolo indigeno shipibo (uno tra i quattro popoli più significativi per patrimonio culturale-artistico, esperienza storica in mediazione politica e gestione ambientale, presenti nell’area amazzonica del Perù); dall’altro, i rappresentanti dell’Instituto linguistico de verano (Ilv), una delle molte istituzioni evangeliche statunitensi, ufficialmente dedicata a tradurre la Bibbia in tutte le lingue del mondo, anche in quelle parlate dai gruppi umani più dispersi e isolati. Funge da arbitro, un funzionario del Ministero dell’Educazione. Si respira molta tensione. Rabbia rappresa, nei dirigenti indigeni. Insofferenza, nei «gringos». Entrambi i contendenti utilizzano tutta la gamma della comunicazione umana quando si tratta di un conflitto di grande importanza storica. Parlano in spagnolo ma, quando si tratta di consultarsi con i consulenti del rispettivo gruppo, usano rispettivamente la lingua shipibo e l’inglese. Fanno sapiente uso dei silenzi, della gestualità, dei toni di voce (suadente, insinuante, aggressivo, allusivo ecc.), dei movimenti corporali attorno al tavolo, nella sala della riunione e lungo i corridoi. Gli statunitensi seguono una logica discorsiva lineare. Gli indigeni, quella circolare. E, a differenza degli efficienti e stressati nordamericani, sono specialisti nell’uso del tempo per fingere o comunicare disinteresse, impegno, gerarchia; per spazientire l’avversario e per indurlo a scoprirsi. Ma, con tutti i conflitti secolari che insanguinano l’Amazzonia (per le terre, per la deforestazione selvaggia operata dalle multinazionali del petrolio, del legname e dei biocombustibili ecc.), qual è la posta in gioco perché questo di Huampanì sia sentito come di importanza vitale? Il fatto è che, cinquant’anni prima, per la traduzione della Bibbia, i religiosi dell’Ilv hanno inventato un alfabeto sulla base di una «loro» percezione e interpretazione dei fonemi dell’idioma shipibo. Il punto di discordia deriva dal fatto che, in vista di norme comuni di lettoscrittura per i libri di educazione bilingue interculturale previsti dal Mini- 33 stero dell’Educazione per i bambini nativi, un certo fonema deve essere scritto con la «c» per l’Ilv, mentre per i dirigenti indigeni deve essere scritto con il grafema «ch» e, in un altro contesto semantico, con il grafema «k». Un dettaglio di nessuna importanza? Una quisquilia? La scrittura come potere, l’alfabeto come chiave di assimilazione Ci sono tante maniere per sterminare un popolo indigeno. Sono conosciuti gli etnocidi compiuti dai conquistadores e dai cercatori del caucciù, e le violenze operate dalle politiche assimilazioniste. Una maniera più sottile e raffinata ma ugualmente letale, è quella di imporre... parole, negando quelle degli altri. Le parole dei vincitori uccidono più delle spade. Ti fanno morire «dentro», quando mancano le prime parole, quelle sentite succhiando il latte materno, quelle della tua lingua materna, appunto. 1533: sulla piazza della città peruviana di Cajamarca, il «cappelano militare» dei conquistadores, Valverde, mostra la Bibbia all’ultimo Inca, Atahualpa, preso prigioniero a tradimento. L’Inca viene da una cultura orale, non comprende lo spagnolo, figuriamoci se sa leggere e capire il latino delle Scritture. Lascia cadere il libro sacro. Buona scusa per strangolarlo anche come infedele, che rifiuta la Parola salvifica, e l’annessa civiltà e progresso. Gli indigeni vengono sterminati, inizia il più grande genocidio della storia. Da quel momento e per quasi cinquecento anni, i vinti non hanno più diritto di parola. Il processo di educazione sistematica degli indigeni è totalmente delegato dallo Stato alla Chiesa, che a sua volta lo delega alle congregazioni religiose, alle quali assegna precise zone di influenza onde attutire la loro competitività nella conquista delle anime (i gesuiti al nord-ovest, i francescani al centro, i benedettini al sudest), mentre i missionari di confraternite minori agiscono come quinte colonne di penetrazione in attesa che gli indigeni siano indotti – con le buone o con le cattive – ad abbandonare il tradizionale nomadismo e sistema disperso di abitazioni e a convogliare nelle «reducciones», cioè i villaggi – al cui centro c’è la chiesetta in legno per la messa in latino e per un autorevole paternalismo, che non riesce a impedire i lavori forzati schiavisti a cui sono sottoposti gli indigeni dai raccoglitori di caucciù e dai commercianti di legname. All’inizio, le lingue indigene sono utilizzate dai missionari come idioma per l’assimilazione religiosa. In seguito, la Corona spa- i servizi marzo 2010 confronti Perù. Quando le parole uccidono più della spada gnola impone l’insegnamento regolare di tipo scolastico, proibisce l’uso delle lingue native e impone la scrittura in spagnolo. In un contesto di cultura agrafa, dove non sono previste scuole per gli indigeni, la scrittura è lo strumento del potere assoluto, il suggello dell’esclusione razzista, la spada legale più terrificante ed efficace contro la quale gli indigeni non hanno parola. Dagli anni Trenta, le scuole si aprono anche nei villaggi indigeni. Ma sempre con testi scritti in spagnolo e con gli stessi contenuti e valori proposti in una grande città industriale. Essere strangolati un po’ alla volta o liberarsi anche attraverso la parola? A partire dagli anni Ottanta, la normativa internazionale comincia la sensibilizzazione circa i diritti collettivi sia territoriali che culturali dei popoli indigeni, in particolare per il rispetto della lingua materna e per una educazione bilingue interculturale (Ebi), soprattutto nei primi anni di scuola. A questo punto, l’Instituto linguistico de verano (oggetto di molte critiche per il modello «americano» che lo contraddistingue) presenta anche per i libri Ebi la «sua» proposta di alfabeto shipibo, già utilizzata per la traduzione della Bibbia. Incontra la ferrea opposizione dei dirigenti na- Ci sono tante maniere per sterminare un popolo indigeno. Sono conosciuti gli etnocidi compiuti dai conquistadores e dai cercatori del caucciù, e le violenze operate dalle politiche assimilazioniste. Una maniera più sottile e raffinata, ma ugualmente letale, è quella di imporre... parole, negando quelle degli altri. tivi – giovani perfettamente bilingui, con studi superiori e universitari, e con notevole esperienza politica e formazione pedagogica – che sfiancano gli operatori dell’Ilv finché questi dicono candidamente perché sia stato proposto l’uso della «c»: «Perché, prima o poi, tutti voi shipibo parlerete e scriverete solo spagnolo e inglese». Gli indigeni hanno la conferma che il bilinguismo proposto dall’Ilv non è finalizzato al mantenimento della loro lingua ma alla sua «transizione», cioè alla progressiva assimilazione e alla definitiva estinzione. Si ribellano, non intendono essere – un po’ alla volta – strangolati. Reclamano il diritto non solo di parola, ma anche alla lingua madre, quella dell’identità. Si richiamano al principio tecnico dell’autonomia di ogni lingua, a quello scientifico in quanto conoscitori in profondità «vivenziale» – meglio di qualsiasi «gringo» – della semantica, fonetica e fonologia della loro lingua materna, e al principio di diritto internazionale che riconosce loro il diritto all’autodeterminazione: impongono che la scrittura del fonema in questione sia fatta in funzione della loro continuità linguistica, che coincide con la loro sopravvivenza collettiva. Spinti dall’esempio, molti altri popoli indigeni amazzonici fanno rivedere da propri specialisti linguisti l’alfabeto proposto a suo tempo dall’Ilv, e tutti apportano sostanziali modifiche che vengono adottate nei nuovi libri di educazione bilingue interculturale. La quarta dimensione della cittadinanza La cittadinanza interculturale passa anche attraverso la parola. Il diritto di cittadinanza non si limita al riconoscimento delle tradizionali tre dimensioni dei diritti civili, politici e sociali. Esiste la quarta dimensione, quella simbolica. Profondamente connesso al diritto collettivo e al territorio, rivendicano il riconoscimento del diritto al «simbolo»: alla scrittura della propria lingua materna in una forma che ne garantisca l’autodeterminazione e ne includa la cosmovisione. Giugno 2009: a Bagua, gli indigeni si oppongono alle leggi del governo, tese a favorire l’ingresso delle multinazionali statunitensi e del Trattato di libero commercio nei loro territori, contravvenendo a precise norme internazionali riguardanti i loro territori. Si scatena la violenza, un nuovo episodio etnocida, continua lo sterminio di sempre. L’Ilv denominava quegli indigeni alla sua maniera: «aguaruna» e «huambiza». Ma loro, proprio in quanto cittadini di un mondo globalizzato multiculturale e plurilinguistico, hanno imposto una fonetica e scrittura più adeguata e si fanno chiamare «awajún» e «wampis». Non si lasciano strangolare un po’ alla volta. Non è lo stesso dire dignità in inglese o castigliano e dirla in lingua awajún e wampis. 34 marzo 2010 • notizie n o t i z i e CDB La comunità di base di san Paolo in Roma spiega, in questo ironico comunicato dell’8 febbraio, la sua iniziativa di regalare un paio di occhiali a Silvio Berlusconi, che non ha visto il «muro» tra Israele e i Territori palestinesi occupati. Tra i molti acciacchi dell’età avanzante che appesantiscono le sue gravose giornate, seppur talora rallegrate da simpatiche compagnie, al presidente del Consiglio se ne è aggiunto un altro, che finora non era noto, e che ci dispiace davvero: egli è quasi cieco. La notizia non arriva dal solito malevolo gossip delle sinistre comuniste che, si sa, nel loro odio verso l’Italia arriverebbero a tutto pur di distruggere il paese; no, con il coraggio e l’umiltà che lo caratterizzano, è stato lo stesso Silvio Berlusconi a rivelare al mondo questo handicap che, comunque, non gli impedirà di continuare a spendersi per il bene di tutti noi e per la pace tra i popoli. L’inattesa rivelazione è stata data dal premier, il 3 febbraio, a Betlemme. Quel giorno, infatti, dopo aver difeso alla Knesset (il parlamento israeliano) la piena legittimità politica e morale dell’operazione «Piombo fuso» che un anno fa ha provocato nella Striscia di Gaza circa 1400 vittime, egli, per incontrare l’Autorità palestinese, si è recato a Betlemme. E qui, durante una conferenza stampa, un giornalista gli ha chiesto che impressione gli avesse fatto il muro di divisione tra Israele e Territori occupati, barriera che, per entrare nella città, si deve necessariamente attraversare. Alla domanda ha risposto: «Non me STATI UNITI ne sono accorto. Ero concentrato sulle cose che avrei detto ad Abu Mazen [il presidente palestinese] ed ero intento a prendere appunti. So di deluderLa e me ne scuso». Di fronte ai giornalisti è apparsa dunque la cruda realtà: affetto da una rara malattia agli occhi, il presidente del Consiglio vede benissimo fino ad un metro, ma più in là intravvede solo vaghe ombre. Perciò non poteva vedere il muro, perché, attraversando la barriera alta otto metri, la sua macchina è passata a tre metri di distanza. Questa notizia, che ha commosso l’Italia, ha colpito anche noi. E ci siamo chiesti che cosa potessimo fare. E, subito, date le nostre frequentazioni con la Russia dell’amico Putin, tanto caro anche a Berlusconi, ci siamo ricordati che, a Mosca, esiste un centro specializzatissimo per gli occhi, una delle poche belle eredità dell’epoca sovietica. Ci siamo subito attrezzati, e in cinque giorni ci hanno fatto avere uno speciale paio di occhiali (che spediamo in un pacco a parte a Palazzo Chigi) che permetterà al nostro premier di vedere benissimo sia da vicino che da lontano. Siccome però questi particolari occhiali sono fatti di un materiale facilmente deteriorabile, speriamo che anche altri soccorrano, come facciamo noi, un Grande del nostro tempo che si è impegnato a risolvere – in modo equo, imparziale e carismatico – il conflitto israelo-palestinese che lo stesso Barack Obama, che pure ci vede bene, non riesce a sbrogliare. Violazioni a Guantanamo: la «continuità» con l’amministrazione Bush, nonostante le promesse di Obama. Amnesty international denuncia le perduranti violazioni dei diritti umani da parte degli Stati Uniti nell’ambito della lotta alle organizzazioni terroristiche. Nonostante il presidente Obama avesse promesso di chiudere il campo di prigionia di Guantanamo, nelle sue celle rimangono 198 detenuti che non possono avvalersi di nessuna garanzia giuridica. Amnesty rimarca che a tutt’oggi gli Usa non permettono di conoscere neanche il regime di detenzione di molti dei reclusi, che si trovano in condizione di custodia segreta, e riporta esempi delle violazioni in atto, anche in altre località. Uno dei casi in questione, quello del pakistano Ghailani, catturato in Pakistan nel 2004 e tuttora imprigionato in un luogo segreto a Kabul, è approdato ad una corte federale americana, di fronte alla quale i rappresentanti dell’amministrazione Obama avrebbero sostanzialmente rivendicato la continuità della propria politica in quest’ambito con quella di Bush, confermando di continuare a trattenere Ghailani non nella qualifica di imputato, ma di «risorsa di intelligence», e di non volergli concedere salvaguardie giuridiche poiché considerato un «combattente nemico». In altre occasioni, ricorda ancora Amnesty, l’attuale amministrazione americana ha confermato di non voler riconoscere gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e di non interessarsi alla riparazione delle relative violazioni. Essa ha già avuto modo di appellarsi al segreto di Stato in risposta ad alcune citazioni promosse per la causa dei diritti violati nel corso della campagna contro il terrorismo (otte- 35 nendo il giudizio favorevole della Corte suprema federale) e ha mantenuto la posizione di Bush soprattutto quando ha sostenuto che la sicurezza nazionale – che forse possiamo anche chiamare ragion di Stato – prevale su altre considerazioni giuridiche: per cui continua a negare la documentazione concernente le condizioni di prigionia dei detenuti. Una volta entrati a far parte del Consiglio Onu dei diritti umani, gli Usa dichiararono che avrebbero invertito la rotta rispetto all’amministrazione precedente e che avrebbero riconosciuto le violazioni dei diritti e le necessarie riparazioni. È passato un anno ed Amnesty sostiene che è davvero giunto il momento di dar seguito a quelle promesse. Alessio Esposito IRAN Giustiziati due manifestanti delle proteste post-elettorali. Altri nove in attesa di esecuzione. Amnesty lancia l’allarme sulla violazione dei diritti umani nel paese. Sono state eseguite in Iran il 28 gennaio scorso le prime esecuzioni legate alle condanne per i disordini seguiti alla rielezione di Ahmadinejad. Mohammad Reza Ali-Zamani, di 37 anni, e Arash Rahmanpour, di 19 anni, secondo l’agenzia ufficiale Isna, erano «mohareb» (nemici di Dio), membri di un gruppo filo-monarchico, e avevano ordito un complotto anti-regime. «Queste due esecuzioni-shock mostrano che le autorità iraniane non intendono fermarsi di fronte a nulla per stroncare le proteste pacifiche che vanno avanti dalle elezioni», ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty international. marzo 2010 • notizie I due sono stati condannati dopo un processo iniquo e inoltre non è neanche chiaro se effettivamente appartenessero o meno al gruppo fuorilegge, dato che le loro «confessioni» sarebbero state estorte. Ali-Zamani era stato accusato di aver visitato illegalmente l’Iraq e di avere, in quell’occasione, incontrato ufficiali dell’esercito statunitense. L’avvocato di Rahmanpour ha affermato che il suo assistito non aveva mai preso parte alle proteste post-elettorali e che la «confessione» durante un «processo-spettacolo» era stata rilasciata dopo che i suoi familiari erano stati sottoposti a intimidazioni. Né lui né il collega che difendeva Ali-Zamani sono stati informati dell’esecuzione, come invece richiesto dalla legge iraniana. Secondo le autorità iraniane, almeno altre nove persone si trovano in attesa di esecuzione dopo essere state condannate in quelli che Amnesty considera dei «processi-farsa». Secondo gli oppositori al regime, più di 40 persone sono morte nelle manifestazioni promosse dopo le elezioni, molte delle quali represse con violenza dalle forze di sicurezza. Amnesty international ritiene che il numero delle vittime sia molto più alto, infatti oltre cinquemila persone sono state arrestate, molte delle quali sottoposte a torture e maltrattamenti. Decine e decine di manifestanti sono stati condannati a pene detentive, e in alcuni casi anche alle frustate, al termine di processi iniqui. Le condanne a morte sono state almeno 11. Una di queste, emessa nei confronti di Hamed Rouhinejad, è stata commutata in appello nel mese di gennaio. Cristina Zanazzo INDIA Vite «minate»: Amnesty denuncia i danni alla popolazione provocati dalle miniere di bauxite e dalle raffinerie tra Delhi e lo stato dell’Orissa. La Vedanta Resources è una grande società indiana con sede a Londra, attiva soprattutto nel settore dell’estrazione e della raffinazione dei minerali. Sul suo sito si vedono delle donne in sari che sorridono sotto la scritta «sviluppo sostenibile». Sotto la scritta «lavora con noi», invece, ci sono degli operai, sempre sorridenti, che salutano. Amnesty international, però, il 9 febbraio 2010 a Delhi, ha presentato un rapporto in cui descrive una realtà un po’ meno felice. Il titolo del rapporto è «Non minate le nostre vite: come la miniera di bauxite e la raffineria devastano le vite in India» ed è il frutto di oltre un anno di indagine tra Delhi e lo stato indiano dell’Orissa, abitato principalmente da popolazioni indigene e tribali (adivasi). Il documento denuncia soprattutto il governo indiano, le autorità locali e la Vandana (con le sue varie controllate) di aver ingannato – o comunque non aver informato a sufficienza – le popolazioni locali sui rischi legati alle attività estrattifere. Ad aggravare le accuse c’è anche il fatto che le vittime appartengono ai segmenti più emarginati della società indiana, come gli adivasi o i dalit (intoccabili), che difficilmente possono far valere i propri diritti. I casi riguardano lo stato dell’Orissa e sono due: a Lanjigarh è già presente una raffineria di alluminio, costruita con la promessa di un boom economico in stile Mumbay, e che invece ha solamente inquinato l’aria, il suolo e le acque. Alcune madri hanno denunciato il fatto che i propri figli si sono riempiti di vesciche dopo aver fatto il bagno nel fiume locale. Nonostante questo, è in progetto l’aumento del 600% della raffineria. A Niyamgiri, invece, una sussidiaria della Vandana vuole iniziare i lavori di scavo per una miniera di bauxite sulle colline dove la comunità nativa dei Dongria Kondh vive da tempi ancestrali e che considera sacre. La nuova miniera, oltre a inquinare la zona, avrebbe anche effetti dannosi sull’identità culturale della comunità. Chiunque volesse fare qualcosa, può inviare un messaggio di pro- testa al Ministero indiano dell’Ambiente e delle foreste utilizzando il form di questo indirizzo: http://moef.nic.in/modules/contact-ministry/contact-ministry/. Valerio Marconi CULTURA 36 mature, tradizioni, musiche, canti per migliorare i difficili rapporti con quelli che loro chiamano i gagè. Luana Stinziani IMMIGRAZIONE Una mostra fotografica per raccontare i popoli rom e sinti. Un romano su dieci è di origine immigrata. I dati dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio romano sulle migrazioni. Presso l’associazione culturale Lignarius, dal 19 al 29 gennaio a Roma, si è tenuta la mostra fotografica «Il popolo del vento, i rom e i sinti». La scelta di esporre le immagini (corredate da un incontro-dibattito e dalla pubblicazione di un opuscolo dal contenuto storico-culturale) in tal periodo dell’anno non è di certo casuale, poiché la mostra vuole essere un monito a non dimenticare, parallelamente a quanto voluto per la settimana della memoria, che 500.000 – forse un milione – furono gli zingari uccisi e perseguitati nei lager nazisti, attraverso il cosiddetto porrajmos, ovvero il loro annientamento, la distruzione di un popolo, di cui raramente sentiamo parlare nelle ricorrenze legate alla memoria della Shoah. Attraverso la forza evocativa delle immagini e dei manufatti (sono presenti in loco oggetti in rame, che rappresentano una delle più antiche attività rom, appunto la lavorazione del rame), gli organizzatori vogliono descrivere un popolo colto nella normale quotidianità: madri con i loro bambini, giovani donne che indossano abiti tradizionali, donne rumrìa, ovvero coloro che praticano la chiromanzia e la questua. Le foto sono state scattate nei campi nomadi più popolosi di Roma; i rom sono distribuiti uniformemente in tutte le regioni italiane e sono circa 70.000 quelli che hanno ottenuto la cittadinanza, passando ad uno stile di vita seminomade. L’intento latente di tale manifestazione rientra ancora una volta nella volontà di abbattere i muri del pregiudizio, accrescere la conoscenza di questo popolo, ricco di sfu- Presentata a Roma la VI edizione dell’Osservatorio romano sulle migrazioni. Il rapporto annuale, promosso dalla Caritas diocesana in collaborazione con la Camera di commercio e la Provincia di Roma, è strutturato in tre parti, dedicate rispettivamente alla provincia, al Comune di Roma e agli aspetti relativi a economia, lavoro e imprenditoria. Franco Pittau, referente scientifico del rapporto, ha inteso da subito evidenziare il valore pratico di questo «strumento di lavoro» che, consentendo una lettura «reale» del fenomeno migratorio, in grado di trascendere i meri fatti di cronaca e le associazioni pregiudiziali che ne conseguono, necessita di essere diffuso anche al di fuori dei settori degli specialisti. L’area romana, «laboratorio urbanistico e socioculturale di grande interesse nello scenario europeo», negli ultimi trent’anni è cambiata in simbiosi con l’immigrazione. Al 1° gennaio 2009, nei 121 comuni della provincia di Roma, la popolazione straniera complessiva totalizza 366.360 residenti, con un aumento del 157% dal 2002, e un’incidenza dell’8,9% sul totale della popolazione. Nel solo Comune di Roma, dove il numero dei residenti stranieri ammonta a 293.948 unità, in dieci anni si è raggiunto quasi il raddoppio (dal 4,8% del 1998 al 10,3%). Provenienti soprattutto da Romania, Filippine, Polonia e Albania, gli stranieri residenti in provincia sono in prevalenza donne (53,8%) e hanno un’età media notevolmente bassa (31,4 anni); i minori infatti, che raggiungono quota 71.170 (quasi 7 su 10 nati in Italia), incidono per il 19,4% marzo 2010 • notizie sulla popolazione straniera totale. L’Osservatorio conduce approfondimenti sulle diverse collettività e su un vasto numero di tematiche connesse al fenomeno migratorio, che vanno dal problema abitativo (rispetto al quale si registra una tendenza degli stranieri al trasferimento nei comuni vicini, dove i costi sono più convenienti) a quello della criminalità (che nel 2008, nonostante i ripetuti allarmismi, in provincia è diminuita del 15,3%), dall’apprendimento della lingua (13.514 gli stranieri che hanno frequentato un corso di italiano solo nella Capitale) all’apporto degli immigrati al mercato del lavoro (165.437 gli occupati in provincia, il 49,7% donne, con un considerevole aumento delle aziende con titolare straniero anche in periodo di crisi); con un occhio di riguardo per rom e sinti. Al di là degli inevitabili aspetti problematici che l’immigrazione comporta, Pittau ritiene che la presenza di stranieri sia funzionale allo sviluppo dell’area romana, cui apporta benefici non solo a livello economico e occupazionale, ma anche a livello religioso e culturale. L’Osservatorio invita dunque a «conoscere per capire ed essere solidali», a conoscere per ridimensionare quell’immaginario stereotipato dal quale scaturisce un pregiudizievole quanto lesivo atteggiamento di diffidenza nei confronti degli stranieri. Stefania Sarallo Un incontro per conoscere la comunità cinese a Roma, cercando di superare alcuni stereotipi. Grazie all’Istituto Confucio dell’Università La Sapienza si è svolto l’incontro «Migranti cinesi in Italia», con Hu Lanbo, giornalista e imprenditrice cinese in Italia da 20 anni. Nella sede dell’ateneo romano nel quartiere Esquilino, il 19 gennaio 2010, Hu ha raccontato a una piccola e interessata platea il suo viaggio da Pechino a Parigi per migliorare la lingua francese – la chiave che l’ha fatta entrare nel mondo – fino all’arrivo a Roma a 30 anni, dove ha sposato un italiano e contribuito allo scambio culturale sinoitaliano anche fondando la rivista Cina in Italia. La sua storia, raccontata nel libro La strada per Roma, è avvincente, velata di tristezza come i suoi occhi e diversa dalla maggioranza dei cinesi che arrivano in Italia come clandestini per lavorare. Il 90% dei cinesi che vivono da noi proviene dalla provincia di Zhejiang, montuosa e molto povera. Chi arriva qui dedica molto tempo al lavoro perché vuol far soldi e perché viene pagato a pezzo prodotto, così trascura lo studio dell’italiano perdendo in integrazione. Inoltre, la grande abilità commerciale dei cinesi ha reso la loro comunità autonoma: al suo interno si trova tutto e la necessità di rivolgersi a italiani non è avvertita. Cina in Italia nasce come mensile, fino ad oggi ha pubblicato 62 numeri: il primo è uscito nel gennaio 2001; alla fine del 2006 la stampa è stata interrotta per difficoltà economiche; poi è arrivato un problema di salute. Ora Lanbo sta meglio, la sua rivista è tornata in stampa e per l’acquisto si può consultare il sito www.cinainitalia.com. È un giornale di attualità e inter-cultura: ogni articolo è scritto in italiano e cinese e gli argomenti sono di economia, spettacoli, moda, società, con uno spazio dedicato alla comunità cinese in Italia e a storie di cinesi in Cina. Ci sono anche due pagine di fumetti, ma solo in cinese. La novità di quest’anno è che il mensile annovera anche articoli di China News Week, il settimanale più importante della Cina con cui Hu ha aperto una collaborazione. «Cina in Italia è un’esperienza all’avanguardia, esempio di comunicazione fra due culture perché negli anni da una parte gli italiani hanno scritto in italiano sulla Cina e dall’altra i cinesi hanno scritto in cinese in Italia o sull’Italia in Cina. Solo Hu Lanbo, con la sua esperienza intellettuale e con la sua formazione culturale sino-europea, era in grado di fare un’operazione del genere, quindi le diamo grande merito», ha detto Federico Masini, preside della Facoltà di Studi orientali della Sapienza. Auguri Lanbo! Maria Rosaria Giordano SOCIETÀ A Milano, il prossimo 20 marzo, la XV Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie organizzata da Libera. Il Meridione non può più essere collegato al fenomeno delle mafie: ormai si sono infiltrate anche al Nord. Questo perché, secondo i magistrati della Corte dei Conti, le mafie vengono «attratte» dalla maggior probabilità di business come le cornacchie da ciò che luccica. Ad esempio, per parlare di uno degli ultimi casi di mafia riguardo ai rifiuti speciali, i quali necessitano di essere smaltiti con sistemi purtroppo costosi dettati dal Parlamento europeo, la criminalità organizzata fa sì che l’imprenditore del Nord accetti uno smaltimento a costi più ragionevoli. Deve solo caricare i camion con tutti quei barili che chissà dove andranno a finire. In realtà si conosce benissimo la meta: quei Tir colmi di rifiuti partono dalle industrie del Nord per arrivare nell’agro romanopontino e nel campano e per gettare il carico in aperta campagna, in piena notte. Per dimostrare che la popolazione italiana è cosciente di questi fenomeni loschi, a Milano si terrà il prossimo 20 marzo la XV Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, organizzata da Libera. Perché Milano? È il centro del business italiano attorno al quale ruota non solo tutta l’economia italiana, ma anche quella estera: la Borsa, la moda, la maggior parte delle filiali di aziende estere vi hanno sede... soprattutto perché Milano è la città in cui fu ucciso nel 1979 Giorgio Ambrosoli, avvocato esperto in liquidazioni coatte amministrative, che stava indagando sui movimenti del banchiere siciliano Michele Sindona. Milano è la città in cui il 27 luglio del 1993 ci fu una 37 delle bombe che esprimevano l’attacco diretto allo Stato da parte della mafia: la strage di via Palestro, nei pressi del Padiglione di Arte contemporanea. Ci furono cinque morti. Milano è infine la città in cui si terrà l’Expo nel 2015, una manifestazione che attrarrà ingenti capitali e su cui sarà importante vigilare al fine di non consentire l’infiltrazione delle mafie. Per questi e per tanti altri motivi che è necessario ricordare, per non gettare via vite sacrificate ad un valore comune a tutti: la giustizia. Marco Bevilacqua AMBIENTE Ancora un no al ritorno del nucleare: Legambiente si mobilita per un sistema energetico moderno, pulito e sicuro. «Per il clima contro il nucleare»: questo il nome della mobilitazione lanciata da Legambiente per ristabilire la verità sulla dannosità del nucleare e la sua inutilità, per il raggiungimento degli obiettivi del «20-20-20» e per alimentare il dibattito a livello territoriale sui due scenari energetici alternativi futuri. Nel dicembre 2008 l’Ue approvò un pacchetto – il cosiddetto 2020-20, appunto – che prevedeva l’abbattimento delle emissioni e l’obiettivo di ridurre di almeno il 20% i gas ad effetto serra entro il 2020 (rispetto ai livelli del 1990), portare la quota delle energie rinnovabili al 20% e diminuire il consumo generale di energia del 20% (rispetto alle proiezioni). Nel quadro della strategia di promozione delle fonti rinnovabili, è stato concordato che i mezzi di trasporto dovranno essere alimentati per il 10% da biocarburanti, energia elettrica e idrogeno. Il governo italiano ha invece deciso per un ritorno al nucleare, con il quale si prevede di produrre il 25% dell’energia elettrica e di ridurre così il costo dell’energia e delle importazioni. Le centrali nucleari sarebbero di «nuova» generazione, descritte come sicure, pulite e tecnologicamente avanzate. marzo 2010 • notizie La Conferenza delle Regioni, a fine gennaio, in seduta plenaria ha votato parere negativo al piano di costruzione di nuove centrali nucleari. Favorevoli soltanto le regioni Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia. Oltre alla preoccupazione della gestione delle procedure utilizzate, esistono leggi regionali che impediscono la costruzione di nuovi siti nucleari. Anche il presidente dell’Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Sergio Chiamparino, ha espresso preoccupazione ai ministri Scajola e Tremonti in vista dell’avvio delle procedure per la ripresa della produzione di energia da fonte nucleare, ricordando inoltre che ci sono temi rimasti aperti come la dismissione dei vecchi siti nucleari e la necessità di riqualificare le aree ancora sottoposte a vincoli. Su proposta del ministro dello Sviluppo economico Scajola, il governo ha deciso di impugnare dinanzi alla Corte costituzionale le leggi regionali di Puglia, Campania e Basilicata che impediscono l’installazione di impianti nucleari nei loro territori. Legambiente ribadisce che l’energia nucleare è una fonte energetica più costosa di altre, la produzione e lo smaltimento delle scorie rimane problema irrisolto e perdurano i rischi legati ai possibili incidenti; inoltre l’approvvigionamento di uranio necessario alla produzione è sempre più scarso. Per questi motivi si chiede un modello energetico moderno, senza nucleare e nuove centrali a carbone. Le tre grandi crisi odierne – finanziaria, energetica, climatica – sono tra loro connesse e sono il sintomo di un problema più generale, che va affrontato rifondando l’idea di sviluppo e di progresso. Incentivare il ricorso alle fonti pulite, a partire dal sole e dal vento, migliorare l’efficienza del settore energetico, industriale e residenziale, rendere più sostenibili i trasporti e utilizzare il gas come fonte fossile di transizione, sono le attività da intraprendere, secondo Legambiente, per ridurre le emissioni di CO2 senza fare ricorso al nucleare. Solo così il paese può rispettare gli accordi internazionali ed ottenere un paese più moderno, sicuro e pulito. Si può firmare l’appello sul sito Legambiente: www.legambiente.ue. Cristina Zanazzo Per maggiori informazioni: www.milluminodimeno.blog.rai.it. Stefano Specchia ECONOMIA «M’illumino di meno»: l’iniziativa di Caterpillar per sensibilizzare sul tema del risparmio energetico. La crisi è del liberismo: lanciato il Manifesto per la libertà del pensiero economico. Si è conclusa il 12 febbraio la campagna «M’illumino di meno», la fortunata iniziativa promossa dalla trasmissione radiofonica Caterpillar di Radio Due e giunta alla sua sesta edizione. L’obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sul tema del risparmio energetico e sulla promozione dell’utilizzo di fonti di energia rinnovabili a scarso impatto ambientale. Dal 4 di gennaio si sono susseguite le più svariate manifestazioni sul tema in tutto il territorio nazionale, iniziative che hanno fatto da sfondo alla corsa simbolica della «tedofora» Maria Senesi, inviata di Radio Due, la quale con una torcia fotovoltaica ha percorso decine di piazze fino ad arrivare ai Mercati Traianei di Roma, dove ad aspettarla c’era una enorme lampadina accesa dall’energia ricavata dalla pedalata di cinquanta ciclisti. La manifestazione negli anni passati si era concentrata sul risparmio dell’energia, indicando svariate pratiche di risparmio energetico attuabili da tutti nella vita di ogni giorno, mettendone in risalto sia la semplicità che la convenienza in termini ambientali ed economici. Quest’anno, dato che i tempi apparivano maturi, gli organizzatori hanno tentato, con successo, il salto di qualità: fermo restando l’impegno nel risparmio energetico, sembra ormai arrivato il momento per i cittadini di cominciare a sperimentare le nuove tecnologie ad impatto zero, la «green economy», che secondo i sostenitori della manifestazione rappresenta il primo passo verso la nascita di un’economia sostenibile, che produca ricchezza nel rispetto dell’ambiente e della salute dei cittadini. «Suscitare una discussione aperta sugli orientamenti della ricerca economica e delle sue implicazioni politiche e culturali». Questo l’obiettivo principale che si pone il «Manifesto per la libertà del pensiero economico - contro la dittatura della teoria dominante e per una nuova etica» lanciato a febbraio dall’associazione Paolo Sylos Labini. Tra le numerose adesioni, quelle di Critica liberale, dell’Associazione Rossi-Doria, dei siti Sbilanciamoci.info e Economia e politica. Hanno aderito inoltre numerosi economisti, sociologi, giornalisti e politici quali Luciano Gallino, Giorgio Ruffolo, Mario Pianta, Loretta Napoleoni, Luciano Barca, Stefano Fassina, Michele Salvati, Stefano Zamagni e Nadia Urbinati. La crisi globale ha messo in crisi le teorie economiche dominanti, che non avevano saputo cogliere «la fragilità del regime di accumulazione neoliberista», ma al contrario – si sostiene nel Manifesto – avevano contribuito a costruirlo, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento nella distribuzione dei redditi e l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno contribuito a determinare le condizioni della crisi. È necessario quindi ricondurre l’economia ai fondamenti etici che avevano ispirato il pensiero dei classici e respingere l’idea – una giustificazione di comodo per tanti economisti e commentatori economici mainstream – che esista una sola verità nella scienza economica. Occorre dare spazio alle teorie alternative – keynesiana, classica, istituzionalista, evolutiva, 38 storico-critica nella ricchezza delle loro varianti – nell’insegnamento e nella ricerca. Occorre adeguare ai tempi i nostri strumenti, assumendo l’analisi di genere nei nostri studi. È necessario – prosegue l’appello – dare «diritto di tribuna» ad ogni nuova idea economica nel segno della libertà e del libero confronto. Le concentrazioni di potere (nelle università, nei centri di ricerca nazionali e internazionali, nelle istituzioni economiche nazionali e internazionali, nei media), come quelle che hanno favorito nella fase più recente l’accettazione acritica del fondamentalismo liberista, debbono essere combattute. L’economia deve tornare «al servizio delle persone», la raffinatezza tecnica dell’analisi non deve diventare un obiettivo autoreferenziale, fonte di conformismo e di appiattimento nella formazione delle giovani leve di economisti. Per questo, va favorito un confronto critico tra impostazioni e analisi diverse. Cinque i temi su cui il Manifesto suggerisce di promuovere studi e iniziative: mercato, Stato e società; una globalizzazione dal volto umano; un nuovo umanesimo del lavoro; la riduzione delle disuguaglianze; uno sviluppo più equilibrato. Per leggere integralmente il documento: www.syloslabini.info. POLITICA Giovani per la Costituzione compie cinque anni: bilanci e idee per il futuro. Scalfaro: «La nostra Costituzione è un baluardo estremo, ma viene minacciata quotidianamente». L’8 febbraio, a Roma, si è svolto un convegno promosso dall’associazione Giovani per la Costituzione: un momento per riflettere sul passato e per formulare progetti per il futuro. L’associazione è nata a Roma nel 2005, dall’iniziativa di alcuni studenti universitari di Giurisprudenza e Scienze politiche, con l’intento di insegnare e trasmettere i valori fondanti della società italiana sanci- marzo 2010 • notizie ti dalla Costituzione. Fino ad ora conta all’attivo più di 70 progetti promossi per lo più nelle scuole ma, dal 2007, è stato avviato anche un progetto per promuovere nel carcere romano di Rebibbia lo studio, a livello universitario, di materie giuridiche. «Abbiamo creato questa associazione – ha detto il vicepresidente Mattia Stella nel suo intervento di apertura – spinti da una “missione laica di evangelizzazione” che ha per libro sacro la nostra Costituzione. Inizialmente ci siamo dati come obbiettivo finale il referendum costituzionale del 2006, ma poi abbiamo continuato, perché abbiamo percepito di nuovo tre pericoli: una revisione costituzionale bis, l’intento di uno smantellamento del sistema giudiziario, attraverso un incessante lavorio ai bordi della Costituzione, e infine una deriva culturale che ha come suo primo mezzo di diffusione internet e gli altri mass media». Timori condivisi ed amplificati dal presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, intervenuto all’incontro: «Questa Carta Costituzionale, fondamento della nostra vita democratica, sta avendo in questi tempi dei sussulti; sussulti dovuti a persone che non sono d’accordo con il principio di democrazia e di diritto, perché hanno bisogno di leggi ad personam, di trattamenti speciali. In questi giorni il pericolo è enorme. La nostra Costituzione è un baluardo estremo, ma quasi quotidianamente assistiamo a forme di soppressione, di riduzione grave della democrazia. La sua integrità viene minacciata da chi regge lo Stato. Quelli che dirigono la maggioranza non hanno dato segno di voler mutare i loro pensieri bocciati nel 2006 dalla maggioranza degli italiani. In quell’occasione si rivelò la verità com’è. E la verità è che il presidente del Consiglio vuole il potere. Ciò che temo tanto e che i cittadini italiani, pur consapevoli dei loro diritti, ci rinuncino, si ritirino, stiano a guardare. È indispensabile che non ci arrendiamo!». «Certamente la Costituzione è un baluardo – afferma il costituzionalista Alessandro Pace – ma da sola è un pezzo di carta, al massi- l’attuale legislazione nazionale in materia di tutela della salute nei posti di lavoro. Tutto ciò potrebbe riguardare la sottaciuta questione della mancata applicazione delle norme di protezione nei riguardi dell’uranio impoverito e delle nano-particelle. «Il Governo – dichiarano i deputati del Pd della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, Jean Leonard Touadi e la vicepresidente del gruppo Rosa Violecco Calidari – fa carta straccia del diritto alla salute dei militari, compresi quelli che svolgendo il proprio lavoro hanno perso la vita o hanno visto gravemente compromessa la propria salute per le patologie connesse all’uso di sostanze nocive, come l’uranio impoverito. È un vero e proprio scandalo, un grave colpo di mano nei confronti di migliaia di vittime». Chi risponderebbe, infatti, dei 216 morti e degli oltre 2.500 malati per possibile contaminazione da uranio impoverito reduci dalle nostre missioni all’estero? Ci riferiamo a quei soldati che, in Somalia (1992-94) Bosnia e Kosovo (dal 1995 al ‘99), dichiarano di aver combattuto in bermuda e maglietta verde, al fianco di militari Usa muniti di maschere, tute ed occhiali. Non reggerebbe la tesi sostenuta dal governo, secondo cui fino al ’99 (risalgono al 22 novembre di quell’anno le prime norme di protezione destinate ai militari nei Balcani) si ignoravano del tutto i rischi dovuti all’esposizione all’uranio impoverito: già dal 1984, infatti, la Nato avrebbe fornito all’Italia indicazioni precise a riguardo. Accame ribadisce dunque la mancata applicazione, da parte del ministero della Difesa, del «principio di precauzione», e l’adozione di un atteggiamento non ispirato ai principi di cautela e responsabilità. Stefania Sarallo mo vola via. Se voi non ci mettete il motore, non cammina. Se la Costituzione la diffondete tra i giovani, se viene percepita nell’animo, nell’intelligenza delle persone, allora queste persone sapranno epidermicamente come reagire ai tentativi contro di essa». Ciò trova conferma anche nell’esperienza di Renato Mazzuca, sindaco di San Giovanni in Persiceto (Bologna), uno dei paesi dove si sono svolti i progetti: «Gli studenti che partecipavano a questi progetti, quando tornavano a casa, istruivano i propri genitori sui valori della Costituzione. È stato anche grazie a loro che sono sorte tante associazioni locali con lo scopo di non far passare il referendum del 2006». E in maniera efficace riassume con uno slogan ciò che può essere definito come il filo rosso di questa giornata: «Partendo dal basso riusciremo, salendo, a scalzare questa ignoranza che ci domina dall’alto». Serena Tallarico Appello dell’associazione vittime dell’uranio impoverito per fermare il decreto «salva generali». L’Associazione vittime uranio e l’Anavafaf (Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle Forze armate e famiglie dei caduti) di Falco Accame chiedono che venga bloccato il decreto legge 1/2010, con il quale lo scorso 1° gennaio il governo ha rifinanziato le missioni internazionali di peacekeeping. Già approvato alla Camera il 9 febbraio e in discussione al Senato, per la conversione in legge, il decreto contempla al proprio interno (al quarto comma dell’art.9) delle misure che deresponsabilizzerebbero i vertici militari in relazione ai problemi di inquinamento e salute; perciò rappresenterebbe, a loro dire, una vera e propria norma «salva generali». Secondo Accame, ex ammiraglio e già presidente della Commissione Difesa di Montecitorio, la norma entra in conflitto sia con quanto stabilito dai codici militari, circa i doveri dei comandanti riguardo alla tutela della salute del personale dipendente, sia con CHIESA ITALIANA Si è svolto a Firenze, il 6 febbraio, il secondo incontro dei cattolici autoconvocati, riunitisi nel maggio del 2009 spinti 39 dal «disagio» per la situazione ecclesiale e, adesso, per individuare, in positivo, vie per affrontare il futuro. Emerse luci e ombre. «Se» e «come» organizzarsi per un eventuale e più sinodale «Firenze-3». «Il Vangelo ci libera, e non la legge»: questo il tema di «Firenze-2» che ha visto accorrere circa 400 persone, provenienti da diverse parti d’Italia e legate a variegate esperienze e realtà: parrocchie, cenacoli intellettuali, esperienze giovanili, comunità di base (Cdb), impegno universitario o nel mondo del lavoro, gruppi biblici, «Noi siamo Chiesa», centri di impegno nel sociale e nella solidarietà, «cani sciolti». Ha introdotto i lavori don Paolo Giannoni: «A “Firenze-1”, il 16 maggio scorso, abbiamo voluto affrontare il disagio che tutti viviamo nell’attuale situazione della nostra Chiesa. Ma nello stesso tempo abbiamo proposto di: a) non insistere sulla via della contestazione e b) seguire la via faticosa di cercare e di offrire una via di indicazioni positive per una presenza di Chiesa come segno e continuazione di Cristo-vangelo. Abbiamo così inteso affiancare a una critica che stimiamo una forma di appassionata partecipazione ecclesiale, il percorso austero di una presa di coscienza come base di una prospettiva in positivo, che non si pone con intento alternativo ma come offerta per una chiarificazione del compito che spetta alla Chiesa di oggi». È seguita la relazione del teologo don Pino Ruggieri, su «Oltre il demone dell’etica: il Padre di Gesù», e quindi quella del biblista Romano Penna su «Il Vangelo fine della legge: Gesù e Paolo». Due dense relazioni che sono state variamente commentate dai brevi interventi di chi, poi, in tre minuti, voleva chiedere un approfondimento, proporre un diverso punto di vista o suggerire che, dai grandi princìpi, si scendesse poi a problematiche assai vive e dirimenti (tipo il giudizio etico, di fronte a Dio, sul testamento biologico, quando non si è d’accordo con il richiamo alla «legge naturale» invocato dalle marzo 2010 • notizie gerarchie ecclesiastiche per risolvere problemi complessi). Nel pomeriggio vi sono state le testimonianze di Rita Intiso, piccola sorella di Gesù, e di Daniele Simonazzi (un sacerdote che opera nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina). Quindi, riportando anche il pensiero di Italo De Sandre, assente, la teologa Maria Cristina Bartolomei ha parlato «Sulla situazione attuale della Chiesa», aprendo scenari interessanti. Sono quindi seguiti altri liberi interventi: varie le sensibilità espresse, soprattutto sul «se» e «come» ipotizzare l’eventuale «Firenze-3». «Se»: qualcuno ha fatto capire che diserterà il prossimo incontro se in esso programmaticamente si evitasse un confronto aperto sui temi che lacerano la comunità ecclesiale, o si tacesse su vicende scottanti (tipo il caso di don Alessandro Santoro a Firenze; vedi Confronti 12/2009). «Come»: il prossimo appuntamento – ha proposto qualche altro – dovrebbe fare un salto di qualità: essere «sponsorizzato» da più realtà ecclesiali ed avere nello stesso gruppo promotore testimoni di esperienze al momento non rappresentate. A «Firenze-2», i presenti, pur numerosi, erano notevolmente di meno che all’appuntamento del 2009, e vi erano pochissimi giovani: ciò dovrebbe spingere – altro rilievo – a interrogarsi sulle ragioni di questa disaffezione. Giannoni, da parte sua, concludendo l’incontro ha fatto balenare, per il... domani, un convegno di diversi giorni, nel quale sia possibile una partecipazione più ampia e «sinodale». Al convegno si poteva acquistare Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa italiana, a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri – ma hanno collaborato anche Giannoni, Enrico Peyretti e Ugo Gianni Rosenberg – edito da Carocci (174pagine, 17,50 euro) che in sostanza contiene gli atti di «Firenze-1», più un ampio saggio di Melloni, «non presentato all’assemblea dell’anno scorso, ma opportuno per offrire materiali utili alla comprensione dello stato attuale della chiesa». Si intitola: «L’occasione perduta. Appunti sulla storia della chiesa italiana, 19782009». David Gabrielli scontro sui principi e sui valori assoluti della vita. Alla fine della giornata, il bilancio etico è disastroso: nessun ragionamento, nessun rispetto, nessuna compassione. Solo, ancora una volta, giudizi dogmatici, siano essi teologici o giuridici. In questa battaglia attorno al corpo di Eluana non è mai risuonata la parola dell’amore e della speranza in Cristo. Qualcuno di noi lo ha fatto pregando e restando in silenzio, ripensando a un gesto e a una storia di fronte alla quale tutti – uomini e donne di fede ma anche politici e commentatori – dovrebbero anche trovare il tempo per tacere, riflettere, interrogarsi. Riesumare un corpo per giudicarlo e per colpire ancora una volta chi lo ha accompagnato nelle sue ultime ore è una brutta operazione, priva di amore e di compassione. Per questo io, da credente, sto con papà Englaro. Maria Bonafede ELUANA ENGLARO La pastora Bonafede, moderatora della Tavola valdese, deplora il continuo uso politico e ideologico della vicenda. Riportiamo di seguito la dichiarazione rilasciata dalla pastora Maria Bonafede a un anno dalla morte di Eluana Englaro (comunicato dell’agenzia Nev del 10 febbraio). Brutto giorno l’anniversario della morte di Eluana Englaro, e non solo per il ricordo di una storia dolorosa e lacerante ma anche – soprattutto – per l’uso che si è voluto fare di questa ricorrenza. Un uso politico e ideologico che dimostra come la dignitosa e mille volte motivata scelta di papà Beppino non sia stata né capita né tanto meno rispettata da parte di chi avrebbe preferito prolungare all’infinito la sopravvivenza puramente tecnica di una giovane donna che aveva chiesto di morire con dignità. Quello che ci ha colpito ieri non è stata la riapertura di un dibattito che fatalmente imporrà a breve una scelta politica da parte del Parlamento. Su temi così delicati e controversi è giusto e necessario che si apra un pubblico dibattito che attraversa le forze politiche, la società civile e le comunità di fede. Ci ha costernato, però, che piuttosto che partecipare a un dibattito pluralista nel quale si confrontano pensieri ed etiche differenti, uomini delle istituzioni ed esponenti della Chiesa cattolica si siano buttati, ancora una volta, sul corpo di Eluana. Lo hanno nuovamente stretto nelle loro mani e nei loro ragionamenti per affermare tesi già ampiamente espresse e ancora più ampiamente amplificate dai media. E così il corpo di una giovane donna ormai morta, paradossalmente, ha ripreso ad essere il teatro di uno DOSSIER Dopo Rosarno: un approfondimento sui temi dell’immigrazione a cura della Fcei «Dopo Rosarno» è il titolo del dossier curato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia in collaborazione con Riforma, in occasione della Festa del XVII Febbraio (che ricorda la firma, nell’anno 1848, delle Lettere patenti con cui il re Carlo Alberto estendeva i diritti civili ai suoi sudditi valdesi). I drammatici fatti di Rosarno ripropongono i complessi problemi dell’immigrazione in Italia, dell’integrazione di migliaia di lavoratori stranieri e di politiche in grado di governare un fenomeno estremamente complesso; senza pregiudizi, contro ogni razzismo, coerente con la nostra Costituzione e con le normative europee. Il dossier è stato pubblicato come inserto del n. 6 di Riforma del 12 febbraio. È possibile ordinare copie extra (al prezzo di 1 euro ciascuna) rivolgendosi alla redazione di Riforma: tel. 011 655 278, e-mail [email protected]. 40 «Abbiamo voluto collegare libertà e diritti di ieri, quelli che per la prima volta furono concessi ai valdesi del Piemonte da re Carlo Alberto, a libertà e diritti di oggi: quelli che ancora non sono adeguatamente garantiti a milioni di immigrati presenti in Italia – spiega il pastore Massimo Aquilante, presidente della Fcei –. Ci impegneremo perché questa pubblicazione arrivi anche nelle mani di chi a livello locale o nazionale ha responsabilità pubbliche. Il tema dell’immigrazione è troppo importante sotto il profilo politico, costituzionale, etico e religioso per poterlo affrontare con pochi slogan semplificatori: per questo, anche a partire dal Dossier, intendiamo contribuire a un’ampia riflessione pubblica su questo tema strategico per la vita e la qualità di ogni democrazia. La normativa italiana sull’immigrazione – prosegue Aquilante – è confusa ed è troppo condizionata da un clima di pregiudizio, paura e tensione nei confronti degli immigrati. Sull’immigrazione occorrono un nuovo pensiero e una nuova politica». Il Dossier raccoglie i contributi di diversi esperti del tema dell’immigrazione e di alcuni operatori: oltre a un’introduzione a cura dello stesso Aquilante, propone interventi di Stefano Allievi, Franca Di Lecce, Mostafa El Ayoubi, Giuseppe La Pietra, Paolo Naso, Tonino Perna, Brunetto Salvarani. Oltre al Dossier, in occasione della festa del XVII Febbraio la Fcei propone anche il volume a cura di Dora Bognandi Sentieri di libertà. Contributi protestanti in ambito sociale (edito dalla Claudiana). Il testo ricostruisce il contributo protestante ad alcuni passaggi della modernità e, in particolare, all’alfabetizzazione, allo studio approfondito delle lingue antiche, allo sviluppo editoriale e quindi alla libera circolazione delle idee. «La rivalutazione delle potenzialità e del valore dell’individuo – si legge nella presentazione – hanno condotto alle battaglie in favore della libertà religiosa, dei diritti umani, della parità di genere». Alessandro Calamani le rubriche marzo 2010 confronti OSSERVATORIO SULLE FEDI «Tranquilli, è in arrivo l’Apocalisse» Antonio Delrio Una grande campagna pubblicitaria ha annunciato un ciclo di conferenze promosse dalla Chiesa cristiana avventista del Settimo giorno, che si sono svolte a partire dal 6 febbraio scorso per circa un mese, sul messaggio – spesso frainteso – contenuto nell’Apocalisse. Il 30 marzo 2010, dopo il tramonto, nelle loro 3.100 congregazioni in Italia, come anche nelle 105mila congregazioni in tutto il mondo, i testimoni di Geova commemoreranno la morte di Gesù Cristo. L’indirizzo di posta elettronica del curatore di questa rubrica è [email protected]. N egli scorsi mesi è stato davvero impossibile non notare a Roma la scritta «Tranquilli, è in arrivo l’Apocalisse» in bella evidenza su uno sfondo rosso. Circa 750.000 volantini distribuiti a tappeto in tutta la città, la pubblicità su circa 100 autobus di linea, e nella metropolitana anche con dei video, spot radiofonici e inserzioni pubblicitarie su diversi giornali invitavano ad una serie di conferenze che a partire dal 6 febbraio 2010, e per circa un mese, si sarebbero tenute presso l’Auditorium San Leone Magno. «Nella società occidentale, in questo ultimo periodo, la parola Apocalisse è sulla bocca di tutti. Ne parlano spesso gli scienziati a proposito degli sviluppi ambientali del nostro pianeta, ne parlano gli economisti a causa della crisi delle banche, ne parlano i politici quando si riferiscono ai grossi disagi umani in alcune zone particolarmente calde del nostro paese, ne parlano i giornalisti quando presentano tragedie, incidenti e scenari sconcertanti», ha affermato il pastore Daniele Benini, presidente della Chiesa cristiana avventista del Settimo giorno e responsabile di questo progetto. Ma la lettura dell’Apocalisse proposta non sarebbe stata quella legata agli avvenimenti catastrofici solitamente affiancati alla «fine del mondo». «Se l’autore considera “felici” coloro che leggono e ascoltano l’Apocalisse (cioè la rivelazione profetica di Dio) – ha spiegato Benini – significa che il contenuto del messaggio non può essere spaventevole o catastrofico, ma trasmettere invece felicità e speranza». Comunque l’iniziativa ha dovuto superare difficoltà impreviste. Solo 4 giorni prima dell’inizio delle conferenze, nonostante l’8 maggio 2009 fosse stato stipulato un regolare contratto con l’Auditorium San Leone Magno, gli organizzatori hanno ricevuto dal centro la co- municazione di disdetta unilaterale «dell’impegno sottoscritto». Ma nonostante questo, sabato 6 febbraio 2010 alle ore 20, presso l’Auditorium della Chiesa cristiana avventista in piazza Vulture, il ciclo di conferenze è partito. I timori di un fallimento dell’iniziativa per il cambiamento all’ultimo momento della sede dell’evento sono stati fugati dal flusso di persone che ha riempito l’Auditorium. La sala principale non è bastata ad accogliere i partecipanti e l’organizzazione ha dovuto allestire una seconda sala in collegamento audio video. Alla prima conferenza sono state presenti circa 950 persone. Dalla successiva il numero si è attestato intorno ai circa 800 partecipanti dei quali, secondo gli organizzatori, circa la metà non appartenevano alla Chiesa avventista. A parlare del messaggio, spesso frainteso, contenuto nell’Apocalisse è stato il pastore Shawn Boonstra, direttore del canale televisivo «It Is Written». Conferenziere internazionale, negli ultimi anni ha diretto 30 grandi eventi di evangelizzazione pubblica e ha scritto numerosi volumi. In un’intervista rilasciata a Rai News24 il giorno prima dell’inizio delle conferenze (intervista che è possibile rivedere su http://altrevoci.blog.rainews24.it/2010/02/05/la-fine-del-mondo), Boonstra ha spiegato che la cosa importante per lui è dare alle persone gli strumenti affinché possano leggere da sole le Sacre Scritture e capirle. Alla domanda se possiamo stare tranquilli perché sta arrivando l’Apocalisse, Boonstra ha risposto di non poter certo assicurare che non ci saranno dei problemi, ma di poter affermare con certezza che ci sarà un lieto fine. Le 23 conferenze sono terminate il 6 marzo ed è possibile ascoltarle scaricando i file audio registrati giorno per giorno da www.apocalisseunmessaggiodipace.it/download.html. I TESTIMONI DI GEOVA E LA MORTE DI GESÙ CRISTO Martedì 30 marzo 2010, dopo il tramonto, nelle loro 3.100 congregazioni in Italia, come anche nelle 105.000 congregazioni in tutto il mondo, i testimoni di Geova commemorano la morte di Gesù Cristo. La «Commemorazione della morte di Gesù Cristo» è la più importante celebrazione di questa confessione cristiana, per la quale si richiama- no alle parole che Gesù Cristo stesso pronunciò durante l’ultima cena: «Continuate a far questo in ricordo di me». La celebrazione, chiamata anche «Pasto serale del Signore», viene tenuta una sola volta all’anno, nel giorno in cui secondo la tradizione lo stesso Gesù venne ucciso, corrispondente al 14 nisan del calendario ebraico. La celebrazione ha inizio 41 con un canto e una preghiera. Poi un ministro di culto pronuncia un discorso, volto a commentare alcuni brani delle Sacre Scritture relativi al significato della morte di Gesù, che sacrificò se stesso e versò il suo sangue per il perdono dei peccati. Per i Testimoni di Geova, che non credono né nella transustanziazione né nella consustanziazione, il pane non lievitato e il vino rosso rimangono semplicemente simboli del corpo senza peccato e del sangue di Gesù e secondo la loro cristologia il sacrificio di Gesù è il fondamentale atto di Dio nella storia dell’uomo, atto con il quale il prezzo dei peccati del genere umano viene riscattato riaprendo la possibilità di vivere per sempre nel Paradiso sulla Terra. le rubriche marzo 2010 confronti NOTE DAL MARGINE Il vero volto di Eluana Giovanni Franzoni Il 9 febbraio di un anno fa moriva Eluana Englaro; di essa i media continuavano a mostrare il volto felice che la ragazza aveva prima dell’incidente che l’avrebbe posta in coma irreversibile e in stato vegetativo permanente per diciassette anni. L’uso ideologico e politico del suo dramma. U na consuetudine millenaria ha insegnato agli uomini a leggere nei volti distesi e luminosi la vita, in tutte le sue forme. Per questo, nella Bibbia, il libro della Genesi ci dice che Dio lesse nel volto divenuto torvo e oscuro di Caino un disegno di morte e lo allertò tempestivamente. Gesù di Nazaret, un po’ più tardi, insegnò ai suoi discepoli che quando gli occhi sono luminosi, tutto il nostro corpo è nella luce. Dio, perciò, chiede rispetto per il Suo volto, e riserva solo al culmine del percorso dell’amore di potersi manifestare faccia a faccia; e in molte culture religiose si evita di rappresentare il volto degli esseri umani. Mi accorsi una volta in Libano che scattando delle fotografie – come siamo soliti fare noi occidentali, inconsapevoli e stolti – alcuni bambini si coprivano il volto: erano di famiglie islamiche osservanti, che avevano insegnato ai loro bimbi di non regalare il loro volto ai turisti o ai benefattori di passaggio. Così appresi la lezione! Ma non di un argomento così complesso come il volto umano, fatto «ad immagine e somiglianza» del Creatore, volevo parlare, bensì di un volto più vicino ai nostri tempi e ai nostri usi ed abusi: il volto di Eluana Englaro. Per tutto il tempo dell’oscena campagna per affermare ideologicamente e politicamente che Eluana era viva, e doveva essere alimentata, la stampa e la tv hanno ostentato il suo volto sorridente e felice, profanandone la dignità. In realtà si trattava di foto scattate sedici anni prima, comunque prima dell’incidente che l’aveva imprigionata nel coma e che aveva dato accesso nel suo corpo alla progressiva espansione della morte. Il volto di Eluana, quello vero, non mentiva e manifestava la progressiva devastazione della morte, ma il volto vero non serviva alla politica o all’ideologia: da qui la menzogna della fotografia ormai insultante e beffarda nei riguardi della drammatica realtà. Papà Englaro si è opposto con fermezza a questo sopruso, ma non è stato ascoltato. Per smentire la menzogna che Eluana fosse viva e 42 che dovesse essere alimentata ad oltranza, si sarebbe dovuto pubblicare la fotografia vera del volto devastato dalla morte, ma questa sarebbe stata un’altra bestemmia, e quindi si è seguitato fino all’ultimo ad abusare del suo volto. Ma ormai basta; ho detto fin troppo! Bisognerà aprire il discorso sul diritto alla riconoscibilità nella parte terminale della vita. Si è fin troppo insistito sul diritto ad evitare cure ed alimentazioni inutili, perché provocano solo sofferenza. Ritengo che il desiderio di porre termine alla vita non derivi solo da fuga dalla sofferenza ma dalla irriconoscibilità della condizione di vita, rispetto a ciò che si è per se stessi. Quando non mi riconosco, e non mi riconoscono più i miei, sono ancora io? le rubriche marzo 2010 confronti OPINIONE «Se Dio è maschio, il maschio è Dio» Stefania Sarallo È morta nel gennaio scorso la teologa femminista radicale statunitense Mary Daly. La sua accurata analisi dei simboli intrinsecamente sessisti del cristianesimo – a cominciare da quello di Dio Padre – rappresentò una sfida e una minaccia ai metodi più tradizionali del fare teologia. Di tali simboli denunciava il carattere parziale e idolatrico e il fatto che venissero usati per negare alle donne una completa umanità e un accesso al divino. F ilosofa e teologa, femminista radicale, Mary Daly rappresenta senz’altro una delle voci più incisive ed autorevoli del movimento per i diritti delle donne degli anni Settanta. A ridosso della sua morte, avvenuta lo scorso 3 gennaio all’età di 81 anni, molti hanno tentato di tracciare i contorni dell’opera di questa celebre femminista americana, la cui creatività di pensiero e di linguaggio furono tali da rendere inadeguato il ricorso a qualunque categoria precostituita. «Un vulcano dentro un vulcano», l’ha definita la filosofa Luisa Muraro (il manifesto del 6/1/10). Del vulcano Daly possedeva di certo l’energia dirompente, rinvenibile nelle sue opere e in quei percorsi di vita che l’hanno resa modello di azione progressista per molte donne. Con La chiesa e il secondo sesso (1968), che rappresenta la prima articolata risposta cattolica a Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, Mary Daly si colloca alle origini prossime della teologia femminista. In quest’opera Daly, pur partendo da prospettive opposte rispetto a quelle della filosofa francese, fu costretta ad ammettere il carattere veritiero e la fondatezza storica delle affermazioni di quest’ultima circa il contribuito che il cristianesimo avrebbe fornito allo stato di oppressione della donna. A quel tempo la giovane teologa riteneva che fosse ancora possibile riappropriarsi dell’autentico messaggio cristiano, quello di liberazione e di speranza, contenuto nel Vangelo, ed è proprio in virtù di ciò che, sulla scia del clima di profondo cambiamento e del senso di speranza che seguirono il Concilio Vaticano II, sostenne con coraggio ed estrema convinzione la necessità di un vasto programma di riforme della dottrina e della prassi della Chiesa, che fosse in grado di rispondere alle istanze di rinnovamento del movimento delle donne. Quando nel 1969 fu sollevata dall’incarico di docenza presso il Boston College di New York, istituto tenuto dai gesuiti, non fu difficile ravvisare la causa di questa decisione nel contenuto del suo libro. La vicenda, che suscitò grandi proteste studentesche e un forte richiamo mediatico, si concluse con una sua reintegrazione nella mansione ad un livello più alto. Ma a quel punto a Daly non restava che ammettere il fallimento del suo tentativo di aprire un confronto schietto e leale con la Chiesa romana, cui fece conseguire una revisione delle posizioni precedentemente espresse e la presa di coscienza del carattere utopistico di ogni tentativo volto a liberare le donne in nome del cristianesimo. «Una donna che chiedesse la parità nella Chiesa – avrebbe scritto nel 1975 – avrebbe potuto essere paragonata a un nero che chiedesse la parità nel Ku Klux 43 Klan». In Al di là di Dio padre, pubblicato nel 1973, la sua riflessione si svolgeva già ai margini del pensiero tradizionale: quest’opera segna il suo congedo dal cristianesimo e dalle sue istituzioni, e il conseguente approdo ad una spiritualità «post-cristiana». La sua accurata analisi dei simboli intrinsecamente sessisti del cristianesimo (in primis quello di Dio Padre), rappresentò una sfida e una minaccia ai metodi più tradizionali del fare teologia. Di tali simboli denunciava il carattere parziale e idolatrico: usati per negare alle donne una completa umanità e un accesso al divino, essi meritano di essere «castrati». Sosteneva in modo incisivo: «Se Dio è maschio, il maschio è Dio». Rinunciando a tutto ciò che è dato e «normato», fornì quindi il suo originale contributo al processo di «nominare Dio», optando per un linguaggio «dinamico», capace di essere inclusivo dell’esperienza umana nella sua totalità, dunque veramente «antropo-morfo»: Dio è Verbo, Be-ing (Essere), il verbo più dinamico di tutti, cui uomini e donne partecipano in egual misura. Con la pubblicazione di Gyn/Ecology (1978) e Pure Lust (1984), si assiste ad un’ulteriore progressiva radicalizzazione delle sue posizioni, che muovono in direzione di un vero e proprio ribaltamento della prospettiva patriarcale, a favore di quella «gino-centrica» e del recupero del simbolo della dea, dietro il quale si intravede un processo di liberazione totalmente al femminile. In modi molteplici, che corrispondono alle diverse posizioni assunte nel corso degli anni, Mary Daly ha contribuito senza alcun dubbio a creare un’enorme libertà psicologica per le donne, alle quali mostrò la concreta possibilità di abbandono della Chiesa fornendo, oltretutto, alternative accettabili. Fuori dai sacri rifugi dei miti religiosi patriarcali, al di là di Dio Padre e della tradizione ebraico-cristiana, sulla sua scia un numero sempre più significativo di donne si costituì come «minoranza conoscitiva» ed esplorò nuovi spazi alla ricerca di forme di spiritualità più consone alle loro esigenze e aspirazioni. La dinamica essenzialmente rivoluzionaria di queste femministe radicali le portò al di là dell’uguaglianza, verso la liberazione e la «ridefinizione del potere», inteso come autoaffermazione di un essere a lungo alienato e definito come l’«altro» rispetto all’«io» maschile. Unite dal patto di «sorellanza», che implica la «liberazione della donna da parte della donna», fanno il loro ingresso in un nuovo «spazio-tempo femminista», situato alle frontiere delle istituzioni patriarcali, dentro il quale è loro concesso di fare esperienza di se stesse e della realtà ultima cui partecipano. le rubriche marzo 2010 confronti OPINIONE Haiti: i dannati della Terra Giuliano Ligabue C’è voluto il sisma devastante del 12 gennaio scorso per far uscire Haiti dall’ombra e metterla – anche se per poche settimane – al centro dell’attenzione del mondo intero, facendoci scoprire la sua miseria e la sua disperazione, la dipendenza dalle calamità naturali e l’asservimento ai potenti di passaggio, la prostituzione minorile e la caccia ai bambini. S e nel 1815 Simon Bolivar, «el libertador», vi mette piede per cercarvi armi e soldi con cui partire alla conquista della libertà di ogni schiavo d’oltreoceano, è perché quella terra – Haiti – è, ormai da una decina d’anni, il primo stato indipendente dell’America Latina; anche se, poi, è solo apparentemente una repubblica e per nulla una fucina di rivoluzioni, governata com’è da un imperatore, Dessalines, schiavo nero proveniente dalle piantagioni del nord. Di indipendenza, Haiti nella sua storia ne avrà tanta quanto le concederanno i suoi continui «imperatori», neri o mulatti, americani o europei; e sempre insieme, comunque, al controllo politico esterno degli occidentali – gli Stati Uniti per le Americhe, la Francia per l’Europa. Questo è il suo dato costante, che a governarla si chiamasse Dessalines o Toussaint L’Ouverture o Duvalier o Aristide. La ragione di tanta secolare attenzione e dominio non è certamente economica. Si prenda una di quelle carte assorbenti che si usavano un tempo a scuola, la si stringa nel pugno e la si appoggi sul tavolo: questa è Haiti: un territorio di poco più grande della nostra Sicilia e con il doppio della sua popolazione, accartocciato su se stesso, montuoso fino ad avvicinarsi ai tremila metri, aspro nei suoi boschi radi e spellati. Neppure l’ombra d’un qualche paradiso caraibico: solo un terzo del suolo coltivato, poi canne da zucchero e sterpaglie; strade sterrate e sassi; roccia e mare, con zatteroni alla speranza di pesca; tante casupole di legno e qualche agglomerato con la presunzione di essere cittadina; e Portau-Prince, ammasso disordinato di costruzioni con tentacoli di bidonvilles e, nel suo ventre, un terzo della popolazione di tutta l’isola. La popolazione è straripante di bambini, perché la vecchiaia è una possibilità reale per pochi, decimata com’è dalla fame endemica, dalla denutrizione, dalle malattie infettive, dall’Aids; è privata dello strumento della parola, per l’analfabetismo che cresce negli anni; le manca la speranza di sollevarsi dalla terra, come si legge nello sguardo del tagliatore di canne in direzione della vicina Cuba, quasi un miraggio. Insieme a tutto questo, una popolazione dalla atavica incapacità di scuotersi dalla miseria, di mettersi insieme e di ribellarsi. Rappresentazione efficace di quello che è stata e continua ad essere Haiti può essere considerata la dittatura dei Duvalier, non ancora così lontana nel tempo. Per quasi trent’anni e fino al 1986 Papà Doc e, a seguire, il figlio Jean-Claude hanno fatto strame, indisturbati, di questo popolo e di questa terra: la desertificazione delle montagne e l’inagibilità del terri- 44 torio; l’assenza di vie di comunicazione e di mezzi di trasporto; la mancanza di ospedali e di tutele sanitarie; il lavoro mercenario e servile; l’uso della stregoneria voodoo per incatenare gli spiriti; la vita svuotata di valore, se si poteva uccidere e abbandonare i corpi sulla strada. E, per giocare con il terrore, far sapere di essere morto e poi risorgere il giorno dopo, eliminando gli avversari; per stordire le menti, moltiplicare le occasioni di un carnevale nazionale; per controllare tutto, in ogni angolo e anfratto, fare stazionare gli uomini-spettro («tontons macoutes») con volto coperto, sciarpa rossa, occhiali da sole e, in mano, il machete. Haiti è stata ed è l’isola dei dannati della Terra, quelli di cui scriveva mezzo secolo fa Frantz Fanon, proveniente dalla vicina Martinica, anche lui da schiavi africani. C’è voluto il sisma devastante del 12 gennaio per farcene parlare e scoprire la sua miseria e la sua disperazione, la dipendenza dalle calamità naturali e l’asservimento ai potenti di passaggio, la prostituzione minorile e la caccia ai bambini. Bambini che sono tanti perché mancano gli anziani; che non sono «angeli», come nella melensa retorica dei nostri rotocalchi, ma creature dagli occhi grandi e senza lacrime. Creature destinate a essere dannate. Abbiamo vissuto settimane di rincorse a essere i primi negli aiuti: Stati Uniti e Francia a contendersi la prelazione, ancora una volta; Chavez e Castro, guardinghi da vicino; noi occidentali, anche con supervisori alla Bertolaso. Gli aiuti internazionali non possono e non devono mancare, ma non c’è bisogno di corsa al primato del buon cuore; soprattutto va evitata la retorica della compassione e del fervore: «Il fervore è l’arma preferita degli impotenti», scriveva Fanon, parlando dei suoi dannati. Cosa, allora? Torna alla mente la figura di padre Riou, sacerdote belga che, nella località di Les Cayes a sud di Port-au-Prince, alla fine degli anni Sessanta e imperante Papà Doc, aveva dato vita a una comunità di haitiani e volontari franco-belgi – agronomi, infermieri, alfabetizzatori – guardati a vista dai tontons macoutes, insospettiti dalle attività sovversive che si intravedevano: riunioni intorno a pezzi di terra, per insegnare a recuperarli alla produzione contadina; raccolta delle donne dei dintorni, per istruirle sulle difese sanitarie e addestrarle al parto autonomo; staffette nei villaggi per fare provare ai bambini il piacere e l’importanza della lettura e della scrittura. E questo padre Riou che tutto accompagnava e su tutti martellava la sua frase franco-créola: «mettòn ensèm!». Questa, probabilmente, è la via maestra da seguire. Si aiutino gli haitiani a «mettersi insieme», se li si vuole davvero salvi dalla dannazione. le rubriche marzo 2010 «Tra le nuvole» di Jason Reitman con George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick, Jason Bateman, Danny McBride Usa 2009 CINEMA Se il tagliatore di teste si toglie la corazza Umberto Brancia Ryan Bingham, il protagonista di «Tra le nuvole» di Jason Reitman, è uno di quei tecnici chiamati dalle aziende in crisi per licenziare i dipendenti giudicati in esubero. Per riuscire al meglio nel suo lavoro, si è dovuto costruire una corazza psicologica che lo rende impermeabile ai rapporti umani. Ma a un certo punto la sua coscienza comincia a risvegliarsi. confronti S in dall’avvento del sonoro, nel cinema americano la commedia è stata un genere narrativo capace di interpretare i sogni e gli incubi dell’uomo medio anticipando le tendenze della società. Temi come i cambiamenti della coppia e l’ambiguità sessuale sono stati raccontati da registi come Howard Hawks e George Cukor (Susanna, 1938; La costola di Adamo, 1949), o quello della povertà da Preston Sturges (I dimenticati, 1941). Negli ultimi decenni, con l’avvento della società urbana e della metropoli, viene a volte affrontato un argomento centrale nella nostra vita concreta: il tempo, il modo come ci opprime nel lavoro o come lo perdiamo inutilmente nel consumo. Basti citare, tra i tanti, molti film di Jerry Lewis o quel Ricomincio da capo (1993) di Harold Ramis, divenuto con gli anni un piccolo mito. In quella commedia, un cinico presentatore televisivo, che curava una rubrica di meteorologia, si trovava invischiato in una bolla temporale, costretto a ripetere ogni giorno le stesse situazioni della propria vita. Con una faticosa presa di coscienza imparava – alla fine – a usare le proprie giornate con un altro ritmo, cambiando la propria visione morale. Anche Ryan Bingham, il protagonista di Tra le nuvole (2009) di Jason Reitman, usa il proprio tempo in un modo singolare: il suo tipo di lavoro condiziona in- 45 teramente il rapporto che stabilisce con gli uomini. È un «tagliatore di teste», uno di quei tecnici chiamati dalle aziende in crisi per licenziare i dipendenti giudicati in esubero. Si muove in tutte le aree del paese, trascorrendo la maggior parte del proprio tempo in aereo e sulle poltrone delle sale d’attesa. Orgoglioso della propria abilità, si è costruito una corazza psicologica, che lo rende impermeabile ai rapporti umani. È affetto dalla stessa anoressia emotiva del protagonista di Ricomincio da capo: negli esseri umani che gli capitano di fronte, non sa vedere altro che dei numeri. La sua unica preoccupazione è quella di conquistare i premi e i privilegi economici previsti per i successi raggiunti: ovvero quando riesce a cacciare più persone possibili dal proprio posto di lavoro. Tenta di convincersi che si possano vivere i rapporti umani senza pesi. Vuole muoversi nell’esistenza leggero come viaggia tutto l’anno sugli aerei, con pochissimo bagaglio. Ma muoversi nella vita concreta degli uomini è più complicato: come accade spesso nel cinema americano, saranno due donne ad aprire varchi dolorosi nella sua coscienza. Costruito con rigore – attori efficacissimi, battute taglienti, tra cinismo e melanconia – il film di Reitman ha i modi e la tecnica di un prodotto di genere e cerca apertamente il consenso del grande pubblico. Ma tra le pieghe di una narrazione elegante emerge un’angoscia autentica per la vita che ogni giorno conduciamo nel mondo del lavoro e nelle strade della città. Osservate la compassione dolorosa con cui il regista lavora sui volti degli impiegati che vengono licenziati: una sfilata di caratteri imperdibile che vi farà amare questo film. le rubriche marzo 2010 Adnane Mokrani «Leggere il Corano a Roma» Collana Strumenti di pace del Cipax n. 18 Icone Edizioni, Roma 2010 176 pagine, 14 euro (per informazioni e acquisto: [email protected]) LIBRO La lettura del Corano e le domande del nostro tempo Giorgio Piacentini Come leggere il Corano, rivelato quattordici secoli fa, qui e ora? La volontà di Dio e la sua Parola sono infatti incarnati nella storia e il lettore oggi può accogliere quello che la sua capacità di ascolto gli permette, in funzione della sua maturità spirituale. Le diverse letture analizzate da Mokrani ci guidano verso una ricerca di senso, sempre necessaria per accogliere la Parola. confronti « F orse ho trovato un fratello, ma non è stato partorito da mia madre». Con questo modo di dire arabo apre la sua prefazione al libro di Adnane Mokrani, Leggere il Corano a Roma, Paolo Branca, professore alla Cattolica di Milano, da anni impegnato nel faticoso ma appassionante lavoro della comunicazione interculturale e interreligiosa con l’islam. Il libro offre una prospettiva nuova al tema così attuale e delicato dell’incontro tra cultura musulmana e cultura cristiana. La novità si trova in primo luogo nella biografia stessa dell’autore, che dalla città di Tunisi, dove è nato nel 1966 e dove ha conseguito un dottorato in teologia islamica, è arrivato a Roma nel 1998, passando attraverso Costantina e Algeri, dove il Corano gli è stato «rivelato» tramite l’educazione familiare e lo studio. A Roma Mokrani ha trovato un ambiente accogliente nel Centro Giovanni XXIII tra molti studenti stranieri, poi nella Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino (Angelicum) dove ha studiato. Al Pontificio istituto di studi arabi e di islamistica (Pisai), ha conseguito un secondo dottorato, completando così la sua formazione cresciuta tra due mondi così diversi. Divenuto docente alla Pontificia Università gregoriana e al Pisai, ha lavorato anche in ambienti laici presso le agenzie di stampa Adnkronos e Agi e nel Consiglio per la redazione e la promozione della «Carta della cittadinanza e dell’integrazione», costituito dal ministro Amato (2006-2008). Il libro può quindi essere letto a due livelli: quello dell’esperienza e del coinvolgimento personale dell’autore e quello della ricerca attenta ed approfondita, sulla base delle sue competenze scientifiche, due piani che si nutrono a vicenda per la gioia del lettore. Così i temi si dipanano tra il racconto del suo «pellegrinaggio dialogico» e la mistica del dialogo con un’incursione importante nel confronto tra la grande mistica musulmana Rabi‘a al-‘Adawiyya (VIII secolo) e Angela da Foligno (XIII secolo) autrice del bellissimo «Liber». Le «prove d’interpretazione» affrontano una lettura innovativa del Corano sulla base dell’approccio della comunità sapienziale Sufi, come antidoto al fondamentalismo e al letteralismo. L’ermeneutica coranica è il nodo cruciale. Come leggere il Corano, rivelato quattordici secoli fa, qui e ora? La volontà di Dio e la sua Parola sono infatti incarnati nella storia e il lettore oggi può accogliere 46 quello che la sua capacità di ascolto gli permette, in funzione della sua maturità spirituale. Le diverse letture analizzate da Mokrani (legalista, razionale e con il cuore) ci guidano verso una ricerca di senso, sempre necessaria per accogliere la Parola; il metodo proposto si basa sulla «carità ermeneutica» senza trascurare le domande del nostro tempo. Un altro tema affrontato è quello della sofferenza: dietro la cultura e le religioni c’è sempre l’esperienza esistenziale. Anche la vita del Profeta Muhammad ne è stata toccata. Ogni passaggio attraverso il dolore è un parto per dar nascita a una nuova vita: ne è un esempio anche il parto di Maria, che dà all’autore il destro per un’analogia con la passione e resurrezione di Cristo. Un capitolo fondamentale è quello dedicato al pluralismo religioso nel Corano, che permette di sciogliere i nodi di un’interpretazione esclusivista e fondamentalista del libro rivelato. Secondo Mokrani la pluralità delle religioni rientra nel disegno di Dio: «Ognuno ha una direzione verso la quale volgere il viso, gareggiate nel bene» (Corano 2: 148). Il Corano stesso invita i seguaci dell’ebraismo e del cristianesimo a vivere pienamente le loro scritture. Il capitolo «guerra e pace» approfondisce le ombre della violenza (razzismo, crimine fraterno, violenza contro l’ambiente e contro le donne), mentre alla condanna del terrorismo è dedicata la bellissima lettera inviata a Ragheed Ganni, compagno di studi all’Angelicum, sacerdote caldeo iracheno, ucciso con tre suddiaconi davanti alla sua chiesa di Mossul. L’itinerario si conclude con una risposta alle sfide della modernità e della democrazia. Esse richiedono alla religione riforme coraggiose e profondi aggiornamenti, che debbono toccare i sistemi culturali per proporre forme di maturità civile e arrivare alla cittadinanza completa. È un percorso ricco di ostacoli ma anche di opportunità, in cui diventano centrali i temi della laicità, della democrazia e dell’integrazione, per ottenere la quale l’islam europeo dovrà lavorare molto sulla formazione scolastica e su quella religiosa. Dice ancora Paolo Branca: «Queste pagine faranno un gran bene a chi vi si accosterà, proprio perché nascono non soltanto da una riflessione seria e pacata, ma da una vita vissuta con mente sgombra, cuore aperto e mani impazienti di rendersi utili». Quindi, buona lettura! CONFRONTI 3/MARZO 2010 abbonamento 2010: 50 euro 80 euro abbonamento sostenitore Andrea Leccese Torniamo alla Costituzione! Travaglio/Vauro Sangue e cemento Le domande senza risposta sul terremoto in Abruzzo Editori Riuniti prefazione Giuseppe Giulietti postfazione Luciano Corradini Infinito edizioni Giuseppe La Torre Letizia Tomassone Dialoghi in cammino Protestanti e musulmani in Italia oggi Claudiana con uno degli omaggi qui accanto PROPOSTE DI ABBONAMENTO CUMULATIVO Confronti + Adista 104 euro Confronti + Cem/Mondialità 67 euro Confronti + Dharma 70 euro Confronti + Esodo 64 euro Confronti + Riforma 104 euro Confronti + Gioventù Evangelica 68 euro Confronti + Lettera Internazionale 73 euro Confronti + Mosaico di pace 67 euro Confronti + Qol 57 euro Confronti + Servitium 75 euro Confronti + Tempi di Fraternità 64 euro Confronti + Testimonianze 82 euro Confronti mensile di fede politica vita quotidiana Abbonamenti annuale: ordinario 50,00 euro, sostenitore 80,00 euro (con omaggio), estero 70,00 euro. Una copia arretrata 8,00 euro. Versamenti su c.c.p. 61288007 intestato a coop. 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(Legge 675/96) 47 2010 Associato alla Unione Stampa Periodica Italiana SOSPESI DUE SERVIZI DI «PROTESTANTESIMO» (RAIDUE) PERCHÉ TROPPO POLITICI IN PERIODO PRE-ELETTORALE I servizi su Rosarno e sulla Costituzione, che dovevano andare in onda lunedì 22 febbraio, sono stati considerati «troppo politici» in questo periodo pre-elettorale. Le recentissime norme in materia di informazione pubblica stabiliscono che fino al 12 aprile i programmi televisivi non riconducibili ad una testata giornalistica «non possono trattare temi di evidente rilevanza politica ed elettorale». Il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, pastore Massimo Aquilante, amareggiato per l’accaduto, in un editoriale in onda il 22 febbraio su «Protestantesimo», ha dichiarato: «In tempo di campagna elettorale non si può evidentemente parlare né di Rosarno né della Costituzione. La Fcei aveva deciso di dedicare la “Settimana della libertà” degli evangelici, quando si ricorda l’emancipazione dei valdesi del 17 febbraio 1848, alla questione dell’immigrazione, e in particolare ai fatti avvenuti a Rosarno. Da quella tristissima vicenda è emerso un problema di libertà e di diritti fondamentali che riguarda il paese nel suo complesso. Da decenni le Chiese evangeliche sono fortemente impegnate nel campo dell’accoglienza agli stranieri, e in una direzione ben precisa: quella della costruzione di esperienze di integrazione. Poiché non si può parlare di immigrazione senza parlare contemporaneamente di politiche di immigrazione, come non si può parlare di Costituzione senza fare riferimento agli attacchi cui è soggetta negli ultimi tempi, dovrete aspettare, cari telespettatori, la fine della competizione elettorale per poterli vedere». La redazione di «Protestantesimo», che è una trasmissione della Rai, ma a cura della Fcei, ha deciso di mandare in onda più in là questi servizi, perché come dice il presidente Aquilante: «Per noi protestanti la confessione della fede non può che essere strettamente legata alle questioni fondamentali della vita: la libertà, la democrazia, la giustizia. La fede non è soltanto un sentimento da esprimere la domenica in chiesa, ma è un impegno a vivere l’evangelo della grazia e della liberazione in Cristo nelle cose di tutti i giorni che riguradano tutti: un messaggio da confrontare criticamente con la realtà personale, ma anche sociale e politica , del nostro tempo». ELEZIONI REGIONALI NELL’ITALIA BERLUSCONIZZATA, VOTARE È UN DURO MA NECESSARIO OBBLIGO MORALE E CIVILE MUSULMANI FA DISCUTERE IL NUOVO COMITATO PER L’ISLAM ITALIANO CHIESA CATTOLICA PIO XII E GIOVANNI PAOLO II PRESTO BEATI. LA VISITA DI BENEDETTO XVI IN SINAGOGA VISTA DAL MONDO EBRAICO IRAN STESSE BUGIE COME GIÀ ACCADUTO IN IRAQ? SOCIETÀ IL BELPAESE TRA RAZZISMO E MORTI BIANCHE RUBRICHE OSSERVATORIO SULLE FEDI, NOTE DAL MARGINE, OPINIONI, CINEMA, LIBRO