IPASVI
Editoriale
L’editoriale
Benedetta Mattiacci
Presidente Collegio IPASVI
R
itorniamo al nostro appuntamento “cartaceo”, ovvero al format tradizionale de “La Parola a Noi”, dopo una pausa forzata.
Ci mancava. Vi mancava come avete voluto testimoniarci.
Naturalmente, ci proponiamo di offrirvi uno spaccato di informazione e di comunicazione, a cominciare dalla ventilata proposta
di soppressione dell’articolo n.49 del Nuovo Codice Deontologico,
che afferma:
“L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella
struttura in cui opera. Rifiuta la compensazione, documentandone le ragioni,
quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente
il suo mandato professionale”.
Non sappiamo da chi sia partita questa proposta, quindi non conosciamo
le motivazioni di base. Di certo, l’articolo n.49 “tutela” l’attività professionale e “limita” gli interventi de-professionalizzanti ai soli casi che “possono eccezionalmente
verificarsi”.
L’articolo si rivela uno strumento di tutela della professione, quindi una
conquista, difficile da strumentalizzare in quanto regola datasi dalla professione.
Dipende solo ed esclusivamente da noi, così come l’osservanza. La soppressione
è una ipotesi, la riduzione dei posti letto e la riconversione delle strutture ospedaliere di Massafra e di Mottola sono, invece, realtà che possano preoccupare non
poco gli Infermieri, in mancanza di una pianificazione appropriata del personale
infermieristico.
Non dubitiamo, tuttavia, che quanti preposti alla organizzazione e pianificazione abbiano a cuore l’ottimizzazione delle risorse infermieristiche, delle prestazioni e del benessere psico-fisico degli infermieri, ma non solo, anche dei cittadini fruitori.
Purtroppo, la nota dolente è rappresentata dalla contrazione della spesa
sanitaria, contenuta nel Piano di Rientro, di cui potrete leggere in uno degli articoli
del nostro giornale. Ci preoccupa perché rischia di creare difficoltà a tutti gli infermieri neo-laureati, per i quali c’è il rischio concreto di uno scenario tristemente
noto: la migrazione per lavoro.
Noi non vogliamo, perché è una sconfitta per il nostro meridione, è
la perdita di risorse a beneficio di altre realtà.
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PIANO DI RIENTRO
Deliberazione della Giunta Regionale 15 dicembre 2010 n. 2791
Piano di rientro e di riqualificazione del Sistema Sanitario Regionale 2010-2012
Regolamento di riordino della rete ospedaliera della Regione Puglia per l’anno 2010. Adozione con procedura d’urgenza
di Emma Bellucci Conenna
L’
Assessore alle Politiche della Salute, sulla base dell’istruttoria espletata dal Dirigente dell’Ufficio Rapporti Istituzionali e confermata dal Dirigente del Servizio Programmazione Assistenza Ospedaliera e
Specialistica, riferisce quanto segue:
Il D.Lgs. 502/1992 s.m.i., all’art. 2, co. 1, attribuisce alle Regioni l’esercizio delle funzioni legislative ed amministrative in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera, nel rispetto dei principi stabiliti dalle leggi nazionali.
La Regione Puglia, con Legge Regionale 19 settembre 2008, n. 23, ha approvato il Piano Regionale di Salute
2008-2010 che, con riferimento all’assistenza ospedaliera, determinava uno standard di posti letto pari a 4,5
p.l. per mille abitanti e prevedeva una riorganizzazione della rete ospedaliera per ambiti territoriali (comprensorio; provincia; macro-area) e tipologie assistenziali (ospedali di primo livello o di base; ospedali di livello intermedio; ospedali di riferimento provinciale e/o regionale), disponendo altresì una riconversione in strutture
sanitarie territoriali degli stabilimenti ospedalieri con una dotazione inferiore a 70 posti letto.
L’Intesa Stato-Regioni 3 dicembre 2009 (Patto per la Salute 2010-2012) recepita dalla L. 191/2009 (Finanziaria 2010) è intervenuta in materia di razionalizzazione della rete ospedaliera ed incremento dell’appropriatezza dei ricoveri, al fine di promuovere il passaggio dal ricovero ordinario al ricovero diurno e dal ricovero
diurno all’assistenza in regime ambulatoriale nonché di favorire l’assistenza residenziale e domiciliare. A tal
fine, l’art. 6, co. 1 della predetta Intesa ha disposto, con decorrenza 31/12/2010 per le Regioni sottoposte a
piano di rientro e 30/6/2011 per tutte le altre Regioni, la riduzione dello standard di posti letto a 4 p.l. per mille
abitanti, comprensivi di 0,7 p.l. per mille abitanti per la riabilitazione e lungodegenza post-acuzie, ed il relativo
adeguamento delle dotazioni organiche dei presidi ospedalieri pubblici.
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Successivamente la Regione Puglia ha elaborato, ai sensi dell’art. 1, co. 180 della L. 311/2004 Legge Finanziaria 2005), richiamato dall’art. 2, co. 97 L. 191/2009 (Legge Finanziaria 2010), il “Piano di rientro e di
riqualificazione del Sistema Sanitario Regionale 2010-2012” con l’allegato Programma Operativo, che è stato
oggetto dell’Accordo del 29/11/2010 tra il Ministro della Salute, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ed il
Presidente della Regione Puglia.
Detto Piano di rientro, approvato con DGR n. 2624 del 30/11/2010, prevede, tra le iniziative finalizzate al perseguimento dell’equilibrio economico, il riordino della rete ospedaliera regionale, da cui si attendono ricadute
economiche associate alla riduzione dei ricoveri, alla riduzione dei posti letto per acuti, alla trasformazione o
disattivazione di stabilimenti ospedalieri.
Il riordino della rete ospedaliera introdotto dal Piano di rientro prevede, entro il 31/12/2010, le seguenti azioni:
- disattivazione di 1.411 posti letto, di cui 1.224 per acuti e 187 per post-acuti,
- chiusura di 15 stabilimenti ospedalieri;
- riconversione di 3 stabilimenti ospedalieri in strutture sanitarie territoriali.
Entro il 31/12/2011 è prevista poi la disattivazione di 500 posti letto, di cui 130 negli Enti Ecclesiastici e 370
nelle Aziende ed Enti del Servizio Sanitario Regionale.
Entro il 31/12/2012, infine, è prevista la disattivazione di ulteriori 300 posti letto delle Case di cura private
accreditate, previa revisione delle pre-intese approvate con DGR n. 813 del 13/6/2006.
Le azioni programmate per gli anni 2011 e 2012 saranno, comunque, oggetto di successivi provvedimenti
regolamentari.
Il citato Accordo del 29/11/2010 tra il Ministro della Salute, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ed il
Presidente della Regione Puglia, all’art. 1, co. 3, ha previsto l’impegno della Regione a presentare entro il 15
dicembre 2010 i provvedimenti relativi al riordino delle rete ospedaliera.
Si propone pertanto alla Giunta Regionale, attesa la cogenza dei termini temporali suindicati, di adottare con
procedura d’urgenza il Regolamento di riordino della rete ospedaliera della Regione Puglia per l’anno 2010,
allegato al presente schema di provvedimento quale sua parte integrante e sostanziale, nonché di richiedere, nei termini di cui di cui all’art. 44, co. 3, della L.R. 7/2004 – “Statuto della Regione Puglia”, il parere della
Commissione Consiliare competente per materia.
Abbiamo ritenuto opportuno riportare uno stralcio
del Piano di Rientro della regione Puglia, seguito
all’accordo firmato in dicembre con il Governo, con
il quale la Regione si è impegnata a modificare le
leggi regionali n.11 e n.12 del 2010, per adeguarsi ai rilievi di legittimità formulati dal Consiglio dei
Ministri il 18 novembre 2010, oltre che ad attuare
iniziative per un contenimento dei costi pari a 450
milioni di euro. Vediamo i punti salienti.
Promuovere il passaggio dal ricovero ordinario al
ricovero diurno e dal ricovero diurno all’assistenza
in regime ambulatoriale nonché favorire l’assistenza residenziale e domiciliare.
Ridurre lo standard di posti letto a 4 p.l. per mille abitanti, comprensivi di 0,7 p.l. per mille abitanti
per la riabilitazione e lungodegenza post-acuzie, e
relativo adeguamento delle dotazioni organiche dei
presidi ospedalieri pubblici.
“Piano di rientro e di riqualificazione del Sistema
Sanitario Regionale 2010-2012”, ovvero:
disattivazione di 1.411 posti letto, di cui 1.224 per
acuti e 187 per post-acuti,
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chiusura di 15 stabilimenti ospedalieri;
riconversione di 3 stabilimenti ospedalieri in strutture sanitarie territoriali.
Entro il 31/12/2011 è prevista poi la disattivazione
di 500 posti letto, di cui 130 negli Enti Ecclesiastici e
370 nelle Aziende ed Enti del Servizio Sanitario Regionale. Per quello che riguarda la Asl Ta, il Piano
ha portato ad una riduzione dei posti letto passati
da 1313 a 1044.
prevede criteri concordati con le OO. SS. per la ricollocazione in strutture del distretto”.
Vogliamo rammentare che il rapporto Era (Epidemiologia e ricerca applicata), presentato il 2 dicembre a Roma e realizzato da Ministero della Salute,
Istituto Superiore di Sanità, Istat, Università di Tor
Vergata e dalla Nebo Ricerche, assegna alla nostra
regione la maglia nera per i ricoveri inappropriati,
con un tasso del +13% rispetto alla media naziona-
POSTI LETTO TOTALI ASL TA
OSP.
Castellaneta
Mottola
Massafra
Martina Franca
Taranto SS.Annunziata + Moscati
Grottaglie
Manduria
TOT.
HSP
156
68
32
146
598
153
160
1313
\
Ha prodotto, altresì, la contestatissima (da
esponenti cittadini, politici e non, e da OO.SS. per
il mancato coinvolgimento nella destinazione, per
cui l’atto è definito unilaterale) riconversione degli
ospedali di Mottola e di Massafra, “il primo - afferma
il dott. Colasanto, commissario della Asl Ta- oggetto di una sperimentazione gestionale per individuare un soggetto privato, di comprovata esperienza
nel settore riabilitativo, a cui affidare la realizzazione dell’intero progetto, atteso che recepire nuove risorse economico-finanziarie nelle attuali contingenze del bilancio è pressoché impossibile, per cui la
proposta organica di questo management è l’unica
in grado di dare un significato funzionale vero alle
risorse pubbliche impegnate (lo spreco è di aver
avviato un progetto di costruzione senza sapere
con precisione la “mission” che la struttura doveva
avere, mantenendo in piedi una “parvenza” di funzione assistenziale); per il secondo c’è una delibera
di fine dicembre (27 o 28) con la proposta della Asl
di riconversione in Struttura di Servizi Territoriali”,
essenziali dal momento che il Piano punta alla deospedalizzazione ed all’incremento dell’assistenza
in regime ambulatoriale, residenziale e domiciliare.
Quanto alla destinazione del personale infermieristico?
“Per Mottola- aggiunge il commissario - il percorso
prevede che il personale venga comandato presso
il gestore - si ripropone il modello San Raffaele - o
ricollocato sul territorio. Per Massafra si procederà
alla pura applicazione del contratto di lavoro che
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RIDET.
112
0
0
138
573
100
121
1044
Note
(374 SS. Ann. + 199 Mosc.)
le (chi nasce nel sud ha il 40% di probabilità in più
degli abitanti del centro nord di passare una giornata in ospedale).
“Indubbio che questo Piano presenti punti virtuosi a cominciare dalla razionalizzazione dei servizi,
ovvero taglio degli sprechi e delle inutilità sul piano
assistenziale, contenimento della spesa per alcuni
esami e implementazione per altri – commenta il
dott. Patrizio Mazza, vice-presidente della Commissione regionale Sanità – Meno soldi significa
ragionare di più, fare virtuosismi, il che equivale a
fare cose più appropriate, meno costose che rendono di più sul piano assistenziale. Ricoverare un
pz. per 15 giorni per un esame è assurdo, perché
con un piano di ricovero si possono dimezzare i
giorni; i costi si riducono se gli esami vengono fatti ambulatorialmente. Necessario il coinvolgimento
dei medici nelle terapie antibiotiche, allo scopo di
ridurre l’uso dei medicinali con riduzione dei costi.
Le polemiche sulla chiusura degli ospedali deve
tener conto di una platea di fattori e dell’esistenza dei ricoveri impropri, oltre il 50%, che toglie risorse all’assistenza quotidiana di soggetti deboli.
Dobbiamo, allora, spostare il concetto di assistenza
dall’ospedale al territorio, rimuovendo il concetto,
instillato nella gente, che l’assistenza è solo quella ospedaliera. L’assistenza è quella quotidianità di
prevenzione, è non far venire la malattia, cosa che
implica scelte anche economico-sociale, è far vivere “meglio” i cittadini”, arrivando a rimuovere “malattie legate all’ambiente”.
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“CREAZIONE DI UNA CELLULA
SPERIMENTALE PROVINCIALE”
di Benedetta Mattiacci
L
a dirigenza delle professioni sanitarie è stata
di recente tema di un convegno organizzato
dalla Asl Ta come momento di confronto dei
modelli gestionali di direzione delle professioni
sanitarie della nostra regione E’ una occasione
oltremodo ghiotta per la possibilità di crescita e
di acquisizione di esperienze collaudate per una
presa in carico globale della persona, in specie
della persona con problematiche complesse.
Non dimentichiamo che, ad esempio, il Servizio Infermieristico della nostra ASL è neonato, abbisognevole
di modelli di confronto e di riferimento, nonché di integrazione.
Comunque, la nascita di questo servizio è un fatto
positivo e, come Collegio, non possiamo che plaudire
alla realizzazione dei dettati della Legge 251/2000.
Allora, soddisfazione nel presente che, però, non
deve essere ritenuto punto di arrivo, ma punto di partenza per un percorso da ottimizzare, ad esempio,
con la costituzione di quella che in altre regioni è realtà, ovvero, una area specifica dell’Agenzia Sanitaria
Regionale che dia le linee di indirizzo per il governo
clinico.
Per governo clinico si intende il sistema attraverso il
quale le organizzazioni del S.S.N. hanno la piena responsabilità del miglioramento continuo della qualità
dei servizi, degli standards assistenziali, dell’appropriatezza delle cure e della creazione di un habitat
idoneo a sviluppare l’eccellenza dell’assistenza sanitaria, che deve essere omogenea su tutto il territorio
nazionale così come recitano le leggi di riforma sanitaria 502/92 e 517/93.
Questo l’auspicio .
Nel contempo, la proposta del nostro Consiglio
Direttivo è orientata verso la creazione di una cellula
sperimentale provinciale in maniera tale da poter essere individuata come luogo della buona prassi condivisa culturalmente ed attivata omogeneamente sul
territorio provinciale, esportabile a livello regionale.
Dunque, dar vita al governo clinico che detta le linee
di indirizzo per le peculiarità assistenziali e crea quelli che si chiamano percorsi assistenziali, omogenei
sull’intero territorio regionale per la ottimizzazione
dell’offerta sanitaria.
Ad esempio il percorso per l’emodinamica, il percorso
per il cateterismo vescicale, il percorso per l’infarto
del miocardio e, perché no, un percorso per l’amianto… E noi, infermieri della provincia ionica, sappiamo bene che esistono moltissimi malati per l’amianto
senza che possano essere curati, ci risulta, con le
migliori evidenze scientifiche.
Quindi alla base dei percorsi dalle EBN alle EBHC
ovvero la pratica assistenziale tarata sulle evidenze
scientifiche acclarate.
In questa linea propositiva, quale il ruolo del Collegio
IPASVI di Taranto?
Abbiamo molto gradito l’invito a collaborare. E pensiamo di aver individuato il nostro ruolo attraverso la
collaborazione quale studio e ricerca delle migliori
prassi di assistenza sanitaria, ospedaliera e territoriale, nazionale ed internazionale che possano essere
mutuate nella nostra realtà sino a creare uno stile che
possa chiamarsi e possa essere identificato come stile di assistenza ionica.
Di quanto appena espresso, sono naturalmente portavoce, così come naturalment la realizzazione del
progetto deve essere irradiabile quanto meno a livello regionale, fermo restando la nostra costante sollecitazione presso l’ARES affinché non prescinda nei
suoi interventi a lavorare per una omogeneizzazione
dei protocolli di intervento.
La salute dei Cittadini non può, infatti, dipendere da
spurie contingenze risultanti dalle mode del momento
o dal fortuito incontro con staff di “brave persone”
Vale qui la pena di ricordare che i Servizi Infermieristici originano per migliorare la qualità dell’assistenza
da erogare ai Cittadini, i quali non possono che vedere rispettato l’esercizio del diritto alla salute che è
diritto alla vita.
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ACCETTARE LA NUOVA IMMAGINE
DI SÉ NELLA PATOLOGIA ONCOLOGICA
Estratto della tesi di laurea in Infermieristica
Università degli Studi di Bari - Polo di Taranto - Anno Accademico 2009-2010
di Lucia Padovano
Questa tesi è stata sviluppata partendo dall’ipotesi che l’infermiere è la figura professionale che si presta meglio alla valutazione della risposta del paziente al cambiamento fisico e alla rilevazione dei bisogni assistenziali che ne derivano.
Il lavoro che ho svolto vorrebbe sottolineare la dimensione relazionale della professione infermieristica che, purtroppo, nel nostro sistema sanitario non riesce ad avere
il giusto “spazio”, occupato quasi totalmente dalla dimensione tecnica.
D’
altronde, il DM 734/94 concernente il
profilo professionale dell’infermiere,
il Patto infermiere cittadino del 1996,
il Codice Deontologico redatto dalla Federazione
Nazionale Collegi IPASVI nel 2009, gli Obiettivi della
formazione infermieristica (ordinamento
didattico), indicano l’importanza di stabilire e mantenere relazioni efficaci con la persona assistita.
Per evidenziare ulteriormente l’importanza della
natura relazionale dell’infermiere, ho sentito anche
la necessità di mettere in risalto che, con l’evoluzione del concetto di salute dalla visione meramente organicistica a quella olistica, il “prendersi cura”
di una persona non può prescindere dalla componente relazionale.
Durante tutto il percorso assistenziale relativo al
paziente oncologico, emerge costantemente la necessità di una presa in carico “globale”.
Tra i bisogni emergenti, ne ho individuato e scelto
uno, ossia, quello che scaturisce dall’alterazione
della percezione dell’immagine di sé.
BISOGNO: Stima e autostima
D.I. Alterazione dell’immagine del proprio corpo
e dell’autostima legate a modificazioni dell’aspetto fisico, delle proprie funzioni e dei ruoli.
OB. Miglioramento dell’immagine del corpo e
dell’autostima identificando le potenziali minacce e discutere delle preoccupazioni.
Considerando “il cambiamento fisico” come fulcro
centrale di questa tesi, bisogna tener conto che l’esperienza di malattia incrina sempre, più o meno
profondamente, il concetto di sé e le sue componenti e, una patologia oncologica, può creare cambiamenti
fisici alla persona difficili da accettare , per cui non
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ho potuto far a meno di soffermarmi sulla caduta
dei capelli, effetto spiacevole di molti farmaci chemioterapici, un aspetto quasi identificativo per il
malato di cancro e evento traumatico soprattutto
per le donne.
Per quanto riguarda la parte sperimentale, la mia
attenzione è stata catturata dalle donne trattate per carcinoma mammario che, in virtù del loro
cambiamento fisico, devono rielaborare la propria
femminilità, la propria sessualità e i ruoli che girano
intorno ad essa: moglie e madre.
Non a caso, anche la ricerca medica si muove verso
una chirurgia sempre più conservativa e ricostruttiva, per migliorare i risultati funzionali e estetici.
Il mio campione di indagine, è stato dunque selezionato tra queste donne.
Questa scelta è stata tristemente spinta anche dai
“numeri” relativi all’incidenza del carcinoma mammario che sono, purtroppo, drammaticamente
grandi. Per questo la decisione dell’indagine condotta presso il Presidio Ospedaliero Centrale
Dell’ASL di Taranto ed è stata svolta utilizzando in
parte il questionario “THE BODY IMAGE SCALE”,
ossia una traduzione elaborata di un questionario
inglese accreditato e in parte con domande relative
all’assistenza.
IL CAMBIAMENTO FISICO NELLA PATOLOGIA
ONCOLOGICA
L’esperienza di malattia incrina sempre, più o meno
profondamente, il concetto di sé e le sue componenti, tuttavia può essere talvolta incompatibile
con una qualità di vita ritenuta accettabile da sé e
dagli altri.
Molto spesso il cambiamento fisico diventa la con-
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L’équipe infermieristica e la coordinatrice
del D.H. Oncologico - Ospedale Moscati.
ferma alla diagnosi di tumore che rappresenta di
per sé un evento traumatico.
Questo obbliga il paziente a superare la fase di negazione della malattia mettendolo in grossa difficoltà perché costretto a rielaborare la sua immagine corporea, oltre che a convivere con molte paure,
stati d’animo e proiezione nel futuro che diventa
qualcosa di incerto.
La “prescrizione”, non basta ad aiutare una persona a ritrovare l’equilibrio psicofisico
di cui ha bisogno, perciò il trattamento medico delle neoplasie viene attuato con diverse
modalità: chemioterapia, ormonoterapia, immunoterapia, uso di modificatori della risposta biologica.
Si deve pensare al trattamento medico, quale la
chemioterapia che comporta al di là del malessere
fisico importanti effetti collaterali che vanno ad incidere sulla fisicità della persona, come l’alopecia.
In alcuni casi può succedere che si verifichino fenomeni quali caduta delle sopracciglia, delle ciglia,
dei peli che ricoprono il pube e tutto il resto del
corpo.
Altro problema che va ad incidere sull’aspetto fisico della persona è la via di somministrazione della
terapia. I farmaci citotossici possono venire somministrati attraverso la via endovenosa e orale.
La somministrazione endovenosa può avvenire
attraverso un accesso periferico (agocannula) o
tramite un catetere venoso centrale (CVC, Port-a-
cath), a seconda delle caratteristiche del paziente,
del protocollo terapeutico, del farmaco.
Di fatto i pazienti subiscono vari prelievi e posizionamenti di aghi cannula che possono portare alla
formazione di importanti stravasi vascolari (ematomi), possono subire il posizionamento di un catetere venoso centrale, tutti eventi che in qualche
modo deturpano la propria fisicità.
L’IMMAGINE CORPOREA
“La nostra epoca è caratterizzata fortemente dalla riscoperta
del corpo.
[…] Il corpo deve essere efficiente, sportivo, alla moda, sempre in forma,
sempre pronto.” (A. Scala, 1998).
Se si pensa che l’immagine corporea è influenzata
da sensibilità (dolore, piacere, tatto), controllo motorio, associazione pensiero-azione emozioni, fattori psico-sociali, è semplice dedurre che quando
si ha un’alterazione di una qualsiasi parte corporea, vi è un’immediata ripercussione sull’immagine
corporea, in quanto l’evento lesivo comporta delle
reazioni emotive psicologiche e sociali con conseguente alterazione al processo di adattamento.
Questa alterazione dell’immagine corporea provoca, generalmente, sentimenti di angoscia, di dolore e di depressione, che devono essere elaborati
con molto impegno e determinazione, per poter
ricostruire una nuova immagine di sé. Questo dif-
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ficile percorso, può essere agevolato da un’adeguata educazione terapeutica, trasmessa anche
dall’infermiere, una delle poche figure responsabili
dell’assistenza, che ha la possibilità di valutare la
risposta del paziente alla salute e alla malattia, la
risposta della famiglia, le implicazioni sociali della
malattia, gli adattamenti psicologici.
LA PERSONA OLISTICA E IL DOLORE GLOBALE
Nel lontano anno 1170, sul portale del più antico
ospedale di Parigi, l’Hotel Dieu, si leggeva, ed è
ancor oggi visibile, la scritta
“Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò”.
Curare non significa necessariamente guarire. E’
anche importante rispettare la dignità della persona e mantenere il benessere mentale e sociale,
potenziando le capacità psicofisiche, nel rispetto
delle condizioni ambientali e relazionali, dei nostri
pazienti.
Chi si prende cura della persona sofferente deve
individuare insieme alla persona stessa il suo sollievo, agendo nel rispetto della medesima ed offrendo
un intervento personalizzato che miri a considerare
al centro del rapporto di cura globale la persona
olistica con i suoi bisogni.
Per “persona olistica” si intende la persona nella
sua interezza con le componenti fisiche, psichiche,
sociali e spirituali.
Per attenuare questo dolore globale ed ottenere il
sollievo non si possono limitare le cure al solo trattamento farmacologico ma è essenziale la relazione d’aiuto attraverso la quale ci si rapporta all’intera
persona, nella sua realtà umana e socio-culturale.
PERSONALIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA
Raggiungere gli obiettivi che una assistenza infermieristica a 360° richiede, significa aver dedicato al
paziente il massimo delle risorse personali e di tutta l’equipe, nonché la consapevolezza di aver assistito la persona in tutta la sua integrità psico-fisica.
È opinione ampiamente diffusa che, fra gli obiettivi
perseguiti dal servizio sanitario, debbano essere
incluse l’umanizzazione e la personalizzazione dell’assistenza.
Con tale locuzione si vuole indicare che i processi
di miglioramento della qualità, nei diversi ambiti della
Sanità, non possono limitarsi ad affrontare la dimensione “oggettiva” delle prestazioni sanitarie,
cioè l’insieme delle caratteristiche scientifiche e
tecnologiche, per loro natura più facilmente misurabili, delle attività professionali.
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Il giudizio di qualità di una prestazione include necessariamente elementi “soggettivi”, a cominciare
dalle percezioni positive sperimentate dal cliente che accede ai servizi sanitari: in altre parole, il suo grado
di soddisfazione.
Coerentemente, i concetti “umanizzazione” e “personalizzazione” sono venuti ad assumere principalmente, nel linguaggio sanitario, una valenza socio-organizzativa: ad essi si è soliti fare riferimento per
indicare la necessità di superare i limiti (e le disfunzioni) della dimensione tecnicistica di cui soffre l’ospedale contemporaneo, come conseguenza della
forte evoluzione della scienza medica nel senso del
progresso tecnologico delle cure.
Il concetto di “personalizzazione”, relativamente ai problemi della qualità nelle prestazioni sanitarie, non si risolve comunque nell’approccio
organizzativo.
Nel linguaggio dell’infermieristica, il termine “personalizzazione” si è specializzato ad indicare la
sostanza ed il modo dell’assistenza infermieristica:
personalizzare significa dunque adattare (e condizionare) l‟azione professionale ai costituenti soggettivi che la
persona esprime come portatrice di bisogni.
Il problema della personalizzazione dell’assistenza
infermieristica si sostanzia nel riconoscimento del
bisogno di assistenza costituitosi nel singolo cliente, in rapporto al quale le dimensioni psicologica e
socio-culturale sono responsabili della traduzione
in una
domanda di assistenza di tipo fondamentalmente
soggettivo.
Non è dunque il cliente che può o deve adattarsi all’offerta
sanitaria dell’infermiere o dell’istituzione preposta alla sua
cura, ma il contrario.
IL RAPPORTO FRA INFERMIERE E PAZIENTE:
LA QUALITÀ DELL‟INCONTRO
Chi lavora nell’ambito della cura in oncologia deve
tenere presente lo spirito con cui il paziente fa ricorso, abitualmente, a diverse persone nella ricerca di sostegno e deve
comprendere che egli rivela a ciascuno spesso
lati differenti di se, traducendo la complessità delle sue emozioni, dei suoi pensieri, dei suoi giudizi
sulla situazione.
Sarà dunque sempre utile e vantaggioso darsi
l’occasione di confrontare questi diversi punti di
vista rispettando le regole della discrezione e del
segreto professionale condiviso.
Ciascun operatore sanitario si confronta con le
esigenze talvolta contraddittorie dei suoi compiti,
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si interroga sulla pertinenza delle sue capacità.
I rischi di malinteso, di conflitto tra i curanti, sono
quindi importanti e possono condurre ad un irrigidimento degli atteggiamenti, ad una presa di
distanza eccessiva e ai sintomi istituzionalmente
classificati come sindrome di burn out, caratterizzati
da negligenza nella
comunicazione (per es. nessuno informerà il paziente del referto di un esame), dal non tenere nel
dovuto conto la sintomatologia dolorosa portata
dal paziente, da fuga e indifferenza di fronte alle
manifestazioni di esaurimento emotivo del paziente stesso e della sua famiglia.
Il sostegno relazionale e l’intervento educativo nei
confronti del paziente appartengono al ruolo proprio dell’infermiere.
La sua funzione lo rende particolarmente vulnerabile alle difficoltà di cura in oncologia, a causa del
confronto con la sofferenza fisica e psicologica
del paziente, con i risultati incostanti delle terapie,
con l’eventualità della morte del paziente stesso,
con i problemi etici connessi all’accanimento terapeutico ed all’eutanasia.
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DIMENSIONE RELAZIONALE DELLA PROFESSIONE INFERMIERISTICA
Il ruolo dell’ Infermiere è ben specificato nel “Patto infermiere-cittadino” e nel Codice Deontologico
degli Infermieri,
Degli articoli ben 15 si riferiscono esplicitamente
alla dimensione relazionale della
professione nel rapporto con il paziente, mentre
l’intero Patto infermiere-cittadino è volto a sottolineare obiettivi e modalità della relazione d’aiuto
che si instaura tra l’operatore e il malato.
Questa consonanza tra i due documenti, pur realizzati in due momenti diversi, non lascia dubbi circa
l’ importanza che si riconosce alla dimensione relazionale nella professione infermieristica quale componente indispensabile per poter prendersi cura
della persona, del suo benessere fisico e spirituale.
LA RELAZIONE D’AIUTO
La relazione d’ aiuto rappresenta un elemento essenziale dell’assistenza infermieristica, essa infatti
permette all’ infermiere il raggiungimento del suo
scopo, cioè restituire autonomia, segno di dignità
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ed autostima alla persona.
La persona che si ammala di cancro, chiede a chi
la assiste, un interesse franco e autentico, calore e
sincera partecipazione alla propria sofferenza fisica
e psicologica.
In quest’ottica è facile comprendere quanto sia rilevante la comunicazione non verbale, capace di veicolare molte più informazioni, emozioni e sensazioni
di quanto possa fare la
comunicazione verbale.
Rogers nel 1951 ha definito la relazione d’aiuto
come:
“una relazione in cui uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il
raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato
[…]; una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore
delle risorse personali del soggetto e una maggiore possibilità
di espressione”.
Tra le principali caratteristiche vi troviamo empatia,
calore, interessamento, accettazione e autenticità.
Per interessamento s’intende “l’attenzione per l’altro da me”, nel campo sanitario concepito come
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attenzione per il benessere di chi si cerca di aiutare
e permette di considerare il dolore della persona
e/o le conseguenze dolorose del suo comportamento, per sé o per gli altri.
Autenticità significa essere se stessi, senza presunzioni, sapere chi e cosa si è, conoscere i propri
valori guida.
All’infermiere autentico è richiesto di non temere le
differenze, e di conseguenza di essere capaci di tollerarle,
di essere in grado di sostenere il conflitto e l’incertezza, e a
volte anche di trarre piacere dal non essere sicuro di tutto in
anticipo.
L’empatia permette all’infermiere di comprendere il
vissuto di malattia, cioè l’esperienza del paziente,
e comprendere non significa appropriarsene; l’empatia consente di entrare nel mondo del malato
non sostituendosi a lui.
La relazione d’aiuto si caratterizza, dunque, nella
capacità di ascolto attivo, attento ai bisogni di quella persona, nella sua storia individuale: in questo
contesto, diventa molto importante “saper leggere” attraverso i canali della comunicazione non solo
verbale, ma anche non verbale e paraverbale.
Masolino da Panicale
Guarigione dello zoppo
Firenze, Cappella Brancacci
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Un aspetto importante che deve essere sottolineato consiste nelle predisposizione ad evitare ogni pregiudizio sulla persona, spesso basato su convinzioni
personali o del gruppo sociale di appartenenza e
che, di solito, si collega alla cultura, ai valori, al grado di scolarità alla posizione sociale.
Nell’attività dell’infermiere, l’ascolto attivo può essere d’aiuto in due modi: innanzitutto, facilita la
raccolta delle informazioni e, poi, crea ipresupposti per
una buona relazione terapeutica.
In particolare, una paziente portatrice di neoplasia della mammella, richiede un sostegno psicologico continuo, per affrontare, l’intero percorso
della malattia, i cambiamenti fisici, psichici, sociali
e spirituali ad essa correlati nel miglior modo possibile.
L’ infermiere mediante la relazione d’aiuto, deve restituire speranza alla paziente, incoraggiandola se
necessario nel processo di razionalizzazione della
crisi.
Il contatto, l’ascolto attivo, il controllo della realtà,
il chiarimento dei valori diventano in tal modo parte
integrante dell’assistenza infermieristica
L’infermiere e gli altri operatori sanitari svolgono un
ruolo fondamentale nel processo di equilibrio che il
paziente e la sua famiglia devono gestire.
È molto importante quindi mantenere la massima
delicatezza nelle interazioni con quei pazienti che
stanno faticosamente risalendo la china della propria autostima
Poiché l’esperienza di malattia è anche cambiamento e richiesta di riadattamento, occorrono
strumenti per favorire questo processo e per aiutare l’altro a non “distruggersi”
Il counseling può essere uno di questi strumenti.
colare forma di relazione d’aiuto, che ha nel colloquio strutturato la sua caratteristica e specificità.
L’intervento relazionale e l’intervento di counseling
hanno in comune l’ ascolto attivo ed empatico, in
quanto, nell’approccio relazionale se non si ascolta
non si entra in rapporto, nell’approccio di counseling se non si ascolta non si comprende.
Il counseling, come detto in precedenza, è un processo, e come tale, ha tempo e tempi, quindi fasi.
Un processo di counseling si articola su tre momenti:
IL COUNSELING
L’OMS definisce il counseling come:
“un processo di dialogo e di interazione duale attraverso il
quale il consulente aiuta il consultante a prendere delle decisioni e ad agire di conseguenza, oltre a fornire una accurata
e attenta informazione ed un sostegno psicologico adeguato.
Il counseling è diretto ad aiutare il paziente in un momento
di crisi, ad incoraggiare cambiamenti nel suo stile di vita, se
necessario, proponendo azioni e comportamenti realistici, ed
è volto a metterlo in grado di accettare le informazioni ansiogene favorendo l’adattamento alle relative implicazioni”
Il counseling, quindi, è intervento e prestazione di
tipo relazionale.
Poiché la sua finalità è “aiutare l’altro ed aiutarsi”,
il suo setting è la dualità, la reciprocità, il vis-à-vis e il
“qui e ora”
Si può quindi definire il counseling come un parti-
espressioni del viso, movimenti del corpo, gestiimmagine.
Il criterio fondamentale per assumere il ruolo dell’ascoltatore è la verifica della propria disponibilità a
porsi in questa situazione.
All’interno della relazione, possiamo riconoscere
diversi benefici che l’ascolto efficace può portare:
si ottiene la comprensione del messaggio ricevuto,
si ascolta un significato che va oltre le parole, si
favorisce l’empatia e, con il feed-back, si stimola
l’altro a continuare l’interazione.
L’ ascolto del malato, dunque, è costituito da tre
elementi essenziali:
•
il primo rappresentato dalla comprensione
del problema,
•
il secondo dall’esplorazione del problema
•
il terzo dalla gestione del problema.
Alla base del processo di counseling si trova la comunicazione e, poiché la comunicazione è sempre
dialogica, anche l’ascolto può avere più di una dimensione: è l’ascolto del paziente da parte dell’operatore, ma anche l’ascolto dell’operatore da parte del paziente.
La comunicazione è un processo di trasmissione
di “messaggi” che parte da una persona e ne raggiunge un’altra.
La comunicazione interpersonale si esprime attraverso due modalità:
•
la comunicazione verbale, cioè la parola
pronunciata o scritta,
•
la comunicazione non verbale, che riguarda
segnali vocali e non vocali,
•
dal prestare attenzione,
•
dalla verifica della percezione,
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•
dal feed-back.
Prestare attenzione al malato significa manifestare
la massima attenzione e interesse per lui e dargli
la calda sensazione che tutto ciò che egli dirà non
cadrà nel vuoto ma sarà preso in attenta considerazione.
L’attenzione efficace, inoltre, consta di quattro
componenti:
1. il contatto visivo mantenuto a una distanza confortevole per entrambi (meno di un
metro),
2. la postura dell’operatore (leggermente proteso verso il malato),
3. l’atteggiamento calmo non distratto e non
frettoloso,
4.
il commento verbale che deve servire e
confermare l’ascolto senza
interrompere il malato e senza cambiare l’argomento.
La verifica della percezione serve all’operatore per
accertare se egli ha compreso bene ciò che il malato ha detto, parafrasando, ricapitolando il messaggio, oppure chiedendo chiarimenti in merito.
Il feed-back verbale o non verbale serve per confermare al malato che il suo messaggio è stato compreso perfettamente: questa confermaincoraggia il
malato a continuare a comunicare.
IL RUOLO DELL’INFERMIERE
Anche l’infermiere può utilmente utilizzare il
counseling, benché il suo apprendimento è ancora
lasciato all’iniziativa personale.
Si tratta di una utilità e un utilizzo che affiora dalla
quotidianità e dalla continuità del rapporto col malato.
Il ruolo di counselor, è un ruolo che può essere
svolto solo se l’infermiere accetta questo modo più
nascosto e discreto, ma non meno significativo e
importante, che porta il soggetto a una progressiva
presa di coscienza e prepara il terreno a interventi
più mirati, talvolta effettuati da altri operatori.
È un ruolo che richiede anche una sinergia con
quello degli altri operatori, del medico in primo luogo, sinergia ancora troppo raramente intenzionalmente ricercata e troppo spesso scambiata con la
sudditanza e la passiva esecuzione delle prescrizioni.
Vi sono poi prestazioni, quali quelle di tipo preventivo ed educativo, per i quali il counseling è lo stru12
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mento più adeguato.
È strumento utile anche nel corso del processo
terapeutico, a cui l›infermiere collabora, nelle situazioni in cui si precisa nel soggetto in cura un
interrogativo, si presenta un problema, o si rende
necessario prendere una decisione.
Il counseling è lo strumento per elaborare, sistematizzare, ristrutturare, tutto ciò; renderlo comprensibile e accettabile.
Altrettanto dicasi per il rapporto con i parenti, per
gran parte di fatto gestito dagli infermieri, spesso
ancor più problematico e importante di quello con
lo stesso malato. Ma anche qui ci si trova a cimentarsi con un territorio poco definito, non riconosciuto, lasciato all›intuito, al buon senso e all›iniziativa
dei singoli.
Il counseling obbliga alla costatazione che tutta
la formazione infermieristica, oltre che essere per
gran parte teorica, è improntata al»fare».
L›infermiere è ben lontano dal «pensarsi» come
un operatore che usa il colloquio come strumento di lavoro; ma, anche se lo fosse, non è allenato
alla conduzione del colloquio e alla gestione delle
espressioni emotive della sofferenza, dei vissuti di
ansia e di depressione che possono emergere e
tende, benché non sia sempre possibile, a
rifuggire da tale esperienza.
La «parola che cura» come forma di accompagnamento della cura del corpo è il punto di arrivo di
una ricerca che porta a superare «l›uomo dimezzato» ma anche «l›infermiere dimezzato», incapace di
instaurare con i propri malati/utenti relazioni umane
significative e di trarne da esse beneficio.
IL PAZIENTE ONCOLOGICO: ASSISTENZA E
TRATTAMENTI
LA CARE DEL PAZIENTE ONCOLOGICO
Il cancro è un evento traumatico che interviene
bruscamente ed improvvisamente alterando l’equilibrio individuale e interpersonale ed evocando un
clima di incertezza e indeterminatezza.
Non riguarda soltanto l’individuo malato ma coinvolge inevitabilmente la sua famiglia che spesso
diventa una “unità sofferente”.
Si tratta di una prova esistenziale sconvolgente che
riguarda tutti gli aspetti della vita: il rapporto con
il proprio corpo, il significato dato alla sofferenza,
alla malattia, alla morte, così come le relazioni familiari, sociali, professionali.
Premesso questo, il passaggio dal “curare” una
malattia al “prendersi cura” di un paziente considerato nella globalità della sua persona e inserito nel
suo contesto familiare e sociale impone il pensare che
chi sta dall’altra parte non è semplicemente il por-
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tatore di un danno
cellulare più o meno complesso ma una persona
che necessita in tutti i momenti dell’iter diagnostico-terapeutico di una presa in carico globale, attenta e sensibile a tutti i bisogni che direttamente o
indirettamente il soggetto esprime.
La comunicazione della diagnosi
Comunicare la diagnosi di un tumore o di una ripresa della malattia è un momento estremamente
delicato e importante del processo terapeutico.
La comunicazione non passa soltanto attraverso
canali di tipo verbale ma molto più sottilmente ed
in modo spesso più incisivo attraverso un insieme
di messaggi non verbali (il tono della voce, la gestualità). E’ di fondamentale importanza che non vi
sia contraddizione tra questi due tipi di comunicazione.
Non deve esserci contraddizione neanche tra i
membri del personale sanitario.
La verità, come spesso accade in tante situazioni
diverse della vita, non è solo difficile da ascoltare,
ma è anche difficile da dire e, per quanto riguarda
la comunicazione della diagnosi, di solito, non si
esaurisce in un “atto unico” ma può avvenire gradualmente nel tempo, all’ interno della relazione tra
medico, paziente e familiari, man mano che la
consapevolezza e i bisogni del paziente cambiano
in relazione all’iter della malattia.
E’ fondamentale che le informazioni fornite al paziente siano sempre chiare e coerenti.
Non esiste una formula adatta per tutte le situazioni
(dire tutto in ogni caso oppure non dire nulla in ogni caso).
Sicuramente è un diritto del paziente conoscere la
malattia da cui è affetto anche per poter affrontare
con maggiore motivazione le terapie spesso pesanti che gli vengono proposte.
Fornire informazioni è un atto medico con un’enorme importanza terapeutica: oltre a ridurre l’ansia e
l’incertezza, restituisce al paziente la libertà che la
malattia gli ha sottratto, l’autonomia e la capacità
di fare delle scelte, la consapevolezza della realtà
che sta vivendo e l’adattamento alla nuova situazione di vita.
La fase del trattamento
Il paziente oggi viene sempre più coinvolto nel processo terapeutico e nelle decisioni cliniche, spesso
anche nella scelta tra diversi trattamenti.
La “compliance” del paziente al trattamento è fortemente legata alla capacità del medico di motivarlo (adeguata informazionecomunicazione).
Sopratutto nei casi a buona prognosi, la paura della sofferenza indotta dai trattamenti può a volte
prevalere sulla paura della malattia stessa. Le te-
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rapie antitumorali possono essere di diverso tipo,
a seconda del tumore presente, delle sue caratteristiche, dello stato della malattia e degli obiettivi del
trattamento.
Le opzioni terapeutiche più conosciute applicabili
ai diversi tipi di tumore sono la chirurgia, la chemioterapia e la radioterapia.
Le neoplasie oggi si affrontano in modo integrato, cioè associando le diverse strategie, secondo
schemi ormai convalidati dalla pratica clinica.
Alla chirurgia, infatti, sempre più conservativa, si
affiancano la terapia farmacologica e la terapia radiante.
La chirurgia mantiene sempre un ruolo importante
e primario nel trattamento della maggior parte dei
tumori .
Se per un verso l’ atto operatorio suscita numerose
paure delle quali le più frequenti sono la minaccia
alla propria integrità fisica, la preoccupazione di affidarsi alle mani di un estraneo e di non risvegliarsi
dopo l’ anestesia, d’altro lato l’atto chirurgico, pur
essendo traumatico, è visto anche come trattamento immediato e liberatorio.
In ogni caso l’ intervento chirurgico più o meno demolitivo determina un’alterazione della propria immagine corporea o addirittura il rifiuto del proprio
corpo (mastectomia, colostomia, interventi sull’apparato genitale).
La radioterapia è utilizzata per la cura di numerose
neoplasie da sola, o, più frequentemente, associata con la chirurgia o con la chemioterapia allo scopo di aumentare la sopravvivenza dei pazienti ma
anche di ridurre la necessità di interventi chirurgici
demolitivi con preservazione della funzione d’organo e netto miglioramento della qualità di vita del
paziente.
Può essere fonte di paure specifiche:
- timore di qualcosa che non si vede (le radiazioni);
- di essere “bruciati” dalle radiazioni;
- di rimanere radioattivi dopo il trattamento;
- di trovarsi soli in un bunker sotto
apparecchiature sofisticate
(mi può cadere addosso?).
Per quanto riguarda la chemioterapia, in passato era quasi esclusivamente limitata a pazienti con neoplasia in fase avanzata, oggi è
ampiamente utilizzata come terapia preoperatoria
(neoadiuvante1) o più frequentemente postoperatoria (adiuvante) e coinvolge, quindi, molti pazienti
potenzialmente già guariti.
Tra le paure più frequenti c’è la paura degli effetti
collaterali del trattamento (può manifestarsi con
vomito “anticipatorio”).
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Ma anche l’ alterazione del proprio corpo in relazione alla terapia è fonte di preoccupazione e disagio.
Questo perché, fondamentalmente, il paziente si
vede malato di cancro (es. caduta dei capelli, posizionamento CVC) e anche gli altri lo vedono così.
Durante le fasi del trattamento, alla luce dei numerosi bisogni assistenziali del paziente, è messa in
risalto l’importanza di quelle figure professionali
coinvolte nel trattamento e spesso più a lungo a
contatto con il paziente quali il personale infermieristico ed i tecnici di radioterapia, che si trovano
spesso a rassicurare il paziente anche riguardo gli
effetti collaterali di tali trattamenti.
Infatti, il paziente, durante il percorso terapeutico,
fa abitualmente ricorso a persone diverse nella ricerca di sostegno, rivelando a ciascuno, spesso,
lati differenti di sé.
Spesso il paziente sceglie proprio l’infermiere o il
tecnico per esternare le proprie emozioni, paure,
ansie o per parlare di sé e della sua famiglia.
La fase del follow up
Più della metà dei pazienti con diagnosi di cancro
presenta un’aspettativa di vita di 20 anni o più, nonostante ciò le conseguenze fisiche e psicologiche
del cancro rimangono a lungo dopo il termine delle
terapie e nonostante anche, la rassicurazione che
non c’è evidenza di malattia.
Purtroppo, sopravvivere al cancro spesso non significa tornare alla normalità di prima. Infatti, molti
pazienti sperimentano uno stress psicologico legato proprio al termine delle terapie attive (soprattutto
di quelle adiuvanti) come se si sentissero improvvisamente privi di “protezione”.
Per quanto riguarda i controlli poi, la maggior parte
dei pazienti trova rassicurazione nell’incontro con il
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medico che conferma che “le cose vanno bene” e addirittura alcuni accettano con difficoltà il diradarsi
dei controlli nel tempo.
Molti pazienti,invece, vivono con disagio i controlli
per il timore di scoprire una ripresa della malattia .
Può accadere che la sindrome della spada di Damocle
e lo stato di preoccupazione e di ansia che ne derivano possono assumere le caratteristiche di una
vera “seconda malattia”. Ne deriva disponibilità del
personale sanitario all’ascolto e a rispondere alle
domande dei pazienti per non alimentare le incertezze e lo stato d’ ansia.
La ripresa di malattia
Di solito rappresenta un evento ancora più traumatizzante della diagnosi iniziale.
L’ evoluzione della malattia è vissuta dal paziente (e anche dal medico) come un insuccesso nella
consapevolezza che la possibilità di morire si fa più
concreta.
La comunicazione al paziente della ripresa di malattia è molto più difficile rispetto a quella della diagnosi iniziale, anche in relazione alla disponibilità o
meno di ulteriori armi terapeutiche.
Nella comunicazione della ripresa di malattia è comunque di fondamentale importanza che al paziente non venga mai tolta la speranza, così come
probabilmente è ingiusto illuderlo o ingannarlo .
La fase di malattia terminale
Nella fase di malattia terminale l’attenzione viene
rivolta soprattutto alla qualità della vita.
Per il paziente in questa fase viene prevista assistenza domiciliare oppure, quando non è assistibile
presso il proprio domicilio viene affidato a strutture
sanitarie residenziali quali l’Hospice.
In entrambi i casi, la realistica speranza di essere assistiti con cura, competenza e umanità fino in
fondo è un potente antidoto all’angoscia del malato e della sua famiglia, legata alla prospettiva di essere “scaricati” dall’istituzione ospedaliera, quindi
abbandonati a sé stessi proprio nelle fasi finali.
Non da meno è l’ importanza del supporto sociale
(familiari, amici, volontari) per affrontare meglio le
varie fasi della malattia ma soprattutto quella terminale. Nonché il supporto alla famiglia sia durante la
fase terminale che dopo (gestione del lutto).
Presa in carico del paziente
L’adattamento alla malattia ed ai trattamenti dipende in larga misura dalla qualità dell’approccio
relazionale dell’ équipe curante, che ne è artefice
soprattutto tramite il controllo degli effetti collaterali delle terapie, il controllo del dolore, della sintomatologia ansiosa e depressiva.
Ciò è possibile attraverso una presa in carico in-
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dividualizzata del paziente, tramite l’informazione
sui vari aspetti della patologia così come tramite la
valutazione dei suoi bisogni, delle sue possibilità di
scelta, della sua situazione familiare e sociale.
Questo presuppone da parte del personale sanitario anche un “ascolto attivo” della storia del paziente, delle sue fantasie, delle sue paure e dei meccanismi difensivi adottati per contenere l’ angoscia.
Una modalità di “presa in carico” del paziente attuata attraverso la costituzione di un’ équipe multidisciplinare di professionisti delle diverse specialità
con l’elaborazione di “percorsi diagnostico-terapeutici” per le varie patologie neoplastiche (senologia, neoplasie del distretto ORL, neoplasie gastrointestinali, ecc
Il paziente si sente “preso per mano” proprio nel
momento di maggior disagio legato dapprima al
sospetto e poi alla diagnosi di cancro e condotto in
poco tempo a definire un percorso attivo di “lotta”
alla sua malattia.
Sapere che la proposta terapeutica che gli viene
presentata è frutto di una discussione collegiale tra
diversi specialisti è per il paziente particolarmente
confortante.
I TRATTAMENTI ANTITUMORALI E LA CADUTA
DEI CAPELLI
I trattamenti antitumorali, quali la chemioterapia e
la radioterapia, possono avere come effetto collaterale la caduta dei capelli.
Quest’evento è vissuto in modo molto diverso dai
pazienti: per alcuni mostrare il cranio calvo non è
un problema, altri, invece, preferiscono nasconderlo facendo uso di parrucche, cappelli o foulard.
La chemioterapia
Il paziente oncologico porta con se numerose problematiche di gestione per quanto riguarda la terapia chemioterapica.
In primis risulta ormai necessario l’impianto di
un dispositivo port-acath per avere un accesso
venoso centrale sempre disponibile e pertanto diviene indispensabile avere personale infermieristico addestrato per manovrarlo (occorre minimizzare
il pericolo di
infezioni e di ostruzione del port-a-cath). Prelievi ed
infusioni presentano poi notevoli complicazioni dovute alle condizioni generali scadute od alle terapie
che danneggiano le vene periferiche rendendole
fragili.
L’infermiere diviene quindi figura indispensabile e
di notevole ausilio in affiancamento con l’oncologo
durante questa fase.
La chemioterapia consiste nell’impiego di partico-
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lari farmaci anticancro, detti citotossici o antiblastici, che aggrediscono le cellule tumorali inibendone,
in tal modo, la crescita.
Purtroppo, però, la loro azione può coinvolgere anche le cellule sane dell’organismo, compresi i follicoli dei peli e dei capelli. È questa la causa della
caduta dei capelli, che nel linguaggio scientifico
prende il nome di alopecia.
Non tutti i farmaci chemioterapici causano la caduta dei capelli, anzi talvolta il fenomeno è così lieve
da essere difficilmente riconoscibile; in alcuni casi,
invece, i capelli possono cadere parzialmente o
completamente, e in altri ancora possono cadere
anche le sopracciglia, le ciglia, i peli che ricoprono
il pube e tutto il resto del corpo.
Di solito i capelli cominciano a cadere nel giro di
poche settimane dall’inizio della terapia, benché in
alcuni casi, per altro molto rari, il fenomeno possa
evidenziarsi nell’arco di pochi giorni.
Il primo segnale sono le ciocche che cadono quando ci si spazzola o ci si pettina o si fa lo shampoo,
e che talvolta si trovano anche sul cuscino al risveglio.
I capelli possono diradarsi o diventare secchi e fragili e, di conseguenza, tendono a spezzarsi facilmente. In alcuni casi possono continuare a cadere
per alcune settimane, fino a lasciare la testa completamente calva.
La caduta dei capelli generalmente è reversibile e i
capelli possono cominciare a ricrescere ancor prima che la terapia sia conclusa ma, in casi molto
rari, soprattutto dopo la somministrazione di alte
dosi di chemioterapici (come per il trattamento a
base di ciclofosfamide, thiotepa e carboplatino per
tumori ematologici e dopo trapianto di midollo), i
capelli potrebbero non ricrescere più).
La radioterapia
La radioterapia rappresenta una delle possibili cure
per guarire da un tumore o per attenuare l’intensità
dei sintomi che esso causa.
Con la presa in carico da parte dell’ infermiere del
paziente in radioterapia, gli obiettivi da raggiungere
sono principalmente:
- creare delle risorse educative per identificare i fattori di rischio,
- ricevere informazioni da pazienti e carer-giver per
individuare
i fattori di rischio ed i bisogni assistenziali degli
utenti,
- fornire informazioni laddove siano ridotte , e/o radicate e/o
assenti,
- essere di supporto nella continuità delle cure.
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IPASVI
La radioterapia utilizza radiazioni ionizzanti di elevata energia, che possono essere prodotte da sostanze radioattive o da macchine.
Le radiazioni distruggono le cellule tumorali e riducono le dimensioni del tumore fino alla sua scomparsa.
La caduta dei capelli durante il trattamento radioterapico si ha solo nel caso in cui una parte o tutto
il cuoio capelluto sia compreso nel campo di trattamento.
La ricrescita in tali zone dipende dalla dose che i
bulbi piliferi hanno ricevuto. Ciò vale anche per i
peli in altre zone del corpo.
Dopo la radioterapia i capelli dovrebbero ricrescere
completamente, anche se potrebbero non essere
più così folti come in passato.
Altri trattamenti
Talvolta anche gli altri trattamenti antitumorali, quali, ad esempio, le terapie ormonali o le terapie biologiche, possono rendere i capelli meno folti, secchi o fragili.
IL “BIG KILLER FEMMINILE” OVVERO IL CARCINOMA MAMMARIO
La cura chirurgica del tumore della mammella ha
conosciuto nella storia della medicina tre momenti
rivoluzionari che hanno condizionato le scelte terapeutiche in maniera determinante.
Il primo risale addirittura al 1894, anno in cui una
figura straordinaria di scienziato, W. Halsted, ebbe
il merito di abbattere la barriera di rassegnazione
che circondava la malattia ritenuta sino a quel momento incurabile, portando alla ribalta un tipo di intervento, la mastectomia radicale con svuotamento dei linfonodi ascellari, praticato sino agli anni
settanta del secolo scorso come unica opzione
chirurgica per la cura del tumore della mammella.
Fu l’Istituto dei Tumori di Milano, negli anni settanta, a presentare all’Organizzazione Mondiale della
Sanità uno studio rivoluzionario, a iniziare a sviluppare un nuovo corso della chirurgia conservativa
della mammella.
Tutti gli studi successivi hanno dimostrato la base
razionale di questa filosofia nel senso che ormai è
stata raggiunta la consapevolezza che la conservazione della mammella, oltre ad essere importante in termini di impatto sulla qualità della vita delle pazienti, non condiziona il rischio di metastasi
a distanza e di sopravvivenza globale rispetto alla
classica mastectomia radicale.
Pertanto l’intervento conservativo proposto all’attenzione del mondo scientifico dal professor U.
Veronesi (quadrantectomia e svuotamento dei lin-
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fonodi ascellari) ha finito per diventare la procedura
chirurgica più praticata, in alternativa alla mastectomia radicale, per i tumori diagnosticati in fase
precoce.
Grandi meriti vanno anche alle massicce campagne di prevenzione che permettono la diagnosi
precoce.
Dal 1994 la chirurgia senologica ha proseguito il
suo cammino presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, sviluppando ulteriormente il concetto di “conservazione” non solo della mammella ma
anche dei linfonodi ascellari.
L’asportazione dei linfonodi ascellari, infatti, non è
sempre necessaria essendo il rischio di metastasi
ascellari strettamente correlato alle dimensioni del
tumore primitivo, che oggi viene identificato in uno
stadio sempre più precoce.
Con l’asportazione sistematica dei linfonodi si corre il rischio di asportare inutilmente tessuto linfatico
che risulta al successivo esame microscopico frequentemente indenne.
Inoltre, la rimozione dei linfonodi ascellari, può
compromettere la funzionalità dell’arto (linfedema)
e aumentare il rischio di effetti collaterali, senza
tener conto del fatto che non è logico asportare
tessuto immunocompetente che aiuta le difese immunitarie.
Poiché non ci sono esami strumentali in grado di
rivelare prima dell’intervento un eventuale interessamento dei linfonodi, senza asportarli, recentemente è stata messa a punto la cosiddetta tecnica
del linfonodo sentinella.
E’ noto che le cellule tumorali che si staccano dal
tumore, seguendo le vie linfatiche, migrano all’ascella passando da uno o più linfonodi che sono
posti “a sentinella” del sistema linfatico della regione.
Se questa stazione-sentinella risulta sana è molto
probabile che anche tutti gli altri linfonodi siano indenni ed è pertanto inutile asportarli.
Per identificare il linfonodo sentinella viene utilizzata una sostanza radioattiva, che viene iniettata
prima dell’intervento in prossimità del tumore.
Questa sostanza segue la stessa via linfatica seguita da eventuali cellule tumorali e viene bloccata
dal linfonodo sentinella.
In tal modo il linfonodo può essere identificato, mediante una sonda rilevatrice di radioattività.
La dimostrazione intraoperatoria che il linfonodo
sentinella è negativo consente di risparmiare tutti
i rimanenti linfonodi del cavo ascellare con risultati
cosmetici e funzionali più soddisfacenti.
Il rischio relativo di recidiva nella mammella dopo
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la radioterapia viene ridotto del 75% circa rispetto
alla sola chirurgia conservativa.
Come per la chirurgia si è passati nel tempo ad interventi sempre meno demolitivi, e così in campo
radioterapico si è sentita l’esigenza di sperimentare trattamenti più conservativi, ai quali indirizzare i
casi di tumore mammario a basso rischio di recidiva loco-regionale.
L’irradiazione parziale della mammella, può essere
eseguita con la radioterapia esterna, con la brachiterapia e più di recente con la IORT, ovvero la radioterapia intraoperatoria.
Tuttavia, essendo la quadrantectomia fattibile
solo nelle fasi precoci, la mastectomia radicale è
tutt’oggi utilizzata nelle fasi avanzate.
Inoltre, anche quando la rimozione è parziale l’immagine corporea subisce modificazioni alle quali
corrisponde un impatto psicologico non trascurabile se la donna non è supportata da una buona
struttura psichica interiore e da una rete socio- familiare intorno a sé.
CAMBIAMENTO DELL’IMMAGINE CORPOREA
Nella malattia e in particolare nel tumore al seno,
il corpo assume una centralità particolare sia per
la sofferenza determinata dalla malattia sia perché
diviene metafora concreta di vissuti ed aspettative.
Freud nel 1923 scrive che
“[…] dal mondo delle percezioni emerge la percezione del
proprio corpo.
Anche il dolore [fisico] sembra svolgervi una certa funzione, e
il modo in cui in determinate malattie dolorose si ricava una
nuova conoscenza relativa ai propri organi è forse paradigmatico per il modo in cui si perviene in generale alla rappresentazione del proprio corpo. L’Io è anzitutto un’entità corporea,
non è soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione
di una superficie. […]
Esso è prima di ogni altra cosa un Io-corpo”.
In un corpo leso s’identificherà un Io non più integro, con conseguenti cali dell’autostima, che possono arrivare al punto di demandare ad altri ogni
decisione, soprattutto quando il principale problema è rappresentato dalla perdita del seno e dalla
minaccia alla
propria sopravvivenza.
Il tumore al seno, come afferma Umberto Veronesi
direttore scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, è una delle poche malattie che riassume in sé tanti diversi e importanti aspetti:
•
“sociali, per la sua gran diffusione; scientifico, per la sua complessità biologica;
•
diagnostico, per la necessità di un’identifi-
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cazione precoce della neoplasia;
•
terapeutico, per i vari metodi multidisciplinari di cura;
•
psicologico, per l’enorme impatto sulla popolazione femminile;
•
riabilitativo per la necessità di recupero familiare e sociale delle pazienti”
L’esperienza della diagnosi di carcinoma mammario e dei trattamenti successivi, rappresenta un
evento di crisi che sconvolge la vita di ogni donna e
della sua famiglia suscitando un insieme complesso di reazioni emotive.
La risposta iniziale può essere di incredulità e negazione transitorie,cui seguono paura, confusione,
angoscia, rabbia, colpa, vergogna, tristezza, depressione, tendenza all’isolamento.
Questo tipo di tumore, in particolare, toccando
un organo così carico di significati e intimamente
legato all’identità femminile, provoca numerose e
profonde ricadute psicologiche.
Nell’immaginario collettivo il seno è simbolo di seduzione e oggetto di desiderio per eccellenza, tanto che la sua immagine viene diffusamente usata
per attrarre l’attenzione e pubblicizzare gli oggetti
più diversi, anche se non hanno nulla a che fare
con tale immagine.
Questa funzione pubblica del seno come simbolo
dell’immagine femminile e della donna madre e seduttrice, non è priva di ricadute.
Per la donna il seno è un “elemento fondamentale, componente della propria immagine corporea, testimone tangibile della propria identità, risultante di molteplici esperienze
di rapporto col proprio corpo che cambia nell’adolescenza e
decade in età avanzata, e con corpi altrui, oggetto di carezze
e veicolo di allattamento”
L’ asportazione del seno, totale o parziale, non solo
genera ansia per la malattia e per i cambiamenti
estetici, ma provoca anche modificazioni a livello
psicologico conseguenti ai cambiamenti nella propria realtà di donna e madre e alla perdita del senso d’integrità corporea e psicologica.
Per alcune donne la paura di perdere tale integrità
è così forte da vincere il timore della malattia e rifiutare le cure.
Inoltre gli effetti collaterali delle terapie adiuvanti
come la perdita dei capelli, la diminuzione della tonicità epidermica, l’aumento di peso,l’interruzione
del ciclo mestruale, si accaniscono ulteriormente
contro i principali aspetti della femminilità e rappresentano momenti anch’essi difficili da superare,
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in quanto riducono di molto la soddisfazione per
la propria immagine corporea, causando disagio e
sofferenza a livello fisico e psicologico.
Parallelamente a reazioni individuali, compaiono
spesso alterazioni nella vita relazionale.
Nel caso in cui erano presenti già prima equilibri
precari nella vita di coppia, la mastectomia può accentuare le difficoltà sia nella sfera sessuale sia nel
rapporto affettivo.
Mentre, per una donna senza partner stabile, la
mutilazione può compromettere eventuali progetti
affettivi.
Le reazioni variano da donna a donna, ma in ogni
caso non sempre sono facili da esprimere e ancora
meno è agevole, per la famiglia e gli amici, comprenderne le implicazioni profonde.
Il cancro prima di essere un’esperienza biologica, è
un’ esperienza biografica che appartiene alla storia
delle pazienti, dei loro parenti e amici
COME LE DONNE TRATTATE PER CANCRO
AL SENO VIVONO I CAMBIAMENTI DEL LORO
ASPETTO FISICO
L’Italia, purtroppo, figura tra i paesi a maggior rischio di tumore al seno con 30.000 nuovi casi ogni
anno, e dove una donna ha una probabilità su 10 di
ammalarsi nel corso della vita.
Fortunatamente, la prevenzione, la ricerca, le terapie sempre più efficaci (in particolare per le neoplasie “ormono- sensibili”), hanno reso questo tipo di
tumore uno dei più curabili:
“Negli anni sono aumentate le diagnosi ma anche
i successi, fino a raggiungere in Italia una sopravvivenza a cinque anni dell’84 per cento, un valore
superiore a tutti gli altri Paesi”.
Dalla lettura dei dati emerge che le donne sopravvissute al cancro alla mammella sono in aumento.
Questi numeri rendono le dimensioni del bisogno
assistenziale che consegue al tumore al seno. Bisogno assistenziale che richiede anche il far fronte
alle conseguenze provocate dall’alterazione della
percezione di sé su queste donne.
SCOPO E OBIETTIVI
L’indagine sulle donne trattate per carcinoma alla
mammella ha lo scopo di valutare l’esistenza di
bisogni legati all’alterazione della percezione di
sé nelle donne con tumore alla mammella quindi
il peso che assume questo aspetto sul piano assistenziale.
Gli obiettivi convergono verso la ricerca di problemi
legati al cambiamento fisico nel setting d’indagine,
cercando inoltre di capire se le conseguenze sul-
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la salute dovute a questo cambiamento ricevono
la dovuta attenzione sul piano assistenziale e nell’
eventualità di una carenza in merito, cosa si potrebbe fare.
REVISIONE DELLA LETTERATURA E STUDI A
SUPPORTO
Un’indagine proveniente dalla Norvegia, mostra
che le donne con cancro al seno sono ancora di
fronte ai soliti problemi e che più del 60% dei pazienti con la propria famiglia sostengono di non
aver avuto relazioni d’aiuto al di fuori del proprio
giro familiare o di amicizie.
Eppure, uno studio che esamina le priorità di ricerca degli infermieri norvegesi membri della Norwegian Society of Nurses in Cancer Care, in linea
con quelli di analoghi studi internazionali (Canada,
Olanda, Stati Uniti), mette in luce che gli infermieri
di oncologia
tengono in gran considerazione la qualità della vita
e il suo significato per i pazienti oncologici.
Si afferma, dunque, il divario esistente tra un interesse sempre crescente della ricerca circa la qualità della vita, e il mancato impatto che tale ricerca
ha avuto nell’assistenza attuale.
Una definizione di qualità di vita citata spesso in
campo infermieristico è quella sviluppata da Carol
Ferrans e MarjoriePowers, pubblicata per la prima
volta nel 1985 che definisce la qualità della vita
come «una sensazione di benessere della persona
che deriva dalla soddisfazione o frustrazione nelle
aree di vita che sono importanti.».
Landmark e Wahl hanno intervistato dieci donne
per scoprire quale fosse stata la loro esperienza nel
convivere con un cancro al seno di recente diagnosi. Hanno utilizzato interviste a risposta aperta.
L’analisi delle interviste ha mostrato che i problemi
esistenziali rivestono un aspetto importante della
convivenza con una recente diagnosi di cancro al
seno.
Landmark e Wahl concludono che una comprensione di come le donne vivano la situazione della
loro nuova e diversa vita è importante per l’aiuto
che gli infermieri forniscono nel processo di guarigione.
Uno “Studio dell’immagine del corpo nelle sopravvissute a
lungo termine al cancro al seno” condotto dalla Uppsala University, insieme allo “Studio longitudinale su l’immagine corporea e la regolazione psico-sociale dei malati di
cancro al seno nel corso della malattia” condotto in Portogallo, hanno prodotto risultati che hanno contribuito al progresso delle conoscenze in questo
campo, fornendo dati pertinenti circa l’evoluzione
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dell’alterazione della percezione dell’immagine del
corpo, i suoi predittori e il suo ruolo predittivo sulla
regolazione psicosociale tra i pazienti con cancro
mammario.
Questi studi hanno anche suggerito alcune implicazioni cliniche che possono aiutare gli operatori
sanitari ad attuare strategie incentrate sull’immagine del corpo in tutta la malattia.
Importante hai fini della mia ricerca è stato anche
il supporto di uno studio fatto su un altro tipo di
tumore altrettanto deturpante per quanto riguarda
l’aspetto fisico: “Efficacia della riabilitazione cosmetica
sull’immagine corpo dei malati di cancro orale in Taiwan”.
Questo studio ha confermato che l’integrazione del
programma di cosmesi in cure infermieristiche di
routine per i pazienti affetti da cancro è altamente
raccomandato. Per quanto riguarda l’Italia, l’attenzione all’ immagine corporea non è un argomento
sconosciuto infatti a livello nazionale,è nato il progetto “La forza del sorriso” anche se solo adesso
sta prendendo avvio anche negli ospedali pubblici.
Il programma, attivo in Italia dal dicembre del 2006
sotto il patrocinio di UNIPRO, Associazione Italiana
delle Imprese Cosmetiche, si ispira all’esperienza
internazionale del progetto “Look Good…Feel Better”, “Appari Bella…ti sentirai meglio”, nato negli
Stati Uniti nel 1989 e diffuso oggi in 21 Paesi.
L’iniziativa, che non interferisce con le cure mediche né intende in alcun modo sostituirsi ad esse, è
dedicata a tutte le donne che, sottoposte a trattamenti oncologici, non vogliono rinunciare alla propria femminilità riconquistando il proprio senso di
benessere e autostima.
Si sperimenta, allora, in alcuni ospedali, tra i quali
l’ospedale Sacco di Milano il “trucco oncologico”,
per insegnare a piacersi durante e dopo la malattia.
Alberto Scanni, direttore generale dell’Ospedale
Sacco, di Milano, sintetizza così la decisione della
struttura di avviare l’esperimento:
“Non vogliamo solo curare le malattie, ma prenderci cura delle persone”
CAMPO E CAMPIONE D’INDAGINE
Lo studio da me condotto è una indagine conoscitiva realizzata negli Stabilimenti Ospedalieri “SS.
Annunziata” e “S.G. Moscati” dell’ASL di Taranto,
presso il reparto e gli ambulatori di oncologia, presso gli ambulatori di fisioterapia, e presso la S.C. di
radioterapia oncologica.
Queste strutture danno assistenza ogni giorno a un
gran numero dipersone affette da patologia oncologica, in diversi distretti anatomici, nelle diverse
fasi di trattamento, a diversi livelli di gravità, offren-
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do assistenza e trattamenti specifici.
Il campione preso in esame in questa popolazione
è rappresentato da 64 donne trattate per carcinoma mammario in fase II o in fase III, che hanno acconsentito a partecipare allo studio.
Si tratta di donne con età compresa tra i 35 e i 70
anni delle quali circa il 67% ha subito la quadrantectomia e il restante 33% la mastectomia completa.
N° Pazienti intervistate
Quadrantectomia
43
67%
Mastectomia completa 21
33%
Totale
64
METODI E STRUMENTI PER LA RACCOLTA
DATI
La consultazione degli studi a supporto della mia
ipotesi di ricerca è basata su una revisione tradizionale della letteratura presente all’interno della banca dati Medline della National Library of Medicine,
consultata tramite l’interfaccia Pubmed.
Per raggiungere l’obiettivo è stata eseguita una revisione di letteratura utilizzando le seguenti strategie di ricerca:
- Individuazione di termini “MeSH” per identificare
correlazioni per
la ricerca.
- Indagine con parole chiave sul motore di ricerca
Medline per individuare articoli, studi e revisioni bibliografiche.
Ulteriori approfondimenti sul tema sono stati fatti
mediante articoli dedicati, di riviste internazionali e
nazionali di Nursing.
QUESTIONARIO
Lo strumento utilizzato per la raccolta dei dati è un
questionario anonimo somministrato sottoforma di
intervista.
Il questionario avendo un duplice scopo si compone di due parti.
La prima contiene la “BODY IMAGE SCALE”, ossia una traduzione elaborata di un questionario
accreditato in inglese, tratto dalla rivista European
Journal of Cancer .
L’introduzione di questa scala nel questionario
consente di mettere in evidenza la presenza di un
bisogno assistenziale legato all’alterazione della
percezione di sé in seguito al cambiamento fisico
indotto dalla malattia e dai relativi trattamenti.
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La seconda parte contiene invece, domande che
indagano sul bisogno assistenziale derivante dal
cambiamento fisico e sull’assistenza di tipo relazionale al quale tale assistenza dovrebbe corrispondere.
Questo questionario è frutto di una revisione di
studi attinenti a quello che mi apprestavo a fare,
di indagini personali svolte attraverso la lettura di
commenti su “forum” dedicati alle donne colpite da
cancro al seno e quindi attraverso le testimonianze
involontarie di queste
pazienti, dell’incontro di volontari dell’ ANDOS,
persone che da anni lavorano al fianco di donne
che affrontano l’esperienza del cancro al seno. Il
questionario è stato elaborato in modo da poter
aver risultati tali da riuscire a stilare schede di accertamento infermieristico e/o programmi formativi
per gli infermieri e/o programmi educativi multidisciplinari per i pazienti. Prima di somministrare ogni
questionario è stato preventivamente spiegato alle
donne intervistate la finalità del mio studio, che il
questionario era strutturato in modo da garantire
l’anonimato e quanto fosse indispensabile che le
risposte fossero più vicine possibili alla
realtà, evitando che la mia divisa bianca e le mie
parole interferissero con la scelta delle
Conclusioni
Dall’elaborazione dei risultati sembra che l’obiettivo sia stato raggiunto.
Tramite la Body Scale Image è stato possibile valutare che nel campione esaminato vi è un’insoddisfazione legata al cambiamento del proprio aspetto fisico dovuto alla malattia e ai relativi trattamenti.
Dal questionario, viene data conferma di ciò.
Dai dati, sorprendentemente omogenei, le donne
trattate per tumore al seno non sarebbero adeguatamente preparate e supportate ad affrontare il
cambiamento fisico, che in virtù dei risultati ottenuti, all’unanimità rappresenta un problema.
Queste donne riescono ad esternarlo solo alle famiglie e, da alcune risposte, la motivazione potrebbe risiedere nella mancanza di possibilità utili per
farlo all’esterno del nucleo familiare, e di figure professionali idonee a questo scopo.
PROPOSTA OPERATIVA: BOZZA PROGETTO
EDUCATIVO-TERAPEUTICO PER DONNE MASTECTOMIZZATE
Valutando i risultati dello studio di questa tesi e,
sulla base di un progetto analogo già proposto, ho
creato una bozza che potrebbe essere di supporto
per lo sviluppo di un progetto educativo-terapeutico nelle U.O. competenti.
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Un progetto di educazione terapeutica, erogata
in tempi lunghi, potrebbe garantire una continuità
assistenziale, capace di rendere queste donne più
autonome nella gestione della propria malattia per
riconquistare un loro “equilibrio psico-fisico”. Tempi lunghi sono necessari per l’elaborazione e l’accettazione di un nuovo concetto di sé.
Ecco un elenco degli elementi costitutivi di un progetto di questo tipo e una possibile procedura educativo-terapeutica.
RESPONSABILE PROGETTO, SERVIZI E PERSONE COINVOLTE
La tappa fondamentale per la realizzazione di un
progetto è l’ individuazione del responsabile progetto, dei servizi e del persone coinvolte. Per quanto riguarda il responsabile, in questo caso, la figura
professionale più indicata è l’infermiere.
Collaboreranno altri infermieri (tra cui uno di ricerca) e un dietista.
Consulenti del progetto saranno uno psicologo e i
medici dell’U.O. di riferimento.
DESTINATARI DEL PROGETTO EDUCATIVO
I destinatari sono donne tra i 25 e gli 80 anni che subiscono
intervento chirurgico di mastectomia con o senza dissezione
del cavo ascellare e, che danno il consenso a partecipare al
progetto educativo.
ANALISI DEI BISOGNI EDUCATIVI DEI DESTINATARI
I bisogni educati delle pazienti possono essere
suddivisi principalmente in bisogni di informazione e bisogno di apprendimento (essenzialmente
tecnico-pratico).
a. Bisogno di formazione riguardo:
- la patologia neoplastica mammaria e al tipo di intervento chirurgico da effettuare;
- le problematiche fisioterapiche derivanti dalla
mancanza di una mammella o dei linfonodi ascellari;
- le nozioni legislative rispetto alla protesica e alle
esenzioni sanitarie i vari servizi di supporto (ambulatorio di: psicologia, dietologia, menopausa).
b. Bisogno di apprendimento tecnico- pratico:
- come prendersi “cura di sé”: come trattare inizialmente la ferita chirurgica e poi la cicatrice. Che
attività può svolgere, com’è meglio vestirsi, etc.
OBIETTIVI
Gli obiettivi saranno diversi a seconda che i tratti dei destinatari, dei formatori o dell’azienda che
promuove e attua il progetto.
a. Destinatari (le donne mastectomizzate):
- condivideranno con l’equipe la motivazione di un
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intervento così demolitivo, rapportato alla gravità
delle patologia;
- poste a conoscenza dell’iter pre-intervento, saranno in grado di affrontarlo con un diminuito grado di ansietà;
- si prenderanno cura della parte amputata (cicatrice), detergendo,
massaggiando e idratando la cute;
- saranno in grado di guardarsi e di specchiarsi;
- comprenderanno l’importanza funzionale e psicologica delle protesi mammarie esterne e decideranno di indossarle;
- continueranno a vivere la propria sessualità;
- sapranno ricondurre le loro necessità ai servizi disponibili (ambulatori di: psicologia, dietologia, menopausa).
b. Formatori (il gruppo infermieristico):
- uniformerà il più possibile il grado di preparazione
e il contenuto delle informazioni da erogare;
- utilizzerà un progetto educativo riproducibile;
- aumenterà il grado di motivazione del gruppo.
c. Azienda:
- miglioramento dell’immagine aziendale;
- corretto utilizzo dei servizi da parte dell’utenza.
RISORSE
Le risorse comprendono non solo quelle economiche, ma anche umane, di tempo e logistiche.
a. Economiche:
- budget, erogato da eventuali sponsor delle protesi mammarie, per la realizzazione dell’opuscolo;
- autorizzazione al pagamento di eventuali ore di
straordinario, effettuate dal personale sanitario nella realizzazione e svolgimento del progetto;
- varie ed eventuali.
b. Umane:
- gruppo infermieristico del reparto;
- la coordinatrice del gruppo infermieristico;
- infermiera di ricerca;
- lo psicologo;
- le dietiste;
- medici ginecologi e oncologi.
c. Di tempo:
- progettazione
- attivazione
- valutazione
- colloquio individuale
- incontri di gruppo
- riunioni trimestrali tra colleghi
d. Logistiche:
- Spazi, uffici, ambulatori dove fare incontri riunioni, colloqui e
esposizione di materiali e strumenti.
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PIANO OPERATIVO
Per l’ attuazione del progetto per prima cosa il
gruppo di infermiere si occuperà della revisione di
un opuscolo informativo completo da consegnare
alle donne che entreranno a far parte del progetto
educativo.
Questo opuscolo conterrà al fondo uno spazio dedicato alle note, dove le signore potranno segnare ciò che vogliono come in un diario (domande,
dubbi, perplessità, paure sensazioni, etc.). Il piano
operativo di questo progetto educativo prevede 5
momenti :
• Momento di presa in carico: al pre-ricovero in
modo randomizzato si attribuirà alle pazienti un
percorso di tipo A o un percorso di tipo B. Alle signore appartenenti al gruppo B non verrà consegnato nessun opuscolo informativo al pre-ricovero
e seguiranno l’iter attuale, precedentemente descritto. Le signore appartenenti invece al gruppo A
riceveranno dalla capo sala del reparto il suddetto
opuscolo, durante un colloquio che garantisca la
privacy (nel suo ufficio a porte chiuse) e durante
il quale verrà acquisito il consenso della signora
a far parte del progetto educativo, anticipandole che ciò comporterà il partecipare a 3 incontri
a distanza e la compilazione di un questionario.
Illustrando alla signora l’opuscolo la inviteremo a
compilare senza riserve lo spazio libero contenuto
al fondo, dedicato alle note, come fosse un vero
e proprio diario, con dubbi paure,interrogativi, da
rivedere nei successivi incontri insieme al personale responsabile.
• Dimissione: dopo l’ intervento al momento delle
dimissioni la paziente verrà condotta nella saletta medicheria dove l’infermiera le mostrerà il materiale protesico che, in alcune strutture è fornito
dalle aziende produttrici in conto visione al reparto, e porrà risalto all’argomento protesi mammarie
esterne, già trattato per iscritto nell’opuscolo, e
all’opportunità di indossarle. Seguirà l’ analisi e
la discussione delle eventuali note che la signora
potrebbe aver apportato al suo “diario di bordo”.
La signora verrà invitata ad indossare un suo reggiseno in modo da poter riempire la parte del seno
mancante con del cotone, dando così l’idea della
vestibilità che avrà la protesi provvisoria.
In fine sarà fissata la data del il successivo incontro ad un mese circa (potrebbe coincidere o meno
con il collaudo della protesi definitiva, quella in silicone).
• 1° Appuntamento: incontro a 1 mese dall’intervento; verrà chiesto alla signora di compilare
un questionario (the Body Image Scale) e ci sarà
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l’eventuale collaudo della protesi definitiva. Verrà effettuata l’analisi e la discussione di eventuali
problematiche esplicitate e non, dando risalto a
quelle appuntate sul “diario di bordo”.
L’infermiere appunterà nel frattempo sull’agenda
preposta, le osservazioni riguardo gli atteggiamenti della signora (es. la signora guarda o tocca
la cicatrice etc.).
• 2° Appuntamento: incontro a 3 mesi circa
dall’intervento. Saranno incontri a piccoli gruppi
(circa 3 o 4 signore) con la partecipazione della
dietista che darà loro consigli alimentari, in vista
del fatto che molte delle signore, in corso di chemioterapia e ormonoterapia, tendono ad avere un aumento di peso. Sarà un incontro il più
possibile dedicato al libero scambio di idee ed
esperienze tra le signore, mediato, ovviamente,
dall’infermiera referente che presenzierà sempre
questi incontri . Se possibile vi parteciperà anche la psicologa. Al termine dell’incontro verrà
nuovamente chiesto alle
signore di compilare il questionario (lo stesso
compilato al primo appuntamento).
Ø Ultimo incontro: a 6 mesi di distanza dall’intervento verrà riproposto alle signore lo stesso
questionario compilato al primo incontro, ed un
breve questionario di gradimento delle informazioni ricevute.
PIANO DI VALUTAZIONE
Questa fase permette di capire se il progetto funziona e quali sono gli interventi da attuare per migliorarlo.
Le valutazioni saranno di processo, di risultato e
d’ impatto.
a. Di processo:
Si andrà a valutare se si riesce a rispettare i tempi degli appuntamenti, dei colloqui individuali e di
gruppo, e delle riunioni tra colleghi.
b. Di risultato:
Per valutare i risultati del progetto bisogna mettere a confronto le risposte che le signore avranno dato al questionario all’inizio del programma e
quelle che avranno dato allo stesso questionario
dopo essere state seguite per sei mesi.
In più verranno confrontate con le risposte che
avranno dato sempre allo stesso questionario le
signore che non sono rientrate nel progetto educativo. Vedendo se gli obiettivi definiti inizialmente
sono stati raggiunti indagando proprio la visione
che ha la donna, in prima persona.
c. Di impatto:
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Uno degli obiettivi di questo progetto è anche
quello di migliorare l’utilizzo dei servizi di supporto da parte dell’utenza.
CONCLUSIONI
L’indagine ha avuto come scopo quello di individuare l’esistenza di un bisogno assistenziale legato all’alterazione della percezione dell’immagine
di sé dovuta al cambiamento fisico.
Inoltre, tramite il questionario e la revisione della letteratura scientifica è emerso il ruolo centrale
che l’infermiere ha nella rilevazione dei bisogni assistenziali legati al cambiamento fisico.
Dall’elaborazione dei dati si può concludere che
l’infermiere è la figura professionale che si presta
meglio alla valutazione della risposta del paziente
al cambiamento fisico, alla rilevazione dei bisogni
assistenziali che ne derivano e alla creazione di
progetti multidisciplinari che comprendano il far
fronte a tali bisogni.
Riveste quindi un ruolo importante nell’approccio
multidisciplinare del paziente, dal quale deriva un
lavoro d’equipe e, dal questionario, emerge la richiesta di un intervento di questo tipo come risposta al bisogno legato all’alterazione della percezione dell’immagine di sé.
Pur esaminando un campione poco rappresentativo rispetto alla spiacevole moltitudine di neoplasie presenti che colpiscono i vari distretti anatomici, mi sento di poter generalizzare i risultati in
quanto questa malattia compromette sempre la
percezione del proprio corpo.
Credo sia importante aiutare i pazienti a vivere il
cambiamento del proprio aspetto fisico nel modo
migliore possibile e l’infermiere è una figura a mio
avviso essenziale per raggiungere tale scopo.
Per affrontare tale problema ho pensato ad alcune
proposte:’
• la realizzazione di corsi di formazione e
di counseling per aiutare il paziente a vivere meglio tale situazione;
• organizzare dei gruppi di supporto, in
collaborazione con altre figure professionali, dedicati ai pazienti;
• si potrà adottare all’interno dell’unità
operativa una scheda di accertamento infermieristica per la rilevazione dello stato psicologico del
paziente;
• si potrà realizzare all’interno dell’unità
operativa un progetto educativo-terapeutico per
donne mastectomizzate, per il quale ho cercato di
dare uno spunto, creando una bozza apposita.
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IL Cambiamento fisico nelle donne
colpite da tumore al seno
Contributi autobiografici delle vincitrici della seconda edizione del premio letterario
“Il prima e il dopo” , istituito dall’Associazione internazionale “Europa Donna”
UN MONDO PELATO
Racconto di Marina Beltrame
Cercai l’indirizzo sulle pagine gialle alla voce “Parrucche e toupets”.
Trovai, a pochi chilometri da dove abitavo, una “Casa della Parrucca” che sembrava fare al caso mio: l’inserto
pubblicitario parlava di “vasto assortimento”, “massima riservatezza e cortesia”,“parrucche leggere, naturali
ed ecologiche” e, persino, “speciali per chemioterapia”.
Telefonai e chiesi con un po’ di imbarazzo se avevano qualcosa di adatto a una donna giovane: «Qualcosa
di scuro…di media lunghezza…né liscio né riccio…». Dall’altra parte mi risposero che sì, avevano senz’altro
qualcosa che poteva fare al caso mio e mi fornirono una serie di informazioni sulle differenze fra le parrucche
di capelli vere e quelle di capelli sintetici. Ringraziai, dissi che sarai andata da loro nel pomeriggio, e posai
il ricevitore. I miei capelli, castani e leggermente mossi, erano lunghi fino alle spalle: avrei dovuto cercare
qualcosa di somigliante nella lunghezza, nel taglio, nel colore.
«Vedrai» mi rassicurò mio marito «i bambini non ci faranno troppo caso». Andammo quel pomeriggio stesso.
Il negozio era vuoto. Ci accolse una donna giovane e gentile che capì immediatamente la situazione.
Provai e riprovai parrucche di lunghezza e colore diversi fino a quando mi decisi per un baschetto castano
scuro, con una frangia che nascondeva l’attaccatura sulla fronte e ciocche regolari che scendevano fin sotto
le orecchie. «Le sta bene» mi disse la commessa.
«E’ adatta al suo viso. Consideri che ora c’è il volume dei suoi capelli a tenerla così alta, ma una volta caduta quelli…». Seduta di fronte allo specchio, in un angolo del negozio nascosto alla vista di chi passava e di
chi entrava, mi guardai senza piacermi, osservandomi di fronte e di profilo. La parrucca era un po’ troppo
liscia, un po’ troppo folta, un po’ troppo scura, ma non avevo tempo per cercarne un’altra: l’indomani avrei
cominciato le cure. La tolsi e la posai sulla mensola che avevo di fronte. Senza alcun sostegno a sorreggerla
si afflosciò, gonfia e morbida, simile a un nido di uccelli.
Orribile. Rimpiansi di non avere il coraggio di portare in giro la mia testa nuda sfidando gli sguardi degli altri
e la loro attenzione indiscreta. Se l’avessi fatto avrei gridato al mondo che ero malata: la parrucca avrebbe
soffocato quel grido.
Arrivai a casa con quel pacchetto sottobraccio e i miei bambini mi corsero incontro incuriositi. «Cos’è mamma?» «Una parrucca» risposi. «Per chi?». «Per me».
Vollero vederla e mi chiesero se potevano provarla. Acconsentii ma dettai, ridendo, una condizione: «Io vi
faccio provare la mia se voi mi fate provare la vostra». Eccitati all’idea di quel gioco, corsero nella loro stanza
a cercare nell’armadio la parrucca azzurra da pagliaccio che tiravano fuori ogni anno a carnevale.
«Tieni mamma, mettitela» . la misi e diedi loro la mia. La indossarono di sghimbescio, prima una poi l’altro, e
corsero a turno a guardarsi nello specchio del bagno. Più tardi, mi chiesero perché l’avessi comprata. «Perché» risposi «devo prendere delle medicine che mi faranno cadere tutti i capelli.
Per questo l’ho comprata». La risposta gli bastò.
I capelli iniziarono a cadere pochi giorni dopo: ne trovai a centinaia sparsi sul cuscino, sui vestiti, sul pavimento. Alla minima trazione, intere ciocche si staccavano dalla testa. Con un rasoio affilato misi rapidamente
fine a quel supplizio.
Le cure si susseguirono a cicli quindicinali per tre mesi e convivere con quell’affanno non fu facile. C’erano i
bambini. Risolutamente, decisi che non avrei permesso alla malattia di trasformarmi, nemmeno per un giorno, in una madre triste, sconfitta, ripiegata su se stessa. Dovevo salvaguardarli.
Loro, riparati dall’incoscienza dell’infanzia, parevano non accorgersi di nulla. Troppo piccoli per capire, intuivano che c’era qualcosa che non andava ma non riuscivano a metterlo completamente a fuoco.
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Solo, il piccolo, che allora frequentava l’ultimo anno della scuola materna, prese a disegnare persone completamente calve: accanto a case, alberi, fiori, animali, scarabocchiava figure umane senza un solo pelo in
capo. Non disegnò mai me senza e gli altri con i capelli ma fece un operazione esattamente contraria: la
mamma era pelata, tutto il mondo era pelato, compreso se stesso. Sei mesi dopo, terminate le cure, i miei
capelli cominciarono a ricrescere e, di pari passo, presero a ricrescere anche quelli della mamma nei suoi
disegni: le spuntò dapprima una zazzeretta incerta e poi, via via, una capigliatura sempre più folta. In breve,
riacquistarono il crine perso anche tutti gli altri.
Faticai a rinunciare alla parrucca quando vidi la mia testa fittamente coperta da sottili capelli scuri.
«Che ne dici» chiedevo a mio marito «se la porto ancora per un po’?
Potrò toglierla più avanti, quando i capelli saranno un po’ più lunghi…» ma eravamo ad aprile, vicini ad una
Pasqua che mai come quell’anno mi sembrò una Pasqua di Resurrezione, e l’aria si era fatta tiepida.
Uscii con una testina cortissima, il viso truccato, ciglia e sopracciglia ricresciute. Mi piacqui talmente con quei
capelli così corti che adottai quel taglio per un po’: era di una praticità e di una spensieratezza assoluta. Buttai
la parrucca, pensando che non ne avrei più avuto bisogno, ma mi sbagliai.
Tre anni dopo ebbi una ricaduta che mi costrinse a cure più potenti e debilitanti delle precedenti, cure a cui
dovetti sottopormi in un grande ospedale del nord. Vegliata da mia madre, restai lontana da casa per settimane. Sentivo i bambini solo al telefono.
Era Natale. «Fa freddo mamma lì da te?» «Abbastanza»
«Quando torni?»
«Presto, torno presto»
«Quando presto?»
«Quando lo dice il dottore»
Tornai per l’Epifania, talmente indebolita da riuscire a malapena a camminare. I capelli erano nuovamente
caduti. Quando fui in grado di uscire, andai a comprare un’altra parrucca nello stesso negozio dove ero stata
tre anni prima. Ne presi una più corta della precedente, un po’ più chiara, sfilata sulla fronte e ai lati del viso.
Quando la tolsi fui tentata di buttare anche quella ma, all’ultimo momento, cambiai idea e la chiusi in una
scatola che finì in fondo all’armadio.
Da allora, sono passati altri tre anni e la mia vita ha preso l’andamento tranquillo che ho voluto imporle, mentre la malattia, finalmente regredita, sonnecchia.
«Sssh!» Dico ai miei bambini. «Facciamo silenzio. Lasciamola dormire.» E, mentre lei dorme, io veglio.
FOULARDS
Poesia di Gabriella Giovannini
Foulards colorati
A righe a fiori
Bandane
Portavo quell’estate strette legate
Sulla testa spoglia
Sui miei pensieri
Aquiloni
In preda alle correnti
Vedo a volte
Per la città
Girare
Variopinti foulards
In preda alle correnti
Risento come allora
Miei
Tutti quei pensieri.
11/09/2010
La tesi completa è corredata da un’ampia ed esaustiva bibliografia che omettiamo di pubblicare per
ragioni di spazio ma è a disposizione di chiunque voglia prenderne atto.
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IPASVI
IPASVI
“La salute
in sicurezza”
Dott. Maria Carmela Bruni
Laurea Magistrale in Scienze
Infermieristiche ed Ostetriche
Esperto di Bioetica Clinica
Si è tenuto, anche quest’anno, presso il Centro Affari e Convegni di Arezzo, dal 23
al 26 Novembre 2010, il V Forum Risk Management in Sanità dal titolo “La salute in
sicurezza”, promosso dal Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Age.
na.s.(Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali), Coordinamento delle Regioni e Fondazione per la Sicurezza in Sanità. Ospiti dell’appuntamento il Ministro della
Salute Ferruccio Fazio, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio On.le Gianni
Letta, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Sen. Maurizio Sacconi. Rilevante
anche il contributo medico–scientifico internazionale per presentare la riforma sanitaria in USA, fortemente voluta dall’attuale presidente statunitense Barack Obama.
A
rezzo da molti anni è la sede del convegno europeo sull’adozione delle buone
pratiche di gestione del rischio clinico applicate alla sicurezza dei percorsi di prevenzione –
cura - riabilitazione e, in particolare, quest’anno,
ha dato particolare risalto alla centralità di cura della persona, non tralasciando l’attenzione alle professioni sanitarie, alle tecnologie e agli applicativi
del governo clinico digitale. All’interno del forum era
presente un’area di simulazione, per consentire alle
imprese di presentare i loro prodotti applicati per la
sicurezza del paziente. Erano presenti tra 9.000
e 10.000 partecipanti, le sale sono state sempre
gremite, molti partecipanti addirittura sono rimasti in piedi ad ascoltare le numerose relazioni, presenti esperti nazionali ed internazionali. Il
Forum è stato sede della I ° Assemblea annuale degli ospedali, per verificare lo stato di avanzamento
della applicazione delle “raccomandazioni” e delle “check – list”, presente Charles Vincent dell’Imperial College of London ); sicurezza e qualità nei
percorsi oncologici, presente Stuart A. Rosenberg
(President ad CEO of Harvard Medical Faculty, che
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ha parlato del modello formativo in oncologia; sicurezza nei sistemi e negli archivi informatici, G. Pirino
della Regione Emilia – Romagna, ha presentato le
indicazioni regionali in tema di sicurezza dei sistemi RIS – PACS (gestione informazioni ed immagini
di radiologia, acquisizione di attività, aspetti cruciali
del flusso di lavoro, refertazione avanzata mediante
fax ed e- mail, gestione ordini e tracking paziente), mentre Daniela D’Angela rappresentante dell’I-
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SBEM (Istituto Scientifico Biomedico Mediterraneo)
della Puglia ha presentato un design e assessment
di un software innovativo della gestione del rischio
della terapia antiblastica; sicurezza ed appropriatezza delle tecnologie mediche e della applicazione
della robotica ai percorsi chirurgici, presente Pier
Cristoforo Giulianotti, docente Chirurgia Generale
e Robotica Università Illinois, si è discusso del presente e del futuro nella chirurgia robotica, appropriatezza e analisi di efficacia ed efficienza della stessa
grazie alla HTA (Health Tecnology Assessment). Il
Forum ha ospitato l’Assemblea Nazionale IPASVI,
che ha affrontato il tema della formazione adeguata alla nuova organizzazione dell’assistenza con
l’apertura della Presidente Federazione Nazionale
IPASVI, Annalisa Silvestro, l’intervento di Stuart A.
Rosenberg, President and CEO of Haevard Medical Faculty, che ha presentato il modello americano nella formazione infermieristica. Formazione e
comunicazione sono stati affrontati nell’ottica delle
nuove regole ECM, valutando lo sviluppo e la ricerca sulle metodologie innovative, non tralasciando
l’aspetto della integrazione sociale e professionale tra infermieri comunitari ed extracomunitari. C’è
stata attenzione alla sicurezza sia prima che dopo
la cura e, quindi, è stato presentato un articolato
programma sulla sicurezza alimentare, presenti
rappresentanti della Commissione Europea, Ministero delle Politiche Agricole ed Alimentari e Forestali, Comandante NAS, Presidente Nazionale Col
diretti. Grande attenzione è stato dato all’Handicap,
valutando la sicurezza nei percorsi sociali ed assistenziali, innovazione ed integrazione con l’intenzione di abbattere barriere culturali, psichiche,
sensoriali che separano i cosiddetti “normali” dai
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non abili, di conoscere le opportunità che
la ricerca e la tecnologia offrono per superare ostacoli, per poter
spiegare quelle ali per
poter spiccare il volo e
raggiungere obiettivi insperati. Si è posta l’attenzione per una città
ideale, dove chi ha una
disabilità motoria, psichica e/o sensoriale, ha
comunque la possibilità
di vivere la “quotidianità” dentro e fuori casa.
Una città dove, chi vuole, può mettersi al posto
di chi convive con un
deficit sperimentando, “Sensoriando”, un percorso ad ostacoli con barriere sensoriali ed architettoniche. Innovazione ed integrazione ha valutato il
ruolo delle attività psicomotorie: gioco, sport, riabilitazione portando le esperienze di Toscana, Piemonte, Lombardia. Nel programma collaterale per
l’handicap è stato presente il Team Ferrari ed il pilota paraplegico Luca Donateo; Calcio e basket unificato, dimostrazione Scuola Nazionale Cani Guida
per Ciechi della Regione Toscana, Mostra di pittura
Simona Attori, ballerina e pittrice senza braccia che
ha incontrato gli studenti della provincia di Arezzo.
Per “ l’ Osservatorio buone pratiche per la sicurezza focus on: valutazione delle BP” il dott. Ranieri
Guerra , Dirigente dell’Istituto Superiore della Sanità, ha invitato a relazionare la dr.ssa Silvana Melli,
in rappresentanza dell’ASL Taranto, che ha illustrato i risultati finali del progetto di ricerca finalizzata
“Gestione integrata del rischio sociosanitario
in una prospettiva di continuità assistenziale: tecnologie e percorsi coordinati ospedaleterritorio, “inerzia clinica”, esame degli esiti
sociosanitari”, finanziato dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità.
Il suddetto progetto, fortemente voluto dalla Direzione strategica aziendale, è stato realizzato da un
gruppo di lavoro integrato costituito da operatori dei
Distretti Socio Sanitari n° 3 e 4° ed operatori della
Struttura Complessa di Statistica ed Epidemiologia
della ASL TA.
Il V Forum Risk Management grazie alla diversificazione di obiettivi, interessi, argomenti diventa un
modello informativo e formativo sistematico in grado di favorire una completa e vasta offerta ai propri
partecipanti.
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Nella
Asl Ta
una tra le 10
migliori
Best
Practices
nel
territorio
nazionale
S
i è svolto l’11 novembre a Roma, presso
l’auditorium del ministero della salute, alla
presenza del ministro della salute Prof.
Ferruccio Fazio, il convegno di presentazione
dei risultati della ricerca “Integrare la rete dei
servizi distrettuali: contenuti, forme e risultati
delle best practice in Italia”.
La ricerca, condotta dalla prestigiosa Università Bocconi di Milano in collaborazione con la
CARD (Confederazione nazionale delle associazioni dei direttori e dirigenti dei distretti) nell’ambito del
protocollo d’intesa CARD-Cergas Bocconi “i driver
di sviluppo territoriali” ha individuato ed analizzato,
attraverso una commissione costituita da esperti
della Cergas Bocconi e dal Comitato scientifico della Card, le 10 migliori sperimentazioni di eccellenza (best practices), in tutta Italia, nell’ambito delle
progettualità sanitarie realizzate dai distretti socio
sanitari.
Una delle 10 migliori best practices a livello
nazionale è stata realizzata nella ASL di Taranto,
unica esponente del centro-sud ad essere presente. Si tratta di un progetto sviluppato dal distretto
socio sanitario n.1 diretto dal Dr. Donato Di Campo
e relativo all’ottimizzazione dell’offerta specialistica
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ambulatoriale. Tale progetto, messo a punto dal Dr.
Salvatore Scorzafave, medico specialista in organizzazione dei servizi sanitari di base, in collaborazione con la direzione distrettuale, ha riguardato la
realizzazione di un impianto metodologico attraverso cui analizzare le peculiarità dell’offerta/domanda
ambulatoriale, ospedaliera e territoriale - attraverso
un ampio set di indicatori innovativi, matrici decisionali e formule per la stima dei fabbisogni - al fine di
consentire una programmazione dei servizi mirata
ed integrata (ospedale-territorio) e garantire un sistema di offerta efficace, efficiente ed appropriato.
Questo l’elenco delle 10 ASL e dei temi oggetto delle sperimentazioni selezionate dal comitato scientifico:
- L’infermiere di comunità (ASS Bassa
Friulana)
- Il coordinatore di percorso (APSS Trento)
- L’ottimizzazione dell’offerta specialistica
ambulatoriale (ASL di Taranto)
- Attività fisica adattata e PDTA dello
scompenso cardiaco (AUSL 11 Empoli)
- L’implementazione della procedura operativa per la gestione dell’UVMD (ULSS
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-
3 Bassano)
Screening del colon-retto (ASL Mantova)
La porta medicalizzata (AUSL Imola)
Il punto unico di accesso (AUSL Modena)
La qualità delle cure primarie: le equipe
territoriali (AUSL 2 Perugia)
Medicina di gruppo integrata (ULSS 4
Alto Vicentino)
Al convegno romano, assieme al Ministro
della Salute, hanno partecipato alcuni tra i principali esponenti della sanità Italiana nonché le direzioni generali delle 10 ASL Italiane selezionate, che
hanno relazionato nel corso di una tavola rotonda
coordinata dal Prof. Elio Borgonovi, presidente del
Cergas.
Per la ASL di Taranto erano presenti la
Dr.ssa Silvana Melli, direttore del distretto socio
sanitario di Taranto (nonché presidente regionale
della CARD) in delega alla direzione generale, il Dr.
Donato Di Campo ed il Dr. Salvatore Scorzafave.
Il congresso si è aperto con gli interventi del
Prof. Francesco Longo, del Prof. Enrico Vendramini
e della Dr.ssa Valeria Tozzi, del CERGAS Bocconi, i quali hanno presentato metodologia e risultati della ricerca. Gli interventi hanno evidenziato la
ricchezza di progetti innovativi e efficaci nella sanità italiana e che meritano di essere analizzati ed
esportati in altri contesti.
Sono quindi intervenuti il presidente onorario della CARD Dr. Rosario Mete e l’attuale presidente Dr. Gilberto Gentili i quali hanno ulteriormente
sottolineato l’importanza della ricerca rimarcando la
necessità di prevedere nei prossimi mesi un programma di divulgazione e trasferimento delle best
practices selezionate.
A seguire, ha preso il via la tavola rotonda
coordinata dal Prof. Borgonovi e che ha visto relazionare le direzioni generali delle 10 ASL presenti.
Per la ASL di Taranto è intervenuta la Dr.ssa
Melli che ha parlato del contesto sanitario di riferimento, quindi del razionale e delle finalità del
progetto sottolineando l’importanza di estendere
la sperimentazione su tutta la ASL. In particolare,
ella ha rimarcato come, attraverso la progettualità sviluppata nel distretto socio sanitario n.1 della
ASL di Taranto, è possibile perseguire obiettivi di
governo clinico quali, ad esempio, la riduzione dei
ricoveri inappropriati, dell’ ospedalizzazione evitabile e della mobilità passiva, nonchè il miglioramento
dell’appropriatezza clinico-organizzativa in accesso
ai servizi ambulatoriali e la riduzione dei tempi di
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attesa. In definitiva, quindi, una maggior razionalizzazione della spesa a fronte di un miglior stato
di salute atteso. A detta degli autori del progetto le
fasi successive dovranno prevedere la predisposizione di un osservatorio aziendale per il governo
clinico che adotti sistematicamente, in tutte le strutture della Asl, la metodologia realizzata.
Il convegno si è concluso con l’intervento del
Ministro della salute Ferruccio Fazio che ha elogiato
le 10 ASL selezionate e gli autori del progetto rimarcando la necessità di sviluppare un’offerta territoriale sempre più importante per riequilibrare l’offerta
ancor’oggi troppo centrata sui servizi ospedalieri.
“Il modello ospedalocentrico non può più funzionare – ha dichiarato Fazio – non è solo un problema
di sostenibilità del sistema, ma è un discorso che
coinvolge anche la salute del paziente, in particolare quello anziano. È, infatti, dimostrato non solo
che l’anziano viene meglio assistito in strutture residenziali, o a domicilio, rispetto ai ricoveri ordinari,
ma soprattutto che, al di fuori degli ospedali, diminuiscono per lui i rischi di andare incontro ad una
disabilità fisica o psichica”. “Il nostro è un sistema di
tipo universalistico – ha concluso Fazio – ‘spalmato’
su quelle che sono le varie realtà regionali. Qui le
cose, a seconda dei territori, funzionano meglio o
peggio. Dobbiamo raccogliere quelle che sono le
varie esperienze di best practice, avviate nelle ASL
‘virtuose’, per esportarle in tutte quelle realtà con
situazioni più difficili”.
Ad avvalorare quanto sopra è giunto l’invito del dott. Ranieri Guerra, Dirigente dell’Istituto
Superiore della Sanità, alla dr.ssa Silvana Melli, in
rappresentanza dell’ASL Taranto, ad intervenire il
giorno 25 novembre ad Arezzo al V Forum Risk Management in sanità, in qualità di relatore nella sessione promossa dal Ministero della Salute, dall’Istituto Superiore di Sanità, dall’AIFA, dall’ Age.Na.S.,
dalla Confereza delle Regioni e delle Province Autonome, e dalla Fondazione Sicurezza in Sanità .
La dr.ssa Melli, in tale contesto, ha illustrato i risultati finali del progetto di ricerca finalizzata
“Gestione integrata del rischio sociosanitario
in una prospettiva di continuità assistenziale:
tecnologie e percorsi coordinati ospedale-territorio, “inerzia clinica”, esame degli esiti sociosanitari”, finanziato dal Ministero della Salute e
coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità.
Il suddetto progetto, fortemente voluto dalla
Direzione strategica aziendale, è stato realizzato
da un gruppo di lavoro integrato costituito da operatori dei Distretti Socio Sanitari n° 3 e 4° ed operatori
della Struttura Complessa di Statistica ed Epidemiologia della ASL TA.
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“A VOLTE BASTA UN SORRISO
PER AIUTARE UN BAMBINO
IN UN REP RTO DI ONCOEMATOLOGIA”
Estratto della tesi di laurea in Infermieristica
Università degli Studi di Bari - Polo di Taranto - Anno Accademico 2009-2010
di Antonia Caldaralo
In questa tesi ho trattato un aspetto trascurato del Nursing: l‟umanizzazione dell’ assistenza attraverso il sorriso”. Ridere e sorridere sono utili per far “rinascere” il bambino
che è in noi, con la sua voglia di vivere e giocare, con la sua creatività e spontaneità.
L’assistenza per una malattia grave, che può portare alla morte del bambino, non è
facile per gli operatori sanitari. La nostra formazione d’ infermieri è concentrata sul
salvare e prolungare la vita ed in genere la morte è vista come un fallimento. Talvolta
gli operatori hanno profonde difficoltà e angosce nell’accompagnare il bambino verso
la morte e sospendere i cosiddetti atti curativi a favore d’interventi palliativi.
L’
ospedalizzazione non è facile da parte dei
pazienti in qualsiasi reparto, risulta essere
ancora più insopportabile da parte
di un bambino ricoverato in un reparto
oncologico, che inevitabilmente assume un atteggiamento ostile verso gli operatori sanitari. La sua
degenza in ospedale è caratterizzata da un‟intensa sofferenza connessa alla paura
del dolore e soprattutto, nel
caso di reparto d’oncologia,
dove molto spesso la paura
è legata alla morte. Il tirocinio clinico, in questi tre anni,
ha rafforzato in me l’idea che,
anche un semplice sorriso può
aiutare i malati a vivere meglio
la condizione di malattia. Il riso ha
uno stretto legame con la gioia, che è
lo stato naturale d’armonia dell’animo umano. Allenando la mente al riso e all’allegria si possono superare con maggiore facilità traumi, dolori
fisici e psichici e ritrovare il collegamento con la
gioia. Proprio in questi casi, soprattutto nei reparti
d‟oncologia e anche d‟ematologia, dove il bambino
trascorre molte settimane di degenza, il riso e l’allegria possono essere “insegnati” e possono facilitare
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l’operato degli infermieri.
A tal proposito ho condotto uno studio conoscitivo,
su questo argomento, nella Struttura Complessa di oncologia dello stabilimento
“San G. Moscati”e ho somministrato un questionario agli infermieri
sulla “terapia del sorriso” e sulla
possibilità che questo modo di
fare possa creare un clima efficace per la relazione d’aiuto
tra il bambino e l’infermiere.
Concentrandomi in modo
particolare sulle emozioni
positive, come la gioia e la felicità, ho voluto dare risalto al
valore terapeutico della Clownterapia, in qualunque luogo, dove
c’è disagio e sofferenza. Attraverso
l’ottimismo è possibile avere un’ampia
visione delle cose, quindi non bisogna essere pessimisti di fronte ad un evento tragico, ma
dobbiamo cercare di vedere o far vedere il lato positivo delle cose per andare avanti e per affrontare
la malattia.
Il bambino oncologico
Quando parliamo del cancro, non parliamo di unica
malattia, ma di diversi tipi di malattie, che hanno
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Un angolo della Baby Room del
D.H.Oncoematologico
dell’Ospedale Moscati - ASL TA
cause diverse e distinte, che colpiscono organi e
tessuti differenti, che richiedono quindi esami diagnostici e soluzioni terapeutiche particolari. Esistono, però alcune proprietà che accomunano tutti i
tumori, cioè, ad un certo punto, una cellula dell’organismo “impazzisce” perde alcune sue proprietà,
ne acquisisce altre e comincia a moltiplicarsi al di
fuori di ogni regola. All’interno d’ogni cellula esistono in realtà dei “geni controllori” destinati ad impedire che una cellula “sbagliata” possa sopravvivere.
Perché il processo tumorale si inneschi bisogna che
anche questi “controllori” siano fuori uso. A causa di
questo “guasto” nel meccanismo che ne controlla
la replicazione, le cellule si dividono, quando non
dovrebbero e generano un numero enorme d‟altre
cellule con lo stesso difetto di regolazione. Le cellule sane finiscono quindi per essere soppiantate dalle cellule neoplastiche. Sia le cellule di un tumore
benigno che quelle di un tumore maligno tendono
a proliferare in maniera abnorme ma, solo le cellule di un tumore maligno, in seguito ad ulteriori modificazioni a carico dei geni, tendono a staccarsi,
a invadere i tessuti vicini, a migrare dall’organo di
appartenenza per andare a colonizzare altre zone
dell’organismo.
Il tumore benigno rimane dunque limitato all’organo
in cui si è sviluppato, mentre il tumore maligno si
estende ad altri organi, fino a colpire e compromettere organi vitali quali il polmone, il fegato, il cervello. Questo processo prende il nome di metastatizzazione e le metastasi rappresentano la fase più
avanzata della progressione tumorale, costituendo
la causa reale dei decessi per cancro. Sappiamo
ormai con buona certezza che il cancro origina da
un accumulo di mutazioni, cioè di alterazioni dei
geni che regolano la proliferazione e la sopravvivenza delle cellule, la loro adesione e la loro mobilità. Le mutazioni possono svilupparsi in tempi molto
differenti, anche sotto l’influenza di stimoli esterni.
Nella stragrande maggioranza dei tumori, le alterazioni dei geni che sono responsabili della malattia
sono determinate da cause ambientali. Sono provocate dall’esposizione prolungata ad agenti cancerogeni, d’origine chimica, fisica o virale. Tuttavia
il fumo di sigaretta, l’amianto, alcune sostanze sviluppate dalla combustione del petrolio o del carbone, l’alcol, una dieta squilibrata, i raggi ultravioletti
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del sole, le sostanze chimiche a cui possono essere sottoposte i lavoratori in certi processi industriali
o in agricoltura, possono sommarsi ad una “fragilità
genetica” predeterminata ed arrivare a provocare
delle mutazioni.
Dal punto di vista epidemiologico e clinico, il cancro
in età pediatrica si differenzia per diversi aspetti rispetto dell’adulto, sia per prevalenza di forme, quali
leucemie e linfomi rispetto ai tumori solidi, sia per
l’origine mesenchimale rispetto a quell’epiteliale,
sia, in genere, per la migliore risposta alla terapia.
Dal punto di vista psicologico, la malattia oncologica in età evolutiva è universalmente riconosciuta
come una fonte di gran disagio emozionale, per il
bambino, per la sua famiglia e per l’equipe sanitaria.
Il tumore nel bambino crea gran sofferenza e angoscia
Procedure
diagnostiche e terapeutiche sul bambino oncologico
I pazienti oncologici
devono sottoporsi
ad indagini diagnostiche invasive e
tanti cicli di terapia. Oltre a queste
procedure, periodicamente, devono
fare dei controlli.
Nel bambino tutto questo è molto
difficile, non collabora, è arrabbiato
e agitato, questo
comportamento non
permette di istaurare un’ottima assistenza infermieristica. In questo caso, la terapia del sorriso, il gioco
o la distrazione, da parte del bambino, può aiutare
l‟infermiere nel suo lavoro.
L’accesso venoso
I bambini oncologici hanno bisogno di frequenti farmaci per via endovenosa, trasfusioni ed esami del
sangue, diventa più difficile incanulare una vena
utilizzabile, per questo si preferisce fare un accesso
venoso centrale o inserire un port.
Tali presidi consistono in un catetere permanente o
tubicino (CVC) che resta applicato per tutto il tempo necessario e viene inserito in una vena di calibro maggiore, quasi sempre nella succlavia, con
un piccolo intervento chirurgico in anestesia totale.
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Per utilizzarlo, si svita il tappo in fondo al tubicino
che si collega ad una siringa e ai dispositivi da seguire. Il vantaggio di questo catetere è che utilizzarlo è completamente indolore, dato che non occorre
pungere sempre la cute, tranne il caso del port, ma
svitare il tubicino. Anche la loro gestione è molto facile, questi tubicini devono essere protetti, con una
benda adesiva, coperti da un piccolo borsellino,
che va disinfettato, almeno due volte alla settimana
per prevenire le infezioni, e va eparinato. Si consiglia ai genitori di non bagnare la parte d’ingresso
dell’accesso venoso, durante il bagno. I benefici
del catetere venoso centrale sono quelli di evitare
di pungere molto spesso il paziente, migliorando la
sua qualità di vita. Il port, a differenza dell’accesso
venoso centrale, è impiantato sotto la cute, si tratta di una scatolina/serbatoio inserita sotto pelle a
livello del torace del
bambino, collegata
con un cateterino
alla succlavia. Per
usare questo presidio, useremo un
ago diverso dal normale, un ago con
un angolo di 90°
gradi, lo infileremo
nella membrana del
serbatoio per effettuare in seguito prelievi e terapie. Il procedimento richiede
l‟osservanza
di
alcune misure di
sterilità, per prevenire infezioni; l’inserimento dell’ago è
veloce e indolore, se si usa una crema anestetica.
L’ago può essere tenuto dentro da pochi minuti a
svariati giorni, in quest’ultimo caso sarà protetto da
una speciale copertura. Ogni tre o quattro settimane il port va eparinato. Il tipo di presidio da adottare dipende da tanti fattori, come l’età, la patologia,
la terapia da seguire, le condizioni del paziente, il
tempo. L’ansia, nei più piccoli può essere ridotta
utilizzando una bambola, alla quale i bambini potranno fingere di fare il prelievo.
Indagini strumentali
Le indagini strumentali che vengono eseguite, soprattutto, in questi casi, sono: la tomografia assiale
computerizzata o TAC, risonanza nucleare magnetica o RMN, tomografia ad emissione di positroni
o PET. Questi esami non sono dolorosi, però pos-
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sono spaventare il
bambino, quindi saranno agitati. Tuttavia prevedono che il
paziente non si muova per alcuni minuti,
in casi di bambini più
piccoli, si preferisce
sedarli. I più grandi
possono avere paura
dei macchinari, soprattutto quello della
risonanza. In questi
si preferisce, se possibile, che il bambino
venga accompagnato da uno dei genitori e l’infermiere può
descrivere cosa fa la
macchina, così sarà
meno spaventato e
gli operatori impiegheranno poco tempo per l’indagine.
Le trasfusioni di sangue
Le terapie oncologiche, molto spesso, richiedono
trasfusioni di sangue per aiutare il fisico del bambino, deperito a causa dei farmaci antitumorali, che
distruggono le cellule tumorali, distruggono anche
quelle sane. Alcuni bambini possono essere preoccupati dall’idea di ricevere del sangue, in questi
casi l’infermiere può provvedere a mascherare la
sacca di sangue e renderla più accettabile.
Iniezioni sottocutanee
A volte si rendono necessarie iniezioni da praticarsi sottocute per la somministrazione di fattori
di crescita, per la stimolazione dei globuli bianchi,
per contrastare le eventuali infezioni. Anche in questo caso sarà utile far sfogare la rabbia e la paura
del bambino, facendolo giocare con una bambola,
dove il bambino potrà fare le punture. È necessario
consolare il bambino senza negare o mitizzare la
sofferenza, evitare frasi come: “su non piangere, e
solo una iniezione”.
Terapia medica contro il tumore (chemioterapia
e altre terapie)
La chemioterapia consiste nella somministrazione,
generalmente per via endovenosa, raramente per
via orale, di sostanze chimiche, che distruggono
le cellule tumorali. Per la loro somministrazione è
spesso necessaria un’ottima idratazione, con soluzione fisiologica o glucosata, tramite un’infusione
continua regolata da pompe computerizzate. Purtroppo queste sostanze producono effetti collaterali, perché agiscono anche sulle cellule dei tessuti
sani, come il tessuto gastroenterico (di qui le stomatiti, diarrea o stipsi), sui bulbi piliferi (alopecia),
sul midollo emopoietico (depressione midollare)
con una diminuzione dei globuli rossi (anemia),
delle piastrine (piastrinopenia) e dei globuli bianchi
(leucopenia). Alcuni di questi effetti collaterali seguono, immediatamente, dopo la somministrazione
del farmaco (nausea, vomito), altri si manifestano
dopo 2 o 3 settimane dalla somministrazione (depressione midollare, perdita dei capelli).
Gli effetti collaterali della terapia medica
La perdita dei capelli è uno egli effetti collaterali
più evidenti, anche se temporaneo, la calvizie
può durare alcuni mesi, cioè per tutto il tempo
del trattamento, sospesa la somministrazione dei
farmaci, dopo un po’ di tempo, i capelli cominciano a ricrescere. Però la calvizie è psicologicamente
difficile da accettare per i bambini e per i genitori. I capelli cominciano a cadere a ciocche, questo
è molto deprimente, quindi si consiglia di rasare
i capelli. I bambini sotto i 7-8 anni, generalmente
soffrono questo problema meno dei loro genitori, i
quali si sentono imbarazzati a mostrare in pubblico il figlio calvo, mentre il figlio ed altri bambini, in
genere, non danno molto peso a questa cosa, se
non all’inizio. I bambini possono, magari, tagliare i
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capelli alle bambole.
La calvizie può essere più demoralizzante per le
bambine, specialmente se avevano una chioma
fluente. Le bambine possono coprirsi la testa con
un foulard o una bandana o cappello o una parrucca. Ma se la calvizie viene accetta dai genitori verrà
accetta anche dai bambini, poi bisogna sempre rassicurare il bambino che questo è solo temporaneo.
Altri effetti collaterali sono: nausea, vomito, stipsi,
diarrea e perdita di peso. Questi effetti si cercano
di contenere somministrando i farmaci antivomito
e modificando la dieta del paziente. Non tutti reagiscono così alla terapia, altri hanno solo effetti lievi,
invece altri effetti gravi. Se il bambino cala di peso,
perde l‟appetito e vomita, possiamo nutrirlo per via
endovena. Alcuni farmaci chemioterapici possono
provocare ulcerazioni o micosi al cavo orale; queste possono essere prevenute con risciacqui di
collutori: l’infermiere può istruire il bambino di fare
questi risciacqui regolarmente attraverso il gioco;
se il bambino è molto piccolo, l’infermiere può pulire
la bocca con una garzina imbevuta di disinfettante.
La terapia chemioterapica può dare periodi di leu-
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copenia, causa per alcuni pazienti di un’infezione.
Compito dell’infermiere è quello di usare tutti quegli
atti per prevenire un’infezione, che può peggiorare
la sua condizione.
In certi casi, si abbassa, in maniera rilevante, il numero dei globuli bianchi, tanto da rendere necessario l’isolamento del paziente in una stanza idonea.
Per poter entrare nella stanza, il visitatore deve
utilizzare tutte le misure di sicurezza per prevenire
l’infezione, ossia deve indossare un camice sterile,
una mascherina e una cuffia, le mani devono essere scrupolosamente lavate. Il bambino non potrà
lasciare la stanza fino a quando il numero dei globuli bianchi non rientrerà nel range normale. Alla
presenza di febbre, quindi una probabile infezione
in corso, s’inizierà una terapia antibiotica.
L’ospedalizzazione
Un bimbo malato di tumore spesso è irritabile e non
sta bene, già prima della diagnosi. Deve affrontare
cure ed esami invasivi, con pesanti effetti collaterali, entrare in ospedale e subire trattamenti per mano
d’estranei in un ambiente sconosciuto, lontano di
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casa, dai parenti, dagli amici, dal luogo naturale degli affetti. L’ospedalizzazione ha un impatto meno
traumatico se il bambino ha già visitato il reparto
e vi ha familiarizzato, ma questa preparazione è
in genere impossibile con una diagnosi di tumore,
quando i tempi sono ristretti. Normalmente è la madre, con la sua speranza, ad aiutare il bambino a
superare le sue paure. Il bambino più piccolo vive
la malattia come una punizione, anche l’ospedalizzazione.
Il bambino può attraversare due periodi:
1. periodo traumatico, causato dall’ allontanamento
della figura materna, che può portare a sentimenti
di ostilità nei confronti di ambiente circostante;
2. periodo deprivativo, causato dalla privazione delle cure materne, che può indurre nel bambino un
grave impoverimento della personalità.
Le reazioni del bambino possono essere:
fase di protesta, durante la quale il bambino spera
ancora nella presenza della madre e spesso urla,
piange, scende dal letto per attirare l’attenzione;
fase di disperazione, in cui il bambino, ora meno attivo ed aggressivo, si rende conto del bisogno profondo della madre ed appare distaccato e apatico,
totalmente sfiduciato;
fase di negazione, in cui il bambino sembra mostrarsi più interessato all’ambiente circostante, ma
ignora la madre e si comporta come se non la conoscesse.
Vi sono in ogni modo problemi specifici secondo
l’età del fanciullo. I bambini piccoli, in particolare
sotto i 3 anni, temono più d’ogni altra cosa la separazione della madre. L’ansia del bambino è minore
se i genitori gli stanno vicino e lo rassicurano, ma
anche così i piccoli possono reagire male al ricovero. Possono ignorare i genitori, rimanere in silenzio,
chiudersi in se stessi, immaginare il dolore specialmente quando pensano di dover essere visitati o di
dover affrontare procedure dolorose.
A volte si manifestano schemi particolari di comportamento, con una degenza prolungata: la frustrazione può far sì che alcuni bimbi reagiscano
con rabbia ribellandosi e divenendo difficilmente
controllabili; altri viceversa divengono passivi, taciturni, chiusi in se stessi. Questa anche è una reazione normale: di fronte ad una malattia grave,
la maggior parte delle persone desidera evitare lo
stress continuo delle cure e si ritira in se stessa per
raggiungere un po’ di pace. Anche i piccoli hanno
bisogno di momenti di solitudine e di tranquillità per
recuperare forza interiore e poter affrontare ciò che
li attende. I bimbi possono divenire tristi e depressi, in particolare quelli che soffrono di più possono,
IPASVI
perdere l’appetito, divenire apatici, possono piangere facilmente ed avere difficoltà nel sonno. Spesso possono sentirsi colpevoli della loro malattia,
come se l’avessero meritata
L’infermiere deve cercare il modo di ridurre il disagio che si crea durante il ricovero e deve mettere in
atto dei comportamenti, che portano il bambino a
sentirsi più orientato all’interno di un ambiente non
del tutto familiare, più sicuro e più protetto; cercare
di svolgere le attività con una certa routine (cure
igieniche, la visita, i pasti); cercare di creare una
certa complicità con il bambino. Il bambino ha bisogno di riposo, calma e gioco. I bambini usano
il gioco per esprimere i loro sentimenti e pensieri.
Giocare è più facile che parlare e fa emergere senza dolore le circostanze più minacciose.
La comunicazione della diagnosi
Spesso la diagnosi giunge improvvisa, scioccante e
per molti è come una sentenza di morte. La nostra
mente rifiuta di accettare che il tumore possa colpire
un bambino e la parola stessa “tumore” è per molti
ancora un tabù. Naturalmente uno degli aspetti più
difficili e delicati in questo settore è rapportarsi al
bambino durante la diagnosi. Il primo passo da fare
per aiutare il bimbo ad affrontare con serenità la
malattia consiste nel comunicare con lui in modo
aperto e sincero; è un atteggiamento che richiede
gran coraggio, ma che è sicuramente preferibile
ad un silenzio ostinato, che solo apparentemente
protegge il bambino. Parlare con lui significa non
lasciarlo solo di fronte ad un evento che lo turba e
lo spaventa. La reazione emotiva del bambino morente deve essere gestita e condivisa: è importante
che l’infermiere lo aiuti ad esprimere i sentimenti di
rabbia, paura, tristezza, solitudine e a manifestare ansie e angosce. L’infermiere e l’equipe curante
dovranno essere pronti ad aiutare i familiari a superare il lutto e i sensi di colpa con un percorso assistenziale. Ogni intervento terapeutico deve essere
considerato all’interno degli obiettivi, delle attese
del bambino e della sua famiglia e, come le scelte
terapeutiche possono variare secondo il progredire della malattia, anche le decisioni del paziente
possono essere modificate. Discussioni e confronti
continui nell’equipe possono facilitare questi cambiamenti.
La reazione dei genitori
Nel bambino il genitore investe aspettative e speranze future. È difficile per il genitore, al momento
della diagnosi, comprendere il processo tumorale
che devasterà il proprio figliolo dall’interno, delle terapie a cui andrà incontro e che modificheranno l’aspetto fisico del bambino e sarà molto difficile che
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daranno l’assenso agli interventi radicali. I genitori
accolgono con incredulità e smarrimento la comunicazione della diagnosi, reagiscono alla notizia intraprendendo un percorso emotivo caratterizzato da
tre fasi: lo shock, la negazione e l’accettazione, a
cui il genitore arriva dolorosamente e gradualmente. Il genitore ha bisogno di essere accompagnato
nell’affrontare gli inevitabili sentimenti di disperazione, confusione, impotenza che scaturiscono dal
ricevere tale notizia. Questo sostegno può essere
dato dall’infermiere o dallo psicologo del reparto (se
fa parte dell’equipe), dall’organizzazione di riunioni, dal rapporto dei genitori che hanno già vissuto
quest’esperienza. Fondamentale che i genitori possono esprimere le loro emozioni, sfogarsi, elaborare la rabbia e la disperazione prova, per poi poter
accompagnare e sostenere nel miglior modo possibile il proprio figlio malato.
La fase terminale della malattia oncologica di un
bambino diviene la concretizzazione del senso di
perdita e dell’angoscia della morte, che colpisce la
famiglia e gli operatori sanitari. In questo caso, l’iter
terapeutico è di tipo palliativo e i genitori insieme
agli operatori devono scegliere quali metodi adottare per migliorare la qualità di vita del bambino,
ma insieme provano, anche, senso di impotenza.
La letteratura evidenzia che i genitori di bambini
con tumore definiscono la malattia del loro bambino come l’elemento principale della loro vita. I
genitori, durante le fasi della malattia del bambino,
manifestano una difficoltà a rilassarsi, un quadro
d’iper attenzione e apprensione nei confronti del figlio malato e di nervosismo. Vi sono, anche, molti
dati in letteratura in merito al vissuto dei fratelli del
bambino malato.
L’impatto su questi ultimi è caratterizzato da un forte stress. I fratelli possono vivere una condizione di
perdita di qualità e quantità della vita con i genitori,
inoltre possono vivere notevoli mancanze d’attenzione, di essere considerati ed ascoltati dai genitori.
Per questa ragione, essi possono manifestare dei
cambiamenti comportamentali caratterizzati, da un
lato, da un aumento dell’empatia con i genitori e
dell’amore per il fratello malato, dall’altro, da una
condizione di rivalità con odio, gelosia e invidia per
un ruolo di privilegiato che riveste il fratello malato.
In questi casi i genitori hanno bisogno d’informazione, di supporto emotivo, supporto sociale e la partecipazione nel progetto di cura del bambino:,questo
grazie alla relazione d’aiuto che l’infermiere deve
creare con i genitori.
Quindi, i due principali bisogni, presentati dal bambino e dalla famiglia, sono il supporto emozionale e
psicologico.
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IPASVI
Gli interventi che vengono utilizzati per la realizzazione della relazione d’aiuto infermiere-bambinofamiglia, sono il couselling, i gruppi di supporto, l’utilizzo di modalità comunicative positive, la terapia
del sorriso, il sorriso da parte del personale infermieristico.
La malattia e la terapia del sorriso
L’attribuzione di un significato positivo all’esperienza malattia è difficile ma non impossibile. “La malattia molto spessa può ripristinare l’ordine naturale
delle priorità, può diventare come un’occasione per
riscoprirsi e cambiare. La malattia può mettere in
discussione la nostra esistenza e minacciare il nostro modo di vivere”. (Hodgkinson, L. 2001).
Dall’esperienza di Norman Cousins (giornalista e
un professore di medicina umanistica per la facoltà
di medicina presso la University of California, Los
Angeles) il personale medico è d’accordo sul fatto che più un paziente è fiducioso e rilassato, più
l’intervento assistenziale a cui è sottoposto avrà
esito positivo. Il sorriso è un modo diverso e alternativo per affrontare i problemi e questa modalità ci
può aiutare a vivere meglio. Il credere nelle proprie
capacità e abilità, la percezione di controllo sugli
eventi, l’ottimismo verso il futuro costituiscono l’uso
di strategie di coping attive più idonee a risolvere e
diminuire i livelli di stress.
In questa nuova ottica, il Dottor Hunter Adams,
meglio conosciuto come il “Dottore dal naso rosso
(ideatore di una terapia olistica molto particolare:
quella del sorriso, anche nota come clown terapia)
ha dato avvio alla terapia del sorriso in ospedale.
Durante il periodo della sua specializzazione aveva intuito l’importanza del buon umore nel processo di guarigione e aveva riscontrato maggiori successi di guarigione nei soggetti che percepivano
la loro malattia in modo positivo. Mettendosi un
naso rosso visitava i pazienti regalando un sorriso
ed un momento d’evasione dalla malattia. Da queste sue sperimentazioni sulla terapia del sorriso in
ospedale si potranno scoprire, favorire ed utilizzare nuove modalità di gestire lo stress provocato da
eventi traumatici. Invece di utilizzare i già conosciuti processi di coping si vuole utilizzare la forza del
pensiero positivo. Dopo Hunter Adams sempre più
spesso la terapia farmacologia che va a rafforzare
il sistema immunitario, viene abbinata alla terapia
del sorriso.
Come dovrebbe essere un reparto della terapia
della risata
Secondo un’ indagine condotta nel 2001 a Savona dall’istituto “M.G.Rossello” è stato stilato
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un decalogo dagli allievi che per due anni hanno
focalizzato l’attenzione sui bambini ospedalizzati,
dopo un percorso fatto di incontri in corsia, di interviste e di analisi dei disegni fatti dai bambini degenti.
Mi è sembrato interessante sottolineare alcuni punti che descrivono come i bambini vorrebbero che
fosse il loro ospedale ideale: al terzo punto i piccoli
affermano che vorrebbero un ospedale colorato, allegro, grande, pulito con tanti giochi e giardini, costruito in città, così i loro amici e parenti potrebbero
andare a trovarli più spesso, sarebbero contenti,
anche, se il cibo dell’ospedale fosse come quello
di casa. Al quinto punto i bambini esprimono il bisogno di avere tanti posti adatti alla loro età e alla loro
malattia, dove poter giocare da soli o in compagnia
quando lo desiderano. Sarebbe divertente se l’ospedale organizzasse giochi, spettacoli anche con
le marionette, i clown, o altre cose divertenti per
tutti i bambini e i loro genitori. Al nono punto dichiarano il bisogno che i dottori devono essere anche
amici, gentili e buoni nei loro confronti, devono essere preparati a capire, oltre ai loro problemi fisici,
anche cosa provano e pensano durante le giornate
in ospedale. Avrebbero meno paura se le siringhe, i
camici e tutti gli oggetti ospedalieri fossero colorati
e nascosti alla loro vista. Per funzionar bene un reparto del genere ha bisogno di una grande stanza
accogliente dove sia possibile, anche, la visione e
consultazione di materiale comico-umoristico (libri,
riviste, audio e video) e un paio di volte alla settimana si potrebbero svolgere dei laboratori di comico-terapia indirizzati ai pazienti, i quali possono
ri-crearsi e ricevere stimoli di riflessione anche sulla
propria condizione di ammalato. Si
aggiunga il fatto che la stessa struttura, cioè il reparto di Terapia della
risata, potrebbe servire anche per il
personale medico, infermieristico e
paramedico, il quale frequenterebbe dei corsi e laboratori di terapia
del sorriso che servirebbero a stemperare tante tensioni e a combattere
lo stress tipico di un lavoro strettamente a contatto con realtà di sofferenza quotidiana.
Gli effetti positivi di una tale iniziativa potrebbero essere misurati e controllati attraverso semplici
analisi sui pazienti, per verificare
il livello di funzionalità del sistema
immunitario o quello di consumo di
farmaci antidolorifici e riguardo al
personale sanitario, la misurazione
IPASVI
degli effetti, potrà essere verificata sui cambiamenti
nelle relazioni con i pazienti e in quella tra colleghi
e personale ospedaliero in generale.
Quella di un reparto di Terapia della Risata, non è
pertanto un’idea così complicata da realizzare ed è
pure a costi contenuti.
L’importanza del gioco per i bambini in ospedale
La principale attività dei bambini è il gioco.
Attraverso esso, i bambini entrano in relazione con
gli altri e con il contesto circostante Nel gioco, le
emozioni e la fantasia si riempiono di significato e
danno un senso allo stare insieme. I bambini hanno
quindi bisogno di vivere il proprio tempo nel gioco,
nella gioia, nella libertà, nella spontaneità e nell’autenticità. La scarsità del “tempo di gioco” può essere la causa di disturbi allo sviluppo, di difficoltà
di concentrazione, di stress, di paura ecc. Tipico
esempio di questa realtà è il ricovero del bambino
in ospedale, in particolare di quelli a lunga degenza
(reparto oncologico). In questa situazione il bambino appare depresso, ansioso, risente dell’abbandono del contesto familiare, soffre per la mancanza
della mamma soprattutto quando è piccolo, soffre
della mancanza della propria casa e di solitudine
in quanto, fino a non molto tempo fa, si curava il
sintomo, la malattia, perdendo di vista la persona.
..dice Patch Adams: ”... i mali che affliggono la maggior parte dei malati, come la sofferenza, la morte e
la paura, non possono essere curati con una pillola.
I medici devono curare le persone non le malattie.”
Ecco dunque la necessità della presenza “del medico dell’anima”, oltre che “dell’indispensabile medico
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IPASVI
del corpo”, che riporti il “tempo del gioco”, la spensieratezza, così che il bambino e la sua famiglia,
possano reagire con l’emozione, l’immaginazione
ecc.. Nasce così la figura di un dottore particolare
che utilizza la risata come strumento per accelerare
il processo di guarigione: “Il clown dottore”.
L’infermiere e l’infermiere clown: un’espansione del proprio ruolo
Peplau, teorica del Nursing, definisce l’assistenza
infermieristica “un processo interpersonale e terapeutico significativo, un rapporto umano tra individuo che è malato e un infermiere specificamente
preparato per riconoscere e rispondere ai bisogni di
aiuto. Le interazioni interpersonali sono spesso più
efficaci nel determinare l’esito di un problema del
paziente, di quanto non lo siano molti procedimenti
tecnici di routine. Quando il processo infermieristico viene considerato uno strumento di maturazione
e di educazione, gli infermieri effettuano esperienze che favoriscono un apprendimento continuo. Il
processo infermieristico è educativo e terapeutico
quando l’infermiere e il malato possono arrivare a
conoscersi e rispettarsi reciprocamente come persone che sono simili e tuttavia diverse, come persone che condividono la soluzione dei problemi...”.
Nella relazione d’aiuto quello che conta è la qualità dell’incontro con le persone e la nostra voglia di
metterci in gioco. Incontrare l’altro significa essere
capaci di cambiare le cose e voler dare quel valore aggiunto che fa la differenza. L’elemento spesso
però mancante di questo processo è la fantasia,
che fa sognare, fa immaginare l’impossibile. L’assistenza infermieristica può diventare creatività se
riesce ad impegnare maggiormente energia, alla ricerca di soluzioni alternative a seconda dei bisogni
38
IPASVI
della persona. L’incontro con l’atro è sempre una
realtà dialogante, che suscita le diverse emozioni
e affetti.
Incontrare l’altro quando questo è un paziente vuol
dire saper accogliere, essere disposti a cambiare
le cose, saper ascoltare. Incontrare l’altro vuol dire
anche condividere la gioia, quando avviene la guarigione, o un miglioramento della malattia; vuol dire
però anche vedere con gli occhi del paziente, farsi
carico delle sue emozioni. Per incontrare veramente le persone è necessario mettersi in cammino per
poterle raggiungere dove loro sono; poter ascoltare
il malato, permette che le sue emozioni ci raggiungano e al tempo stesso permette anche a noi stessi
di riconoscere le nostre emozioni dinanzi al paziente. Ascoltare significa saper andare al di là della
competenza tecnica, dei protocolli, degli schemi,
significa disporre di uno spazio e un tempo mentale, essere presenti alla situazione e condividerla,
saperla trasformare ad esempio con un sorriso. La
capacità di immedesimarsi nel paziente per trovare
spesso uno spazio dialogale diverso, crea una dimensione profonda e significativa nella relazione.
L’empatia è stata definita come la capacità di entrare nella vita della persona per capire i suoi significati. Contraddistingue tutte le situazioni relazionali
significative ed importanti. Oltre ad essere presente
in molte situazioni positive, l’empatia stimola nell’individuo una sensibilità nei confronti del disagio e
della sofferenza.
Un’altra importante teorica del Nursing, Florance
Nigthingale affermava che “l’assistenza infermieristica è un’arte, è una delle arti, anzi la più bella
delle arti e come tutte le arti richiede creatività...”.
La creatività, per poter essere attuata deve essere
correlata a competenza, bisogna essere flessibili,
IPASVI
avere la voglia di mettersi in discussione, essere capaci di produrre idee ed essere originali nell’attuare
l’assistenza. La creatività intesa come capacità di
sapersi entusiasmare, gioire, sapersi scoprire in un
modo diverso e nuovo, è presente in ogni uomo,
ma a volte viene autocensurato, e questo rappresenta uno degli ostacoli maggiori tra le potenzialità
dell’individuo e la vita creativa. La voglia di mettersi
in gioco diviene portavoce di un cambiamento radicale dell’assistenza, significa anche, dove questo
è possibile, autoironia, pur nell’autorevolezza del
proprio intervento.
Maslow distingue la “creatività derivante da speciale talento, dalla creatività derivante dall’autorealizzazione”. Questa teoria lascia aperta la possibilità
di permettere a tutti gli uomini di potersi autorealizzare nel proprio lavoro applicando la creatività,
che per l’infermiere significa soprattutto rappresentarsi in modo “autentico” nei confronti della persona
attraverso il processo relazionale. Una battuta può
sdrammatizzare un problema, ribaltare la posizione
del paziente, rendendolo attivo rispetto al suo disegno. Ridere insieme significa complicità, alleanza,
passaggio emozionale al cambiamento. Per questa
tipologia di intervento è fondamentale conoscere
bene il paziente e le sue emozioni, le potenzialità
che egli ha per sostenere un impatto come quello dell’umorismo. Se questa capacità esiste, il riso
suscita nel paziente una scintilla che può portare
lontano, se invece egli non è in grado di sopportare
l’ironia, una simile modalità terapeutica può essere
deleteria.
Una struttura sanitaria che decide di accettare e
praticare la terapia della risata deve però sapersi
mettere in gioco e diventare la portavoce di un cambiamento radicale nell’assistenza. Per poter fare
questo, è fondamentale credere al potere creativo
che c’è in ogni persona e ciò è possibile attraverso
il processo d’autorealizzazione. Sono fermamente
convinta che il grande beneficio dell’umanesimo
terapeutico si possa realizzare quando l’infermiere
riesce a vedere davanti a sé prima una persona e
poi un malato. Non è altrimenti possibile, davanti
ad un uomo che sta morendo di cancro resistere,
ma se l’infermiere lo avvicina come uomo, il cancro
diventa un aspetto secondario e quindi diventa più
facile lavorare con lui e, perché no, anche sorridere. Al posto di “malati terminali” chiamiamoli semplicemente con il loro nome, per essere squisitamente
umani, non seri e distaccati, ma consapevoli che
queste persone hanno bisogno di essere prese in
cura. Gli studenti di medicina e delle professioni
infermieristiche hanno oggi a disposizione dozzine
di conferenze sul DNA e varie altre specializzazio-
IPASVI
ni mediche-chirurgiche ma poche occasioni della
semplice relazione medico-paziente. Ci si trova ad
essere immersi in una società scientifica che ha
dato molta importanza alla professione medica per
i dati tecnici e scientifici, ma ha perso l’approccio
umano.
L’assistenza infermieristica non può esaurirsi nella sola applicazione dei suoi contenuti scientifici, in
quanto oltre che tecnica è anche umanità, creatività, fantasia ed arte. Saper erogare un’assistenza
che ponga al centro l’individuo considerandolo, dal
punto di vista olistico, presuppone ad esempio anche l’essere in grado di integrare alle terapie convenzionali, quelle complementari che possono aiutare le persone a staccarsi dalla realtà di sofferenza
vissuta con la malattia. Patch Adams disse: “Se ti
preoccupi di combattere la malattia perdi sempre
perché prima o poi tutti muoiono. Se invece ti occupi della persona, allora puoi vincere perché tutti
possono aprirsi alla vita”. La funzione “tecnica, relazionale e terapeutica”, citata nel Profilo Professionale può avvenire con modalità e strumenti diversi e
complementari da quelli considerati tradizionali. La
qualità dell’incontro e della relazione terapeutica,
costituiscono gli elementi determinanti nella professione infermieristica e il clown, con la sua capacità
di saper rendere ironiche e satiriche le situazioni,
può intervenire come mediatore nella comunicazione. Ma se solo entriamo nell’ottica che un clown
può essere anche un infermiere e viceversa, allora
l’assistenza potrà usufruire della capacità dell’una
e dell’altra figura, senza per forza dover rinunciare
all’utilità che una o l’altra figura rappresenta. Si può
affermare che l’infermiere clown e l’infermiere non
sono di fatto due ruoli così distanti l’uno dall’altro,
ma semplicemente possono essere l’uno immedesimato nell’altro.
Il dolore nel bambino
Che cos’è il dolore?
Da un punto di vista anatomo-fisiologico il sistema
algico può essere definito come un sistema neuroormonale complesso, a proiezione diffusa, in cui si
possono riconoscere tre sottosistemi:
1. un sistema afferenziale che conduce gli impulsi
nocicettivi dalla periferia ai centri superiori;
2. un sistema di riconoscimento che “decodifica” e
interpreta l’informazione valutandone la pericolosità e predisponendo la strategia della risposta motoria, neurovegetativa, endocrina e psicoemotiva;
3. un sistema di “modulazione” e controllo che prov39
IPASVI
vede ad inviare impulsi inibitori al midollo spinale
allo scopo di ridurre la potenza degli impulsi nocicettivi afferenti.
I sottosistemi 1 e 2 costituiscono il sistema “nocicettivo”, il 3 il sistema antinocicettivo. Questa suddivisione funzionale trova una diretta corrispondenza
nella terapia antalgica che può appunto realizzarsi
in due modi fondamentali: interrompendo le vie del
sistema nocicettivo ovvero rinforzando il sistema
antinocicettivo.
Le strutture nervose che costituiscono il sistema
nocicettivo “afferente” comprendono:
I recettori: terminazioni nervose libere in grado di
rispondere a vari tipi di stimolazione: termica, pressoria, variazione di pH, riduzione della tensione di
O2, contatto con sostanze algogene liberate da
tessuti lesi (potassio, istamina, serotonina, prostaglandine), provenienti dal circolo sanguigno, (bradichinine) o dalle stesse terminazioni nervose, come
la sostanza P che, possedendo varie attività biologiche (vasodilatazione, chemiotassi per i leucociti,
degranulazione dei mastociti), trasforma i recettori
in veri e propri “neuroeffettori”.
Il neurone primario afferente sensoriale: ha la cellula d’origine posta nel ganglio spinale e due assoni
di cui uno si dirige in senso centrifugo terminando
con un recettore nelle strutture tessutali periferiche
(cute, strutture somatiche e viscerali) e uno si dirige
in senso centripeto raggiungendo il corno posteriore del midollo spinale.
Le fibre afferenti primarie in grado di condurre lo
stimolo dolorifico sono di due tipi: fibre mieliniche
di piccolo diametro (A- D) che conducono ad una
velocità di 10-30 m/sec. sensazioni dolorose di tipo
puntorio, ben localizzate e con la stessa durata
dello stimolo applicato (dolore “epicritico”), e fibre
amieliniche di piccolo diametro (C), con velocità di
conduzione di 1-10 m/sec. Responsabili della trasmissione di dolore poco localizzato, di tipo “urente”, e che ha una durata maggiore dell’applicazione
dello stimolo stesso (dolore “protopatico”). Il dolore
viscerale profondo e riferito ha caratteristiche simili a quelle del dolore “protopatico” piuttosto che di
quello “epicritico”.
Le corna dorsali: i neuroni delle corna posteriori che
contraggono sinapsi con gli assoni provenienti dai
neuroni dei gangli spinali, si organizzano in una serie di “lamine” sulla base della morfologia e della
disposizione delle cellule stesse: in tal modo l’informazione nocicettiva viene sottoposta ad una prima
elaborazione grazie alla modulazione (equilibrio fra
azione eccitatoria ed inibitoria) fornita dai vari neurotrasmettitori (sostanza P, colecistochinina, soma-
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IPASVI
tostatina). E’ importante ricordare che sui neuroni
spinali convergono input provenienti sia dalla cute
sia dai visceri profondi, perciò, grazie a tale convergenza, si realizza il cosiddetto”dolore riferito”: in tal
modo l’attività indotta nei neuroni spinali, da stimoli
provenienti da strutture profonde, è erroneamente
riferita in un’area che è grossomodo sovrapponibile
alla regione cutanea innervata dal medesimo segmento spinale.
Il sistema spino-talamico e talamo-corticale: il sistema spino-talamico può essere concettualmente
diviso in una parte diretta, che trasmette l’informazione sensitiva discriminativa del dolore a livelli
talamici, e una parte spino-reticolo-talamica, filogeneticamente più antica, che termina più diffusamente nei nuclei reticolari del tronco encefalico. Il
sistema spino- talamico diretto è importante per la
percezione cosciente delle sensazioni nocicettive
e termina ordinatamente entro il nucleo ventro-postero-laterale del talamo (VPL) ove afferiscono anche le vie nervose provenienti dalle colonne dorsali
che trasmettono la sensibilità tattile superficiale e la
sensazione articolare: ciò consente di discriminare
aspetti sensitivi del dolore in merito alla sua localizzazione, natura ed intensità. A loro volta le cellule
del VPL proiettano alla corteccia somato-sensoriale
primaria (1^ e 2^ area somato-sensitiva della corteccia parietale). Il sistema spino-reticolo-talamico
lungo il suo decorso ascendente invia collaterali ai
nuclei della sostanza reticolare bulbo-mesencefalica formando parte di un sistema polisinaptico che
termina nei nuclei talamici mediali: questo sistema polisinaptico può mediare alcuni aspetti delle
reazioni autonomiche e affettive del dolore (p. es.
reazione di allerta e di orientamento agli stimoli
dolorosi), mentre non sembra importante per la discriminazione e la localizzazione sensoriale.
Ricordiamo, infine, che dal sistema limbico afferiscono al talamo neuroni provenienti dall’amigdala e
dall’ippocampo: queste connessioni e le loro implicazioni funzionali sono importanti per il tono cognitivo e psicoemotivo che viene impresso all’evento
dolore. Il sistema di modulazione “antinocicettivo”
comprende impulsi discendenti provenienti dalla
corteccia frontale e dall’ipotalamo che vanno ad attivare neuroni mesencefalici e del bulbo. Numerose
prove testimoniano che questo sistema di modulazione contribuisce all’effetto analgesico dei farmaci
oppioidi, in quanto sono presenti recettori per gli
oppioidi stessi; inoltre, i nuclei che compongono
il sistema di modulazione del dolore contengono
peptidi endogeni, come le endorfine. Le condizioni
in grado di attivare questo sistema di modulazione in modo più costante sono il dolore e/o la paura
IPASVI
che persiste per un periodo prolungato ed, infatti, è
stato dimostrato che sostanze endogene e analgesiche vengono rilasciate a seguito di interventi chirurgici. La modulazione del dolore è a doppio senso
e quindi si può avere sia produzione d’analgesia,
sia intensificazione della sensazione dolorosa; infatti, è esperienza comune come stati psicologici
particolari (stress e depressione) siano in grado di
automantenere le sensazioni dolorose croniche.
Lo stress è un fattore d’importante variazione della
percezione del dolore secondo un processo”bifasico”
che registra un innalzamento della soglia (Analgesia da Stress - Stress Induced Analgesia, SIA), seguito, con perdurare nel tempo della stimolazione,
da un abbassamento a livello patologico, ovvero di
gran lunga minore del livello primitivo o di controllo.
In questa seconda fase possono essere coinvolti
diversi peptidi come l’1-24 ACTH e la colecistochinina (CCK) che assume il ruolo di “naloxone endogeno” . Per quanto riguarda la depressione, è
tuttora controverso il significato della sua concomitanza con il dolore, per cui, se in alcuni pazienti i
disturbi depressivi sembrano essere solo secondari
all’insorgenza del dolore, in altri il dolore rappresenta una dei sintomi di depressione endogena. Molti
aspetti neurochimici sembrano comunque accomunare dolore e depressione: il sistema monoaminergico, nella sua componente serotoninergica, gioca
un ruolo rilevante nella modulazione endogena del
dolore in quanto una sua diminuzione (a vantaggio della componente noradrenergica), è in grado
di aumentare la sensibilità e la reattività allo stimolo nocicettivo, di diminuire la risposta analgesica
IPASVI
agli oppiacei esogeni e
di evocare sintomi di tipo
depressivo.
Dal 1987 ad ora sono stati condotti molti studi in
questo campo e le nuove conoscenze scientifiche hanno portato ad
una continua evoluzione
ed enormi miglioramenti
nel trattamento del dolore del bambino. Il dolore
non è più considerato
come semplice sintomo
ma come una sindrome
da prevenire o curare in
modo adeguato. In tale
ottica il controllo del dolore va affrontato con un
approccio multimediale,
con linee guida opportune, abbandonando concetti errati quali:
i bambini non percepiscono dolore o in ogni caso lo
tollerano molto bene;
i bambini non ricordano il dolore;
è meglio non utilizzare gli oppiacei perché vi è il
rischio di dipendenza.
L’OMS ha dettato le regole da seguire per la terapia del dolore in pediatria:
1) valutare l’intensità del dolore con regolarità;
2) seguire la progressione dei farmaci secondo la
scala terapeutica del dolore;
3) utilizzare terapie comportamentali cognitive, fisiche e di supporto a quelle farmacologiche;
4) somministrare dosi di antalgici sufficienti a garantire il riposo notturno;
5) anticipare e trattare aggressivamente gli effetti
collaterali.
E’ nostro dovere trattare il dolore, sia per motivi
umanitari ed etici, che per motivi clinici. Il dolore, infatti, si associa a tutta una serie di reazioni endocrine e psicologiche, che influenzano negativamente
la prognosi della malattia di base e possono comportare alterazioni psicologiche e/o psicofisiche,
nella prima epoca della vita.
La terapia del sorriso come cura palliativa pediatrica
41
IPASVI
L’OMS definisce le cure palliative pediatriche
come l’attiva presa in carico globale del corpo, della
mente, dello spirito del bambino e che comprende
il supporto attivo alla famiglia. (Cancer Pain Relief
and Palliative Care in Children. WHO-IASP.1998).
IL minore con patologia cronica severa senza possibilità di guarigione e/o con disabilità rilevante e/o
terminale è un paziente elettivo per le cure palliative.
Se analizziamo la definizione di cure palliative, la
comicoterapia rientra senza compromessi tra questi tipi di “cure” in quanto “tecnica” che usa la comicità per rendere migliore la degenza dei pazienti,
intrattenere, distrarre, proclamare l’affermazione
della vita attraverso la positività, attraverso il riso
e quant’altro ad essa associato. È un sistema di
supporto per famiglie e pazienti, migliora gli aspetti
psicologici e sociali dei degenti, dona dignità e serenità anche ad alcuni momenti difficili di cui l’ospedalizzazione è piena, e tante altre cose che molte
ricerche ad oggi tentano di continuo di dimostrare..
Il sorriso migliora la relazione d’aiuto?
Gelotologia e psiconeuroimmunologia
Nella metà degli anni 80, lUniversità del California conferì la Laurea Honoris Causa al giornalista
scientifico Norman Cousins (guarito da una tremenda malattia articolare, la spondilite anchilosante, a suon di risate e con l‟impiego di dosi massicce di vitamina C). Si sancì di fatto la nascita
della“gelotologia” (dal greco Ghelos= riso, Logos=
scienza, scienza della risata), una nuova area di ricerca, una disciplina dedicata allo studio sistematico del ridere, del buonumore e del pensiero positivo
in funzione terapeutica, come rimedio psicofisico.
La gelotologia getta le sue basi sugli studi di psiconeuro-endocrino-immunologia (P.N.E.I.) che hanno
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sostanziato la diretta influenza degli stati mentali,
delle emozioni sul sistema immunitario e viceversa,
in una circolarità d’interazioni che fanno tramontare, di fatto, sia le ipotesi organicistiche (in pratica la
prevalenza dei fattori organici nello scatenamento
di una malattia) sia l’ipotesi psicosomatica (che privilegia la prevalenza psicologica). Le emozioni “parlano” direttamente al sistema immunitario attraverso canali neuroendocrini ed il sistema immunitario
(unico garante della nostra salute), riflette il suo
stato direttamente sulle emozioni. Questa verità
sperimentata clinicamente fino ad oggi era assunta
solo nelle accezioni negative: lo stress, la tristezza, la rabbia, etc…, possono alla lunga portare alla
malattia.
Sarà anche vero il percorso inverso e in altre parole
che le emozioni positive (amore, gioia, risata, speranza, etc…) possono portare alla guarigione. La
P.N.E.I. sostanzia scientificamente quella che è la
visione olistica dell’uomo, vale dire che la psiche,
corpo e anima rappresentano un’ inscindibile unità.
Questa rivoluzione in corso d‟opera nelle scienze
bio-mediche è il prodotto di altrettante rivoluzioni
all‟interno di discipline tradizionalmente separate:
la neurofisiologia, l‟immunologia e l‟endocrinologia.
Effetti delle emozioni sull’organismo
Tra tutte le emozioni positive, il ridere/sorridere è
quella più facilmente reperibile. Nel momento susseguente ad una risata, nel nostro organismo avvengono una serie di modificazioni fisiologiche benefiche, che sono state evidenziate negli ultimi anni
da ricerche e studi scientifici.
Dice David Felten nell’epilogo di uno dei più importanti libri sulla P.N.E.I. da lui curato: “Noi abbiamo
documentato come fattori stressanti possono essere associati a conseguenze negative sulla sa-
IPASVI
lute e all’indebolimento sulla risposta immunitaria,
sfortunatamente però, poca attenzione è stata data
all’esame scientifico della controparte”. Da questo
comprendiamo come le emozioni positive possano
contribuire a produrre effetti benefici per la salute e
per il potenziamento della risposta immunitaria.
Fisiologia della risata
Osservando una persona in preda ad uno “scoppio
di riso” possiamo notare che la sua faccia appare
deformata: bocca aperta a mostrare i denti, narici
dilatate, occhi stretti e luminosi. La testa e il corpo
si muovono alternativamente avanti e indietro. Le
spalle si sollevano e si abbassano. La tensione del
torace può essere persino dolorosa. La respirazione è convulsa, fatta soprattutto d’emissioni d’aria
a scatto con sonore vocalizzazioni, seguite da lunghe ispirazioni e conseguente rilassamento. E’ il
diaframma che, sussultando violentemente, guida
questo tipo di respirazione. Le mani spesso corrono al ventre quasi a sorreggerlo e comprimerlo. Le
funzioni digestive sono prepotentemente attivate i
muscoli dell’addome tendono, nella fase seguente,
a rilassarsi cosi come la vescica. Potendo misurare
il polso in questo momento all’individuo in questione, potremmo contare fino a 120 battiti, mentre se
facessimo un prelievo di sangue potremmo individuare delle betaendorfine. Inoltre il cervello è molto irrorato dal sangue, anche grazie all’azione dei
muscoli facciali che si contraggono e si rilassano.
Lo “scoppio di riso” può quindi essere paragonato
ad un vero e proprio caos positivo sull’intero organismo. Attraverso i due principali sensi, vista e udito, il cervello rileva uno stimolo risorio che colpisce
quella zona del cervello deputata a riconoscere situazioni come questa e scatenare come risposta, il
riso. Quando la risata cessa, assieme al necessario respiro profondo che viene compiuto, inizia un
piacevole benefico stato di rilassamento, nel quale
cambia anche la composizione del sangue, cioè
dell’energia biochimica concentrata che ci pervade.
I reali benefici prodotti dalla risata
Ridere, specialmente nelle situazioni critiche e disperate, libera tutta una serie di mediatori e neurotrasmettitori endorfinici che possono capovolgere
emozionalmente la più drammatica delle situazioni,
basta solo avere la costanza di continuare a ridere
a “crepapelle” per almeno dieci minuti e il gioco è
fatto. Tutto il resto della vostra persona entrerà in
risonanza con la risata iniziale, scacciando il demone della disperazione dalle vostre menti atterrite e sconvolte. Il vero jogging per l’anima, quindi,
non è forse la risata? Ridere è più facile di quanto
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potete supporre, basta semplicemente cercare d’imitare qualcun altro che già sta ridendo e il gioco
è fatto. Tra tutti gli esseri viventi solo l’uomo ha il
dono del sorriso. Ridere, infatti, è un’attività tipicamente umana, legata a fattori organici. E’ l’uomo e
non l’animale, ad essere dotato del muscolo risorio
del Santorini situato lateralmente alle labbra, che,
quando si contrae, fa ritrarre la bocca. Il risorio e
il grande zigomatico provocano, fisicamente, la risata. Pensate che ridere è un‟espressione innata”.
Tutti hanno la facoltà di ridere, indifferentemente
a quale cultura apparteniamo o in quale parte del
mondo viviamo.
Perché è utile, importante far sorridere
L’umorismo in medicina andrebbe utilizzato di più:
si vede in corsia, chi fa più battute e scherza con i
malati è molto più umano. Tutti gli studi nel campo
della salute ci assicurano che dovremmo cominciare col ridere di più, perché RIDERE FA BENE. Da
sempre si sa, le persone allegre e ottimiste vivono
più a lungo e meglio.
Gli effetti psicologici e biologici del riso sono tutti
positivi. Ridere, infatti, è un esercizio muscolare e
respiratorio, che permette un fenomeno di purificazione e liberazione delle vie respiratorie superiori.
Ridere può, in effetti, far cessare una crisi d’asma,
provocando un rilassamento muscolare delle fibre
lisce dei bronchi, per inibizione del sistema parasimpatico. Si può affermare, quindi, che il riso ha
un ruolo di prevenzione dell’arteriosclerosi. Ridere
combatte la stitichezza perché provoca una tale
ginnastica addominale che stimola in profondità
l’apparato digestivo. Passa anche l‟insonnia, perché ridere diminuisce le tensioni interne. Il dolore
pertanto può essere combattuto ricorrendo alla terapia del sorriso che può, in qualche modo, sostituirsi ai trattamenti farmacologici per ripristinare una
buona qualità di vita nei piccoli pazienti.
La terapia del sorriso
Una definizione dice: “La terapia dell’umorismo è
un intervento usato dai professionisti sanitari per
produrre, su questi ultimi, benefici effetti”.
I nostri pazienti sono molto complessi, sono generalmente immunodepressi. Per questo motivo si
deve limitare al minimo il contatto con altre persone
a parte, ovviamente, la famiglia e gli operatori. Il
primo punto che voglio affrontare è se la comicità
è considerata come una scarsa professionalità da
parte dell’infermiere. Se, come professionisti siamo
in grado di valutare i bisogni e le criticità del malato,
non si capisce perché non si possa, in egual maniera, valutare quando e come poter scherzare con lo
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stesso paziente.
Il bambino nasce con la voglia di scoprire giocare,
sorridere e sognare. Nel nostro caso dobbiamo entrare nel suo mondo, usare la sua logica, condividere la sue emozioni e, cosi facendo, guadagnare
la sua fiducia. Attraverso il gioco, il bambino esprime stati d’animo, paure, emozioni. Il gioco, infatti, è
uno strumento indispensabile per la crescita intellettiva del bambino, attraverso di esso il piccolo impara ad affrontare e vivere le situazioni della vita. E’
quindi indispensabile offrire, durante il soggiorno in
ospedale, ai nostri pazienti l’assistenza d’operatori
professionalmente preparati sia dal punto di vista
tecnico che psicologico, ma anche la presenza costante di volontari che possono aiutare il bambino
a continuare a giocare nonostante la situazione di
malattia.
La terapia del sorriso come nuova modalità di
coping
Il modo in cui una persona fronteggia le situazioni di
stress è determinato in parte dalle risorse personali, dal grado di salute, dalle energie che possiede,
dalle credenze e dai valori, dagli impegni. Le modalità con cui l‟individuo tenta di adattarsi, di gestire
la situazione, di fronteggiare un problema producono effetti determinanti nel processo di guarigione.
Secondo Rustoen T. 1995): “L’individuo capace di
conservare la speranza può adattarsi meglio alla
sua condizione di malato e percepire una più elevata qualità della vita”.
Gli studi di Cunningham A.J. (1991) hanno messo
in evidenza come anche nei pazienti oncologici ci
siano correlazioni positive tra percezione ed efficacia personale elevata, umore positivo e livelli più alti
di qualità della vita nelle strategie di coping.
Secondo Antonovsky A. (1980/1987) una dimensione fondamentale per il benessere psicologico
dell’individuo che affronta un evento stressante
come per esempio il cancro è relativa alla capacità
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di percepire un senso di coerenza nella propria vita.
L’individuo che è capace di pensare all’ esistenza
come a qualche cosa di comprensibile, di strutturato è in grado di affrontare gli eventi traumatici senza
perdere la fiducia nel mondo e in sé stesso. Gli studi di Taylor S.E., Armor D.A. (1996) sull’adattamento agli eventi negativi della vita hanno permesso di
delineare come le illusioni positive risulterebbero
efficaci nel favorire un adattamento positivo a eventi dannosi e stressanti come la malattia. Secondo
questi autori le illusioni positive consentono all’individuo di ritrovare i livelli di funzionamento precedenti all’evento traumatico. La malattia è fonte di
stress e di ansia ed è un’esperienza universalmente condivisa e in certi momenti può essere addirittura penalizzante. Noi tendiamo di conseguenza a
ripararci da essa mettendo in atto le strategie di coping, precedentemente analizzate, per ristabilire il
nostro benessere psicologico ottenendo un sollievo
dall’ansia e dallo stress. Grazie a queste strategie
riusciamo ad allontanare da noi le sensazioni negative causate dalla malattia. L’uso di queste strategie
di coping sono numerose e agiscono combinandosi
tra loro per ristabilire il nostro benessere psicologico. Queste sono necessarie ad ognuno di noi per
mantenere una buona stabilità emotiva.
Accanto alle strategie di coping di controllo, del ritiro, del sostegno, del rifiuto possiamo inserire la
strategia del sorriso e del buon umore. Chi utilizza
la strategia di coping del sorriso, infatti, ha maggiori
possibilità di sconfiggere la malattia e risponde meglio alle cure somministrate dai medici.
Terapia del sorriso, strumento per l’infermiere
in oncologia
Durante l’elaborazione di questa tesi, ho potuto
documentarmi sulla Terapia del Sorriso, attraverso
molteplici ricerche che ho effettuato su Pub med,
banca dati scientifica che contiene studi anche a
livello infermieristico, ho rintracciato uno studio che
dimostra come la terapia del sorriso nel setting
ospedaliero sia molto presente. Lo studio è “Humor and laughter in palliative care: an ethnographic
investigation”, condotta in Canada nel 2004 presso
l‟Università di Manitoba.
Lo studio ha visto gli infermieri di cure palliative,
che lavorano in un contesto di serietà e affrontano
situazioni molto delicate, sperimentare l’umorismo
e la risata verificando come questi aiutino a creare
un clima sereno alleviando la tensione dei pazienti,
delle loro famiglie e non per ultimi degli infermieri. Lo studio etnografico è stato condotto su trenta
degenti nell’unità di cure palliative. I risultati hanno
dimostrato che l’umorismo e la risata hanno imple-
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mentato diverse funzioni: costruire relazioni terapeutiche efficaci, proteggere la dignità e il valore
della vita, affrontar e situazioni stressanti. Il significato dei risultati s’inserisce nel concetto di “umanizzare” la dimensione di cure palliative e contribuisce
ad aumentare il numero di ricerche basate su prove
d’efficacia.
Nel 2005 il primo studio scientifico internazionale
è stato realizzato all’Ospedale Pediatrico Meyer di
Firenze, dove si è dimostrato che la risata riduce
dolore e stress nei bambini sottoposti ad intervento
chirurgico. Un gruppo di ricercatori dell‟Ospedale
Pediatrico Anna Meyer di Firenze ha documentato
che è possibile ridurre l‟ansia dei bambini sottoposti
ad intervento chirurgico grazie all’aiuto dei clowndottori. Questo lavoro è stato ora pubblicato sulla
prestigiosa rivista statunitense “Pediatrics” e pubblicato sul sito di pub-med come studio randomizzato. È risaputo che l’anestesia e l’intervento possono essere vissuti come paurosi e stressanti dai
bambini, si stima che il 60% di questi soffra d’ansia
preoperatoria, considerata anche fattore predittivo
di disturbi post-operatori. Nella ricerca condotta dal
servizio Terapia del Dolore dell’Ospedale Pediatrico Meyer, sono stati studiati 40 bambini, da 5 a
12 anni, che dovevano sottoporsi ad intervento di
chirurgia minore in day-surgery, di cui la metà (selezionata casualmente) era accompagnata in sala
preoperatoria da 2 clown-dottori e da un genitore,
mentre l‟altra metà era portata soltanto da un genitore (come di routine). Nel “gruppo sperimentale” due clown conoscevano il bambino in reparto,
trascorrendo insieme circa 15-20 minuti, per poi
accompagnarlo fin dentro la sala operatoria, dove
il bambino veniva addormentato dagli anestesisti,
mentre era distratto da giochi e magie dei clown.
Tramite specifici test psicologici sono state misurate l‟ansia del bambino e del genitore e sono state
fatte interviste a genitori, clown, nonché a medici
e infermieri della sala operatoria. I risultati indicano che l‟ansia dei bambini accompagnati dai clown
diminuisce quasi del 50% rispetto a, quando sono
senza la presenza dei clown. Inoltre i bambini con i
clown non presentano un innalzamento della paura
all’avvicinarsi dell’anestesia, come invece succede
a quelli senza il supporto dei clown. Anche i genitori
hanno espresso nelle interviste un parere positivo
per l’iniziativa, poiché anche loro sono distratti e
rilassati dall’ allegro intervento dei clown. Tuttavia
emerge un limite in questo studio, espresso proprio dal personale sanitario della sala operatoria
che, pur trovando un grande aiuto dai dottori clown,
vede in maniera un po‟ critica l‟invasione delle sale
operatorie da parte di personale che normalmente
IPASVI
non ne fa parte. Questa ricerca, tra le prime al mondo in quest’ambito, ha quindi evidenziato l’importanza del gioco e del ridere per i bambini in ospedale, dimostrando scientificamente che ridere aiuta
i piccoli pazienti ad affrontare il dolore e lo stress,
agendo direttamente su ansia e paura.
Tutte queste ricerche dimostrano che in reparti molto “difficili”, come l‟ematologia e l’oncologia, dove
ho fatto la mia indagine su questa terapia, viene
utilizzata come strumento per migliorare i rapporti
relazionali/comunicativi con il paziente e i genitori,
ma anche per poter ridurre il rischio di “ burn-out”.
Infatti, gli infermieri che lavorano in questi reparti,
sono soggetti all’effetto del burn-out, ma molte ricerche hanno dimostrato che attraverso il sorriso
l’infermiere può evitare questo rischio e non rimanere impassibili o freddi davanti ai malati. La Terapia del Sorriso è anche, un espediente per ridurre la
freddezza delle strutture ospedaliere e a contribuire
a colmare il distacco tra il bambino e l’equipe del
reparto. Si possono sdrammatizzare i trattamenti
medici, così anche le paure e ansie associate alla
malattia e alla degenza. Associare il sorriso e la
gioia ad una realtà dolorosa come può essere in
un reparto d’oncologia o ematologia, può sembrare
sconveniente, imbarazzante o “non professionale”
agli occhi di un infermiere. Dopo aver approfondito le conoscenze sulla relazione d’aiuto al bambino
e gli effetti delle emozioni positive sull’organismo
del bambino, ho voluto osservare se gli infermieri
sono documentati sulla Terapia del Sorriso e vedere come sono i rapporti tra l’infermiere e il bambino,
attraverso la somministrazione di un questionario
agli infermieri. L’ipotesi che voglio formulare è che,
anche negli altri reparti, il personale infermieristico
intravede nella Terapia del Sorriso la possibilità di
ritrovare una modalità valida per creare un‟efficace
clima comunicativo/relazionale” e un’ottima relazione d’aiuto con il paziente.
La metodologia
La ricerca è stata effettuata attraverso la somministrazione, al personale infermieristico, nella Struttura Complessa di oncologia dello Stabilimento “San
Giuseppe Moscati”, di un questionario, elaborato
appositamente per tale ricerca. Il questionario è
composto da 18 domande a risposta multipla. La
prima parte del questionario riguarda la struttura
del reparto; la seconda parte riguarda il rapporto tra
infermiere e il bambino e la terza parte sulla terapia
del sorriso.
Ho consegnato 40 questionari, ma solo 25 sono
stati compilati. Il questionario è stato compilato in
forma strettamente anonimo nel reparto e ambula-
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torio d’Oncologia dello Stabilimento “San Giuseppe
Moscati” di Taranto.
l’infermiere utilizza il sorriso e la gioia per instaurare
la relazione d’aiuto con il bambino.
Elaborazione dei dati
Domanda n°9: ”Se sono nate delle difficoltà, in
quale fascia d’età?”
Domanda n°1:”Quanti posti letto comprende il
tuo reparto?”
Il reparto è composto da 20 posti e l’ambulatorio
da 15 posti.
Queste difficoltà sono dovute al fatto che i bambini molto piccoli comunicano attraverso il pianto, e
molto spesso l’infermiere non riesce a capirne la
causa.
Domanda n°2: ” In reparto, ci sono stanze ricreative o stanze per il gioco, dove i bambini
ricoverati possono giocare?”
Domanda n°10: ”Come sono le tue conoscenze
sulla sfera comunicativa/relazionale in campo
pediatrico?”
Nell’ambulatorio di oncologia esiste una ludoteca,
dove i bambini possono giocare, in attesa delle procedure diagnostiche.
Domanda n°11: ”Ci sono corsi informativi, per
gli infermieri, sulla relazione d’aiuto tra l’infermiere e il bambino oncologico?
Domanda n°3: ” Qual è la fascia d’età dei bambini presenti in reparto o in ambulatorio?”
Solo il 40% partecipa volontariamente a questi
corsi, però molti si lamentano per la scarsità degli stessi nel territorio tarantino. Domanda n°12:
”Conosci la “Comicoterapia” o “La Terapia del
Sorriso”o la “Clownterapia”?
Domanda n°4:”Le reazioni del bambino durante
il ricovero è di tipo”:
Le reazioni dei bambini durante il ricovero dipendono molto dallo stato dei loro genitori, dalla struttura
ospedaliera e come vengono accolti dagli operatori
sanitari.
Domanda n°5: ”Esiste un supporto psicologico
per il bambino ricoverato o per la famiglia?”
Nel reparto non è presente, nell’equipe, una figura di supporto psicologico, però, durante la compilazione dei questionari il 25% degli infermieri ha
risposto “SI”, perché il supporto psicologico in questione sono gli infermieri, che attraverso il sorriso e
l’esperienza accolgono il bambino e la famiglia.
Domanda n°6: ”Quali sono i sentimenti dei genitori?”
Molto spesso i genitori vengono lasciati soli o non
sono ben informati su tutto ciò che riguarda la malattia oncologica e su quello che il bambino deve
affrontare, per questo la maggior parte di loro provano confusione e senso di impotenza.
Domanda n°7: ”Che tipo di rapporto esiste tra i
genitori e il bambino?”
Domanda n°8: ”Esistono delle difficoltà comunicative/relazionali tra l‟infermiere e il bambino?”
La risposta a questa domanda dipende molto dall’età del bambino, dall’esperienza dell’infermiere e se
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IPASVI
Risultati della ricerca
I dati hanno rilevato che nel reparto, anche se non
è presente la “Terapia del sorriso”, alcuni infermieri
utilizzano il sorriso per relazionarsi con il paziente.
Quindi, valutando complessivamente i dati, emerge
che la maggior parte degli infermieri è incline ad
utilizzare la “terapia” ed a partecipare a corsi formativi.
Proposte infermieristiche
Di fatto ho notato che nella realtà tarantina mancano dei corsi appositi e la mia proposta infermieristica è quella di promuoverne per due motivi:
1) Per creare un’ottima relazione d’aiuto con il
paziente;
2) Molte ricerche hanno dimostrato che la Terapia del sorriso riduce il rischio di “burnout”.
Infine, è importante evidenziare la proposta di legge n.440 “Disposizioni sulle terapie complementari:
Terapia del Sorriso e Pet Therapy” , avanzata nel
2007 dalla regione Piemonte.
La tesi completa è corredata da un’ampia ed
esaustiva bibliografia che omettiamo di pubblicare per ragioni di spazio ma è a disposizione di
chiunque voglia prenderne atto.
IPASVI
COLLEGIO
hotel 3 stelle, € 55 in hotel a 4 stelle.
Notte supplementare in camera singola: € 75 in
hotel 3 stelle e € 85 in hotel a 4 stelle.
Le quote del pacchetto congressuale
comprendono:
• n. 1 pernottamento (25 Feb) in: Hotel 3 stelle B&B - Agriturismo - con prima colazione
• open coffee del 25 febbraio presso il Centro
Congressi
• pranzo del 25 febbraio in ristorante con servizio
al tavolo (bevande e caffè compresi)
• materiale informativo e kit congressuale
• attestato di partecipazione e Crediti ECM
SOLO CORSO - CONVEGNO (QUOTE PER
PERSONA NON SCORPORABILI)
Iscrizione Soci o studenti: € 110 entro il 10 Feb.
€ 140 dopo il 10 Feb.
Non Soci o studenti: € 150 entro il 10 Feb.
€ 180 dopo il 10 Feb.
Le quote comprendono:
• open coffee del 25 febbraio presso il Centro
Congressi
• pranzo del 25 febbraio in ristorante con servizio
al tavolo (bevande e caffè compresi)
• materiale informativo e kit congressuale
• attestato di partecipazione e Crediti ECM
Q U O T E D I PA R T E C I PA Z I O N E
(Le quote di partecipazione riferite ai Soci
saranno applicate anche agli studenti di Laurea
Specialistica e Master)
PACCHETTO CONGRESSUALE (QUOTE PER
PERSONA NON SCORPORABILI)
Per persona in camera doppia Soci o studenti €
160, non Soci € 200 (entro il 10 Feb).
Soci o studenti € 190, non Soci € 230 (dopo il 10
Feb.)
Per persona in camera singola Soci o studenti €
195, non Soci € 235 (entro il 10 Feb).
Soci o studenti € 225, non Soci € 265 (dopo il
10 Feb).
Accompagnatore non iscritto al convegno: € 100
(entro il 10 Feb) € 130 (dopo il 10 Feb).
Supplemento per sistemazione in Hotel 4 stelle:
€ 20.
Notte supplementare in camera doppia: € 45 in
S E R V I Z I FA C O L TAT I V I
25 Febbraio - Serata Di Gala
Ristorante “La Dolce Vita” sul Lago di Corbara
con musica dal vivo
Max 180 partecipanti. Costo € 50 (suppl. servizio
navetta € 5)
INFORMAZIONI GENERALI
Presso la segreteria sarà possibile iscriversi al
Comitato Infermieri Dirigenti anche per l’anno
2011.
La consegna degli attestati ECM verrà effettuata
dopo la valutazione dei questionari finali e,
comunque, non prima delle ore 12,30 del 26
febbraio 2011.
Il Collegio IPASVI di Taranto metterà un
pullman a disposizione degli iscritti, a titolo
gratuito, previa dimostrazione dell’avvenuta
iscrizione.
Per chiarimenti ed approfondimenti,
visitare il sito del Collegio.
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PROGRAMMA SCIENTIFICO
Programma Scientifico
Corso di aggiornamento di 1º Livello
“Metodologia della ricerca EBN attraverso la lente
dell’inglese scientifico e della tecnologia
informatica computerizzata”
Il corso si snoderà in 10 giornate, per un totale di 36 ore di insegnamento
Giorni: 17-24-31 marzo • 7-14- 28 aprile • 5-12-19-26 maggio
Orario: 14,00 - 18,30
Destinatari: infermieri.
Numero partecipanti: 40
Costo: € 40
Numero di accreditamento: 11005691
Sede del corso: Collegio Ipasvi- via Salinella, 16 - Taranto
Per informazioni approfondite visitare il sito a partire dal 10 marzo
Corso di aggiornamento
“Il benessere organizzativo degli Infermieri”
Ore di formazione: 11
Giorni: 16- 23- 30 marzo
Orario: 14-18,30
Destinatari: infermieri
Numero partecipanti: 80
Costo: € 25
Numero di accreditamento: 11047052
Sede del corso: Collegio Ipasvi- via Salinella, 16 - Taranto
Per informazioni approfondite visitare il sito a partire dal 1 marzo
Importante!
MODALITÀ DI ISCRIZIONE AI CORSI
L’iscrizione va fatta presso la sede del Collegio nei giorni e negli orari di apertura.
Non saranno accettate richieste di partecipazione al di fuori dei giorni e degli orari indicati.
Non si accettano iscrizioni via fax ed e-mail
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ipasvi - Collegio IPASVI di Taranto