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Platone a Siracusa
Il filosofo ateniese vide nella città siciliana il luogo ideale per i propri
esperimenti politici, tutti destinati al più totale fallimento.
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l singolare legame di Platone con la
città di Siracusa è stato ampiamente
affrontato dalla critica storica. Il filosofo greco compì diversi viaggi:
partecipò a diverse spedizioni militari durante la Guerra del Peloponneso,
compì viaggi per la Grecia, l’Egitto,
l’Italia. A Siracusa capitò quasi per caso,
nel 388.
La città siciliana divenne, da quel momento, una sorta di ossessione per lui:
una sorta di città-laboratorio per i suoi
esperimenti politici, che avevano lo
scopo di coniugare la figura del sovrano
con quella del filosofo. Durante la sua
prima visita a Siracusa, conobbe il tiranno Dionisio il Vecchio, che ben presto lo prese in odio, tanto che il suo
ritorno ad Atene fu, a quel che narrano
i biografi, alquanto rocambolesco. La vi-
cenda siracusana sarebbe finita lì, se
Platone non avesse conosciuto anche
Dione, cognato di Dionisio: un personaggio dalla mente brillante che si appassionò ai suoi discorsi. Fu costui che,
vent’anni dopo, lo richiamò a Siracusa
allo scopo di convertire alla filosofia il
nuovo tiranno, suo nipote Dionisio il
Giovane, figlio del precedente monarca.
Nel ventennio intercorso tra il primo e
il secondo viaggio a Siracusa, Platone
aveva fondato ad Atene la sua scuola,
l’Accademia, e aveva scritto molti dei
suoi dialoghi.
Tra questi, La repubblica, monumentale
riflessione sulla politica e la giustizia,
che conteneva i presupposti teorici per
la fondazione di uno Stato perfetto. Platone arrivò a Siracusa nel 367 e vi rimase due anni, nel corso dei quali tentò
di trasformare il tiranno in filosofo.
L’esito del suo tentativo di conversione
fu che il filosofo dovette rientrare ad
Atene, e che Dione fu esiliato. Nel 361,
Platone compì il suo terzo viaggio a Siracusa, e in questo caso dovette subire
l’ira manifesta di Dionisio, che lo fece
addirittura imprigionare. Il progetto politico subì allora una modifica: se un sovrano non poteva essere trasformato in
filosofo, si doveva mettere al potere un
filosofo; Dione stava infatti progettando
di rientrare a Siracusa e prendere il potere con la forza, un’azione violenta che
Platone stesso, nei suoi scritti, non
escludeva affatto. Dione prese il potere
con l’aiuto militare ed economico di alcuni accademici.
L’esito dell’iniziativa, però, non fu
quello sperato: se la filosofia non era
riuscita a convertire un tiranno in filosofo, il potere trasformò ben presto il filosofo in tiranno. Dione si dimostrò ben
presto peggiore dei suoi predecessori,
tanto che venne assassinato in un complotto ordito, pare, dagli stessi accademici. Dei fallimenti siracusani, Platone
parlò in uno scritto autobiografico, la
Lettera VII, di cui parleremo in questo
numero di Diogene: una riflessione tuttora imprescindibile per qualsiasi filosofo che aspiri alla politica (o politico
che aspiri alla filosofia). K
A cura della redazione.
La città antica: il porto, cortesia www.flickr.com.
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Platone uomo politico
Si pensa sempre al filosofo ateniese come a un intellettuale immerso nelle
sue elaborazioni teoriche, qui ne viene tracciato un profilo che mette in
evidenza anche e soprattutto l'aspetto pratico, offrendo un’immagine inedita
dello stesso: uomo di pensiero e uomo d’azione.
N
K Francesca
Spinella
Laureata in filosofia.
Collaboratrice di Diogene.
DIOGENE
N. 17 Dicembre 2009
ella Lettera VII, Platone racconta che, da giovane, aveva
pensato di dedicarsi alla vita
politica. Era infatti consuetudine nell’Atene del V e
del IV secolo a.C. che i giovani di origini aristocratiche si dedicassero alla
politica, un diritto che veniva loro
conferito dalla nobiltà di nascita e, al
tempo stesso, un dovere che erano
chiamati ad assolvere.
Egli annoverava, all’interno della genealogia famigliare, personaggi illustri
che avevano scritto la storia della città
di Atene: da parte di padre, Codro, l’ultimo leggendario re di Atene; da parte
di madre, Dropide, parente di Solone,
saggio legislatore, che nel VI sec a.C.
aveva attuato importanti riforme di
tipo economico e sociale per la città.
L’occasione per cimentarsi nella gestione degli affari pubblici avvenne in
un periodo difficile, al termine della
Guerra del Peloponneso, che aveva
visto contrapposti per quasi trent’anni,
dal 431 a.C. al 404 a.C., Atene e Sparta
in una lotta estenuante per il dominio
della Grecia.
Atene ne era uscita sconfitta e aveva
dovuto accettare le condizioni imposte
dai vincitori: la distruzione delle mura
di cinta della città e delle “lunghe mura”
che la univano al Pireo, e la costituzione
del governo oligarchico dei Trenta, sostenuto da Sparta stessa. Appartenevano a questa cerchia di governanti suo
zio Carmide e lo zio di sua madre, Crizia, che lo invitarono subito a unirsi a
loro. Egli non accettò perché si era accorto da subito che essi agivano in
modo violento, compiendo nefandezze
di ogni sorta: ad esempio, avevano cercato di coinvolgere Socrate nell’uccisione di un loro avversario politico, un
certo Leone di Salamina, ma invano
perché quello si era rifiutato preservando la propria integrità morale.
La morte di Socrate
Quando il regime dei Trenta fu rovesciato dai democratici nel 403 a.C., Platone riprovò a dedicarsi onestamente
alla vita politica, ma ancora una volta
non gli fu possibile, dato che questi ultimi si rivelarono peggiori dei loro predecessori: nel 399 a.C. si macchiarono
di un crimine orrendo, condannando a
morte Socrate, “l’uomo il più giusto tra
quelli del suo tempo”, accusandolo ingiustamente di empietà e di corruzione
dei giovani. La condanna del maestro fu
per Platone un evento drammatico che
lo segnò profondamente, determinando
in modo decisivo le sue riflessioni politiche e le sue scelte di vita.
Nel corso di quegli anni drammatici,
Platone aveva compreso che il malgoverno era il male peggiore che affliggeva la città: i governanti, infatti, invece
di mantenere in salute il corpo civico,
erano i diretti responsabili delle ingiustizie che si compivano al suo interno.
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L’unica soluzione possibile consisteva
allora nell’unione della filosofia e del
potere politico, ossia sarebbe stato possibile debellare il male che affliggeva la
città solo se i filosofi fossero saliti al potere o se, viceversa, i governanti si fossero fatti filosofi, perché la filosofia
avrebbe permesso di distinguere ciò che
era buono e giusto sia nella vita pubblica sia in quella privata. Platone sapeva che non era per niente facile che
avvenisse questa alleanza nella realtà, e
temeva che sarebbe solo una vana speranza difficilmente traducibile in pratica. Disgustato dalla politica della sua
città, rassegnato a non poter agire onestamente in patria, se ne allontanava e
rivolgeva lo sguardo verso altri orizzonti. Dopo la morte di Socrate si recò
a Megara presso Euclide, da lì si spostò
in Egitto a Cirene e poi si diresse in
Magna Grecia, prima a Taranto, dove
strinse amicizia col pitagorico Archita, e
poi in Sicilia, a Siracusa, dove, come vedremo, ebbe modo di entrare in contatto con la tirannide dionisiana.
La fondazione dell’Accademia
Al ritorno dal suo primo viaggio in Sicilia, tra il 387 e il 385 a.C., Platone
fondò ad Atene l’Accademia, una
scuola così denominata perché situata
presso il giardino dell’eroe Academo. In
questa sede era possibile discutere di
molteplici argomenti, da quelli filosofici a quelli etici e politici, e proprio qui
la maggior parte dei dialoghi del filosofo vennero presentati, sottoposti al
dibattito e revisionati criticamente.
Non c’era alcuna imposizione di un’ortodossia dottrinale da parte del maestro,
che risultava un primus inter pares piuttosto che un caposcuola. Così a ognuno
era consentito discutere, proporre le
proprie idee e mantenere la propria autonomia intellettuale.
Gli accademici si confrontavano, si
scambiavano riflessioni, praticando “il
discorso vivente” (evocato nel Fedro),
luogo della prolungata “vita in comune”
da cui sarebbe scaturita nelle loro
anime la vera filosofia. In questo contesto intellettuale, si svolgevano tutte le
conversazioni teoriche sulla città ideale.
Ma cosa facevano gli accademici a livello pratico per tradurre nella realtà il
loro progetto? Essi non perdevano mai
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di vista le circostanze politiche che, nel
mondo greco, risultassero propizie alla
realizzazione di una città giusta, aspettando il momento opportuno per agire.
In definitiva, dal punto di vista dell’impegno politico, l’istituzione della scuola
era per Platone un modo per racco-
“Nessuna città
e nessun uomo
sono felici
se non vivono
secondo saggezza
ispirata
da giustizia”.
Platone
gliere attorno a sé un gruppo di amici e
di compagni fidati con i quali potere
non solo pensare la rifondazione della
città secondo criteri di virtù e di giustizia, ma anche cercare di attuarla. La
tragica fine di Socrate, che aveva predicato indiscriminatamente e provocatoriamente verità e giustizia, gli aveva
insegnato che non si poteva entrare nell’agone politico senza una solida organizzazione alle spalle, altrimenti si era
destinati a soccombere.
Inoltre, egli aveva ancora impresso nella
mente il senso di solitudine provato da
giovane di fronte alla corruzione di
Atene, e anche la cocente delusione siracusana presso Dionisio I. Quindi era
meglio munirsi di alleati e di collaboratori di fiducia e agire su due fronti: formare un ceto di filosofi in grado di
governare saggiamente oppure intervenire presso governanti che già detenevano il potere.
Il filosofo-medico
L’esperienza siracusana, per quanto fallimentare, lo aveva fatto riflettere sul
rapporto che avrebbe dovuto intercorrere tra la classe degli intellettuali e il
potere. Il filosofo avrebbe dovuto rivestire il ruolo di consigliere del tiranno,
affiancandolo come una guida. Allo
stesso modo in cui il medico prescriveva una terapia efficace per tutelare la
salute dei suoi pazienti, egli avrebbe offerto i propri saggi consigli al sovrano
allo scopo di curare la sua anima e
quella dei suoi sudditi. Il medico ippocratico, che costituiva il modello a cui
si ispirava Platone, si premurava di impartire suggerimenti sulla condotta di
vita al fine di mantenere l’equilibrio
degli umori del corpo.
Così il filosofo-consigliere avrebbe dovuto preoccuparsi di offrire le sue lineeguida a colui che deteneva il potere,
affinché costui riuscisse ad armonizzare
tra di loro i vari aspetti del suo carattere, diventando in tal modo padrone di
se stesso. Il filosofo, come un buon medico, avrebbe somministrato la medicina dell’educazione all’allievo-tiranno,
il quale, da buon paziente, avrebbe dovuto accettare di seguire la terapia che
a quest’ultimo era stata prescritta. A
sua volta, egli si sarebbe trasformato in
medico di se stesso e della città che governava.
L’impresa all’atto pratico era in realtà
molto difficile: infatti, l’attitudine del
tiranno è di solito diametralmente opposta a quella del medico. Se quest’ultimo somministra purghe per purificare
il corpo del malato, il tiranno invece
pratica “purghe” nei confronti degli elementi migliori del corpo civico, che potrebbero criticarlo e cercare di limitare
le sue azioni, per circondarsi piuttosto
di individui mediocri, che lo adulino
costantemente.
Se era chiaro che l’impresa di “curare il
tiranno” era così difficile, perché allora
tentare?
Platone, quando, in più occasioni, si
recò a Siracusa, pur conscio delle difficoltà, si sentiva vincolato al suo dovere
di filosofo, che era quello di mostrare al
tiranno la via giusta da seguire. La posta
in gioco era alta: se costui si fosse persuaso a seguire quella via, “se filosofia e
potere si fossero riunite nella sua persona, a tutti gli uomini della terra, Greci
e barbari, sarebbe stata chiara questa
verità: che nessuna città e nessun uomo
sono felici, se non vivono secondo saggezza ispirata da giustizia, sia che le abbiano in sé come virtù, sia che le
abbiano apprese attraverso la giusta
educazione ricevuta da uomini retti”.
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Gli accademici e i tiranni
L’ipotesi di convertire alla filosofia i tiranni di Siracusa era sembrata a Platone
la via più rapida e veloce per l’instaurazione dall’alto di un buon governo nella
città siciliana: infatti, il tiranno aveva
un’autorità tale da potersi permettere
di modificare il regime politico senza
dover rendere conto a nessuno. Sarebbe
stato possibile un cambiamento radicale senza dover passare attraverso vie
più complesse, come quella del dibattito politico e della persuasione delle
masse, per le quali, come è noto, il filosofo ateniese provava il massimo disprezzo. L’impegno di Platone era
dunque essenzialmente rivolto all’educazione pacifica dei potenti, coerentemente con la convinzione, espressa
anche nella Lettera VII, che le parole
fossero le armi più potenti.
Al contrario, spesso e volentieri, i numerosi coinvolgimenti degli Accademici nelle tirannidi del IV sec. a.C.
ebbero dei risvolti violenti. Ad esempio
nel 359 Pitone ed Eraclide uccisero il
tiranno trace Cotys, nel 352 Chione e
Leone uccisero il tiranno di Eraclea,
Clearco. La stessa avventura siracusana
si tinse di tinte fosche quando nel 357
Dione mosse un’offensiva al nipote
Dionisio II appoggiato da buona parte
degli accademici.
Secondo Mario Vegetti si può parlare
di un vero e proprio furor tyrannicus
che caratterizzò l’attività dell’Accademia, in particolar modo durante gli ultimi anni di vita di Platone e negli anni
immediatamente successivi alla sua
morte (347 a.C.). Certo, il sospetto che
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gli accademici desiderassero abbattere i
tiranni per prendere il loro posto era
forte, tanto che essi furono spesso accusati di voler rovesciare le costituzioni
vigenti spinti dalle loro stesse aspirazioni tiranniche.
Dunque, da una parte si assisteva al dibattito dialettico interno alla scuola,
dall’altra al tentativo “di passare dalle
parole all’azione” al di fuori dell’Accademia, due aspetti che coesistevano.
Platone, nella Lettera VII, ci lascia di sé
il ritratto di un uomo di pensiero che
tuttavia non disdegnava l’azione: egli
elaborava accuratamente il suo disegno
teorico, ma non rimaneva però sordo al
richiamo dell’esperienza reale, nella
quale si immerse più volte, uscendone
sconfitto, ma mai piegato. K
La città antica: lo stadio, cortesia www.flickr.com.
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I viaggi di Platone
Platone cerca per ben tre volte di tradurre in pratica le sue teorie politiche sul
buon governo alla corte dei Dionisi di Siracusa, senza ottenere alcun
risultato. Nella Lettera VII si legge il resoconto delle vicissitudini da lui vissute
in nome del suo progetto: speranze e delusioni di un filosofo in azione.
K Francesca
Spinella
N
ella Lettera VII, Platone dice
di essersi recato per la prima
volta in Sicilia quando stava
elaborando il progetto di
unione della filosofia e del
potere politico. Aveva capito che “il
malgoverno era un male comune a
tutte le città” e che “le generazioni
umane non si sarebbero mai liberate dai
mali se prima non fossero giunti al potere i filosofi veri, oppure se i governanti non fossero diventati per sorte
divina dei veri filosofi”. In quegli anni
egli iniziò a comporre La repubblica e
istituì ad Atene l’Accademia, una
scuola in cui avrebbe potuto raccogliere attorno a sé amici e compagni fidati con cui rifondare la
città, rendendola sana e dotandola di un
governo basato sulla virtù.
Le riflessioni in merito alla possibilità
di esistenza di uno stato fondato sulla
giustizia e alle modalità con cui tale
progetto si sarebbe potuto realizzare
erano ben presenti nella mente del filosofo quando egli incontrò la tirannide
siracusana per la prima volta.
Secondo lo storico antico Diogene Laerzio avrebbe intrapreso il viaggio in
Italia meridionale principalmente per
entrare in contatto con i circoli
dei pitagorici di Taranto e
solo in seguito si sa-
La città antica: il mercato, cortesia www.flickr.com.
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rebbe spostato in Sicilia spinto dal desiderio di vedere l’Etna.
Il filosofo e il tiranno
Fu quando già si trovava in Sicilia che
Dionisio I lo invitò a Siracusa presso la
sua corte, poiché costui amava atteggiarsi a uomo di cultura e pensava che
ospitare un filosofo del calibro di Platone gli avrebbe dato lustro. L’incontro
tra i due fu quindi verosimilmente la
conseguenza di alcune circostanze casuali piuttosto che della deliberata intenzione del filosofo ateniese di recarsi
a Siracusa con il desiderio di sollecitare
un cambiamento nel governo politico
della città, che allora era considerata
una tirannide importante dal punto di
vista politico e culturale.
Platone non parla nella Lettera VII dell’incontro con Dionisio I, ma se ne
può trovare notizia nella Vita di Dione
di Plutarco. Secondo quanto narra lo
storico di Cheronea, l’argomento principale del dialogo fu la virtù. Mentre
Dionisio I affermava con convinzione
di essere un uomo felice, Platone sosteneva che i tiranni sono gli uomini
che in assoluto lo sono meno di tutti:
il filosofo, infatti, argomentò che la
vita degli uomini giusti è sempre felice, mentre, al contrario, quella degli
uomini ingiusti, come i tiranni, è sempre miserevole.
Dionisio interpretò i discorsi di Platone
come un atto di accusa nei propri confronti e si irritò a tal punto da vendere
il filosofo come schiavo, sostenendo
che tanto non ne avrebbe sofferto poiché avrebbe trovato conforto nella consapevolezza di essere un uomo giusto!
Una brutta esperienza per Platone, che
riuscì a riacquistare la libertà solo grazie all’intervento di alcuni suoi amici
che lo riscattarono al mercato degli
schiavi di Egina.
Quello che si verificò tra il filosofo e il
tiranno fu, più che un incontro, un vero
e proprio scontro, che lasciò il primo
deluso e il secondo irritato e pieno di
collera. Tuttavia, la conoscenza più significativa che Platone ebbe modo di
fare durate il suo primo soggiorno a Siracusa fu quella con il cognato del tiranno, Dione, che rappresentò l’inizio
di un’amicizia personale e, ancor più, di
un rapporto filosofico che avrebbe se-
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gnato il corso degli eventi.
Platone rimase colpito da Dione poiché, mentre i Siracusani passavano
tutto il tempo a banchettare, dedicandosi esclusivamente al soddisfacimento
dei loro desideri senza porsi nessun limite o freno, questi si distingueva per il
Forse Platone
si mise in viaggio
perché era stanco
di essere considerato
un parolaio,
un teorico incapace
di agire.
suo comportamento retto ed equilibrato. Egli divenne così l’unico vero interlocutore di Platone a Siracusa, il solo
disposto ad accogliere i suoi insegnamenti proponendosi come collaboratore e alleato nella realizzazione del suo
progetto filosofico-politico. Ma i tempi
non erano ancora maturi, bisognava
avere pazienza e attendere il momento
opportuno.
Dal trionfo alla fuga
Dione pensò che l’occasione propizia
per realizzare il progetto politico di Platone si presentasse dopo la morte di
Dionisio I, con la salita al potere del figlio, Dionisio II, il quale avrebbe potuto
essere più disponibile ad ascoltare i discorsi del filosofo.
Dione, come ricordato nella Lettera VII,
“ricordandosi dei loro incontri e di
come questi gli avessero suscitato il desiderio di una vita più bella e più nobile”, pensò che egli dovesse ritornare a
Siracusa per aiutarlo nell’impresa di
persuadere Dionisio II ad abbracciare
uno stile di vita virtuoso, prima che altri
consiglieri a corte lo inducessero a persistere nel vizio e nella corruzione. Bisognava afferrare l’opportunità in modo
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deciso e non tentennare, perché questa
volta si sarebbe potuto realizzare quello
che fino a quel momento era stato solo
una speranza: riunire nella stessa persona filosofia e potere!
Platone accettò subito l’invito di Dionisio II, persuaso dall’incoraggiamento
di Dione. Abbandonò i discorsi tenuti
nell’Accademia e scelse di passare alla
loro messa in pratica. Il filosofo precisa,
ancora nella Lettera VII, che i dibattiti,
nei quali era possibile analizzare la
questione da un punto di vista teorico,
non erano certo privi di nobiltà, anzi
erano di importanza fondamentale, tuttavia sarebbero rimasti sterili se egli
non avesse cercato di attuarli nella realtà. Anche perché egli ammetteva di
essere stanco di vergognarsi di se stesso
per il fatto di essere considerato un parolaio incapace di intraprendere
l’azione necessaria a tradurre in pratica
le sue teorie.
Giunto a Siracusa, a Platone fu riservata
un’accoglienza sfarzosa da parte del tiranno: fu atteso da una quadriga e si
compì un sacrificio per onorare il suo
arrivo, segno inequivocabile dell’importanza che gli veniva attribuita. Nonostante il benvenuto, appena giunse a
corte Platone si trovò coinvolto in una
situazione delicata: Dione si trovava in
pericolo perché era vittima delle calunnie dei suoi avversari politici. Il filosofo
cercò di difenderlo dalle accuse, ma il
suo intervento fu inutile. Pochi mesi
dopo, Dione fu accusato da Dionisio II
di cospirare contro la tirannide e venne
mandato in esilio.
Il filosofo fu allora costretto dal tiranno
a vivere relegato nell’Acropoli di Siracusa, senza possibilità di allontanarsi
dalla sua abitazione. Dionisio II da un
lato usava la forza per trattenerlo, dall’altro cercava di guadagnarsi la sua
amicizia, e tuttavia – ricorda Platone –
tralasciava di usare l’unico mezzo che
glielo avrebbe permesso: ascoltare le
sue dottrine, apprenderle e metterle in
pratica. Il tiranno non era invece disposto a un confronto sereno con Platone,
e non perdeva occasione per riaffermare la sua posizione di predominio.
Platone suggeriva a Dionisio II di circondarsi di amici fidati che fossero in
grado di condividere con lui una vita
virtuosa e che, soprattutto, lo aiutassero
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a perseverare nella sua (eventuale) decisione di essere “amico con se stesso”,
ossia di trovare un equilibrio interiore.
Dionisio II avrebbe allora potuto assaporare la felicità che poteva scaturire
esclusivamente da uno stile di vita virtuoso, che, d’altra parte, avrebbe avuto
una ricaduta a livello politico, in quanto
la nuova condizione di “salute” morale
del tiranno avrebbe reso possibile l’instaurarsi di un governo giusto nella
città.
Dionisio II, però, non era disposto a seguire gli insegnamenti di Platone. Aveva
esiliato Dione e rinchiuso Platone
nell’Acropoli, segnali evidenti di chiusura verso il filosofo. Alla fine, il filosofo
riuscì a sottrarsi al controllo del tiranno
e tornò deluso ad Atene.
Alla ricerca del vero filosofo
Appare quindi poco comprensibile la
scelta del filosofo ateniese di ritornare
nel 361 a.C. a Siracusa dopo che il
viaggio precedente era stato un totale
fallimento, in quanto Dionisio II non
si era rivelato poi così diverso dal
padre. Era davvero il caso che l’ormai
anziano filosofo affrontasse un’ulteriore traversata per raggiungerlo, dopo
che costui aveva già rifiutato una volta
i suoi insegnamenti?
Nella Lettera VII Platone afferma che
l’uomo saggio deve capire quando è
opportuno dispensare i propri consigli,
e se questi nota che quanto da lui detto
non è ben accetto, allora deve desistere
dal suo tentativo per difendere la propria incolumità e per investire meglio il
suo tempo con qualcuno che sia disposto ad ascoltarlo. Alla luce di ciò, Platone avrebbe dovuto abbandonare
Dionisio II al suo destino. Era invece
giunta voce da Siracusa che il tiranno
aveva dimostrato un rinnovato interesse per la filosofia e aveva manifestato l’intenzione di richiamarlo per
approfondire i suoi insegnamenti, e infatti gli inviò una lettera per invitarlo a
tornare da lui.
Bisognava valutare se fosse il caso di
considerare seriamente la convocazione
del tiranno oppure prenderla come un
ennesimo segnale della sua volubilità.
Platone era indeciso sul da farsi, ma ancora una volta Dione intervenne per
convincerlo a superare i dubbi che lo
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attanagliavano. Il tiranno aveva poi inserito una clausola nella sua lettera: se il
filosofo avesse accettato il suo invito a
tornare a Siracusa, Dionisio avrebbe
provveduto a riconsiderare la condanna
all’esilio di Dione. La lettera del tiranno
sembrava a Platone, più che un invito,
un ricatto in piena regola, che faceva
La filosofia
dev’essere dialogo,
non monologo:
nasce d’improvviso
nell’anima dopo
un lungo periodo
di discussioni
sull’argomento.
leva sull’affetto che da sempre provava
per il suo discepolo.
Platone partì comunque, perché in
fondo riteneva possibile che “un giovane intelligente, ascoltando nobili ed
elevati discorsi, si lasci sedurre dall’ideale di una vita nobile”, ed aveva
l’esigenza di verificare se realmente la
passione professata da Dionisio verso la
filosofia fosse sincera.
Platone afferma nella Lettera VII che
esiste un metodo infallibile per mettere
alla prova coloro che si accingono a intraprendere un percorso di indagine filosofica, per accertare in maniera
inequivocabile la loro reale predisposizione allo studio e per smascherare, in
caso contrario, la loro cattiva fede, una
prova ritenuta particolarmente adatta
“quando si ha a che fare con i tiranni”:
bisogna illustrare loro che cosa è veramente la ricerca filosofica e sottolineare
quanto impegno e quanta fatica essa
comporti.
Se colui che ascolta è degno di tale ricerca, riterrà che la strada indicata sia
la migliore e che bisogna subito cercare
di seguirla, non tollerando più di vivere
in modo diverso. Costui dimostrerà di
essere veramente filosofo se unirà i suoi
sforzi a quelli del maestro fino a
quando avrà acquisito capacità tali da
permettergli di proseguire da solo. Chi
è veramente filosofo allena infatti quotidianamente le sue capacità “di apprendere, di ricordare e di ragionare”.
Chi invece non è un vero filosofo giudicherà subito che l’impegno richiesto è
eccessivo per lui, e non si sentirà di affrontarlo poiché lo riterrà troppo difficile, e giustificherà la sua scelta dicendo
di non aver bisogno di insegnamenti ulteriori rispetto a quelli che già possiede.
Dionisio II ascoltò il discorso di Platone,
ma non colse l’ammonimento a meditare su quanto fosse impegnativo il
cammino filosofico, al contrario si preoccupò di ostentare la sua cultura:
scrisse addirittura un opuscolo filosofico contenente riflessioni platoniche
spacciate come proprie.
Platone commentò che Dionisio II
aveva scritto quell’opera spinto da
“un’ambizione indegna” al fine di ottenere una fama di intellettuale e di soddisfare la propria vanità personale.
Invece, secondo il filosofo ateniese, era
pericoloso che le sue idee fossero divulgate al pubblico in modo indiscriminato, senza un minimo controllo.
La filosofia, infatti, deve essere dialogo,
non monologo: “Nasce d’improvviso
nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune e poi si nutre di sé
medesima” e per questo non poteva essere fissata per sempre in un opuscolo
mediante la scrittura. Dionisio II non
aveva quindi capito nulla del suo pensiero!
Ancora una volta il progetto di Platone
a Siracusa si risolveva con un insuccesso: non era riuscito a convertire il tiranno alla filosofia e al tempo stesso
non era riuscito a risolvere i contrasti
presenti tra costui e Dione.
La permanenza di Platone a Siracusa
era quindi diventata sempre più problematica perché i rapporti col tiranno
si erano raffreddati. Platone, temendo
per la propria incolumità, lasciò allora
ancora una volta Siracusa. K
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Dione e i siracusani
Il più virtuoso dei siracusani fu esiliato da Dionisio, ma ritorno in città e prese
il potere. Filosofo o tiranno? Dione tra realtà e agiografia.
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n occasione della prima permanenza
a Siracusa, Platone ebbe modo di osservare che lo stile di vita adottato
dai cittadini era riprovevole tanto da
provocare in lui addirittura disgusto.
I siracusani dedicavano la maggior parte
del loro tempo al soddisfacimento sfrenato dei loro desideri più bassi. Durante il giorno – racconta Platone –
erano impegnati nei banchetti, dove
mangiavano e bevevano in maniera
smodata; e di notte non perdevano mai
l’occasione di appagare i loro impulsi
sessuali, tanto che non andavano mai a
dormire da soli, ma sempre “in compagnia di qualcuno”. La cosa più grave,
però, era che essi pensavano che il loro
modo di vivere fosse quello migliore
per essere felici. Erano convinti che
“mangiare, bere e dedicarsi all’amore”
fossero gli ingredienti indispensabili per
una vita appagante. Ma essi si ingannavano: la vera felicità, infatti, può essere
assicurata solo da una vita dedicata all’esercizio della virtù e non da un’esistenza sprecata nei vizi.
Secondo Platone, la degenerazione morale che investiva i cittadini di Siracusa
pregiudicava la possibilità di un equilibrio politico della città stessa, poiché,
se la principale occupazione di quelli rimaneva la soddisfazione dei loro desideri, non ci sarebbe stato il minimo
interesse a occuparsi degli affari della
vita pubblica, e infatti essi lasciavano
tutto il potere nella mani del tiranno.
Come scriveva nella Repubblica, l’assunzione di uno stile di vita sregolato
non incide solo sulla salute del corpo,
ma ha ripercussioni anche su quella del-
La città antica: i portici, cortesia www.flickr.com.
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l’anima: gozzovigliare tra le tavolate dei
banchetti provoca un vero e proprio ottundimento delle facoltà cognitive. Accade che l’anima rimanga inchiodata a
terra, obnubilata, capace di soddisfare
solo gli istinti più bassi, invece di avere
la possibilità di elevarsi verso la comprensione di concetti e discorsi più alti.
Come potevano i siracusani comprendere quanto aveva da dire Platone, se
erano costantemente impegnati a riempire il loro ventre e soddisfare i loro appetiti sessuali? E come avrebbe potuto
Dionisio I comprendere i discorsi platonici, proprio lui che era il responsabile di questa situazione di degenerazione dilagante, lui che traeva vantaggio dal tenere occupati i suoi sudditi nei
banchetti perché così poteva continuare a soggiogarli, lui che alimentava
la malattia della città intera?
La figura ideale di Dione
Mentre Dionisio I aveva fatto intendere
chiaramente che non era interessato a
sentire i discorsi di Platone né tantomeno ad approfondirli, il filosofo aveva
avuto la fortuna di incontrare una persona ben disposta ad ascoltare le sue
teorie sulla virtù e la giustizia: Dione,
cognato del tiranno.
Quando i due si incontrarono per la
prima volta, Dione era un ragazzo di
appena vent’anni, ma nonostante la sua
giovane età dimostrò fin da subito di essere dotato di numerose qualità. Agli
occhi di Platone, egli si rivelò animato
da una viva intelligenza e da una capacità di apprendimento notevole, tanto
che Platone affermò di non averne mai
riscontrata una simile in nessun altro
giovane. Inoltre Dione non si limitava
ad assorbire la lezione platonica a livello teorico, ma si impegnava a metterla in pratica nella vita quotidiana.
L’inaffidabilità e l’incostanza, che Platone considerava caratteristiche distintive dei giovani, non appartenevano a
Dione, che invece manifestò fin da subito di possedere un carattere deciso e
fermo.
La sua apertura al dialogo con il filosofo
ateniese non era il frutto di una curiosità passeggera, destinata a esaurirsi presto, bensì di una scelta compiuta nella
piena consapevolezza che, da quel momento in poi, sarebbe iniziato per lui
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un percorso di vita sicuramente migliore, molto diverso da quello corrotto
che invece dominava la città e che lentamente la stava portando alla rovina.
Dione era convinto che, grazie agli insegnamenti di Platone, avrebbe potuto
godere di una vita “più bella e più no-
Dione sarebbe
stato un ottimo
“cane da guardia”
per la città intera.
Non sarebbe stato
un tiranno,
che è come
un lupo per
il gregge.
bile”, diversa da quella “della gran parte
degli Italioti e dei Sicelioti”, che gli
avrebbe offerto la vera felicità e che lo
avrebbe salvato dalla degenerazione
morale che dilagava intorno a lui. L’incontro con Platone rappresentò il punto
di svolta della vita di Dione: infatti da
quel momento egli “si innamora della
virtù”, ponendola al di sopra di qualsiasi
altra cosa, soprattutto del piacere e
delle ricchezze, tanto graditi ai suoi
concittadini. Dione si estraniò dall’ambiente corrotto che lo circondava e
portò avanti con determinazione quella
che a giusto titolo può essere definita la
sua “conversione filosofica”. Dione
aveva dunque tutte le caratteristiche attribuite alla figura del filosofo-re nel
libro VI della Repubblica: buona memoria, intelligenza, coraggio e temperanza. Per questo egli era adatto a essere
il buon governante: si potrebbe dunque
pensare che Platone, pur non dicendolo
esplicitamente nella Lettera VII, suggerisca tra le righe che Dione era effettivamente la persona su cui sarebbe stato
il caso di investire le speranze circa la
nascita di un buon governo a Siracusa.
Utilizzando un’efficace metafora platonica, Dione sarebbe stato un ottimo
“cane da guardia” per la città intera,
ossia si sarebbe impegnato a difenderla
e a tutelarne la buona condizione di salute, differenziandosi così dal cattivo tiranno che era per i suoi concittadini ciò
che un lupo è per il gregge: una minaccia costante, che mette in pericolo la
loro vita per soddisfare la propria voracità. Il tiranno si riempie di “aliena follia”: istigato da cattivi consiglieri che lo
spingono a godere di una completa libertà, trasgredisce ogni regola, dedicandosi a una vita di dissipazione, di eccessi
e di ricerca del piacere. Dione invece
avrebbe, secondo Platone, fatto della
virtù la sua guida e si sarebbe assicurato
che il benessere della città venisse
prima di ogni altra cosa.
Il Dione reale
Nella Lettera VII, Dione viene presentato da Platone in chiave assolutamente
positiva. Platone sottolinea che il suo allievo aveva deciso di sconfiggere Dionisio II per realizzare un solo obiettivo:
“Fare tanto più bene, quanto più potere
avesse conquistato”. Se Dione si fosse
impadronito di Siracusa, non avrebbe
mai adottato una condotta simile a
quella del tiranno, ma si sarebbe preoccupato di fornire le migliori leggi possibili in grado di garantire la giustizia per
tutta la città. Ma il ritratto di Dione è
realmente aderente alla realtà?
Basta ripercorrere gli eventi accaduti
dopo l’ultimo fallimentare viaggio di
Platone in Sicilia per comprendere che
qualche dubbio sulla limpidezza e sull’integrità morale di Dione è legittimo.
Nel 360 a.C., il filosofo andò nel Peloponneso ed ebbe modo di incontrare a
Dione a Olimpia in occasione dello
svolgimento dei Giochi e gli raccontò
quello che era accaduto durante il suo
soggiorno presso il tiranno. Dione, allora, affermò che era ormai giunto il
momento di organizzare una spedizione armata contro Dionisio II per
vendicare i torti subiti. Platone non
aderì all’iniziativa, ma a essa presero
parte alcuni membri dell’Accademia.
Secondo quanto riporta Plutarco,
Dione e i suoi uomini arrivarono in Sicilia, al promontorio di Pachino, verso
la fine dell’agosto 357 a.C. e marciarono verso Siracusa, potendo contare
sull’appoggio di molte città, tra le quali
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Agrigento e Gela. In autunno Dione
entrò a Siracusa accolto dai cittadini
come un liberatore e fu nominato stratega autokrator. Dionisio II prima si rifugiò nella residenza fortificata
dell’acropoli, l’Ortigia, e poi riparò a
Locri. Dione restò al potere tre anni,
dal 357 al 354 a.C. Forse nelle intenzioni avrebbe davvero voluto restare
fedele agli insegnamenti platonici, ma
di fatto il suo comportamento fu da
vero e proprio tiranno. Innanzitutto, si
circondò di una guardia del corpo, proprio come era abitudine dei tiranni, si
rifiutò di demolire l’acropoli fortificata, impedì al popolo di abbattere la
tomba di Dionisio I e di gettarne via il
corpo, dimostrando di non avere l’in-
tenzione di recidere nettamente i rapporti con la dinastia dionisiana. Non si
fece poi scrupolo a permettere che
Eraclide, un suo strenuo oppositore,
venisse ucciso, acconsentendo tacitamente al gesto omicida.
Se, come dice Platone, Dione era così
saggio e “armato” di buone intenzioni,
perché finì ucciso proprio da quegli
stessi compagni che lo avevano accompagnato nella spedizione contro il tiranno? Dione infatti cadde a causa di
una congiura ordita dall’accademico
Callippo, che lo aveva appoggiato inizialmente nell’impresa. Non conosciamo il vero motivo per cui Dione sia
stato eliminato da uno dei suoi più fedeli seguaci, per di più anche lui allievo
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di Platone. Forse, più che un governante
illuminato dalla filosofia, alla fine si dimostrò semplicemente un uomo ambizioso che aspirava a sostituire la
tirannide di Dionisio con la propria.
La Lettera VII ci consegna un ritratto
di Dione fortemente edulcorato, e ciò
dipende dal carattere apologetico
della lettera stessa: cercando di giustificare il discepolo, offrendone un’immagine positiva, Platone intendeva
giustificare la validità delle proprie
idee politiche. O forse, più semplicemente, Platone, ingenuamente, aveva
davvero intravisto in lui un uomo di
valore morale e intellettuale, dotato di
qualità straordinarie. K
Platone e la Lettera VII
Busto di Platone, Museo archeologico di Atene.
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L’unica volta che parla di sé
Secondo la suddivisione del Corpus platonico elaborata da
Trasillo di Alessandria nel I secolo d.C., la Lettera VII fa parte
di una collezione di tredici lettere. Mentre tutte le altre lettere sono considerate apocrife, la critica più recente è propensa a considere la settima autentica, ritenendola una
testimonianza attendibile di come Platone, ormai anziano, riflettesse sulle esperienze politiche della sua vita. L’eccezionalità del documento consiste nel fatto che esso è l’unica sede
in cui Platone parla in prima persona di sé, mentre nei suoi
dialoghi non entra mai in scena. Solo in due circostanze il filosofo nomina se stesso: nell’Apologia inserisce il suo nome
nella lista che Socrate fa dei suoi discepoli e di coloro che
erano disposti a pagare le trenta mine di multa per risparmiargli la condanna capitale, e nel Fedone, quando fa l’elenco
degli amici che visitarono Socrate in cella prima della sua
morte, scrive “Platone, credo, era ammalato” per spiegare il
motivo della sua assenza in quel momento così drammatico.
In entrambi i casi, Platone vuole accostare il suo nome a
quello del maestro, dimostrandogli in questo modo la stima
e l’affetto che nutre per lui e riconoscendo il proprio debito
intellettuale nei suoi confronti. Le motivazioni che lo inducono a venire allo scoperto nella Lettera VII sono invece la
spia di un’attenta riflessione sul proprio operato alla corte siracusana dei Dionisi, attraverso il resoconto dei fatti a partire da quando le sue teorie politiche avevano iniziato a
prendere forma nel periodo della sua giovinezza ad Atene.
La Lettera VII, infatti, è un testo che non parla solo dei fatti
accaduti a Siracusa, ma più in generale dell’impegno di tutta
una vita, dedicata a esperire tutte le possibilità di realizzare
un modello di città giusta.
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Tiranni si nasce
Platone racconta nel “Mito di Er” i motivi per cui un uomo nasce tiranno e
descrive l’orribile destino che attende nell’aldilà il peggiore dei tipi umani.
C
K Alessandro
Peroni
Redattore di Diogene.
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hi è il tiranno? Platone ce ne
dà la descrizione precisa nel
libro IX della Repubblica: è
un tipo d’uomo mosso da
appetiti eccessivi contrari a
ogni legge. Questi “insorgono in
ognuno, ma, tenuti a freno dalle leggi e
dagli appetiti migliori dettati dalla ragione, in certe persone svaniscono completamente o rimangono pochi e
deboli”. In altre invece, come nei tiranni, “crescono vigorosi e numerosi”:
costoro “si risvegliano durante il sonno,
quando la parte dell’anima razionale e
calma (che normalmente governa l’altra parte) dorme, mentre l’elemento ferino e selvaggio, pieno di cibi e di
ebbrezza, si libera da ogni freno, respinge via il sonno e cerca di muoversi
e sfogare i suoi istinti. Egli non prova il
minimo scrupolo nel tentare, nell’immaginazione, l’unione sessuale con la
madre [il riferimento ovviamente è a
Edipo] o con qualunque altra creatura
umana o divina o bestia, di macchiarsi
di qualsiasi delitto, di non astenersi da
alimento alcuno. In una parola, non v’è
follia né spudoratezza che gli manchi”.
Platone parla qui di quello che possiamo definire, con una fortunata
espressione moderna, “sonno della ragione”, che nel linguaggio platonico
corrisponde all’assopimento della parte
razionale dell’anima. Quando questo
prende il sopravvento, l’uomo di natura
tirannica è finalmente libero di sfogare
i suoi impulsi più bassi, assecondando
la sua natura bestiale. Ciò che rende un
uomo un tiranno è senz’altro un percorso educativo errato, che l’ha condotto lontano dal retto sentiero della
filosofia. Ma ciò non basta: in realtà, ci
narra Platone, la scelta di essere un tiranno avviene ancor prima della nascita,
mentre l’anima, tra un’incarnazione e
l’altra, dimora nell’oltretomba, in particolare quando, poco prima di ritornare
in vita, essa sceglie liberamente la propria sorte. Troviamo la narrazione di ciò
nel “Mito di Er”, nel libro X della Repubblica: una delle più grandiose rappresentazioni dell’aldilà della tradizione
occidentale.
Racconti dall’oltretomba
Er è un giovane che muore in battaglia.
Dopo dodici giorni, mentre la sua salma
sta per essere arsa sulla pira, egli ritorna
in vita e racconta del suo straordinario
viaggio nell’oltretomba, dal quale gli è
stato consentito di ritornare affinché
parli agli uomini di ciò che ha visto. Er
narra che, dopo la morte, le anime si
presentano ai giudici dell’aldilà in un
luogo meraviglioso dove vi sono quattro voragini: due aperte verso il cielo e
due verso le profondità della terra.
Dopo avere ricevuto la sentenza per le
azioni compiute durante la loro vita, le
anime entrano o nella voragine per la
quale si va al cielo o in quella che porta
al sottosuolo. Le altre due voragini costituiscono le uscite del cielo e della
terra, poiché, dopo avere vagato a
lungo, le anime ritornano al punto di
partenza per reincarnarsi. Er si sofferma
a osservare le anime reduci da queste
peregrinazioni ultraterrene, “sozze e
polverose quelle che risalivano dalla
terra” e “monde, quelle che scendevano
dal cielo”. Esse “si scambiavano i racconti, le prime gemendo e piangendo
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La scelta del destino
Eppure, nonostante la consapevolezza
dell’orrendo destino, ben presto molte
di quelle anime avrebbero ben presto
scelto di reincarnarsi come tiranni. Infatti, al termine dei loro giri celesti o
sotterranei, Er osserva che le anime raggiungono una valle dove vi sono le tre
parche: lì viene data loro la possibilità
di scegliere il proprio destino della vita
futura. Un araldo le istruisce in proposito: “Anime dall’effimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro
periodo di generazione mortale, preludio a nuova morte. Non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a
scegliervi il vostro demone. La virtù
non ha padrone: a seconda che la si
onori o la si spregi, ciascuno ne avrà più
o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile”.
Al momento della scelta, infatti, ogni
anima è totalmente libera. Vi sono destini di animali, di uomini e di donne.
Queste vite possono essere di individui
celebri, eroi, atleti, nobili, filosofi oppure di persone totalmente normali. Un
destino, questo, tutt’altro che sprege-
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A. Lorenzetti, Il Tiranno, Allegoria del cattivo governo.
perché ricordavano tutti i vari patimenti che avevano subito nel loro cammino sotterraneo (un cammino
millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di
straordinaria bellezza”.
Da questi racconti, Er apprende che chi
aveva vissuto rettamente era stato premiato dalle visioni celesti, mentre chi si
era macchiato in vita di gravi colpe le
aveva scontate decuplicate nel sottosuolo. Inoltre, Er scopre con orrore che
coloro che avevano vissuto vite dissolute al massimo grado, ossia i tiranni,
erano stati puniti con il maggiore dei
supplizi: dopo avere scontato le pene
sotterranee con gli altri, giunti in vista
dell’uscita agognata, avevano iniziato a
credere che le loro sofferenze avrebbero presto avuto termine e che sarebbe stato loro concesso di incarnarsi
di nuovo. Invece la loro speranza era
presto stata frustrata: giunti in prossimità dell’uscita, costoro erano stati afferrati da demoni infuocati, torturati
orrendamente e gettati nel Tartaro per
l’eternità. Questa è la terribile punizione riservata ai tiranni!
L’immagine del tiranno
Quando Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) dipinse i cicli di affreschi del buono
e cattivo governo nel Palazzo pubblico di Siena, Platone era un autore ancora poco
conosciuto nell’Occidente latino, in quanto fu riscoperto dagli Umanisti solo diversi decenni dopo. Eppure, la raffigurazione del tiranno che si trova nell’Allegoria del cattivo governo ricorda notevolmente la descrizione che si trova nella
Repubblica, segno forse che alcuni elementi della tradizione platonica non erano
andati perduti nel corso dei secoli. Il tiranno, simile a una belva, siede in trono,
con le zanne e le corna. Sopra di lui, la Superbia e ai lati l’Avarizia e la Vanagloria. La Giustizia, che nell’Allegoria del buon governo siede in trono, qui invece è significativamente collocata sotto di lui in catene.
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vole visto che l’anima dell’ingegnoso
Ulisse, come Er ha modo di notare, sceglie proprio di reincarnarsi in un uomo
comune. Er assiste quindi al rito dell’assegnazione dei destini: “Colui che
aveva avuto la possibilità di scegliere
per primo si era subito avanzato e aveva
deciso senza esitazione per la peggiore
tirannide. A questo era stato spinto dall’insensatezza e dall’ingordigia, senza
averne valutato tutte le conseguenze e
così non si era accorto che il fato racchiuso in quella decisione gli riservava
la sorte di divorarsi i figli e altri mali.
Quando, poco dopo, l’aveva esaminata a
suo agio, si percoteva e si lamentava di
ciò che aveva fatto senza tenere presenti le avvertenze dell’araldo divino.
Non incolpava se stesso dei mali, ma la
sorte e i demoni: tutto insomma tranne
sé. Egli apparteneva al gruppo che veniva dal cielo, e nella vita precedente
aveva vissuto in un regime ben ordinato, ma aveva acquisito la virtù per
abitudine, senza filosofia.
E per quanto se ne poteva dire, tra co-
loro che compivano simili imprudenze, la maggior parte era tra coloro
che venivano dal cielo, e questo proprio perché non avevano esperito sofferenze. Invece, coloro che venivano
dalla terra, per lo più non compivano
la loro scelta a precipizio, poiché avevano sofferto essi stessi e veduto altri
soffrire. Anche per questo, la maggior
parte delle anime permutava mali con
beni e beni con mali”.
Scambiare beni con mali
Er nota dunque che ciò che determina
la saggezza della scelta non è tanto
l’avere contemplato le cose divine,
bensì l’avere sofferto le pene del mondo
sotterraneo. Così, chi è stato sommamente beato spesso sceglie avidamente
di diventare un tiranno. Ma qual è la ricetta per non prendere questa decisione
abnorme? Platone fa notare che solo la
pratica della “sana filosofia” consente
“non solo di essere felice in questo
mondo, ma anche di compiere il viaggio da qui a lì e da lì a qui non per una
strada sotterranea e aspra, ma liscia e
celeste”. Chi ha percorso la via del cielo
senza avere praticato la filosofia, prende
infatti la decisione peggiore, ossia quella
di farsi tiranno. Chi invece ha praticato
in vita la “sana filosofia”, ne conserva il
ricordo anche nell’aldilà e non farà
scelte avventate, tanto che, in un altro
grandioso mito, quello della “biga alata”
del Fedro, Platone racconta che le
anime dei filosofi sono quelle che, attraverso la pratica della filosofia e dell’amore filosofico, potranno addirittura
guadagnarsi il premio di uscire dal ciclo
delle reincarnazioni e andare a dimorare in eterno presso gli dei.
Il mito di Er si conclude con un’ultima
immagine grandiosa: dopo aver compiuto la loro scelta, le anime si recano
alla pianura del Lete, bevono l’acqua
del fiume Analete che fa loro scordare il
passato. Allora, all’improvviso, le anime
iniziano a salire, lasciandosi dietro una
scia di fuoco: stanno per incarnarsi nuovamente, ciascuna con il proprio destino già segnato. K
La città antica: la piazza, cortesia www.flickr.com.
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Il tiranno è felice?
La massa crede che il despota sia il più felice tra gli uomini, ma si inganna.
Platone, testimone oculare della “vita tirannica” alla corte dei Dionisi di
Siracusa, può svelare la verità circa la loro condizione, che è del tutto
miserevole.
N
K Silvia
Gastaldi
È docente ordinario di Storia della Filosofia Antica presso l’Università di
Pavia.
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ella Repubblica, la descrizione
del tiranno conclude la rassegna dei “tipi di uomo peggiori”, di quei tipi di
individui che sempre di più
si allontanano dal canone positivo rappresentato “dall’uomo simile all’aristocrazia”, il filosofo-re, il governante
buono e giusto. Così, il tiranno è
l’uomo più malvagio e, come tale,
anche il più sventurato e il più infelice.
“Non è questa però l’opinione dei
molti”, i quali, pur riconoscendone la
malvagità, rimangono affascinati dallo
straordinario potere di cui egli dispone:
se da un lato lo esecrano, al tempo
stesso lo invidiano perché è dotato
della prerogativa, estranea all’uomo comune, di fare tutto ciò che vuole.
Ecco qui delinearsi l’ombra del sofista
Trasimaco, il quale, proprio all’inizio
della Repubblica, individua nel tiranno
colui che, compiendo la perfetta ingiustizia, accede alla massima felicità.
Questi, anziché essere bollato con appellativi vergognosi, è infatti chiamato
“felice e beato non solo dai cittadini, ma
anche da tutti quanti apprendono che
egli è giunto al culmine dell’ingiustizia”. Affermazioni analoghe si leggono
nel Gorgia, per bocca di Polo, il quale
parimenti sostiene che molti, pur commettendo ingiustizia, sono felici, e adduce come testimonianza la vicenda di
cui è stato protagonista il tiranno Archelao di Macedonia. Costui aveva conquistato il trono eliminando con una
catena di efferati delitti tutti i legittimi
eredi e, avendo raggiunto il sommo potere, aveva conseguito la felicità.
Alle obbiezioni di Socrate, che sottolinea l’inconciliabilità tra ingiustizia e felicità e avanza la tesi, centrale in tutto il
dialogo, secondo cui è meglio subire in-
giustizia che commetterla, il giovane discepolo di Gorgia risponde in maniera
sprezzantemente ironica: “Socrate, cerchi proprio di dire cose assurde”.
Ma da dove proviene la convinzione
dell’uomo comune secondo cui il tiranno è sommamente felice? Essa affonda le sue radici nell’impressione
suscitata dallo spettacolo del potere: la
città diviene un vero e proprio palcoscenico su cui questo personaggio si esibisce offrendo agli spettatori una
visione che li sconvolge, tanto da provocare in loro un sentimento di meraviglia misto a timore. L’ampiezza del
potere dei tiranni trova, secondo Platone, una manifestazione visibile: la “visione della pompa che mettono in
scena a uso del loro pubblico”, accuratamente organizzata, è tale da suscitare
ammirazione, ma anche paura.
La verità disvelata
Questo apparato spettacolare fa presa
su chi si limita a considerare le apparenze, e non a caso costui è paragonato
a un bambino. Un simile atteggiamento
di ostentazione ha ben altro effetto su
quanti, anziché limitarsi a osservare i
fatti esteriori, utilizzano la ragione: grazie a essa è possibile passare dall’apparenza alla realtà, dallo “spettacolo” alla
vita reale. La suggestione della rappresentazione non regge all’esercizio della
facoltà razionale, che coglie e svela la
vera condizione vissuta dal tiranno. Esiste qualcuno che sarebbe in grado di
compiere al meglio questo esercizio di
disvelamento e di darne conto: colui
che “ha vissuto nella casa del tiranno”.
Socrate propone pertanto ai suoi interlocutori, Glaucone e Adimanto, un
esperimento intellettuale: assumere
l’identità di chi è stato testimone ocu69
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lare della vita del tiranno, avendo vissuto per un certo periodo con lui.
Se nel dialogo i due interlocutori fingono di interpretare questo ruolo, Platone lo ha svolto in prima persona nella
realtà, e così il quadro offerto da Socrate riflette i risultati emersi da un’osservazione reale, compiuta da lui stesso
sul campo, alla corte dei Dionisi di Siracusa. L’esperienza reale è occultata
dallo schermo della finzione, ma dietro
a questa si individua facilmente la vicenda personale vissuta da Platone: è lui
il testimone, la fonte da cui attingere le
notizie veramente attendibili circa il
comportamento del tiranno, sia nella
vita domestica sia nelle circostanze
della vita pubblica.
In particolare è l’osservazione condotta
nella sfera privata a far emergere i risultati più autentici, poiché di fronte ai
familiari e ai più stretti collaboratori il
tiranno si mostra “denudato delle vesti
della scena tragica”, privo di quella maschera con cui si presenta sul palcoscenico della città, rivelando la sua reale
condizione di misera infelicità.
Il tiranno e il saggio
Si possono rintracciare riferimenti precisi relativi agli incontri tra Platone e
Dionisio I in due fonti concordi nel sottolineare il contrasto netto tra le rispettive posizioni (cosa che non è possibile
fare nella Lettera VII, che ne omette del
tutto il resoconto). Nella Vita di Dione,
Plutarco narra di un incontro tra i due
in cui gli argomenti centrali furono la
virtù e il coraggio: Platone asserì che
non esistono uomini meno coraggiosi
dei tiranni, e aggiungendo poi alcune
considerazioni sulla giustizia affermò
che i giusti godono di una vita beata,
mentre agli ingiusti è riservata una vita
sventurata. Dionisio, sentendosi criti-
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cato, si adirò con Platone, soprattutto
perché notò che i presenti erano ammaliati dai suoi discorsi.
Gli domandò allora con quali intenzioni fosse giunto a Siracusa e il filosofo
gli rispose di essere venuto a cercare un
uomo virtuoso. Al che egli ribatté ironicamente: “Per gli dei, è chiaro che non
hai ancora trovato un uomo siffatto”.
Dionisio, infastidito e irato, lo imbarcò
sulla trireme del generale spartano Pollide, ordinando a costui di far morire il
filosofo durante la traversata oppure di
venderlo come schiavo: certamente Platone non ne avrebbe ricavato alcun
danno, e anzi, essendo giusto, avrebbe
conservato inalterata la sua felicità
anche nella condizione servile.
La divergenza insanabile tra i due è sottolineata pure da Diogene Laerzio, che
ugualmente riferisce delle loro conversazioni, nelle quali il tema principalmente discusso fu la tirannide.
Per Platone, solo chi è superiore anche
per virtù è abilitato a esercitare il potere assoluto, affermazione che riempì
di astio il tiranno, tanto che costui disse:
“I tuoi discorsi sanno di rimbambimento senile”. Ma si sentì ribattere: “Ma
i tuoi sanno di tirannide”. La condotta
malvagia di Dionisio si era così rivelata
a Platone nella sua effettiva realtà: il tiranno era schiavo di se stesso, così come
non gli era sfuggita la condizione di assoluta sudditanza della città da lui governata.
Miseria e schiavitù
Se in riferimento ai cittadini risulta
chiaro che il potere assoluto impedisce
qualsiasi libertà di iniziativa, non è altrettanto evidente, per l’uomo comune
abituato a cogliere solo le apparenze,
che il tiranno non possa agire a proprio
piacimento. Il fatto è che l’anima del ti-
ranno è “colma di schiavitù e di illibertà”, in quanto totalmente sottomessa a desideri irrazionali perversi.
Accade che la corretta gerarchia tra le
parti dell’anima, per cui l’elemento razionale dovrebbe governare sulle spinte
desiderative, indirizzandole verso i
comportamenti virtuosi, risulti del
tutto sconvolta: la parte desiderante
prende il sopravvento e condiziona
l’anima nella sua totalità, sottraendo
completamente alla ragione la capacità
di orientarsi verso il vero bene.
Risulta così che l’anima è “povera e insaziabile” perché la dinamica psichica
orientata dal piacere è sempre protesa
verso qualcosa di cui si sente mancante,
verso cui si indirizza in modo spasmodico, avvertendo la mancanza come un
acuto dolore.
L’aspirazione al riempimento di questo
vuoto, peraltro, non ha mai fine, perché
si prospettano sempre nuove mete da
raggiungere, ed ecco l’insaziabilità. Se il
tiranno è insaziabile, la città dominata
da lui è necessariamente povera, ridotta
in miseria, poiché costui si impadronisce delle ricchezze dei cittadini. La sofferenza diffusa nella città da lui
dominata è ugualmente presente nella
sua anima che rimane sempre insaziata:
la gratificazione che si attende dai piaceri, infatti, non è mai placata, dal momento che il pungiglione della
bramosia si conficca profondamente
nell’anima e la assilla continuamente,
abbattendo ogni forma di moderazione.
In definitiva, l’assoluta libertà di cui il
tiranno gode, e che è motivo dell’invidia dei molti, si rivela come la peggiore
delle schiavitù. Solo l’armonia interiore,
esito del dominio della razionalità sugli
appetiti e quindi della parte divina dell’anima su quella bestiale, è la condizione ineludibile per la felicità. K
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