A06
42
Argomenti
di Terapia occupazionale
a cura di
Marcello Imbriani
Giacomo Bazzini
Franco Franchignoni
ARACNE
Copyright © MMVI
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
88–548–0589–0
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: luglio 2006
INDICE
7
La Fisiatria occupazionale e la terapia occupazionale:
ambiti di intervento e strumenti operativi
G. BAZZINI, F. FRANCHIGNONI, M. IMBRIANI
15
La valutazione funzionale del mieloleso
G. BAZZINI, M. TARICCO
49
La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
D. ORLANDINI, T. MOSCATO, D. NICITA, M. PANIGAZZI, G. BAZZINI
69
I passaggi posturali
F. FRANCHIGNONI, M. BIANCHI, G. BAZZINI, G. FERRIERO
95
Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato:
Work Hardening e Work Conditioning
F. FRANCHIGNONI, S. VERCELLI
117
I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
F. SARTORIO, F. FRANCHIGNONI, S. VERCELLI
143
Il recupero delle lesioni traumatiche della mano
F. SARTORIO, F. FRANCHIGNONI, G. FERRIERO
5
6
157
Indice
Gli splint in riabilitazione
F. SARTORIO, S. VERCELLI, F. FRANCHIGNONI
179
Valutazioni energetiche nella disabilità fisica
P. CAPODAGLIO
193
Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
M. PANIGAZZI, G. BAZZINI
213
Lavoro, disabilità e terapia occupazionale:
problematica, dati epidemiologici e riferimenti legislativi
M. FERRARI, M. IMBRIANI
LA FISIATRIA OCCUPAZIONALE E LA TERAPIA OCCUPAZIONALE:
AMBITI DI INTERVENTO E STRUMENTI OPERATIVI
G. Bazzini, F. Franchignoni, M. Imbriani
Possiamo denominare Fisiatria occupazionale quel settore della riabilitazione medica che rivolge la sua attenzione in particolare a tutti quegli
aspetti connessi con la ripresa di un’attività (lavoro retribuito e non, scuola, attività ludico–sportive, guida, ecc.) e che è di specifica competenza del
medico specializzato in Medicina Fisica e Riabilitazione.
I campi di interesse di questa disciplina sono pertanto molto vasti e
spesso richiedono un intervento multidisciplinare. Essi spaziano dalle tecniche più specifiche di rieducazione motoria ai criteri per la quantificazione
delle capacità residue, dalle metodologie per l’ottimizzazione dei tempi di
recupero agli studi sulla compatibilità delle mansioni rispetto alla disabilità,
dall’analisi del rischio lavorativo in ambito motorio alle proposte di criteri
ergonomici di reinserimento e di prevenzione. In quanto tale, questa disciplina è strettamente connessa all’ergonomia, intesa come studio multidisciplinare del rapporto fra l’uomo e il mondo che lo circonda (mezzi, metodi,
strumenti, ambiente di lavoro e di vita). La Fisiatria occupazionale dovrebbe quindi spaziare oltre il settoriale orizzonte costituito dal tradizionale sistema neuromotorio per studiare e proporre, a completamento e conclusione dei cosiddetti “percorsi rieducativi”, criteri e limiti “di sicurezza” in molteplici attività lavorative e non (e non solo per disabili), in collaborazione
con tutti gli altri settori riabilitativi e medici, in particolare con la medicina
del lavoro, quella legale e quella sportiva.
* Fondazione Clinica del Lavoro, IRCCS. Bazzini: Servizio di Fisiatria Occupazionale ed
Ergonomia, Istituto Scientifico di Pavia–Montescano; Franchignoni: Servizio di Fisiatria Occupazionale ed Ergonomia, Istituto Scientifico di Veruno (NO) Imbriani: Direzione Scientifica
Centrale, Fondazione Salvatore Maugeri di Pavia.
7
8
Giacomo Bazzini, Franco Franchignoni, Marcello Imbriani
La Fisiatria occupazionale trae alcune sue radici dalle prime esperienze di “occupational therapy” nei paesi anglosassoni e di “ergothérapie” in
Francia (inizi del ‘900). Si tratta soprattutto di un insieme di tecniche che
vengono proposte per mirare meglio il trattamento rieducativo cinesiterapico nelle patologie del movimento: l’ergoterapia si occupa pertanto
dell’apprendimento e del riapprendimento, in condizioni patologiche,
delle attività della vita quotidiana e si prefigge come obiettivo principale
il massimo recupero dell’autonomia e dell’indipendenza, finalizzato al
massimo grado di integrazione familiare, sociale e lavorativa del soggetto disabile.
La Fisiatria occupazionale comprende quindi in sé tutto questo importante corpo di esperienze ma deve andare oltre per costituire un vero e
proprio settore della riabilitazione non solo tecnica ma soprattutto medica,
affrontando quindi tutta una serie di problematiche con strumenti operativi e metodologie proprie per giungere a proposte applicative concrete.
Figura 1 – Rieducazione della coordinazione
Figura 2 – Rieducazione all’abbigliamento
autonomo
Fra i principali scopi
della Fisiatria occupazionale possiamo pertanto annoverare:
— il trattamento cinesiterapico specifico per il recupero
di funzioni fisiche, per aumentare la mobilità articolare, la forza muscolare, la resistenza e la coordinazione
(figura 1), mediante attività
finalizzate;
— l’addestramento all’autonomia personale, alle attività
della vita quotidiana: alimentazione, igiene, abbigliamento (figura 2), ecc.;
— la prevenzione delle complicanze secondarie e terziarie, anche mediante l’inse-
1. La Fisiatria occupazionale: ambiti di intervento e strumenti operativi
gnamento al paziente di tecniche di
“economia articolare” (figura 3);
— lo studio e l’addestramento all’utilizzo
di compensi in caso di disabilità non
emendabili;
— la progettazione e l’applicazione di
ortesi, ausili o adattamenti di utensili,
in caso di particolari disabilità motorie;
— la consulenza per gli interventi di
“assistive technology” (figura 4) e
“universal design”;
Figura 3 – Utilizzo di tecniche di
“economia articolare”
Figura 4 – Rieducazione mediante PC
9
10
Giacomo Bazzini, Franco Franchignoni, Marcello Imbriani
Figura 5 – Riallenamento alle mansioni
lavorative
— il riadattamento alla gestione delle
attività domestiche e lavorative (figura 5), mirando al massimo recupero delle capacità residue del soggetto;
— l’adattamento degli ambienti domestici e lavorativi, progettando l’eliminazione delle barriere architettoniche e proponendo soluzioni
idonee e realistiche per il disabile;
— la valutazione mirante a quantificare le capacità fisiche (figure 6–7) e
mentali (residue e potenziali) del
soggetto, il suo adattamento sociale, gli interessi e la sua possibile
collocazione a un impiego;
— l’eventuale riorientamento verso
nuovi interessi ricreativi e lavorativi.
Figura 6 – Misurazione strumentale delle abilità
della mano
Figura 7 – Misurazione strumentale
della deambulazione
1. La Fisiatria occupazionale: ambiti di intervento e strumenti operativi
11
Tutto ciò andrà quindi integrato nell’ambito di proposte che presentino
specifici percorsi rieducativi, criteri quantitativi di valutazione funzionale, griglie di compatibilità tra capacità e mansioni o compiti, criteri di ergonomia
per il reinserimento al lavoro, e così via.
Per illustrare almeno sinteticamente i campi di intervento ai quali si rivolge la Fisiatria occupazionale e i suoi specifici strumenti operativi può essere utile rifarsi al recente documento ICF (“International Classification of
Functioning, Disability and Health”) dell’OMS, che ha focalizzato l’attenzione su temi e concetti che sono ormai da tempo patrimonio comune anche
della Fisiatria occupazionale, quali l’interezza e la globalità della persona
(non solo quindi in termini di disabilità motoria), l’analisi dei bisogni, la distinzione tra capacità e reali “performance”, la valutazione dei risultati anche in termini di qualità, soddisfazione e costi. Si tratta di un modello integrato bio–psico–sociale, che pone attenzione a componenti fondamentali
di questa integrazione, rappresentate da fattori sia personali che ambientali. I fattori personali sono il “background” della vita di un individuo (sesso,
età, forma fisica, stile di vita, abitudini, educazione, istruzione, capacità di
adattamento, professione, ecc.). I fattori ambientali sono l’ambiente fisico
e sociale in cui le persone conducono la loro esistenza e possono rappresentare sia un ostacolo (ad esempio barriere di tipo architettonico) sia una
facilitazione (prodotti e tecnologie disponibili, eventuali sostegni e/o politiche sociali, ecc.) rispetto alle attività e partecipazioni del soggetto.
Per ciascuno degli aspetti dello schema ICF (figura 8) la Fisiatria occupazionale presenta già oggi delle specifiche competenze e delle capacità di
ICF
Condizioni di salute
Funzione
e struttura corporea
Attività
Fattori ambientali
Partecipazione
Fattori personali
Figura 8 – Schema dell’ICF
12
Giacomo Bazzini, Franco Franchignoni, Marcello Imbriani
intervento, come cerchiamo di illustrare brevemente negli esempi che seguono (tabella I).
Nell’ambito della Fisiatria occupazionale ovviamente occupa una parte
fondamentale la terapia occupazionale, intesa come insieme di tecniche rieducative volte alla riacquisizione da parte della persona con disabilità della maggiore autonomia possibile, in relazione alla sua situazione patologica e al suo contesto personale, ambientale e sociale.
Funzione
e struttura corporea
– Analisi della cinematica e della dinamica delle mansioni lavorative (figura 9)
– Quantificazione del rischio lavorativo per il sistema motorio
– Prevenzione delle patologie lavorative acute (traumi e/o sovraccarichi)
– Prevenzione delle patologie lavorative croniche (da movimentazione carichi, da postura fissa prolungata, ecc.) (figura 10)
– Programmi terapeutici specifici per i disturbi muscolo–scheletrici correlati al lavoro
Attività
– Valutazioni funzionali quantitative di capacità residua, motoria e
globale
– Ri–acquisizione delle autonomie quotidiane (figura 11)
– Allenamento e valutazioni strumentali di resistenza e di affaticamento (figura 12)
– Test di abilità prelavorativa (figura 13)
– Criteri di compatibilità tra capacità e mansione lavorativa (figura 14)
Partecipazione
– Prescrizione e/o progettazione di ausili e ortesi utili per riprendere l’attività lavorativa
– Monitoraggio a lungo termine della prestazione fisica in attività
motorie (figura 15)
– Rilievo di misure di soddisfazione dell’utente su forniture di
ausili
– Criteri ergonomici di reinserimento al lavoro
– Consulenza per l’utilizzo di tecnologie computerizzate avanzate
utili al disabile (uso di PC, controllo ambientale, telelavoro)
– Progetti di abbattimento di barriere architettoniche per l’accessibilità
Tabella I – Ambiti di intervento della Fisiatria occupazionale
1. La Fisiatria occupazionale: ambiti di intervento e strumenti operativi
13
La figura professionale tecnica dedicata specificatamente alle attività di terapia occupazionale è il terapista occupazionale, il cui riconoscimento ufficiale in
Italia è avvenuto con il Decreto del Ministro della Sanità del 17.01.1997 n° 136
che ne descrive il relativo profilo professionale. In tale Decreto è riportato che
“il terapista occupazionale è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma
universitario abilitante (oggi Diploma di laurea), opera nell’ambito della prevenzione, cura e riabilitazione dei soggetti affetti da malattie e disordini fisici, psichici sia con disabilità temporanee che permanenti, utilizzando attività espressive,
manuali–rappresentative, ludiche, della vita quotidiana”.
Figura 9 – Videoripresa di mansioni
lavorative
Figura 10 – Analisi computerizzata del
rischio lavorativo
Figura 11 – Ri–acquisizione dell’autonomia
nell’igiene personale
Figura 12 – Allenamento alla resistenza
14
Giacomo Bazzini, Franco Franchignoni, Marcello Imbriani
La figura del Terapista Occupazionale, nonché il ruolo, le competenze e
gli ambiti, è prevista nelle Linee Guida del Ministero della Sanità per le attività di Riabilitazione G.U.30 maggio1998, n°124 e nei contratti di lavoro
del comparto della sanità pubblica, privata e del comparto socio–sanitario–assistenziale–educativo.
Questa Collana di volumi della Fondazione “Salvatore Maugeri” di Pavia
vuol apportare un valido contributo, mediante esempi applicativi, alla sempre maggior diffusione di queste tematiche e di queste attività nei diversi
ambiti sanitari e assistenziali del nostro Paese, anche alla luce dei nuovi
Corsi di Laurea di Terapista Occupazionale che si stanno avviando in numerose Università italiane.
Figura 13 – Test di capacità prelavorativa
Figura 14 – Esempio di misurazione di
capacità motoria
Figura 15 – Monitoraggio a lungo termine
della prestazione fisica in attività motorie
LA
VALUTAZIONE FUNZIONALE DEL MIELOLESO
G. Bazzini, M. Taricco
Introduzione
L’interesse crescente per lo studio di “indicatori di risultato” (il cosiddetto
“outcome”), che si registra negli ultimi anni, è legato a diversi fattori: la scarsità
di prove di efficacia delle cure e quindi l’esigenza da parte di clinici e ricercatori di fornire evidenze documentate dell’efficacia dei programmi sanitari proposti e applicati (1, 2); il progressivo aumento dei costi in medicina, gli sforzi per
il miglioramento della qualità delle cure, la variabilità degli esiti delle cure stesse, e altri ancora. Di conseguenza le ricerche sugli “outcome” sono attualmente l’approccio preferito per affrontare tutti questi problemi e per documentare
in modo scientifico i risultati funzionali della rieducazione motoria e funzionale
e i rapporti fra costi, qualità ed efficacia (3). D’altra parte, gli studi inerenti la
messa a punto, la validazione e la sperimentazione di indicatori di “outcome”
in ambito riabilitativo sono sempre stati considerati prioritari in Medicina Riabilitativa, la cui letteratura è ricca di contributi qualificati in materia (4, 5, 6, 7, 8).
Gli indicatori di risultato (o di “outcome”)
La “Foundation for Health Services Research” ha definito nel ‘94 gli “outcome” come gli effetti dei processi sanitari sulla salute e sul benessere dei
pazienti e delle popolazioni (9).
* Bazzini: Fondazione Clinica del Lavoro, IRCCS. Servizio di Fisiatria Occupazionale ed Ergonomia, Istituto Scientifico di Riabilitazione di Pavia–Montescano; Taricco: UO Recupero e rieducazione funzionale, Azienda Ospedaliera “G. Salvini”, Ospedale di Passirana di Rho (MI).
15
16
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Concetto ampliato due anni dopo dall’”Institute of Medicine” statunitense che ha raggruppato gli indicatori di “outcome” in: 1) sintomi e segni clinici; 2) benessere e funzioni mentali ed emotive; 3) funzioni fisiche,
cognitive e sociali; 4) soddisfazione delle cure; 5) qualità della vita salute–correlata; 6) costi e utilizzo appropriato delle risorse (10).
Basaglia definisce l’”outcome” come “l’insieme dei risultati ottenuti dai
diversi programmi terapeutici sulle singole menomazioni e disabilità,
nonché degli interventi sugli “handicap” residui. Inoltre, l’“outcome“ è diretta espressione del recupero obiettivo acquisito e delle percezioni soggettive che contribuiscono a determinare la qualità di vita della persona”
(11).
In ogni caso gli indicatori di esito dovrebbero essere in grado di dirci se
il nostro intervento rieducativo ha ottenuto per il paziente un miglioramento pratico della funzione e se questo, non solo sia generalizzabile e mantenuto nel tempo, ma sia anche rilevante per la vita del paziente (12).
Gli indicatori di risultato sono quindi quei parametri (numerici, qualificativi, altro) che devono documentare l’efficacia terapeutica di un determinato trattamento/intervento sanitario. Purtroppo però l’efficacia terapeutica non è un fenomeno monodimensionale, bensì risente di molteplici fattori e soprattutto può essere definita con diverse priorità a seconda del punto di vista (del paziente, dei familiari, dei sanitari, degli amministrativi, ecc.).
La poliedricità del concetto di risultato è tale che qualcuno preferisce
addirittura spostare l’attenzione sulla valutazione dei programmi terapeutici, intendendo una varietà di procedure sistematiche di raccolta e analisi di
dati miranti a sviluppare, migliorare e validare interventi riabilitativi presi
nella loro globalità (13).
Infine, va comunque ricordato che gli effetti di un trattamento (rieducativo) sono la somma di almeno 4 fattori, agenti ovviamente in proporzioni
diverse in ogni paziente:
— storia naturale della patologia;
— effetto specifico del trattamento;
— effetto “placebo” — per cui vi saranno modificazioni inconsapevoli dovute
alla coscienza del paziente stesso di essere trattato;
— effetto Hawthorne — per cui vi saranno modificazioni inconsapevoli dovute alla
coscienza del paziente stesso di far parte di un (eventuale) studio (14, 15).
2. La valutazione funzionale del mieloleso
17
La Commission on Accreditation of Rehabilitation Facilities (CARF) statunitense (16) definisce quattro tipi di obiettivi (da perseguire nell’ambito
di un programma di controllo della qualità dei servizi e in funzione dell’accreditamento di strutture riabilitative):
— Obiettivi a breve termine: definiti come il grado di miglioramento del
quadro clinico del paziente. Essi si riferiscono ad esempio, nel corso
di una degenza riabilitativa: a) per il terapista della riabilitazione, al
miglioramento della disfunzione fisica identificata o alla riduzione del
dolore associato al movimento; b) per il terapista occupazionale, alla
crescita nelle abilità in attività della vita quotidiana e al grado con cui
sono raggiunte abilità lavorative; c) per il logopedista, all’efficacia delle
azioni per migliorare le abilità nella comunicazione; d) per l’assistente sociale, ai risultati nell’aver assicurato al paziente un adeguato
sostentamento, una dimora, possibilità di trasferirsi e comfort di base;
e) per il fisiatra, al raggiungimento di tutti gli obiettivi del team, al
mantenimento di adeguate condizioni generali, alla prevenzione delle
complicanze.
— Obiettivi di efficacia: basati su quantificazioni dei progressi dei pazienti,
tramite misurazioni dell’indipendenza funzionale nel cammino, nei trasferimenti, nella cura della persona ecc.
Figura 1 – VFM: area passaggi di posizione; prova n. 4
18
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
— Obiettivi del risultato terapeutico globale: in termini di benefici generali
(quindi sia sulla salute che sociali) ricevuti dal paziente o, in seconda
istanza, dalla famiglia o da chi lo accudisce.
— Obiettivi di efficienza: misurati come rapporto tra efficacia e risorse consumate (tempo dedicato da parte dello staff, lunghezza della degenza,
numero di trattamenti, costi economici ecc.).
La valutazione nei soggetti mielolesi
La valutazione dei risultati della riabilitazione nei soggetti con lesione
midollare è basata sull’analisi complessiva di un insieme di dati clinici.
Vi è anzitutto, una valutazione più propriamente organica, basata essenzialmente sull’esame articolare, muscolare e neurologico atta a porre una diagnosi di livello di lesione e a definire perciò il “danno/menomazione” (17).
È altrettanto necessario utilizzare una valutazione che possa definire la
“disabilità” e che permetta di inquadrare meglio la situazione complessiva della persona quantificando il grado di autonomia sia nell’ambiente famigliare che sociale.
Il recupero delle capacità funzionali dopo una lesione midollare è legato innanzitutto al livello neurologico, al tipo e gravità della lesione.
Tuttavia, esso è anche strettamente connesso a fattori di contesto, meno quantificabili, legati alle caratteristiche personali e alle risorse individuali del soggetto, al suo stile di vita, ai valori e alle aspettative di recupero e
anche al modo di vivere e far fronte alla malattia.
Che la menomazione non sia sempre direttamente correlata con la
disabilità conseguente è stato ampiamente discusso e documentato in
letteratura (18). E tuttavia la tendenza a mettere in stretta relazione il livello della funzione d’organo con lo stato funzionale complessivo e la qualità di vita, sovrastimando la rilevanza delle componenti biologiche rispetto
alle dimensioni psicologiche e sociali (19), è ancora molto diffusa nel modello dominante bio–medico.
È esperienza comune di molti riabilitatori vedere pazienti che riescono
ad ottenere una qualità di vita nettamente superiore a quanto ci si potrebbe attendere sulla base della sola valutazione clinica e altri che, invece, vivono ben al di sotto delle loro possibilità motorie.
2. La valutazione funzionale del mieloleso
Figure 2, 3 e 4 – VFM: area alimentazione; prova n. 1
19
20
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Ma non ci sono solo esperienze personali. Uno studio di “follow–up”
(20) mirato a indagare il reinserimento socio–lavorativo di soggetti mielolesi, mise in relazione la valutazione oggettiva dello stato funzionale (utilizzando la VFM) con la percezione soggettiva di indipendenza (utilizzando
una intervista strutturata). Come ci si poteva aspettare, la maggior parte dei
soggetti giudicati “dipendenti” dichiaravano di avere bisogno di aiuto nella
giornata (87%); tuttavia, una piccola percentuale di soggetti riteneva di non
aver bisogno di alcun aiuto. Non senza sorpresa i ricercatori documentarono invece che tra i soggetti giudicati “indipendenti” dalla VFM ben un terzo
(34%) dichiarava di avere bisogno di aiuto (anche solo per alcune ore
durante la giornata) a causa della presenza, nel proprio ambiente domestico, di barriere prevalentemente di tipo archittettonico.
Se la discrepanza tra valutazione oggettiva e percezione della dipendenza
è da attribuirsi alla presenza di fattori personali e di contesto ambientale, è fondamentale che essi vengano valutati insieme con la valutazione più tradizionale basata su scale standardizzate. Limitarsi a una sola di queste valutazioni non
ci permetterebbe di capire appieno tutti i fattori che influenzano la piena autonomia del soggetto. I limiti dell’approccio tradizionale alla valutazione del
paziente mieloleso sono, come si diceva prima, “strutturali” e influenzano fortemente la scelta e la concettualizzazione stessa degli strumenti. La maggior
parte degli strumenti di valutazione di disabilità si basa sulla valutazione di “attività di vita quotidiana”, cioè sull’analisi di comportamenti e non di movimenti.
(21). Come tali questi strumenti non sono in grado di cogliere le variabili di contesto
che agiscono da pesanti “modificatori dell’effetto” dell’efficacia degli interventi riabilitativi,
e dell’evoluzione comunque
naturale della patologia. Fattori
personali quali la situazione
socioeconomica ed emotiva,
la possibilità o meno di supporti, l’età, la presenza di complicanze, giocano un ruolo importante nel condizionare il recupero funzionale (22).
Figura 5 – VFM: area trasferimenti; prova n. 1
2. La valutazione funzionale del mieloleso
21
Con questo non si vuol dire che le valutazioni funzionali con scale standardizzate non abbiano una loro utilità. Diverse ricerche hanno dimostrato
come il grado con cui una persona riesce ad attuare con successo alcuni
compiti quotidiani — soprattutto relativi alla cura di sé — sia un indicatore
di adattamento all’ambiente e, come tale, serva a migliorare l’autostima.
Uno studio ha, per esempio, documentato che pazienti mielolesi consapevoli che il livello di indipendenza raggiunto corrispondeva alle proprie capacità (potenzialità) fisiche avevano maggiore autostima di quelli che ritenevano di non aver raggiunto il massimo delle proprie possibilità (23). Un
altro studio, su 100 soggetti mielolesi, ha documentato che la convinzione
di saper controllare le proprie decisioni è strettamente correlata con la sensazione di benessere (24).
Negli ultimi anni, infine, è cresciuta la ricerca sugli strumenti di valutazione funzionale e sono ora più chiare le specifiche caratteristiche necessarie che le scale di valutazione devono avere per essere appropriate per
l’assistenza ai pazienti o per scopi di ricerca clinica (25, 26).
Tutto ciò ha permesso di superare i dubbi sulla affidabilità delle scale di
valutazione funzionale puramente descrittive e sulla dipendenza dei loro
risultati dalla soggettività e variabilità inter–osservatori. L’uso di strumenti
standardizzati ha portato, inoltre, a migliorare notevolmente la comunica-
Figura 6 – VFM: area uso della carrozzina; prova n. 10
Figura 7 – VFM: area uso della carrozzina;
prova n. 15
22
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
zione tra operatori permettendo il confronto di gruppi di pazienti trattati in
setting e strutture diverse e contribuendo a garantire una continuità assistenziale di migliore qualità (vedi tab. 1).
LINEE–GUIDA PER L’UTILIZZO DI SISTEMI DI VALUTAZIONE DEL RISULTATO
— Occorre avere familiarità con le procedure di somministrazione e interpretazione
— Le misurazioni devono essere valide e ripetibili
— Le misurazioni scelte devono essere significative per la situazione clinica e per i
processi decisionali
— Occorre considerare potenziali danni e determinare un rapporto rischio–beneficio
— Le procedure devono essere appropriate per confrontare i risultati con dati normativi pubblicati
— Bisogna considerare la specificità e la sensibilità del test utilizzato
— Se il test non soddisfa una precisa standardizzazione occorre cautela nel considerare i risultati
— La scelta delle misurazioni da effettuare deve realisticamente tener conto della
loro fattibilità in termini di personale, tempo, strumentazione necessaria, costo,
spazi e impatto sul soggetto
Tabella 1 – Linee–guida per la scelta e l’utilizzo di scale che misurano il risultato
Nella pratica quotidiana, l’obiettivo della riabilitazione è quello di aiutare
il soggetto mieloleso a ottenere, nel minor tempo possibile, compatibilmente con l’entità del danno organico, la massima autonomia personale, professionale e sociale. Tutto ciò avviene attraverso un corretto programma di rieducazione funzionale che, avvalendosi anche di ausili e di soluzioni specifiche tecnicamente avanzate, potrà favorire un concreto reinserimento con il
superamento di ogni tipo di barriere. Attraverso un progetto di rieducazione
funzionale il paziente mieloleso si vede restituire lo “status” momentaneamente perso, minimizzando il danno, in modo da riconoscersi ancora inserito in una vita utile, produttiva e qualitativamente soddisfacente, nell’ambito della comunità. In questa prospettiva di lavoro, poter disporre di una scala
di valutazione funzionale che tenga conto dei problemi specifici di soggetti
mielolesi diventa indispensabile non solo per fare la diagnosi ma per porre
una prognosi funzionale all’interno di un progetto riabilitativo mirato principalmente all’inserimento nell’ambiente sociale del mieloleso nella sua integrità fisica, intellettuale e psichica.
2. La valutazione funzionale del mieloleso
Figura 8 – VFM: area igiene; prova n. 1
Figura 9 – VFM: area igiene; prova n. 4
23
24
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Facendo riferimento alla recente classificazione ICF dell’OMS (27) i risultati degli interventi terapeutici nei soggetti con mielolesione possono modernamente essere principalmente misurati a livello di: 1) strutture e funzioni corporee, 2) attività (ex–disabilità), 3) partecipazione (ex–handicap).
Misurazioni nell’ambito delle strutture e funzioni corporee (quindi livello e
tipo della lesione midollare, goniometria del deficit articolare, severità di paralisi, grado di spasticità, ecc.) sono per esempio: la Scala di Frankel (28) (Allegato 1), la Scala ASIA (Impairment Scale) relativa al danno (29) (Allegato 2).
Scale di misura dell’attività, che costituiscono il livello più comune e appropriato per valutare i programmi di rieducazione motoria e di terapia occupazionale, sono ad esempio: il Barthel Index (30, 31) e la sua versione
modificata (32) (Allegato 3), la FIM (33), (Allegato 4), la PECS (34), il QIF
(= Quadriplegia Index of Function) (35, 36), la SCIM (= Spinal Cord Independence Measure) (Allegato 5), la VFM (= Valutazione Funzionale Medulloleso) (37, 38, 39) (Allegato 6).
Infine le misure di partecipazione, quali ad esempio la WHO Handicap
Scale (40), la CHART (41), si riferiscono specificatamente alla vita delle
persone disabili in quanto elementi della famiglia e della società.
Rimandiamo alla bibliografia e alle pubblicazioni specialistiche del settore per le altre scale di misura, mentre esponiamo in questa sede con
maggior dettaglio la VFM, che, insieme con la FIM, viene utilizzata di routine negli Istituti di Pavia e di Montescano della Fondazione Maugeri.
Figura 10 – VFM: area abbigliamento;
prova n. 1
Figura 11 – VFM: area abbigliamento;
prova n. 2
2. La valutazione funzionale del mieloleso
25
La Valutazione Funzionale Medulloleso (VFM)
La VFM è una scala sviluppata specificamente per pazienti mielolesi
attraverso un progetto iniziato nel 1989 da parte di un gruppo di operatori della UO RRF/Unità Spinale di Passirana di Rho (42). L’esigenza di sviluppare un nuovo strumento nasceva dalla consapevolezza che gli strumenti esistenti avevano due importanti limitazioni.
La prima consisteva in un insufficiente livello di “analiticità” in quanto le
scale esistenti erano costruite per permettere una valutazione globale di
una intera attività ma non quella dettagliata dei singoli compiti coinvolti in
tale attività. Se si prende, ad esempio, l’area dell’“igiene personale”, essa
viene usualmente esaminata mediante l’osservazione di una serie di attività che comprendono: spostamenti o cammino, trasferimenti e infine le
specifiche attività dell’igiene. Alla fine dell’osservazione l’esaminatore formula un giudizio generale sulla intera “performance” e lo trasforma in un
unico punteggio. Ridurre ad un punteggio unico la complessità di tutte le
operazioni osservate, rende la valutazione poco specifica e non permette
di cogliere, in modo utile per l’impostazione del trattamento riabilitativo, i
problemi che il paziente può presentare all’interno dell’area.
La seconda limitazione dipendeva dalla scarsa “sensibilità al cambiamento”, la capacità cioè di monitorare i cambiamenti del paziente nel
tempo. Saper cogliere anche piccole variazioni dello stato funzionale nel
tempo è caratteristica rilevante per soggetti mielolesi specie se tetraplegici.
L’unico strumento esistente sviluppato specificamente per superare questi
limiti era il Quadriplegia Index of Function (QIF). Il QIF tuttavia era stato
testato solo per la riproducibilità e sensibilità al cambiamento in un piccolo campione di soggetti ma era privo di un rigoroso processo di validazione. (35).
La VFM è stata sviluppata con gli stessi obiettivi che si era posto il QIF:
creare uno strumento con buona capacità discriminativa e capace di registrare anche piccole modificazioni dello stato funzionale.
Nella sua versione definitiva la VFM comprende 8 aree di attività di vita
quotidiana, a loro volta divise in un numero variabile di prove; particolare
enfasi è stata data alle aree più rilevanti nei soggetti mielolesi come “uso
della carrozzina” e “trasferimenti” che contengono infatti un numero elevato di prove.
26
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
La prima versione della scala comprendeva 90 items, dopo essere
stata testata su 30 mielolesi è stata sottoposta a un processo di selezione/riduzione degli items che ne ha migliorato la maneggevolezza e la tollerabilità da parte dei pazienti.
Figura 12 – VFM: area abbigliamento; prova n. 7
Figura 13 – VFM: area abbigliamento; prova n 8
La VFM comprende
otto aree funzionali suddivise in un numero variabile di prove (tabella 2):
passaggi di posizione (figura 1) (5 prove), alimentazione (figure 2–3–4) (6
prove), trasferimenti (figura 5) (12 prove), uso
della carrozzina (figure
6–7) (15 prove), igiene
personale (figure 8–9) (7
prove), abbigliamento (figure 10–13) (8 prove),
stazione eretta (4 prove)
cammino (7 prove), attività della vita di relazione (9
prove).
L’area “3. trasferimenti”
prevede, per i pazienti
con lesione incompleta, la
possibilità di essere valutata con l’uso del cammino attraverso l’area “3b.
cammino”.
Così pure sono in alternativa l’area della “stazione eretta” e quella del
“cammino” rispettivamente la 8 e la 8 bis
2. La valutazione funzionale del mieloleso
AREA
27
N° ITEM
Passaggi di posizione
5
Alimentazione
6
Trasferimenti
12
Uso della carrozzina
15
Igiene personale
7
Abbigliamento
8
Vita di relazione
9
Stazione eretta
4
Cammino
7
TOTALE
66
Tabella 2 – Aree di interesse e numero di prove della VFM
Per ogni prova viene attribuito un punteggio a cinque livelli, dove 0
indica la totale dipendenza e 4 la piena indipendenza. (vedi Allegato 6).
Il punteggio assegnato alle singole prove, anziché all’intera area, permette una maggior discriminazione delle abilità del paziente e l’identificazione precisa delle attività nelle quali c’è maggior bisogno di “training”.
La scala non richiede la considerazione del punteggio globale ma devono essere confrontati solo i risultati delle singole aree di attività.
Il punteggio 4 e 3 rappresentano entrambi la indipendenza seppur con
qualche variazione che riguarda l’agilità, il tempo impiegato e l’utilizzo di
ausili. È stato già infatti evidenziato come alcuni pazienti che erano indipendenti nell’esecuzione di un compito, ma mostravano nello svolgimento un importante rallentamento o un esagerato dispendio di energia,
non mantenevano nel tempo tale indipendenza. (43).
Al protocollo di somministrazione del test sono associati un manuale
di istruzioni e un video didattico della durata di 35 minuti.
Nel manuale oltre alle istruzioni per l’assegnazione del punteggio vengono riportate per ogni area le attrezzature e gli ausili necessari, la procedura da seguire e le istruzioni per l’esecuzione di ogni singola prova.
28
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
La valutazione viene effettuata a completamento della prima valutazione fisiatrica che comprende l’esame generale, articolare e l’esame neurologico completo.
È consigliabile eseguire il test quando il paziente ha superato la fase
acuta di malattia ed è in grado almeno di mantenere la posizione seduta
in carrozzina. La suddivisione in aree rende possibile la somministrazione
del test anche in due giornate consecutive.
La sequenza in cui le aree sono presentate nel protocollo risponde a
esigenze cliniche ma l’esaminatore può pianificarne l’ordine di somministrazione in base alle esigenze del paziente o dell’ambiente in cui viene
effettuato.
Il test non richiede strumentazioni particolari e può essere somministrato anche al domicilio del paziente o comunque in ambiente extra–ospedaliero. Il tempo di somministrazione è in media di 50 minuti circa per un
paraplegico e di 100 per un tetraplegico con una variazione che dipende
oltre che dalla esperienza dell’esaminatore, dalla generale collaborazione
del paziente e dalla presenza di patologie associate quali esiti di trauma
cranico, complicanze ortopediche, ecc.
Un pregio della VFM sul piano clinico è quello di aver permesso la
distinzione tra abilità specifiche e abilità strumentali.
Per abilità strumentali si intendono quelle non aventi un obiettivo in se
stesso seppur indispensabili all’esecuzione di quelle specifiche. Ad esempio “farsi la doccia” rappresenta una prova specifica mentre trasferirsi dalla
carrozzina alla doccia può essere considerata una abilità strumentale la cui
rilevanza è giustificata dall’essere elemento intermedio per raggiungere
l’obiettivo finale.
Inoltre, la distinzione tra abilità specifiche e strumentali dipende dalle differenti abilità motorie che esse richiedono: i trasferimenti richiedono più equilibrio e coordinazione mentre lavarsi o mangiare richiede più abilità manuali.
A prescindere dall’importanza che si vuole dare a questa distinzione
vale la pena di sottolineare come con la VFM, i terapisti occupazionali possono utilizzare i risultati di ciascun area, separatamente, come guida per
identificare dove il paziente ha maggior bisogno di “training“.
La scala ha inoltre consentito ai vari membri del team riabilitativo di
usare un linguaggio comune, allorché si parla di risultati funzionali, superando soggettive interpretazioni.
2. La valutazione funzionale del mieloleso
29
Figura 14 – VFM: area vita di relazione; prova n. 1
Figura 15 – VFM: area vita di relazione; prova n. 2
Agli operatori e al paziente essa permette di evidenziare ed enfatizzare
i miglioramenti funzionali ottenuti nel tempo.
30
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Le caratteristiche psicometriche della VFM sono riportate di seguito.
Riproducibilità:
È la capacità di uno strumento di fornire la stessa misurazione se ripetuta in momenti diversi e/o da persone diverse. Lo scopo principale nel
valutare la riproducibilità di uno strumento è quello di verificare la sua
capacità di ridurre al minimo l’errore casuale. La riproducibilità inter–osservatori è legata al grado di concordanza che esaminatori diversi raggiungono quando valutano in modo indipendente lo stesso soggetto.
Per la VFM essa è stata valutata su un gruppo di mielolesi che dovevano eseguire il test alla presenza di 4 esaminatori con differente qualifica professionale (37). L’analisi statistica del grado di bontà dell’accordo
è stata calcolata utilizzando il “K statistico” (44) evidenziando una sostanziale buona riproducibilità.
Validità:
Si riferisce al grado di accuratezza con cui uno strumento misura effettivamente ciò che si intende misurare. La validità della VFM è stata testata su un campione di 100 pazienti (67 paraplegici, 33 tetraplegici, età
media 37 anni, eziologia traumatica in 31 soggetti) reclutati con uno
studio multicentrico in 8 Unità Spinali del Nord Italia. Ogni paziente veniva valutato con la VFM e il Barthel Index (BI) all’inizio e alla fine del
programma riabilitativo (39).
Le principali forme di validità sono:
Validità di contenuto:
Valuta se le aree contenute nello strumento sono coerenti con ciò che
si vuole misurare. È generalmente misurata comparando i contenuti
teorici del nuovo strumento con quelli di strumenti già esistenti e attraverso il giudizio di esperti riguardo alla chiarezza, comprensibilità e
ridondanza degli “items”. La VFM include tutte le principali attività quotidiane, contempla un numero di prove elevato nelle due aree (trasferimenti e uso della carrozzina) particolarmente rilevanti per mielolesi,
inoltre, contiene una specifica area che valuta le attività della vita di
relazione.
2. La valutazione funzionale del mieloleso
31
Validità di costrutto:
È il grado con cui uno strumento aderisce al modello teorico in base al quale è stato elaborato. Per tutte le aree della VFM il coefficiente di correlazione tra gli “items” all’interno della stessa area (validità convergente) e tra aree diverse (validità discriminante) raggiungeva gli standard psicometrici raccomandati. Anche il coefficiente di correlazione tra aree diverse che richiedevano pari livello
di attività fisica o coordinazione è risultato buono. Ciò a dimostrazione che l’ipotesi concettuale di base della VFM combaciava con i
dati empirici.
Validità di criterio:
È la valutazione della relazione tra i punteggi della scala e alcune variabili cliniche indipendenti (“Known group validità”). Nel caso della VFM
le variazioni del punteggio tra le due valutazioni (“baseline” e finale)
sono state correlate alla diagnosi classificando i pazienti in 3 classi: tetraplegici, paraplegici con lesione alta (T1–T5), paraplegici con lesione
bassa (T6–S5). La validità clinica della scala è stata confermata dal rilievo di un diverso pattern di miglioramento non solo tra tetraplegici e paraplegici ma anche da importanti differenze tra paraplegici “alti” e “bassi” specie nelle aree dei trasferimenti, uso della carrozzina e attività di
relazione.
Validità concorrente:
Si riferisce alla capacità di una misurazione di correlarsi con un’altra
misura già accettata come valida (“gold standard”). I risultati della validità concorrente verso il Barthel Index (BI) evidenziano alti coefficienti di correlazione e la significatività statistica nelle tre aree valutate dai
due strumenti, confermando che la VFM è comparabile al BI, inoltre,
analizzando i punteggi VFM con i livelli di punteggio del BI si evidenzia un incremento nella stessa direzione.
32
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Figura 16 – VFM: area vita di relazione; prova n. 4
Figura 17 – VFM: area vita di relazione; prova n. 7
2. La valutazione funzionale del mieloleso
33
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Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
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2. La valutazione funzionale del mieloleso
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36
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Allegato 1
SCALA DI FRANKEL
per la classificazione delle lesioni del midollo spinale
A:
Lesione completa: non funzionalità motoria e sensitiva al di
sotto del livello della lesione
B:
Soltanto sensibilità: sensibilità preservata in un certo grado sotto
il livello della lesione; non si applica a lievi discrepanze tra il
livello motorio e sensitivo ma si applica in caso di risparmio del
midollo sacrale
C:
Funzione motoria inefficace: qualche funzione motoria conservata sotto il livello della lesione, ma non di utilità per il paziente
D:
Funzione motoria efficace: funzione motoria valida conservata
sotto il livello dela lesione; i pazienti di questo gruppo possono
camminare con o senza aiuto
E:
Recupero: funzione motoria e sensitiva normale; possono essere presenti riflessi anomali
2. La valutazione funzionale del mieloleso
Allegato 2
ASIA (American Spinal Association) Impairment Scale
Scala di classificazione di completezza della lesione
(ha sostituito la scala di Frankel)
A:
Completa: assenza di funzione motoria e sensitiva nei segmenti sacrali S4–S5
B:
Incompleta: la funzione sensitiva ma non quella motoria è conservata sotto il livello della lesione e si estende nei segmenti
sacrali S4–S5
C:
Incompleta: la funzione motoria è conservata sotto il livello della
lesione, più della metà dei muscoli chiave sotto il livello della
lesione hanno un grado di funzione inferiore a 3
D:
Incompleta: la funzione motoria è conservata sotto il livello della
lesione, e la maggior parte dei muscoli chiave sotto il livello
della lesione hanno un grado di funzionalità uguale o superiore
a3
E:
Normale: le funzioni motoria e sensitiva sono normali
37
38
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Allegato 3
BARTHEL INDEX MODIFICATO
Cognome e Nome . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Reparto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Data __ / __ / __
Compilatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Alimentazione
4
3
2
1
0
Capace di alimentarsi da solo se i cibi sono preparati sul vassoio e
raggiungibili. Autonomo nell’uso di eventuali ausili (tutte le attività:
tagliare, spalmare, ecc.).
Capace di alimentarsi da solo ma non di tagliare, aprire il latte, svitare un barattolo ecc. Non è necessaria la presenza di una persona
Capace di alimentarsi da solo ma con supervisione. Richiede assistenza nelle attività come versare il latte, mettere il sale, girare un
piatto, spalmare il burro ecc.
Necessita di aiuto per tutto il pasto. Capace di usare una posata (es.
cucchiaio).
Totalmente dipendente, deve essere imboccato.
10
8
5
2
0
Igiene personale
4
3
2
1
0
Capace di lavarsi mani, faccia e denti, pettinarsi; un uomo deve sapersi radere (tutte le operazioni, e con tutti i tipi di rasoio), una donna deve
sapersi truccare (esclusa l’acconciatura dei capelli) se abituati a farlo.
In grado di eseguire tutte le operazioni di igiene ma necessita di
minimo aiuto prima e/o dopo le operazioni.
Necessita di aiuto per una o più operazioni.
Necessita di aiuto per tutte le operazioni.
Incapace di provvedere all’igiene personale. Totalmente dipendente.
5
4
3
1
0
Farsi il bagno o la doccia
4
3
2
1
0
Capace di farsi il bagno in vasca o la doccia o una spugnatura completa, completamente autonomo.
Necessita di supervisione per sicurezza (es. trasferimenti, controllo
temperatura dell’acqua ecc.).
Necessita di aiuto per il trasferimento o per lavarsi/asciugarsi.
Necessita di aiuto per tutte le operazioni.
Totalmente dipendente nel lavarsi.
5
4
3
1
0
2. La valutazione funzionale del mieloleso
39
Abbigliamento
4
3
2
1
0
Capace di indossare, togliere e allacciare correttamente tutti gli indumenti comprese le scarpe, indossare un corsetto o una protesi.
Necessita di minimo aiuto per compiti di manualità fine (bottoni,
cerniere, ganci, lacci delle scarpe ecc.).
Necessita di aiuto per mettere/togliere qualche indumento.
Capace di collaborare in minima parte ma dipendente per tutte le
attività.
Totalmente dipendente, non collabora alle attività.
10
8
5
2
0
Trasferimenti carrozzina/letto
4
3
2
1
0
Capace, in sicurezza, di avvicinarsi al letto, bloccare i freni, alzare le
pedane, trasferirsi, sdraiarsi, rimettersi seduto sul bordo del letto,
girare la carrozzina, tornare in carrozzina. Indipendente in tutte le fasi.
Necessaria la supervisione di una persona per maggior sicurezza.
Necessario minimo aiuto da parte di una persona per uno o più
aspetti del trasferimento.
Collabora ma richiede massimo aiuto, da parte di una persona, in
tutti gli aspetti del trasferimento.
Totalmente dipendente, sono necessarie due persone con/senza
un sollevamalati.
15
12
8
3
0
Uso del W.C.
4
3
2
1
0
Capace di trasferirsi da/sul W.C., sfilarsi/infilarsi i vestiti senza sporcarsi, usare la carta igienica. Può usare la comoda o la padella o il pappagallo in modo autonomo (inclusi lo svuotamento e la pulizia).
Necessita di una supervisione per maggior sicurezza, o per la pulizia/svuotamento della comoda, pappagallo, ecc.
Necessita di aiuto per vestirsi/svestirsi, per i trasferimenti e per
lavarsi le mani.
Necessita di aiuto per tutte le operazioni.
Totalmente dipendente.
10
8
5
2
0
40
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Continenza urinaria
4
3
2
1
0
Controllo completo sia di giorno che di notte. Uso autonomo dei
presidi urinari interni/esterni (condom, ecc.).
Generalmente asciutto giorno e notte. Qualche episodio di incontinenza o necessita di minimo aiuto per la gestione dei presidi urinari.
Generalmente asciutto di giorno ma non di notte. Necessita di
aiuto per la gestione dei presidi urinari.
Incontinente ma collabora nell’applicazione di presidi urinari.
Totalmente incontinente o portatore di catetere a dimora.
10
8
5
2
0
Continenza intestinale
4
3
2
1
Controllo completo sia di giorno che di notte. Capace di mettersi le
supposte o fare i clisteri.
Occasionali episodi di incontinenza, necessita di supervisione per
uso di supposte o clisteri.
Frequenti episodi di incontinenza. Non è in grado di eseguire
manovre specifiche e di pulirsi. Necessita di aiuto nell’uso dei
dispositivi come il pannolone.
Necessita di aiuto in tutte le fasi.
Totalmente incontinente.
10
8
5
2
0
Deambulazione
4
3
2
1
0
Capace di gestire una protesi se necessaria, di alzarsi in piedi e di
sedersi, di sistemare gli ausili. Capace di usare gli ausili (bastone,
ecc. ) e di camminare 50 m. senza aiuto o supervisione.
Indipendente nella deambulazione ma con autonomia inferiore a
50 metri o necessita di supervisione per maggior sicurezza nelle
situazioni a rischio.
Necessita di una persona per raggiungere o usare correttamente gli
ausili.
Necessita della presenza costante di una o più persone durante la
deambulazione.
Totalmente dipendente, non è in grado di deambulare.
15
8
5
2
0
2. La valutazione funzionale del mieloleso
41
Uso della carrozzina (compilare solo se il paziente ha
preso “0” alla Deambulazione)
4
3
2
1
0
Capace di muoversi autonomamente in carrozzina (fare le curve,
cambiare direzione, avvicinarsi al tavolo, letto wc ecc.). L’autonomia
deve essere di almeno 50 m.
Capace di spingersi per tempi prolungati e su terreni pianeggianti,
necessita di aiuto per le curve strette.
È necessario l’aiuto di una persona per avvicinare la carrozzina al
tavolo, al letto ecc.
Capace di spingersi per brevi tratti e su terreni pianeggianti, necessita di aiuto per le tutte le manovre.
Totalmente dipendente negli spostamenti con la carrozzina.
5
4
3
1
0
Scale
4
3
2
1
0
È in grado di salire e scendere una rampa di scala in sicurezza
senza aiuto né supervisione. Se necessario usa il corrimano o gli
ausili (bastone ecc.) e li trasporta in modo autonomo.
Generalmente è autonomo. Occasionalmente necessita di supervisione per sicurezza o a causa di rigidità mattutina (spasticità), dispnea ecc.
Capace di fare le scale ma non di gestire gli ausili, necessita di
supervisione e di assistenza.
Necessita di aiuto costante in tutte le fasi compresa la gestione
degli ausili.
Incapace di salire e scendere le scale.
Totale
10
8
5
2
0
42
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Allegato 4
FUNCTIONAL INDIPENDENCE MEASURE (FIM) (*)
Ingresso
Cura della persona
Nutrirsi
Rassettarsi
Lavarsi
Vestirsi, dalla vita in su
Vestirsi dalla vita in giù
Igiene personale
Controllo sfinterico
Vescica
Alvo
Mobilità
Trasferimenti
Letto–sedia–carrozzina
W.C.
Vasca o doccia
Locomozione
Cammino, carrozzina
Scale
Comunicazione
Comprensione
Espressione
Capacità relazionali/cognitive
Rapporto con gli altri
Soluzione di problemi
Memoria
PUNTEGGIO TOTALE FIM
Dimissione
Follow–up
2. La valutazione funzionale del mieloleso
43
LIVELLI
7 Autosufficienza completa
6 Autosufficienza con adattamenti
NON AUTOSUFFICIENZA PARZIALE
5 Supervisione – predisposizione–adattamenti
4 Assistenza minima (soggetto => 75%)
3 Assistenza moderata (soggetto => 50%)
SENZA ASSISTENZA
CON ASSISTENZA
NON AUTOSUFFICIENZA COMPLETA
2 Assistenza intensa (soggetto => 25%)
1 Assistenza totale (soggetto => 0%)
Non lasciare caselle bianche.
Assegnare il punteggio 1 alle attività non valutabili per motivi di sicurezza del paziente
———————La FIM è un marchio di “The Research Foundation of the State University of New York, distribuito in Italia da SO.GE.COM Editrice srl, Milano.
44
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
Allegato 5
SCIM – SPINAL CORD INDEPENDENCE MEASURE
Cura de ll a pe rs ona
1.
Alimentarsi (tagliare, aprire un
contenitore, versare, portare il
cibo alla bocca)
2.
Lavarsi (insaponarsi, aprire
e/o chiudere il rubinetto,
lavarsi, asciugarsi)
A-dalla vita in su;
B-dalla vita in giù
3.
Vestirsi (vestiti, scarpe, ortesi:
indossarli, toglierli);
A-dalla vita in su
B-dalla vita in giù
4.
Toilette (lavarsi mani e viso,
lavarsi i denti, pettinarsi,
radersi, truccarsi)
0. Nutrizione parenterale, gastrostomia, assistenza completa
1. Parziale assistenza per mangiare e/o bere, o per indossare
ausili
2. Autosufficiente nell’alimentazione, necessita di ausili o di
assistenza nel tagliare il cibo e/o versare liquidi e/o aprire i
contenitori
3. Mangia e beve in modo autonomo, senza assistenza o ausili
0. Richiede assistenza totale
1. Richiede assistenza parziale
2. Si lava autonomamente con ausili o in ambiente adattato (es.
barre, sedie)
3. Si lava autonomamente, senza la necessità di ausili o di
ambiente adattato
0. Richiede assistenza totale
1. Richiede assistenza parziale
2. Si lava autonomamente con ausili o in ambiente adattato (es.
barre, sedie)
3. Si lava autonomamente, senza la necessità di ausili o di
ambiente adattato
0. Richiede assistenza totale
1. Richiede parziale assistenza nell’indossare abiti senza bottoni,
cerniere e lacci
2. Si veste autonomamente con abiti senza bottoni, cerniere e
lacci, con o senza ausili e/o ambienti adattati
3. Necessita di assistenza solo con abiti con bottoni, cerniere e
lacci
4. Indossa autonomamente qualsiasi abito; non necessita di ausili
o di ambienti adattati
0. Richiede assistenza totale
1. Richiede parziale assistenza nell’indossare abiti senza bottoni,
cerniere e lacci
2. Si veste autonomamente con abiti senza bottoni, cerniere e
lacci, con o senza ausili e/o ambienti adattati
3. Necessita di assistenza solo con abiti con bottoni, cerniere e
lacci
4. Indossa autonomamente qualsiasi abito; non necessita di ausili
o di ambienti adattati
0. Richiede assistenza totale
1. Richiede parziale assistenza
2. Indipendente con ausili
3. Indipendente senza ausili
Respirazione e Controllo sfinterico
5.
Respirazione
0. Necessita di tubo endotracheale (TT) ed una ventilazione
assistita o permanente (IAV)
2. Respira autonomamente con TT e richiede ossigeno, assistenza
intensa per la tosse o nella gestione della TT
4. Respira autonomamente con TT e richiede assistenza minima
per la tosse o nella gestione della TT
6. Respira autonomamente senza TT, ma necessita di ossigeno,
assistenza intensa nel tossire, una maschera (es.peep) o IAV
(bipap)
8. Respira autonomamente senza TT, ma necessita di assistenza
minima o stimolazione per tossire
10. Respira autonomamente senza alcuna assistenza o ausilio
2. La valutazione funzionale del mieloleso
6.
Controllo sfinterico - Vescica
7.
Controllo sfinterico - Intestino
8.
Uso del bagno (igiene perineale, vestizione/svestizione,
uso di carta igienica, assorbenti)
9.
Mobilità nel letto e per
prevenire le piaghe da
decubito
0. Catetere a dimora
4. Residuo vescicale (RV) > 100 cc; no cateterizzazione o
cateterismo intermittente assistito
8. RV < 100 cc o autocateterismo intermittente; necessita di
assistenza per l’uso del catetere
12. Autocateterismo intermittente; non necessita di assistenza per
l’uso del catetere
15. RV < 100 cc; non necessita di catetere o di assistenza nella
minzione
0. Alvo irregolare o a frequenza molto bassa (meno di 1 volta
ogni 3 giorni)
5. Alvo regolare, ma necessita di assistenza (es. per l’utilizzo delle
supposte); si verifica raramente (meno di una volta al mese)
10. Alvo regolare, senza assistenza; si verifica raramente (meno di
una volta al mese)
0. Richiede assistenza totale
1. Richiede assistenza parziale; non si lava da solo
2. Richiede assistenza parziale; si lava in modo autonomo
4. Indipendente in tutto solo con ausili o in ambiente adattato
(es. sbarre)
5. Indipendente senza la necessità di ausili o di ambiente adattato
Mobilità
10.
11.
Trasferimenti lettocarrozzina (frenare la
carrozzina, sollevare
l’appoggiapiedi, togliere e
rimettere i braccioli,
spostarsi, alzarsi in piedi)
Trasferimenti carrozzinaW.C.-vasca (se usa una
“comoda”: trasferimenti da
e per; se usa una carrozzina
regolare: frenare la
carrozzina, sollevare
l’appoggiapiedi, togliere e
rimettere i braccioli,
spostarsi, alzarsi in piedi)
0. Richiede assistenza in tutte le attività: ruotare la parte superiore
ed inferiore del corpo nel letto, sedersi sul letto, sollevarsi dalla
carrozzina, con o senza ausili, ma senza ausili elettrici
2. Riesce a svolgere soltanto una delle attività senza assistenza
(autonomo in una sola attività)
4. Riesce a svolgere due o tre attività senza assistenza (autonomo
in 2 o 3 attività)
6. Esegue in modo autonomo tutti i movimenti al letto e per
prevenire le piaghe da decubito
0. Necessita di assistenza totale
1. Necessita di assistenza parziale e/o supervisione e/o ausili (es.
tavoletta)
2. Indipendente (oppure non necessita di carrozzina)
0. Necessita di assistenza totale
1. Necessita di assistenza parziale e/o supervisione e/o ausili (es.
sbarre per afferrarsi)
2. Indipendente (oppure non necessita di carrozzina)
Mobilità (in luoghi chiusi e aperti, su ogni superficie)
12.
Mobilità in luoghi chiusi
13.
Mobilità per moderate
distanze (10-100 metri)
0. Necessita di assistenza totale
1. Necessita di carrozzina elettrica o di parziale assistenza per
utilizzare una carrozzina manuale
2. Si muove autonomamente con carrozzina manuale
3. Richiede supervisione per la deambulazione (con o senza
ausili)
4. Cammina con girello o canadesi (con cammino oscillante)
5. Cammina con canadesi o bastoni da passeggio (con passo
alternato)
6. Cammina con un bastone da passeggio
7. Necessita soltanto di ortesi alle gambe
8. Cammina senza ausili
0. Necessita di assistenza totale
1. Necessita di carrozzina elettrica o di parziale assistenza per
utilizzare una carrozzina manuale
2. Si muove autonomamente con carrozzina manuale
45
46
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
14.
Mobilità in luoghi aperti (o
più di 100 metri)
15.
Scale
16.
Trasferimenti carrozzinaautomobile (accostamento
all’auto, blocco della carrozzina, rimozione dei braccioli e dell’appoggiapiedi,
trasferimento verso e dall’auto, oerazioni di carico e
scarico della carrozzina sull’auto)
3. Richiede supervisione per la deambulazione (con o senza
ausili)
4. Cammina con girello o canadesi (con cammino oscillante)
5. Cammina con canadesi o bastoni da passeggio (con passo
alternato)
6. Cammina con un bastone da passeggio
7. Necessita soltanto di ortesi alle gambe
8. Cammina senza ausili
0. Necessita di assistenza totale
1. Necessita di carrozzina elettrica o di parziale assistenza per
utilizzare una carrozzina manuale
2. Si muove autonomamente con carrozzina manuale
3. Richiede supervisione per la deambulazione (con o senza
ausili)
4. Cammina con girello o canadesi (con cammino oscillante)
5. Cammina con canadesi o bastoni da passeggio (con passo
alternato)
6. Cammina con un bastone da passeggio
7. Necessita soltanto di ortesi alle gambe
8. Cammina senza ausili
0. Incapace di salire o scendere le scale
1. Sale o scende almeno 3 scalini con il supporto o la
supervisione di almeno un’altra persona
2. Sale o scende almeno 3 scalini con il supporto del corrimano
e/o di un canadese o di un bastone
3. Sale o scende almeno 3 scalini senza alcun supporto o
supervisione
0. Necessita di assistenza totale
1. Necessita di assistenza parziale e/o supervisione
2. Indipendente con ausili
3. Indipendente senza ausili (oppure non necessita di carrozzina)
TOTALE PUNTEGGIO SCIM (0-100)
2. La valutazione funzionale del mieloleso
47
Allegato 6
LA VFM
Cat egoria
1. Passaggi di
posizione
2. Alimentazione
3. Trasferimenti
4. Uso della carrozzina
5. Igiene personale
6. Abbigliamento
7. Vita di relazione
8. Stazione eretta
8b. Cammino
Prove
1.supino-sul fianco
2.supino-prono
3.prono-supino
1.uso forchetta
2.uso cucchiaio
3.uso coltello
1.letto-carrozzina
2.carrozzina-letto
3.carrozzina-WC
4.WC-carrozzina
5.carrozzina-vasca
6.vasca-carrozzina
1.mettere i freni
2.togliere i freni
3.mettere poggia-piedi
4.togliere poggia-piedi
5.sollevamenti
6.sollevamenti arti inferiori
7.spinta su terreni piani esterni
8. spinta su terreni piani interni
1.lavarsi le mani
2.lavarsi il viso
3.asciugarsi mani e viso
4.lavarsi i denti
1.infilarsi un maglione
2.sfilarsi un maglione
3.indossare un giaccone
4.togliersi il giaccone
1.scrivere a mano
2.utilizzare una tastiera
3.sfogliare un libro
4.usare il telefono
5.utilizzare un telecomando
1.seduto-in piedi
2.in piedi-seduto
1.seduto-in piedi
2.in piedi-seduto
3.su terreni piani
4.in salita
4.supino-seduto
5.seduto-supino
4.versare da una bottiglia
5.uso bicchiere
6.spezzare il pane
7.carrozzina-doccia
8.doccia-carrozzina
9.carrozzina-auto
10.auto-carrozzina
11.carrozzina-terra
12.terra-carrozzina
9.gimkana
10.spinta su terreni
accidentati
11.spinta su terreni in salita
12.percorso in discesa
13. gradino in salita
14.gradino in discesa
15.bilanciamento
5.farsi barba/truccarsi
6.pettinarsi
7.farsi la doccia
5.infilarsi i pantaloni tuta
6.sfilarsi i pantaloni tuta
7.mettersi le scarpe
8.togliersi le scarpe
6.aprire/chiudere una porta
7.usare le chiavi
8.usare l’ascensore
automatico
9.caricare / scaricare la
carrozzina dall’auto
3.mettere vincoli meccanici
4.togliere vincoli meccanici
5.in discesa
6.salire le scale
7.scendere le scale
48
Giacomo Bazzini, Mariangela Taricco
VFM – ASSEGNAZIONE DEL PUNTEGGIO
4 – Il paziente esegue la prova senza nessuna difficoltà, né impaccio, né rallentamento e
senza bisogno di alcun aiuto da parte dell'esaminatore.
3 – Il paziente è indipendente nella esecuzione della prova ma con qualche incertezza e/o
lieve impaccio e/o necessita di un tempo maggiore rispetto a soggetti normali di controllo, e/o necessita di un ausilio che deve essere in grado di gestirsi da solo.
2 – Il paziente esegue la prova con minimo aiuto inteso come incitamento verbale o come
impegno fisico minimo da parte dell'esaminatore.
1 – II paziente esegue la prova con la necessità di un grande aiuto inteso come impegno
fisico importante da parte dell'esaminatore o della necessità dell'aiuto di due persone.
0 – Il paziente non è in grado di eseguire la prova ed è totalmente dipendente dall'aiuto di
altre persone.
NV – Paziente non valutabile
Figura 18 – Esempio di referto sintetico grafico della VFM
LA
VALUTAZIONE DELLA PRENSIONE
IN PROTESIZZATI DI ARTO SUPERIORE
D. Orlandini, T. Moscato, D. Nicita, M. Panigazzi, G. Bazzini
Introduzione
In letteratura sono presenti diverse modalità di approccio al problema
della quantificazione funzionale nei soggetti portatori di protesi di arto superiore:
— la percezione di stato di salute e qualità di vita del soggetto stesso (1);
— lo stato funzionale correlato alle necessità quotidiane e lavorative (2, 3);
— le priorità dei miglioramenti tecnici necessari sulle protesi in progetto (4);
— la soddisfazione e le aspettative del soggetto (5, 6);
— la qualità dei Servizi sanitari specifici e l’efficacia dei programmi rieducativi (7, 8, 9).
Mentre per questi aspetti si è raggiunto un ragionevole livello di consenso, la messa a punto, la validazione e l’applicazione clinica di test di
valutazione della funzionalità dell’arto superiore, e della mano protesica in
particolare, restano un problema tuttora decisamente aperto e molto sentito in numerosi ambiti scientifici, da quello ortopedico e chirurgico in genere, a quello riabilitativo, di medicina del lavoro, di medicina legale (10,
11, 12, 13).
Nel recente campo di studio della riabilitazione occupazionale e dell’ergonomia, e in particolare nei soggetti che hanno subito l’amputazione
di un arto superiore, è quindi attuale e molto sentita l’esigenza di stru-
* Orlandini, Moscato e Nicita: Centro Protesi INAIL – Budrio; Panigazzi e Bazzini: Servizio
di Fisiatria Occupazionale ed Ergonomia – Istituto Scientifico di Montescano (Pv) – Fondazione “S. Maugeri” – IRCCS.
49
50
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
menti di misurazione clinica standardizzati e condivisi. Le motivazioni per
un tale lavoro sono molteplici: per validare i percorsi riabilitativi effettuati ed eventualmente quelli innovativi, per misurare efficacemente le situazioni funzionali e gli eventuali miglioramenti clinici, per quantificare
l’outcome degli interventi sanitari, per basare, su criteri scientifici, i giudizi di idoneità ad attività specifiche.
I principali test di funzionalità della mano
Da una revisione della letteratura e dall’esperienza pratica quotidiana si
possono esporre i test di funzionalità della mano maggiormente conosciuti e utilizzati (14).
Questi possono essere raggruppati come segue: 1. test di valutazione
della forza, 2. test di valutazione della coordinazione e della destrezza, 3.
test di funzionalità globale o complessiva, 4. test proposti specificatamente per soggetti amputati portatori di protesi di arto superiore.
Test di valutazione della forza:
— Test muscolare manuale (misurazione della forza analitica di ciascun
gruppo muscolare intrinseco ed estrinseco della mano) (15);
— “Grip” e “pinch” test (misura della massima forza di presa effettuata mediante appositi strumenti) (16);
— Test dinamometrici computerizzati (per la valutazione strumentale quantitativa di attività quotidiane e lavorative e nella riproduzione del lavoro)
(17, 18).
•Nella valutazione della funzionalità della mano protesica i test di forza
analitici e globali sopra descritti trovano un utilizzo (19, 20) limitato poiché:
— i valori della forza di chiusura della mano sono impostati preventivamente: 20–40 N (circa 2–4 Kg) per i dispositivi a energia corporea, fino a
100 N (circa 10 Kg) per i dispositivi a energia extra–corporea, 120 N
(circa 12 Kg) per i manipolatori da lavoro ad energia extracorporea;
— la protesi possiede solo movimenti limitati ad alcuni piani (apertura e
chiusura della mano, prono–supinazione del polso, flesso–estensione
del gomito);
3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
51
— anche il numero di movimenti che è possibile ripetere è prefissato e
dipende dalle capacità degli accumulatori utilizzati (quelli attualmente in
uso consentono in media 1000–2000 movimenti/die) (21, 22, 23,
24).
Molto probabilmente questo tipo di test avrà significato molto maggiore (soprattutto in sede di verifica della protesi) allorché saranno utilizzate
protesi di nuova generazione con controllo della forza prensile (25).
Test di valutazione della coordinazione e della destrezza
Sono rivolti alla valutazione della destrezza mono o bi–manuale e consistono generalmente in compiti di inserimento di piccoli oggetti in tavole
forate da eseguire entro tempi determinati. Ricordiamo il:
— “Box and Block Test of Manual Dexterity”, che prevede lo spostamento
di cubetti da un compartimento all’altro di un contenitore (26);
— “Minnesota Rate of Manipulation Test”, che richiede di spostare 60 gettoni
inserendoli in altrettanti alloggiamenti posti su una tavola di legno (27);
— “O’Connor Finger Dexterity Test”, in cui il soggetto deve spostare 100 piccoli pioli inserendoli in altrettanti alloggiamenti posti su una tavola di
legno);
— “Purdue Pegboard Test”, in cui il soggetto deve assemblare, il più velocemente possibile, piccoli pioli metallici con rondelle e cilindretti e infilarli
in appositi fori (28);
— “Grooved Pegboard Test”, test costituito da una tavola con 25 fori a forma
di buco di serratura, dentro i quali il soggetto deve infilare 25 pioli, aventi la stessa forma, nel minor tempo possibile;
— “The 9–Hole Peg Test”, che consiste nel raccogliere 9 piccoli pioli e inserirli all’interno di altrettanti fori realizzati su una base di legno (29);
— “Pennsylvania Bi–Manual Worksample”, che consiste nell’avvitare e svitare piccoli dadi sui corrispondenti bulloni e nel posizionarli entro altrettanti alloggiamenti posti su una tavola di legno.
•Nella valutazione della funzionalità della mano protesica anche questo secondo tipo di test riguardanti coordinazione e della destrezza ha
trovato per ora utilizzi sporadici in quanto:
52
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
— la protesi possiede solo movimenti limitati ad alcuni piani (apertura e
chiusura della mano, prono–supinazione del polso, flesso–estensione
del gomito) e soprattutto tali movimenti non sono possibili contemporaneamente fra loro, per cui il movimento fondamentale per tutti questi test, la prensione fine + prono–supinazione dell’avambraccio, è eseguibile con maggior difficoltà;
— il tipo di prensione richiesta, tranne forse per i primi due test, è estremamente fine e va oltre le attuali capacità medie delle protesi;
— in considerazione del numero di movimenti prefissati che è possibile
ripetere con la protesi (mediamente 1000–2000 movimenti/die),
questi test risultano lunghi ed energeticamente dispendiosi.
Test di funzionalità globale o complessiva
Si tratta di diverse tipologie di test che comprendono: schede di valutazione quali–quantitative delle diverse prese manuali, schede di valutazione
(semi–)quantitative delle attività della vita quotidiana (ADL), test di tipo
pre–lavorativo consistenti nell’esecuzione di mansioni bimanuali più o
meno fini entro tempi determinati (figg. 1, 2).
Jebsen test
Questo storico test è costituito da 7 prove a tempo: 1.scrivere, 2.girare
cartoncini, 3.raccogliere piccoli oggetti, 4.simulare il nutrirsi, 5.impilare le
pedine della dama, 6.spostare barattoli leggeri, 7.spostare barattoli pesanti
(30). (Vedi Allegato 1).
•Alcuni osservano che il test sia poco rappresentativo delle attività quotidiane poiché esamina solamente attività unilaterali. Nella valutazione della
funzionalità della mano protesica questo test trova indicazione limitata poiché purtroppo per alcuni item (soprattutto i primi tre) valgono le stesse
considerazioni fatte per i test di coordinazione e destrezza (vedi), anche se
è stato utilizzato, per esempio da Stein, in associazione con altri test (19).
Katz Index of ADL
Anche questo è un test storico, che indaga igiene, alimentazione, abbigliamento, mobilità, continenza, mediante un punteggio a 8 livelli, (31) è
3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
53
stato a volte applicato anche per la quantificazione di prestazioni funzionali in amputati (32).
• Resta un buon test ma nel campo delle amputazioni gli stessi utilizzatori hanno lamentato, per esempio, la carenza del test nel rilevare eventuali abilità lavorative e/o sociali.
Figura 1 – Attività della vita quotidiana: allacciare le stringhe
Figura 2 – Attività della vita quotidiana: tagliarsi le unghie
54
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Abilhand
Si tratta di un test con il quale si richiede al soggetto di definire, secondo la sua attuale situazione, la difficoltà di 46 “items” riguardanti la vita quotidiana (igiene, abbigliamento, alimentazione, attività ricreative, ecc.) (figg.
3, 4).
L’esaminato ha a disposizione solo una griglia a 4 risposte standard possibili: molto difficile, un po’ difficile, facile, molto facile. È anche prevista
l’autosomministrazione (33). (Vedi Allegato 2).
• È un test molto recente ma molto significativo per la valutazione della
funzionalità della mano protesica in quanto:
— gli “items” sono accuratamente scelti fra i più significativi delle AVQ (=
attività della vita quotidiana);
— nella sua elaborazione sono stati utilizzati i rigorosi criteri della “Rasch
analysis”;
— è semplice, chiaro e relativamente veloce da somministrare.
Permane qualche dubbio sulla completa efficacia della griglia di 4 risposte standard disponibili, da verificare nella pratica e soprattutto sull’effettiva
efficacia nel quantificare i miglioramenti funzionali ottenuti con l’applicazione di una protesi di arto e con la relativa rieducazione motoria, in quanto
il suo scopo non è indagare direttamente l’utilizzo dell’arto (protesizzato)
bensì la funzionalità e l’autonomia motoria globale, indipendentemente
dalle strategie motorie con cui questa viene ottenuta.
Disability of the Arm, Shoulder and Hand (DASH)
Consiste in un questionario in cui il soggetto deve rispondere a 38 quesiti che riguardano: 16 la funzionalità della mano in attività quotidiane e 5
in attività ricreative, 3 la sua percezione della disabilità in attività lavorative
e sociali, 6 la presenza di sintomi quali dolore, rigidità, ecc., 4 l’attività lavorativa e 4 quella sportiva.
È prevista una griglia di risposte su 5 livelli (in genere da “nessuna difficoltà” a “totale incapacità”).
È un test proposto per qualunque disabilità dell’arto superiore e pertanto
cerca di quantificare la disabilità generica nello svolgere alcune funzioni. Infatti
nelle sue stesse istruzioni si dice che: “…non importa che mano o spalla Lei
usa per eseguire l’attività; risponda in base alla Sua capacità senza tenere
conto di come Lei esegue l’azione”.
3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
Figura 3 – Attività della vita quotidiana: fare nodi
Figura 4 – Attività della vita quotidiana: scrivere a mano
55
56
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Pur essendo un test recente ha trovato già diverse applicazioni (34).
•Pertanto con questo test si può trovare difficoltà a discriminare l’effettiva efficacia della protesi e del training riabilitativo, in quanto sono pochi
gli ‘items’ che richiedono espressamente l’utilizzo dell’arto protesizzato;
inoltre la parte sui sintomi risulta poco specifica.
Barthel Index
È la progenitrice di tutte le scale di misura dell’autosufficienza e della
disabilità e consiste in 10 “items” relativi alle principali attività quotidiane: il
punteggio assegnato va da 0 a 100 (35, 36).
•È l’indice di valutazione del livello di disabilità forse più vecchio, anche
se sempre utilizzato, specialmente in ambito infermieristico.
Anche in questo caso, visto che la patologia protesica incide solo su alcuni degli “items” e vista la griglia dei punteggi disponibili (limitata a 4 livelli di capacità), per la valutazione della funzionalità della mano protesica,
possono risultare più selettivi ed efficaci altri test.
Functional Indipendence Measure (FIM)
Si tratta della scala di misura della disabilità forse più conosciuta in
ambito internazionale, di cui è in fase applicativa da tempo una versione
italiana accettata e validata.
Tale scala misura in modo elettivo la “necessità di assistenza” di un
soggetto nel compiere le attività di vita quotidiana.
Gli “items” sono 18: 6 riguardano la cura della persona, 2 il controllo
sfinterico, 3 la mobilità, 2 la locomozione, 2 la comunicazione, 3 le capacità relazionali–cognitive.
Il punteggio assegnato va da 1 (= assistenza totale) a 7 (= indipendenza completa), secondo griglie di funzionalità molto precise (37,
38).
•È lo standard di valutazione del livello di disabilità forse più conosciuto
e utilizzato in ambito riabilitativo ed anche in questo tipo di soggetti trova,
effettivamente, in letteratura una sua valida applicazione (39).
Probabilmente, visto che la presenza di una protesi all’arto superiore incide solo su alcuni degli “items” (praticamente solo sui primi cinque), in
caso di studi svolti esclusivamente sulla valutazione della funzionalità della
mano protesica, possono risultare più selettivi altri test.
3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
57
Test proposti specificatamente per soggetti amputati portatori di
protesi di arto superiore.
ADL Test Battery
Un test elementare è stato utilizzato nel ’93 da Popat e Coll. che hanno
scelto alcuni ‘items’ significativi derivati da un precedente test messo a punto
nella New York University. Il test consiste nella misura del tempo che il soggetto impiega a completare tre compiti essenziali della vita quotidiana: tagliare la
carne con coltello e forchetta, infilarsi le calze, stendere la pasta (40).
•Si tratta evidentemente di un test particolarmente semplice e veloce,
che tuttavia può risultare scarsamente significativo in protocolli o casistiche
ben definite e strutturate.
Questionario ADL
Consiste in domande circa la capacità e il tempo impiegato dal soggetto
stesso nel compiere con l’arto protesizzato 35 “items” riguardanti: 6 l’alimentazione (figura 5), 11 l’igiene, 6 la comunicazione (figura 6), 5 le attività utili, 7 le
attività ricreative. La risposta va indicata necessariamente su una griglia di valori
dove: incapace=0; quasi mai=1; circa la metà del tempo=3; quasi sempre=5
(2 e 4 sono valori intermedi); N/A=non applicabile. (Vedi Allegato 3).
•Si tratta di un questionario proposto specificatamente per soggetti portatori di protesi di arto superiore, quindi risulta accurato nella scelta dei
compiti significativi e quindi degli “items” proposti, anche se per una corretta e ripetibile valutazione della funzionalità della mano protesica, la griglia dei punteggi e soprattutto la relativa legenda solleva alcuni dubbi, da
chiarire con studi che ne prevedano l’utilizzo pratico quotidiano.
Bimanual Functional Assessment
Si tratta di un test composto da 38 “items”: 8 per l’abbigliamento, 3
per l’igiene, 6 per l’alimentazione, 5 per le attività domestiche, 9 per le
lavorative e 7 per le ricreative. Il punteggio da assegnare ai vari compiti
prevede: 0 se il soggetto utilizza l’arto sano e/o altre parti del corpo, 1
se utilizza entrambi gli arti ma con l’assistenza di un’altra persona, 2 se
utilizzando entrambi gli arti risulta del tutto indipendente.
•Come nel caso precedente gli “items” sono scelti con cura, ma il punteggio presenta criteri di maggiore chiarezza. Avanziamo tuttavia la propo-
58
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
sta di invertire il punteggio 0 con l’1, in quanto è discutibile che aver necessità di aiuto, pur utilizzando parzialmente la protesi, sia meglio che svolgere il compito autonomamente (pur non usandola).
Southampton Hand Assessment Procedure (SHAP)
Questo test, consiste nella misurazione del tempo necessario all’esecuzione di 26 attività semplici (quali afferrare e/o utilizzare oggetti, compiti
Figura 5 – Attività della vita quotidiana: alimentazione
Figura 6 — Attività della vita quotidiana: comunicazione
3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
59
eseguibili da una mano sana con diverse tipologie di presa): 14 relative alla
vita quotidiana, 12 di tipo astratto. Il test si presenta ben strutturato, con
una tecnica statistica specifica per calcolare un ”Index of Functionality”e con
uno studio di validità e affidabilità (41, 42).
• È molto recente e sono allo studio applicazioni pratiche.
PUFI
Per dovere di completezza ricordiamo infine il PUFI (“Prosthetic Upper
Extremity Functional Index”) proposto recentemente come valido indicatore
dello stato funzionale di amputati di arto superiore, ma per ora pubblicato in
versione esclusivamente pediatrica (43).
È un test che ha ripreso spunti da precedenti valutazioni funzionali motorie di ambito pediatrico e che nella versione definitiva viene proposto in due
versioni, per i bambini da 3 a 6 anni e per i ragazzi da 7 a 18 anni. Per i primi
gli “items” sono così suddivisi: 7 per l’abbigliamento, 3 per le attività domestiche, 12 per quelle scolastiche e ricreative, 4 per le varie; per i secondi: 8 per
l’abbigliamento, 6 per l’autosufficienza quotidiana, 9 per le attività domestiche,
7 per quelle scolastiche e ricreative, 6 per le varie.
•È una proposta interessante, in un campo dove è particolarmente difficile avere riferimenti condivisi e standardizzati, in quanto alle consuete difficoltà clinimetriche nel “pesare” gli “items” si sommano le diverse competenze motorie relative alle diverse età.
Altri test interessanti
In numerosi altri lavori scientifici gli AA. utilizzano batterie di “items” e
griglie di punteggio da loro stessi proposte.
Procter (1991) ha proposto un nuovo dispositivo di prensione e ha utilizzato, per la valutazione, una serie di 10 compiti funzionali assegnando un
punteggio da 1 a 5 per ciascuno (44). Anche Edelstein (1993) per confrontare due diverse protesi in ragazzi ha utilizzato un set di 10 attività motorie della vita quotidiana (aprire scatole, indossare le calze, tagliare la
carne, ecc.) calcolando il tempo impiegato e gli errori commessi, mediante l’analisi con videoregistratore (45).
Lake (1997) per validare il training rieducativo mirato all’utilizzo della
protesi di arto superiore ha scelto tre compiti particolari: la presa di piccoli
oggetti e il loro posizionamento su di una scaletta posta sulla scrivania di
60
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
fronte al soggetto, lo spostamento sulla scrivania di piccoli oggetti, l’utilizzo
delle tavolette di domino (7).
•La particolarità del lavoro di Lake consiste nel fatto che nella valutazione
egli ha esaminato due precisi aspetti: l’abilità nell’uso dell’arto protesico (punteggio 0–4) mediante una griglia tradizionale, ma soprattutto la “spontaneità”
nell’uso della protesi, che è un aspetto spesso trascurato. A quest’ultimo aspetto viene assegnato analogamente un punteggio da 0 (= mano protesica utilizzata solo passivamente e molto raramente aperta e chiusa) a 4 (= immediato, automatico, consistente utilizzo della mano protesica per la prensione).
•Data la loro sporadicità, questi ultimi test, pur presentando come abbiamo visto spunti interessanti e pur restando utili in ambito clinico, sono sprovvisti in genere di studi di validazione e quindi, sono generalmente poco diffusi e per ora non facilmente generalizzabili.
Commento e conclusioni
Dalla revisione critica effettuata emerge in sintesi la necessità di proseguire gli studi intorno all’outcome della protesizzazione dell’arto superiore,
ricordando che molteplici fattori vanno presi in considerazione (accettabilità, peso, costo, ecc.) anche se la valutazione funzionale delle capacità motorie resta un elemento fondamentale. Da quest’ultimo punto di vista occorre sicuramente incrementare gli studi clinimetrici inerenti la valutazione
della funzionalità della mano protesica, anche alla luce dei recenti studi
metodologici pubblicati (6, 42, 46, 47). Nell’ambito della selezione riportata, che non ha assolutamente la pretesa di essere esaustiva ma che ha
sicuramente segnalato test fra i più rappresentativi, gli Autori segnalano
che, per indagini specifiche sulla valutazione della funzionalità della mano
protesica, test quali il Bimanual Functional Assessment, l’Abilhand e/o il
Questionario ADL, sono senz’altro applicabili nella pratica quotidiana per la
loro semplicità e chiarezza di somministrazione e per le loro caratteristiche
clinimetriche. Resta comunque fondamentale per una scelta ponderata la
chiara definizione dell’obiettivo che si vuole raggiungere, e in relazione a
ciò anche la scelta dello strumento di misura sarà facilitata.
È opinione di molti che comunque la strada da percorrere sulla via della
standardizzazione resta lunga e si auspica da parte di tutti la prosecuzione
3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
61
dei lavori, volti alla ricerca di un sempre maggior consenso circa la definizione chiara e precisa delle attività indagate (figure 7, 8) e dei punteggi assegnati (48, 49).
Secondo altri (50) non è corretto cercare di fornire una valutazione
quantitativa assoluta di eventuali deficit dell’attività manuale perché, per
ogni disabilità manuale, esisteranno tanti indici relativi, a seconda del
compito (lavorativo) che il soggetto vorrà/dovrà eseguire.
Resta comunque fondamentale per una scelta ponderata del test da
utilizzare la chiara definizione dell’obiettivo che si vuole raggiungere, e in
relazione a ciò anche la scelta dello strumento di misura sarà facilitata.
Figura 7 – Attività ricreative
Figura 8 – Attività lavorative
62
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
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3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
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3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
65
Allegato 1
TEST DI JEBSEN
INGRESSO: DIMISSIONE:
data
data
______
_______
sec.
sec.
Test n. 1: s c r i t t u r a
ND
D
est n. 2: g i r a r e c a r t o n c i n i
ND
D
Test n. 3: P r e n d e r e o g g e t t i d i
t a g l ia d i f f e re n t e e ri p o rl i d e n t ro
u n a s ca t o l a.
ND
D
Test n.4: r a c c o g l i e r e f a g i o l i e
ri p o rl i i n u n a s ca to l a
ND
D
Test n.5: I m p i l a r e l e p e d i n e d e l l a
dama
ND
D
Test n.6: s p o s t a r e o g g e t t i g r o s s i
e l eg g eri
ND
D
Test n.7: s p o s t a r e o g g e t t i g r o s s i
e pesanti
ND
D
M EDI A DEI V ALO RI %
ND
(ri s p et to a l l a n o rma )
D
CONTROLLO:
data
_______
sec.
66
Duccio Orlandini, Tancredi Moscato, Danilo Nicita, Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Allegato 2
ABILHAND
MOLTO UN PO’ FACILE
DIFFICILE DIFFICILE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
Mangiare un panino
Usare un cucchiaio
Raccogliere una lattina
Scartare una tavoletta di cioccolato
Bere un bicchiere d’acqua
Aprire un sacchetto di patatine
Tagliare la carne
Appoggiare un bicchiere d’acqua su un tavolo
Aprire una nocciola
Serrare un bullone
Piantare un chiodo
Usare un cacciavite
Comporre un numero su un telefono a tastiera
Maneggiare una penna a 4 colori con una mano
Scrivere a macchina
Inserire un dischetto nel computer
Allacciare un orologio da polso
Prendere una moneta dalla tasca
Prendere una moneta dal tavolo
Usare una cucitrice meccanica
Contare le banconote
Disegnare
Passare il filo in un ago
Girare una chiave nella toppa
Chiudere una porta
Impacchettare dei regali
Accendere la radio
Accendere la televisione
Accendere una lampada
Suonare alla porta
Chiudere la cerniera-lampo di un giubbotto
Abbottonare una camicia
Chiudere un bottone automatico (camicia, borsa)
Chiudere la cerniera-lampo dei pantaloni
Abbottonarsi i pantaloni
Lavarsi i denti
Spremere il dentifricio
Spazzolarsi i capelli
Pettinarsi
Lavarsi la faccia
Lavarsi le mani
Limarsi le unghie
Soffiarsi il naso
Spalmare del burro su una fetta di pane
Pelare le cipolle
Sbattere la pastella delle frittelle
MOLTO
FACILE
3. La valutazione della prensione in protesizzati di arto superiore
67
Allegato 3
QUESTIONARIO ADL
Istruzioni: cerchiate il numero che corrisponde alla quantità di tempo in
cui utilizzate le vostre protesi nelle seguenti attività:
Quasi
sempre
N/A
4
5
N/A
3
4
5
N/A
3
3
3
3
3
4
4
4
4
4
5
5
5
5
5
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
3
3
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3
3
3
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4
4
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5
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5
5
5
5
5
5
5
5
5
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
1
1
1
1
1
1
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2
2
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2
3
3
3
3
3
3
4
4
4
4
4
4
5
5
5
5
5
5
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
0
0
0
0
0
1
1
1
1
1
2
2
2
2
2
3
3
3
3
3
4
4
4
4
4
5
5
5
5
5
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
0
0
1
1
2
2
3
3
4
4
5
5
N/A
N/A
0
0
0
0
0
1
1
1
1
1
2
2
2
2
2
3
3
3
3
3
4
4
4
4
4
5
5
5
5
5
N/A
N/A
N/A
N/A
N/A
Incapace
Quasi
mai
2
Circa la
metà
del
tempo
3
0
1
Mangiare con le dita (es.: hamburger)
0
Mangiare con le posate
Pane e burro
Bere da 1 tazza e da 1 bicchiere
Reggere un vassoio
Aprire una confezione di latte
Igiene, toelettatura e ves tire
Pulire e tagliare le unghie
Lavare e asciugare gli arti
Allacciare stringhe delle scarpe
Fare il nodo alla cravatta
Sbottonare una camicia
Appendere abiti sulle grucce
Pulire le lenti degli occhiali
Mettere guanti alla mano (sana)
Chiudere la lampo
Agganciare (un vestito)
Allacciare una cintura
Comunicare
Riunire fogli e pinzarli
Temperare matite
Incartare e chiudere un pacco
Dattilo-scrivere
Aprire la posta
Scrivere
Attività utili
Svitare un vasetto
Aprire la porta con la chiave
Collegare un filo alla presa di corrente
Raccogliere oggetti dal pavimento
Infilare un ago e attaccare un bottone
Attività ricreative
Giocare a carte
Aprire il pacchetto e accendere la
sigaretta
Reggere una valigia e 1 giacca
Prendere i biglietti del portafoglio
Guidare
Giocare a golf
Altre attività
0
0
0
0
0
1
2
1
1
1
1
1
2
2
2
2
2
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
0
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
1
0
0
0
0
0
0
ATTIVITÅ
Mangiare
I
PASSAGGI POSTURALI
F. Franchignoni, M. Bianchi, G. Bazzini, G. Ferriero
La mobilità è una componente essenziale per l’indipendenza nelle attività di vita quotidiana di ogni individuo. Essa si basa sia sulla locomozione sia
sulla capacità di modificare posizioni (passare da seduto in piedi, rotolarsi, alzarsi dal letto, e così via). I vari tipi di mobilità, diversi dal cammino, vengono
di solito raggruppati con il termine di passaggi posturali. I passaggi posturali
richiedono tre requisiti fondamentali: il movimento deve avvenire nella direzione desiderata (progressione), con un buon controllo della stabilità e con
un continuo adattamento in funzione delle caratteristiche dell’ambiente circostante (1). Ogni movimento nasce poi dalla interazione di tre fattori: il compito, l’ambiente e l’individuo. La componente individuale si basa a sua volta
sulla cooperazione tra sistema motorio, percettivo e cognitivo. Per questo
motivo, ogni individuo può utilizzare diversi “pattern” di movimento. Questa
potenziale variabilità intra– e inter–individuale rappresenta la normalità, e
permette al soggetto di scegliere tra diversi possibili movimenti in funzione
degli obiettivi funzionali, delle limitazioni ambientali e delle caratteristiche personali (2). Infatti, la scelta della strategia è tra l’altro influenzata da fattori quali
l’età, le dimensioni del corpo e il livello di attività fisica praticata.
L’invecchiamento comporta modificazioni a livello del sistema muscolo–scheletrico (riduzione massa, forza, elasticità muscolare), del sistema sensoriale (visivo, propriocettivo, vestibolare) e della loro integrazione. Questi cambiamenti richiedono di variare alcune strategie utilizzate per eseguire i compiti funzionali. Ad esempio, gli adulti in buone condizioni di salute utilizzano le strate-
* Franchignoni e Ferriero: Servizio di Fisiatria Occupazionale e Ergonomia; Bianchi: Divisione Recupero e Rieducazione Funzionale, Istituto Scientifico di Riabilitazione di Veruno
(NO), Fondazione Salvatore Maugeri, IRCCS; Bazzini: Servizio di Fisiatria Occupazionale ed
Ergonomia, Istituto Scientifico di Riabilitazione di Montescano (PV), Fondazione Salvatore
Maugeri, IRCCS.
69
70
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
gie di trasferimento del momento (inteso come quantità di moto angolare) che
richiedono la generazione di rapide contrazioni concentriche ed eccentriche per
controllare il movimento e assicurare la stabilità. I soggetti anziani, invece, utilizzano strategie caratterizzate da una frammentazione del movimento, che permette un’esecuzione più lenta, a basse accelerazioni, con sviluppo di una minore forza in alcuni segmenti e con un miglior controllo globale della stabilità (1).
Anche le dimensioni corporee influenzano il tipo e il numero di “pattern”
di movimento usati nei passaggi posturali. Di solito gli individui più magri e alti
presentano una maggiore varietà di strategie di movimento, mentre un aumento del peso corporeo tende a ridurre il numero di strategie utilizzabili (2).
Analogamente, i soggetti che effettuano regolarmente attività fisica (2–3
volte a settimana) usano “pattern” di movimento più evoluti e veloci rispetto agli individui più sedentari (2,3). In questo capitolo prenderemo in considerazione — prevalentemente sotto il profilo biomeccanico — una serie di
passaggi posturali fondamentali per la mobilità evoluta: il passaggio dalla
stazione seduta a quella eretta, il rotolamento, il passaggio da supino a
terra alla stazione eretta, l’alzarsi dal letto e il salire e scendere le scale.
Il passaggio dalla stazione seduta alla stazione eretta
Il passaggio dalla posizione seduta alla stazione eretta consiste principalmente nella verticalizzazione del tronco, con estensione di anche e ginocchia.
Il passaggio posturale avviene contro gravità e determina lo spostamento del
baricentro in avanti e in alto. Le condizioni di equilibrio peggiorano in quanto
la base di appoggio, inizialmente costituita dalla sedia e dai piedi, si riduce all’area circoscritta dai soli piedi a terra (4). Il passaggio dalla stazione seduta alla
stazione eretta, negli adulti sani, avviene attraverso una strategia che sfrutta sia
il momento angolare generato da un rapido movimento in avanti del tronco,
sia l’estensione delle ginocchia. La flessione del tronco genera una forza propulsiva in direzione sia orizzontale (spostamento anteriore del centro di massa, cdm) che in parte verticale (innalzamento del cdm), proporzionale alla
massa della parte superiore del corpo e alla velocità con cui esso si muove
(5). Se il momento generato sposta il centro di massa oltre la base di appoggio (in quanto la forza propulsiva in direzione anteriore non è sufficientemente contrastata da forze frenanti), il soggetto può cadere in avanti (1,5,6). Il
4. I passaggi posturali
71
movimento richiede quindi un fine controllo posturale in ciascuna delle sue
fasi e l’azione frenante deve iniziare già prima dello stacco dalla sedia (6).
In letteratura alcuni autori hanno suddiviso il passaggio dalla stazione
seduta alla stazione eretta in tre fasi (1,6–8), mentre altri descrivono anche
una IV fase (5), (figura 1):
1) La I fase, o fase del momento flessorio (inteso come “quantità di moto”),
è caratterizzata dalla flessione del tronco in avanti mentre il soggetto è in
stazione seduta; questo permette lo spostamento del centro di massa anteriormente. L’attività muscolare include — oltre alla contrazione concentrica dei flessori del tronco — l’attivazione dei muscoli estensori del tronco, i
quali controllano il movimento attraverso una contrazione eccentrica (4).
Al termine della I fase i muscoli vasto mediale e retto femorale iniziano ad
attivarsi in preparazione della estensione di ginocchio (7). Questa fase costituisce un terzo circa dell’intero movimento e termina quando le natiche
si sollevano dal sedile della sedia (1,7).
2) La II fase, o fase di trasferimento del momento (dalla parte superiore
del corpo al corpo in toto), inizia con lo stacco della regione glutea dal
sedile. Il movimento avviene in direzione sia orizzontale che verticale. La
stazione eretta può essere raggiunta solo quando la linea di gravità del
corpo si trova all’interno della superficie d’appoggio dei piedi (5). Il
corpo è instabile durante questa fase in quanto il centro di massa è più
distante dal centro di forza (base d’appoggio). L’attività muscolare è caratterizzata dalla coattivazione dei muscoli estensori del tronco, delle
anche e delle ginocchia (4). Questa fase rappresenta il 35% dell’intero
movimento e termina con l’inizio dell’estensione del tronco (1,7).
3) La III fase, o fase di estensione del tronco (sollevamento), ha come obiettivo il raggiungimento della stazione eretta attraverso il completamento dell’estensione di anche e ginocchia. Il movimento è prevalentemente verticale. Durante questa fase il movimento del centro di massa (la cui proiezione
al suolo è già all’interno della base d’appoggio) è controllato dalla contrazione concentrica del muscolo quadricipite al ginocchio e dalla attività eccentrica del muscolo bicipite femorale al ginocchio e del grande gluteo a livello dell’anca (4,7). I muscoli retti addominali si attivano, in sincronia con i
muscoli estensori, per stabilizzare il tronco durante il passaggio posturale.
4) La IV fase, o fase di stabilizzazione, viene descritta solo da alcuni autori ed
è caratterizzata dal raggiungimento della stabilità in stazione eretta.
72
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
Figura 1 – Fase I : Momento flessorio – Fase II: Trasferimento
– Fase III: Estensione – Fase IV: Stabilizzazione
Il passaggio dalla stazione seduta alla stazione eretta richiede, quindi, da
parte del soggetto:
a) capacità di generare momenti angolari e “torque” articolari sufficienti per
rendere possibile il passaggio posturale (progressione);
b) stabilità nel passaggio del centro di massa dalla base di appoggio iniziale a quella finale;
c) capacità di modificare le strategie di movimento usate, in funzione delle
caratteristiche ambientali (velocità di movimento, altezza sedia, presenza/assenza di un appoggio) (1).
La strategia più comunemente usata è stata definita strategia di trasferimento del momento (“angular momentum”). Essa prevede infatti il passaggio del
momento dal tronco all’intero corpo (che deve avvenire velocemente e con
perfetto “timing” per essere efficace) e permette la riduzione delle richieste di
forza agli arti inferiori, in quanto il corpo è già in movimento prima che inizi il
sollevamento. Ciò richiede un buon controllo della stabilità da parte del soggetto. Il trasferimento è completato in un tempo inferiore ai 3 secondi.
A questa strategia viene di solito associato lo slancio degli arti superiori
verso l’avanti–alto, che facilita il successivo spostamento del tronco, riducendo così ulteriormente le richieste muscolari agli arti inferiori (4).
I soggetti con deficit muscolari agli arti inferiori utilizzano spesso questa
strategia, proprio perché permette loro la generazione di un minor “torque”
a livello degli arti inferiori.
4. I passaggi posturali
73
I soggetti che hanno difficoltà nel mantenere l’equilibrio, oppure le persone
che hanno perso la capacità di generare sufficienti forze muscolari ad alte velocità a livello di tronco e arti superiori, adottano strategie che assicurano loro una
maggiore stabilità, a scapito della velocità del movimento, che viene completato in media in un tempo superiore ai 6 secondi. La strategia di stabilizzazione
prevede lo scivolamento delle natiche fino al bordo del sedile della sedia, in
modo che il centro di massa cada al di sopra dei piedi in posizione seduta. I
piedi, attraverso la flessione delle ginocchia e la flessione dorsale delle tibio–tarsiche, vengono posizionati un po’ all’indietro, appena al di sotto della sedia.
Questa strategia non richiede un fine controllo della stabilità poiché il centro di
massa del corpo è all’interno della base di appoggio già prima del sollevamento. Essendo però eliminata la fase di trasferimento del momento, il “torque” richiesto agli arti inferiori per la verticalizzazione tende ad aumentare.
In ogni caso, l’appoggio degli arti superiori ai lati del tronco assicura una
maggiore stabilità, in quanto aumenta la base di appoggio posteriore nella
fase iniziale di sollevamento e di spostamento in avanti del tronco. La loro
successiva spinta (sui braccioli meglio che sulla seduta — per ottenere un
impulso maggiore) riduce le richieste di forza muscolare a livello degli arti
inferiori perché fa partecipare gli arti superiori al lavoro antigravitario nella fase iniziale, che è la più impegnativa.
Trasferimento del momento
Stabilizzazione
Figura 2 – Spostamento del centro di massa nella “strategia di trasferimento
del momento” e nella “strategia di stabilizzazione”
74
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
Tutte le strategie identificate precedentemente mostrano un minor successo nel caso in cui venga ridotta l’altezza della sedia (9,10). Questo è il
risultato della grande dipendenza di queste strategie dalla muscolatura degli
arti inferiori per fornire il “torque” necessario per alzarsi. L’uso di una sedia alta
facilita il movimento, indipendentemente dalla strategia utilizzata, mentre
solo pochi soggetti anziani riescono ad alzarsi dalle sedie di altezza pari o inferiore all’80% di quella standard (anche con l’aiuto degli arti superiori) (9).
Il rotolamento
Il rotolamento è molto importante per i trasferimenti a letto e per i movimenti che prevedono una parziale rotazione, come il passaggio da supino
alla posizione seduta o da supino in piedi. Le strategie di movimento utilizzate per il rotolamento dalla posizione supina a prona da soggetti adulti
sono variabili. Per un’analisi di questo movimento è utile considerare separatamente tre componenti: estremità superiore, estremità inferiore, capo e
tronco. Il rotolamento si può realizzare secondo tre sequenze principali:
1) la strategia più comunemente usata, mostrata in figura 3, è caratterizzata
dalla rotazione del capo e del cingolo scapolare, slancio dell’arto superiore controlaterale alla direzione del rotolamento verso la direzione del
movimento, rotazione cingolo pelvico, e infine degli arti inferiori (che in
precedenza si erano opportunamente posizionati) fino a raggiungere la
posizione sul fianco o prona. Per realizzare il movimento, questa strategia
sfrutta lo slancio dell’arto superiore per permettere il trasferimento del
momento da questo al resto del corpo con conseguente facilitazione del
rotolamento globale, che avviene quindi in modo rapido.
Figura 3 – Strategia di movimento più comune negli adulti per eseguire il rotolamento
4. I passaggi posturali
75
2) Una seconda strategia di rotolamento, mostrata in figura 4, prevede la
flessione dell’arto inferiore controlaterale alla direzione del rotolamento,
la spinta sul tallone dello stesso arto, e la rotazione del cingolo inferiore seguita da quella del cingolo superiore e del capo.
Figura 4 – Strategia di rotolamento con spinta dell’arto inferiore
3) Una terza strategia di rotolamento, mostrata in figura 5, è caratterizzata
dalla rotazione della testa (e iniziale del cingolo scapolare) e dall’appoggio e spinta con la mano dell’arto superiore controlaterale alla direzione
del movimento (11).
Figura 5 – Strategia di rotolamento con spinta dell’arto superiore
Le ultime due strategie descritte prevedono l’appoggio e la spinta con
l’estremità di un arto. Questo determina un rotolamento più lento ma più stabile (per aumento della base d’appoggio), quindi maggiormente utilizzato da
soggetti con deficit muscolari o rigidità assiale, incapaci di sviluppare una
forza sufficiente ad alte velocità a carico degli arti superiori e del tronco, con
limitazioni della escursione articolare o in assenza di un adeguato “timing”.
76
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
Il passaggio dal decubito supino a terra alla stazione eretta
Il movimento avviene contro gravità e con interventi muscolari prevalentemente di tipo concentrico.
Anche in questo caso, come nell’alzarsi da una sedia, le condizioni di
equilibrio peggiorano, il baricentro si sposta in alto e la base di appoggio si riduce all’area circoscritta dai piedi a terra (4). Come per altri passaggi posturali, anche il raddrizzamento (comunque venga effettuato)
richiede una serie di movimenti automatici e un continuo controllo posturale globale, in modo che la proiezione del centro di gravità sia sempre mantenuta all’interno della base di appoggio. Il trasferimento può
essere effettuato con sequenze anche molto differenti tra gli individui
della stessa età.
La scelta della strategia di movimento da utilizzare per alzarsi dal terreno avviene in funzione di molti fattori, tra i quali il livello di attività fisica,
lo stile di vita, la motivazione, l’istruzione impartita o la necessità o meno
di un rapido svolgimento della manovra (1). I giovani adulti utilizzano movimenti simmetrici, che richiedono una buona forza muscolare, una completa escursione articolare a livello degli arti inferiori e un buon controllo
posturale. Le tre strategie più frequenti per alzarsi da terra sono le seguenti (figura 6) (1,12):
a) la strategia più comune nel giovane adulto prevede un movimento simmetrico del tronco in avanti–alto, uno slancio simmetrico delle estremità superiori, il passaggio alla posizione seduta, il sollevamento delle natiche dalla superficie di appoggio e, tramite un accovacciamento simmetrico (squat), il raggiungimento immediato della stazione eretta. Questa
sequenza è la più veloce in quanto riduce al minimo i passaggi intermedi necessari per raggiungere la posizione finale;
b) una seconda strategia è caratterizzata da uno slancio o una spinta simmetrici con le estremità superiori e da un accovacciamento asimmetrico, con spinta in prevalenza monolaterale;
c) una terza strategia prevede il sollevamento del capo e del tronco, l’appoggio su un braccio, una parziale rotazione del tronco, l’appoggio sul
ginocchio corrispondente e quindi l’estensione di quest’ultimo e —
attraverso l’elevazione del tronco — il raggiungimento della stazione
eretta.
4. I passaggi posturali
77
Figura 6 – Le tre strategie più comuni per il raggiungimento della stazione eretta.
A. Movimento simmetrico del tronco con “squat” simmetrico.
B. Movimento simmetrico del tronco con “squat” asimmetrico.
C. Movimento asimmetrico del tronco
I soggetti anziani, invece, presentando una debolezza dei muscoli degli
arti inferiori, utilizzano movimenti asimmetrici, e/o strategie che forniscono
una maggiore base di appoggio e un passaggio graduale alla posizione
finale del movimento.
La sequenza per il raddrizzamento può essere sviluppata ad esempio
anche in seguito al rotolamento da supino a prono (secondo le modalità descritte nel paragrafo precedente), con successiva estensione degli
arti superiori e flessione di quelli inferiori (posizione a carponi o “a quattro zampe”) per poi passare a cavalier servente e quindi in piedi (oppure — meno frequentemente — estendendo contemporaneamente i quattro arti sino ad arrivare alla posizione a elefante e quindi in piedi) (13).
Nei soggetti fisicamente più compromessi le ultime fasi si giovano a volte
dell’appoggio a qualche arredo vicino (sedia, letto, ecc.).
78
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
Alzarsi dal letto
Analogamente ad altri passaggi posturali (disteso a terra – in piedi,
alzarsi dalla sedia, rotolamento), le strategie per alzarsi dal letto usate dai
soggetti adulti in buone condizioni di salute mostrano una discreta variabilità sia inter–individuale (in funzione di età, sesso, struttura corporea,
funzionalità neuromuscolare e muscoloscheletrica, limitazioni articolari,
ecc.) che intra–individuale, e tendono ad adattarsi alle mutevoli condizioni di contesto.
Infatti, anche tale movimento richiede un compromesso tra necessità
di generare notevoli momenti angolari (per muovere il baricentro — con il
minimo di spostamenti — in direzione cranio–caudale e obliqua verso il
lato di discesa e sollevarlo) e bisogno di stabilità (cioè di fine controllo del
baricentro durante il passaggio da un appoggio di tutto il corpo in posizione orizzontale alla stazione eretta). Esistono due principali strategie globali utilizzabili:
1) I giovani adulti tendono ad alzarsi dal letto attraverso un movimento
fluido, rapido e sicuro, che impone un continuo e ben calibrato controllo
posturale (figura 7). Tale movimento per lo più prevede (ad esempio nel
caso di discesa dal letto verso destra):
a) manovra di roll off
Raramente inizia con il semplice slancio dell’arto superiore sinistro in
direzione obliqua verso il lato di discesa dal letto, mentre più spesso
comincia con una spinta sul letto dell’arto semiflesso (che si estende
progressivamente fino a quando la mano risulta essere l’unica parte in
appoggio). In seguito, a volte l’arto viene spostato a lato del tronco e la
mano spinge una seconda volta, altre volte invece l’arto viene alzato e
portato in avanti per aiutare il controllo dell’equilibrio, fungendo da bilanciere. Tali manovre sono accompagnate dall’uso dell’arto superiore
destro con funzione di perno (su cui sviluppare la rotazione del corpo)
ed eventualmente di aiuto del sollevamento del tronco (con manovre
di spinta o di trazione). In questa fase la flessione del capo e del tronco si accompagnano alla rotazione delle spalle verso la direzione del
movimento globale.
4. I passaggi posturali
79
1
2
4
3
5
6
Figura 7 – Strategia di movimento più comune nei giovani adulti per alzarsi dal letto
Gli arti inferiori giocano un ruolo importante nell’esecuzione di questi movimenti, in quanto vengono sollevati — più spesso in modo
asincrono — dal letto (a volte, prima di essere sollevato, l’arto opposto al lato da cui si vuole scendere spinge sul letto) e portati lateralmente verso il lato di discesa e poi in basso oltre il bordo del letto,
con produzione di un momento angolare tale da favorire il raggiungimento della posizione seduta con il tronco. Questa fase termina
con il raggiungimento di una posizione seduta con le gambe giù dal
letto (l’appoggio del piede omolaterale alla direzione del movimento precede di solito l’altro e il loro asse non sempre e necessariamente è perpendicolare a quello del letto) (1,14);
b) il raggiungimento della stazione eretta (partendo da quella seduta sul
letto) inizia con ulteriore parziale rotazione del corpo in toto sul piano
orizzontale verso la direzione finale del movimento e quindi si completa con un movimento che ha caratteristiche simili all’alzarsi da una
sedia di uguale altezza.
2) Con il passare degli anni (e la perdita della capacità di generare notevoli momenti articolari e di controllare l’equilibrio durante movimenti ad
alta velocità) la strategia per alzarsi dal letto (figura 8) prevede sempre più
spesso la suddivisione del passaggio posturale in un maggior numero di
fasi separate:
80
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
a) manovra di come to sit — sollevamento del tronco e passaggio in posizione seduta con gli arti inferiori sul letto (1). Il movimento avviene tramite una spinta o di entrambi gli arti superiori (con i gomiti e poi con
le mani) oppure del solo arto superiore controlaterale alla direzione del
movimento, mentre quello omolaterale esercita una trazione afferrando il bordo del letto. La manovra produce ampliamento della base di
appoggio posteriore e conseguente riduzione dei problemi di equilibrio
che si possono incontrare sollevando il tronco dal piano di appoggio
(14,15);
b) rotazione del tronco e degli arti inferiori con spostamento e appoggio
a terra dei piedi più sincrono;
c) raggiungimento della stazione eretta (partendo da quella seduta sul letto in modo simmetrico).
Da un punto di vista delle attività muscolari, in entrambe le strategie
e in particolare nella prima (figure 7 e 8) i flessori del capo, gli addominali (in quanto flessori del tronco) e i flessori delle anche agiscono secondo uno schema di reclutamento in direzione cranio–caudale e con
ruoli alternati di agonisti e fissatori. Inizialmente si ha una contrazione
concentrica dei flessori del capo, mentre gli addominali sono in contrazione isometrica, poi gli addominali passano in contrazione concentrica,
mentre i flessori delle anche assicurano la fissazione dei segmenti distali, infine i flessori delle anche agiscono attraverso una contrazione con-
1
3
2
Figura 8 – Strategia di movimento più comune negli anziani per alzarsi dal letto
4
4. I passaggi posturali
81
centrica nelle fasi avanzate del movimento. L’appoggio delle braccia,
seguito da spinte o trazioni sul letto, fa sì che il lavoro svolto dagli adduttori e depressori delle scapole, unitamente a quello di estensori di braccia e avambracci permetta, la riduzione del lavoro antigravitario dei flessori del tronco e delle anche. La fase finale di raggiungimento della posizione eretta partendo da quella seduta ha notevoli analogie con l’alzarsi da una sedia (anche in questo caso l’altezza del letto ha notevole
influsso sullo schema prescelto).
In sintesi, la strategia illustrata nella figura 8 – a scapito di un tempo più
lungo di completamento dell’operazione e di un maggiore dispendio energetico globale — fornisce più stabilità durante il trasferimento e permette
una riduzione della forza sviluppata dai flessori del tronco e delle anche
rispetto alla strategia della figura 7.
Salire e scendere le scale
Salire e scendere le scale sono attività complesse che richiedono movimenti reciproci alternati degli arti inferiori e, come per il cammino, prevedono fasi di appoggio e oscillazione (16).
La realizzazione di queste attività necessita di tre requisiti: 1) generazione di contrazioni concentriche propulsive per la salita delle scale e di contrazioni eccentriche per la discesa; 2) continuo controllo del centro di
massa durante i diversi cambiamenti di base d’appoggio (stabilità); 3)
capacità di adattare le strategie usate per la progressione e la stabilità a
diverse condizioni ambientali (es. gradini più alti, assenza di corrimano,
ecc.).
Salita
Durante la salita, si possono distinguere a livello di ciascun arto inferiore
due diverse fasi, una di appoggio e una di oscillazione. Come nel cammino, esiste naturalmente un movimento alternato dei due arti inferiori, con
due fasi di doppio supporto intervallate da due fasi di supporto su un singolo arto.
82
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
1) La fase di appoggio (figura 9) è a sua volta suddivisa in tre sottofasi (16):
a) accettazione del carico (weight acceptance – WA), che inizia con il contatto
del piede (RFC, in basso nelle figure) nella sua parte centrale e anteriore.
Essa è iniziata e facilitata dal movimento dell’arto controlaterale e caratterizzata da una lieve contrazione concentrica da parte dei flessori plantari ipsilaterali con funzione di posizionamento del piede (zona A1 in figura 9 D);
b) spinta verso l’alto (pull up – PU): realizzata tramite estensione di anca, ginocchio e in minor misura di caviglia (figura 9A), con contrazione concentrica
dei muscoli glutei, vasto laterale e soleo (figura 9B). È stata anche descritta
da alcuni autori una contrazione eccentrica del retto femorale. Qui gli estensori di ginocchio sviluppano la loro maggiore potenza (zona K1 in figura
9D). La maggiore instabilità si verifica nel passaggio WA–PU, con il distacco
delle dita del piede controlaterale (LTO, in basso nelle figure), quando cioè
l’arto inferiore ipsilaterale accetta totalmente il peso del corpo, le articolazioni di anca, ginocchio e caviglia sono flesse e vi è un picco nei momenti di
ginocchio e caviglia (figura 9C);
c) progressione in avanti (forward continuance – FCN): è in questa fase
che la caviglia sviluppa la sua maggiore potenza (zona A3 in figura 9D),
per azione combinata di soleo e gastrocnemi (figura 9B), e – verso la
sua fine – l’arto controlaterale prende contatto con il gradino superiore
(LFC, in basso nelle figure).
2) La fase di oscillazione consta di due sottofasi:
a) la prima (sollevamento del piede, foot clearance – FCL) prevede il sollevamento del piede (RTO, in basso nelle figure), in modo tale che esso
superi il gradino senza inciamparvi ed è realizzata tramite attivazione
concentrica del tibiale anteriore (dorsiflessione del piede) e degli ischiocrurali (flessione del ginocchio) e contrazione eccentrica del retto femorale. L’arto inferiore in fase oscillante è alzato e portato in avanti dalla
contrazione concentrica dei flessori d’anca e dal movimento impresso
dall’arto inferiore controlaterale.
b) la seconda sottofase (posizionamento del piede, foot placement – FP)
consiste nell’appoggio del piede sul gradino superiore in preparazione
all’accettazione del carico che avverrà nella successiva fase ed è controllata dagli estensori d’anca e dai dorsiflessori di caviglia.
4. I passaggi posturali
83
Grafici rappresentanti le medie (+ 1 D.S.) di:
a) angoli articolari di anca (hip), ginocchio (knee)
B
e caviglia (ankle);
b) attività EMG di 8 muscoli dell’arto inferiore (retto femorale, vasto laterale, semitendinoso, grande gluteo, medio gluteo, gastrocnemio mediale,
soleo, tibiale anteriore);
c) momenti articolari a livello di anca, ginocchio e
caviglia;
d) potenze sviluppate a livello di anca, ginocchio
e caviglia.
Per le principali abbreviazioni riferirsi al testo
A
D
C
Figura 9 – Salita delle scale
84
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
Discesa
Mentre per salire le scale si deve sviluppare energia (potenze positive in figura 9D) per consentire la progressione in avanti e verso l’alto, per scendere le
scale (figura 10) è invece richiesta principalmente una contrazione eccentrica degli estensori di anca, ginocchio e caviglia (e assorbimento di energia – figura
10D), al fine di controbilanciare gli effetti della forza di gravità. Anche nella discesa si possono distinguere due diverse fasi, una di appoggio e una di oscillazione.
1) La fase di appoggio è suddivisa in tre sottofasi (16):
a) accettazione del carico (weight acceptance – WA): che va dall’appoggio del
piede (RFC nelle figure 10) al distacco delle dita del piede controlaterale
(LTO nelle figure). È caratterizzata dall’assorbimento di energia a livello di ginocchio e caviglia attraverso la contrazione eccentrica del tricipite surale, del
retto femorale e del vasto laterale e un picco di attività concentrica dei glutei (vicino alla fine del primo periodo di doppio supporto);
b) progressione in avanti (forward continuance — FCN);
c) discesa controllata (controlled lowering — CL): caratterizzata principalmente
dalla contrazione eccentrica del quadricipite e, in minor misura, del soleo.
2) La fase di oscillazione consta di due sottofasi:
a) nella prima (portare l’arto in avanti, leg pull through – LP) l’arto sollevato è
inizialmente portato in avanti dall’attivazione dei flessori d’anca, mentre a
metà dell’oscillazione si assiste all’estensione di anca, ginocchio e caviglia
in preparazione alla sottofase successiva;
b) la seconda sottofase dell’oscillazione prevede l’appoggio del piede (foot
placement – FP) che avviene prevalentemente col bordo laterale ed è
associata a un’attivazione del tibiale anteriore e a un’attivazione anticipatoria del gastrocnemio.
Pazienti con lesioni del sistema nervoso centrale tendono a fare le scale lentamente, a richiedere la presenza di corrimano per supporto e progressione e,
nei casi di maggior compromissione, a portare entrambi i piedi sul medesimo
gradino prima di progredire sul gradino successivo. Negli anziani possono insorgere difficoltà anche a causa della compromissione delle funzioni somatosensoriali (che può coinvolgere sia la percezione dell’altezza del gradino da parte
dei meccanocettori cutanei plantari, sia la percezione di posizione articolare,
indispensabile per il corretto sollevamento del piede in fase di oscillazione) e
della presenza di problemi visivi come presbiopia, cataratta, ecc.
4. I passaggi posturali
85
Grafici rappresentanti le medie (+ 1 D.S.) di:
a) angoli articolari di anca (hip), ginocchio
(knee) e caviglia (ankle);
b) attività EMG di 8 muscoli dell’arto inferiore
(retto femorale, vasto laterale, semitendinoso, grande gluteo, medio gluteo, gastrocnemio mediale, soleo, tibiale anteriore;)
c) momenti articolari a livello di anca, ginocchio e caviglia
d) potenze sviluppate a livello di anca, ginocchio e caviglia.
B
Per le principali abbreviazioni riferirsi al testo.
A
D
C
Figura 10 – Discesa delle scale
86
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
Esercizi per migliorare le abilità nei passaggi posturali
La difficoltà nel realizzare i principali passaggi posturali è comune ai
soggetti anziani (10) e a pazienti affetti da patologie neurologiche croniche, determinando un impatto diretto sull’indipendenza e sulla qualità di
vita di questi individui.
Alcuni studi sono stati condotti per valutare quali fattori possono ostacolare o facilitare la realizzazione dei passaggi posturali (9,10). Al fine di
rieducare i più comuni trasferimenti si è spesso sottolineato come sia
importante:
a) conoscere la corretta sequenza di movimento nell’adulto sano;
b) valutare analiticamente le difficoltà incontrate dal paziente durante
l’esecuzione del passaggio posturale (disturbi di equilibrio, deficit di
forza segmentaria, articolarità, difficoltà nel ricordare i suggerimenti forniti, ecc.);
c) evitare che il soggetto adotti durante l’esecuzione del passaggio posturale strategie inutili o potenzialmente dannose;
d) scomporre l’esercizio relativo alla sequenza motoria in fasi parziali e poi
ricomporre correttamente l’intera sequenza.
Il programma di allenamento specifico dei passaggi posturali può prevedere sia aumenti di difficoltà del compito tramite la limitazione dell’uso
degli arti superiori o di appoggi sia facilitazioni come l’opportuna modificazione degli strumenti utilizzati (sedia, letto) (9,10). Ad esempio, nel caso il
passaggio posturale fosse possibile inizialmente solo attraverso il ricorso ad
appoggi esterni, il fine ultimo dell’esercizio può essere portare il soggetto a
eseguire l’intera sequenza senza appoggi e con sicurezza.
Oltre a un allenamento specifico, il programma riabilitativo è focalizzato in particolare sul trattamento del tronco (articolarità, potenziamento
neuromuscolare specifico, equilibrio) in relazione all’importanza che la
mobilità del rachide ha sulla performance fisica globale relativa ai trasferimenti (17).
Sono previsti anche esercizi per mantenere o incrementare l’escursione
articolare, l’elasticità, la forza, la potenza e la resistenza muscolare (con particolare attenzione ai gruppi muscolari direttamente coinvolti nei passaggi
posturali) ed esercizi per migliorare lo svincolo dei cingoli e per stimolare
le reazioni di equilibrio in statica e in dinamica.
4. I passaggi posturali
87
Alzarsi dalla sedia
Il passaggio dalla posizione seduta alla stazione eretta può essere influenzato da diversi fattori legati alle caratteristiche della sedia (altezza), del
soggetto (età, forza muscolare), o alla strategia utilizzata (18). Dopo una
valutazione delle caratteristiche di movimento spontaneo, viene proposta
al paziente una esercitazione nel movimento stesso, che adotti sequenze
motorie o accorgimenti miranti a migliorarne l’efficienza. Questo passaggio
posturale può essere valutato variando l’altezza della sedia, l’inclinazione
dello schienale (105° vs 90° standard) o reclinando il sedile (10° vs 5°
standard), in quanto i cambiamenti delle caratteristiche della sedia determinano variazioni nelle richieste biomeccaniche e richiedono modifiche
della strategia utilizzata (19).
Ad esempio, se il trasferimento viene realizzato impedendo l’uso degli
arti superiori, il momento estensorio da produrre a livello delle anche è
superiore di circa il 50% (18).
Nel caso il movimento completo fosse impossibile o comunque molto
rallentato, le esercitazioni iniziano con la ripetizione delle sue parti di più
difficile realizzazione:
— alzarsi dalla sedia da differenti altezze utilizzando l’appoggio e la spinta
sugli arti superiori (dato 100% FK se l’altezza della sedia è uguale alla
distanza tra il terreno e il condilo laterale del ginocchio, l’esercizio parte
dal 140% FK per arrivare al 80% FK);
— alzarsi da una sedia con sedile reclinato posteriormente di 10° e con lo
schienale inclinato a 105°, con l’uso degli arti superiori;
— alzarsi da differenti altezze, senza l’uso degli arti superiori (10).
L’esecuzione del passaggio posturale può essere eseguita addestrando
il soggetto a utilizzare posizioni facilitanti quali quella di scivolare in avanti
vicino al bordo della sedia, aumentare la flessione anteriore del tronco, sviluppare un momento a livello del tronco sufficiente per sollevare i glutei
dalla sedia, utilizzare al meglio il supporto dei braccioli, e così via. Al soggetto viene inoltre richiesto, a ogni seduta, di descrivere verbalmente la
nuova strategia adottata e di svolgerla poi nelle sue parti di più difficile realizzazione e infine nella sua interezza.
Nel caso il movimento completo sia inizialmente possibile solo tramite
il ricorso all’appoggio ai braccioli, l’esercizio terapeutico mira a portare il
88
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
soggetto a eseguire l’intera sequenza senza appoggi, sfruttando nelle prime
fasi altre facilitazioni (quale ad esempio quella per sviluppare un momento angolare a carico del tronco sufficiente per sollevare adeguatamente i
glutei dalla base di appoggio).
Se il compito viene eseguito nella sua interezza, esso è reso di difficoltà crescente agendo sui seguenti parametri (10):
— abbassamento del sedile della sedia;
— inclinazione del sedile (~ 10°) e dello schienale (~ 105°);
— eliminazione dei braccioli della sedia;
— aggiunta di un cuscino morbido;
— trasferimento eseguito mantenendo le braccia incrociate sul petto;
— aumento della velocità di movimento richiesta;
— uso di un giubbotto dotato di pesi.
Oltre a questo allenamento specifico, i soggetti vengono allenati con: a)
esercizi per rinforzo muscolare ed elasticità arti inferiori (compreso semi–squat) ed eventualmente superiori; b) esercizi per rinforzo muscolare
del tronco (compresi addominali) e aumento articolarità del rachide. In particolare viene sottolineata l’importanza di condurre un adeguato programma di potenziamento neuromuscolare per migliorare la capacità di realizzare il trasferimento (10).
Rotolamento
Nei soggetti anziani il passaggio dalla posizione supina a quella prona,
ad esempio nel letto, può essere compromesso a causa della progressiva
riduzione della motilità del rachide, dello svincolo dei cingoli e dalla presenza di algie lombari e in altri distretti.
Il trasferimento viene pertanto allenato suddividendo l’intera sequenza
motoria nelle singole componenti.
Ad esempio ricercando lo svincolo tra il cingolo pelvico e quello scapolare ed evitando spinte degli arti superiori o inferiori quando non necessario, si deve porre attenzione che il soggetto non adotti strategie errate o
troppo dispendiose da un punto di vista energetico e addestrare il paziente a utilizzare alcune facilitazioni.
4. I passaggi posturali
89
L’obiettivo finale è l’esecuzione di un movimento veloce, fluido, armonioso, a partire dalla posizione supina. La sequenza motoria prevede:
— ruotare il capo verso la direzione di movimento;
— sollevare l’arto superiore controlaterale alla direzione di movimento e
attraverso un rapido movimento in adduzione dell’articolazione scapolo–omerale, portarsi in decubito laterale e quindi in posizione prona.
Nel caso inizialmente il trasferimento fosse molto compromesso, per
facilitare l’esecuzione del rotolamento è possibile allenare:
— lo svincolo dei cingoli in posizione supina;
— il passaggio dalla posizione supina a quella sul fianco (prima attraverso
la spinta e poi con lo slancio degli arti superiori) mantenendo gli arti inferiori flessi;
— il passaggio dalla posizione supina a quella prona sfruttando la spinta
dell’arto inferiore controlaterale alla direzione del rotolamento;
— il passaggio dalla posizione supina a quella prona sfruttando la spinta e
poi lo slancio degli arti superiori (se possibile);
— l’esecuzione del trasferimento in condizioni simili a quelle ambientali
(superfici morbide).
Alzarsi dal pavimento
La difficoltà ad alzarsi da terra in seguito a cadute è particolarmente
comune nei soggetti anziani, in quanto la presenza di dolore, debolezza
muscolare, disturbi di equilibrio e paura di cadere possono compromettere la capacità di realizzare il trasferimento (20). Molti studi hanno sottolineato l’importanza di un programma di rieducazione dell’alzarsi da terra al
fine di modificare la strategia utilizzata, ridurre il dolore e lo sforzo fisico
necessario, migliorare la sicurezza e la fluidità del movimento e diminuire
il tempo necessario per completare il trasferimento (21).
L’alzarsi da terra può essere realizzato partendo da diverse posizioni
(supino, decubito laterale, prono, a quattro zampe, seduto a terra) e con o
senza supporti (tavolo, sedia). I risultati ottenuti da diversi studi indicano
che la posizione di partenza che facilita maggiormente la realizzazione del
passaggio posturale è quella a quattro zampe (20,21).
90
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
Dopo valutazione delle caratteristiche di movimento spontaneo (rilevando: posizioni intermedie; strategie non necessarie, insufficienti o potenzialmente dannose; fluidità di movimento), viene proposta al paziente
un’esercitazione nel movimento stesso che adotti sequenze motorie miranti a migliorarne l’efficienza.
L’esercizio terapeutico viene monitorato al fine di valutare eventuali deficit di equilibrio, forza segmentaria, o articolarità, algie, nonché limitazioni
nella capacità di ricordare i suggerimenti forniti (21).
Al soggetto viene inoltre richiesto — a ogni seduta — di descrivere verbalmente la nuova strategia adottata, e poi di svolgerla sia nella sua interezza che, ripetutamente, nelle sue parti di più difficile realizzazione.
Nel caso il movimento completo fosse impossibile, le esercitazioni iniziano con la ripetizione delle sue parti di più difficile realizzazione.
Per facilitare la realizzazione del raddrizzamento è importante suddividerlo in alcune fasi fondamentali:
– dalla posizione supina raggiungere la posizione prona attraverso il rotolamento;
– attraverso l’appoggio sugli arti raggiungere la posizione a quattro zampe
e poi in ginocchio;
– trasferire il peso su un arto inferiore, liberare il carico dal controlaterale (posizione a “cavalier servente”) e raggiungere la stazione eretta.
Per facilitare ulteriormente il raddrizzamento il soggetto può inizialmente avvalersi dell’appoggio a un supporto esterno (sedia, tavolo) e utilizzare passaggi intermedi, che garantiscono una maggiore base d’appoggio e riducono l’impegno muscolare a livello degli arti inferiori (posizione a elefante).
Nel caso il movimento completo fosse inizialmente possibile solo tramite il ricorso ad appoggi esterni, il fine ultimo dell’esercizio può essere
(per quanto appropriato) di portare il soggetto a eseguire l’intera sequenza senza l’uso di supporti o con un minor appoggio sugli arti superiori.
Oltre a questo allenamento specifico, i soggetti vengono allenati
con: a) esercizi per rinforzo muscolare ed elasticità arti inferiori (compreso semi–squat) ed eventualmente superiori; b) esercizi per rinforzo muscolare del tronco (compresi addominali) e aumento articolarità
del rachide.
4. I passaggi posturali
91
Alzarsi dal letto
La difficoltà nell’alzarsi dal letto è particolarmente comune tra i soggetti
anziani (15). Il passaggio da supino a seduto richiede l’intervento di diversi gruppi muscolari e una buona libertà di movimento a livello del tronco,
svincolo dei cingoli, equilibrio, spesso compromessi nel soggetto anziano.
Per facilitare il soggetto è importante inizialmente suddividere e allenare le
singole componenti del passaggio posturale, ad esempio:
– flettere gli arti inferiori e appoggiare la pianta dei piedi sul piano d’appoggio;
– sollevare l’arto superiore controlaterale alla direzione del movimento e —
attraverso un rapido movimento in adduzione sul piano frontale dell’articolazione scapolo–omerale — portarsi in decubito laterale (sfruttando
eventualmente anche la spinta sull’arto inferiore controlaterale alla direzione del movimento per completare la rotazione);
– portare gli arti inferiori al di fuori del piano d’appoggio e — attraverso la
spinta su entrambi gli arti superiori — passare alla posizione seduta,
sfruttando anche il contrappeso delle gambe.
Anche in questo caso, dopo una valutazione delle caratteristiche di movimento spontaneo (rilevando posizioni intermedie, strategie non necessarie, insufficienti o potenzialmente dannose, e fluidità di movimento), viene
proposta al paziente un’esercitazione nel movimento stesso che adotti
sequenze motorie miranti a migliorarne l’efficienza.
Al soggetto viene inoltre richiesto — a ogni seduta — di descrivere
verbalmente la nuova strategia adottata e poi di svolgerla sia nella sua
interezza (se possibile) che, ripetutamente, nelle sue parti di più difficile realizzazione.
– richiedere inizialmente al soggetto di passare dalla posizione supina a
letto a quella seduta attraverso l’appoggio degli arti superiori: è possibile per il paziente anche afferrare il bordo del letto per facilitare ulteriormente il trasferimento e partire da diverse inclinazioni (45°, 30°, 0°)
della testata (regione craniale) del letto, HOB (22);
– sedersi mantenendo gli arti inferiori sul letto con o senza l’appoggio degli
arti superiori (HOB 45°, 30°, 0°);
– rotolare sul fianco (HOB 0°) e raggiungere la posizione seduta sul bordo
del letto con e senza l’uso degli arti superiori (23);
92
Franco Franchignoni, Manuela Bianchi, Giacomo Bazzini, Giorgio Ferriero
– raggiungere dalla posizione supina (HOB 0°) senza passaggi intermedi
la stazione eretta (23).
Gli esercizi per la parte finale della manovra, relativa all’alzarsi dal letto
dalla posizione seduta, sono simili a quelli illustrati nella sessione “alzarsi
da una sedia”, ma prevedono l’esecuzione in una situazione che mima la
reale condizione ambientale (partenza da seduti su un vero letto imbottito o lettino da training, di altezza regolabile).
Nel caso il movimento completo fosse inizialmente possibile solo tramite il ricorso a numerosi appoggi esterni, il fine ultimo dell’esercizio può essere (per quanto appropriato) di portare il soggetto a eseguire l’intera sequenza con il minimo possibile di appoggi (sfruttando invece gli slanci e la
creazione di momenti angolari).
Se il compito viene eseguito nella sua interezza, esso è reso di difficoltà crescente agendo sui seguenti parametri:
a) riduzione progressiva dei passaggi intermedi e degli appoggi;
b) aumento della velocità di movimento richiesta;
c) adozione di schemi che richiedono maggiore controllo posturale e forza
segmentaria e che impongono un migliore controllo della stabilità (come quella di “arm reach & trunk lift”).
Oltre a questo allenamento specifico, i soggetti vengono allenati con: a)
esercizi per rinforzo muscolare ed elasticità sia per arti inferiori (compresi
movimenti di abduzione — adduzione dell’anca al letto, con movimento
dell’arto al di fuori del piano del letto) che per arti superiori (in particolare
per muscolatura estensoria); b) esercizi per rinforzo muscolare del tronco
(compresi addominali) e aumento dell’articolarità del rachide (24).
4. I passaggi posturali
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PROGRAMMI RIABILITATIVI INTENSIVI
PER IL LAVORATORE INFORTUNATO:
WORK HARDENING E WORK CONDITIONING
F. Franchignoni, S. Vercelli
Il Work Hardening (WH), secondo l’American Commission for
Accreditation of Rehabilitation Facilities (CARF), è un “programma riabilitativo individuale altamente strutturato e finalizzato a precisi obiettivi,
mirante a massimizzare l’abilità di rientro al lavoro, migliorando la produttività, la sicurezza, la tolleranza allo sforzo e i comportamenti lavorativi” (1).
L’obiettivo è quello di “creare un ponte” tra le capacità funzionali residue del paziente e le richieste lavorative specifiche, ponendo l’attenzione sia sulle necessità fisiche (biomeccaniche, neuromuscolari, cardiovascolari e metaboliche) che su quelle funzionali e comportamentali. Il programma si concretizza attraverso diverse componenti: ricondizionamento fisico, simulazione di attività lavorative, educazione e interventi psicosociali. Ciascuna seduta dura generalmente alcune ore fino a un massimo di 8 al giorno (come un turno lavorativo), per 5 giorni la settimana.
Se le richieste riabilitative sono di intensità inferiore, l’American Physical
Therapy Association (APTA) ha introdotto più recentemente il concetto di
work conditioning, che consiste in un programma di trattamento finalizzato all’attività lavorativa per soggetti con condizioni meno complesse, eseguito all’interno di una singola disciplina fino a un massimo di 4 ore al gior-
* Servizio di Fisiatria Occupazionale e Ergonomia Istituto Scientifico di Veruno (NO);
Fondazione Salvatore Maugeri, Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, IRCCS.
95
96
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
no (2). Il work conditioning si limita al ricondizionamento fisico correlato
alla funzionalità generale e all’attività lavorativa specifica e non include
interventi comportamentali o psicologici.
Sebbene interventi di riabilitazione intensiva in funzione di una reintegrazione
lavorativa siano stati descritti già nei decenni precedenti (figura 1), il primo programma di WH fu delineato nel 1977 da
Matheson (3), per essere poi ripreso e
ampliato da diversi autori negli anni Ottanta e Novanta (4–10).
Oggi rappresenta un approccio trattato in dettaglio nei principali manuali di terapia occupazionale (11–13) e nei sup- Figura 1 – Laboratorio di terapia occupazionale negli anni ‘50
plementi dedicati alla riabilitazione industriale di riviste riabilitative internazionali
(14–16).
Selezione dei pazienti e strutturazione dei programmi
Secondo le linee guida dell’APTA (2), i programmi vanno intrapresi dopo
la risoluzione della patologia o del trauma iniziale (o principale), quando i
soggetti sono considerati clinicamente stabili e non vi sono controindicazioni mediche. Essendo però il periodo di assenza dal lavoro inversamente
correlato alla percentuale di individui reintegrati, è fortemente raccomandato un intervento il più precoce possibile. Quando il tempo di inattività è breve e l’uso di terapie “passive” (fisioterapia strumentale, massoterapia, ecc.)
è limitato, i pazienti sono meno inclini a sviluppare atteggiamenti come
esagerazione dei sintomi (“symptom magnification”) o adozione di comportamenti da malato cronico (“sick role”). Nel dolore lombare, ad esempio, è consigliabile cominciare tra le 6 e le 12 settimane dall’insorgenza dei
sintomi (4,17–20).
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
97
Gli esercizi attivi volti al miglioramento globale di flessibilità, forza e resistenza occupano un ampio spazio del programma di trattamento, mentre
il resto delle attività è altamente individualizzato per soddisfare le specifiche necessità di ciascuna mansione. Il soggetto “temporaneamente disabile” deve essere coinvolto in una routine giornaliera che riproduca il proprio
lavoro (nelle sue componenti fisiche, temporali e procedurali) e, attraverso
una progressiva responsabilizzazione, minimizzi i comportamenti da “malato cronico”.
La rieducazione si basa sulle specifiche richieste lavorative e sui deficit funzionali emersi durante la valutazione: l’impegno giornaliero deve
cominciare a un livello accettabile, per essere gradualmente incrementato fino alla completa guarigione. In aggiunta all’allenamento fisico occorre far sì che il paziente raggiunga standard psicosociali adeguati alla
propria funzione lavorativa: capacità di sopportazione dello sforzo, abilità psicomotorie, abitudini e rispetto delle regole (come puntualità, presenza, adesione alle norme di sicurezza), procedure lavorative e capacità specifiche (come produttività, espletamento dei compiti, standard di
qualità), comunicazione e relazioni interpersonali (sia tra pari che con i
superiori).
I soggetti sono seguiti da un team interdisciplinare che include, secondo le necessità, il fisiatra, il terapista, il terapista occupazionale, lo psicologo e il consulente del lavoro.
Oltre al personale specializzato sono necessarie attrezzature da palestra
(macchine per il rinforzo muscolare e l’allenamento cardiovascolare) e
strumenti – anche semplici — per la simulazione dell’attività (assemblaggio, costruzione di un muro, bulloni, ecc.). Apparecchiature specifiche possono essere aggiunte nel caso di simulazione di lavori meno comuni. Soprattutto nelle ultime fasi del trattamento è opportuno riprodurre fedelmente anche l’ambiente lavorativo in termini di rumorosità, intensità di luce, umidità, ecc.
L’obiettivo è quello di aiutare il paziente a raggiungere, in maniera rapida
e sicura, un accettabile livello di produttività per il mercato del lavoro (21). In
genere le probabilità che il soggetto sia effettivamente reintegrato sono elevate, anche se la motivazione costituisce naturalmente un fattore determinante per la riuscita del trattamento.
98
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
Valutazione
Nella valutazione di base devono essere esaminati i fattori fisici e psicosociali che possono limitare la capacità della persona a partecipare al
programma e, più tardi, a ritornare a lavorare. Oggetto di analisi sono: lo
stato neurologico, muscoloscheletrico e cardiovascolare, la capacità funzionale legata al lavoro, eventuali incentivi per il reintegro lavorativo, le caratteristiche comportamentali (incluse le strategie per far fronte allo stato
attuale di disabilità e la motivazione a migliorare il proprio stato funzionale, le tendenze a esagerare la sintomatologia, le reazioni abnormi al dolore e la motivazione lavorativa), ed altri fattori psicosociali o finanziari.
La valutazione comincia con l’anamnesi fisiopatologica, durante la quale il paziente deve illustrare le strategie messe in atto per combattere i sintomi (uso di farmaci e trattamenti precedenti), i limiti funzionali percepiti e
la tolleranza al lavoro (7,12). L’esame clinico include test per l’articolarità, la
forza (test muscolare manuale), l’integrità sensoriale, la coordinazione motoria e la destrezza manuale.
La parte principale della valutazione fisica è costituita dalla “Functional
Capacity Evaluation” (FCE), che consiste in una batteria minima di test (da
somministrare all’inizio e alla fine del programma) integrabile a seconda
del lavoro svolto (12). In alcuni casi gli stessi compiti lavorativi possono essere adottati per la valutazione.
La misurazione della FCE deve essere comparata con le capacità fisiche richieste dal tipo di occupazione, così da pianificare al meglio il programma riabilitativo e avere una solida base sulla quale poter programmare la ripresa delle attività. La determinazione della FCE correlata al lavoro
è cosa complessa e costituisce da sempre un compito metodologicamente difficile anche per studi scientifici (25,26). Nonostante ciò, sono
molti i test disponibili che possiedono una sufficiente validità di contenuto e una buona affidabilità, in particolare tra quelli dotati di procedure
standardizzate (27).
Per questa ragione, a oggi la FCE può essere considerata come la scelta migliore, ampiamente accettata sia in riabilitazione che dalle compagnie
assicurative e in ambito legale. Oltre alla batteria di test specifici per la FCE
si consiglia di quantificare il grado di resistenza cardiovascolare (ad esempio attraverso un cicloergometro o un tapis roulant), poiché un decondi-
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
99
zionamento fisico è frequentemente riscontrabile in pazienti affetti da
disfunzioni croniche. L’individuazione di qualsiasi esagerazione dei sintomi
e/o auto–limitazione (“self limitation”) è cruciale non solo per giudicare la
validità dei risultati ottenuti con la FCE, ma anche per ottimizzare la conduzione del programma riabilitativo e, in particolare, del suo dosaggio. In
genere, l’auto–limitazione è prevalentemente dovuta a paura del movimento (per timore di lesione tessutale o di aggravamento dei sintomi).
Tuttavia, la mancata conoscenza dei principi del programma riabilitativo, la riluttanza a riprendere il lavoro e/o fini economici secondari allo
stato di malattia possono giocare un ruolo significativo. I pazienti che focalizzano l’attenzione esclusivamente sul dolore devono imparare ad accettare che una rapida risoluzione della sintomatologia non è realistica e che
l’obiettivo primario del WH è il ripristino della funzione. Per spostare l’attenzione dal dolore occorre fornire un feedback valutativo delle prestazioni con scadenza settimanale (FCE o livello di performance raggiunto),
insegnando ad apprezzare i progressi ottenuti sul versante funzionale.
Durante la valutazione iniziale dovrebbero inoltre essere acquisite in via preliminare
una serie di informazioni relative al lavoro
svolto (annotando eventuali strumentazioni
o materiali specifici utilizzati e senza tralasciare le componenti ambientali e sensoriali), intervistando direttamente il paziente o
rivolgendosi eventualmente in azienda (7).
In casi particolari è invece necessaria un’analisi più estesa dell’attività svolta, com- Figura 2 – Valutazione dell’attività
lavorativa tramite sopralpiendo un sopralluogo sul posto di lavoro
luogo sul posto di lavoro
(30,31) (figura 2).
Interventi riabilitativi
Terapie comportamentali
Molti pazienti con disordini cronici a carico dell’apparato muscolo–scheletrico, oltre all’evidente decondizionamento fisico, presentano importanti pro-
100
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
blemi sul versante psicologico e comportamentale. Questi ultimi includono: paura a compiere gesti e movimenti, esagerazione dei sintomi, disorganizzazione e interruzione di attività quotidiane, stress, depressione, perdita di speranza e di prospettive di vita, incertezze finanziarie, ecc. Gli interventi orientati all’aspetto psicologico e comportamentale (come il processo di identificazione degli obiettivi, l’informazione e l’educazione alla gestione del dolore) preparano la strada all’allenamento fisico vero e proprio. In
questo modo, il paziente comprende l’importanza e gli scopi di ciò che gli
viene proposto, predisponendosi a tollerare un intenso livello di attività
(nonostante il dolore e il discomfort che talvolta accompagna gli esercizi,
specialmente nel primo periodo). Questa fase può richiedere una considerevole quantità di tempo, a volte superiore alle 2 ore al giorno (32,33).
Le aspettative di guarigione del paziente – in particolare la sua convinzione che le sole modalità “passive” (come farmaci, fisioterapia strumentale, mobilizzazione manuale e massaggi) o le continue visite specialistiche
possano risolvere tutti i problemi — portano spesso a una dipendenza dal
medico o dal terapista (talvolta promossa dagli stessi professionisti). Per
questo motivo, le terapie “passive” contro il dolore utilizzate a integrazione
dell’allenamento attivo devono essere attentamente dosate.
Ai soggetti sottoposti a WH viene insegnato a saper condurre autonomamente l’allenamento e a “negoziare” con i propri sintomi, facendosi carico della responsabilità del proprio trattamento. In questo sistema il terapista non ha il ruolo del guaritore o dell’aiutante, ma assomiglia piuttosto alla
figura del coach (allenatore), che coadiuva e facilita l’esecuzione degli esercizi.
L’aspetto determinante è l’abilità del terapista a programmare settimanalmente gli obiettivi sul punto esatto di intersezione tra le richieste imposte dagli scopi primari del protocollo e le capacità di raggiungerli da parte
del paziente.
Se gli obiettivi sono troppo ambiziosi rimarranno inevasi, con effetti
demotivanti sull’umore e sull’autostima del soggetto; al contrario, se sono
troppo facili, i tempi per il reintegro lavorativo si allungheranno. Condizione
necessaria è che siano misurabili (ad esempio la distanza percorsa camminando, il numero di serie o ripetizioni di un esercizio), in modo da poter
monitorare la performance e fornire un feedback oggettivo al paziente
(eventualmente anche sotto forma grafica).
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
101
Il concetto del dolore è spesso correlato alle passate esperienze di
eventi acuti: i pazienti lo associano con la minaccia e la paura di danni tessutali, nella convinzione che le attività dolenti vadano assolutamente evitate. Questo pensiero, talvolta rinforzato dagli stessi medici e/o terapisti, è
causa di un aumento della tensione muscolare e dell’abbassamento della
soglia del dolore che aggravano la disabilità (35).
Occorre pertanto spiegare la differenza tra dolore muscolare acuto e
cronico, invogliando i soggetti a impegnarsi senza remore e sottolineando
che l’obiettivo primario non è la riduzione dei sintomi, ma l’aumento della
capacità di fornire prestazioni.
A questo proposito è bene che il paziente abbandoni abitudini dannose che tendono a rinforzare il disturbo, come parlare incessantemente del
proprio dolore o esibire in modo teatrale la disabilità, ad esempio zoppicando vistosamente, portando la mano alla schiena o anche utilizzando
una stampella quando non necessaria.
Molti pazienti si sentono incapaci di poter intervenire positivamente
sui propri sintomi e sull’ambiente che li circonda, aumentando il senso
di sfiducia in se stessi. In questi casi si può insegnare loro un metodo per
il controllo del dolore, ad esempio creando situazioni in cui si manifesta
in maniera abbastanza prevedibile e su cui il controllo sia facilitato (34).
Allenamento fisico e recupero funzionale
La riduzione del livello di attività fisica dovuta all’interruzione del lavoro
e all’abolizione dei gesti che riproducono il dolore genera un decondizionamento che va recuperato attraverso un programma di training specifico,
mirato all’incremento di forza e resistenza muscolare, flessibilità, coordinazione motoria e fitness cardiovascolare. Questo tipo di allenamento viene
generalmente indicato con termini come: recupero funzionale, ricondizionamento fisico, esercizi dinamici per la forza, potenziamento neuromuscolare, e così via (42).
Lo stimolo allenante necessario per aumentare la forza può essere rappresentato dal peso corporeo o da uno dei suoi segmenti, da pesi liberi,
fasce o tubi elastici e da apparecchiature di vario genere. Tale stimolo viene
indicato con il termine di “sovraccarico”, un’attività cioè superiore a quella
normalmente sostenuta. Il sovraccarico induce i muscoli ad adattarsi, facendo crescere la loro abilità a generare forza. Una volta che il muscolo si
102
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
è adattato al sovraccarico, lo stimolo deve essere accresciuto per produrre
ulteriori effetti allenanti. I principali parametri che contribuiscono a definire
l’entità globale dello stimolo, chiamata volume d’allenamento, sono l’intensità, la durata e la frequenza. Altri parametri da considerare sono il tipo di
esercizio (isotonico, isometrico, isocinetico, pliometrico), la velocità di esecuzione e il periodo di riposo tra gli esercizi.
Quando gli esercizi sono svolti in maniera isotonica, per descrivere il peso
da sollevare si usa il concetto di Repetition Maximum (RM): “il massimo
numero di volte in cui un peso può essere sollevato con modalità appropriate, prima che intervenga la fatica”. “1 RM” indica la massima resistenza che
una persona può vincere in una (e una sola) esecuzione di un esercizio.
Per l’allenamento alla forza e alla forza resistente, l’American College of
Sports Medicine (43) raccomanda di eseguire 8–12 ripetizioni per serie
(ovvero 8–12 RM, corrispondenti al 60–70% di 1 RM). Un numero inferiore di ripetizioni con un carico maggiore, ad es. 6–8, sposta l’effetto allenante più verso la forza e la potenza.
Altri autori, per ridurre i rischi di lesioni tissutali nei pazienti con disordini
muscolo–scheletrici o nei soggetti più anziani, consigliano di ridurre l’intensità
portando il numero di ripetizioni massimali a 15–20 (15 RM corrispondono
circa al 50–60% di 1 RM). Tuttavia, ad eccezione di un’evidente mancanza di
tolleranza dei tessuti al carico (in tal caso, un dosaggio iniziale di 20 RM è in
genere adeguato), non vi è evidenza che giustifichi questa precauzione.
Un allenamento per la resistenza muscolare locale (es. > 20 RM) è necessario quando sul lavoro è richiesta un’attività ripetitiva di lunga durata. Inoltre,
i programmi per lo sviluppo della potenza (utilizzando carichi leggeri o moderati per 6–10 ripetizioni ad alta velocità di esecuzione) possono essere di aiuto
nell’ottimizzare le abilità funzionali. Per alcune attività specifiche il carico e le
ripetizioni stabilite durante il test della FCE possono essere trasferiti direttamente all’allenamento: ad esempio 5 ripetizioni usate nel FCE lifting test possono essere ritenute appropriate per l’allenamento al sollevamento.
Nei soggetti meno allenati, per i primi 3–4 mesi è raccomandato un
programma di 8–10 esercizi che coinvolga i maggiori gruppi muscolari
(braccia, spalle, torace, addome, colonna, anche, gambe e cosce), con un
minimo di 1 serie di 8–12 RM ciascuno. Un numero maggiore di serie
(2–3 fino a 5) può produrre maggiori benefici in caso di un decondizionamento importante o quando è richiesta una maggiore resistenza.
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
103
La frequenza settimanale delle sedute, della durata di 20–30 minuti,
varia da 2 a 5 giorni (5 volte nei casi più severi di decondizionamento e/o
in presenza di un’esagerazione dei sintomi).
Intensità, durata e frequenza contribuiscono a formare il volume di allenamento, che deve necessariamente andare oltre la normale attività muscolare. Se all’interno del programma sono inseriti esercizi eccentrici, gli
aumenti della forza muscolare dinamica possono essere superiori. Devono
inoltre essere enfatizzati esercizi poliarticolari ed esercizi funzionali in catena cinetica chiusa. Il soggetto deve possibilmente essere allenato sia con
macchinari che con pesi liberi (manubri, bilancieri, palla medica, strumenti di lavoro, ecc.), in modo da simulare in maniera più precisa i gesti propri
dell’attività lavorativa e sviluppare la coordinazione muscolare.
L’allenamento tradizionale alla forza (con velocità di movimento relativamente basse) va integrato con esercizi a carichi più bassi (30–45% di 1
RM) e la velocità di esecuzione più alta possibile (movimenti “esplosivi” o
pliometrici) per 1–3 serie da 3–6 ripetizioni.
Se si desidera progredire mantenendo fisso il numero di ripetizioni (ad es.
8–12 ripetizioni), il carico allenante deve essere incrementato del 2–10%
quando il soggetto riesce per due sessioni consecutive a eseguire 1–2 ripetizioni in più di quelle richieste. Una tipica progressione prevede una riduzione del volume generale con aumento dell’intensità del singolo carico.
Le risposte dell’organismo all’allenamento alla forza sono sia di tipo funzionale che strutturale (44). I cambiamenti funzionali includono un maggior
numero di unità motorie reclutate durante un compito, un loro reclutamento
più sincronizzato e un’inferiore attivazione della muscolatura antagonista. I cambiamenti strutturali includono invece l’aumento di attività degli enzimi metabolici muscolari, ipertrofia delle fibre muscolari, aumento di dimensione e di attività dei mitocondri e suddivisione delle fibre (senza una vera iperplasia). I guadagni di forza che si verificano nelle prime 2–3 settimane sono dovuti interamente ai cambiamenti funzionali. Quelli strutturali richiedono più tempo.
Gli esercizi producono cambiamenti altamente specifici per: 1) gruppo
muscolare, 2) angolo o escursione articolare, 3) tipo di azione muscolare
(concentrica, isometrica, eccentrica), 4) velocità di contrazione, 5) tipo di
fibre muscolari, 6) sistema metabolico per fornire energia. Ciò significa che
104
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
la performance motoria e la coordinazione migliorano in maniera più sensibile quanto più gli esercizi effettuati durante l’allenamento corrispondono
alle attività svolte dal singolo lavoratore. Alcuni esercizi (in particolare quelli eccentrici nel caso di tendinopatie croniche) possono avere un effetto
positivo sulla riduzione del dolore, specialmente quando l’allenamento è
più intenso (10 RM). Verosimilmente, l’alta richiesta di reclutamento ha un
elevato impatto sulle fibre dolenti (che non reagiscono invece più a livelli
inferiori) producendo un aumento della resistenza alla tensione esterna.
Molti pazienti con dolori cronici e persistenti durante l’esecuzione degli
esercizi avvertono un’esacerbazione del dolore. In generale, il dolore cronico
non costituisce un motivo valido per sospendere l’allenamento alla forza e
nemmeno un limite assoluto per il dosaggio, che va invece monitorato secondo criteri di sicurezza e fatica. Quando i pazienti sono “affidabili” e desiderosi
di fare, è necessaria una minor “spinta” e occorre piuttosto accertarsi che non
eccedano con l’allenamento. Al contrario, i pazienti più timorosi devono essere spronati finché riescono a tollerare i carichi: è essenziale trovare un compromesso che permetta sia un progresso nell’allenamento che una cooperazione da parte del soggetto. In queste condizioni il “rinforzo muscolare” rappresenta soprattutto un allenamento a tollerare il dolore. In alcuni casi specifici può essere utile introdurre delle sedute di elettrostimolazioni, specialmente
quando il dolore inibisce in maniera importante il reclutamento attivo.
L’allenamento alla forza non va tuttavia proposto in presenza di una irritazione muscolare particolarmente dolorosa; i soggetti affetti da disordini
muscolo–scheletrici su base infiammatoria e da fibromialgia non sono idonei a questo regime quando si trovano in fase acuta.
Come già menzionato, forza, coordinazione e resistenza sono specifiche
per l’escursione articolare allenata. Se un arco di movimento non viene caricato o allenato per lungo tempo (ad es. una flessione lombare negli ultimi
gradi), si svilupperà e perdurerà un deficit parziale della capacità di stabilizzazione muscolare. Tuttavia può accadere anche che durante le attività quotidiane e lavorative, gli stessi archi di movimento vengano invece ripetutamente
raggiunti, esponendo il soggetto ad un facile rischio di infortunio. Durante il
training va quindi ricercata la massima escursione articolare. Se la tolleranza
alla resistenza utilizzata è ridotta in una parte di movimento si può dividere in
due fasi l’esercizio, riducendo i carichi di quella più dolorosa. Una scelta simi-
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
105
le è raccomandata per un arco doloroso intermedio: in questo caso il gesto
viene eseguito solo nelle due estremità dell’escursione articolare (lasciando
libera l’area dolente), aumentando progressivamente il range per arrivare
poco alla volta al movimento completo. Un carico submassimale appropriato
lungo tutta l’escursione articolare può inoltre essere ottenuto utilizzando la resistenza accomodante di un’apparecchiatura isocinetica.
Per alcune patologie (artrosi, ernia del disco, stenosi spinale o spondilolistesi), dove la ripetizione del movimento produce un importante aumento del dolore, vanno prescritti invece esercizi di stabilizzazione con movimenti minimi e
controllati da effettuarsi nella parte media dell’escursione articolare (45,46).
Gli esercizi di stretching hanno una loro particolare collocazione all’interno del programma di allenamento e servono a migliorare e mantenere
l’escursione articolare, a prevenire danni muscolari e di altri tessuti molli
(specialmente in caso di contrazioni eccentriche) e a ridurre la dolenzia
post–esercizio (43).
I principali parametri da considerare nella determinazione dei protocolli di
stretching sono l’intensità della forza applicata durante l’allungamento, la sua
durata e la frequenza. La tipologia di esercizi maggiormente utilizzata prevede
un lento e progressivo allungamento del muscolo, tenuto in uno stato di stiramento (tale da creare un leggero “discomfort”) per 20–30 secondi (figura 3).
La maggior parte dell’allungamento avviene nei primi 12–18 secondi e
basse velocità di esecuzione consentono di ottenere risultati migliori. Le modificazioni tissutali di muscoli e tendini non variano ulteriormente dopo le prime
4 ripetizioni. Per le limitazioni della flessibilità lombare trovano un utile impiego gli esercizi di auto–mobilizzazione proposti da McKenzie (47).
Figura 3 – Esercizio di stretching per i muscoli
estensori del polso
106
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
Gli esercizi per l’allenamento alla resistenza cardiovascolare devono interessare i maggiori gruppi muscolari (rappresentanti almeno 1/6 della massa
globale), essere continui e includere attività aerobiche, ritmiche (camminare,
correre, pedalare, ballo, esercizi di gruppo, nuoto, sci di fondo, salto della
corda, vogatore, cicloergometro a braccia, salita/discesa del gradino, pattinaggio, ecc.) (figura 4). Il tipo di attività aerobica può essere fatto scegliere inizialmente dal paziente, prevedendo incrementi progressivi in frequenza, durata,
e intensità, fino ad arrivare a un livello di mantenimento della fitness.
L’intensità dell’esercizio può essere calibrata definendo una frequenza
cardiaca di allenamento a 65–90% della massima frequenza cardiaca
(HRmax calcolata secondo la classica formula 220 — età in anni) o
50–85% della Riserva di HRmax (HRR, calcolata secondo la formula HRR=
HRmax — HR a riposo) o della massima riserva d’ossigeno (VO2R).
L’esercizio a intensità più bassa (55–64% della HRmax o 40–49% della
VO2R o della HRR) è preferibile per i soggetti non allenati.
Altre formule utilizzate per il calcolo del battito cardiaco di allenamento
sono: 190 — età, o 170 — (età/2). Mentre l’equazione basata sulla HRmax
è semplice da insegnare ai pazienti, la sua applicazione alle persone più
anziane può essere problematica poiché potrebbe risultare un valore di
allenamento troppo vicino alla frequenza di riposo (con uno scarso effetto
allenante). In questi casi, l’intensità deve essere basata sulla percentuale di
HRR o sul “grado di sforzo percepito”, in base al quale il soggetto valuta le
proprie sensazioni su una scala ordinale da 6 (molto, molto leggera) a 20
B)
A)
Figura 4 – Apparecchiature per l’allenamento
cardiovascolare: (a) cicloergometro a
braccia, (b) tapis roulant
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
107
(molto, molto dura) (Borg scale). Questo tipo di valutazione può costituire
una misura rilevante nei pazienti che assumono farmaci beta–bloccanti,
dove le raccomandazioni circa la HRmax non sono più applicabili.
La durata dipende dall’intensità e l’attività può essere continua o intermittente. Gli esercizi a intensità piuttosto bassa vanno eseguiti almeno per 30–60
minuti, mentre quelli più intensi devono durare almeno 20 minuti. Il primo
tipo di esercizi è quello più sicuro e spesso associato a una maggiore aderenza da parte dei pazienti. I soggetti meno allenati possono “accumulare” sequenze di esercizi durante il giorno, a patto che ogni sequenza duri almeno
10–15 minuti (inclusi 3 minuti per raggiungere il livello desiderato).
La frequenza delle sedute varia fra 3 e 5 giorni alla settimana.
Il circuit training (sequenza a rotazione di esercizi) costituisce un utile compromesso per allenare in un’unica sessione forza, resistenza muscolare e cardiovascolare (49). I soggetti passano senza pause da una stazione (macchinario) all’altra: la sequenza degli esercizi è organizzata in modo che la regione corporea allenata vari a ogni cambio. Questo accorgimento fa sì che la fatica muscolare non diventi un fattore limitante nel produrre l’effetto cardiovascolare. La
scelta degli esercizi che compongono il circuito deve coprire un ampio spettro
di funzioni. Le macchine tipicamente utilizzate includono: shoulder press, leg
press, estensione/flessione del tronco, pull–down (figura 5). Per i problemi alla
schiena vanno aggiunte la rotazione del tronco, la flessione laterale e l’abduzione delle anche, importante per favorire la stabilizzazione sul piano frontale e
A)
B)
Figura 5 – Apparecchiature per il potenziamento neuromuscolare:
(a) polifunzionale (chest press), (b) pressa orizzontale
108
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
durante le rotazioni. Ciò è maggiormente importante negli schemi di dolore
asimmetrico (da un lato solo, che si irradia nella regione glutea o della coscia
e/o durante l’appoggio monopodalico). I circuiti sono una forma di allenamento di base ben standardizzata e possono essere rapidamente sviluppati sulle
necessità del paziente come modulo di base.
Training di simulazione del lavoro
La simulazione del lavoro è la parte cruciale del WH. Mimando posture, attività occupazionali e situazioni socio–ambientali si offre ai pazienti l’opportunità di sperimentare il proprio lavoro in condizioni controllate e protette, monitorando costantemente il grado di sicurezza e produttività, i comportamenti
lavorativi e l’uso corretto di attrezzi e strumenti. In questo modo il paziente può
riprendere progressivamente coscienza della propria abilità, in modo particolare durante l’uso di strumenti e la movimentazione di pesi. Inoltre, egli deve
riacquistare la capacità di eseguire il lavoro per diverse ore di seguito eliminando il timore di nuovi infortuni. Nell’allenamento possono essere introdotti anche alcuni elementi di svago o “ludici”: in questo tipo di situazione terapeutica meglio che in altre infatti può capitare che il soggetto talvolta “dimentichi”
parzialmente il suo dolore e le sue limitazioni, svolgendo meglio il lavoro affidatogli. L’osservazione del paziente durante il trattamento può inoltre fornire
informazioni circa il grado di cooperazione, l’affidabilità nel seguire le istruzioni e nel rispettare gli appuntamenti, la capacità di relazionarsi con gli altri.
Il training viene pianificato sui dati emersi dalla valutazione funzionale:
in base ai deficit verranno selezionati gli esercizi e i simulatori (workstations) da utilizzare. Un’apparecchiatura per la simulazione lavorativa può
servire a sviluppare una singola caratteristica (ad es. la destrezza manuale),
una serie di compiti comuni a vari tipi di lavoro (ad es. un insieme di forza,
resistenza, articolarità, ecc.), i fattori critici comuni di un’attività lavorativa
(ma non tutti, ad esempio escludendo lo stress ambientale tipico del posto
di lavoro), o tutti i compiti nel loro insieme (ad es. montare delle tubature
o assemblare dei componenti elettronici) (11,50,51). Vi sono due tipi principali di simulatori: standard o specifici per un’attività, e computerizzati.
Simulatori standard
I simulatori standard sono progettati per allenare, in maniera semplice e appropriata, le più importanti abilità legate al proprio lavoro (sollevare, trasportare,
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
109
costruire un muro, usare strumenti di fine manualità, montare installazioni elettriche e sistemi idraulici sanitari, ecc.). Con questo tipo di attrezzature (molte di
esse sono polivalenti) possono essere coperte una vasta gamma di funzioni. Il
tempo necessario a completare i compiti richiesti va in genere dai 20 ai 30 minuti per ciascuna stazione. Le procedure di esecuzione sono altamente standardizzate e corredate da chiare istruzioni per i pazienti. In questo modo il lavoro
eseguito può essere misurato in termini di tempo impiegato, numero di parti
assemblate per ciascuna serie o in base agli errori commessi. Ciò consente di
fissare molto facilmente degli obiettivi, confrontando i risultati con dati di riferimento presenti in letteratura (ottenuti da lavoratori sani o da categorie di pazienti). L’allenamento deve essere competitivo per due ragioni: incentivare il paziente a un successivo incremento dei carichi e prepararlo alle richieste di competitività che lo vedranno protagonista quando rientrerà al lavoro. Sebbene molte attività possono essere facilmente riprodotte procurandosi del materiale di
uso comune inerente l’attività in oggetto (ad es. mattoni, tavole da fissare, borse
di sabbia, scale a pioli), esistono in commercio simulatori appositamente progettati: alcuni esempi sono la workstation multifunzionale della Rolyan‚ (www.
smith–nephew.com), o il Valpar Component Work Samples (www.valparint.
com, sotto “product line/work samples”).
Quest’ultimo, impiegato anche come sistema di valutazione della disabilità
in ambito lavorativo, è composto da oltre 20 kit di simulazione appositamente
pensati per allenare caratteristiche come destrezza manuale, coordinazione
oculo–motoria, abilità nei movimenti fini e precisi dell’arto superiore, capacità
discriminative di oggetti, mobilità generale, resistenza durante attività ripetitive,
capacità fisiche dinamiche (figura 6). Alcuni kit sono inoltre disponibili anche in
versione modificata per persone con deficit visivi.
Figura 6 – Simulatori di attività lavorative complesse (Valpar
Component Work Samples)
110
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
Simulatori lavorativi computerizzati
Le apparecchiature computerizzate hanno il vantaggio di fornire ulteriori informazioni come velocità di movimento e quantità di forza espressa, utili per
l’esecuzione dei test oltre che dell’allenamento. Tra quelli presenti sul mercato
segnaliamo il Lido WorkSET (figura 7) e il Lido Lift (figura 8) (Loredan, Sacramento, California), il BTE Work Simulator (Baltimore Therapeutic Equipment,
USA / www.bteco.com) e l’E–Link (Biometrics, UK / www.biometricsltd.com).
I primi due sono composti da una colonna centrale e da un dinamometro, con un microprocessore interfacciato a un personal computer. Al perno
della colonna centrale, regolabile in altezza e in angolazione, possono essere collegati svariati accessori che consentono di simulare anche attività lavorative avanzate come esercizi pliometrici, eccentrici, di stabilizzazione rit-
Figura 7 – Simulatore lavorativo computerizzato
(Lido WorkSET)
Figura 8 – Simulatore per movimentazione
pesi (Lido Lift)
5. Programmi riabilitativi intensivi per il lavoratore infortunato
111
mica. Questi apparecchi sono inoltre in grado di raggiungere elevate velocità angolari, con un feedback su schermo che offre, nel caso del BTE,
anche la possibilità di visualizzare modelli anatomici animati.
L’E–Link è invece composto da una serie di piccole attrezzature per lo
svolgimento di esercizi attivi e attivi resistiti, in particolare per l’arto superiore. Gli strumenti sono interfacciabili a un PC e corredati da un software in grado di collezionare i dati, eseguire analisi matematiche (come il
calcolo automatico dell’Upper Extremity Impairment Rating) e soprattutto
offrire un feedback animato sul monitor (anche sotto forma di videogame) attraverso il quale il paziente segue gli esercizi mantenendo un giusto grado di attenzione.
Per tutte queste apparecchiature vanno considerati, tuttavia, gli alti costi
di acquisto.
Conclusioni
I pazienti eleggibili a essere inseriti in un programma di WH sono stati
assenti dal posto di lavoro per un periodo di diverse settimane, mesi o
addirittura anni. Sono passati attraverso una serie di accertamenti medici,
test, indagini diagnostiche e hanno effettuato trattamenti chirurgici o conservativi che sfortunatamente non hanno prodotto risultati soddisfacenti
tali da consentire una ripresa delle attività. Spesso il loro stile di vita si è
modificato a causa del dolore costante e della disabilità fisica. In questa
situazione i fattori psicologici e psicosociali divengono prominenti, complicando ulteriormente il compito del riabilitatore. In più, il decondizionamento dell’intero sistema muscolo–scheletrico (non solo della regione relativa all’infortunio primario) può incrementare il senso di sfiducia e
depressione del paziente.
I motivi di insuccesso dell’approccio tradizionale sono quindi ascrivibili: all’assenza di un orientamento occupazionale degli obiettivi, spesso incentrati sul dolore e non su un rapido incremento delle capacità fisiche;
al severo decondizionamento del soggetto e all’insufficiente intensità del
training, con un’enfasi eccessiva posta verso modalità terapeutiche passive; o alle rilevanti barriere psicosociali (11,20,36,42,64–66). Per superare questi ostacoli, il WH non si limita quindi alla sfera fisica, ma include ed
112
Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
enfatizza anche l’educazione del paziente e gli interventi comportamentali che si rendono necessari. Di uguale importanza sono l’ottimizzazione
delle tecniche lavorative, degli strumenti, degli equipaggiamenti e dell’organizzazione del lavoro.
Poiché i programmi di WH e work conditioning hanno alti costi, i Centri
Riabilitativi accreditati devono dimostrare di possedere determinati requisiti minimi di qualità nell’erogazione di tali prestazioni. Un fondamentale indicatore di qualità sono i risultati ottenuti. Tuttavia, comparare i risultati conseguiti in centri differenti non è semplice poiché esistono notevoli differenze tra fattori esterni (come la differenza dei gruppi di pazienti in termini di
problemi medici, livello fisico, motivazioni, ecc.), ambientali (legislativi, pensionistici, situazione del mercato del lavoro, ecc.), modalità di rilevazione
dei parametri. Questa eterogeneità spiega in parte i giudizi discordanti riportati in letteratura (32,61–63): le percentuali di ripresa lavorativa nel giro
di 1 o 2 anni vanno infatti dal 32% (63) all’87% (61). In ogni caso, diversi studi condotti prevalentemente su lavoratori con lombalgia, hanno mostrato una superiorità rispetto all’approccio tradizionale dei programmi di ricondizionamento che associano un approccio cognitivo–comportamentale
all’esercizio fisico intenso, con una conseguente riduzione dei giorni di
assenza lavorativa per malattia (19,20,42,67–69).
Poiché molti degli studi citati presentano manchevolezze metodologiche e devono ancora dimostrare il loro rapporto costo–beneficio anche a
lungo termine (i programmi sono molto costosi), è necessario che studi
di alta qualità vengano condotti in questo campo focalizzando l’attenzione sulla selezione dei pazienti, su intensità e durata ottimale dei programmi e su quali siano le componenti più efficaci.
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I
DISTURBI MUSCOLO–SCHELETRICI DI NATURA LAVORATIVA
F. Sartorio, F. Franchignoni, S. Vercelli
Si definiscono disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa (DMSL)
(“work–related musculoskeletal disorders” nella letteratura anglosassone)
le patologie a carico del sistema muscolo–scheletrico e/o del sistema nervoso periferico, causate o aggravate da movimenti ripetitivi o forzati in
combinazione con posture statiche prolungate e scorrette, nonché da
stress, tensioni muscolari, vibrazioni ed esposizione a basse temperature
(1–3).
I DMSL sono un problema conosciuto fin dal XVII secolo quando Bernardo Ramazzini, nel suo “De Morbis Artificum Diatriba”, descriveva le patologie provocate da “violenti e irregolari movimenti e innaturali posture del
corpo” (4) citando lo sforzo effettuato dalle mani e dalle braccia degli amanuensi e dei notai come responsabile di un ”insuccesso di potenza nella
mano destra”. Con la fine del XIX secolo condizioni e sintomi simili vengono riscontrati anche per altre occupazioni quali calzolaio, mungitore e sarta
(5), per poi interessare, secondo la letteratura del XX secolo, sia le professioni dei “colletti bianchi” che quelle in cui sia prevista la movimentazione
manuale dei carichi (6,7).
Conosciuti anche con numerosi altri sinonimi (tra i quali “repetitive
strain injuries”, “cumulative trauma disorders”, “repetitive motion injuries”,
“upper–extremity cumulative trauma disorders” e “occupational overuse
* Servizio di Fisiatria Occupazionale e Ergonomia, Istituto Scientifico di Veruno (NO),
Fondazione Salvatore Maugeri, Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, IRCCS
117
118
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
syndromes”) (8–10), i DMSL hanno visto negli ultimi due decenni un
vertiginoso aumento di incidenza (11–13) e del costo, sia economico
che sociale. L’US Department of Labor (14) ha infatti stimato dal 1986
al 1992 un incremento pari a tre volte il numero delle patologie a carico
dell’arto superiore, accompagnato da assenza lavorativa e ridotta produttività.
I DMSL possono essere secondari a fattori individuali e fattori correlati
al lavoro.
Tra i primi possono essere individuate cause fisiologiche (età, sesso,
stato di gravidanza, ecc.) o imputabili a patologie sistemiche (artrite reumatoide, gotta, endocrinopatie), distrettuali (fratture, neoplasie, neuropatie) e
all’uso di alcuni farmaci (estroprogestinici, propanolo, diazepam).
Per quanto riguarda i rischi insiti nell’attività lavorativa vi sono quattro
fattori che possono agire in modo sinergico: la forza richiesta per eseguire il compito o per utilizzare gli attrezzi; la postura dei segmenti articolari impegnati nell’esecuzione del compito specifico; la ripetitività dei
gesti lavorativi, (ovvero la frequenza con cui azioni simili sono ripetute
in sequenza); l’inadeguato ristoro delle strutture biomeccaniche sollecitate nell’esecuzione del compito, cioè l’insufficiente durata delle singole pause quotidiane nel consentire il recupero fisiologico dei segmenti
corporei più coinvolti (15).
Oltre a questi, altri elementi complementari possono favorire l’insorgere della patologia: l’uso di strumenti vibranti, l’estrema precisione
richiesta nelle gestualità, l’esecuzione di movimenti a strappo, l’uso della
mano come strumento battente, le compressioni localizzate dei tessuti
(soprattutto palmari), l’uso di guanti inadeguati, la scivolosità delle
superfici e l’esposizione a basse temperature.
In particolare, l’alta ripetitività dei gesti combinata a sforzo eccessivo è
generalmente responsabile di una larga percentuale di DMSL. Si può parlare di alta ripetitività quando si è in presenza di cicli di durata inferiore a
30 secondi, oppure quando oltre il 50% del ciclo è speso eseguendo lo
stesso tipo di azione (16).
La forza è l’impegno biomeccanico necessario per compiere una determinata azione (presa o sostegno di un oggetto e sua manipolazione). Ad
esempio, la forza richiesta è funzione del tipo di presa, sia per quanto
riguarda la postura del polso e la distanza orizzontale della presa, che per
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
119
le dimensioni dell’oggetto manipolato e l’attrito superficiale della sua impugnatura. Si tende comunque a considerare le prese di precisione più rischiose rispetto alle prese di forza.
La postura incongrua è uno dei maggiori fattori concausali: si reputano
dannose le posizioni e/o i movimenti estremi di ciascuna articolazione, le
posture protratte o associate a movimenti molto ripetitivi (17,18).
Per quanto concerne i tempi di recupero, occorre valutarne la durata e
la frequenza nell’intero turno di lavoro.
Note epidemiologiche sui DMSL
Numerose strutture corporee possono essere sede di DMSL
(10,19,20). I muscoli sottoposti a gestualità estenuanti possono andare
incontro a contratture e/o rottura delle fibre.
Anche i tendini, se eccessivamente sollecitati, possono subire micro–lacerazioni con il conseguente indebolimento della capacità di sopportare carichi. I nervi, soprattutto in corrispondenza di particolari regioni
anatomiche, possono incorrere in sofferenze assoniche ad opera di differenti tipi di agenti compressivi (21,22).
La presenza di strutture fibrose o osteofibrose anomale, di capi muscolari ipertrofici, del rigonfiamento dei tessuti molli o di cicatrici retraenti,
malformazioni vasali o deformità ossee, possono produrre una pressione
localizzata eccessiva (per entità o durata), uno strozzamento a manicotto
o una distorsione meccanica del nervo (per fenomeni di stiramento e di
frizione o per eccessiva angolazione) (2).
I vasi sanguinei, così come i nervi, possono essere compressi con il
risultato di un ridotto afflusso ematico in alcuni distretti corporei e conseguente ischemia che limita la prestazione muscolare e il relativo recupero allo sforzo (18).
Le regioni corporee maggiormente interessate dai DMSL risultano
essere in ordine decrescente gli arti superiori, la colonna lombare e cervicale e, in minima percentuale, gli arti inferiori (1,23).
Il Bureau of Labor degli Stati Uniti (14) riporta che dal 1972 al 1994
vi è stato un incremento dei DMSL di circa 14 volte, raggiungendo i
400.000 casi, pari al 60–65% del totale delle malattie indennizzate negli
120
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
USA. Di recente, nel Regno Unito si è assistito ad un incremento del 75%
nei casi di sindrome del “dito bianco” indotta da vibrazione, del 14% delle
tenosinoviti e del 7% delle sindromi del canale carpale (7,10,23). Di conseguenza, l’Health and Safety Executive inglese (24) ha riportato che per
i DMSL sono stati persi più di 500.000 giorni di lavoro all’anno (con una
media di 19 giorni per caso).
In Italia queste malattie professionali denunciate alle Unità INAIL sono
passate nel quinquennio 1996/2000 da 136 a 1500 casi (23), mentre il
costo sociale dei DMSL per l’Unione Europea varia dallo 0.2% allo 0.5%
del prodotto interno lordo (10,23).
Considerazioni cliniche sui
DMSL
a carico degli arti superiori
Per quanto concerne gli arti superiori ci soffermeremo sui principali
disturbi, che possiamo dividere in: 1) disturbi nervosi periferici; 2) disturbi
muscolo–scheletrici; 3) disturbi vasomotori.
1) Disturbi nervosi periferici
1.A SINDROMI DEL PLESSO BRACHIALE
Sindrome dell’egresso toracico
Questa sindrome si sviluppa per la compressione della porzione superiore del fascio vascolo–nervoso brachiale, conseguente a microtraumatismi cronici prodotti da movimenti ripetitivi di abduzione–adduzione delle braccia, in soggetti in cui si associ la presenza di: costa
sovrannumeraria a livello di C7, banda fibrosa collegata con la prima
costa, ipertrofia dello scaleno anteriore o eccessiva tensione del tendine del piccolo pettorale. La sindrome è caratterizzata da dolore, gonfiore, debolezza e ipotrofia della porzione prossimale del braccio,
associati a parestesie lungo gli arti superiori fino alle mani (1,25–28).
La sindrome dell’egresso toracico di natura occupazionale può essere
associata a (29):
— mantenimento prolungato di postura con spalle abbassate e anteposte (tornitori, saldatori, tagliatori, molatori, lucidatori di metalli, perforatori, camionisti, impiegati, sarte, musicisti);
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
121
— trasporto di carichi pesanti sulle spalle (scaricatori, carpentieri, agricoltori, magazzinieri, portalettere, alpinisti che usano lo zaino);
— lavoro eseguito con braccia estese sopra la testa o compiendo movimenti ripetuti di abduzione del braccio (imbianchini, tappezzieri, elettricisti, auto–riparatori, tessitori, giardinieri).
Sindrome del nervo soprascapolare
È provocata dall’intrappolamento del nervo per effetto di patologie cronico–degenerative dei tessuti molli adiacenti o, più raramente, come
conseguenza di traumi diretti. La flessione di spalla, accompagnata dall’abduzione della scapola, mette in tensione il nervo e se questo è
intrappolato nell’incisura soprascapolare la manovra risulta dolente. Il
dolore può essere riprodotto anche dalla pressione a livello dell’incisura soprascapolare, effettuando manovre di adduzione passiva del braccio esteso oltre la linea mediana del corpo, e di rotazione controlaterale del capo. Nelle fasi avanzate si osserva debolezza con atrofia dei
muscoli sopraspinoso e sottospinoso e deficit dei movimenti attivi di
extrarotazione e abduzione. La sindrome può insorgere per motivi
occupazionali in soggetti che siano soliti trasportare carichi sulle spalle (scaricatori, carpentieri, addetti ai traslochi, persone che usano
pesanti zaini o borse a tracolla). Compare anche in soggetti portatori
di sospensori brachiali che producono microtraumi meccanici locali
(ad es. emiparetici) o in professioni sportive in cui si verifichi l’abbassamento improvviso o ripetuto della scapola (ginnasti, giocatori di
rugby, ecc.) (1,2,30).
1.B SINDROMI A LIVELLO DELL’ASCELLA E DEL BRACCIO
I nervi mediano, radiale e ulnare possono essere compromessi a livello
ascellare per l’uso errato di stampelle, oppure a metà braccio per posizioni inusuali mantenute per tempi prolungati o per compressione locale esterna (trasporto di carichi facendo uso di cinghie o imbracature).
1.C SINDROMI A LIVELLO DELL’AVAMBRACCIO E DEL POLSO
Nervo mediano:
La sindrome del pronatore è dovuta all’ipertrofia del pronatore rotondo, spesso associata a particolari caratteristiche anatomiche locali,
122
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
che può portare a una compressione del nervo mediano a livello del
passaggio tra il capo superficiale e quello profondo. È caratterizzata
da dolore alla regione prossimale dell’avambraccio, sordo a riposo e
molto acuto durante certi movimenti, spesso accompagnato da perdita di destrezza, sensazione di debolezza della mano, intorpidimento e parestesie nel territorio di innervazione del mediano a valle della
lesione. La pronazione contro resistenza, eseguita a pugno stretto,
aumenta il dolore all’avambraccio. Occupazioni a rischio sono ad
esempio: lavorare in catena di montaggio su bancali orizzontali,
macellare carni o pesci, martellare, remare, giocare a tennis e fare
canottaggio (10,31).
La sindrome del nervo interosseo anteriore ha spesso una causa traumatica (fratture e contusioni locali), ma è anche possibile che sia conseguenza di traumatismi minori ripetuti nel tempo (come prolungati
movimenti di flessione e pronazione dell’avambraccio) associati a particolari condizioni anatomiche come la presenza di tendini o lacinie
fibrose provenienti dal pronatore rotondo, dal flessore superficiale
delle dita e dal flessore lungo del pollice. Può essere causata infine da
un trauma compressivo diretto, legato alla pressione di manici di borse
sull’avambraccio o all’uso di apparecchi gessati (10,32,33). Il quadro
clinico è caratterizzato da incapacità di flettere la falange distale del pollice e dell’indice, con conseguente impossibilità nell’eseguire la pinza
termino–terminale e paralisi del pronatore quadrato, con insufficienza
della pronazione (2,34,35).
La sindrome del tunnel carpale trae origine dalla compressione del
nervo mediano nel tratto inferiore del legamento trasverso, robusto
nastro fibroso teso a tetto sopra il canale carpale (36). La sindrome
nasce per una riduzione del tunnel osteofibroso a seguito di processi
infiammatori che restringano il retinacolo dei flessori, cattiva consolidazione di fratture, posizione coatta in iperflessione o iperestensione di
polso. Può tuttavia presentarsi anche in caso di un aumento del volume del contenuto, conseguente a disendocrinie (gravidanza, menopausa), terapie ormonali, tenosinoviti, gotta, anomalie di inserzione del
palmare gracile, sindrome di Paget (10,37–39). Clinicamente la sin-
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
123
drome è caratterizzata da turbe sensitive e dolore, frequentemente
notturno, al polso e alle prime tre dita. Più tardivamente subentrano
deficit motori che inducono minor resistenza allo sforzo da parte delle
dita innervate dal mediano e, nei casi più gravi, modificazioni trofiche
a carico dei muscoli dell’eminenza tenar (in special modo dell’opponente del pollice). La percussione del nervo mediano al polso produce una sensazione di scossa che segue la distribuzione del nervo nella
mano (segno di Tinel) (figura 1a); la flessione e l’avvicinamento dei
polsi procura dolore e parestesie (test di Phalen) (figura 1b) (40). I
movimenti e le posizioni che facilitano l’insorgenza della sindrome
sono la flesso–estensione del polso associata a movimenti di presa e
pinza, posizioni statiche che impongano il mantenimento della pinza
digito–digitale o digito–palmare e pressioni dirette esercitate a livello
del tunnel carpale (1,2,18).
Figura 1 – a) Segno di Tinel: si realizza percuotendo o comprimendo il legamento trasverso del carpo. In caso di positività il paziente avvertirà dolore e/o parestesie
nella regione distale di diramazione del nervo mediano.
b) Test di Phalen: si realizza richiedendo al paziente una flessione forzata del
polso per circa 1 minuto. In caso di positività il soggetto avvertirà un senso
di intorpidimento e parestesie nella regione distale di diramazione del nervo
mediano
124
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
Nervo ulnare:
La sindrome del tunnel cubitale si presenta clinicamente con ipostenia–ipotrofia del flessore ulnare del carpo, dei flessori profondi del quarto
e quinto dito, degli interossei, dell’adduttore del pollice e dei muscoli dell’eminenza ipotenar, associate a disturbi della sensibilità del lato ulnare della
mano e del quarto e quinto dito. Movimenti ripetitivi e improvvisi di flessione del gomito accompagnati da prono–supinazioni dell’avambraccio
possono a lungo termine favorire l’insorgenza della sindrome (figura 2).
Inoltre l’appoggio continuo dei gomiti al banco di lavoro o alla scrivania, frequente in soggetti che debbano compiere lavorazioni al banco su piccoli
oggetti, può comportare danni da compressione diretta (2,10,41,42).
La sindrome di Guyon è caratterizzata invece dalla compressione (o
intrappolamento) del nervo ulnare nel suo passaggio nel canale osteofibroso del polso, a livello della doccia ulnare. Può insorgere per compressione intracanalicolare o per microtraumatismi dovuti a prolungate
Figura 2 – Esempi di movimenti a rischio
per l’insorgenza di una neuropatia palmare
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
125
flessioni ed estensioni del polso o ripetute pressioni sull’eminenza ipotenar. È caratterizzata da turbe sensitive, dolore, spesso parestesie persistenti al V dito e alla metà ulnare del IV, riduzione della forza opponente del IV e V dito e più tardivamente da turbe trofiche (1,10,18,42).
Nervo radiale
La sindrome del nervo interosseo posteriore è caratterizzata da una paralisi che colpisce l’estensore comune delle dita, ma anche gli estensori propri del secondo e quinto dito, l’estensore ulnare del carpo, l’estensore lungo e l’abduttore lungo del pollice. Non si hanno deficit di sensibilità, essendo il nervo interosseo posteriore solo motore. Questa sindrome può essere dovuta a cause lavorative, legate all’esecuzione ripetuta di movimenti di prono–supinazione forzata o di improvvisa estensione del gomito o dalla pressione esterna esercitata sulla porzione dorsale dell’avambraccio da bande o cinghie (10,31,42,43).
2) Disturbi muscolo–scheletrici
Tendinite della “cuffia dei rotatori” della spalla
È una tendinopatia (frequente in soggetti di età superiore ai quarant’anni) caratterizzata da dolore e rigidità locali. I tendini più interessati sono
quelli dei muscoli sovraspinoso, sottospinoso e piccolo rotondo. Nell’eziopatogenesi sono da considerare microtraumi ripetuti, turbe vascolari, fattori dietetici, tossici e refrigeranti, nonché sportivi (nuotatori, pallavolisti) (44–47).
Tendinite del capo lungo del bicipite
È una patologia molto comune in persone tra i 45 e i 65 anni, soprattutto
di sesso femminile. I pazienti riportano dolore a insorgenza graduale, specialmente nelle attività svolte al di sopra della testa, o acuto all’inizio di attività faticosa. È localizzato nel solco intertubercolare, ma può irradiarsi al gomito seguendo il decorso del muscolo bicipite. In molti casi si osserva anche gonfiore alla guaina del tendine del bicipite e dolorabilità al solco bicipitale dell’omero (46). Il dolore può essere provocato da manovre ripetute di flessione e supinazione dell’avambraccio contro resistenza (contrazio-
126
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
ne del bicipite brachiale) o di estensione del gomito con pronazione dell’avambraccio (stretching del bicipite) come ad esempio alzare oggetti
pesanti, stringere coperchi o spalare (45).
Borsiti
Nell’arto superiore la borsa dell’olecrano è frequentemente colpita (31). È
osservabile clinicamente solo quando si infiamma e assume l’aspetto di una
palla ingrandita sulla faccia posteriore del gomito (può raggiungere anche
alcuni centimetri di diametro). Il range di movimento del gomito è generalmente integro, con un abbondante e fluttuante gonfiore e un leggero eritema. La causa più frequente è un evento traumatico diretto, ma può anche
essere il risultato di costanti pressioni sul gomito, microtraumi ripetuti o infezioni batteriche. Occupazioni a rischio sono l’idraulico, il carpentiere, il muratore e tutte le mansioni che richiedono un appoggio sui gomiti (10,20,31).
Epitrocleite
È conosciuta anche come gomito del lanciatore o gomito del golfista. Si
tratta di una entesopatia che interessa i tendini dei flessori/pronatori
della mano a livello dell’epitroclea: i muscoli maggiormente coinvolti sono il pronatore rotondo (capo omerale) e il flessore radiale del carpo
(45). La causa è solitamente legata al sovraccarico funzionale in coloro
che utilizzano, scorrettamente o senza adeguati tempi di recupero, attrezzi che trasmettono stress in valgo (ad es. mazza da golf o giavellotto) o vibrazioni (martello pneumatico, trapano elettrico). Il paziente riferisce dolore alla regione mediale del gomito a insorgenza solitamente
graduale, con periodi di remissione e riacutizzazione in rapporto all’attività; può essere esacerbato da manovre che provocano una pronazione o una flessione del polso contrastata (2,31,40,47,48).
Epicondilite
È un entesopatia dei muscoli epicondiloidei (estensori–supinatori) alla loro
origine omerale, che interessa prevalentemente i tendini del brachio–radiale e gli estensori radiali del carpo (45). La sua eziopatogenesi è analoga a
quella descritta per l’epitrocleite: overuse oppure sollecitazioni muscolari
troppo intense nel modo e nella frequenza. Il paziente riferisce dolore alla
faccia esterna del gomito a insorgenza insidiosa e progressiva, frequentemente irradiato all’avambraccio e alla mano, specie in alcuni movimenti
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
127
che comportano ripetute prono–supinazioni dell’avambraccio e marcata
estensione del polso come ad esempio nel tennis (tanto che questa patologia è nota anche come “gomito del tennista”) (2,31,40,47,49,50).
Sindrome di De Quervain
È caratterizzata da stenosi dolorosa della guaina dei tendini dell’abduttore
lungo e dell’estensore breve del pollice, nel punto in cui questi scorrono
nell’anello osteo–fibroso esistente a livello del processo stiloideo del radio. È prevalente nel sesso femminile e frequentemente è unilaterale.
Consegue, in genere, a microtraumatismi indotti da attività lavorative che
impongono ripetute abduzioni del pollice. I movimenti interessati sono:
flessione ed estensione forzata del polso e deviazione ulnare durante la
pressione alla base palmare o con supinazione, rotazioni del polso. Il paziente riferisce dolore a livello del processo stiloideo del radio, irradiandosi verso l’avambraccio e la mano; inoltre si nota una limitazione antalgica
ai movimenti del primo dito della mano (45,47,51,52). Clinicamente viene evidenziata attraverso il test di Finkelstein (figura 3).
Figura 3 – Test di Finkelstein: si realizza richiedendo al paziente di
porre il pollice nel palmo della mano e di afferrarlo con le
dita lunghe. In caso di positività il soggetto avvertirà dolore alla deviazione ulnare della mano.
128
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
3) Disturbi vasomotori
Sindrome di Raynaud
È una sindrome vasomotoria spontanea, caratterizzata da crisi di vasocostrizione seguite da vasoparalisi che possono causare anche gangrena alle
estremità. Predilige il sesso femminile e i giovani e interessa in particolare le
dita della mano e del piede, per lo più simmetricamente. Il freddo e l’esposizione a vibrazioni si comportano spesso da fattori scatenanti. La sintomatologia è legata alla comparsa, all’evoluzione e al succedersi delle crisi vasomotorie. Queste per effetto di una intensa vasocostrizione esordiscono con
pallore alle dita (che diventano fredde e insensibili) per alcuni minuti, a cui
segue una fase di vasodilatazione attiva che rende le dita di colorito cianotico, calde con cute lucida e tesa e manifestazioni di dolore. Col tempo le
crisi si fanno più frequenti sino allo stabilirsi di una cronica vasocostrizione
arteriolare e capillare, con cianosi permanente, disturbi del trofismo, delimitazione di zone gangrenose e formazione di piaghe (53,54).
Interventi valutativi e preventivi
I princìpi ergonomici hanno trovato larga applicazione in campo lavorativo grazie al loro potenziale effetto preventivo nei confronti dei DMSL. Le
strategie di prevenzione si avvalgono, oltre che di un’analisi epidemiologica dei disturbi, di un’attenta valutazione dei sintomi e dello studio della postazione lavorativa (includendo le posture e le gestualità solitamente adottate, nonché della strumentazione utilizzata). Infine è fondamentale impostare specifici programmi di attività fisica e terapeutici (55).
Valutazione dei sintomi
Ai fini preventivi assumono grande importanza i primi sintomi che consentono, se adeguatamente raccolti, di porre un fondato sospetto diagnostico (orientando l’esecuzione di accertamenti per una diagnosi precoce) e
di attuare provvedimenti terapeutici e preventivi utili a bloccare l’evoluzione delle patologie (10,15,56).
Spesso si utilizzano questionari e interviste fatte ai lavoratori (in merito
al tipo di lavoro svolto, alle principali difficoltà incontrate e agli eventuali
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
129
disturbi da loro accusati) per analizzare presenza e caratteristiche di sintomi o quadri clinici nelle diverse attività lavorative (19,57,58).
Valutazione ergonomica della postazione lavorativa
L’obiettivo di questa operazione è di identificare i fattori che potrebbero
causare DMSL e studiarne le opportune correzioni. Il processo di valutazione del rischio può essere diviso in due parti: la valutazione delle caratteristiche e dei requisiti del lavoro e il confronto tra le richieste della specifica
mansione e le capacità del lavoratore.
A) Fattori di rischio connessi con strumenti e ambiente di lavoro
È necessaria un’approfondita analisi delle seguenti componenti:
1) Gli attrezzi, le macchine e i materiali utilizzati — Se essi richiedono posture
scorrette, forza eccessiva o trasmettono vibrazioni all’operatore sono potenziali cause di DMSL (19,59–62). Gli utensili dovrebbero: a) permettere di
lavorare con polso in posizione neutra (figure 4a, 4b); b) avere un peso
Figura 4 – In a, a sinistra orientamento del manico che impone una flessione con deviazione ulnare del polso; a destra modifica ergonomica del manico dell’utensile.
In b, a sinistra prese scorrette, con flessioni e/o deviazioni del polso; al centro
e a destra prese e utensili corretti con allineamento avambraccio–polso
130
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
congruo ed essere bilanciati; c) presentare leve vantaggiose, tanto più se
le mansioni richiedono molta forza; d) disporre di un ampia area di contatto con la mano, onde evitare eccessive pressioni localizzate; e) essere utilizzabili con entrambe le mani per dare la possibilità di alternarle durante il
lavoro. L’analisi biomeccanica è fondamentale per identificare i punti di
stress. Ad esempio, le pinze tradizionali esercitano una notevole pressione
sul palmo della mano, causando compressioni di vasi e nervi; l’utilizzo di
impugnature asimmetriche e anatomiche, di maggiore diametro e ricoperte di plastica morbida, riduce la pressione sul palmo e a livello delle articolazioni interfalangee. Forbici e pinze dovrebbero avere l’apertura automatica per evitare microtraumi alla superficie dorsale delle dita. Negli utensili
elettrici le vibrazioni ad alte e basse frequenze possono essere isolate o
ridotte con speciali coperture delle zone di contatto con l’operatore; sono
inoltre in commercio guanti contenenti materiali che smorzano le vibrazioni (2,63) (figura 5).
2) La stazione di lavoro e l’ambiente fisico – Le caratteristiche del posto di lavoro che possono causare danni sono quelle che espongono il soggetto a
Figura 5 – Guanti antivibrazione
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
131
stress meccanici (superfici appuntite o scivolose, mancanza di ausili meccanici), vibratori (apparecchiature elettriche) o termici. L’ambiente fisico comprende invece l’illuminazione, il livello di rumore, la qualità dell’aria, la temperatura e la ventilazione. Entrambi possono avere una significativa influenza sul comfort e sulle abilità funzionali del lavoratore (62,64).
3) Il compito o mansione lavorativa, compreso l’ambiente organizzativo in
cui è svolta – Bisogna analizzare: a) gli spostamenti effettuati durante il
lavoro e le posture fisse di lavoro (gomiti e braccia sollevate, mancanza
di allineamento dell’asse oggetto/mano–polso, improvvisi raddrizzamenti o flessioni del tronco, specialmente se associati a rotazione); b)
la frequenza del ciclo operativo (presenza di movimenti altamente ripetitivi con cicli inferiori a trenta secondi); c) la forza richiesta nei vari compiti (uso di manopole da ruotare e di attrezzi a leva corta tali da richiedere lo sviluppo di forze eccessive per essere mossi, frequente necessità di sviluppare una forza nella mano maggiore del 20% della massima forza isometrica, peso eccessivo del materiale movimentato); d)
l’uso inappropriato di guanti, indossati come protezione ma che riducono l’attrito tra la mano e l’utensile, richiedendo così valori di forza più
elevati; e) la movimentazione di carichi eccessivi (2).
B) Fattori di rischio connessi al lavoratore
Esistono notevoli differenze nelle prestazioni fisiche legate al sesso,
all’età (a 55 anni un soggetto ha perso circa il 15% della forza che
aveva a 25 anni) o comunque a differenze interindividuali (sia per fattori costituzionali che per abilità specifiche acquisite con la pratica lavorativa). Esistono test di valutazione delle capacità lavorative che analizzano comunemente questi parametri: il tempo di reazione e di durata
dell’azione, l’accuratezza, la frequenza e tipologia degli errori, la percentuale di lavoro portata a buon fine, la quantità di materiale utilizzato in
rapporto al tempo e al prodotto finito (65).
Ristrutturazione della stazione di lavoro
Una volta effettuata l’analisi ergonomica e individuati i rischi si può passare ad attuare le misure necessarie per eliminarli, ridurli o controllarli.
132
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
Il principale intervento consiste in modificazioni ergonomiche di attrezzi, equipaggiamenti e stazione di lavoro (61,66). Gli attrezzi vanno
selezionati o progettati in modo da ridurre la richiesta di forza, il tempo
di manipolazione e le posizioni di impiego. Dove possibile è necessario introdurre l’ausilio di presidi meccanici capaci di eliminare o ridurre
gli sforzi. Le stazioni lavorative devono essere adattate al singolo utente, diminuendo il raggio d’azione e migliorandone la postura.
Citiamo qui alcuni esempi di interventi ergonomici relativi a posti di
lavoro:
a) nelle mansioni che richiedono la movimentazione di carichi, i materiali da spostare devono essere posizionati a un’altezza compresa tra le
mani e le spalle, le superfici non devono essere scivolose, la lunghezza dei trasporti contenuta, vanno ottimizzate le prese degli oggetti e
l’accessibilità agli scaffali, contenendo il peso di ciascun oggetto.
b) quando il lavoro manuale è effettuato in posizione seduta, l’altezza, la
distanza e qualsiasi inclinazione del piano devono essere appropriati; le
parti su cui poggiano polsi e avambracci vanno imbottite; i contenitori
di oggetti non devono avere bordi troppo alti ed essere orientati verso
il lavoratore a un’altezza facilmente accessibile (figura 6).
c) nelle postazioni con videoterminali la scelta della sedia, oltre che su criteri antropometrici, deve essere basata sulla dotazione di seduta regolabile in altezza e schienale regolabile, basculante e anatomico. Per
quanto riguarda il monitor, esso deve distare almeno 50–70 cm dagli
occhi e non essere di fronte a sorgenti luminose, come ad esempio
una finestra. Infine, la scrivania deve avere dimensioni sufficienti e la
sua altezza consentire l’accesso agli arti inferiori (65–85 cm è il range
normale) (figura 7). L’uso di poggia–piedi va considerato quando l’altezza del tavolo non è liberamente regolabile.
d) per chi guida a lungo (taxisti, camionisti, ecc.): lo schienale va inclinato di 30° rispetto alla verticale, posizionando un supporto lombare di
almeno 5 cm di spessore; la seduta deve essere leggermente inclinata rispetto al piano orizzontale e la distanza dal volante deve essere
tale da poter mantenere i gomiti flessi di circa 90°; un’auto con cambio automatico è consigliabile se si è impegnati abitualmente nel traffico cittadino.
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
Figura 6 – Vantaggi e svantaggi di differenti forme e
posizionamenti di contenitori
Figura 7 – Corretta postura del soggetto al banco di lavoro
133
134
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
Riorganizzazione di metodo e turni lavorativi
Il principio basilare da tenere presente quando si opera in campo ergonomico è la necessità di adattare il lavoro alla persona e non viceversa. Così i normali processi lavorativi, e in particolare gli attrezzi usati, vanno modificati e
adattati alle caratteristiche generali del lavoratore. Il lavoratore a rischio dovrebbe ruotare tra differenti occupazioni, inframmezzando il lavoro principale con
un altro più leggero, ed essere addestrato a riconoscere i segni precoci dei
disturbi per rivolgersi tempestivamente al medico curante. È ampiamente dimostrato che il lavoro intermittente con brevi soste (1–2 minuti) alternate a
sforzi intensi è più efficiente e salutare di un lavoro prolungato con pause di
20–30 minuti. Soluzioni estreme, applicabili solo nel caso in cui non esistano
alternative, sono quelle di organizzare l’alternanza di numerosi lavoratori alla
stessa stazione di lavoro cosicché nessuno compia per lunghi periodi la stessa tipologia di lavoro gravoso. Sarebbe anche utile identificare il modo più
adatto di compiere un lavoro ripetitivo e insegnarlo ai lavoratori, iniziando con
una frequenza ridotta del compito. Non sempre però le specifiche istruzioni
fornite vengono rispettate: spesso accade infatti che i soggetti continuano a
eseguire le proprie mansioni in maniera scorretta. Le ragioni di questo comportamento possono essere molteplici: l’abituale metodo di lavoro è molto
radicato e le novità possono apparire più lente e difficili, e a opporsi all’introduzione delle modifiche di prevenzione possono essere anche l’ambiente di
lavoro o il processo lavorativo, che subiscono svantaggi produttivi a breve termine. D’altra parte, il pericolo di sviluppare patologie da microtraumi ripetuti
può sembrare remoto agli occhi del lavoratore.
Esercizi
I programmi riabilitativi/preventivi sono di fondamentale importanza:
oltre alla fisioterapia strumentale (a scopo antalgico, antiflogistico e antiedemigeno), al confezionamento di ortesi (di riposo o funzionali) e al training specifico per migliorare l’escursione articolare, l’elasticità, la forza e la
resistenza di determinati gruppi muscolari, essi devono includere anche
sedute di informazione ergonomica relative alle posture scorrette e al modo di evitare gli eccessivi stress articolari (2,55,67).
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
135
Esercizi di mobilizzazione e di stretching
Durante la giornata i lavoratori assumono spesso posture fisse e/o scorrette per periodi prolungati.
Per evitare che il lavoro isometrico protratto conduca a un sovraccarico
delle unità muscolo–tendinee, è bene inserire nella routine quotidiana esercizi di auto–mobilizzazione e stretching dei distretti più interessati. La mobilizzazione attiva deve includere movimenti della colonna e degli arti superiori su
tutti i piani dello spazio, prediligendo le posizioni contrarie a quelle utilizzate
sul lavoro.
Ogni esercizio deve essere eseguito per 8–12 ripetizioni, lentamente e
ricercando la più ampia escursione articolare possibile. Devono essere anche
associati esercizi di stretching statico (ripetuti 4–5 volte), mantenendo la posizione per 20–30 secondi con un intervallo di riposo di almeno 10 secondi tra
le ripetizioni (vedi Allegato 1).
Allenamento muscolare e cardio–vascolare
L’esecuzione di semplici esercizi di potenziamento muscolare e di allenamento cardio–vascolare, oltre a rinforzare la muscolatura, ha effetti positivi
anche sulla mobilità articolare, sulla flessibilità dei tessuti molli, sul ritorno
venoso e sulla capacità aerobica.
Il potenziamento muscolare deve preferibilmente essere effettuato mediante esercizi dinamici che coinvolgano armonicamente più gruppi muscolari (inclusi quelli che solitamente non vengono sottoposti a sforzi durante l’attività lavorativa). Un programma di allenamento personalizzato — concordato
con un Terapista — può essere eseguito in palestra, ma è spesso facilmente
adattabile anche all’ambito domiciliare con l’uso di pochi attrezzi (cyclette, mini–stepper, tapis–roulant, tappeto elastico, manubri ed elastici a resistenza
progressiva tipo Thera–Band). La frequenza ideale è di 2–3 sedute settimanali di almeno 60–90 minuti, eseguite a intensità progressivamente crescente senza mai però superare la soglia aerobica.
Conclusioni
I DMSL sono patologie complesse da diagnosticare e da ricondurre a
una causa precisa: per questo motivo la normativa di riferimento non con-
136
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
templa esplicitamente l’obbligo di sorveglianza sanitaria, poiché si tratta di
un rischio non tabellato.
Tuttavia, il D.L. 626/94, all’Art. 3, prevede che il datore di lavoro adotti
misure generali di tutela dei dipendenti, comprensive del “rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e di produzione, anche per
attenuare il lavoro monotono e ripetitivo”. Concetto riaffermato anche dalla
Corte di Giustizia Europea con la sentenza della Quinta Sezione del 15
novembre 2001, secondo la quale il datore di lavoro è obbligato a valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei dipendenti, tra i quali anche
il rischio da sovraccarico biomeccanico per gli arti superiori.
A seguito della sentenza, l’Art. 4 del D.L. 626 è stato quindi modificato
dalla Legge Delega 29/02 la quale stabilisce che: “Il datore di lavoro valuta tutti i rischi”. Inoltre, l’Art. 6 del D.L. 626/94 individua gli obblighi di
rispetto dei principi generali di prevenzione per progettisti di luoghi e
impianti di lavoro.
Un protocollo di sorveglianza sanitaria mirato è opportuno quando:
— il documento di valutazione dei rischi abbia evidenziato un potenziale
rischio da movimenti ripetitivi e sovraccarico muscolare degli arti;
— il medico competente abbia rilevato un significativo incremento di
disturbi compatibili con DMSL;
— siano giunte segnalazioni di DMSL da altri enti (INAIL);
— siano formulate richieste dal Servizio Prevenzione Sicurezza Ambienti di
Lavoro della ASL.
Il protocollo prevede: anamnesi mirata attraverso questionari standardizzati, con definizione di casi positivi a una soglia anamnestica predefinita, protocolli clinici standardizzati per lavoratori positivi all’indagine
anamnestica, eventuali accertamenti clinici o strumentali per approfondimento diagnostico.
Nel caso il medico competente rilevi che le malattie diagnosticate presentino una causa prevalentemente lavorativa vanno allora attivati i necessari adempimenti medico–legali (15).
6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
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6. I disturbi muscolo–scheletrici di natura lavorativa
Allegato 1
Esercizi di automobilizzazione e di stretching
Programma personale di ......................................................................................
141
142
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Stefano Vercelli
IL
RECUPERO DELLE LESIONI TRAUMATICHE DELLA MANO
F. Sartorio, F. Franchignoni, G. Ferriero
La riabilitazione della mano, data la complessità anatomica e funzionale di questo distretto, richiede un approccio intensivo e qualificato (1,2).
Ciò comporta, in misura ancor maggiore che in altre patologie, la necessità di una stretta collaborazione tra medico, fisioterapista e terapista occupazionale (3).
Prima di affrontare nel merito i singoli aspetti del trattamento, ricordiamo che:
a) una componente fondamentale dell’intervento riabilitativo nelle lesioni
della mano è legata al tempo che viene dedicato al paziente. Sedute
quotidiane della durata di 30–45 minuti non sono in genere sufficienti
a perseguire gli obiettivi preposti, in quanto la concentrazione del lavoro in poco tempo e la relativa immobilità della mano nelle restanti ore
della giornata riducono gli effetti terapeutici;
b) la rieducazione della mano richiede una buona disponibilità di spazi, necessari per organizzare una serie di attività terapeutiche che il paziente
possa eseguire in sequenza, intervallate da adeguate pause, nel modo
più attivo possibile e sotto la supervisione del terapista e/o del terapista occupazionale;
c) il paziente va messo a proprio agio e fortemente motivato a contribuire
alla propria guarigione. Per questo deve essere responsabilizzato sul
proprio ruolo, rassicurato sulla continua disponibilità del personale sani-
* Servizio di Fisiatria Occupazionale e Ergonomia, Istituto Scientifico di Veruno (NO),
Fondazione Salvatore Maugeri, Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, IRCCS
143
144
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Giorgio Ferriero
tario e adeguatamente istruito sul razionale dei vari interventi, soprattutto quelli domiciliari. Per facilitare la comprensione degli esercizi a casa
ci si può avvalere di software dedicati, come ad esempio “ExercisePro”
(www.bioexsystems.com), che consente di stilare dei protocolli illustrati (contenendo più di 2000 immagini di esercizi).
Oltre a un’accurata valutazione clinica e funzionale (iniziale e periodica, al
fine di organizzare e modificare il programma di trattamento secondo l’evoluzione della patologia), l’intervento terapeutico si completa con l’adozione di
presidi idonei al controllo dell’edema e del dolore, esercizi terapeutici ed esercitazioni in attività funzionali e/o lavorative, nonché la proposta e il confezionamento di ortesi (scelte sulla base di un’accurata conoscenza anatomo–fisiologica della mano, della “compliance” del paziente, nonché delle sue mansioni lavorative pre–infortunio) (4–8). In particolare, nelle fasi iniziali ci si deve
destreggiare tra un’immobilizzazione mirata (per estensione, qualità e durata),
atta a diminuire la sintomatologia e favorire i processi riparativi senza aggravare il deficit articolare, e una prudente mobilizzazione che agisca positivamente sull’articolarità e sull’edema, prevenendo aderenze e retrazioni senza scatenare dolore né aggravare la flogosi (5,9).
Trattamento dell’edema e del dolore
L’edema va controllato sin dalle prime fasi poiché la sua presenza, in
un’articolazione rigida e dolente, porta a un’ulteriore perdita del movimento attivo e a un aumento della resistenza alla mobilizzazione (5, 9,10).
Inizialmente sono indicate: a) applicazioni di ghiaccio della durata di 20’
circa per 3–4 volte al dì; b) posture con braccio e mano in elevazione, al
fine di favorire il drenaggio sfruttando l’effetto della gravità; c) compressione, tramite bendaggi elastici (Coban® 3M) da applicare in senso disto–prossimale più volte al giorno o guanti elasticizzati (Isotoner® Gloves),
per un’azione pressoria leggera ma prolungata (11,12) (figura 1). A ciò
vanno associati gli esercizi di cauta mobilizzazione attiva: la chiusura a pugno alternata all’estensione della mano rappresenta uno degli esercizi più
semplici che il paziente può eseguire attivamente, favorendo in tale modo
non solo la mobilizzazione dei tessuti ma anche il drenaggio linfatico.
7. Il recupero delle lesioni traumatiche della mano
A)
145
B)
Figura 1 – Trattamento dell’edema attraverso a) bendaggi elastici (Coban® 3M) e, b)
guanti elasticizzati (Isotoner® Gloves)
Altre tecniche, da introdurre in un secondo momento, sono rappresentate dalla pressoterapia intermittente e da un blando massaggio drenante
(13–15).
Il trattamento antalgico si basa principalmente sui comuni mezzi fisici,
tra i quali i più utilizzati sono la paraffinoterapia, la crioterapia, i bagni caldi
e freddi alternati, gli ultrasuoni e la TENS (11,16–19). In presenza di iperestesia (di ostacolo alla corretta manipolazione degli oggetti) debbono
essere intrapresi procedimenti di “desensibilizzazione” cutanea (20). Si inizia con trattamenti di stimolazione della durata di 10 minuti circa per 3–4
volte al giorno, strofinando o percuotendo lievemente la zona interessata
con tessuti a ruvidità crescente (per esempio dall’ovatta al Velcro®),
immergendo la mano in un recipiente con materiale particolato (riso, sabbia, polistirolo, ecc.) e infine stimolando con piccoli vibromassaggiatori la
zona da trattare. In base alla tolleranza del paziente, il trattamento desensibilizzante deve progredire gradualmente in termini di durata e intensità,
incoraggiando un uso precoce dell’arto.
146
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Giorgio Ferriero
Il trattamento delle cicatrici
Poiché l’aspetto di una cicatrice può variare in maniera sostanziale a
seconda del tempo trascorso dall’inizio della sua formazione, l’osservazione, la valutazione e il successivo trattamento vanno condotti tenendo ben
presente in quale fase del processo di guarigione essa si trovi (21).
Nel primissimo periodo (da 5 a 10–12 giorni circa) è bene osservare
un periodo di relativa immobilizzazione per facilitare la chiusura della ferita e limitare la risposta infiammatoria.
Appena possibile vanno però messe in atto tutte le misure preventive
necessarie per evitare la formazione di edemi e di aderenze. Più avanti,
durante le fasi di fibroplasia e rimodellamento, il trattamento diviene più
intenso con l’applicazione di una tensione controllata e progressiva volta ad
aumentare l’elasticità e il grado di resistenza della cicatrice. Nei primi giorni
seguenti alla chiusura completa della ferita, l’eventuale edema può essere
trattato con manovre di sfioramento (effleurage strokes) via via più intense,
che interessano dapprima solamente le aree circostanti, per poi convergere
progressivamente, man mano che l’edema diminuisce e il paziente è in
grado di tollerare il trattamento direttamente sulla cicatrice (22).
A questo punto è possibile applicare tecniche manuali specifiche, definite “Soft–Tissue Mobilization” (mobilizzazione dei tessuti molli) (23).
Attraverso queste manovre, eseguite molto lentamente utilizzando varie
parti delle mani (dita, pollici, nocche, eminenza ipotenare, palmo), vengono trasmesse sollecitazioni a bassa intensità secondo le diverse direzioni di
movimento (compressione, trazione e torsione).
L’applicazione di pressioni centripete (push into) e stiramenti (pull away)
esercitati in più direzioni consente in fase valutativa di individuare il punto (o i
punti) in cui la mobilità è più limitata. Le stesse manovre sono poi utilizzate
nella fase del trattamento vero e proprio, imprimendo forze perpendicolari alla
zona di maggior retrazione e/o rigidità. Il lavoro comincia dagli strati superficiali, mantenendo lievi pressioni o trazioni per circa 90 secondi (o fintanto che
non si percepisce una diminuzione della resistenza nei tessuti interessati), per
poi intensificarsi e andare ad agire sugli strati più profondi.
In alcuni casi particolari, soprattutto nelle piccole cicatrici o in quelle particolarmente adese ai piani sottostanti, il trattamento manuale può essere
integrato da apparecchi per vacuumterapia (24). Una delle apparecchiatu-
7. Il recupero delle lesioni traumatiche della mano
147
re tecnologicamente più avanzate, l’LPG–Endermologie (LPG Systems,
Valance – Francia) (figura 2a), consente di effettuare uno scollamento per
suzione degli strati sottocutanei, e un massaggio trasverso per ridurre le
aderenze, promuovendo un aumento della perfusione sanguigna locale.
Ciò avviene per mezzo di speciali testine, dotate di rulli scorrevoli e un tubo
aspirante collegato a una piccola unità computerizzata.
La macchina permette di variare alcuni parametri di trattamento come
la velocità di scorrimento dei rulli, l’intensità e la frequenza di suzione (con
possibilità di aspirazione continua o pulsata), ed è dotata di una serie di
testine per le piccole cicatrici della mano.
Un’alternativa in forma più economica è rappresentata dallo “Scar
Suction Pump” (denominato anche “Extractor”) (figura 2b) (North Coast
Medical, Inc. – Morgan Hill, CA, USA). È composto da un cilindro simile a
una siringa alla cui estremità viene inserita una coppetta di diametro variabile, in base alle dimensioni della zona da trattare; premendo lo stantuffo
si crea un effetto “vacuum” che determina l’aspirazione della cute.
Spostando l’Extractor in senso longitudinale e trasversale rispetto all’orientamento della cicatrice si ha un effetto di scollamento.
Questa operazione non deve essere ripetuta per più di 3–4 volte per
punto e deve essere svolta con cautela e da operatori esperti poiché indu-
A)
B)
Figura 2 – Strumenti per il trattamento della cicatrice, a) LPG–Endermologie e b) Scar
Suction Pump
148
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Giorgio Ferriero
ce un’intensa iperemia locale fino a causare la rottura di capillari, o può
ledere il neotessuto cicatriziale.
La mobilizzazione passiva
La cinesiterapia passiva va eseguita dosando forza e velocità di movimento, nel rispetto degli assi e delle escursioni articolari fisiologiche (25). A causa
dello stretto spazio in cui sono raccolte le varie strutture anatomiche, la mano
è frequentemente soggetta a fenomeni aderenziali, con conseguente limitazione della mobilità. Per tale motivo la mobilizzazione passiva, sia analitica
che poliarticolare, va ripetuta per lunghi periodi di tempo e più volte nell’arco della giornata, applicando tensioni progressive intervallate da adeguate
pause, senza mai forzare o produrre dolore per non creare flogosi.
Alle classiche manovre di flesso–estensione vanno associati anche prudenti movimenti di decoaptazione articolare (disallineamento dei capi articolari,
rotazione e trazione assiale degli stessi ecc.) per ristabilire in toto i complessi
meccanismi responsabili del gioco articolare (26). Non vanno inoltre dimenticati gli esercizi per prevenire le retrazioni della muscolatura intrinseca della mano (17). In assenza di edema, disturbi della sensibilità o alterazioni cutanee, tali
metodiche possono essere precedute da bagni di paraffina, che favoriscono un
aumento di elasticità del tessuto connettivo. È possibile inoltre eseguire contemporaneamente termoterapia e stretching statico prolungato, mettendo in
tensione le dita con fascette elasticizzate prima di immergerle nella paraffina
(27). Alla mobilizzazione spesso si accompagna la terapia manuale (massaggio occidentale, Soft–Tissue Mobilization, Augmented–Soft–Tissue Mobilization), che ha effetti antalgici, decontratturanti, circolatori locali e che agisce anche sull’edema e sulle aderenze tessutali (15, 23, 28, 29).
La mobilizzazione attiva
La mobilizzazione attiva occupa un ruolo predominante nella rieducazione della mano: compito del terapista è assicurarsi che il paziente abbia
appreso come eseguire gli esercizi in maniera autonoma e che li svolga
nella misura prescritta (più volte al dì, anche a domicilio).
7. Il recupero delle lesioni traumatiche della mano
149
Si inizia dai movimenti globali, eseguiti simmetricamente (se necessario nell’acqua tiepida), in particolare la flessione del polso con estensione
delle dita e l’estensione del polso con flessione delle dita.
Si procede poi con movimenti analitici, di solito dalle articolazioni sane
(che vanno comunque mobilizzate per il mantenimento della mobilità presente) verso quelle malate e in senso prossimo–distale.
Gli esercizi devono essere lenti, ampi e svolti lungo tutta l’escursione articolare possibile, senza causare dolore (27). Vanno programmati movimenti per
l’avambraccio, il polso e le dita, contrazioni selettive dei flessori superficiale e
profondo delle dita ed esercizi di “scivolamento tendineo”, utilizzando le diverse posizioni di chiusura del pugno (dette “hook–fist”, “straight–fist” e
“full–fist”) (13, 30) (figura 3). Seguono gli esercizi contro resistenza, che mirano a recuperare la forza muscolare mediante una contro–resistenza progressiva, la quale può essere fornita da un operatore o dal paziente stesso, da strumenti meccanici (pulegge, bilancieri, molle, Hand Exercisers, Digi–Flex®,
ecc.)1 (figura 4), da elastici a diversi gradi di resistenza (tipo Thera–Band®)2
(figura 5) o da pasta di consistenza variabile da manipolare (NCM
Thera–Putty™)1. La maggior parte di queste attrezzature ha un costo limitato
e può quindi essere acquistata dal paziente per esercizi domiciliari.
Si possono associare all’esercizio attivo anche: a) stimolazioni con correnti eccitomotorie, sia per potenziare la contrazione volontaria (a volte inibita da
fattori neurogeni), sia per mantenere o accrescere il range articolare (18,26);
b) tecniche di EMG biofeedback, per facilitare il reclutamento muscolare o
inibirne l’attività in caso di co–contrazioni o contratture antalgiche (31).
La rieducazione funzionale
La mobilizzazione attiva fine a se stessa va al più presto integrata con tutte
quelle strategie atte a massimizzare le prestazioni funzionali del paziente nell’autonomia personale, nei compiti professionali, nelle attività domestiche,
1
Prodotti distribuiti negli Usa dalla North Coast Medical Inc., San Jose, CA e commercializzati in Italia dalla Sostiene, Torino.
2.
Prodotto commercializzato in Italia dalla Mediland RuschCare s.r.l., Varedo (MI).
150
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Giorgio Ferriero
Figura 3 – Differenti posizioni di chiusura del pugno da assumere durante gli esercizi di
“scivolamento tendineo”
Figura 4 – Apparecchiatura per l’esecuzione di esercizi contro resistenza di flessione delle
dita (Digi–Flex ®)
Figura 5 – Elastici a diversi gradi di resistenza per l’esercizio terapeutico della mano
(Theraband™ Strips)
7. Il recupero delle lesioni traumatiche della mano
151
sportive, ecc. Queste attività vanno commisurate alle reali capacità e necessità di ciascun paziente. Le gestualità quotidiane possono essere valutate e
allenate tramite apposite strumentazioni, tra cui ricordiamo:
1) Test manuali come il Jebsen, il Minnesota Rate of Manipulation, il Nine Hole,
il Functional Dexterity Test o il Purdue Pegboard, che esercitano destrezza e
precisione in compiti di manipolazione eseguiti a tempo (32–35).
2) I sistemi di simulazione Valpar, che utilizzando materiali e attrezzi di uso
abituale consentono la valutazione e l’allenamento di specifiche mansioni lavorative. Ad esempio: a) nel Valpar 4 (Upper extremity range of motion) è necessaria una rapida manipolazione di oggetti di piccole e medie
dimensioni (dadi di differente grandezza da avvitare su bulloni) in un’area
ristretta e nascosta alla vista (un cubo con un’apertura sulla faccia frontale), variando continuamente le posizioni dell’arto superiore (figura 6); b)
il Valpar 8 (Simulated assembly) richiede un processo di assemblaggio
ripetitivo di tre parti (un puntello e due cilindretti) su un cerchio rotante,
con impiego simultaneo di entrambe le mani; c) l’esecuzione del Valpar
9 (Whole body range of motion) prevede un’attività manipolativa veloce
in differenti posture lavorative (stazione eretta con braccia sopra la testa,
posizione accosciata, in piedi con tronco flesso, ecc.) (36–38).
3) I dinamometri computerizzati, che permettono di simulare, valutare ed esercitare varie attività funzionali dell’arto superiore grazie a una ricca dotazione
di attrezzi intercambiabili (cacciaviti, manopole sferiche e piane di diverse dimensioni, manovelle, volanti ecc.) (39). Tra i più diffusi citiamo il Dexter
Hand Evaluation and Therapy System (Cedaron Medical, Davis, CA–USA)
(40–43), il Lido WorkSET (Loredan Biomedical, West Sacramento,
CA–USA) (44,45), il BTE Work Simulator II e il Primus (Baltimore Therapeutic Equipment, Baltimore, MD–USA) (figura 7) (46–48) e il Biodex
(Biodex Medical System, Shirley, NY–USA) (49,50). Interfacciati con un
computer, permettono di raccogliere, visualizzare e confrontare diversi parametri di performance quali: posizione angolare, momento di forza, potenza
e lavoro. La possibilità di prefissare la velocità di movimento articolare consente di: a) operare confronti validi e affidabili fra diversi soggetti o fra le
diverse prestazioni di uno stesso paziente e, b) analizzare la relazione fra
momento di forza/velocità angolare e momento di forza/lunghezza, dando
così la possibilità di evidenziare eventuali deficit selettivi per lunghezza muscolare o escursione articolare. Alcuni apparecchi integrano inoltre in un
152
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Giorgio Ferriero
unico report una vasta gamma di esami clinici standard (test della sensibilità, del ROM, ecc.), fornendo così un quadro completo del soggetto esaminato. Lo svantaggio di questi sistemi computerizzati è purtroppo rappresentato dall’alto costo e dalla necessità di una approfondita preparazione tecnica del personale che li utilizza. Ciò limita molto la commercializzazione e diffusione di tali sistemi. Un adeguato e prolungato esercizio con questi sistemi di simulazione di attività lavorative produce un aumento della forza, della
resistenza e dell’abilità nel compito allenato: queste metodiche fanno spes-
Figura 6 – Sistema Valpar™ N 4 per la valutazione e l’allenamento dell’abilità manipolatoria
Figura 7 – Apparecchiatura BTE Primus con set di attrezzi per l’allenamento dell’arto superiore
7. Il recupero delle lesioni traumatiche della mano
153
so parte dei trattamenti intensivi di riabilitazione occupazionale definita dagli
anglosassoni “work hardening” (11).
Le ortesi
Sono apparecchi di contenzione e correzione destinati al trattamento di
atteggiamenti viziati, spesso integrati in un programma terapeutico globale.
Tali strumenti mirano di volta in volta alla protezione e al riposo articolare (con conseguente riduzione del dolore e dell’infiammazione), al blocco di movimenti indesiderati, alla riduzione di rigidità articolari e di anomale tensioni tendinee, alla sostituzione di funzioni muscolari perse (5,16).
Le ortesi vengono realizzate nel rispetto dell’architettura della mano
(archi palmari, pliche cutanee, prominenze ossee, passaggi di nervi, vasi e
legamenti ecc.) e in ottemperanza a precise norme biomeccaniche (distribuzione delle pressioni, direzioni e intensità delle forze in gioco, ecc.).
Per l’utilità di questi presidi riabilitativi rimandiamo il lettore al capitolo di
questo volume dal titolo “Gli splint in Riabilitazione”.
Conclusioni
Il recupero funzionale della mano traumatizzata è un compito delicato
e laborioso, che richiede periodiche rivalutazioni e continue modifiche dei
traguardi, soprattutto di quelli a breve termine. Se da una parte il terapista
si trova di fronte a un compito altamente stimolante e a dover fornire un
trattamento di tipo intensivo, dall’altra è strettamente necessario che il paziente esegua con impegno e scrupolosità tutte le istruzioni impartitegli.
L’aspetto determinante è l’abilità a riprogammare settimanalmente gli
obiettivi nella zona di intersezione tra le richieste imposte dagli scopi del
protocollo e le capacità di raggiungerli da parte del soggetto. Se il livello
degli obiettivi è troppo alto, vi è il rischio che il loro mancato raggiungimento provochi effetti demotivanti sull’umore e sull’autostima. Al contrario, se
sono troppo facili, i tempi di recupero si allungheranno, influendo negativamente sull’entusiasmo e sul coinvolgimento attivo del paziente.
154
Francesco Sartorio, Franco Franchignoni, Giorgio Ferriero
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GLI
SPLINT IN RIABILITAZIONE
F. Sartorio, S. Vercelli, F. Franchignoni
Il “Mosby’s Medical, Nursing & Allied Health Dictionary” (1) definisce lo
splint “uno degli strumenti che il terapista ha a disposizione per minimizzare o correggere delle menomazioni e per ripristinare o aumentare la funzione persa”. Nella lingua italiana lo splint viene comunemente tradotto con
il termine di ortesi, che la stessa fonte, con un taglio maggiormente biomeccanico, definisce come “uno strumento basato su un sistema di forze
progettate per controllare, correggere o compensare deformità ossee, forze
interne deformanti o assenti”.
La comparsa di ortesi (inizialmente quali primitivi tentativi di correzione di
deformità osteoarticolari) risale a epoche remote (2–3), ma le prime pubblicazioni mediche dell’epoca moderna si devono all’esercito statunitense. Nel
1917 venne redatto un manuale pratico e nel 1944, all’interno della prima
edizione di “Surgery of the hand”, Bunnell introdusse un capitolo dedicato alla
tecnica e ai materiali impiegati per il confezionamento delle ortesi (4). È solo
alla fine degli anni Cinquanta che questi ausili cominciarono tuttavia a diffondersi in campo riabilitativo, in particolar modo per correggere e prevenire i
danni terziari causati da patologie ortopediche e neurologiche.
Da allora, grazie al rapido sviluppo di materiali sempre più versatili, la tecnica si è molto affinata. L’avvento dei materiali termoplastici a bassa temperatura (MTPBT), composti da polimeri plastici con l’eventuale aggiunta di eccipienti di natura gommosa, di pigmenti o elastomeri, ha determinato un deci-
* Servizio di Fisiatria Occupazionale e Ergonomia; Istituto Scientifico di Veruno (NO);
Fondazione Salvatore Maugeri, Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, IRCCS.
157
158
Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
sivo passo in avanti. Orthoplast, Polyform, K–splint, Aquaplast (vedi Appendice
A) furono i primi a essere introdotti sul mercato americano nella metà degli
anni Sessanta e si imposero velocemente sui materiali usati in precedenza,
fino a sostituirli quasi completamente (5).
Oggi, le ortesi in MTPBT sono supportate da una vasta letteratura scientifica e costituiscono un importante strumento terapeutico, soprattutto nella
riabilitazione della mano (6,7).
Classificazione
Esistono due metodi di classificazione:
uno utilizzato nei Paesi europei, l’altro adottato negli Stati Uniti.
Sistema di classificazione europeo
Si tratta di un metodo semplice e intuitivo, e per questo molto diffuso (2, 5–13).
Figura 1 – Splint statico (qui utilizzato
Prevede quattro diverse categorie:
per la sindrome di DeQuervain)
— Splint statici: consentono di mantenere una o più articolazioni in una posizione fissa. Sono composti solitamente da
un modulo base e non posseggono
parti mobili (figura 1);
— Splint statico–progressivi: sono
generalmente degli splint statici predisposti per successive modifiche in previsione di un’evoluzione del quadro
clinico (figura 2);
— Splint dinamici: consentono di muovere
una o più articolazioni secondo traiettorie e Figura 2 – Splint statico–progressivo,
utilizzato (in tre fasi succestensioni determinate. Possono essere cosive) per il recupero dell’estituiti da due o più moduli articolati tra loro
stensione dell’articolazione
tramite tiranti rigidi, molle o elastici (figura
interfalangea prossimale
8. Gli splint in riabilitazione
159
3). Vengono distinti in “a basso profilo” e “ad alto profilo”: il primo è solitamente indicato in presenza di paresi o durante le attività funzionali, mentre
il secondo quando si vuole recuperare un’ampia escursione articolare.
— Splint funzionali: permettono al paziente con attività motoria assente o
molto compromessa di compiere una funzione (scrivere, usare le posate,
ecc.). Possono essere costituiti da un unico modulo o da più parti (figura 4).
Figura 3 – Esempi di splint dinamici, a “basso profilo” e ad “alto profilo”
Figura 4 – Splint funzionali (quello a sinistra permette di impugnare una posata in mancanza della pinza a “tre punti” e quello a destra di reggere una matita per la scrittura)
160
Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
Sistema di classificazione americano
Agli inizi degli anni Novanta, l’Associazione Americana dei Terapisti della
Mano (ASHT) avvertiva l’esigenza di un linguaggio che descrivesse in maniera inequivocabile qualsiasi tipo di splint, così da facilitare le comunicazioni tra colleghi, in particolare nelle pubblicazioni scientifiche (7,14,15). Le
linee guida necessarie per una corretta classificazione, basata sulla funzione, furono quindi riassunte dall’ASHT nell’apposito manuale “Splint/Orthotic Classification System (SCS)” (14).
Il metodo segue una struttura di tipo “piramidale”: la prima grande suddivisione è tra splint/ortesi “articolari” o “non articolari”, dopodiché prende
in considerazione la localizzazione dell’articolazione primaria (o il segmento
osseo, se non articolari) che riceve l’effetto principale dello splint (figura 5). La
classificazione prosegue unicamente per le ortesi articolari con la segnalazione della direzione della forza, intesa come la funzione cinematica dello splint
Figura 5 – Sistema di Classificazione di splint/ortesi proposto dall’ASHT
8. Gli splint in riabilitazione
161
sull’articolazione primaria. Si passa quindi alla funzione, che può essere di
“mobilizzazione, immobilizzazione o limitazione”. A questo proposito
ricordiamo che la classificazione avviene in base all’obiettivo dello splint e non
alla sua forma: un modulo statico, la cui funzione è però il recupero di un
movimento (estensione o flessione di un’articolazione), viene quindi classificato sotto la voce “mobilizzazione” e non “immobilizzazione”. Infine, si possono indicare altre sotto–tipologie a seconda del numero di articolazioni secondarie incluse nello splint per garantire o aumentare la stabilità di quella/e primaria/e. È facoltà di colui che progetta e classifica lo splint decidere quali siano
le articolazioni primarie e quali le secondarie; questa libertà è appositamente
voluta per lasciare ampia iniziativa nell’ideazione di nuovi modelli. Sotto la
voce “caratteristiche opzionali” possono inoltre essere riportate alcune utili
proprietà dello splint: la quantità di forza applicata, il tipo di profilo dello splint,
i gradi di mobilizzazione o immobilizzazione dell’ articolazione primaria o
secondaria, ecc.
Per semplificare la classificazione si può utilizzare un apposito quadro
sinottico in cui i vari passaggi sono indicati con rappresentazioni grafiche e
abbreviazioni codificate.
Materiali
La conoscenza delle proprietà dei materiali in commercio è di fondamentale importanza nella scelta di quello più idoneo all’occasione: materiali con elevata resistenza per pazienti con ipertonia spastica, materiali molto conformabili per ortesi di piccole zone come le dita, materiali più leggeri e flessibili per sportivi o pazienti molto ipostenici, ecc. Inoltre, poiché la tecnica e l’abilità manipolativa variano a seconda del tipo di plastica selezionata, è opportuno che l’operatore ne tenga in considerazione in fase di confezionamento (5,16,17).
Vista la comparsa in commercio di una grande varietà di prodotti con
caratteristiche fisiche e meccaniche differenti, si è avvertita anche in questo settore l’esigenza di uniformare la terminologia utilizzata per indicare le
diverse proprietà.
In questo paragrafo descriviamo le varie caratteristiche che i MTPBT
possono possedere, le cui definizioni (mutuate dalla letteratura anglosassone), vengono proposte come terminologia standard.
162
Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
— Temperatura di attivazione: è la temperatura, solitamente espressa in
gradi centigradi, alla quale il materiale diventa modellabile (si attiva). I
MTPBT vengono così definiti poiché attivabili al di sotto dei 90°C, ma la
maggior parte di essi ha una temperatura di lavoro compresa tra 55°C
e 80°C. Ciò consente il modellamento della plastica direttamente sul
paziente senza passaggi intermedi (presa di calchi o costruzione di dime). In questo modo si riducono i tempi e la probabilità di errori nel
confezionamento, permettendo al terapista di intervenire con precisione nell’adattare l’ortesi, anche in tempi diversi, in relazione all’evoluzione del quadro funzionale del paziente. È opportuno ricordare che qualora il MTPBT sia sottoposto a una temperatura superiore a quella consigliata, si assisterà alla diminuzione del tempo di attivazione, alla riduzione delle proprietà intrinseche del materiale, a un aumento del tempo
di posa e in taluni casi a un aumento del grado di conformabilità (16).
Al contrario, nel caso in cui la temperatura sia inferiore a quella consigliata (bastano anche soli 10° C in meno), la situazione si inverte e non
è più possibile modellare correttamente l’ortesi.
— Memoria elastica: è la capacità del materiale di tornare alla sua forma
originaria (solitamente quella di una lastra piana), dopo essere già stato
modellato. Ciò è semplicemente ottenibile tramite nuovo riscaldamento, solitamente in acqua. Si tratta di una delle caratteristiche più importanti poiché permette, nel caso di errori, di ripetere il confezionamento
evitando sprechi. Il grado di memoria elastica di un materiale è direttamente proporzionale alla quantità di sostanze elastiche in esso contenute e viene convenzionalmente espresso in percentuale: una memoria elastica del 100% significa che il materiale è in grado di riprendere
completamente la forma iniziale (lastra piana), mentre percentuali inferiori indicano la capacità a mantenere più o meno parzialmente la conformazione data. Benché la maggior parte dei MTPBT offra un buon livello di memoria elastica, non sempre i valori massimi sono consigliati:
nei casi in cui siano necessarie correzioni parziali in serie (come negli
splint statico–progressivi ad esempio), un grado di memoria elastica inferiore consente infatti di non perdere completamente la forma evitando così il completo ri–confezionamento.
— Conformabilità: indica la precisione con la quale il materiale attivato si
adatta al profilo della superficie su cui viene posto e dipende principalmen-
8. Gli splint in riabilitazione
163
te dalla percentuale di plastomeri in esso contenuto. I MTPBT possiedono
una conformabilità di norma superiore alle plastiche ad alta temperatura e
a quelli modellabili a freddo (16) e ciò consente di realizzare ortesi comode e ben tollerate senza la necessità di lunghe manipolazioni o particolari
tecniche manuali. Solitamente MTPBT più conformabili possiedono scarso
controllo, tempi di posa maggiori e scarsa resistenza. La scelta dipende pertanto dalla natura dell’applicazione clinica: nei casi in cui si desideri ottenere una congruenza ottimale tra splint e parte anatomica (mano reumatoide, esiti di ustioni, ecc.) è consigliata l’adozione di una plastica molto conformabile; se invece i tempi di posa devono essere contenuti (pazienti irrequieti o soggetti ad aumenti improvvisi del tono muscolare, correzioni di
deformità articolari dovute a retrazioni delle parti molli) o si vuole ottenere
uno splint con una buona resistenza alle sollecitazioni meccaniche (pazienti con ipertono, splint da indossare durante attività pesanti, ecc.), la preferenza cade su materiali meno conformabili. Va osservato come alti gradi di
conformabilità determinano uno scarso controllo in fase di attivazione che,
nel caso di ortesi di medie e grandi dimensioni, possono portare all’eccessivo allungamento del materiale nel momento di estrazione dalla vasca termostatate e alla conseguente inutilizzabilità del materiale.
In Appendice A si trovano descritte le principali proprietà fisiche che
caratterizzano ogni singolo MTBT.
La gamma di prodotti in commercio (vedi Appendice B), combinando
la concentrazione dei 4 “ingredienti” di base (polimeri elastici, resine plastiche, sostanze gommose e gomma), è in grado di soddisfare qualsiasi
necessità clinica. In particolare, i materiali ricchi di gomma e sostanze gommose mostrano un buon livello di controllo, al contrario di quelli ricchi di
resine plastiche. Mentre i primi, più elastici, subìscono solo lievi deformazioni strutturali quando sottoposti ad allungamento, gli altri mostrano un
comportamento viscoso alle sollecitazioni e risultano perciò più soggetti ai
mutamenti di forma permanenti (5,16).
Il grado di controllo e quello di conformabilità di uno stesso materiale
sono direttamente proporzionali, mentre non esiste alcuna correlazione tra
queste due caratteristiche e la rigidità del materiale una volta raffreddato
(indice di durata nel tempo dello splint). Ma a sorprendere di più è forse
il fatto che nemmeno tra spessore del materiale e modificazioni delle caratteristiche visco–elastiche è stata trovata alcuna correlazione (16,17).
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Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
Se i principi costruttivi di base sono correttamente applicati e rispettati,
grazie agli attuali MTPBT è possibile realizzare splint con resistenze paragonabili a quelle dei materiali ad alta temperatura (16).
Indicazioni e applicazioni
Le indicazioni e le applicazioni degli splint spaziano dall’ambito neurologico a quelli reumatologico, ortopedico e sportivo. Nei pazienti affetti da spasticità sono utilizzati per combattere l’ipertonia (18) e i danni terziari a essa connessi (19), nei pazienti con paralisi centrali per migliorare alcune attività funzionali (20–23), nei pazienti con artrite reumatoide per prevenire le deformità e ridurre il dolore (24), negli sportivi per proteggere le parti lese permettendo il prosieguo dell’attività (25–27). Altre frequenti indicazioni vi sono nelle
sindromi canalicolari dell’arto superiore (28,29), nel trattamento del paziente
ustionato (30,31), nelle tendinopatie e nei disturbi da traumi cumulativi (32),
negli esiti di chirurgia della mano (33,34) e nella profilassi dei traumi dell’apparato locomotore (35,36). In sintesi, gli splint consentono di (6):
— Immobilizzare per proteggere tendini, legamenti e ossa, permettendo
di continuare a usare l’estremità (grazie alle caratteristiche di leggerezza
e comfort dei materiali). La facilità di rimozione dell’ortesi consente la
periodica mobilizzazione delle articolazioni e l’igiene della cute. Si utilizzano prevalentemente per tale scopo splint statici (figura 1).
— Vicariare funzioni muscolari: le forze applicate tramite tiranti, molle, elastici calibrati o il vincolo offerto da parti fisse opportunamente posizionate,
possono compensare l’assenza di azioni muscolari (primi agonisti, fissatori
o neutralizzatori). Si confezionano in questi casi splint statici o dinamici.
— Risolvere e prevenire limitazioni della normale escursione articolare: nei casi di rigidità articolare, retrazioni muscolo–tendinee o
cutanee è possibile, tramite tiranti, applicare forze definite in intensità e
verso e mantenerle oltre la durata della seduta di fisioterapia. Possono
essere utilizzati sia splint statici–progressivi che dinamici (figura 2).
— Fungere da supporto per strumenti: qualora la mano non sia in grado
di compiere funzioni di presa, si possono confezionare splint con un
apposito alloggiamento per posate, puntali, strumenti per scrittura, ecc. Sono splint statici o dinamici che vengono definiti funzionali (figura 4).
8. Gli splint in riabilitazione
165
— Rimodellare escare negli esiti di ustioni: è ben noto che la compressione delle cicatrici, associata a modeste trazioni, agisce positivamente su di esse prevenendo o risolvendo eventuali retrazioni cutanee.
Possono essere splint statici o dinamici.
— Favorire lo scorrimento tendineo: nell’immediato post–operatorio di
interventi chirurgici ai tendini, l’uso di particolari splint dinamici permette al paziente di mobilizzare il tendine al fine di prevenire pericolose
aderenze, senza mettere in tensione la sutura (figura 3).
— Favorire il rinforzo selettivo di gruppi muscolari: attraverso l’uso di
splint dinamici è possibile definire con precisione la direzione e l’intensità della resistenza applicata, in modo che il paziente possa eseguire
autonomamente e in sicurezza gli esercizi prescritti (figura 6).
— Ridurre il grado di spasticità: sebbene nei soggetti con lesioni del
sistema nervoso centrale la spasticità non sia l’unico motivo di riduzione della funzionalità dei movimenti, questo disturbo può interferire con
il recupero funzionale del soggetto causando alterazioni della normale
contrazione muscolare, limitazioni articolari e dolore. Benché l’utilizzo
delle ortesi per ridurre l’ipertono muscolare sia stato introdotto da quasi
un secolo (37,38), le opinioni a riguardo sono ancora in parte controverse. In generale, diversi autori sostengono due razionali di base: la
prevenzione e/o la risoluzione delle retrazioni delle parti molli (componente passiva della spasticità) e il miglioramento del controllo neuro–muscolare (componente attiva) (39).
Figura 6 – Splint per favorire il rinforzo selettivo di muscoli ipostenici (eminenza tenar)
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Principi, tecniche e attrezzature di base per il confezionamento di
splint
Sebbene l’elevata duttilità del materiale abbia semplificato la lavorazione rispetto al passato, per confezionare un’ortesi per la mano è tuttora fondamentale avere delle solide basi di anatomia, biomeccanica e cinesiologia, nonché una
buona conoscenza dei materiali e dei principi costruttivi di base (2,5,7,40–45).
Uno splint, se correttamente realizzato, deve essere perfettamente tollerato
senza creare pericolose concentrazioni di pressione, comodo da mettere e togliere, non deve limitare i movimenti che il paziente è in grado di compiere, deve proteggere le strutture interessate migliorandone la mobilità globale ed essere eventualmente predisposto per successive correzioni o per l’aggiunta di parti.
Il primo passo è quello di ottenere un modello in carta da utilizzare come
campione per disegnare i contorni sulla lastra di materiale termoplastico (figura 7). Il modello può essere fabbricato al momento seguendo i punti di repere anatomici del paziente, oppure fotocopiato da campioni preesistenti. Vi sono
numerosi libri e manuali su cui trovare disegni
specifici per diverse articolazioni ed esigenze
(5,7,40–45). La lastra viene dapprima scaldata nell’acqua per qualche istante, così da rendere più agevole l’operazione di ritaglio del
modulo base, e successivamente reimmersa
per procedere al modellamento sulla mano
del paziente. A raffreddamento e consolidamento ultimati (4–6 minuti) si aggiungono i
sistemi di fissaggio a Velcro® e gli accessori,
quando previsti. Il confezionamento termina
con la rifinitura degli spigoli e di tutte le eventuali asperità. È buona norma, dopo un primo
periodo di prova, tenere sotto controllo il soggetto per prevenire l’insorgenza di danni cutanei causati da zone sottoposte a eccessiva
pressione e provvedere in tal caso alle evenFigura 7 – Modello di carta per disetuali correzioni (Appendice C).
gnare i contorni dello splint
Per la fabbricazione (anche dei modelli più
sulla lastra di materiale
semplici) sono necessarie attrezzature che
termoplasticotenar)
8. Gli splint in riabilitazione
167
permettono all’operatore di lavorare il MTPBT velocemente e con facilità, e di
fissare al modulo base tutti quegli accessori che rendono l’apparecchio più efficace e confortevole (45). I cataloghi delle ditte che commercializzano questi
prodotti, per lo più americane, propongono ogni anno novità o modifiche di
attrezzature e accessori già esistenti (Appendice B).
Vasche termostatate
Ve ne sono di grandezze e profondità variabili, solitamente costruite in alluminio, acciaio inossidabile o “plastica termoresistente” e dotate sia di maniglie
per il trasporto che di coperchi per contenere il vapore. L’acqua viene riscaldata utilizzando un sistema di resistenze elettriche collegato in rete. Le più funzionali sono dotate di un termostato in grado di mantenere costantemente
l’acqua alla condizione termica desiderata: il range di temperature selezionabili varia in base al modello, da un minimo di qualche decina di gradi a un
massimo di 120°. La velocità con cui viene raggiunta la temperatura impostata è proporzionale alla potenza (Watt) dell’apparecchio (figura 8).
Accessori per la vasca
Per evitare allo stesso momento fastidiose scottature alle mani e adesioni indesiderate del materiale all’interno della vasca (su se stesso, su altri pezzi
o sul fondo della vasca), si utilizzano reti di plastica termoresistente e antiaderente o cestelli per scolare l’acqua. Diversamente, per manovrare il model-
Figura 8 – Vasca termostatata
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Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
lo di termoplastico nella vasca o per estrarre da essa piccoli pezzi possono
essere impiegate pinze piatte o palette in materiale antiaderente (figura 9).
Phon
Il ventilatore ad aria calda (phon) è utile per scaldare delle aree ristrette, ad esempio per effettuare correzioni parziali su splint già modellati o per
attivare in maniera selettiva parti che per motivi diversi non è possibile immergere in vasca. I phon presenti sul mercato (vanno benissimo quelli professionali in vendita nei negozi di ferramenta) possono raggiungere temperature anche elevate (400°–500°): sono silenziosi, dotati di un piedistallo, ed è possibile inserire dei collettori per ridurre il calibro del ventilatore e
direzionare il flusso di aria calda (figura 9).
Taglierini e forbici
I taglierini sono costituiti da una lama inossidabile, estraibile o fissa, e di un
manico di legno o in plastica; in alcuni modelli è presente la protezione per le
dita (figura 9). Una serie assortita di forbici è necessaria per soddisfare le diverse esigenze: manici, lame e punte di lunghezza e forma differente consentono di tagliare con il minimo sforzo e la massima resa i vari tipi di materiali. La
scelta dovrebbe cadere preferibilmente su strumenti dotati di impugnature ergonomiche, con i fori delle dita asimmetrici e realizzati in materiali leggeri. Alcuni modelli sono inoltre provvisti di una molla vicino al fulcro o di una cinghietta di plastica elastica per facilitare l’apertura delle lame (figura 9).
Figura 9 – Accessori per il confezionamento di splint (forbici, fustellatrice, taglierini, smussabordi, pinze piatte per estrazione materiale, phon)
8. Gli splint in riabilitazione
169
Foratrice e trapano a mano
Permettono di praticare sul materiale fori di diverso diametro, utili ad
esempio per creare una via di accesso per i Velcri® o per fissare parti accessorie (figura 9).
Ghiaccio Spray
Può essere utilizzato durante la fase di modellamento per raffreddare (e
quindi indurire) più velocemente il materiale. Alcune bombolette in commercio contengono ancora idroflurocarburi, mentre altre sfruttano il principio di gas più ecologici, inodori e atossici.
Velcro®
Ha lo scopo di fissare e stabilizzare in modo agevole lo splint alla sua sede
anatomica. In commercio esistono svariate confezioni di Velcro®: rotoli di diverse lunghezze che differiscono in rapporto allo spessore, all’altezza, alla consistenza, all’elasticità e al comfort (figura 10). Consigliamo di utilizzare del Velcro® “maschio” (quello dotato di una superficie ruvida) con il lato posteriore
adesivo da incollare direttamente sullo splint, e del Velcro® “femmina” morbido (imbottito) per il fissaggio. Particolari fibbie possono essere impiegate per
poter meglio controllare la chiusura e la direzione del Velcro ®.
Figura 10 – Confezioni di differenti tipi di Velcro
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Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
Rivestimenti
Vengono applicati direttamente sul materiale termoplastico sfruttando una
pellicola adesiva, per ridurre le frizioni tra cute e splint, per offrire una superficie più confortevole in presenza di zone di iperpressione, per ridurre le vibrazioni e gli insulti meccanici a carico delle strutture ortesizzate, per aumentare la traspirazione della cute, per mantenere un grado di compressione in
corrispondenza di cicatrici ipertrofiche. I materiali utilizzati sono scelti in rapporto alle diverse esigenze: spugne, gomme, tessuti o gel siliconici.
Conclusioni
I MTPBT, introdotti in Italia agli inizi degli anni Ottanta, hanno avuto nell’ultimo decennio un sensibile incremento del loro utilizzo nelle Unità Operative
di Riabilitazione. Questa progressiva diffusione (ancor più marcata negli Stati
Uniti e in Francia) è stata supportata da importanti e continue evoluzioni sul
piano delle conoscenze e della divulgazione scientifica. Sono stati pubblicati
numerosi testi di tecnica e teoria (5,7,40–44), sono nate le prime Riviste specializzate in terapia della mano e splinting (quali il Journal of Hand Therapy o
l’American Journal of Occupational Therapy), e tutti i più recenti trattati di riabilitazione occupazionale e della mano dedicano ampio spazio a questo argomento (1,2,8,32–34,46). Benché la tecnica ortesica si sia sviluppata principalmente per la mano, l’ambito si è poi ampliato ad altre parti del corpo: sono
state infatti sperimentate applicazioni all’arto inferiore (docce di posizione,
ginocchiere articolate, ortesi di posizionamento per tibiotarsica e per dita dei
piedi), all’arto superiore (reggispalla, valve di protezione per braccio o avambraccio, tutori dinamici per gomito) e al volto (maschere di protezione per
infrazioni ossee del maxillo–facciale o del setto nasale). Le potenzialità di utilizzo sono notevoli, soprattutto se ad applicarle è chi quotidianamente si
confronta con le diverse problematiche funzionali del paziente. Grazie alla
diretta esperienza con il movimento e le sue alterazioni, il riabilitatore può
oggi avvalersi quindi di un utile strumento terapeutico per intervenire in
modo sempre più mirato ed efficace sui tempi di recupero e sulla disabilità dei pazienti.
8. Gli splint in riabilitazione
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8. Gli splint in riabilitazione
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Appendice A –Principali caratteristiche fisiche dei materiali termo–plastici
a bassa temperatura
— Rigidità: resistenza del materiale conformato alle deformazioni in torsione, trazione o di taglio. Le
caratteristiche di conformabilità e di rigidità, di primaria importanza per la buona riuscita dello splint,
difficilmente convivono nello stesso prodotto, essendo inversamente proporzionali tra loro. In taluni casi è tuttavia possibile avere un elevato livello di conformabilità e una discreta rigidità dello
splint, a scapito però di una bassa resistenza alla trazione e alle impronte.
— Tempo di posa: è il tempo durante il quale il materiale mantiene le sue caratteristiche di conformabilità ed è possibile modellarlo. Solitamente varia da 4 a 6 minuti.
— Controllo (resistenza alla trazione): è la resistenza del materiale attivato alle sollecitazioni in trazione.
— Resistenza alle impronte: resistenza del materiale riscaldato alla deformazione per sollecitazioni
in pressione e quindi durante la manipolazione della plastica.
— Restringimento: tendenza alla diminuzione dell’area del materiale in seguito a raffreddamento.
— Autoaderenza: proprietà del materiale riscaldato di attaccarsi su se stesso. Questa proprietà è particolarmente utile quando è necessario unire porzioni accessorie al modulo base, ma occorre fare
molta attenzione ai contatti non desiderati del materiale su se stesso (soprattutto durante l’estrazione dall’acqua), difficili poi da staccare. Alcuni prodotto sono invece provvisti di una particolare
pellicola trasparente che impedisce al materiare di incollarsi, ma che può essere rimossa nei punti
desiderati raschiando con la lama di una forbice.
— Tempo di riscaldamento: tempo minimo di applicazione della temperatura di lavoro per rendere
il materiale lavorabile, varia da 2 a 4 minuti.
— Trasmissione di calore: è la caratteristica fisica per la quale un corpo rigido, se riscaldato in una
zona circoscritta, trasmette per convezione tale calore alle zone adiacenti. Nei MTPBT la trasmissione di calore è molto limitata, rendendo così più agevoli e precisi gli interventi di correzione che
possono essere effettuati anche con un phon dotato di un riduttore di flusso dell’aria.
Altre caratteristiche qualitative dei MTPBT sono la leggerezza (lo stesso materiale è in genere
disponibile anche con gradi diversi di perforazione, che lo alleggeriscono ulteriormente e consentono
la traspirazione), la radiotrasparenza e la lavabilità.
174
Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
Appendice B – Elenco di alcune ditte produttrici (e di eventuali importatori in Italia) di materiale termoplastici a bassa temperatura.
1.
Produttore: NORTH COAST MEDICAL INC., Morgan Hill, CA 95037–2845 USA Web Site:
www.ncmedical.com
Importatore: SOSTIENE srl, via Alassio 24/A – 10126 Torino, tel: 011/6647640 – fax: 011/6647513
– Web Site: www.sostiene.it – email: [email protected]
Materiali:
Encore: Conferisce una moderata resistenza all’allungamento per un’eccellente conformabilità e riproduzione dei dettagli. Memoria elastica del 100%. Spessore da 1,6 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
NCM Preferred: Materiale dotato di grande versatilità grazie a caratteristiche di moderata resistenza
all’allungamento, buone doti di conformabilità e memoria moderata. Spessore da 2,4 a 3,2 mm.
Lastre lisce e perforate.
NCM Spectrum: Grazie alla buona resistenza all’allungamento e a una memoria moderata, consente
di confezionare ortesi dai morbidi profili che seguono fedelmente i contorni anatomici. Resistente
alla impronte digitali. Dotato di pellicola che, se rimossa, consente un’alta autoaderenza. Spessore
da 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
NCM Clinic: Offre un’eccellente modellabilità e precisione nel confezionamento grazie a una minima
resistenza all’allungamento. Una volta raffreddato, conferisce una grande rigidità. Basso livello di
autoaderenza. Spessore da 2,4 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Omega Plus: Combinazione tra massima resistenza all’allungamento, memoria e rigidità e minima
modellabilità. Massimo grado di resistenza alle impronte digitali; buon grado di autoaderenza.
Spessore da 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Omega Max: Materiale estremamente versatile dotato di massima resistenza all’allungamento, massima memoria, rigidità e conformabilità. Alto gradi di autoaderenza. Spessore da 3,2 mm. Lastre lisce
e perforate.
2.
Produttore: ORFIT INDUSTRIES, N.V. Vosveld 9A B–2110 Wijnegem, Belgio – Web Site:
www.orfit.com
Importatore: INTERMEDICA, v.le Teodorico, 18 – Milano – tel: 02/33002000 – fax: 02/33003888
– Web Site: www.intermedicasrl.it
Materiali:
Orfit Classic: Materiale con memoria elastica estremamente alta (100%), senza produrre punti di rottura. Viene prodotto in diverse tipologie: Soft per seguire in modo più preciso i profili anatomici,
Stiff è meno elastico e quindi indicato per splint di grandi dimensioni. Spessore da 1,6 a 4,2 mm.
Lastre lisce e perforate.
Orfit NS: Questo tipo di materiale mantiene inalterate tutte le qualità dell’Orfit Classic con in più il grande vantaggio di non aderire alla cute, bende e garze. Spessore da 1,6 a 4,2 mm. Lastre lisce e perforate. Da qualche anno in commercio anche la versione colorata del materiale (Colorfit NS).
Orfilined: È Orfit NS con un lato rivestito di soffice spugna di cotone che gli conferisce un grande comfort e ottima rimodellabilità. Indicato in ambito neuroriabilitativo.
Spessore da 1,6 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Orfit–Eco: Materiale adatto per il confezionamento di ogni tipo di splint. È molto rigido e allo stesso
tempo elastico (85% di memoria elastica). Spessore da 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
8. Gli splint in riabilitazione
175
Orfizip: È un pretagliato di materiale Orfit rivestito di cotone elastico con chiusura a cerniera e memoria
elastica del 100%. È indicato per il trattamento di immobilizzazione di alcune fratture e tendiniti.
Spessore da 2,0 a 3,0 mm.
Importatore: OTTO BOCK, Italia via F. Turati, 5/7 – Budrio (BO) tel: 051/6924711 – fax:
051/6924720 – Web Site: [email protected]
Materiale:
Pedilon ThermoLyn: Materiale caratterizzato da una eccezionale plasticità che consente all’operatore
di modellarlo per caduta e non, senza provocare allungamenti e assottigliamenti della lastra.
Durante la lavorazione è resistente alle impronte digitali e possiede una memoria elastica pressoché completa e quindi da una capacità di rimodellamento in caso di rinnovato riscaldamento.
Diventa modellabile alla temperatura di 60° C. Spessore da 1,6 a 4,0 mm. Lastre lisce e perforate (Micro, Maxi e Miniforatura).
3.
Produttore: CHESAPEAKE Medical Products, Inc, USA – tel : (888)560–2674 – fax :
(410)574–9349 – Web Site: www.chesapeakemedical.com
Importatore: COREMEC srl, via R. Lombardi, 19/18 – 20153 Milano – tel: 02/48916353
– fax: 02/48916312 – Web Site: www.coremec.it – email: [email protected]
Materiali:
Rebound: Materiale elastico che offre eccellenti qualità di conformabilità e autoaderenza. Grazie a una
memoria elastica del 100% questo materiale può essere nuovamente riscaldato e rimodellato con
facilità. Spessore da 1,6 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Excel: Materiale plastico rigido che offre un allungamento facile e controllato. Elevata conformabilità ai
contorni e alla prominenze ossee. Spessore da 1,6 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Infinity: Combinazione di materiale plastico e gomma che unisce le caratteristiche di conformabilità e
di moderato allungamento della plastica con quelle di eccellente memoria e facilità di applicazione della gomma. Spessore da 2,4 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Marque: Materiale in gomma che offre caratteristiche di modellabilità e conformabilità molto elevate.
Semplice da utilizzare e molto resistente alle impronte digitali. Spessore da 3,2 mm. Lastre lisce e
perforate.
4.
Produttore: RUNLITE SA, Micheroux, (Belgio) – Web Site: www.runlite.com
Importatore: THAEMERT Italia p.zza A. Moro, 5/1 – Riale di Zola Predosa (BO) – tel: 051/753636
– fax: 051/754613 – Web Site: www.thaemert.it – email: [email protected]
Materiale:
X–lite: Materiale biodegradabile e non tossico. È un prodotto di tessuto in cotone naturale a maglia
larga, impregnato di una resina termoplastica . È adatto a tutte quelle applicazioni nelle quali sono
indispensabili: areazione, malleabilità e leggerezza.
5.
Produttore: SAMMONS PRESTON ROLYAN – AbilityOne Company, Bolingbrook, IL 60440–5071
USA – Web Site: www.sammonsprestonrolyan.com
Materiali:
Polyform: Materiale indicato per una modellatura molto delicata e una tenuta finale rigida. Minima
resistenza alla trazione e alle impronte. Rivestito da una pellicola antiaderente. Spessore da 1,6 a
3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
176
Francesco Sartorio, Stefano Vercelli, Franco Franchignoni
Polyflex: Questo tipo di materiale offre una combinazione ideale tra conformabilità e resistenza all’allungamento, con un alto grado resistenza. Indicato per ortesi piccole e grandi che richiedono un’alta precisione. Rivestito da una pellicola antiaderente. Spessore da 1,6 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Synergy: Materiale adatto per il confezionamento di ogni tipo di splint di medie e grandi dimensioni.
Integra tra loro caratteristiche di rigidità e modellabilità, grazie al contenuto di polimeri gommosi.
Spessore da 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Ezeform: È un materiale che offre alta resistenza allo stiramento, estremamente rigido e duraturo.
Ideale per pazienti non collaboranti. Spessore da 1,6 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
Aquaplast: Materiale disponibile in un vasto range di modellabilità, rigidità e colori (9 in tutto). Le versioni “originali” hanno un alto grado di autoaderenza, mentre quelle indicate dalla lettera “T” sono
ricoperte da una pellicola antiaderente. Tutti i materiali Aquaplast sono dotati di un alto grado di
memoria e di buona resistenza alle impronte digitali. Durante la lavorazione divengono traslucidi
per meglio individuare i punti di pressione. Spessore da 1,6 a 3,2 mm. Lastre lisce e perforate.
San–Splint: Materiale gommoso (Isoprene) che conferisce un alto grado di controllo. Può essere lavorato aggressivamente senza lasciare impronte. Ideale per pazienti non collaboranti o per ortesi di
grandi dimensioni. Spessore da 2.0 a 3.0 mm. Lastre lisce e perforate.
6.
Produttore: T–TAPE COMPANY, 4645 EX Putte, Netherlands – tel: +31 (0)164 60 29 52 – fax: +31
(0) 10 486 88 08 – Web Site: www.turbocast.be
Importatore esclusivista: D.D.E. Dynamic Devices Europe srl, via Tonale, 5 – 20021 Baranzate (MI)
– tel: 02/38202015 – fax: 02/38205963 – website: www.ddeitalia.it – email: [email protected]
Materiale:
Turbocast: Materiale caratterizzato da una ottima conformabilità e da una capacità di rimodellamento
in caso di rinnovato riscaldamento (65°–70° C). Memoria elastica del 100%. È dotato su entrambi i lati da un rivestimento che consente sia di evitare l’accidentale attaccamento del foglio medesimo, che un raffreddamento del materiale più rapido. Spessore da 1,6 a 4,0 mm. Lastre lisce e
perforate.
7.
Produttore: ALIMED, Dedham, MA 02026 USA – Web Site: www.alimed.com
8. Gli splint in riabilitazione
177
Appendice C – Avvertenze per l’utilizzo dello splint/ortesi
QUANDO INDOSSARE LO SPLINT
di notte e nei periodi di riposo
di giorno: alternare …… ore di applicazione con …… ore di libertà dallo splint
sia di notte (continuativamente) che di giorno: alternarndo …… ore di applicazione con ……
ore di libertà dallo splint
solo durante attività che richiedano sforzi della parte interessata
……………………………………………………………………………………………………
PRECAUZIONI
Tenere lo splint lontano da fonti di calore (termosifoni, sole, acqua calda, ecc.): può deformasi a
temperature superiori ai 50°C. È infiammabile.
PULIZIA
Lo splint deve essere lavato frequentemente utilizzando sapone e acqua tiepida. Per una completa detersione si consiglia di immergerlo per un ora circa in una soluzione di acqua e candeggina.
ATTENZIONE
Se lo splint causa uno dei seguenti problemi, contattare prontamente il vostro Fisioterapista:
— gonfiore eccessivo
— dolore intenso
— arrossamenti localizzati
— formicolio o cianosi (colorito bluastro o pallore della parte tutorizzata)
TIPO
DI ORTESI:
ORTESI
…….…………………………………………………………………
CONFEZIONATA DA:
…………………………………………………………..
VALUTAZIONI
ENERGETICHE NELLA DISABILITÀ FISICA
P. Capodaglio
Scopo della Riabilitazione, una volta attuato il possibile recupero della
funzione lesa, è aiutare l’individuo a riprendere un’attività compatibile con
lo stato di salute (riabilitazione “occupazionale” nel senso di “capacità di
fare” secondo intenzione o richiesta). Nel concetto di “ri–abilitazione” ha
importanza, per l’età adulta e anziana, l’attenzione al patrimonio di abilità
specifiche acquisite per formazione ed esperienza (per l’età giovanile vale
invece quello evocabile dalla predisposizione) quantificabili in base a una
ricostruzione anamnestica quali–quantitativa (anamnesi occupazionale).
Parimenti, è essenziale la riproposizione terapeutica di attività congeniali
nelle quali inserire al meglio la funzione riabilitata (terapia occupazionale).
Il modello ICIDH–2 (International Classification of Impairment, Disability and Handicap) e quindi il modello ICF (International Classification of
Functioning) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità pongono al centro
dell’attenzione l’‘attività’, che rappresenta la capacità dell’individuo di interagire con l’ambiente per soddisfare bisogni vitali e pure un indicatore dello
stato di salute. L’attività che un soggetto disabile è in grado di produrre va
dunque misurata (valutazioni funzionali) e al tempo stesso diventa, se guidata da criteri scientifici, una forma di terapia (occupazionale) in quanto
esercita una funzione lesa entro i limiti di capacità individuali.
Nella pratica riabilitativa è di grande interesse il livello energetico richiesto
dall’attività terapeutica o dall’attività lavorativa abitualmente svolta dal paziente
* UO Neuroriabilitazione 2, Istituto di Pavia via Boezio; Fondazione Salvatore Maugeri,
Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, IRCCS.
179
180
Paolo Capodaglio
e la sua durata sostenibile senza fatica o insorgenza di danno (per superamento dei limiti funzionali o per eccessivo impegno delle funzioni coinvolte).
La letteratura (1,2) fornisce il costo energetico, espresso in multipli del
metabolismo basale (METS), e il corrispettivo valore in potenza meccanica
(Watt) calcolato per un “soggetto tipo” di 70 kg, per comuni attività della vita
quotidiana domestiche, ricreazionali, occupazionali e sportive effettuate a tre
gradi diversi di intensità (leggera, moderata, pesante). McArdle et al. (3) hanno proposto una classificazione a 5 livelli (leggero, moderato, pesante, molto
pesante, insostenibilmente pesante) dell’attività fisica in termini di intensità
dell’esercizio.
Questo consente di delineare un percorso riabilitativo che parte dalla determinazione della capacità funzionale, e — in base anche alla consultazione di
tabelle di costo energetico delle attività (4) — porta a prescrivere un’intensità
di attività terapeutica o allenamento adeguati e a consigliare al paziente lo svolgimento di un’attività in sicurezza e compatibile con le proprie capacità.
Pazienti con disabilità prettamente “energetiche”, cioè da limitazione cardio–respiratoria o secondarie a patologie d’organo che limitano la disponibilità
energetica, vengono tradizionalmente valutati con test ergometrici massimali.
Tali valutazioni mirano a stabilire una capacità funzionale massima limitata dai
sintomi e non danno indicazioni sulla effettiva tollerabilità a carichi di lavoro
sub–massimali, che sono poi quelli che si riscontrano nelle attività quotidiane
o lavorative. Pazienti con disabilità motorie sono più raramente oggetto di valutazioni “energetiche”, pur presentando le medesime esigenze di rientro a un’attività produttiva, familiare e sociale. Si evince da questa premessa l’esigenza di
un approccio valutativo in grado di fornire risposte a tutte le aspettative di rientro al lavoro e a una vita socialmente attiva del soggetto con disabilità fisica.
In quest’ottica, l’attività per se è l’oggetto primario della valutazione, diversamente dai tradizionali tests clinici ed ergometrici dove un’attività standardizzata è usata per evocare elementi per una diagnosi (5). Nella valutazione
diretta dell’attività, le misure fisiologiche, biomeccaniche, percettive forniscono
le dimensioni quantitative di livello e durata sostenibili senza sovraccarico o
effetti negativi per la salute. Questa “capacità critica” (potenza x durata, espressa in Watt x min) ricavata e riferita all’attività studiata costituisce un indicatore
intra–personale dello stato di salute. La misura di cambiamenti della capacità
critica consente di quantificare l’efficacia di un allenamento o trattamento riabilitativo e un confronto con stime indirette di attività compatibili.
9. Valutazioni energetiche nella disabilità fisica
181
Approcci metodologici alla valutazione energetica della disabilità
L’attività fisica richiede trasformazione di energia chimica per metabolismo aerobico, nel quale l’ossidazione di nutrienti reintegra in tempo reale
il patrimonio energetico cellulare fornendo così potenza meccanica e producendo calore. L’energia prodotta è quantificabile con l’equivalente calorico dell’ossigeno (O2) consumato misurabile, corrispondente a 20.9
Joules (J) per ml di O2, a quoziente respiratorio pari a 0.96. Il meccanismo
aerobico è però limitato, con durata inversamente proporzionale alla quantità di potenza impiegata (Watt = J/sec.).
Una metodologia applicabile consiste nella utilizzazione di “attività tipo” (pedalare su ergometri, camminare su nastro trasportatore o su terreno libero)
condotte secondo protocolli di potenza meccanica e durata prestabiliti, valutando l’impegno funzionale mediante indicatori del metabolismo aerobico e anaerobico (scambi respiratori di O2 e CO2, lattati ematici), di impegno dei sistemi
di energia di assunzione–trasporto dell’O2 (frequenza cardiaca, pressione arteriosa), o di lavoro prodotto (distanza percorsa nel tempo). Questa metodologia
è utilizzata per valutazioni cliniche di limiti funzionali massimi o aerobici (soglia
anaerobica nelle prove incrementali). La metodologia è meno applicabile nelle
valutazioni occupazionali, nelle quali ha importanza l’individuazione della potenza critica di un’attività reale sostenibile per tempi operativi (endurance) nell’ambito delle capacità individuali a produrre senza fatica l’energia, la postura e il
movimento richiesti dal compito lavorativo. In questo caso, occorre misurare le
variabili intensità e durata di un compito oggettivo a livello di potenza costante
in relazione al raggiungimento di limiti soggettivi e oggettivi di sostenibilità. Dalla
potenza (Watt) e dal tempo (min) di sostenibilità, è possibile calcolare livelli di
lavoro prodotto che, in un sistema di riferimento lavoro/tempo, consentono di
tracciare una retta la cui pendenza rappresenta una potenza critica aerobica,
mentre l’intercetta sull’asse y rappresenta la quota di lavoro anaerobico. Ad
esempio, se L1 corrisponde al carico a potenza maggiore e di minor durata, L3
corrisponde al carico a potenza minore e a maggior durata, ed L2 rappresenta
un carico intermedio, la retta di regressione L1 – L2 – L3 è del tipo L = a + (b
x t), ed è ricavata dai 3 prodotti di potenza costante (Watt) e durata (m”) dei
tre carichi sottomassimali. La pendenza b rappresenta la potenza critica (Watt).
Ma in presenza di disabilità energetiche di origine cardio–respiratoria non
è eticamente praticabile la somministrazione di carichi meccanici, corrispon-
182
Paolo Capodaglio
Tabella – I livelli di lavoro prodotto in 3 prove a potenza costante consentono nel sistema
di riferimento lavoro/tempo di definire una retta y= a + (b x t) la cui pendenza
b rappresenta il carico sostenibile (Watt)
denti a potenze energetiche sopra–massimali e quindi a rischio. In tal caso
anche i carichi meccanici sotto–massimali rispondono alla regola del rapporto
inverso tra livello di intensità e durata sostenibile. Questa durata sostenibile
può essere definita dal raggiungimento, a carico costante, di un punteggio
nella valutazione percettiva della fatica o “difficoltà a continuare” (secondo la
scala CR10 di Borg o analogo visivo corrispondente), o di un limite di sicurezza prefissato per un indicatore fisiologico monitorizzabile (frequenza cardiaca,
pressione arteriosa, saturimetria transcutanea di O2).
Tale valutazione è estensibile in particolare alle capacità generiche per
attività fisiche dinamiche ad alto contenuto energetico della vita quotidiana
(pedalare, camminare, salire le scale) o attività più tipicamente lavorative
cicliche o ripetitive (trasportare, sollevare, manipolare).
Il metodo dei carichi sotto–massimali può indicare un livello energetico
sostenibile (e non sovraccaricante i meccanismi energetici individuali) per
attività motorie continuative coinvolgenti grandi masse muscolari. Però,
molte occupazioni reali, nella vita quotidiana e nel lavoro, sono caratterizzate da fasi nelle quali esistono cicli di movimenti ripetitivi o ricorrenti con
impegno muscolo–scheletrico settoriale a basso costo energetico. I cicli a
loro volta sono discontinui, cioè costituiti da una successione di attività e di
pause. In questi casi è necessario:
a) definire un compito reale da valutare, e all’interno di questo la fase, il ciclo,
e il movimento critico limitante in rapporto alla patologia presente nell’individuo. Va quindi stabilito, tra le disponibilità offerte dagli ergometri o
ricorrendo a simulazioni ad hoc, un compito sperimentale ragionevolmen-
9. Valutazioni energetiche nella disabilità fisica
183
te rappresentativo del lavoro reale o della parte più interessante di esso
dal punto di vista dell’impegno energetico e biomeccanico;
b) scegliere le categorie di indicatori di cui disporre utilizzando ergometri o
workstation (forze e spostamenti direzionali, accelerazione, frequenze,
distanze) e all’impegno individuale. Ad esempio, le misure dirette (VO2)
non hanno grande rilievo, se non per compiti pesanti. Possono essere
sostituite dal monitoraggio di indicatori di impegno fisiologico generale
correlati. La valutazione psicometrica della fatica durante attività fisica è di
estrema utilità. Il monitoraggio della percezione e della fatica generale e
locale, della difficoltà a continuare o di eventuale dolore è effettuabile con
la scala CR10 di Borg. Possono essere scelti indicatori fisiologici distrettuali (EMG di superficie) o funzionali globali (quali il calo di performance inteso come declino della forza o del lavoro prodotto nel tempo).
Gli strumenti operativi
A partire dalla diagnosi funzionale del paziente proveniente dalle Unità
specialistiche di riabilitazione che fornisce i limiti funzionali operativi entro
cui svolgere l’attività terapeutico–occupazionale, gli strumenti operativi di
cui ci avvaliamo sono, in sintesi:
— anamnesi delle attività risultanti dalla vocazione occupazionale individuale,
inerenti alla vita quotidiana, alla vita di relazione e al lavoro, scomposizione
anamnestica delle attività significative dei compiti giornalieri in attività elementari, cui attribuire valori medio–ponderati attendibili del costo energetico, stima del costo energetico di singole attività e della loro sommatoria.
— valutazione individuale motoria secondo una griglia fisiatrica occupazionale di compiti posturali e motori che copre i settori anatomo–funzionali di interesse occupazionale. Tale valutazione mette in rilievo un gruppo di attività motorie specifiche deficitarie e che quindi deve essere
oggetto di riabilitazione mirata al reinserimento lavorativo.
— misura della capacità di svolgere attività critiche e caratterizzanti per un
periodo di tempo prolungato con prove di lavoro continuo dinamico su
ergometri o lavoro discontinuo e intermittente con ergometri dedicati o
in simulazione. Tali valutazioni consentono in fase precoce di impostare
una intensità corretta ed efficace del trattamento riabilitativo mirato all’at-
184
Paolo Capodaglio
tività caratterizzante il ruolo partecipativo del soggetto, e in fase pre–dimissione di oggettivare eventuali miglioramenti della capacità prestativa
e di indicare tipologie di lavoro e intensità lavorative adeguate.
— comparazione delle capacità individuali con richieste di compiti lavorativi abituali o proponibili o con mansioni compatibili e la formulazione di
una lista di attività proponibili.
Prenderemo in considerazione: 1) l’anamnesi; 2) la misura della capacità di
svolgere attività per un periodo di tempo prolungato (lavoro sostenibile); 3) la
comparazione delle capacità individuali con richieste di compiti lavorativi.
Anamnesi
Per quanto concerne l’anamnesi, l’obiettivo è di costruire un’ipotesi di impegno fisico per le attività giornaliere (con questionari somministrati) relativa a:
a) attività abituali (durata e difficoltà, attribuzione di un valore energetico in
MET);
b) attività occupazionali e in particolare all’attività oggetto della riabilitazione occupazionale, illustrando l’impegno posturale (lavoro seduto, in
piedi, in movimento), la complessità, la ripetitività, la forza impiegata
negli spostamenti del corpo e nello spostamento e trasporto di materiale pesante. Si attribuirà una stima alla potenza energetica richiesta (in
MET) e al lavoro energetico (O2 consumato – KJ energetici) dei componenti la/e fase/i. Questo renderà possibile una classificazione di pesantezza del lavoro, effettuata di solito facendo riferimento alle classificazioni Haskell e USES (United States Employment Service) (6):
HASKELL
USES
S: sedentario
1–2 MET
< 1.5 MET
L: leggero
2–4 MET
1.5–2.2 MET
M: medio
4–6 MET
2.2–5.8 MET
P: pesante
6–8 MET
5.8–6.5 MET
P: molto pesante
8–10 MET
> 6.5 MET
9. Valutazioni energetiche nella disabilità fisica
185
S (lavoro sedentario) – Lavoro sedentario eseguito da posizione seduta con occasionali
situazioni in cui è necessario stare in piedi o camminare tenendo gli utensili che la mansione richiede. Sollevare al massimo 5 Kg e occasionalmente sollevare e/o trasportare
oggetti leggeri come agende, registri, utensili di lavoro.
L (lavoro leggero) – Sollevare al massimo 10 Kg (con frequenti sollevamenti) oppure trasportare oggetti del peso massimo di 5 Kg. Anche se si tratti di sollevare pesi trascurabili, la mansione va classificata in questa categoria allorché richieda frequenti spostamenti o comporti per maggior parte del tempo una posizione seduta, ma con movimenti di spinta o di trazione con gli arti superiori e/o inferiori.
M (lavori di media intensità) – Sollevare frequentemente pesi fino a 25 Kg (valore massimo) e/o trasportare oggetti del peso fino a 12 Kg.
P (lavoro pesante) – Sollevare frequentemente fino a 50 Kg e/o trasportare oggetti del
peso fino a 25 Kg.
PP (lavoro molto pesante) – Sollevare frequentemente pesi di oltre 50 Kg e/o trasportare
oggetti del peso di 25 Kg o più.
Esempio schematico di Anamnesi occupazionale
Periodo
Dal 1990 al 1998
Dal 1998 a oggi
Compito–Mansioni–Qualifica
Settore occupazionale
Operaio presso ditta, in qualifica di magazziniere
Industria elettrica
Operaio presso ditta, in qualifica di confezionatore
Industria meccanica
Attività fisica giornaliera
Descrizione tipo Durata (min)
attività
MET attribuiti
KJ
O2 l
Media ponderata
O2 (ml/min)
Difficoltà
Riposo
480
1
2452
122.6
255.5
0
Attività sedentarie
360
1.6
2942
147.1
408.8
0
Lavori domestici
/ cura personale
90
2
919.8
45.9
511
1
Attività di movimento
90
3
1379
68.9
756.5
2
Sport
–
–
–
–
–
–
Attività occupazionale (vedi
parte seguente)
480
2.2
5461
273
568
4
Totale
1440
13154
657.5
186
Paolo Capodaglio
Il costo energetico medio ponderato delle attività fisiche giornaliere attuali è O2 (ml/m)
medio ponderato = 456, per un costo totale pari a O2 (l) totale = [O2 (ml/m) x durata
(min)] / 1000 = 657.5 e con un corrispondente meccanico di KJ = O2(l) x 20 = 13154.
Questo ci consente di fornire una stima del costo energetico giornaliero in 13154 KJ che
corrispondono a 3146 KCAL = 657.5 O2 (l) = 1.78 MET.
Attività occupazionale
Fasi
Componenti
Durata Ripetizio Totale MET attri(min)
ne
tempo
buiti
evento (min)
KJ
O2 (l)
Movimenta Prelievo confezioni kg 25 manualzione
mente da altezza cm 110, carico su
materiale transpallet e trasporto per 50 metri,
deposito ad altezza cm 120; frequenza sollevamento 2/min
30
2
60
4
613.2 30.6
Assemblag Attività continuata e ad alta frequengio piccoli za, con presa fine delle dita e movipezzi
menti di avambracci, AS elevati
90
1
90
2.8
1287 64.3
Attività ripetitiva con
arti superiori
Compiti
vari
Uso di attrezzi manuali, movimentazione pezzi assemblati
40
4
160
3.4
695
Spostamenti, controllo
170
1
170
3.3
Totale
480
34.7
2866 143.3
5461 272.9
Il costo energetico medio ponderato (O2 (ml/m) medio ponderato) dell’attività lavorativa attuale nel suo complesso è 568 ml/m O2, pari a O2 (l) totale = [O2 (ml/m) x durata (min)] / 1000 = 273, che corrisponde a KJ = O2(l) x 20 = 5461. Questo ci consente
di fornire una stima del costo energetico occupazionale giornaliero in 5461 KJ = 1306 KCAL
= 273 O2 (l) = 2.2 MET. I picchi stimati di impegno energetico sono risultati di: 613 KJ=
146.6 KCAL = 1022 O2 (ml/min) = 4 MET.
Lavoro sostenibile
La misura della capacità di lavoro sostenibile per un periodo di tempo prolungato viene svolta con prove di lavoro continuo dinamico su ergometri e lavoro discontinuo e intermittente con ergometri dedicati o in simulazione. Le prove
si basano su due presupposti: a) nel lavoro meccanico, e in particolare in quello dinamico, esiste un rapporto tra potenza meccanica erogata e durata della
prova sostenuta, regolato da meccanismi biologici; b) esiste un rapporto tra
livelli di indicatori percettivi e fisiologici e intensità di lavoro che condiziona il
9. Valutazioni energetiche nella disabilità fisica
187
tempo di durata della prova nell’attività spontanea. Le misure non devono consistere in prove massimali che portano all’esaurimento per raggiunto limite di
meccanismi fisiologici coinvolti. L’attività deve piuttosto simulare gesti o esercizi
abituali del paziente e la durata deve essere mantenuta sino al momento in cui
si evidenzia una chiara “difficoltà” a continuare resa riconoscibile da un livello
percettivo della difficoltà a continuare o da un segnale fisiologico di superamento di limiti preventivi di rischio. Per le disabilità cardio–respiratorie, nelle quali è
determinante la limitazione di produzione energetica con meccanismo aerobico che si manifesta soprattutto in attività coinvolgenti grandi masse muscolari,
si possono utilizzare il test dei 6 minuti di cammino e il test della potenza sostenibile al cicloergometro.
Il test del cammino libero, 6–minute walking test, 6MWT (5,7) è un test
semplice, molto diffuso tra i cardiologi e pneumologi. La strumentazione
richiesta è un cronometro e un metro. Consiste nel misurare la distanza percorsa da un soggetto facendolo camminare per 6 min il più velocemente
possibile. La velocità è scelta spontaneamente dal soggetto e può variare nel
corso della prova; inoltre al soggetto è consentito fermarsi e riprendere a
camminare. Questo test determina un livello di capacità funzionale. Abbiamo
cercato di dare un significato biologico a questo limite, trasferibile ad attività
reali e quantificabile in termini di costo energetico. La distanza percorsa nei
6 minuti è moltiplicata per il peso corporeo del soggetto e questo parametro è relativamente ben correlato al lavoro meccanico complessivamente
compiuto. La distanza percorsa può essere divisa per 6 minuti per conoscere la velocità media. In tal modo è possibile valutare il dispendio energetico
medio utilizzando le relazioni riportate in letteratura e ottenere un dato di riferimento per altre attività fisiche. I risultati del test dei 6 minuti possono dunque essere utilizzati per stimare, in base al peso corporeo e alle velocità, il
costo energetico teorico (l O2 e KJ) e la relativa potenza energetica (VO2 e
Watt). Abbinando una misura di consumo di ossigeno si può ottenere anche
la valutazione dell’energia aerobica utilizzata durante l’attività.
Il test della potenza sostenibile al cicloergometro si basa sulla relazione tra
potenza meccanica e durata ottenuta in una sola sessione con una serie di 3–5
prove submassimali a potenza costante e di diversa intensità (8,9,10,11,12). Il
valore di potenza meccanica (Watt) della prima prova viene fissato attorno al
50% della potenza massima raggiunta in un test ergometrico massimale, in genere disponibile dalla valutazione funzionale. In base alla durata di questa prova
188
Paolo Capodaglio
viene scelto il valore di potenza delle prove successive in modo tale che la durata della prova sia compresa tra 2 e 20 min. La frequenza di pedalata è mantenuta a 60 rpm. Ciascuna prova termina quando la percezione soggettiva raggiunge il livello 5 (“pesante”) sulla scala a 10 punti di Borg.
La scala CR–10 di Borg.
0
Nothing at all
0.5
Very, very weak (just noticeable)
1
Very weak
2
Weak
3
Moderate
4
Somewhat strong
5
Strong
6
7
Very strong
8
9
10
Very, very strong (almost maximal) Maximal
Ogni prova è seguita da un periodo di recupero fino al raggiungimento dei
valori basali di frequenza cardiaca. Per ogni prova la durata (sec) corrispondente al raggiungimento del punteggio 5 viene moltiplicata per l’intensità (W)
della prova stessa per calcolare il lavoro compiuto (J). I valori di J vengono
posti in funzione dei rispettivi tempi e con una regressione lineare è possibile
definire l’equazione della retta J= a + b . sec. La pendenza b corrisponde alla
potenza sostenibile in un periodo di tempo prolungato, mentre l’intercetta a
rappresenta l’energia meccanica derivata dalle sorgenti anaerobiche. Una successiva misura di consumo di ossigeno al carico corrispondente alla potenza
meccanica sostenibile permette di calcolare il rendimento del rapporto Watt
meccanico/Watt energetico. Variazioni di tale rapporto in prove a potenza costante rispecchiano cambiamenti della capacità di metabolismo aerobico.
Prove di lavoro discontinuo, intermittente o ciclico
Rientrano in questo gruppo le prove eseguite con simulatori sul distretto
mano–arto superiore o tronco o con work–station (13). Tali prove vanno
mantenute entro limiti di sicurezza preventiva stabilita dalle proposte in lette-
9. Valutazioni energetiche nella disabilità fisica
189
ratura per soggetti abili. Per queste prove distrettuali si adotta un criterio di
una serie limitata di prove nelle quali si possono variare alcuni parametri caratteristici del lavoro (es. frequenza, forza) e osservare le modifiche di indicatori soggettivi (percezione di fatica, discomfort) o fisiologici (EMG, forza distrettuale) di impegno in modo da individuare il livello di intensità di lavoro
che consenta di mantenere costanti ed entro limiti di sicurezza gli indicatori
stessi. In alcuni casi viene calcolata una potenza sostenibile ricavata, come
nel paragrafo precedente, dai diversi livelli di lavoro e relativi tempi.
Simulazione di attività specifiche
Ha l’obiettivo di riprodurre gruppi di attività rappresentativi di molti compiti occupazionali, studiabili con criteri osservazionali e oggettivi (misure
biomeccaniche dei parametri fisici del compito, misure biologiche integrate delle risposte individuali) che consentano di valutare la durata nel tempo
(endurance) collegata a un livello di parametri (per es. velocità, destrezza,
impegno di forza). Si tratta di poter simulare il lavoro, regolandone i parametri e monitorizzando l’impegno del soggetto. Il test richiede la cooperazione del soggetto, e deve rispondere a criteri di sicurezza clinica, attendibilità e riproducibilità, applicabili a situazioni reali, e facilità di somministrazione. Si utilizzano batterie di test, reperibili in commercio o costruiti ex
novo, secondo le esigenze del laboratorio (9,13). Ad esempio:
1 – Lavori fini (mano–dita) al banco o al tavolo. Le discriminanti sono:
velocità, destrezza, durata. Classe energetica S secondo Haskell, S
secondo USES, con dispendi energetici che arrivano a 2–2.2 MET
2 – Uso di attrezzi al banco, contro lievi resistenze. Le discriminanti sono
le stesse. La classe energetica è compresa tra S e L secondo Haskell e
USES con costi energetici compresi tra 2.2 e 3.5 MET.
3 – Uso di attrezzi, ma in varie posture. Le discriminanti sono le stesse. Le
classi energetiche sono comprese tre L e M secondo Haskell e USES.
Con costi energetici variabili tra 2.2 e 6 MET.
4 – Uso di strumenti contro resistenze moderate o pesanti al banco. Le discriminanti sono forza e durata. Le classi energetiche sono comprese tra
L–M–P secondo Haskell e USES. I costi energetici variano da 2.2 a 7 MET.
5 – Uso di strumenti contro resistenze moderate o pesanti, in varie posture.
Discriminanti: forza e durata. Le classi energetiche sono comprese tra
190
Paolo Capodaglio
M–P–PP secondo Haskell e USES. Costi energetici variabili tra 3.6 e oltre
7.5 MET.
6 – Manipolazione di strumenti o oggetti grandi e pesanti, in varie posture.
Discriminanti: forza e durata. Classi energetiche: M–P–PP secondo Haskell;
P–PP secondo USES. Costi energetici variabili tra 3.6 a oltre 7 MET.
7 – Sollevamento oggetti
Discriminanti per questi items sono forza e
8 – Trasporto
durata.Le classi energetiche variano da L a
9 – Spinta–trazione
PP secondo Haskell e USES.I costi energe
10 – Cammino–salita
tici variano da 3.6 a oltre 7.5 MET, secondo
peso del materiale, frequenza di sposta
mento, velocità dimarcia.
Comparazione capacità–richieste
La comparazione delle capacità individuali sostenibili per un periodo
prolungato con le richieste del compito lavorativo rappresenta l’ultimo gradino del percorso compiuto dal paziente e l’anello di congiunzione tra riabilitazione e mondo produttivo del lavoro. La disponibilità in letteratura di
tabelle di riferimento per potenze meccaniche e consumi di molte attività
lavorative (14,15,16,17) ha reso agevole questa fase
Conclusioni
Il disabile ha il diritto costituzionale di accedere ad attività lavorative
compatibili con le residue capacità e con la formazione e l’orientamento
vocazionali. Una stima di compatibilità non può essere basata solo sul
riconoscimento del danno e sulla presunta riduzione di capacità, ma
richiede, anche in attuazione delle norme per il rientro in attività del disabile, una misura comparativa delle richieste del compito specifico e delle
capacità individuali. I criteri e metodi qui proposti per la valutazione e la
riabilitazione occupazionale di disabilità energetiche cardio–respiratorie e
motorie rappresentano il tentativo di colmare questa lacuna e di proporre alle diverse Unità specialistiche di riabilitazione un linguaggio comune
e trasversale.
9. Valutazioni energetiche nella disabilità fisica
191
Bibliografia
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IL
DAY–HOSPITAL DI FISIATRIA OCCUPAZIONALE–ERGONOMICA
M. Panigazzi, G. Bazzini
Introduzione
L’esperienza che illustriamo è nata dalla convergenza di interesse fra la
medicina riabilitativa, la medicina del lavoro, la medicina legale e l’ergonomia e trova il suo motivo d’essere e la sua collocazione trattando in particolare i pazienti affetti da esiti disabilitanti motori in seguito a traumi sul
lavoro.
Questo tipo di day–hospital si differenzia e si completa quindi rispetto
ai tradizionali, in quanto prevede all’interno dei suoi percorsi non solo la rieducazione neuromotoria, ma anche la quantificazione obiettiva strumentale delle capacità residue (comprensiva di valutazione specifica per l’analisi
di eventuali rischi di sovraccarico funzionale), con un approccio integrato al
ricollocamento al lavoro.
Sono ammessi a questo tipo di Day–Hospital soprattutto pazienti con
patologie di tipo motorio, specialmente se connesse con l’attività lavorativa svolta dal soggetto stesso; si tratta quindi prevalentemente di patologie
di tipo ortopedico–traumatologico–reumatologico–neurologico, connesse
con disabilità motorie a compiere le normali mansioni quotidiane e/o
lavorative.
* Servizio di Fisiatria Occupazionale ed Ergonomia dell’Istituto Scientifico di Montescano
(Pv)–IRCCS, Fondazione “S. Maugeri”.
193
194
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Figura 1 – Test di riproduzione lavorativa per arti superiori
Figura 2 – Test di riproduzione lavorativa per arti superiori
Criteri di accesso
Uno dei criteri maggiormente seguiti per la proposta di questo tipo di
ricovero, per la verifica di appropriatezza, per la scelta del programma rieducativo e per la programmazione della dimissione e del reinserimento è
rappresentato dalla connessione della disabilità con l’attività lavorativa del
paziente e con la presenza di un suo eventuale handicap a svolgerla correttamente e continuativamente. (Vedasi Allegato 1)
Tale day Hospital è di tipo diagnostico–terapeutico, con particolare impegno sull’aspetto terapeutico–riabilitativo e ha come obiettivo finale la risoluzione o il controllo dell’evento patologico e soprattutto un efficace reinserimento del paziente nell’ambito familiare e lavorativo.
L’intervento riabilitativo si articola in una serie di accessi quotidiani e programmati, di durata variabile, in rapporto alla tipologia del paziente.
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
195
Tali attività svolte in regime di DH si propongono di attuare, perfezionare e concludere gli obiettivi delineati nell’immediato post acuto dallo
Specialista Fisiatra in relazione alla più o meno favorevole evoluzione
del quadro di base, con lo scopo di consentire al paziente il reinserimento socio–economico più rapido. Un requisito importante a giustificare in generale il ricovero in regime di Day–Hospital e soprattutto determinante per lo svolgimento di un completo programma di terapia occupazionale è la stazionarietà clinica dei degenti e la possibilità degli
stessi a tollerare terapie riabilitative di intensità medio–alta, da sommi-
Figura 3 – Prove all’ergometro a braccia
Figura 4 – Analisi della deambulazione
196
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
nistrarsi con approccio multidisciplinare (di tipo motorio, occupazionale,
cognitivo). Si tratta di una forma originale e autonoma di assistenza,
nella quale rivestono importanza criteri sanitari, occupazionali e socio–assistenziali.
Vengono ammessi pazienti che presentano un quadro di disabilità
motoria tale da richiedere uno specifico intervento fisiatrico rieducativo passibile di miglioramento mediante i programmi terapeutici disponibili, in
ambiente specificatamente attrezzato per tali problematiche.
Vengono dimessi i pazienti che hanno raggiunto un risultato ragionevolmente coerente con l’obiettivo rieducativo identificato al momento del ricovero e comunque che hanno: o risolto la loro patologia, o raggiunta una
buona stabilizzazione, o comunque sui quali sono stati messi in atto i
mezzi riabilitativi più idonei al fine di ottimizzare le loro capacità di reinserimento familiare, sociale e lavorativo.
Il trattamento riabilitativo in DH, oltre al tradizionale intervento cinesiterapico individuale, può implicare, a giudizio dello Specialista Fisiatra, in relazione alla specifica tipologia nosologica:
— la terapia occupazionale con l’eventuale reinserimento “protetto” in
ambito lavorativo;
— la definizione dei presidi ortesici e ausili di cui il paziente, al termine del
trattamento rieducativo e dunque al raggiungimento dell’obiettivo funzionale, ancora eventualmente necessita per migliorare la propria autonomia personale e di trasferimento.
— l’esecuzione di indagini strumentali per il monitoraggio o per il miglior
inquadramento della malattia di base o delle complicanze a essa strettamente correlate, che risultano indispensabili per seguire l’iter riabilitativo del singolo malato.
— la rieducazione di specifiche funzioni cognitive, specialmente in relazione al loro utilizzo in ambito lavorativo e l’assistenza psicologica relativa
alla consapevolezza di malattia e all’accettazione della propria eventuale disabilità residua;
— la terapia del dolore, sintomo molto frequente in molte patologie di
competenza fisiatrica, a genesi varia;
— l’esecuzione di programmi per il contenimento di rischi specifici e per la
prevenzione della recidive (competenze cardiologiche, pneumologiche,
nutrizionistiche, ecc.).
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
Figura 5 – Videoripresa e analisi
dell’attività lavorativa
197
Figura 6 – Analisi biomeccanica dell’attività
lavorativa
Documentazione clinica
Per ciascun ricovero deve essere compilata una Cartella Clinica che contenga:
— Documento Clinico Specifico compilato dallo Specialista Fisiatra:
* esame obiettivo funzionale iniziale
* verifica dell’appropriatezza
* progetto riabilitativo individuale
* programma/i riabilitativo/i
* diario clinico giornaliero
* terapia farmacologica
* esame obiettivo funzionale finale
* indicatori di risultato (“outcome”)
— Foglio di Lavoro per l’attività rieducativa (compilato dal Terapista della
Riabilitazione)
— Copia di tutti gli esami strumentali eseguiti nel corso della degenza
— Copia della Relazione di Dimissione
— Copia di eventuali documenti sanitari relativi a prestazioni eseguite in altre sedi o nel corso di precedenti ricoveri, rilevanti rispetto alla storia clinica del paziente.
Il Diario Clinico viene aggiornato per ciascuna giornata di presenza e contiene l’esplicitazione delle attività svolte, annotazioni circa l’andamento del programma, del quadro clinico–rieducativo obiettivo e di quello soggettivo.
198
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Nel Foglio di Lavoro per l’attività rieducativa vengono riportate le indicazioni
al programma riabilitativo affidato alla figura professionale del Terapista della
Riabilitazione; nello stesso modulo sono riportate le annotazioni del Terapista
della Riabilitazione relative all’andamento complessivo del programma e alla
valutazione dei risultati. La Relazione di Dimissione indirizzata al Medico di Base
viene allegata in copia alla Cartella Clinica. Tale relazione comprende la diagnosi, la descrizione dell’evoluzione clinica e del quadro funzionale, il programma
riabilitativo e i suoi risultati (Vedansi Allegati 2 e 3), la prescrizione terapeutica
ed eventuali proposte di metodologie di follow–up e di prevenzione secondaria destinate a garantire continuità sul piano assistenziale con il Medico di Base
e con le altre strutture assistenziali o socio–assistenziali. La Relazione di Dimissione riporta l’indicazione nominale del Medico che ne ha curato la stesura e i recapiti telefonici presso i quali lo Specialista potrà essere contattato dal
Medico di Base per eventuali ulteriori informazioni o chiarimenti.
Figura 7 – Recupero dell’autonomia personale
Figura 8 – Allenamento strumentale alla forza
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
199
Percorsi diagnostico–terapeutici e riabilitativi
Nel paragrafo che segue illustriamo, a titolo d’esempio, il percorso diagnostico terapeutico per gli esiti di traumi del sistema muscolo–scheletrico
o gli esiti di interventi chirurgici, seguito dal Servizio di Terapia Occupazionale del Centro Medico di Montescano, dove da anni è funzionante un
Day Hospital con le caratteristiche sopra elencate.
Obiettivi
— Miglioramento delle attività motorie e del recupero funzionale in pazienti con esiti non ancora stabilizzati o con sequele importanti dal punto di
vista del reinserimento familiare, sociale e lavorativo.
— Apprendimento di norme di economia articolare per la corretta gestione
di protesi o osteosintesi, onde evitare sovraccarichi, usura, complicanze,
rischio di mobilizzazioni o lussazioni.
— Trattamento volto alla minimizzazione di dolore e disabilità e alla riduzione dell’handicap.
— Analisi, valutazione e affinamento delle capacità residue ai fini del reinserimento in ambito familiare, sociale e lavorativo.
— Miglioramento della qualità di vita.
Programma
1) Valutazione iniziale:
— Anamnesi tradizionale e lavorativa specifica.
— Esame clinico generale, con visita fisiatrica tradizionale ed ergonomica
specifica.
— Valutazione funzionale strumentale quantitativa delle attività in cui il
paziente presenta deficit; quindi misurazione di: forza, resistenza, destrezza, velocità, ecc., durante riproduzione delle suddette attività,
svolte con arti superiori (manipolazione, costruzione, ecc.), tronco
(spostamenti, sollevamenti, ecc.), arti inferiori (cammino, scale, equilibrio, ecc.).
— Valutazione soggettiva di disabilità (Backill, o ICIDH, o equivalenti), dolore e funzionalità (analogo visivo di Skott–Huskisson), affaticamento
durante attività (scala 0–10 di Borg).
2) Sintesi valutativa e stesura percorso terapeutico–rieducativo:
200
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
— Formulazione della diagnosi riabilitativa con il supporto di indagini fisiatriche valutative mirate, semi–quantitative e/o strumentali.
— Formulazione (se mancante) della diagnosi eziopatogenetica (tradizionale) con il supporto di procedure diagnostiche strumentali.
— Stesura degli obiettivi e del relativo percorso terapeutico, manuale e strumentale.
3) Indagini diagnostico–valutative principali pertinenti con la patologia (ove
necessario).
Di tipo clinico tradizionale:
— Esami emato–chimici
— Indagini cardiologiche (ECG, Ecocardio)
— Indagini radiografiche e radiologiche (Rx torace, TAC, RMN, ECO, ecc.)
— Indagini neurologiche e neurofisiologiche (EMG, ENG, PESS)
— Indagini vascolari (EcoDoppler arti superiori e inferiori)
— Indagini di fisiopatologia respiratoria
— Valutazioni psicologiche
Di tipo fisiatrico–ergonomico mirato:
— Valutazione della funzionalità della mano
— Test di riproduzione lavorativa per arti superiori (figure 1, 2)
— Prove all’ergometro a braccia (figura 3)
— Test di riproduzione lavorativa per tronco
— Test di equilibrio e postura
— Analisi della deambulazione (figura 4)
— Videoripresa e analisi fisiologico–biomeccanica dell’attività lavorativa (figure 5, 6)
4) Prestazioni di fisio–cinesiterapia del percorso terapeutico–rieducativo:
— Recupero dell’autonomia personale (figure 7)
— Recupero dell’articolarità
— Recupero dell’elasticità
— Cinesiterapia per specifica disabilità
— Apprendimento di tecniche posturali corrette e correttive
— Allenamento strumentale alla forza (figura 8)
— Allenamento strumentale alla resistenza (fi- Figura 9 – Allenamento strumengura 9)
tale alla resistenza
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
—
—
—
—
201
Allenamento aerobico mediante ergometro a braccia
Terapia occupazionale (figura 10)
Rieducazione della destrezza manuale.
Terapie manuali (massoterapia, connettivale, micromassaggio, linfodrenaggio)
— Terapie fisiche (elettroanalgesia, ultrasuoni, termoterapie)
— Interventi ergonomici di prevenzione
5) Valutazione finale e dimissione:
— Valutazione fisiatrica specifica.
— Valutazione funzionale strumentale quantitativa e parere specialistico di
compatibilità delle attività da svolgere al reinserimento. Quindi misurazione di: forza, resistenza, destrezza, velocità, ecc., durante simulazione
delle suddette attività, svolte con: arti superiori (manipolazione, costru-
Figura 10 – Terapia occupazionale
202
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
zione, ecc.), tronco (spostamenti, sollevamenti, ecc.), arti inferiori (cammino, scale, equilibrio, ecc.).
— Illustrazione e consegna di opuscolo specifico con norme ergonomiche
preventive.
— Verifica del corretto apprendimento delle tecniche di prevenzione.
— Valutazione soggettiva di disabilità e affaticamento.
— Sintesi globale degli interventi eseguiti e della loro efficacia a breve termine,
da consegnare al paziente e al Medico Curante e/o Specialista di riferimento.
— Eventuale sopralluogo al posto di attività/lavoro per suggerimenti di ergonomia.
Operatori
Tutti gli operatori del servizio concorrono in équipe e ciascuno per le
proprie competenze alla regolare e corretta gestione dell’attività sanitaria, in
base alle normative sanitarie vigenti.
In particolare per quest’attività di Day–Hospital sono dedicate risorse
umane che hanno acquisito particolare competenza ed esperienza in quest’ambito; quindi sotto la diretta responsabilità del Dirigente di II livello lavorano Medici Specialisti in Medicina Fisica e Riabilitazione, Terapisti della
Riabilitazione, Tecnici.
Carattere Multidisciplinare
Per la più completa ed efficace esecuzione del programma riabilitativo
prescritto, e in linea con i criteri di appropriatezza del ricovero, è necessario che esso sia multidisciplinare e quindi alla sua realizzazione concorrono
altre strutture e altri operatori dell’Istituto.
In particolare tale multidisciplinarietà si evidenzia dai punti:
2.3 — indagini diagnostico–valutative
2.4 — prestazioni di fisio–cinesiterapia
— esecuzione di programmi per il contenimento di rischi specifici e per la
prevenzione della recidive (competenze cardiologiche, pneumologiche,
nutrizionistiche, ecc.).
Tali interventi, allorché necessari, risultano facenti parte integrante dei
protocolli descritti e richiedono la partecipazione dei diversi operatori delle
relative Unità Operative coinvolte.
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
203
Durata
La durata media di questo programma è di circa 15–25 giornate, eseguite in genere consecutivamente; quindi una durata complessiva di circa
3–5 settimane.
Figura 11 – Test di forza massima del tronco
Figura 12 – Test di funzionalità della mano: grip
204
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Misure di risultato (“Outcome”)
Per la quantificazione dell’efficacia del programma applicato sono utilizzati di routine degli indicatori di risultato soggettivi e obiettivi, sia semi–quantitativi, sia quantitativi (Vedansi Allegati 2 e 3). Gli indicatori soggettivi sono sempre verificati; quelli obiettivi sono scelti a seconda della patologia e del distretto trattato. Il rilevamento di tali misure è eseguito in genere all’ingresso e alla dimissione del paziente e si trova in cartella clinica.
Indicatori soggettivi:
— Analogo visivo della funzionalità (0–100)
— Analogo visivo del dolore (0–100)
Indicatori obiettivi:
— Test dinamometrici (forza, lavoro, indice di affaticamento)
— Test di forza massima del tronco (massimo sollevamento, in Kg) (figura 11)
— Test di funzionalità della mano (grip, destrezza, ecc.) (figure 12–13)
— Punteggio “Scala Backill” di attività quotidiane
— Esame della deambulazione effettuato con Ballance Master (velocità
spontanea in cm/sec, larghezza/lunghezza in cm)
— Test posturale (lunghezza della traccia dell’esame stabilometrico, in mm)
(figura 14)
— Scala di Berg (valutazione dell’equilibrio)
Figura 13 – Test di funzionalità della mano: destrezza (Grooved Test)
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
205
Conclusione Del Programma
Il ricovero in Day–Hospital si conclude sempre con una relazione di
dimissione compilata dallo specialista Fisiatra e indirizzata al Curante cui si
invia il paziente. La Relazione comprende la diagnosi, la descrizione dell’evoluzione clinica e del quadro funzionale, il programma riabilitativo e i
suoi risultati, la prescrizione terapeutica ed eventuali proposte di metodologie di follow–up e di prevenzione secondaria destinate a garantire continuità sul piano assistenziale con il Medico Curante e con le altre strutture assistenziali o socio–assistenziali. La Relazione di Dimissione riporta l’indicazione nominale del Medico che ne ha curato la stesura e i recapiti telefonici
presso i quali lo Specialista potrà essere contattato dal Medico Curante per
eventuali ulteriori informazioni o chiarimenti.
Figura 14 – Test posturale
206
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Allegato 1
Protocco sperimentale sull’appropriatezza del ricovero
in ragime di day–hospital
IL
PAZIENTE NECESSITA DI CONTROLLO
MEDICO
24
NO
IL
ORE AL GIORNO?
SÌ
SPOSTARE IN DEGENZA
PAZIENTE È CLINICAMENTE INSTABILE?
SÌ
NO
IL PAZ. HA SUBITO UN EVENTO ACUTO?
A CHE DISTANZA DI TEMPO SI È VERIFICATO?
SÌ=1
NO=0
<60 GG.=2 3–6 MESI=1 >6 MESI=0
L’EVENTO PATOLOGICO HA CAUSATO AL PAZIENTE
SÌ=2 NO=0
DISABILITÀ SIGNIFICATIVA?
VI SONO REALISTICHE PROSPETTIVE DI MIGLIORAMENTI
SÌ=3 PROBABILE=1
SIGNIFICATIVI MEDIANTE IL PROGRAMMA DEL DAY–HOSPINON PREVEDIBILE=0
TAL?
IL PAZ. È ASSENTE DAL LAVORO ABITUALE A CAUSA DI
SÌ=3 SALTUARIAMENTE=1 NO=0
QUESTA DISABILITÀ?
IL PAZ. NECESSITA DI ALMENO 3 (O PIÙ) TIPI DI PRESTASÌ=3 NO=0
ZIONE?
IL PAZ. HA GIÀ SUBITO IN PASSATO TRATTAMENTI AMBUCON SCARSO RISULTATO=1
LATORIALI PER LA STESSA DISABILITÀ?
CON BUON RISULTATO=0
IL PAZ. NECESSITA DI PRESTAZIONI CHE RICHIEDONO
SÌ=3 NO=0
MULTIPROFESSIONALITA’ (es. terapista e terapista occupazionale)?
IL PAZ. A CAUSA DI QUESTA PATOLOGIA È A RISCHIO DI
SÌ=1 NO=0
COMPLICANZE?
IL PAZ. PUÒ SOPPORTARE UN PROGRAMMA DI RIABILITASÌ=2 NO=0
ZIONE INTENSIVO (>2 H/DÌ)?
IL PAZ. NECESSITA ALTRESÌ DI CHIARIMENTI DIAGNOSTICI
SÌ=3 NO=0
SPECIALISTICI E/O INDAGINI STRUMENTALI SPECIFICHE
(ESCLUSA ROUTINE ED ECG)?
IL PAZ. SI TROVA IN SITUAZIONI DI CRITICITÀ SOCIALE,
SÌ=1 NO=0
FAMILIARE, GEOGRAFICA?
TOTALE
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
207
PUNTEGGIO
RICOVERO DH :
APPROPRIATEZZA
22 O PIÙ
NECESSARIO
CERTA
DA 17 A 21
PREFERIBILE
CERTA
DA 10 A 16
POSSIBILE
DA MOTIVARE
MENO DI 10
PREFERIBILE TRATTAMENTO AMBULATORIALE
DISCUTIBILE
208
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
Allegato 2
FONDAZIONE SALVATORE MAUGERI-IRCCS
Istituto Scientifico di Riabilitazione di Montescano
SERVIZIO DI FISIATRIA OCCUPAZIONALE ED ERGONOMIA
DAY-HOSPITAL
PAZIENTE ____________________________________________________________________
ETA’ _________
PUNTEGGIO APPROPRIATEZZA __________
TEMPO DI ATTESA (gg.) _______
DURATA DEGENZA (gg.) __________
INDICATORI DI EFFICACIA A BREVE TERMINE
Ingresso
SOGGETTIVI:
Dimissione
Analogo Visivo Funzionalità (0 100)
Analogo Visivo Dolore (100 0)
OBIETTIVI:
INDICATORI DI EFFICACIA A MEDIO TERMINE
IL SOGGETTO HA RIPRESO IL LAVORO ABITUALE ?
Non ha voluto (per ____________________________________________________)
Non ha potuto, a causa della disabilità residua
Ha dovuto cambiare mansione o lavoro
Ha ripreso, ma con molte difficoltà
Ha ripreso, con difficoltà superabili
Ha ripreso senza problemi particolari
Altro ______________________________________________________________________
____________________________________________________________________
RICHIESTE LAVORATIVE DEL SOGGETTO.
IMPEGNO FISICO:
pesante
medio
leggero
necessita’ specifiche _________________________________________________________
__________________________________________________________
Il Fisiatra
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
209
Allegato 3
F ONDAZIONE S ALVA TORE M AUGERI -IRCCS
Istituto Scientifico di Riabilitazione di Montescano
SERVIZIO DI FISIATRIA OCCUPAZIONALE ED ERGONOMIA
DIMISSIONE DEL PAZIENTE Sign.___________________________________
INDICATORI DI RISULTATO DELLA RIABILITAZIONE
I = Ingresso:
il *****
D = Dimissione: il *****
FORZA DELLA PRESA PALMARE PIENA [GRIP] (Kg)
60
INGRESSO
40
20
DIMISSIONE
0
DES.
SIN.
ANDAMENTO DELLA FORZA DELLA PRESA PALMARE MANO SINISTRA (Kg)
30
25
20
15
10
5
0
1I
2
3
SETTIMANE
4
D
5
210
Monica Panigazzi, Giacomo Bazzini
F ONDAZIONE S ALVATORE M AUGERI -IRCCS
Istituto Scientifico di Riabilitazione di Montescano
SERVIZIO DI FISIATRIA OCCUPAZIONALE ED ERGONOMIA
VALUTAZIONE FUNZIONALE LAVORATIVA
QUANTIFICAZIONE ANALITICA DELLE CAPACITÀ RESIDUE
Valutazione finale del ******
TEST
FORZA (=Media del “Torque”, in Ncm)
DESTRA (SANA)
SINISTRA (LESA)
1
4820
2090 (+41%)
2
Fless.
1462
380 (+158%)
Estens. 739
362 (+119%)
Supin.
348 (+37%)
3
644
4
Sup.
414
142 (+97%)
Pron.
334
127 (+76%)
(Nella colonna relativa alla mano sinistra fra parentesi l’incremento rispetto all’ingresso)
10. Il day–hospital di Fisiatria occupazionale–ergonomica
211
F ONDAZIONE S ALVATORE M AUGERI -IRCCS
Istituto Scientifico di Riabilitazione di Montescano
SERVIZIO DI FISIATRIA OCCUPAZIONALE ED ERGONOMIA
VALUTAZIONE FUNZIONALE LAVORATIVA
QUANTIFICAZIONE GLOBALE DELLE CAPACITÀ RESIDUE
ATTIVITA’ DELL’ARTO SUPERIORE
GUIDA DI AUTOVEICOLI
Il Fisiatra
LAVORO, DISABILITÀ E TERAPIA OCCUPAZIONALE:
PROBLEMATICA, DATI EPIDEMIOLOGICI E RIFERIMENTI LEGISLATIVI
M. Ferrari, M. Imbriani
Il lavoro ha sempre rivestito un ruolo fondamentale per la vita di ogni
uomo nella maggior parte delle culture. Da sempre nella storia si può trovare giustificazione di un tale ruolo e, se pensiamo alle attività del cacciare, pescare e raccogliere come ad attività lavorative primordiali, potremmo
estendere questa sua rilevanza anche all’epoca preistorica. Il valore attribuito al lavoro nella cultura odierna che permea la nostra società non è diminuito, anzi, è ulteriormente accresciuto, seguendo la collettiva tendenza a
riconoscergli una importanza sempre maggiore.
Questa sua importanza non dipende soltanto dai benefici economici
che ne derivano e che influenzano in misura certamente non trascurabile
la qualità della vita giorno dopo giorno, ma, ricercando significati più profondi, potremmo a ragione considerare che l’attività lavorativa svolge per
ciascun uomo una funzione determinante nello sviluppo e nel mantenimento dell’immagine di sé, così come nell’auto–realizzazione e nella attribuzione di senso all’esistenza personale.
Sulla base di tali premesse non sorprende che l’approccio della terapia
occupazionale alle problematiche riguardanti l’attività lavorativa sia un approccio terapeutico alla persona nella sua globalità con l’obiettivo di costruire e/o ricostruire una capacità funzionale deficitaria.
* U.O. Medicina Ambientale e Medicina Occupazionale, Istituto Scientifico di Pavia,
Fondazione Salvatore Maugeri, Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, IRCCS; Università
degli Studi di Pavia, Dipartimento di Medicina Preventiva, Occupazionale e di Comunità.
213
214
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
Considerata in tale prospettiva, la Terapia Occupazionale presenta aree
di interesse ampiamente sovrapposte a quelle di altre specializzazioni mediche. La Medicina del Lavoro, in particolare, si configura oggi come una
disciplina a carattere eminentemente preventivo e, secondo canoni ormai
consolidati, si è soliti distinguere tre livelli di prevenzione: la prevenzione
primaria, di natura essenzialmente tecnica e votata alla eliminazione dei
fattori di rischio professionale, la prevenzione secondaria, costituita da atti
prevalentemente sanitari aventi lo scopo di evitare che i fattori di rischio
non eliminabili possano concretizzarsi in un danno professionale, e, infine,
la prevenzione terziaria, la quale ha come finalità l’evitare che un danno
ormai instauratosi si aggravi e/o si complichi fino a portare a morte o a irreversibile disabilità chi ne è portatore. È su quest’ultimo livello, della prevenzione terziaria, che concettualmente la Terapia Occupazionale interseca le
finalità della Medicina del Lavoro. Queste finalità, sorte da un successo solo
parziale dei programmi preventivi primari e secondari, assumono una grande importanza al fine di assicurare il reintegro, anche parziale, delle funzioni perdute a causa del lavoro. La (re-)integrazione della capacità di lavorare si pone quale obiettivo da perseguire tenacemente al fine di garantire il
recupero di valore sociale (del quale l’occupazione lavorativa, come già
considerato, costituisce un elemento imprescindibile). D’altra parte, possiamo osservare che gli interventi della Terapia Occupazionale non riguardano solo quei soggetti che abbiano subito un danno causato dal lavoro, ma
anche tutti coloro che presentino una alterazione dello stato di salute, di
qualsivoglia origine, e che debbano essere introdotti alla attività lavorativa
per svolgere una mansione nei confronti della quale possano essere resi
idonei. In tal caso, a beneficiare degli interventi riabilitativi di Terapia
Occupazionale sono persone affette da condizioni disabilitanti sotto il profilo fisico e/o mentale che comportano la necessità di migliorare le funzioni motorie e/o le funzioni psichiche superiori, e anche di mettere in atto
potenzialità compensatorie nei confronti di perdite funzionali permanenti. I
terapisti occupazionali aiutano questa categoria di pazienti a raggiungere il
livello più alto possibile di indipendenza e produttività. Gli esercizi fisici e le
manovre terapeutiche sono appositamente selezionati sulla base delle
necessità individuali che vengono rilevate in fase preliminare alla programmazione terapeutica: può essere per esempio richiesto di incrementare la
forza e la destrezza, oppure di migliorare l’acuità visiva e la coordinazione
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
215
mano–occhio. I terapisti occupazionali si avvalgono poi di strumenti computerizzati per favorire nei pazienti lo sviluppo di capacità decisionali, il
ragionamento astratto, le facoltà percettive, l’abilità nel risolvere problemi,
come anche la memoria e il sequenziamento, tutte funzioni fondamentali
per affrontare i compiti da svolgere nell’ambiente di vita e di lavoro.
Obiettivo della Terapia Occupazionale è infatti favorire lo sviluppo, il recupero e/o il mantenimento delle capacità funzionali dei pazienti mettendoli in grado di eseguire compiti non solo inerenti a gestualità proprie del
vivere quotidiano (lavarsi, vestirsi, alimentarsi…), ma anche correlati a una
specifica mansione lavorativa. Alcuni programmi di Terapia Occupazionale
infatti sono propriamente orientati a trattare soggetti la cui capacità di effettuare operazioni richieste nell’ambiente di lavoro risulta compromessa. Fra
gli scopi degli interventi terapeutici occupazionali possono rientrare l’individuazione di collocamenti professionali adeguati alle capacità funzionali, la
valutazione dell’ambiente di lavoro, le attività formative e informative circa
le corrette procedure di esecuzione dei compiti, ed eventualmente anche
la collaborazione con il datore di lavoro e il medico del lavoro per l’individuazione di necessarie modifiche da apportare alla postazione di lavoro
onde favorire il corretto e sicuro svolgimento delle funzioni richieste dall’attività professionale.
Quando la funzione di tutela e prevenzione della Medicina del Lavoro
e la funzione riabilitativa della Terapia Occupazionale siano rivolte alla categoria dei lavoratori disabili, il ruolo delle due discipline si riveste di connotati peculiari. I soggetti disabili, a causa della propria condizione, traggono
un beneficio, anche maggiore di quanto normalmente si verifichi, dalla possibilità di applicare una certa abilità fisica o psichica, per quanto residua, a
una specifica attività lavorativa: essi infatti risultano particolarmente bisognosi di accedere a un impiego, non solo per ottenere un (quanto mai
necessario) sostentamento economico, ma anche per intraprendere la via
della integrazione sociale e della realizzazione personale. A fronte di una
simile premessa, tuttavia, considerando la logica della produttività profittevole, non sorprende che proprio i lavoratori disabili siano quelli che incontrano le maggiori difficoltà di inserimento occupazionale. I dati italiani, a
questo proposito, sono esplicativi: i soggetti occupati della popolazione
non disabile costituiscono circa il 54%, mentre tra i soggetti con disabilità
in età lavorativa solo il 17% risulta utilmente impiegato. Nel nostro Paese
216
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
si trovano centinaia di migliaia di disabili in cerca di occupazione e iscritti al
collocamento. La situazione europea complessivamente appare migliore
ma non soddisfacente, con un tasso di occupazione che tra i non disabili
in età lavorativa è pari al 66%, tra i disabili lievi si attesta al 47%, scende
al 25% per i soggetti con grave disabilità. Il confronto dei dati sulle percentuali di occupazione, inoltre, risulta difficoltoso a causa dei differenti metodi di raccolta delle informazioni oltre che delle diverse caratteristiche sociali presenti nei vari Paesi dell’Unione Europea; in ogni caso, comunque, l’Italia si distingue negativamente per una grave sottoccupazione dei soggetti
disabili. Le principali ipotesi fornite per spiegare questo fenomeno sono
riconducibili alla difficoltà di censimento della popolazione disabile, alle differenti classificazioni della disabilità e all’altissima percentuale di lavoratori
impiegati nel lavoro sommerso.
Il soggetto disabile andrebbe considerato in un’ottica diversa da quella
dell’opinione comune, che, non di rado, automaticamente lo etichetta come individuo non capace, non produttivo e, in certa misura, “fastidioso” in
quanto ostacolo al perseguimento di obiettivi professionali. Il primo passo
da compiere lungo la strada che conduce all’inserimento lavorativo e alla
integrazione sociale del disabile è un passo di carattere culturale, volto a
superare le resistenze psicologiche che hanno portato e spesso portano a
considerare il collocamento del lavoratore disabile come un mero atto assistenzialista, vissuto senza motivazione dagli interessati e subito come obbligo dai datori di lavoro. Non è scomparso il pregiudizio che la persona disabile, a causa della propria condizione, non possa produrre come gli altri e
quindi costituisca un costo economico da evitare.
Questo modo di pensare, almeno in parte, deriva dal fatto che i criteri
di valutazione dello stato psicofisico dei disabili si incentravano sulla quantificazione del danno, con l’intento di risarcirlo mediante provvidenze economiche e/o benefici diversi. Pertanto l’esame del soggetto in considerazione veniva a produrre un valore numerico (percentuale di invalidità conseguita), in funzione del quale si stabiliva il diritto al beneficio. Si è così consolidata e perpetuata l’idea di una corrispondenza esatta tra percentuale di
invalidità e capacità lavorative.
Ancora, in conseguenza della “misura numerica” della invalidità, condizioni psicofisiche assai diverse venivano descritte con lo stesso valore percentuale, e le disabilità venivano appiattite sulle minorazioni. L’introduzione
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
217
della Classificazione Internazionale di Menomazioni, Disabilità e Svantaggi
Esistenziali (International Classification of Impairment, Disability and
Handicap, ICIDH) da parte della Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) ha permesso di focalizzare l’attenzione sulla incapacità a compiere
determinati compiti, ovvero sul concetto di disabilità, e sull’interazione tra
disabilità e ambiente come causa determinante il reale handicap del soggetto. La distinzione terminologica non ha solo valore semantico, ma comporta differenti implicazioni.
La disabilità può essere conseguenza di una malattia (anche malattia
professionale) o di un incidente (anche infortunio sul lavoro) e non deve
essere confusa con il concetto di malattia. La stessa malattia infatti può
comportare due disabilità diverse, così come due persone con la stessa
disabilità non hanno necessariamente la stessa malattia. In conseguenza di
un qualsivoglia danno alla salute, reliquato di una malattia (congenita o
meno) o di un incidente, una persona può subire una menomazione, ossia
una perdita o una anomalia strutturale o funzionale, fisica o psichica. La
menomazione può portare alla disabilità, ovvero alla limitazione della persona nello svolgimento di una o più attività considerate “normali” per un
soggetto della stessa età. Infine la disabilità può portare all’handicap, ovvero allo svantaggio sociale che si manifesta a seguito dell’interazione con
l’ambiente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficializzato il distinguo di queste definizioni, e in particolare la separazione concettuale tra
malattia e disabilità: nella Classificazione Internazionale della Malattie (International Classification of Diseases, ICD), periodicamente aggiornata,
sono classificate le diverse condizioni morbose, associate alla perdita dello
stato di completo benessere fisico, psichico e sociale (stato di salute).
Tale classificazione si basa sulla seguente sequenza logica: l’agente eziologico causa la malattia che, a sua volta, determina le manifestazioni cliniche. Non è possibile identificare eventuali situazioni disabilitanti (conseguenti) alla malattia. Diversamente, nella Classificazione Internazionale di
Menomazioni, Disabilità e Svantaggi Esistenziali (ICIDH), evolutasi poi come Classificazione Internazionale del Funzionamento e delle Disabilità
(ICIDH–2) vengono classificate le disabilità in associazione alle diverse
condizioni di salute, tenendo presente una sequenza logica diversa: la menomazione causa la condizione di disabilità che, a sua volta, determina l’
handicap (figura 1). L’handicap, peraltro, può conseguire alla menomazio-
218
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
ne “per via diretta”, cioè per una via non mediata dalla stato di disabilità.
Una deformità può per esempio originare difficoltà nella instaurazione di
rapporti sociali e determinare handicap pur senza causare nel contempo
una disabilità. D’altra parte la sequenza può essere interrotta a ogni livello
(alla menomazione non necessariamente segue la disabilità e a quest’ultima non necessariamente segue un handicap) (figura 1).
Un ulteriore passo in avanti, ancora a favore di una nuova considerazione della persona disabile, con impatto significativo sulla sua potenziale percezione collettiva, anche in funzione della integrazione professionale, si è
realizzato grazie alla Classificazione Internazionale del Funzionamento,
della Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning,
Disability and Health, ICF), nuovo modello di classificazione introdotto dall’OMS nel 2001, che cerca di individuare secondo una omogenea modalità le strutture e le funzioni corporee classificandole in percentuale (0%:
completa inattività… 100%: completa attività) e intendendo descrivere
“ciò che una persona malata o in qualunque condizione di salute può fare
e non ciò che non può fare”. L’attenzione è focalizzata non più sulla disabilità ma sulle abilità residue.
Figura 1 – Menomazione, disabilità e handicap
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
219
Per estensione, se consideriamo, secondo l’approccio impiegato dall’ICF, la salute e le condizioni di essa, potremmo anche ipotizzare che ciascuno di noi, in un contesto ambientale sfavorevole o a fronte di particolari difficoltà potrebbe versare in una condizione che lo rende “disabile”. L’ICF
riguarda tutte le persone e non la popolazione dei disabili; essa classifica
la salute e le relative condizioni e riponendo il proprio interesse sul miglioramento della qualità della vita, essa “propone il modello biopsicosociale
della disabilità, un modello che, integrandoli, riesce a ovviare alla contrapposizione tra il modello puramente medico e quello puramente sociale di
disabilità”. Secondo quanto indicato dall’OMS, l’ICF dovrebbe favorire una
migliore valutazione delle potenzialità professionali di ciascun individuo e
promuovere una maggiore occupabilità delle persone disabili.
Sulla base di questa nuova classificazione lo sviluppo della sequenza logica non è più di tipo lineare, come lo era per l’ICIDH, ma piuttosto è multidimensionale, dove i diversi fattori in gioco interagiscono e si influenzano
vicendevolmente (figura 2). Anche la terminologia ha subito variazioni: la
parola “handicap”, dalla connotazione negativa nelle lingue di molti paesi,
non viene più utilizzata, mentre si impiega l’espressione “restrizione alla
Figura 2 – Menomazione, attività personale, partecipazione sociale
220
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
partecipazione sociale”; la stessa parola disabiltà è caduta in disuso ed è
stata sostituita dall’espressione “limitazione dell’attività personale”, mentre
è stato mantenuto il termine “menomazione” (impairment).
Allo scopo di identificare il numero di persone “disabili” in Italia, la fonte
di dati organizzati e informatizzati più autorevole è rappresentata dall’indagine Multiscopio dell’ISTAT, effettuata nel corso degli anni 1999 e 2000, e
riguardante le condizioni di salute e il ricorso ai servizi sanitari. In tale indagine viene definita disabile la persona che, escludendo le condizioni riferite a limitazioni temporanee, dichiara il massimo grado di difficoltà in almeno una delle attività della vita quotidiana (Activities of Daily Living, ADL).
Queste attività vengono valutate attraverso una batteria di quesiti che, secondo le direttive fornite dal Consiglio d’Europa e dall’OMS, sono orientati
a misurare la presenza di disabilità e a definire i livelli di non–autosufficienza e che, nello specifico, riguardano la costrizione a letto, su una sedia o in
casa e l’autonomia nel camminare, salire le scale, chinarsi, coricarsi, sedersi, vestirsi, lavarsi, fare il bagno, mangiare, sentire, vedere e parlare. In base
a stime parziali ottenute da questa valutazione in Italia vi sarebbero circa
due milioni e ottocentomila persone disabili, un numero pari al 5% circa
della popolazione.
Appare tuttavia necessario sottolineare che tale stima ha solo un valore
orientativo e approssimativo, date le numerose difficoltà implicite alla
numerazione della popolazione disabile, legate alla non universale definizione di disabilità, alla tipologia di disabilità che condiziona una più o meno
precisa rilevazione epidemiologica (ad esempio, le disabilità psichiche
spesso sfuggono alle ricerche epidemiologiche per una non uniformità dei
metodi di classificazione e per la presenza di resistenze socioculturali nel
denunciarle), all’impossibilità di utilizzo dei dati registrati dalle commissioni nell’attuale sistema di certificazione delle disabilità, e alla necessità di
conteggiare le persone disabili non solo presso istituzioni e residenze sanitarie, ma anche presso le singole famiglie, nei confronti delle quali viene
adottato il metodo campionario dell’intervista, che non può escludere false
dichiarazioni. Stando ai dati disponibili, comunque, vi sarebbe una prevalenza alla nascita pari all’1%.
Questo valore va aumentando poi con il crescere dell’età, considerando che alcune disabilità non sono diagnosticabili alla nascita e che alcune
condizioni esitanti in disabilità sono acquisite nell’arco della vita e che,
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
221
ancora, in linea generale lo stato di salute va via via peggiorando all’aumentare dell’età. A riprova di quest’ultima considerazione si trovano infatti altre
stime ISTAT secondo le quali tra le persone con età maggiore o uguale a
65 anni i disabili rappresentano una quota del 19,3%, mentre essa diviene del 47,7% (38,7% per gli uomini e 52% per le donne) dopo gli 80 anni
di età. La medesima indagine ISTAT ha poi evidenziato che il 66% delle
persone disabili in Italia è rappresentato da donne, mentre gli uomini costituiscono il 34%; in rapporto al totale della popolazione le donne hanno un
tasso di disabilità del 6,2% mentre gli uomini del 3,4%. Infine, in relazione all’età i dati mostrano che più del 79% delle donne disabili ha un età
maggiore o uguale a 65 anni, mentre tra gli uomini tale percentuale scende al 66% (fenomeno almeno in parte spiegabile con un marcato invecchiamento della popolazione, in misura maggiore per le donne). Un dato
di interesse, specie in riferimento alla problematica dell’inserimento professionale, riguarda il grado di scolarità dei soggetti disabili: esso risulta essere generalmente più basso rispetto ai non disabili. Tale fenomeno può essere parzialmente spiegato dal fatto che, di solito, le persone oggi anziane,
hanno un più basso grado di scolarità rispetto ai più giovani e che, come
già indicato, una rilevante percentuale dei disabili ha un’età avanzata. Non
si può tuttavia escludere la minore opportunità di accesso alle istituzioni
scolastiche per soggetti con alcuni tipi di disabilità.
Come suggerito da questo quadro epidemiologico, le aspettative proprie delle persone disabili assumono proporzioni rilevanti. Alcune delle richieste da loro avanzate possono essere efficacemente sintetizzate nei seguenti passaggi della Dichiarazione di Madrid del marzo 2002 “Non Discriminazione Più Azione Positiva Uguale Integrazione Sociale”. “La disabilità è una questione che riguarda i diritti umani. Le persone disabili chiedono pari opportunità, non beneficenza. I disabili rivendicano le stesse opportunità di accesso alle risorse sociali, come il lavoro, l’educazione scolastica e professionale, la formazione alle nuove tecnologie, i servizi sociali e
sanitari, lo sport e il tempo libero, e ai prodotti e beni di consumo.” Nel
corso degli anni è mutato il contesto in cui le persone disabili, le fasce deboli della popolazione, si trovano a muoversi specie in rapporto alla attività occupazionale. L’evoluzione tecnologica ha portato alla estinzione di alcune figure professionali, per lo più con mansioni esecutive, penalizzando
tra le persone disabili, quelle in possesso di minori autonomie e potenzia-
222
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
lità lavorative. Si tratta soprattutto di soggetti con deficit mentali, ma anche
di lavoratori con handicap sensoriali o di persone che, pur affette da patologie meno invalidanti, non sono scolarizzate né preparate professionalmente. I disabili inoltre tendono a essere meno flessibili e meno capaci di
adattamento rispetto alla media dei lavoratori, dovendo spesso affrontare
problemi relativi al trasporto (per esempio i portatori di handicap motori),
agli orari che devono tenere conto di impegni terapeutici di vitale importanza (per esempio i dializzati), all’affaticamento fisico (per esempio i cardiopatici), e/o psichico (per esempio i soggetti colpiti da patologie psichiatriche). Tutto ciò contrasta con una organizzazione del lavoro che richiede
sempre maggiore flessibilità di ruolo e, soprattutto, di orario.
Il lavoro, tuttavia, rappresenta un diritto per ogni cittadino della Repubblica Italiana: l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica, infatti, prevede la rimozione di ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando la
libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, mentre l’articolo 4 attesta il
riconoscimento a tutti i cittadini del diritto del lavoro e la promozione delle
condizioni che rendano effettivo questo diritto e aggiunge che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività e una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.
Sempre nella Costituzione della Repubblica, all’art. 38 troviamo che
“ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere
ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto
che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in
caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento
professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato”.
I principi che sottendono alla promulgazione di questo ultimo articolo
sono i medesimi sui quali è basata la Legge 12 marzo 1999, n. 68 (Legge
68/99, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”), volta a garantire l’inserimento professionale del soggetto disabile mediante il riconoscimento
dello stato di disabilità, la valutazione delle abilità residue e l’impiego di servizi di sostegno e di collocamento mirato al lavoro. La precedente norma-
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
223
tiva in tema di inserimento lavorativo era rappresentata dalla Legge 2 aprile 1968, n. 482 (Legge 482/68, “Disciplina generale delle assunzioni
obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private”),
secondo cui era prevista la riserva del 15% complessivo dei posti di lavoro da parte di aziende private e enti pubblici che avevano più di 35 dipendenti a favore di categorie protette. Le innovazioni introdotte dalla Legge
68/99 sono notevoli e, in primis, riguardano i concetti di valutazione delle
capacità residue e di collocamento mirato; la nuova legge, in altre parole,
pone l’accento sulla “necessità di valorizzare la professionalità del lavoratore disabile, con l’adozione di un sistema di collocamento che consente di
scegliere il posto più adatto alle caratteristiche specifiche del soggetto protetto, in modo da neutralizzarne le limitazioni, garantendo, al contempo,
l’utile inserimento nell’organizzazione aziendale”.
Sulla obbligatorietà di assunzione in base a un certo grado percentuale
di invalidità (Legge 482/68) è prevalso perciò il riconoscimento di una
nuova e più adeguata esigenza, quella cioè di collocare il soggetto disabile in funzione della capacità lavorativa che è in grado di esprimere, inserendolo nel posto più adatto (Legge 68/99). Accanto alla necessaria valutazione funzionale del soggetto disabile, è prevista una accurata valutazione dell’ambiente di lavoro e delle specifiche postazione e mansione: il collocamento del disabile viene quindi garantito, ma alla garanzia dell’assunzione si associa la garanzia della considerazione della capacità lavorativa
del singolo soggetto in relazione alle caratteristiche dell’attività che lo stesso viene a esercitare. Ancora si sottolinea il passaggio a un nuovo approccio socioculturale, che tiene anche conto delle esigenze aziendali, e che
considera il lavoratore disabile una risorsa e un’opportunità anziché un
peso di cui onerarsi obbligatoriamente.
Il soggetto disabile, entrando nel dettaglio della procedura di collocamento prevista dalla Legge 68/99, deve iscriversi in un apposito elenco tenuto
dagli uffici regionali a cui vengono aggiunte anche informazioni sulle specifiche competenze del soggetto, onde favorire un migliore incontro tra domanda e offerta. Un requisito necessario per accedere al sistema di inserimento lavorativo è rappresentato dall’accertamento dello stato di handicap
da parte di apposite commissioni in conformità a quanto indicato all’art. 4
della Legge 5 febbraio 1992 n. 104 (Legge 104/1992, “Legge–quadro per
l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”) e
224
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
secondo i criteri indicati nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
13 gennaio 2000 (DPCM 13/01/2000, “Atto di indirizzo e coordinamento
in materia di collocamento obbligatorio dei disabili”). Interlocutori diretti
delle commissioni di valutazione preposte all’accertamento sono i Comitati
Provinciali della Massima Occupazione: questi comitati, mediante propri
membri e consulenti designati, prendono in considerazione le opportunità
di collocamemento di particolari disabili per particolari mansioni offerte da
certe specifiche aziende. Le commissioni ASL accertano la condizione di disabilità, formulano la diagnosi funzionale e redigono la relazione conclusiva;
i comitati tecnici valutano le residue capacità lavorative, definiscono gli strumenti utili all’inserimento lavorativo, predispongono i controlli periodici per
la permanenza delle condizioni di disabilità e informano le commissioni mediche circa il percorso di inserimento al lavoro del disabile. Le commissioni
di accertamento, secondo le disposizioni vigenti, devono essere costituite da
un medico specialista in medicina legale (presidente), due medici di cui
uno scelto prioritariamente tra gli specialisti in medicina del lavoro, un sanitario in rappresentanza degli invalidi appartenenti alle rispettive categorie
(Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili, Unione Italiana Ciechi, Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli e Adulti Subnormali, ecc.), un operatore sociale e uno specialista esperto del caso clinico in esame, in servizio
presso le unità sanitarie locali. In ambito ASL i disabili sono “persone in età
lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e i portatori di
handicap intellettivo, che comportino una riduzione delle capacità lavorativa
superiore al 45%”; la riduzione della capacità lavorativa è accertata sulla
base della classificazione internazionale delle menomazioni della OMS.
Mentre in ambito ASL l’invalidità civile viene riconosciuta a fronte di una invalidità pari al 33% o di una riduzione della capacità lavorativa superiore a
un terzo, la Legge 68/99 definisce il limite del 45% di invalidità civile necessario per considerare disabile l’invalido civile. Invalido civile è dunque colui
che, previamente sottoposto ad accurato esame clinico, atto a valutare
l’esatta natura e l’entità del danno alla sua validità, secondo la tabella in vigore (Decreto del Ministero della Sanità 5 febbraio 1992, modificato con D.M.
14 giugno 1994. “Nuova tabella indicativa delle percentuali di invalidità”) risulta compromesso nella capacità lavorativa sia semispecifica, ossia nelle attività lavorative confacenti alle attitudini, sia specifica, manifestando una invalidità permanente superiore a 1/3 (>33%) (Legge 30 marzo 1971, n.
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
225
118. “Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme
in favore dei mutilati e invalidi civili”).
Sempre di competenza delle commissioni ASL sono anche la valutazione,
secondo la Legge 68/99, delle persone non vedenti o sordomute di cui alle
Leggi 27 maggio 1970, n. 382 (L. 382/1970, “Disposizioni in materia di assistenza ai ciechi civili”) e 26 maggio 1970, n. 381(L. 381/1970, “Aumento del
contributo ordinario dello Stato a favore dell’Ente nazionale per la protezione
e l’assistenza ai sordomuti e delle misure dell’assegno di assistenza ai sordomuti”) e loro successive modificazioni. È invece di competenza INAIL (Istituto
Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro e le Malattie
Professionali) la valutazione come disabili delle “persone invalide del lavoro
con un grado di invalidità superiore al 33%”. Gli invalidi del lavoro sono coloro ai quali viene riconosciuta e percentualizzata una ridotta capacità lavorativa a seguito di infortunio sul lavoro e/o di malattia professionale.
Ancora, è di competenza di apposite commissioni territoriali preposte il
riconoscimento dei diritti della Legge 68/99 per quelle “persone invalide di
guerra, invalide civili di guerra e invalide per causa di servizio con minorazioni ascritte dalla prima alla ottava categoria di cui alle tabelle annesse al testo
unico delle norme in materia di pensioni di guerra… e succ. modificaz.” (Decreto del Presidente della Repubblica 20 aprile 1994, n. 349. Regolamento
recante riordino dei procedimenti di riconoscimento di infermità o lesione
dipendente da causa di servizio e di concessione di equo indennizzo”; Decreto del Presidente della Repubblica 29 ottobre 2001, n. 461. Regolamento recante semplificazione dei procedimenti per il riconoscimento della
dipendenza delle infermità da causa di servizio, per la concessione della
pensione privilegiata ordinaria e dell’equo indennizzo, nonché per il funzionamento e la composizione del comitato per le pensioni privilegiate ordinarie”). In particolare, gli invalidi di guerra sono “coloro che durante l’effettivo
servizio militare siano divenuti inabili a proficuo lavoro o si trovino menomati nelle loro capacità di lavoro, in seguito a lesioni o a infermità incontrate o
aggravate per servizio di guerra, o comunque per fatto di guerra”, mentre gli
invalidi civili di guerra sono “coloro che — non militari – siano divenuti inabili a proficuo lavoro o si trovino menomati nelle loro capacità lavorative in
seguito a lesioni o a infermità incontrate per fatto di guerra” (Legge 2 aprile 1968, n. 482. “Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le
pubbliche amministrazioni e le aziende private”).
226
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
Spetta infine ai medici legali INPS il riconoscimento per i lavoratori
dipendenti della condizione di invalido che dà diritto alle prestazioni economiche e/o di dispensa dal lavoro (Legge 12 giugno 1984, n. 222.
“Revisione della disciplina dell’invalidità pensionabile”).
Dal punto di vista previdenziale assicurativo per l’invalido civile è possibile parlare di inabilità quando il grado di invalidità è assoluto, per l’invalido del
lavoro l’inabilità, in ambito INAIL, si definisce secondo modalità più articolate
per le quali si rimanda al relativo Testo Unico (Decreto Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124. “Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”). In ambito INPS, infine, il riconoscimento di uno stato di invalidità–inabilità si incentra sulla riduzione di oltre due terzi della capacità lavorativa individuale (“si considera invalido… l’assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa
di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo”, “si considera inabile… colui il quale, a causa di infermità o difetto fisico o mentale si trovi nella
assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”).
Tenuto in considerazione questo ampio gruppo di riferimenti giuridici,
quali risultati ha portato l’applicazione delle nuove indicazioni legislative in
materia di tutela dell’inserimento professionale dei soggetti disabili? I primi
dati quantitativi sono contenuti nel recente rapporto dell’Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori (ISFOL 2002): il tasso di
occupazione tra i disabili è pari al 20,8%, più in particolare sale al 22,9% se
consideriamo i soli disabili sensoriali; quest’ultima osservazione permette di
rilevare come categorie di disabili, favorite da una legislazione mirata, incontrino una migliore opportunità di collocamento. Gli iscritti all’elenco sono stati
347.425, dei quali il 17,2% nelle regioni nord–occidentali, l’11,4% in quelle
nord–orientali, il 25,3% in quelle centrali e, infine, il 46% in quelle meridionali. La maggiore prevalenza nelle regioni del Sud non risulta univocamente
interpretata, essendo probabili sia l’effetto legato a una minore recettività del
mercato del lavoro sia una più elevata frequenza di riconoscimento della condizione di disabilità. Nel complesso, comunque, i provvedimenti volti a garantire un collocamento mirato dei disabili appaiono ben avviati, avendo già introdotti in svariate attività produttive 19.831 lavoratori.
La Legge 104/92 ha permesso di delineare i principi fondamentali dell’ordinamento per favorire il pieno rispetto della dignità umana della persona porta-
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
227
trice di handicap, di promuovere la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nella società e nel lavoro, e, ancora, di rimuovere le condizioni invalidanti che
impediscono il raggiungimento della massima autonomia possibile, la partecipazione alla vita collettiva e la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali.
Con questa Legge viene sancito il superamento della precedente visione
dell’handicap come condizione strettamente collegata alla minorazione fisica
e psichica, per prendere in considerazione più generalmente ogni situazione
di emarginazione e svantaggio sociale, quando stabilizzata e progressiva. La
società deve quindi attuare tutte le misure necessarie per favorire l’inserimento del disabile, il quale deve avere la possibilità di usufruire di interventi
riabilitativi sufficienti a consentirgli di recuperare il maggior grado possibile di
autonomia. La società inoltre, come sopra menzionato, ha il compito di effettuare gli accertamenti relativi alle minorazioni valutando la “capacità complessiva individuale residua”. Il Servizio Sanitario Nazionale, tramite strutture proprie o convenzionate, deve assicurare interventi mirati alla prevenzione, alla
cura, alla riabilitazione precoce e alla fornitura di attrezzature e protesi utili per
il trattamento delle individuate menomazioni. Sempre la Legge 104/92 prevede che il disabile possa beneficiare di interventi atti a eliminare barriere
architettoniche, che lo ostacolano nei luoghi pubblici, e di agevolazioni che
gli consentano di fruire dei propri diritti di cittadino. Particolare rilievo viene
conferito ai provvedimenti devoluti a favorire l’integrazione scolastica (anche
secondo piani educativi personalizzati, dalla scuola materna all’istruzione universitaria) e quella lavorativa, per la quale si provvede alla assegnazione dei
compiti adattando il posto di lavoro al lavoratore. Sempre nel panorama legislativo a tutela dei soggetti disabili e inerente al rapporto tra disabilità e lavoro (Tabella 1) appaiono rimarchevoli la Legge 381/91, la Legge 30/2003 e
il D. lgs 276/03.
La Legge 8 novembre 1991, n. 381 (Legge 381/91, “Disciplina delle cooperative sociali”) riguarda l’attività delle cooperative sociali, ovvero imprese
finalizzate al perseguimento degli interessi generali della comunità, alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini. Questo obiettivo viene perseguito attraverso la gestione dei servizi sociosanitari ed educativi o lo svolgimento di attività produttive orientate all’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate. Le cooperative sociali, quindi, sono imprese che, a differenza
delle imprese con fine di lucro, organizzano le proprie risorse per soddisfare
un bisogno della collettività. Esse sono classificate in due grandi gruppi: quel-
228
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
le che gestiscono servizi sociosanitari ed educativi (tipo A) e quelle che prevedono l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati socialmente (tipo B).
Le cooperative sociali di tipo B si fondano sull’idea che la persona svantaggiata, se adeguatamente supportata, può essere avviata al lavoro e operare in un contesto produttivo, favorendo la socializzazione e l’apprendimento di abilità specifiche. Obiettivo è quello di trovare una collocazione
lavorativa esterna; solo nei casi più gravi, infatti, la persona resterà all’interno della cooperativa, sempre assistita da personale qualificato. Le persone
svantaggiate devono costituire “almeno il 30% dei lavoratori della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie della
cooperativa stessa”, come recita l’art. 4 della stessa Legge. Per potere operare, le cooperative sociali di tipo B stipulano convenzioni con Enti pubblici, per la produzione di beni e servizi, diversi da quelli sociosanitari ed educativi purché finalizzati all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
Un ulteriore strumento per rafforzare l’inserimento lavorativo dei disabili è
contenuto nell’art.14 del Decreto legislativo 276/2003 (“Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla Legge 14 febbraio 2003, n. 30”) intitolato “Cooperative sociali e inserimento lavorativo dei
lavoratori svantaggiati”. La riforma del mercato del lavoro operata dalla Legge
30/03 attraverso il D.Lgs. 276/2003 prevede che le aziende possano esentarsi dall’obbligo di assunzione del disabile se questi viene assunto da una cooperativa sociale di tipo B e l’azienda garantisce una commessa di lavoro alla cooperativa tale per cui si possa continuare a mantenere il disabile in quella postazione lavorativa. Secondo tali disposizioni si prevede, infatti, la stipula di convenzioni quadro su base territoriale da parte dei servizi di cui all’art. 6 della Legge
68/99, con le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale e le associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela delle cooperative sociali. Le convenzioni hanno per
oggetto il conferimento di commesse di lavoro da parte delle imprese alle cooperative sociali che assumono lavoratori svantaggiati. Tali convenzioni devono
essere validate dalle Regioni e devono disciplinare alcuni aspetti particolari individuati dall’art. 14 del D. Lgs 276/2003, tra i quali le modalità di adesione delle
imprese interessate e i criteri di individuazione dei lavoratori svantaggiati, da inserire in cooperativa e da individuare preliminarmente da parte dei servizi del
collocamento mirato. Con particolare riferimento ai lavoratori disabili, la Legge
prevede uno specifico incentivo per le imprese “convenzionate”: il computo del
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
229
disabile, che presenta particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel
ciclo lavorativo ordinario, assunto dalla cooperativa, nella quota di riserva di cui
all’art. 3 della Legge 68/99. La Legge, in altre parole, consente di definire direttamente all’interno delle convenzioni quadro il numero di disabili da inserire, in
rapporto alle commesse conferite alla cooperativa.
Il percorso di inserimento lavorativo attraverso le cooperative sociali di tipo
B riguarda alcune categorie di lavoratori disabili “deboli”, così individuati: persone in età lavorativa affette da menomazioni psichiche e portatrici di handicap
intellettivo con qualunque percentuale di riduzione delle capacità lavorative;
persone in età lavorativa affette da menomazioni fisiche e sensoriali che comportino una riduzione delle capacità lavorative pari o superiore al 74%, compresi i non vedenti, colpiti da cecità assoluta o con un residuo visivo non superiore a 1/20 a entrambi gli occhi anche con eventuale correzione. Inoltre sono
considerate “deboli” , le persone affette da disabilità di tipo fisico, psichico, sensoriale o intellettivo che presentano almeno una delle seguenti condizioni: età
superiore ai 50 anni, necessità di inserimento con il supporto di un Servizio di
mediazione come da dichiarazione delle Commissioni per l’accertamento delle
Invalidità civili nelle “relazioni conclusive” ex Legge 68/99, il ripetuto e fallito
tentativo di inserimento oppure la disoccupazione ab initio, e, ancora, la disabilità associata a bassa scolarità e riconosciuta dalla Legge 104/92. È tuttavia doveroso considerare che i soggetti disabili individuati come “deboli” sono, sì,
quelli per i quali si attiverà il percorso attraverso le cooperative sociali di tipo B,
ma essi, come tutti coloro che hanno una invalidità civile superiore al 45%, rimarranno comunque inseriti nelle liste del Servizio per l’Occupazione dei Disabili della provincia di residenza e, se sussistono i necessari requisiti, seguiranno
il regolare percorso per l’inserimento mirato.
Alla luce di quanto finora esposto, appare chiara l’intenzione del Legislatore, di ottimizzare le misure di tutela della dignità della persona disabile, garantendo le premesse necessarie alla sua integrazione occupazionale e sociale. Importanti passi sono stati compiuti a questo scopo, in particolare con
l’entrata in vigore della Legge 68/99 che ha visto la definitiva conversione del
soggetto disabile da “obbligo subito” a “risorsa da valorizzare e rendere produttiva”. Resta necessario verificare che a tutti i livelli previsti si operi con rigoroso rispetto dei contenuti della Legge, favorendo al meglio il processo di
conciliazione tra mondo produttivo e diritto al lavoro del disabile.
230
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
Tabella 1.
Elenco delle disposizioni legislative inerenti allo stato di disabilità
Legge 698/50
Norme per la protezione e l’assistenza ai sordomuti
Legge 25/55
Disciplina dell’apprendistato
Legge 308/58
Norme per l’assunzione obbligatoria al lavoro dei sordomuti
Legge 1359/62
Provvedimenti a favore dei mutilati e invalidi civili
DPR 1142/65
T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
Legge 482/68
Legge 381/70
Disposizioni generali delle assunzioni obbligatorie presso
le pubbliche amministrazioni e le aziende private
Aumento del contributo ordinario dello Stato a favore dell’Ente Nazionale per la
Protezione e l’Assistenza ai sordomuti e delle misure dell’assegno di assistenza ai
sordomuti
Legge 382/70
Disposizioni in materia di assistenza ai ciechi civili
Legge 118/71
Norme in favore di mutilati e invalidi civili
Legge 403/71
Nuove norme sulla professione e sul collocamento
dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi
Modalità di erogazione degli assegni, delle pensioni, e indennità di accompagnamento a favore dei sordomuti, dei ciechi civili e dei mutilati e invalidi civili
Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione
delle misure privative e limitative delle libertà
Legge quadro in materia di formazione professionale
Legge 854/75
Legge 354/75
Legge 845/78
Legge 18/80
Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente invalidi
Legge 19/80
Provvidenze in favore dei mutilati e invalidi paraplegici per cause di servizio
Legge 863/84
Misure a sostegno e incremento dei livelli occupazionali
Legge 222/84
Revisione della disciplina dell’invalidità pensionabile
Sent. C.C.
52/82
Legge 113/85
Sul collocamento al lavoro degli invalidi psichici
Legge 56/87
Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro
Aggiornamento delle discipline di collocamento al lavoro
e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti
Dpcm 8/8/85 Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome in materia di
attività di rilievo sanitario connesse a quelle socioassistenziali
C.M. 109/85
Sul collocamento al lavoro degli invalidi psichici
C.M. 5/88
Iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio dei minorati
con un grado di invalidità del 100%
Legge 508/88 Norme in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi e ai sordomuti
11. Lavoro, disabilità e terapia occupazionale
231
Decreto legge
509/88
Norme per la revisione delle categorie delle minorazioni e malattie invalidanti,
nonché dei benefici previsti dalla legislazione vigente
Legge 289/90
Modifica alla disciplina delle indennità di accompagnamento di cui alla legge 21
novembre 1988, n. 508 recante norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi e ai sordomuti e istituzione
di un’indennità di frequenza per i minori invalidi
T.U. delle Leggi in materia di disciplina degli stupefacenti
Dpr 309/90
Legge 223/91
Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione,
attuazione delle direttive CEE, avviamenti al lavoro e altre disposizioni in materia
di mercato del lavoro
Legge 381/91
Disciplina delle cooperative sociali
Legge 104/92
Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale
e i diritti delle persone handicappate
Approvazione delle nuove tabelle indicative delle percentuali di invalidità
per le minorazioni e le malattie invalidanti
Fondo per l’incremento e il sostegno all’occupazione
DPCM 43/92
DPCM 1/93
Legge 24 giu.
1997 n.196
(Pacchetto Treu)
D.Lgs 468/97
Art. 16 “Apprendistato”; Art. 18 “Tirocini”
D.Lgs 23 dic.
1997 n.469
Conferimento alle regioni e agli enti locali di funzioni e di compiti
in materia di collocamento e politiche attive del lavoro
DM 21
mar.1998 n.142
Sui servizi di inserimento lavorativo per disabili gestiti da enti pubblici,
comunità terapeutiche, cooperative sociali
Legge 21 mag.
1998 n.162
Modifiche alla legge 5 febbraio 1992 n. 104 concernenti misure
di sostegno a favore di persone con handicap grave
Riforma dei lavori socialmente utili
Legge 68/99
Norme per il diritto al lavoro dei disabili
DPCM
13.01.2000
Atto di indirizzo e coordinamento in materia di collocamento obbligatorio
dei disabili a norma dell’art. 1, comma 4 della legge 68/99
Legge 30/2003
(L.Biagi)
Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro
232
Massimo Ferrari, Marcello Imbriani
Riferimenti bibliografici e approfondimenti
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pubbliche amministrazioni e le aziende private.
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lavoro dei portatori di handicap, Isfol, Roma 2000.
AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche
Area 02 – Scienze fisiche
Area 03 – Scienze chimiche
Area 04 – Scienze della terra
Area 05 – Scienze biologiche
Area 06 – Scienze mediche
Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 – Ingegneria civile e Architettura
Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche
Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 – Scienze giuridiche
Area 13 – Scienze economiche e statistiche
Area 14 – Scienze politiche e sociali
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Finito di stampare nel mese di luglio del 2006
dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (RI)
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