d’estate, una notte di Paolo Batzella e-book4free.com 2007 “...in fondo la fine di ogni giorno è nota ed infine tutto è già stato e basta solo aspettare che i fatti appaiano evidenti ai nostri occhi per sostenere che siano accaduti.” (Shakespeare, Giulio Cesare) PRIMO “Così, sì, così gli dirò domani, dirò che non avrà di che preoccuparsi e che sarei riuscito a rispettare i termini del contratto”. Se solo la notte lo avesse assistito quella notte, avrebbe chiuso questa storia, rimuginava pensando alla reazione di Peruzzi mentre la chiave, liberando la toppa, faceva scattare con un sordo schiocco metallico la serratura del portone; anche perché se, quando telefonerà, non avrò da offrire altro che promesse chiederà in cambio la mia testa ed avrà tutte le ragioni per pretenderla, concluse immaginando il timbro della voce dell’amico editore. Spinse in avanti l’anta con una spalla, spostando tutto il peso del corpo su una gamba e, schiacciando in questo modo la busta con la spesa contro lo stipite bloccato, si infilò nello spiraglio sufficiente appena a scivolare nell’ombra fresca dell’androne. Sbirciò con la coda dell’occhio verso la cassetta della posta: c’era ancora un po’ di spazio, pensò, ancora qualche giorno quel contenitore avrebbe retto alla furia comunicativa del 3 Paolo Batzella suo prossimo; era una vecchia rastrelliera di legno con nove cassette poste a piramide: quattro, tre, due, e decorata nella parte superiore da uno svolazzo di legno intagliato che culminava in un rosone da cui ormai mancavano diversi petali; la sua era quella sulla destra della fila di mezzo ed anche se a lui piaceva pensarla diversamente, difficilmente anche solo altre due o tre missive sarebbero riuscite a riposare al suo interno. Più probabile che il postino, alla prossima occasione, ormai abituato a quella situazione di perenne vacanza, cominciasse a disporre la posta all’in piedi, di dietro l’altarino di legno, sapendo che, come aveva verificato più volte, dopo un paio di giorni in quella sistemazione, qualcuno avrebbe provveduto a svuotare il tutto, togliendo anche l’eccesso impropriamente esposto al pubblico giudizio. Ulisse era fatto così: sollevato come utente dall’onere di tener conto delle periodiche scadenze di pagamento, cui la sua banca provvedeva ormai da anni, chi mai avrebbe potuto avere il diritto di comunicargli alcunché? Non certo il suo capoufficio che oramai l’aveva certamente dato per 4 d’estate, una notte disperso in chissà quale luogo sperduto del pianeta: la sua aspettativa si era agganciata ai periodi di ferie maturati negli ultimi due anni, ed erano mesi che non si faceva più sentire con i colleghi; il suo editore, forse, ma il semplice fatto di aver pubblicato un romanzetto di un certo successo non giustificava certo che questo gli chiedesse conto dei progressi del secondo, che pure si era impegnato a consegnare entro la fine del mese. Era uno scrittore per caso lui, non un professionista, e questa seconda serie di novelle poi, cui stava lavorando, sembrava girare e girare tra il suo cervello e lo stomaco come un rigurgito dopo un pasto consumato di fretta e con grande appetito; l’acidità della digestione non aveva lasciato il tempo di assimilare anche la sensazione di piacere, di sazietà che il cervello trasmette. Tutto era, ma senza ancora decidersi a definirsi, e le idee oscillavano tra qualche buona intuizione e alcune note datate ed archiviate a suo tempo nei cassetti per ogni evenienza. Di fatto erano settimane che provava a vomitare qualcosa di decente ma il rigurgito rimaneva tale riuscendo a produrre 5 Paolo Batzella tutt’al più nel corso dei giorni una quantità di appunti scritti alla rinfusa su fogli d’ogni genere, spesso in condizioni d’emergenza e che al momento intasavano le tasche del suo giubbotto non meno della sua cassetta della posta. Diversamente da quella, queste tra poco sarebbero state svuotate; quella sera, aveva deciso, l’insieme delle parole scritte avrebbero formato sotto i suoi occhi una collinetta di carte sul piano della scrivania: un cumulo informe nel quale avrebbe tentato di mettere ordine cercando di imbastire il canovaccio almeno di una prima storia. Aveva pensato a qualcosa che ruotasse intorno ad una vicenda da ambientare nel passato, nel Rinascimento romano forse; un’ambientazione intrigante ma soprattutto piena di intrighi. Tuttavia l’interesse per i visi di ogni giorno, la curiosità per i comportamenti del suo tempo gli impediva di estraniarsi, di farsi attore in un passato che pure lo affascinava, circuendolo con il suo profumo di ritmi perduti, a lui certo più consoni, di scansioni temporali più lente delle attuali, ed allora veniva come rapito da una sorta di nostalgia, quasi un 6 d’estate, una notte rimpianto per una possibilità di percezione delle cose che oggi riteneva negata più che perduta. A causa di questa perdita, in verità, spesso si sentiva travolto dai fatti, incapace di fissare il tempo e con esso le idee, anche quelle che gli sarebbero servite per onorare gli impegni presi con quel poveraccio cui era capitata la disgrazia, rimuginò, di pubblicare un suo libro. Considerò, mentre attraversava l’androne, se non fosse semplicemente afflitto da una qualche forma di misantropia cronica, se questo suo cercare soluzioni dove non possono essere, servisse solo a bearsi del non trovarle, e questo non finisse in fondo per rafforzare un comportamento ai limiti della patologia, un atteggiamento incontrollato ed incontrollabile, o più semplicemente, questo tratto del suo essere trovasse giustificazione in quella convinzione un po’ datata secondo la quale in un mondo in cui i governi sono tutti cattivi e gli uomini sono tutti buoni, ai comportamenti di questi ultimi deve sempre corrispondere un motivo sufficiente a spiegarne le ragioni. La sua in questo caso sarebbe risultata una patologia da formazione culturale, contratta probabilmente in giovane 7 Paolo Batzella età a causa delle abituali frequentazioni di ambienti malsani dove si vaneggiava di leggi morali e cieli stellati, dell’immaginazione al potere. Ma no, è che la sua era proprio una scelta consapevole e non indotta, concluse scrollando appena il capo mentre traguardava lo spettacolo offerto dalla rastrelliera appesa. E’ che riteneva che comunicare sensazioni affidando queste alla forma scritta di una lettera fosse una contraddizione in termini: riteneva che il valore di una sensazione, per quanto durevole nel tempo, fosse comunque legato al momento in cui la si provava e rifletteva su che senso potesse avere leggerne una descrizione quattro o cinque giorni dopo; avrebbe forse sì, fatto apprezzare una vicenda, ma in quanto già accaduta, e dunque tutt’al più come raffigurazione ed il pensiero del lettore immediatamente dopo si sarebbe rivolto al come, nel frattempo, poteva essere mutata la situazione stessa. D’altra parte poi questo sforzo mentale sarebbe stato del tutto inutile visto che solo il passato era in quell’inchiostro e sarebbe stato inutile pretendere di indagare su un presente lontano nello spazio; un’attività mentale questa, che 8 d’estate, una notte sarebbe risultata del tutto ridicola pur nel suo onesto tentativo di instaurare un qualche legame simpatico col mittente, e dunque da aborrire come inutile, superflua come d’altronde gli appariva la maggior parte delle attività umane; da queste vacuità si sentiva perennemente circondato, talvolta assediato e si ritrovava così ad osservare spesso le scene della vita reale da una posizione di spettatore, colpito dalla fatica che questi impegni sembravano comportare per la totalità del suo prossimo. E’ che ai suoi occhi la società umana girava intorno a lui ad una velocità impropria e per di più caoticamente: ognuno, distintamente dal tutto, veniva giù come una molecola d’acqua per un torrente di montagna, giù a capofitto tra sassi e sbalzi in una gara forsennata per quella virtuale cateratta, in una rincorsa precipitosa di congiunzioni e separazioni, giù a perdifiato e tutto perché poi? per ritrovarsi inevitabilmente nella piana, mescolato nel lento scorrere del fiume, confuso in un lago senza sbocchi, di norma e nella migliore delle ipotesi disciolto infine nel grande mare oceano. 9 Paolo Batzella Dunque, sentenziava, tutto sarebbe rimasto così come lo vedeva ora, con un depliant pubblicitario più grande degli altri che già faceva capolino oltre lo sportellino di vetro, coprendo in parte con la sua mole, alcune buste bianche, ed una gialla che, piegata in due dalla forza dell’impiegato postale, aveva fatto quasi accartocciare un’altra lettera sistemata appena sotto e nel cui angolo si intravedeva il francobollo, non italiano gli sembrò, quasi per una percezione: niente di più e nulla certo che meritasse un’indagine più approfondita. Tra un paio di giorni, se fosse arrivato il tempo, armato con una busta gigante del supermercato, a tempo debito piegata e conservata per la bisogna, sarebbe sceso nell’androne e avrebbe compiuto l’opera. Pensieri, amori, passioni, idee, suggerimenti e preghiere, inviti e richieste, tutto e tutti insieme sarebbero finiti nel sacco, “da un sacco ad un sacco, tutto inizia e finisce nello stesso luogo, nello stesso modo” avrebbe pensato mentre con la massima imparzialità possibile avrebbe selezionato gli arrivi. 10 d’estate, una notte Tutti sarebbero passati per le sue mani, questo è certo, nessuno sarebbe stato trascurato, che so, per una prevenzione, per un semplice preconcetto: dapprima gli avvisi pubblicitari, poi le promozioni dei vari saldi quando era il periodo, quindi le comunicazioni di pubblica utilità; allora avrebbe probabilmente scoperto il motivo di quella doccia mancata un paio di settimane addietro: il laconico avviso di interruzione del servizio idrico avrebbe riportato quasi certamente una data successiva all’evento ed egli avrebbe gongolato nel veder confermate le sue teorie su questa incongruenza spazio temporale che ci governava: una melassa dove le giustificazioni formali valgono più dei fatti stessi; infine le lettere vere e proprie, i pensieri: nome, cognome e indirizzo: dalla grafia sarebbe risalito all’autore, avrebbe a questi dedicato un momento e con rigore, senza aprire la busta, avrebbe cassato il prodotto di altri come se fosse il suo, gli apparteneva d'altronde, e così come tutto il resto, ogni cosa sarebbe finita nel macero. Il servizio in fondo si era compiuto, a lui sarebbe rimasta memoria che il tale od il tal altro gli aveva dedicato un po’ di sé, lui aveva ricambiato e tanto sarebbe stato scritto nella 11 Paolo Batzella storia minore delle piccole cose, in un angolo s’intende, da dove forse si sarebbe potuto per necessità ripescare e citare: “sì, ho ricevuto la tua” e ciò sarebbe stato sufficiente, chi dice mai “ho letto al tua” e quasi nessuno normalmente ti chiede conto del contenuto. Tutto questo scorreva nella sua mente in quell’attimo, una sbirciata, appena quattro passi, un battito di ciglia, l’androne era finito. Meravigliosi palazzi del seicento, alti soffitti, spesse pareti a proteggere dai rumori del mondo, ma scale ripide e niente ascensori; al secondo pianerottolo avrebbe preso fiato ed affrontato l’ultima rampa, un poco più in buono stato delle prime due, la cui maggiore usura aveva trasformato la compattezza del porfido dei gradini in un ricordo e le piccole conche creatisi al centro di essi in una testimonianza dell’andare dei piedi. Anche le pareti, mano a mano che si saliva, risultavano meno danneggiate, certo migliori del tratto fino all’interno due al primo piano: un appartamento quello sempre in affitto al miglior offerente e dove mai nessuno aveva 12 d’estate, una notte vissuto abbastanza a lungo da lasciare memoria del proprio volto. Appena qualche mese bastava normalmente perché gli inquilini ne avessero abbastanza delle vecchie crepe che disegnavano l’ingresso dipanandosi come una regnatela lungo il controsoffitto che forse prima dell’ultima guerra qualcuno aveva pensato bene di installare per modernizzare l’ingresso e che ora risultava un’oscenità per chiunque, o della grossa macchia d’umidità che stagionalmente appariva nel fondo subito al di sotto di una serie di vetrinette che servivano a dar luce al mezzanino. Da sempre, a sua memoria, con le prime piogge l’intonaco esterno tratteneva come una spugna un po’ di umidità che veniva poi distribuita amorevolmente pian piano all’interno durante tutto l’inverno. Ma il colpo di grazia per il nuovo arrivato giungeva con la scoperta della presenza del vecchio topo del palazzo. Anche lui aveva avuto occasione di incontrarlo più volte negli anni e, per intenderci, non si stava parlando di un volgare topo di fogna, no, Ercole era un autentico ratto nero, certo uno dei pochi sopravvissuti all'invasione dei 13 Paolo Batzella norvegesi che ormai infestavano la città e l'intero continente. Aveva una sua dignità Ercole, ne era convinto, non fosse altro per l’ineffabilità con cui si fermava, inchiodato nell’angolo in cui lo incrociavi, aspettando che tu passassi oltre: non ti guardava neppure, ne tanto meno ti ‘puntava’, pronto magari ad aggredirti, no, lui si fermava e basta, cercando probabilmente con l’immobilità d’ottenere anche una sorta di invisibilità, se ne stava lì a fissare con lo sguardo un punto lontano, infinito per le sue proporzioni, certe volte sembrava chiudesse persino gli occhi che, forse pensava, avrebbero potuto tradirlo, denunciando una presenza viva ma di più, sapendo bene che il battiscopa blu notte delle scale l’avrebbe protetto, vi si appiattiva contro mimetizzandosi, immobile ed aspettava così che passassi oltre. C’era un che di nobile nel suo comportamento: non ti lasciava strada ma neppure imponeva la sua, semplicemente sembrava ignorarti, considerandoti uno di passaggio, appunto; lui sarebbe rimasto invece, lui sarebbe sopravvissuto ancora ad uno, due, infiniti affittuari che in 14 d’estate, una notte effetti, confondendo il timore col ribrezzo, svanivano nel nulla dopo il secondo incontro e, quando l’ultimo di turno avesse chiuso il portone dietro le ultime scatole del trasloco, lui avrebbe sentito l’uscio chiudersi, sfumare il calore della lama di luce ed avrebbe allora aperto gli occhi ancora su quel mondo tutto suo, fatto di scarpe enormi e di grandi animali vocianti e rumorosi, che impiegano energie ciclopiche per fare un nonnulla, come portare su la borsa della spesa: le buste in una mano, la cartella dell’ufficio nell’altra e le chiavi di casa strette tra i denti e con ancora le energie sufficienti per masticare con l’eventuale coinquilina, incrociata casualmente ed oberata anch’essa altrettanto, chissà quali amene considerazioni meteorologiche. Ecco, era arrivato: posò la busta, si tolse le chiavi di bocca e rapidamente cercò, tra le tante inutili che si portava appresso, quella giusta ed operando quindi come da manuale un attimo dopo l’uscio era aperto, lui dentro e nuovamente nella posizione iniziale mentre con un collaudato colpo di tacco richiudeva la porta lasciando 15 Paolo Batzella dietro si sé d’un colpo il pianerottolo, le scale, l’umidità, la posta ed Ercole: era a casa. 16 d’estate, una notte SECONDO Era rientrato, pensava il Rabbi; da dietro lo spioncino i suoi occhi vedevano il grosso ratto muoversi e la penombra farsi buio di nuovo, privata d’un tratto del rumore che la presenza umana produce. Il suo ragazzo era tornato chiudendo l’ennesimo giorno di quella sua vita, a suo parere un po’ vigliacca; questo pensava prendendo fiato e cercando di cancellare l’apprensione che dal profondo sempre lo coglieva verso sera quando, non sentendolo rincasare, cominciava ad agitarsi ed iniziava allora istintivamente a misurare il corridoio con i passi, ciondolando tra le persiane chiuse e lo spioncino della porta, misurando così anche i suoi metri di libertà come fanno le fiere nelle gabbie degli zoo, contando in passi i minuti che passano in attesa di qualcosa che deve accadere: così lui aspettava che il suo ragazzo crescesse e che, rimossa la sporcizia dalle piume, iniziasse a battere le ali, cominciasse a volare. Infiniti ed inutili passi i suoi perché, quando infine lo intuiva arrivare, indovinandone l’andatura dalla strisciata 17 Paolo Batzella delle suole sui primi gradini, puntuale ne intravedeva dallo spioncino la figura pesante, ingombra di considerazioni fatte di melassa, invischiata in tortuosi pensieri che non avrebbero portato a nulla ma sarebbero unicamente serviti secondo lui, a dargli l’illusione di vivere. Allora il sorriso amaro che vedeva passare attraverso campo visivo rendeva evidente la feroce voglia di quel ragazzo di difendersi da tutto e tutti, come se pensasse che il mondo intero non lo meritasse, come se la stessa umanità gli fosse estranea ed ogni motivo fosse valido a quel punto per chiamarsi fuori. Il suo ragazzo era un vigliacco, si scopriva a constatare il Rabbi e questa considerazione ogni volta lo irritava prima ancora che rattristarlo ed allora gli tornava alla mente quando da bambino si divertiva a sbirciare attraverso i fori che qualche chiodo arrugginito aveva lasciato nel portone del ghetto: attraverso quello osservava la stessa vigliaccheria: allora era abbigliata con le divise dei cattolicissimi guardiani, ora si ammantava del sapere laico: entrambe, pensava, poggiavano sulla stessa presunzione di sapere: proprio questa arroganza era secondo lui, il tratto 18 d’estate, una notte principale dell’animo del suo Ulisse e questo gli lasciava in bocca il gusto stucchevole del già visto. Gli pareva viceversa che la propria giovinezza avesse avuto un sapore diverso, quello che deriva dalla curiosità incondizionata, forse anche perché, riconosceva, gli anni conditi con le spezie dei ricordi più lontani possono risultare avventati ma mai sono banali nella memoria. Quante volte aveva esercitato quel suo diritto alla curiosità, alla scoperta, anche quella sera in cui avevano deciso di infrangere le barriere del recinto che pochi anni prima, gli pareva di ricordare, gli uomini di Papa Paolo avevano eretto per altri uomini. - Su coraggio David, questo è il momento buono – - Se mio padre mi scopre stavolta mi batte – - Sei il solito codardo, vieni Miriam, lasciamolo qui- - No, no, eccomi, voglio vedere anch’io cosa c’è lì fuori. Di fianco ad una legnaia, giusto a ridosso della casa della vecchia Rachele, avevano nei giorni scavato un nascondiglio, meglio, un cunicolo che, incuneandosi in mezzo ai ciocchi di legna, terminava cieco su delle assi malconce con cui i gentili avevano chiuso il vicolo. 19 Paolo Batzella In un paio di settimane di lavoro avevano rimosso una delle assi della recinzione che poi, risistemata in modo posticcio, aveva atteso come loro il momento giusto per essere liberata, ed ecco che alla fine il gran giorno era arrivato. Se li avessero scoperti, era certo, oltre alle botte dei gentili, avrebbero potuto contare anche sulla razione dei rispettivi genitori, ma la tentazione era troppo forte e nulla allora li avrebbe fermati. D'altronde era inverno inoltrato e tra il tramonto e la povera cena che li aspettava c’era ancora spazio per un poco d’avventura. Miriam era bella oltre che curiosa e si fidava di Abram più di chiunque altro al mondo: loro erano i suoi due migliori amici ma in più per Miriam lui avrebbe fatto qualsiasi cosa ed il suo cuore sembrava voler schizzare fuori dal petto ogni volta che lei gli rivolgeva una parola, anche solo per chiamarlo. -Andiamo David, lo incitava la ragazza, non creare problemi- E’ il solito ritardatario, se ci pescano sarà per colpa suainsisteva l’amico. 20 d’estate, una notte Come riusciva a pronunciarlo, pensava tra sé, sulle sue labbra il nome acquistava una musica, una dolcezza, come se avesse voluto dirgli: “sono tua David e vorrei che tu fossi mio” e assaporando per un attimo le note di quella melodia si infilò nel cunicolo. - Eccomi, eccomi, non urlate e cerca di non crearli tu i problemi, Abram, hai da ridire sempre su tutto – Poco dopo l’asse cedeva sotto una piccola pressione ed il vicolo dei Cenci si apriva davanti ai loro occhi, giù fino al gomito oltre il quale il mondo si sarebbe reso disponibile ad ogni loro desiderio, piegato al loro volere. Più volte in seguito avevano percorso lo stesso sentiero addentrandosi in quel mondo che al crepuscolo si sveglia ed abita solo la fantasia dei ragazzi: bettole stracolme di umanità ubriaca, angoli dove vecchie baldracche si offrivano per poco o vendevano altre per poco più, signori divertiti e plebe petulante pronta all’elemosina o al coltello a seconda delle circostanze o per appena un vezzo spacciato per offesa: nei chiaroscuri della sera, ogni oggetto, ogni presenza si colorava di tonalità irreali, tutto assumeva un fascino ignoto e dunque per loro ancora più intrigante. 21 Paolo Batzella Solo col tempo si sarebbero resi conto che gli abitanti che vivevano lì fuori non erano poi molto dissimili da quelli che abitavano all’interno del recinto, semplicemente i primi penzolavano tra i rami più alti degli alberi e potevano, volendo, guardare dall’alto in basso i loro vicini, ma nulla di più: animali quelli, animali questi. Quante volte ricordava di aver cercato negli anni di comprendere il motivo di quello stato di cose, di quella separazione illogica, quante volte la sua ricerca era andata delusa finché alla fine si era fatto una ragione del fatto che ragione non c’era. Certo, all’inizio era stato doloroso realizzare il dato ma poi, piano piano, la rivendicazione di questa ignoranza, il coraggio di questa semplice consapevolezza aveva preso il sopravvento sulla delusione ed aveva dilatato il suoi spazi ed il suo tempo tanto da fargli superare i limiti fisiologici della stessa vita. Chissà da quale ramo penzolava il suo ragazzo, si chiedeva rispondendosi subito che già qualcosa questo sarebbe stato: purtroppo invece aveva l’impressione che quel figliolo se ne stesse lì, in disparte, poco fuori dalla mischia della vita, 22 d’estate, una notte ad osservare le fronde mosse dal vento beandosi del fatto che i suoi piedi fossero ben piantati in terra, cosi che il vento, soffiasse o meno, nulla avrebbe potuto turbare della sua fermezza d’opinione, dei suoi convincimenti retorici pieni di vuoto. Avrebbe voluto e dovuto essere quel vento, pensò, e soffiare talmente forte da riuscire a scuotere almeno un poco la sua coscienza intorpidita, tanto rabbiosamente da scoperchiare con l’impeto dell’uragano il tetto di quella presunzione, di quella casa di pietra che, come un’anima dalle persiane chiuse, non era mai stata riscaldata dalla luce del giorno. 23 Paolo Batzella TERZO All'interno, la timida luce del lampione sospeso nel vuoto tra i palazzi, insinuandosi tra le doghe di legno color verde delle persiane accostate, tagliava l’aria come una lama, proiettando sul soffitto lunghe piste opalescenti; nel chiarore si poteva indovinare la porta della cucina aperta sul fondo dell’ingresso; appena prima, spostata di lato, dietro un paravento montato su d’un telaio color noce e decorato con motivi floreali di gusto vagamente orientale, stava una grande poltrona che, sistemata così, risultava disposta al centro dell’ambiente, dividendo gli spazi e cercando tra questi una linea di movimento che si allungava con una gigantesca scrivania e terminava con una bella libreria. Dall’angolo buio formato da questa con quella arrivava un chiarore: fece alcuni passi a memoria nella penombra fino alla poltrona, scavalcando le due ciabatte che ricordava aveva lasciato abbandonate lì quella mattina; posò allora la spesa addossando la busta ad uno dei braccioli e da questa rotolò una mela, rimbalzò sul pavimento e con un moto improbabile la circumnavigò; seguendo quella ma senza 24 d’estate, una notte curarsi di raccoglierla, virò verso la fonte di quella anomalia: cliccò sul mouse del pc che aveva dimenticato acceso. ORE 12.37 E’ ARRIVATA NUOVA POSTA, LEGGERLA ORA, domandava l’idiota. Cliccò: SMILE SESE, SE NON TI CIATTO IO ASPETTEREI IN ETERNO. APPENA SVEGLIA HO PENSATO A TE. SEI CATTIVO SESE PERO’ SICCOME TI VOGLIO BENE TI PERDONO. SE TU STAI BENE E’ BENE, IO STO BENE. IERI SONO ANDATA A TROVARE… BEH, TANTO NON TI RICORDERESTI DI LUI, IL TASTIERISTA CHE SUONAVA CON IL GRUPPO A MANCESTER, QUELLO CON LA FACCIA TONDA. E’ STATO MOLTO MALE, PARE DELLA ROBACCIA CHE HA PRESO. L’HO VISTO, STA’ MEGLIO. IL MIO PENSIERO E’ CON TE, IL MIO CUORE CON CHI TU SAI. ORA DEVO SCAPPARE. 25 Paolo Batzella UN BACIO, SMILE’. A PROPOSITO MI DIMENTICAVO DI DIRTI CHE SARO’ A ROMA DOMANI NEL POMERIGGIO, VOLO AZ321. MI VIENI A PRENDERE VERO? GRAZIE. SMILE SMILE. Paola era forse l’unica persona che potesse chiedergli di montare in macchina per andarla a recuperare con un preavviso di una manciata di ore; lei transitava negli agglomerati urbani come era passata nella sua vita molti anni prima, così, con una semplicità che sconfinava con l’indifferenza, però senza cattiveria, anzi si sarebbe potuto dire con gioia, questo era ciò che di lei gli era rimasto: una sensazione di spensieratezza genuina che non ricordava più precisamente ma di cui percepiva ancora l’odore appena l’incontrava, quello della sua risata, allegra, immediata, pulita come il suo alito. Per questo si sentiva forse un po’ debitore, a causa di questa sensazione che si ripeteva ogni volta o per quell’unica volta; chissà, poi, certo, negli anni a venire da allora, altre avevano conosciuto i suoi pensieri, altre avevano diviso le 26 d’estate, una notte sue ore ma indistintamente come Paola d'altronde, erano state tutte delle uniche volte; mai nulla della passione si era sedimentata, e stratificandosi col tempo, era diventata un punto d’appoggio come una stalagmite che cresce lentamente ma in modo costante fino a diventare visibile. Tante uniche volte per ognuna delle quali in verità viveva la sua condizione di onesto debitore, pronto alla solvenza a semplice richiesta e speranzoso unicamente che mai tutte insieme gli presentassero il conto. Forse Paola più di tutte le altre percepiva questa sua condizione e pur senza malizia, sentiva che avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa nella certezza di ottenerla. L’ultima volta che era stato costretto ad usare la macchina, fotografò mentalmente, era stato l’anno addietro ed allora non aveva avuto il tempo di perdersi in questi ragionamenti: Paola era di passaggio in città e per un qualche motivo, almeno per lui, inspiegabile, aveva deciso di venirlo a trovare o meglio, uno sciopero, ricordava ora, l’aveva bloccata all’aeroporto e nel bisogno aveva deciso che la sua compagnia era quella giusta. 27 Paolo Batzella Fu un’esperienza terribile per il suo umore cui venne richiesto in quella circostanza un adeguamento repentino alla nuova situazione, al nuovo scenario entro cui la giornata si sarebbe snocciolata in ogni suo rito, dalla scelta dell’abito più consono da indossare per l’occasione, alla selezione della trattoria più adatta a soddisfare le nuove necessità alimentari: che so, carne invece di pesce, stufati piuttosto che ricche insalate, dolci al cioccolato al posto di gelati in macedonia: far fronte all’incombenza, valutò in seguito, gli era costato un anno di vita. Era autunno gli pareva, forse la fine dell’estate, certo pioveva, come ora, ma non un temporale, piuttosto un anticipo di ciò che sarebbe stato l’inverno: pioggia grassa e rada le cui gocce a contatto col selciato rovente subito si dilatano in chiazze sproporzionate che in breve tempo danno l’impressione ma solo l’impressione che abbia piovuto, come spesso accade quando i bruschi sbalzi di temperatura accompagnano i pomeriggi al cambio di stagione. Tant’è, con un po’ di fatica la sua FIAT, una vecchia berlina 850, si era messa in moto e scrollatasi di dosso la 28 d’estate, una notte ruggine con un po’ di vibrazioni, si era lentamente, ma molto lentamente, avviata verso l’aeroporto. Era sera inoltrata per fortuna e non ci furono problemi nel seguire i cartelli di indicazione stradale; avesse fatto quella stessa strada di giorno probabilmente si sarebbe perso mille volte, annientato dal turbinio di mutamenti che negli ultimi tempi avevano sconvolto l’assetto urbano a lui noto. Gettando la testa all’indietro distolse lo sguardo dal video e chiuse gli occhi strizzandoli come per contrastarne l’effetto ipnotico; doveva decidersi a mettere un paio d’occhiali, pensò ma quel cretino del suo oculista insisteva nel raccomandargli di aspettare ed in fondo a lui questo non dispiaceva, assaporando l’idea che il mondo, visto in quell’ottica distorta come certo gli arrivava, avesse un proprio fascino, forse in qualche modo migliore di quanto sarebbe stato se scrutato per quel che era; una regola universale pensava, applicabile anche a questo tizio di cui gli parlava Paola, concluse con una punta di veleno. Con un po’ di fatica ora ne rammentava i tratti, non la persona ma i contorni sì, e per quanto potesse ricordare era un tipo poco raccomandabile, più che prendere della 29 Paolo Batzella ‘robaccia’ come diceva Lei, era più probabile che avesse respirato troppo profondamente dell’aria pulita di un alba invernale; uno malato insomma, uno che si era stancato di vivere un paio d’ore dopo essere venuto al mondo: la persona ideale per stimolare le voglie materne di una come Paola. Ci pensò su per un po’, quindi digitò la risposta: ‘HO RICEVUTO LA TUA: QUANDO IL TUO SOLE SORGE IL MIO COMINCIA A TRAMONTARE’, arricciò il naso malcelando l’incipit un pò acidulo, dunque cancellò e riprese: ‘VEDO SOLO ORA LA TUA, SALUTAMI IL MUSICISTA, SE NON ANDASSE COME MI DICI CHE VA NON CREDO SAREBBE UNA GRAN PERDITA PER IL GENERE UMANO E NEANCHE PER LUI. UN BACIO A TE ANCHE DA PARTE DI CHI TU SAI’. SEND Si massaggiò con calma la testa, così, facendo percorrere alla mano un moto circolare, lento, quasi volesse scacciare via la fatica che quella risposta acida gli era costata; accidenti a lui e a quando aveva deciso di acquistare un computer: 30 l’idea che potesse essere rintracciabile, d’estate, una notte raggiungibile in un qualche modo che non potesse controllare, lo metteva in uno stato di angoscia. Per quale motivo avesse commesso un simile errore non avrebbe mai saputo spiegarlo ma ora come riparare? Rompere la macchina con foga luddista? Eliminare il contatto con una semplice manovra sull’interruttore o più prosaicamente staccarne la spina? Concluse che le soluzioni, pur nobili tutte e nessuna esclusa, erano da scartare: solo un vile si sarebbe abbassato a tanto: come si può eliminare un evento solo perché non lo si controlla? Un comportamento degno appena di un idiota, pensava, ed in verità non sarebbe stato da lui operare una tale eutanasia; riteneva in fondo che la forma delle cose e la piega che queste prendevano nel tempo avesse una propria logica ed opporvisi sarebbe stato sbagliato in partenza. Solo, ecco, avrebbe voluto che quel torrente lo lambisse appena e solo se proprio fosse stato indispensabile, avrebbe accettato che il mondo comunicasse con lui e che dunque questo lo tenesse pure informato dei propri spostamenti, ma almeno che non gli chiedesse il recapito. “il mio cuore con chi tu sai”, rileggeva. 31 Paolo Batzella E sì che lo sapeva, fin troppo bene. Era iniziata ai tempi del liceo quel grande amore, nei primi anni, quando al testosterone entrato in circolo in quantità industriali si era sommata l’adrenalina in quantità altrettanto ingenti, dovuta al consumo forse eccessivo di ideologia: passione, idee, sogni, utopia e tutto si era mescolato allora in una miscela esplosiva. Sandro era un buon tribuno, logico nel ragionare e pragmatico nelle conclusioni, lei passionale ed appassionata nel prendere i fatti del quotidiano sempre come qualcosa di personale, da vivere comunque in prima linea anche se da migliaia di chilometri di distanza. Un amore sbocciato da un litigio, ricordava, da una feroce contesa della ragione durante un’assemblea, come solo negli anni della grande contestazione gli era capitato di osservare. In molti ci si domandò poi come fosse possibile un tale sodalizio anche perché allora, non usandosi esercitare l’arte della mediazione che pure in quella circostanza sarebbe apparsa necessaria, ci si chiedeva quale piega avrebbe preso quella trattativa: “il personale è politico ed il politico è 32 d’estate, una notte personale” si recitava con la convinzione con cui si declama un canone della fede, ed appariva ai più impossibile che la dolcezza appassionata di lei si coniugasse con il rigore asciutto di lui. Tant’è, la loro relazione era diventata col tempo una sorta di leggenda metropolitana e parimenti, come un assioma matematico, quasi una verità che non aveva bisogno di dimostrazioni per essere accettata ma casomai dalla quale potevano derivare ipotesi, dimostrazioni e teoremi, anche se residuali, come una delle eccezioni marginali che nulla tolgono all’impianto delle regole ed anzi lo rafforzano. Sì che sapeva dove trovare il “chi sai tu” di Paola: l’aveva osservato molte volte consumare il suo lavoro ma si era sempre rifiutato di riprendere un discorso interrotto anni prima per motivi che gli dava ancora dolore ricordare e dunque, come era suo costume, aveva elegantemente rimosso, celando le ragioni sotto una montagna di favole, incrostando a tal punto la realtà da non poter distinguere più la ruggine dal metallo. In verità forse, andava ripetendosi, col tempo erano solamente cresciuti e tutto era stato già detto o forse molte, 33 Paolo Batzella troppe battaglie erano state perdute e tuttavia ciò che ancora gli risultava oscuro era il motivo per cui Sandro, durante il suo soggiorno a spese dello Stato, si fosse sempre rifiutato di vederla, anche solo di scriverle. Ma era andata proprio così: come se avesse preferito sparire, e curiosamente poi nel luogo più certo del pianeta, in una stanza con delle sbarre alle finestre dove aveva trascorso un paio d’anni. Terminata quella vacanza forzata, nessuno aveva più saputo nulla di lui, tanto meno Paola, ed era proprio questo ultimo aspetto della vicenda che lui non riusciva a capire, anzi da sempre aveva vissuto quella scelta del suo vecchio compagno come un torto nei confronti di una donna meravigliosa, una donna che lui più dell’altro forse, aveva amato in modo folle, totale anche se, nel suo caso, soprattutto con pudica riservatezza, con una discrezione che rasentava l’idiozia. Per questo insieme di motivi aveva forse voluto evitare il contatto con quel suo passato, e così era stato almeno fino alla scorsa primavera. 34 d’estate, una notte QUARTO Strizzò appena gli occhi e deglutì, così, come per porre fine alla deriva di pensieri che l’avrebbero altrimenti trascinato lontano se solo avesse voluto abbandonarvisi, in posti da cui forse non sarebbe neanche più tornato; invece no, pensò, era lì, ora e quel video maledettamente acceso da giorni stava là a ricordargli i suoi impegni, così, immobile e pronto all’uso. Cliccò sulla cartella ‘lavoro’ che da settimane aveva predisposta e sistemata direttamente sullo schermo in modo da poterla aprire subito; al suo interno, nelle intenzioni, si sarebbero dovute riversare le idee, organizzandosi in racconto fino ad assumere vita propria e riuscendo in tal modo a trasmettere a loro volta sensazioni all’eventuale lettore. Non è questo dopotutto una novella, un libro? appena una somma di considerazioni che camminano spostandosi di mano in mano e, percorrendo in questo modo anche grandi distanze, scavalcando montagne e superando oceani, 35 Paolo Batzella traversando interi continenti, seminandosi nella terra lasciano qualcosa del loro passaggio. Un altro clic del mouse: dimensioni della cartella: zero byte: qualcosa sarebbe anche germogliata ma per il momento, pensò, doveva cominciare almeno a dissodare, rivoltando la terra inaridita dal tempo in modo che gli umori profondi, così smossi, potessero venire in superficie ed al contatto con l’aria e l’acqua avrebbero costituito l’ambiente ideale per coltivare un buon raccolto. Questa visione bucolica del lavoro associata alla virtualità dello strumento informatico lo rinfrancava e gli permetteva di percepire ciò che stava compiendo in modo meno impalpabile, altrimenti affidato unicamente a dei banali impulsi elettrici che avrebbero fissato in chissà quale infinitesimo di memoria artificiale la sua fatica. Rimanendo immobile, seduto di fronte a quel golem cominciò automaticamente a setacciare le tasche ed i ripostigli della giacchetta riversandone il contenuto sulla scrivania e foglio dopo foglio, le parole fissate nella fretta del momento formarono un piccolo cumulo, quasi un groviglio in effetti, ma nel quale si poteva comunque 36 d’estate, una notte distinguere tra i momenti in cui ognuno di essi era stato originato: alcuni foglietti o più d’uno apparivano ben ripiegati in quattro parti, altri presentavano una struttura più elaborata, erano stati impiegati per comporre improbabili origami, quindi spiegati, utilizzati e dunque ancora ricomposti in forma chi di barchetta, chi di cappellino, probabilmente in attesa che il pensiero si formasse, infine altri e non pochi, si presentavano appallottolati in totale spregio del contenuto di cui evidentemente l’autore non era rimasto soddisfatto. E comunque ognuno e tutti insieme erano stati conservati con cura in considerazione di un eventuale ripensamento. Alla fine dell’operazione si accasciò con le braccia penzoloni lungo i braccioli sulla vecchia parigina rimediata nella bottega del rigattiere giù all’angolo e che con la sua forma a metà tra la sedia e la poltrona risultava ottimale sia che si volesse scrivere oppure rilassarvisi leggendo. In verità era sempre stato convinto che l’amico che gestiva il negozio dove l’aveva comprata l’avesse preso per la gola indovinando probabilmente dal luccichio dei suoi occhi l’immediato rapporto che si era creato tra lui e 37 Paolo Batzella quell’oggetto appena l’aveva notato così riposto in un angolo un po’ impolverato e dimesso. La collinetta di carta ed inchiostro era ora tutta davanti ai suoi occhi e tutta da salire; con un sospiro fece in modo che le idee adagiate nel fondo di quei pensieri e dei suoi in quel momento, si scuotessero leggermente come ossigenate e potessero risalire in superficie ed al contatto dell’aria si strutturassero in parole abbandonando la primordiale condizione di molecole scomposte, di schegge di sensazioni che fino ad allora, una dopo l’altra avevano costituito appena il fondale di quel mare profondo che è l’anima di ognuno di noi. Paola sarebbe arrivata l’indomani e la sua sola presenza gli avrebbe impedito di pensare a qualsiasi altra cosa; dunque era bene che, se aveva qualcosa da rigurgitare lo facesse ora, o almeno cominciasse in modo che l’indomani, se non altro, avrebbe potuto accampare motivi di superlavoro nel tentativo di divincolarsi dalla valanga di proposte d’ogni genere che la sua amica certo avrebbe prodotto nella nobile intenzione di tirarlo fuori da quel luogo che lei giudicava essere un “mefitico torpore dell’anima”. 38 d’estate, una notte Così avrebbe sentenziato rimirando l’insieme di cui lui faceva parte e ponendo su quel ‘mefitico’ un accento di schifo che si riserva solo ad una medusa ormai cadavere in balia della risacca. Allungò una mano per pigiare l’interruttore a peretta di un vecchio paralume da tavolo che, posto proprio di fronte al suo viso, sembrava osservarlo incredulo per la capacità felina di scrutare nell’oscurità dell’ambiente, con l’altra intanto palpava la consistenza di quel monticello di cellulosa, scivolando coi polpastrelli sui singoli foglietti, come carezzandoli; quindi dolcemente cominciò a spiegarli davanti a sé, uno ad uno, in una sorta di danza; con due dita della mano destra ne pescava uno, lo faceva levitare all’altezza degli occhi, tra questi ed il video, poi con l’altra lo apriva e riponeva davanti a sé, in favore di luce in modo da poterne scorrere il contenuto, spianandone infine la forma cartacea in modo da poter ripetere la sequenza con un secondo foglio, un terzo e così via. Così tutti, anche le volgari pallottole di scarabocchi, avrebbero trovato, uno sull’altro, la propria dignità, pronti 39 Paolo Batzella per essere ripercorsi, esaminati, valutati, senza prevenzione alcuna. ‘Un impiegato è solo alla fermata dell’autobus, controlla l’orologio, legge scorrendo a salti il contenuto, aspetta qualcuno o è in ritardo, borsa leggera, vuota e perfetta come se l’avesse appena acquistata’. E ancora un altro ‘S.Apollonia: mura spesse e forti, pezzame di tufo e pietre’ ed un altro: ‘due vecchie comari in un vicolo parlano tra loro; si fermano con una terza seduta fuori da un portone intenta a preparare dei mazzetti di puntarelle; scambiano poche battute e riprendono a camminare dondolando’ e di seguito ‘bel batacchio a forma di scimmia, col muso sembra schernirti, digrigna i denti, forma un anello con le braccia mentre con i piedi punta su una sfera d’ottone’. Andò avanti così per un po’, riaprendo anche gli appallottolati più insulsi; su uno era scritto ‘la macedonia era squisita, il cameriere gentile’; quando tutto fu compiuto rimase per un poco a rimirare quella risma informe, con le braccia distese, adagiate parallele sulla scrivania. 40 d’estate, una notte “Ti ci vorrebbe una compagna per rimettere ordine in questo gran casino” le sentirà dire e lui si sentirà un po’ offeso pensando che Paola alluda ai suoi pensieri spiegazzati in forma d’appunto o allo stile della sua stessa vita, aggrovigliata da sempre in un turbinio di sensazioni contrastanti da cui, come unico scampo, si era tirato fuori richiudendosi in una linearità di gesti, in una sequenza di momenti quotidiani affatto misurabili, prevedibili e previsti, in una parola, rassicuranti. Ma questo sarà domani, ora, mimandone in smorfia il chiacchericcio di femmina petulante, sentì le dita muoversi ritmicamente in modo impercettibile sulla tastiera, quasi balbettando. Spazio, ancora uno Sono giorni No, cancellare, tornare indietro, ripartire, ecco: Erano giorni che l’aspettava, ogni sera puntuale come un orologio la telefonata di Lei arrivava a rimandare l’incontro ed ogni mattina i preparativi ricominciavano daccapo: i ritocchi nella pulizia del piccolo appartamento, la passeggiata al mercato alla ricerca di frutta fresca e 41 Paolo Batzella verdura, il riesame del menu che avrebbe preparato per il suo arrivo in segno di benvenuto. Ogni volta il percorso fino all’aeroporto si concludeva con un rientro sconsolato e a lui non rimaneva altro da fare che disporsi mogio mogio in attesa dell’ennesima telefonata di rinvio ed allora, come le sere precedenti, non avrebbe avuto altro da fare se non rileggere le stesse pagine di quel libro fatto a pezzi e ricomposto mille volte tra le sue mani in quell’ultima settimana. Ma che diavolo stava venendo fuori da quella circostanza, pensò per un attimo, dove voleva andare e cosa voleva dire quella sequenza di fatti, poi si rassegnò all’idea di lasciare che i pensieri fluissero liberi e senza mediazione alcuna. Giorni prima aveva tentato di accennarle qualcosa in una mail ma non riuscendo a descrivere l’inverosimile, aveva rinunciato ed infine preferito tenersi sul vago immaginando che lei avrebbe potuto prendere il suo possibile racconto come una presa in giro e sapendo che, in questo caso, non avrebbe neppure potuto biasimarla. Così aveva ripiegato su una non meglio precisata necessità che aveva di incontrarla per comunicarle delle grosse 42 d’estate, una notte novità in merito alla causa di divorzio che li vedeva protagonisti. In realtà era accaduto ben altro. Giorni prima, come ogni mattina alla solita ora, aveva aspettato l’autobus che l’avrebbe portato in ufficio: era un uomo metodico, chiunque lo avrebbe capito al primo sguardo, così piantato accanto al segnale di fermata, il solito quotidiano tra le mani con le dita a scorrere rapide i titoli; come ogni mattina una prima visione delle immagini unitamente alla lettura dell’oroscopo avrebbe colmato la distanza fino all’ufficio ma quel giorno evidentemente doveva essere un giorno speciale o più semplicemente un giorno di cui tutto era già stato scritto. Tant’è, l’attenzione per una nota storica in terza pagina l’aveva rapito più del dovuto e la sua fermata era sfilata via per la prima volta nella sua vita lavorativa senza che lui se ne accorgesse e solo tre fermate dopo era sceso, ritrovandosi costretto a raggiungere l’ufficio a piedi, infilandosi per strade che non aveva mai percorso. Nulla di strano in questo, ma per uno come lui, da sempre abituato a consumare il caffè al solito bar, mangiare alla 43 Paolo Batzella stessa rosticceria all’angolo la solita porzione di verdure lesse: nulla pareva esistere nella sua fantasia oltre quel ristretto perimetro sufficiente a soddisfare le sue esigenze quotidiane. Il fatto è che, mentre cercava di orientarsi tra i vicoli che aveva deciso di affrontare nel tentativo di guadagnare tempo, ne aveva infilato uno più stretto degli altri e lì si era imbattuto in un foglio di carta. Sarebbe stato ridicolo notare la cosa, se a quel foglio non ne fosse seguito un secondo ed un terzo ed ancora ed ancora, in una sequenza sempre più fitta sino a diventare preoccupante. Il passo inizialmente affrettato si era rapidamente mutato in un passeggio e la sguardo s’era era spostato piano dal gomito che delimitava la stradina alle sue scarpe; all’inizio, quasi per un riflesso condizionato aveva saltato le prime pagine, poi questo esercizio era diventato impossibile e solo a quel punto si era fermato come se si fosse sentito prigioniero, senza più selciato libero traverso cui saltare: un piede qui e l’altro là, in cerca di un 44 d’estate, una notte appoggio, fermo ora in una posizione tra il comico ed il grottesco. E solo a quel punto, come se fosse riuscito a fissare la sua immagine in un fotogramma, cominciò a rendersi conto di quanto stava accadendo; solo allora, voltandosi indietro, vide d’un tratto che si trovava come al centro di una distesa di carta. Fogli a decine erano disseminati lungo l’intero vicolo, all’inizio del quale apparivano più radi per poi raggrupparsi più fitti, via via che si procedeva avanti verso il centro, a volte raccolti in quinterni, altre in piccoli mucchi scomposti, come se una qualche furia distruttrice si fosse gradualmente svegliata ed accanita con sempre maggior furore su quello che doveva essere un intero volume. Poco distante da dove si trovava gli sembrava persino di indovinare ora la sagoma di una copertina, di colore verde gli sembrò, e di quella plastica a buccia d’arancia che avrebbe dovuto ricordare una rilegatura in pelle; ora, a parte quella presenza leggera di pagine scritte intorno a lui era deserto. 45 Paolo Batzella Curioso, pensò tra se, che a quell’ora neanche un cane incrociasse per quella stessa strada, a meno che, ed il pensiero gli fece correre un brivido lungo la schiena, a meno che quel libro non stesse aspettando un nuovo proprietario. Si guardò intorno ancora una volta e prima che la paura che nel frattempo cominciava ad avvertire cominciasse ad attanagliarlo del tutto salendo per la bocca dello stomaco su per l’esofago sino alla gola, posò la cartella in un angolo e cominciò a fare quello che non si sarebbe mai aspettato: raccogliere i fogli da terra. Avesse potuto osservarsi non avrebbe mai creduto ai suoi stessi occhi: il metodico impiegato che vedeva correre su e giù lungo il vicolo era proprio lui ed alla fine, non ci volle molto, poté osservare con un sorriso un po’ ebete stampato sul viso il selciato ormai vuoto. Come un bambino che abbia compiuto un’impresa proibitagli, si guardava ora intorno, ora tra le mani, incredulo: la sua fatica aveva ricomposto per intero un libro, copertina compresa. CLIC SU FILE. SALVA CON NOME. PROLOGO. 46 d’estate, una notte QUINTO Lasciò il computer a ronzare sulla propria stupidità, guadagnò la cucina e lì, associando l’odore un po’ aspro che i piatti non lavati cominciavano ad emanare e la finestra dimenticata chiusa, decise che tra le due incombenze: liberare il lavandino ormai ingombro anche dell’ultimo bicchiere e far entrare un po’ d’aria pulita, la seconda era di gran lunga la più appetibile. Aprì e la notte invase l’ambiente, i suoi oggetti ed i suoi pensieri e Dio solo sa quali avessero più bisogno di essere arieggiati, un passo ancora ed era fuori sul piccolo balcone, le braccia puntate sul parapetto, la schiena tesa a distendere i muscoli intorpiditi; fuori ad aspirare con la bocca aperta quell’aria liquida d’umidità, appiccicosa come il suo umore non definito, così sospeso tra la necessità di onorare l’impegno preso e la voglia di mandare tutto e tutti a quel paese: Peruzzi e Paola, Sandro e l’amico del piano di sotto e tutta intera la sua vita. E’ che vorrei qualcuno con cui parlare in questa notte senza luna, pensava tra sé, immaginare le innumerevoli stelle che 47 Paolo Batzella abitano il cielo, perdersi nel loro chiarore che darebbe almeno un senso alla notte che invece pare ora non arrivare mai, così diluita nella pallida oscurità urbana. Non arriverà mai dunque, mi chiedo, mi lascerà qui ad aspettare e che cosa poi? così affacciato da questo terrazzino su strade e tra case non mie. Medito tra me sul fatto che molti, in questa maledetta notte di mezza estate, si troveranno forse ora col naso in su ricordando quel poco che c'è da ricordare di questo giorno appena trascorso; quel molto nel mio caso, tale perlomeno mi pare, tanto dense di cose e di fatti mi appaiono le giornate navigate dolcemente in questo mare senza fine, perché l'immagine che da di sé il quartiere dove abito, nel cuore di questa Roma antica, in questa estate torrida è propriamente questa: quella d'un oceano sconfinato e senza approdi ed io mi sento e sono straniero nelle sue acque. Mi torna alla mente ciò che un buon amico, con aria bonaria, mi rammentava tempo fa del fatto che io, per quanto faccia, non sarò mai un trasteverino, poiché, infatti, non sono nato qui e che da questo deriva il mio disagio: ‘è che ti manca il retroterra culturale, diceva, quello che si 48 d’estate, una notte apprende, senza neppure capirlo, dalle prime parole che tua madre ti sussurra per consolarti o da quelle che dopo ti inseguiranno come un rimprovero bonario per una marachella fatta, per aver tardato il rientro per la cena, rapito com’eri appresso al primo amore o alla prima occasione di fuggire un poco più lontano del consentito alla scoperta di un mondo ignoto, dietro l’angolo del vicolo’. Guardo lì sotto le geometrie che la piazza costruisce con le piccole vie adiacenti che si perdono nel cuore del rione vecchio, dove, oltre le palazzine, si intuisce il fresco del fiume che scorre vicino, e penso che aveva ragione lui. L'ho sempre saputo in fondo: sono un immigrato per scelta: come me molti altri ed in molti possediamo abitazioni che pochi potrebbero permettersi ma, in questo piccolo mondo che ci ospita, tale è ancora il rione vecchio, al massimo riusciamo ad essere un fortunato innesto, mai la pianta, mai le sue radici. Come dei nomadi, in fondo nessun luogo ci appartiene e sono solo i racconti di altri che ci hanno spinto fin qui; così Trastevere è per noi un insieme un po’ bislacco d’osterie 49 Paolo Batzella chiassose, saltarelli e vecchiette col viso da furbette, sedute fuori dai portoni a cicalare. Anche adesso, mentre mi osservo, vedo il mio collo allungarsi istintivamente nella speranza di veder sortir fuori una botticella da dietro l'angolo della via che delimita il mio orizzonte, si fermerà ecco, ed il vetturino ne farà scendere una dama con un gesto della mano; lei non lo guarderà neppure e lui distoglierà la sguardo come discrezione vuole in certe circostanze, pensando magari che il suo lavoro sarà stato utile a favorire un appuntamento galante. Ma niente, considero, è triste che nulla della mia fantasia possa prender corpo, la strada sotto il balcone è desolatamente vuota; siamo alla fine del Novecento e mi rassegno: non mi rimane altro da fare che andare a buttare l'immondizia. Però che bello, insisto, pensando che, se almeno per questa sera avessero riaperto le locande che si affacciavano sul grande fiume, quello della Sciacquetta ad esempio, buon cibo e donne disponibili; la avrei potuto trovare certo qualcuno con cui parlare, anche se a pagamento; oppure avrei potuto addolcire le ore con un paio di boccali di vino 50 d’estate, una notte cannellino, giù all'osteria di Ciucciarello; quella che la gente bene di la del Tevere frequentava, nel desiderio di farsi un'idea sulle usanze del popolino ascoltando i poeti a braccio e battendo i bicchieri sul tavolo al ritmo del saltarello. La dolcezza di quei giorni targati '800 mi rapisce e mi ripeto che sarebbe bello se potessi dominare il tempo e non solo gli spazi, se potessi vivere e non solo sognare, allora, che so, potrei per esempio riascoltare anche solo una volta la mia vita come si fa con un disco, i momenti belli intendo, quelli che fanno di una giornata un giorno da ricordare. Ragionamenti senza senso, da lettino freudiano, considerava mentre un brivido lo riportava al presente, al suo abbigliamento balneare ed alla cucina che pareva osservarlo con rassegnata pazienza; sul fondo del salone, in precario equilibrio sul bracciolo della poltrona occhieggiava nella penombra, da dietro un fondo d’insalata, il libro che l’aveva accompagnato in quella giornata piena di scoperte. Si fissarono da quella distanza per una manciata di secondi, quelli necessari a spostare quella realtà tangibile fatta di carta nel contesto della sua storia fatta unicamente 51 Paolo Batzella d’impalpabili spunti, quindi riattraversò la stanza prelevandolo al volo dalla busta della spesa e lo depositò in bella vista proprio davanti alla tastiera del computer, sopra i suoi fogli. CLIC SU FILE, APRI, PROLOGO …la sua fatica aveva ricomposto per intero un libro, copertina compresa. Lesse: Stradario Romano, Benedetto Blasi, Roma 1923. In alto a sinistra sopravviveva parte di un nome scritto in bella grafia che tondeggiando procedeva dall’angolo della pagina ormai perduto verso il centro: “pia”; la “p” iniziale era a dir il vero appena intuibile ma il numero che seguiva era ben chiaro: 123. “Pia 123”, masticò tra sé mentre dal fondo del vicolo un paio di vecchiette ciondolavano seguendo l’andatura dei rispettivi carrelli della spesa che, ancora vuoti, ondeggiavano dietro di loro come delle code innaturali. L’aria si era come d’un tratto rianimata, come se il ritmo delle cose avesse ripreso a girare superando l’intontimento provocato da un qualche maligno orologiaio che avesse 52 d’estate, una notte ostacolato così per gioco il corso delle ore puntando il suo dito sul quadrante delle lancette. Raccolse la cartella, vi infilò dentro il volume sconnesso e riprese la strada per l’ufficio; poco dopo, mentre faceva scorrere il tesserino magnetico guardando l’orologio, avrebbe scoperto che quel contrattempo non gli era costato più d’un minuto di ritardo. In principio non aveva badato molto a questo particolare e solo più tardi vi era tornato su man mano che un fastidioso sospetto iniziava ad incunearsi nei suoi pensieri, ed ora chi mai avrebbe creduto vera una simile circostanza e soprattutto quando mai Lei avrebbe accettato la possibilità che questo era capitato proprio a lui. Senza dire, poi, dei fatti che seguirono e che a sua insaputa lo stavano trascinando in una dimensione priva di contorni ed al tempo stesso gravida di conseguenze. No, decisamente non poteva fare altro se non sperare che Lei arrivasse e che guardandolo negli occhi potesse capire che, per quanto incredibile, quella serie di vicende erano reali, vero era il libro, vero era lui, vera la sua angoscia; sì, forse avrebbe capito, forse avrebbe trovato Lei la 53 Paolo Batzella soluzione, dipanando quella matassa oppiacea entro la quale si sentiva sempre di più avvolgere. Anche quella sera, come nelle ultime tre avrebbe provato a chiamarla, a convincerla che era importante che lo raggiungesse quanto prima; anche stasera alla fine avrebbe concluso per riprendere il libro tra le mani scorrendone i segni minuti con le dita come per tracciare un percorso, cercando di intuire il messaggio che questo sembrava volergli trasmettere. Anche quella sera l’ansia del leggere si sarebbe mischiata con il timore di capire ed insieme con la curiosità che inaspettata lo coglieva rapendolo alle sue cose di ogni giorno, agli oggetti ed ai pensieri, trasformandolo in qualcuno che non era più lui, in un altro ben più ardito nella ricerca, meno codardo nella scoperta, temerario quasi di fronte alla verità che a sprazzi gli appariva tra le righe, disegnandosi in tutta la sua imponenza, in tutta la sua incredibile forza. Anche quella sera dunque, come un tossico in crisi di astinenza, si sarebbe assoggettato a quell’esperienza 54 d’estate, una notte sapendo che ciò non era bene, eppure non potendo più privarsene. CLIC SU FILE-SALVA 55 Paolo Batzella SESTO Quali curiose assonanze con la realtà di oggi, pensò ragionando sul sottile confine che separa la vita dal romanzo, la realtà dalla rappresentazione, come se di volta in volta ci capiti di non sapere più se siamo attori o spettatori della nostra stessa vita. Si massaggiò il viso spianando il sorriso che quella considerazione aveva suscitato. - Sto ridendo tra me di me - interloquì sottovoce come rivolgendosi ad un immaginario qualcuno. - Già, perché solo questa mattina, svegliandomi, rimuginavo che in fondo la fine di ogni giorno è nota ed infine tutto è già stato e basta solo aspettare che i fatti appaiano evidenti ai nostri occhi per sostenere che siano accaduti – e dicendo agitava lentamente la mano nell’aria tracciando percorsi retorici; poi si distese sulla sua parigina poggiando indietro il capo, socchiudendo gli occhi, facendo scorrere i pensieri. Solo stamane ragionavo così, compiacendomi dell'improvviso rigurgito shakesperiano, mentre seguivo i 56 d’estate, una notte disegni che la passione aveva tracciato con le pieghe delle lenzuola nella notte e mi arrivava l'odore del sudore che era stato consumato; di là dei vetri la giornata era uggiosa, di qua ombrosa come il mio umore; a fianco a me più nessuno: lei se n'era andata e, non fosse stato per quelle lenzuola, avrei creduto d'aver sognato. Il fatto è che mi ero svegliato male, alzato peggio e la prima sigaretta mi stava scartavetrando la gola. Come in un disegno di Escher le prospettive mi apparivano impossibili, gli oggetti stessi all’interno del mio campo visivo sembravano come deformati, non ognuno di per sé ma l’insieme, come se guardassi quel mio piccolo mondo attraverso una lente. Accasciato sulla poltrona troppo grande per una persona e troppo piccola per accoglierne due, sentivo il fumo del tabacco percorrermi gli alveoli uno ad uno e tornare indietro pulito, pronto per essere espirato dopo aver deposto un’altra briciola di catrame chissà in quale angolo: siamo dei contenitori di spazzatura, constatai, dei cassonetti che camminano. 57 Paolo Batzella La vita ci deposita dentro un po’ di tutto, avanzi, ricordi, quasi sempre i meno belli, il dolore; è come se ciò che di bene ci capita venisse viceversa consumato, bruciato e trasformato per intero in energia pura e come tale raramente lasciasse traccia del suo passaggio. Quanti rimpianti invece, e momenti non felici nella nostra memoria: giacciono lì, accastellati in file ordinate, pronti per essere evocati, persino rivissuti talvolta con una pervicacia, una perfidia verso noi stessi che meraviglia per la sua tenacia. Misuravo così la sconclusionatezza di quei due letti singoli che avevo accostato alla meglio l’uno all’altro, nell’intenzione di rendere l’arena più invitante al cimento amoroso e questo appena poche ore prima, una manciata di tempo e che adesso erano posti di sghimbescio, non separati ma neppure più uniti, con un triangolo nel mezzo mentre di lato, nel vuoto lasciato dal comodino, erano resuscitati due calzini appallottolati che, almeno a giudicare dalla lanugine di polvere che li avvolgeva, dovevano essere lì già da molto tempo. 58 d’estate, una notte Sul fondo, riflessa nello specchio, la mia immagine denunciava chiaramente che un altro momento sarebbe stato archiviato, in bell’ordine, in cima alla pila e il fumo dell'ennesima sigaretta che saliva tra me e quell’immagine riflessa diceva altrettanto chiaramente che pur nella nebbia avrei voluto rivivere, percorrere ancora quelle ultime ore e di nuovo archiviare ed ancora, nonostante il dolore, la pena che ora mi dava vedermi così, lì, seduto in mutande con parte dei capelli ritti in una vertigine senza senso certo causata dalla postura del sonno. Per il resto non un indizio, anche un solo nonnulla che potesse documentare della passione all’infuori di quei maledetti disegni sul lenzuolo ed un posacenere ricolmo in bilico tra i miei piedi e l’orlo del comodino dove li avevo poggiati. Istintivamente mi inarcai sulla schiena, sporgendomi in avanti cercando di contare il numero dei mozziconi, mi pareva di ricordare che avesse fumato anche lei, anzi ne ero quasi certo: uno, due, tre, molti, ma no, erano tutti miei, inconfondibilmente separati ognuno dal proprio filtro per un’abitudine antica, di cui non meritava ricordare il motivo. 59 Paolo Batzella Rimuginavo su quel piccolo mistero ma convenni che qualsiasi sforzo avessi fatto, nulla si sarebbe spostato nella realtà delle cose: certo i letti non sarebbero tornati al loro posto, né il posacenere si sarebbe svuotato, né i disegni avrebbero preso la forma di quel corpo minuto che mi pareva ormai stampato in modo indelebile nella mia retina, fotografato mille e mille volte quella notte, percorso in tutta la sua estensione, scoperto in ogni piega, conosciuto, avuto, perduto. - Perduto – sussurrai tra i denti mentre le campane annunciavano la funzione del mattino; avrebbe potuto essere il vespro a giudicare dalla luce un po’ livida che filtrava dalle tapparelle. Un odore di aria umida mi penetrava le narici: forse pioveva, forse avrebbe piovuto o già era stato... 60 d’estate, una notte SETTIMO Si, forse tutto si stava ripetendo, pensavo, oppure più semplicemente, mi sarebbe piaciuto che così fosse. La mattina precedente lo stesso odore d’umido nell’aria mi aveva convinto ad uscire dalla mia tana. Avevo trascorso la notte fissando lo schermo immobile del computer nel vano tentativo di mettere a tacere la mia coscienza per l’impegno preso con quel poveraccio di Peruzzi; per la centesima volta mi aveva cercato ed ahimè alla fine trovato mentre ero alle prese con un paio d’uova affogate in un po’ di pomodoro e basilico. A quel punto, preoccupato soprattutto per le uova che, se consumate fredde, fanno notoriamente schifo, l’avevo liquidato inventandomi che il lavoro procedeva a gonfie vele ed anzi ero giusto in quel momento alle prese con la chiusura della prima novella. Finita la telefonata e le uova le idee avevano girato e girato nella mia testa senza riuscire a fissarsi su quello schermo che anzi, agendo come un ipnotico, aveva finito per trascinarmi in luoghi fantastici, in una condizione più simile 61 Paolo Batzella al sonno cosciente che alla veglia ed il mattino mi aveva colto così, alla sprovvista, impreparato a metabolizzare l’inutilità del riposo che avevo perduto. Di fianco al monitor una pila disordinata di libri incombeva sulla scrivania già di per sé ingombra di fogli e quant’altro; sulla cima di questa troneggiava una tazza che giorni prima doveva aver contenuto un liquido dolcificato fino alla saturazione: forse una tisana, sul bordo erano evidenti le tracce dello zucchero non sciolto e da lì una linea bruna percorreva la ceramica sino alla base e lì, allargandosi in un cerchio poco più esteso della sua circonferenza, si era stampata sulla copertina del volume su cui era poggiata. Al suo interno nei giorni si erano accumulate un paio di penne ed una matita spuntata allegramente assortite con un pacchetto di sigarette ormai vuoto e violentato nel suo volume nonché un mezzo sigaro toscano quasi per intero divenuto cenere a denunciare che lì era stata decretata la sua fine ma non il suo consumo. Cercando con una mano di non far crollare quella impalcatura, con l’altra avevo sfilato il terzo libro dal basso da cui, circa alla metà, faceva capolino una striscietta 62 d’estate, una notte ricavata da un quotidiano a mo’ di segnalibro: era lo Stradario Romano di Benedetto Blasi, l’edizione del ‘ventitre’ s’intende, scovata con un po’ di fortuna in un negozietto di libri usati in via del Pellegrino: alcune pagine mancavano all’appello e della copertina sopravviveva solo il retro, tuttavia il corpo centrale era ancora consultabile e mai a conti fatti avrei acquistato l’ultima edizione. Coltivavo l’idea che i luoghi che erano spariti dalle pagine, consumati dall’usura del tempo e dall’ignoranza dei molti proprietari, fossero scomparsi anche dalla realtà toponomastica, come se una strada che non sopravvivesse alla propria citazione non meritasse altra fine che d’essere dimenticata. Avevo aperto dove il segnalibro indicava e la striscia di giornale scivolò lieve per terra, liberata dalla sua costrizione e liberando il punto che era stato fissato per averne memoria e diventare forse uno spunto utile, una traccia da seguire. Gelsi, Gelsomino, Genovesi, Gensola, ecco: Piazza della Gensola, una svirgolettata di matita ne indicava l’importanza. 63 Paolo Batzella Il giuggiolo… vie adiacenti…, scorrevo con cura le righe ingiallite: Chiesa di S. Egidio dei Sellai…Locanda della Sciacquetta o sgualdrina…, Casa Mattei: nel 1555 questa casa fu teatro di una spaventosa tragedia familiare. Ecco, questo doveva aver attirato la mia attenzione: “Marcantonio Mattei fu assassinato per ordine di suo fratello Pietro ed il sicario fu trucidato per mano dell’altro fratello Alessandro. Dopo questo fatto, conclusa la pace a consolidarla fu stabilito che il fratricida Pietro avrebbe sposata la nipote Olimpia, figlia del fratello più povero Curzio. Alessandro invano si oppose a questo matrimonio e la sera delle nozze, insieme a tutto il parentado, v’intervenne anche Alessandro con suo figlio Gerolamo e due sconosciuti. L’allegria era al colmo quando ad un tratto un colpo d’archibugio uccise lo sposo Pietro. Le donne spaventate non seppero far di meglio che spegnere i lumi; ne nacque una confusione indescrivibile ed Olimpia rimase ferita mentre Curzio, fratello e suocero dell’estinto, cercando nell’oscurità il fratricida prese invece 64 d’estate, una notte il figlio Gerolamo e l’avrebbe ucciso se uno degli sgherri di Alessandro non avesse pugnalato lui stesso. Alessandro stava sul ponte Cestio trepidando per la vita del figlio quando lo vide giungere accompagnato dallo sgherro; e così quando seppe del fratello ucciso, montò in tale furore che immerse il pugnale nel petto dell’assassino e semivivo lo gettò nel Tevere. Fuggì e finì i suoi giorni bandito da Roma.” Ricapitolando: una notte insonne e quattro morti a colazione; niente di meglio per cominciare una giornata, mi dicevo, dando fondo agli ultimi grammi di sarcasmo nel tentativo di esorcizzare un cattivo risultato; perché, questa era una certezza, prima che il sole fosse tramontato il buon Peruzzi avrebbe richiamato ed io non avrei avuto da raccontargli altro se non che le uova della sera prima si erano freddate. Non avrebbe capito ma si sarebbe incazzato comunque, dunque per quanto sottile fosse quel filo non potevo far altro che attaccarmici e farlo diventare in breve tempo una fune abbastanza robusta da sorreggere il mio contratto di lavoro. 65 Paolo Batzella Girando il mondo per quel verso, m'ero infilato la mia giacchetta di cotone impermeabile, quella con i risvoltini anni cinquanta un po’ lisi ed i bottoni di pelle penzoloni, reperita dopo estenuanti ricerche in un banco dell'usato ed ero uscito nella pioggerellina tra la fretta della gente che correva rincorrendo gli impegni di sempre. Avevo costeggiato i banchi di lamiera del mercato che ormai ricopre ciò che un tempo era una piazza dove si consumava il rito pomeridiano del gioco del calcio tra monelli, scavalcando un bambino intento a raccattare il pallone nuovo nuovo appena finito dentro un’immacolata pozzanghera ed attento nel contempo ad evitare il manrovescio della madre spazientita; quindi, evitato il carrello di una massaia, convenivo che i pericoli non vengono tanto dal vicino di marciapiede in quanto tale ma piuttosto dal ritmo con cui questo procede: rischioso è il fatto che tu cammini mentre gli altri corrono, pericolosa è questa differenza di marcia, questa non sintonia col senso comune delle cose; saperlo certo non risolveva il problema, tuttavia, mentre svoltavo l’angolo, mi aiutava nel farmi una 66 d’estate, una notte ragione del piede che un azzimato professionista mi aveva appena pestato, cercando urlante di bloccare al volo un taxi. Così, sempre procurando di non venir travolto, seguivo i miei sentieri, quelli che mi avrebbero portato al rifugio e, valicato felicemente il grande spartiacque del viale che taglia in due il quartiere come una mela, approdavo in quell'enclave priva di jeanserie che si stende da lì sino al fiume. Già dopo i primi passi in quella nuova terra l'ansia che mi attanagliava aveva, come al solito, cominciato ad acquietarsi, sino a sparire mano a mano che anche il frastuono del traffico calava sino a diventare un sussurro, quasi un sottofondo ovattato, confinandomi in un mondo diverso, fatto di rumore di suole sul selciato e persino, a tratti, di stridio di rondini in volo. Seguivo poi da lì la sequenza delle piccole osterie e botteghe d'uso quotidiano che, snocciolate alla rinfusa lungo le vie strette, mi accompagnavano maliziosamente fino al sagrato della chiesa di Santa Cecilia, luogo tra i luoghi, da me elevato ad eremo personale. 67 Paolo Batzella Le rapide nuvole che lo scirocco porta si erano dissolte, come evaporate; una volta spremute delle poche gocce d’acqua che potevano produrre. Aveva smesso di piovere, ed io entravo accomodandomi ai bordi della fontana, proprio al centro del cortile dove riuscivo a dedicarmi finalmente alla più amena delle letture, chiudere il mondo fuori dalla porta e gettarne via la chiave. A quel punto potevo farmi avvolgere da quell'affresco pieno di colore: ogni centimetro dello spazio che mi circondava era adornato di fiori d'oleandro, di gelsomino e di rosa mentre, appena alla mia sinistra, una grande buganvillea pareva rincorrere la sommità del campanile romanico che sparato contro il cielo spezzava in due il mio orizzonte, dunque cavai fuori lo Stradario dalla tasca interna della giacchetta, ne carezzai la copertina come per spianarne le pieghe e cominciai a sfogliare alla ricerca del punto che mi interessava. A dir il vero pensavo, nelle more del fine pagina, quando il dito, piegando il foglio successivo, così, senza fretta, dà modo al cervello di rimanere in sospeso per un attimo solo, in attesa della fine della frase e lo sguardo ha il tempo per 68 d’estate, una notte vagare per un attimo appena ma sufficiente a percepire ciò che intorno a noi si muove ed oltre, pensavo a quel connubio un po’ sacrilego tra la mia lettura ed il luogo che mi ospitava e, mentre l'occhio scorreva storie d’amore e di morte, l'orecchio ascoltava il ciabattare dei sandali intorno. Era forse, mi dicevo, un qualche frate fondatore della chiesa, sperso lì da quattrocento anni in cerca di un’uscita dal suo incubo, oppure un semplice turista giapponese, anche lui perso dal branco; ma preferivo non sincerarmene tenendo basso lo sguardo sui fogli ed assaporando il dubbio che finché restava tale, consideravo infine, aveva almeno una possibilità d'essere fondato. In quel limbo di certezze, mi auguravo, avrei persino potuto ascoltare la versione dei fatti di cui leggevo dalla viva voce di un testimone oculare. Chissà, forse il frate in questione era stato anche l’ultimo depositario delle confessioni di Olimpia, forse l’unico a conoscere il reale svolgimento dell’accaduto: chi le vittime, chi i carnefici, quale la dinamica vera degli eventi, per cui magari il malvagio avrebbe per una volta pagato per una colpa non sua e l’innocente vittima sacrificale si sarebbe 69 Paolo Batzella rivelata essere l’artefice della disgrazia, disgraziata artefice, vittima plagiata ma pur sempre colpevole inconfessata ed inconfessabile, strumento di una vendetta divina, di un meccanismo superiore di compensazione delle cose che, come in natura porta la materia a trovare un equilibrio, così nei comportamenti umani porta ad un equa redistribuzione di colpe e di glorie. Chissà, forse di tutto ciò era depositario il possessore di quei sandali e di tutto questo mi avrebbe messo a parte se solo avessi potuto abbandonarmi a quello stato di sospensione, trascorrere lì un po’ del mio tempo e raccogliere informazioni preziose ed in questo modo, chissà, quasi da sé il mio lavoro si sarebbe compiuto senza sforzo, prima ancora d’essere pensato: la semplice verità mi si sarebbe manifestata, inoppugnabile, luminosa ed a me non sarebbe rimasto altro da fare che svolgere onestamente il ruolo del cronista, registrare l’accaduto, annotare le voci, evidenziare le opinioni; nulla di mio sarebbe stato investito nell’impresa della cronaca, che tale non sarebbe più stata e forse l’intera storia sarebbe stata persino pubblicata e letta e piaciuta. 70 d’estate, una notte L’aria umida di odori che evaporava adesso sotto il sole rovente mi penetrava i polmoni e di lì risaliva sino al cervello procurandomi una piacevole sensazione di stordimento, di illusione che le mie speranze avrebbero potuto tra un attimo concretizzarsi. Ma ecco che, tra il cicalare dei turisti che ancora mi arrivava dal mondo reale come fastidiosa presenza, in mezzo a quel vociare una voce più definita delle altre si era fatta più insistente. Non potevo ignorarla, era vicina, troppo: era una voce di donna, del tutto ignara evidentemente dello stato di grazia in cui mi trovavo e proprio a me si rivolgeva chiedendomi qualcosa in una lingua ignota. A pensarci bene ora, prima ancora dell’immagine mi era arrivato il suo odore, dolce, di ragazza: piccina, vedevo poi, con il corpo sagomato, minuta ma non fragile, la cartella dei fogli da disegno in una mano, un carboncino che si muoveva danzando tra le dita dell’altra e, senza rendermene conto, mi trovavo strappato all’amore e alla morte, intento a cercare nel cervello le parole semplici, le figure, i gesti capaci di trasmettere concetti. 71 Paolo Batzella Da quel momento la giornata aveva invertito il suo corso e come l’acqua di un fiume che risalga verso la sorgente ogni immagine, per quanto incredibile, aveva assunto un criterio di possibilità; certo, nulla di più di un incontro casuale, nulla di meno di un’informazione richiesta e dovuta e tuttavia, nel dubbio se continuare la conversazione o tacere facendola cadere, avevo azzardato l’offerta di accompagnarla ed il suo sorriso d’assenso mi aveva rapito. Da lì in poi, tra le sue mani, l’arancio nascosto in un cortile si era colorato dei toni maturi dell’inverno mentre nell’atmosfera plumbea un vecchio accasciato sulla panca posta di fianco seguiva il gioco di un bambino con le biglie di vetro colorato: un gioco d’estate dentro una cornice di freddo. In un'altra occasione la facciata di una chiesa incastonata tra due palazzi pareva rilucere dall’interno come nel pieno di una funzione domenicale, se ne percepiva il calore che la presenza umana produce ed il contrasto si faceva, se possibile, più forte se paragonato alle righe nette che disegnavano la pioggia battente sulle pietre del sagrato. 72 d’estate, una notte La mia pittrice non parlava la mia lingua ma riusciva egualmente a trasmettere i suoi stati d’animo, come quei viaggiatori romantici che frequentavano la penisola arrivando a Roma per trovare conforto ai loro tumulti dell’anima, così lei aveva fatto delle sue vacanze romane un viaggio nei ricordi di un passato perduto. Tra le vestigia secolari appariva però sempre un tratto di quotidianità minuta, come in quelle antiche stampe, così nei suoi disegni lei poneva in evidenza ora qui ora lì un viso, un espressione o solo un gesto, ma in modo tale, quasi posto in un proscenio, tanto da risultare che ciò che lo schizzo figurava era percepito dal personaggio stesso piuttosto che dall’autore e l’insieme rappresentato in questo modo appariva, come dire, più credibile, quasi diventato vivo avendo acquistato una logica sua, compiuta. Io la guardavo rapito e rapidamente mi ritrovavo ad ammirare una situazione con gli occhi di un altro, come se io entrassi nel disegno, o il personaggio ritratto ne uscisse e mi prendesse imponendomi la sua visione Ero rimasto ammaliato, così rapito per ore dall’abilità magica della mia occasionale amicizia di giocare con la 73 Paolo Batzella luce e l’ombra, in una straordinaria capacità di scambiare le parti nella distribuzione degli spazi, facendo recitare ad un oggetto il ruolo del protagonista ed attribuendo allo scorcio nel quale era collocato e vero soggetto dell’immagine, quello della comparsa. Ed ancora, ancora molte volte si era ripetuta quella magia ed infine non avevo più saputo se accompagnavo qualcuno per absidi, cappelle e chiese ovvero era stata lei a trascinarmi, seguendo i tratti di carboncino sui suoi fogli da disegno; forse erano le circostanze a prenderci entrambi e noi ci eravamo fatti trasportare, con le vele abbandonate, alla deriva di una giornata in cui nulla era programmato e tutto diveniva una scoperta. So questo ora: che per quanti fossero i soggetti possibili, non uno era sfuggito alla mano della mia artista ed alla fine, con i piedi fuori dalle scarpe, allungati sotto il tavolino a contare il brecciolino in un locale pieno di buona musica, mi ritrovavo a guardare col naso in su la sera che arrivava alla sprovvista, traditrice, e senza annunciarsi spezzava già l'incantesimo che andava svanendo quando avrebbe dovuto cominciare. 74 d’estate, una notte Il viaggio si era esaurito, le chiese pure, ed il bambino era rientrato a casa con le sue biglie di vetro; la notte, immaginavo, sarebbe stata più lunga quella notte, ma ecco che allora le sentivo dire in un soffio d'italiano: -Parlami un po’ di te ora – Dietro le sue spalle, improvvisando uno slalom tra i tavolini affollati, il cameriere si avvicinava veloce tenendo alto sopra la spalla il vassoio con la consumazione; mi sorrideva e mentre osservavo i due alexander che avevo ordinato ondeggiare lentamente verso di noi, mi arrivava di nuovo il suo odore ed ero certo a quel punto che la prima intuizione era esatta, che comunque fossero volti i fatti che quella notte ci preparava, sarebbe bastato che la notte fosse trascorsa e la sua fine sarebbe stata nota. CLIC SU FILE. APRI Le dita corsero veloci sulla tastiera: ...Velocemente scorsi le pagine: 121,21,3, uno due, tre tocchi di campana lo raggiunsero supino sul letto troppo grande e vuoto anche quella notte. Da quanto stava lì? Uno, due, tre; uno, due, tre; le quattro meno un quarto conteggiai con sollievo costatando che la 75 Paolo Batzella notte stava trascorrendo portando via con se i miei incubi e quella voce che martellava nel suo cervello come un sonaglio sussurrando da ore come ogni notte ormai la stessa litania. Nei giorni aveva cominciato a dare persino un corpo al sussurro e spessore agli spazi al punto che se avesse allungato le mani avrebbe sentito le dita scivolare sul collo della bottiglia ormai vuota, avrebbe sentito il vetro liscio e freddo come le pietre di quella prigione, tale erano diventate le sue notti senza sonno ed avrebbe potuto persino sfiorare, se solo l’avesse voluto, l’origine stessa delle parole, il suo viso: doveva essere meravigliosa. Uno, due, tre; uno due, tre tocchi di campana: - Amavo Marcantonio d’un amore nascosto - bisbigliava la voce nella testa e questa scivolava sull’umido della parete dalla bocca poggiata quasi in una smorfia sulla nuda pietra; non dolore ma neppure piacere traspariva dall’espressione del viso, solo una postura immobile come di chi è lontano con la mente, in compagnia dei suoi ricordi – questa e solo questa è la mia colpa – continuava la voce mentre le parole sciogliendosi lentamente e seguendo le 76 d’estate, una notte radici della muffa s’infiltravano tra gli interstizi delle pareti, percorrevano i muri e trasportavano quei pensieri per tutto il palazzo, risalendo le segrete sino alla luce che certo, se fosse stato giorno, avrebbe riscaldato anche quel luogo infame, quella prigione ingiusta che le era stata assegnata a residenza. In un cantuccio, appena confuso in un angolo più buio, il grosso ratto, suo unico compagno di sventura, stava lì immobile aspettando l’ora del pasto, quel pezzo di pane che, lui lo sapeva, come ogni mattina lei avrebbe diviso con lui; ma intanto la notte era ancora lunga e come ogni notte, avrebbe avuto tempo per osservare la pazzia prendere possesso della sua compagna, farla agitare ed ansimare e dire e fare cose ai suoi occhi senza senso. A lui non sarebbe rimasto altro da fare che vegliare su quello sconforto dell’animo e badare a che non si addormentasse in preda ai suoi sogni; non essere in se al momento in cui il guardiano faceva il giro avrebbe significato aspettare il giorno successivo e la sua compagna, ne era certo, non avrebbe retto al digiuno e lui 77 Paolo Batzella non avrebbe avuto più nessuno con cui dividere un pezzo di pane. Uno, due, tre ed ancora uno due tre: albeggiava pensò lei mentre percorrendosi con il palmo aperto il corpo sentiva gli infiniti bottoni della veste snocciolarsi tra le dita delle mani di lui come grani di un rosario tra le dita di un sacrista. Uno due tre ed ancora, ancora in un lento ritmo i noccioli d’avorio cedevano alla stoffa mentre le sue mani, Dio, le sue mani: erano tiepide come un fuoco che, appena sopito, si rianimi a tratti tra le braci del camino ma sembravano quasi separate dalle dita, fresche al contrasto, dita che percorrendo la pelle, lasciavano dietro di loro i segni del brivido. Era mio allora ed io sua e poco importava se nessuno al mondo avrebbe potuto rallegrarsi della nostra gioia; noi bastavamo a noi stessi, nascondendoci così al riparo del letto disfatto per rappresentare un sonno che non era giunto, celati dalla brace alla fine della sua vita che aveva segnato il momento dell’incontro, quando intorno è silenzio ed il mondo dorme in balia dei sogni profondi. 78 d’estate, una notte Ecco: così lo vidi, trasalì, ancora vicino a me, come nei giorni della vita, dell’amore: chiuse gli occhi forte per trovare il buio più totale, il buio come allora, come se le candele d’incanto precipitassero giù dai candelabri, soffocate dai mantelli, tutte e tutte insieme si spegnessero: fu così di nuovo come allora ed ancora come infinite volte sarebbe stato ed allora il coraggio che temevo mi abbandonasse, non mi mancò. Le labbra si muovevano piano ora, raccontavano una storia, la stessa di sempre in quegli ultimi giorni di quegli interminabili anni ed ogni volta sentiva il sangue circolare più veloce nel suo corpo, quasi riscaldandolo del calore che può dare un ricordo: la sensazione delle proprie solitarie carezze sul suo sesso mentre sentiva la schiena drizzarsi e la testa ciondolare all’indietro per prendere aria mentre risentiva i suoi fianchi inarcarsi per accogliere il suo amante. Avrei potuto fare altrimenti, sì avrei potuto offrirgli riparo, avrei potuto avere pietà per chi come lui, ferito, ti guarda incredulo chiedendo aiuto; la chiazza di sangue che si allarga sul ventre, l’odore della sua carne bruciata, la sua 79 Paolo Batzella mano che mi artiglia la spalla avvicinandomi a sé, implorando una grazia. Si, avrei potuto fare altrimenti ed invece ecco che le mani corrono altrove, cercano un appoggio sul tavolo, trovano una lama ed allora, ecco, allora, spiando la paura nei suoi occhi, scrutandogli l’anima poggiai con tutto il mio corpo sull’elsa e spinsi a fondo osservando l’assassino che avrei dovuto sposare inginocchiarmisi davanti trascinando con se il coraggio con cui l’avevo colpito, finendolo. - La vita d'un Mattei per quella di un Mattei, pensai, e la mia pazzia fu appagata-. La luce, seguendo il corso del sole, penetrò dalle persiane socchiuse e colpendomi gli occhi mi trovò riverso sulle pagine aperte del libro. La bocca semiaperta, deforme in quella posizione, si schiacciava contro i fogli inumidendoli con un rivolo di saliva. Il corpo scomposto, riverso sul letto, allungava una mano verso la bottiglia di brandy tenuta in precario equilibrio mentre le palpebre sbattevano per il fastidio che la luce 80 d’estate, una notte provocava, così concentrata in un fascio caldo ed accecante. Misurai il vuoto della mia compagna di quella notte: un paio di sorsi ancora e sarebbe stata da buttare; quindi senza muovere un solo muscolo, ancora intontito dall’alcool, ricominciai a sperare che Lei arrivasse quella sera o al più tardi domani perché in quel momento ero certo che non avrei retto ancora per molto in preda a quella magia. Provavo paura, paura di seguire le tracce che quella incredibile storia mi suggeriva e speravo che con Lei a fianco anche il timore sarebbe stato più sopportabile, ma non solo: Lei aveva sempre saputo distinguere meglio di me i confini delle cose mentre questo mio paranoico arroccarmi entro limiti conosciuti era sempre stato in fondo, ora me ne rendevo conto, un sistema di difesa contro l’ignoto, un tentativo di sciogliere entro l’orizzonte ripetitivo delle azioni l’incertezza del risultato tipica di qualsiasi speculazione sincera. Quanto avrei potuto ancora aspettare?Non avrei saputo dirlo. 81 Paolo Batzella Olimpia mi chiamava, mi aveva scelto e mi voleva o meglio voleva da me qualcosa e mi rendevo conto ormai che se solo avessi capito cosa, questo l’avrebbe appagata e liberato me da quel vincolo. A cosa sarebbe servito dunque aspettare ancora, se non a perpetrare quello stato di schiavitù, il mio ed il suo. Meglio era cimentarsi nell’ignoto ed accettare la sfida, alzarmi, da quella postura inconcludente, lavarmi, vestirmi e gettarmi fuori di casa, in pasto a ciò che se doveva succedere era forse meglio che accadesse subito, adesso. Se Lei fosse arrivata allora, se Lei avesse risposto alle mie preghiere, non mi avrebbe più trovato in attesa e avrebbe capito che avevo fatto da solo quello che andava fatto, se Lei avesse potuto vedermi allora si sarebbe resa conto che non scherzavo, che non avevo accampato delle sciocche scuse per trascinarla in oziose discussioni su di noi, in parole già dette, ma che semplicemente avevo bisogno di lei; non credermi sarebbe stato un suo errore e le sarebbe stato chiaro che per questo mi aveva perduto. 82 d’estate, una notte Si, era deciso: avrei seguito quella mappa surreale e raggiunto, sentiero dopo sentiero, il luogo dove tutto era iniziato e si era concluso. Con l’evidenziatore, con la meticolosità di un bravo studente, qualcuno aveva messo in evidenza poche parole sottolineandole: ‘Palazzo Mattei, Piazza della Gensola’. CLIC SU FILE. SALVA 83 Paolo Batzella OTTAVO Adagiati sull’orizzonte estremo della mia visuale, di là dal monitor, i due letti erano rimasti dal giorno prima nella loro posizione innaturale, sconnessi e disfatti a formare un angolo remoto a se stante come separato dal resto dell’arredamento ed incastonato tra un mobiletto nero ed una sorta di colonnina ad uso libreria che ero riuscito a ricavare modificando più volte un mobile a cassettone anni sessanta, di quelli che si mettevano negli ingressi per conferirgli prestigio. Su quella erano stipate riviste, qualche libro ed una buona raccolta di vecchi dischi e su tutto troneggiava solitario un giradischi perfettamente funzionante che con i suoi due altoparlanti formato cassette di frutta posti a fianco e da cui con amore sconfinato riusciva a riprodurre ancora buona musica; lì, nella penombra, la debole luce che filtrava dal lampione rimbalzava sullo specchio e danzava sulle lenzuola facendole a tratti apparire vive, ancora piene di carne e sudore. 84 d’estate, una notte Questa mattina mi era rimasto di lei solo il ricordo, rimuginavo mentre rileggevo le ultime righe; ma era poi accaduto questo ieri, anzi oggi, pensavo districandomi dai miei pensieri; forse accadrà domani, quando i miei sogni avranno minor spessore delle mie ore di veglia, forse, mi dicevo, non è poi così importante saperlo. Mi ero tirato su da quella postura insaccata nella sedia, accorgendomi d’un tratto che stavo sbirciando come da un immaginario buco della serratura qualcosa che non poteva più essere lì dove speravo che fosse ed ora, guadagnata la posizione eretta, potevo vedere il vuoto che riempiva l’ambiente e non avevo trovato nulla di meglio da fare che misurare le mattonelle del pavimento con i miei passi, percorrendole una dopo l’altra come mimando il gioco che da bambino facevo nella piazza assolata del mio paese; la campana non era un diversivo molto maschio ma di tanto in tanto si praticava proprio per questo motivo: era il modo più facile che a dieci anni si potesse avere per frequentare l’altro sesso, assoluto padrone delle regole di quel gioco. Come tutti ero un po’ impacciato nel saltare con precisione entro i confini disegnati col gesso sull’acciottolato, o forse 85 Paolo Batzella no, era più l’irruenza tipica dei maschi ancora imberbi a farmi sbagliare in continuazione e scatenare così l’ilarità dell’occasionale compagnia femminile. In cambio qualche battito di ciglia più leggero, uno sguardo che si fissava nei tuoi occhi per poco più del necessario, ripagava d’ogni umiliazione, faceva scatenare l’immaginario e come in un gioco, a quel punto davvero perverso, più l’eccitazione aumentava, più sbagliavi; più ridevano della tua goffaggine e più ti illanguidivi sognando d’avventure impossibili stampate su presupposti e conoscenze talmente vaghe da far assomigliare il tutto ad una favola ed apprezzabile solo in quanto tale. Avevo così finito per censire una ad una le mattonelle della cucina, scoprendone alcune sbrecciate e notando anche una notevole differenza di dimensioni tra queste e quelle del salone e ciò mi aveva costretto a cambiare il ritmo dei passi senza perdere la concentrazione necessaria per non toccare i contorni di quella fantastica scacchiera e non sollecitare così lo scherno della mia immaginaria spettatrice. In questo modo, caracollando avanti e indietro, ero tornato nei pressi del mio posto di lavoro; il salva schermo in 86 d’estate, una notte funzione proponeva uno splendido tramonto su un deserto di dune ed in basso, sulla destra, si indovinava un accampamento di tende: questo ultimo particolare era il vero motivo della scelta di quello sfondo: mi piaceva non tanto la prospettiva del tramonto di fuoco quanto quella di qualcuno, magari, immaginavo, un nobile e libero berbero, che potesse osservare quello spettacolo dalla tranquillità della sua tenda. Di fianco al monitor, debitamente montata su una cornice a giorno, una delle rare fotografie della mia giovinezza, sopravvissuta agli infiniti traslochi, era posta tra i piani della libreria, in una posizione in cui fosse possibile osservarla senza fatica, appena sollevando lo sguardo da uno scritto oppure spostandolo verso destra, distogliendolo dal video. Poggiati ad un muretto che recintava i giardinetti dell’Università di fronte al Rettorato, stavano sistemati come lucertole al sole un gruppo di ragazzi. Di molti non ricordavo più neppure il nome, di altri non avrei saputo dirlo neppure quel giorno ma questo era ininfluente perché lo stare insieme era considerato un 87 Paolo Batzella valore in sé e le parole allora erano insieme cemento e strumento di questa operazione. In quella comitiva Sandro se ne stava un po’ in disparte e salutava il fotografo con un cenno della mano, Paola era distesa di lato e poggiava la testa sulle sue ginocchia, col viso rivolto al sole e gli occhi chiusi; poco avanti a loro io parlavo con una ragazza della quale avevo appena memoria del viso: non era bella, ricordavo, ma la conversazione doveva essere interessante a giudicare dall’attenzione con la quale sembravo ascoltarla. Tutti indistintamente stavano lì di fianco al tramonto di fuoco del salva schermo e, se solo Paola dalla foto avesse aperto gli occhi, avrebbe certo riso di quella scelta un po’ crepuscolare. Senza dubbio domani non avrebbe mancato di prendermi in giro sostenendo che per quanto i miei capelli si stessero sbiancando, non ero cambiato affatto, che dovevo aver studiato a lungo per costruire un abbinamento come quello e avrebbe concluso che in fondo ero rimasto il solito ombroso rompipalle. 88 d’estate, una notte - E’ un’istantanea del tuo ultimo viaggio?- aggiungerà passando dalla foto di noi all’immagine del deserto con un sorriso un po’ maligno, mi pare già di sentirla, e sapendo bene quanto poco incline sia allo spostarmi anche solo dal quartiere in cui vivo e quanto mi sarà costato il solo arrivare all’aeroporto per andarla a prendere. Mi sarei difeso accampando ragioni d’ordine comportamentale, avrei sostenuto che non avevo in odio il viaggiare ma chi viaggia e soprattutto chi ti vende questa esperienza millantando arricchimenti intellettuali, crescite dello spirito e quant’altro viene proposto nei patinati opuscoli promozionali, quasi che il piacere della scoperta, la meraviglia per l’inaspettato potesse essere misurato a peso e consumato in ore. Paola non ascolterà neppure la mia arringa e con fare deciso spalancherà le tapparelle inondando di luce l’appartamento e decretando la fine del paesaggio desertico che, annichilito dal confronto, tornerà ad essere nella luce del giorno quello che è: niente più di una semplice icona. La lascerò fare con mascherata indulgenza e mi riscalderò un po’ a quel calore intenso che le cose vive emanano, 89 Paolo Batzella anche quando ti sono vicine in forma di parole, ironia, o semplice imposizione ad arieggiare l’ambiente e togliere i piatti sporchi dal lavandino. D’altra parte Paola aveva il dono di raddrizzare la realtà con soluzioni semplici, anche in situazioni scabrose come quella volta che avevamo trovato rifugio sotto un arco infestato da sacchi di spazzatura. La manifestazione era terminata ma gli scontri tra la polizia ed i manifestanti ancora continuavano qui e là a cavallo tra le due sponde del Tevere e disimpegnarci stava diventando problematico; avevamo perso i contatti con i nostri compagni e l’unica cosa che ci interessava era allontanarci il più possibile dal fumo acre dei lacrimogeni che sembrava chiuderti la gola. Passi affrettati e grida di richiamo arrivavano dalle vie adiacenti: tra un momento, pensai, ci avrebbero trovato e fu allora che, non so come, ma d’un tratto sentii che Paola mi strattonava trascinandomi tra un vecchio armadio e la parete della volta di una specie di passaggio a mo’ di arco tra due palazzi. 90 d’estate, una notte Lei mi stava vicina, come spalmata addosso e, trattenendo il fiato forse per evitare anche solo il rumore del respiro, aveva poggiato le sue labbra sulle mie. -Pensa di non essere qui, sussurrava, pensa che intorno sia il deserto, e su di noi ci sia un tetto di stelle.Quindi, quasi percependo il mio disagio, il timore che provavo più per lei che per me, la mia certezza che non avrei saputo né potuto proteggerla in quella circostanza, insisteva: -Devi volerlo Sese, è così come ti dico, se lo vuoi succederà.Ero annichilito, ricordo, e le sue labbra erano ciò che di più morbido avessi mai sentito sulle mie e nulla mi parve allora più certo: l’arco tra i palazzi, il deserto, le stelle, il buio del tramonto che per fortuna di entrambi sopraggiungeva ed accoglieva le nostre speranze di non essere scovati. Aveva gli occhi chiusi Paola nella sua cornice e sembrava dormisse, forse sognava; allungai la mano e con un clic resi attiva la finestra che il tramonto celava. CLIC SU FILE. APRI Nota. 91 Paolo Batzella Camminavo così, ciondolando sulle gambe, passo incerto, non sapendo bene quale mano tenere della strada che avevo davanti, non sapendo neppure la direzione; sulla destra una vecchia appollaiata su d’uno scranno puliva un cesto di puntarelle, quell’erba amara che condita con un pesto d’alici ed aglio è una delle invenzioni geniali della cucina di queste parti. Sembrò osservarmi, più che incuriosita credo preoccupata per il mio aspetto, che doveva essere orribile, tanto mi sentivo stravolto. Le sorrisi appena, per cortesia, e proseguii, cercando un momento in cui nessuno mi fosse intorno, in modo da potermi ricomporre, prendere fiato e riordinare le idee. Ecco, poco più avanti la stradina si apriva appena in uno slargo e sul lato sinistro era stato ricavato nel palazzo un passaggio a mo’ di arco; da fuori appariva buio e freddo, forse solo per l’immediato contrasto con la luce accecante che costringeva gli occhi a socchiudersi e rendeva l’aria incandescente. Puntai diritto in quella direzione lasciandomi inghiottire come pane lievitato in un forno, tanto angusta mi parve la 92 d’estate, una notte volta, tanto desiderio avevo, una volta all’interno, di sedermi, rannicchiarmi in un angolo, come per paura che qualcuno potesse trovarmi, fosse stato anche solo una proiezione della mia fantasia. Di fianco ad un vecchio armadio da rottamare stava una cassetta di legno rovesciata ed invitante come uno sgabello; mi ci accasciai sopra, scomparendo così confuso tra la volta ed il mobile agli sguardi indiscreti del mondo; quindi allentai la cravatta che sentivo ora stretta al collo come un nodo scorsoio ed inspirai profondamente facendomi sommergere dal fetore aspro dell’urina di qualche incontinente misto all’acido dei rifiuti e consolandomi del fatto che immerso in quell’afrore neppure un segugio mi avrebbe scovato. Stavo lì seduto col libro serrato tra le braccia in preda al dubbio su quale fosse la parte che mi era stata riservata in quella recita. Chi ero io: Pietro o Marcantonio, lo sposo rifiutato o l’amante perduto; colui che amava o quello che era amato? -Tutte stronzate- sibilai a denti stretti, entrambi erano vittime, come ognuno d’altra parte in quella maledetta 93 Paolo Batzella vicenda, ed allora a cosa sarebbe servito interrogarsi se la fine sarebbe stata comunque la stessa? - Maledetto il giorno che ti ho incontrato - mormorai chinando il capo, cercando di nasconderlo tra le spalle e così facendo cercando d’inibire i pensieri che ora sempre più chiaramente affioravano da quel mare oscuro che è l’utero dei nostri incubi. Così ricurvo su me stesso ripercorrevo le sensazioni di quegli ultimi giorni: la prima volta che avevo incontrato il suo sguardo o sentito il suo fiato carezzarmi l’orecchio in un soffio, quel tanto che bastava a svegliarmi dal torpore del sonno e lasciarmi così in attesa, sperando e temendo insieme che la magia si ripetesse ancora e poi le sue dita che corrono lungo le spalle giù sino ai glutei, le sue unghie e l’odore dei suoi capelli, odore di resina odore di bosco, di foglie bagnate che scricchiolano piano sotto i piedi nudi mentre la nebbia dell’aurora ti avvolge, gelida e pulita come il suo alito, come la morte e sentirtela addosso e lasciare che faccia, che comunque finisca, che goda e mi sfinisca; abbandonarsi così, occhi al cielo ad immaginare 94 d’estate, una notte lo spazio che ti separa dalla cima degli alberi mentre piccole gocce scendono lievi su di noi. Così , ora, in quella posizione fetale intravedevo attraverso il velo che cominciava ad inumidirmi gli occhi, i miei pantaloni bagnati, ombrati di quell’umore che la passione lascia per ricordarti che hai goduto. Si, era così, l’avevo amata ed era stato meraviglioso al di là dell’immaginabile, travolgente e dolce come solo un sogno può essere, violento e torbido come un incubo. Olimpia era stata mia ma, soprattutto, e questa era la chiave forse, io ero stato suo, ero stato il suo alimento, il mezzo attraverso cui il suo desiderio aveva ancora una volta potuto prendere forma e sostanza, appagarla. Ero stato consumato come un pasto rituale, qualcosa che ha valore solo in sé e non lascia di sé neppure memoria ma solo l’attesa del futuro appetito cui di nuovo si dovrà provvedere ed ancora ed ancora in una spirale infinita. Avevo solo dato forma al suo amore, senza però divenire io quell’amore, e per colmare il vuoto che adesso mi sentivo addosso, freddo come l’umido del mio sesso, non potevo far altro che rendermi partecipe del rito, condiscendere 95 Paolo Batzella consapevole e farmi divorare pur di vederla felice, pur di lenire le notti di quella ingiusta prigione che le era stata assegnata in eterno e dalla quale evidentemente lei stessa non riusciva più a liberarsi. -No, questo no- urlai realizzando quella prospettiva. -No- urlai ancora con quanto fiato avevo in gola, scaraventando lontano il volume che teneva legate le nostre vite. Quello rimbalzò leggero davanti ai miei occhi come privato del peso, rotolò come una palla poco lontano da me, sollevando nei balzi una leggera polvere quasi che l’acciottolato fosse cosparso di talco. Un balzo ed era fuori dell’arco e, come portato da un refolo, per un incongruo spostamento d’aria, l’odore rancido si fece più intenso, spezzandomi il respiro; due balzi e si aprì come le ali di un uccello che tenti il vento, la copertina si separò dal corpo e volò via, i quinterni, non più contenuti, si scomposero ed uno ad uno li vidi sparpagliarsi lungo la traiettoria del volo tra il limitare del cunicolo dove ero io ed il palazzo che chiudeva lo slargo. 96 d’estate, una notte Portai istintivamente le mani alla bocca con un moto di disgusto per quell’aria soffocante, ferma come una palude dal fondo della quale una sagoma di donna mi veniva incontro; era bellissima e con una tristezza negli occhi profonda come la notte; occhi neri, acquosi e lucidi come una femmina che debba ancora smaltire le pulsioni della passione, la bocca socchiusa in uno stupore incomprensibile, il petto che respirando a fondo faceva sollevare in un ritmo lento i seni all’unisono nell’incedere elegante, altero. Quindi il suo sguardo sembro accorgersi delle pagine sospese e seguendone il volo rallentò il passo e nello stesso istante mi accorsi che il ritmo del mio respiro rallentava con Lei, ne seguiva le movenze mentre sempre più lenta mi veniva incontro non come se dovesse percorrere pochi metri per raggiungermi, bensì una distanza diluita, liquida, indefinita. Allora tentai, sì, cercai di aprire la bocca allo spasimo nel tentativo di afferrare l’aria ma il ritmo del fiato si era ora definitivamente inceppato, come rotto; annaspai un poco, poi, al terzo balzo i fogli che non erano raccolti nei 97 Paolo Batzella quinterni si sollevarono tutti insieme volteggiando un poco ancora spinti da quell’aria ferma come la morte. A quel punto, riverso sul selciato feci ancora in tempo a vedere da quell’angolazione sghemba le parole scritte adagiarsi lentamente per terra a ricoprire uniformemente l’intera piazzetta; qualcun altro sarebbe passato di lì, ebbi il tempo di ragionare, qualcun altro per un caso della vita, avrebbe vissuto la mia stessa pena. Ora gli era chiaro: non era stato il primo, non sarebbe stato l’ultimo, ora sapeva che in quella recita la sua era stata appena una comparsa e la vicenda cui aveva avuto la sventura di partecipare non gli apparteneva, in realtà lui od un altro sarebbe stato lo stesso per Lei. Si sentì per un attimo vinto dal dolore di quella semplice scoperta, come quando, da ragazzo, la civetteria di una coetanea ti lascia impotente di fronte all’abbandono e ti chiedi perché se tu l’ami non dovrebbe ricambiarti e non comprendi che non tutto dipende solo da te. La sagoma di Olimpia sembrò vibrare, tremolare come la fiamma di una candela che un bambino non riesca a spegnere e quando l’ultimo foglio si posò tra gli altri le sue 98 d’estate, una notte considerazioni furono interrotte dal silenzio: era tutto finito. fine CLIC SU FILE SALVA 99 Paolo Batzella NONO -Bene, bene- ripetevo soddisfatto mentre rileggevo le ultime righe; se solo Peruzzi mi avesse dato ancora un po’ di tempo forse qualcosa sarebbe maturato in quel vespaio di idee che era la mia mente; certo era solo l’inizio e la fine del racconto, niente di più; costruire qualcosa che al suo interno si reggesse degnamente, tenendo in equilibrio i piatti estremi della bilancia era un altro conto; tuttavia, anche nella vita d’immediato c’è solo l’inizio e la fine, la nascita e la morte, ciò che sta nel mezzo deve necessariamente accadere e per questo ha bisogno di tempo. Facevo queste confortanti riflessioni come per consolarmi un po’ sulla possibilità di crescita della storia, convincendomi della necessità di mettere un po’ di vissuto in quella minestra, un po’ di me stesso: il risultato non sarebbe stato garantito, è vero, ma sarebbe importato poi a qualcuno se stamattina pioveva oppure, come era stato, il sole implacabile, riscaldando l'aria, aveva costruito un velo opalescente dietro il quale nascondeva la sua furia? 100 d’estate, una notte Un libro in tasca e via per i sentieri del mondo, mi ero detto facendomi coraggio e buttandomi letteralmente fuori di casa; lasciandomi alle spalle i letti disfatti come le mie aspettative; fuori, lungo sentieri che mi ricordavano quelli aspri delle montagne della mia giovinezza, a me noti come ad un mulo che quotidianamente li percorra per guadagnarsi la cena; no, mi dicevo, nulla avrebbe potuto accadermi se non quello che avessi voluto. Di norma arrivavo lassù a piedi, cercando di seguire l'antico corso della via Aurelia che da S. Maria in Trastevere risaliva verso l'antico confine etrusco. Vi andavo spesso per bere qualcosa prima di pranzo; non avrei saputo dirne il motivo ma tant’è lassù l'aperitivo mi sembrava avere un sapore diverso, forse per il colpo di cannone che, annunciando mezzodì, mi sollevava dall'incombenza di decidere se fosse o meno l'ora giusta per alzare il bicchiere. Quel gesto comune diventava così un rito, d'un tratto purgato dalla fretta con cui lo si consuma in un qualunque bar e non solo lo stomaco ma tutto l'organismo mi sembrava si disponesse meglio alla pietanza futura perché il liquido scorrendo avrebbe seguito lo sguardo, e questo, 101 Paolo Batzella ozioso, avrebbe vagato sulle terrazze vaporose della giornata d'estate, su una città che da lassù pareva avere un unico respiro. Luogo sacro il Gianicolo, sacro al dio Giano ed al Risorgimento italiano e, così affacciato da quel balcone, disegnavo sui tetti i confini degli antichi rioni di là del Tevere, giocando a indovinare la vita che da sempre vi scorre sotto. Il velo di foschia che segue la pioggia s'era dissolto e faceva un gran caldo, saturo di umidità, me la sentivo addosso e già mi figuravo la fresca dolcezza del ritorno, i vicoli ombrosi che scendono verso la valle; la gradinata che costeggia il colle conosceva i miei passi come io i suoi sassi e gli angoli d'ombra tra cui saltellare al riparo dal sole; poi, poco più avanti, avrei cominciato a selezionare una trattoria dove il mangiare fosse buono e la faccia dell'oste simpatica. Per intanto il bar alle mie spalle si era riempito di turisti e il chiacchericcio mi circondava ma senza fastidio, più come un motivetto orecchiabile dell’ultimora; facevano parte dell'arredo e, mentre mandavo giù l'ultimo sorso, forse per questa fisica distanza dal quotidiano, con gli occhi chiusi 102 d’estate, una notte assaporavo l'idea che infine la realtà fosse solo un sogno e ciò che a lei ci lega appena un ricordo. Ora che ci penso, avevo fatto proprio questa considerazione in quel mezzogiorno di quell’ultima primavera, tra i primi della stagione che avesse promesso di non bagnarsi per un improvviso temporale. Era tutto perfetto come i desideri invernali che si realizzano schiudendosi ai primi tepori: i camerieri del piccolo bar cominciavano a sistemare i tavoli sul belvedere, le prime famigliole in gita cittadina a passeggio così, tanto per tirar fuori la testa dalla tana, gli immancabili turisti giapponesi ed io che, confuso tra quella varia umanità, nell’ultimo posto in cui mi sarei aspettato che fosse, ecco che, lo ricordo bene, lo vidi dunque lì il mio ricordo: se ne stava ritto e sorridente, a pochi passi tra me e il monumento a Garibaldi; stava lì ritto e travestito da giocattolaio. Mi ero avvicinato con calma, ciondolando distrattamente ed osservando un punto lontano sull’orizzonte come può fare un estraneo che si guardi intorno alla ricerca di qualcosa che non riesce a trovare, ed ero riuscito in quel modo a penetrare per gradi nel suo spazio visivo ed allora, per un 103 Paolo Batzella attimo solo, l’aria stessa era sembrata fermarsi diventando quasi solida lungo la traiettoria degli sguardi, quello necessario appena a renderci conto dell’accaduto e ad un tratto sorridevamo entrambi, salutandoci timidi, come due monaci nel chiostro che dopo anni passati insieme nella stessa clausura, si sbirciano tra loro, estranei e un po’ curiosi; così noi ci scrutavamo, vedendoci allora dopo infinite volte per la prima volta. - Come stai? - Si vive. - Lo sai, non sei cambiato affatto, amenità rassicuranti, e le donne, il lavoro, la casa? – - Beh, è un lavoro come un altro e poi, ti dirò, mi piace la sera contare le mille lire e gli spicci, farne dei mucchietti: mi da una sensazione di sicurezza.- Ah sì, capisco, è quello che a me non dà l’attesa del giorno di paga, il ventisette di ogni mese.Risate e, Gran Dio! quante, troppe cose appresso mentre piano il tono delle nostre voci incrinava e tradiva i nostri sentimenti e le nostre paure incoscienti ora come allora si inseguivano 104 danzando mentre il fumo denso dei d’estate, una notte lacrimogeni che si vedeva levarsi dietro gli ultimi palazzi prima del piazzale della Città Universitaria, cominciava a salire, trasportato dal vento e si insinuava su per il naso fino a riempire gli occhi che adesso cominciavano a lacrimare. Allora le ragazze, belle come possono essere solo quelle della Contestazione ci baciavano sulla bocca con le labbra strette, nervose e tenere insieme, poi ci aiutavano ad annodare i fazzoletti sul viso e noi potevamo così scattare appagati, in avanti, verso la testa del corteo, incontro ad uno scontro tutto forma, niente sostanza mentre i responsabili dei servizi d'ordine urlavano le ultime disposizioni per l'imminente battaglia tra il gracchiare dei megafoni ed il ruggire degli slogans, che si facevano mano a mano sempre più concitati. Mi sentii chiamare in modo secco: Sandro era tra i responsabili uno dei più coriacei, nulla mai avrebbe potuto tradire la sua paura di ragazzo; i peli radi della barba ed i baffi mai tagliati, soffici come lanugine, facevano il resto dando un quadro a quell’icona da noi tutti adorata quasi in modo religioso. 105 Paolo Batzella Finii di tirare su da me il fazzoletto sul volto e ciò che più mi spiacque fu il non aver avuto il tempo di godere dei saluti, di quello di lei intendo: era la più bella e mentre a grandi passi raggiungevo la mia squadra pensavo al fatto che forse non l’avrei vista mai più, pensavo che un’occasione come quella non sarebbe più stata. E’ curioso come si abbia in gioventù la necessità di drammatizzare il senso delle cose: ognuna di esse assume un carattere definitivo ed ha come effetto il porci continuamente di fronte a grandi scelte, grandi eventi, grandi passi, come per una sete inesauribile di misurarsi con l’impossibile. Mi voltai appena e l’espressione che colsi fu quella che negli anni che seguirono mi sono trovato davanti mille volte tra le pieghe della memoria: il braccio suo alzato, confuso nel nugolo di pugni in alto ad incitare il cielo e tra tutti il suo era solo per me, ci fissammo così per quell’attimo necessario ad un piede per poggiarsi e far andare in avanti l’altro, un attimo appena ed era la più bella. I bordi del corteo sembravano adesso scorrere lenti al nostro fianco, quasi immobili, mentre noi sfilavamo veloci 106 d’estate, una notte verso lo scontro imminente; così, come in un torneo medioevale dove gli eroi incrociano le armi in un contenitore scenico ben più significativo in sé della breve rincorsa di cavalli e cavalieri lanciati l'un contro l'altro e già esaurita in una manciata di secondi; così là noi esercitavamo l'antica arte della mimica dove il gesto è tutto e la sostanza delle cose appena traspare dietro di esso consentendo al rito di diventare rituale. Già, pensavo mentre osservavo gli occhi del mio amico farsi più vivi tra le rughe, non era scritto allora, trent’anni prima, quando sulle gradinate della facoltà si decideva insieme dei destini del mondo; no, non era scritto in quell'assetto futuro che lui avrebbe venduto palloncini ed io il mio tempo per un salario. Ed ancora, più tardi, mai alcuna ipotesi nei nostri discorsi di allora intorno a quella tavola, avrebbe previsto anche solo vagamente, anche solo una parte di ciò che sarebbe stato negli anni che poi sarebbero stati, nulla delle sue ore passate ad aspettare un bambino invaghito dal colore dell’ultimo pallone che con maestria consumata andava 107 Paolo Batzella gonfiandosi tra le sue mani o dei minuti miei trascorsi ad aspettare che l’orologio segnasse l’ora d'uscita dall’ufficio. No: orizzonti lontani e luminosi imbandivano la tovaglia a quadretti e poco altro visto che quella sera Paola aveva deciso di sperimentare su di noi le sue ultime scoperte in materia di cucina vietnamita. Al primo assaggio, ricordo mi sembrò preferibile persino il cibo macrobiotico a base di scatolame che ti propinavano in uno dei più noti ristoranti alternativi al Campo dei Fiori, proprio di fronte a quel Giordano Bruno che, ne ero e sono certo ancora adesso, avrebbe preferito il rogo piuttosto che essere confuso tra i suoi avventori. Così, tra vino e riso scondito, salse, spezie e bocconcini di pollo, si snocciolavano i numeri di quanti si era e di quanti erano i ragazzi dell’altra parte, quelli con la divisa intendo e quante ore si era stati lì a fronteggiarci, quante le cariche, quanti gli scontri, quanti i feriti. Ed alla fine dei conti, quando il vino era giunto all’ultimo bicchiere, qualcuno rollava per l’intera comitiva ed io osservavo quei gesti con un distacco un po’ snob che allora ci si poteva ancora permettere; avrei tra poco ringraziato 108 d’estate, una notte per il mio turno di fumo e preferito quell’ultimo bicchiere senza temere per questo solo gesto d'essere considerato fuori. Gli occhi di Paola mi sembravano più lucidi del solito e chissà, quella sera forse mi avrebbe avuto: era la più bella, pensavo tra me, ed abbastanza pazza da impazzire la notte di un ragazzo. Se ne stava così, di fronte a me, seduta a fianco di Sandro che continuava a parlarmi di cose che non sentivo più e con la testa poggiata su una mano sembrava seguire il viaggio delle parole da un capo all’altro della tavola. Sembrava dico, perché con gli occhi contava i chicchi di riso rimasti nel piatto e li spostava ora qui ora là lungo i bordi, cercando un ordine, disponendoli in figure; di volta in volta sollevava lo sguardo dal suo lavoro e da sotto le sopracciglia mi scrutava misurando il livello d’attenzione a quel discorso. Credo realizzasse che non mi importava un cavolo di quanto si stava cucendo e scucendo intorno a quanto dei bisogni indotti potesse essere ricondotto a necessità 109 Paolo Batzella primarie e quanto invece potesse essere rigettato come imposto dal sistema di potere. Dissertazione tra le più preziose, senza dubbio ma mai quanto i suoi seni che sembravano sul punto di riversarsi da un momento all’altro fuori dai lacci che a malapena li trattenevano racchiusi in un corpetto lavorato con motivi messicani che costituiva la parte superiore di una specie di scamiciato a sacco alquanto goffo ma assolutamente in tono con la trama del tovagliato. Se ne stava lì poggiata su di un gomito: il primo dei lacci era saltato e lei ne osservava ora i capi penzolare sul piatto, ora i chicchi ora me. Io, da par mio, cercavo di destreggiarmi tra il fiume di parole di Sandro e i suoi seni: situazione imbarazzante forse ma solo per me che nel dubbio che quella magia svanisse, continuavo a sorbirmi lo sproloquio del mio amico e pensare nel frattempo che sarebbe stato meraviglioso sentire l’alito di lei vicino e gli orizzonti luminosi del ‘sol dell’avvenire’ allontanarsi oltre i confini visibili almeno per un attimo, per quel poco necessario a riposare. 110 d’estate, una notte Avrei allora raccolto il suo viso dalla sua mano e stringendolo tra le mie, avrei poggiato la fronte sulla sua suggerendole che: “ecco, ora i miei pensieri ti appartengono”, poi, respirandole il fiato più vicino uno ad uno i lacci avrebbero ceduto e con le dita avrei scansato la tunica dalle spalle piccole facendola scivolare, osservandola impigliarsi sorretta per un attimo dai capezzoli d’un tratto inturgiditi. Così, chiusi gli occhi, il mondo mi avrebbe raggiunto solo per i suoi odori, per la sua pelle che sa di lavanda, tesa ed intirizzita appena sotto le mie dita. Toccarla così, lentamente, affinché il tempo duri di più, carezzarla così per farlo fermare del tutto e consumare le energie di una vita intera in una sola notte e poi riposare, riposare e farsi accogliere dal sonno per continuare a sognarla; riposare e dormire che l’indomani, a saperlo, sarebbe arrivato comunque e qualcuno avrebbe dovuto gonfiare palloncini, qualcun altro avrebbe aspettato che scattasse l’ora di fine turno, qualcun’altra avrebbe avvisato del suo arrivo per l’indomani. 111 Paolo Batzella Così, superato lo zenit, il sole, come un pifferaio, aveva richiamato a se come d’incanto tutti i bambini; il piazzale deserto d’intorno segnalava inconfutabilmente che l'ora del pranzo era trascorsa senza di noi lasciando solo le nostre considerazioni, come allora, a farci compagnia. Ero rimasto lì per un po’ a guardare il suo furgone giallo allontanarsi e la mia mano salutare; dopo di che, sparito alla vista, mentre passeggiavo lentamente con me stesso verso Porta S. Pancrazio, in direzione della Navicella, carica dei sogni della resistenza giacobina sentivo come la sensazione che il tempo d'un tratto cominciasse ad avvitarmisi davanti, tanto da non saper più se quella fosse l'estate della contestazione del sessantanove o di un secolo prima, nell’ottocentoquarantanove pieno dell’utopia repubblicana od ancora, invece, com'era, una qualsiasi giornata della fine del millennio con intorno il ritmare, ora fastidioso, di un motivetto orecchiabile dell'ultima ora e pensavo che, ripresomi dallo spavento, avrei dovuto trovarmi un altro luogo, un altro bar, convinto com’ero allora e stamani ed ora che, rincontrandoci, non avremmo avuto da dirci nulla di più di quanto c’eravamo già detti. 112 d’estate, una notte Il bicchiere mi rigirava ora tra le mani, vuoto, il liquido consumato aveva portato via con sé le immagini di quella primavera rivelando la fettina di limone che, come spesso accade, si era incollata sul fondo e considerai che mi sarebbe costata non poca fatica snidarla da quella posizione ma alla fine, mascherando i tentativi delle dita di allungarsi quanto il contenitore e cercando di nascondere l’operazione decisamente ‘poco fine’ spostandola all’altezza dell’anca, fissando con una smorfia un punto imprecisato dall’altro lato, alla fine l’avrei avuta tra i denti, giocando come fanno i bambini quando cercano di imitare un pugile che serri tra le mascelle un paradenti, alla fine il succo aspro e freddo mi avrebbe ripagato della fatica facendomi assaporare ciò che mi sarebbe aspettato di lì a poco, come un presagio di fresco: il ritorno agevole della discesa verso le vie abitate del borgo, i vicoli ombrosi che scendono verso la pianura. Avrei imboccato la piccola gradinata che da dietro il Fontanone inizia la via di San Pancrazio, infilandomi tra le cinta del Bosco Parrasio da un lato e le mura della terra di Spagna che dicono Ambasciata; conoscevo i miei passi uno 113 Paolo Batzella ad uno così come i sassi e gli angoli d’ombra tra cui saltellare al riparo dal sole sino a Piazza in Piscinula. Ecco, allora sarei riuscito ad aprire il libro che anche il giorno prima mi ero portato appresso inutilmente come unico compagno, nell’intento dichiarato di tessere i canapi di una fune abbastanza robusta da tenere legati i tratti della mia fatica letteraria: lo Stradario Romano di Benedetto Blasi. Quella che avevo meditato mi era parsa la scelta più acconcia; avevo ragionato che lì, comodamente seduto con le spalle al solleone avrei consumato una macedonia seguendo i giochi delle rondini nell'aria del pomeriggio; sì, avrei ordinato la consumazione e disponendomi all'attesa, boccheggiando per il caldo e aspirando l'aria umida, densa di quell'estate senza vento, i miei occhi avrebbero cominciato a contare i mattoni del palazzetto che era stato dei Mattei. Come un perfetto turista mi ero documentato attingendo alle informazioni riportate sulla storia della piazza, del palazzo, della famiglia; il tutto nell'ordine s'intende perché sempre da un luogo si risale ad un uomo, mai viceversa; 114 d’estate, una notte può capitare di leggere d'un uomo che sia soggiornato in un tal posto ma mai sulla sua lapide che sia vissuto lì e lì e lì. Dunque poco dopo me ne stavo seduto che ricapitolavo le mie informazioni: quattro fratelli; Marcantonio ucciso da un sicario di Pietro e vendicato dall'altro fratello, Alessandro, che elimina l'assassino e fin qui è un classico, pensavo, ma perché quella pace di famiglia, voluta, siglata dal matrimonio di Pietro con sua nipote Olimpia, figlia di Curzio, il più povero dei quattro? C'era un che di eccessivo nella cronaca, che colorava di giallo la vicenda. Arrivava la macedonia e la sola vista mi rinfrancava: la panna si scioglieva velocemente sui pezzetti di frutta di stagione ben assortiti e mi costringeva a starle appresso col cucchiaino mentre con maggiore attenzione indagavo dietro le finestre chiuse dell'edificio che mi stava davanti, a limitare la piazza. Dunque Alessandro si oppone a quella soluzione e si presenta alle nozze col figlio e due sgherri e mentre lui aspetta sul ponte uno dei tre arrivati con un'archibugiata uccide Pietro, mentre l'altro fratello, Curzio, avrebbe ucciso 115 Paolo Batzella il figlio di Alessandro se uno degli sgherri non l'avesse a sua volta ucciso. E, mentre rincorrevo un pezzetto di melone nascosto tra la panna, mi compiacevo della mia felice posizione: tutto mi appariva come su di un palcoscenico: Palazzo Mattei, Piazza della Gensola sulla sinistra, il ponte sul Tevere verso l’isola Tiberina, sul fondo le quinte di scena. 116 d’estate, una notte DECIMO CLIC SU FILE. APRI PROLOGO Con le dita cercò le freccette che servono ad arrivare al punto desiderato dello scritto: “Con la meticolosità di un bravo studente, qualcuno aveva messo in evidenza poche parole sottolineandole: ‘Palazzo Mattei, Piazza della Gensola’. Con la stessa meticolosità si era preparato, continuò di getto, ed ora si guardava e riguardava allo specchio con un certo disappunto, cercando con le dita di spianare le occhiaie che quella notte aveva prodotto. Non si sarebbe comportato diversamente se avesse dovuto incontrare la sua amante ma non c’erano donne nella sua vita o per meglio dire l’unica che avrebbe dovuto esserci non c’era, ed il puntiglio in quella preparazione era dovuto più al suo perfezionismo che alla circostanza. Non sarebbe accaduto nulla, si ripeteva cercando di tranquillizzarsi e non sapendo bene se sperasse nel contrario. 117 Paolo Batzella Ecco, e se poi qualcosa fosse accaduta, rimuginava, allora sarebbe stato al meglio della forma, perfetto: una camicia pulita, il completo estivo azzurro e la cravatta regimental. -Si, perfetto- siglava sottolineando la scelta e sistemandosi il nodo; se doveva accadere qualcosa, ora sarebbe potuto accadere; dopo di che aveva chiamato un taxi ed era sceso in strada aspettando e misurando i minuti d’attesa ed il disagio che dà l’essere osservati. L’autista era un omaccione con il viso simpatico imperlato di sudore e la parlata sciolta, di quelli che riescono a farti una rassegna stampa traversando un isolato; si era fatto lasciare ad un centinaio di metri dal suo obiettivo anche perché un senso unico avrebbe costretto il taxi ad un lungo giro ed in lui era cresciuta una fretta inspiegabile, quasi un’ansia nascosta che saliva piano dalla bocca dello stomaco fino alla gola impedendogli di deglutire. Aveva quindi percorso gli ultimi metri a piedi cercando di contenersi in un’andatura da turista, distrattamente studiata ed al tempo stesso intenta a far tesoro degli scorci che quella breve passeggiata offriva, in realtà attenta ai segni ed ai segnali che da quel momento in poi sentiva 118 d’estate, una notte potevano provenirgli da ogni parte ed in ogni momento; si sentiva come uno che avesse deciso di fare il suo primo bagno in una tiepida giornata di primavera ed al contatto con l’acqua, dopo un coraggioso tuffo, sentisse in ogni centimetro della pelle, l’azzardo di quella decisione, la percezione istantanea d’essere circondato dal freddo, avvolto per intero ed impossibilitato nel contempo ad individuarne precisamente la fonte. Teneva il libro stretto al petto con una mano potendo così sentire il cuore che tradiva, passo dopo passo, la propria insofferenza, battendo ora sempre più forte, in modo profondo, adeguandosi man mano all’incedere che si faceva suo malgrado sempre più affrettato. In fondo alla strada un angolo ottuso spezzava la visuale e mentre i sampietrini del selciato uno ad uno scorrevano sotto le sue scarpe, l’angolo si spianava scoprendo alla sua vista la pietra angolare di un altro edificio a delineare il termine del percorso; ai piedi di questa una fontanella aveva creato una pozza a causa dello scarico ostruito dall’incuria urbana, ed aggirato quest’ultimo ostacolo, si trovò di fronte la mole del palazzo ch’era stato dei Mattei. 119 Paolo Batzella Si fermò così, per il tempo necessario a raccogliere le idee: il palazzo era sicuramente disabitato od adibito ad una qualche attività d’ufficio, chiuso a quell’ora, e le finestre e le persiane serrate potevano solo fare immaginare ciò che dietro di loro si era compiuto. Unica consolazione a quello sconforto, il piccolo bar sull’altro lato della piazza sembrava offrire riparo dal sole ed una sedia dove distendersi a ragionare sul da farsi. - E adesso?- sussurrò tra se osservando il cameriere allontanarsi con l’ordinazione. - Una macedonia grazie- aveva chiesto senza neppure guardarlo in faccia. Si trovava come all’interno di un gigantesco palcoscenico: Palazzo Mattei, Piazza della Gensola sulla sinistra, il ponte sul Tevere nel fondo. Socchiuse appena gli occhi come per mettere a fuoco ciò che accadeva dall’altra parte del ponte: tutto sembrò allora farsi più nitido ed insieme più buio come se una veloce nuvola estiva si fosse improvvisamente frapposta tra il sole e la terra, sempre più buio quando quattro cavalli fermarono la loro corsa sul ciglio del greto di là dal fiume, 120 d’estate, una notte lì dove meglio si può misurare l'isola Tiberina in tutta la sua estensione e da loro sembrò smontare ondeggiando un’oscurità più fitta, che si scompose poi in un gruppo di cavalieri avvolti in ampi mantelli colore della notte. Di qua dal fiume, nella grande sala al piano terra i festeggiamenti erano al culmine. Sul fondo, in un angolo protetto da un tendaggio, una grande botola si apriva su di una scala che conduceva di sotto, alle cucine da cui si propagava il profumo dell'arrosto dei capretti messi in fila a girare sugli spiedi ed ogni tanto giungeva di qua il ridere sguaiato delle cuoche, misto all'odore aspro del grasso che scolava sulla brace. Poco lontano dalla scala, a lato della tenda, cominciava una teoria di tavoli imbanditi ed alcuni tra i commensali, appostati in quella posizione strategica, sembravano essere i più vivaci, applaudendo ad ogni ingresso di portata mentre uno di questi, il più attempato, allungava le mani su di una servetta e questa rideva, cercando di divincolarsi dall’abbraccio e procurando nel contempo disperatamente di mantenere in equilibrio il vassoio che ondeggiava con 121 Paolo Batzella lei; appena più in là, un altro tentava, già trasportato dal troppo vino, di seguire i passi della danza al centro della tavolata mentre la compagnia di guitti, ingaggiati per l’occasione, ben sapendo per mestiere che spesso la realtà supera la rappresentazione, lo lasciavano fare, anzi incitandolo ed assecondandolo, l’avevano praticamente scritturato in compagnia. La scena d’un tratto corse a ritroso, riavvolgendosi come la pellicola di un film, dal tendaggio al banchetto, all’androne, indietro fino al portone che senza aprirsi lasciò passare i miei occhi che come risucchiati da una forza sovrumana, si ritrovarono attoniti a rimirare un batacchio in forma di scimmia che con i piedi reggeva una palla con cui picchiare sul fermo d’ottone. L’avrebbe fatto, pensò, se solo la sensazione di freddo che ora provava non gli avesse reso evidente quella separazione inedita di una parte di sé che invisibile a chiunque, davanti a quel portone stava vivendo un pezzo della propria vita; questo infine gli impedì d’agire, quasi per uno scrupolo nel timore di disturbare. 122 d’estate, una notte Sulla sua sinistra, da oltre il dosso che il ponte getta sul fiume, quattro uomini paludati da capo a piedi come per una notte più fredda di quella, avanzavano decisi mentre i quattro cavalli ciondolavano a capo chino, imbrigliati insieme ad un ceppo infisso all'inizio di esso, annusandosi in silenzio l’umido del muso. - Io vi aspetto qui, disse d'un tratto fermandosi il primo tra loro ad un altro che seguiva, non impiegateci troppoGli altri proseguirono imbracciando gli schioppi e, guadagnando velocemente l'altra sponda, ridevano tra loro mentre quello che aveva dato gli ordini si era appoggiato al parapetto del ponte e guardava ora le acque agitate del fiume, ora di traverso i compari che si allontanavano; e tra questi uno più degli altri masticava l’allegria a denti stretti con la tensione che la sua giovane età. Di qua i capretti cominciavano a sfilare, uno, due, tre; uno, due, tre volte la scimmia del batacchio batté i piedi sul portone: al terzo tocco la vecchia seduta nell'angolo dell’androne si alzò per aprire e subito il portale, spinto con forza dall'esterno la rimandò a sedere lì dov'era. 123 Paolo Batzella Attraverso il portone spalancato la scena ora mi appariva per intero, appena nascosta solo dagli ultimi due uomini che, ancora sulla soglia, mi nascondevano per metà la visuale. Da dietro le spalle di uno di questi potevo però osservare ciò che accadeva: pietrificata dalla reazione di quegli sconosciuti, la donna era rimasta attonita, con le braccia ciondoloni lungo i fianchi, poi, appena i cappucci scivolarono giù dalle teste dei nuovi arrivati, si portò le mani alla bocca come per reprimere un grido tanto giustificato quanto ormai inutile; il primo tra quelli, già al centro dell’androne d’ingresso, con un manrovescio la mise a tacere scaraventandola a terra. Un attimo ancora e con pochi passi gli uomini attraversarono l’atrio che introduceva alla sala ed allora ben altre urla riempirono l'ambiente. Poi uno, due, tre, uno, due tre spari risuonarono nel cervello e boccheggiavo rimuginando sull'epilogo della nota storica e della mia macedonia; boccheggiavo e lentamente sentivo i miei pensieri prendere corpo, diventare parole, imprecazioni di dolore e rabbia miste 124 d’estate, una notte all’odore che solo il sangue sa dare quando lo senti scorrere giù dal ventre ed inondarti le gambe e stupito annusi il suo odore mescolato a quello della carne arrostita che profuma di grasso. Proprio questa sensazione, credo, doveva aver attraversato per un attimo la mente del commensale seduto vicino a quella che doveva essere una sposa mentre la palla di piombo gli attraversava lo stomaco e faceva un certo effetto ora notare il contrasto tra la smorfia dell’uomo e l’indifferenza attonita di Lei. Era tanto bella Lei quanto incredula, immagino, per quella circostanza come se quello che stava accadendo stesse realizzando una possibilità per lei insperata, poi, d’un tratto i suoi occhi ebbero un lampo, spostarono lo sguardo sull’altro lato, cercando sul tavolo qualcosa, un aiuto alla sua follia mentre in un bailamme di voci i candelabri, precipitando dai loro piedistalli uno dopo l’altro, piombavano l’ambiente nel buio. In quegli attimi la sua figura sembrò come danzare nella penombra, portarsi in avanti fondendosi in un abbraccio con chi le era vicino, avvinghiandosi, per aiutare forse o 125 Paolo Batzella per condannare, fermarsi appena il tempo d’un battito di ciglia e quindi ritrarsi, separandosi per sempre, facendosi accogliere dall’oscurità. - La vita di un Mattei per quella di un Mattei – sentii sussurrarmi dentro mentre la campana del vicino monastero di Santa Apollonia batteva le ore e i suoi rintocchi, percorrendo per intero le architravi basse di quella che sarebbe diventata negli anni a venire la sua prigione, arrivavano sino alle orecchie di Olimpia, alla sua segreta ed ai suoi segreti, a lei ed a me. Potevo ora sentire distintamente il bronzo percosso ritmicamente vibrare e scuotere le fibra del mio equilibrio, strappandomi a quella sorta di viaggio della memoria, a quell’incubo pomeridiano senza sonno. Non come un turista attento unicamente a ciò che si aspetta di trovare bensì come un viaggiatore mi ero addentrato in quei luoghi, forse mettendo in conto anche il rischio che sarei potuto non tornare, rapito dalla bellezza della scoperta o vinto dal terrore che l’ignoto può dare. Così mi risvegliavo e già l'amavo, di più, io ero Marcantonio, lo sarei stato, ma se lo fossi non sarei ora 126 d’estate, una notte qui, pensavo, non sarebbe stata mia per la vita, per sempre, come allora, come adesso. E, se vi è capitato mai di giocare con le gocce di sudore che vi imperlano la fronte, fissandovi su di esse, sentendole scivolare tra le pieghe della pelle, allora capireste come quella, al risveglio da quel torpore maligno, fu la mia prima sensazione; un’intera storia era trascorsa con esse nello spazio di una ruga. Solo dopo, ripresomi, distinguevo la faccia buona del cameriere che mi scrutava imbarazzato mentre io altro non riuscivo a fare se non continuare a scusarmi per essermi assopito come se avessi offeso qualcuno; dopo di che pagavo e mi allontanavo col passo affrettato di chi vuole scappare, dimenticare e lasciare che tutti dimentichino. Olimpia od io, pensavo con le spalle già rivolte a quel teatro, uno dei due, era certo, aveva aperto una porta, ed il vento del tempo vi si era incanalato, gemendo, raccontando, sollevando fogli di carta solo per depositarli in un vicolo sperduto dove evidentemente io e solo io, cominciavo a credere, avrei dovuto trovarli. 127 Paolo Batzella Uno strumento ecco, ero stato e mi sento ancora solo uno strumento di una volontà non mia ed era questo ruolo di spettatore di fatti, impotente, più del fatto in se, che mi dava disagio, come se davanti mi fosse passata per intero la mia inutilità, per questo e solo per questo credo, stavo adesso fuggendo quella nuova evidenza. “Camminavo così, ciondolando sulle gambe, passo incerto…” Leggevo l’inizio della nota di chiusa che avevo già scritto e trovavo consonanze, legami, logiche; forse il più era fatto, pensai mentre salvavo il file e tornavo a perdermi nel deserto vermiglio del mio sfondo malinconico; domani l’avrei fatto leggere a Peruzzi e, se gli fosse piaciuto, mi avrebbe lasciato in pace per qualche giorno. Forse l’avrei reso felice e meno angosciato per il suo investimento nei miei confronti, forse, ma che cosa placherà i miei dubbi mi chiedo, io che non riesco a mentire davanti allo specchio, perché è tutto qui in fondo il problema, mi dico, è su quanto si può essere disponibili a raccontarsi frottole; quanta voglia posso avere ancora di convincermi che la vita sia solo una novella, buona da 128 d’estate, una notte leggere e da fare ammuffire poi in uno scaffale dimenticato di una libreria polverosa. Quanta tenacia ancora mi rimanga da spendere per raccontarmi che le nostre azioni in fondo non sono altro che una finzione scenica, un grande affresco teatrale di cui senza saperne il motivo rinverdiamo il colore con sapienti colpi di pennello: ognuno aggiunge un tocco, un nuovo colore che piano diventa crosta e nasconde sempre di più la purezza della trama di cotone che la tela aveva; quanta voglia potrò avere ancora di raccontare storie ad altri e a me stesso? Vedo di fianco alla macchina del gas il sacchetto della spazzatura pronto per essere gettato; aspetterò che faccia notte per scendere dabbasso, aspetterò che gli ultimi ritardatari rincasino, quasi per un pudore igienista o piuttosto per un moto di perbenismo vittoriano, un po’ borghese e sciocco, ma rassicurante sul fatto che nessuno possa vedere la parte peggiore di te. Dunque tra poco, quando il silenzio sarà totale, compirò la mia buona azione da cittadino diligente: getterò la spazzatura. 129 Paolo Batzella Starò lì, ciabatte e canottiera fantasia su bermuda balneari, con la spazzatura in mano e una sigaretta penzoloni; con quell'atteggiamento un po’ snob che non ci abbandona mai. Saremo perfetti: noi che parliamo al plurale maiestatis per dovere verso la storia, e dare a questa la certezza di una nostra citazione, noi che ci spostiamo solo in bicicletta, noi che conosciamo il congiuntivo come il pane ed usiamo il condizionale per non esporci mai più di tanto: ‘non vorremmo immaginare che forse si possa credere che...’ per intenderci: una massa di ipotesi per riuscire a costruire un'affermazione. Starò lì, perfetto, e col sapore dell’umido degli scarichi di fogna che riempiono le pareti dell’arco ancora in gola; sarò il ragazzo di trenta anni prima perso nelle labbra di Paola, o un insignificante mezze maniche perso nei suoi incubi perversi, poco importa, nessuno me ne chiederà mai conto. Sono io in fondo, mi dirò, solo un sognatore per vocazione che osserva rapito il cassonetto dell’immondizia davanti a sé: sarà stracolmo e così sistemerò il mio sacchetto con cura lì accanto e rimuginerò sul fatto che, ahimè, oggi come sempre siamo decisamente fuori posto. 130 d’estate, una notte Annuirò col capo a questa considerazione, già mi vedo, con un sorriso divertito stampato sulle labbra e mi dirò che, a questo aspetto del problema penserò domani. Domani, quando mi sveglierò senza essere riuscito a dormire, anzi, forse dopo aver dormito troppo, fino a giorno fatto, di un sonno senza sogni, in un agitato torpore che non rilassa, che mi farà svegliare con le giunture che sembreranno fatte di legno, con i pensieri della sera prima che continueranno a girare nella testa con un rumore di ferraglia arrugginita, non digeriti. Suoneranno alla porta domani ed in mutande andrò ad aprire; sarà il mio Rabbi, è sicuro; così chiamo l'inquilino che abita l'appartamento sotto al mio, perché non mi viene nulla in mente di più antico nella nostra cultura di un vecchio ebreo, niente di più saggio aggiungerei; a lui sono affezionato come lo si può essere solo ad una vecchia madre, come quella infatti anche la sua età è indefinita ed anche il sesso delle sue rughe pone seri dubbi; vive lì da sempre, credo, forse ancor prima che questo palazzo venisse costruito, forse da quando la Sinagoga era su questa 131 Paolo Batzella sponda del Tevere, in piazza di S. Cecilia e questo quartiere era il ‘fosso’, il rione dei giudei. Ha gli occhi neri il mio Rabbi, profondi come pozzi ed acquosi come occhi che hanno visto molte cose. Magari questa sera non mi avrà visto passare sul pianerottolo, come sempre accade, più o meno alla solita ora, ma so che, discretamente, aspetterà la mattina per salire a sincerarsi che non stia male. È gentile il mio Rabbi ed è l'unica compagnia di cui tenga conto, forse per questo suo atteggiamento non peloso ma anche, non posso negarlo, per i suoi moti di rimprovero, che puntualmente mi snocciola, interpretando, come fossero un libro aperto, i miei pensieri, leggendo nei tratti del mio viso ciò che il giorno vi ha lasciato. - Tu non vivi, mi dirà, non hai coraggio; nei tuoi occhi non vedo mai nulla di ciò che hai vissuto; tu osservi ma non vivi-. E` pedante il mio Rabbi. Mi darò una riassettata e lo trascinerò di sotto, nel primo bar d’angolo, quello da cui si indovina, sbirciando, la grandezza della Piazza, appena dietro l’angolo, facendotela 132 d’estate, una notte sperare ancora più grande di quanto non sia, immensa, tanto da poterti perdere al suo interno solo se volessi, tanto da passeggiarci senza necessariamente essere riconosciuto, incontrato, salutato, accogliente come un utero, che è tutto il tuo spazio ma grande abbastanza da contenere una vita intera. Avrò fame come chi avrà fumato troppo e bevuto molto trascorrendo la notte tentando di definire ciò che sta crescendo nella sua testa ed un dito dopo l’altro il rum conservato in frigo per le grandi occasioni sarà solo un rimpianto. Avrò fame e spererò allora come mai e sempre che una sfogliatella possa farlo tacere, il mio Rabbi, almeno per un po’. Avrò bisogno di respirare e lo farò e, mentre sarò intento ad inzuppare il secondo lievito nel cappuccino, un gruppo di turisti ci passerà vicino, sull'altro marciapiede e mi osserverà lì seduto come se facessi parte di una cartolina o, meglio, di una stampa d'epoca, ingiallita e un pò sbiadita dal tempo. 133 Paolo Batzella ‘Molto originale’, mi sembrerà esclamare il più stupido tra loro mentre mi mette a fuoco con la Nikon: sorriderò, come faccio di solito, rendendolo felice ma intanto ripenserò alle parole del Rabbi. Si, ha ragione, penserò, non posso continuare così all'infinito poiché anche l'eternità alla fine avrà pure un limite e sarà meglio per me escogitare in fretta una qualche soluzione per rompere questo mio stato d'abulia. Avrà finito la pasta il mio Rabbi e, pettinandosi via con le dita le briciole di dolce dalla barba, darà voce al mio fastidio. - Sei come loro, osserverà indicando con un movimento delle sopracciglia arruffate il gruppo di ondivaghi migratori, odi tanto questa razza di turisti organizzati che, come orde di cavallette, non fanno altro se non sopravvivere al raccolto che devastano ma tu, come loro, sopravvivi appena ai fatti che attraversano i tuoi giorni e questi finiscono per scorrerti addosso come una doccia consumata in un albergo ad ore -. Allora e solo a quel punto gli urlerò il mio basta, lasciando affondare l'ultimo boccone di lievito nel liquido ormai 134 d’estate, una notte freddo; la colazione mi sarà andata di traverso grazie a lui ma, se non altro l'avrò ammutolito e senza neppure sollevare lo sguardo dalla pasta che appesantita affogherà nella tazza come risucchiata da un piccolo gorgo sul fondo, percepirò il suo silenzio. L’osserverò rattristarsi, il mio Rabbi ma poi, come chi innumerevoli volte in innumerevoli vite, è stato zittito, vedrò i suoi occhi affilarsi di nuovo pronti a tagliare come rasoi scavando nel tempo e cercare a mio uso e consumo, storie che diventano parabole. Forse avrà la forza ancora di raccontarmi quella di un carnevale dei primi del settecento, quando i cattolicissimi gentili inscenarono la rappresentazione mascherata del funerale di un rabbino all'Ortaccio, il vecchio cimitero, nonostante le proteste degli ebrei. -Era Marzo mi pare, comincerà a recitare, e faceva freddo quel giorno anche se il sole precoce di quella primavera aveva favorito anzitempo la fioritura della mimose. Miriam era bellissima ma vestita, si sarebbe detto, unicamente della sua tristezza: il suo Abram non c’era più, l’avrebbero seppellito tra poche ore ma lei avrebbe voluto 135 Paolo Batzella che fosse già stato così da poter restare sola, lei e ciò che di bello di lui le restava, i molti anni di vita trascorsi insieme, anni buoni, altri meno ma sempre pieni di quella voglia di vivere che la speranza può dare; meglio, con la certezza che domani sarebbe potuto essere solo migliore per lui, per lei e per la sua gente che lui confortava come un padre. Io le ero vicino come sempre e ciò che mi fece più male in quella circostanza non fu la morte di un amico o il dolore dell’amica ma la stupidità che vidi rappresentata sotto i miei occhi: contro di essa non c’è lotta, non battaglia che possa essere vinta; si rimane come schiantati dalla banalità che ti circonda e sembra sommergerti infinita, annichilente. Oh sì certo, continuerà, noi protestammo ma invano perché come qualche volta accade, è meglio avere a che fare con la cattiveria che con l’idiozia. Quante volte l'avrò ascoltata la sua arringa e sempre era come se ci fosse stato di persona, il mio Rabbi, e comunque a me faceva piacere crederlo. - Non tutto può essere gioco, non tutto una farsacommenterà puntualmente concludendo la storia ed allora lì, immobili, mentre i turisti con le nikon, girato l'angolo, si 136 d’estate, una notte avventeranno sulla mia Piazza, verso Santa Maria in Trastevere, gli darò le sue ragioni, prenderò i miei torti e gli dirò che l'indomani sarei partito, si, domani Ulisse avrebbe cominciato a vivere le cose reali, prometterò, fuggendo questa condizione come di sogno perenne; l'indomani avrei preso il coraggio tra le mani e attraversato le Colonne d'Ercole, giù, in fondo al rione, a Porta Settimiana, quella che guarda a nord. Sì, domani l'avrei fatto, ripeterò, ma che per ora mi lasciasse riposare, poiché crescere per alcuni può essere una fatica enorme. Così, sì, così gli dirò domani. fine 137 Paolo Batzella INDICE Primo................................................................................3 Secondo..........................................................................17 Terzo ..............................................................................24 Quarto ............................................................................35 Quinto ............................................................................47 Sesto...............................................................................56 Settimo ...........................................................................61 Ottavo.............................................................................84 Nono.............................................................................100 Decimo.........................................................................117 138