d’estate, una notte
di Paolo Batzella
e-book4free.com 2007
“...in fondo la fine di ogni giorno è nota ed
infine tutto è già stato e basta solo aspettare
che i fatti appaiano evidenti ai nostri occhi
per sostenere che siano accaduti.” (Shakespeare,
Giulio Cesare)
PRIMO
“Così, sì, così gli dirò domani, dirò che non avrà di che
preoccuparsi e che sarei riuscito a rispettare i termini del
contratto”.
Se solo la notte lo avesse assistito quella notte, avrebbe
chiuso questa storia, rimuginava pensando alla reazione di
Peruzzi mentre la chiave, liberando la toppa, faceva scattare
con un sordo schiocco metallico la serratura del portone;
anche perché se, quando telefonerà, non avrò da offrire
altro che promesse chiederà in cambio la mia testa ed avrà
tutte le ragioni per pretenderla, concluse immaginando il
timbro della voce dell’amico editore.
Spinse in avanti l’anta con una spalla, spostando tutto il
peso del corpo su una gamba e, schiacciando in questo
modo la busta con la spesa contro lo stipite bloccato, si
infilò nello spiraglio sufficiente appena a scivolare
nell’ombra fresca dell’androne.
Sbirciò con la coda dell’occhio verso la cassetta della posta:
c’era ancora un po’ di spazio, pensò, ancora qualche giorno
quel contenitore avrebbe retto alla furia comunicativa del
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Paolo Batzella
suo prossimo; era una vecchia rastrelliera di legno con nove
cassette poste a piramide: quattro, tre, due, e decorata nella
parte superiore da uno svolazzo di legno intagliato che
culminava in un rosone da cui ormai mancavano diversi
petali; la sua era quella sulla destra della fila di mezzo ed
anche se a lui piaceva pensarla diversamente, difficilmente
anche solo altre due o tre missive sarebbero riuscite a
riposare al suo interno.
Più probabile che il postino, alla prossima occasione, ormai
abituato
a
quella
situazione
di
perenne
vacanza,
cominciasse a disporre la posta all’in piedi, di dietro
l’altarino di legno, sapendo che, come aveva verificato più
volte, dopo un paio di giorni in quella sistemazione,
qualcuno avrebbe provveduto a svuotare il tutto, togliendo
anche l’eccesso impropriamente esposto al pubblico
giudizio.
Ulisse era fatto così: sollevato come utente dall’onere di
tener conto delle periodiche scadenze di pagamento, cui la
sua banca provvedeva ormai da anni, chi mai avrebbe
potuto avere il diritto di comunicargli alcunché? Non certo
il suo capoufficio che oramai l’aveva certamente dato per
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d’estate, una notte
disperso in chissà quale luogo sperduto del pianeta: la sua
aspettativa si era agganciata ai periodi di ferie maturati
negli ultimi due anni, ed erano mesi che non si faceva più
sentire con i colleghi; il suo editore, forse, ma il semplice
fatto di aver pubblicato un romanzetto di un certo successo
non giustificava certo che questo gli chiedesse conto dei
progressi del secondo, che pure si era impegnato a
consegnare entro la fine del mese.
Era uno scrittore per caso lui, non un professionista, e
questa seconda serie di novelle poi, cui stava lavorando,
sembrava girare e girare tra il suo cervello e lo stomaco
come un rigurgito dopo un pasto consumato di fretta e con
grande appetito; l’acidità della digestione non aveva
lasciato il tempo di assimilare anche la sensazione di
piacere, di sazietà che il cervello trasmette.
Tutto era, ma senza ancora decidersi a definirsi, e le idee
oscillavano tra qualche buona intuizione e alcune note
datate ed archiviate a suo tempo nei cassetti per ogni
evenienza.
Di fatto erano settimane che provava a vomitare qualcosa di
decente ma il rigurgito rimaneva tale riuscendo a produrre
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Paolo Batzella
tutt’al più nel corso dei giorni una quantità di appunti scritti
alla rinfusa su fogli d’ogni genere, spesso in condizioni
d’emergenza e che al momento intasavano le tasche del suo
giubbotto non meno della sua cassetta della posta.
Diversamente da quella, queste tra poco sarebbero state
svuotate; quella sera, aveva deciso, l’insieme delle parole
scritte avrebbero formato sotto i suoi occhi una collinetta di
carte sul piano della scrivania: un cumulo informe nel quale
avrebbe tentato di mettere ordine cercando di imbastire il
canovaccio almeno di una prima storia.
Aveva pensato a qualcosa che ruotasse intorno ad una
vicenda da ambientare nel passato, nel Rinascimento
romano forse; un’ambientazione intrigante ma soprattutto
piena di intrighi.
Tuttavia l’interesse per i visi di ogni giorno, la curiosità per
i comportamenti del suo tempo gli impediva di estraniarsi,
di farsi attore in un passato che pure lo affascinava,
circuendolo con il suo profumo di ritmi perduti, a lui certo
più consoni, di scansioni temporali più lente delle attuali, ed
allora veniva come rapito da una sorta di nostalgia, quasi un
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d’estate, una notte
rimpianto per una possibilità di percezione delle cose che
oggi riteneva negata più che perduta.
A causa di questa perdita, in verità, spesso si sentiva
travolto dai fatti, incapace di fissare il tempo e con esso le
idee, anche quelle che gli sarebbero servite per onorare gli
impegni presi con quel poveraccio cui era capitata la
disgrazia, rimuginò, di pubblicare un suo libro.
Considerò, mentre attraversava l’androne, se non fosse
semplicemente afflitto da una qualche forma di misantropia
cronica, se questo suo cercare soluzioni dove non possono
essere, servisse solo a bearsi del non trovarle, e questo non
finisse in fondo per rafforzare un comportamento ai limiti
della
patologia,
un
atteggiamento
incontrollato
ed
incontrollabile, o più semplicemente, questo tratto del suo
essere trovasse giustificazione in quella convinzione un po’
datata secondo la quale in un mondo in cui i governi sono
tutti cattivi e gli uomini sono tutti buoni, ai comportamenti
di questi ultimi deve sempre corrispondere un motivo
sufficiente a spiegarne le ragioni.
La sua in questo caso sarebbe risultata una patologia da
formazione culturale, contratta probabilmente in giovane
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Paolo Batzella
età a causa delle abituali frequentazioni di ambienti malsani
dove si vaneggiava di leggi morali e cieli stellati,
dell’immaginazione al potere.
Ma no, è che la sua era proprio una scelta consapevole e
non indotta, concluse scrollando appena il capo mentre
traguardava lo spettacolo offerto dalla rastrelliera appesa.
E’ che riteneva che comunicare sensazioni affidando queste
alla forma scritta di una lettera fosse una contraddizione in
termini: riteneva che il valore di una sensazione, per quanto
durevole nel tempo, fosse comunque legato al momento in
cui la si provava e rifletteva su che senso potesse avere
leggerne una descrizione quattro o cinque giorni dopo;
avrebbe forse sì, fatto apprezzare una vicenda, ma in quanto
già accaduta, e dunque tutt’al più come raffigurazione ed il
pensiero del lettore immediatamente dopo si sarebbe rivolto
al come, nel frattempo, poteva essere mutata la situazione
stessa.
D’altra parte poi questo sforzo mentale sarebbe stato del
tutto inutile visto che solo il passato era in quell’inchiostro
e sarebbe stato inutile pretendere di indagare su un presente
lontano nello spazio; un’attività mentale questa, che
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d’estate, una notte
sarebbe risultata del tutto ridicola pur nel suo onesto
tentativo di instaurare un qualche legame simpatico col
mittente, e dunque da aborrire come inutile, superflua come
d’altronde gli appariva la maggior parte delle attività
umane; da queste vacuità si sentiva perennemente
circondato, talvolta assediato e si ritrovava così ad
osservare spesso le scene della vita reale da una posizione
di spettatore, colpito dalla fatica che questi impegni
sembravano comportare per la totalità del suo prossimo.
E’ che ai suoi occhi la società umana girava intorno a lui ad
una velocità impropria e per di più caoticamente: ognuno,
distintamente dal tutto, veniva giù come una molecola
d’acqua per un torrente di montagna, giù a capofitto tra
sassi e sbalzi in una gara forsennata per quella virtuale
cateratta, in una rincorsa precipitosa di congiunzioni e
separazioni, giù a perdifiato e tutto perché poi? per
ritrovarsi inevitabilmente nella piana, mescolato nel lento
scorrere del fiume, confuso in un lago senza sbocchi, di
norma e nella migliore delle ipotesi disciolto infine nel
grande mare oceano.
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Paolo Batzella
Dunque, sentenziava, tutto sarebbe rimasto così come lo
vedeva ora, con un depliant pubblicitario più grande degli
altri che già faceva capolino oltre lo sportellino di vetro,
coprendo in parte con la sua mole, alcune buste bianche, ed
una gialla che, piegata in due dalla forza dell’impiegato
postale, aveva fatto quasi accartocciare un’altra lettera
sistemata appena sotto e nel cui angolo si intravedeva il
francobollo, non italiano gli sembrò, quasi per una
percezione: niente di più e nulla certo che meritasse
un’indagine più approfondita.
Tra un paio di giorni, se fosse arrivato il tempo, armato con
una busta gigante del supermercato, a tempo debito piegata
e conservata per la bisogna, sarebbe sceso nell’androne e
avrebbe compiuto l’opera.
Pensieri, amori, passioni, idee, suggerimenti e preghiere,
inviti e richieste, tutto e tutti insieme sarebbero finiti nel
sacco, “da un sacco ad un sacco, tutto inizia e finisce nello
stesso luogo, nello stesso modo” avrebbe pensato mentre
con la massima imparzialità possibile avrebbe selezionato
gli arrivi.
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d’estate, una notte
Tutti sarebbero passati per le sue mani, questo è certo,
nessuno sarebbe stato trascurato, che so, per una
prevenzione, per un semplice preconcetto: dapprima gli
avvisi pubblicitari, poi le promozioni dei vari saldi quando
era il periodo, quindi le comunicazioni di pubblica utilità;
allora avrebbe probabilmente scoperto il motivo di quella
doccia mancata un paio di settimane addietro: il laconico
avviso di interruzione del servizio idrico avrebbe riportato
quasi certamente una data successiva all’evento ed egli
avrebbe gongolato nel veder confermate le sue teorie su
questa incongruenza spazio temporale che ci governava:
una melassa dove le giustificazioni formali valgono più dei
fatti stessi; infine le lettere vere e proprie, i pensieri: nome,
cognome e indirizzo: dalla grafia sarebbe risalito all’autore,
avrebbe a questi dedicato un momento e con rigore, senza
aprire la busta, avrebbe cassato il prodotto di altri come se
fosse il suo, gli apparteneva d'altronde, e così come tutto il
resto, ogni cosa sarebbe finita nel macero.
Il servizio in fondo si era compiuto, a lui sarebbe rimasta
memoria che il tale od il tal altro gli aveva dedicato un po’
di sé, lui aveva ricambiato e tanto sarebbe stato scritto nella
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Paolo Batzella
storia minore delle piccole cose, in un angolo s’intende, da
dove forse si sarebbe potuto per necessità ripescare e citare:
“sì, ho ricevuto la tua” e ciò sarebbe stato sufficiente, chi
dice mai “ho letto al tua” e quasi nessuno normalmente ti
chiede conto del contenuto.
Tutto questo scorreva nella sua mente in quell’attimo, una
sbirciata, appena quattro passi, un battito di ciglia,
l’androne era finito.
Meravigliosi palazzi del seicento, alti soffitti, spesse pareti
a proteggere dai rumori del mondo, ma scale ripide e niente
ascensori; al secondo pianerottolo avrebbe preso fiato ed
affrontato l’ultima rampa, un poco più in buono stato delle
prime due, la cui maggiore usura aveva trasformato la
compattezza del porfido dei gradini in un ricordo e le
piccole conche creatisi al centro di essi in una
testimonianza dell’andare dei piedi.
Anche le pareti, mano a mano che si saliva, risultavano
meno danneggiate, certo migliori del tratto fino all’interno
due al primo piano: un appartamento quello sempre in
affitto al miglior offerente e dove mai nessuno aveva
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d’estate, una notte
vissuto abbastanza a lungo da lasciare memoria del proprio
volto.
Appena qualche mese bastava normalmente perché gli
inquilini ne avessero abbastanza delle vecchie crepe che
disegnavano l’ingresso dipanandosi come una regnatela
lungo il controsoffitto che forse prima dell’ultima guerra
qualcuno aveva pensato bene di installare per modernizzare
l’ingresso e che ora risultava un’oscenità per chiunque, o
della grossa macchia d’umidità che stagionalmente
appariva nel fondo subito al di sotto di una serie di
vetrinette che servivano a dar luce al mezzanino.
Da sempre, a sua memoria, con le prime piogge l’intonaco
esterno tratteneva come una spugna un po’ di umidità che
veniva poi distribuita amorevolmente pian piano all’interno
durante tutto l’inverno.
Ma il colpo di grazia per il nuovo arrivato giungeva con la
scoperta della presenza del vecchio topo del palazzo.
Anche lui aveva avuto occasione di incontrarlo più volte
negli anni e, per intenderci, non si stava parlando di un
volgare topo di fogna, no, Ercole era un autentico ratto
nero, certo uno dei pochi sopravvissuti all'invasione dei
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Paolo Batzella
norvegesi che ormai infestavano la città e l'intero
continente.
Aveva una sua dignità Ercole, ne era convinto, non fosse
altro per l’ineffabilità con cui si fermava, inchiodato
nell’angolo in cui lo incrociavi, aspettando che tu passassi
oltre: non ti guardava neppure, ne tanto meno ti ‘puntava’,
pronto magari ad aggredirti, no, lui si fermava e basta,
cercando probabilmente con l’immobilità d’ottenere anche
una sorta di invisibilità, se ne stava lì a fissare con lo
sguardo un punto lontano, infinito per le sue proporzioni,
certe volte sembrava chiudesse persino gli occhi che, forse
pensava, avrebbero potuto tradirlo, denunciando una
presenza viva ma di più, sapendo bene che il battiscopa blu
notte delle scale l’avrebbe protetto, vi si appiattiva contro
mimetizzandosi, immobile ed aspettava così che passassi
oltre.
C’era un che di nobile nel suo comportamento: non ti
lasciava strada ma neppure imponeva la sua, semplicemente
sembrava ignorarti, considerandoti uno di passaggio,
appunto;
lui
sarebbe
rimasto
invece,
lui
sarebbe
sopravvissuto ancora ad uno, due, infiniti affittuari che in
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d’estate, una notte
effetti, confondendo il timore col ribrezzo, svanivano nel
nulla dopo il secondo incontro e, quando l’ultimo di turno
avesse chiuso il portone dietro le ultime scatole del
trasloco, lui avrebbe sentito l’uscio chiudersi, sfumare il
calore della lama di luce ed avrebbe allora aperto gli occhi
ancora su quel mondo tutto suo, fatto di scarpe enormi e di
grandi animali vocianti e rumorosi, che impiegano energie
ciclopiche per fare un nonnulla, come portare su la borsa
della spesa: le buste in una mano, la cartella dell’ufficio
nell’altra e le chiavi di casa strette tra i denti e con ancora le
energie
sufficienti
per
masticare
con
l’eventuale
coinquilina, incrociata casualmente ed oberata anch’essa
altrettanto,
chissà
quali
amene
considerazioni
meteorologiche.
Ecco, era arrivato: posò la busta, si tolse le chiavi di bocca
e rapidamente cercò, tra le tante inutili che si portava
appresso, quella giusta ed operando quindi come da
manuale un attimo dopo l’uscio era aperto, lui dentro e
nuovamente nella posizione iniziale mentre con un
collaudato colpo di tacco richiudeva la porta lasciando
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Paolo Batzella
dietro si sé d’un colpo il pianerottolo, le scale, l’umidità, la
posta ed Ercole: era a casa.
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d’estate, una notte
SECONDO
Era rientrato, pensava il Rabbi; da dietro lo spioncino i suoi
occhi vedevano il grosso ratto muoversi e la penombra farsi
buio di nuovo, privata d’un tratto del rumore che la
presenza umana produce.
Il suo ragazzo era tornato chiudendo l’ennesimo giorno di
quella sua vita, a suo parere un po’ vigliacca; questo
pensava prendendo fiato e cercando di cancellare
l’apprensione che dal profondo sempre lo coglieva verso
sera quando, non sentendolo rincasare, cominciava ad
agitarsi ed iniziava allora istintivamente a misurare il
corridoio con i passi, ciondolando tra le persiane chiuse e lo
spioncino della porta, misurando così anche i suoi metri di
libertà come fanno le fiere nelle gabbie degli zoo, contando
in passi i minuti che passano in attesa di qualcosa che deve
accadere: così lui aspettava che il suo ragazzo crescesse e
che, rimossa la sporcizia dalle piume, iniziasse a battere le
ali, cominciasse a volare.
Infiniti ed inutili passi i suoi perché, quando infine lo
intuiva arrivare, indovinandone l’andatura dalla strisciata
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Paolo Batzella
delle suole sui primi gradini, puntuale ne intravedeva dallo
spioncino la figura pesante, ingombra di considerazioni
fatte di melassa, invischiata in tortuosi pensieri che non
avrebbero portato a nulla ma sarebbero unicamente serviti
secondo lui, a dargli l’illusione di vivere. Allora il sorriso
amaro che vedeva passare attraverso campo visivo rendeva
evidente la feroce voglia di quel ragazzo di difendersi da
tutto e tutti, come se pensasse che il mondo intero non lo
meritasse, come se la stessa umanità gli fosse estranea ed
ogni motivo fosse valido a quel punto per chiamarsi fuori.
Il suo ragazzo era un vigliacco, si scopriva a constatare il
Rabbi e questa considerazione ogni volta lo irritava prima
ancora che rattristarlo ed allora gli tornava alla mente
quando da bambino si divertiva a sbirciare attraverso i fori
che qualche chiodo arrugginito aveva lasciato nel portone
del
ghetto:
attraverso
quello
osservava
la
stessa
vigliaccheria: allora era abbigliata con le divise dei
cattolicissimi guardiani, ora si ammantava del sapere laico:
entrambe, pensava, poggiavano sulla stessa presunzione di
sapere: proprio questa arroganza era secondo lui, il tratto
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d’estate, una notte
principale dell’animo del suo Ulisse e questo gli lasciava in
bocca il gusto stucchevole del già visto.
Gli pareva viceversa che la propria giovinezza avesse avuto
un sapore diverso, quello che deriva dalla curiosità
incondizionata, forse anche perché, riconosceva, gli anni
conditi con le spezie dei ricordi più lontani possono
risultare avventati ma mai sono banali nella memoria.
Quante volte aveva esercitato quel suo diritto alla curiosità,
alla scoperta, anche quella sera in cui avevano deciso di
infrangere le barriere del recinto che pochi anni prima, gli
pareva di ricordare, gli uomini di Papa Paolo avevano eretto
per altri uomini.
-
Su coraggio David, questo è il momento buono –
-
Se mio padre mi scopre stavolta mi batte –
-
Sei il solito codardo, vieni Miriam, lasciamolo qui-
-
No, no, eccomi, voglio vedere anch’io cosa c’è lì fuori.
Di fianco ad una legnaia, giusto a ridosso della casa della
vecchia
Rachele,
avevano
nei
giorni
scavato
un
nascondiglio, meglio, un cunicolo che, incuneandosi in
mezzo ai ciocchi di legna, terminava cieco su delle assi
malconce con cui i gentili avevano chiuso il vicolo.
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Paolo Batzella
In un paio di settimane di lavoro avevano rimosso una delle
assi della recinzione che poi, risistemata in modo posticcio,
aveva atteso come loro il momento giusto per essere
liberata, ed ecco che alla fine il gran giorno era arrivato.
Se li avessero scoperti, era certo, oltre alle botte dei gentili,
avrebbero potuto contare anche sulla razione dei rispettivi
genitori, ma la tentazione era troppo forte e nulla allora li
avrebbe fermati.
D'altronde era inverno inoltrato e tra il tramonto e la povera
cena che li aspettava c’era ancora spazio per un poco
d’avventura.
Miriam era bella oltre che curiosa e si fidava di Abram più
di chiunque altro al mondo: loro erano i suoi due migliori
amici ma in più per Miriam lui avrebbe fatto qualsiasi cosa
ed il suo cuore sembrava voler schizzare fuori dal petto
ogni volta che lei gli rivolgeva una parola, anche solo per
chiamarlo.
-Andiamo David, lo incitava la ragazza, non creare
problemi- E’ il solito ritardatario, se ci pescano sarà per colpa suainsisteva l’amico.
20
d’estate, una notte
Come riusciva a pronunciarlo, pensava tra sé, sulle sue
labbra il nome acquistava una musica, una dolcezza, come
se avesse voluto dirgli: “sono tua David e vorrei che tu fossi
mio” e assaporando per un attimo le note di quella melodia
si infilò nel cunicolo.
- Eccomi, eccomi, non urlate e cerca di non crearli tu i
problemi, Abram, hai da ridire sempre su tutto –
Poco dopo l’asse cedeva sotto una piccola pressione ed il
vicolo dei Cenci si apriva davanti ai loro occhi, giù fino al
gomito oltre il quale il mondo si sarebbe reso disponibile ad
ogni loro desiderio, piegato al loro volere.
Più volte in seguito avevano percorso lo stesso sentiero
addentrandosi in quel mondo che al crepuscolo si sveglia ed
abita solo la fantasia dei ragazzi: bettole stracolme di
umanità ubriaca, angoli dove vecchie baldracche si
offrivano per poco o vendevano altre per poco più, signori
divertiti e plebe petulante pronta all’elemosina o al coltello
a seconda delle circostanze o per appena un vezzo spacciato
per offesa: nei chiaroscuri della sera, ogni oggetto, ogni
presenza si colorava di tonalità irreali, tutto assumeva un
fascino ignoto e dunque per loro ancora più intrigante.
21
Paolo Batzella
Solo col tempo si sarebbero resi conto che gli abitanti che
vivevano lì fuori non erano poi molto dissimili da quelli che
abitavano all’interno del recinto, semplicemente i primi
penzolavano tra i rami più alti degli alberi e potevano,
volendo, guardare dall’alto in basso i loro vicini, ma nulla
di più: animali quelli, animali questi.
Quante volte ricordava di aver cercato negli anni di
comprendere il motivo di quello stato di cose, di quella
separazione illogica, quante volte la sua ricerca era andata
delusa finché alla fine si era fatto una ragione del fatto che
ragione non c’era.
Certo, all’inizio era stato doloroso realizzare il dato ma poi,
piano piano, la rivendicazione di questa ignoranza, il
coraggio di questa semplice consapevolezza aveva preso il
sopravvento sulla delusione ed aveva dilatato il suoi spazi
ed il suo tempo tanto da fargli superare i limiti fisiologici
della stessa vita.
Chissà da quale ramo penzolava il suo ragazzo, si chiedeva
rispondendosi subito che già qualcosa questo sarebbe stato:
purtroppo invece aveva l’impressione che quel figliolo se
ne stesse lì, in disparte, poco fuori dalla mischia della vita,
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d’estate, una notte
ad osservare le fronde mosse dal vento beandosi del fatto
che i suoi piedi fossero ben piantati in terra, cosi che il
vento, soffiasse o meno, nulla avrebbe potuto turbare della
sua fermezza d’opinione, dei suoi convincimenti retorici
pieni di vuoto.
Avrebbe voluto e dovuto essere quel vento, pensò, e
soffiare talmente forte da riuscire a scuotere almeno un
poco la sua coscienza intorpidita, tanto rabbiosamente da
scoperchiare con l’impeto dell’uragano il tetto di quella
presunzione, di quella casa di pietra che, come un’anima
dalle persiane chiuse, non era mai stata riscaldata dalla luce
del giorno.
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Paolo Batzella
TERZO
All'interno, la timida luce del lampione sospeso nel vuoto
tra i palazzi, insinuandosi tra le doghe di legno color verde
delle persiane accostate, tagliava l’aria come una lama,
proiettando sul soffitto lunghe piste opalescenti; nel
chiarore si poteva indovinare la porta della cucina aperta sul
fondo dell’ingresso; appena prima, spostata di lato, dietro
un paravento montato su d’un telaio color noce e decorato
con motivi floreali di gusto vagamente orientale, stava una
grande poltrona che, sistemata così, risultava disposta al
centro dell’ambiente, dividendo gli spazi e cercando tra
questi una linea di movimento che si allungava con una
gigantesca scrivania e terminava con una bella libreria.
Dall’angolo buio formato da questa con quella arrivava un
chiarore: fece alcuni passi a memoria nella penombra fino
alla poltrona, scavalcando le due ciabatte che ricordava
aveva lasciato abbandonate lì quella mattina; posò allora la
spesa addossando la busta ad uno dei braccioli e da questa
rotolò una mela, rimbalzò sul pavimento e con un moto
improbabile la circumnavigò; seguendo quella ma senza
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d’estate, una notte
curarsi di raccoglierla, virò verso la fonte di quella
anomalia: cliccò sul mouse del pc che aveva dimenticato
acceso.
ORE
12.37
E’
ARRIVATA
NUOVA
POSTA,
LEGGERLA ORA, domandava l’idiota.
Cliccò: SMILE SESE, SE NON TI CIATTO IO
ASPETTEREI IN ETERNO.
APPENA SVEGLIA HO PENSATO A TE.
SEI CATTIVO SESE PERO’ SICCOME TI VOGLIO
BENE TI PERDONO.
SE TU STAI BENE E’ BENE, IO STO BENE.
IERI SONO ANDATA A TROVARE… BEH, TANTO
NON TI RICORDERESTI DI LUI, IL TASTIERISTA
CHE SUONAVA CON IL GRUPPO A MANCESTER,
QUELLO CON LA FACCIA TONDA.
E’ STATO MOLTO MALE, PARE DELLA ROBACCIA
CHE HA PRESO.
L’HO VISTO, STA’ MEGLIO.
IL MIO PENSIERO E’ CON TE, IL MIO CUORE CON
CHI TU SAI.
ORA DEVO SCAPPARE.
25
Paolo Batzella
UN BACIO, SMILE’.
A PROPOSITO MI DIMENTICAVO DI DIRTI CHE
SARO’ A ROMA DOMANI NEL POMERIGGIO, VOLO
AZ321.
MI VIENI A PRENDERE VERO? GRAZIE.
SMILE SMILE.
Paola era forse l’unica persona che potesse chiedergli di
montare in macchina per andarla a recuperare con un
preavviso di una manciata di ore; lei transitava negli
agglomerati urbani come era passata nella sua vita molti
anni prima, così, con una semplicità che sconfinava con
l’indifferenza, però senza cattiveria, anzi si sarebbe potuto
dire con gioia, questo era ciò che di lei gli era rimasto: una
sensazione di spensieratezza genuina che non ricordava più
precisamente ma di cui percepiva ancora l’odore appena
l’incontrava, quello della sua risata, allegra, immediata,
pulita come il suo alito.
Per questo si sentiva forse un po’ debitore, a causa di questa
sensazione che si ripeteva ogni volta o per quell’unica
volta; chissà, poi, certo, negli anni a venire da allora, altre
avevano conosciuto i suoi pensieri, altre avevano diviso le
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d’estate, una notte
sue ore ma indistintamente come Paola d'altronde, erano
state tutte delle uniche volte; mai nulla della passione si era
sedimentata, e stratificandosi col tempo, era diventata un
punto d’appoggio come una stalagmite che cresce
lentamente ma in modo costante fino a diventare visibile.
Tante uniche volte per ognuna delle quali in verità viveva la
sua condizione di onesto debitore, pronto alla solvenza a
semplice richiesta e speranzoso unicamente che mai tutte
insieme gli presentassero il conto.
Forse Paola più di tutte le altre percepiva questa sua
condizione e pur senza malizia, sentiva che avrebbe potuto
chiedergli qualsiasi cosa nella certezza di ottenerla.
L’ultima volta che era stato costretto ad usare la macchina,
fotografò mentalmente, era stato l’anno addietro ed allora
non aveva avuto il tempo di perdersi in questi ragionamenti:
Paola era di passaggio in città e per un qualche motivo,
almeno per lui, inspiegabile, aveva deciso di venirlo a
trovare o meglio, uno sciopero, ricordava ora, l’aveva
bloccata all’aeroporto e nel bisogno aveva deciso che la sua
compagnia era quella giusta.
27
Paolo Batzella
Fu un’esperienza terribile per il suo umore cui venne
richiesto in quella circostanza un adeguamento repentino
alla nuova situazione, al nuovo scenario entro cui la
giornata si sarebbe snocciolata in ogni suo rito, dalla scelta
dell’abito più consono da indossare per l’occasione, alla
selezione della trattoria più adatta a soddisfare le nuove
necessità alimentari: che so, carne invece di pesce, stufati
piuttosto che ricche insalate, dolci al cioccolato al posto di
gelati in macedonia: far fronte all’incombenza, valutò in
seguito, gli era costato un anno di vita.
Era autunno gli pareva, forse la fine dell’estate, certo
pioveva, come ora, ma non un temporale, piuttosto un
anticipo di ciò che sarebbe stato l’inverno: pioggia grassa e
rada le cui gocce a contatto col selciato rovente subito si
dilatano in chiazze sproporzionate che in breve tempo
danno l’impressione ma solo l’impressione che abbia
piovuto, come spesso accade quando i bruschi sbalzi di
temperatura accompagnano i pomeriggi al cambio di
stagione.
Tant’è, con un po’ di fatica la sua FIAT, una vecchia
berlina 850, si era messa in moto e scrollatasi di dosso la
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d’estate, una notte
ruggine con un po’ di vibrazioni, si era lentamente, ma
molto lentamente, avviata verso l’aeroporto.
Era sera inoltrata per fortuna e non ci furono problemi nel
seguire i cartelli di indicazione stradale; avesse fatto quella
stessa strada di giorno probabilmente si sarebbe perso mille
volte, annientato dal turbinio di mutamenti che negli ultimi
tempi avevano sconvolto l’assetto urbano a lui noto.
Gettando la testa all’indietro distolse lo sguardo dal video e
chiuse gli occhi strizzandoli come per contrastarne l’effetto
ipnotico; doveva decidersi a mettere un paio d’occhiali,
pensò ma quel cretino del suo oculista insisteva nel
raccomandargli di aspettare ed in fondo a lui questo non
dispiaceva, assaporando l’idea che il mondo, visto in
quell’ottica distorta come certo gli arrivava, avesse un
proprio fascino, forse in qualche modo migliore di quanto
sarebbe stato se scrutato per quel che era; una regola
universale pensava, applicabile anche a questo tizio di cui
gli parlava Paola, concluse con una punta di veleno.
Con un po’ di fatica ora ne rammentava i tratti, non la
persona ma i contorni sì, e per quanto potesse ricordare era
un tipo poco raccomandabile, più che prendere della
29
Paolo Batzella
‘robaccia’ come diceva Lei, era più probabile che avesse
respirato troppo profondamente dell’aria pulita di un alba
invernale; uno malato insomma, uno che si era stancato di
vivere un paio d’ore dopo essere venuto al mondo: la
persona ideale per stimolare le voglie materne di una come
Paola.
Ci pensò su per un po’, quindi digitò la risposta:
‘HO RICEVUTO LA TUA: QUANDO IL TUO SOLE
SORGE IL MIO COMINCIA A TRAMONTARE’, arricciò
il naso malcelando l’incipit un pò acidulo, dunque cancellò
e riprese: ‘VEDO SOLO ORA LA TUA, SALUTAMI IL
MUSICISTA, SE NON ANDASSE COME MI DICI CHE
VA NON CREDO SAREBBE UNA GRAN PERDITA
PER IL GENERE UMANO E NEANCHE PER LUI.
UN BACIO A TE ANCHE DA PARTE DI CHI TU SAI’.
SEND
Si massaggiò con calma la testa, così, facendo percorrere
alla mano un moto circolare, lento, quasi volesse scacciare
via la fatica che quella risposta acida gli era costata;
accidenti a lui e a quando aveva deciso di acquistare un
computer:
30
l’idea
che
potesse
essere
rintracciabile,
d’estate, una notte
raggiungibile in un qualche modo che non potesse
controllare, lo metteva in uno stato di angoscia.
Per quale motivo avesse commesso un simile errore non
avrebbe mai saputo spiegarlo ma ora come riparare?
Rompere la macchina con foga luddista?
Eliminare
il
contatto
con
una
semplice
manovra
sull’interruttore o più prosaicamente staccarne la spina?
Concluse che le soluzioni, pur nobili tutte e nessuna
esclusa, erano da scartare: solo un vile si sarebbe abbassato
a tanto: come si può eliminare un evento solo perché non lo
si controlla? Un comportamento degno appena di un idiota,
pensava, ed in verità non sarebbe stato da lui operare una
tale eutanasia; riteneva in fondo che la forma delle cose e la
piega che queste prendevano nel tempo avesse una propria
logica ed opporvisi sarebbe stato sbagliato in partenza.
Solo, ecco, avrebbe voluto che quel torrente lo lambisse
appena e solo se proprio fosse stato indispensabile, avrebbe
accettato che il mondo comunicasse con lui e che dunque
questo lo tenesse pure informato dei propri spostamenti, ma
almeno che non gli chiedesse il recapito.
“il mio cuore con chi tu sai”, rileggeva.
31
Paolo Batzella
E sì che lo sapeva, fin troppo bene.
Era iniziata ai tempi del liceo quel grande amore, nei primi
anni, quando al testosterone entrato in circolo in quantità
industriali si era sommata l’adrenalina in quantità
altrettanto ingenti, dovuta al consumo forse eccessivo di
ideologia: passione, idee, sogni, utopia e tutto si era
mescolato allora in una miscela esplosiva.
Sandro era un buon tribuno, logico nel ragionare e
pragmatico nelle conclusioni, lei passionale ed appassionata
nel prendere i fatti del quotidiano sempre come qualcosa di
personale, da vivere comunque in prima linea anche se da
migliaia di chilometri di distanza.
Un amore sbocciato da un litigio, ricordava, da una feroce
contesa della ragione durante un’assemblea, come solo
negli anni della grande contestazione gli era capitato di
osservare.
In molti ci si domandò poi come fosse possibile un tale
sodalizio anche perché allora, non usandosi esercitare l’arte
della mediazione che pure in quella circostanza sarebbe
apparsa necessaria, ci si chiedeva quale piega avrebbe preso
quella trattativa: “il personale è politico ed il politico è
32
d’estate, una notte
personale” si recitava con la convinzione con cui si declama
un canone della fede, ed appariva ai più impossibile che la
dolcezza appassionata di lei si coniugasse con il rigore
asciutto di lui.
Tant’è, la loro relazione era diventata col tempo una sorta
di leggenda metropolitana e parimenti, come un assioma
matematico, quasi una verità che non aveva bisogno di
dimostrazioni per essere accettata ma casomai dalla quale
potevano derivare ipotesi, dimostrazioni e teoremi, anche se
residuali, come una delle eccezioni marginali che nulla
tolgono all’impianto delle regole ed anzi lo rafforzano.
Sì che sapeva dove trovare il “chi sai tu” di Paola: l’aveva
osservato molte volte consumare il suo lavoro ma si era
sempre rifiutato di riprendere un discorso interrotto anni
prima per motivi che gli dava ancora dolore ricordare e
dunque, come era suo costume, aveva elegantemente
rimosso, celando le ragioni sotto una montagna di favole,
incrostando a tal punto la realtà da non poter distinguere più
la ruggine dal metallo.
In verità forse, andava ripetendosi, col tempo erano
solamente cresciuti e tutto era stato già detto o forse molte,
33
Paolo Batzella
troppe battaglie erano state perdute e tuttavia ciò che ancora
gli risultava oscuro era il motivo per cui Sandro, durante il
suo soggiorno a spese dello Stato, si fosse sempre rifiutato
di vederla, anche solo di scriverle.
Ma era andata proprio così: come se avesse preferito
sparire, e curiosamente poi nel luogo più certo del pianeta,
in una stanza con delle sbarre alle finestre dove aveva
trascorso un paio d’anni.
Terminata quella vacanza forzata, nessuno aveva più saputo
nulla di lui, tanto meno Paola, ed era proprio questo ultimo
aspetto della vicenda che lui non riusciva a capire, anzi da
sempre aveva vissuto quella scelta del suo vecchio
compagno come un torto nei confronti di una donna
meravigliosa, una donna che lui più dell’altro forse, aveva
amato in modo folle, totale anche se, nel suo caso,
soprattutto con pudica riservatezza, con una discrezione che
rasentava l’idiozia.
Per questo insieme di motivi aveva forse voluto evitare il
contatto con quel suo passato, e così era stato almeno fino
alla scorsa primavera.
34
d’estate, una notte
QUARTO
Strizzò appena gli occhi e deglutì, così, come per porre fine
alla deriva di pensieri che l’avrebbero altrimenti trascinato
lontano se solo avesse voluto abbandonarvisi, in posti da
cui forse non sarebbe neanche più tornato; invece no,
pensò, era lì, ora e quel video maledettamente acceso da
giorni stava là a ricordargli i suoi impegni, così, immobile e
pronto all’uso.
Cliccò sulla cartella ‘lavoro’ che da settimane aveva
predisposta e sistemata direttamente sullo schermo in modo
da poterla aprire subito; al suo interno, nelle intenzioni, si
sarebbero dovute riversare le idee, organizzandosi in
racconto fino ad assumere vita propria e riuscendo in tal
modo a trasmettere a loro volta sensazioni all’eventuale
lettore.
Non è questo dopotutto una novella, un libro? appena una
somma di considerazioni che camminano spostandosi di
mano in mano e, percorrendo in questo modo anche grandi
distanze, scavalcando montagne e superando oceani,
35
Paolo Batzella
traversando interi continenti, seminandosi nella terra
lasciano qualcosa del loro passaggio.
Un altro clic del mouse: dimensioni della cartella: zero
byte: qualcosa sarebbe anche germogliata ma per il
momento, pensò, doveva cominciare almeno a dissodare,
rivoltando la terra inaridita dal tempo in modo che gli
umori profondi, così smossi, potessero venire in superficie
ed al contatto con l’aria e l’acqua avrebbero costituito
l’ambiente ideale per coltivare un buon raccolto.
Questa visione bucolica del lavoro associata alla virtualità
dello strumento informatico lo rinfrancava e gli permetteva
di percepire ciò che stava compiendo in modo meno
impalpabile, altrimenti affidato unicamente a dei banali
impulsi elettrici che avrebbero fissato in chissà quale
infinitesimo di memoria artificiale la sua fatica.
Rimanendo immobile, seduto di fronte a quel golem
cominciò automaticamente a setacciare le tasche ed i
ripostigli della giacchetta riversandone il contenuto sulla
scrivania e foglio dopo foglio, le parole fissate nella fretta
del momento formarono un piccolo cumulo, quasi un
groviglio in effetti, ma nel quale si poteva comunque
36
d’estate, una notte
distinguere tra i momenti in cui ognuno di essi era stato
originato: alcuni foglietti o più d’uno apparivano ben
ripiegati in quattro parti, altri presentavano una struttura più
elaborata, erano stati impiegati per comporre improbabili
origami, quindi spiegati, utilizzati e dunque ancora
ricomposti in forma chi di barchetta, chi di cappellino,
probabilmente in attesa che il pensiero si formasse, infine
altri e non pochi, si presentavano appallottolati in totale
spregio del contenuto di cui evidentemente l’autore non era
rimasto soddisfatto.
E comunque ognuno e tutti insieme erano stati conservati
con cura in considerazione di un eventuale ripensamento.
Alla fine dell’operazione si accasciò con le braccia
penzoloni lungo i braccioli sulla vecchia parigina rimediata
nella bottega del rigattiere giù all’angolo e che con la sua
forma a metà tra la sedia e la poltrona risultava ottimale sia
che si volesse scrivere oppure rilassarvisi leggendo.
In verità era sempre stato convinto che l’amico che gestiva
il negozio dove l’aveva comprata l’avesse preso per la gola
indovinando probabilmente dal luccichio dei suoi occhi
l’immediato rapporto che si era creato tra lui e
37
Paolo Batzella
quell’oggetto appena l’aveva notato così riposto in un
angolo un po’ impolverato e dimesso.
La collinetta di carta ed inchiostro era ora tutta davanti ai
suoi occhi e tutta da salire; con un sospiro fece in modo che
le idee adagiate nel fondo di quei pensieri e dei suoi in quel
momento, si scuotessero leggermente come ossigenate e
potessero risalire in superficie ed al contatto dell’aria si
strutturassero in parole abbandonando la primordiale
condizione di molecole scomposte, di schegge di sensazioni
che fino ad allora, una dopo l’altra avevano costituito
appena il fondale di quel mare profondo che è l’anima di
ognuno di noi.
Paola sarebbe arrivata l’indomani e la sua sola presenza gli
avrebbe impedito di pensare a qualsiasi altra cosa; dunque
era bene che, se aveva qualcosa da rigurgitare lo facesse
ora, o almeno cominciasse in modo che l’indomani, se non
altro, avrebbe potuto accampare motivi di superlavoro nel
tentativo di divincolarsi dalla valanga di proposte d’ogni
genere che la sua amica certo avrebbe prodotto nella nobile
intenzione di tirarlo fuori da quel luogo che lei giudicava
essere un “mefitico torpore dell’anima”.
38
d’estate, una notte
Così avrebbe sentenziato rimirando l’insieme di cui lui
faceva parte e ponendo su quel ‘mefitico’ un accento di
schifo che si riserva solo ad una medusa ormai cadavere in
balia della risacca.
Allungò una mano per pigiare l’interruttore a peretta di un
vecchio paralume da tavolo che, posto proprio di fronte al
suo viso, sembrava osservarlo incredulo per la capacità
felina di scrutare nell’oscurità dell’ambiente, con l’altra
intanto palpava la consistenza di quel monticello di
cellulosa, scivolando coi polpastrelli sui singoli foglietti,
come carezzandoli; quindi dolcemente cominciò a spiegarli
davanti a sé, uno ad uno, in una sorta di danza; con due dita
della mano destra ne pescava uno, lo faceva levitare
all’altezza degli occhi, tra questi ed il video, poi con l’altra
lo apriva e riponeva davanti a sé, in favore di luce in modo
da poterne scorrere il contenuto, spianandone infine la
forma cartacea in modo da poter ripetere la sequenza con
un secondo foglio, un terzo e così via.
Così tutti, anche le volgari pallottole di scarabocchi,
avrebbero trovato, uno sull’altro, la propria dignità, pronti
39
Paolo Batzella
per essere ripercorsi, esaminati, valutati, senza prevenzione
alcuna.
‘Un impiegato è solo alla fermata dell’autobus, controlla
l’orologio, legge scorrendo a salti il contenuto, aspetta
qualcuno o è in ritardo, borsa leggera, vuota e perfetta come
se l’avesse appena acquistata’.
E ancora un altro ‘S.Apollonia: mura spesse e forti,
pezzame di tufo e pietre’ ed un altro: ‘due vecchie comari
in un vicolo parlano tra loro; si fermano con una terza
seduta fuori da un portone intenta a preparare dei mazzetti
di puntarelle; scambiano poche battute e riprendono a
camminare dondolando’ e di seguito ‘bel batacchio a forma
di scimmia, col muso sembra schernirti, digrigna i denti,
forma un anello con le braccia mentre con i piedi punta su
una sfera d’ottone’.
Andò avanti così per un po’, riaprendo anche gli
appallottolati più insulsi; su uno era scritto ‘la macedonia
era squisita, il cameriere gentile’; quando tutto fu compiuto
rimase per un poco a rimirare quella risma informe, con le
braccia distese, adagiate parallele sulla scrivania.
40
d’estate, una notte
“Ti ci vorrebbe una compagna per rimettere ordine in
questo gran casino” le sentirà dire e lui si sentirà un po’
offeso pensando che Paola alluda ai suoi pensieri
spiegazzati in forma d’appunto o allo stile della sua stessa
vita, aggrovigliata da sempre in un turbinio di sensazioni
contrastanti da cui, come unico scampo, si era tirato fuori
richiudendosi in una linearità di gesti, in una sequenza di
momenti quotidiani affatto misurabili, prevedibili e previsti,
in una parola, rassicuranti.
Ma questo sarà domani, ora, mimandone in smorfia il
chiacchericcio di femmina petulante, sentì le dita muoversi
ritmicamente in modo impercettibile sulla tastiera, quasi
balbettando.
Spazio, ancora uno
Sono giorni
No, cancellare, tornare indietro, ripartire, ecco:
Erano giorni che l’aspettava, ogni sera puntuale come un
orologio la telefonata di Lei arrivava a rimandare
l’incontro ed ogni mattina i preparativi ricominciavano
daccapo: i ritocchi nella pulizia del piccolo appartamento,
la passeggiata al mercato alla ricerca di frutta fresca e
41
Paolo Batzella
verdura, il riesame del menu che avrebbe preparato per il
suo arrivo in segno di benvenuto.
Ogni volta il percorso fino all’aeroporto si concludeva con
un rientro sconsolato e a lui non rimaneva altro da fare che
disporsi mogio mogio in attesa dell’ennesima telefonata di
rinvio ed allora, come le sere precedenti, non avrebbe
avuto altro da fare se non rileggere le stesse pagine di quel
libro fatto a pezzi e ricomposto mille volte tra le sue mani
in quell’ultima settimana.
Ma che diavolo stava venendo fuori da quella circostanza,
pensò per un attimo, dove voleva andare e cosa voleva dire
quella sequenza di fatti, poi si rassegnò all’idea di lasciare
che i pensieri fluissero liberi e senza mediazione alcuna.
Giorni prima aveva tentato di accennarle qualcosa in una
mail ma non riuscendo a descrivere l’inverosimile, aveva
rinunciato ed infine preferito tenersi sul vago immaginando
che lei avrebbe potuto prendere il suo possibile racconto
come una presa in giro e sapendo che, in questo caso, non
avrebbe neppure potuto biasimarla.
Così aveva ripiegato su una non meglio precisata necessità
che aveva di incontrarla per comunicarle delle grosse
42
d’estate, una notte
novità in merito alla causa di divorzio che li vedeva
protagonisti.
In realtà era accaduto ben altro.
Giorni prima, come ogni mattina alla solita ora, aveva
aspettato l’autobus che l’avrebbe portato in ufficio: era un
uomo metodico, chiunque lo avrebbe capito al primo
sguardo, così piantato accanto al segnale di fermata, il
solito quotidiano tra le mani con le dita a scorrere rapide i
titoli; come ogni mattina una prima visione delle immagini
unitamente alla lettura dell’oroscopo avrebbe colmato la
distanza fino all’ufficio ma quel giorno evidentemente
doveva essere un giorno speciale o più semplicemente un
giorno di cui tutto era già stato scritto.
Tant’è, l’attenzione per una nota storica in terza pagina
l’aveva rapito più del dovuto e la sua fermata era sfilata
via per la prima volta nella sua vita lavorativa senza che
lui se ne accorgesse e solo tre fermate dopo era sceso,
ritrovandosi costretto a raggiungere l’ufficio a piedi,
infilandosi per strade che non aveva mai percorso.
Nulla di strano in questo, ma per uno come lui, da sempre
abituato a consumare il caffè al solito bar, mangiare alla
43
Paolo Batzella
stessa rosticceria all’angolo la solita porzione di verdure
lesse: nulla pareva esistere nella sua fantasia oltre quel
ristretto perimetro sufficiente a soddisfare le sue esigenze
quotidiane.
Il fatto è che, mentre cercava di orientarsi tra i vicoli che
aveva deciso di affrontare nel tentativo di guadagnare
tempo, ne aveva infilato uno più stretto degli altri e lì si era
imbattuto in un foglio di carta.
Sarebbe stato ridicolo notare la cosa, se a quel foglio non
ne fosse seguito un secondo ed un terzo ed ancora ed
ancora, in una sequenza sempre più fitta sino a diventare
preoccupante.
Il passo inizialmente affrettato si era rapidamente mutato
in un passeggio e la sguardo s’era era spostato piano dal
gomito che delimitava la stradina alle sue scarpe;
all’inizio, quasi per un riflesso condizionato aveva saltato
le prime pagine, poi questo esercizio era diventato
impossibile e solo a quel punto si era fermato come se si
fosse sentito prigioniero, senza più selciato libero traverso
cui saltare: un piede qui e l’altro là, in cerca di un
44
d’estate, una notte
appoggio, fermo ora in una posizione tra il comico ed il
grottesco.
E solo a quel punto, come se fosse riuscito a fissare la sua
immagine in un fotogramma, cominciò a rendersi conto di
quanto stava accadendo; solo allora, voltandosi indietro,
vide d’un tratto che si trovava come al centro di una distesa
di carta.
Fogli a decine erano disseminati lungo l’intero vicolo,
all’inizio del quale apparivano più radi per poi
raggrupparsi più fitti, via via che si procedeva avanti verso
il centro, a volte raccolti in quinterni, altre in piccoli
mucchi scomposti, come se una qualche furia distruttrice si
fosse gradualmente svegliata ed accanita con sempre
maggior furore su quello che doveva essere un intero
volume.
Poco distante da dove si trovava gli sembrava persino di
indovinare ora la sagoma di una copertina, di colore verde
gli sembrò, e di quella plastica a buccia d’arancia che
avrebbe dovuto ricordare una rilegatura in pelle; ora, a
parte quella presenza leggera di pagine scritte intorno a lui
era deserto.
45
Paolo Batzella
Curioso, pensò tra se, che a quell’ora neanche un cane
incrociasse per quella stessa strada, a meno che, ed il
pensiero gli fece correre un brivido lungo la schiena, a
meno che quel libro non stesse aspettando un nuovo
proprietario.
Si guardò intorno ancora una volta e prima che la paura
che nel frattempo cominciava ad avvertire cominciasse ad
attanagliarlo del tutto salendo per la bocca dello stomaco
su per l’esofago sino alla gola, posò la cartella in un
angolo e cominciò a fare quello che non si sarebbe mai
aspettato: raccogliere i fogli da terra.
Avesse potuto osservarsi non avrebbe mai creduto ai suoi
stessi occhi: il metodico impiegato che vedeva correre su e
giù lungo il vicolo era proprio lui ed alla fine, non ci volle
molto, poté osservare con un sorriso un po’ ebete stampato
sul viso il selciato ormai vuoto.
Come un bambino che abbia compiuto un’impresa
proibitagli, si guardava ora intorno, ora tra le mani,
incredulo: la sua fatica aveva ricomposto per intero un
libro, copertina compresa.
CLIC SU FILE. SALVA CON NOME. PROLOGO.
46
d’estate, una notte
QUINTO
Lasciò il computer a ronzare sulla propria stupidità,
guadagnò la cucina e lì, associando l’odore un po’ aspro
che i piatti non lavati cominciavano ad emanare e la finestra
dimenticata chiusa, decise che tra le due incombenze:
liberare il lavandino ormai ingombro anche dell’ultimo
bicchiere e far entrare un po’ d’aria pulita, la seconda era di
gran lunga la più appetibile.
Aprì e la notte invase l’ambiente, i suoi oggetti ed i suoi
pensieri e Dio solo sa quali avessero più bisogno di essere
arieggiati, un passo ancora ed era fuori sul piccolo balcone,
le braccia puntate sul parapetto, la schiena tesa a distendere
i muscoli intorpiditi; fuori ad aspirare con la bocca aperta
quell’aria liquida d’umidità, appiccicosa come il suo umore
non definito, così sospeso tra la necessità di onorare
l’impegno preso e la voglia di mandare tutto e tutti a quel
paese: Peruzzi e Paola, Sandro e l’amico del piano di sotto
e tutta intera la sua vita.
E’ che vorrei qualcuno con cui parlare in questa notte senza
luna, pensava tra sé, immaginare le innumerevoli stelle che
47
Paolo Batzella
abitano il cielo, perdersi
nel loro chiarore che darebbe
almeno un senso alla notte che invece pare ora non arrivare
mai, così diluita nella pallida oscurità urbana.
Non arriverà mai dunque, mi chiedo, mi lascerà qui ad
aspettare e che cosa poi? così affacciato da questo
terrazzino su strade e tra case non mie.
Medito tra me sul fatto che molti, in questa maledetta notte
di mezza estate, si troveranno forse ora col naso in su
ricordando quel poco che c'è da ricordare di questo giorno
appena trascorso; quel molto nel mio caso, tale perlomeno
mi pare, tanto dense di cose e di fatti mi appaiono le
giornate navigate dolcemente in questo mare senza fine,
perché l'immagine che da di sé il quartiere dove abito, nel
cuore di questa Roma antica, in questa estate torrida è
propriamente questa: quella d'un oceano sconfinato e senza
approdi ed io mi sento e sono straniero nelle sue acque.
Mi torna alla mente ciò che un buon amico, con aria
bonaria, mi rammentava tempo fa del fatto che io, per
quanto faccia, non sarò mai un trasteverino, poiché, infatti,
non sono nato qui e che da questo deriva il mio disagio: ‘è
che ti manca il retroterra culturale, diceva, quello che si
48
d’estate, una notte
apprende, senza neppure capirlo, dalle prime parole che tua
madre ti sussurra per consolarti o da quelle che dopo ti
inseguiranno come un rimprovero bonario per una
marachella fatta, per aver tardato il rientro per la cena,
rapito com’eri appresso al primo amore o alla prima
occasione di fuggire un poco più lontano del consentito alla
scoperta di un mondo ignoto, dietro l’angolo del vicolo’.
Guardo lì sotto le geometrie che la piazza costruisce con le
piccole vie adiacenti che si perdono nel cuore del rione
vecchio, dove, oltre le palazzine, si intuisce il fresco del
fiume che scorre vicino, e penso che aveva ragione lui. L'ho
sempre saputo in fondo: sono un immigrato per scelta:
come me molti altri ed in molti possediamo abitazioni che
pochi potrebbero permettersi ma, in questo piccolo mondo
che ci ospita, tale è ancora il rione vecchio, al massimo
riusciamo ad essere un fortunato innesto, mai la pianta, mai
le sue radici.
Come dei nomadi, in fondo nessun luogo ci appartiene e
sono solo i racconti di altri che ci hanno spinto fin qui; così
Trastevere è per noi un insieme un po’ bislacco d’osterie
49
Paolo Batzella
chiassose, saltarelli e vecchiette col viso da furbette, sedute
fuori dai portoni a cicalare.
Anche adesso, mentre mi osservo, vedo il mio collo
allungarsi istintivamente nella speranza di veder sortir fuori
una botticella da dietro l'angolo della via che delimita il mio
orizzonte, si fermerà ecco, ed il vetturino ne farà scendere
una dama con un gesto della mano; lei non lo guarderà
neppure e lui distoglierà la sguardo come discrezione vuole
in certe circostanze, pensando magari che il suo lavoro sarà
stato utile a favorire un appuntamento galante.
Ma niente, considero, è triste che nulla della mia fantasia
possa prender corpo, la strada sotto il balcone è
desolatamente vuota; siamo alla fine del Novecento e mi
rassegno: non mi rimane altro da fare che andare a buttare
l'immondizia.
Però che bello, insisto, pensando che, se almeno per questa
sera avessero riaperto le locande che si affacciavano sul
grande fiume, quello della Sciacquetta ad esempio, buon
cibo e donne disponibili; la avrei potuto trovare certo
qualcuno con cui parlare, anche se a pagamento; oppure
avrei potuto addolcire le ore con un paio di boccali di vino
50
d’estate, una notte
cannellino, giù all'osteria di Ciucciarello; quella che la
gente bene di la del Tevere frequentava, nel desiderio di
farsi un'idea sulle usanze del popolino ascoltando i poeti a
braccio e battendo i bicchieri sul tavolo al ritmo del
saltarello.
La dolcezza di quei giorni targati '800 mi rapisce e mi
ripeto che sarebbe bello se potessi dominare il tempo e non
solo gli spazi, se potessi vivere e non solo sognare, allora,
che so, potrei per esempio riascoltare anche solo una volta
la mia vita come si fa con un disco, i momenti belli intendo,
quelli che fanno di una giornata un giorno da ricordare.
Ragionamenti senza senso, da lettino freudiano, considerava
mentre un brivido lo riportava al presente, al suo
abbigliamento balneare ed alla cucina che pareva osservarlo
con rassegnata pazienza; sul fondo del salone, in precario
equilibrio sul bracciolo della poltrona occhieggiava nella
penombra, da dietro un fondo d’insalata, il libro che l’aveva
accompagnato in quella giornata piena di scoperte.
Si fissarono da quella distanza per una manciata di secondi,
quelli necessari a spostare quella realtà tangibile fatta di
carta nel contesto della sua storia fatta unicamente
51
Paolo Batzella
d’impalpabili
spunti,
quindi
riattraversò
la
stanza
prelevandolo al volo dalla busta della spesa e lo depositò in
bella vista proprio davanti alla tastiera del computer, sopra i
suoi fogli.
CLIC SU FILE, APRI, PROLOGO
…la sua fatica aveva ricomposto per intero un libro,
copertina compresa.
Lesse: Stradario Romano, Benedetto Blasi, Roma 1923.
In alto a sinistra sopravviveva parte di un nome scritto in
bella grafia che tondeggiando procedeva dall’angolo della
pagina ormai perduto verso il centro: “pia”; la “p”
iniziale era a dir il vero appena intuibile ma il numero che
seguiva era ben chiaro: 123.
“Pia 123”, masticò tra sé mentre dal fondo del vicolo un
paio di vecchiette ciondolavano seguendo l’andatura dei
rispettivi
carrelli
della
spesa
che,
ancora
vuoti,
ondeggiavano dietro di loro come delle code innaturali.
L’aria si era come d’un tratto rianimata, come se il ritmo
delle cose avesse ripreso a girare superando l’intontimento
provocato da un qualche maligno orologiaio che avesse
52
d’estate, una notte
ostacolato così per gioco il corso delle ore puntando il suo
dito sul quadrante delle lancette.
Raccolse la cartella, vi infilò dentro il volume sconnesso e
riprese la strada per l’ufficio; poco dopo, mentre faceva
scorrere il tesserino magnetico guardando l’orologio,
avrebbe scoperto che quel contrattempo non gli era costato
più d’un minuto di ritardo.
In principio non aveva badato molto a questo particolare e
solo più tardi vi era tornato su man mano che un fastidioso
sospetto iniziava ad incunearsi nei suoi pensieri, ed ora chi
mai avrebbe creduto vera una simile circostanza e
soprattutto quando mai Lei avrebbe accettato la possibilità
che questo era capitato proprio a lui.
Senza dire, poi, dei fatti che seguirono e che a sua insaputa
lo stavano trascinando in una dimensione priva di contorni
ed al tempo stesso gravida di conseguenze.
No, decisamente non poteva fare altro se non sperare che
Lei arrivasse e che guardandolo negli occhi potesse capire
che, per quanto incredibile, quella serie di vicende erano
reali, vero era il libro, vero era lui, vera la sua angoscia;
sì, forse avrebbe capito, forse avrebbe trovato Lei la
53
Paolo Batzella
soluzione, dipanando quella matassa oppiacea entro la
quale si sentiva sempre di più avvolgere.
Anche quella sera, come nelle ultime tre avrebbe provato a
chiamarla, a convincerla che era importante che lo
raggiungesse quanto prima; anche stasera alla fine
avrebbe concluso per riprendere il libro tra le mani
scorrendone i segni minuti con le dita come per tracciare
un percorso, cercando di intuire il messaggio che questo
sembrava volergli trasmettere.
Anche quella sera l’ansia del leggere si sarebbe mischiata
con il timore di capire ed insieme con la curiosità che
inaspettata lo coglieva rapendolo alle sue cose di ogni
giorno, agli oggetti ed ai pensieri, trasformandolo in
qualcuno che non era più lui, in un altro ben più ardito
nella ricerca, meno codardo nella scoperta, temerario
quasi di fronte alla verità che a sprazzi gli appariva tra le
righe, disegnandosi in tutta la sua imponenza, in tutta la
sua incredibile forza.
Anche quella sera dunque, come un tossico in crisi di
astinenza, si sarebbe assoggettato a quell’esperienza
54
d’estate, una notte
sapendo che ciò non era bene, eppure non potendo più
privarsene.
CLIC SU FILE-SALVA
55
Paolo Batzella
SESTO
Quali curiose assonanze con la realtà di oggi, pensò
ragionando sul sottile confine che separa la vita dal
romanzo, la realtà dalla rappresentazione, come se di volta
in volta ci capiti di non sapere più se siamo attori o
spettatori della nostra stessa vita.
Si massaggiò il viso spianando il sorriso che quella
considerazione aveva suscitato.
- Sto ridendo tra me di me - interloquì sottovoce come
rivolgendosi ad un immaginario qualcuno.
-
Già,
perché
solo
questa
mattina,
svegliandomi,
rimuginavo che in fondo la fine di ogni giorno è nota ed
infine tutto è già stato e basta solo aspettare che i fatti
appaiano evidenti ai nostri occhi per sostenere che siano
accaduti – e dicendo agitava lentamente la mano nell’aria
tracciando percorsi retorici; poi si distese sulla sua parigina
poggiando indietro il capo, socchiudendo gli occhi, facendo
scorrere i pensieri.
Solo
stamane
ragionavo
così,
compiacendomi
dell'improvviso rigurgito shakesperiano, mentre seguivo i
56
d’estate, una notte
disegni che la passione aveva tracciato con le pieghe delle
lenzuola nella notte e mi arrivava l'odore del sudore che era
stato consumato; di là dei vetri la giornata era uggiosa, di
qua ombrosa come il mio umore; a fianco a me più
nessuno: lei se n'era andata e, non fosse stato per quelle
lenzuola, avrei creduto d'aver sognato.
Il fatto è che mi ero svegliato male, alzato peggio e la prima
sigaretta mi stava scartavetrando la gola.
Come in un disegno di Escher le prospettive mi apparivano
impossibili, gli oggetti stessi all’interno del mio campo
visivo sembravano come deformati, non ognuno di per sé
ma l’insieme, come se guardassi quel mio piccolo mondo
attraverso una lente.
Accasciato sulla poltrona troppo grande per una persona e
troppo piccola per accoglierne due, sentivo il fumo del
tabacco percorrermi gli alveoli uno ad uno e tornare
indietro pulito, pronto per essere espirato dopo aver deposto
un’altra briciola di catrame chissà in quale angolo: siamo
dei contenitori di spazzatura, constatai, dei cassonetti che
camminano.
57
Paolo Batzella
La vita ci deposita dentro un po’ di tutto, avanzi, ricordi,
quasi sempre i meno belli, il dolore; è come se ciò che di
bene ci capita venisse viceversa consumato, bruciato e
trasformato per intero in energia pura e come tale raramente
lasciasse traccia del suo passaggio.
Quanti rimpianti invece, e momenti non felici nella nostra
memoria: giacciono lì, accastellati in file ordinate, pronti
per essere evocati, persino rivissuti talvolta con una
pervicacia, una perfidia verso noi stessi che meraviglia per
la sua tenacia.
Misuravo così la sconclusionatezza di quei due letti singoli
che
avevo
accostato
alla
meglio
l’uno
all’altro,
nell’intenzione di rendere l’arena più invitante al cimento
amoroso e questo appena poche ore prima, una manciata di
tempo e che adesso erano posti di sghimbescio, non separati
ma neppure più uniti, con un triangolo nel mezzo mentre di
lato, nel vuoto lasciato dal comodino, erano resuscitati due
calzini appallottolati che, almeno a giudicare dalla lanugine
di polvere che li avvolgeva, dovevano essere lì già da molto
tempo.
58
d’estate, una notte
Sul fondo, riflessa nello specchio, la mia immagine
denunciava chiaramente che un altro momento sarebbe
stato archiviato, in bell’ordine, in cima alla pila e il fumo
dell'ennesima sigaretta che saliva tra me e quell’immagine
riflessa diceva altrettanto chiaramente che pur nella nebbia
avrei voluto rivivere, percorrere ancora quelle ultime ore e
di nuovo archiviare ed ancora, nonostante il dolore, la pena
che ora mi dava vedermi così, lì, seduto in mutande con
parte dei capelli ritti in una vertigine senza senso certo
causata dalla postura del sonno.
Per il resto non un indizio, anche un solo nonnulla che
potesse documentare della passione all’infuori di quei
maledetti disegni sul lenzuolo ed un posacenere ricolmo in
bilico tra i miei piedi e l’orlo del comodino dove li avevo
poggiati.
Istintivamente mi inarcai sulla schiena, sporgendomi in
avanti cercando di contare il numero dei mozziconi, mi
pareva di ricordare che avesse fumato anche lei, anzi ne ero
quasi certo: uno, due, tre, molti, ma no, erano tutti miei,
inconfondibilmente separati ognuno dal proprio filtro per
un’abitudine antica, di cui non meritava ricordare il motivo.
59
Paolo Batzella
Rimuginavo su quel piccolo mistero ma convenni che
qualsiasi sforzo avessi fatto, nulla si sarebbe spostato nella
realtà delle cose: certo i letti non sarebbero tornati al loro
posto, né il posacenere si sarebbe svuotato, né i disegni
avrebbero preso la forma di quel corpo minuto che mi
pareva ormai stampato in modo indelebile nella mia retina,
fotografato mille e mille volte quella notte, percorso in tutta
la sua estensione, scoperto in ogni piega, conosciuto, avuto,
perduto.
- Perduto – sussurrai tra i denti mentre le campane
annunciavano la funzione del mattino; avrebbe potuto
essere il vespro a giudicare dalla luce un po’ livida che
filtrava dalle tapparelle.
Un odore di aria umida mi penetrava le narici: forse
pioveva, forse avrebbe piovuto o già era stato...
60
d’estate, una notte
SETTIMO
Si, forse tutto si stava ripetendo, pensavo, oppure più
semplicemente, mi sarebbe piaciuto che così fosse.
La mattina precedente lo stesso odore d’umido nell’aria mi
aveva convinto ad uscire dalla mia tana.
Avevo trascorso la notte fissando lo schermo immobile del
computer nel vano tentativo di mettere a tacere la mia
coscienza per l’impegno preso con quel poveraccio di
Peruzzi; per la centesima volta mi aveva cercato ed ahimè
alla fine trovato mentre ero alle prese con un paio d’uova
affogate in un po’ di pomodoro e basilico.
A quel punto, preoccupato soprattutto per le uova che, se
consumate fredde, fanno notoriamente schifo, l’avevo
liquidato inventandomi che il lavoro procedeva a gonfie
vele ed anzi ero giusto in quel momento alle prese con la
chiusura della prima novella.
Finita la telefonata e le uova le idee avevano girato e girato
nella mia testa senza riuscire a fissarsi su quello schermo
che anzi, agendo come un ipnotico, aveva finito per
trascinarmi in luoghi fantastici, in una condizione più simile
61
Paolo Batzella
al sonno cosciente che alla veglia ed il mattino mi aveva
colto così, alla sprovvista, impreparato a metabolizzare
l’inutilità del riposo che avevo perduto.
Di fianco al monitor una pila disordinata di libri incombeva
sulla scrivania già di per sé ingombra di fogli e quant’altro;
sulla cima di questa troneggiava una tazza che giorni prima
doveva aver contenuto un liquido dolcificato fino alla
saturazione: forse una tisana, sul bordo erano evidenti le
tracce dello zucchero non sciolto e da lì una linea bruna
percorreva la ceramica sino alla base e lì, allargandosi in un
cerchio poco più esteso della sua circonferenza, si era
stampata sulla copertina del volume su cui era poggiata.
Al suo interno nei giorni si erano accumulate un paio di
penne ed una matita spuntata allegramente assortite con un
pacchetto di sigarette ormai vuoto e violentato nel suo
volume nonché un mezzo sigaro toscano quasi per intero
divenuto cenere a denunciare che lì era stata decretata la
sua fine ma non il suo consumo.
Cercando con una mano di non far crollare quella
impalcatura, con l’altra avevo sfilato il terzo libro dal basso
da cui, circa alla metà, faceva capolino una striscietta
62
d’estate, una notte
ricavata da un quotidiano a mo’ di segnalibro: era lo
Stradario Romano di Benedetto Blasi, l’edizione del
‘ventitre’ s’intende, scovata con un po’ di fortuna in un
negozietto di libri usati in via del Pellegrino: alcune pagine
mancavano all’appello e della copertina sopravviveva solo
il retro, tuttavia il corpo centrale era ancora consultabile e
mai a conti fatti avrei acquistato l’ultima edizione.
Coltivavo l’idea che i luoghi che erano spariti dalle pagine,
consumati dall’usura del tempo e dall’ignoranza dei molti
proprietari,
fossero
scomparsi
anche
dalla
realtà
toponomastica, come se una strada che non sopravvivesse
alla propria citazione non meritasse altra fine che d’essere
dimenticata.
Avevo aperto dove il segnalibro indicava e la striscia di
giornale scivolò lieve per terra, liberata dalla sua
costrizione e liberando il punto che era stato fissato per
averne memoria e diventare forse uno spunto utile, una
traccia da seguire.
Gelsi, Gelsomino, Genovesi, Gensola, ecco: Piazza della
Gensola,
una
svirgolettata
di
matita
ne
indicava
l’importanza.
63
Paolo Batzella
Il giuggiolo… vie adiacenti…, scorrevo con cura le righe
ingiallite: Chiesa di S. Egidio dei Sellai…Locanda della
Sciacquetta o sgualdrina…, Casa Mattei: nel 1555 questa
casa fu teatro di una spaventosa tragedia familiare.
Ecco, questo doveva aver attirato la mia attenzione:
“Marcantonio Mattei fu assassinato per ordine di suo
fratello Pietro ed il sicario fu trucidato per mano dell’altro
fratello Alessandro.
Dopo questo fatto, conclusa la pace a consolidarla fu
stabilito che il fratricida Pietro avrebbe sposata la nipote
Olimpia, figlia del fratello più povero Curzio. Alessandro
invano si oppose a questo matrimonio e la sera delle nozze,
insieme a tutto il parentado, v’intervenne anche Alessandro
con suo figlio Gerolamo e due sconosciuti.
L’allegria era al colmo quando ad un tratto un colpo
d’archibugio uccise lo sposo Pietro.
Le donne spaventate non seppero far di meglio che
spegnere i lumi; ne nacque una confusione indescrivibile ed
Olimpia rimase ferita mentre Curzio, fratello e suocero
dell’estinto, cercando nell’oscurità il fratricida prese invece
64
d’estate, una notte
il figlio Gerolamo e l’avrebbe ucciso se uno degli sgherri di
Alessandro non avesse pugnalato lui stesso.
Alessandro stava sul ponte Cestio trepidando per la vita del
figlio quando lo vide giungere accompagnato dallo sgherro;
e così quando seppe del fratello ucciso, montò in tale furore
che immerse il pugnale nel petto dell’assassino e semivivo
lo gettò nel Tevere.
Fuggì e finì i suoi giorni bandito da Roma.”
Ricapitolando: una notte insonne e quattro morti a
colazione; niente di meglio per cominciare una giornata, mi
dicevo, dando fondo agli ultimi grammi di sarcasmo nel
tentativo di esorcizzare un cattivo risultato; perché, questa
era una certezza, prima che il sole fosse tramontato il buon
Peruzzi avrebbe richiamato ed io non avrei avuto da
raccontargli altro se non che le uova della sera prima si
erano freddate.
Non avrebbe capito ma si sarebbe incazzato comunque,
dunque per quanto sottile fosse quel filo non potevo far
altro che attaccarmici e farlo diventare in breve tempo una
fune abbastanza robusta da sorreggere il mio contratto di
lavoro.
65
Paolo Batzella
Girando il mondo per quel verso, m'ero infilato la mia
giacchetta di cotone impermeabile, quella con i risvoltini
anni cinquanta un po’ lisi ed i bottoni di pelle penzoloni,
reperita dopo estenuanti ricerche in un banco dell'usato ed
ero uscito nella pioggerellina tra la fretta della gente che
correva rincorrendo gli impegni di sempre.
Avevo costeggiato i banchi di lamiera del mercato che
ormai ricopre ciò che un tempo era una piazza dove si
consumava il rito pomeridiano del gioco del calcio tra
monelli, scavalcando un bambino intento a raccattare il
pallone nuovo nuovo appena finito dentro un’immacolata
pozzanghera ed attento nel contempo ad evitare il
manrovescio della madre spazientita; quindi, evitato il
carrello di una massaia, convenivo che i pericoli non
vengono tanto dal vicino di marciapiede in quanto tale ma
piuttosto dal ritmo con cui questo procede: rischioso è il
fatto che tu cammini mentre gli altri corrono, pericolosa è
questa differenza di marcia, questa non sintonia col senso
comune delle cose; saperlo certo non risolveva il problema,
tuttavia, mentre svoltavo l’angolo, mi aiutava nel farmi una
66
d’estate, una notte
ragione del piede che un azzimato professionista mi aveva
appena pestato, cercando urlante di bloccare al volo un taxi.
Così, sempre procurando di non venir travolto, seguivo i
miei sentieri, quelli che mi avrebbero portato al rifugio e,
valicato felicemente il grande spartiacque del viale che
taglia in due il quartiere come una mela, approdavo in
quell'enclave priva di jeanserie che si stende da lì sino al
fiume.
Già dopo i primi passi in quella nuova terra l'ansia che mi
attanagliava aveva, come al solito, cominciato ad
acquietarsi, sino a sparire mano a mano che anche il
frastuono del traffico calava sino a diventare un sussurro,
quasi un sottofondo ovattato, confinandomi in un mondo
diverso, fatto di rumore di suole sul selciato e persino, a
tratti, di stridio di rondini in volo.
Seguivo poi da lì la sequenza delle piccole osterie e
botteghe d'uso quotidiano che, snocciolate alla rinfusa
lungo le vie strette, mi accompagnavano maliziosamente
fino al sagrato della chiesa di Santa Cecilia, luogo tra i
luoghi, da me elevato ad eremo personale.
67
Paolo Batzella
Le rapide nuvole che lo scirocco porta si erano dissolte,
come evaporate; una volta spremute delle poche gocce
d’acqua che potevano produrre.
Aveva smesso di piovere, ed io entravo accomodandomi ai
bordi della fontana, proprio al centro del cortile dove
riuscivo a dedicarmi finalmente alla più amena delle letture,
chiudere il mondo fuori dalla porta e gettarne via la chiave.
A quel punto potevo farmi avvolgere da quell'affresco
pieno di colore: ogni centimetro dello spazio che mi
circondava era adornato di fiori d'oleandro, di gelsomino e
di rosa mentre, appena alla mia sinistra, una grande
buganvillea pareva rincorrere la sommità del campanile
romanico che sparato contro il cielo spezzava in due il mio
orizzonte, dunque cavai fuori lo Stradario dalla tasca
interna della giacchetta, ne carezzai la copertina come per
spianarne le pieghe e cominciai a sfogliare alla ricerca del
punto che mi interessava.
A dir il vero pensavo, nelle more del fine pagina, quando il
dito, piegando il foglio successivo, così, senza fretta, dà
modo al cervello di rimanere in sospeso per un attimo solo,
in attesa della fine della frase e lo sguardo ha il tempo per
68
d’estate, una notte
vagare per un attimo appena ma sufficiente a percepire ciò
che intorno a noi si muove ed oltre, pensavo a quel
connubio un po’ sacrilego tra la mia lettura ed il luogo che
mi ospitava e, mentre l'occhio scorreva storie d’amore e di
morte, l'orecchio ascoltava il ciabattare dei sandali intorno.
Era forse, mi dicevo, un qualche frate fondatore della
chiesa, sperso lì da quattrocento anni in cerca di un’uscita
dal suo incubo, oppure un semplice turista giapponese,
anche lui perso dal branco; ma preferivo non sincerarmene
tenendo basso lo sguardo sui fogli ed assaporando il dubbio
che finché restava tale, consideravo infine, aveva almeno
una possibilità d'essere fondato.
In quel limbo di certezze, mi auguravo, avrei persino potuto
ascoltare la versione dei fatti di cui leggevo dalla viva voce
di un testimone oculare.
Chissà, forse il frate in questione era stato anche l’ultimo
depositario delle confessioni di Olimpia, forse l’unico a
conoscere il reale svolgimento dell’accaduto: chi le vittime,
chi i carnefici, quale la dinamica vera degli eventi, per cui
magari il malvagio avrebbe per una volta pagato per una
colpa non sua e l’innocente vittima sacrificale si sarebbe
69
Paolo Batzella
rivelata essere l’artefice della disgrazia, disgraziata artefice,
vittima plagiata ma pur sempre colpevole inconfessata ed
inconfessabile, strumento di una vendetta divina, di un
meccanismo superiore di compensazione delle cose che,
come in natura porta la materia a trovare un equilibrio, così
nei comportamenti umani porta ad un equa redistribuzione
di colpe e di glorie.
Chissà, forse di tutto ciò era depositario il possessore di
quei sandali e di tutto questo mi avrebbe messo a parte se
solo avessi potuto abbandonarmi a quello stato di
sospensione, trascorrere lì un po’ del mio tempo e
raccogliere informazioni preziose ed in questo modo,
chissà, quasi da sé il mio lavoro si sarebbe compiuto senza
sforzo, prima ancora d’essere pensato: la semplice verità mi
si sarebbe manifestata, inoppugnabile, luminosa ed a me
non sarebbe rimasto altro da fare che svolgere onestamente
il ruolo del cronista, registrare l’accaduto, annotare le voci,
evidenziare le opinioni; nulla di mio sarebbe stato investito
nell’impresa della cronaca, che tale non sarebbe più stata e
forse l’intera storia sarebbe stata persino pubblicata e letta e
piaciuta.
70
d’estate, una notte
L’aria umida di odori che evaporava adesso sotto il sole
rovente mi penetrava i polmoni e di lì risaliva sino al
cervello procurandomi una piacevole sensazione di
stordimento, di illusione che le mie speranze avrebbero
potuto tra un attimo concretizzarsi.
Ma ecco che, tra il cicalare dei turisti che ancora mi
arrivava dal mondo reale come fastidiosa presenza, in
mezzo a quel vociare una voce più definita delle altre si era
fatta più insistente.
Non potevo ignorarla, era vicina, troppo: era una voce di
donna, del tutto ignara evidentemente dello stato di grazia
in cui mi trovavo e proprio a me si rivolgeva chiedendomi
qualcosa in una lingua ignota.
A pensarci bene ora, prima ancora dell’immagine mi era
arrivato il suo odore, dolce, di ragazza: piccina, vedevo poi,
con il corpo sagomato, minuta ma non fragile, la cartella
dei fogli da disegno in una mano, un carboncino che si
muoveva danzando tra le dita dell’altra e, senza rendermene
conto, mi trovavo strappato all’amore e alla morte, intento a
cercare nel cervello le parole semplici, le figure, i gesti
capaci di trasmettere concetti.
71
Paolo Batzella
Da quel momento la giornata aveva invertito il suo corso e
come l’acqua di un fiume che risalga verso la sorgente ogni
immagine, per quanto incredibile, aveva assunto un criterio
di possibilità; certo, nulla di più di un incontro casuale,
nulla di meno di un’informazione richiesta e dovuta e
tuttavia, nel dubbio se continuare la conversazione o tacere
facendola
cadere,
avevo
azzardato
l’offerta
di
accompagnarla ed il suo sorriso d’assenso mi aveva rapito.
Da lì in poi, tra le sue mani, l’arancio nascosto in un cortile
si era colorato dei toni maturi dell’inverno mentre
nell’atmosfera plumbea un vecchio accasciato sulla panca
posta di fianco seguiva il gioco di un bambino con le biglie
di vetro colorato: un gioco d’estate dentro una cornice di
freddo.
In un'altra occasione la facciata di una chiesa incastonata tra
due palazzi pareva rilucere dall’interno come nel pieno di
una funzione domenicale, se ne percepiva il calore che la
presenza umana produce ed il contrasto si faceva, se
possibile, più forte se paragonato alle righe nette che
disegnavano la pioggia battente sulle pietre del sagrato.
72
d’estate, una notte
La mia pittrice non parlava la mia lingua ma riusciva
egualmente a trasmettere i suoi stati d’animo, come quei
viaggiatori romantici che frequentavano la penisola
arrivando a Roma per trovare conforto ai loro tumulti
dell’anima, così lei aveva fatto delle sue vacanze romane un
viaggio nei ricordi di un passato perduto.
Tra le vestigia secolari appariva però sempre un tratto di
quotidianità minuta, come in quelle antiche stampe, così nei
suoi disegni lei poneva in evidenza ora qui ora lì un viso, un
espressione o solo un gesto, ma in modo tale, quasi posto in
un proscenio, tanto da risultare che ciò che lo schizzo
figurava era percepito dal personaggio stesso piuttosto che
dall’autore e l’insieme rappresentato in questo modo
appariva, come dire, più credibile, quasi diventato vivo
avendo acquistato una logica sua, compiuta.
Io la guardavo rapito e rapidamente mi ritrovavo ad
ammirare una situazione con gli occhi di un altro, come se
io entrassi nel disegno, o il personaggio ritratto ne uscisse e
mi prendesse imponendomi la sua visione
Ero rimasto ammaliato, così rapito per ore dall’abilità
magica della mia occasionale amicizia di giocare con la
73
Paolo Batzella
luce e l’ombra, in una straordinaria capacità di scambiare le
parti nella distribuzione degli spazi, facendo recitare ad un
oggetto il ruolo del protagonista ed attribuendo allo scorcio
nel quale era collocato e vero soggetto dell’immagine,
quello della comparsa.
Ed ancora, ancora molte volte si era ripetuta quella magia
ed infine non avevo più saputo se accompagnavo qualcuno
per absidi, cappelle e chiese ovvero era stata lei a
trascinarmi, seguendo i tratti di carboncino sui suoi fogli da
disegno; forse erano le circostanze a prenderci entrambi e
noi ci eravamo fatti trasportare, con le vele abbandonate,
alla deriva di una giornata in cui nulla era programmato e
tutto diveniva una scoperta.
So questo ora: che per quanti fossero i soggetti possibili,
non uno era sfuggito alla mano della mia artista ed alla fine,
con i piedi fuori dalle scarpe, allungati sotto il tavolino a
contare il brecciolino in un locale pieno di buona musica,
mi ritrovavo a guardare col naso in su la sera che arrivava
alla sprovvista, traditrice, e senza annunciarsi spezzava già
l'incantesimo che andava svanendo quando avrebbe dovuto
cominciare.
74
d’estate, una notte
Il viaggio si era esaurito, le chiese pure, ed il bambino era
rientrato a casa con le sue biglie di vetro; la notte,
immaginavo, sarebbe stata più lunga quella notte, ma ecco
che allora le sentivo dire in un soffio d'italiano:
-Parlami un po’ di te ora –
Dietro le sue spalle, improvvisando uno slalom tra i tavolini
affollati, il cameriere si avvicinava veloce tenendo alto
sopra la spalla il vassoio con la consumazione; mi sorrideva
e mentre osservavo i due alexander che avevo ordinato
ondeggiare lentamente verso di noi, mi arrivava di nuovo il
suo odore ed ero certo a quel punto che la prima intuizione
era esatta, che comunque fossero volti i fatti che quella
notte ci preparava, sarebbe bastato che la notte fosse
trascorsa e la sua fine sarebbe stata nota.
CLIC SU FILE. APRI
Le dita corsero veloci sulla tastiera:
...Velocemente scorsi le pagine: 121,21,3, uno due, tre
tocchi di campana lo raggiunsero supino sul letto troppo
grande e vuoto anche quella notte.
Da quanto stava lì? Uno, due, tre; uno, due, tre; le quattro
meno un quarto conteggiai con sollievo costatando che la
75
Paolo Batzella
notte stava trascorrendo portando via con se i miei incubi e
quella voce che martellava nel suo cervello come un
sonaglio sussurrando da ore come ogni notte ormai la
stessa litania.
Nei giorni aveva cominciato a dare persino un corpo al
sussurro e spessore agli spazi al punto che se avesse
allungato le mani avrebbe sentito le dita scivolare sul collo
della bottiglia ormai vuota, avrebbe sentito il vetro liscio e
freddo come le pietre di quella prigione, tale erano
diventate le sue notti senza sonno ed avrebbe potuto
persino sfiorare, se solo l’avesse voluto, l’origine stessa
delle parole, il suo viso: doveva essere meravigliosa.
Uno, due, tre; uno due, tre tocchi di campana:
- Amavo Marcantonio d’un amore nascosto - bisbigliava la
voce nella testa e questa scivolava sull’umido della parete
dalla bocca poggiata quasi in una smorfia sulla nuda
pietra; non dolore ma neppure piacere traspariva
dall’espressione del viso, solo una postura immobile come
di chi è lontano con la mente, in compagnia dei suoi ricordi
– questa e solo questa è la mia colpa – continuava la voce
mentre le parole sciogliendosi lentamente e seguendo le
76
d’estate, una notte
radici della muffa s’infiltravano tra gli interstizi delle
pareti, percorrevano i muri e trasportavano quei pensieri
per tutto il palazzo, risalendo le segrete sino alla luce che
certo, se fosse stato giorno, avrebbe riscaldato anche quel
luogo infame, quella prigione ingiusta che le era stata
assegnata a residenza.
In un cantuccio, appena confuso in un angolo più buio, il
grosso ratto, suo unico compagno di sventura, stava lì
immobile aspettando l’ora del pasto, quel pezzo di pane
che, lui lo sapeva, come ogni mattina lei avrebbe diviso con
lui; ma intanto la notte era ancora lunga e come ogni notte,
avrebbe avuto tempo per osservare la pazzia prendere
possesso della sua compagna, farla agitare ed ansimare e
dire e fare cose ai suoi occhi senza senso.
A lui non sarebbe rimasto altro da fare che vegliare su
quello sconforto dell’animo e badare a che non si
addormentasse in preda ai suoi sogni; non essere in se al
momento in cui il guardiano faceva il giro avrebbe
significato aspettare il giorno successivo e la sua
compagna, ne era certo, non avrebbe retto al digiuno e lui
77
Paolo Batzella
non avrebbe avuto più nessuno con cui dividere un pezzo di
pane.
Uno, due, tre ed ancora uno due tre: albeggiava pensò lei
mentre percorrendosi con il palmo aperto il corpo sentiva
gli infiniti bottoni della veste snocciolarsi tra le dita delle
mani di lui come grani di un rosario tra le dita di un
sacrista.
Uno due tre ed ancora, ancora in un lento ritmo i noccioli
d’avorio cedevano alla stoffa mentre le sue mani, Dio, le
sue mani: erano tiepide come un fuoco che, appena sopito,
si rianimi a tratti tra le braci del camino ma sembravano
quasi separate dalle dita, fresche al contrasto, dita che
percorrendo la pelle, lasciavano dietro di loro i segni del
brivido.
Era mio allora ed io sua e poco importava se nessuno al
mondo avrebbe potuto rallegrarsi della nostra gioia; noi
bastavamo a noi stessi, nascondendoci così al riparo del
letto disfatto per rappresentare un sonno che non era
giunto, celati dalla brace alla fine della sua vita che aveva
segnato il momento dell’incontro, quando intorno è silenzio
ed il mondo dorme in balia dei sogni profondi.
78
d’estate, una notte
Ecco: così lo vidi, trasalì, ancora vicino a me, come nei
giorni della vita, dell’amore: chiuse gli occhi forte per
trovare il buio più totale, il buio come allora, come se le
candele d’incanto precipitassero giù dai candelabri,
soffocate dai mantelli, tutte e tutte insieme si spegnessero:
fu così di nuovo come allora ed ancora come infinite volte
sarebbe stato ed allora il coraggio che temevo mi
abbandonasse, non mi mancò.
Le labbra si muovevano piano ora, raccontavano una
storia, la stessa di sempre in quegli ultimi giorni di quegli
interminabili anni ed ogni volta sentiva il sangue circolare
più veloce nel suo corpo, quasi riscaldandolo del calore
che può dare un ricordo: la sensazione delle proprie
solitarie carezze sul suo sesso mentre sentiva la schiena
drizzarsi e la testa ciondolare all’indietro per prendere
aria mentre risentiva i suoi fianchi inarcarsi per accogliere
il suo amante.
Avrei potuto fare altrimenti, sì avrei potuto offrirgli riparo,
avrei potuto avere pietà per chi come lui, ferito, ti guarda
incredulo chiedendo aiuto; la chiazza di sangue che si
allarga sul ventre, l’odore della sua carne bruciata, la sua
79
Paolo Batzella
mano che mi artiglia la spalla avvicinandomi a sé,
implorando una grazia.
Si, avrei potuto fare altrimenti ed invece ecco che le mani
corrono altrove, cercano un appoggio sul tavolo, trovano
una lama ed allora, ecco, allora, spiando la paura nei suoi
occhi, scrutandogli l’anima poggiai con tutto il mio corpo
sull’elsa e spinsi a fondo osservando l’assassino che avrei
dovuto sposare inginocchiarmisi davanti trascinando con
se il coraggio con cui l’avevo colpito, finendolo.
- La vita d'un Mattei per quella di un Mattei, pensai, e la
mia pazzia fu appagata-.
La luce, seguendo il corso del sole, penetrò dalle persiane
socchiuse e colpendomi gli occhi mi trovò riverso sulle
pagine aperte del libro.
La bocca semiaperta, deforme in quella posizione, si
schiacciava contro i fogli inumidendoli con un rivolo di
saliva.
Il corpo scomposto, riverso sul letto, allungava una mano
verso la bottiglia di brandy tenuta in precario equilibrio
mentre le palpebre sbattevano per il fastidio che la luce
80
d’estate, una notte
provocava, così concentrata in un fascio caldo ed
accecante.
Misurai il vuoto della mia compagna di quella notte: un
paio di sorsi ancora e sarebbe stata da buttare; quindi
senza muovere un solo muscolo, ancora intontito
dall’alcool, ricominciai a sperare che Lei arrivasse quella
sera o al più tardi domani perché in quel momento ero
certo che non avrei retto ancora per molto in preda a
quella magia.
Provavo paura, paura di seguire le tracce che quella
incredibile storia mi suggeriva e speravo che con Lei a
fianco anche il timore sarebbe stato più sopportabile, ma
non solo: Lei aveva sempre saputo distinguere meglio di me
i confini delle cose mentre questo mio paranoico
arroccarmi entro limiti conosciuti era sempre stato in
fondo, ora me ne rendevo conto, un sistema di difesa contro
l’ignoto, un tentativo di sciogliere entro l’orizzonte
ripetitivo delle azioni l’incertezza del risultato tipica di
qualsiasi speculazione sincera.
Quanto avrei potuto ancora aspettare?Non avrei saputo
dirlo.
81
Paolo Batzella
Olimpia mi chiamava, mi aveva scelto e mi voleva o meglio
voleva da me qualcosa e mi rendevo conto ormai che se
solo avessi capito cosa, questo l’avrebbe appagata e
liberato me da quel vincolo.
A cosa sarebbe servito dunque aspettare ancora, se non a
perpetrare quello stato di schiavitù, il mio ed il suo.
Meglio era cimentarsi nell’ignoto ed accettare la sfida,
alzarmi, da quella postura inconcludente, lavarmi, vestirmi
e gettarmi fuori di casa, in pasto a ciò che se doveva
succedere era forse meglio che accadesse subito, adesso.
Se Lei fosse arrivata allora, se Lei avesse risposto alle mie
preghiere, non mi avrebbe più trovato in attesa e avrebbe
capito che avevo fatto da solo quello che andava fatto, se
Lei avesse potuto vedermi allora si sarebbe resa conto che
non scherzavo, che non avevo accampato delle sciocche
scuse per trascinarla in oziose discussioni su di noi, in
parole già dette, ma che semplicemente avevo bisogno di
lei; non credermi sarebbe stato un suo errore e le sarebbe
stato chiaro che per questo mi aveva perduto.
82
d’estate, una notte
Si, era deciso: avrei seguito quella mappa surreale e
raggiunto, sentiero dopo sentiero, il luogo dove tutto era
iniziato e si era concluso.
Con l’evidenziatore, con la meticolosità di un bravo
studente, qualcuno aveva messo in evidenza poche parole
sottolineandole: ‘Palazzo Mattei, Piazza della Gensola’.
CLIC SU FILE. SALVA
83
Paolo Batzella
OTTAVO
Adagiati sull’orizzonte estremo della mia visuale, di là dal
monitor, i due letti erano rimasti dal giorno prima nella loro
posizione innaturale, sconnessi e disfatti a formare un
angolo remoto a se stante come separato dal resto
dell’arredamento ed incastonato tra un mobiletto nero ed
una sorta di colonnina ad uso libreria che ero riuscito a
ricavare modificando più volte un mobile a cassettone anni
sessanta, di quelli che si mettevano negli ingressi per
conferirgli prestigio.
Su quella erano stipate riviste, qualche libro ed una buona
raccolta di vecchi dischi e su tutto troneggiava solitario un
giradischi perfettamente funzionante che con i suoi due
altoparlanti formato cassette di frutta posti a fianco e da cui
con amore sconfinato riusciva a riprodurre ancora buona
musica; lì, nella penombra, la debole luce che filtrava dal
lampione rimbalzava sullo specchio e danzava sulle
lenzuola facendole a tratti apparire vive, ancora piene di
carne e sudore.
84
d’estate, una notte
Questa mattina mi era rimasto di lei solo il ricordo,
rimuginavo mentre rileggevo le ultime righe; ma era poi
accaduto questo ieri, anzi oggi, pensavo districandomi dai
miei pensieri; forse accadrà domani, quando i miei sogni
avranno minor spessore delle mie ore di veglia, forse, mi
dicevo, non è poi così importante saperlo.
Mi ero tirato su da quella postura insaccata nella sedia,
accorgendomi d’un tratto che stavo sbirciando come da un
immaginario buco della serratura qualcosa che non poteva
più essere lì dove speravo che fosse ed ora, guadagnata la
posizione eretta, potevo vedere il vuoto che riempiva
l’ambiente e non avevo trovato nulla di meglio da fare che
misurare le mattonelle del pavimento con i miei passi,
percorrendole una dopo l’altra come mimando il gioco che
da bambino facevo nella piazza assolata del mio paese; la
campana non era un diversivo molto maschio ma di tanto in
tanto si praticava proprio per questo motivo: era il modo
più facile che a dieci anni si potesse avere per frequentare
l’altro sesso, assoluto padrone delle regole di quel gioco.
Come tutti ero un po’ impacciato nel saltare con precisione
entro i confini disegnati col gesso sull’acciottolato, o forse
85
Paolo Batzella
no, era più l’irruenza tipica dei maschi ancora imberbi a
farmi sbagliare in continuazione e scatenare così l’ilarità
dell’occasionale compagnia femminile.
In cambio qualche battito di ciglia più leggero, uno sguardo
che si fissava nei tuoi occhi per poco più del necessario,
ripagava d’ogni umiliazione, faceva scatenare l’immaginario
e come in un gioco, a quel punto davvero perverso, più
l’eccitazione aumentava, più sbagliavi; più ridevano della tua
goffaggine e più ti illanguidivi sognando d’avventure
impossibili stampate su presupposti e conoscenze talmente
vaghe da far assomigliare il tutto ad una favola ed
apprezzabile solo in quanto tale.
Avevo così finito per censire una ad una le mattonelle della
cucina, scoprendone alcune sbrecciate e notando anche una
notevole differenza di dimensioni tra queste e quelle del
salone e ciò mi aveva costretto a cambiare il ritmo dei passi
senza perdere la concentrazione necessaria per non toccare i
contorni di quella fantastica scacchiera e non sollecitare
così lo scherno della mia immaginaria spettatrice.
In questo modo, caracollando avanti e indietro, ero tornato
nei pressi del mio posto di lavoro; il salva schermo in
86
d’estate, una notte
funzione proponeva uno splendido tramonto su un deserto
di dune ed in basso, sulla destra, si indovinava un
accampamento di tende: questo ultimo particolare era il
vero motivo della scelta di quello sfondo: mi piaceva non
tanto la prospettiva del tramonto di fuoco quanto quella di
qualcuno, magari, immaginavo, un nobile e libero berbero,
che potesse osservare quello spettacolo dalla tranquillità
della sua tenda.
Di fianco al monitor, debitamente montata su una cornice a
giorno, una delle rare fotografie della mia giovinezza,
sopravvissuta agli infiniti traslochi, era posta tra i piani
della libreria, in una posizione in cui fosse possibile
osservarla senza fatica, appena sollevando lo sguardo da
uno scritto oppure spostandolo verso destra, distogliendolo
dal video.
Poggiati ad un muretto che recintava i giardinetti
dell’Università di fronte al Rettorato, stavano sistemati
come lucertole al sole un gruppo di ragazzi.
Di molti non ricordavo più neppure il nome, di altri non
avrei saputo dirlo neppure quel giorno ma questo era
ininfluente perché lo stare insieme era considerato un
87
Paolo Batzella
valore in sé e le parole allora erano insieme cemento e
strumento di questa operazione.
In quella comitiva Sandro se ne stava un po’ in disparte e
salutava il fotografo con un cenno della mano, Paola era
distesa di lato e poggiava la testa sulle sue ginocchia, col
viso rivolto al sole e gli occhi chiusi; poco avanti a loro io
parlavo con una ragazza della quale avevo appena memoria
del viso: non era bella, ricordavo, ma la conversazione
doveva essere interessante a giudicare dall’attenzione con la
quale sembravo ascoltarla.
Tutti indistintamente stavano lì di fianco al tramonto di
fuoco del salva schermo e, se solo Paola dalla foto avesse
aperto gli occhi, avrebbe certo riso di quella scelta un po’
crepuscolare.
Senza dubbio domani non avrebbe mancato di prendermi in
giro sostenendo che per quanto i miei capelli si stessero
sbiancando, non ero cambiato affatto, che dovevo aver
studiato a lungo per costruire un abbinamento come quello
e avrebbe concluso che in fondo ero rimasto il solito
ombroso rompipalle.
88
d’estate, una notte
- E’ un’istantanea del tuo ultimo viaggio?- aggiungerà
passando dalla foto di noi all’immagine del deserto con un
sorriso un po’ maligno, mi pare già di sentirla, e sapendo
bene quanto poco incline sia allo spostarmi anche solo dal
quartiere in cui vivo e quanto mi sarà costato il solo arrivare
all’aeroporto per andarla a prendere.
Mi
sarei
difeso
accampando
ragioni
d’ordine
comportamentale, avrei sostenuto che non avevo in odio il
viaggiare ma chi viaggia e soprattutto chi ti vende questa
esperienza millantando arricchimenti intellettuali, crescite
dello spirito e quant’altro viene proposto nei patinati
opuscoli promozionali, quasi che il piacere della scoperta, la
meraviglia per l’inaspettato potesse essere misurato a peso e
consumato in ore.
Paola non ascolterà neppure la mia arringa e con fare deciso
spalancherà le tapparelle inondando di luce l’appartamento
e decretando la fine del paesaggio desertico che, annichilito
dal confronto, tornerà ad essere nella luce del giorno quello
che è: niente più di una semplice icona.
La lascerò fare con mascherata indulgenza e mi riscalderò
un po’ a quel calore intenso che le cose vive emanano,
89
Paolo Batzella
anche quando ti sono vicine in forma di parole, ironia, o
semplice imposizione ad arieggiare l’ambiente e togliere i
piatti sporchi dal lavandino.
D’altra parte Paola aveva il dono di raddrizzare la realtà
con soluzioni semplici, anche in situazioni scabrose come
quella volta che avevamo trovato rifugio sotto un arco
infestato da sacchi di spazzatura.
La manifestazione era terminata ma gli scontri tra la polizia
ed i manifestanti ancora continuavano qui e là a cavallo tra
le due sponde del Tevere e disimpegnarci stava diventando
problematico; avevamo perso i contatti con i nostri
compagni e l’unica cosa che ci interessava era allontanarci
il più possibile dal fumo acre dei lacrimogeni che sembrava
chiuderti la gola.
Passi affrettati e grida di richiamo arrivavano dalle vie
adiacenti: tra un momento, pensai, ci avrebbero trovato e fu
allora che, non so come, ma d’un tratto sentii che Paola mi
strattonava trascinandomi tra un vecchio armadio e la
parete della volta di una specie di passaggio a mo’ di arco
tra due palazzi.
90
d’estate, una notte
Lei mi stava vicina, come spalmata addosso e, trattenendo il
fiato forse per evitare anche solo il rumore del respiro,
aveva poggiato le sue labbra sulle mie.
-Pensa di non essere qui, sussurrava, pensa che intorno sia
il deserto, e su di noi ci sia un tetto di stelle.Quindi, quasi percependo il mio disagio, il timore che
provavo più per lei che per me, la mia certezza che non
avrei saputo né potuto proteggerla in quella circostanza,
insisteva: -Devi volerlo Sese, è così come ti dico, se lo vuoi
succederà.Ero annichilito, ricordo, e le sue labbra erano ciò che di più
morbido avessi mai sentito sulle mie e nulla mi parve allora
più certo: l’arco tra i palazzi, il deserto, le stelle, il buio del
tramonto che per fortuna di entrambi sopraggiungeva ed
accoglieva le nostre speranze di non essere scovati.
Aveva gli occhi chiusi Paola nella sua cornice e sembrava
dormisse, forse sognava; allungai la mano e con un clic resi
attiva la finestra che il tramonto celava.
CLIC SU FILE. APRI
Nota.
91
Paolo Batzella
Camminavo così, ciondolando sulle gambe, passo incerto,
non sapendo bene quale mano tenere della strada che
avevo davanti, non sapendo neppure la direzione; sulla
destra una vecchia appollaiata su d’uno scranno puliva un
cesto di puntarelle, quell’erba amara che condita con un
pesto d’alici ed aglio è una delle invenzioni geniali della
cucina di queste parti.
Sembrò osservarmi, più che incuriosita credo preoccupata
per il mio aspetto, che doveva essere orribile, tanto mi
sentivo stravolto.
Le sorrisi appena, per cortesia, e proseguii, cercando un
momento in cui nessuno mi fosse intorno, in modo da
potermi ricomporre, prendere fiato e riordinare le idee.
Ecco, poco più avanti la stradina si apriva appena in uno
slargo e sul lato sinistro era stato ricavato nel palazzo un
passaggio a mo’ di arco; da fuori appariva buio e freddo,
forse solo per l’immediato contrasto con la luce accecante
che costringeva gli occhi a socchiudersi e rendeva l’aria
incandescente.
Puntai diritto in quella direzione lasciandomi inghiottire
come pane lievitato in un forno, tanto angusta mi parve la
92
d’estate, una notte
volta, tanto desiderio avevo, una volta all’interno, di
sedermi, rannicchiarmi in un angolo, come per paura che
qualcuno potesse trovarmi, fosse stato anche solo una
proiezione della mia fantasia.
Di fianco ad un vecchio armadio da rottamare stava una
cassetta di legno rovesciata ed invitante come uno
sgabello; mi ci accasciai sopra, scomparendo così confuso
tra la volta ed il mobile agli sguardi indiscreti del mondo;
quindi allentai la cravatta che sentivo ora stretta al collo
come un nodo scorsoio ed inspirai profondamente
facendomi sommergere dal fetore aspro dell’urina di
qualche
incontinente
misto
all’acido
dei
rifiuti
e
consolandomi del fatto che immerso in quell’afrore
neppure un segugio mi avrebbe scovato.
Stavo lì seduto col libro serrato tra le braccia in preda al
dubbio su quale fosse la parte che mi era stata riservata in
quella recita.
Chi ero io: Pietro o Marcantonio, lo sposo rifiutato o
l’amante perduto; colui che amava o quello che era amato?
-Tutte stronzate- sibilai a denti stretti, entrambi erano
vittime, come ognuno d’altra parte in quella maledetta
93
Paolo Batzella
vicenda, ed allora a cosa sarebbe servito interrogarsi se la
fine sarebbe stata comunque la stessa?
- Maledetto il giorno che ti ho incontrato - mormorai
chinando il capo, cercando di nasconderlo tra le spalle e
così facendo cercando d’inibire i pensieri che ora sempre
più chiaramente affioravano da quel mare oscuro che è
l’utero dei nostri incubi.
Così ricurvo su me stesso ripercorrevo le sensazioni di
quegli ultimi giorni: la prima volta che avevo incontrato il
suo sguardo o sentito il suo fiato carezzarmi l’orecchio in
un soffio, quel tanto che bastava a svegliarmi dal torpore
del sonno e lasciarmi così in attesa, sperando e temendo
insieme che la magia si ripetesse ancora e poi le sue dita
che corrono lungo le spalle giù sino ai glutei, le sue unghie
e l’odore dei suoi capelli, odore di resina odore di bosco, di
foglie bagnate che scricchiolano piano sotto i piedi nudi
mentre la nebbia dell’aurora ti avvolge, gelida e pulita
come il suo alito, come la morte e sentirtela addosso e
lasciare che faccia, che comunque finisca, che goda e mi
sfinisca; abbandonarsi così, occhi al cielo ad immaginare
94
d’estate, una notte
lo spazio che ti separa dalla cima degli alberi mentre
piccole gocce scendono lievi su di noi.
Così , ora, in quella posizione fetale intravedevo attraverso
il velo che cominciava ad inumidirmi gli occhi, i miei
pantaloni bagnati, ombrati di quell’umore che la passione
lascia per ricordarti che hai goduto.
Si, era così, l’avevo amata ed era stato meraviglioso al di
là dell’immaginabile, travolgente e dolce come solo un
sogno può essere, violento e torbido come un incubo.
Olimpia era stata mia ma, soprattutto, e questa era la
chiave forse, io ero stato suo, ero stato il suo alimento, il
mezzo attraverso cui il suo desiderio aveva ancora una
volta potuto prendere forma e sostanza, appagarla.
Ero stato consumato come un pasto rituale, qualcosa che
ha valore solo in sé e non lascia di sé neppure memoria ma
solo l’attesa del futuro appetito cui di nuovo si dovrà
provvedere ed ancora ed ancora in una spirale infinita.
Avevo solo dato forma al suo amore, senza però divenire io
quell’amore, e per colmare il vuoto che adesso mi sentivo
addosso, freddo come l’umido del mio sesso, non potevo far
altro che rendermi partecipe del rito, condiscendere
95
Paolo Batzella
consapevole e farmi divorare pur di vederla felice, pur di
lenire le notti di quella ingiusta prigione che le era stata
assegnata in eterno e dalla quale evidentemente lei stessa
non riusciva più a liberarsi.
-No, questo no- urlai realizzando quella prospettiva.
-No- urlai ancora con quanto fiato avevo in gola,
scaraventando lontano il volume che teneva legate le nostre
vite.
Quello rimbalzò leggero davanti ai miei occhi come privato
del peso, rotolò come una palla poco lontano da me,
sollevando nei balzi una leggera polvere quasi che
l’acciottolato fosse cosparso di talco.
Un balzo ed era fuori dell’arco e, come portato da un
refolo, per un incongruo spostamento d’aria, l’odore
rancido si fece più intenso, spezzandomi il respiro; due
balzi e si aprì come le ali di un uccello che tenti il vento, la
copertina si separò dal corpo e volò via, i quinterni, non
più contenuti, si scomposero ed uno ad uno li vidi
sparpagliarsi lungo la traiettoria del volo tra il limitare del
cunicolo dove ero io ed il palazzo che chiudeva lo slargo.
96
d’estate, una notte
Portai istintivamente le mani alla bocca con un moto di
disgusto per quell’aria soffocante, ferma come una palude
dal fondo della quale una sagoma di donna mi veniva
incontro; era bellissima e con una tristezza negli occhi
profonda come la notte; occhi neri, acquosi e lucidi come
una femmina che debba ancora smaltire le pulsioni della
passione,
la
bocca
socchiusa
in
uno
stupore
incomprensibile, il petto che respirando a fondo faceva
sollevare in un ritmo lento i seni all’unisono nell’incedere
elegante, altero.
Quindi il suo sguardo sembro accorgersi delle pagine
sospese e seguendone il volo rallentò il passo e nello stesso
istante mi accorsi che il ritmo del mio respiro rallentava
con Lei, ne seguiva le movenze mentre sempre più lenta mi
veniva incontro non come se dovesse percorrere pochi
metri per raggiungermi, bensì una distanza diluita, liquida,
indefinita.
Allora tentai, sì, cercai di aprire la bocca allo spasimo nel
tentativo di afferrare l’aria ma il ritmo del fiato si era ora
definitivamente inceppato, come rotto; annaspai un poco,
poi, al terzo balzo i fogli che non erano raccolti nei
97
Paolo Batzella
quinterni si sollevarono tutti insieme volteggiando un poco
ancora spinti da quell’aria ferma come la morte.
A quel punto, riverso sul selciato feci ancora in tempo a
vedere da quell’angolazione sghemba le parole scritte
adagiarsi lentamente per terra a ricoprire uniformemente
l’intera piazzetta; qualcun altro sarebbe passato di lì, ebbi
il tempo di ragionare, qualcun altro per un caso della vita,
avrebbe vissuto la mia stessa pena.
Ora gli era chiaro: non era stato il primo, non sarebbe
stato l’ultimo, ora sapeva che in quella recita la sua era
stata appena una comparsa e la vicenda cui aveva avuto la
sventura di partecipare non gli apparteneva, in realtà lui
od un altro sarebbe stato lo stesso per Lei.
Si sentì per un attimo vinto dal dolore di quella semplice
scoperta, come quando, da ragazzo, la civetteria di una
coetanea ti lascia impotente di fronte all’abbandono e ti
chiedi perché se tu l’ami non dovrebbe ricambiarti e non
comprendi che non tutto dipende solo da te.
La sagoma di Olimpia sembrò vibrare, tremolare come la
fiamma di una candela che un bambino non riesca a
spegnere e quando l’ultimo foglio si posò tra gli altri le sue
98
d’estate, una notte
considerazioni furono interrotte dal silenzio: era tutto
finito.
fine
CLIC SU FILE SALVA
99
Paolo Batzella
NONO
-Bene, bene- ripetevo soddisfatto mentre rileggevo le
ultime righe; se solo Peruzzi mi avesse dato ancora un po’
di tempo forse qualcosa sarebbe maturato in quel vespaio di
idee che era la mia mente; certo era solo l’inizio e la fine
del racconto, niente di più; costruire qualcosa che al suo
interno si reggesse degnamente, tenendo in equilibrio i
piatti estremi della bilancia era un altro conto; tuttavia,
anche nella vita d’immediato c’è solo l’inizio e la fine, la
nascita e la morte, ciò che sta nel mezzo deve
necessariamente accadere e per questo ha bisogno di tempo.
Facevo queste confortanti riflessioni come per consolarmi
un
po’
sulla
possibilità
di
crescita
della
storia,
convincendomi della necessità di mettere un po’ di vissuto
in quella minestra, un po’ di me stesso: il risultato non
sarebbe stato garantito, è vero, ma sarebbe importato poi a
qualcuno se stamattina pioveva oppure, come era stato, il
sole implacabile, riscaldando l'aria, aveva costruito un velo
opalescente dietro il quale nascondeva la sua furia?
100
d’estate, una notte
Un libro in tasca e via per i sentieri del mondo, mi ero detto
facendomi coraggio e buttandomi letteralmente fuori di
casa; lasciandomi alle spalle i letti disfatti come le mie
aspettative; fuori, lungo sentieri che mi ricordavano quelli
aspri delle montagne della mia giovinezza, a me noti come
ad un mulo che quotidianamente li percorra per guadagnarsi
la cena; no, mi dicevo, nulla avrebbe potuto accadermi se
non quello che avessi voluto.
Di norma arrivavo lassù a piedi, cercando di seguire l'antico
corso della via Aurelia che da S. Maria in Trastevere
risaliva verso l'antico confine etrusco. Vi andavo spesso per
bere qualcosa prima di pranzo; non avrei saputo dirne il
motivo ma tant’è lassù l'aperitivo mi sembrava avere un
sapore diverso, forse per il colpo di cannone che,
annunciando mezzodì, mi sollevava dall'incombenza di
decidere se fosse o meno l'ora giusta per alzare il bicchiere.
Quel gesto comune diventava così un rito, d'un tratto
purgato dalla fretta con cui lo si consuma in un qualunque
bar e non solo lo stomaco ma tutto l'organismo mi
sembrava si disponesse meglio alla pietanza futura perché il
liquido scorrendo avrebbe seguito lo sguardo, e questo,
101
Paolo Batzella
ozioso, avrebbe vagato sulle terrazze vaporose della
giornata d'estate, su una città che da lassù pareva avere un
unico respiro.
Luogo sacro il Gianicolo, sacro al dio Giano ed al
Risorgimento italiano e, così affacciato da quel balcone,
disegnavo sui tetti i confini degli antichi rioni di là del
Tevere, giocando a indovinare la vita che da sempre vi
scorre sotto.
Il velo di foschia che segue la pioggia s'era dissolto e faceva
un gran caldo, saturo di umidità, me la sentivo addosso e
già mi figuravo la fresca dolcezza del ritorno, i vicoli
ombrosi che scendono verso la valle; la gradinata che
costeggia il colle conosceva i miei passi come io i suoi sassi
e gli angoli d'ombra tra cui saltellare al riparo dal sole; poi,
poco più avanti, avrei cominciato a selezionare una trattoria
dove il mangiare fosse buono e la faccia dell'oste simpatica.
Per intanto il bar alle mie spalle si era riempito di turisti e il
chiacchericcio mi circondava ma senza fastidio, più come
un motivetto orecchiabile dell’ultimora; facevano parte
dell'arredo e, mentre mandavo giù l'ultimo sorso, forse per
questa fisica distanza dal quotidiano, con gli occhi chiusi
102
d’estate, una notte
assaporavo l'idea che infine la realtà fosse solo un sogno e
ciò che a lei ci lega appena un ricordo.
Ora che ci penso, avevo fatto proprio questa considerazione
in quel mezzogiorno di quell’ultima primavera, tra i primi
della stagione che avesse promesso di non bagnarsi per un
improvviso temporale.
Era tutto perfetto come i desideri invernali che si realizzano
schiudendosi ai primi tepori: i camerieri del piccolo bar
cominciavano a sistemare i tavoli sul belvedere, le prime
famigliole in gita cittadina a passeggio così, tanto per tirar
fuori la testa dalla tana, gli immancabili turisti giapponesi
ed io che, confuso tra quella varia umanità, nell’ultimo
posto in cui mi sarei aspettato che fosse, ecco che, lo
ricordo bene, lo vidi dunque lì il mio ricordo: se ne stava
ritto e sorridente, a pochi passi tra me e il monumento a
Garibaldi; stava lì ritto e travestito da giocattolaio.
Mi ero avvicinato con calma, ciondolando distrattamente ed
osservando un punto lontano sull’orizzonte come può fare
un estraneo che si guardi intorno alla ricerca di qualcosa
che non riesce a trovare, ed ero riuscito in quel modo a
penetrare per gradi nel suo spazio visivo ed allora, per un
103
Paolo Batzella
attimo solo, l’aria stessa era sembrata fermarsi diventando
quasi solida lungo la traiettoria degli sguardi, quello
necessario appena a renderci conto dell’accaduto e ad un
tratto sorridevamo entrambi, salutandoci timidi, come due
monaci nel chiostro che dopo anni passati insieme nella
stessa clausura, si sbirciano tra loro, estranei e un po’
curiosi; così noi ci scrutavamo, vedendoci allora dopo
infinite volte per la prima volta.
- Come stai?
- Si vive.
- Lo sai, non sei cambiato affatto, amenità rassicuranti, e le
donne, il lavoro, la casa? –
- Beh, è un lavoro come un altro e poi, ti dirò, mi piace la
sera contare le mille lire e gli spicci, farne dei mucchietti:
mi da una sensazione di sicurezza.- Ah sì, capisco, è quello che a me non dà l’attesa del
giorno di paga, il ventisette di ogni mese.Risate e, Gran Dio! quante, troppe cose appresso mentre
piano il tono delle nostre voci incrinava e tradiva i nostri
sentimenti e le nostre paure incoscienti ora come allora si
inseguivano
104
danzando
mentre
il
fumo
denso
dei
d’estate, una notte
lacrimogeni che si vedeva levarsi dietro gli ultimi palazzi
prima del piazzale della Città Universitaria, cominciava a
salire, trasportato dal vento e si insinuava su per il naso fino
a riempire gli occhi che adesso cominciavano a lacrimare.
Allora le ragazze, belle come possono essere solo quelle
della Contestazione ci baciavano sulla bocca con le labbra
strette, nervose e tenere insieme, poi ci aiutavano ad
annodare i fazzoletti sul viso e noi potevamo così scattare
appagati, in avanti, verso la testa del corteo, incontro ad uno
scontro tutto forma, niente sostanza mentre i responsabili
dei servizi d'ordine urlavano le ultime disposizioni per
l'imminente battaglia tra il gracchiare dei megafoni ed il
ruggire degli slogans, che si facevano mano a mano sempre
più concitati.
Mi sentii chiamare in modo secco: Sandro era tra i
responsabili uno dei più coriacei, nulla mai avrebbe potuto
tradire la sua paura di ragazzo; i peli radi della barba ed i
baffi mai tagliati, soffici come lanugine, facevano il resto
dando un quadro a quell’icona da noi tutti adorata quasi in
modo religioso.
105
Paolo Batzella
Finii di tirare su da me il fazzoletto sul volto e ciò che più
mi spiacque fu il non aver avuto il tempo di godere dei
saluti, di quello di lei intendo: era la più bella e mentre a
grandi passi raggiungevo la mia squadra pensavo al fatto
che forse non l’avrei vista mai più, pensavo che
un’occasione come quella non sarebbe più stata.
E’ curioso come si abbia in gioventù la necessità di
drammatizzare il senso delle cose: ognuna di esse assume
un carattere definitivo ed ha come effetto il porci
continuamente di fronte a grandi scelte, grandi eventi,
grandi passi, come per una sete inesauribile di misurarsi
con l’impossibile.
Mi voltai appena e l’espressione che colsi fu quella che
negli anni che seguirono mi sono trovato davanti mille volte
tra le pieghe della memoria: il braccio suo alzato, confuso
nel nugolo di pugni in alto ad incitare il cielo e tra tutti il
suo era solo per me, ci fissammo così per quell’attimo
necessario ad un piede per poggiarsi e far andare in avanti
l’altro, un attimo appena ed era la più bella.
I bordi del corteo sembravano adesso scorrere lenti al
nostro fianco, quasi immobili, mentre noi sfilavamo veloci
106
d’estate, una notte
verso lo scontro imminente; così, come in un torneo
medioevale dove gli eroi incrociano le armi in un
contenitore scenico ben più significativo in sé della breve
rincorsa di cavalli e cavalieri lanciati l'un contro l'altro e già
esaurita in una manciata di secondi; così là noi
esercitavamo l'antica arte della mimica dove il gesto è tutto
e la sostanza delle cose appena traspare dietro di esso
consentendo al rito di diventare rituale.
Già, pensavo mentre osservavo gli occhi del mio amico
farsi più vivi tra le rughe, non era scritto allora, trent’anni
prima, quando sulle gradinate della facoltà si decideva
insieme dei destini del mondo; no, non era scritto in
quell'assetto futuro che lui avrebbe venduto palloncini ed io
il mio tempo per un salario.
Ed ancora, più tardi, mai alcuna ipotesi nei nostri discorsi di
allora intorno a quella tavola, avrebbe previsto anche solo
vagamente, anche solo una parte di ciò che sarebbe stato
negli anni che poi sarebbero stati, nulla delle sue ore
passate ad aspettare un bambino invaghito dal colore
dell’ultimo pallone che con maestria consumata andava
107
Paolo Batzella
gonfiandosi tra le sue mani o dei minuti miei trascorsi ad
aspettare che l’orologio segnasse l’ora d'uscita dall’ufficio.
No: orizzonti lontani e luminosi imbandivano la tovaglia a
quadretti e poco altro visto che quella sera Paola aveva
deciso di sperimentare su di noi le sue ultime scoperte in
materia di cucina vietnamita.
Al primo assaggio, ricordo mi sembrò preferibile persino il
cibo macrobiotico a base di scatolame che ti propinavano in
uno dei più noti ristoranti alternativi al Campo dei Fiori,
proprio di fronte a quel Giordano Bruno che, ne ero e sono
certo ancora adesso, avrebbe preferito il rogo piuttosto che
essere confuso tra i suoi avventori.
Così, tra vino e riso scondito, salse, spezie e bocconcini di
pollo, si snocciolavano i numeri di quanti si era e di quanti
erano i ragazzi dell’altra parte, quelli con la divisa intendo e
quante ore si era stati lì a fronteggiarci, quante le cariche,
quanti gli scontri, quanti i feriti.
Ed alla fine dei conti, quando il vino era giunto all’ultimo
bicchiere, qualcuno rollava per l’intera comitiva ed io
osservavo quei gesti con un distacco un po’ snob che allora
ci si poteva ancora permettere; avrei tra poco ringraziato
108
d’estate, una notte
per il mio turno di fumo e preferito quell’ultimo bicchiere
senza temere per questo solo gesto d'essere considerato
fuori.
Gli occhi di Paola mi sembravano più lucidi del solito e
chissà, quella sera forse mi avrebbe avuto: era la più bella,
pensavo tra me, ed abbastanza pazza da impazzire la notte
di un ragazzo.
Se ne stava così, di fronte a me, seduta a fianco di Sandro
che continuava a parlarmi di cose che non sentivo più e con
la testa poggiata su una mano sembrava seguire il viaggio
delle parole da un capo all’altro della tavola.
Sembrava dico, perché con gli occhi contava i chicchi di
riso rimasti nel piatto e li spostava ora qui ora là lungo i
bordi, cercando un ordine, disponendoli in figure; di volta
in volta sollevava lo sguardo dal suo lavoro e da sotto le
sopracciglia mi scrutava misurando il livello d’attenzione a
quel discorso.
Credo realizzasse che non mi importava un cavolo di
quanto si stava cucendo e scucendo intorno a quanto dei
bisogni indotti potesse essere ricondotto a necessità
109
Paolo Batzella
primarie e quanto invece potesse essere rigettato come
imposto dal sistema di potere.
Dissertazione tra le più preziose, senza dubbio ma mai
quanto i suoi seni che sembravano sul punto di riversarsi da
un momento all’altro fuori dai lacci che a malapena li
trattenevano racchiusi in un corpetto lavorato con motivi
messicani che costituiva la parte superiore di una specie di
scamiciato a sacco alquanto goffo ma assolutamente in tono
con la trama del tovagliato.
Se ne stava lì poggiata su di un gomito: il primo dei lacci
era saltato e lei ne osservava ora i capi penzolare sul piatto,
ora i chicchi ora me.
Io, da par mio, cercavo di destreggiarmi tra il fiume di
parole di Sandro e i suoi seni: situazione imbarazzante forse
ma solo per me che nel dubbio che quella magia svanisse,
continuavo a sorbirmi lo sproloquio del mio amico e
pensare nel frattempo che sarebbe stato meraviglioso
sentire l’alito di lei vicino e gli orizzonti luminosi del ‘sol
dell’avvenire’ allontanarsi oltre i confini visibili almeno per
un attimo, per quel poco necessario a riposare.
110
d’estate, una notte
Avrei allora raccolto il suo viso dalla sua mano e
stringendolo tra le mie, avrei poggiato la fronte sulla sua
suggerendole
che:
“ecco,
ora
i
miei
pensieri
ti
appartengono”, poi, respirandole il fiato più vicino uno ad
uno i lacci avrebbero ceduto e con le dita avrei scansato la
tunica dalle spalle piccole facendola scivolare, osservandola
impigliarsi sorretta per un attimo dai capezzoli d’un tratto
inturgiditi.
Così, chiusi gli occhi, il mondo mi avrebbe raggiunto solo
per i suoi odori, per la sua pelle che sa di lavanda, tesa ed
intirizzita appena sotto le mie dita.
Toccarla così, lentamente, affinché il tempo duri di più,
carezzarla così per farlo fermare del tutto e consumare le
energie di una vita intera in una sola notte e poi riposare,
riposare e farsi accogliere dal sonno per continuare a
sognarla; riposare e dormire che l’indomani, a saperlo,
sarebbe arrivato comunque e qualcuno avrebbe dovuto
gonfiare palloncini, qualcun altro avrebbe aspettato che
scattasse l’ora di fine turno, qualcun’altra avrebbe avvisato
del suo arrivo per l’indomani.
111
Paolo Batzella
Così, superato lo zenit, il sole, come un pifferaio, aveva
richiamato a se come d’incanto tutti i bambini; il piazzale
deserto d’intorno segnalava inconfutabilmente che l'ora del
pranzo era trascorsa senza di noi lasciando solo le nostre
considerazioni, come allora, a farci compagnia.
Ero rimasto lì per un po’ a guardare il suo furgone giallo
allontanarsi e la mia mano salutare; dopo di che, sparito alla
vista, mentre passeggiavo lentamente con me stesso verso
Porta S. Pancrazio, in direzione della Navicella, carica dei
sogni della resistenza giacobina sentivo come la sensazione
che il tempo d'un tratto cominciasse ad avvitarmisi davanti,
tanto da non saper più se quella fosse l'estate della
contestazione del sessantanove o di un secolo prima,
nell’ottocentoquarantanove pieno dell’utopia repubblicana
od ancora, invece, com'era, una qualsiasi giornata della fine
del millennio con intorno il ritmare, ora fastidioso, di un
motivetto orecchiabile dell'ultima ora e pensavo che,
ripresomi dallo spavento, avrei dovuto trovarmi un altro
luogo, un altro bar, convinto com’ero allora e stamani ed
ora che, rincontrandoci, non avremmo avuto da dirci nulla
di più di quanto c’eravamo già detti.
112
d’estate, una notte
Il bicchiere mi rigirava ora tra le mani, vuoto, il liquido
consumato aveva portato via con sé le immagini di quella
primavera rivelando la fettina di limone che, come spesso
accade, si era incollata sul fondo e considerai che mi
sarebbe costata non poca fatica snidarla da quella posizione
ma alla fine, mascherando i tentativi delle dita di allungarsi
quanto il contenitore e cercando di nascondere l’operazione
decisamente ‘poco fine’ spostandola all’altezza dell’anca,
fissando con una smorfia un punto imprecisato dall’altro
lato, alla fine l’avrei avuta tra i denti, giocando come fanno
i bambini quando cercano di imitare un pugile che serri tra
le mascelle un paradenti, alla fine il succo aspro e freddo mi
avrebbe ripagato della fatica facendomi assaporare ciò che
mi sarebbe aspettato di lì a poco, come un presagio di
fresco: il ritorno agevole della discesa verso le vie abitate
del borgo, i vicoli ombrosi che scendono verso la pianura.
Avrei imboccato la piccola gradinata che da dietro il
Fontanone inizia la via di San Pancrazio, infilandomi tra le
cinta del Bosco Parrasio da un lato e le mura della terra di
Spagna che dicono Ambasciata; conoscevo i miei passi uno
113
Paolo Batzella
ad uno così come i sassi e gli angoli d’ombra tra cui
saltellare al riparo dal sole sino a Piazza in Piscinula.
Ecco, allora sarei riuscito ad aprire il libro che anche il
giorno prima mi ero portato appresso inutilmente come
unico compagno, nell’intento dichiarato di tessere i canapi
di una fune abbastanza robusta da tenere legati i tratti della
mia fatica letteraria: lo Stradario Romano di Benedetto
Blasi.
Quella che avevo meditato mi era parsa la scelta più
acconcia; avevo ragionato che lì, comodamente seduto con
le spalle al solleone avrei consumato una macedonia
seguendo i giochi delle rondini nell'aria del pomeriggio; sì,
avrei ordinato la consumazione e disponendomi all'attesa,
boccheggiando per il caldo e aspirando l'aria umida, densa
di quell'estate senza vento, i miei occhi avrebbero
cominciato a contare i mattoni del palazzetto che era stato
dei Mattei.
Come un perfetto turista mi ero documentato attingendo
alle informazioni riportate sulla storia della piazza, del
palazzo, della famiglia; il tutto nell'ordine s'intende perché
sempre da un luogo si risale ad un uomo, mai viceversa;
114
d’estate, una notte
può capitare di leggere d'un uomo che sia soggiornato in un
tal posto ma mai sulla sua lapide che sia vissuto lì e lì e lì.
Dunque poco dopo me ne stavo seduto che ricapitolavo le
mie informazioni: quattro fratelli; Marcantonio ucciso da un
sicario di Pietro e vendicato dall'altro fratello, Alessandro,
che elimina l'assassino e fin qui è un classico, pensavo, ma
perché quella pace di famiglia, voluta, siglata dal
matrimonio di Pietro con sua nipote Olimpia, figlia di
Curzio, il più povero dei quattro? C'era un che di eccessivo
nella cronaca, che colorava di giallo la vicenda.
Arrivava la macedonia e la sola vista mi rinfrancava: la
panna si scioglieva velocemente sui pezzetti di frutta di
stagione ben assortiti e mi costringeva a starle appresso col
cucchiaino mentre con maggiore attenzione indagavo dietro
le finestre chiuse dell'edificio che mi stava davanti, a
limitare la piazza.
Dunque Alessandro si oppone a quella soluzione e si
presenta alle nozze col figlio e due sgherri e mentre lui
aspetta sul ponte uno dei tre arrivati con un'archibugiata
uccide Pietro, mentre l'altro fratello, Curzio, avrebbe ucciso
115
Paolo Batzella
il figlio di Alessandro se uno degli sgherri non l'avesse a
sua volta ucciso.
E, mentre rincorrevo un pezzetto di melone nascosto tra la
panna, mi compiacevo della mia felice posizione: tutto mi
appariva come su di un palcoscenico: Palazzo Mattei,
Piazza della Gensola sulla sinistra, il ponte sul Tevere verso
l’isola Tiberina, sul fondo le quinte di scena.
116
d’estate, una notte
DECIMO
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Con le dita cercò le freccette che servono ad arrivare al
punto desiderato dello scritto: “Con la meticolosità di un
bravo studente, qualcuno aveva messo in evidenza poche
parole sottolineandole: ‘Palazzo Mattei, Piazza della
Gensola’.
Con la stessa meticolosità si era preparato, continuò di
getto, ed ora si guardava e riguardava allo specchio con un
certo disappunto, cercando con le dita di spianare le
occhiaie che quella notte aveva prodotto.
Non si sarebbe comportato diversamente se avesse dovuto
incontrare la sua amante ma non c’erano donne nella sua
vita o per meglio dire l’unica che avrebbe dovuto esserci
non c’era, ed il puntiglio in quella preparazione era dovuto
più al suo perfezionismo che alla circostanza.
Non sarebbe accaduto nulla, si ripeteva cercando di
tranquillizzarsi e non sapendo bene se sperasse nel
contrario.
117
Paolo Batzella
Ecco, e se poi qualcosa fosse accaduta, rimuginava, allora
sarebbe stato al meglio della forma, perfetto: una camicia
pulita, il completo estivo azzurro e la cravatta regimental.
-Si, perfetto- siglava sottolineando la scelta e sistemandosi
il nodo; se doveva accadere qualcosa, ora sarebbe potuto
accadere; dopo di che aveva chiamato un taxi ed era sceso
in strada aspettando e misurando i minuti d’attesa ed il
disagio che dà l’essere osservati.
L’autista era un omaccione con il viso simpatico imperlato
di sudore e la parlata sciolta, di quelli che riescono a farti
una rassegna stampa traversando un isolato; si era fatto
lasciare ad un centinaio di metri dal suo obiettivo anche
perché un senso unico avrebbe costretto il taxi ad un lungo
giro ed in lui era cresciuta una fretta inspiegabile, quasi
un’ansia nascosta che saliva piano dalla bocca dello
stomaco fino alla gola impedendogli di deglutire.
Aveva quindi percorso gli ultimi metri a piedi cercando di
contenersi in un’andatura da turista, distrattamente
studiata ed al tempo stesso intenta a far tesoro degli scorci
che quella breve passeggiata offriva, in realtà attenta ai
segni ed ai segnali che da quel momento in poi sentiva
118
d’estate, una notte
potevano provenirgli da ogni parte ed in ogni momento; si
sentiva come uno che avesse deciso di fare il suo primo
bagno in una tiepida giornata di primavera ed al contatto
con l’acqua, dopo un coraggioso tuffo, sentisse in ogni
centimetro della pelle, l’azzardo di quella decisione, la
percezione istantanea d’essere circondato dal freddo,
avvolto per intero ed impossibilitato nel contempo ad
individuarne precisamente la fonte.
Teneva il libro stretto al petto con una mano potendo così
sentire il cuore che tradiva, passo dopo passo, la propria
insofferenza, battendo ora sempre più forte, in modo
profondo, adeguandosi man mano all’incedere che si
faceva suo malgrado sempre più affrettato.
In fondo alla strada un angolo ottuso spezzava la visuale e
mentre i sampietrini del selciato uno ad uno scorrevano
sotto le sue scarpe, l’angolo si spianava scoprendo alla sua
vista la pietra angolare di un altro edificio a delineare il
termine del percorso; ai piedi di questa una fontanella
aveva creato una pozza a causa dello scarico ostruito
dall’incuria urbana, ed aggirato quest’ultimo ostacolo, si
trovò di fronte la mole del palazzo ch’era stato dei Mattei.
119
Paolo Batzella
Si fermò così, per il tempo necessario a raccogliere le idee:
il palazzo era sicuramente disabitato od adibito ad una
qualche attività d’ufficio, chiuso a quell’ora, e le finestre e
le persiane serrate potevano solo fare immaginare ciò che
dietro di loro si era compiuto.
Unica consolazione a quello sconforto, il piccolo bar
sull’altro lato della piazza sembrava offrire riparo dal sole
ed una sedia dove distendersi a ragionare sul da farsi.
- E adesso?- sussurrò tra se osservando il cameriere
allontanarsi con l’ordinazione.
- Una macedonia grazie- aveva chiesto senza neppure
guardarlo in faccia.
Si trovava come all’interno di un gigantesco palcoscenico:
Palazzo Mattei, Piazza della Gensola sulla sinistra, il ponte
sul Tevere nel fondo.
Socchiuse appena gli occhi come per mettere a fuoco ciò
che accadeva dall’altra parte del ponte: tutto sembrò
allora farsi più nitido ed insieme più buio come se una
veloce nuvola estiva si fosse improvvisamente frapposta tra
il sole e la terra, sempre più buio quando quattro cavalli
fermarono la loro corsa sul ciglio del greto di là dal fiume,
120
d’estate, una notte
lì dove meglio si può misurare l'isola Tiberina in tutta la
sua estensione e da loro sembrò smontare ondeggiando
un’oscurità più fitta, che si scompose poi in un gruppo di
cavalieri avvolti in ampi mantelli colore della notte.
Di qua dal fiume, nella grande sala al piano terra i
festeggiamenti erano al culmine.
Sul fondo, in un angolo protetto da un tendaggio, una
grande botola si apriva su di una scala che conduceva di
sotto, alle cucine da cui si propagava il profumo
dell'arrosto dei capretti messi in fila a girare sugli spiedi
ed ogni tanto giungeva di qua il ridere sguaiato delle
cuoche, misto all'odore aspro del grasso che scolava sulla
brace.
Poco lontano dalla scala, a lato della tenda, cominciava
una teoria di tavoli imbanditi ed alcuni tra i commensali,
appostati in quella posizione strategica, sembravano essere
i più vivaci, applaudendo ad ogni ingresso di portata
mentre uno di questi, il più attempato, allungava le mani su
di una servetta e questa rideva, cercando di divincolarsi
dall’abbraccio e procurando nel contempo disperatamente
di mantenere in equilibrio il vassoio che ondeggiava con
121
Paolo Batzella
lei; appena più in là, un altro tentava, già trasportato dal
troppo vino, di seguire i passi della danza al centro della
tavolata mentre la compagnia di guitti, ingaggiati per
l’occasione, ben sapendo per mestiere che spesso la realtà
supera la rappresentazione, lo lasciavano fare, anzi
incitandolo ed assecondandolo, l’avevano praticamente
scritturato in compagnia.
La scena d’un tratto corse a ritroso, riavvolgendosi come
la pellicola di un film, dal tendaggio al banchetto,
all’androne, indietro fino al portone che senza aprirsi
lasciò passare i miei occhi che come risucchiati da una
forza sovrumana, si ritrovarono attoniti a rimirare un
batacchio in forma di scimmia che con i piedi reggeva una
palla con cui picchiare sul fermo d’ottone.
L’avrebbe fatto, pensò, se solo la sensazione di freddo che
ora provava non gli avesse reso evidente quella
separazione inedita di una parte di sé che invisibile a
chiunque, davanti a quel portone stava vivendo un pezzo
della propria vita; questo infine gli impedì d’agire, quasi
per uno scrupolo nel timore di disturbare.
122
d’estate, una notte
Sulla sua sinistra, da oltre il dosso che il ponte getta sul
fiume, quattro uomini paludati da capo a piedi come per
una notte più fredda di quella, avanzavano decisi mentre i
quattro cavalli ciondolavano a capo chino, imbrigliati
insieme ad un ceppo infisso all'inizio di esso, annusandosi
in silenzio l’umido del muso.
- Io vi aspetto qui, disse d'un tratto fermandosi il primo tra
loro ad un altro che seguiva, non impiegateci troppoGli altri proseguirono imbracciando gli schioppi e,
guadagnando velocemente l'altra sponda, ridevano tra loro
mentre quello che aveva dato gli ordini si era appoggiato
al parapetto del ponte e guardava ora le acque agitate del
fiume, ora di traverso i compari che si allontanavano; e tra
questi uno più degli altri masticava l’allegria a denti stretti
con la tensione che la sua giovane età.
Di qua i capretti cominciavano a sfilare, uno, due, tre; uno,
due, tre volte la scimmia del batacchio batté i piedi sul
portone: al terzo tocco la vecchia seduta nell'angolo
dell’androne si alzò per aprire e subito il portale, spinto
con forza dall'esterno la rimandò a sedere lì dov'era.
123
Paolo Batzella
Attraverso il portone spalancato la scena ora mi appariva
per intero, appena nascosta solo dagli ultimi due uomini
che, ancora sulla soglia, mi nascondevano per metà la
visuale.
Da dietro le spalle di uno di questi potevo però osservare
ciò che accadeva: pietrificata dalla reazione di quegli
sconosciuti, la donna era rimasta attonita, con le braccia
ciondoloni lungo i fianchi, poi, appena i cappucci
scivolarono giù dalle teste dei nuovi arrivati, si portò le
mani alla bocca come per reprimere un grido tanto
giustificato quanto ormai inutile; il primo tra quelli, già al
centro dell’androne d’ingresso, con un manrovescio la
mise a tacere scaraventandola a terra.
Un attimo ancora e con pochi passi gli uomini
attraversarono l’atrio che introduceva alla sala ed allora
ben altre urla riempirono l'ambiente.
Poi uno, due, tre, uno, due tre spari risuonarono nel
cervello e boccheggiavo rimuginando sull'epilogo della
nota storica e della mia macedonia; boccheggiavo e
lentamente sentivo i miei pensieri prendere corpo,
diventare parole, imprecazioni di dolore e rabbia miste
124
d’estate, una notte
all’odore che solo il sangue sa dare quando lo senti
scorrere giù dal ventre ed inondarti le gambe e stupito
annusi il suo odore mescolato a quello della carne arrostita
che profuma di grasso.
Proprio questa sensazione, credo, doveva aver attraversato
per un attimo la mente del commensale seduto vicino a
quella che doveva essere una sposa mentre la palla di
piombo gli attraversava lo stomaco e faceva un certo effetto
ora notare il contrasto tra la smorfia dell’uomo e
l’indifferenza attonita di Lei.
Era tanto bella Lei quanto incredula, immagino, per quella
circostanza come se quello che stava accadendo stesse
realizzando una possibilità per lei insperata, poi, d’un
tratto i suoi occhi ebbero un lampo, spostarono lo sguardo
sull’altro lato, cercando sul tavolo qualcosa, un aiuto alla
sua follia mentre in un bailamme di voci i candelabri,
precipitando dai loro piedistalli uno dopo l’altro,
piombavano l’ambiente nel buio.
In quegli attimi la sua figura sembrò come danzare nella
penombra, portarsi in avanti fondendosi in un abbraccio
con chi le era vicino, avvinghiandosi, per aiutare forse o
125
Paolo Batzella
per condannare, fermarsi appena il tempo d’un battito di
ciglia e quindi ritrarsi, separandosi per sempre, facendosi
accogliere dall’oscurità.
- La vita di un Mattei per quella di un Mattei – sentii
sussurrarmi dentro mentre la campana del vicino
monastero di Santa Apollonia batteva le ore e i suoi
rintocchi, percorrendo per intero le architravi basse di
quella che sarebbe diventata negli anni a venire la sua
prigione, arrivavano sino alle orecchie di Olimpia, alla sua
segreta ed ai suoi segreti, a lei ed a me.
Potevo ora sentire distintamente il bronzo percosso
ritmicamente vibrare e scuotere le fibra del mio equilibrio,
strappandomi a quella sorta di viaggio della memoria, a
quell’incubo pomeridiano senza sonno.
Non come un turista attento unicamente a ciò che si aspetta
di trovare bensì come un viaggiatore mi ero addentrato in
quei luoghi, forse mettendo in conto anche il rischio che
sarei potuto non tornare, rapito dalla bellezza della
scoperta o vinto dal terrore che l’ignoto può dare.
Così mi risvegliavo e già l'amavo, di più, io ero
Marcantonio, lo sarei stato, ma se lo fossi non sarei ora
126
d’estate, una notte
qui, pensavo, non sarebbe stata mia per la vita, per sempre,
come allora, come adesso.
E, se vi è capitato mai di giocare con le gocce di sudore
che vi imperlano la fronte, fissandovi su di esse, sentendole
scivolare tra le pieghe della pelle, allora capireste come
quella, al risveglio da quel torpore maligno, fu la mia
prima sensazione; un’intera storia era trascorsa con esse
nello spazio di una ruga.
Solo dopo, ripresomi, distinguevo la faccia buona del
cameriere che mi scrutava imbarazzato mentre io altro non
riuscivo a fare se non continuare a scusarmi per essermi
assopito come se avessi offeso qualcuno; dopo di che
pagavo e mi allontanavo col passo affrettato di chi vuole
scappare, dimenticare e lasciare che tutti dimentichino.
Olimpia od io, pensavo con le spalle già rivolte a quel
teatro, uno dei due, era certo, aveva aperto una porta, ed il
vento
del
tempo
vi
si
era
incanalato,
gemendo,
raccontando, sollevando fogli di carta solo per depositarli
in un vicolo sperduto dove evidentemente io e solo io,
cominciavo a credere, avrei dovuto trovarli.
127
Paolo Batzella
Uno strumento ecco, ero stato e mi sento ancora solo uno
strumento di una volontà non mia ed era questo ruolo di
spettatore di fatti, impotente, più del fatto in se, che mi
dava disagio, come se davanti mi fosse passata per intero
la mia inutilità, per questo e solo per questo credo, stavo
adesso fuggendo quella nuova evidenza.
“Camminavo così, ciondolando sulle gambe, passo
incerto…”
Leggevo l’inizio della nota di chiusa che avevo già scritto e
trovavo consonanze, legami, logiche; forse il più era fatto,
pensai mentre salvavo il file e tornavo a perdermi nel
deserto vermiglio del mio sfondo malinconico; domani
l’avrei fatto leggere a Peruzzi e, se gli fosse piaciuto, mi
avrebbe lasciato in pace per qualche giorno.
Forse l’avrei reso felice e meno angosciato per il suo
investimento nei miei confronti, forse, ma che cosa
placherà i miei dubbi mi chiedo, io che non riesco a mentire
davanti allo specchio, perché è tutto qui in fondo il
problema, mi dico, è su quanto si può essere disponibili a
raccontarsi frottole; quanta voglia posso avere ancora di
convincermi che la vita sia solo una novella, buona da
128
d’estate, una notte
leggere e da fare ammuffire poi in uno scaffale dimenticato
di una libreria polverosa.
Quanta tenacia ancora mi rimanga da spendere per
raccontarmi che le nostre azioni in fondo non sono altro che
una finzione scenica, un grande affresco teatrale di cui
senza saperne il motivo rinverdiamo il colore con sapienti
colpi di pennello: ognuno aggiunge un tocco, un nuovo
colore che piano diventa crosta e nasconde sempre di più la
purezza della trama di cotone che la tela aveva; quanta
voglia potrò avere ancora di raccontare storie ad altri e a me
stesso?
Vedo di fianco alla macchina del gas il sacchetto della
spazzatura pronto per essere gettato; aspetterò che faccia
notte per scendere dabbasso, aspetterò che gli ultimi
ritardatari rincasino, quasi per un pudore igienista o
piuttosto per un moto di perbenismo vittoriano, un po’
borghese e sciocco, ma rassicurante sul fatto che nessuno
possa vedere la parte peggiore di te.
Dunque tra poco, quando il silenzio sarà totale, compirò la
mia buona azione da cittadino diligente: getterò la
spazzatura.
129
Paolo Batzella
Starò lì, ciabatte e canottiera fantasia su bermuda balneari,
con la spazzatura in mano e una sigaretta penzoloni; con
quell'atteggiamento un po’ snob che non ci abbandona mai.
Saremo perfetti: noi che parliamo al plurale maiestatis per
dovere verso la storia, e dare a questa la certezza di una
nostra citazione, noi che ci spostiamo solo in bicicletta, noi
che conosciamo il congiuntivo come il pane ed usiamo il
condizionale per non esporci mai più di tanto: ‘non
vorremmo immaginare che forse si possa credere che...’ per
intenderci: una massa di ipotesi per riuscire a costruire
un'affermazione.
Starò lì, perfetto, e col sapore dell’umido degli scarichi di
fogna che riempiono le pareti dell’arco ancora in gola; sarò
il ragazzo di trenta anni prima perso nelle labbra di Paola, o
un insignificante mezze maniche perso nei suoi incubi
perversi, poco importa, nessuno me ne chiederà mai conto.
Sono io in fondo, mi dirò, solo un sognatore per vocazione
che osserva rapito il cassonetto dell’immondizia davanti a
sé: sarà stracolmo e così sistemerò il mio sacchetto con cura
lì accanto e rimuginerò sul fatto che, ahimè, oggi come
sempre siamo decisamente fuori posto.
130
d’estate, una notte
Annuirò col capo a questa considerazione, già mi vedo, con
un sorriso divertito stampato sulle labbra e mi dirò che, a
questo aspetto del problema penserò domani.
Domani, quando mi sveglierò senza essere riuscito a
dormire, anzi, forse dopo aver dormito troppo, fino a giorno
fatto, di un sonno senza sogni, in un agitato torpore che non
rilassa, che mi farà svegliare con le giunture che
sembreranno fatte di legno, con i pensieri della sera prima
che continueranno a girare nella testa con un rumore di
ferraglia arrugginita, non digeriti.
Suoneranno alla porta domani ed in mutande andrò ad
aprire; sarà il mio Rabbi, è sicuro; così chiamo l'inquilino
che abita l'appartamento sotto al mio, perché non mi viene
nulla in mente di più antico nella nostra cultura di un
vecchio ebreo, niente di più saggio aggiungerei; a lui sono
affezionato come lo si può essere solo ad una vecchia
madre, come quella infatti anche la sua età è indefinita ed
anche il sesso delle sue rughe pone seri dubbi; vive lì da
sempre, credo, forse ancor prima che questo palazzo
venisse costruito, forse da quando la Sinagoga era su questa
131
Paolo Batzella
sponda del Tevere, in piazza di S. Cecilia e questo quartiere
era il ‘fosso’, il rione dei giudei.
Ha gli occhi neri il mio Rabbi, profondi come pozzi ed
acquosi come occhi che hanno visto molte cose.
Magari questa sera non mi avrà visto passare sul
pianerottolo, come sempre accade, più o meno alla solita
ora, ma so che, discretamente, aspetterà la mattina per salire
a sincerarsi che non stia male.
È gentile il mio Rabbi ed è l'unica compagnia di cui tenga
conto, forse per questo suo atteggiamento non peloso ma
anche, non posso negarlo, per i suoi moti di rimprovero, che
puntualmente mi snocciola, interpretando, come fossero un
libro aperto, i miei pensieri, leggendo nei tratti del mio viso
ciò che il giorno vi ha lasciato.
- Tu non vivi, mi dirà, non hai coraggio; nei tuoi occhi non
vedo mai nulla di ciò che hai vissuto; tu osservi ma non
vivi-.
E` pedante il mio Rabbi.
Mi darò una riassettata e lo trascinerò di sotto, nel primo
bar d’angolo, quello da cui si indovina, sbirciando, la
grandezza della Piazza, appena dietro l’angolo, facendotela
132
d’estate, una notte
sperare ancora più grande di quanto non sia, immensa, tanto
da poterti perdere al suo interno solo se volessi, tanto da
passeggiarci senza necessariamente essere riconosciuto,
incontrato, salutato, accogliente come un utero, che è tutto
il tuo spazio ma grande abbastanza da contenere una vita
intera.
Avrò fame come chi avrà fumato troppo e bevuto molto
trascorrendo la notte tentando di definire ciò che sta
crescendo nella sua testa ed un dito dopo l’altro il rum
conservato in frigo per le grandi occasioni sarà solo un
rimpianto.
Avrò fame e spererò allora come mai e sempre che una
sfogliatella possa farlo tacere, il mio Rabbi, almeno per un
po’.
Avrò bisogno di respirare e lo farò e, mentre sarò intento ad
inzuppare il secondo lievito nel cappuccino, un gruppo di
turisti ci passerà vicino, sull'altro marciapiede e mi
osserverà lì seduto come se facessi parte di una cartolina o,
meglio, di una stampa d'epoca, ingiallita e un pò sbiadita
dal tempo.
133
Paolo Batzella
‘Molto originale’, mi sembrerà esclamare il più stupido tra
loro mentre mi mette a fuoco con la Nikon: sorriderò, come
faccio di solito, rendendolo felice ma intanto ripenserò alle
parole del Rabbi.
Si, ha ragione, penserò, non posso continuare così
all'infinito poiché anche l'eternità alla fine avrà pure un
limite e sarà meglio per me escogitare in fretta una qualche
soluzione per rompere questo mio stato d'abulia.
Avrà finito la pasta il mio Rabbi e, pettinandosi via con le
dita le briciole di dolce dalla barba, darà voce al mio
fastidio.
- Sei come loro, osserverà indicando con un movimento
delle sopracciglia arruffate il gruppo di ondivaghi
migratori, odi tanto questa razza di turisti organizzati che,
come orde di cavallette, non fanno altro se non
sopravvivere al raccolto che devastano ma tu, come loro,
sopravvivi appena ai fatti che attraversano i tuoi giorni e
questi finiscono per scorrerti addosso come una doccia
consumata in un albergo ad ore -.
Allora e solo a quel punto gli urlerò il mio basta, lasciando
affondare l'ultimo boccone di lievito nel liquido ormai
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d’estate, una notte
freddo; la colazione mi sarà andata di traverso grazie a lui
ma, se non altro l'avrò ammutolito e senza neppure
sollevare lo sguardo dalla pasta che appesantita affogherà
nella tazza come risucchiata da un piccolo gorgo sul fondo,
percepirò il suo silenzio.
L’osserverò rattristarsi, il mio Rabbi ma poi, come chi
innumerevoli volte in innumerevoli vite, è stato zittito,
vedrò i suoi occhi affilarsi di nuovo pronti a tagliare come
rasoi scavando nel tempo e cercare a mio uso e consumo,
storie che diventano parabole.
Forse avrà la forza ancora di raccontarmi quella di un
carnevale dei primi del settecento, quando i cattolicissimi
gentili inscenarono la rappresentazione mascherata del
funerale di un rabbino all'Ortaccio, il vecchio cimitero,
nonostante le proteste degli ebrei.
-Era Marzo mi pare, comincerà a recitare, e faceva freddo
quel giorno anche se il sole precoce di quella primavera
aveva favorito anzitempo la fioritura della mimose.
Miriam era bellissima ma vestita, si sarebbe detto,
unicamente della sua tristezza: il suo Abram non c’era più,
l’avrebbero seppellito tra poche ore ma lei avrebbe voluto
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Paolo Batzella
che fosse già stato così da poter restare sola, lei e ciò che di
bello di lui le restava, i molti anni di vita trascorsi insieme,
anni buoni, altri meno ma sempre pieni di quella voglia di
vivere che la speranza può dare; meglio, con la certezza che
domani sarebbe potuto essere solo migliore per lui, per lei e
per la sua gente che lui confortava come un padre.
Io le ero vicino come sempre e ciò che mi fece più male in
quella circostanza non fu la morte di un amico o il dolore
dell’amica ma la stupidità che vidi rappresentata sotto i
miei occhi: contro di essa non c’è lotta, non battaglia che
possa essere vinta; si rimane come schiantati dalla banalità
che ti circonda e sembra sommergerti infinita, annichilente.
Oh sì certo, continuerà, noi protestammo ma invano perché
come qualche volta accade, è meglio avere a che fare con la
cattiveria che con l’idiozia.
Quante volte l'avrò ascoltata la sua arringa e sempre era
come se ci fosse stato di persona, il mio Rabbi, e comunque
a me faceva piacere crederlo.
- Non tutto può essere gioco, non tutto una farsacommenterà puntualmente concludendo la storia ed allora
lì, immobili, mentre i turisti con le nikon, girato l'angolo, si
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d’estate, una notte
avventeranno sulla mia Piazza, verso Santa Maria in
Trastevere, gli darò le sue ragioni, prenderò i miei torti e gli
dirò che l'indomani sarei partito, si, domani Ulisse avrebbe
cominciato a vivere le cose reali, prometterò, fuggendo
questa condizione come di sogno perenne; l'indomani avrei
preso il coraggio tra le mani e attraversato le Colonne
d'Ercole, giù, in fondo al rione, a Porta Settimiana, quella
che guarda a nord.
Sì, domani l'avrei fatto, ripeterò, ma che per ora mi
lasciasse riposare, poiché crescere per alcuni può essere una
fatica enorme.
Così, sì, così gli dirò domani.
fine
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Paolo Batzella
INDICE
Primo................................................................................3
Secondo..........................................................................17
Terzo ..............................................................................24
Quarto ............................................................................35
Quinto ............................................................................47
Sesto...............................................................................56
Settimo ...........................................................................61
Ottavo.............................................................................84
Nono.............................................................................100
Decimo.........................................................................117
138
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