EDITORIALE
bassi salari, scarsa domanda
crisi dei mercati
1. Apparenza e realtà della crisi
el dibattito sulle origini della tempesta finanziaria che sta abbattendosi sui mercati, la grande
stampa si sofferma generalmente sugli aspetti
immediatamente evidenti del fenomeno, trascurandone
le cause più profonde. Accade cioè che l’attenzione si
concentri sulla sequenza strettamente monetaria e creditizia della crisi: la grande espansione del credito al
consumo negli Usa, la moltiplicazione dei cosiddetti crediti subprime, l’incapacità di onorare i debiti da parte di
intere masse di lavoratori americani, le ricadute di ciò su
banche e intermediari finanziari, fino al credit crunch:
l’interruzione nelle concessioni di credito.
Questa sequenza è ormai piuttosto chiara, ma limitarci a
essa nel descrivere l’origine della crisi comporterebbe
una grave banalizzazione, impedendo di cogliere i nessi
causali con l’economia reale. In particolare, non si comprenderebbe che la crisi affonda le radici nell’economia
della precarietà e dei bassi salari che ha sempre più in
questi ultimi anni caratterizzato l’insieme dei Paesi industrializzati. Occorre insomma spostare l’attenzione
sulla caduta progressiva della quota del prodotto sociale
destinata ai salari – dunque all’ampia redistribuzione a
favore di profitti e rendite – a cui abbiamo assistito negli
ultimi 25 anni, particolarmente in Europa e negli Usa.
N
2. Una crisi da mancata regolamentazione?
Le vicende strettamente finanziarie e creditizie che
hanno portato alla crisi sono piuttosto chiare nelle loro
linee fondamentali.
La forte espansione del credito al consumo negli Usa co-
* UNIVERSITÀ DEL SANNIO
R ICCARDO R EALFONZO *
mincia già nel 2001, all’indomani dello sgonfiarsi della
bolla della new economy e poi a seguito dell’11 settembre,
quando la Federal Reserve Bank vara una politica di progressiva contrazione del costo del credito. Il tasso di sconto statunitense viene abbattuto in due anni e mezzo, dal
gennaio 2001 al giugno 2003, dal 6,5% fino all’1%. La riduzione dei tassi porta a una elevatissima spinta alle concessioni di credito, in particolare del credito al consumo,
in linea con lo slogan «tutti proprietari di casa» sbandierato da Bush junior nella corsa alla presidenza. L’espansione del credito al consumo cui si assiste in questi anni –
che riguardi i mutui per l’acquisto di case o le carte di credito – si volge inizialmente a favore dei lavoratori con redditi sicuri e garanzie solide. Successivamente, a seguito
del clima di ottimismo alimentato dalle ripetute contrazioni dei tassi e della continua crescita dei valori immobiliari, la qualità del credito peggiora. Le banche statunitensi moltiplicano le concessioni di mutui subprime: crediti a
tassi variabili erogati a lavoratori sempre più deboli, perfino a soggetti senza lavoro, senza reddito e senza alcuna
garanzia reale da offrire. Naturalmente, le banche sono le
prime a sapere che queste concessioni di credito sono ad
alto rischio, e infatti anche i tassi a cui vengono concessi
questi crediti incorporano spread elevati rispetto a quelli
praticati alla clientela migliore. E d’altra parte le banche
cominciano ben presto a cartolarizzare quelle concessioni
di credito e, spesso introducendole all’interno di pacchetti con altre obbligazioni (le cosiddette obbligazioni
collaterali di debito), a cederle in tutto il mondo, alimentando anche la piramide dei derivati.
Tuttavia, la forte espansione dei consumi statunitensi alimenta le importazioni dall’Europa e dall’Asia, determinando un sensibile peggioramento della bilancia commerciale, che giunge a toccare nel 2006 un passivo che
sfiora i mille miliardi di dollari. Per questa ragione la Fed
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rivede la politica monetaria e già dall’estate 2003 riprende ad aumentare il tasso di sconto, riportandolo fino al
5,25% nella metà del 2007. Lo scopo della banca centrale
americana è presto detto: contrastare il passivo della bilancia commerciale rallentando la crescita dei consumi e
alimentando l’afflusso di capitali dall’estero, mentre la
svalutazione del dollaro viene utilizzata per rilanciare le
esportazioni. Ma evidentemente l’aumento dei tassi si
scarica sulle rate contratte a tassi variabili e ciò manda
immediatamente in crisi i lavoratori indebitati, cominciando dai più deboli, quelli cui erano stati concessi i subprime. Allorché l’insolvibilità dei lavoratori comincia a diventare un fenomeno di massa, e si moltiplicano sofferenze bancarie e pignoramenti, il valore delle
obbligazioni nate sui subprime comincia a calare rapidamente, fino a che quei titoli divengono poco più che carta
straccia. Da qui si manifestano gli effetti più macroscopici, dal caso Bear Stearns fino a Lehman Brothers, passando per la nazionalizzazione britannica della Northern
Rock e per le nazionalizzazioni statunitensi di Fannie Mae
e Freddie Mac. E poiché nel frattempo le aspettative di
profitto sono diventate negative e la fiducia tra le banche è
ormai scomparsa, le borse crollano. E come si vede a poco
è valso che la Fed abbia da oltre un anno ripreso a contrarre i tassi. Così come a poco sono valse le nazionalizzazioni
e i meccanismi di garanzia sui depositi. La crisi si avvita su
se stessa e sfocia nella depressione.
La crisi finanziaria giunge dunque a seguito di una
espansione del credito che progressivamente diviene
sempre più speculativa. Si badi bene che il problema non
sta tanto nella dimensione della espansione creditizia,
bensì nel progressivo peggioramento della sua qualità e
la conseguente crescente fragilità finanziaria. Il che conferma, come è facile notare, le interpretazioni del ciclo
proposte da Hyman Minsky – in classici come Can it happen again? del 1963 – secondo cui nella fase crescente del
ciclo economico le posizioni delle imprese si fanno sempre più speculative e quindi la struttura finanziaria siste-
mica diviene sempre più fragile. Il nesso con la teoria di
Minsky c’è tutto, anche se nel caso attuale la fragilità finanziaria ha riguardato in primo luogo le famiglie lavoratrici. Ma le vicende attuali rimandano anche alla meno
nota ma interessante tradizione statunitense di inizio
Novecento della «qualitative credit theory» di James
Laurence Laughlin e Henry Parker Willis.
Tuttavia, se ci limitassimo alla descrizione della sequenza
finanziaria che dalla espansione del credito ha condotto
alla crisi non potremmo comprendere i fattori reali che
hanno messo in moto la sequenza. E ciò darebbe spazio a
quanti affermano che la crisi si sarebbe evitata regolamentando di più e meglio i mercati finanziari e il sistema
bancario. Naturalmente, nessuno nega che le regolamentazioni servano e che le tesi di Alan Greenspan a favore dei
meccanismi di autoregolamentazione dei mercati finanziari si siano rivelate del tutto infondate. Tuttavia, per
comprendere l’origine della crisi bisogna andare più a
fondo ed esaminare il nesso con la progressiva contrazione della quota dei salari sul Pil cui abbiamo assistito negli
ultimi venticinque anni negli Usa e in Europa.
3. Una crisi redistributiva e da domanda
La sequenza che ci ha portato alla crisi finanziaria trova
infatti la sua causa ultima nel processo di redistribuzione
del reddito, a sfavore dei salari e a vantaggio dei profitti e
delle rendite, cui abbiamo assistito a partire dagli anni
’80. Intanto è bene chiarire che l’ampiezza del processo
redistributivo appena citato è ormai testimoniata da numerosissimi studi. Se qualcuno avesse dubbi a riguardo
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potrebbe consultare il World Economic Outlook. Globalization and Inequality dell’International Monetary Found,
pubblicato nell’ottobre 2007; oppure leggere lo studio
Income Inequalities in the Age of Financial Globalization
dell’International Labour Organization, uscito quest’anno; o ancora esaminare il recentissimo lavoro dell’Organization for Economic Co-Operation and Development
dal titolo Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries. Tutti questi studi confermano inequivocabilmente che l’indice di Gini – che misura la divaricazione tra i redditi esistente all’interno di un Paese
– è cresciuto in questi anni in tutti i Paesi industrializzati. Gli Usa sono in testa alla classifica, mostrando i valori
massimi e ancora crescenti dell’indice, e dunque la più
grande divaricazione tra redditi dei ricchi e dei poveri.
Anche in Europa l’indice di Gini è costantemente aumentato, segnando in Italia valori particolarmente elevati. Complessivamente, per utilizzare ad esempio i dati
dell’Ilo, nei Paesi industrializzati la quota dei salari sul
pil è crollata di oltre nove punti percentuali nel periodo
1980-2005.
Ma che relazione sussiste tra la caduta dei salari (come
quota del prodotto complessivo, ma in qualche caso
anche in termini assoluti) e la crisi?
Per cominciare, bisogna ricordarsi che per assistere a
una espansione prolungata del credito ci vogliono almeno due condizioni. Da un lato, serve che gli agenti preposti alle concessioni di credito, le banche, siano disponibili a espandere significativamente i prestiti. E questa
disponibilità evidentemente c’era tutta dopo il 2001, allorché la Fed diede il via alla stagione di contrazione dei
tassi. La seconda condizione è che ci sia una sostenuta
domanda di crediti ai tassi di interesse di mercato. E
negli Usa questa domanda esisteva, anzi vi era una vera e
propria sete di credito. E questa sete di credito dipendeva proprio dai bassi livelli dei salari e dalla precarietà dei
rapporti di lavoro che sempre più ha caratterizzato il sistema americano negli ultimi decenni. Nel momento in
cui le banche si sono rese disponibili ad assecondare le
richieste anche dei più diseredati il credito è esploso. È
insomma chiaro che l’espansione del credito al consumo
cui si è assistito negli Usa trovava nella miseria diffusa il
suo alimento principale. Dal 2000 al 2006 le famiglie Usa
si sono indebitate per 18200 miliardi di dollari nel sogno
di comprare la casa o semplicemente di accedere ai beni
di consumo mediante carte di credito. Un sogno destinato a franare rapidamente.
D’altra parte bisogna riflettere sul fatto che l’espansione
del credito al consumo negli Usa ha trainato la domanda
interna e con essa il pil statunitense. Ma non solo. Direttamente o indirettamente l’esplosione dei consumi ha
sospinto in alto la domanda americana di importazioni, e
quindi ha alimentato le esportazioni europee e asiatiche.
Insomma, grazie all’espansione del credito gli Usa hanno
funzionato da locomotiva dell’economia mondiale, assorbendo le eccedenze di produzione di un intero mondo
a bassi salari. Non c’è dubbio infatti che senza la domanda di importazioni americane l’economia europea avrebbe messo a segno in questi anni risultati ancora più desolanti, a causa della asfittica domanda interna.
4. Dalla crisi finanziaria alla depressione
E ora la crisi finanziaria sta schiudendo la strada alla depressione. Questa appare inevitabile alla luce degli indicatori macroeconomici degli Usa e degli altri Paesi industrializzati. La situazione si prospetta estremamente
grave per l’economia europea che viene a trovarsi stretta
tra: 1) il calo della domanda statunitense, con conseguente riduzione anche delle importazioni e quindi della
domanda di prodotti europei; 2) l’ulteriore contrazione
della domanda interna, aggravata dalla totale stasi degli
investimenti e dalla stretta bancaria alle concessioni di
credito; 3) l’incapacità di catturare quel po’ di domanda
internazionale che ancora c’è, anche per la competizione
da costi dei Paesi asiatici che si fa sempre più feroce.
Quest’ultima affermazione risulta poi particolarmente
vera e grave per il sistema produttivo italiano, considerato che la gran parte dei nostri imprenditori ha ormai da
decenni puntato prevalentemente sulla competitività da
costi: prima approfittando delle svalutazioni competitive
e poi, dopo la stipula del Trattato di Maastricht, sfruttando le contrazioni dei salari garantite dalle leggi sulla flessibilità del mercato del lavoro.
Come ha insegnato Keynes, la crisi nasce da una caduta
della domanda e delle prospettive di profitto, si manifesta con una indisponibilità a concedere crediti e a far circolare la moneta, e genera progressivamente una caduta
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dei livelli di attività dell’economia. E il prezzo più salato,
come già accadde dopo il 1929, lo pagheranno i lavoratori: l’effetto principale della caduta dei livelli di attività
sarà infatti una crescente disoccupazione.
Se l’analisi presentata nelle righe precedenti è corretta a
poco valgono le contromisure adottate sinora da banche
centrali e governi. Sin qui abbiamo infatti principalmente assistito: 1) a una contrazione concertata dei tassi di
sconto da parte di alcune banche centrali, con la Bce che
stabilisce di rifinanziare illimitatamente le banche al
tasso di riferimento (3,75%); 2) ad alcune nazionalizzazioni di banche, soprattutto in Inghilterra e Stati Uniti, e
a manovre di acquisto da parte degli Stati dei titoli-spazzatura; 3) all’introduzione o al rafforzamento di meccanismi di assicurazione dei depositi per evitare le «corse
agli sportelli». Si tratta di misure finalizzate a ridurre il
panico nei mercati, ma che certo non alimentano la domanda aggregata, aprendo un’uscita dalla crisi. In altri
termini, tutti gli squilibri di fondo tendono a persistere.
Lungo questa strada le uniche cose certe sono la depressione e l’intervento sempre più incisivo dei fondi sovrani stranieri nella proprietà delle imprese occidentali. Di
ciò abbiamo già avuto un recentissimo assaggio proprio
in Italia, allorché fondi libici hanno rafforzato significativamente la loro presenza in Unicredit.
5. Come uscire dalla crisi?
Le vicende di questi giorni confermano ampiamente ciò
che numerosi economisti progressisti e antiliberisti
hanno detto in questi anni (a cominciare dal convegno
Rive Gauche, i cui materiali sono stati pubblicati nel 2006
a cura di Sergio Cesaratto e mia). Si pensi alle reiterate
critiche al quadro macroeconomico di Maastricht, che
rappresenta una attuazione letterale dei principi ultraliberisti della tradizione neoclassico-monetarista. E si
pensi alle ripetute critiche alle teorie e alle politiche di
deregolamentazione del mercato del lavoro. In Italia
queste battaglie si sono concretizzate principalmente
nell’appello contrario alla politica del cosiddetto «risanamento» e a favore della stabilizzazione del debito pubblico rispetto al pil (www.appellodeglieconomisti.com),
e nella critica alle politiche di precarizzazione del lavoro
(a riguardo rinvio in particolare al convegno organizzato
con il quotidiano il manifesto su L’economia della precarietà, i cui atti sono stati appena pubblicati da manifestolibri, a cura di Paolo Leon e mia). Iniziative che sin qui
non hanno inciso efficacemente sulle linee di politica
economica governativa, soprattutto a causa del fatto che
il mondo del lavoro risulta sempre più privo di una rappresentanza politica.
Eppure la crisi manifesta con evidenza quanto sia pericoloso il quadro macroeconomico e istituzionale disegnato
a Maastricht. La totale e sconsiderata apertura dei mercati, nonché i vincoli alla spesa pubblica e le politiche
monetarie restrittive hanno palesemente aperto la strada
al quadro di crisi e di recessione appena descritto. Non
stupisce che il palinsesto di Maastricht sia sottoposto ad
attacchi quotidiani, come mostrano le richieste di attenuare il Patto di Stabilità e gli sforamenti più o meno
espliciti ed evidenti che stanno verificandosi nelle diverse periferie di Europa; e come mostrano le pressioni
sulla Bce per una politica più espansiva e il moltiplicarsi
di istanze favorevoli a forme di protezionismo. C’è dunque una esigenza di rivedere quel palinsesto, restituendo
spazio all’intervento pubblico in economia, ridefinendo
il ruolo della Bce da arbitro del conflitto distributivo –
quale essa in realtà è stata in questi anni – ad accomo-
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dante sostenitrice delle politiche di sviluppo, e aprendo
nuovi ragionamenti sulla limitazione della circolazione
di capitale e sul ridimensionamento e la regolamentazione dei mercati finanziari. E bisognerebbe invertire radicalmente direzione di marcia rispetto alle politiche del
lavoro di questi ultimi anni, che hanno visto in tutta Europa una riduzione del grado di centralizzazione della
contrattazione salariale, un abbassamento delle tutele
dei lavoratori e una conseguente grave compressione salariale, con effetti negativi sui livelli della domanda aggregata.
Quanto appena affermato ci fa comprendere quanto sia
fuori strada l’azione del governo italiano. Non solo perché
ha deciso di intervenire in eventuali salvataggi evitando le
nazionalizzazioni e puntando piuttosto su forme di intervento che lascino intatti gli assetti proprietari e i consigli
di amministrazione. Non solo perché ha scelto solo pochi
mesi fa la strada di un azzeramento dell’ICI sulla prima
casa includendo anche i proprietari più abbienti, quando
invece quelle risorse andavano interamente destinate al
mondo del lavoro. E non solo perché si guarda bene dal
muovere il minimo passo nel contrastare le condizioni di
precarietà del lavoro. Ma anche perché solo pochi mesi fa,
quando il deteriorarsi della congiuntura macroeconomica
italiana e globale era già evidente, ha ribadito una politica
generale delle finanze pubbliche finalizzata all’abbattimento del debito e all’obiettivo di pareggio del bilancio per
il 2011. In tempi di recessione questa è la politica più sconsiderata che si possa fare. Bisognerebbe piuttosto rivedere
drasticamente il carico fiscale – spostando buona parte del
peso dal lavoro al capitale – e rilanciare la spesa pubblica
perseguendo nel medio periodo un obiettivo di stabilizzazione del debito rispetto al pil. L’eventualità di una crisi di
bilancio infatti dipende in misura del tutto secondaria
dalla dimensione del debito pubblico, mentre molto di più
contano il grado di competitività del Paese e lo stato dell’indebitamento con l’estero. E soprattutto, di fronte al rischio eventuale di piombare in una situazione di illiquidità, la prevenzione non si fa certo con la politica restrittiva
ma con la garanzia che il banchiere centrale faccia il suo
dovere, agendo da prestatore di ultima istanza. 5
LIMITARE I MOVIMENTI DI CAPITALE
NOAM CHOMSKY
La liberalizzazione finanziaria ha effetti che vanno ben
oltre l’economia. È noto da tempo che essa rappresenta
un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero
movimento dei capitali crea quello che qualcuno ha chiamato un parlamento virtuale di investitori e prestatori che
analizzano i programmi dei governi e votano contro se li
considerano irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli
elettori invece che quelli di una forte concentrazione di
potere privato. Chi investe e chi presta può votare attraverso la fuga di capitali, gli attacchi alle valute e altri strumenti finanziari. È una delle ragioni per cui il sistema di
Bretton Woods, istituito da Stati Uniti e Gran Bretagna
dopo la seconda guerra mondiale, prevedeva dei controlli
sui capitali e regolamentava le valute. John Mainard Keynes riteneva che il risultato più importante di Bretton
Woods fosse l’acquisizione, da parte dei governi, del diritto di limitare i movimenti di capitale. Invece, nella fase
neoliberista che si è aperta negli anni Settanta dopo l’abolizione di quel sistema, il tesoro americano considera il libero movimento dei capitali come un diritto fondamentale. L’ovvia conseguenza di questa idea di libertà assoluta
dei capitali è che la democrazia si è ridotta. la crisi virtuale della finanza
e quella reale delle risorse
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a cosiddetta crisi del credito, rimandata dall’estate
2007, alla fine è deflagrata. La finanza ipercreativa
dei mutui subprime ha finalmente esalato l’ultimo
respiro dopo aver contagiato il pianeta, e ora le banche
non si fidano più nemmeno delle altre banche e l’intero
sistema creditizio rischia di fermarsi. Per questo i decisori politici si affrettano a rassicurare i risparmiatori e
gettano fiumi di denaro in un immenso buco le cui dimensioni sono ancora da valutare.
In realtà, come sempre accade con la storia ufficiale,
questa è una verità molto parziale per nascondere il fallimento sistemico di un meccanismo entrato in fase terminale già dal 2000. Un sistema basato sui soldi facili che
si possono fare una volta che viene smantellato ogni controllo (con la Fed in testa a incitare gli spiriti animali),
ogni frontiera (grazie alla libera circolazione dei capitali)
e perfino i limiti temporali (basta un doppio clic del
mouse e, sul mercato parallelo, si gioca in borsa con i
ritmi frenetici di un videogioco). Per decenni alle imprese è stato consigliato di gettare sempre più denaro nel
mondo virtuale lasciando colare a picco quello materiale
fatto del lavoro delle persone e di innovazione. La deindustrializzazione degli Stati Uniti dimostra quanto si
possa andare avanti lungo questa china.
L
Non solo credito e non solo banche
Che la questione dei mutui americani sia solo uno dei
molti settori interessati dalla crisi è molto facile da dimostrare: Bear Stearns, la prima banca a fallire nel marzo
scorso, è colata a picco per via della crisi di un settore – i
prestiti a breve termine – considerato più che sicuro. Ai
subprime bisogna quindi aggiungere una lunga lista di
* GIORNALISTA
S ABINA M ORANDI *
prodotti finanziari dai nomi astrusi e dai significati ancora più sfuggenti: i suddetti short-term loans, mercato
che si aggira da solo sui 5 trilioni di dollari; i CDO (da collateralized debt obbligation) che hanno affondato Crédit
Suisse; i Cds (da Credit Default Swaps o derivati) che
hanno mandato a picco Lehman Brothers, solo per citarne alcuni. Prima della crisi il mercato finanziario dei
prodotti derivati, cioè dei titoli e contratti emessi su
mercati secondari che si appoggiano su titoli sottostanti,
i cui derivati scommettono sul prezzo e l’andamento futuro, ammontava a circa 600 trilioni di dollari, ben 12
volte il Prodotto interno lordo mondiale e 4 volte il totale dei soldi investiti in titoli o azioni legate all’economia
reale. E tutto senza voler menzionare i paradisi fiscali
dove, sembra, stazionano qualcosa come 11.500 miliardi
di dollari. Sta in queste cifre la consistenza del castello in
aria costruito dai geni di Wall Street.
L’altra mistificazione riguarda il ruolo delle banche,
com’è noto oggetto dell’intervento governativo di questi
giorni e di innumerevoli disquisizioni sul socialismo dei
banchieri. In realtà tali dibattiti dimostrano, come minimo, la scarsa conoscenza della finanza di oggi nella quale
le banche recitano un ruolo abbastanza marginale quali
intermediari tradizionali del credito. La realtà è che da
tempo le banche sono state surclassate da attori finanziari ben più aggressivi e potenti, anche se è innegabile che,
negli ultimi anni, hanno cercato di colmare il gap di «aggressività». Il grande business della finanza funziona insomma su vari livelli e quello bancario è solo il primo e
certamente il meno importante, se si considera la quantità di denaro che vi circola. Esiste infatti un mercato
creditizio non bancario (i grandi investitori istituzionali,
per esempio), un mercato della finanza strutturata – certamente il più ricco, dove appunto si scambiano freneti-
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camente i prodotti finanziari di cui sopra – e un mercato
dei capitali.
Perché le autorità si sono concentrate solo sul primo livello? La spiegazione è semplicissima: né il Tesoro americano né le banche centrali sparse per il mondo hanno
strumenti per intervenire sugli altri livelli – e in realtà
nemmeno su questo visto che nessuno può costringere
una banca a concedere prestiti a chi non vuole. L’altra
ragione, ancora più spaventosa, è che nessuno al mondo
ha ancora capito fino a che punto sia compromesso il sistema ai livelli più alti, livelli nei quali i bei soldi promessi dalle autorità sono come gocce nel mare.
I piani di salvataggio ovvero: fallimenti annunciati
Se la medicina non abbassa la febbre, la terapia è sbagliata. Nel caso del mercato finanziario non c’è esempio
migliore della rapidità con cui le borse hanno digerito i
miliardi di dollari che sono stati dati loro in pasto.
Prima di tutto, agendo al solo livello bancario, le autorità rischiano di affossare ancora di più gli attori presenti
sugli altri livelli, che infatti stanno già presentando reclami – negli States – per i favori che consentiranno alle
banche più o meno nazionalizzate di sbaragliare la concorrenza del capitale privato. L’idea era che, una volta
riempito il buco con i capitali pubblici, i capitali privati
sarebbero seguiti, ma era un’idea abbastanza ingenua e
infatti non ha funzionato. Stessa cosa per i grandi attori
non bancari – come i colossi dei mutui Fannie Mae e
Freddie Mac – che sono stati nazionalizzati in fretta e
furia ma non hanno certo attirato quella messe di capitali privati che ci si aspettava. Del resto è abbastanza irrealistico anche aspettarsi che le banche appena finanziate
prestino generosamente i loro capitali alle imprese invece di impiegarli per sistemare le loro posizioni individuali. In ogni caso, anche senza fare la lunga lista degli
stanziamenti effettuati dai vari Paesi, peraltro in costante aggiornamento, tutti hanno aderito entusiasticamente
a questa strategia – anche chi, come gli europei, ha meno
possibilità degli americani di battere impunemente
carta moneta – che consiste sostanzialmente nel concentrarsi su di un unico problema (quello del credito) e a un
unico livello (quello bancario) rimuovendo tutto il resto.
Questo tipo di strategia si basa in sostanza sull’obiettivo
di impedire alla bolla del debito di esplodere, tentativo
che anche il massimo esperto di bolle mai esistito, Alan
Greenspan, non ha mai tentato. L’ex presidente della
Fed, considerato da molti l’inventore dell’attuale bolla
speculativa – a lui si deve una tale profusione di prodotti
finanziari e cartolarizzazioni – quando scoppiò la bolla di
internet riuscì a dirottare i capitali speculativi sui mutui
senza troppi scossoni, ma non ha mai nemmeno pensato
di impedire lo scoppio della bolla cercando di salvare le
migliaia di piccole imprese nate a ridosso del boom informatico. Cercare di allontanare il rischio d’insolvenza
sistemica dando un po’ di miliardi alle banche equivale,
letteralmente, a svuotare il mare con un cucchiaio. Oltretutto questa pratica comporta il rischio di allargare
l’infezione dei titoli spazzatura anche al bilancio pubblico, trasformando il medico – lo Stato – in malato.
La crisi reale
Confindustria è stata rapidissima ad approfittare della
crisi per attaccare a testa bassa il pacchetto clima di Bruxelles. Brandendo come una mazza ferrata le paure più in
voga del momento – crisi finanziaria e pericolo giallo –
ecco che anche le timide misure dell’Unione europea per
la riduzione delle emissioni di gas serra diventano una
minaccia per l’industria italiana. La quale è notoriamente in agonia e avrebbe invece estremamente bisogno di
un riammodernamento in chiave ambientale e non solo
– ridurre le perdite di un sistema elettrico fatiscente può
favorire la concorrenza asiatica? E quale sarebbe la politica industriale italiana? Continuare a buttare via quantità significative di energia e contemporaneamente fo-
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raggiare la costruzione di centrali nucleari e rigassificatori?
Niente di nuovo sotto il sole, diranno in molti, a proposito di questa capacità di digerire ogni disastro per trasformarlo in profitto. Del resto è questo il limitato panorama nel quale si muove il «capitalismo dei disastri»: le
emergenze rendono molto più della programmazione,
come ben si evince dalla vicenda dei rifiuti tossici in
Campania. Quello che colpisce, se mai, è la nostra totale
incapacità di approfittare delle occasioni, delle difficoltà
e perfino delle sconfitte dell’avversario pur disponendo
di un’agenda estremamente articolata delle misure da
prendere.
È abbastanza incredibile che nessuno dei nostri politici,
nemmeno chi dice di avere a cuore una sinistra che sappia accogliere anche istanze più moderne, di fronte alla
crisi finanziaria si sia ricordato della questione ambientale. Eppure abbiamo alle spalle venti o trent’anni di
studi, proposte e progetti per affrontare la vera emergenza, che non è quella della scomparsa dei soldi virtuali ma è quella della scomparsa della base materiale della
nostra esistenza: terra, acqua, aria e una quantità impressionante di materie prime (quasi tutte) che stanno
semplicemente esaurendosi, come era ovvio che accadesse prima o poi. Lasciamo perdere l’intreccio diabolico che lega il costo quasi nullo delle materie prime allo
sfruttamento del Sud del mondo e veniamo alla crisi che
incombe.
Accade insomma che il nemico storico di ogni tentativo
di programmazione economica, cioè la finanza speculativa, sia entrato in una crisi terminale. Questa dovrebbe
essere una buona notizia così come il fatto che i dogmi
del fondamentalismo liberista (sposati in modo suicida
dal centro-sinistra mondiale) siano stati messi da parte
nel breve spazio di un paio di settimane. Il gotha degli
organismi economici internazionali è stato costretto ad
ammettere che lo spietato darwinismo sociale non è valido per le banche, cui è concesso di sopravvivere anche
se sono «meno adatte» di altre. È probabile che, in questa rapida conversione, abbia inciso il fatto che gli attuali decisori provengono proprio dalle banche che devono
salvare – due esempi illustri sono Mario Draghi e Henry
Paulson, entrambi cresciuti nella Goldman Sachs. Si è
capito insomma che lo Stato deve tornare in campo perché tutta la fantasmagorica ricchezza degli ultimi decenni era appunto solo virtuale: non ha riconvertito un sistema produttivo fatiscente né ha creato nuovi posti di
lavoro ma, siccome i bonus dei manager erano veri e
sono stati pagati, adesso ce li ritroviamo sulle spalle.
L’altra buona notizia è che, stavolta, il gioco deve avveni-
re a carte scoperte, almeno nei Paesi dotati di uno straccio d’opposizione. Evidentemente non è il caso dell’Italia se il governo Berlusconi non è nemmeno stato costretto a dare qualche cifra il che, oltre a garantire che
nessuno dovrà rendere conto di niente, dà ai mercati
speculativi esattamente il tipo di messaggio che bisognerebbe evitare: continuate a speculare.
Ciò che sta accadendo è abbastanza chiaro: quel che resta
dell’economia reale sta venendo rapidamente sacrificato
dagli Stati per finanziare qualche altro giro di roulette a
fondo perduto in Italia e in Usa, con la speranza di mettere parola almeno sugli stipendi dei dirigenti in Gran
Bretagna e Germania. Funzionerà? Ovviamente no: basta
la logica a dire che, se gli Stati rinunciano alla produzione vera e propria per entrare nel mondo del denaro virtuale e riempirsi i bilanci di titoli spazzatura, il disastro è
solo rimandato nel tempo caricandone i costi sulle spalle della collettività. Lo scenario che si prospetta è quindi
abbastanza prevedibile visto che ripercorre le tappe di
tutte le grandi crisi economiche. È molto probabile che
la finanza resti in piedi – e con essa l’illusione che tutto
va per il meglio – al prezzo di continue costosissime trasfusioni di risorse dall’economia presente e futura, visto
che di riconversione non si parla più da nessuna parte,
ma senza riconversione la produttività italiana non sopravvive al prossimo decennio...
Il vero problema è che la catastrofe della finanza virtuale
cancella completamente dalla vista la catastrofe vera,
quella ecologica. Rifiuti, desertificazione, riscaldamento
globale premono per ricordare a finanzieri e politici che
il mondo è molto meno virtuale di quello che le redazioni, i consulenti finanziari e le segreterie di partito pensano, e presentano conti sempre più salati di giorno in
giorno. In questo scenario un conflitto allargato sembra
abbastanza probabile (a proposito: smettiamo di prenderci in giro: la Grande depressione non è finita con il
New Deal ma con la Seconda guerra mondiale) così come
l’aumento della conflittualità sociale dovuto alla crisi
economica e ai tentativi di farla pagare esclusivamente ai
soliti noti. L’unica incognita in questo percorso tristemente noto è il ruolo che il dissesto dell’ecosistema giocherà, ma è assai facile che renda le cose ancora più complicate.
Lo scenario numero due è tutto da costruire, ma gli strumenti sono a disposizione. Si tratta di aggregare realtà
locali, movimenti, imprenditori (veri), società civile,
sindacati e quant’altro (anche i partiti, se non hanno altri
impegni…) su di un unico obiettivo: evitare una guerra
globale e avviare la ricostruzione prima, non dopo il conflitto. Si tratta di pretendere che l’incredibile quantità di
EDITORIALE
soldi promessi alle banche non vada agli speculatori ma
alle imprese (Confindustria sarebbe d’accordo) a patto
però che queste ultime facciano della riconversione ecologica il proprio obiettivo principale, il che sarebbe
anche logico se uno vuole che la propria attività economica abbia un futuro. L’efficienza energetica, ad esempio, non è solo un modo per ridurre le emissioni di gas
serra ma anche un modo per risparmiare sulla bolletta.
Se le nostre imprese non fossero giganti che vivacchiano
di prebende ed esenzioni fiscali, avrebbero da tempo imboccato questa strada anche senza esservi obbligate.
Di piani – progetti, iniziative, strategie di recupero, riciclaggio e riconversione – ne sono stati prodotti a bizzeffe
da generazioni di ambientalisti, attivisti locali e ricercatori. Scommetto che anche il più piccolo comune d’Italia
ha nel cassetto un piano commissionato a qualche associazione, Università o centro studi magari solo per ottenere uno straccio di finanziamento dall’Unione europea.
Del resto abbiamo anche liste interminabili di procedure d’infrazione che ci costano un capitale in multe e la situazione cambierà di poco anche se Berlusconi riuscirà a
boicottare il pacchetto europeo sul clima.
Insomma, invece di lasciare che lo Stato compri titoli
spazzatura senza emettere un fiato dovremmo chiedere –
anzi, pretendere – che i nostri soldi vengano investiti in
quelle migliaia di progetti «alternativi» che languono
nei cassetti da decenni perché bisognava lasciar fare alla
mano invisibile del mercato. È abbastanza evidente che la
battaglia di retroguardia che la sinistra si accinge a fare in
difesa dei servizi che verranno inevitabilmente tagliati è
destinata alla sconfitta semplicemente perché la crisi
ambientale e quella finanziaria combinate sono destinate a distruggere l’economia reale. L’unico modo di non
perdere questa battaglia è puntare alla vittoria, cioè rilanciare tirando fuori dai cassetti quell’altro mondo possibile che, oltretutto, è anche l’unico in grado di durare.
Basta recuperare un po’ della memoria a breve che è andata perduta nella troppa dimestichezza con il potere –
penso alle Giunte, non solo al Governo – e nei più recenti psicodrammi congressuali, e ripensare agli ultimi dieci
anni. Ricordate Seattle 1999? Cancun 2003? Hong Kong
2005? Fra l’altro, nel frattempo avevamo anche vinto.
Peccato non essersene resi conto. LA GENESI DELLA CRISI
VLADIMIRO GIACCHE’
9
L’8 aprile scorso è comparso sul Financial Times un
importante articolo, annunciato da questo richiamo in
prima pagina: «Ritorno agli anni Venti. Il ritorno a un
mondo disuguale». L’articolo cominciava con queste
parole: «La disuguaglianza tra i redditi negli Stati Uniti
ha raggiunto il punto più alto dai tempi dell’anno del
disastro: il 1929». E proseguiva così: «la caratteristica
più notevole dell’era della disuaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni Ottanta è rappresentata dal
fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga
parte dell’economia del mondo sviluppato». In effetti i
dati sono impressionanti. Tra il 1979 e il 2005 i redditi
prima delle tasse delle famiglie americane più povere
sono cresciute dell’1,3% annuo, quelli del ceto medio di
meno dell’1% annuo, mentre quelli dell’1% più ricco
della popolazione sono cresciuti del 200% annuo prima
delle tasse e addirittura del 228% dopo le tasse. Risultato:
nel 2005 il reddito dopo le tasse del quinto più povero
della popolazione era di 15.300 dollari annui, quello del
quinto mediano di 50.200 dollari, mentre quello dell’1%
più ricco era superiore al milione di dollari. In definitiva, negli anni tra il 2002 e il 2006 all’1% più ricco della
popolazione americana sono andati quasi i tre quarti
della crescita del reddito complessiva. Nel 2005, secondo
dati dell’US Census Bureau, l’indice della disuguaglianza
tra i redditi, ha raggiunto il massimo storico. Lo stesso
vale per la Gran Bretagna, ove questo si è verificato dopo
l’andata al potere dei laburisti di Blair nel 1997: anche
qui, secondo gli stessi dati governativi, la forbice della
disuguaglianza è la più alta di sempre. Ma, più in generale, la riduzione della quota del prodotto interno lordo che
va ai salari, e per contro la crescita della quota destinata
ai profitti, è una tendenza che investe tutti i Paesi a capitalismo maturo, come ha evidenziato una ricerca della
Banca dei Regolamenti Internazionali del 2007. torna Rifondazione, torna la sinistra
1. Una fase di transizione
10
on è azzardato affermare che stiamo vivendo, nel
nostro Paese, una fase di transizione politica che
si pone all’epilogo di processi di profonda modificazione della struttura del capitalismo italiano.
Nelle linee essenziali – e seguendo lo schema del ragionamento assai condivisibile contenuto nella nuova edizione dell’ultimo lavoro di Alberto Burgio, Per Gramsci –
possiamo dire che assistiamo al passaggio da una fase che
gramscianamente definiamo di «rivoluzione passiva» a
una fase di vera e propria «rivoluzione conservatrice».
Da un’epoca apertasi simbolicamente con la controffensiva dei colletti bianchi della Fiat di Torino dell’ottobre
1980 e con il decreto sulla scala mobile del governo Craxi
quattro anni più tardi (all’interno di un quadro internazionale che vedeva trionfare le politiche anti-operaie e di
potenza di Thatcher e Reagan) a una nuova fase il cui tratto determinante sembra essere la commistione perversa
tra elementi di liberismo spinto ed elementi di reazione
e autoritarismo.
In altre parole: da un processo ventennale, governato
dalle classi dominanti, di restrutturazione dei processi
produttivi e di ridefinizione e riorganizzazione della
composizione sociale e dei rapporti tra le classi approdiamo a un nuovo contesto che non si limita a reiterare la
sconfitta del movimento operaio (nella forma del più gigantesco movimento di redistribuzione della ricchezza
verso il capitale della storia moderna) ma che, a essa, affianca l’attitudine violentemente repressiva delle fasi fascistiche del capitalismo.
Siamo un passo oltre ciò che ci eravamo abituati a denunciare e rispetto a cui avevamo imparato, in lunghissimi
N
* SIMONE OGGIONNI – DIREZIONE NAZIONALE PRC
** FRANCESCO D’AGRESTA – SEGRETERIA PROVINCIALE PRC PESCARA
S IMONE O GGIONNI *
E
F RANCESCO D’A GRESTA **
anni di resistenza, a prendere le misure. Oggi il governo
Berlusconi, complice un contesto internazionale di crisi e
di diffusa recessione (che l’amministrazione neo-liberista di George W. Bush ha affrontato con il più corposo intervento statale dalla Grande Depressione del 1929 a oggi:
quasi 1000 miliardi di dollari), sta conducendo il nostro
Paese in una fase in cui gli elementi caratterizzanti della
rivoluzione passiva neo-liberista si sviluppano parossisticamente sino a sconfinare nel quadro sopra descritto.
Solo così si spiega la coesistenza – in un disegno organico di attacco alla democrazia e ai diritti dei ceti deboli –
dei progetti di privatizzazione della pubblica amministrazione, di riscrittura del modello contrattuale, di ridefinizione del ruolo stesso delle organizzazioni sindacali,
finanche di messa in discussione del diritto di sciopero
da un lato e, dall’altro, di provvedimenti legislativi di
chiara impronta xenofoba e razzista (dalla schedatura
delle comunità rom, indipendentemente dalla nazionalità, alla proposta di istituire classi separate alle scuole elementari per i figli dei migranti) e delle recenti repressioni poliziesche delle manifestazioni universitarie contro i
tagli alla ricerca.
2. La «sonnolente fragilità» delle istituzioni
democratiche
La cifra di questo cortocircuito tra politiche economiche
anti-popolari e voga repressiva è ben rappresentata dal
complesso dei provvedimenti varati dal governo in materia di istruzione e università. Perché se l’abbassamento
dell’obbligo scolastico a 14 anni, i tagli di 8 miliardi in
quattro anni (che sanciranno l’esubero di 87.000 docenti e 43.000 lavoratori dell’amministrazione), la riduzione del 60% dei fondi per l’inserimento degli adulti anal-
EDITORIALE
fabeti o immigrati nonché, ovviamente, il disegno di
legge Aprea che incentiva le scuole a trasformarsi in fondazioni di diritto privato dotate di propri CdA, che
avranno il potere persino di determinare i salari dei docenti posti sotto contratto, definiscono classicamente un
quadro di feroce indebolimento del carattere pubblico
del sistema formativo nazionale, l’introduzione del voto
di condotta valevole per la bocciatura e la immediata punibilità penale di qualunque azione compiuta dagli studenti e ritenuta non conforme dal Consiglio d’Istituto
puntano a reintrodurre, anche nella scuola, quel modello autoritario e anti-egualitario che il movimento studentesco nel 1968 aveva messo sotto accusa.
Sta in questo (e nelle cifre del drammatico impoverimento di settori sempre più estesi di società italiana: 7
milioni di lavoratori che vivono con meno di 1000 euro
al mese, 270mila giovani che ogni anno emigrano dal Sud
al Nord in cerca di lavoro, 4 milioni e mezzo di lavoratori precari e sottopagati e 6 milioni e mezzo di lavoratori
in attesa del rinnovo contrattuale) il cuore della rivoluzione conservatrice di cui si è parlato. È questo
l’«allarmante incipit», di cui scrive Eugenio Scalfari,
«verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei
contropoteri, la passività dell’opinione pubblica e la
sonnolenta fragilità delle istituzioni».
Cos’altro sono il progetto di riforma in chiave federalistica del sistema fiscale, l’impunità assegnata alle più
alte cariche dello Stato (quella legge Alfano rispetto a cui
il tribunale di Milano ha sollevato presso la Corte costituzionale l’eccezione di costituzionalità), nonché la stessa rivalutazione del fascismo storico rivendicata con orgoglio da autorevoli esponenti del governo, se non il
segno di questa «sonnolente fragilità» delle istituzioni
democratiche?
Quel che è certo è che una tale involuzione (schematizzando: un tale spostamento a destra del quadro politico)
è tanto profonda in quanto ha saputo modificare l’ethos
di una società antropologicamente mutata e il suo senso
comune, al punto che oggi il governo può godere di un
consenso crescente e diffuso, e in primo luogo in quei
settori (si pensi all’azione di Brunetta contro il pubblico
impiego) che emblematicamente rappresentano questa
regressione culturale e politica.
Ed è tanto più tragica negli effetti materiali in quanto si
innesta – lo si accennava in precedenza – all’interno di
un ciclo economico di contrazione. Dedichiamo all’argomento alcune brevi considerazioni.
3. Crisi del sistema
Ci pare di poter dire che non siamo di fronte a una
«semplice» crisi finanziaria dentro il sistema capitalismo, originata – secondo la vulgata diffusa anche a sinistra – dal crollo dei mutui subprime negli Stati Uniti
d’America. Una crisi che, producendosi sul piano delle
attività finanziarie, non toccherebbe la struttura reale
dell’economia e della produzione e che, di conseguenza,
non ne metterebbe in discussione la bontà intrinseca e la
intrinseca capacità di autoregolamentarsi.
La crisi a cui stiamo assistendo è una crisi del sistema capitalistico e, nello specifico, delle sue regole di produzione. Di una economia reale che pone l’indebitamento
di massa, la tutela del saggio di profitto e l’ampliamento
della schiera dell’esercito industriale di riserva come
condizioni necessarie per la sua riproduzione.
E cosa sono l’indebitamento di massa e l’accumulazione
di plusvalore a danno dell’esercito operaio attivo se non
le cause immediate della crisi finanziaria in atto (accelerata e aggravata dalla riduzione delle riserve liquide del
sistema bancario, causata dai costanti ritiri di contante)?
Questa crisi finanziaria ha, al contempo, una sua seconda
logica materiale. Come mette in luce Emiliano Brancaccio1, il tasso interbancario è troppo alto rispetto a quello
applicato dalla Bce sulle operazioni di rifinanziamento
perché non si ipotizzi, con fondamento, che sia in atto un
11
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tentativo da parte dei grandi operatori bancari di trattenere la liquidità soffocando gli operatori che necessitano di
prestiti. In altre parole: il capitale «forte» centralizza autocraticamente e punta a sbaragliare il capitale «debole»,
in una competizione inter-capitalistica in cui gli Stati nazionali continuano a giocare un ruolo rilevantissimo.
Da questo cosa ne deriva in relazione alla natura del
modo di produzione capitalistico? Che esso si regge su di
una contraddizione irresolubile: la speculazione finanziaria garantisce il capitalismo – perché ne determina
l’esistenza, ne consente la riproduzione – e al contempo
lo distrugge, lo porta ciclicamente alla crisi.
Come è evidente, la recentissima affermazione di Barack
Obama alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America non muta il quadro strutturale, né indica ricette risolutive adeguate alla natura del crollo. Tuttavia, sarebbe ingeneroso non valorizzare una vittoria (per di più nettissima) avvenuta a dispetto del pregiudizio razzista diffuso in
larghi strati della società nord-americana e a dispetto di un
sistema elettorale che nel recente passato ha dato prova di
non essere immune da irregolarità (non solo i brogli, ma
anche la sistematica esclusione dalle liste di decine di migliaia di afro-americani, soprattutto nel Sud). L’affermazione di Obama è quindi, qualsiasi saranno le azioni che
concretamente ne caratterizzeranno il mandato (a oggi è
problematico, e puramente ipotetico, prefigurare quali
potranno essere gli elementi di continuità e quelli di rottura), l’affermazione di un candidato democratico e la
chiusura dell’epoca cupa di George W. Bush2.
4. «L’inconveniente della società», la sfida
dei comunisti
Rimane sempre in campo, a ogni modo, quello che, con il
Marx della Miseria della filosofia, potremmo definire
l’«inconveniente della società»; e in questa contraddizione si comprende il senso e la necessità di quella ipotesi di radicale alternativa sistemica che chiamiamo «comunismo». E che oggi – ma sfioriamo così temi e ragionamenti davvero impervi, ancor di più se affrontati in
termini sintetici – passa per la proposizione di interventi statali volti a collocare la proprietà pubblica al centro
dei processi economici. Non regali alle banche o alle imprese né semplici interventi risarcitori per i lavoratori,
ma un impegno strutturale che espunga progressivamente il lucro privato dalla gestione dei gangli strategici delle
diverse economie nazionali e macro-regionali.
A questa altezza prende corpo, nel nostro Paese, la sfida
della sinistra e dei comunisti. Analizziamo ora il quadro
politico interno.
EDITORIALE
5. Il quadro politico
Il governo di destra – come dicevamo – fa politiche di
destra, con l’aggravante di una solida popolarità.
Il Pd, principale partito dell’opposizione parlamentare,
non fa né opposizione né, tantomeno, opposizione di sinistra. Nei mesi scorsi il suo segretario, Walter Veltroni,
ha ripetutamente criticato il governo per non aver mantenuto fede alle promesse elettorali e per una presunta
inerzia nei confronti dei problemi del Paese (quando,
come è evidente, la questione sta in termini esattamente
opposti, e cioè nell’iperattivismo decisionista che dà
forma ai contenuti reazionari).
Più recentemente il Pd ha scelto una linea emendativa, di
dialogo permanente, di confronto e correzione. Un approccio che considera Berlusconi un avversario normale,
con buona pace di quanti (da Bocca ad Asor Rosa, per citare soltanto due delle voci autorevoli levatesi in queste
settimane) hanno messo in guardia rispetto alla eccezionalità e alla profondità della modificazione intervenuta
nel Paese per mezzo del governo in carica.
Il che significa, anche sul piano logico, che la scelta di
fondo di accettare l’agenda politica e l’ordine delle priorità avanzati dalla destra è ormai compiuta.
Con il corollario immediatamente politico dell’apertura
– a tutti i livelli – all’Udc di Casini che, nelle intenzioni
di Enrico Letta e di una parte importante del Pd, dovrebbe sostituire in una alleanza «strategica» il rapporto con
la sinistra d’alternativa.
A questo si aggiunga che, se è vero che nel Partito democratico esiste una dialettica tesa tra pulsioni differenti, e
se è vero che questa dialettica vive anche sul nodo specifico del rapporto con la sinistra, è altrettanto fondata la
valutazione secondo la quale è l’intero Pd ad avere assunto una conformazione liberaldemocratica e un impianto
neo-centrista. Ne è prova il fatto che se sulle riforme
istituzionali il dibattito interno al Pd è acceso (ed è evidente che non si può essere equidistanti tra il modello
veltroniano del maggioritario con i collegi a doppio
turno e l’ipotesi dalemiana del proporzionale alla tedesca), sulle politiche economiche e sociali il Partito democratico parla con una sola voce. Una voce che, per citare una emblematica dichiarazione di Cesare Damiano,
considera la riforma del modello contrattuale (nel senso
di concedere ai contratti collettivi nazionali il solo obiettivo di recuperare l’inflazione programmata) «un obiettivo importante per il Paese e per le imprese»3.
Vi è poi un secondo livello di contraddizioni all’interno
del Pd che, in prospettiva, potrebbe essere ben più rilevante e che, a dire il vero, ha già mostrato in almeno due
circostanze di essere potenzialmente deflagrante. È la distonia tra base popolare (la cui forza oggettivamente si è
mostrata con la riuscita dell’appuntamento del 25 ottobre) e vertici: tra un base che chiede «opposizione» politica, sociale, morale al governo delle destre e un gruppo
dirigente in larga misura indisponibile a svolgere il proprio compito. E questa distonia, quando si è prodotta
contestualmente allo svilupparsi di sommovimenti sociali rilevanti, ha mostrato tutto il proprio potenziale critico:
si pensi all’esempio più recente, quando Veltroni, in occasione del comizio finale dell’iniziativa del 25 ottobre,
ha rivendicato a nome del Pd l’inedito obiettivo di giungere al ritiro del decreto Gelmini sull’istruzione. Una simile presa di posizione sarebbe stata difficile da immaginare in assenza di lotte sul terreno della formazione e
della conoscenza come quelle che si sono prodotte in
queste settimane. Questo cosa ci dice? Che il Partito democratico può riconquistare un ruolo di opposizione (e
dunque Rifondazione Comunista può ricominciare a
stringere un dialogo con quel partito) a condizione che
nel Paese si moltiplichino mobilitazioni e conflitti. E che
questo (la modifica dei rapporti di forza nella società,
prima ancora che nella politica) è il presupposto che ci
può consentire di relazionarci programmaticamente nei
prossimi mesi con il Partito democratico. Senza elemosinare, da una posizione di subalternità, rapporti di «buon
vicinato», ma forti dell’innalzarsi, in ogni realtà del
Paese, del livello del confronto e dello scontro sociale.
6. Un autunno di mobilitazioni
È in questo contesto, appunto, che si colloca l’iniziativa
del nostro partito e delle altre forze della sinistra d’alternativa. C’è lo spazio per una opposizione intransigente e
per un progetto di alternativa. E, a pochi giorni dalle
straordinarie manifestazioni di Roma dell’11, del 17 e del
30 ottobre, nel vivo di un fermento studentesco inedito,
ne cresce nel Paese anche la voglia.
Cosa ci indicano le oceaniche manifestazioni del mese
scorso? Che la sinistra esiste e che il governo delle destre
deve tornare a fare i conti con il popolo della sinistra e con
il popolo comunista. Al contrario di quanto sostenuto da
alcuni compagni (tra cui Maurizio Zipponi, in un articolo
apparso lo scorso 23 settembre su Liberazione con cui proponeva di congiungere le piazze e partecipare all’iniziativa
di fine ottobre del Partito democratico), la manifestazione
dell’11 ottobre non è stata né la «scimmiottatura» del 20
ottobre 2007 né un «momento di protesta inefficace». Al
contrario, è stata il battesimo del nostro rinnovato protagonismo politico. L’irruzione sulla scena di una sinistra
13
7. Il ruolo dei comunisti
14
che, ridotta ai minimi termini dalle ultime elezioni (e ulteriormente lacerata dai rispettivi congressi), è di nuovo in
piedi: in grado di sfidare la censura – già sperimentata all’indomani della grande iniziativa del partito del 14 settembre – a cui la condannano i mezzi di informazione e soprattutto in grado di sfidare il governo, raccordando in un
unico grande corteo le diverse soggettività e le diverse
esperienze di lotta attive nel nostro Paese.
Che quella dell’11 non sia stata una manifestazione
«identitaria» (intendendo con questo la degenerazione
del vizio classico dell’autonomia della politica) lo ha dimostrato il 17 ottobre, un corteo di proporzioni inedite
per il sindacalismo di base che ha riportato in piazza il
popolo «dei partiti» insieme ai lavoratori e al conflitto
di classe in carne e ossa. E lo ha dimostrato l’irrompere,
in queste stesse settimane, di una radicalità e di una capacità di mobilitazione del movimento studentesco e
universitario che ha pochi precedenti nella storia degli
ultimi quarant’anni.
Mettiamola in questi termini: la sinistra sta compiendo
passi enormi (a dispetto di tempi drammaticamente
contingentati) verso una sua riconnessione con i movimenti e le tante vertenze diffuse che, nelle piazze di queste settimane, si intrecciano e sovrappongono. Il rischio
è che questi movimenti e queste vertenze non riconoscano
fino in fondo la fecondità dell’abbraccio con la politica e
con i nostri partiti (Prc e Pdci in primis) e la schivino,
percorrendo strade parallele o, peggio, divergenti.
Un ruolo decisivo lo giocheremo noi. Non genericamente la sinistra, ma noi comunisti. Perché la rilevanza oggettiva dei comunisti all’interno della sinistra di classe
(verificata in ultimo proprio lo scorso 11 ottobre) ci indica che non esiste e non sta nelle cose alcun processo di ricostruzione del conflitto sociale che pretendesse di prescinderne, consegnando alla sfera astratta dei rapporti
tra pezzi di ceto politico il compito di escogitare la soluzione salvifica.
Nessun progetto costituente, quindi, come ha sancito definitivamente il nostro congresso nazionale. Nessuna retorica dell’«oltre» e della «sinistra senza aggettivi»,
come al contrario suggerirebbe il percorso sin qui seguito dalla maggioranza (sempre meno trionfante, sempre
più risicata) dei Giovani Comunisti, i cui timori prevalenti in questi mesi sembrano essere quello di autonomizzarsi irreversibilmente dal partito (in maniera tale
che sia possibile produrre una scelta autonoma, sul tema
della costituente della sinistra, rispetto a quella del partito) e di non scontentare l’Unione degli Studenti, soggetto ormai marginale all’interno delle mobilitazioni
studentesche e notoriamente orientato verso posizioni
«compatibiliste», come dimostra la scelta di chiedere,
dopo nemmeno due giorni dall’avvio delle occupazioni in
tutto il Paese, l’apertura di un tavolo di confronto e di
dialogo con il governo (Pd docet).
Nessun progetto costituente, dicevamo. Ma il recupero di
un lavoro di organizzazione e di iniziativa sociale che faccia
di Rifondazione comunista non solo il cuore di un progetto di rafforzamento e riorganizzazione della presenza dei
comunisti nel quadro politico italiano ma anche il motore
delle mobilitazioni sociali in campo nel Paese.
I due livelli si tengono. Se la sinistra oggi torna a respirare grazie alla presenza dei comunisti è anche perché i comunisti pongono all’ordine del giorno il tema della ricostruzione del conflitto sociale. Se la Sinistra l’Arcobaleno
EDITORIALE
ieri ha fallito (e ha spianato il deserto dal quale cerchiamo di ripartire) è perché, al governo e nei programmi,
finanche nell’impianto ideologico e nel profilo identitario con cui si è presentata agli elettori, essa è stata percepita come separata dalla società e, in particolare, dai bisogni delle classi subalterne.
8. Mettere in moto Rifondazione
In virtù di questa convinzione e di questa autocritica
(che, come sappiamo, chiama in causa i compagni e le
compagne con diversi livelli di responsabilità), dobbiamo rilanciare Rifondazione Comunista.
Mettendo in moto la Rifondazione Comunista di Chianciano: un partito dotato innanzitutto di una linea politica chiara, elaborata sulla base di un’analisi della società e
della fase seria, rigorosa, equilibrata (non retorica né
auto-assolutoria né auto-consolatoria, come accadeva
quando le colpe erano sempre dell’avversario e il Paese
permanentemente attraversato da pulsioni pre-rivoluzionarie); un partito che rifugge, come si diceva, le scorciatoie politiciste delle «costituenti» e che investe strategicamente sulla nostra comunità organizzata e sulla sua
ricostruzione; un partito che, in quanto «a vocazione sociale», sceglie la strada del conflitto e della internità alle
lotte e quindi, a monte, pone la sfida della sua utilità sociale, provando a elaborare una risposta collettiva (generale, politica) al dramma sociale percepito come individuale e soggettivo.
Un partito che, infine, si determina come soggetto autonomo dal Partito democratico e dalle altre forze della sinistra e che in questo fonda la ragione della sua autonomia elettorale, lavorando perché alle prossime elezioni
amministrative ed europee esso sia presente ovunque
con il proprio simbolo, i propri candidati e il proprio
programma. E che, anche in presenza di una riforma
della legge elettorale che, in virtù di uno sbarramento
molto alto, imponesse di costruire convergenze, manterrebbe al contempo una propria chiara riconoscibilità
e un profilo marcatamente differente dalle opzioni arcobaleno tristemente note.
9. Note finali
Sono sfide gravose e che, in quanto tali, consegnano al
Prc e all’area Essere Comunisti (oggi più che mai suo
perno decisivo) due ulteriori necessità.
La prima è lavorare perché si compia realmente l’obiettivo della gestione unitaria e della direzione collegiale. Rimaniamo convinti che qualsiasi esito che non consegnas-
se al partito una maggioranza solida e ampia tradirebbe
una logica maggioritaria che la nostra area contrasterebbe
fermamente. Perché non ci sfugge che è questa la logica
che ha portato in tutti questi anni alla cristallizzazione
delle componenti interne, intese non come sensibilità politico-culturale ma come correnti, e di conseguenza all’affermazione del primato dell’appartenenza ai gruppi di
pressione e del principio di fedeltà che tanto male ha fatto
al partito, logorando le trame della nostra comune appartenenza. Il che – beninteso – vale a condizione che ciascuno riconosca nel Prc (e non in altri soggetti in fase di costituzione) la propria casa e il proprio partito.
La seconda necessità, infine, deve possedere il respiro
dei «pensieri lunghi». È urgente, non più prorogabile
che il nostro partito connetta il proprio rilancio organizzativo a un lavoro di approfondimento teorico sulla natura del partito che vogliamo costruire a questa altezza
dello sviluppo capitalistico. Un partito comunista, come
si diceva, a «vocazione sociale», che riconosce l’essenzialità dell’auto-organizzazione dei soggetti del conflitto
e prova a mettersi, con la cassetta degli attrezzi consegnataci da una storia ben più antica di quella del Prc, al
servizio di una ipotesi di trasformazione progressiva e
molecolare della società.
Dal «soggetto della trasformazione» (e dalla sua lotta,
dal suo antagonismo) dovrà nascere la forma del partito
all’altezza dei tempi e il contenuto di uno strumento egemonico di politicizzazione e di consolidamento della coscienza della nuova classe.
Non è poca cosa. Hic Rhodus, hic salta! 1. Si legga su www.esserecomunisti.it il testo dell’intervento pronunciato nel corso di un Seminario dedicato alla crisi finanziaria promosso dalla Direzione nazionale del Prc il 10 ottobre scorso.
2. Affronteremo approfonditamente il tema delle elezioni presidenziali Usa nel prossimo numero della rivista.
3. È una nota dell’Ufficio stampa del Pd dell’8 settembre scorso.
15
il sarto di Ulm
16
IL PRESENTE ARTICOLO, COMPARSO SUL NUMERO DI MAGGIO/GIUGNO 2008 DELLA
«NEW LEFT REVIEW», ANTICIPA TEMI CHE SARANNO PIÙ DIFFUSAMENTE TRATTATI IN UN
LIBRO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE. RINGRAZIAMO LUCIO MAGRI PER AVERCI AUTORIZZATO A PRESENTARLO IN TRADUZIONE ITALIANA.
L UCIO M AGRI
I
n una delle affollate assemblee che dovevano decidere se cambiare nome
al Pci un compagno rivolse a Pietro Ingrao una domanda: dopo tutto ciò
che è successo e sta succedendo, credi proprio che con la parola comunista si possa ancora definire un grande partito democratico e di massa come
noi siamo stati, ancora siamo e che vogliamo rinnovare e rafforzare per portarlo al governo del Paese?
Ingrao, che già aveva ampiamente esposto le ragioni del suo dissenso e proposto di seguire un’altra strada, rispose, scherzosamente ma non troppo,
usando un famoso apologo di Bertolt Brecht, «il sarto di Ulm», quell’artigiano fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo
di volare. E un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al governatore e gli disse: eccolo, posso volare. Il governatore lo condusse alla finestra
dell’alto palazzo e lo sfidò a dimostrarlo. Il sarto si lanciò e ovviamente si
spiaccicò sul selciato. Tuttavia – commenta Brecht – alcuni secoli dopo gli
uomini riuscirono effettivamente a volare.
Io, che ero presente, trovai la risposta di Ingrao non solo arguta, ma fondata. Quanto tempo, quante lotte cruente, quanti avanzamenti e quante sconfitte, furono necessari al sistema capitalistico – in una Europa occidentale all’inizio più arretrata e barbarica di altre regioni del mondo – per trovare alla
fine una efficienza economica mai conosciuta, darsi nuove istituzioni politiche più aperte, una cultura più razionale?
Quali contraddizioni irriducibili marcarono per secoli il liberalismo tra ideali
solennemente affermati (la comune natura umana, la libertà di pensiero e di
parola, la sovranità conferita dal popolo) e pratiche che li smentivano in
modo permanente (schiavismo, dominazione coloniale, espulsione dei contadini dalle terre comuni, guerre di religione)? Contraddizioni di fatto, ma
legittimate nel pensiero: l’idea che alla libertà non potessero né dovessero
accedere se non coloro che avevano per censo e cultura – perfino per razza
e colore – la capacità di esercitarla saggiamente; e l’idea correlativa che la
proprietà dei beni era un diritto assoluto e intoccabile e dunque escludeva il
suffragio generale? Tutte contraddizioni che non tormentarono solo la prima
fase di un ciclo storico, ma si erano riprodotte in forme diverse, nelle sue
successive evoluzioni e gradualmente si erano ridotte solo per l’intervento di
nuovi soggetti sociali sacrificati e di forze contestatrici di quel sistema e di
quel pensiero. Se dunque la storia reale della modernità capitalistica non era
stata lineare né unicamente progressiva, anzi drammatica e costosa, perché
dovrebbe esserlo il processo del suo superamento? Questo appunto voleva
Ingrao rispose usando
un famoso apologo di
Bertolt Brecht, «il sarto
di Ulm», quell’artigiano
fissato nell’idea di
apprestare un apparecchio
che permettesse all’uomo
di volare
ANTICIPAZIONI
significare l’apologo del sarto di
Ulm.
Tuttavia, sempre scherzosamente
ma non troppo, proposi subito a Ingrao due interrogativi che quell’apologo, anziché superare, metteva in
luce.
Siamo sicuri che se il sarto di Ulm
fosse sopravvissuto storpiato alla rovinosa caduta sarebbe rapidamente
risalito per riprovarci, e che i suoi
amici non avrebbero cercato di trattenerlo? E comunque, quel suo azzardato tentativo, quale contributo
effettivo aveva portato alla successiva storia della aeronautica?
Questi interrogativi, in relazione al
comunismo, erano particolarmente
pertinenti e ostici. Anzitutto perchè
nella sua costruzione teorica esso
pretendeva di non essere un ideale
cui ispirarsi ma parte di un processo
storico già in corso, di un movimento reale che cambia lo stato di cose
esistenti: comportava quindi, in ogni
momento, una verifica fattuale, una
analisi scientifica del presente, una
realistica previsione sul futuro, per
non evaporare in un mito. In secondo luogo perché tra le precedenti
sconfitte e gli arretramenti delle rivoluzioni borghesi in Francia e in
Inghilterra, e il crollo recente del
«socialismo reale» occorre vedere
una differenza pesante. Una differenza che non si misura nel numero
di morti o nell’uso del dispotismo,
ma nel risultato: le prime hanno lasciato eredità, magari molto più modeste delle speranze iniziali, dovunque sono avvenute, comunque immediatamente evidenti; del secondo
è invece difficile decifrare e misurare il lascito e individuare degni continuatori.
Venti anni dopo, questi interrogativi
non solo non hanno trovato una risposta, ma non sono neppure stati
seriamente discussi. O meglio, delle
risposte le hanno trovate in una
forma molto superficiale e dettata
dalle convenienze: abiura o rimozione. Una esperienza storica e un patrimonio teorico che hanno segnato
un secolo sono stati così affidati –
per usare una espressione di Marx –
alla «critica roditrice dei topi», che
come si sa sono voraci, e, in un ambiente adatto, si moltiplicano velocemente.
La parola comunista torna certo ancora, in modo ossessivo e caricaturale, nella propaganda della destra più
rozza. Resta nei simboli elettorali di
piccoli partiti europei per conservare
il consenso di una minoranza affezionata a un ricordo, o per indicare
genericamente un’avversità al capitalismo. In altre regioni del mondo
partiti comunisti continuano a governare piccoli Paesi, soprattutto a
difesa della propria indipendenza
dall’imperialismo, e in uno, grandissimo, dove serve però per sostenere
uno straordinario sviluppo economico che va in altra direzione. La rivoluzione di Ottobre è generalmente
considerata una grande illusione, in
qualche momento e agli occhi di
pochi utile, ma nel complesso sciagurata (identificata con lo stalinismo
e in una sua versione grottesca), comunque condannata dal suo esito
finale. Marx ha riconquistato un
certo credito, come pensatore, per le
sue lungimiranti previsioni sul capitalismo del futuro, ma del tutto amputato dalla ambizione di porvi fine.
Ancora peggio, la dannazione della
memoria tende ormai a procedere
oltre: a estendersi all’intera vicenda
del socialismo e, su per li rami, alle
componenti radicali della rivoluzione borghese e alle lotte di liberazione dei popoli coloniali (che, come si
sa, anche nel Paese di Ghandi, non
poterono sempre essere pacifiche).
Insomma, «il fantasma che si aggirava» sembra finalmente sepolto: da alcuni con onore, da altri con odio non
dimenticato, dai più con indifferenza
perché non ha più nulla da dirci.
L’orazione più graffiante, ma a suo
modo più rispettosa, a questa definitiva sepoltura l’aveva anticipata uno
dei maggiori cervelli avversari, Augusto del Noce. Quando, anni fa,
disse in sostanza dei comunisti:
hanno perduto e vinto. Hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il
corso della storia, di promettere agli
uomini libertà e fratellanza, anche
senza Dio e riconoscendosi mortali.
Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione
della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il
materialismo, l’edonismo, l’individualismo, il relativismo etico. Uno
straordinario fenomeno di eterogenesi dei fini, che egli, cattolico conservatore e intransigente, pensava di
aver previsto, ma del quale aveva
poche ragioni per compiacersi.
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Ci sono buone ragioni e condizioni
adatte per riaprire oggi criticamente una
discussione sul comunismo, anziché
archiviarla? A me pare di sì
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Chi però al tentativo del comunismo ha creduto, in
qualche modo vi ha partecipato, e solitamente senza
dare segnali di allarme, ha il dovere di renderne conto,
anche a se stesso, di chiedersi se quella sepoltura non sia
troppo frettolosa, se non occorre un altro certificato sul
rigor mortis.
Abbiamo tutti molti argomenti per aggirare l’ostacolo.
Del tipo: sono stato un comunista italiano perchè era
prioritario per combattere il fascismo, difendere la democrazia repubblicana, per sostenere rivendicazioni sacrosante dei lavoratori; oppure, sono diventato comunista quando il legame con l’Unione Sovietica o l’ortodossia marxista erano ormai in discussione, oggi posso
aggiungere una circoscritta autocritica al passato e una
forte apertura al nuovo. Non basta?
A mio parere non basta: perché non rende conto di una
impresa collettiva che, nel bene e nel male, ha coperto
molti decenni, va considerata e compresa, nel bene e nel
male, nel suo insieme. Non basta soprattutto per trarne
una lezione utile per l’oggi e per il domani.
Da troppa gente sento ormai dire: era tutto uno sbaglio
ma sono stati i migliori anni della nostra vita. Per alcuni
anni, sotto botta, questo misto di autocritica e di nostalgia, di dubbio e di fierezza, soprattutto tra le persone
semplici, mi è sembrato giustificato, anzi una risorsa. Ma
col passare del tempo, e soprattutto tra intellettuali e dirigenti, mi pare oggi ormai un accomodante compromesso con se stessi e con il mondo.
E torno di nuovo e di più a chiedermi: ci sono argomenti
razionali e convincenti per opporsi all’abiura e alla rimozione? O quanto meno ci sono buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione
sul comunismo, anziché archiviarla?
A me pare di sì.
Da quel fatale Ottantanove molta acqua è infatti passata
sotto i ponti, turbolenta. Le novità che quella cesura storica esprimeva e ratificava sono emerse più chiare e definitive, e altre se ne sono aggiunte, rapide e inattese. Dal
loro insieme è risultato un nuovo assetto dell’ordine
mondiale, della società e della coscienza di chi ci vive.
Ciò che restava in campo, vincente, non era solo il capi-
talismo. Ma un capitalismo cui la vittoria permetteva di
riaffermare senza più condizionamenti cogenti i suoi valori e meccanismi fondanti, e cui una nuova rivoluzione
tecnologica e un salto nella globalizzazione sembravano
promettere espansione economica impetuosa e duratura,
stabilità delle relazioni internazionali sotto la guida, condivisa o subita, di una sola soverchiante potenza.
Si poteva certo ancora discutere nel valutare il contributo che i conflitti e la competizione tra due sistemi del secolo scorso avevano dato alla democrazia e al progresso,
o di ciò che erano costati a ciascuno e a tutti. Si poteva
anche discutere dei correttivi da apportare al nuovo assetto per ridurne le peggiori conseguenze sociali, o per
garantire al mercato restaurato trasparenza e correttezza,
o per temperare l’unilateralismo della potenza dominante. Ma il sistema era ormai questo, non poteva essere
contestato, anzi andava sostenuto a fin di bene e in coerenza con i suoi princìpi.
E se mai, un giorno lontano, avesse anch’esso esaurito il
suo compito e dovesse essere superato, ciò non avrebbe
avuto comunque niente in comune con ciò che le sinistre
ANTICIPAZIONI
avevano fatto o pensato. Tale la realtà, e ogni politico di
buon senso doveva riconoscerla, o abbaiare alla luna.
Nel giro di pochi anni però il quadro è profondamente
mutato. Anche questo è un fatto difficilmente contestabile. Si sono ripresentate – in forma nuova e in molti
casi crescente – disuguaglianze di reddito, di qualità
della vita, di potere, tra varie aree del mondo e all’interno di ciascuna di esse. Si è misurata l’incompatibilità tra
il nuovo funzionamento del sistema economico e il permanere di grandi conquiste sociali da tempo acquisite:
welfare universalistico, piena e stabile occupazione, democrazia partecipata nelle società più avanzate, il diritto
all’indipendenza nazionale e qualche tutela dall’intervento armato, per i popoli sottosviluppati e i Paesi più
piccoli. Sono emersi, ovunque e in tutta la loro urgenza,
problemi nuovi incombenti: degrado dell’ambiente naturale, che accelera il suo corso; e degrado morale che
con individualismo e consumismo, anziché riempire con
nuovi valori e nuove relazioni umane un vuoto aperto
dalla crisi irreversibile e in sé liberatrice di istituzioni
millenarie, lo approfondisce e lo trasforma nella dicotomia tra sregolatezza e neoclericalismo. Altrettanto evidente e nuova avanza una crisi del sistema politico: reso
impotente dal declino degli Stati nazionali surrogato da
istituzioni estranee al suffragio popolare, a sua volta
svuotato dalla manipolazione mediatica del consenso e
dalla trasformazione dei partiti in macchine elettorali di
riproduzione di un ceto.
Anche sul piano produttivo i tassi di sviluppo per ora
declinano, e gli equilibri appaiono instabili, qualcosa di
più di una congiuntura: la finanziarizzazione genera
come figlia naturale la rendita, e come sorella la ricerca
esasperata del profitto immediato; e quindi toglie allo
stesso mercato un criterio sul cosa produrre e sul come
verificare la propria efficienza.
Infine, e come conseguenza di tutto ciò, un declino di
egemonia, una moltiplicazione di conflitti, una crisi dell’ordine mondiale, cui è naturale supplire con l’impiego
della forza, fino alla guerra, che a sua volta anziché risolvere aggrava ogni problema.
Ammettiamo pure che il quadro così disegnato in poche
righe sia eccessivamente fosco e soprattutto unilaterale,
che tali tendenze preoccupanti siano ancora ai primi
passi. E ammettiamo anche che altri elementi – ad
esempio le risorse dell’innovazione tecnologica, o l’ancor più sorprendente irruzione di nuovi e grandissimi
Paesi e i loro attuali successi – compensino o frenino tali
tendenze. Ammettiamo infine che la nuova ampiezza
della base sociale che ha beneficiato di una precedente
accumulazione diffusa, o altrove spera di beneficiare di
un benessere finora negato, garantiscano quindi tuttora
il consenso o generino comunque un timore per mutamenti radicali ma non sicuri. Molte volte i comunisti
hanno compiuto l’errore di analisi catastrofiche, di cui
hanno pagato il prezzo.
Ciò non toglie che una svolta si è compiuta, più e prima
di quanto chiunque temesse o sperasse. Non solo in minoranze riottose o sofferenti, ma nel senso comune di
massa, in una intellettualità diffusa, perfino in alcuni
settori della classe dominante, il futuro del mondo e
della civiltà sembra promettere poco di rassicurante.
Non siamo nella temperie del Novecento, ma non si respira aria di Belle époque (che peraltro, sappiamo, non
finì affatto bene).
Non a caso dunque, in pochi anni sono apparsi sulla
scena movimenti di lotta sociale e di contestazione ideale, sorprendenti per estensione, durata, pluralità di soggetti e novità di tematiche. Movimenti dispersi e intermittenti, privi di un progetto unitario e di una organizzazione, movimenti perciò sociali e culturali più che
politici?
Certamente, perché nascono da situazioni e soggettività
le più diverse tra loro, e rifiutano organizzazione, ideologia, politica per come le hanno conosciute e soprattutto
per come si presentano oggi. E tuttavia comunicano incessantemente tra loro, riconoscono avversari comuni
cui danno nome e cognome, coltivano ideali e sperimentano pratiche che si contrappongono radicalmente all’ordine di cose esistenti, ai valori, alle istituzioni, ai poteri
che lo incarnano; su ogni terreno, il modo di produrre,
di consumare, di pensare, il rapporto tra le classi, tra i
sessi, i Paesi, le religioni. In certi momenti, e su certi
temi – come la guerra «preventiva» in Iraq – essi sono
riusciti a mobilitare una parte larga dell’opinione pubblica. In questo senso sono pienamente politici e pesano.
Possiamo perciò sentirci rassicurati? La «vecchia talpa» –
finalmente liberata dal peso di dottrine e da discipline
che potrebbero frenarla – ha ripreso a scavare e, nel
lungo periodo, ci farà trovare in un «mondo nuovo»?
Mi piacerebbe crederlo, ma ne dubito.
Anche qui i fatti parlano abbastanza chiaramente.
Da un lato occorre vedere in faccia, senza cupezza ma
senza infingimenti, come per ora evolve la situazione
reale. Non è lecito dire che volga gradualmente al meglio, né che la lezione delle cose stia producendo uno
spostamento generale dei rapporti di forza a favore della
sinistra. Per accennare a qualche riferimento concreto: il
matrimonio di convenienza tra l’economia asiatica e
quella americana ha permesso alla prima un sorprendente decollo e garantito alla seconda di assicurarsi profitti imperiali e continuare a consumare al di sopra dei
propri mezzi, ma nel contempo ha contribuito alla stagnazione europea, ed è difficile capirne le dinamiche più
di lungo periodo, costi ed esiti. La guerra anziché stabilizzare il Medio Oriente ha «incendiato la prateria».
L’unità europea, anziché progredire come forza autonoma, ha ripreso e accentuato la sua subalternità al modello economico anglosassone. E alla sua politica internazionale. In America Latina dopo molti anni sono al
governo di molti Paesi forze popolari e antimperialistiche, ma tra molte difficoltà, e nell’Asia centrale, come
nell’Est europeo si moltiplicano invece i clienti degli
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Stati Uniti. In Europa ha vinto Zapatero, e in Italia stentatamente una
larga coalizione di centro sinistra,
che presto è crollata perché molto
moderata ed eterogenea, in Germania i democristiani sono tornati alla
guida, in Francia la gauche intera è
in confusione, in Inghilterra il newlabour resiste sulla sua linea e probabilmente perderà a vantaggio dei
conservatori. I sindacati, dopo qualche segno di ripresa, si trovano
quasi ovunque inchiodati a una difensiva perenne, e le condizioni
reali dei lavoratori sono sotto la
pressione di questo quadro politico
e il ricatto della crisi economica e
dei deficit di bilancio.
Complessivamente, si può forse prevedere che dalla ammaccata politica
del tipo Bush si torni a una politica
più prudente di tipo Clinton: poco a
che fare con una vera svolta adeguata ai nuovi e pressanti problemi
del mondo. Nell’economia come
nella politica non c’è nessun newdeal in cammino, il riformismo è da
tutti invocato, in tutte le versioni, e
del tutto pallido e sfuggente. E tuttavia, quando ci riesce, è in questa
versione che resta al comando, per
necessità o per scelta.
Quanto alle forze che si oppongono
e contestano il sistema, anche qui si
può e si deve fare un bilancio veritiero. E non è per ora molto confortante. È certo importante che i
nuovi movimenti sociali restino in
scena, in certi casi si estendano a
nuove regioni o contribuiscano a
produrre qualche ricambio politico,
e comunque abbiano portato all’attenzione problemi decisivi e sempre
rimossi: l’acqua, il clima, la tutela
dell’identità culturale, le libertà civili
per le minoranze come immigrati e
gay. Sarebbe dunque sbagliato parlare di riflusso o di crisi. Ma lo è altrettanto parlare, come in un certo
momento si è fatto, di una «seconda
potenza mondiale» in atto o in via
di allestimento. Perché sulle grandi
battaglie in cui erano unitariamente
impegnati – la pace e il disarmo,
l’abolizione del Wto o del Fondo
Monetario, la Tobin Tax, l’energia al-
ternativa – i risultati sono stati irrilevanti e l’iniziativa è declinata. Il
pluralismo ha mostrato di essere
oltre che una risorsa anche un limite. L’organizzazione, ripensata fin
che si voglia, non può per troppo
tempo ridursi a internet o alla replica dei forum. Rifiuto della politica, il
potere dal basso, la rivoluzione
senza potere, anziché tappa di un
percorso, verità parziali cui non rinunciare, rischiano di trasformarsi
in una subcultura cristallizzata, in
una retorica ripetitiva che ostacola
una riflessione su se stessi e ogni definizione impegnativa delle priorità.
Infine e soprattutto, certo non per
colpa loro, ai nuovi movimenti si è
affiancato un altro tipo di opposizione radicale alla modernità capitalistica, quello animato dal fondamentalismo religioso o etnico, che nel
terrorismo trova la forma estrema,
ma coinvolge e influenza masse imponenti.
Se poi, tra le forze di opposizione,
vogliamo concentrare lo sguardo
sulle forze politiche organizzate dell’estrema sinistra che coraggiosamente hanno resistito al collasso del
dopo ‘89, si sono impegnate in tentativi di rinnovamento, hanno fiancheggiato nuovi movimenti e lotte
sindacali, il bilancio appare ancora
più magro. Dopo anni di lavoro, in
una società in ebollizione, queste
forze restano marginali, divise tra
loro e al loro interno, in termini
elettorali si collocano tra il 3 e il
10% e sono quindi costrette nel dilemma tra radicalismo minoritario o
intese elettorali di cui subiscono il
vincolo pesante.
Insomma, a voler essere sinceri, si
può dire – parafrasando alcuni classici del marxismo – che ci troviamo
di nuovo di fronte a una fase nella
quale «il vecchio mondo può produrre barbarie ma un mondo nuovo
non appare in grado di sostituirlo».
La ragione di questa impasse non è
difficile da vedere, anche se è molto
difficile da rimuovere. In estrema
sintesi la potrei definire nel modo
seguente.
Neoliberismo e unilateralismo, contro cui in questa fase si combatte
giustamente, sono l’espressione e
una delle varianti di qualcosa di più
profondo e permanente che è intervenuto nel sistema portando all’estremo la sua originaria vocazione. Dominio dell’economia su ogni
altra dimensione della vita individuale e collettiva; dominio nell’economia del mercato globalizzato, e
nel mercato delle grandi concentrazioni finanziarie sulla produzione e,
nella produzione, dei servizi rispetto
all’industria, e di beni immateriali
per consumi indotti rispetto ai bisogni reali; declino invece della politica, nella forma degli Stati nazionali,
sovrastati da compatibilità che la
travalicano, e insieme svuotata dalla
frammentazione e dalla manipolazione di quella volontà popolare che
doveva orientarla e sostenerla; infine unificazione del mondo ma nel
segno di una precisa gerarchia al cui
vertice permane una soverchiante
potenza. Un sistema dunque in apparenza decentrato, ma nel quale in
ultima analisi le scelte decisive sono
concentrate nelle mani dei pochi
che detengono decisivi monopoli: in
ordine crescente, quello tecnologico,
quello sulle comunicazioni, quello
finanziario, quello militare.
A reggere il tutto – come sempre
più di sempre – la proprietà nella
forma di capitale alla ricerca incessante e irrinunciabile del proprio accrescimento, processo che ha conquistato piena autonomia rispetto al
territorio in cui si colloca e a ogni
diversa finalità che lo vincoli; che
attraverso l’industria culturale può
direttamente conformare bisogni,
coscienze, stili di vita; che può selezionare il ceto politico e intellettuale; che può condizionare politica
estera, spese militari, indirizzi della
ricerca; che, infine ma non per ultimo, può anche rimodellare i rapporti di lavoro scegliendo il dove e
come reclutarlo e le forme più adatte a minarne il potere contrattuale.
La novità più rilevante in tutto ciò –
rispetto alle fasi precedenti – sta
dunque nel fatto che, anche nei
ANTICIPAZIONI
Sono diventato comunista perché credevo, come ho continuato poi a credere, a un
progetto di cambiamento radicale della società di cui occorreva sopportare i costi
momenti e per gli aspetti in cui entra in crisi o segna un
fallimento, il sistema riproduce comunque le proprie
basi di forza e di interdipendenza e riesce a destrutturare o ricattare i propri antagonisti. Evoca e insieme seppellisce il proprio becchino. Per contrastare e superare
tale sistema occorre sempre più definire un sistema a
sua volta coerente, la forza per imporlo, la capacità di
gestirlo, un blocco sociale che può sostenerlo, tappe e
alleanze adeguate all’ambizione.
Quanto più ci si può e ci si deve liberare dal mito di una
precipitazione catastrofica e della conquista del potere
statuale da parte di una minoranza giacobina che approfitta dell’occasione, tanto meno ci si può affidare a una
successione di rivolte disperse o di piccole riforme che
spontaneamente si compongono in una grande trasformazione.
Ecco perché a me pare che le cose stesse impongano a
una sinistra che oggi naviga in una grande confusione
una riflessione sulla «questione comunista».
Non uso a caso entrambe queste parole. Dico riflessione
– non recupero, né restauro – per sottolineare il fatto
che una fase storica si è conclusa, e la fase nuova impone una innovazione radicale di questa – come di ogni
altra – tradizione teorica o pratica (delle sue origini, dei
suoi sviluppi, dei suoi esiti). Dico comunista, perché mi
riferisco non solo o non tanto a testi variamente interpretati nei quali riscoprire verità offuscate ma permanenti, né nobili intenzioni da cui si è tralignato. Ma mi
riferisco specificamente e nel suo insieme a una esperienza storica che ha posto esplicitamente il tema di una
rivoluzione anticapitalistica, guidata dalla classe operaia
organizzata in un partito, ha raccolto intorno a tale impresa per decenni milioni e milioni di uomini, ha combattuto e vinto una guerra mondiale, ha governato
grandi Stati plasmandone la società e indirettamente influito sulle vicende del mondo e alla fine, certo non a
caso, è degenerata ed è stata duramente sconfitta. Nel
bene e nel male ha segnato quasi un intero secolo.
Farne un bilancio – quali che siano le convinzioni da cui
si parte o le conclusioni cui si arriva – ma con spirito di
verità, senza contraffazione dei fatti, senza giustificazioni
e senza separarlo dal contesto. Distinguere il grano dal
loglio: il contributo dato a decisivi e permanenti avanzamenti storici, e i costi tremendi che hanno comportato,
le verità teoriche intuite e gli abbagli del pensiero.
Distinguere le varie fasi di un’evoluzione e cercare in
ognuna non solo gli errori compiuti e i successivi elementi degenerativi, ma le loro cause soggettive e oggettive e anche le occasioni che si offrivano realmente per
imboccare strade diverse per raggiungere il fine perseguito. Insomma ricostruire il filo di una impresa titanica
e di un declino drammatico, senza esibire una neutralità
impossibile e senza sconti, ma cercando un’approssimazione alla verità.
Per affrontare questa agenda abbiamo tutti, oggi, lo straordinario privilegio di sapere come la vicenda si è conclusa, e altrettanto lo stimolo che nasce dalla consapevolezza di trovarci di nuovo in una crisi di civiltà. Usare
il presente per capire meglio il passato, e capire bene il
passato per orientarsi nel presente e nel futuro.
Se si evita questo tipo di riflessione, se si considera il
Novecento un cumulo di ceneri, se vi si espungono le
grandi rivoluzioni, le aspre lotte di classe, i grandi conflitti culturali che l’hanno attraversato, il socialismo e il
comunismo che lo hanno animato; o anche solo se si riduce il tutto a uno scontro tra «totalitarismi» e «democrazia» (senza distinguere diverse origini e diverse finalità dei «totalitarismi» e prescindendo dalla politica concreta della «democrazia») io credo che non solo si alteri
la storia ma vengano a mancare alla politica passioni e
argomenti per affrontare sia drammatici antichi problemi che oggi si ripresentano, sia i nuovi che emergono ed
esigono cambiamenti profondi e un discorso razionale.
Il tipo di ricerca che ho voluto preliminarmente proporre e propormi – tanto più le intenzioni che dovrebbero
orientarla – è tremendamente difficile. Perché il «secolo
breve» è un’epoca grande e complicata, attraversata da
drammatiche contraddizioni ciascuna delle quali rinvia
ad altre, reclama perciò una visione generale del contesto. Perché è ancora tanto vicino nella memoria collettiva da ostacolare il necessario distacco critico. Perché va
controcorrente rispetto a un senso comune oggi prevalente, che non solo considera quel capitolo chiuso, ma
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più in generale nega che la storia possa essere complessivamente e nel lungo periodo decifrabile, e quindi nega
l’utilità di collocarvi il presente e di apprestare categorie
interpretative adeguate a farlo. Infine, di conseguenza,
perché, per contrastare questo senso comune, occorrerebbe più che non in altri momenti una rottura della
continuità, essere capaci di far emergere già in partenza
dalla lettura critica del passato i primi abbozzi di un’analisi calzante del presente e un progetto di azione futura
(questo fu il punto di forza del marxismo, anche negli
aspetti che presto si rivelarono caduchi).
Ora, so benissimo di non avere affatto il tempo di vita, le
competenze, le risorse di intelligenza per portare a una
impresa di questa portata un aiuto importante. Ma sento
la responsabilità, non solo individuale ma per una intera
generazione, di contribuirvi con quel poco di cui dispone.
Il primo passo per me può essere un lavoro di ricostruzione e di indagine su alcuni nodi cruciali della storia
del comunismo italiano, cui questo saggio sarà appunto
dedicato.
La scelta non ha motivazione autobiografica, e non è
provincialmente restrittiva.
Al contrario, infatti, proprio in questa scelta – circoscritta
per poter parlare di un oggetto concreto – è implicita
una ipotesi di lavoro che già va controcorrente, che costringe e forse alla fine permette qualche conclusione
generale. Mi spiego.
Oggi prevalgono due letture diverse del comunismo italiano, opposte tra loro e ciascuna con finalità molteplici
e mosse da diversi versanti. La prima lettura sostiene, in
forma più o meno grezza, che il Pci, almeno dalla fine
della guerra, è sempre stato, nella sostanza, un partito
socialdemocratico, pur senza volerlo dire e forse senza
neppure saperlo; la sua storia è stata una lunga marcia,
troppo lenta ma costante di autoriconoscimento; quel ritardo gli è costata la lunga esclusione dal governo del
Paese, ma quella identità sostanziale gli ha assicurato la
forza e poi garantito la sopravvivenza malgrado la crisi.
La seconda sostiene che malgrado la Resistenza, la Costituzione repubblicana, il ruolo avuto nell’ampliamento
della democrazia, malgrado alcune prove di autonomia e
l’ostilità a ogni ipotesi insurrezionale, in ultima istanza il
Pci era una articolazione della politica sovietica e portava in cuore la prospettiva di quel modello: solo verso la
fine ha dovuto arrendersi a cambiare identità.
Io credo invece che entrambe queste letture siano non
solo contraddette da troppi fatti, ma cancellino ciò che di
più originale e interessante c’è stato in quella vicenda.
La tesi che vorrei sostenere e verificare in concreto è invece che il Pci ha rappresentato – in modo intermittente e
senza svilupparlo pienamente – un tentativo – il più serio
in una certa fase storica – di aprire la strada a una «terza
via»: di coniugare cioè riforme parziali, ricerca di ampie
alleanze sociali e politiche, uso convinto della democrazia
parlamentare, con aspre lotte sociali, con una esplicita e
condivisa critica della società capitalistica; di costruire un
partito fortemente coeso, militante, ricco di quadri ideologicamente formati, ma di massa; di ribadire la propria appartenenza a un campo rivoluzionario mondiale subendone i vincoli ma conquistando una relativa autonomia.
Non si trattava di una semplice doppiezza: l’idea strategica
unificante era che il consolidamento e la evoluzione del
«socialismo reale» non costituiva un modello che un giorno sarebbe stato possibile applicare anche in Occidente,
ma il retroterra necessario per realizzare in Occidente, e
nel rispetto delle libertà, un altro tipo di socialismo.
È questo tentativo che serve a spiegare la crescita della
sua forza in Italia – che continuò anche dopo la modernizzazione capitalistica – e della sua influenza internazionale anche dopo i primi e vistosi segni di crisi del «socialismo reale». Ma, reciprocamente, il suo successivo
declino e il finale dissolvimento in una forza liberal-democratica più che socialdemocratica, obbligano a spiegare come e quando quel tentativo sia fallito. Permettono
cioè di individuare le ragioni oggettive e soggettive di
una parabola e anche di chiedersi se, come e quando si
sono offerte strade migliori per correggerla.
ANTICIPAZIONI
Se questo è vero, e si riuscisse a dimostrarlo concretamente, allora la storia
del comunismo italiano potrebbe non essere solo la storia di un partito, ma
potrebbe dirci qualcosa di importante sulla vicenda complessiva sia dell’Italia
repubblicana sia del movimento comunista in generale, valutarla nella versione migliore e cogliere a fondo i limiti invalicati.
(Forse lo stesso interesse, in un contesto del tutto diverso, e per chi ne fosse
capace, potrebbe avere l’altrettanto specialissima vicenda cinese, oggi tanto
ammirata per i suoi successi economici, ma del tutto inspiegata nel suo passato e indecifrabile nel suo futuro).
La seconda ragione in base alla quale concentro l’attenzione sul comunismo
italiano è meno importante ma non trascurabile.
Sulla storia dei comunisti, italiani compresi, molti storici hanno lavorato:
con molta serietà e ricchezza di informazione riguardo al periodo tra la rivoluzione russa e il secondo dopoguerra, in modo più episodico e pieno di lacune e di pregiudizi per quello successivo, fino a oggi.
Nell’un caso e nell’altro, comunque, un bilancio complessivo e un giudizio
equilibrato restano carenti. Colpiscono non tanto le controversie, più che
giustificate, quanto la divaricazione tra la accurata esplorazione della documentazione disponibile, e la pamphlettistica faziosa.
Non c’è da stupirsene, ovviamente, perché nel loro lavoro, sia in passato che
di recente, hanno pesato prima un clima di scontro politico aspro, poi l’improvviso e inatteso crollo: l’uno o l’altro suggerivano ad alcuni la sobrietà
dello specialista, o permettevano ad altri comode semplificazioni.
Ma al di là di tutto ciò, un ostacolo si oppone alla ricerca e alla riflessione
anche dello storico più scrupoloso e più acuto: la limitatezza e la difficile interpretazione delle fonti.
I partiti comunisti infatti – per ideologia, forma organizzativa, e per le condizioni in cui si trovavano a operare – sono stati assai poco trasparenti. Il dibattito sui temi fondamentali si concentrava in sedi molto ristrette e spesso
informali, i cui membri erano vincolati alla riservatezza e anche tra loro si
esprimevano in termini cauti, compatibili con la preoccupazione unitaria. Le
scelte politiche tenevano in serio conto gli orientamenti dei militanti e gli
stimoli di un dibattito spesso vivace e partecipato ma erano da tutti infine
accettate e difese sia pure con diverse sfumature. La selezione dei gruppi dirigenti valutava le capacità realmente dimostrate, ma poi avveniva con la
cooptazione dall’alto, in cui pesava anche il metro della fedeltà. In certi
Paesi e in certi momenti la comunicazione esterna o verso la propria stessa
base non esitava a censurare i fatti né a fornire spiegazioni molto sommarie
sulla politica adottata, perché dominava l’obiettivo di consolidare la mobilitazione e il consenso seppure a danno della verità. Ma anche quando e laddove, come in Italia, a partire dagli anni ‘60, crescevano gli spazi di tolleranza per qualche dissenso, ad esempio nei Comitati centrali, esso veniva
espresso con un linguaggio prudente e in parte cifrato. Il lavoro di archiviazione, per tutti i livelli, era molto accurato, ma anche molto sobrio e spesso,
volutamente o per dovere d’ufficio, autocensurato.
Negli stessi momenti di «svolta» il principio sempre vigente è stato quello
del «rinnovamento nella continuità». Chi invece veniva allontanato, o si allontanava dal partito – essendo il partito, per scelta propria e per imposizione dell’avversario, una comunità di vita – pativa un isolamento umano pesante che alimentava a lungo una reciproca faziosità.
Non basta dunque una lettura seria dei giornali e dei documenti dell’epoca;
qualche intervista postuma né l’accesso agli archivi finalmente aperti per ricostruire la storia reale, senza equivoci e senza censure.
Occorre dunque anche la mediazione della memoria di chi ha partecipato
come protagonista, o come osservatore direttamente informato, e può dire
qualcosa di più su ciò che i documenti tacciono o interpretarne oltre la lette-
ra il significato e il peso di ciò che
dicono. Pensiamo, per fare un esempio estremo, quanta luce avrebbe
potuto portare, alla storia dell’ultimo quindicennio dell’Unione Sovietica, un autentico resoconto dei fatti
e delle discussioni, e un giudizio
meditato da parte di Gorbaciov,
quando ormai aveva tutte le condizioni per farlo (altro che i documenti di Mitrokin su banali e scontatissimi finanziamenti al Pci, o le testimonianze che attribuiscono a
Togliatti la volontà di far scomparire
anziché salvare i quaderni di Gramsci sottraendoli alle mani del Kgb).
Sappiamo tutti però quante insidie
comporta la memoria individuale:
perché declina con l’età, o perché
aver condiviso responsabilità rilevanti o aver subìto un torto immeritato può renderla selettiva o tendenziosa. Anziché parlare della storia
che la nostra vita ci consente di conoscere per avvicinarsi alla realtà, è
facile rileggere questa storia con gli
occhiali del proprio vissuto. Niente
di male certo. Anzi, quando è fatto e
dichiarato onestamente, anche questo uso della memoria può essere di
grande aiuto. Proust, Tolstoj, Mann
o Roth hanno contribuito alla comprensione della storia della loro
epoca più acutamente degli storici
loro contemporanei.
Io ho però parlato di «mediazione
della memoria» in senso diverso.
Per scelta e per necessità. Il mio vissuto non lo trovo molto interessante
e se lo fosse non avrei la capacità di
comunicarlo. La mia incidenza nella
politica è stata inoltre limitata, si è
concentrata in precisi e rari momenti, si è esercitata più attraverso alcune idee, spesso troppo in anticipo
ma ricorrenti, che in azioni dall’esito felice. Ciò di cui sento il bisogno
e l’utilità è dunque una memoria disciplinata con qualche verifica documentata dai fatti, con il confronto di
memorie diverse, il più possibile oggettivizzata, come si trattasse della
vita di un altro, per avvicinarsi a
una interpretazione plausibile di ciò
che realmente è accaduto o poteva
accadere. L’autobiografia la vorrei
23
24
far intervenire solo se strettamente
necessaria.
Da questo punto di vista credo di
avere una condizione di vantaggio.
Sono infatti diventato comunista,
per ragioni di età, quando la temperie del fascismo e delle Resistenza si
era chiusa da un decennio, anzi
dopo il XX congresso del Pcus e i
fatti d’Ungheria, e dopo aver letto
oltre a Marx, Lenin e Gramsci,
anche Trotzky e il marxismo occidentale eterodosso. Non posso dunque dire: l’ho fatto per combattere
meglio il fascismo, oppure dello stalinismo e delle «purghe» non sapevo nulla. Ci sono entrato perché
credevo, come ho continuato poi a
credere, a un progetto di cambiamento radicale della società di cui
occorreva sopportare i costi. Devo
quindi spiegare anzitutto a me stesso se avevo ragione di farlo.
Ho militato in quel partito, in ruoli
modesti, ma casualmente e forse per
qualche merito, in diretto rapporto
con il gruppo dirigente, durante
quindici anni di un dibattito vivace
e di esperienze importanti, cui ho
partecipato con posizioni di minoranza ma con qualche influenza, e
con piena conoscenza di ciò che vi
accadeva. Anni decisivi, sui quali si
sa ancora troppo poco, o troppo è
rimosso e posso invece aggiungere
qualcosa.
Sono stato radiato dal partito nel
1970, con altri compagni, perché
avevamo dato vita a una rivista, il
manifesto, considerata inammissibile
perché di per sé incrinava il centralismo democratico, e perché esplicitamente sollecitava una più netta
critica del modello e della politica
sovietica, infine perché chiedeva di
ripensare la strategia del partito accettando suggerimenti dei nuovi
movimenti operai e studenteschi.
Nessuno quindi può sospettarmi di
aver taciuto né di coltivare vecchie
ortodossie. Ma a mia volta sono obbligato a chiedermi perché, per quali
errori e limiti, tante buone ragioni a
analisi spesso lungimiranti siano rimaste isolate e abbiano mancato
l’obiettivo.
Sono tornato con numerosi compagni nel Pci all’inizio degli anni 80,
consapevole dei limiti di un estremismo sul quale ci eravamo illusi, ma
non da pentito, perché la svolta dell’ultimo Berlinguer sembrava comporre molti dei contrasti che ci avevano divisi.
Trovandomi questa volta nella direzione del partito conservo conoscenza diretta del processo che ha prima
limitato, poi svuotato quella svolta,
mostrandone anche il ritardo e i limiti. Un periodo sul quale la reticenza è tuttora grande, e la autocritica smodata non trova contrasto.
Ho partecipato, questa volta in
prima fila, alla battaglia contro la
scelta di sciogliere il Pci, non perché
troppo innovatrice, ma perché innovava in modo e direzione sbagliata,
liquidava cioè senza discernimento
una ricca identità, apriva la strada
non solo a una socialdemocrazia a
sua volta già in crisi, ma a una forza
liberaldemocratica e moderata, mandava a casa un esercito non ancora
allo sbando, suppliva con velleitario
«nuovismo» a un vuoto di elaborazione. Dopo tutto ciò che è seguito,
resto tra i pochi a credere che quell’operazione era del tutto infondata,
ma sono tanto più costretto a chiedermi perché ha prevalso.
Ho partecipato infine, con qualche
dubbio, alla costruzione di Rifondazione comunista perché temevo che
mancassero le idee, la volontà e la
forza per prendere sul serio quel
nome: temevo cioè una deriva massimalista e poi un accomodamento
politicistico. Me ne sono allontanato, perché a quel progetto continuo
a credere, ma non riconosco in
quella organizzazione, come nella
diaspora della sinistra radicale, sufficiente determinazione e capacità di
portarlo avanti. Di questa più recente tormentata vicenda quasi nessuno sa o capisce molto, e anche solo
parlarne onestamente può perciò essere utile.
Sono così un particolare archivio vivente e in soffitta.
Per una persona ormai anziana
l’isolamento è dignitoso, ma per un
comunista è il peccato più grave, di
cui rendere conto e rendersi ragione. L’«ultimo dei mohicani» può essere un mito, il comunista solo, e
arrabbiato, rischia il ridicolo se non
si tira da parte.
Ma se il peccato (perdonate questa
ironica concessione alla moda e alla
convenienza che oggi spinge tanti
all’improvvisa ricerca di Dio) apre la
via del Signore, proprio l’isolamento
potrebbe aiutare nel lavoro cui mi
accingo, permettere un utile distacco. Non posso affermare «io non
c’ero», non sapevo; qualcosa anzi
l’ho detta quand’era scomodo, ho
perciò la libertà di difendere ciò che
non va ripudiato, e di chiedermi ciò
che si poteva fare o si potrebbe ancora fare al di là del bric e brac della
politica di ogni giorno.
Non è vero che la storia passata, dei
comunisti e di tutti, era già tutta
predeterminata, così come non è
vero che il futuro è tutto in mano ai
giovani che verranno. La «vecchia
talpa» ha scavato e continua a scavare, ma, essendo cieca, non sa
bene da dove viene e dove va, o se
gira in circolo. Chi non vuole o non
può affidarsi alla Provvidenza deve
pur fare ciò che può per capirlo e
così aiutarla. ECONOMIA E LAVORO
conflitto e sindacato
nella proposta di Confindustria
una analisi degli obiettivi strategici
del padronato italiano
R OBERTO C ROCE *
Non bisogna
sorprendersi più di tanto
se Confindustria, forte
dei mutati equilibri
politici e con l’arroganza
di chi pensa che ormai
tutto le sia possibile,
abbia rilanciato e portato
alle estreme (ma logiche)
conseguenze i principi
contenuti nella proposta
confederale, producendo
un documento che spazza
via la timida piattaforma
sindacale
* GIUSLAVORISTA
È
un quadro a tinte sempre più fosche quello che ci consegnano gli ultimi atti della politica sindacale italiana. Meno spazio alla contrattazione nazionale, che viene spogliata definitivamente dal compito di
strappare aumenti salariali superiori all’inflazione, e centralità della contrattazione decentrata, dove il salario diventa variabile della remunerazione del
capitale.
Erano questi, in estrema sintesi, i contenuti della proposta intitolata «Linee
di riforma della struttura della contrattazione» avanzata da Cgil, Cisl e Uil a
Confindustria, nell’ambito del confronto sul nuovo sistema di relazioni sindacali che dovrebbe sostituire quello introdotto dal Patto del luglio del 1993.
Viste le premesse, non bisogna sorprendersi più di tanto se Confindustria,
forte dei mutati equilibri politici e con l’arroganza di chi pensa che ormai
tutto le sia possibile, abbia rilanciato e portato alle estreme (ma logiche)
conseguenze i principi contenuti nella proposta confederale, producendo un
documento che spazza via la timida piattaforma sindacale.
L’analisi della proposta confindustriale del 12 settembre 2008 contenuta nel
documento intitolato «Ipotesi di accordo fra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil
sulle relazioni industriali per il rilancio della crescita del Paese attraverso la
maggiore produttività, per il miglioramento della competitività delle imprese
e delle retribuzioni dei lavoratori e per lo sviluppo dell’occupazione» è utile
perché consente di individuare, con nettezza, gli obiettivi strategici che il
padronato italiano si è dato in questa fase e che possono così essere sintetizzati: 1) realizzare la totale subalternità dei diritti (sindacali, economici e normativi) dei lavoratori alle esigenze dell’impresa; 2) criminalizzare il conflitto
capitale/lavoro, invischiando il sindacato in sistemi neocorporativi di cogestione delle relazioni industriali; 3) polverizzare, attraverso la centralità della
contrattazione di secondo livello, il principio costituzionale di «sufficienza»
della retribuzione (art. 36 Cost.) e, per questa via, impedire il miglioramento
generalizzato e uniforme delle condizioni economiche e normative della
classe lavoratrice, producendo una gravissima lesione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
2. Il primo obiettivo è esplicitato fin dalla «Premessa» della proposta confindustriale. In essa si legge che «le parti riconoscono che la contrattazione collettiva, nelle diverse sedi, è lo strumento principale per adattare alle esigenze
di maggiore competitività i principali istituti che regolano la prestazione lavorativa».
Ed ancora, sempre nella «Premessa», si precisa che la contrattazione collettiva «non deve essere esercitata come strumento di vincolo all’iniziativa economica».
Il contratto collettivo, dunque, abdicando alla sua funzione storica, cessa di
essere uno strumento di progresso e di miglioramento generalizzato delle
condizioni materiali (sia economiche che normative) dei lavoratori, per tra-
25
26
sformarsi in un congegno giuridico
finalizzato a imbrigliare e a sottomettere alla legge del Capitale sia
lavoratori che sindacato.
La disciplina dei «principali istituti»
del contratto collettivo, sia quelli
che attengono alle relazioni sindacali (diritti di informazione, concertazione e contrattazione) sia quelli
che regolano la parte economica (es.
scatti di anzianità, 14 mensilità) e
normativa (orario di lavoro, forme
di lavoro flessibile ecc.) del contratto
di lavoro, non potrà più essere
oggetto di una libera negoziazione,
fondata sui «rapporti di forza» tra le
parti, ma subirà il costante condizionamento «esterno» delle «esigenze
di maggiore competitività» delle
imprese, sul cui altare saranno
costantemente sacrificati gli interessi
dei lavoratori.
La proposta confindustriale, dunque, rischia di cancellare la capacità
del sindacato di svolgere, attraverso
quel fondamentale elemento di solidarietà tra tutti i lavoratori che è il
contratto collettivo nazionale, la sua
storica funzione di riunificazione del
lavoro e di realizzazione di avanzamenti significativi delle condizioni di
vita dell’intera classe lavoratrice.
In coerenza con questo impianto
non c’è da sorprendersi se la principale funzione del contratto collettivo nazionale rimane quella, invero
limitata e notarile, di determinare
«l’aumento dei minimi tabellari in
coerenza con l’indicatore della dinamica inflattiva» (paragrafo 2.1),
secondo un complesso procedimento di salvaguardia del potere d’acquisto (basato sul concetto di
«importo medio di aumento dei
minimi tabellari» che viene determinato «applicando l’indice previsionale a un valore retributivo medio
assunto quale base di computo»)
che dovrebbe sostituire l’insufficiente parametro dell’inflazione programmata introdotto dopo l’abolizione della scala mobile.
3. Il secondo obiettivo è strettamente collegato al primo. È, infatti, evidente che
dalla totale sottomissione degli interessi
dei lavoratori alle esigenze dell’impresa
deriva la messa al bando del conflitto
capitale/lavoro.
Nel paragrafo 2.5 della proposta
confindustriale si legge che durante
la fase di rinnovo del contratto collettivo nazionale «le parti non assumeranno iniziative unilaterali né procederanno ad azioni dirette».
Il che equivale alla «neutralizzazione» dello sciopero e di tutte le altre
forme storiche di autotutela e di
lotta sindacale (sciopero bianco,
occupazione di fabbrica, blocco delle
merci, rallentamento concertato
della produzione ecc.).
Ma il documento confindustriale
non si ferma qui. Si spinge anche
oltre: il conflitto non solo è messo al
bando, ma addirittura «criminalizzato», attraverso un complesso sistema di sanzioni private in funzione
di «polizia economica» e di salvaguardia dell’ordinato svolgimento
dell’attività d’impresa.
Non a caso, sempre il paragrafo 2.5
prevede che «ogni azione da chiunque attuata in violazione della tregua sindacale sopra definita, si configura come inadempimento ai sensi
dell’art. 1453 cod. civ. legittimando
la parte che l’ha subita a chiedere
l’immediata revoca o sospensione
dell’azione e comunque il pagamento
di una penale».
E non basta: sempre la violazione
della tregua sindacale comporta a
carico dei lavoratori «lo slittamento di
tre mesi del termine a partire dal
quale decorre l’indennità di vacanza
contrattuale».
Se poi il conflitto dovesse sorgere in
fase di rinnovo di un contratto collettivo di secondo livello (aziendale
o territoriale), il paragrafo 3.6 della
proposta confindustriale giunge persino a estendere a carico dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali
l’apparato sanzionatorio previsto
dall’art. 4, comma 2, della legge n.
146/1990 in tema di sciopero nei
servizi pubblici essenziali, ossia:
sospensione dei permessi sindacali
retribuiti e dei contributi sindacali
ed esclusione dalle trattative del sindacato «ribelle».
L’eutanasia del conflitto è (apparentemente) «compensata» dall’instaurazione di una complessa rete di
«organismi paritetici», il cui unico
fine è quello di invischiare il sindacato, in posizione ovviamente di
subalternità, in un sistema di gestione neocorporativa dei principali
aspetti delle relazioni industriali.
Architravi di siffatto sistema neocorporativo sono il «Comitato paritetico Confindustria – Cgil, Cisl e Uil»
disciplinato dal paragrafo 6 e i
«Fondi per la gestione paritetica di
servizi» previsti dal paragrafo 2.3.
Al Comitato paritetico è assegnato il
compito di cogestire, nel rispetto
della scala di priorità imposte dal
padronato, «l’andamento dei principali aspetti delle relazioni industriali
quali, ad esempio, il costo del lavoro, la dinamica della produttività del
lavoro, i tassi di occupazione e la
gestione delle risorse umane con
particolare riferimento ai regimi di
impiego, al collocamento, alla mobilità, alla cassa integrazione, alle pari
opportunità ecc.».
Quello che si delinea, dunque, è un
modello di relazioni industriali nel
quale al sindacato viene ritagliato
un ruolo aconflittuale di mera collaborazione, in funzione della salvaguardia dei dogmi di maggiore produttività e competitività delle imprese da perseguire attraverso dosi
sempre più massicce di flessibilità
del lavoro. Una forma di cogestione
che, ben lungi dall’essere accompagnata da ampliamenti effettivi del
potere decisionale, nasconde una
radicale sottomissione del lavoro
alla dittatura del mercato e della
competizione.
Messo al bando il conflitto, il sindacato diventa così – secondo la filosofia da sempre cara alla Cisl – una
organizzazione burocratica di servizi, destinata a sopravvivere attraverso quote di servizio obbligatorie che
renderanno via via ininfluenti quelle associative, fondate su una adesione politica volontaria.
Non a caso il paragrafo 2.3 della
proposta confindustriale attribuisce
ai contratti collettivi nazionali di
ECONOMIA E LAVORO
Quello che si delinea, dunque, è un
modello di relazioni industriali, nel quale
al sindacato viene ritagliato un ruolo
aconflittuale di mera collaborazione, in
funzione della salvaguardia dei dogmi di
maggiore produttività e competitività
delle imprese
categoria la competenza in materia di «sviluppo di fondi
per la gestione in forma paritetica di servizi a favore dei
lavoratori in materia, ad esempio, di collocamento,
ammortizzatori sociali, formazione continua, sanità integrativa, salute e sicurezza nel lavoro, certificazione dei
contratti».
Con effetti anche paradossali e al limite del conflitto di
interessi. Ad esempio: mentre, a livello confederale,
quale componente del Comitato Paritetico, il sindacato è
chiamato alla cogestione dei regimi di cassa integrazione
e di mobilità, contestualmente, a livello federale, quale
membro dei Fondi di Gestione Paritetica, è tenuto a
organizzare e a offrire, dietro il pagamento delle relative
quote, i servizi concernenti l’utilizzo dei predetti
ammortizzatori sociali.
Dunque: criminalizzazione del conflitto, da un lato, e
forme di cogestione neocorporativa, dall’altro. Di fronte
a un tale quadro è difficile non rinviare a quel luogo di
«Americanismo e Fordismo» nel quale Antonio Gramsci
invitava a non «trascurare il fatto che l’indirizzo corporativo non ha avuto origine delle esigenze di un rivolgimento delle condizioni tecniche dell’industria e neanche
da quelle di una nuova politica economica, ma piuttosto
dalle esigenze di una polizia economica, esigenze aggravate dalla crisi del 1929 e ancora in corso» (2155-2156).
In questo contesto, ovviamente, il senso della centralità
democratica della lotta sindacale e del conflitto capitale/lavoro si smarrisce e con esso rischia di perdersi definitivamente la libertà dei «produttori» di agire e di non
ridursi a mera variabile dipendente della crescita economica delle imprese.
4. Il terzo obiettivo – ossia la cancellazione del principio
costituzionale (art. 36 Cost.) di «sufficienza» della retribuzione – è perseguito attraverso il potenziamento della
contrattazione decentrata di secondo livello (aziendale o
territoriale) e, in tale ambito, attraverso la riduzione del
salario a mera variabile della remunerazione del capitale.
In ciò la proposta confindustriale si pone sul medesimo
solco tracciato dai recenti interventi legislativi in tema di
detassazione degli straordinari e dei premi aziendali. E
ciò a conferma, ove ve ne sia bisogno, del definitivo
consolidamento – processo al quale non sono estranei
alcuni spezzoni del sindacato (Cisl in testa) – del legame
tra un preciso blocco sociale che fa capo agli industriali e
il governo di centro destra.
Il paragrafo 3.1 prevede espressamente che «le parti,
con il presente accordo interconfederale confermano
l’opportunità che vengano incrementate e rese strutturali le
scelte operate col Protocollo sul Welfare del 23 luglio
2007, attuate con il D.m. 7 maggio 2008 e gli interventi
normativi di cui all’art. 2 del decreto legge 27 maggio
2008 n. 93, convertito in legge n. 126 del 2008, volti a
incentivare la contrattazione di secondo livello che colleghi aumenti salariali al raggiungimento di obiettivi di
produttività, redditività, crescita ecc.».
Trattasi di interventi accomunati dalla finalità di tutelare, attraverso un aumento di quello che Marx definiva
«il saggio del plusvalore assoluto», la cronica incapacità
del padronato italiano di «rivoluzionare da cima a fondo
i processi tecnici del lavoro», di investire e di introdurre
innovazioni sia di processo che di prodotto.
Nel paragrafo 3.1 della proposta confindustriale si precisa, infatti, che «la maggiore diffusione della contrattazione di secondo livello» non nasce da una esigenza di
allargamento degli spazi di agibilità democratica e di
confronto sindacale, bensì dalla necessità del padronato
di «rilanciare la crescita della produttività e quindi delle
retribuzioni reali dei lavoratori, permettendo alle imprese di rispondere con tempestività alle mutevoli esigenze
dei mercati anche attraverso una migliore organizzazione del lavoro».
La ricetta confindustriale, in sintesi, è la seguente: gli
aumenti retributivi sono eventuali e «non determinabili
a priori» (cfr. paragrafo 3.3), passano per massicce dosi
(certe) di flessibilità e per profondi processi di riorganizzazione del lavoro e, infine, sono (sempre) subordinati
al perseguimento del risultato della maggiore remunerazione del capitale.
Il paragrafo 3.1 della proposta confindustriale, sul
punto, è fin troppo esplicito: «il conseguimento di retribuzioni più elevate sarà reso possibile solo dal collegamento con livelli di maggiore efficienza e con la redditività, produttività e competitività dell’impresa»; non
27
28
meno chiaro è il paragrafo 3.3. nel quale si precisa che
«la contrattazione aziendale con contenuti economici è
consentita per l’istituzione di un premio variabile calcolato solo con riferimento ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati fra le parti, aventi
come obiettivo incrementi di produttività, di qualità, di
redditività, di efficacia e, di innovazione, di efficienza
organizzativa ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività aziendale nonché ai risultati
legali all’andamento economico dell’impresa».
L’obiettivo di collegare, in sede di contrattazione di
secondo livello, «il salario al merito» costituisce un ulteriore profilo di beffa della proposta confindustriale fin
qui analizzata.
Innanzitutto perché, come i più recenti studi hanno
dimostrato (cfr. lo studio dell’Ires Cgil intitolato «Salari
in Difficoltà»), se è vero che la crescita della produttività
nel nostro Paese è più lenta che nel resto di Europa, è
anche vero che la causa principale di questa mancata
crescita deriva non già dalla scarsa produttività del lavoro, ma da quella capitale, che non sa né vuole introdurre innovazioni sia di prodotto che di processo.
In secondo luogo perché, così facendo si finisce col trasferire in capo ai lavoratori anche il cosiddetto «rischio
di impresa», ossia le conseguenze negative di scelte
organizzative e gestionali alle quali sono per definizione
estranei.
Una simile scelta si pone in palese contrasto con l’art. 36
della nostra Costituzione, per il quale, non a caso, non
basta che la retribuzione sia «proporzionata» alla quantità e qualità del lavoro prestato, dovendo la stessa «in
ogni caso» essere sufficiente ad assicurare al lavoratore e
alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.
In terzo luogo perché la centralità della contrattazione di
secondo livello finisce col determinare un mutamento
«ontologico» della funzione stessa del sindacato, che
rinuncia a mettere al centro della propria iniziativa la
promozione di aumenti salariali generalizzati e accetta di
rendere la retribuzione una variabile dell’andamento
dell’impresa, da negoziare, secondo un andamento «a
macchia di leopardo», esclusivamente laddove i rapporti
di forza lo permettono, ossia nelle imprese più grandi,
più sindacalizzate e più forti economicamente.
In questo quadro, dunque, il problema non è la contrattazione collettiva di primo livello – che anzi va tenuta
ferma e rinnovata con meno ritardi per non indebolire il
potere di acquisto dei salari e per garantire uniformità di
trattamenti – bensì il declino tecnologico di un sistema
gestito da imprese miopi e inadeguate.
Da ciò la necessità di intervenire quantomeno in due
direzioni: «a monte» arginando le cause (concorrenziali)
che determinano precarietà e bassi salari, prime fra tutte
le varie forme di lavoro flessibile introdotte dalla legge
30; e «a valle» introducendo meccanismi di salvaguardia
del potere di acquisto dei salari (una nuova scala mobile) e, al contempo, operando una ridistribuzione più
equa della ricchezza prodotta attraverso un utilizzo della
leva fiscale orientata sulla tassazione delle rendite e dei
profitti.
All’opposto di quanto delineato dalla proposta confindustriale, la realizzazione di tali obiettivi implica, oltre
all’esistenza di una forte sinistra politica antagonista, la
permanenza nell’attuale sistema di relazioni industriali
di un sindacato di classe (e non di servizi), che ponga il
conflitto (e non la cogestione) come ragione unica ed
esclusiva della propria azione e che persegua obiettivi di
miglioramento generalizzato e uniforme delle condizioni
economiche e normative della classe lavoratrice. ISTITUZIONI
legge elettorale, federalismo,
presidenzialismo
ne discutiamo con Gianni Ferrara*
I
N VISTA DELLE PROSSIME ELEZIONI EUROPEE, TORNA DI ATTUALITÀ IL TENTATIVO DI
D IEGO L A S ALA **
RIFORMARE LA LEGGE ELETTORALE1.
SI
PARLA DI ALZARE LA SOGLIA DI SBARRAMEN-
TO, NEL TENTATIVO NON TROPPO VELATO DI AZZERARE LE
«ALI»
DELLO SCHIERAMENTO
POLITICO ED ESCLUDERE LE FORZE DELLA SINISTRA DA QUALSIASI RAPPRESENTANZA.
A
COSA PUÒ PORTARE QUESTA PROSECUZIONE FORZATA DI UNA TENDENZA BIPOLARE, CON-
è dal 1993, dal
referendum SegniBarbera, che la
democrazia italiana viene
colpita con rigorosa
coerenza da questo
pertinace disegno
criminoso. Riuscire a
bloccarlo dovrebbe essere
il compito primario dei
democratici di ogni
tendenza
* ORDINARIO DI DIRITTO COSTITUZIONALE PRESSO
L’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA
** SEGRETERIA PRC – PISTOIA
SIDERANDO ANCHE L’ESITO DI QUINDICI ANNI DI TENTATIVI DI QUESTA NATURA?
Il centro-destra con la riforma della legge elettorale europea mira: 1) a trafugare il diritto della sinistra italiana a essere rappresentata nell’unica istituzione europea a carattere democratico, qual è il Parlamento; 2) a neutralizzare fin da ora e a disperdere per il futuro i voti che potrebbero aggregarsi in
una formazione idonea a contribuire a una sua futura sconfitta; 3) a delegittimare definitivamente la rappresentanza politica, cioè l’ineliminabile strumento della democrazia, aggiungendo agli elettori ed alle elettrici che già si
astengono nelle elezioni europee per la scarsità dei poteri di cui dispone il
Parlamento, quegli altri elettori e quelle altre elettrici che, in assenza di candidati credibili come rappresentanti dei loro bisogni e dei loro ideali, diserterebbero le urne.
Si tratta, com’è evidente, di tre obiettivi perversi, perché compressivi del
pluralismo politico, riduttivi della libertà e dell’eguaglianza dei cittadini nei
loro diritti politici, costituzionalmente eversivi. È dal 1993, dal referendum
Segni-Barbera, che la democrazia italiana viene colpita con rigorosa coerenza da questo pertinace disegno criminoso. Riuscire a bloccarlo dovrebbe essere il compito primario dei democratici di ogni tendenza. A me pare invece
che, delle forze politiche in campo, solo Rifondazione comunista in questi
quindici anni ne ha avuto piena coscienza, anche da ultimo, battendosi per
riformare le leggi elettorali vigenti per la Camera e il Senato. Ma per evidente insipienza non è stata sostenuta in questa lotta da tutte le componenti
dell’Arcobaleno, anzi. Le conseguenze inesorabili che ne sono derivate sono
catastrofiche. Sul piano politico: per la prima volta dai tempi di Andrea
Costa, la sinistra è stata esclusa dal Parlamento. Sul piano istituzionale: la
rappresentanza politica risulta mistificata. Mistificata perché si è eletti deputati o senatori a seconda della collocazione in lista dei candidati, collocazione
decisa dal leader di ciascun partito o coalizione. Gli eletti lo sono perché scelti sostanzialmente dal leader. Rappresenteranno non il corpo elettorale, ridotto a un compito ausiliare, ma il … leader. Se questo leader diventa premier
l’eletto deriva la sua posizione dalla decisione del premier. Il rovesciamento
della rappresentanza nel suo opposto è totale. Lo è anche della democrazia
trasformata in monocrazia.
I
L
GOVERNO BERLUSCONI
VUOLE INSISTERE SULLA STRADA DELLE
RIFORME COSTITU«STELLE PO-
ZIONALI: FEDERALISMO E PRESIDENZIALISMO SEMBRANO ESSERE LE DUE
29
La forma di governo presidenziale è stata rifiutata
nettamente dal costituzionalismo europeo. La Francia, e
solo la Francia, ne ha recepito un elemento importante,
l’elezione popolare del Capo dello stato, provando a
sposarlo con la forma parlamentare di governo
LARI» DI UN VERO E PROPRIO DISEGNO DI MUTAMENTO DELL’ASSETTO COSTITUZIONALE
30
COSÌ COME ERA STATO ORIGINARIAMENTE PENSATO.
COME
CAMBIEREBBE IN CONCRETO
L’ARCHITETTURA REPUBBLICANA?
Cambierebbe radicalmente. Sarebbe trasmutata nel suo opposto, quanto a
forma di Stato e quanto a forma di governo.
Il federalismo storicamente e concettualmente si identifica nella tensione all’unità di separati e differenti aggregati umani. Mira ad attenuare prima e a
superare poi la separazione, a trasformare le differenze in distinzioni, magari
riconoscendole ma eliminando le disparità di trattamento, assicurando solidarietà, promuovendo comunanza di destino. Quello italiano no. Nasce
come rivolta fiscale delle regioni (e delle classi) agiate, come progetto volto a
far sì che l’estrazione territoriale del gettito fiscale coincida con la sua ricaduta come spesa pubblica nello stesso ambito territoriale. La sua attuazione
in Italia, attraverso la sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione, finirà col determinare effetti nefasti proprio sul piano costituzionale. Evaporerà la solidarietà politica, economica e sociale prescritta con l’articolo 2, si incrinerà il vigore e si ridurrà la portata dell’eguaglianza sostanziale sancita
con l’articolo 3, secondo comma, della Costituzione. Maschererà il conflitto
di classe in conflitto territoriale. Soltanto una forte sinistra potrà contrastarne le conseguenze più nefaste.
La forma di governo presidenziale è stata rifiutata nettamente dal costituzionalismo europeo. La Francia, e solo la Francia, ne ha recepito un elemento
importante, l’elezione popolare del Capo dello stato, provando a sposarlo con
la forma parlamentare di governo. Il risultato non ha convinto nessuno degli
Stati che si sono dati una Costituzione negli scorsi anni ’90 nell’Europa dell’Est. Si aggiunga che la più avvertita dottrina costituzionalista francese non è
affatto soddisfatta della forma di governo della V Repubblica. Recepirla in Italia come tale o adottare la forma presidenziale di governo del tipo vigente
negli Usa senza la garanzia del common law e magari con leggi elettorali mistificatorie della rappresentanza politica equivarrebbe a sopprimere la democrazia in Italia.
C
ON LA SCOMPARSA DELLA SINISTRA DAL
PARLAMENTO,
IL
pubblicano». A cominciare dalla decisione sciagurata di Occhetto di sostenere la raccolta delle firme per il
referendum che avrebbe instaurato
il sistema maggioritario, e via via, ricordando la Bicamerale di D’Alema,
non dimenticando l’approvazione
del nuovo Titolo V della Costituzione, non tralasciando il favore dichiarato da Veltroni per il sistema
costituzionale e per quello elettorale
francese, a finire con il voto favorevole al Trattato di Lisbona che ribadisce come principio fondante dell’Ue l’«economia di mercato aperta
e in libera concorrenza» e non attenua il deficit di democrazia che coinvolge l’intero ordinamento europeo.
È di questi giorni, inoltre, il silenzio
fragoroso sulla «riforma» del contratto collettivo che la Confindustria
vuole imporre per svuotarlo di contenuti e ridurne l’efficacia. Va però
riconosciuta alla base di quel partito
la fedeltà alla democrazia e alla
causa dei lavoratori. Va tenuto in
gran conto, all’opposto, quel che
implica, comporta, realizza, nasconde e prefigura il berlusconismo
quanto a visione della convivenza e
concezione dei rapporti di lavoro.
Dalla storia della sinistra, che è peraltro la stessa della democrazia in
Italia, ci deriva l’insegnamento che,
in certe circostanze, ci si deve alleare addirittura con i «badogliani».
Tanto più quindi lo si può con il Pd.
Certo, per obiettivi condivisi. PARTITO DEMOCRATICO
DOVREBBE ASSUMERE IL RUOLO DI PRINCIPALE FORZA DI OPPOSIZIONE ALL’ATTUALE
GOVERNO. SUI
TEMI AFFRONTATI PRECEDENTEMENTE, PERÒ, IL
SPONSABILITÀ LEGISLATIVE PASSATE (SI PENSI ALLA
RIFORMA
PD
HA CONSISTENTI RE-
COSTITUZIONE NEL 2001). OGGI COSA FA? RITIENE CHE LE POSIZIONI ODIERNE SIANO ALL’ALTEZZA DELL’ATTACCO DEVASTANTE LANCIATO DAL CENTRODESTRA AGLI ASSETTI ISTITUZIONALI DEMOCRATICI?
DEL
TITOLO V
DELLA
Al partito democratico si possono imputare non poche cadute di «spirito re-
1. La presente intervista è stata rilasciata
prima che conclamate difficoltà politiche
sopraggiungessero a intralciare la strada di
una «controriforma» elettorale. Restano
comunque del tutto valide le argomentazioni addotte a commento di tale ricorrente
tentativo.
SOCIETÀ
Milano,
città aperta o coprifuoco?
B RUNO C ASATI *
Legge e ordine. E tira
una brutta aria, più per
altri soggetti che non per
i criminali, quelli veri. Le
destre, che la alimentano,
affermano così la loro
cultura secondo cui i forti
comandano e le masse
devono solo ubbidire e, a
chi sgarra, bastonate
* ASSESSORE AL LAVORO PRC – PROVINCIA DI
MILANO
T
utto oggi è declinato sulla sicurezza, non quella sul lavoro, ma quella
a contrasto del crimine, vero o presunto. Legge e ordine. E tira una
brutta aria, più per altri soggetti che non per i criminali, quelli veri.
Le destre, che la alimentano, affermano così la loro cultura secondo cui i
forti comandano e le masse devono solo ubbidire e, a chi sgarra, bastonate.
E danno esempi, lo testano sui più deboli con leggi speciali, esercito,
impronte: siamo a un passo dal coprifuoco e dall’adunata sediziosa. E sono
molto avanti nel progetto. Lo sono anche perché le sinistre o gli stessi liberal-democratici, che dovrebbero sostenere una propria identità positiva con
ben altra cultura, quella della risposta ai bisogni e a sostegno dei diritti per
tutti, nel migliore dei casi tentennano (le sinistre), nel peggiore si agganciano al carro repressivo delle destre. Dove sono finiti i cattolici e gli eredi del
Socialismo? Sono le destre in Italia che dettano l’agenda della politica.
Talvolta i liberal-democratici, addirittura e penosamente, tentano di anticiparle, come il sindaco di Firenze con l’editto sui lavavetri (e non è il solo)
perché, così essi sostengono, «i cittadini, se si vogliono vincere le elezioni, è
questo che chiedono alle istituzioni». Di fatto questi amministratori sono
andati in ostaggio volontario alle destre. Ricordano quel soldato della barzelletta che, mandato fuori dalla trincea di pattuglia, grida rivolto ai suoi:
«signor tenente ho fatto due prigionieri». Al che il tenente risponde: «Bene,
portali qui!». «Non posso, replica il soldato: non mi lasciano andare». Solo
che c’è poco da sorridere perché siamo proprio a questo: al capolavoro della
destra che, senza sforzo, vede la sua strategia meccanicamente assunta, con
la determinazione dei neofiti, da un ex centro sinistra non più sinistra e
nemmeno centro. Ma, sulla sicurezza, ridotta così a giro di vite sugli immigrati e i poveri cristi, si sappia che si prepara un percorso futuro in due
tappe precise, già annunciato del resto. Secondo cui, prima tappa, il declino
delle metropoli non è colpa di palazzinari voraci, politici ed amministratori
incapaci, ma di straccioni, «negri e zingari». E giù botte. Il primo capro
espiatorio è a portata di mano, ed è servito a reti unificate. Ma la seconda
tappa è ancora più insidiosa perché con essa, affermato chi è il primo colpevole, si procede al passaggio successivo secondo cui la responsabilità della
grave crisi economica non è di questo Governo Confindustriale – che è lo
zerbino della «casta degli avidi» non solo nostri ma anche di oltreoceano il
cui capo, Alan Greenspan, viene definito, non da Diliberto ma da Tremonti,
il Bin Laden dell’economia planetaria – ma è attribuita (la responsabilità)
ora ai lavoratori di Alitalia che hanno vampirizzato la compagnia, ora ai
dipendenti pubblici che rubano lo stipendio, ora alle maestre che con il
tempo pieno allontanano i bambini dalle famiglie. Se però le due tappe si
saldano, addio, comincia il ventennio. Anzi per sinistre e democratici si riannuncia la Repubblica di Weimar con sede ad Arcore. E si bastona lo zingaro
per far capire che aria tira all’operaio. Prima o poi toccherà ai comunisti.
31
bufera». Perché se quella strategia si afferma prima o poi
tocca a noi, lo ripeto. La domanda, quella vera, perciò è
una sola: la sicurezza è un problema vero o è un falso
problema?
32
Con applausi da critica e pubblico.
E, a Milano, l’aria è pesante. Ma c’è una novità.
L’omicidio in via Zuretti di «Abba» Abdul, un nero cittadino italiano, ha segnato nelle ore successive il fatto
nuovo, la svolta. Gli immigrati si sono ribellati, è la
prima volta che succede, al grido di «siamo esseri umani,
esigiamo rispetto», e non si accodano più alle manifestazioni antirazziste dei «bianchi buoni», ne assumono la
testa, mostrano la faccia, non hanno più paura. Così
anche a Castelvolturno, in una situazione completamente diversa, spaventosa comunque l’assenza dello Stato,
dove l’autodifesa dalla dittatura militare della «camorra
bianca» può anche aver costretto all’organizzazione di
gruppi di «camorra nera». E c’è la strage indiscriminata,
esemplare. Ma, anche qui, il fatto nuovo, parallelo: i
lavoratori neri supersfruttati dai padroncini bianchi,
alzano la testa e levano lo stesso grido straziante «siamo
esseri umani e non carne da macello». A Milano e a
Castelvolturno si invoca lo Stato di Diritto. Ascoltiamo
quelle grida. E ragioniamoci anche noi, i comunisti.
Analizziamo con il nostro contro-metodo la questione
sicurezza, uscendo dalle chiuse stanze dei vaniloqui
post-congressuali, dove funzionari deprivati dello scranno parlamentare si accapigliano sulla forma dello strumento-partito, mentre fuori «soffia il vento e infuria la
Dovessimo guardare ai famosi dati, che rappresentano la
realtà quella vera e documentata del crimine, registreremmo come i fatti di sangue a Milano, da venti trent’anni a questa parte, siano diminuiti e di molto. Oggi
Milano è più sicura rispetto ai tempi in cui Turatello e
Vallanzasca, la mala del mitra che aveva soppiantato la
generazione nobile dei professionisti della rapina di via
Osoppo, facevano ogni sera mattanza per la conquista
dei quartieri. Non è più nemmeno la Milano dei terribili
«anni di piombo», quando ogni settimana si faceva il
conto dei morti ammazzati: magistrati, giornalisti, poliziotti, militanti politici. Oggi la gran parte degli omicidi
avviene, ce lo conferma Don Gino Rigoldi cappellano di
Opera, all’interno delle famiglie. La famiglia è un posto
molto pericoloso mi verrebbe da dire, dai tempi della
Rina Fort a oggi. In quanto alle rapine, ora ai bar, ora
agli orefici, ci sono sempre state, solo che oggi sono
diventate per davvero più pericolose, perché in campo
operano i tossici, persone devastate che «delinquono
perché devono» e, quando in crisi di astinenza escono
dal giardinetto, non li ferma più nessuno e sparano. Ci
vuole altro che non l’esercito per contrastarli. Ma i dati
sono questi. Dovessimo ora chiedere ai cittadini milanesi
di mettere in fila le loro priorità – questa indagine è stata
fatta, ma il suo esito rapidamente occultato – otterremo
questa sequenza di risposte. La priorità uno è il lavoro,
Milano è la città più precaria d’Italia, il lavoro così come
c’è, così ti è sottratto, non è una certezza, e nei cantieri
si muore: in un anno, il 2007, ci sono stati più morti sul
lavoro in Lombardia che non in tutta la Germania e le
neoplasie da asbesto (l’amianto) continuano a sgranare il
loro rosario di morte: alla sola ex Breda Fucine siamo
all’83° decesso ma il picco tragico sarà nel 2015. Ma il
lavoro non è merce mediatica, per fare notizia l’operaio
deve morire bruciato. La priorità due è la casa: mancano
60mila alloggi popolari ma sorgono quartieri di lusso,
blindati, come il Santa Giulia di Zunino dove il metro-
SOCIETÀ
Il fatto nuovo, parallelo: i lavoratori neri
supersfruttati dai padroncini bianchi, alzano la testa e
levano lo stesso grido straziante «siamo esseri umani e
non carne da macello». A Milano e a Castelvolturno si
invoca lo Stato di Diritto. Ascoltiamo quelle grida. E
ragioniamoci anche noi, i comunisti
quadro è schizzato a 8mila euro,
mentre l’algida sindaca guarda in
alto verso i grattacieli sghembi
dell’Expo. La priorità tre è il costo
della vita con il prezzo del pane più
alto d’Europa, lo riconosce anche
l’Ocse e, in tutta la Provincia sono
attive (nessuno pare rendersene
conto) ben 959 mense dei poveri,
dove in fila ogni santo giorno gli italiani hanno oggi sorpassato gli stranieri: in quelle file è rappresentato il
popolo metropolitano del «non
accesso», le periferie sociali, dove i
penultimi sono in fila con gli ultimi
per il pane, mentre la sindaca resta
a guardare ai suoi grattacieli e la
sinistra… la sinistra non è pervenuta. La priorità quattro è il traffico e
l’inquinamento, dove bisogna mettere mano a progetti forti e non alla
burla dell’Ecopass. Ma guai a toccare il dio-automobile. Com’è lontana
l’Europa da questa città? Quinta e
ultima priorità è data, e siamo al
punto, dal problema degli immigrati, che arrivano e non sono accolti, è
data dai terribili lavavetri vero incubo semaforico, dagli arabi cui si
nega anche lo spazio per pregare
mezz’ora a settimana perché le
moschee sono covi di terroristi (a
me non risulta che le chiese siano
luoghi in cui si progettano omicidi
anche se le frequentava il pio Totò
Riina), dai Rom ai quali si può
anche bruciare un campo con le
taniche di benzina, come a Opera, e
non succede niente. Certo che lo
scippo dà fastidio, lo spaccio ancora
di più ma si sappia che l’immigrato
che spaccia è solo il «cavallino» del
pusher della n’drangheta che a
Milano, la sua capitale, controlla
usura, azzardo, prostituzione, cantieri. Sta nella mafia la radice avvelenata da estirpare. Componendo
dati e inchiesta, la questione sicurezza che è reale, si ricolloca però
nella sua dimensione vera.
Purtroppo non è sufficiente, perché
è stata fatta avanzare, pompata, la
famosa realtà percepita, che è altra
cosa. E la classifica è stata scalata e
ribaltata. E se sulla realtà, quella
vera, della sicurezza si può intervenire (forze dell’ordine, volontariato,
associazioni lo stanno facendo), su
quella percepita è difficile farlo:
sfugge al buon senso, è dominata
dalla dittatura mediatica che esaspera o cancella. La notizia c’è solo se
lo decide chi impugna il telecomando centrale e decide come confezionarla. Ed allora gli operai dell’Innse
di Via Rubattino, che vogliono lavorare mentre uno speculatore vuol
fare affari sulla loro pelle, possono
essere fatti apparire come il flagello
dell’economia meneghina, mentre
Tronchetti Provera e Colaninno
apparire come benefattori da
Ambrogino d’Oro. Si pensi un’attimo all’omicidio del povero Abba: se
invece dei due assassini italiani, gli
sprangatori fossero stati due romeni,
magari appena rilasciati per condono e che avessero colpito un ragioniere del Gallaratese appena uscito
dalla discoteca Alcatraz, ma ve le
immaginate le ronde armate guidate
dai Borghezio del Ticinese, il ribollire dei talk show televisivi dove vieni
chiamato solo per far sfogare su di
te (il comunista o lo stesso Don
Colmegna) il livore di un plebeismo
che negli anni si è consolidato?
Sparate senza pietà su costui che
difende i rom. Anche perché i
comunisti quando sono stati al
Governo – due volte in dieci anni –
non sono riusciti, se mai ci hanno
provato, a spostare il tiro dalla sicurezza cosidetta percepita alla risposta
ai bisogni concreti e al sostegno ai
diritti. Non hanno fatto capire chi
sono e sono stati cancellati.
Dalla sicurezza bisogna avviare un
operazione verità e, su questa, ricostruire l’identità dimenticata. La
sicurezza fa capire, indica il che fare.
Dovessimo porre mano con tutti
quelli che ci stanno ai famosi primi
quattro punti – lavoro, casa, prezzi,
traffico e inquinamento – toccheremmo, si sappia, i nervi scoperti del
profitto e della rendita, individueremmo il nemico e lo indicheremmo
ai cittadini, faremmo insomma lotta
di classe. E circoscriveremmo il
quinto punto a questione non fondamentale, che diventa non fondamentale solo se si affrontano gli altri.
Di converso diventa fondamentale
quando, in assenza del resto, il pensionato deve stare attento a uscire di
casa perché, nell’assenza, gliela
occupano e allora ha paura e odia
tutti, particolarmente quelli che
competono con lui per un tetto. E
così il precario italiano che deve
competere per il posto di lavoro in
un cantiere o all’Ortomercato, in
un’asta al ribasso per il pane, con il
precario straniero e lo odia. E così
33
34
via in una catena di Sant’Antonio in
cui ultimi e penultimi si contrappongono. Su un punto però si trovano d’accordo: nel dare legnate agli
ultimissimi, gli intoccabili zingari, e
se un’istituzione (come la Provincia
di Milano) prova con un Villaggio
Solidale a dar loro alloggio e formazione-lavoro viene giù il mondo.
Sullo sfondo, indisturbati nel loro
procedere al saccheggio dei territori,
Cabassi, Caltagirone, Ligresti,
Tronchetti Provera, Zumino guardano deliziati. «Avanti con la guerra
tra i poveri che lascia in pace noi
ricchi». E gettano benzina sul fuoco.
Il guaio è che la fanno gettare anche
a chi dovrebbe opporsi al degrado,
alle ruberie, alla speculazione.
Sintesi: Milano è città dove è diventato difficile convivere, il clima è di
sospetto, incomprensioni e la scintilla scatta ora per il colore della pelle,
ora per questioni di religione ma
anche per una discussione al semaforo. E si teme il diverso, dal nero
all’omosessuale. Tutto ciò origina la
tendenza all’autodifesa. Si ricordi
però che, in questa metropoli, i processi di integrazione sono sempre
costati fatica, anche negli anni ’60
con l’arrivo di decine e decine di
migliaia di meridionali. Poi il Dna
ambrosiano, il «coeur in man», prevalse e fece superare le incompren-
sioni. Ma allora c’era – ecco il punto
– una rete fitta di controllo sociale
che consentiva di svelenire il clima,
c’erano mille e mille occasioni di
socialità e conoscenza, date dalle
sedi dei partiti e dei sindacati, dalle
case del popolo, dagli oratori, dalle
associazioni laiche e religiose, fino
alle balere di quartiere e alle bocciofile. E c’erano grandi sindaci che
non guardavano ai grattacieli di una
Milano che solo lucida il disagio, ma
alle case popolari, alle scuole civiche, all’Umanitaria. E c’erano le
grandi fabbriche dove si faceva fatica ma si socializzava. La sicurezza
(anche la sicurezza) fa perciò capire
che oggi siamo a un bivio: o si subisce la strategia di lor signori e, quindi, avanti con il coprifuoco mentre i
palazzinari spolpano la città, oppure
si mette in campo l’altra strategia,
quella dei primi quattro punti, dove
si risponde ai bisogni e ai diritti con
l’iniziativa e la riprogettazione degli
spazi di socialità nella città cambiata
e non con la spranga, come in Via
Zuretti, o con l’olio di ricino mediatico che tutte le sere a un popolo
oppiato propinano le Tv. Su le
maniche compagni e compagne perché la vedo brutta anche per noi. OPINIONI A CONFRONTO
perché
ci diciamo comunisti
P AOLO F ERRERO *
La parola sinistra ha
storicamente un
significato positivo nel
nostro Paese. Ha a mio
parere un difetto e cioè
che si tratta di una coperta
che copre molte cose
* SEGRETARIO NAZIONALE DEL PRC
D
a un po’ di tempo Liberazione pubblica con grande rilievo articoli che
chiedono di abbandonare il nome comunista. Al fondo la tesi riproposta in varie salse è che la parola comunismo è inutilizzabile perché l’esperienza storica concreta ne ha stravolto il significato. Tra chi propone di abbandonare il nome comunista vi è chi si pronuncia a favore del
nome sinistra, chi a favore del socialismo, chi non propone nulla. Tutto questo si intreccia con un altro filone di dibattito che propone di andare oltre il
Partito della Rifondazione Comunista, per fare un altro partito, per fare
un’altra cosa che non sia un partito ecc.
Le argomentazioni portate mi pare ripropongano un po’ stancamente quanto già sostenuto da Occhetto e dai suoi sostenitori dopo l’89 ma tant’è, come
si sa la prima volta la storia si presenta come tragedia, la seconda come
farsa.
Per quanto mi riguarda io la penso così: il concetto di comunismo ha una
storia che travalica le vicende del secolo breve. Non voglio qui affrontarlo.
Mi pare invece utile sottolineare come in Italia il gruppo dirigente comunista alle origini si è formato nella vicenda dell’occupazione delle fabbriche e
valorizzando la costruzione dei consigli di fabbrica. Nel corso della guerra ha
saputo dar vita a un movimento di resistenza antifascista unitario e democratico che ha contribuito a liberare l’Italia e a dare al nostro Paese un assetto democratico strutturato attorno a una Carta costituzionale assai avanzata.
Successivamente i comunisti hanno variamente lottato e con una certa efficacia contro lo sfruttamento e per la giustizia sociale. Un terzo degli elettori
italiani è arrivato a dare fiducia a un partito che si chiamava comunista e
che poneva la questione morale come punto non secondario della riforma
della politica. Rifondazione comunista nel suo piccolo è stata presente nei
vari conflitti che hanno percorso il Paese ed è stata in grado di collocarsi positivamente nella grande stagione del movimento no global.
Il tutto cercando di intrecciare le lotte per i diritti sociali con quelle per i diritti civili, lotte operaie e lotte ambientali, lotte per la redistribuzione del
reddito con le lotte contro la mercificazione delle persone, dell’ambiente,
delle relazioni sociali. In altri termini la parola comunismo in Italia è legata
alle battaglie per la giustizia e la libertà. Dopo l’era craxiana non mi pare si
possa dire lo stesso per la parola socialismo.
La parola sinistra ha storicamente un significato positivo nel nostro Paese.
Ha a mio parere un difetto e cioè che si tratta di una coperta che copre
molte cose. Ad esempio all’interno del partito democratico vi sono persone e
posizioni che si definiscono di sinistra che sono però anche variamente confindustriali e per nulla anticapitaliste. La parola sinistra – da sola – non definisce una posizione chiara dal punto di vista della divisione di classe della
società né dal punto di vista della volontà di superare il capitalismo; tant’è
che negli anni scorsi abbiamo giustamente detto che esistevano due sinistre,
35
36
quella moderata e quella radicale o alternativa o antagonista. Da questo punto di vista il definirsi di sinistra e
comunisti mi pare rappresenti un modo chiaro per dire
da che parte si sta. Siamo di sinistra ma siamo anche comunisti, cioè lottiamo contro lo sfruttamento, quando
serve anche contro il Vaticano e ci battiamo per il superamento del capitalismo. Dirsi comunisti è quindi una
risorsa per qualificare il nostro essere di sinistra. Porre il
tema del comunismo significa porre il nodo della rivoluzione, del cambiamento radicale dello stato di cose presenti. Tant’è che quando taluni esponenti del centrosinistra affermano di non voler mai più fare accordi con
liste che contengano la falce e il martello lo dicono non
certo per la nostra storia ma perché siamo concretamente, politicamente, qui e ora, anticapitalisti.
Questo per quanto riguarda l’Italia. I comunisti però, in
particolare quando hanno preso il potere, hanno anche
fatto grandi disastri. Lo stalinismo ha contraddetto radicalmente le aspirazioni di giustizia e libertà del movimento comunista. Per questo ci siamo chiamati Rifondazione Comunista. Non solo il nome di un partito ma un
progetto politico: rifondare il comunismo avendo fatto
fino in fondo i conti con lo stalinismo. Riconosciamo
che la storia dei comunisti e delle comuniste è la nostra
storia, ne abbiamo analizzato gli errori e gli orrori al fine
di non ripeterli. Rifondazione e comunista sono quindi
due termini che si qualificano a vicenda, ci parlano della
persistenza ma anche della discontinuità, ci parlano
della contraddittorietà del nostro tentativo di andare
oltre il capitalismo nel nostro essere fino in fondo uomini e donne di questo tempo.
La rifondazione del comunismo è quindi il progetto politico che abbiamo scelto quando Achille Occhetto ha
sentenziato che il comunismo era solo un cumulo di
macerie. Nulla vieta che altri oggi la pensino come Occhetto ma a me francamente pare che i guai che abbiamo avuto negli anni scorsi non siano derivati dal nostro
nome ma piuttosto dai nostri errori politici, in primo
luogo la scelta di andare al governo.
Io penso quindi che oggi sia più necessario di ieri dirsi
comunisti, di Rifondazione comunista. È il nome che
meglio di qualunque altro definisce qui e ora il nostro
anticapitalismo e la nostra autonomia da un ceto politico che si definisce di sinistra ma con le cui prospettive
politiche abbiamo poco a che spartire.
È evidente che si potrebbe continuare ad argomentare a
lungo ma voglio utilizzare lo spazio che mi resta per sollevare un paio di quesiti.
In primo luogo, è evidente che la discussione dovrebbe
cominciare da qui, cioè dalla rifondazione comunista. Si
tratterebbe di aprire una discussione non a negativo ma
a positivo. Si tratterebbe di ragionare su come rendere al
meglio oggi la prospettiva comunista. Di come la nostra
azione non si possa situare solo al livello politico della
rappresentanza. Di come si ridefinisca la politica comunista in relazione ai movimenti, alle mille vertenzialità,
alle forme di mutualismo. Di come si intreccino oggi i
diversi conflitti e come possano interagire in una prospettiva di superamento del capitalismo. Di come si
possa affrontare la crisi capitalistica proponendo il tema
del controllo sociale dell’economia ed evitando la guerra
tra i poveri. Di come si intrecci la lotta per il salario con
quella per il reddito sociale con la lotta contro la mercificazione di ogni ambito sociale, e così via. Il dibattito di
cui avremo bisogno non riguarda la ripetizione dell’occhettismo ma l’approfondimento della prospettiva della
rifondazione comunista. Purtroppo però Liberazione non
si cimenta sul terreno della rifondazione comunista ma
su quello del suo superamento.
In secondo luogo, è bizzarro che il giornale del Partito
della rifondazione comunista metta in prima pagina il
dibattito sul superamento del comunismo e a pagina 19
gli articoli in cui alcuni dirigenti del partito avanzano
proposte politiche e cercano di far avanzare il progetto
di rifondazione comunista.
In altre parole, la vera novità non mi pare il dibattito sul
comunismo, ma il fatto che oggi Liberazione, il giornale
del Prc, sia il soggetto che con maggiore costanza e determinazione chiede il superamento del Prc e del suo
progetto politico. Devo dire che questa novità non mi
pare molto utile. OPINIONI A CONFRONTO
comunismo:
un’istanza feconda
G IANLUIGI P EGOLO *
Se le forme della
produzione sono cambiate,
lo sfruttamento – che è
alla fin fine la categoria
essenziale del confitto
capitale/lavoro – nelle
stesse aree a sviluppo
maturo non viene meno ed
anzi tende ad accentuarsi
* SEGRETERIA NAZIONALE DEL PRC
P
er quale motivo ci si può definire oggi comunisti? La risposta è molto
più complessa di quanto si possa immaginare e il dibattito che – meritevolmente – la rivista «essere comunisti» ha promosso lo sta a dimostrare. In primo luogo c’è da chiedersi, quando parliamo di «comunismo» a
cosa ci riferiamo? La domanda non è in sé banale, dato che per esempio
negli interventi fino a ora pubblicati vi è una giustapposizione di piani di
analisi che, benché interconnessi, finiscono con il rendere difficile un confronto puntuale. Per comodità, credo sia utile ripartire dalle argomentazioni
con cui Di Siena sostiene l’inattualità del comunismo novecentesco come
teoria della trasformazione sociale. Tale convinzione muove da un’analisi dei
processi di globalizzazione. Se ho ben compreso, il superamento della grande industria che ha caratterizzato come modello produttivo gran parte del
secolo scorso (con l’affermarsi di modelli di produzione flessibili, cui si accompagnano processi di deterritorializzazione della produzione e una tendenza pervasiva alla precarietà), insieme alla crescente spersonalizzazione
del capitale, metterebbe in discussione il concetto tradizionale di classe, farebbe prevalere istanze individuali che si potrebbero connettere alla domanda di libertà, anziché di eguaglianza, e che per questa via potrebbero congiungersi con altre istanze sociali il cui sviluppo prescinde dal rapporto di
produzione in senso stretto. Il conflitto capitale/lavoro, sulla base di questa
analisi, a me pare, tenda oggettivamente a perdere centralità, ma per amor
del vero questo Di Siena non lo sostiene esplicitamente.
In premessa, devo riconoscere a Di Siena il merito di aver posto a tema una
questione di prima grandezza e cioè quella del «soggetto antagonista». È vero
che il «problema dei problemi», in questa fase storica, è rappresentato dalla
difficoltà a mettere in campo una soggettività sociale di cambiamento. Ed e’
ancora vero che la classe operaia in senso stretto si è ridotta, almeno per
quanto riguarda il proletariato classico delle aree capitalistiche mature, e che
la stessa subisce come non mai il ricatto derivante dalla presenza di un cospicuo esercito industriale di riserva (oggi in larga misura costituito da lavoratori
immigrati). Se solo volgiamo lo sguardo alla trasformazione sociale prodottasi
in questi anni nel nostro Paese non possiamo che riconoscere la drammaticità
della situazione e la difficoltà che questo stato di cose comporta per un’azione
di cambiamento. Il mondo del lavoro conosce un mutamento senza precedenti e la stessa efficace rappresentazione di Steri del «consiglione» di Mirafiori negli anni ruggenti della lotta operaia ci dice dell’arretramento subito
nell’ultimo periodo, anche in termini di coscienza collettiva. Il punto, tuttavia, è se l’analisi impietosa della realtà sociale, con particolare riferimento alla
condizione del lavoro, giustifichi l’assunto di Di Siena secondo cui vengano
meno oggi le condizioni di un esteso conflitto capitale-lavoro fondato sul protagonismo di un soggetto collettivo, unificato su obiettivi egualitari.
37
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A me pare di no. Soffermiamoci sulla struttura del mondo del lavoro. È un
dato di fatto che se misuriamo il proletariato, anziché su base nazionale, su
base internazionale il quadro muta non poco. La globalizzazione reca con sé
una dilatazione del lavoro produttivo anche nella sua forma «materiale».
Questa dilatazione geografica ha risvolti diretti anche nelle modificazioni dei
comportamenti sociali. Certamente occorrerebbe un’analisi molto accurata
di cosa sia la classe operaia nelle nuove aree emergenti, ma i segnali sono
già abbastanza indicativi e gli effetti già rimbalzano nelle aree mature. Si
considerino le modalità di organizzazione del lavoro che si affermano nei
Paesi di nuova industrializzazione, molto simili a quelle novecentesche se
non a quelle precedenti. Si considerino, a titolo di puro esempio, le conseguenze che i processi di nuova sindacalizzazione nei Paesi dell’est hanno in
termini di tendenziale crescita del costo del lavoro e riduzione dei profitti
delle aziende ivi insediatesi. Questi fatti sono noti e si potrebbe al limite sostenere, ironizzando, che il fondamento sociale del comunismo andrebbe ricercato più nei Paesi in via di industrializzazione più che in quelli più sviluppati. Ma anche questo argomento si presta a contestazioni. In primo
luogo, per la natura concreta dei rapporti di produzione. Se le forme della
produzione sono cambiate, lo sfruttamento – che è alla fin fine la categoria
essenziale del confitto capitale/lavoro – nelle stesse aree a sviluppo maturo
non viene meno ed anzi tende ad accentuarsi, divenendo una componente
pervasiva del lavoro odierno. Né il proliferare di forme di lavoro nominalmente autonome fa venir meno il carattere viepiù subordinato ed etero-diretto
della prestazione di lavoro.
La mia opinione, pertanto, è che le indubbie modificazioni nella struttura
sociale non facciano venir meno la nozione di «conflitto di classe», che le
contraddizioni che animano il mondo del lavoro siano anzi più acute, che
una prospettiva egualitaria conserva un’evidente rilevanza e che senza il
protagonismo del proletariato non vi sia possibilità di cambiamento. Su quest’ultimo punto si potrebbe discutere, data l’evidente frantumazione dei
conflitti e la difficoltà a riunificare i vari soggetti intorno a obiettivi comuni.
E, tuttavia, a me pare che nell’esperienza recente del nostro Paese questa
centralità del mondo del lavoro sia testimoniata – forse prima che dalla capacità dello stesso di farsi promotore di un’iniziativa adeguata – dalla verificata incapacità degli altri soggetti sociali a incidere, in assenza di un’iniziativa operaia. Se riflettiamo sulle vicende degli scorsi anni, e in particolare
sulla stagione del movimento no global, è evidente che l’idea di poter sostituire la centralità del lavoro con altre centralità non abbia trovato conferma.
Valgono qui le osservazioni di Brancaccio circa il carattere strumentale di alcune teorizzazioni (penso ad esempio a quella sul «movimento dei movimenti») formulate in quegli anni nel tentativo di catturare la simpatia di alcuni interlocutori, di fronte all’incapacità di costruire una propria effettiva
presenza – in primis – nel mondo del lavoro.
È ragionevole ritenere, quindi, che non già sia in crisi la nozione di conflitto
capitale/lavoro, o la centralità che tutt’ora conserva il proletariato come soggetto antagonista, quanto la capacità sull’onda di tale conflitto e in forza del
ruolo di tale soggetto, di determinare un processo di cambiamento in grado
di operare una trasformazione radicale della struttura sociale e dell’assetto
politico/istituzionale. Questa osservazione è certamente pertinente, ma fino
a che punto mette in discussione la legittimità di un punto di vista comunista? A meno di non ricadere nel vizio deterministico di considerare l’evoluzione dei processi sociali come prodotto automatico delle contraddizioni, le
difficoltà che in una determinata fase storica si incontrano nell’organizzazione dell’iniziativa di classe (e più in generale nell’iniziativa sociale) non sono
A ben vedere ciò che
maggiormente caratterizza
ancora oggi un’opzione
comunista in alternativa
ad approcci di altra
ispirazione è appunto
questo: il riconoscere in
questo assetto economicosociale l’origine del
riprodursi di
contraddizioni che ne
giustificano il
superamento
OPINIONI A CONFRONTO
di per sé dimostrazioni dell’irrilevanza o del venir meno
delle contraddizioni stesse. Il problema in realtà è diverso e attiene alle «forme» della soggettività politica e sociale, della sua capacità a rispondere alle nuove sfide indotte dai mutamenti. Ciò vale ad esempio per il sindacato, sempre più condizionato nella sua azione da una
dimensione internazionale dei processi, o per i partiti
posti di fronte all’esigenza di formulare un progetto di
società che contrasti frammentazione, crescente differenziazione sociale e processi di marginalizzazione. Vero è
che senza una soggettività politica forte e strutturata, capace di dare sponda ai conflitti e favorirne l’unificazione
in una prospettiva di cambiamento generale, vi è oggi
più di ieri una difficoltà a promuovere il cambiamento.
Questa constatazione, però, ci dice più che dell’impossibilità – in assoluto – del rilancio di un’opzione di classe,
della responsabilità storica della sinistra nel nostro Paese.
Il richiamo, nello scritto di Steri, sugli effetti dell’interiorizzazione della sconfitta da parte delle organizzazioni
del movimento operaio e dell’assunzione da parte delle
stesse del punto di vista dell’avversario è, a tale proposito, più che pertinente.
In ogni caso, benché la questione del soggetto antagonista sia centrale e indubbiamente costituisca uno dei fondamenti dell’opzione comunista, è evidente che tale opzione si legittima anche sulla base di altri elementi. Fra
questi valgono in particolare la critica profonda alla società capitalista e un’idea del cambiamento come trasformazione radicale degli assetti politici, istituzionali e
socio-economici. A ben vedere ciò che maggiormente
caratterizza ancora oggi un’opzione comunista in alternativa ad approcci di altra ispirazione è appunto questo:
il riconoscere in questo assetto economico-sociale l’origine del riprodursi di contraddizioni che ne giustificano il
superamento.
Che oggi vi sia bisogno di una rinnovata critica anticapitalista non mi pare possa essere indubbio. Gli stessi feno-
meni della globalizzazione indicano in modo inequivocabile l’attualità del tema del superamento del sistema capitalista. Vale per la riproduzione di squilibri regionali di
dimensioni amplissime (inter e intra-nazionali), che
mettono in discussione l’illusione di una dilatazione sincronica e omogenea dello sviluppo, vale per il riemergere di nuove tensioni politico-economiche fra le potenze
in campo con il rilancio dei conflitti locali, vale per
l’esplodere di una crisi economico-finanziaria di proporzioni drammatiche che ricolloca la comunità internazionale nella prospettiva di una recessione che comporterà
dissoluzione di risorse ed enormi costi sociali. Nessuno,
penso, obietterà che la contraddizione fra disponibilità di
risorse e insoddisfazione dei bisogni sia oggi più acuta
che mai e che l’irrazionalità del sistema capitalista sia
giunta a un punto tale da porre il problema della sua
compatibilità con lo sviluppo del genere umano.
Qualcuno, invece, obietta che le nuove gigantesche contraddizioni del sistema mettono in ombra categorie centrali dell’analisi marxista – come quelle del conflitto capitale-lavoro e della proprietà privata dei mezzi di produzione – che in virtù dei nuovi processi tenderebbero
ad assumere un peso minore. Ne sono la dimostrazione i
ricorrenti riferimenti, nel dibattito, alla crescente incidenza dei beni immateriali, al carattere diffuso della pro-
39
40
prietà, all’affermarsi di contraddizioni che poco hanno a che vedere con
il conflitto capitale-lavoro in senso
stretto. In realtà, c’è più di una ragione per dubitare di queste argomentazioni solo che si indaghino
approfonditamente i processi in
atto. Si pensi all’importanza che assume nell’attuale divisione internazionale del lavoro la questione del
suo costo e delle condizioni del suo
sfruttamento, o alla rilevanza che
tutt’ora assume la questione dell’appropriazione delle materie prime,
fattore non ultimo della ripresa di
conflitti armati, o infine all’incidenza nella crisi economica del controllo privato del capitale finanziario.
Anzi, proprio alla luce dell’inarrestabilità della crisi dei mercati finanziari, la questione della necessità della
proprietà pubblica di alcuni comparti strategici, fra cui il credito, torna
oggi alla ribalta, di fronte alla verificata inefficacia dei sistemi di regolazione messi in campo dalle autorità
internazionali per prevenire le crisi.
Non solo, ma il fatto che l’attuale
sviluppo del capitalismo ponga
ormai il problema della sua compatibilità con la riproduzione della specie sta a dimostrare, come ha giustamente sottolineato Brancaccio, che
su una moderna critica anticapitalista possano convergere movimenti
sociali che si sviluppano a partire da
contraddizioni diverse da quella fra
capitale e lavoro. Penso all’ambientalismo e al femminismo.
Nei vari contributi che si sono succeduti sulle pagine di «essere comunisti» un elemento è risultato comune.
Una critica esplicita all’esperienza del
socialismo reale. Per molti versi vi è
stato un generale ritorno a Marx,
quanto mai opportuno. La sostanza
di queste posizioni è, in larga misura, condivisibile. Il recupero di
un’ispirazione e di una pratica comuniste oggi non può prescindere
da un bilancio di quella storia. È per
esempio evidente che la statizzazione integrale dei mezzi di produzione
costituisce un’opzione non riproponibile, così come una concezione autoritaria e centralizzata del potere.
Per molti versi non ha neppure
senso ribadirlo. Queste critiche al socialismo reale sono il prodotto di
una riflessione che in Italia, prima di
altri Paesi, hanno visto protagonisti
sia il Pci che la sinistra critica. E, tuttavia, una volta prese le distanze
dagli aspetti discutibili di quella
esperienza, non si può ridurre il
‘900, come purtroppo si è fatto
anche in Rifondazione comunista, a
un mucchio di macerie. E non solo
perché nella stessa esperienza dell’Ottobre vi sono grandi meriti storici
che non possono essere negati, ma
perché il ‘900 ha visto il movimento
comunista essere protagonista di
un’azione di cambiamento che sarebbe prima che ingeneroso, illogico
disconoscere. E benché molte di
quelle esperienze siano datate, vi
sono aspetti che vanno recuperati
anche nella prospettiva di una moderna teoria del cambiamento ( su
questo punto il mio pensiero si differenzia esplicitamente dalle posizioni
espresse da Di Siena). Penso a una
certa concezione della lotta di massa,
a un’idea della militanza e del ruolo
del partito, ma anche ad alcune
esperienze fallite, ma che non per
questo vanno semplicemente rimosse, essendo comunque meritevoli di
una critica puntuale. Penso al ruolo
della pianificazione, seppellita dallo
statalismo, ma non per questo totalmente derubricabile nella prospettiva di un’organizzazione sociale razionale e non lasciata all’arbitrio del
mercato, o al controllo dei processi
di accumulazione che se non ha trovato adeguata soluzione nella semplice gestione pubblica dell’economia, nondimeno resta un’esigenza
inderogabile. Si pensi ai danni che
questo modello di sviluppo produce
sul piano ambientale, o in tema di
scelte di consumo.
In questo contesto l’esperienza italiana è ineguagliabile. Ci si può definire comunisti per più ragioni, ma
certamente i comunisti italiani qualche ragione più di altri ce l’hanno
per rivendicare un’appartenenza.
Con troppa leggerezza ci si vuole
oggi liberare del lascito di un’espe-
OPINIONI A CONFRONTO
rienza che ha avuto il suo punto di forza in una concezione non dogmatica dell’azione politica, nella capacità
di saldare lotta di classe a influenza sull’insieme della
società, nella capacità – più che in altre esperienze – di
cogliere la ricchezza dell’intreccio fra contraddizioni
strutturali e sovrastrutturali, superando una concezione
rozza e schematica del marxismo. Il paradosso del dibattito che da vent’anni attraversa la sinistra italiana intorno all’attualità o meno del comunismo, sta in primo
luogo in questo. Dalla Bolognina in poi, il comunismo a
sinistra è stato considerato una opzione superata, fino al
punto di considerarlo impedente un’azione di cambiamento, quando non responsabile di opzioni contrastanti
con le aspirazioni alla liberazione umana. Il risultato banale è che, partendo da questi approcci, non solo si è liquidato un grande partito, si è rotta una comunità
(come ricorda Vinci), ma si è avviata la marginalizzazione dell’intera sinistra, da un lato traslata verso lidi genericamente «democratici», dall’altro verso opzioni radical-massimaliste. Nel caso specifico del nostro Paese, allora, rivendicare l’attualità di un punto di vista
comunista è prendere atto che senza questo, non già si
liberano forze, o si alimenta un nuovo protagonismo sociale, ma semplicemente ci si rassegna all’impotenza politica, alla subordinazione alle opzioni moderate, all’ininfluenza sul piano sociale.
Nell’esperienza del nostro Paese, poi, a prescindere dal
grande ruolo giocato dal Pci, il movimento di massa,
anche in virtù di quella presenza ma non solo, ha saputo produrre livelli di coscienza ineguagliati. L’egualitarismo con la sua critica alla divisione del lavoro, la contestazione delle nuove forme dell’organizzazione del lavoro, la critica alla neutralità della scienza, la critica alla
democrazia formale hanno costituito riferimenti per milioni di lavoratori, studenti, intellettuali.
E ancora oggi, a ben guardare e nonostante l’indebolimento dell’iniziativa di massa, quelle idee riaffiorano,
seppure segnando una distanza molto più profonda di
un tempo dai soggetti politici organizzati. Ispirazioni la
cui connessione con l’opzione comunista è del tutto evidente. Senza questi riferimenti la «cassetta degli attrezzi» di cui abbiamo bisogno – alla quale ci richiama op-
portunamente nel suo articolo Burgio – dubito sarebbe
in grado di far fronte alle nostre esigenze. Questi elementi vanno ripresi e rielaborati nella condizione data.
Definirsi comunisti oggi, nel nostro Paese, ha senso se si
riparte da qui, non per nostalgia, ma per la fertilità di
un approccio che va recuperato. Più che di un ricettario
sulle caratteristiche che deve possedere la società futura
abbiamo bisogno di un approccio rispondente alla natura della società in cui viviamo. Ci aiuta l’esperienza storica, una certa pratica di massa, ma anche alcune ispirazioni di fondo che conservano una loro validità ai fini di
una moderna critica anticapitalista. Dubito che – a tale
proposito – al di fuori del comunismo vi sia oggi un
punto di vista altrettanto fecondo. 41
oggi,
perché essere comunisti
«In Lenin la conoscenza della società era rivolta in ogni momento all’agire che proprio allora era socialmente necessario, perché la sua prassi era sempre la conseguenza necessaria della somma e del sistema delle
vere conoscenze accumulate in quel momento. La sua vita è un agire
continuo in cui non esiste situazione senza scampo, né per lui né per
l’avversario. Perciò il suo metodo di vita è questo: essere sempre preparati all’azione, all’azione giusta».
György Lukács, Lenin
42
D OMENICO M ORO *
«Il vero limite della produzione capitalistica è proprio il capitale, cioè è
che il capitale e la sua autovalorizzazione si presentano come punto di
partenza e punto di arrivo, come motivo e fine della produzione; che la
produzione è soltanto la produzione per il capitale e non invece i mezzi
di produzione sono semplici mezzi per il costante allargamento del processo vitale per la società dei produttori».
Karl Marx, Il Capitale, libro III
1. Specificità del comunismo moderno
C
hiedersi perché essere comunisti dovrebbe essere naturale per un comunista, eppure è domanda che fa tremare i polsi e mette a disagio
per varie ragioni. Tra queste sicuramente pesano come un macigno la
caduta dell’Urss, e la storia del comunismo del 900, entrambe ancora non
elaborate. Pesa, inoltre, l’attuale situazione di difficoltà che, comprensibilmente ma ingiustificatamente, ci schiaccia sul livello della sopravvivenza
immediata. Ma c’è anche un’altra importante ragione: definire «il perché»
implica sempre definire «il che cosa» e c’è sempre stato un certo «pudore» a
definire il comunismo in una scuola di pensiero il cui fondatore si è dichiarato, da subito, contro le definizioni utopistiche da «osteria dell’avvenire».
Eppure, niente sarebbe più sbagliato del pensare che Marx non abbia detto
cose fondamentali al proposito e che soprattutto, oggi, sulla scorta di una secolare esperienza pratica, non sia necessario entrare nel merito, portando
avanti la riflessione di Marx alla luce degli avvenimenti passati e presenti. Se
è vero che non siamo comunisti perché abbiamo letto il Capitale, è altrettanto vero che, se lo siamo in un certo modo, cioè nel senso moderno del termine, è solo perché abbiamo letto il Capitale. E per letto non intendo che ciascun individuo che si riconosca nel movimento comunista lo debba aver
letto effettivamente, bensì in una accezione più ampia, nel senso di farlo proprio. La spinta profonda e iniziale a essere comunisti credo che provenga da
una insofferenza, da un senso di profonda inaccettazione per quanto vediamo e sperimentiamo ogni giorno nella nostra vita e, per quanto riusciamo a
vedere e sentire, nella vita dei nostri simili. È il rifiuto dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza, che è tanto più forte in quanto questa ingiustizia e questa
ineguaglianza le sentiamo essere ingiustificate, a muoverci. Eppure, molti
(per fortuna!) sono coloro che, mossi da una simile intolleranza, operano o
Si arriva infine al
paradosso estremo: quanto
maggiore è la ricchezza
accumulata tanto più
grande è la povertà
prodotta. E si assiste alla
crescita della povertà in
mezzo all’abbondanza
* ECONOMISTA E MEMBRO DEL CC DEL PDCI
OPINIONI A CONFRONTO
ritengono di operare contro l’oppressione, lo sfruttamento, e persino
l’ineguaglianza senza per questo essere o dichiararsi comunisti. Seguaci
di religioni e confessioni diverse,
aderenti a partiti e movimenti filosofici variegati cercano di operare in
tal senso. Nessuno di questi, però,
ha la nostra stessa idea di società futura o i nostri stessi metodi di analisi e di intervento sulla realtà o, soprattutto, ritiene che, per risolvere i
problemi sociali, sia necessario trasformare la società alla sua radice,
cioè a partire dai rapporti di produzione. In effetti, noi non siamo neppure i primi comunisti della storia
né il comunismo è stato inventato
da Marx. L’aspirazione a ristabilire la
situazione di eguaglianza tra gli uomini esistente nello status quo ante il
sorgere delle classi, è probabilmente
vecchia quanto l’esistenza delle classi stesse. Comunisti erano i primi
cristiani, prima che il cristianesimo
diventasse instrumentum regni dell’impero romano in crisi. Comunisti
erano i seguaci di Thomas Müntzer
che nel XVI secolo guidavano le armate contadine contro i principi tedeschi al grido di «omnia sunt communia!». Comunisti erano gli
«uguali» capeggiati da Babeuf, la cui
sconfitta chiuse la Rivoluzione francese, suggellando la definitiva affermazione del dominio politico della
borghesia. E dal fallimento degli
«uguali» scaturì per tutta l’Europa
un fiorire di sette, anche grazie all’opera di quel grande pioniere italiano del comunismo che fu Filippo
Buonarroti. Il comunismo moderno,
il nostro comunismo, pur figlio delle
lotte degli sfruttati di ogni tempo e
luogo, è qualcosa di altro e diverso.
È, come disse Marx al momento di
costituire la Prima Internazionale, il
superamento della fase delle sette e
dei progetti utopistici del passato,
generosi ma impotenti. Essere comunisti «moderni» è soprattutto la
consapevolezza che oggi, per la
prima volta nella storia, il comunismo è possibile. Perché oggi l’esistenza delle classi, derivata dallo sviluppo della divisione del lavoro e
necessaria allo sviluppo della capacità produttiva del lavoro umano, non
solo non è più necessaria, ma è anzi
di ostacolo al libero e ulteriore sviluppo delle forze produttive della
società. In buona sostanza, nella
fase storica caratterizzata dall’affermazione definitiva del capitale e
dalla contraddizione lavoro salariato
– capitale si sono create le condizioni per l’abolizione delle classi e
quindi dello sfruttamento e dell’ineguaglianza. È in questo senso che
Marx scrisse: «il comunismo non è
uno stato di cose che debba essere
instaurato, un ideale al quale la realtà deve conformarsi. Chiamiamo
comunismo il movimento reale che
abolisce lo stato di cose presenti. Le
condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»1. Il «presupposto» è il movimento del capitale stesso. Essere comunisti implica, quindi, una specifica
concezione del mondo, un determinato metodo di analisi della Storia e
della Società e una certa prassi di
lotta.
2. Il comunismo è necessario e
possibile
Il comunismo è possibile perché è
necessario. Il capitalismo produce
insieme il massimo di razionalità e il
massimo di irrazionalità, il massimo
di ricchezza e il massimo di povertà,
il massimo delle possibilità di sviluppo dell’individuo e il massimo della
frustrazione e dell’oppressione individuale. In nessuna altra società del
passato la scienza ha avuto un così
grande ruolo e soprattutto un così
grande influsso sulla produzione, attraverso la tecnologia. Ma la scienza
non permea veramente né la comprensione della vita, né la gestione
complessiva della società. Eppure il
modo di produzione capitalistico si
presenta come razionale. Quanto
più l’azienda è grande tanto più è
governata da un piano razionale in
base al quale viene stabilita la suddivisione del lavoro. L’obiettivo di tale
pianificazione è ridurre il tempo di
lavoro necessario alla produzione
della merce. Per ottenere questo risultato la forza produttiva del lavoro
viene incrementata e vengono introdotte le macchine. Ma la riduzione del tempo di lavoro necessario e
l’introduzione di macchine e tecnologie sempre più avanzate non si
traduce in maggiore ricchezza e minore fatica per tutti. Il principio del
movimento del capitale, infatti, non
è la soddisfazione dei bisogni umani
ma la massimizzazione dei profitti,
l’accumulazione fine a se stessa, attraverso l’aumento dello sfruttamento del lavoratore, mentre la riduzione del tempo di lavoro necessario è finalizzata alla competizione
tra i capitali. Così alla razionalità
della divisione del lavoro nelle singole unità di capitale corrisponde
l’irrazionalità anarchica della divisione generale del lavoro nella concorrenza che caratterizza il sistema
economico complessivo. E il sogno
di una umanità libera dalla fatica e
dal bisogno si traduce in un incubo
per la maggior parte della popolazione: sovrapproduzione di mezzi di
produzione, di merci, di lavoratori,
orari di lavoro che si allungano, intensità del lavoro che aumenta. Si
arriva infine al paradosso estremo:
quanto maggiore è la ricchezza accumulata tanto più grande è la povertà prodotta. E si assiste alla crescita della povertà in mezzo all’abbondanza. Anzi, il fenomeno dei
«poveri che lavorano» non è un effetto imprevisto e accidentale dell’economia del capitale, ma ne è ragione d’esistenza, obbligo ai bassi
salari e causa di alti profitti. Fatti
questi di cui abbiamo testimonianza
proprio nel Paese più ricco e potente
del mondo, gli Usa, dove, accanto a
una immane ricchezza, si allungano
le file dei senza casa e cresce una
umanità lavoratrice senza diritto alla
salute, a una vecchiaia dignitosa, a
una infanzia educata e protetta. Il
lavoratore, però, col capitale non
perde solo il controllo sulla ricchezza prodotta, ma anche sulla sua
stessa attività lavorativa, sempre più
parcellizzata, ripetitiva, esecutiva,
mentre la razionalità della pianifica-
43
è in antitesi alla natura caotica, irrazionale,
anarchica e indipendente dal controllo dei produttori
che il comunismo è «dicibile»
44
zione aziendale si manifesta come
costrizione, dispotismo sui lavoratori. Non sono gli uomini, i produttori, a dominare le forze produttive,
controllandole e dirigendole, ma
sono le forze produttive a dominarli,
come se, anziché il prodotto dell’attività umana, fossero forze naturali
che incombono, minacciando di scatenarsi con tutta la loro furia cieca
sulla società. Come avviene in tutta
la sua devastante evidenza proprio
nel corso delle crisi che immancabilmente e periodicamente scuotono la
società del capitale e il cui superamento è possibile, entro i rapporti di
produzione dominanti, solo attraverso immani distruzioni di ricchezza, che ristabiliscono le condizioni
per la ripresa del processo d’accumulazione. La distruzione di ricchezza diventa così necessità, allo
scopo di produrre altra e sempre più
grande ricchezza. Una logica irrazionale anima il capitale, la quale raggiunge il suo apice nella guerra, fenomeno sorto con la civiltà e le classi, ma che con il capitalismo assume
una necessarietà e una violenza mai
viste e crescenti. È in antitesi alla
natura caotica, irrazionale, anarchica e indipendente dal controllo dei
produttori che il comunismo è «dicibile». Il comunismo si sostanzia
proprio come razionalità, pianificazione e controllo delle forze produttive. Ma non si tratta dell’applicazione di una razionalità meccanica, deterministica alla realtà da parte di
una intelligenza o di una elìte superiori. Il comunismo è, per Marx, la
riconduzione delle forze produttive
della società sotto il controllo dei
produttori liberamente associati, secondo un piano razionale2. Quindi,
il comunismo non è soltanto (neanche nella sua fase iniziale, quella socialista) proprietà collettiva (e tantomeno soltanto statale) dei mezzi di
produzione, come invece si è troppo
spesso sottolineato e praticato nelle
esperienze del socialismo realizzato.
È, soprattutto, gestione collettiva delle
forze di produzione della società. E
questo significa non solo il controllo
della distribuzione dei risultati del
lavoro, cioè del plus-prodotto, ma
anche la ricomposizione della scissione tra lavoro intellettuale e manuale, cioè tra direzione ed esecuzione. La questione centrale, dunque, è quella del come si esercita tale
controllo. E il come riguarda il rapporto tra la classe lavoratrice e lo
Stato, ovvero la trasformazione
dello Stato da entità separata e contrapposta alla maggioranza della società civile, i lavoratori salariati, in
un organismo sempre più partecipato dalle masse e quindi sempre
meno «Stato». È in questo senso
che Marx e Lenin parlano di «abolizione» dello Stato. Il comunismo è,
dunque, l’unica vera democrazia
possibile, basata sulla libera associazione tra gli individui produttori e
orientata alla liberazione delle loro
potenzialità e inclinazioni. È il contrasto stridente tra quanto è in potenza e la realtà effettiva della società attuale a fornire le basi materiali,
il presupposto del comunismo.
Mentre nelle società e nei modi di
produzione precedenti la povertà e
il dominio di classe apparivano
«inevitabili», oggi lo sviluppo delle
forze produttive consentirebbe la
soddisfazione dei bisogni dell’umanità, rendendo inutile e perciò ancora più intollerabile l’oppressione
di classe. Ma, «lo sviluppo delle
forze produttive che rappresenta la
missione storica e la ragion d’essere
del capitale«3 trova un limite nel capitale stesso e «questo specifico limite testimonia del carattere ristretto,
meramente storico, transitorio, del
modo di produzione capitalistico; attesta che esso [il capitale] non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato a
un certo punto entra in conflitto
con il suo stesso ulteriore
sviluppo«4. Lo sviluppo delle forze
produttive, insieme alla organizzazione razionale della produzione
complessiva, che permetterebbe di
impiegare tutte le forze di lavoro e
di evitare gli sprechi, renderebbero
possibile ridurre l’orario di lavoro
per tutti. E in questo modo si libererebbe tempo vitale sia per la partecipazione alla direzione della vita economica e sociale, che nella società
attuale viene monopolizzata dal ceto
politico legato alla classe dirigente
nell’economia, sia per il libero e
multilaterale sviluppo di ogni individuo. A questo proposito, va notato
che il capitale, estendendo il modello organizzativo della grande industria a tutti i settori dell’economia,
distrugge la vecchia divisione del lavoro con le sue specializzazioni fossilizzate. Se questo, da una parte
OPINIONI A CONFRONTO
«impone la necessità di riconoscere il cambiamento dei
lavori e la più grande versatilità dell’operaio quale legge
sociale della produzione», dall’altra «impone la necessità
di rimpiazzare l’individuo parziale, semplice esecutore di
una funzione di dettaglio, con l’individuo integralmente
sviluppato, per il quale differenti funzioni sociali sono
modi che si scambiano liberamente»5. Sulla base della
grande industria si crea anche il presupposto alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, attraverso il
processo di centralizzazione dei capitali, sollecitato dalla
concorrenza, che porta «all’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi», fino alla realizzazione dei monopoli. Infatti, osserva Marx: «l’accentramento e la socializzazione del lavoro arrivano a un punto in cui entrano in contraddizione col loro rivestimento
capitalistico. Ed esso viene infranto. Suona l’ultima ora
della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.» Ed è così che si determina la possibilità «della trasformazione della proprietà capitalistica, che
già si basa in pratica sull’andamento sociale della produzione, in proprietà sociale»6. Ma l’elemento che Marx
pone alla base della possibilità del comunismo è soprattutto la realizzazione del mercato mondiale. Il comunismo è possibile solo se è universale e ciò richiede relazioni «empiriche» universali, possibili solo sulla base del
mercato mondiale. «Altrimenti», avverte Marx già nell’Ideologia tedesca «1) il comunismo potrebbe esistere solo
come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute realizzare come potenze universali…3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale»7. Parole queste che forse
possono dire qualcosa sulla fine dell’esperienza del comunismo novecentesco, coincidente con la ricostituzione
del mercato mondiale e sulla fase storica che si sta
aprendo. Del resto, lo stesso Lenin intendeva la Rivoluzione russa solo come primo passo di una rivoluzione
che sarebbe dovuta essere almeno europea.
3. Il comunismo è pensare e praticare il futuro
Essere comunisti oggi vuol dire riconoscere la necessità e
la possibilità del comunismo in quanto detto fino a ora.
45
Vuol dire rintracciare le basi del comunismo nella società
odierna, nella quale, se da una parte il capitale si contrappone ai lavoratori come potenza sempre più grande e
ostile, dall’altra crea, molto più che nel passato, i necessari presupposti per la sua trasformazione in una forma
sociale superiore. La progressiva concentrazione monopolistica dei capitali, l’aumento delle differenze sociali, la
finanziarizzazione dell’economia, la crisi generale di sovrapproduzione e soprattutto la creazione del mercato
mondiale sono, in questo senso, elementi determinanti
della possibilità del comunismo. Certo nessuno può parlare di «immediata» attuabilità del comunismo. Numerose sono le «mediazioni» che questo richiede. Ma, cerchiamo di intenderci, sarebbe un errore relegare la necessità del comunismo in una lontana prospettiva da
raggiungere chissà quando. Intenderla come una specie
di faro che brilla alla fine di un percorso chissà quanto
lungo. La questione del comunismo non può che informare di sé l’azione odierna dei comunisti, perché già oggi
le contraddizioni del capitale vengono impietosamente
allo scoperto e pongono delle domande cui si può rispondere solo andando alla radice, ai rapporti di produzione.
Appare chiaro cioè che il mercato e il privato non sono
più in grado di sostenere i compiti posti dallo sviluppo
delle forze produttive in questa fase di nuova mondializzazione dei mercati e di riproposizione della crisi generale. L’involucro costituito dai rapporti privati di proprietà
viene lacerato in più parti e lo Stato è di nuovo invocato,
dagli stessi capitalisti, a sostegno dell’economia. In tale si-
46
tuazione si rivela tutta la fragilità di un sistema che si
pretendeva, fino a ieri, come eterno. Si ripresenta così
non solo la possibilità di proporre di nuovo il superamento del capitalismo, ma si riacquista anche la legittimità a parlare di regolazione, di pianificazione razionale
dell’economia, di proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Elementi questi non da interpretare come «programma massimo» o da tenere come prospettiva per il
futuro, ma da far vivere, anche parzialmente, nelle lotte
e nelle proposte della vita politica di ogni giorno. È fondamentale chiarire questo concetto in un momento, seguente alla sconfitta del tentativo iniziato con l’Ottobre,
in cui i mass media insistono nell’ossessiva damnatio memoriae di quel tentativo e di tutti coloro che vi si sono richiamati nel XX secolo. Del resto, non è casuale tale perseveranza da parte del capitale, conscio della spada di
Damocle che continua a pendergli sul capo. La rottura
che l’Ottobre operò nel dominio mondiale del capitale,
realizzatosi con la «prima globalizzazione» all’inizio del
900, è riuscita, pur con tutti i suoi limiti, a rappresentare
per molti decenni un punto di riferimento alternativo
reale e perciò pericoloso. Oggi l’integrazione del mercato
mondiale e le contraddizioni del capitale si ripresentano,
e in una modalità tanto più grande che una eventuale
rottura in qualche punto provocherebbe reazioni molto
più estese e profonde. Ma nessuna trasformazione sociale
può avvenire in modo deterministico, cioè come portato
spontaneo delle contraddizioni del capitale. Essere comunisti oggi vuol dire, per questo, comprendere la necessità
dell’elemento soggettivo e della volontà cosciente. Non
basta essere coscienti della realtà del capitale. Solo se tale
coscienza si organizza e conquista le masse diventa una
forza materiale che può trasformare la realtà. E condizione necessaria per arrivare a questo sono il partito e la
lotta politica. A pensare tutto questo ci si sente piccoli e
inadeguati, specie se si guarda al nostro stato attuale, me
ne rendo conto. Ma la forza di un movimento di trasformazione sta nella capacità di elevarsi dall’immediato,
senza perdere il contatto con la realtà, per immaginare il
futuro. Se la fantasia è sogno staccato dalla realtà, l’immaginazione è capacità di pensare una realtà diversa, a
partire dalla realtà stessa, e dunque capacità di agire in
modo alternativo. Ed è di immaginazione e coraggio che
abbiamo bisogno, il coraggio di mantenere posizioni
«estreme», non estremiste, perché in una situazione in
cui i margini di mediazione si riducono e la lotta di classe
viene inasprita dal capitale solo in questo modo si può
assolvere al compito principale dei comunisti: indicare la
direzione. Essere comunisti, dunque, vuol dire avere coraggio, il coraggio di pensare e praticare il futuro. 1. K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma
1979, p. 25.
2. «La figura del processo vitale sociale, ossia del processo materiale di produzione, getta via il suo mistico mantello di nebbie solo
quando sta, come prodotti di uomini liberamente uniti in società,
sotto il loro controllo consapevole e attuato secondo un programma», K. Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma 1996, p. 82.
3. Ibidem, p. 1091.
4. Ibidem, p. 1077.
5. Ibidem, p. 358.
6. Ibidem, p. 548.
7. K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma,
1979, p. 25.
IDEE
i manoscritti
economico-filosofici
del 1844
G IORGIO N EBBIA *
«
Nell’ambito della proprietà privata ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio,
per ridurlo a una nuova dipendenza e sospingerlo a un nuovo modo di
godimento e quindi di rovina economica. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, e ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spoliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del
denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto
in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria
cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro».
Una lucida analisi delle nostre condizioni attuali, di cittadini-lavoratori-consumatori dei Paesi industriali, schiavi di bisogni e di merci, inventati da abili specialisti per costringerci a diventare schiavi di un crescente numero di oggetti,
per spingerci a qualsiasi sacrificio pur di conquistare i nuovi «esseri ostili«?
I creatori di mode sempre nuove ed effimere, i fabbricanti di merci e macchinari di breve durata, i teorici della società usa-e-getta, si propongono di soggiogare ciascuno di noi, di renderci più poveri proprio in quanto siamo spinti a possedere più oggetti. Gli organizzatori delle nuove servitù e miserie – imprenditori, proprietari dei mezzi di comunicazione, ormai essi stessi nostri
governanti – ci spiegano che si può uscire dalla crisi economica soltanto consumando di più.
Anzi che questo incremento dei consumi è indispensabile per la conservazione e l’aumento dei posti di lavoro, per cui i lavoratori-consumatori sono oppressori e oppressi di se stessi, dal momento che, per acquistare le merci da essi
stessi prodotte, devono lavorare e farsi sfruttare sempre più intensamente.
Ma chi è l’autore delle righe iniziali di questo articolo? Il filosofo Marcuse? lo
scrittore Baudrillard? o Vance Packard nella sua denuncia dei persuasori occulti? Ralph Nader, l’avvocato americano dei consumatori? i sociologi della
fine degli anni sessanta del Novecento? Nessuno di loro. La citazione si trova
nel terzo di quattro quaderni incompiuti scritti a Parigi dal marzo al settembre 1844, da un giovanotto ventiseienne, Karl Marx (1818-1883). Quella del
1844 fu un’estate fondamentale per Marx che a Parigi incontra Engels; da qui
comincia la grande avventura dei due giganti. I quaderni in cui furono raccolti i pensieri di Marx di quella primavera-estate, dopo aver girato a lungo, furono pubblicati per la prima volta a Berlino nel 1932, proprio alle soglie dell’avvento del nazismo, col titolo: «Manoscritti economico-filosofici del 1844».
I «manoscritti» furono tradotti in italiano, indipendentemente, da Delio Cantimori, da Galvano Della Volpe e da Norberto Bobbio fra il 1947 e il 1949. La
* UNIVERSITÀ DI BARI – [email protected]
47
traduzione ed edizione critica di Norberto Bobbio furono pubblicate da Einaudi nel 1949 e poi di nuovo nel 1968, con varie ristampe. Negli anni sessanta
del Novecento, sull’onda della contestazione giovanile ed ecologica, i «Manoscritti del 1844» divennero un libro di culto per la freschezza e attualità della
critica della società dei consumi e per la lucidità con cui è impostato il rapporto uomo-natura.
Per buona memoria delle più giovani generazioni di ecologisti vorrei ricordare queste poche righe:
48
«L’uomo (come animale) vive della natura inorganica, e quanto più
universale è l’uomo dell’animale, tanto più universale è il regno della
natura inorganica di cui egli vive. Le piante, gli animali, le pietre, l’aria,
la luce, ecc. costituiscono anche praticamente una parte della vita
umana e dell’umana attività. L’uomo vive fisicamente soltanto di questi prodotti naturali. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto».
Ma poco dopo, sempre in questo «primo» manoscritto, Marx ricorda che
«l’animale costruisce seconda la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie; l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza».
Un tema che Marx riprenderà nel 1867, nel quinto capitolo del primo libro
del «Capitale» nel celebre passo che distingue fra il lavoro dell’ape e quello
dell’architetto.
Non si dimentichi che il 1844 appartiene a un periodo fecondissimo per lo sviluppo delle scienze naturali. Negli anni 40 Liebig getta le basi delle leggi della
nutrizione vegetale e introduce la «legge del minimo»; Darwin era tornato da
poco dal suo viaggio intorno al mondo con la nave Beagle (1831-1836) e
stava meditando, nella sua casa nella campagna inglese, sui rapporti fra le specie viventi e il loro ambiente che troverà compiuta espressione nel 1859 con
il libro «Sull’origine delle specie». Il 1844 precede di molto la prima edizione,
del 1864, del celebre libro di George Marsh su «L’uomo e la natura» e la pubblicazione, nel 1866, della conferenza di Haeckel in cui viene usata per la
prima volta la parola «ecologia».
Nella primavera-estate del 1844 il pensiero di Marx si svolge così dalla analisi, di influenza hegeliana, della posizione dell’uomo nella natura, un uomo
che è un animale, in quanto appartiene alla natura, ma è un animale «speciale». Passa poi a considerare come la società basata sulla proprietà privata
metta gli esseri umani uno contro l’altro, per la conquista delle merci e per la
sopraffazione. L’origine, la fonte, e, nello stesso tempo, il prodotto, il risultato e la conseguenza necessaria del lavoro alienato è la proprietà privata, il cui
carattere e ruolo sono ripresi nel secondo, il più breve, dei «Manoscritti».
Come la proprietà privata condizioni non solo il lavoro, ma anche i bisogni
umani è descritto in modo suggestivo nel terzo dei «Manoscritti», di cui riproduco alcuni passi nella traduzione di Norberto Bobbio (i corsivi sono nel testo).
«Abbiamo visto quale significato abbia, facendo l’ipotesi del socialismo,
la ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione quanto anche un nuovo oggetto di produzione... Nell’ambito
della proprietà privata il significato opposto. Ogni uomo s’ingegna di
procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un
nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un
nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno
cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per
trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico».
«Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei,
I creatori di mode
sempre nuove ed effimere, i
fabbricanti di merci e
macchinari di breve durata,
i teorici della società usae-getta, si propongono di
soggiogare ciascuno di noi,
di renderci più poveri
proprio in quanto siamo
spinti a possedere più
oggetti
IDEE
ai quali l’uomo è soggiogato, e ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo
diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta
giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del
denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce».
«Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte
l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava – schiava ingegnosa
e sempre calcolatrice – di appetiti disumani, raffinati, innaturali, e immaginari.... Il produttore, al fine di carpire qualche po’ di denaro e di
cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo cristianamente amato, si
adatta ai più abietti capricci dei propri simili, fa la parte di mezzano tra
i propri simili e i loro bisogni, eccita in loro appetiti morbosi, spia ogni
loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi buoni uffici».
Lo stile e i termini sono quelli di uno scrittore di un secolo e mezzo fa, ma
l’immagine che viene data della società corrisponde perfettamente a quella
che abbiamo sotto gli occhi anche oggi: vengono inventate merci non per soddisfare bisogni, ma per asservire ogni persona a nuovi acquisti; vengono creati con le più raffinate tecniche, nuovi bisogni per mettere in concorrenza gli
esseri umani fra loro, fin dalla più tenera età, colpendo in questo maggiormente le classi meno abbienti che sono costrette a cercare più guadagni, leciti e illeciti, per ridursi a sempre nuove dipendenze.
Nel terzo «Manoscritto» seguono poi alcuni passi sulla città e sulle abitazioni,
che spiegano bene come la conquista della casa non solo debba essere pagata,
ma pagata a caro prezzo dalla speculazione che assicura case in zone affollate, con l’aria e le acque contaminate; il tema del degrado urbano si ritroverà
tante volte nelle opere di Marx e di Engels, fino all’«AntiDühring» di Engels
del 1878.
«Lo stesso bisogno dell’aria aperta – continua il terzo dei «Manoscritti del
1844» – cessa di essere un bisogno nell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare
nelle caverne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale
della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando
esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno
e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare.
«La casa luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei
grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più
per l’operaio. La luce, l’aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui
anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l’uomo. La
sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in
senso letterale) della civiltà, diventa per l’operaio un elemento vitale.
Diventa un suo elemento vitale il complesso e innaturale abbandono,
la natura putrefatta».
Dopo aver esaminato come l’economia politica governa e orienta i bisogni
umani al servizio del guadagno e del profitto dei capitalisti, Marx parla dell’organizzazione della produzione.
«Il senso che la produzione ha relativamente ai ricchi, si mostra manifestamente nel senso che essa ha per i poveri: verso l’alto la sua manifestazione è sempre raffinata, dissimulata, ambigua, pura e semplice
49
apparenza; verso il basso è grossolana, scoperta, leale, vera e propria
realtà. Il bisogno rozzo dell’operaio è una fonte di guadagno assai maggiore che il bisogno raffinato del ricco. Le abitazioni nel sottosuolo di
Londra rendono ai loro padroni più che i palazzi, cioè rappresentano
per loro una ricchezza maggiore, e quindi per usare il linguaggio dell’economia politica, una maggiore ricchezza sociale».
50
«E così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula
altrettanto sulla loro rozzezza; sulla loro rozzezza in quanto è prodotta
ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma
di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno. Le bettole inglesi sono
perciò una rappresentazione simbolica della proprietà privata. Il loro
lusso mostra il vero rapporto del lusso e della ricchezza dell’industria
con l’uomo. E sono quindi anche a ragione i soli divertimenti domenicali del popolo trattati per lo meno con mitezza dalla polizia inglese».
Sono tutti temi che Marx riprenderà molte volte nelle sue opere, ma che qui mi
sembra vengano formulate con un’ironia e un vigore che non sempre si trovano nelle opere più mature. C’è una soluzione? Il giovane Marx l’individua nel
«comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa
come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione
dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per se’, dell’uomo come essere sociale, cioè umano.
Questo comunismo... è la vera risoluzione dell’antagonismo fra la natura e l’uomo, fra l’uomo e l’uomo, ... tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie... L’essenza umana della natura esiste soltanto per
l’uomo sociale; infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza
umana... Dunque la società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera risurrezione della natura, il
naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura».
Le analisi degli ultimi decenni hanno mostrato bene che la radice della crisi
ecologica sta proprio nello sfruttamento privato della natura, bene collettivo
per eccellenza, per ricavarne quantità sempre maggiori di merci, progettate e
propagandate non per soddisfare bisogni umani, ma per costringere sempre
più vaste fasce della popolazione umana a vendere il proprio lavoro per ottenere il denaro necessario per acquistare l’«essere estraneo» di cui parla Marx.
Proprio alla nostra epoca è toccata la sorte di vedere attuata l’anticipazione di
Marx, grazie all’asservimento di uno straordinario mezzo di comunicazione
come la televisione – un mezzo che avrebbe potuto essere liberatorio, stru-
Non si dimentichi che
il 1844 appartiene a un
periodo fecondissimo per lo
sviluppo delle scienze
naturali. Darwin era
tornato da poco dal suo
viaggio intorno al mondo
con la nave Beagle (18311836) e stava meditando,
nella sua casa nella
campagna inglese, sui
rapporti fra le specie
viventi e il loro ambiente
IDEE
mento di diffusione di conoscenze e di solidarietà – alla pubblicità e alla vendita delle merci, alla moltiplicazione dei bisogni, alla creazione di bisogni inutili sempre meno duraturi.
E non destano meraviglia le lotte per la conquista di una maggiore fetta del
potere televisivo, il più efficace strumento che oggi consente di incantare sempre nuovi acquirenti di merci, capace di creare nuovi miti e modelli da scimmiottare moltiplicando le merci inutili a scapito della conoscenza, della attitudine critica, dei rapporti sociali, tarpando le ali a qualsiasi lotta per l’emancipazione. Si pensi alla «perfezione» delle tecniche per produrre rumore che
sovrasta le parole, alle chat lines in cui vengono scambiate banalità per indurre a evitare di parlare (chat lines immaginate già nel 1951 da Ray Bradbury in
«Fahrenheit 451», come strumento inventato dal «Governo» per impedire la
lettura, per impedire di pensare «ai fiori dei campi, ai gigli sereni»).
E poiché la crisi ecologica è proprio il risultato dell’espansione dei bisogni artificiali e dei consumi, non c’è da meravigliarsi che i governi di destra rimuovano i controlli e i divieti sui rifiuti, sull’inquinamento, sulla speculazione sui
suoli, su qualsiasi cosa che possa rallentare i consumi e gli sprechi.
La rilettura dei «Manoscritti» marxiani di un secolo e mezzo fa potrebbe fornire anche qualche nuova idea sulle linee di lotta di un efficace movimento
ambientalista. Certo: è possibile sporcare un po’ meno il mare costruendo depuratori, o smaltire un po’ di rifiuti con qualche inceneritore, o salvare qualche milione di uccelli disturbando i cacciatori, e ciascuna di queste azioni è in
sé lodevole, anche se alcune si limitano a spostare la violenza alla natura da
una zona all’altra, dall’aria al suolo, dai Paesi ricchi a quelli poveri.
Un diverso rapporto con la natura si può cercare soltanto in una critica profonda dei rapporti di proprietà, di produzione, di lavoro, di uso della scienza e della
tecnica. Una rivoluzione culturale tutta da inventare e di cui non abbiamo finora modelli a cui riferirci. Le poche società che dicevano di essere socialiste e
comuniste sono state spesso segnate da catastrofi ecologiche e da violenze
umane perché, in realtà, esse operavano secondo le stesse regole – dell’espansione della produzione e del potere – «copiate» dalle società capitalistiche.
La grande svolta a destra dei Paesi vetero-capitalistici e di quelli neo-capitalistici, sorti dalle ceneri del «comunismo reale» e dall’avvio all’emancipazione
del Sud del mondo, sta rapidamente aggravando la crisi delle risorse naturali,
la pressione demografica, la carica di egoismo, violenza e competizione che
mette popoli contro popoli, persone contro persone.
È difficile combattere le battaglie ecologiche quotidiane – che cercano di fermare gli inquinamenti, la contaminazione dovuta ai rifiuti, l’erosione del
suolo, i mutamenti climatici e la perdita della biodiversità, se non si riconosce
chiaramente chi è il nemico.
La separazione degli esseri umani dalla natura, la competizione e la sopraffazione di ciascun uomo e di ciascun gruppo di esseri umani su altri, vanno cer-
cati nelle leggi dell’attuale economia,
della proprietà privata, del profitto.
Forse un giorno, forse presto, la situazione ambientale dei terrestri sarà
così grave da indurli a ripensare al
proprio futuro in termini completamente nuovi e diversi dagli attuali:
forse la rilettura di Marx, un giorno,
ci aiuterà a ricordare e capire le radici della crisi e ci suggerirà qualche soluzione. E speriamo che non sia necessario aspettare un altro secolo e
mezzo! 51
il terrorismo di sinistra
in Italia
una storia tra «affinità e divergenze»1
52
G IANNI F RESU *
L
’eversione armata di matrice marxista, comparsa nel nostro Paese negli
anni Settanta, ha un retroterra politico e culturale che non può certo
essere ritenuto totalmente estraneo alla tradizione della sinistra e in
particolare del suo più importante partito. Si è parlato spesso di «album di famiglia», ciò che è certo è che la militarizzazione della sinistra rivoluzionaria si
muove e sviluppa entro un canone piuttosto tradizionale. Questo nonostante
una storia, quella dei comunisti, postasi in conflitto con la concezione stessa
del terrorismo e malgrado il fatto che Lenin, nella sua elaborazione e battaglia
politica, abbia a più riprese combattuto la tendenza a confondere lotta rivoluzionaria e terrorismo, mostrandone differenze e incompatibilità. Un dibattito
assai concreto quello tra le forze rivoluzionarie russe a cavallo tra Ottocento
e Novecento, proprio per le implicazioni politiche nel rapporto tra azione e
rapporti sociali. Per Lenin la lotta di classe rivoluzionaria non aveva nulla da
spartire con il modo di concepire il rapporto tra politica e violenza proprio del
terrorismo, frutto di una concezione individualistica che si esprimeva nella
mistica del «gesto». Così, nei fatidici anni tra 1904-1905, Lenin era netto nel
contrapporre lotta di classe e rivoluzione proletaria al metodo terroristico, da
egli definito il «metodo specifico di lotta degli intellettuali» che non hanno alcuna fiducia nella vitalità e nella forza delle masse popolari e dunque pretendono di sostituirsi a esse attraverso l’atto individualistico:
Quanto più pieno fu il successo dell’impresa terroristica, tanto più essa
confermò l’esperienza fornitaci da tutta la storia del movimento rivoluzionario russo, un’esperienza che ci mette in guardia dai metodi di
lotta quali il terrorismo. Il terrorismo è stato e rimane un metodo di
lotta specifico degli intellettuali. E, comunque si valuti l’importanza
del terrorismo, in quanto integrazione e sostituzione del movimento
popolare, i fatti attestano in modo inconfutabile che gli attentati politici individuali non hanno da noi nulla in comune con gli atti di violenza della rivoluzione popolare. Ogni movimento di massa è possibile
nella società capitalistica solo come movimento operaio classista. (...)
Non fa meraviglia se tanto spesso, da noi, si trova tra i rappresentanti
radicali (o radicaleggianti) dell’opposizione borghese gente che simpatizza per il terrorismo. Né fa meraviglia che tra gli intellettuali rivoluzionari siano particolarmente attratti dal terrorismo proprio quelli che
non credono nella vitalità e nella forza del proletariato e della sua lotta
di classe2.
Sull’internità o estraneità del fenomeno terroristico alla storia comunista e
* RICERCATORE
IDEE
alla tradizione del Pci, si sviluppò tra il 1977 e il ’78 un vivacissimo dibattito
a sinistra, ospitato in un confronto serrato tra le pagine de «il manifesto». In
uno di questi articoli, emblematicamente intitolato I figli dei bolscevichi? Rossana Rossanda contestava la tesi emergente, specie tra le fila di Lotta Continua,
secondo cui in realtà il terrorismo sarebbe stato «l’ultimo figlio del Pci perché
da bravo figlio lo imita e, da bravo figlio, tanto più lo imita quanto più il padre
lo delude».
«Quel che oggi è in atto in Italia e di cui si discute non è la violenza,
ma il terrorismo, e sono due cose diverse. I partiti comunisti furono
sempre violenti, fino alle ultime edizioni, quasi mai terroristi. Fra tutte
le pratiche di lotta, usarono il terrorismo raramente, con circospezione
e grandissimo controllo. Per due buone ragioni: la prima è che il terrorismo privilegia l’individuo (e quindi gli riconosce un potere e un ruolo
e il gesto), mentre la tradizione comunista privilegia il collettivo e
l’azione come tessera d’un mosaico complesso e subordinato al partito
e alla sua strategia, il cui asse fondamentale è sempre altrove; in secondo luogo perché concepisce la violenza come momento terminale e
transitorio d’una azione politica, le restituisce insomma un senso brutalmente ma puramente strumentale. Non si troverà, nell’agiografia
comunista, nessun «eroe» ritagliato sullo schema della violenza come
valore; e quanto al terrorista che ha operato contro il partito, la sua
sorte è di scomparire, non solo come gesto, dalla storia»3.
Nel terrorismo, scriveva ancora la Rossanda, al centro non sta né il partito né
il popolo ma il gruppo con la sua capacità tecnico-militare, il terrorismo italiano insomma non puntava a costruire un soggetto politico ma a bloccare
l’avversario. Dunque Lenin non c’entrava niente, e limitarsi ad «annegare» il
terrorismo nell’idea della violenza, anziché considerarlo come specifica tecnica e idea della politica, avrebbe significato dare una lettura superficiale del fenomeno e soprattutto non comprendere le differenze profonde tra le manifestazioni dello scontro di classe in Italia dal dopoguerra in poi.
Ritornare su questa elaborazione è importante anche se poi bisogna tener
conto che la lotta armata nel suo comparire in Italia si considera tutto tranne
che esperienza terroristica. Questo, se vogliamo, è un primo elemento di contraddizione che merita di essere approfondito.
Il riferimento costante alla Resistenza armata contro il nazifascismo, l’idea della
continuità di una la lotta di liberazione nazionale ancora da completare, la convinzione di un tradimento di quella esperienza nel suo epilogo unitario e democratico, sono alcuni dei temi più ricorrenti nel formarsi del clima culturale
e delle prime esperienze organizzate di lotta armata nella sinistra italiana.
Del resto non è certo un mistero che tra le pieghe del movimento partigiano
comunista vi fossero consistenti aree desiderose di proseguire lo scontro armato per la creazione di una repubblica socialista. Così come non lo è il mantenimento di una struttura armata pronta a riprendere lo scontro o comunque a servirsi delle armi anche a scopo difensivo. Un esempio di questo tipo
viene dalla famosa Volante rossa, nata dalla sezione del Partito comunista di un
quartiere operaio di Milano, la sezione «Martiti oscuri» a Lambrate, non un
gruppo clandestino autonomo ed esterno al Pci. In proposito, così ricordava
Primo Moroni:
«Sotto il nome della sede c’era scritto in grande Volante rossa. Questi
compagni, provenienti da una brigata partigiana, sfilavano nei cortei
del Partito comunista come servizio d’ordine – nel 1947-48 – con il
giubbotto che portavano in montagna e la pistola personale. Sfilavano
in pieno centro a Milano sotto gli occhi di tutti. Ne ho conosciuto alcu-
53
Per Lenin la lotta di
classe rivoluzionaria non
aveva nulla da spartire con
il modo di concepire il
rapporto tra politica e
violenza proprio del
terrorismo, frutto di una
concezione individualistica
che si esprimeva nella
mistica del «gesto»
54
ni, mentre ero un giovane operaio alla OM nel 1950, mentre una parte
dei loro dirigenti era già scappata in Cecoslovacchia. Fra questi Alvaro
che era il loro comandante (…). La Volante rossa ha effettuato nella
zona di Milano e del Nord più di 150 omicidi politici. C’è stata poi
un’altra formazione che operava a Reggio Emilia, che ha forse operato
un numero ancora maggiore di esecuzioni. C’è persino una leggenda
che circola nella Bassa emiliana, secondo cui un pullman di fascisti partito da qualche Paese in provincia di Reggio Emilia per andare a onorare la tomba di Mussolini, a Predappio, non sarebbe mai giunto a destinazione (…) In realtà 35 fascisti scomparvero davvero, e di ciascuno
si ha nome e cognome: questa non è leggenda4.
Al tema della «Resistenza tradita» – articolatasi poi nell’idea brigatista secondo cui, con la fine della guerra, al dominio nazifascista si sarebbe sostituito
quello dello «Stato Imperialista delle Multinazionali» – si aggiunge quello dell’esigenza, da parte di questi gruppi, di fronteggiare il clima venutosi a creare
con il «tintinnar di sciabole» e l’avvio di una «strategia della tensione» che
coinvolge apparati di sicurezza dello Stato italiano e di quello americano, congiuntamente all’eversione neofascista.
Il salto di qualità si ebbe con il comparire, nelle loro forme più eclatanti, delle
trame golpiste, che indussero, specie dopo la strage di Piazza Fontana, la «sinistra rivoluzionaria» allo scontro militare. I primi organismi clandestini armati, come i GAP (Gruppi di azione partigiana) guidati da Giangiacomo Feltrinelli e altri, posero nei loro documenti la necessità della resistenza armata,
in rapporto ai sempre più probabili esiti golpisti della politica italiana. In questo contesto vennero costituiti i primi nuclei semiclandestini delle BR e tutte
le organizzazioni politiche extraparlamentari si dotarono di servizi d’ordine e
di strutture semiclandestine armate, nell’eventualità di doversi difendere da
un attacco armato dello Stato. Non casualmente uno dei primi documenti
delle BR venne intitolato Nuova Resistenza. Dietro questa argomentazione, ricorrente nelle analisi del fenomeno da parte degli ambienti più
prossimi a quell’esperienza, sono
presenti però sia elementi oggettivi
di quella fase, sia tesi giustificazioniste che interpretano a posteriori la
nascita della lotta armata in chiave
esclusivamente difensiva. Insomma
una tesi «autoassolutoria» che, per
quanto plausibile, non può essere
considerata soddisfacente sul piano
dell’indagine storica. Un’analisi più
dettagliata dovrebbe necessariamente sorreggersi su tutta la documentazione esistente del periodo che va dal
1967 al 1973, per separare quanto
c’è in essa di originario e quanto di
rielaborato, ma soprattutto per mettere a fuoco il posto che veniva attribuito alla violenza politica nelle concettualizzazioni del tempo e individuarne, fino in fondo, la matrice
offensiva o difensiva.
In proposito estremamente utili si rivelano le riflessioni contenute nell’intervista5 a una figura emblematica
come Giambattista Lazagna, partigiano decorato con la medaglia d’argento e poi dirigente e amministratore
del Pci. Arrestato una prima volta nel
1972, nel corso delle indagini per la
morte di Giangiacomo Feltrinelli, è
più volte chiamato in causa e quindi
arrestato, senza alcuna prova concreta, come presunto fiancheggiatore o
addirittura come eminenza grigia
delle BR.
In questa intervista Lazagna – impegnato negli anni Sessanta in battaglie
sociali, nel sostegno ai movimenti ri-
IDEE
voluzionari in Asia e America Latina, e soprattutto nel riaffermare un’idea militante di antifascismo che sfuggisse alle retoriche celebrative patriottiche –
parlava della sua personale esperienza e del rapporto di amicizia fraterna con
Feltrinelli. Nella narrazione Lazagna spiegava due aspetti particolarmente interessanti: anzitutto il forte condizionamento esercitato dal rischio di un imminente colpo di Stato sulle riflessioni di Feltrinelli, e il fatto che l’«editore rivoluzionario» fosse tutto tranne che un dissidente antagonista rispetto alla
tradizione del Pci e alla sua impostazione filosovietica. Ovverosia, Feltrinelli
non era certo un corpo estraneo rispetto al Pci.
Partendo dal primo punto, Lazagna ricordava quanto per Feltrinelli fosse inevitabile il colpo di Stato e come ritenesse che non ci fosse molto da fare rispetto a un colpo militare analogo a quello verificatosi in Grecia. Il problema per
Feltrinelli era semmai di organizzare la resistenza dopo, attraverso la costituzione di piccole bande partigiane che attraverso la guerriglia facessero riemergere la lotta popolare. Feltrinelli era molto conosciuto in America Latina come
a Cuba; e a sua volta era un profondo conoscitore di quelle esperienze di guerriglia. Dunque la sua idea era di riproporre il modello guevarista in caso di
colpo di Stato, ma per predisporsi a quella ipotesi oramai inevitabile bisognava prepararsi alla resistenza armata, prima e non dopo il golpe. Secondo Lazagna invece il colpo di Stato andava contrastato anticipatamente, attraverso
scioperi, manifestazioni e occupazioni, cercando il coinvolgimento popolare di
massa, perché nella guerra partigiana solo i grandi scioperi avevano reso possibile l’avvio della resistenza con l’appoggio delle popolazioni. Le bombe di
piazza Fontana non fecero che accrescere questa intima convinzione di Feltrinelli come di numerosi altri militanti, spingendo una intera generazione alla
decisione di prendere l’iniziativa.
Rispetto al secondo punto, Lazagna sottolineava i legami di Feltrinelli con la
sinistra tradizionale, primo tra tutti Pietro Secchia, con i suoi miti e valori: la
Resistenza e l’Unione Sovietica.
«Quante volte l’ho sentito ribattere a chi criticava l’Unione Sovietica
che l’Urss aveva un ruolo insostituibile di contenimento dell’imperialismo americano! L’Urss, diceva, ha questa funzione essenziale; «tutto il
resto tocca a noi». (…) Feltrinelli non era antisovietico, come invece di
solito veniva dipinto. La rivoluzione culturale non lo aveva commosso
e proprio quando la Cina godeva di grande popolarità nella sinistra,
non gli ho mai sentito fare aperture significative verso il maoismo. E
non è un caso, mi pare, che l’uomo politico che gli era più vicino fosse
Pietro Secchia, ossia quello che veniva indicato come l’ultimo grande
rappresentante del vetero-comunismo»6.
Sulla necessità di una risposta armata a un eventuale colpo di Stato, così come
sull’esigenza dell’autodifesa dai gruppi neofascisti, c’era una quasi totalità di
consensi, dalla sinistra rivoluzionaria agli stessi militanti del Pci. Tuttavia la
continua escalation degli avvenimenti si scontrava con la sempre più diffusa
consapevolezza, confermata dallo stesso Secchia, che il Pci avesse da tempo
dismesso sul terreno della vigilanza quelle strutture che dalla lotta partigiana
si erano conservate per il primo decennio del dopoguerra. L’angoscia provocata da questa consapevolezza, e la necessità di rispondere colpo su colpo alle
provocazioni neofasciste, portarono al formarsi di servizi d’ordine sempre più
militarizzati, che trovarono nella vecchia Volante rossa una fonte di ispirazione fondamentale, oltre al comparire di diverse esperienze organizzative di
«Soccorso rosso» tra i vari gruppi.
Certo, oltre al mito della Resistenza tradita e all’esigenza di autodifesa da neofascisti e apparati dello Stato, c’è un vero e proprio clima politico culturale che
dalla contestazione degli anni Sessanta si specializza incanalandosi sempre più
Nella narrazione
Lazagna spiegava due
aspetti particolarmente
interessanti: anzitutto il
forte condizionamento
esercitato dal rischio di un
imminente colpo di Stato
sulle riflessioni di
Feltrinelli, e il fatto che
l’«editore rivoluzionario»
fosse tutto tranne che un
dissidente antagonista
rispetto alla tradizione del
Pci e alla sua impostazione
filosovietica
55
56
in un preciso processo di definizione ideologica e di selezione militante, portando i gruppi più politicamente definiti a separarsi dalle correnti controculturali e avviare un proprio percorso di strutturazione nelle reti della sinistra
rivoluzionaria. Se gli anni Sessanta erano stati contraddistinti da un fermento culturale che investì la società nel suo complesso, con un’esigenza di rinnovamento e democratizzazione a 360°, dopo il biennio ‘68-69 si ebbe un separarsi dei gruppi più politicizzati e una sempre più decisa radicalizzazione
ideologica.
Secondo Ermanno Gallo le radici del movimento di ispirazione rivoluzionaria
in Italia, tra i Sessanta e i Settanta, andavano ricercate in due elementi: una
prima radice storica e ideologica peculiare del nostro Paese, l’antifascismo;
una seconda radice legata alla «composizione di classe e al tipo di produzione
esistente in Italia basata sulla centralità produttiva della grande fabbrica».
Rispetto al primo elemento, Gallo ripropone la tesi sopra delineata; quanto al
secondo elemento, esso si ricollega alla tradizione della centralità operaia, che
in Italia aveva una lunga e articolata tradizione risalente all’esperienza ordinovista nel Biennio rosso. Così per Gallo le BR nascevano su un terreno classico
per la storia comunista italiana, ruotando attorno a due perni (antifascismo
militante e centralità operaia) di certo non nuovi nelle pratiche e nel lessico
del movimento operaio italiano.
La differenza rispetto al biennio ‘68-69 si ha nelle forme perseguite più che nei
riferimenti ideali. Con l’inizio dei Settanta, per un gruppo come le BR la scelta
dell’invisibilità al potere, della clandestinità divenne strategica. Su questo si
ebbe il superamento delle modalità organizzative tradizionali della sinistra.
«Questo elemento è nuovo e importante perché ripropone aspetti presenti nella resistenza ma in una forma inedita rispetto alla metropoli. È
il movimento armato che agisce all’interno dei punti nevralgici della
produzione e della città, configurando per la prima volta la “guerriglia
metropolitana”»7.
Detto di questo mutamento però, anche le prime BR si mossero, almeno fino
al 1973, su un terreno per molti versi tradizionale. Esse portarono il nucleo
armato all’interno delle strutture produttive, tuttavia, l’«inchiesta operaia»
restava il vero strumento ideologico con cui si cercava un radicamento e la
riaffermazione della centralità operaia. Sul versante militare vero e proprio, i
primi gruppi armati ancora interpretavano la funzione della violenza formale
sul piano del «significato simbolico», come «azioni esemplari» che nelle
forme e nel linguaggio si ricollegavano nuovamente all’immaginario dell’antifascismo militante e della lotta partigiana. «Le azioni violente di questo periodo, da parte delle formazioni lottarmatiste sono simboliche, emblematiche,
a contenuto sociale forte, ma mai cruente». Il vero spartiacque che portò i
gruppi dell’eversione armata, le BR in particolar modo, ad abbandonare le
azioni violente dimostrative, ad alto valore mediatico-simbolico, per adottare
lo scontro militare vero e proprio, il «muro contro muro», si ebbe nel biennio
1974-75 trovando la sua base essenziale nelle profonde trasformazioni che investirono il ciclo produttivo, e dunque anche la cosiddetta «composizione di
classe», nel 1973.
In quell’anno prendeva il via la più grande ristrutturazione produttiva dal dopoguerra che puntava a sostituire i vecchi metodi tayloristi e a realizzare una
frammentazione della produzione attraverso il decentramento produttivo (o
delocalizzazione) e la creazione di tante piccole unità produttive. È la premessa fondamentale del lavoro in conto terzi che ha poi segnato i decenni successivi. Tutto questo aveva delle conseguenze immediate sulla soggettività politica
della classe operaia e la sua capacità di incidere sui reali processi sociali e politici. Con la produzione fordista, lungi dal diventare il «gorilla ammaestrato»
IDEE
(Gramsci lo aveva ampiamente previsto nelle note sull’Americanismo), l’operaio raggiunse i livelli più alti di coscienza, capacità organizzativa, compattezza politica. Con la grande fabbrica la classe operaia strappò i suoi più importanti risultati in termini di condizioni di vita e lavoro, e divenne, attraverso il
conflitto, un soggetto realmente determinante per gli equilibri del Paese. Nella
lettura della sinistra rivoluzionaria, la ristrutturazione produttiva più che
obiettivi di razionalizzazione, efficienza ed efficacia produttiva, avrebbe perseguito obiettivi politici: frammentare la classe operaia per fiaccarla e indebolirla. Separare i diversi passaggi della produzione per dividere anche materialmente gli operai, introdurre stratificazioni molteplici tra figure e tipologie lavorative, ridurre il livello di sindacalizzazione e politicizzazione delle masse
operaie. In sostanza l’obiettivo sarebbe stato espungere il conflitto sociale e
realizzare un nuovo equilibrio – a proprio vantaggio – tra economia e politica nel Paese. Il periodo storico 1973-78 rappresenta appieno quella che negli
ambienti della sinistra rivoluzionaria era definita «l’offensiva padronale».
Tutto questo portò i gruppi semiclandestini della sinistra rivoluzionaria a cercare una risposta militare a questa offensiva.
«Un’organizzazione come Prima linea decide che, per mantenere l’autonomia, la democrazia e il potere operaio già raggiunti in fabbrica, è
necessario alzare il livello dello scontro e organizzarsi anche militarmente per reggere l’attacco padronale. Contemporaneamente nel tessuto sociale nasce e prende forza l’Autonomia operaia, organizzata o
diffusa, che pur praticando la violenza non è strutturata in organizzazioni clandestine e insegue il capitale sul territorio, là dove si scompone in nuove forme di potere.
Da quel momento le risposte assumono diverse forme. Quella di Pl e
altri organismi come la «Walter Alasia», sostengono, per esempio, che
bisogna essere presenti all’interno della fabbrica e avere contemporaneamente strutture semiclandestine. Altri movimenti di massa come
l’Autonomia operaia danno risposte diverse sul territorio continuando
a legare tra loro soggetti difformi anche al di fuori della fabbrica, nei
luoghi più dispersi della metropoli»8.
Se per un verso dunque si può dire che l’orizzonte ideologico della lotta armata di sinistra non è estraneo ai valori tradizionali e alla storia stessa della
sinistra italiana, per un altro invece si deve tener conto della crisi di egemonia vissuta dal Partito comunista nel corso del dopoguerra. Non a caso la radicalizzazione del decennio ‘68-78 è stata efficacemente definita come la manifestazione di un conflitto nel quale i figli non riconoscevano più e ripudiavano i propri padri, nel quale la divaricazione delle strade porta a una
incomunicabilità radicale priva di mediazioni. Trattando di questa crisi di egemonia si individuano solitamente nel 1956 e nel biennio ‘68-69 i punti nodali: probabilmente, però, bisognerebbe allargare ancora la visuale storica e
comprendere le resistenze con le quali venne accettata da una parte consistente del movimento comunista il mutamento di prospettiva della «Svolta di
Salerno». Con essa il Pci intraprendeva la strada dell’unità di tutte le forze antifasciste, comprese quelle stesse forze che avevano reso possibile e agevolato
l’ascesa del fascismo (monarchia, esercito, liberali), rinviando la questione
istituzionale su forma di Stato e forma di governo a liberazione avvenuta.
Questa svolta, decisiva nel processo di liberazione dal nazifascismo, impegnava
i comunisti nella ricostruzione del quadro democratico senza alcuna ambiguità
tattica o «doppiezza», si trattava di una scelta strategica destinata a mutare il
ruolo del Partito comunista italiano nella storia del Paese. Come è noto però,
per una lunga fase la scelta democratica del Pci venne interpretata come un
«abile espediente tattico», dietro la quale si sarebbe articolata la necessità di ac-
57
58
cumulare forze in vista del momento decisivo dello sbocco rivoluzionario. A tal
fine intere divisioni partigiane rimasero armate, e la stessa struttura di sicurezza di cui il Pci era dotato per molti versi aveva contribuito a sviluppare l’equivoco della «doppiezza comunista». In tal senso gli accadimenti successivi all’attentato a Togliatti nel 1948 furono un primo svelarsi di quell’equivoco. L’immediato sciopero generale, le agitazioni insurrezionali spontanee, lo scontro
con le forze dell’ordine, intere città che finirono immediatamente sotto il controllo delle divisioni partigiane armate: insomma «l’ora X», il fatidico momento della rivoluzione oramai giunto. L’intervento del Pci per far rientrare le agitazioni in un alveo democratico, la decisione di smobilitare la resistenza in armi
per intraprendere la strada del confronto democratico – il tutto dopo le fatidiche elezioni dell’aprile che, per ragioni interne e internazionali, avevano dimostrato l’impossibilità di una via elettorale al socialismo – costituirono un brusco
ritorno alla realtà sbarrando il passo alle speranze residue di una prosecuzione
della lotta di liberazione nazionale verso il fine ultimo, in fasce non marginali di
intellettuali, militanti e di parte degli stessi gruppi dirigenti comunisti.
Un altro segnale venne in tal senso con i fatti del giugno/luglio 1960, dove
però per la prima volta la contestazione esplose spontaneamente senza che il
Pci potesse intervenire efficacemente nell’esercizio della sua direzione. Un
episodio nel quale l’opposizione sociale superò a sinistra il partito, premessa
fondamentale senza la quale difficilmente potrebbero essere comprese le peculiarità del ‘68 italiano.
Ma prima di questo episodio i due momenti essenziali che segnarono la crisi
di egemonia del Pci a fronte di un processo di radicalizzazione dei movimenti giovanili si ebbero con il XX Congresso del Pcus nel febbraio del 1956 e l’VIII del Pci nel dicembre successivo, nei quali venne avviata la fase della destalinizzazione affermatasi non senza resistenze tra i comunisti. Con la Conferenza sui problemi internazionali dei partiti comunisti del 1960 si determinò
la rottura del fronte socialista e la divisione tra Urss e Cina. In questa spaccatura i gruppi stalinisti del Pci, delusi dalla svolta di Kruscev, trovarono un
punto di riferimento internazionale dando vita a una gemmazione propria,
destinata a segnare profondamente il dibattito a sinistra negli anni successivi,
pur senza diventare mai grande fenomeno di massa capace di impensierire la
forza del Pci. Nel 1962 il gruppo di Padova guidato da Ugo Duse ed Enzo Calò
fece uscire il primo giornale di ispirazione marxista-leninista in contestazione
aperta verso il Pci. Esso si riallacciava anche – nella testata – alla polemica
russo-cinese chiamandosi «Viva il leninismo», così come la celebre pubblicazione dei cinesi nella quale veniva denunciato il revisionismo dell’Urss.
La frattura formale si ebbe nel X Congresso del Pci, tenutosi nella fine del
1962, al quale partecipò una delegazione del partito cinese. In quel Congresso Togliatti attaccò duramente la politica del partito di Mao, che a sua volta
replicò aspramente contro il segretario del partito italiano. Ne nacque, ai
primi del 1963, un celebre opuscolo delle Edizioni estere di Pechino intitolato Ancora sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi, ampiamente diffuso tra i
militanti italiani. Per la prima volta esponenti di primo piano del socialismo
internazionale contestavano Togliatti presso i suoi stessi militanti, per la prima
volta l’autorità del Pci veniva così profondamente messa in discussione di
fronte ai comunisti italiani. In tutto questo dibattito si è formata la base ideologica dei cosiddetti gruppi m-l, i quali hanno trovato un primo momento di
centralizzazione con la nascita del gruppo Edizioni Oriente nell’estate 1963.
Questa prima vicenda, a cui va affiancata la nascita di Quaderni rossi, segnò un
colpo fortissimo alla capacità egemonica del Pci e alla sua aspirazione a rappresentare in via esclusiva il mondo comunista in Italia. Con queste vicende
si formarono, per la prima volta, gruppi e partiti a sinistra del Pci che ne contestavano il «revisionismo, l’imborghesimento, la socialdemocratizzazione».
Senza l’approfondimento di queste vicende anche le peculiarità italiane del
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IDEE
59
biennio ‘68-69 e i rapporti durissimi tra Pci e gruppi della sinistra rivoluzionaria negli anni Settanta sarebbero difficilmente comprensibili.
Il 1968, preceduto da un decennio intenso, carico di significati politici, oltre
che dal movimento dei lavoratori è stato segnato dalla crescente radicalizzazione dei ceti medi. Il movimento studentesco ha trovato quali suoi punti di
riferimento la rivoluzione cubana, la resistenza vietnamita, la rivoluzione culturale. Come è stato abbondantemente scritto, si è trattato di un’esplosione
sviluppatasi al di fuori delle previsioni dei partiti tradizionali e dello stesso Pci.
Le difficoltà di rapporti tra movimento e Pci, accentuatesi ulteriormente con
le svolte di Berlinguer nella metà degli anni Settanta, sono il segno più evidente di quella crisi di egemonia. Da un lato il Pci bollava con sempre più facilità il radicalismo del movimento con aggettivi come diciannovismo, sovversivismo piccolo-borghese, sinistrismo; dall’altra il movimento vedeva sempre più nel
partito una controparte più che il suo alleato naturale. In questa distanza si è
creato un cortocircuito come quello che ha investito la sinistra in Italia negli
anni Settanta, con gli esiti drammatici che tutti conosciamo. Tra gli approfondimenti che bisognerebbe approntare un posto di rilievo spetta all’analisi delle
teorizzazioni, dei documenti e delle prese di posizione (ufficiali e non) del Pci
sul movimento prima e sulla lotta armata poi. Uno studio che metta in luce
alcune contraddizioni particolari, che hanno reso possibile il comparire del
terrorismo all’interno di un quadro politico che, come abbiamo visto, non era
al di fuori della tradizione comunista o che, sicuramente, non era riconducibile alle aree controculturali di contestazione movimentista. I primi nuclei delle
BR si formarono infatti tra operai ed ex militanti del Pci (tipico il caso di Franceschini) o comunque si coagularono tra quadri ben poco coinvolti dal clima
di contestazione se vogliamo libertaria del ’68.
Chiaramente, per comprendere tutto questo e affrontare le contraddizioni ivi
presenti, non ci si può limitare all’analisi endogena della storia della sinistra,
ma è necessario allargare il campo alla storia d’Italia del secondo dopoguerra
affrontando il tema del rapporto tra violenza e politica in riferimento alle classi dirigenti italiane e al fronte che, proprio sul terreno più propriamente militare, si è opposto alla crescita della sinistra, e segnatamente del movimento
comunista, nel nostro Paese. Ovverosia, è necessario indagare sui rapporti tra
istituzioni, forze economiche, aree politico-culturali conservatrici e gruppi
neofascisti, perché se è vero che da un certo momento in poi a sinistra esplode il problema del rapporto tra violenza e politica, lo è ancora di più il fatto
che, sull’altra barricata, l’opera di contrasto per il mantenimento dello Status
quo economico sociale in Italia si sia avvantaggiata dell’utilizzo sistematico
della violenza, sia mirata, sia indiscriminata, oltre che di tutti gli apparati egemonici connessi all’esercizio del potere. 1. Il presente saggio costituisce un primo ragionamento nell’ambito di un’indagine più
ampia a carattere storico, che verrà pubblicata col titolo Violenza, politica e potere in Italia nel secondo dopoguerra.
2. Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti,
Roma, 1976, Vol. VIII, pp. 12, 13.
3. R. Rossanda, I figli dei bolscevichi?, «il manifesto», 25 gennaio 1978.
4. Le parole e la lotta armata. Storia vissuta e sinistra militante in Italia, Germania e Svizzera, a
cura di P. Moroni, Shake edizioni, Milano,
1999, pag. 26.
5. Antifascismo e partito armato. Crisi di egemonia ed origini del terrorismo. A cura di A. Natoli, Ghiron, Genova, 1979.
6. Intervista a G. B. Lazagna, Ivi, pag. 23.
7. E. Gallo, in Le parole e la lotta armata, op.
cit. pag. 59
8. Ivi, pag. 54.
60
MANUELE BONACCORSI
INTRODUZIONE
L’AUTUNNO
È ARRIVATO
CE N’EST
QU’UN
DÉBUT
Mentre scriviamo lo sciopero generale è nell’aria. Tutte le più importanti categorie (pubblico
impiego, commercio, metalmeccanici, scuola, università) hanno indetto giornate di mobilitazione.
Il primo scorcio d’autunno ha già riempito le piazze, con un livello di partecipazione che non si vedeva da anni. Un colpo di reni che rimette in piedi
l’intera società italiana, insperato perché giunto
dopo una dura sconfitta politica, dopo anni di arretramento, nel bel mezzo di una crisi profonda e
devastante nei suoi influssi per l’economia reale.
L’onda degli studenti ha riempito le piazze, gridando con un’intensità difficile da ritrovare nel
passato (a meno di non voler fare un passo indietro ad alcuni decenni fa); la sinistra politica ha
riaperto uno scenario di opposizione, con due immense manifestazioni. Il pubblico impiego ha
rotto l’assedio della vergognosa campagna contro i fannulloni. I lavoratori del commercio, vittime di un durissimo contratto separato che li
spoglia della possibilità di contrattare gli orari
e rende la domenica un giorno di lavoro come gli
altri, hanno manifestato a Roma. E anche i metal-
CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
meccanici, pur messi in ginocchio dall’ondata di
cassa integrazione che sta investendo il sistema
produttivo del Paese, hanno proclamato una
giornata di sciopero, il 12 dicembre: una data che
potrebbe diventare una serrata dell’intero Paese,
dalle università occupate alle scuole, fino al
pubblico impiego. Uno sciopero generale, punto di
arrivo di un movimento crescente, che mette insieme studenti e operai, dipendenti pubblici e lavoratori del terziario. Con l’obiettivo di imporre
la propria agenda a un Paese fino a poche settimane fa frastornato, e di cambiare in profondità,
nel suo cuore rappresentato dalla legge finanziaria, la politica economica del governo. Lo slogan di tutti potrebbe essere proprio quello degli
studenti, noi la crisi non la paghiamo. Perché è
proprio la crisi a dare corpo e sostanza a questo
autunno caldo.
È questa la più grande sorpresa: si lotta proprio
nel momento in cui sembrerebbe più difficile
farlo, dinanzi a una recessione, quando – direbbe
qualcuno. non c’è nulla da distribuire. Invece è
proprio la crisi la goccia che fa traboccare il
vaso di un Paese in ginocchio. Dicono gli studenti,
i metalmeccanici, i lavoratori del terziario e del
commercio, gli assistenti di volo di Alitalia, i precari di Stato e gli impiegati, che altri sacrifici
non possono essere più accettati. Che una diversa
distribuzione della ricchezza è una necessità
ormai impossibile da rinviare. La crisi dei mercati,
che ha presto esteso il contagio alla già debilita-
ta economia reale del Paese, rafforza questa richiesta, contiene nelle sue parole d’ordine il bisogno di una trasformazione radicale. Il Paese
conquistato dalla destra, che con forza prova a
imporle il suo dettato – interessi privati, guerra
tra poveri, stretta autoritaria – è meno facile da
domare di quanto immaginato. Prova a imporre
un’uscita dalla crisi opposta a quella offerta da
chi vorrebbe far pagare ai più i disastri di pochi.
In questo numero della nostra rivista proviamo a
fare un punto di alcuni tra i tanti conflitti in
corso. Quelli che riguardano i servizi: scuola,
università, pubblico impiego e trasporti. A scrivere sono i diretti interessati, sindacalisti e rappresentanti dei lavoratori. Raccontano da dentro le
loro battaglie, ne spiegano l’origine e le prospettive. Forniscono un quadro unitario, spiegando
come i singoli conflitti siano parte di un disegno
unitario di assoggettamento del lavoro, di distruzione del welfare e dei servizi sociali. Come
una singola battaglia può far parte di un conflitto più ampio. Quello che, insieme, stiamo costruendo in questo autunno. 61
62
MARCO TRASCIANI (segretario circolo Alitalia Prc)
ALITALIA: SIAMO LA BRACE SOTTO LE POLTRONE
DELLA CAI
Dietro la vicenda Alitalia c’è il tentativo di sferrare un
attacco a tutto il mondo del lavoro, affondando le relazioni sindacali e comprimendo salari ormai ai limiti della
sussistenza.La risposta dei lavoratori è stata dura e decisa:
l’azienda siamo noi, non il capitalismo speculativo che ha
preso in mano la compagnia di bandiera.
Quando ci riferiamo alla vicenda Alitalia come a un laboratorio sociale e politico denso di implicazioni, intendiamo alludere alle numerose questioni che essa ha posto e
continua a porre all’intera comunità nazionale, ai suoi
cittadini, ai suoi lavoratori. Questioni nelle quali si intrecciano, in modo anche drammatico, politiche governative, obiettivi dell’imprenditoria italiana, prospettive
della condizione lavorativa nel nostro Paese.
Governo e capitalismo speculativo
Innanzitutto, su un piano generale, la vicenda della privatizzazione e vendita del gruppo conferma la disponibilità dell’attuale governo a favorire iniziative imprenditoriali prive di respiro strategico, anzi caratterizzate da una
spiccata propensione alla speculazione finanziaria. Questo tipo di visione dell’attività di governo risulta ancora
più odiosa quando, come in questo caso, sono in gioco
«asset strategici» fondamentali. Non può essere poi trascurato il fatto che, per portare a compimento l’intera
operazione, si è costantemente realizzata una forzatura
CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
della legislazione vigente, costruendo regole utili all’occorrenza, operando nel convincimento che la legalità
possa essere violata senza conseguenze preoccupanti.
Nel corso di meno di un mese il governo ha prima modificato la legge che regola la ristrutturazione e gestione dei
gruppi industriali che versano in gravi condizioni finanziarie, poi ha spinto il Cda di Alitalia a dichiarare lo stato
di insolvenza, evento propedeutico al commissariamento dell’azienda. A questo punto è stato nominato un commissario che – invece di bandire una vera gara di vendita, come sarebbe stato lecito aspettarsi – ha preso a trattare con un gruppo di imprenditori, da più parti indicati
come l’unica soluzione possibile, mostrando, nell’esercizio del suo operato, di non essere assolutamente in
grado di muoversi in modo imparziale e indipendente.
Ovviamente la carta dell’imminente fallimento aziendale è stata costantemente giocata per minimizzare il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali.
In questo quadro si è venuto compiendo un disegno,
messo a punto da Berlusconi fin dalle prime battute della
trattativa intavolata dal governo Prodi con Air France,
che dietro la copertura della necessità di mantenere la
«italianità» della compagnia, mirava a favorire una cordata di imprenditori amici e a regalare alla Lega Nord
una soluzione che consentisse di rimettere in discussione il ruolo che il mercato e l’evoluzione del trasporto
aereo nazionale avevano nell’ultimo quinquennio assegnato a Fiumicino. Nel totale silenzio della stampa e
delle forze politiche, salvo rare eccezioni, quello che comunque poteva e doveva essere considerato ancora un
gruppo industriale pubblico di notevoli dimensioni ed
enorme rilievo simbolico e strategico, è stato offerto in
vendita attraverso un meccanismo di valutazione assolutamente non trasparente.
Il primo punto oscuro è quello che ha visto Banca Leonardo, scelta quale advisor per stabilire il valore di Alitalia, essere presente, sotto altre vesti, tra i potenziali acquirenti. Per non parlare della norma che ha consentito
di sezionare il corpo aziendale in parti «buone», quelle
su cui la cordata ovviamente ha concentrato le sue mire
di acquisto, e parti «cattive» cui accollare tutti i debiti,
da scaricare poi sui cittadini. Basti pensare che secondo
quanto è dato apprendere, visti i contorni oscuri dell’operazione, la cifra offerta per la parte «buona» della
compagnia varrebbe di 300 milioni di euro, a fronte di
una valutazione della sola flotta, secondo il bilancio certificato del 2007, di circa 1,7 miliardi.
Va ribadito che non si tratta solo di una «svendita» abilmente camuffata, ma di un’operazione che, da un punto
di vista strettamente industriale, penalizza l’intero sistema Paese sotto molti punti di vista. Innanzitutto, come
ha ben messo in luce un gruppo di studiosi dei sistemi di
trasporto dell’Università Bicocca, dalla fusione delle due
maggiori aziende di trasporto aereo in Italia, Alitalia e
Air One, risulterebbe una diminuzione dell’offerta di
posti disponibili sul territorio nazionale di circa il 30%.
Una cifra enorme, che testimonia il carattere di semplice «maschera» dell’operazione assunta dalla proclamata difesa dell’italianità. Tale contrazione di attività è in
grado di produrre un effetto distruttivo devastante sull’intero trasporto aereo nazionale, determinando una
gravissima crisi occupazionale, poichè ai circa 10.000
cosiddetti esuberi, derivanti dal piano di ristrutturazione, devono aggiungersi tutti quelli relativi alle attività
dell’indotto (aeroporti, fornitori ecc.) Ad esempio, la
sola scomparsa delle attività Cargo Alitalia da Fiumicino,
cioè di un segmento di attività che impiega 500 lavoratori diretti, determinerebbe la chiusura di 200 aziende di
spedizione presenti nel territorio attorno al «sedime aeroportuale», traducibili in circa 3000 occupati. Poi,
nella visione fin qui esplicitata, diverrebbero superflue
le attività più qualificate legate alla navigazione aerea,
tipo la manutenzione pesante, che necessitano di un
grande Hub internazionale per essere generate, cancellando un’attività tecnica specialistica nella quale esiste
una tradizione invidiabile.
Capitalismo senza rischi né responsabilità sociale
Il laboratorio Alitalia, abbiamo detto, ci racconta di cosa
sia oggi il capitalismo italiano. La cosiddetta Cai, cioè la
cordata di imprenditori che, grazie ai favori del governo,
ha acquistato Alitalia per pochi spiccioli, si è mossa cercando di conseguire un duplice successo. Innanzitutto su
un piano simbolico, generale, negando all’azienda di
trasporto aereo nazionale qualsiasi orizzonte futuro di
azione che non fosse legato alla ricerca di un profitto da
conseguire nel breve periodo, mistificando il carattere di
bene comune che l’Alitalia, come azienda pubblica,
manteneva.
Inoltre, sul piano delle relazioni industriali, attraverso lo
stile del diktat ultimativo, prendere o lasciare, ha cercato in un colpo solo di superare il contratto collettivo nazionale di lavoro introducendo un contratto aziendale, al
fine di mettere nell’angolo il sindacato, comprimere i
salari ed affermare la natura non negoziabile della direzione di impresa. Tutta la trattativa ha messo in luce
come fosse importante stabilire il primato della direzione di azienda e della valorizzazione del capitale. Ovvia-
63
mente, quale contraltare di una tale impostazione, è stata
costantemente palesata la indisponibilità a considerare
le competenze acquisite dai lavoratori nel corso della loro
esperienza lavorativa come fattore decisivo per il funzionamento della futura azienda. In sostanza la nuova proprietà ha fatto il possibile per negare il valore del «fattore umano» come componente fondamentale del funzionamento dell’impresa, nel tentativo di liberarsi dei
«lacci» che un «patto» con il lavoro, o i suoi rappresentanti sindacali, comunque implica.
Alitalia siamo noi
64
È in questo contesto che si è innescata la miccia della
mobilitazione contro il piano di ristrutturazione e il contratto unico aziendale proposto da Cai e si è prodotto quel
sentimento di autorappresentazione dei lavoratori come
corpo vivo dell’impresa che ha caratterizzato le giornate
più intense di partecipazione e di lotta. Questo sentimento, espresso nei cori che scandivano «Alitalia siamo
noi», è stato nutrito da due istanze, tra loro peraltro fortemente connesse: da un lato il rifiuto della logica della
divisione tra bad company, quella che muore gravata dal
debito, e good company, quella che può vivere se sfrutta di
più e meglio i lavoratori; ben riassunto dallo slogan:
«meglio falliti che in mano a ‘sti banditi»; dall’altro i lavoratori hanno rappresentato l’azienda come un bene di
chi ci lavora: un sentire fortemente contraddittorio, ma
non per questo debole, basato sulla constatazione che i
lavoratori sono stati i soli a manifestare un senso di responsabilità invece assente nei nuovi acquirenti, nel vecchio management e nella classe politica.
Sulla trama di questi elementi un ruolo determinante è
stato svolto dalla questione salariale. Con un elemento
simbolico fortissimo anche in questo caso. Non era chiaramente proponibile il vecchio logoro argomento degli
alti salari quale fattore di scarsa produttività cui imputare la crisi aziendale. Infatti l’incidenza del costo del lavoro sul fatturato Alitalia è del 19%, un valore di ben 7 punti
percentuali più basso rispetto ad Air France o Lufthansa,
dove il costo del lavoro incide per il 26%. L’obiettivo dichiarato era di rompere un complesso di relazioni strutturate e consolidate tra impresa e organizzazioni dei lavoratori. Il tentativo, poi parzialmente rientrato, di comprimere ulteriormente salari appena superiori al livello
di mera sussistenza (1200-1300 euro, tanto per capirci)
mirava a questo, ma ha determinato reazioni estremamente dure, tali da far intendere che si stesse oltrepassando un limite non valicabile, quello oltre il quale la disponibilità della forza lavoro non era più garantito.
C’è ancora da sottolineare alcuni aspetti di novità delle
mobilitazioni su cui vale la pena riflettere e consegnare a
un ragionamento collettivo di più ampio respiro. Innanzitutto la maggior parte delle mobilitazioni è stata vissuta
scarsamente su una preparazione sindacale e ha dovuto il
suo successo molto di più all’utilizzo di canali informali
spontanei che a un’attivazione preordinata. Inoltre, si è
sperimentato un tentativo di coinvolgere gli utenti del
servizio. Da un lato, il servizio era garantito, sia in volo
che a terra; dall’altro, cortei più o meno spontanei percorrevano l’aeroporto di Fiumicino, stimolando la solidarietà dei passeggeri.
Infine, di nuovo, la matura consapevolezza che l’azienda
rappresenta il prodotto dell’attività di cooperazione tra
tutti i singoli agenti, dell’intelligenza e del lavoro delle
persone, del carico di passioni e di emotività che i lavoratori si portano dietro e che nel lavoro trovano modo di
esprimere.
L’esito della vicenda proprietaria e sindacale ha generato
un senso di frustrazione, che però è auspicabile possa costituire l’humus da cui ripartire per ipotizzare scenari futuri di liberazione e di lotta.
La speranza è che da Alitalia, nonostante l’enorme costo
umano e sociale finale, soffi un vento nuovo, capace di
ostacolare la reazione confindustriale, la quale usa il
tempo della crisi come occasione per un’ulteriore compressione dei salari. Che il piano della nuova compagnia
di bandiera non sia affatto accompagnato dal consenso dei
lavoratori, proprio perché estorto sull’orlo della minaccia
del fallimento, è un fatto che lascia accesa la brace sotto le
sedie dei «capitani coraggiosi» della cordata Cai. CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
65
MARIA CRISTINA ROSSI (presidente del Comitato
Insegnanti Precari di Roma)
LA RIFORMA DEL MINISTRO UNICO
Tagli indistinti per racimolare otto miliardi di euro. Migliaia di docenti precari rischiano di perdere il posto di
lavoro. Ma l’assalto del governo non si ferma qui. In altri
due disegni di legge si apre alle fondazioni anche nelle
scuole, si sostituiscono i consigli d’istituto con Consigli
d’amministrazione, si dividono i docenti in classi di merito,
si cancella la rappresentanza sindacale d’istituto.
La ministra Gelmini è riuscita a far approvare la sua
prima legge: la 169/08. L’approvazione ha una data significativa: 29 ottobre 2008. Il ddl 137 è stato presentato il
primo settembre, quindi la legge 169, che ha convertito il
ddl 137, è arrivata in tempo utile per la sua definitiva conversione, in extremis possiamo dire. Il governo ce l’ha
fatta, malgrado due scioperi (di Unicobas il 3 ottobre e
dei Cobas, Cub, Sdl, il 17 ottobre) e diverse manifestazioni (scuole e università occupate, sit-in di protesta e un
sempre più forte movimento di opposizione all’interno
della scuola e dell’università). È giunto in ritardo, invece,
lo sciopero generale della scuola proclamato da Cgil, Cisl,
Uil, Snals e Gilda per il 30 ottobre, proprio il giorno dopo
la conversione del decreto. Eppure, lo sciopero ha avuto
una vasta adesione, come testimonia la partecipazione ai
cortei e alle manifestazioni su tutto il territorio nazionale, e in particolar modo, a Roma.
Occorre chiedersi dunque come mai il personale della
scuola e dell’università abbia aderito a uno sciopero che è
arrivato a legge approvata, malgrado ci fosse già stata una
66
larga adesione allo sciopero del 17 ottobre (una buona
parte del personale della scuola ha dunque sostenuto il
peso di ben due giornate di sciopero nello stesso mese).
Per dare una spiegazione adeguata di questa partecipazione, però, non mi limiterò a esporre i contenuti del ddl
137 – oramai ben noti alla cronaca – ma mi riferirò principalmente a un altro capitolo importante dell’iter della
legislazione di questo governo in materia di scuola,
scritto con la stessa eccessiva rapidità: il ddl 112 del 25
giugno, convertito in legge il 6 agosto. La legge 133/08 è
una vera e propria Finanziaria, pertanto riguarda proprio tutti e tutto, anche la scuola, ma non certo per aumentare le risorse a essa destinate. Basta leggere l’articolo 64, che dice tutto sui tagli che si preannunciano per
il prossimo triennio. Per brevità cito il comma 6 come
esempio di chiarezza espressiva: «Dall’attuazione dei
commi 1,2,3 e 4 del presente articolo devono derivare
per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa non
inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009, a 1650
milioni per l’anno 2010, a 2538 milioni di euro per l’anno 2011 e a 3188 milioni di euro a decorrere dall’anno
2012». In totale circa otto miliardi di tagli, annunciati
come «disposizioni in materia di organizzazione scolastica». In che consistono nello specifico queste disposizioni, in questi giorni di protesta, lo abbiamo saputo solo
in parte, proprio perché la protesta si è incentrata principalmente contro il ddl 137. Ma, sempre riferendoci all’art. 64 della 133/08, apprendiamo che c’è molto di più:
– comma 1: incremento graduale, di un punto, del rapporto alunni/docente, da realizzare entro l’anno scolastico 2011/2012;
– comma 2: riduzione complessiva del 17% della consistenza numerica del personale Ata determinata per l’anno scolastico 2007/08;
– comma 3: il ministro si attribuisce una serie di deleghe
per la razionalizzazione e l’accorpamento delle classi di
concorso al fine di raggiungere una maggiore flessibilità
per l’impiego dei docenti; per la ridefinizione dei curri-
cola vigenti nei diversi ordini di scuola; per la revisione
dei criteri vigenti in materia di formazione delle classi;
per la rimodulazione dell’attuale organizzazione didattica della scuola primaria; per la revisione dei criteri vigenti per la determinazione degli organici Ata; per la determinazione e l’articolazione dell’azione di ridimensionamento della rete scolastica;
– comma 4: l’obbligo di istruzione si assolve anche nei
percorsi di istruzione e formazione professionale.
La riforma attraverso i tagli, dunque, prevede non soltanto il ritorno al maestro unico, ma uno stravolgimento
completo dell’intero sistema scuola da attuarsi attraverso:
– l’accorpamento di classi di concorso (ma non avevano
fatto sì che fosse il servizio specialistico a essere privilegiato finora nella carriera di ciascun insegnante?);
– la riduzione oraria delle ore di frequenza settimanale
per ciascun ordine di scuola (ma la società non ci porta a
saperi sempre più complessi e specialistici e di conseguenza a programmi sempre più vasti? Un esempio è proprio la legge Gelmini, che introduce l’insegnamento di
Cittadinanza e Costituzione per un monte ore di 33 annue
senza però aumentare le ore di insegnamento di storia);
– l’aumento del numero di alunni per classe senza curarsi né delle ripercussioni sulla didattica, né della
L.626/94 sulla sicurezza negli edifici scolastici;
– la poca considerazione della formazione per gli adulti e
delle scuole serali sempre al fine di ridimensionare il più
possibile la rete scolastica;
– la formazione professionale come sostitutiva dell’obbligo scolastico, un cavallo di battaglia dell’ex ministro
Letizia Moratti.
Queste misure draconiane non sono nemmeno presentate per quello che effettivamente sono: tagli indistinti e
poco ponderati per racimolare otto miliardi di euro.
L’art. 64 è chiarissimo: si parte dalla cifra da risparmiare per poi individuare di volta in volta, aiutati anche dalla
mancata applicazione della legge Moratti, cosa, dove e
CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
Tagli al personale docente
Anno scolastico
Decreto Legge
Finanziaria 2008
Totale
2009/10
32.105
10.000
42.105
2010/11
15.560
10.000
25.560
2011/12
19.676
20.000
19.676
2009/10
14.167
1.000
15.167
2010/11
14.167
1.000
15.167
2011/12
14.167
2.000
14.167
Totale
67.341
87.341
Tagli al personale ATA
Anno scolastico
Decreto Legge
Finanziaria 2008
Totale
quanto risparmiare. Il governo vuole farci credere che
dietro c’è una riforma e che i tagli sono addirittura funzionali alla sua realizzazione. Malgrado si scopra che in
Italia i nostalgici del maestro unico siano molti, l’acceso
dibattito che si scatena su grembiulini, voto in condotta
e maestro unico/prevalente alle elementari non riesce,
alla lunga, a nascondere l’evidenza dei fatti, ben riassunti dalla tabella che compare nel piano attuativo della
L.133/08 e che viene riconfermato fedelmente nel piano
integrato Gelmini presentato il 19 settembre 2008. Si
guardi alla tabella qui sopra riportata.
Soffermiamoci su questa tabella per chiederci: a chi si riferiscono i tagli? Più volte esponenti del governo e la stessa ministra hanno dichiarato che nessun docente e personale Ata di ruolo riceverà una sola lettera di licenziamento. Eppure quelli riportati nella tabella sono tagli in pianta
organica. E allora chiediamoci: a quale categoria appartengono i lavoratori che usciranno dalla pianta organica?
La risposta è fin troppo facile. Da anni il sistema scuola è
predisposto a una politica di tagli senza licenziamenti, in
virtù del fatto che la scuola occupa anche personale con
contratto a tempo determinato. Docenti assunti il 1 settembre e licenziati il 30 giugno o il 31 agosto, che finora
hanno garantito che la specializzazione in possesso del
docente fosse davvero quella di ogni singola disciplina da
insegnare, che il rapporto alunni/insegnante fosse perlomeno quello che una normale capienza di un’aula scolastica italiana può permettere. Certo tutto questo ha
presentato enormi difficoltà, pagate a caro prezzo dai docenti iscritti nelle diverse graduatorie (quelle «di merito», in seguito al superamento del concorso ordinario, e
le «ex permanenti», ora a esaurimento, per i docenti
precari in possesso o di un’abilitazione conseguita tramite scuole di specializzazione – Ssis – o di concorsi riservati a chi aveva avuto modo di lavorare nella scuola
senza abilitazione, o agli stessi abilitati nei concorsi ordinari). Ebbene un altro articolo importante della
133/08 è l’art. 66, comma 7, esso afferma: «le ammini-
Totale
42.500
44.500
strazioni possono procedere ad assunzioni di personale a
tempo indeterminato nel limite di un contingente di
personale complessivamente corrispondente a una
spesa pari al 20% di quella relativa al personale cessato
nell’anno precedente. In ogni caso il numero delle unità
di personale da assumere non può eccedere, per ciascun
anno, il 20% delle unità cessate nell’anno precedente».
Ciò significa che, sia nella scuola che nell’università, per
ogni 10 unità di personale che andrà in pensione, verranno assunte solo due unità (nelle ultime tornate di assunzioni, è da precisare, si è assunto sul 50% dei posti
disponibili). La condizione di precario è la diretta conseguenza di una politica sempre più tesa al risparmio
sugli investimenti per la scuola e la ricerca, e sempre
meno disposta a investire sulla qualità della scuola e dell’università pubblica. In tal senso Berlinguer, Moratti e
Fioroni hanno tutti dimostrato di essere ministri con un
portafoglio sempre meno gestito in proprio e sempre più
gestito direttamente dal ministro dell’Economia. La
Gelmini quindi non viene scelta a caso. È nota la sua manifesta inesperienza: non occorre che il ministro sia un
interlocutore, anzi meglio che sia una comparsa, tanto
non è con la trasparenza che questo governo intende
operare. L’esempio più efficace è quello di un altro decreto che si occupa di tagli alla scuola: il ddl 154/08, o
meglio l’art.3 del ddl 154/08. Questo decreto del 7 ottobre dovrebbe occuparsi di: «Disposizioni urgenti per il
contenimento della spesa sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali». Cosa c’entra
dunque con la scuola? Andiamo all’art.3, Definizione dei
piani di dimensionamento delle istituzioni scolastiche rientranti nelle competenze delle regioni e degli enti locali. Questo piano di dimensionamento si riferisce sempre all’art.
64 della 133/08 e alla citata necessità di ridimensionare
la rete scolastica, la cui distribuzione in alcune zone specifiche del territorio nazionale non corrisponde affatto
ai criteri di «razionalizzazione della spesa» del governo,
come, ad esempio, tutte le zone collinari e montane con
67
68
piccoli Paesi. Che spreco: come si può accettare che qui
le maestre debbano avere pochi alunni? E se c’è una
maestra c’è anche un bidello, e magari anche un custode,
e poi le spese dello stesso edificio scolastico. Uno sciupio
senza fine! Pertanto si pensa di trasportare i bambini
delle scuole con meno di 50 alunni nelle scuole dei comuni limitrofi più grandi con lo scuolabus messo a disposizione da questi ultimi e per il quale i comuni più
grandi dovranno sostenere le spese. Conosciamo bene
però la situazione finanziaria degli enti locali in Italia,
quasi tutti in forte deficit.
Sulla mozione sulle «classi ponte» presentata alla Camera dal leghista Roberto Cota il 16 settembre è il caso di
spendere qualche parola: dobbiamo chiederci a questo
punto a quali alunni si farà quel poco di scuola che rimarrà dopo la riduzione delle ore e lo snellimento dei
programmi. Essenzialmente a studenti selezionati per
nazionalità: una scuola che finora ha visto l’incremento
del numero di alunni soprattutto grazie agli immigrati è
una scuola che preoccupa. La scuola non è più quel posto
dove imparare la storia e l’orgoglio nazionale, anzi meglio regionale. Rischia di diventare un luogo di incontro
e di confronto. Con la scusa che i bambini immigrati non
parlano adeguatamente l’italiano, dunque, li si separano
dagli altri. Quale più efficace metodo per insegnare ai
nostri bambini che le classi servono a separare? Io bianco nella classe di coloro che sanno, e tu nero o giallo nella
classe di coloro che non sanno. Così le premesse per la
società del futuro sono poste.
Ma non è ancora tutto. La parte meno nota dell’intero
corpus legislativo in materia di scuola di questo governo
è il dl 953 a firma Valentina Aprea, presidente della
Commissione Cultura.
La proposta Aprea delinea un nuovo governo delle istituzioni scolastiche che come cita l’art. 1 al comma 2 comprende: «Il dirigente scolastico, i docenti, i genitori, gli
alunni, i rappresentanti degli enti locali e, su deliberazione delle singole istituzioni scolastiche, i rappresen-
tanti delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi, secondo i princìpi della presente
legge». Questi dunque i nuovi protagonisti che si assumono il compito di governare la scuola, ma attraverso
quale istituto? Art. 2, comma 1: «Ogni istituzione scolastica può (...) costituirsi in fondazione, con la possibilità
di avere partner che ne sostengano l’attività, che partecipino ai suoi organi di governo e che contribuiscano a
raggiungere gli obiettivi strategici indicati nel piano dell’offerta formativa e a innalzare gli standard di competenza dei singoli studenti e di qualità complessiva dell’istituzione scolastica». E ancor meglio al comma 3: «Le
istituzioni scolastiche trasformate in fondazioni definiscono gli obiettivi prioritari di intervento, prevedono le
necessarie risorse economiche e individuano, mediante
appositi regolamenti interni, le funzioni e gli strumenti
di indirizzo, di coordinamento e di trasparenza dell’azione didattica e finanziaria». Che fine fanno dunque gli
organi delle istituzioni scolastiche così come li conosciamo oggi? Il dirigente scolastico, il collegio docenti e il
consiglio di istituto? Il consiglio di istituto scompare e si
trasforma in consiglio di amministrazione (Art. 5 e 6)
che è composto delle rappresentanze di tutte le figure citate all’art. 1, comma 2, dura in carica tre anni e tra gli
altri compiti si propone di individuare i docenti esperti.
Badate bene: a stabilire chi sia da considerarsi docente
esperto è il Consiglio di amministrazione e non il Collegio docenti. Quali sono quindi i compiti del collegio docenti? Art. 7, comma 1: «Il collegio docenti ha compiti di
indirizzo, programmazione, coordinamento e monitoraggio delle attività didattiche ed educative. Esso provvede, in particolare, all’elaborazione del piano dell’offerta
formativa». Si limita quindi a formulare la proposta didattica. Compiti che sono da ritenersi del tutto insufficienti se andiamo a considerare la grande trasformazione che il dl Aprea si propone di operare sullo stato giuridico della figura dell’insegnante. Art. 17, comma 1: «La
professione docente è articolata nei tre distinti livelli di do-
CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
cente iniziale, docente ordinario e docente esperto, cui corrisponde un distinto riconoscimento giuridico ed economico
della professionalità maturata». Attraverso questo istituto
si potrà realizzare ciò che il governo dichiara in questi
giorni: la necessità di pagare meglio gli insegnanti e,
contemporaneamente, di «razionalizzare la spesa» attraverso una politica dei tagli che si traduce in una drastica riduzione delle assunzioni. A essere retribuiti meglio
saranno gli insegnanti «esperti» individuati dal Consiglio di amministrazione! Non solo, al comma 4 leggiamo:
«L’attività del personale appartenente ai livelli di docente iniziale e di docente ordinario è soggetta a una valutazione periodica, effettuata da un’apposita commissione di valutazione, in ordine a: a) l’efficacia dell’azione
didattica e formativa; b) l’impegno professionale nella
progettazione e nell’attuazione del piano dell’offerta formativa; c) il contributo fornito all’attività complessiva
dell’istituzione scolastica o formativa; d) i titoli professionali acquisiti in servizio».
Un’altra considerazione importante è in riferimento al
reclutamento degli insegnanti iniziali (art. 13). È prevista
la formazione iniziale nei corsi di laurea magistrale
(triennale) e nei corsi accademici di secondo livello
(specialistica). A seguito del conseguimento di questa
formazione si viene inseriti in un albo regionale sulla
base del voto conseguito (art. 14), ma per svolgere l’anno
di straordinariato – l’assunzione di responsabilità all’insegnamento – occorre svolgere un anno di applicazione, attraverso un apposito contratto di inserimento formativo al lavoro (art. 15). In questo anno si insegna regolarmente con
un contratto di formazione e l’assistenza di un docente
tutor. Alla fine di questo anno un comitato di valutazione
delibererà se si è conseguita o no l’assunzione di responsabilità all’insegnamento. Il docente così abilitato dovrà
partecipare ai concorsi di istituto per poter accedere alla
titolarità in quella data scuola. Ogni singola scuola quindi potrà o autonomamente, o in concorso con altri istituti, istituire concorsi pubblici ogni qualvolta avrà bisogno
di ricoprire le carenze d’organico (art. 16). L’ultimo importantissimo punto è l’art. 22 che prevede la soppressione della rappresentanza sindacale unitaria nell’istituzione scolastica (le Rsu così come le conosciamo oggi),
sostituita dalla «Rappresentanza regionale sindacale unitaria d’area, composta esclusivamente da rappresentanti
sindacali dell’area dei docenti», (comma 2).
Questi sono, a mio avviso, i punti salienti del quadro legislativo del governo sulla scuola. Si tratta di provvedimenti che qualificheranno la scuola italiana, che la salvaguarderanno dai «docenti fannulloni», dalle clientele e
dai favoritismi? Siamo sicuri che i nuovi «docenti esper-
ti», saranno tali in virtù delle loro riconosciute capacità
didattiche? E una scuola senza la Rsu di istituto – dalla
quale è definitivamente escluso il personale Ata – quali
garanzie avrà nei confronti dell’arbitrio di alcuni dirigenti, ai quali siamo fin troppo abituati? 69
70
ARMANDO PETRINI (ricercatore presso l’Università di
Torino)
L’UNIVERSITÀ IN BILICO
La distruzione dell’università pubblica è iniziata negli
anni Novanta, nel culmine dell’egemonia neoliberista, che
ha sottomesso gli atenei alle logiche d’impresa. La prima
vittima è stata la qualità. Oggi il decreto Tremonti è il
colpo di grazia, che colpirà insieme ricerca e divulgazione
Quando Veltroni afferma che il governo Berlusconi
manca di un vero e proprio progetto politico non si sa
bene se pensare al famoso «mente sapendo di mentire»
o a una carenza nell’analisi politica. Si tratta probabilmente di entrambe le cose. A guardare i primi provvedimenti del governo, tutto sembra potersi dire tranne che
non ci sia un preciso e robusto disegno che li giustifichi e
li supporti. I casi della scuola e dell’università sono assolutamente emblematici.
Fermiamoci ai provvedimenti che riguardano gli atenei.
La Legge 133, il cosiddetto decreto Tremonti, prevede in
particolare tre norme gravissime che rischiano seriamente di mettere in ginocchio in modo irreversibile
l’università pubblica. In primo luogo viene decisa un’ul-
teriore, devastante, diminuzione del Fondo di Finanziamento ordinario: 500 milioni di euro in meno per il
2009, che peggioreranno gravemente una situazione finanziaria già a dir poco drammatica. In secondo luogo è
prevista la limitazione delle nuove assunzioni del personale docente e non docente al 20% dei pensionamenti.
Una norma gravissima, che ingigantirà a dismisura il
precariato all’interno delle università italiane, e i cui effetti saranno ancora più devastanti laddove è ben noto
–per ciò che riguarda il personale docente- che nei prossimi cinque-sei anni un’alta percentuale degli attuali
professori ordinari andranno in pensione. Infine, forse
la norma più grave di tutte: viene introdotta la possibilità per gli Atenei di trasformarsi in fondazioni private,
con tutto ciò che questo comporta in termini di ulteriore
accelerazione del processo di privatizzazione dell’università italiana.
Si capisce dunque come fra i temi caldi dell’autunno ci
sia anche la difesa dell’università pubblica, la cui sopravvivenza è messa seriamente a rischio da questi provvedimenti. Allo stesso tempo è bene capire in quale quadro si
collocano le norme del governo Berlusconi. Si scoprirà
così che la Gelmini non inventa tutto. Anzi, inventa ben
poco. Poiché ciò che sta accadendo è per alcuni versi l’ultimo, rovinoso, passaggio di una sciagurata politica universitaria che data almeno ai primi anni Novanta.
Ma tutto ciò è naturalmente ben nascosto dai mezzi di comunicazione di massa (e dai grandi quotidiani in testa),
che accreditano l’immagine di un’università roccaforte
CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
di privilegi (l’università dei «baroni»), che questi ultimi si ostinerebbero a voler mantenere e a difendere con
le unghie nonostante l’abnegazione «modernizzatrice»
del Ministro. Le cose in realtà stanno in modo ben diverso. E uno sguardo più approfondito dentro l’università e
anche retrospettivo nel tempo ci aiuterà a capire meglio.
La privatizzazione dell’università
Dalla fine degli anni Ottanta a oggi si è assistito nelle
Università italiane a un imponente processo di privatizzazione. Intendiamoci: non si è trattato tanto dell’introduzione diretta del privato nelle cose universitarie (circostanza pure presente, soprattutto per ciò che riguarda
le discipline scientifiche: basti pensare al finanziamento da parte di alcune aziende di interi Corsi di studio). Si
è trattato in realtà soprattutto dell’introduzione della logica del privato nella conduzione degli atenei, che sono –
o dovrebbero essere- cosa pubblica. Un processo molto
più surrettizio e pericoloso. Prima con l’avvio dell’autonomia finanziaria, poi con il varo della «riforma» della
didattica, il famigerato «3+2», si è lentamente ma inesorabilmente cercato di piegare la vita degli atenei, la
progettazione della loro offerta formativa, la discussione sui loro indirizzi strategici a criteri desunti dalla logica del mercato.
Così è avvenuto per la concorrenza fra le sedi universitarie (costrette spesso a inseguire gli studenti, trattati
sempre più esplicitamente come «clienti» da allettare e
lusingare), così è avvenuto per una malintesa domanda
di efficienza (che naturalmente ha significato tagli ingentissimi alle spese, spesso essenziali, nonché una
sempre più forte precarizzazione del lavoro all’interno
dell’Università), o per la logica dei «crediti formativi»
(in base alla quale si può quantificare ciò che non è
quantificabile, secondo una prospettiva di riduzione a
cosa tipico del mercato), oppure ancora per la torsione
della formazione in semplice informazione (come preten-
de un’ottica in cui prevale il saper fare più che il capire
perché fare ciò che si vuol fare).
Il tutto naturalmente è avvenuto spesso in modo soft, o
per così dire mascherato. Allo stesso modo in cui le imprese nel corso degli anni Novanta hanno imparato a
produrre «esuberi» piuttosto che «licenziamenti», gli
atenei hanno imparato a «sviluppare sinergie con il territorio»: il che ha voluto spesso dire, naturalmente, con
ciò che domina sul territorio: le logiche d’impresa.
Uno sguardo più ampio
Ma naturalmente sbaglieremmo a leggere i processi di
trasformazione dell’università al di fuori del più ampio
panorama di trasformazione della cultura e della società
nello stesso periodo di tempo. Gli anni Novanta sono
stati molto complessi e anche molto difficili: gli anni del
pieno dispiegamento del craxi-berlusconismo, del
trionfo del neoliberismo, della massima egemonia del
postmoderno. Fine della storia, fine delle ideologie e
fine del conflitto: intorno a questi punti cardine abbiamo ascoltato ripetere sin dagli anni Ottanta (ma appunto
in un crescendo fino ai primi anni Novanta) che non si
trattava più di pensare a mondi e scenari diversi e altri
ma di amministrare l’esistente. Non più ingenue utopie
ma scaltra realpolitik.
La Dichiarazione europea di Bologna del 1999 sull’università e sulla ricerca (che auspicava un’«armonizzazione»
del sistema universitario dei Paesi del vecchio continente sul modello del «3+2») va collocata per l’appunto nel
momento culminante di questo clima e ha riflettuto con
molta precisione quell’ideologia.
I giornalisti e gli intellettuali che oggi sui quotidiani si
strappano le vesti contro le clientele universitarie e i «baroni», auspicando un’americanizzazione morbida degli
atenei in nome di un ambiguo e perciò dubbio criterio di
efficienza, sono spesso quegli stessi giornalisti e intellettuali che hanno contribuito negli anni passati al trionfo
71
72
del cosiddetto pensiero unico. Qualcuno, cioè, che omette colpevolmente di rilevare come ciò che accade nelle
università sia un riflesso (e allo stesso tempo naturalmente uno dei motori) di qualcosa che riguarda la cultura nel
suo insieme: che ha dunque a che fare con il suo progressivo indebolimento, il suo svuotamento, la lenta perdita
del suo ruolo di pungolo critico della società.
Ma con la fine degli anni Novanta si moltiplicano i segnali di una prima incrinatura dell’egemonia del postmoderno e si riaccende la presenza del conflitto (basta citare i
fatti di Genova del 2001: qualcosa che ha comunque rappresentato -pur nelle incertezze e nelle debolezze politiche dimostrate- il segno di un clima in via di cambiamento). Il dibattito delle idee torna a interrogarsi criticamente sul significato della fine della storia e delle ideologie.
Romano Luperini pubblica nel 2005 un libro che riflette
questo clima, il cui titolo, La fine del postmoderno, forse
troppo ottimista, annuncia però il lento e faticoso ritorno
a una presenza del pensiero critico (almeno nell’ambito,
ancora ristretto, della discussione intellettuale).
E l’Università?
Ma nel frattempo uno dei risultati di quel processo di
trasformazione degli atenei (qui richiamato inevitabilmente per sommi capi) è che l’Università italiana -fino a
una ventina di anni fa una delle migliori al mondo (almeno in alcune discipline scientifiche e in molte umanistiche)- versa ora in condizioni drammatiche.
Non per colpa solo delle «riforme» degli anni Novanta,
naturalmente, ma del clima culturale complessivo in cui
quelle riforme sono maturate e di cui sono state parte.
Il vertiginoso abbassamento del livello delle Università è
sotto gli occhi di tutti: corsi rapidi e compressi, mancanza
di un vero rapporto formativo fra studenti e docenti, «tesine» finali spesso affrettate e scarsamente meditate.
Anche qui bisogna intendersi. Non è che manchino corsi
che prevedono autentici approfondimenti, docenti che
impostino un rapporto autenticamente formativo con gli
studenti, lavori di tesi molto buoni: è che si tratta ormai di
vere e proprie eccezioni all’interno di uno standard ormai
rivolto in tutt’altra direzione. Come ha scritto recentemente Massimo Raffaeli a proposito della critica: «non
mancano affatto i singoli critici di valore; a mancare, semmai, è più generalmente lo spirito critico».
Come sempre in questi casi ci sono spie linguistiche
molto significative. Alcuni studenti iniziano a chiamare
«scuola» l’università e «classe» l’aula. E in fondo è difficile dar loro torto. Ciò che ancora gli studenti universitari della fine degli anni Ottanta chiamavano «università» non ha nulla a che vedere con ciò che oggi l’università è diventata. Uno studioso come Raul Mordenti ha
scritto recentemente che stiamo andando verso una
«semplificazione distruttiva» che rasenta «l’abolizione
dell’università».
D’altra parte, e con buona pace dell’idea di un sicuro allargamento del numero di coloro che avrebbero dovuto
accedere all’Università grazie alla «riforma», i dati Istat
più recenti rivelano una diminuzione del numero complessivo delle immatricolazioni negli atenei italiani per
gli ultimi due Anni Accademici per cui disponiamo dei
dati. Dopo tre-quattro anni di crescita (dovuti anche alla
«novità» della riforma), nel 2004-2005 le immatricolazioni calano dell’1.5%. Con l’Anno Accademico 20052006 la diminuzione si fa più consistente, raggiungendo
il 4,5%: 16.000 studenti in meno. I motivi del calo, sempre secondo l’Istat, sono ben chiari agli studenti. Il
54,1% dei quali giudica ormai negativamente la qualità
dell’offerta formativa delle Università italiane, e ben il
62,4% di loro -sono sempre i dati Istat a rivelarlo- ritiene che il nuovo sistema formativo stia peggiorando la
preparazione complessiva dei laureati.
Una questione etica
Ma i processi culturali e sociali non sono mai ineludibi-
CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
li. Non vedere la direzione in cui quei processi si muovono porta all’incapacità di reagire. Scambiare però la direzione di un determinato percorso per il suo avvenuto
compimento conduce a un’analoga, ancorché apparentemente opposta, incapacità di reazione. Bisogna guardare
negli occhi questa semplificazione distruttiva, proprio perché ha ancora senso provare a mutarne la rotta.
Naturalmente non sarà mai solo la legislazione a migliorare i destini degli atenei (così come – lo si è detto – non
è stata solo la legislazione a peggiorarli). E men che
meno lo potrà essere la legislazione specifica, poiché il
problema della formazione lo si deve necessariamente
affrontare nel suo insieme, procedendo dunque dai
primi gradi dell’istruzione fino agli ultimi e più alti.
E dunque, e prima di tutto, ciò di cui abbiamo bisogno è
un ritorno all’etica. Non alla deontologia, che è un’altra
cosa, ma proprio all’etica. Qualcosa –anche qui- che riguarda la società tutta, e la cultura nel suo insieme.
Ancora una volta, non è questione di corporazioni. L’attacco dei media alla «casta» dei politici è un fatto moralistico, non etico, che ha come obiettivo l’attacco alla politica, non ai politici corrotti, non agli sprechi, ma proprio alla politica, e cioè alla possibilità di incidere nei
cambiamenti, al tentativo di organizzarsi politicamente
per cambiare le cose. Nell’ultima Legge Finanziaria, approvata in Parlamento dal governo Prodi, sono previsti
dei tagli ai compensi dei consiglieri provinciali e comunali. Compensi che consentono oggi a un consigliere
provinciale – prendo a esempio il caso di Torino – di arrivare alla cifra mensile di circa 1.500 euro netti (che è
certo più della busta paga di un operaio ma che altrettanto certamente non costituisce una cifra che giustifichi
l’idea di una «casta»). La decurtazione prevista dalla Finanziaria ammonta, nella sua interpretazione restrittiva,
circa al 50%, in quella più ‘generosa’ al 20%. Il compenso mensile di un consigliere provinciale si aggirerebbe
dunque intorno ai 750 euro (o ai 1.200 nella migliore
delle ipotesi). Sarebbero questi i cosiddetti privilegi della
politica? (Senza tenere conto poi che alcune forze politiche prevedono statutariamente che i propri eletti versino una quota consistente al partito stesso; ma questa
considerazione lasciamola pure da parte perché riguarda
una autoregolamentazione dei consiglieri: eppure anch’essa, per qualcuno, incide). La campagna mediatica
sollevata ad arte da alcuni quotidiani – e da fortunati bestseller scritti da giornalisti di quegli stessi quotidiani –
ha dunque l’obiettivo non di colpire i veri e propri sprechi (che sorreggono vasti e articolati sistemi clientelari e
che andrebbero perciò ben altrimenti contrastati) messi
in atto da alcuni politici, semplicemente di colpire la politica tout court, la possibilità stessa cioè che, soprattutto
alcuni partiti (meno organici o addirittura ostili ai cosiddetti «poteri forti»), riescano ad avere e a mantenere i
propri rappresentanti nelle istituzioni.
Tornando perciò all’Università, ciò di cui abbiamo bisogno non è un atteggiamento moralistico, ma un rinnovato spirito etico, profondamente morale, che consenta di
indirizzare e regolare la vita universitaria non in base a
logiche clientelari e nepotistiche ma a ragioni culturali e
di merito. Perché non vi è dubbio che il nepotismo e la
logica della clientela siano fortemente presenti all’Università. Ma altrettanto certamente è evidente che questo
argomento viene utilizzato da molti – soprattutto dai
mezzi di comunicazione di massa – in modo specioso.
Con l’obiettivo non di aggredire il problema ma di incoraggiare forme di qualunquismo che rischiano unicamente di prefigurare scenari peggiori. Così come la cosiddetta «antipolitica» non è in realtà altro che uno
strumento per rafforzare una pessima politica, allo stesso
modo il sentimento banalmente «antiaccademico», alimentato ad arte, finisce per risolversi in un modo ancora più discutibile di proporre la gestione dell’accademia.
Didattica e ricerca
L’Università dovrebbe avere la forza di rimettere al cen-
73
74
tro del proprio operare la complementarità (e, di più,
l’unità) di didattica e ricerca. Dimenticare la crucialità di
quel nesso costituisce infatti un pericolo. La buona didattica, anche quando sia prevalentemente concentrata
sugli aspetti più «divulgativi», può trovare radici solide
solo in un’attività di ricerca seria e rigorosa.
Ma anche qui la situazione è complicata dalla cesura delle
«riforme» degli anni Novanta. Un conto infatti è il caso
degli studiosi più anziani, cioè di chi, maturata ormai
una lunga esperienza di studi e una robusta consuetudine con la ricerca, può scegliere di fare buon viso a cattiva
sorte e accettare la sfida che questo momento di transizione verso una nuova università comporta, decidendo
perciò di distinguere –pur senza mai separare del tuttoil piano degli studi approfonditi da quelli più divulgativi.
Un conto sono invece i futuri studiosi o gli studiosi più
giovani. Questi ultimi rischiano di non avere più il tempo
della ricerca – che è un tempo quantitativo ma anche
qualitativo – se quella distinzione verrà accentuata ulteriormente. E rischierà di venire meno la loro solidità di
studiosi. E tutto ciò non potrà che riverberarsi (in negativo) anche negli studi più «divulgativi».
Se ci poniamo un obiettivo ambizioso e proviamo a pensare all’università di domani e a come sarà, la questione
si presenta molto delicata. Se i futuri studiosi verranno
formati e dovranno lavorare da subito in una università
che non prevederà più la saldatura fra ricerca e didattica
tutto probabilmente peggiorerà. Sarà verosimilmente
più difficile fare ricerca seria e, di conseguenza, si sarà
sempre meno in grado di fare della buona «divulgazione», finendo per realizzare forme semplicemente scadenti di divulgazione, poiché banalmente ripetitive.
In questo senso la proposta legislativa sulla «terza fascia
docente» – il cui significato vuole essere l’abolizione
della figura del ricercatore in nome di una equiparazione
del suo ruolo a quello di un professore di terza fascia – mi
sembra piena di insidie e credo andrebbe valutata con
maggiore attenzione. Insomma, proprio perché l’obiet-
tivo non può che essere quello di mantenere la qualità
degli studi e più complessivamente la qualità del livello
della formazione universitaria – perfino il dio-mercato
non credo ci perdonerebbe leggerezze in questo senso –
mi pare sarebbe necessaria la consapevolezza che proprio nell’equilibrio delicato e complesso fra didattica e
ricerca si gioca il futuro di entrambe.
Tutto questo, alla luce degli indirizzi previsti nel decreto
Tremonti, risulterà ancora più arduo. I vigorosi tagli alle
risorse finanziarie, la drastica riduzione del personale a
tempo indeterminato e l’aumento dei contratti precari,
la progressiva introduzione dei privati direttamente all’interno del governo delle università rischieranno di assestare un colpo definitivo agli atenei e di rendere in
prospettiva l’università pubblica debolissima.
Dietro l’angolo naturalmente fanno già capolino le università private. Ci avviamo a grandi passi verso un sistema universitario frammentato, fatto di un gran numero
di università pubbliche scarsamente sovvenzionate e
qualche centro cosiddetto «d’eccellenza» con tasse di
iscrizione molto alte e lautamente finanziato, soprattutto dai privati. Anche se il decreto Tremonti è già legge
dello Stato, dobbiamo fare ogni sforzo, sin dalla prossima Finanziaria, per contrastare il progetto complessivo
che lo informa, le cui origini – lo abbiamo visto – corrono parallele ai prodromi di quel neoliberismo di cui in
queste settimane scopriamo la drammatica e profondissima crisi. CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
75
MASSIMO BRIGUORI (responsabile RdB Inpdap)
DIETRO I FANNULLONI DI BRUNETTA, LE FORBICI
DI TREMONTI
Una campagna creata ad arte, per nascondere gli attacchi
al salario e ai diritti dei dipendenti dello Stato. Con
l’obiettivo di giungere a una privatizzazione della pubblica
amministrazione.
Prima di affrontare alcuni aspetti specifici del decreto
112, che passa sotto il nome di «decreto Brunetta», convertito successivamente dal Parlamento nella Legge 133,
è bene sottolineare che tale provvedimento costituisce di
fatto la legge finanziaria del Governo Berlusconi attualmente in carica. Per far passare la principale legge dello
Stato, il Governo ha introdotto per la prima volta una
modalità che utilizza lo strumento di un decreto legge,
approvato in pochi minuti dal Consiglio dei Ministri: per
la sua approvazione, il Governo ha posto in Parlamento il
voto di fiducia, rendendolo immediatamente operante.
Un’altra novità di tale iter di approvazione è costituita dal
fatto che il decreto stabilisce interventi che coprono l’arco di tre anni, dal 2009 fino al 2011.
Trattandosi della Legge Finanziaria, la parte principale
dell’intervento concerne ovviamente il dato economico
e, in particolare, i tagli da operare sul bilancio pubblico
per rispettare i vincoli europei. È sufficiente leggere le
prime righe del provvedimento per comprendere chiaramente tale impostazione. All’Art.1, comma 1, si legge:
«Le disposizioni del presente decreto comprendono le
misure necessarie e urgenti per attuare un intervento organico diretto a conseguire un obiettivo di indebitamen-
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to netto delle pubbliche amministrazioni che risulti pari
al 2,5% del Pil nel 2008, al 2% nel 2009, all’1% nel 2010,
allo 0,1% nel 2011».
Semplificando, si taglia la spesa della Pubblica Amministrazione passando dal 2,5% del 2008 allo 0,1% del 2011,
ovvero un taglio di 2,4 punti percentuali rispetto al Pil:
un intervento per circa 30 miliardi di euro. Questo era
l’obiettivo, concordato tra il Ministro dell’Economia
Tremonti e il Ministro della Funzione Pubblica Brunetta,
che è possibile rintracciare nello stesso «piano industriale» presentato da quest’ultimo in anteprima rispetto alla stessa approvazione del decreto 112, che finirà appunto per essere chiamato il «decreto Brunetta».
Il pesantissimo intervento sulla Pubblica Amministrazione è stato accompagnato dall’apertura simultanea di
un’imponente campagna di (dis)informazione sui cosiddetti «fannulloni», abilmente studiata dal Ministro
Brunetta e sostenuta dai mezzi di comunicazione, Tv e
giornali, che hanno bombardato l’opinione pubblica per
mesi, facendo leva sulla insoddisfazione dei cittadini rispetto alla qualità e alla celerità del servizio pubblico.
Del resto, già durante la scorsa legislatura, le stesse rappresentanze sindacali confederali Cgil,Cisl,Uil avevano
preparato un terreno favorevole a tale intervento, approvando il cosiddetto «memorandum», al centro del quale
era posto il concetto di meritocrazia: a esso si faceva riferimento quale strumento per l’erogazione del salario dei
dipendenti pubblici, e in particolare per il trattamento
accessorio legato alla produttività.
Forte di questa apertura, il Ministro Brunetta è intervenuto con mano pesantissima sia sul piano delle risorse
che su quello della modifica di alcune norme. Sul piano
delle risorse i due Ministri Tremonti e Brunetta hanno
predisposto un intervento che taglia per tutte le P.A. le
risorse destinate a premiare la produttività per una percentuale pari al 20% e, in aggiunta, elenca una serie di
cosiddette «norme speciali» che dovranno essere disapplicate e che costituivano una delle voci più importanti del finanziamento del Fondi Incentivanti di Inps e
Inpdap. Ciò comporterà rispettivamente una perdita di
161 milioni di Euro per i lavoratori dell’Inps e 40 milioni
di euro per l’Inpdap, solo per il 2009.
Un provvedimento quindi che azzera di fatto le risorse
destinate a premiare la produttività dei due Enti Previdenziali e che fa saltare, come ricaduta, la stessa contrattazione integrativa, che al contrario il Governo dice di
voler valorizzare anche per il settore privato. Il taglio dei
fondi incentivanti comporterà una perdita secca di circa
6.000 euro pro capite annui, sia per i dipendenti Inps
che Inpdap, rispetto alla retribuzione annuale, mettendo
in serissima difficoltà le loro famiglie, magari alle prese
con l’impennata dei mutui o degli affitti.
Come si è detto, oltre a questo gravosissimo taglio sulle
retribuzioni, il decreto interviene anche per modificare
CE N ’ EST QU ’ UN DÉBUT
alcune norme, che erano state conquistate con anni ed
anni di battaglie dei lavoratori. Facendo leva sulla campagna mediatica sui «fannulloni», il decreto prevede
che nei primi 10 giorni di assenza per malattia venga decurtata per ogni giorno tutta la retribuzione accessoria.
Rispetto a questo provvedimento lo stesso Ministro si è
vantato di aver determinato così un «effetto Brunetta»,
tanto che le assenze per malattia farebbero registrare da
subito una rilevante diminuzione.
Sottolineando che i dati riportati dal Ministro si basano
su rilevazioni parziali, fatte a campione solo rispetto ad
alcune Amministrazioni, c’è soprattutto da dire che, se
chi abusava del permesso di malattia si asterrà dal continuare in questa pratica, la norma rimarrà comunque in
vigore anche dopo che fossero eliminati tutti gli abusi e
chi pagherà veramente saranno i malati veri.
Ancora più odioso è poi l’intervento a modifica della
Legge 104, la legge che stabiliva tutele per i lavoratori
portatori di Handicap e per i lavoratori nel cui nucleo famigliare ci fosse la necessità di assicurare l’assistenza ai
congiunti. Mentre sui primi non si è avuto il coraggio di
infierire, lo stesso riguardo non è stato riservato ai secondi e si è operata una stretta sui relativi permessi dal
lavoro. Così, quel dipendente pubblico che deve assentarsi dal lavoro per assistere il figlio, la moglie, il marito,
i genitori – portatori di handicap – supplendo alle gravissime carenze del sistema sanitario, dovrà ricorrere
alle ferie o chiedere un permesso che, come quello per la
malattia, prevede il taglio del trattamento accessorio per
i primi 10 giorni.
Da questi, che sembrano essere solo aspetti specifici del
cosiddetto «decreto Brunetta», si può comunque ricavare la tesi, neanche tanto sottaciuta, che informa tutto il
provvedimento e che ci riporta alle considerazioni iniziali: l’intervento predisposto per il miglioramento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione si risolve
solo in un peggioramento delle condizioni economiche e
lavorative dei dipendenti pubblici, sui quali viene scari-
cato il costo dei vincoli europei e dei relativi tagli di bilancio, con il risultato di aggravare le già precarie condizioni operative della Pubblica Amministrazione e con
l’inconfessabile intento di poter poi eventualmente giustificare l’ulteriore passo verso la privatizzazione di pezzi
del suo funzionamento.
Con quello che sta accadendo nel mondo della Scuola,
dell’Università e della Ricerca – con i provvedimenti del
tutto analoghi di taglio delle risorse e licenziamento dei
lavoratori precari che da anni garantiscono la didattica –
il cerchio si chiude. Al contrario, banche e imprese invocano e ottengono onerosissimi aiuti di stato, per far
fronte alla gigantesca crisi finanziaria che liberisti e sacerdoti del mercato hanno prodotto, con i loro comportamenti degli ultimi quindici anni. 77
OMAGGIO A UN POETA
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Il 13 settembre scorso, in un incidente stradale, è venuto a mancare Italo Evangelisti. A CHE SERVE? A CHE SERVE UNA NUOVA COLLANA
Poeta e critico, oltre che comunista, era nato DI POESIA?
a Roma dove viveva e lavorava svolgendo
parallelamente l’attività poetico-letteraria
e quella di critico d’arte.
Certo non a costruire un futuro migliore, di cui pure
Come critico d’arte è autore di saggi, in parti- avremmo tanto bisogno. Figuriamoci!
colare, sulla «scuola romana» e l’«astratto- E neanche a progettare un futuro qualunque… la poesia,
lo sappiamo, non ha mai fatto la rivoluzione; ma a testiespressionismo»; nonché di presentazioni al moniare questo presente con la luna storta e pensarlo e
catalogo e interventi critici sull’opera di immaginarlo e sognarlo un domani umanamente compaalcuni tra i più importanti artisti italiani. tibile cercando e trovando le parole giuste per dirlo, queCome poeta e critico letterario, nel 1985 ha sto sì; anche perché, come ha detto qualcuno che di costruzioni se ne intende, «il futuro è l’unico posto dove
fondato e diretto la collana di poesia delle possiamo andare».
Edizioni del Giano; ha fatto parte delle giurie «La luna storta»! Ecco perché un biglietto da visita cosi
di numerosi Premi letterari con Alberto politically incorrect ma truly politic per questa nuova collana di poesia di cui la Editrice Terre sommerse mi ha imMoravia, Dario Bellezza, Elio Pecora, Vito prudentemente affidato la direzione.
Riviello, Valerio Magrelli , curando anche la Per quanto attiene poi la scelta critico-stilistica, diciamo
prefazione al volume antologico del Premio che essa è dettata dalla convinzione che siamo in una fase
Rebibbia 87, Il turbine segreto del vociare non- in cui è necessario ed urgente tentare di dare una risposta, senza illusioni ma con fermo e paziente impegno, alla
ché autore, insieme al poeta Plinio Perilli, dei crisi che attraversa la creatività poetica.
saggi introduttivi all’antologia di testi poeti- Una poesia, che, in generale e fatte ovviamente le signici frutto dei laboratori condotti nel carcere ficative eccezioni, si presenta stretta in un abbraccio
mortale, da cui non riesce a liberarsi, tra la «parola innaromano di Rebibbia nel triennio 2004-2006.
morata» e la «parola stuprata».
L’intreccio tra il pathos poetico e la crudezza L’una, innamorata di se stessa, narcisa e spalmata come
del vivere era nato dall’incontro con Pier melassa sulla pagina, con le labbra truccate dal rosso di
Paolo Pasolini, personaggio significativo improbabili tramonti, accarezzata dal volo dei gabbiani,
saprofita di «eterne» passioni, profumata d’incenso per
nella sua vita intellettuale e artistica.
un Cristo da catechismo consolatorio; insomma, la sagra
Per ricordarlo, riportiamo la sua presenta- dei buoni sentimenti, cioè, l’ipocrisia sublimata in versi
zione della collana «Nuova poesia-La luna o, al massimo, la cronaca minimalista di un soggettivismo miope e asfittico.
storta» per l’ Editrice Terre Sommerse, di cui Sull’altro versante, una poesia stuprata da uno sperimennel 2007 aveva assunto la direzione.
talismo sterile che sopravvive a se stesso in un gioco au-
OMAGGIO A UN POETA
toreferenziale che è tautologia lirica, tecno-estetismo di
una anarchia solipsistica che è spia di una impotenza
creativa dove le assonanze-dissonanze godono a stridere
nel non sense.
Lì dentro, soffocata tra queste due pareti d’ombra, sta la
parola poetica che, come buona parte della creatività artistica contemporanea, non solo ha perso il contatto con
la «realtà», fagocitata dal «virtuale», ma, per dirla con
Paul Virilio, «ha smarrito la capacità di vedere» e quindi di comunicare. Insomma, è cieca figlia di una «estetica della sparizione».
Che fare? Intanto, prendendo atto che la crisi della parola poetica nasce dalla crisi più generale del «pensiero»;
cioè, dalla sua stessa «natura» e «qualità» e non dalle
forme e modi della sua comunicazione.
Basti pensare, tanto per esemplificare a tutto campo, alla
evidenza plastica dei fotogrammi e alla scansione ritmica del montaggio del cinema digitale, alla destrutturazione nevrotica della coreografia – new dance, alla nuova
scrittura pubblicitaria di «suggestione» onirico-fantasmatica di caratura astratto-concettuale e alla deregulation logico-sintattica della nuova letteratura.
Il problema, quindi, nasce dal nuovo modo di pensare,
non più organizzato sul piano «orizzontale» dello sviluppo logico e progressivo di un concetto ma sul piano
«globale» della immediatezza e contemporaneità; di un
pensiero, quindi, che percepisce e comunica simultaneamente appercezioni sensibili e immagini, evocazioni
memoriali e sonore con pezzi di concreta matericità e di
quotidiano consumo. Un pensiero che necessita, per essere pensato, metabolizzato e trasmesso, di un linguaggio capace di declinare la categoria interpretativa della
contemporaneità, la «velocità», nella sua corretta accezione di «intensità del sentire» e non in quella deviata e
deviante di «rapidità dell’agire».
Per la poesia, in questo contesto, il problema sta nel
come recepire diversamente e, quindi, elaborare e restituire efficacemente la parola immediata e mediata da sti-
moli diversi, in una fusion tra «parola parlata» e «parola scritta» che riesca a superare la falsa dicotomia tra
«banale» e «sublime»,«quotidiano» ed «eterno» e,
conseguentemente, a produrre, in questa fase di «non
pensiero», almeno un embrione di un «linguaggio
nuovo» perché coerente col «nuovo pensiero» nutrito
dalla contemporaneità di percezione e comunicazione.
Lo so, lo so, l’impresa è difficile. Ma se grandina il poeta
non può starsene con l’ombrello aperto aspettando che
spiova gingillandosi coi giochini verbali e i languori sentimentali.
Senza presunzioni, of course, convinti come Pessoa che
«noi non facciamo più rumore al mondo / di quanto ne
facciano le foglie degli alberi / o i passi del vento».
Tuttavia, sapete che vi dico?
A me basterebbe che la poesia di questa collana riuscisse, anche solo qualche volta, a farli sentire i passi di quel
vento tra le foglie.
Forse non riuscirà a raddrizzare questa luna storta ma almeno ci abbiamo provato.
Italo Evangelisti
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80
Comitato editoriale
Maurizio Acerbo
Gianni Alasia
Marco Amagliani
Pierfranco Arrigoni
Antonio Assogna
Jone Bagnoli
Giorgio Baratta
Imma Barbarossa
Katia Bellillo
Riccardo Bellofiore
Piergiorgio Bergonzi
Maria Luisa Boccia
Manuele Bonaccorsi
Vittorio Bonanni
Bianca Bracci Torsi
Nori Brambilla Pesce
Emiliano Brancaccio
Giordano Bruschi
Tonino Bucci
Alberto Burgio
Maria Rosa Calderoni
Maria Campese
Luigi Cancrini
Luciano Canfora
Guido Cappelloni
Gennaro Carotenuto
Bruno Casati
Luciana Castellina
Giulietto Chiesa
Francesco Cirigliano
Fausto Co'
Cristina Corradi
Aurelio Crippa
Roberto Croce
Marco Dal Toso
Walter De Cesaris
Peppe De Cristofaro
Josè Luiz Del Roio
Tommaso Di Francesco
Giuseppe Di Lello Finuoli
Piero Di Siena
Rolando Dubini
Gianni Ferrara
Guglielmo Forges Davanzati
Gianni Fresu
Mercedes Frias
Alberto Gabriele
Haidi Gaggio Giuliani
Francesco Germinario
Orfeo Goracci
Roberto Gramiccia
Claudio Grassi
Dino Greco
Margherita Hack
Alessandro Leoni
Lucio Manisco
Fabio Marcelli
Giovanni Mazzetti
Maria Grazia Meriggi
Enzo Modugno
Sabina Morandi
Raul Mordenti
Franco Nappo
Giorgio Nebbia
Saverio Nigretti
Alfredo Novarini
Simone Oggionni
Angelo Orlando
Franco Ottaviano
Gianni Pagliarini
Valentino Parlato
Armando Petrini
Gianmarco Pisa
Michele Pistillo
Felice Roberto Pizzuti
Giuseppe Prestipino
Marilde Provera
Riccardo Realfonzo
Alessandra Riccio
Paolo Sabatini
Giuseppe Sacchi
Luigi Saragnese
Marco Sferini
Vincenzo Siniscalchi
Massimiliano Smeriglio
Bruno Steri
Antonella Stirati
Mario Tiberi
Nicola Tranfaglia
Fulvio Vassallo Paleologo
Mario Vegetti
Massimo Villone
Luigi Vinci
Pasquale Voza
Maurizio Zipponi
Stefano Zolea
Stefano Zuccherini
Stefano Zuccherini
direttore – Bruno Steri
direttore editoriale – Mauro Cimaschi
direttore responsabile – Bianca Bracci Torsi
redazione – Mauro Belisario,
Silvia Di Giacomo, Simone Oggionni
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diffusione e abbonamenti
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editore
associazione culturale essere comunisti
via Buonarroti 25 – 00185 Roma
stampa
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chiuso in tipografia il 12 novembre 2008
grafica
progetto grafico, impaginazione e service
editoriale: DeriveApprodi
registrazione
Tribunale di Roma
n. 170/2007 del 08/05/2007
anno II, numero 8, settembre 2008
bimestrale
Poste Italiane s.p.a. – spedizione in A.P.
70% Roma n. 96/2007
www.esserecomunisti.it
l rischio che corre un sito internet (in
primo luogo un sito di informazione e
orientamento politico) è di faticare nello
stare al passo con il tempo della rete che,
come è noto, si consuma con una velocità
esponenziale.
Il rischio, quindi, è che le buone intenzioni
cedano alla stanchezza e, via via, perdendo
la capacità di rinnovarsi, il sito sia sempre
meno in grado di offrire al lettore telematico
un prodotto utile, maneggevole, interessante.
Il contatore dei contatti quotidiani al nostro
sito, www.esserecomunisti.it, ci indica una
tendenza contraria.
Il sito cresce ogni giorno proponendo ai
lettori nuove sezioni (a partire da quella
multimediale, arricchita frequentemente di
nuovi audiovisivi), un doppio aggiornamento
quotidiano e già in mattinata articoli e
commenti sui fatti del giorno.
E ancora: più attenzione alla cultura, una
rassegna stampa più completa e articolata,
un numero sempre crescente di interventi,
commenti e interviste redazionali, molti dei
quali provenienti dai circoli e dalle
federazioni del nostro partito.
Ma non è ancora sufficiente. E per crescere
ancora, abbiamo bisogno dello sguardo
critico dei nostri lettori (una media di
settemila al giorno, negli ultimi due mesi). In
questi anni ce l’abbiamo fatta anche e,
forse, in primo luogo perché la critica
(insieme alla fiducia) non è mai venuta
meno.
Aspettiamo il vostro contributo, confidiamo
nella vostra capacità di coinvolgere sempre
nuovi compagni: facendo loro scoprire la
nostra rivista e il sito internet.
Scommettiamo che non rimarranno delusi?
I
credits sulle immagini
da pagina 60 a pagina 77 immagini di Paolo
Canevari
UN ESEMPIO DA IMITARE
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stamani come circolo Prc «Franco Bertini» di Ponte a Egola (PI) abbiamo pagato un
bollettino postale di euro 100,00 che alleghiamo scansionato.
50,00 euro sono da intendersi come sottoscrizione alla nostra rivista.
Gli altri 50,00 per due abbonamenti ordinari da mandare al circolo.
Grazie! Elena e Pilade
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