CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
PRESSO IL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
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RASSEGNA STAMPA
31 marzo 2008
Titoli dei quotidiani
Avvocati
Italia Oggi
Assegni bancari in rottamazione
Italia Oggi
Imposta di bollo sui titoli in forma libera
Italia Oggi
Pagamenti, banconote addio
Italia Oggi
Libretti al portatore in regola
Il Messaggero Assegni, da Aprile cambia tutto. I “non trasferibili diventano la regola
Professioni
Il Sole 24 Ore
No ai revisori senza albo per ristrutturare i debiti
Italia Oggi
Pari opportunità solo sulla carta
Italia Oggi
Il giusto ruolo per i professionisti
Italia Oggi
Riconoscimento, è legittimo
Elezioni
Italia Oggi
I candidati rispondono alle professioni
Corriere della Sera L’azione penale? Oggi obbligatoria, domani chissà
Studi di settore
Italia Oggi
Italia Oggi
Studi, la territorialità al debutto
Normalità economica in nota aggiuntiva
Consiglio Nazionale Forense
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Fisco
Italia Oggi
Italia Oggi
La Repubblica
Ritenute, certificazione esclusa
Ritenute non fatte e non versate: sanzione raddoppiata
Fisco-lumaca, 5 anni per chiudere una lite
Europa
Italia Oggi
Ue, il futuro sono le qualifiche
GIURISPRUDENZA
Il Sole 24 Ore
Parcella dell’avvocato al sicuro dal fallimento
Il Sole 24 Ore
Immobili in comodato, occhio alle clausole
Il Sole 24 Ore
La multa va annullata se il vigile è fuori servizio
Italia Oggi
Rito societario senza connessione
Italia Oggi
Niente «ex Cirielli» in appello
La Repubblica Cani, l’ordine della Cassazione: “I padroni li facciano abbaiare poco”
Consiglio Nazionale Forense
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Avvocati
Antiriciclaggio
R.La, Il Messaggero (29/03/08) pag. 20
Assegni, da Aprile cambia tutto. I “non trasferibili diventano la regola
Assegni, dal 30 aprile cambia tutto. Gli assegni «non trasferibili» diventano la regola, e gli
altri, quelli liberi, con la girata, saranno penalizzati da un’imposta di bollo di 1,5 euro
ciascuno, che la banca verserà all’erario. Scende anche l'importo massimo consentito per i
pagamenti in contante, e arrivano nuovi limiti per i libretti di risparmio e i titoli al portatore.
L’obiettivo è chiaro, rendere più difficili quei pagamenti in nero che alimentano l’evasione
fiscale. La ”fase due” delle norme antiriciclaggio è finalizzata appunto per far emergere e a
rendere trasparenti le transazioni in denaro. Le banche rilasceranno solo carnet di assegni
«non trasferibili». Chi vorrà continuare ad utilizzare assegni in forma libera dovrà farne una
richiesta scritta alla propria banca e pagare l'imposta di bollo. Che ne sarà dei vecchi
carnet di assegni? Chi vorrà utilizzarli anche dopo il 30 aprile dovrà scrivervi «non
trasferibile». Altrimenti dovrà pagare il bollo e l’importo non potrà superare i 4.999 euro. E
in questo caso, occhio alle girate! Accanto la nome ci dovrà essere il codice fiscale di chi
le affettua, altrimenti l'assegno non potrà essere incassato. Anche per i libretti al portatore
la soglia fissata dalle nuove disposizioni non deve superare i 5.000 euro. Chi ne ha con
saldi superiori dovrà prelevare l’eccedenza. Ma per questa operazione c’è tempo fino al 30
giugno dell’anno prossimo. Dopodiché scatteranno le multe. E sono salate, perchè si va
incontro a sanzioni che possono arrivare fino al 40% della somma depositata.
E’ punito anche un uso non corretto degli assegni. La mancata indicazione della clausola
«non trasferibile» per assegni con importi pari o superiori a 5.000 euro comporta sanzioni
amministrative che possono arrivare al 40% del totale dell'importo trasferito.
Le novità che stanno per entrare in vigore sul’assegno sono state illustrate ieri all’Abi dal
direttore generale dell’associazione delle banche. «L'assegno è uno strumento di
pagamento che non va demonizzato, ma va modernizzato e cioè reso più sicuro e più
trasparente in linea con quello che accade nel resto d'Europa», ha detto Giuseppe Zadra.
L’associazione ha messo a punto una guida sugli assegni, un opuscolo informativo che i
clienti potranno ritirare agli sportelli delle loro banche. Con le nuove norme gli assegni
«saranno blindati, quindi più sicuri e trasparenti a vantaggio delle categorie più esposte
alle truffe». Le novità che scattano tra un mese non si limitano solo all’impedire il
passaggio degli assegni di mano in mano. La rivoluzione riguarda anche il trasferimento di
contante, dei libretti di deposito e i titoli al portatore. Nessun pagamento sopra i 5 mila
euro potrà più essere effettuato in contante (il limite massimo prima era di 12 mila 500
euro). E sarà vietato spostare libretti di deposito bancari e postali tra persone diverse
quando il valore dell’operazione supera i 5 mila euro.
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Luciano De Angelis,Italia Oggi pag. 6
Assegni bancari in rottamazione
Pagare a mezzo assegni bancari e postali dal 30 aprile risulterà complicato, poco
conveniente e anche un po' rischioso. L'art. 49 del dlgs 231/07 ha introdotto infatti una
serie di disposizioni finalizzate a disincentivare l'utilizzo dell'assegno quale strumento di
pagamento. L'impossibilità di girare assegni per importi da 5 mila euro in su, l'obbligo di
inserire nella girata il codice fiscale del girante, l'introduzione dell'imposta di bollo su ogni
modulo di titoli liberi e la possibilità per l'amministrazione finanziaria di chiedere i
nominativi degli utilizzatori sembrano circostanze orientate verso una direzione univoca. .
Intrasferibilità: A partire dal 30 aprile, i moduli di assegni bancari e postali, pari o
superiori a 5 mila euro, saranno rilasciati dalle banche (e da Poste italiane spa) muniti
della clausola di non trasferibilità. La clausola impedisce la girata dell'assegno e rende lo
stesso un titolo nominativo, consentendone l'incasso al solo beneficiario. Detta clausola
(se ovviamente l'assegno viene emesso in forma libera) può essere apposta anche dopo
una o più girate. La carenza di tale dizione, non inserita dal traente, e la relativa
utilizzazione da parte del beneficiario, fermo restando l'efficacia del titolo, concretizza
illeciti amministrativi e l'insorgenza di responsabilità per entrambi. Va ricordato che la
banca negoziatrice di un assegno non trasferibile che effettua il pagamento a persona
diversa dal beneficiario si assume il rischio (rilevante sul piano della responsabilità
patrimoniale) di un' eventuale contestazione del pagamento da parte dell'effettivo
prenditore. Il limite per gli assegni emessi prima del 30/4: Ai sensi del comma 5 dell'art.
49 «gli assegni bancari e postali emessi per importi pari o superiori a 5 mila euro devono
recare l'indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e la clausola di non
trasferibilità». Il nome o la ragione sociale del beneficiario non costituiscono elementi
essenziali ai fini della validità dell'assegno. Ai sensi dell'art. 5 della «legge assegno»,
l'assegno bancario senza indicazione del prenditore vale come assegno bancario al
portatore. Dal 30 aprile l'emissione di assegni bancari in forma libera sarà ammessa solo
per importi inferiori ai 5 mila euro. Per questi titoli vale il divieto di trasferimento, senza il
tramite di intermediario abilitato, quando l'importo da trasferire sia complessivamente pari
o superiore ai 5 mila euro. Ma l'aspetto più interessante riguarda gli assegni emessi
anteriormente al 30 aprile in forma libera e incassati a partire da tale data. Tali titoli,
emessi per importi pari o superori a 5 mila euro e nei limiti dei 12.500, saranno di fatto, in
tutto e per tutto regolari, e dunque non assoggettati ad alcuna sanzione anche se incassati
a decorrere da tale data. I limiti per gli assegni emessi a partire dal 30/4: Gli assegni
bancari emessi dal 30 aprile (recanti una data di emissione coincidente o successiva
rispetto a tale giorno) per importi pari superiori ai 5 mila euro privi del nome o della ragione
sociale del beneficiario e/o della clausola di intrasferibilità, saranno pagati da banche o
Poste italiane spa, ma gli intermediari saranno chiamati a comunicare tali irregolarità al
mineconomia. In relazione a tale comunicazione il traente (ma anche il beneficiario, giranti,
giratari e portatore finale) saranno assoggettati a una sanzione dall'1 al 40% dell'importo
dell'assegno (art. 58, comma 1 dlgs 231). L'art. 60, comma 2, dlgs 231 dà la possibilità di
avvalersi dell'oblazione (art. 16 legge 689/81) consentendo quindi al soggetto adito di
pagare il 2% dell'importo trasferito entro il 60° giorno dal ricevimento dalla contestazione
dell'illecito. A condizione che non ci si sia avvalsi della oblazione per altra violazione
dell'art. 49 (commi 1, 5, e 7) nei 365 giorni precedenti la ricezione della contestazione e
che l'importo trasferito non ecceda i 250 mila euro. Assegni presso le banche e in
possesso della clientela: I carnet giacenti presso gli istituti di credito potranno essere
utilizzati successivamente al 29/4 depennando l'indicazione dei 12.500 euro nonché la
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clausola di non trasferibilità. Nessun problema neppure per i carnet già in possesso degli
utenti che potranno continuare a essere utilizzati come assegni liberamente trasferibili per
importi inferiori ai 5 mila euro e mediante «l'apposizione a mano» della clausola di
intrasferibilità e dell'indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario per
importi pari o superiori a 5 mila euro. Assegni emessi all'ordine del traente: Gli assegni
bancari o postali emessi all'ordine del traente (con intestazione a me medesimo o a me
stesso o dizione equivalente) potranno essere girati unicamente dal traente stesso per
l'incasso a una banca o a Poste italiane spA, senza quindi possibilità di ulteriore
circolazione a mezzo girata. Tali assegni potranno essere emessi anche per importi pari o
eccedenti i 5 mila euro. Non è richiesto il codice fiscale del traente che gira per l'incasso il
titolo. Detti assegni non sono sottoposti alla disciplina degli assegni liberi per cui nel caso
in cui venissero erroneamente girati: a) le banche dovranno pagare il titolo nel caso di
girate correttamente apposte; b) il traente (e i giratari) a seguito della segnalazione al Mef
saranno assoggettati alle sanzioni ex art. 58, comma 1 (dall'1 al 40% dell'importo
trasferito).
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Luciano De Angelis,Italia Oggi pag. 6
Imposta di bollo sui titoli in forma libera
Ai sensi dell'art. 49, comma 10, è ammessa per il cliente la possibilità di richiedere per
iscritto il rilascio di moduli di assegni bancari e postali in forma libera (cioè senza la
clausola di non trasferibilità in modo che il titolo possa essere girato anche
successivamente alla prima emissione) ma in questi casi per scoraggiare il ricorso ad
assegni liberi è stata introdotta, a titolo di imposta di bollo, la somma di euro 1,50 per ogni
assegno libero rilasciato. A riguardo, la circolare del 20 marzo evidenzia che: a) i moduli di
assegni consegnati alla clientela entro il 29 aprile ed utilizzati successivamente (secondo
le nuove regole) non saranno assoggettati all'imposta di bollo; b) i moduli consegnati a
partire dal 30 aprile, sconteranno invece l'anzidetta imposta pari a 1,5 euro per modulo.
L'obbligo del codice fiscale: Di estremo rilievo appare poi, la previsione di cui al comma
10 dell'art. 49 che, allo scopo di meglio identificare ciascun girante, impone, si badi a pena
di nullità della operazione di girata e, dunque, con conseguente impossibilità di incassare il
titolo, l'inserimento del codice fiscale del girante medesimo. Da ciò consegue che non
potranno più utilizzare l'istituto della girata i soggetti sprovvisti di codice fiscale (es. non
residenti). Tale indicazione è necessaria anche nel caso in cui venissero utilizzati moduli
rilasciati anteriormente al 30 aprile. La circolare Mef del 20 marzo evidenzia come la girata
sia considerata nulla anche qualora il codice fiscale del girante sia manifestamente errato.
Non risulteranno sortire effetto sanante, a riguardo, la regolarità delle girate successive. In
questi casi, dunque, l'ultimo girante dovrà rivolgersi al precedente (e così a ritroso in caso
di molteplici passaggi del titolo) per arrivare a far regolarizzare il codice errato (o
mancante). Di norma non è invece necessario il codice fiscale del giratario che pone
all'incasso l'assegno stesso. Nel caso, infine, che la girata venga effettuata per conto di un
diverso soggetto titolare della convenzione assegno (è il caso dell'amministratore che
agisce per conto di una società) il codice fiscale da inserire nel titolo dovrà essere quello
della persona giuridica. Il controllo sulle girate: Il controllo sulla regolarità delle girate
spetterà alla Banca (o all'ufficio di Poste Italiane Spa) presso il quale l'ultimo giratario si
rivolgerà per l'incasso. Tali controlli dovranno essere di tipo formale, nel senso cioè che la
banca girataria per l'incasso sarà chiamata esclusivamente a verificare la compatibilità del
codice fiscale (alcune lettere del nome e del cognome sono infatti parte integranti dello
stesso) con la denominazione del girante. Ricordiamo, a riguardo, che nel caso di codice
manifestamente errato l'assegno non potrà essere pagato se non previa regolarizzazione
del codice stesso. I dati da comunicare al fisco: A ulteriore disincentivazione della
procedura della «girata», viene espressamente previsto, nel comma 11, dell'art. 49, che gli
uffici dell'amministrazione finanziaria possano chiedere alla Banca o a poste italiane spA i
dati identificativi e il codice fiscale dei soggetti ai quali siano stati rilasciati moduli di
assegni bancari o postali in forma libera o che abbiano richiesto assegni circolari o vaglia
postali in forma libera nonché di tutti i giratari e di coloro che li abbiano presentati
all'incasso. Le modalità di trasmissione di tali dati (che costituiscono una prova
documentale) saranno fissati da un prossimo provvedimento dell'Agenzia delle Entrate. Gli
assegni circolari: Anche gli assegni circolari, vaglia postali e cambiari saranno emessi
con l'indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e la clausola di
intrasferibilità se di importo pari o superiore ai 5.000 euro. Il rilascio di detti titoli potrà
avvenire in forma libera, su richiesta scritta del cliente, solo se questi strumenti sono
emessi per importi inferiori ai 5.000 euro. Anche in questo caso su ciascun modulo sarà
dovuta l'imposta di bollo di euro 1,50 per modulo e le girate dovranno recare a pena di
nullità il codice fiscale del girante. Così come per gli assegni bancari e postali i nominativi
di coloro che abbiano richiesto assegni circolari o vaglia postali o cambiari in forma libera
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nonché di coloro che li abbiano presentati all'incasso possono essere richiesti
dall'Amministrazione finanziaria.
Italia Oggi pag. 7
Pagamenti, banconote addio
La data del 30 aprile rappresenta uno spartiacque anche per i pagamenti in contanti. Fra
circa un mese, infatti, privati, aziende e professionisti dovranno tener conto di una svolta
epocale anche in merito alle transazioni in commento. Analizziamo di seguito tutte le
novità introdotte dall'art. 49, evidenziando, peraltro, che allo stato manca un chiarimento
ufficiale del Mef in merito alla giusta interpretazione da darsi al concetto di operazione
frazionata . Le transazioni in contanti. In merito alle transazioni in contanti il novellato art.
49, comma 1 del dlgs 231, riscrive l'art. 1 della legge 197/91 prevedendo: «È vietato il
trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari, o postali al portatore o di
titoli al portatore in euro o in valuta estera effettuato a qualsiasi titolo fra soggetti diversi,
quando il valore dell'operazione, anche frazionata è complessivamente pari o superiore a
5 mila euro. Il trasferimento può tuttavia essere eseguito per il tramite di banche, istituti di
moneta elettronica e Poste italiane spa». L'abbassamento del limite dei 12.500 euro ai 5
mila euro, si legge nella relazione di accompagnamento del decreto legislativo, è stato
deciso anche «_ sulla base dell'esperienza maturata negli anni e del fatto che l'utilizzo del
denaro contante continua a rappresentare, in Italia, una quota elevata dei mezzi di
pagamento_». Tale divieto si pone l'evidente obiettivo di dirottare le transazioni di un certo
rilievo verso intermediari abilitati perché negli archivi da essi tenuti resti traccia dei soggetti
che hanno posto in essere la transazione, situazione che, ovviamente, non si verifica nella
circolazione del denaro contante e di titoli al portatore. Da evidenziare, peraltro, che circa il
concetto di operazione frazionata sussistono opinioni diverse fra il Consiglio nazionale del
notariato e quello dei dottori commercialisti ed esperti contabili, i quali, peraltro, alcuni
giorni or sono hanno proposto apposito quesito al ministero dell'economia.
La posizione del Notariato: Con le nuove disposizioni, secondo il notariato, «l'avverbio
complessivamente va letto nella sua accezione «teleologica» in modo da collocare il
pagamento in una dimensione non più fine a se stessa, ma nell'interno di una prestazione
sorretta da precisi profili causali anche se frazionata nel tempo». Mentre il cassiere di una
banca, quindi, evidenzia il Notariato, non è in grado di cumulare in termini causali,
pagamenti anche se effettuati dai medesimi soggetti in tempi diversi se non in ragione del
lasso di tempo intercorso fra gli stessi (sette giorni), in situazione totalmente diversa si
trova il professionista. Quest'ultimo è, infatti, in grado di riunificare le frazioni di pagamento
all'interno della medesima prestazione contrattuale in relazione ad elementi in suo
possesso. Ne deriva che, ai fini della cumulabilità, il professionista dovrà verificare
l'oggetto della prestazione dedotta in contratto accertando se la pluralità dei pagamenti in
contanti (pari o eccedenti i 5 mila euro, ndr), eventualmente cadenzati anche in un arco
temporale superiore ai sette giorni, costituiscono frazioni di un'unica prestazione (con
conseguente divieto di cumulo) o facciano riferimento a prestazioni distinte.
La posizione del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti: Il Consiglio nazionale
dei dottori commercialisti non condivide la posizione del Notariato, e ritiene implicitamente
ancora valido, nonostante le innovazioni apportate dall'art. 49 dall'art. 231/07, quanto
asserito dal Consiglio di stato con parere n. 1504/95, secondo il quale l'avverbio
«complessivamente» di cui all' art. 1 della legge 197/91 è da riferirsi al cumulo dei mezzi di
pagamento elencati nella disposizione stessa (denaro contante, libretti di deposito bancari
o postali al portatore o titoli al portatore) la cui somma non poteva, quindi, superare i
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12.500 euro nelle operazioni contestuali (e che dovrà rimanere al di sotto dei 5 mila euro a
partire dal prossimo 30 aprile). All'avverbio «complessivamente» è pertanto assegnato un
valore oggettivo giustificato dall'impossibilità, per i soggetti passivi della normativa di
verificare se i singoli pagamenti si riferissero o meno alla medesima operazione.
L'interpretazione dell'avverbio «complessivamente», è stata peraltro confermata (seppur in
epoca antecedente al dlgs 231/07) dal Dipartimento provinciale dei servizi vari di Verona
con nota prot. 0910/Segr. del 9 ottobre 2006 nella quale si riafferma l'inesistenza del
divieto quando, nell'ambito della medesima operazione, si convengono più pagamenti
rateali in denaro o titoli al portatore (separatamente o cumulativamente) inferiori al limite di
legge. I pagamenti in più fasi, quindi, non configurerebbero sostanzialmente infrazione,
anche se complessivamente pari o superiori ai 5 mila euro, a condizione che i singoli
versamenti, intesi come parti di pagamenti rateali risultino inferiori a detta soglia. Sulla
base di detta interpretazione, come si legge nella «lettera alla clientela» di recente
emanazione da parte del Cndcec, si potrebbe ritenere ancora ammissibile il pagamento di
una fattura, ad es. di complessivi 12 mila euro, effettuato in tre rate in contanti, in quanto
modalità di pagamento espressamente prevista nel documento ed usuale nella prassi
commerciale. Di tale posizione, peraltro, il gruppo antiriciclaggio istituito presso il Consiglio
nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, presieduto dal consigliere
delegato dott. Enrico Maria Guerra ha chiesto recentemente conferma attraverso un
documento scritto al ministero dell'economia.
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Italia Oggi pag. 7
Libretti al portatore in regola
Libretti al portatore: riduzione obbligatoria entro il giugno 2009. I libretti di deposito bancari
o postali al portatore, sono, come evidenzia il nome degli stessi, tipici titoli al portatore, che
permettono la riscossione o il trasferimento di liquidità attraverso la semplice
identificazione del soggetto e presentazione del titolo in banca. Essi consentono, quindi,
senza particolari problemi, il veicolo tacito e anonimo di capitali. In virtù di ciò, il comma 13
dell'art. 49 prevede che l'attuale soglia del saldo consentito per libretti emessi
anteriormente al 30 aprile pari a 12.500 euro dovrà essere ridotta ad importi inferiori ai 5
mila euro entro il 30 giugno 2009. In alternativa, entro la stessa data detti libretti dovranno
essere estinti. La mancata regolarizzazione dei libretti comporta una sanzione
amministrativa pecuniaria dal 10 al 20% del saldo stesso. In relazione al fatto che il citato
art. 13 prevede che sia le Banche che Poste italiane spa siano tenute a dare ampia
diffusione e informazione a tale disposizione, non dovrebbero ingenerarsi grossi rischi
sanzionatori per i sottoscrittori dei libretti in commento che, presumibilmente, in vista della
scadenza saranno regolarizzati o trasformati in libretti nominativi. Un ulteriore chiarimento
evidenziato nella circolare del 20 marzo riguarda il caso dei trasferimenti di libretti al
portatore, laddove il comma 14 dell'art. 49 prevede in capo al cedente l'obbligo di
comunicare alla banca o a Poste italiane spa entro 30 giorni i dati identificativi del
cessionario e la data del trasferimento. A riguardo la circolare evidenzia che, per i libretti
emessi anteriormente al 30 aprile 2008 e presentati all'incasso a decorrere da tale data, la
comunicazione può legittimamente essere sostituita: 1) dall'autocertificazione del
cessionario relativa al trasferimento contenente la data dello stesso e il nome del cedente;
2) nei 30 giorni successivi alla presentazione del libretto per l'incasso dalla dichiarazione,
resa all'intermediario, di avvenuta cessione del libretto da parte del cedente. Solo in
assenza di autocertificazione e di comunicazione l'intermediario sarà chiamato ad
effettuare la comunicazione al ministero dell'economia e delle finanze con relativa
applicazione della sanzione fra il 10 e il 20% del saldo.
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Professioni
Fallimento
Franco Michelotti,Il Sole 24 Ore pag. 52
No ai revisori senza albo per ristrutturare i debiti
Doppio requisito professionale per redigere la relazione sull’accordo di ristrutturazione. Dal
1 gennaio 2008, con l’entrata in vigore del Dlgs 169/07, gli accordi di ristrutturazione dei
debiti di cui all’articolo 182-bis della legge fallimentare hanno subito rilevanti innovazioni,
ritenute idonee a incentivarne la diffusione per la soluzione delle crisi d’impresa. Tra le
novità di maggior rilievo è da segnalare la professionalizzazione della figura dell’esperto
chiamato a redigere la relazione sull’attuabilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e
sulla idoneità del medesimo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei
all’accordo. Infatti, la norma previdente, nulla disponendo a riguardo, poneva agli interpreti
il problema della individuazione dei soggetti che potevano essere qualificati esperti ai fini
della legittima redazione della relazione suddetta. Con l’intervento riformatore si è
opportunamente colmata tale lacuna, precludendo a soggetti non adeguatamente
preparati di qualificarsi “esperti” al fine di svolgere una funzione professionale in un campo
delicato come quello della crisi d’impresa. Con una pur discutibile tecnica normativa,
l’articolo 182-bis individua il professionista esperto con il rinvio all’articolo 67, terzo
comma, lettera d), il quale, a sua volta, rimanda all’articolo 28, primo comma, lettere a) e
B), della legge fallimentare. Dunque, oggi la relazione può essere redatta solamente da un
professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e che sia iscritto nell’albo degli
avvocati o dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
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Andrea Battistuzzi,Italia Oggi (29/03/08) pag. 48
Pari opportunità solo sulla carta
Precarietà, congedi parentali, discriminazioni salariali e difficoltà di fare carriera. A pochi
mesi dalla chiusura dell'anno europeo per le pari opportunità restano ancora molti gli
ostacoli che incontrano le donne nel mondo del lavoro. Un argomento su cui l'Italia non dà
il buon esempio in Europa, rimanendo lontana dalle statistiche del Vecchio continente e
che tocca da vicino le libere professioni dove i «colletti rosa» fanno ancora più fatica a
ritagliarsi la propria fetta di mercato. Dello status di avanzamento delle opportunità
lavorative per le donne in Italia si è discusso ieri a Roma nell'ambito del convegno
«Professionisti e politica: confronto sulle riforme», organizzato dal Consiglio nazionale dei
consulenti del lavoro e da ItaliaOggi, alla presenza dei rappresentanti femminili nel mondo
delle professioni: dal presidente dei consulenti del lavoro, Marina Calderone, alla
presidente dell'associazione dottori commercialisti, Wilma Iaria, fino alla responsabile del
settore lavoro del Censis, Maria Pia Camusi, a Rosa Gentile di Donne Impresa
Confartigianato ed a Valentina Sanfelice di Bagnoli di Confapi. «Meno di una donna su
due in Italia ha un lavoro regolare», ha denunciato la Calderone, «e dove non c'è
regolarità c'è sottosviluppo». A leggere i dati della Commissione europea, i membri Ue
hanno recuperato parte del gap calcolato a fine millennio tra il lavoro femminile e quello
maschile e che dovrebbe portare entro il 2010 all'obiettivo del 60% di occupazione tra le
donne, stando al target fissato dalla strategia di Lisbona. Nel 2007 il tasso di occupazione
femminile in Europa ha raggiunto infatti il 56,3%, facendo così prevedere il raggiungimento
degli obiettivi comunitari. Degli 8 milioni di nuovi posti di lavoro creati dal 2000 ben 6
milioni sono andati al gentil sesso. Cifre che le donne italiane guardano ancora da lontano
visto il tasso di occupazione nazionale fermo circa al 47%. Un gap che in futuro potrebbe
essere affrontato con un sistema di agevolazioni fiscali all'assunzione di lavoratrici, stando
alle proposte di alcuni giuslavoristi. «Ridurre la pressione fiscale sul lavoro femminile può
essere una soluzione ma può anche portare ad altri fenomeni di sfruttamento», ha
commentato la Calderone. La crescita del tasso di occupazione femminile in Europa
rischia però di fare da specchietto per le allodole visto che il 36,6% delle donne occupate
nel Vecchio continente ha un lavoro part-time, contro il 7,7% dei colleghi maschi. «Le
donne sono maggioranza nel lavoro precario, nelle qualifiche più basse e tra i lavoratori
atipici», ha detto il sottosegretario al ministero del lavoro, Rosa Rinaldi, «l'impegno
familiare delle donne inoltre ha un valore economico e di servizio mentre i del lavoro di
una donna non sono pagati». E non va meglio sul fronte dei salari dove la Commissione
europea ha calcolato nel 2007 un 15% di divario negli stipendi femminili per ogni ora
lavorata rispetto ai colleghi uomini. Divario che aumenta con l'età e che ha un picco sopra i
55 anni. A parità di inquadramento tra i lavoratori dipendenti, e di incarichi tra quelli
autonomi, il ministero del lavoro ha invece calcolato un gap che va dai 3.800 ai 10 mila
euro tra i redditi annuali dei lavoratori maschili e femminili, a vantaggio dei primi. «Il
volume d'affari tra studi maschili e femminili nei consulenti del lavoro è del 30% in meno
per le donne e addirittura del 40% nel caso degli architetti», ha spiegato la Camusi.
«L'innovazione passa anche per le pari opportunità», ha concluso il sottosegretario Rinaldi
che nei mesi scorsi ha proposto il «bollino rosa» per gli uffici più virtuosi in quanto a pari
opportunità uomo-donna. Qualcosa sembra muoversi sul fronte delle istituzioni pubbliche
viste le quote rosa nelle liste elettorali e le promesse di dicasteri al femminile per la
prossima legislatura. «Il tema non è affrontato in campagna elettorale, qui non servono
interventi spot ma che vadano al cuore del problema», ha aggiunto la Calderone. In attesa
del dopo elezioni comunque l'Italia resta ancora penultima in Europa tra i paesi che hanno
una rappresentanza femminile in parlamento (solo Cipro e Malta non ne hanno), con un
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modesto 15,5% di donne elette contro il 33% di rappresentanza femminile nel parlamento
di Strasburgo ed il 57% svedese. «Le professioniste non possono godere di nessuna
forma di sostituzione per maternità», ha sottolineato Wilma Iaria, «perché il rapporto con il
cliente si fonda sulla fiducia personale». Sul fronte dei diritti sul posto di lavoro l'Italia ha
cercato nel corso degli anni di porre rimedio anche se lo stesso ministero del lavoro ha
riconosciuto la scarsa copertura finanziaria di parte della legislazione. È il caso dei
congedi parentali previsti dalla legge 53 del 2000 che disciplina il congedo di maternità (e
di paternità) facoltativo, che però solo il 24% delle lavoratrici utilizza. Cifra che scende al
3% nel caso degli uomini, a causa del taglio del 70% dello stipendio per chi approfitta dei
mesi in più di assenza dal lavoro.
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Benedetta P. Pacelli, Italia Oggi (29/03/08) pag. 49
Il giusto ruolo per i professionisti
Il giusto ruolo ai professionisti. Sembra quasi un slogan elettorale ma è stato questo il filo
rosso che ha tenuto insieme tutti i partecipanti alla seconda sessione del convegno
«professionisti e politica: confronto sulle riforme», organizzato dal Consiglio nazionale dei
consulenti del lavoro e da ItaliaOggi. Perché per tutti, platea compresa, un vero processo
riformatore non può non tenere conto che le professioni ordinistiche svolgono un ruolo
cruciale nel sistema economico sociale. A dichiararlo con forza è stato, prima tra tutti, il
presidente del Consiglio nazionale dell'ordine Marina Calderone, secondo la quale «è
necessario che i professionisti si riappropino del proprio ruolo anche perché, anche se
qualcuno sembra dimenticarselo, è proprio questa categoria a far girare gli ingranaggi
economici del paese». Ecco perché è ormai indispensabile che arrivi in porto l'attesa
riforma delle professioni. Il presidente del Cno si è dichiarata pronta ad avvallare la
proposta della Siliquini come quella del Comitato unitario delle professioni capeggiato da
Raffaele Sirica. Ma anche ribadito che una riforma che sia tale non può affrontare
unitariamente ordini professionali e attività non regolamentate: «Sono due mondi agli
antipodi per definizione che non possono essere affrontati all'interno della stessa legge».
Opinione condivisa anche dalla responsabile delle professioni per Alleanza nazionale
Maria Grazia Siliquini, che ha tuonato contro l'incapacità della scorsa legislatura di portare
a casa alcuna riforma. Anzi, ha specificato «con un falso concetto di liberalizzare sono
state fatte leggi contro i professionisti». Il riferimento va non solo ai decreti Bersani-Visco
ma anche al recepimento della direttiva Zappalà che ha aperto un registro per associazioni
professionali riconoscendole pari agli ordini e ai collegi, «senza alcun serio criterio di
regolamentazione». «Mentre ora», ha puntualizzato la senatrice di An, «di cambiare rotta:
il punto di partenza sarà il disegno di legge Fini Siliquini, ma si terrà conto anche delle
istanze del Cup». Per il quale, come ha precisato il suo presidente Raffaele Sirica, sono
state raccolte il doppio delle firme necessarie. Sirica ha poi ricordato i temi affrontati, solo
poche settimane fa, alla I conferenza dei Cup tra cui si inseriscono, fra le altre cose, una
serie di misure fiscali per i professionisti, come l'incremento della deducibilità del reddito di
lavoro autonomo delle spese sostenute per la formazione professionale o la
semplificazione fiscale per i piccoli studi professionali. A ribadire ancora la necessità di
una riforma delle professioni è stato poi Paolo Piccoli, presidente del Consiglio nazionale
del notariato che ha rimarcato come le vere liberalizzazioni per far ripartire il paese non
sono quelle sulle professioni, ma quelle dei servizi, mentre in passato, «sono stati
presentati inutili e talvolta dannosi interventi nel settore delle libere professioni come
grandi operazioni della quali il cittadino non si è nemmeno accorto». Ma non solo riforma
delle professioni. Ad animare il dibattito è stata anche la riforma fiscale e le problematiche
del mondo del lavoro. A cominciare dalla nuova procedura telematica di dimissioni
volontarie in cui si è assistito, secondo Luca De Compadri della Fondazione studi
consulenti del lavoro, «a un bizantinismo imperante». De Compadri ha criticato
aspramente la normativa in materia di dimissioni, «assolutamente abnorme rispetto a un
fenomeno del tutto marginale». E che soprattutto ha fatto passare l'inaccettabile
presunzione di malafede da parte del datore di lavoro. Sotto i riflettori anche la riforma
degli ammortizzatori sociali ipotizzata da un altro esponente della Fondazione studi, Enzo
Silvestri: «È tempo», ha spiegato, «di chiarire definitivamente che lo strumento non deve
più servire solo per assicurare un'integrazione al reddito dei lavoratori, ma deve essere un
ponte per la ricerca di una nuova occupazione». Ma soprattutto ha ricordato la proposta
che i consulenti del lavoro hanno lanciato in occasione del loro ultimo congresso: la dote
per ammortizzatori sociali per ogni cittadino che si trova in stato di inoccupazione,
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disoccupazione o sospensione del rapporto. Una dote che sarà a disposizione su un conto
individuale da cui poter attingere nell'arco di tutta la vita lavorativa. Per Enzo De Fusco,
consulente del lavoro e collaboratore della Fondazione studi, una riforma fiscale deve
partire dalla revisione delle modalità di tassazione dei redditi di lavoro dipendente fino ad
arrivare alla regolamentazione sulla certificazione delle ritenute a titolo d'acconto sui
redditi professionali. De Fusco ha poi ricordato che l'ultima delle riforme del diritto tributario
risale che porta il nome di Maurizio Leo, responsabile per le politiche fiscali di Alleanza
nazionale, risale solo al 1998. Lo stesso Leo ha confermato che la necessaria
certificazione del pagamento delle ritenute ai professionisti è «senz'altro uno dei temi da
rivedere». Tema di dibattito anche la nuova riforma che ha introdotto il regime contabile
del cosiddetto forfettone, dal quale, ha spiegato Leo, «nonostante l'attuale esecutivo in
carica si aspetti tanto non si vedranno i benefici valutati all'atto della predisposizione». Le
riforme che vanno fatte, ha concluso, sono altre, a partire dalla graduale e progressiva
riduzione dell'Irpef fino ad arrivare alle modalità di determinazione del reddito imponibile
che tenga conto degli aggiornamenti dei costi in questi anni e di ulteriori tipologie di spese
che necessariamente vanno portate in diminuzione del reddito tassabile».
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Qualifiche
Roberto Falcone, Presidente nazionale Lapet, Italia Oggi (29/03/08) pag. 50
Riconoscimento, è legittimo
I dottori commercialisti ed esperti contabili hanno espresso la loro ferma opposizione al
decreto legislativo 206 del 2007 di attuazione della direttiva 2005/36/Ce per il fatto che
esso ammette alla «piattaforma comune» anche le associazioni professionali.
L'opposizione è stata espressa dal Consiglio nazionale con un documento del 6 marzo nel
quale sono state indicate «le ragioni di un dissenso tecnico prima ancora che politico» con
l'intento dichiarato, dunque, di far conoscere anche le ragioni giuridiche che renderebbero
tale previsione illegittima nel nostro ordinamento. A voler significare apertamente che le
associazioni professionali privatistiche non potrebbero sedere alla «piattaforma comune»
non perché non sarebbero gradite, ma perché sarebbe loro vietato dalle norme.La
questione si appunta tutta sull'art. 26 del dlgs 206 che prevede la «piattaforma comune» e
i soggetti che sono legittimati a farne parte e, per conseguenza, sul decreto
interministeriale preannunciato e di prossima emanazione che dà esecuzione a esso. Per
entrambi il rilievo che viene mosso è di legittimare alla partecipazione alla piattaforma le
associazioni professionali di tipo privatistico. Orbene, non voglio sottoporre le ragioni del
dissenso espresse nel documento a vaglio critico sotto il profilo giuridico, né confutare
compitamente sul piano tecnico-giuridico le argomentazioni addotte a sostegno della tesi
dell'illegittimità della scelta operata dal dlgs. Intendo invece semplicemente fare una prima
riflessione su alcuni punti del documento, focalizzando alcuni aspetti, senza pretesa di
completezza di disamina. Mi sembra infatti che le «ragioni del dissenso» dei
commercialisti partano da convinzioni/asserzioni/assunti/convincimenti/punti basilari che
mostrano una grande debolezza, se non addirittura una palese erroneità e comunque una
visione distorta e fuorviante che forse mette in dubbio le conclusioni cui si perviene. Ma
vengo in maniera diretta all'esame del documento. Il documento (nell'analisi di esordio)
ricorda innanzitutto che la direttiva 2005/36/Ce, che disciplina il riconoscimento reciproco
tra i paesi comunitari delle qualifiche professionali che consentono l'accesso e l'esercizio
delle professioni regolamentate, ha previsto che gli stati membri e le «associazioni o
organismi professionali a livello nazionale o europeo» possono proporre alla Commissione
la costituzione di «piattaforme comuni» al fine di armonizzare e compensare le diverse
regolamentazione dei singoli paesi. Pertanto, il documento rileva come la menzione fatta
dalla direttiva sia agli enti pubblici di tipo ordinistico pubblico che alle associazioni di diritto
privato sarebbe riconducibile al solo fatto che nelle legislazioni di tradizione latina le
professioni sono regolamentate secondo la figura giuridica degli enti ordinistici, mentre
nella tradizione anglosassone, le professioni sono regolamentare secondo la figura
giuridica dell'associazione di diritto privato. Lo schema è chiaro. Ma, dice il documento, il
legislatore italiano non lo avrebbe ben compreso, perché nel decreto legislativo 206/2007
(che ha attuato la direttiva) la compresenza degli enti pubblici di tipo ordinistico e delle
associazioni di diritto privato è stata interpretata non già come una regolamentazione
generale destinata a paesi con ordinamenti giuridici interni diversificati, ma come
un'apertura alla possibilità di far confluire nella piattaforma comune «associazioni
rappresentative a livello nazionale delle professioni regolamentate per le quali non
esistono ordini, albi o collegi, nonché dei servizi non intellettuali e delle professioni non
regolamentate» secondo la dizione letterale della rubrica del decreto interministeriale di
attuazione dell'art. 26 del dlgs 206/2007. Il documento giunge ad affermare che la dizione
«professioni regolamentate per le quali non esistono ordini, albi o collegi» è priva di
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significato, poiché in Italia professioni regolamentate senza ordini albi o collegi non
esisterebbero atteso che «le uniche professioni regolamentate sono per l'appunto quelle
per le quali esistono gli ordini, gli albi o i collegi». Ma questo non è vero o, meglio, non è
del tutto vero. E difatti la vicenda va considerata avendo riguardo al concetto di
«professione regolamentata» e di «titolo di formazione» vigenti in ambito europeo e
nell'accezione che essi hanno ai fini della normativa della direttiva e del decreto legislativo
che la attua. Se, quindi, si guarda alla definizione di «professione regolamentata» e alla
definizione di «titolo di formazione» poste dall'articolo 4 del decreto legislativo (in
aderenza alla previsione degli articoli 3 e 11 della direttiva) si rileva che «professione
regolamentata» è anche quella il cui esercizio è consentito a seguito dell'iscrizione (non
solo in albi o ordini o collegi), ma anche in «registri ed elenchi tenuti da amministrazioni o
enti pubblici», quale ad esempio quello degli intermediari fiscali, e per la quale la
formazione si pone o può porsi anche a livello di «attestato di competenza». Si consideri
sul punto che la stessa direttiva 2005/36/Ce, al «considerando» numero 43, ha cura di
rimarcare che le professioni liberali sono parte delle professioni regolamentate, ma non le
esauriscono. Dunque il documento sbaglia laddove ritiene che nel nostro ordinamento non
esistono professioni regolamentate prive di ordini albi o collegi: esse esistono eccome ed
esistono proprio in ambito europeo e ai fini propri della «direttiva qualifiche». Ma non
finisce qui. Il documento dei dottori commercialisti non mi convince infatti neppure laddove
censura la dizione del decreto interministeriale «professioni non regolamentate». Si
afferma in particolare che, relativamente alle «professioni non regolamentate», «pare
scontato che si dovrà comunque fare esclusivo riferimento a quelle categorie di lavoratori
autonomi che svolgono attività che non rientrano tra quelle che caratterizzano l'operato di
professionisti iscritti a ordini, albi, o collegi (in quanto se svolgono attività che rientrano tra
quelle caratteristiche di una professione ordinistica, è evidente che si tratta di categoria di
lavoratori autonomi che svolgono in forma non regolamentata un'attività per la quale esiste
tuttavia una professione regolamentata», sicché, conclude il documento, «dovrebbe
essere preclusa l'iscrizione nell'elenco ministeriale a tutte le associazioni di diritto privato i
cui iscritti svolgono attività che rientrano tra quelle che caratterizzano l'operato dei
professionisti iscritti ad ordini, albi o collegi». Ma, come detto, l'assunto è falso e infondato
perché smentito dal concetto di «professione regolamenta» come posto dalla direttiva
dall'articolo 3, punto 1, lettera a). Tale concetto ha riguardo all'«attività o insieme di attività
professionali» sicché la «regolamentazione» (e ciò che essa comporta in termini di
esclusività/preclusione/qualificazione) attiene ai contenuti dell'attività professionale o a
modalità del suo esercizio. Sotto tale aspetto «la professione non regolamentata» è anche
quella che riguarda attività che svolgono o possono svolgere o normalmente svolgono
anche iscritti a professioni ordinistiche, se si tratta di attività che, in quanto ad essi non
riservate in via assoluta, non si configurano come attività regolamentata e quindi come
professione regolamentata. Ma allora l'assunto che vorrebbe escluse dalla piattaforma
comune le associazioni i cui iscritti svolgono attività caratteristiche di professioni
ordinistiche non trova conforto giuridico. E poi ricorre a un éscamotage fin troppo ingenuo
laddove usa una locuzione, «attività caratteristiche», che non ha alcun significato nel
nostro ordinamento dove l'unico spartiacque vero, giuridicamente significante, è tra attività
libere e attività riservate. In conclusione, ritengo che una prima e semplice analisi al
contenuto del documento ne ha evidenziato più di una crepa minando addirittura le basi di
quelle «ragioni tecniche» che avrebbero dovuto dimostrare l'impraticabilità giuridica della
presenza delle associazioni nella piattaforma comune. Mi auguro che alla fine prevalgano
le ragioni dell'interesse generale evitando di arrecare ulteriori danni come già accaduto
con la mancata partecipazione diretta, a livello europeo, degli organismi di rappresentanza
delle professioni alle piattaforme comuni.
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Elezioni
Pamela Giufrè,Italia Oggi (29/03/08) pag. 50
I candidati rispondono alle professioni
Stimolare la politica e il legislatore a varare al più presto la riforma delle professioni. Con
questo intento Assoprofessioni, per volontà del presidente Giorgio Berloffa e del segretario
Roberto Falcone, ha organizzato mercoledì scorso alla Camera dei deputati l'incontro con
politici e istituzioni. Tema del confronto: «La riforma delle professioni che vogliamo». Se
da una parte politici e tecnici del ministero hanno ribadito l'impegno per il riconoscimento
delle professioni, già anticipato attraverso il dlgs Qualifiche, i professionisti degli ordini,
dall'altra, hanno rimarcato la loro ferma opposizione. «Mi sembra», ha però precisato il
capo di gabinetto del ministro Bonino, Gianfranco Dell'Alba, «che il Dipartimento delle
politiche comunitarie abbia recepito un provvedimento perfettamente in linea con gli
obiettivi della direttiva comunitaria Qualifiche e nell'interesse generale del paese. Tra
l'altro, il dlgs ha seguito un iter parlamentare, presso le competenti commissioni, piuttosto
lungo prima di essere approvato». Più duro nei confronti degli ordini che avversano questo
riconoscimento, l'onorevole Turco. «La parola d'ordine», ha detto il radicale, «è una e
semplice: abolire gli albi professionali». Secondo il presidente Turco «nell'interesse
generale dell'utenza ed in vista della mobilità dei servizi professionali, sarebbe auspicabile
la cancellazione degli ordini, con la sola eccezione di quelli che consentono la
salvaguardia dei diritti costituzionali. Gli albi d'altronde non hanno finora svolto alcun ruolo
di tutela dell'interesse pubblico e dei consumatori». Meno estrema la posizione
dell'onorevole Balducci, che ha assicurato: «Se saremo riconfermati, riprenderemo il
lavoro per la riforma delle professioni da dove è stato interrotto. Ripartiremo dal testo
condiviso al quale stavamo lavorando con un iter più accelerato, senza avviare nuove
audizioni parlamentari, ma facendo riferimento ai pareri degli ordini e delle associazioni
professionali». E Roberto Orlandi, vicepresidente del Cup, in qualità di componente del
Cnel, ha detto: «Continueremo a lavorare affinché il regolamento all'art. 26 del dlgs ce sia
attuato la massima obiettività al momento del rilascio del parere sul riconoscimento delle
associazioni. Il modus operandi per la formulazione dello stesso dovrà seguire criteri che
cercheremo di racchiudere in un apposito documento da far approvare all'Assemblea del
Cnel». Intanto, Balducci, invitata a rispondere su quali incentivi si prevedono per i giovani
professionisti qualora dovesse restare in Parlamento, ha risposto: «Ci impegneremo per
garantire agevolazioni di tipo economico, defiscalizzazione e sostegno alla formazione in
favore dei giovani professionisti, il cui iter di avvio all'esercizio dell'attività è più lungo
rispetto a quello di un'impresa». Concetto condiviso da Falcone, il quale ha però ha
ribadito l'importanza di «ridurre la notevole pressione contributiva a carico degli studi
professionali». Falcone ha aggiunto: «Occorre guardare al mondo delle professioni con
una mentalità nuova, partire dal principio-base che solo il riconoscimento può garantire un
livello equilibrato di competitività a tutto vantaggio della qualità delle prestazioni
professionali, e dunque a favore dell'utenza».
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Vittorio Grevi, Corriere della Sera (29/03/08) pag. 44
L’azione penale? Oggi obbligatoria, domani chissà
Scorrendo i programmi elettorali in materia di giustizia, ci si accorge che nessuno di essi
approfondisce l'esigenza di dare maggiore effettività e concretezza al principio di
obbligatorietà dell' azione penale. Principio sacrosanto, sancito a chiare lettere nella
Costituzione quale specifica espressione dei principi di legalità e di eguaglianza di fronte
alla legge. Principio da tenersi fermo, dunque, ma che non sempre riesce a trovare pratica
attuazione — soprattutto in certi settori di condotte illecite — tali e tante sono le denunce e
le altre notizie di reato che ogni giorno si accumulano su tavoli della polizia e delle Procure
della Repubblica. Senza dubbio il principio per cui «il pubblico ministero ha l'obbligo di
esercitare l'azione penale » non significa che ad ogni notizia di reato debba corrispondere
un processo. I processi si fanno soltanto quando — dopo espletate le necessarie indagini
— la notizia di reato risulti attendibile, essendo siano stati raccolti elementi tecnicamente
«idonei a sostenere l'accusa in giudizio». Una volta superata una tale verifica tecnica,
però, l'azione penale deve essere esercitata dal pm, al quale non sono consentiti ulteriori
margini di valutazione di opportunità. Come, invece, gli sono riconosciuti nei sistemi ispirati
all'opposto principio di discrezionalità dell'azione penale, che proprio per ciò comporta
anche una responsabilità politica dello stesso pm, o almeno un suo collegamento
subordinato agli organi detentori del potere esecutivo. Pur entro questi confini, il problema
della sproporzione tra il rilevante numero dei processi penali che si dovrebbero svolgere e
la limitata consistenza delle risorse giudiziarie, (umane e strutturali) destinate a farvi
fronte, non può essere ignorato. Tuttavia, prima di pensare a pericolose attenuazioni del
principio di obbligatorietà dell'azione legale, magari affidate alle maggioranze politiche di
turno, bisognerebbe anzitutto fare ogni sforzo per adeguare al meglio le suddette risorse
giudiziarie. A parte il ricorrente problema dei finanziamenti delle spese per la giustizia,
esistono infatti numerose riforme di tipo ordinamentale che potrebbero farsi senza
eccessivi esborsi, e che produrrebbero grandi vantaggi in termini di efficienza dell'attività
processuale. Basti pensare alla prospettiva della revisione delle circoscrizioni giudiziarie,
con la soppressione ed il conseguente accorpamento di molti piccoli tribunali; all'istituzione
dell'«ufficio del processo», per aumentare il rendimento degli organi giudiziari; alla
introduzione di competenze manageriali in rapporto agli aspetti organizzativi del «servizio
giustizia»; ed ancora alla previsione di più rigorose forme di controllo (sugli orari delle
udienze, sui calendari dei processi, su certi non inevitabili tempi morti) circa i livelli di
produttività dei singoli magistrati, tra l'altro spesso assai differenti da distretto a distretto.
Di alcune di queste prospettive di riforma vi è traccia, in realtà, nel programma del Partito
Democratico, e sta bene. Assai più delicata sarebbe, invece, la proposta, recentemente
avanzata dallo stesso Veltroni, relativa alla «fissazione di criteri di priorità nell'esercizio
dell'azione penale », così da assicurare «uniformità di azione» delle Procure sull'intero
territorio nazionale. A parte che le priorità concrete possono essere diverse da zona a
zona (i problemi penali connessi ai rifiuti, per esempio, non sono gli stessi in Lombardia ed
in Campania), la questione è resa ardua dal rischio di introdurre interferenze politiche nelle
iniziative penali delle varie procure. Si è parlato, allo scopo, di un procedimento con «la
partecipazione di Parlamento, Csm e procuratori della Repubblica», ma così si resta
ancora troppo nel vago. Il problema esiste, e va affrontato. Tuttavia, anche per evitare
equivoci, sarà bene discutere solo su una proposta chiara e ben articolata nei suoi
meccanismi interni.
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Francesco Santagada,Italia Oggi pag. 4
Studi di settore
Studi, la territorialità al debutto
Studi di settore, la territorialità diventa realtà. Con due decreti pubblicati nella Gazzetta
Ufficiale di lunedì viene aggiornato il software Ge.Ri.Co che così accoglie un importante
correttivo a favore dei contribuenti. In buona sostanza attraverso tre distinti valori
rappresentati dalla concorrenza nel settore e con la grande distribuzione oltre che il livello
degli affitti che rappresentano fattori assolutamente rilevanti nel commercio al dettaglio. In
questo modo il ricavo puntuale attribuito al contribuente tiene conto anche delle evidenti
differenze che promanano da città a città. Ciò in definitiva ha prodotto una forte
demarcazione del risultato di congruità in relazione al comune di svolgimento dell'attività.
Da un punto di vista tecnico è stata influenzata il coefficiente di regressione relativo al
costo del venduto. In ogni comune è stato calcolato il valore mediano dei canoni di affitto
di beni immobili per metro quadrato relativamente al comparto del commercio al dettaglio;
la distribuzione di tali valori è stata successivamente standardizzata a valori compresi
nell'intervallo da 0 (il comune con il più basso livello degli affitti) a 1 (il comune con il più
alto livello). Il coefficiente di regressione presenta un differenziale pari a 0,1542 tra Enna e
Portofino. Il livello degli affitti degli immobili commerciali: Il livello di misurazione degli
affitti influisce in maniera importante sul livello dei prezzi e dei margini di ricarico.
All'interno del software Ge.Ri.Co e in termini di condizionamento del ricavo attribuibile la
contribuente ciò produce un elemento di differenziazione del coefficiente di regressione
relativo al costo del venduto. Naturalmente la differenziazione è più marcata del risultato di
congruità in relazione al Comune di svolgimento dell'attività, in particolare attraverso
alcune simulazioni è stato evidenziato che il coefficiente di regressione presenta un
differenziale pari a 0,1542 tra Enna e Portofino che rappresentano glia antipodi tra valori
minimi e massimi degli affitti. L'indicatore è stato calcolato, per ogni comune, secondo le
seguenti modalità: in ogni comune è stato calcolato il valore mediano dei canoni di affitto
di beni immobili per metro quadrato relativamente al comparto del commercio al dettaglio;
la distribuzione di tali valori è stata successivamente standardizzata a valori compresi
nell'intervallo da 0 (il comune con il più basso livello degli affitti) a 1 (il comune con il più
alto livello). Con questo metodo si è prodotta una maggiore rappresentatività ed equità
dello Studio a livello territoriale Le aree omogenee: Il software Ge.Ri.Co utilizza, ai fini del
calcolo del ricavo presunto, particolari elaborazioni statistiche effettuate a monte dello
studio di settore con riguardo all'intero territorio nazionale. L'analisi della territorialità ha
perciò consentito di classificare, separatamente le une dalle altre, le aree territoriali aventi
caratteristiche comuni tra loro. La nuova evoluzione degli strumenti induttivi è partita da
una rideterminazione delle aree territoriali coinvolte in maniera tale da cogliere anche gli
importanti elementi che depongono a favore o a sfavore delle aree interessate dal punto di
vista economico. Si è partiti, quindi, da una ridefinizione delle aree territoriali, omogenee in
termini di grado di benessere e di sviluppo socio-economico per addivenire poi
all'assegnazione di comuni, province e regioni all'area omogenea di riferimento. L'analisi
che ha quindi ad oggetto gli studi di settore in applicazione dal periodo d'imposta 2007, ha
preso in considerazione per ogni singola area il grado di benessere, il livello di
scolarizzazione, la struttura economica, il tasso di imprenditorialità, il grado di sviluppo dei
servizi (credito, logistica ecc.) Aggiornamento della territorialità del commercio: Per
ciò che concerne l'area del commercio l'aggiornamento degli indicatori non ha potuto
prescindere dalla ridefinizione delle aree territoriali, omogenee in termini di sviluppo socioConsiglio Nazionale Forense
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economico e delle caratteristiche della rete distributiva. Con queste basi analitiche è stata
approntata l'assegnazione di comuni, province e regioni ad un'area omogenea. Gli
lamentio utilizzate dalla Sose sono stati il grado di modernizzazione della rete distributiva,
il grado di copertura dei servizi di prossimità, il grado di sviluppo socio-economico, il grado
di benessere e quello di scolarizzazione.
Italia Oggi pag. 5
Normalità economica in nota aggiuntiva
Studi tra novità e correttivi. L'introduzione di nuovi indici capaci di misurare i ricavi
presumibilmente attribuibili al contribuente ha come contraltare la facoltà di emarginare già
in sede di compilazione del modello alcuni elementi che hanno condizionato l'attività del
contribuente. I casi espressamente isolati dalla prassi sono quelli della marginalità
economica che attiene a caratteristiche intrinseche del e soggettive contribuente (età,
localizzazione, dotazione strumentale) a quelle esogene come il non normale periodo di
attività. In entrambi i casi le informazioni in questione vanno inserite nella sezione «Note
aggiuntive - Informazioni aggiuntive» dell'applicazione Gerico, riportando la motivazione
principale che ha impedito lo svolgimento dell'attività economica in maniera regolare o le
circostanza che denotano una marginalità economica. La marginalità economica: La
circolare 31/2007 nel mitigare gli effetti della stretta sugli studi di settore ha meglio definito
alcuni correttivi. Un caso emblematico è rappresentato dallo svolgimento dell'attività in
condizioni di marginalità economica. In effetti, tale casistica appare ancora più stridente in
riferimento ai nuovi ricavi congrui tarati sulla normalità economica. Normalità economica
che quindi, a maggior ragione, non potrà essere invocata dall'amministrazione finanziaria
per definire casistiche marginali. Tali circostanze sono generalmente ravvisabili nella
localizzazione territoriale dell'attività, nelle ridotte dimensioni del mercato servito, nell'età
avanzata del contribuente, nella limitata dotazione di beni strumentali e nella loro
obsolescenza. Pertanto, dovrebbero beneficiare di un atteggiamento più comprensivo le
attività poste nei territori montani per esempio, oppure le piccole imprese individuali
condotte da soggetti anziani che svolgono l'attività secondo logiche non strettamente
economiche che le differenziano dalle altre imprese del settore. In sede di accertamento
dovrebbero essere benignamente valutati anche i bassi consumi energetici nonché
l'assenza di personale dipendente. Entrambe le fattispecie dimostrerebbero, infatti, le
ridotte dimensioni della struttura. Non normale periodo di attività: Per i contribuenti che
si trovano in un non normale periodo di svolgimento dell'attività è necessario compilare il
modello studi di settore indicando nell'apposito campo «Note aggiuntive - Informazioni
aggiuntive» dell'applicazione Ge.Ri.Co, la motivazione principale che ha impedito lo
svolgimento dell'attività economica in maniera regolare. In caso di omessa presentazione
del modello, si applica la sanzione amministrativa da 258,00 a 2.065,00 euro, ridotta a un
quinto del minimo se la presentazione avviene entro il termine fissato per la presentazione
della dichiarazione relativa all'anno nel corso del quale è commessa la violazione.
Indicatori di normalità economica: Per gli studi di settore che entrano in vigore dall'anno
di imposta 2007, si tiene conto anche di valori di coerenza, risultanti da specifici indicatori
definiti da ciascuno studio, rispetto a comportamenti considerati normali per il relativo
settore economico, come previsto dall'art. 10-bis, comma 2, legge n. 146/98, introdotto
dall'art. 1, comma 13, della legge n. 296/06. Per gli studi di settore non interessati da
evoluzione per il periodo di imposta 2007 continua a trovare applicazione l'art. 1, comma
14, della legge finanziaria 2007, il quale ha previsto che si debba tener conto anche di
specifici indicatori di normalità economica di significativa rilevanza, idonei alla
individuazione di ricavi, compensi e corrispettivi fondatamente attribuibili al contribuente in
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relazione alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. Tali
indicatori di normalità economica sono stati approvati con apposito dm 20 marzo 2007.
Livello di adeguamento: In sede di prima applicazione il livello di adeguamento alle
risultanze degli studi di settore sarà costituito: per gli studi di settore in evoluzione che
entrano in vigore a partire dall'anno di imposta 2007, dal ricavo o compenso puntuale di
riferimento calcolato dal software Ge.Ri.Co., che terrà conto anche dell'eventuale
incoerenza rispetto agli indicatori di normalità individuati per il singolo studio di settore; per
gli studi di settore non interessati da evoluzione per il periodo di imposta 2007, dal
maggior valore tra quelli di seguito indicati (comma 1-bis del dm 20 marzo 2007): livello
minimo risultante dall'applicazione degli studi di settore tenendo conto delle risultanze
degli indicatori di normalità economica di cui al comma 14, art. 1, della Finanziaria 2007;
livello puntuale di riferimento risultante dall'applicazione degli studi di settore senza tener
conto delle risultanze degli indicatori. Limite dei 7,5 milioni di euro: Per l'anno d'imposta
2007 il modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di
settore deve essere compilato anche dai soggetti per i quali valgono le seguenti cause di
esclusione: - contribuenti che dichiarano un volume di ricavi di cui all'articolo 85, comma 1,
esclusi quelli di cui alle lettere c), d) ed e) del Tuir, approvato con dpr n. 917/86, ovvero
compensi di cui all'art. 54, comma 1, del Tuir, di ammontare superiore a 5.164.569 euro e
fino a 7.500.000 euro. Per tali soggetti è necessario raccogliere le relative informazioni utili
ai fini della verifica dell'applicazione degli studi di settore prevista ai sensi dell'art. 10,
comma 4, della legge n. 146/98 modificato dall'art. 1, comma 16, della legge 296/06; contribuenti che rientrano nei casi di cessazione dell'attività, di liquidazione ordinaria
ovvero che si trovino in un periodo di non normale svolgimento dell'attività così come
previsto dall'art. 1, comma 19, secondo periodo, della legge n. 296/06 (legge finanziaria
per il 2007). Sanzioni aggiuntive: La Finanziaria per il 2007, tra l'altro, ha disposto
l'inasprimento delle sanzioni previste ai fini delle imposte sui redditi, Iva e Irap, indicate
dall'art. 1, comma 2, e dall'art. 5, comma 4, del dlgs 471/97 nonché dall'art. 32, comma 2,
del dlgs. n. 446/97. Sono state, infatti, elevate del 10% le sanzioni minime e massime
indicate nelle predette disposizioni, in caso di: omessa ovvero infedele indicazione dei dati
previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi
di settore; indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non
sussistenti.
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Andrea Bongi, Italia Oggi pag. 12
Fisco
Ritenute, certificazione esclusa
Per i professionisti il diritto a scomputare le ritenute d'acconto subite dipende, unicamente,
dalla circostanza che queste siano state effettivamente operate da parte del sostituto
d'imposta. Non assume alcuna rilevanza ai fini della deduzione delle ritenute da parte del
sostituito nella propria dichiarazione dei redditi la circostanza che queste non siano state
certificate dal sostituto o che quest'ultimo non abbia effettuato il relativo versamento
all'erario. È questa, in sintesi, la presa di posizione della commissione studi tributari del
Consiglio nazionale del Notariato ribadita recentemente attraverso lo studio n. 192-2007/T.
Detta posizione si basa, essenzialmente, sul tenore letterale della disposizione contenuta
nell'articolo 4, comma 6-ter, del dpr n. 322/1998, ai sensi del quale i sostituti d'imposta
rilasciano ai sostituiti un'apposita certificazione unica anche ai fini dei contributi
previdenziali, nella quale si attesta l'ammontare delle somme corrisposte e delle ritenute
operate. Non esiste pertanto alcun obbligo normativo che imponga ai sostituti di indicare
anche se dette ritenute, oltre che operate, siano state anche versate e in quali termini.
L'esame condotto dal centro studi del Notariato muove per la verità su due fronti: il primo è
relativo alla possibilità di scomputare o meno le ritenute d'acconto subite dal professionista
nell'ipotesi in cui il sostituto non abbia rilasciato la certificazione di cui al citato articolo 4,
comma 6-ter, del dpr n. 322/1998; il secondo è costituito invece dalla possibilità di
scomputare anche ritenute trattenute ma non versate dal sostituto. Circa il primo profilo,
tornato di attualità a seguito delle precisazioni dell'Agenzia delle entrate fornite in
occasione del forum fiscale organizzato da ItaliaOggi nel maggio scorso, la posizione del
Notariato rimane ferma sulle posizioni già assunte da questo organismo con il precedente
studio n. 39/2005/T. Secondo questo primo intervento in materia, infatti, la certificazione
delle ritenute d'acconto non fornisce la prova del pagamento delle ritenute d'acconto e non
costituisce la conditio sine qua non per il diritto allo scomputo delle medesime da parte del
professionista sostituito. L'argomentazione recentemente espressa dall'Agenzia delle
entrate, prosegue il Notariato, poggia essenzialmente sulla circostanza che se si consente
al contribuente di fornire la prova delle ritenute subite con mezzi alternativi alla
certificazione rilasciata dal sostituto si finisce per consentire allo stesso l'utilizzo di mezzi
probatori provenienti dalla stessa parte in causa. In realtà, questa affermazione è vera
solo in apparenza. Grazie al combinato disposto dell'articolo 36-ter del dpr n. 600/1973 e
dell'articolo 6, comma 4, dello statuto del contribuente (legge n. 212/2000) è infatti
possibile sostenere che l'ostinata richiesta al contribuente delle certificazioni delle ritenute
subite finisce per essere un'inutile ripetizione di dati già posseduti dal fisco. Il semplice
riscontro delle dichiarazioni modello 770 presentate dal sostituto d'imposta può infatti
agevolmente consentire all'amministrazione finanziaria di verificare il dato cercato. Circa il
secondo profilo relativo alle ritenute non versate dal sostituto, oltre che non certificate, la
posizione del Notariato resta favorevole al contribuente e si pone in aperto contrasto
anche con la recente sentenza della Cassazione n. 14033/2006. Secondo il centro studi,
infatti, il diritto allo scomputo della ritenuta scatta al momento in cui la stessa è stata
operata indipendentemente dal versamento o meno della stessa da parte del sostituto.
Posizione peraltro che ha trovato conferma anche in recenti interventi giurisprudenziali
successivi anche alla citata sentenza della Corte di cassazione (Ctp Milano, sentenza n.
99/1207). Per il resto, la critica alla sentenza n. 14033 della Cassazione può essere
mossa anche sotto diversi altri profili. In particolare, non si può condividere la tesi, fatta
propria dai giudici di legittimità nella ricordata sentenza, secondo la quale nell'istituto della
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ritenuta a titolo d'acconto esisterebbe una responsabilità solidale fra il sostituto e il
sostituito per il versamento delle ritenute stesse. Se così fosse, il legislatore avrebbe
dovuto prevederlo esplicitamente così come ha fatto per l'istituto delle ritenute a titolo
definitivo o d'imposta. Recita infatti l'articolo 35 del dpr n. 600/1973 che «quando il
sostituto viene iscritto a ruolo per imposte, soprattasse e interessi relativi a redditi sui quali
non ha effettuato né le ritenute a titolo d'imposta né i relativi versamenti, il sostituito è
coobligato in solido». Poiché manca nel nostro ordinamento un'analoga disposizione per
quanto riguarda le ritenute a titolo di acconto deve desumersi che il legislatore abbia
voluto intenzionalmente escludere che in tale ipotesi possa esservi una coobligazione
solidale per il versamento delle stesse fra il sostituto e il sostituito. Solidarietà tributaria
che deve essere esclusa anche sulla base del fatto che le prestazioni del sostituto e quelle
del sostituito hanno un diverso oggetto nonché per il semplice fatto che il debito relativo
alla ritenuta d'acconto non coincide quasi mai con l'Irpef dovuta dal sostituito che si calcola
non sul singolo provento ma sull'intero suo reddito imponibile. Dunque, sull'annoso tema
relativo alla possibilità di scomputare le ritenute d'acconto subite ma non certificate e/o
non versate, di estrema attualità sia per i recenti interventi dell'Agenzia delle entrate sia
per i frequenti casi di rettifiche operate da parte degli uffici locali sulla base delle
motivazioni citate, il Notariato prende, con forza, una posizione chiara e netta,
assolutamente contraria sia alle posizioni dell'amministrazione finanziaria sia alla recente
posizione della Cassazione. Il contributo fornito dal Notariato alla risoluzione del problema
non può certo essere sottovalutato.
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Andrea Bongi, Italia Oggi pag. 12
Ritenute non fatte e non versate: sanzione raddoppiata
Ritenute non operate e non versate: la sanzione è doppia. Nell'ipotesi in cui il sostituto
d'imposta non effettui le ritenute sugli emolumenti corrisposti e non proceda, nei termini di
legge, al versamento delle ritenute stesse, commette due distinte violazioni singolarmente
sanzionabili. È questa l'opinione dell'Agenzia delle entrate espressa nella recente
risoluzione n. 165/E del luglio 2007 in risposta a una precisa istanza di interpello formulata
da un contribuente. Le sanzioni applicabili al caso di specie sono quelle rispettivamente
previste nell'articolo 13 e nell'articolo 14 del dlgs n. 471/1997. La prima norma richiamata
infatti prevede che «chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i
versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo
dell'imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l'ammontare dei
versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione
amministrativa pari al 30% di ogni importo non versato_». La seconda norma richiamata
punisce invece il non aver operato la ritenuta d'acconto stabilendo che «chi non esegue, in
tutto o in parte, le ritenute alla fonte è soggetto alla sanzione amministrativa pari al 20%
dell'ammontare non trattenuto, salva l'applicazione delle disposizioni dell'articolo 13 per il
caso di omesso versamento. Pertanto, ipotizzando la situazione di un sostituto d'imposta
che omette di effettuare e versare nei termini una ritenuta d'acconto pari a 100 euro
avremo una sanzione per l'omessa ritenuta pari a 20 euro (20% dell'importo della ritenuta)
a cui si aggiungerà la sanzione relativa al mancato versamento di 30 euro (30%
dell'importo della ritenuta). L'ipotesi qui descritta deve essere attentamente valutata in
considerazione del fatto che, stante la rigida posizione dell'amministrazione finanziaria in
tema di scomputo delle ritenute d'acconto, alcuni sostituiti preferiscano incassare il lordo
del proprio compenso procedendo poi essi stessi al versamento della ritenuta d'acconto.
Se questo metodo operativo è in grado di garantire al sostituito la certezza del versamento
della ritenuta d'acconto potrebbe però essere fonte di sanzioni a carico del sostituto, il
quale, evidentemente, corrisponde un compenso senza operare la ritenuta d'acconto.
Tornando all'esempio numerico di cui sopra, infatti, il sostituto al momento del pagamento
del compenso corrisponderà al sostituito l'intero importo, al lordo della ritenuta d'acconto,
pari a 500 euro. Il sostituito provvederà poi al versamento, in nome e conto del sostituto,
dell'importo di 100 euro corrispondente alla ritenuta d'acconto. Poiché dalla contabilità del
sostituto sarà evidente il fatto che all'atto del pagamento del compenso non si è operata la
ritenuta d'acconto e si è corrisposto l'importo al lordo della stessa, potrebbe scattare, a
carico di quest'ultimo, l'ipotesi sanzionatoria prevista nell'articolo 14 del dlgs n. 471/1997.
Naturalmente non sarebbe invece applicabile la sanzione prevista dall'articolo 13 del
medesimo dlgs in quanto la ritenuta è invece versata nei termini di legge. Anche questo
modus operandi, diffuso proprio a causa delle rigide posizioni assunte dall'Agenzia delle
entrate in tema di scomputo delle ritenute, finisce per testimoniare, in un certo senso,
l'assurdità delle pretese erariali sul tema. Dunque, chiarita la fonte normativa della doppia
violazione e specificata l'entità delle singole sanzioni applicabili, resta comunque salva la
possibilità per il sostituto di ricorrere all'istituto del ravvedimento operoso beneficiando così
della riduzione della sanzione minima nelle misure variabili previste dalla norma a seconda
del periodo in cui il ravvedimento stesso viene effettuato.
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Barbara Addui, La Repubblica pag. 25
Fisco-lumaca, 5 anni per chiudere una lite
Troppo lunghe e spesso fallimentari. Le liti tra fisco e contribuenti durano degli anni e nella
maggior parte dei casi si risolvono con la sconfitta per l´erario. Alla fine del primo grado di
giudizio il 52,88 per cento delle cause si chiude con una vittoria del contribuente.
L´amministrazione finanziaria recupera qualche punto in appello, ma è ben poca cosa:
vince l´erario solo nel 58,67 per cento dei casi. Ci sono sezioni tributarie poi, nelle quali le
vittorie del contribuente sfiorano l´80 per cento. Accade in Valle D´Aosta e nella provincia
di Catanzaro, dove l´amministrazione fiscale perde oltre 78 cause su cento.
La sconfitta per il fisco giunge dopo anni di attesa. Per chiudere una causa ci vogliono di
norma quattro anni tra primo e secondo grado con una media nazionale che si attesta a
654 giorni per il grado provinciale e a 721 per quello regionale. La regione delle cause
lumache è il Lazio, dove mediamente il tempo che intercorre tra la presentazione del
ricorso e il deposito della sentenza è di oltre 1.868 giorni, oltre 5 anni.
Anche per arrivare al primo grado di giudizio bisogna aver pazienza. In Valle D´Aosta la
procedura è veloce: sei sette mesi e si va in aula. Lente invece le Commissioni tributarie
regionali di Calabria e Friuli Venezia Giulia, dove prima di quattro anni difficilmente si
chiude. Un periodo di latenza che aumenta al Sud. L´arretrato rimane una sorta di zoccolo
duro, anche se in diminuzione rispetto alla situazione del passato, dove non solo si
contavano migliaia di cause pendenti, ma di anno in anno la cifra lievitava.
A fotografare la situazione è l´ultima relazione inviata al ministero dell´Economia dal
Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, che prende in considerazione gli ultimi
dati a disposizione, quelli che si riferiscono al 2006. Ne viene fuori l´immagine di una
giustizia tributaria lenta, dove mediamente è il contribuente a spuntarla e dove i ricorsi,
invece di diminuire, tendono ad aumentare.Numeri che hanno convinto l´Agenzia delle
entrate a recuperare terreno. Scatta oggi infatti il progetto "Qualità del contenzioso" con il
quale l´amministrazione fiscale punta a incrementare gli esiti favorevoli delle liti di
maggiore rilevanza economica. Una circolare con le linee strategiche del progetto è
arrivata da tempo agli uffici competenti. Il progetto prevede in particolare il coinvolgimento
delle direzioni regionali, che dovranno svolgere una costante azione di monitoraggio e
assistenza agli uffici. Il fisco vuole migliorare la capacità operativa degli uffici, ma
soprattutto chiede che la difesa in giudizio degli interessi erariali sia di qualità elevata.
Qualità che va realizzata attraverso la tempestiva e esauriente costituzione in giudizio e la
sistematica e qualificata presenza in udienza. Tra gli obiettivi del progetto c´è anche quello
di evitare la causa a tutti i costi. Così l´amministrazione invita gli uffici, quando ci siano i
presupposti, a incentivare strumenti quali l´accertamento con adesione e la conciliazione
giudiziale, evitando così sia al contribuente che al fisco di finire nelle aule giudiziali.
Ma quante sono le cause? Per quanto riguarda gli ultimi dati, quelli del 2006, a fronte di
323.007 procedimenti che sono arrivati nelle Commissioni, se ne contano 323.062 che
sono stati definiti. Il che significa che tanti ne entrano e più o meno altrettanti ne escono,
lasciando l´arretrato ben oltre il mezzo milione di cause (dai 610.942 ricorsi pendenti del
primo gennaio 2006 si è arrivati a 593.746 al 31 dicembre dello stesso anno, con una
riduzione del 2,81 per cento). Sono in aumento invece ricorsi e appelli, a quota
rispettivamente 275.153 nel 2006 (+7,7 per cento sul 2005) e 47.854, (+4,7%).
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Sabina Pignataro, Italia Oggi pag. 26
Europa
Ue, il futuro sono le qualifiche
Nel 2015 ci vorrà la laurea per fare il lavoro che ora richiede solo il diploma. E ci vorrà un
master di specializzazione laddove adesso è sufficiente la laurea. In sette anni l'Europa
assisterà a un drammatico declino della domanda di lavoratori poco qualificati a fronte di
una crescita delle richieste di lavoratori altamente qualificati. Lo dicono le proiezioni
occupazionali realizzate dal Cedefop, il Centro europeo per lo sviluppo della formazione
professionale, che evidenziano come in meno di dieci anni bisognerà studiare molto per
trovare un primo lavoro e bisognerà continuare ad aggiornarsi, per mantenerlo o
cambiarlo, per tutta la vita. Insomma, la forza lavoro cambierà quasi pelle mentre 13
milioni di lavoratori entreranno nelle imprese per la prima volta. Le aziende per lo più
guarderanno a figure di alto e medio-alto profilo, come legislatori, dirigenti, manager e
professionisti, con competenze e qualificazioni crescenti, ma anche a manovali e
commessi. «La domanda di lavoro», spiega la direttrice del Cedefop, Aviana Bulgarelli, «si
concentrerà su professioni fortemente specializzate e ad alto contenuto di conoscenza, i
livelli di istruzione e qualificazione richiesti cresceranno a discapito delle basse
qualificazioni». Se si guarda ai titoli di studio si scopre che le professioni per le quali oggi
viene richiesto il titolo di laurea, da qui al 2015 registreranno un incremento del 2,8%
mentre le professioni con un basso titolo di studio complessivamente caleranno dell'1,4%.
In termini assoluti, si tratta di una crescita di quasi 12,5 milioni di posti con le qualificazioni
più elevate e quasi 9,5 milioni di medio livello, controbilanciati da un deciso declino di 8,5
milioni di lavoro per quelli con nessuna o poca qualificazione. Le stime del Centro per lo
sviluppo della formazione professionale cambiano da paese a paese: a livello europeo la
domanda di lavoratori a bassa qualificazione calerà dell'1%. In generale si prevede un
crollo della domanda di lavoratori a bassa qualificazione in ogni settore: lavori manuali da
esperti (-4,8%), lavori impiegatizi (-2,3%) lavori di alta qualificazione (-0,4%). Mentre
aumenterà del 3,6% quella di lavoratori a media qualificazione, come gli addetti
specializzati alle vendite e i tecnici specializzati. Nel 2015 il settore primario occuperà 10
milioni di lavoratori in tutta l'Europa, contro i 12 milioni del 2006, e i 15 milioni del 1996;
l'industria manifatturiera ne impiegherà 34,5 milioni, contro i 38 milioni del 1996. I servizi
sono quelli che hanno le migliori prospettive con una crescita di quasi 9 milioni di posti di
lavoro tra il 2006 e il 2015. Nei servizi pubblici le opportunità maggiori saranno nella
sanità, lavori sociali e istruzione. Meno nella pubblica amministrazione. A livello italiano,
secondo la ricerca, nei prossimi sette anni avremo sempre più bisogno di personale
specializzato. Nello specifico, il Cedefop prevede una riduzione della domanda di
lavoratori agricoli e della pesca (-47,5%), come anche di operai di fabbrica (-18,5%), di
operatori e montatori di macchinari (-10,4%). In calo anche la richiesta di militari (-2,2%).
Cresce, invece, la domanda di pubblici funzionari di alto livello, dirigenti e manager
(+26,5%), tecnici (+26,1%), professionisti qualificati (+18,6%). Aumenta, anche se in
percentuali più basse, anche la domanda di addetti al commercio (+8,3%) e di impiegati
generici (+9,4%). Sempre più spesso saranno necessarie conoscenze linguistiche,
tecniche e normative che porteranno a selezionare gli aspiranti uomini di fatica tra coloro
che hanno studiato, almeno un po' più di quanto sia richiesto ora. A questo bisognerà
aggiungere l'aggiornamento professionale continuo che dovrà essere effettuato da tutti i
professionisti. Nonostante i singoli governi europei ci stiano lavorando, il livello è ancora
molto basso: solo il 9,6% di lavoratori europei partecipa a programmi di formazione
permanente.
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GIURISPRUDENZA
Giovanni Negri,Il Sole 24 Ore pag. 49
Parcella dell’avvocato al sicuro dal fallimento
Rafforzati i crediti dei professionisti. Anche quando questi ultimo sono inseriti in uno studio
associato il loro credito deve essere considerato privilegiato tutte le volte che nasce da
un’attività direttamente imputabile a un singolo professionista. A questa conclusione è
arrivata la Sezione fallimentare del Tribunale di Milano con sentenza depositata il 25
febbraio. Fallita la società cliente del professionista, si era posta la questione delle
caratteristiche giuridiche da applicare alle parcelle vantate per verificare se potevano
essere assistite dal privilegio nel pagamento dei crediti fallimentari. L a sentenza traccia
una linea di demarcazione cui fare riferimento. A prescindere dal fatto che l’attività di
assistenza legale portata in giudizio non poteva che essere riferita direttamente
all’avvocato indicato nella procura. Si è trattato, nella lettura dei giudici, di normali
prestazioni professionali rese dal singolo professionista incaricato e non di prestazioni di
servizi fornite da una struttura organizzata con caratteristiche di natura sostanzialmente
imprenditoriale, “non risultando l’inserimento del professionista in uno studio associato di
per sé sufficiente ad alterare la natura del rapporto tra professionista e cliente,
caratterizzato dalla prestazione e dalla responsabilità diretta del professionista”. “In
concreto – osserva la sentenza – l’associazione professionale può risultare articolata in
forme alquanto variegate per quanto riguarda i livelli di interazione tra i professionisti
coinvolti e, in ogni caso, volendosi focalizzare in modo corretto il piano della valutazione
socio economica, la differenza rilevante nell’ambito della realtà delle professioni è
rappresentata dalla grande divaricazione tra i livelli reddituali, certamente cresciuta a
seguito dell’aumento esponenziale degli iscritti, che non riflette però la dicotomia tra
professionisti titolari di studio individuale e professionisti che esercitano nell’ambito di studi
associati”. Il Codice civile (articolo 2751-bis, n. 2) inoltre, che stabilisce la natura
privilegiata del credito del professionista che copre i due anni precedenti, non si preoccupa
di istituire una differenza fondata sulla forma di modello organizzativo o sul livello di
reddito. Il privilegio assiste così sempre il credito, con l’unica condizione che quest’ultimo
abbia per oggetto la retribuzione che spetta a un professionista. Per il tribunale, la
prestazione resa dal singolo professionista come nel caso dell’assistenza legale, avrà
sempre queste caratteristiche anche se il professionista fa parte di un’associazione
professionale. La sentenza sottolinea che mancano i presupposti perché il privilegio possa
essere riconosciutoselo quando l’opera intellettuale di una pluralità di professionisti è parte
“di una complessa prestazione di assistenza tecnica commissionata alla struttura
organizzata in cui i professionisti sono inseriti con cui essi collaborano”. In questa ipotesi è
infatti evidente che il rapporto tra cliente e struttura organizzata, anche se costituita da
professionisti nella forma dell’associazione professionale, non presenta le caratteristiche
del rapporto professionale concentrato sulla personalità della prestazione: si tratta invece
di prestazione di servizi intellettuali eseguita nell’ambito di un’attività che è
sostanzialmente di natura imprenditoriale.
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Cassazione
Remo Bresciani,Il Sole 24 Ore pag. 49
Immobili in comodato, occhio alle clausole
Prima di chiedere la restituzione di un immobile concesso in comodato conviene leggere
attentamente le clausole del contratto. La sola volontà di rientrare in possesso del bene
potrebbe, infatti, non essere sufficiente per riottenerne la restituzione. L’ipotesi si verifica
quando, pur non essendo prevista una scadenza del contratto, il negozio contiene una
clausola che dispone la restituzione solo in caso di necessità, con la conseguenza che il
comodato diventa un contratto atipico, per cui la parte che chiede di rientrare in possesso
del bene deve dimostrare di avere la necessità di impiegarlo per fini propri. Sono questi gli
innovativi principi indicati dalla Cassazione con la sentenza n. 6678/08 che ha individuato
una nuova figura di comodato non riconducibile a quelle disciplinate negli articoli 1809 e
1810 del Codice civile che prevedono rispettivamente il comodato a termine e quello
senza limiti di durata.
Italia Oggi (29/03/08) pag. 42
Rito societario senza connessione
Niente connessione nel rito societario. Con la sentenza n.71/2008, depositata ieri in
cancelleria e redatta dal giudice Francesco Amirante, la Consulta ha dichiarato illegittimo
l'art.1 del decreto legislativo n. 5/2003 nella parte in cui estende l'ambito di applicazione
del processo societario a tutte le controversie connesse a norma degli articoli 31, 32, 33,
34, 35 e 36 del codice di procedura civile. A sollevare la questione di legittimità è stato il
giudice del lavoro del tribunale di Padova chiamato a decidere su una controversia
societaria connessa con una causa di lavoro. Quest'ultima, stando alla lettera del dlgs
n.5/2003, sarebbe stata da attrarre nel rito societario. Per scongiurare questa eventualità il
giudice del lavoro si è rivolto alla Consulta sostenendo che il decreto legislativo sul
processo societario sarebbe stato viziato per eccesso di delega. Secondo il giudice infatti,
la connessione sarebbe stata introdotta dal legislatore “al di fuori dei termini della delega
che nulla stabiliva in tema di rito applicabile in caso di connessione di procedimenti
regolati da riti diversi”. La Corte costituzionale ha ritenuto la questione fondata. “La
disposizione esorbita dalla delega nel cui dettato non trova fondamento”, ha sentenziato
senza mezzi termini la Consulta che nella decisione si è spinta anche oltre quello che era
l'oggetto del quesito posto dal giudice a quo. Questi, infatti, aveva censurato la
disposizione del dlgs n.5/2003 solo nella parte in cui stabiliva l'applicabilità del rito
societario in caso di connessione con una causa in materia di diritto del lavoro. Tuttavia, la
Consulta, accertato che la legge delega non autorizzava il governo a intervenire in materia
di connessione tra procedimenti diversi, ha ritenuto legittimo estendere l'oggetto della
decisione, fino a ricomprendere “l'intera disposizione concernente il rito applicabile alle
controversie connesse”.
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Paolo Russo,Il Sole 24 Ore pag. 49
La multa va annullata se il vigile è fuori servizio
Va annullato, in materia di circolazione stradale, il verbale di contestazione redatto dalla
polizia municipale per violazione del Codice della strada, se la presunta violazione è
accertata da un agente in abiti civili è fuori dal servizio di vigilanza. Lo ha stabilito la
Cassazione con la sentenza 5771/08.
Italia Oggi (29/03/08) pag. 42
Niente «ex Cirielli» in appello
La legge «ex Cirielli» non si applica ai processi pendenti in appello e in Cassazione. Con
la sentenza n.72/2008, depositata ieri e redatta dal giudice Alfio Finocchiaro, la Consulta
ha respinto, dichiarandola non fondata, l'ennesima questione di legittimità sulla
controversa legge (n. 251/2005) del governo Berlusconi che ha ridotto la prescrizione per
alcuni reati aumentando le pene per i recidivi. La legge nella sua formulazione iniziale
disponeva che le nuove norme si applicassero già ai procedimenti pendenti al momento
della sua entrata in vigore, ad eccezione però di quelli di primo grado in cui fosse iniziato il
dibattimento, nonché di quelli pendenti in appello e in Cassazione. Ma sul punto è
intervenuta nel 2006 (sentenza n.393) la Corte costituzionale che ha esteso l'applicazione
delle nuove regole a tutti i procedimenti di primo grado senza distinzioni, ritenendo non
ragionevole che l'apertura del dibattimento potesse costituire un discrimine.
L'inapplicabilità dei nuovi termini prescrizionali ai giudizi pendenti in appello e in
Cassazione è invece rimasta ed è stata oggetto della decisione di ieri dei giudici di leggi.
La Consulta ha bocciato il ragionamento della Corte d'appello di Roma che, partendo
proprio dalle motivazioni della sentenza n.393/2006, puntava a estendere l'applicazione
della «ex Cirielli» ai processi pendenti in secondo grado. Per questo tipo di giudizi, ha
stabilito la Corte, «l'esclusione dell'applicazione retroattiva della prescrizione più breve non
discende dall'eventuale verificarsi di un certo accadimento processuale (come l'apertura
del dibattimento, appunto, ndr), ma dal fatto oggettivo e inequivocabile che processi di
quel tipo siano in corso ad una certa data». Inoltre, prosegue la Consulta, «nei giudizi
penali di appello, e ancor più in quelli di Cassazione, l'esigenza di evitare che
l'acquisizione del materiale probatorio, e quindi l'esercizio del diritto di difesa dell'imputato,
sia resa più difficile dallo scorrere del tempo è già soddisfatta dalla disciplina positiva di tali
giudizi». Infatti, in via di principio, il materiale probatorio è acquisito nel corso del
dibattimento di primo grado, mentre in appello la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale
è ammessa solo nei casi previsti dall'art. 603 cpp (riassunzione di prove già acquisite o
assunzione di nuove prove, se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo
stato degli atti, ndr). Sulla base di queste argomentazioni la Corte costituzionali ha quindi
ritenuto ragionevole la scelta operata dal legislatore del 2005 di escludere l'applicazione
dei nuovi termini di prescrizione ai giudizi pendenti in appello e in Cassazione.
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Elsa Vinci, La Repubblica (29/03/08) pag. 21
Cani, l’ordine della Cassazione: “I padroni li facciano abbaiare poco”
Abbaiare ma senza disturbare. Se qualche mese fa un giudice di pace a Trento ha sancito
che abbaiare per un doberman «è un diritto esistenziale», la Cassazione invita i proprietari
dell´amico a quattro zampe a un minimo di bon ton. Soprattutto in condominio, dove
«l´eccitazione dell´animale va contenuta».C´era chiasso anche di notte in casa di una
coppia di Monsumanno Terme, nel Pistoiese. Frequenti i dopo cena con amici, che il loro
cane festeggiava. Ovvio durante il giorno l´abbaiare ad ogni suono del campanello e
appena il portone richiudeva l´androne del palazzo. «Una continua cagnara», secondo i
vicini. La lite è arrivata al supremo grado di giudizio. Con la sentenza 7856 la Cassazione
sancisce che certo «non bisogna coartare» la natura del cane impedendogli del tutto di
abbaiare, ma solo cercare di ridurre al minimo «le occasioni di disturbo, prevenendo le
possibili cause di agitazione ed eccitazione dell´animale, soprattutto nelle ore notturne».
Negli atti di piazza Cavour non è indicata né la razza né la taglia del cane in questione, la
regola è generale: i padroni devono contenere la «tendenza» di certi esemplari ad
abbaiare «ogni qualvolta sentono suonare il campanello o avvertono la presenza di
persone all´interno del palazzo». Gli altri condomini però devono «contribuire alla civile
convivenza e tollerare episodi saltuari di disturbo da parte dei cani che vivono nello
stabile».La Cassazione ha respinto il ricorso della coppia pistoiese contro la decisione del
tribunale che nel 2002 aveva ordinato ai padroni del cane di «osservare scrupolosamente
il regolamento condominiale, cercando di evitare il continuo abbaiare». La sentenza è
stata confermata, ed è nel solco della giurisprudenza. La Suprema Corte infatti ha sempre
sanzionato i proprietari di cani «molesti». Anche se a lamentarsi era un solo vicino.
Stavolta i padroni non sono stati condannati ma avendo perso il processo e dovranno
pagare le spese di giudizio. Per non aver educato forse prima se stessi e soltanto poi il
loro cane a vivere in una comunità.
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FLASH
Italia Oggi (29/03/08) pag. 44
Entrate, qualità per i contenziosi
L'agenzia delle entrate dà il via al progetto «qualità del contenzioso tributario». Dal 1°
aprile le direzioni regionali saranno chiamate ad assicurare, attraverso il monitoraggio
delle controversie e l'assistenza agli uffici, l'incremento dell'efficienza dell'azione difensiva
del fisco. A darne notizia è la circolare n. 29 del 28 marzo 2008, con la quale l'agenzia
impartisce disposizioni operative in materia di contenzioso tributario, tenendo conto
dell'atto di indirizzo ministeriale per il triennio 2008–2010 e delle linee guida del piano
aziendale dello stesso periodo, che contempla quale fattore critico di successo l'aumento
della sostenibilità della pretesa tributaria. La circolare si sofferma sulla novità
rappresentata dal progetto, che vedrà le direzioni regionali impegnate nel riscontro
preventivo di qualità dell'azione degli uffici, da effettuare durante l'iter del contenzioso, fino
alla definitiva conclusione. Le controversie interessate dal progetto verranno individuate
successivamente, nell'ambito dei ricorsi alla Ctp notificati a decorrere dal 1° gennaio 2008.
In questo contesto, le direzioni regionali provvederanno a verificare la tempestività,
correttezza e completezza degli adempimenti di competenza dei team legali degli uffici:
dalla costituzione in giudizio in primo e secondo grado alla riscossione provvisoria e
definitiva, dalla partecipazione alle udienze all'esecuzione dei provvedimenti del giudice,
dall'appello o acquiescenza alle richieste di ricorso e controricorso in cassazione.
Un'attività, quella delle direzioni regionali, che dovrà essere di stimolo per una più efficace
gestione delle controversie. Riguardo agli obiettivi operativi, la circolare spiega che, in via
sperimentale, è stato assegnato l'obiettivo di incremento degli esiti favorevoli dei giudizi di
primo e secondo grado in relazione ai ricorsi contro atti di accertamento. Il miglioramento
sarà valutato rispetto alla media registrata nel biennio precedente, prendendo come base
di calcolo non il numero delle decisioni, ma i valori complessivi delle controversie
confermati dai giudizi oppure annullati. Nel biennio 2006-2007, a livello nazionale, la
percentuale a favore dell'agenzia è stata pari al 50,4% in Ctp e al 46,5% in Ctr, percentuali
che ciascun ufficio dovrà incrementare di almeno il 2%, se nel detto periodo era sotto la
media nazionale, ovvero dell'1% negli altri casi.
Corriere della Sera (29/03/08) pag. 35
Assegni, tassa da 1,50 euro
Dal 30 aprile nuove regole per assegni bancari, postali e circolari, libretti di risparmio e
contanti. Dai 5.000 euro in su scatta l'obbligo di emettere solo assegni «non trasferibili»,
mentre per «cheque liberi» si paga una tassa di 1,50 euro ad assegno. Vietato emettere
assegni «a me medesimo» se non per l'incasso di contanti da parte della stessa persona
che li ha emessi. Inoltre gli assegni liberi dovranno portare per ogni girata, pena la sua
nullità, anche l'indicazione del codice fiscale. Le nuove norme, messe a punto dal
ministero dell'Economia per adeguarsi alle direttive comunitarie e combattere riciclaggio e
criminalità, prevedono anche sanzioni. «Una sovratassa per disincentivare l'uso degli
assegni trasferibili e sollecitare l'utilizzo della carta di credito» dice il direttore generale
dell'Abi Giuseppe Zadra
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La Repubblica (29/03/08) pag. 25
Al via la stretta sugli assegni trasferibili: codice fiscale, bollo e tetto massimo
Entro il 30 aprile è bene fare un salto in banca o alle Poste. È in arrivo infatti una minirivoluzione su emissione di assegni, trasferimento di contanti, libretti e titoli al portatore.
«Nulla di che spaventarsi», avverte Giuseppe Zadra, direttore generale dell´Associazione
bancaria italiana. È solo l´ultimo capitolo della "guerra al contanti", ma anche all´evasione,
al nero, al riciclaggio. Per capire bene cosa cambierà sarà disponibile un vademecum agli
sportelli bancari. È bene leggerselo attentamente perché ci sono scadenze o procedure
che vanno rispettate. Cosa cambia? Dal 30 aprile quando chiederete il libretto degli
assegni le banche vi daranno in automatico solo carnet di assegni "non trasferibili". Se li
volete "trasferibili" dovrete fare una richiesta scritta e per ogni assegno pagare un´imposta
di 1,50 euro. Ma, attenzione, andranno utilizzati solo per importi inferiori ai 5mila euro. E i
vecchi assegni? Nel dubbio, è bene scriverci "non trasferibile". Quelli che dovete ancora
incassare sono salvi. Non solo. Non potranno più essere girati a qualcun altro gli assegni
con la dicitura "a me stesso, a me medesimo, ecc". Perché anche le regole sulla "girata"
cambiano. Solo gli assegni "trasferibili" potranno essere girati ad altri, solo per importi non
superiori ai 5mila euro e solo se ad ogni girata verrà indicato nome e codice fiscale di chi
gira. Senza il codice fiscale l´assegno non potrà essere riscosso. Perso, dunque.
Anche per i libretti "al portatore" la soglia fissata dalle nuove disposizioni non deve
superare i 5mila euro. I libretti esistenti con saldi superiori dovranno essere estinti o
dovranno essere condotti al nuovo limite. Ma c´è tempo fino al 30 giugno 2009.
( a cura di Daniele Memola )
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31 - Ordine degli Avvocati di Trani