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La pubblicazione di un nuovo libro sulla massoneria, fa discutere: tre studiosi a confronto
su passato presente e futuro dell'Istituzione.
Fahrenhait: la trasmissione di Radio3 Rai, parla di libera muratoria (16 dicembre 2003).
Il lavoro che viene presentato, è la trascrizione del dibattito, pubblicato su Erasmo Notizie
Anno V Numero 22 del 31 Dicembre 2003.
Felice Cimatti:
"Abbiamo tre ospiti oggi per parlare di un tema che ci ha dato lo spunto per questa
discussione: ce lo dà un libro di Fulvio Conti: Storia della massoneria italiana, dal
Risorgimento al Fascismo, pubblicato da Il Mulino.
Ci sono stati ulteriori sviluppi della questione massonica, se vogliamo chiamarla così in
Italia, lo avrete sicuramente letto sui giornali in questi giorni, nuove ipotesi sulla morte di
Calvi.
Anche qui sembra che la massoneria abbia a che fare con tutto ciò.
Intanto salutiamo Fulvio Conti.
Buon pomeriggio Conti".
Fulvio Conti:
"Buon pomeriggio a voi".
Felice Cimatti:
"Conti che insegna Storia Contemporanea all'Università di Firenze.
Buon pomeriggio a Massimo Teodori.
Teodori buon pomeriggio".
Massimo Teodori:
"Buon pomeriggio".
Felice Cimatti:
"Ricordiamo fra l'altro che Teodori, tra le tante cose della sua complicata attività, è stato
anche membro della Commissione che si è occupata della P2.
Aspettiamo un terzo che fra poco avremo con noi.
Fulvio Conti, cominciamo intanto con una domanda generale per cominciare anche a
entrare nell'argomento.
Perché la parola stessa massoneria, per tante persone fa subito storcere il naso?
Qual è l'origine storica di questo sospetto, di questo atteggiamento?".
Fulvio Conti:
"L'origine storica di questo sospetto forse va ricercata in tempi abbastanza recenti,
insomma.
Nella sua storia, la massoneria del Settecento e dell'Ottocento, ha avuto anche pagine molto
interessanti, molto gloriose, personaggi che le hanno dato lustro.
Poi dopo, per la particolare storia che ha avuto in Italia ed in altri paesi latini, per il ruolo
anche pubblico che ha avuto, i sospetti inevitabilmente sono venuti, però spesso sono stati
sospetti anche con poco fondamento".
Felice Cimatti:
"Dunque, è abbastanza recente, diceva Fulvio Conti questo atteggiamento"...
Fulvio Conti:
"Sì, è abbastanza recente anche se i sospetti sono venuti poi fuori anche da subito.
Il mondo cattolico, per esempio, la chiesa cattolica ha sempre visto nella massoneria, fin
dai primi decenni del Settecento, un nemico, perché sosteneva le teorie dell'Illuminismo,
del pensiero democratico, della tolleranza, del laicismo e quindi questo ha alimentato,
anche una avversione costante alla massoneria che ha avuto anche una precisa matrice
religiosa".
Felice Cimatti:
"E di questo parleremo fra poco, quando sarà in collegamento anche il terzo ospite di
questa discussione, Massimo Introvigne.
Cominciamo intanto ad esplorare alcune delle sollecitazioni che ci ha appena dato Fulvio
Conti.
Teodori, massoneria e politica fa subito un po' venire in mente trame, misteri, qualche cosa
di non chiaro.
É anche questa la sua sensazione?".
Massimo Teodori:
"Guardi, bisogna distinguere le epoche storiche perché sicuramente fino al prefascismo,
come è benissimo illustrato nel libro di Fulvio Conti, la storia della massoneria italiana è
una storia che si intreccia con la vita civile e in parte anche con la vita politica del nostro
paese, come degli altri paesi europei, legata al grande movimento della borghesia liberale,
illuminista prima, che ha fatto i nostri Stati.
Quindi se in quel periodo sospetti e voci ci sono state riguardavano quel particolare
contesto.
Per quanto riguarda, invece, la storia del dopoguerra in Italia, io distinguerei due cose
diverse, nel senso che la massoneria in Italia, nel cinquantennio repubblicano, non ha svolto
una grande funzione pubblica, quella che ha svolto prima del fascismo con la difesa dei
grandi temi laici, razionali, umanistici e internazionalistici.
Insomma, a me non pare che la massoneria, nel momento in cui è stata ricostruita,
nell'immediato dopoguerra, abbia poi svolto in Italia quella funzione che sicuramente aveva
realizzato in precedenza e proprio in questo ruolo non importante, non chiaro, sono nate
quelle cose che tutti quanti conosciamo e che abbiamo di fronte agli occhi, tipo P2 e via di
seguito, che però io non considero affatto come parte... ".
Felice Cimatti:
"Cioè, lei le vede come una degenerazione...".
Massimo Teodori:
" … come parte di storia della massoneria.
Quelli sono dei fenomeni di altro tipo che hanno usato semmai le cose massoniche come un
paravento, ma è molto sbagliato a mio avviso: questa è anche un po' la tesi che ha
accompagnato ciò che ho scritto dopo la partecipazione alla Commissione d'inchiesta sulla
P2.
É molto sbagliato appiattire la massoneria italiana - che, ripeto, non ha avuto una grande
storia, in questo dopoguerra - sulle vicende che sono più o meno al limite dell'illegale e che
appartengono piuttosto al sottobosco e al risvolto della politica o della partitocrazia.
Quindi su questo starei molto attento...".
Felice Cimatti:
"No, ci sembra un'importante precisazione, Teodori.
Come sempre, bisogna fare chiarezza anche nelle nostre idee.
É arrivato il terzo ospite, che salutiamo, Massimo Introvigne.
Buon pomeriggio Introvigne".
Massimo Introvigne:
"Buon pomeriggio a voi".
Felice Cimatti:
"Ricordiamo, Introvigne è fondatore del Cesnur, Centro Studi sulle Nuove Religioni.
Poco fa, quando non era in collegamento, Fulvio Conti parlava anche delle antipatie,
esplicite antipatie del mondo cattolico nei confronti della massoneria.
Ce ne vuole un po' lei ricostruire la genesi?".
Massimo Introvigne:
"Ma, direi che il mondo cattolico si è scontrato con la massoneria fin dal sorgere di
quest'ultima.
I primi documenti sono già settecenteschi, ma direi che questa ostilità è passata attraverso
due fasi diverse.
Nella prima la massoneria è stata criticata per i suoi contenuti, ritenendosi che si trattasse di
contenuti anticlericali, l'espressione che si utilizzava legata certo ai tempi, era quella di un
complotto contro la chiesa.
Ultimamente, molto di questo è venuto a cadere, anche se non mancano, ad esempio, in
certi paesi dell'America Latina, si pensi al Messico, massonerie caratterizzate da un forte
anticlericalismo.
Tuttavia, la chiesa cattolica ha mantenuto un giudizio negativo quanto alla possibilità per i
cattolici di affiliarsi alla massoneria, non tanto più per i contenuti, ma per il metodo.
Un documento per la congregazione per la dottrina della fede del 1983, precisa che i fedeli
che appartengono ad associazioni massoniche, cito, sono in stato di peccato grave e non
possono accedere alla Comunione.
Questo non più per una presunta ostilità della massoneria militante nei confronti della
chiesa, ma perché il metodo massonico, come metodo non dogmatico, come metodo
accusato di relativismo, mette in pericolo l'esperienza di fede.
Quindi, paradossalmente ma non troppo, nel momento in cui istanze della chiesa cattolica
avviano un dialogo sui grandi valori di carattere universale con ambienti di tipo massonico,
si ribadisce però l'incompatibilità della doppia appartenenza alla chiesa e alla massoneria".
Felice Cimatti:
"Vediamo un po' di sviluppare anche questo aspetto per quanto riguarda la composizione
sociale.
Chi sono i massoni?
Chi sono stati i massoni nella storia d'Italia, Fulvio Conti?".
Fulvio Conti:
"Prima di dirle qualcosa dal punto di vista sociale, mi volevo ricollegare un attimo a quello
che diceva poco fa Teodori sulla diversa esperienza, sulla diversi natura, sulla diversa
caratura pubblica della massoneria in Italia nel periodo liberale fino al fascismo e nel
secondo dopoguerra.
Basta fare soltanto qualche nome, oltre a quello scontato di Giuseppe Garibaldi, che
abbiamo visto anche qualche sera fa in una trasmissione televisiva.
Basti pensare che in questo periodo, dall'unità d'Italia fino al fascismo, la massoneria
esprime almeno quattro presidenti del Consiglio del calibro di Depretis, Crispi, Zanardelli e
Fortis e che nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, come io documento nel mio
libro, cioè dopo le elezioni che videro per la prima volta la partecipazione al voto dei
cattolici in chiave specificamente anti-radicale, antimassonica, nel Parlamento alla Camera,
c'erano la bellezza di novanta deputati iscritti alla massoneria, quindi questo per dare l'idea
del diverso peso specifico, del diverso ruolo politico che rivestiva allora la massoneria
rispetto a tempi più vicini ai nostri.
L'estrazione sociale, per molto tempo, contrariamente a quello che si pensa è varia perché
la massoneria è, come dire, un'obbedienza, un'associazione, sostanzialmente interclassista,
nel senso che per un po' di anni, vi trovano ospitalità prevalentemente certi borghesi, ma
anche una fascia, specialmente in alcune regioni, abbastanza consistente di artigiani, piccoli
commercianti ed anche lavoratori manuali.
Poi con l'età giolittiana, cioè con l'inizio del Novecento, la componente borghese diventa
più spiccata.
E anche qui, direi però, con una connotazione piccolo-borghese, soprattutto, anche se non
mancano professionisti, avvocati, medici.
Una componente piccolo-borghese che è data da una forte presenza di impiegati, di
negozianti, di insegnanti, di commercianti, di militari.
Anche questo fu poi all'origine di qualche scandalo, insomma, di qualche inchiesta in quel
periodo".
Felice Cimatti:
"Teodori, si può dire anche ascoltando queste precisazioni e tornando a quella funzione
della massoneria di Fulvio Conti ed a quella positiva di cui lei poco fa parlava, che almeno
in una fase della storia italiana, perlomeno risorgimentale, la massoneria ha rappresentato
uno dei pochi, dei pochissimi, conoscendo poi anche gli esiti successivi, momenti in cui c'è
stata la possibilità di una cultura almeno in parte laica in questo paese?".
Massimo Teodori:
"Non c'è dubbio che nel corso dell'Ottocento e soprattutto dall'unità d'Italia fino al
fascismo, la storia della massoneria è strettamente intrecciata con la storia delle forze
politiche, ma direi che prima delle forze politiche, di quelle ideali della modernizzazione
laica dello Stato moderno, con i grandi principi umanistici, umanitari, internazionalistici e
via di seguito.
Su questo non c'è alcun dubbio, diciamo che questo è il filone principale.
Io però, quello che volevo dire, dopo aver letto in parte il libro di Conti che mi è parso un
contributo piuttosto interessante, è quello che bisognerebbe stimolare a fare un lavoro
analogo sulla massoneria nel cinquantennio repubblicano che per me, che ho partecipato
con grande passione ai lavori parlamentari dell'inchiesta sulla P2, rimane ancora un oggetto
misterioso per capire se in effetti la massoneria nel secondo dopoguerra ha avuto una
qualche funzione pubblica, oppure non ha contato nulla nella storia d'Italia, al punto tale
che poi viene assimilata a quella cosa lì, diciamo P2, che io seguito a considerare estranea
all'istituzione massonica, se vogliamo essere seri e non vogliamo appiccicare etichette
approssimative.
Io credo che dobbiamo approfondire questo tema e vorrei dare anche uno spunto a Conti,
perché ho l'impressione, ad esempio, che la massoneria in Italia nel secondo dopoguerra,
abbia una funzione molto secondaria, sebbene sembra abbia avuto un certo ruolo
soprattutto negli anni `40 e `50 nell'essere di supporto alla scelta atlantica dell'Italia e con il
mondo della guerra fredda.
La mia impressione é che in quel momento, anche tra le forze politiche ed alcuni esponenti
politici - potremmo ricordare ad esempio Pacciardi - la massoneria abbia avuto un ruolo di
solidificazione dei legami europei e dei legami transatlantici in difesa dei valori occidentali
contro il comunismo, il che di nuovo rinnoverebbe questa idea della massoneria che
qualche volta ha avuto un ruolo alto e talvolta uno basso, ma che comunque é stata sempre
contro i fondamentalisti cattolici, i fondamentalisti di sinistra di tipo comunista, contro i
nazionalismi e contro il fascismo.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il fascismo ha sciolto la massoneria che é stata anche
una parte dell'antifascismo militante all'estero.
Questa caratteristica probabilmente si é anche ripetuta in una certa misura nel secondo
dopoguerra con una funzione di spalleggiamento della scelta occidentale e atlantica fatta da
De Gasperi e da Sforza nel 1947, 48 e 49".
Felice Cimatti:
"Introvigne, potrebbe essere questa la chiave di lettura per sviluppare quanto lei stava
dicendo poco fa?
Questa contrapposizione fra laicismo, quando si riesce ad esserlo, ed ogni forma di
fondamentalismo?
Forse da questo punto di vista, la chiesa cattolica ha sempre trovato disagio, fastidio per il
mondo?".
Massimo Introvigne:
"Io mi sito più sul versante della sociologia che su quello della storia, anche se ho acquisito
per la nostra biblioteca e ho cominciato a leggere l'eccellente volume di cui oggi si dibatte,
e vorrei dire che mi colpisce molto la differenza tra la struttura che qui viene descritta,
sociologica della massoneria in, Italia e gli Stati Uniti, dove invece esistono lavori che ci
mostrano non un laicismo nella massoneria americana ma il tentativo di offrire a una
composizione sociale molto simile a quella che é stata descritta una sorta di religiosità
debole, di panprotestantesimo liberale.
Credo che anche da noi ci furono pastori valdesi...".
Massimo Teodori:
"Esatto".
Massimo Introvigne:
"... che pensavano a qualche cosa di simile, però di fatto la massoneria italiana, si é poi
schierata in una posizione molto più decisamente laicista rispetto ai modelli anglosassoni,
più ancora naturalmente di quella italiana ha operato in questo senso la massoneria
francese.
Mi chiedo allora se il rischio non sia quello di arrivare ad uno scontro di fondamentalismi.
Almeno tre editoriali a proposito della questione del velo in Francia su cui non voglio
entrare, hanno parlato della presenza accanto al fondamentalismo islamico e a possibili
fondamentalismi di tipo cristiano, anche di un fondamentalismo laicista in Francia.
Ecco, credo che questo sia il rischio che ha patito a lungo una certa massoneria continentale
italiana, francese, spagnola, un rischio che vedo meno invece nelle massonerie
anglosassoni".
Felice Cimatti:
"Una specie di ossimoro, un laicismo fondamentalista.
Fulvio Conti, proiettandosi dagli anni di cui parlava poco fa Teodori, al presente e al futuro.
Lei vede ancora un ruolo di questo tipo per la massoneria, in particolare per quella
italiana?"
Fulvio Conti:
"Un ruolo di questo tipo di quello che ha avuto nell'Italia liberale fino al fascismo?".
Felice Cimatti:
"Sì".
Fulvio Conti:
"Bé, un ruolo di quel genere credo assolutamente no.
Però, credo che nella società italiana di oggi, una dose di cultura laica, di difesa di principi
che a me sembrerebbero fondamentali da accettare tranquillamente e che invece vediamo
che con fatica si affermano, visto che si diffondono idee opposte, ne abbiamo esempi
continui nella nostra quotidianità, basti pensare a tutta la vicenda recente, a tutta la querelle
sul crocifisso nelle aule o affari similari.
Io credo che una funzione di questo tipo possa ancora averla.
Premetto che io parlo da studioso, da non massone.
A volte ho anche un po' di diffidenza per certi orpelli, per certi riti, per certi aspetti
iniziatici, però credo che i valori di difesa della cultura laica siano ancora oggi un campo
importante di azione della massoneria, i Italia così come in altri paesi.
Posso replicare brevemente a ...".
Felice Cimatti:
"Certo, a Introvigne".
Fulvio Conti:
"... a Teodori ed anche a Introvigne, che ringrazio prima d tutto per i complimenti che
hanno fatto per il mio lavoro.
In effetti, anche negli anni dell'immediato secondo dopoguerra, dai pochi studi seri che
abbiamo, primi inizi di lavori e di ricerca, diciamo la massoneria continua a collocarsi su
una linea che era abbastanza simile a quella del periodo pre-fascista, cioè é molto vicina per
esempio, ai partiti laici, al partito repubblicano, dopo il `47 al partito socialdemocratico, al
partito liberale, e a una linea abbastanza precisa di scelta atlantica, ma anche in questo caso
di difesa della cultura laica.
Pensate che pur di avere un voto contrario all'articolo 7 della Costituzione, nel 1947 la
massoneria non disdegna neppure qualche contatto con esponenti del partito comunista".
Felice Cimatti:
"É interessante questo...
Teodori, non potrebbe essere che quella degenerazione, stavamo parlando in questo caso
della P2, nasca proprio dal fatto che forse i valori della massoneria originaria, cioè il
laicismo, per quanto molto contrastati, siano molto diffusi nelle nostri società, perlomeno in
quelle moderne e da questo punto di vista, forse proprio la funzione storica della
massoneria si sia un po' affievolita, e abbiano prevalso quegli aspetti di cui poco fa parlava
anche Conti, forse più immaginari, forse talvolta anche un po' di maniera che possono
anche prendere pieghe pericolose addirittura, come nel caso della P2?".
Massimo Teodori:
"Guardi, innanzitutto io vorrei direi che la cosa che é stata un po' evocata da Introvigne e
poi ripresa in parte da Conti e cioè che purtroppo nel secondo dopoguerra, cioè nei 50 anni
repubblicani non c'è stata un'azione laica della massoneria in Italia.
Io appartengo a una storia, ad una tradizione, quella radicale, che ha fatto tutte le battaglie
laiche dei diritti civili e delle libertà individuali in queste paese, é inutile stare a ricordarle,
ma devo francamente dire che pur troppo non ho mai incontrato in una maniera
effettivamente attiva positiva, la massoneria.
Quindi se c'è una cosa da dire per quante riguarda il secondo dopoguerra, é che la
massoneria ha un po', non dico tradito, ma non ha tenuto vivi quelli che erano i suoi grandi
ideali. Io non sono massone, ma apertamente difendo ad ogni costo i massoni contro tutti i
fondamentalismi, contro tutti i tentativi che pur in Italia stanno facendo di metterli più o
meno fuori gioco nei consigli regionali e via di seguito, ma dico sempre al mio grande
amico, il gran maestro Raffi: "svegliatevi, perché avete fatto una piccola rivoluzione di
trasparenza, però adesso datevi da fare nel fare quelle cose che sono nella vostra
tradizione".
Quindi purtroppo c'è un buco vuoto nella massoneria e naturalmente, quando ci sono i
buchi vuoti...".
Felice Cimatti:
"Certo...".
Massimo Teodori:
"Naturalmente poi le organizzazioni finiscono pei diventare anche il paravento di cose del
tutto illegittime.
Questo direi con molta franchezza, con uno sguardo retroattivo di questi ultimi 50 anni. In
Francia la massoneria ha una storia molto diversa, come negli Stati Uniti e nei paesi
anglosassoni, ma in Italia si é sentita la mancanza dell'organizzazione che svolgesse quella
funzione che bene o male comunque ha svolto nell'Italia unitaria".
Felice Cimatti:
"Per rispettare la sua ragione sociale, possiamo dire così grazie ai nostri tre ospiti.
L'ultima che avete ascoltato era la voce di Massimo Teodori, abbiamo parlato anche con
Fulvio Conti, che insegna Storia Contemporanea all'Università di Firenze.
Questa nostra discussione sul tema della massoneria ha preso spunto dal suo libro Storia
della massoneria italiana, dal Risorgimento al Fascismo, lo pubblica Il Mulino.
Grazie anche a Massimo Introvigne, fondatore del Cesnur, il Centro studi sulle Nuove
Religioni".
W.A. Mozart
• Il Flauto Magico
• Il simbolismo del Flauto Magico
• I Midi e MP3
Il Flauto Magico
Flauto magico, ultima opera di Mozart, apre una problematica vasta.
Impossibile sarebbe trattarne in una breve conversazione tutti gli aspetti, che vanno, tanto
per citarne alcuni, dalla genesi dell'opera alla confluenza in essa di una grande varietà, pur
mirabilmente unitaria, di forme e di stili.
Dalla paternità tuttora non identificata dell'elemento massonico introdotto nel libretto alla
priorità del Flauto magico come opera nazionale tedesca.
Infine, alla necessità di un'interpretazione degli elementi simbolici ed esoterici, per la piena
comprensione di una vicenda, che a molti parve, e pare tuttora, oscura e confusa.
In quanto alla genesi dell'opera, intesa, non materialmente come commissione dell'autore
del libretto Schikaneder a Mozart perché lo musicasse, ma come rito e - come dice il
Mittner - dramma dell'iniziazione massonica trasferiti in una fiaba orientale, si sa che è
avvolta nel buio.
Schikaneder, che era abile impresario, ottimo attore e uomo di mondo, gestiva a Vienna il
piccolo teatro di periferia Auf der Wieden ed era impegnato a reggere la concorrenza con
altri teatri simili al suo, come quello gestito dal Marinelli, dove stava ottenendo grande
successo il Kasperl dello stesso Marinelli.
Sua preoccupazione, in quel periodo, era di allestire un'opera di macchine, spettacolare, nel
genere fiabesco, che allora godeva il favore del pubblico.
Del libretto che consegnò a Mozart, sembra perciò che egli fosse autore soltanto della parte
favolistica e che l'introduzione degli ideali umanitari sia da attribuire allo stesso Mozart.
Su questo aspetto del problema esiste una tesi suggestiva di Komorzynski, citata anche dal
Paumgartner, ma non storicamente accertata, secondo la quale il disegno di esaltare
nell'opera sia gli ideali umanitari, che la complessa liturgia dell'iniziazione massonica,
sarebbe nato in seguito alle visite che Mozart e Schikaneder, entrambi massoni, facevano
frequentemente al capo della maggior Loggia Massonica di Vienna, lo scienziato Ignaz von
Born, nel periodo della grave malattia che lo condusse alla morte.
Una cosa, comunque, sembra certa, almeno per qualche studioso dell'opera mozartiana, che
il contenuto morale del Flauto magico segni un netto distacco dai lavori precedenti di
Schikaneder, considerati più superficiali.
L'intervento e la collaborazione di Mozart nella stesura del libretto è ritenuta, pertanto,
molto fondata.
In quanto alla varietà delle forme e degli stili trattati nel Flauto magico, vi si trovano
mirabilmente fusi gli elementi dell'opera buffa e dell'opera seria, il Lied nella sua duplice
accezione popolare e aristocratica, il parlato proprio del Singspiel tedesco e il recitativo di
origine italiana.
A proposito di questo recitativo, la 14.a scena, secondo il libretto italiano, in cui si snoda il
dialogo fra Tamino e il vecchio sacerdote, è una delle più alte di tutta l'opera.
É l'unica che offra un recitativo accompagnato dall'orchestra ed un esempio certamente raro
per quei tempi.
La parte del sacerdote, in conformità all'esigenza di una appropriata solennità, ha carattere
religioso e a tratti suscita il ricordo di quel meraviglioso recitativo che Bach affida al
personaggio di Gesti nella Passione secondo san Matteo.
E sono pure evidenti, nel Flauto magico, stilemi corali che riecheggiano il corale
protestante, espressione e anima del popolo tedesco attraverso i secoli.
Tutto questo materiale, che da Bach, o comunque dal periodo barocco. ci porta alle soglie
del romanticismo, è filtrato alla luce della grande coscienza artistica di Mozart e riceve il
segno inconfondibile della sua capacità di unità e di sintesi. Del resto, ciò non deve stupire.
Quando scrisse Il Flauto magico, Mozart era alla fine della sua vita e aveva composto i
capolavori che tutti conoscono e trattato con prodigioso magistero tutte le forme
settecentesche: la sonata, la sinfonia, il concerto, il divertimento, la serenata, la cassazione,
la fantasia, il trio, il quartetto, il quintetto e i più vari raggruppamenti strumentali per archi
e per fiati, la cantata, il Lied, la danza, la messa, la litania, il vespro,il canone, la fuga, la
variazione, l'opera.
Mozart, insomma, aveva già esplicato quella versatilità, unica nella storia della musica, che
gli aveva consentito di abbracciare tutti gli aspetti del mondo musicale del suo tempo.
A questo proposito desidero leggere un passo del Mittner, che mi pare puntualizzi con
acutezza i caratteri della personalità mozartiana: Wolfgang Amadeus Mozart dice Mittner,
in cui culmina e si riassume tutta la musica europea del Settecento, è uno degli artisti più
difficili a definirsi.
Prodigiosa è in lui la capacità di assimilare senza fatica, di arricchirsi con un lento è felice
processo autoeducativo e soprattutto di rifondere ogni nuova esperienza in nuove armonie,
che sono sempre armonie sue, soltanto sue.
Il suo lato recettivo non è mai a detrimento del lato creativo; egli è originale senza cercare
di esserlo; ha molto da dire, ma non dice mai troppo; secondo la felice frase di Busoni, non
trova mai senza cercare, ma cerca solo ciò che sa di poter trovare.
In questo senso è esatto il tradizionale parallelo fra Mozart e Raffaello: grandissimi e
sempre originali assimilatori l'uno e l'altro, tanto che in essi può talora sembrare felice e
spontaneo ciò che invece è frutto di assiduo e metodico lavoro.
Resta un ultimo accenno al Flauto magico, come opera che getta le basi del teatro nazionale
tedesco.
É noto che fin da giovane Mozart aveva coltivato l'ideale di un teatro nazionale e la prima
opera che scrisse su testo tedesco fu Il Ratto dal Serraglio, di cui il Paumgartner dice che
segnò la via al nuovo, grande teatro nazionale tedesco.
Ma se il Ratto dal Serraglio ne segna la via, il Flauto magico la definisce; e non soltanto per
la sintesi dei valori musicali, di cui si è detto, ma anche per l'alto valore morale del libretto,
in cui si scontrano le forze del bene e del male e alla fine trionfano gli ideali massonici cari
a Mozart, dell'umanitarismo, della libertà, della tolleranza, della fratellanza universale.
Sarà lo stesso Paumgartner a dire del Flauto magico che è la prima grande creazione
drammatico-musicale nello spirito del secolo nuovo.
L'opera andò in scena la prima volta il 30 settembre 1791 sotto la direzione dello stesso
Mozart.
Il pubblico l'accolse un po' tiepidamente, ma già alla seconda esecuzione, ancora diretta da
Mozart, le tributò un successo più caloroso, che via via aumentò, tanto che nello stesso
mese di ottobre Schikaneder poté fissarne ventiquattro recite.
Dopo poche sere, Mozart, per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute, dovette cederne la
direzione ad un altro maestro e il 5 dicembre, quando morì, il Flauto magico si
rappresentava ancora.
Antonio De Curtis
Il Fratello
Il Poeta
'A Livella
'O Schiattamuorto
'A Vita
Il documento sulla appartenenza alla Massoneria di Totò, che viene presentato ai nostri
visitatori esoterici, è uno stralcio di un lavoro di Rita Polverini datato 1998 e pubblicato su
il "Laboratorio" n. 36 maggio-giugno 1998- Turri Copisteria, Scandicci-FI.
L'autrice indaga un aspetto del grande comico sconosciuto ai più.
Le informazioni documentate relative all’appartenenza di Antonio de Curtis alla
Massoneria sono state fornite dal Direttore dell’Archivio Storico del Grande Oriente
d’Italia Palazzo Giustiniani, Vittorio Gnocchini, che, l'autrice, nell'articolo, ringrazia per:
"La squisita disponibilità e, l’entusiasmo e la serietà con cui sempre si mette a disposizione
per il reperimento dei documenti".
Antonio De Curtis
"Il Fratello"
[…] Il 21 aprile 1967 la Loggia Fulgor Artis annunciava dalle pagine del "Tempo" di Roma
la scomparsa di Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe dei Focas Angelo
Flavio Ducas Comneno Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di
Tessaglia, del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro, conte
e duca di Drivasto e Durazzo, in arte Totò.
Difficile riuscire a ripercorrere le tappe dell’iniziazione di Totò alla Massoneria, certo è che
i documenti attestano la presenza di Antonio de Curtis a metà del 1945 come Fratello di 18°
in una Loggia napoletana detta Fulgor e, qualche mese dopo, in ottobre, compare come
Maestro Venerabile 30° nella Fulgor Artis di Roma, all’Obbedienza della Federazione
Massonica Universale del Rito Scozzese Antico ed Accettato…
In taluni casi (come per esempio ricorda Giordano Gamberini) si parla di un’Officina
promossa e fondata dal principe come Ars et Labor, ma non è possibile stabilire se essa
fosse altra Loggia o se si fuse o confuse con la Fulgor Artis.
La sua affiliazione viene fatta risalire al 1944, nella Loggia Palingenesi.
Ma quelli, dopo le furie fasciste e la clandestinità, erano anni di grande confusione, e le
Officine avevano ripreso i lavori in modo libero e spontaneo, prima dei riconoscimenti
formali.
Comunque, in breve tempo egli fondò a Roma una Loggia dal significativo nome Fulgor
Artis, di cui probabilmente ricoprì sempre la carica di Maestro Venerabile e che riuniva
vari attori di cinema e teatro…
Il principe Antonio de Curtis, un Fratello che avrebbe potuto senza difficoltà acquisire il
33° del Rito Scozzese, che avrebbe potuto arrivare cioè a far parte delle alte sfere della
gerarchia massonica, nel Supremo Consiglio per la gestione del Rito, si fermò al 30°
grado…
Nel 1998, anniversario dei cento anni della nascita di Totò (15 Febbraio 1898) l’invito
dell’allora Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Virgilio Gaito al Sindaco di Napoli,
Antonio Bassolino, perché nell’occasione si ricordasse non solo l’attore ma anche il
Fratello, suscitò sconcerto e scatenato repliche indignate: come immaginarsi Totò con
indosso il grembiulino, a compiere rituali sotto l’egida di squadra e compasso! (cfr. "La
Repubblica", 15 febbraio 1998).
Luciano De Crescenzo gridò allo scandalo.
Renzo Arbore, invece, giustamente replicò: "Credo che Totò avesse molto forte il
sentimento della solidarietà ed era in questo senso massone.
[ ... ] Totò aveva queste due anime.
Una voleva elevarsi, affrancarsi dal personaggio.
Potrebbe aver visto questa strada, entrare a far parte di un club di persone rette e giuste, un
modo, appunto, di esprimere la sua voglia di andare incontro al prossimo"
[…] Sulla carriera di Totò, sappiamo tutto, tutte le curiosità e tutti gli aneddoti, ma la
presenza di Totò in Massoneria è stato un "segreto", nessuno fino ad ora ne aveva mai
parlato pubblicamente [...]
Evidentemente il principe de Curtis aveva pienamente aderito ai giuramenti degli antichi
rituali, per i quali la Massoneria è essa stessa il "segreto":
"V’è qualche cosa di comune fra voi e me?" — recitano —
"Sì, Venerabile Maestro",
"E che cosa è, fratello mio?",
"Un segreto",
"E quale è?",
"La Massoneria".
E l’ingresso ai segreti dei massoni è nascosto, come si apprende da altro rituale, "nel cuore,
in cui sono racchiusi tutti i segreti dell’Ordine"[…]
Il secondo dopoguerra segna, con l’adesione alla Massoneria, una svolta nella vita di
Antonio.
Il giornalista Alessandro Ferraù, che scrisse una biografia di Totò già nel 1941, ha voluto
sottilmente o ingenuamente segnare questo passaggio attraverso una piccola ma
significativa dedica.
Nel 1941 Totò gli regalò una foto e nel 1967 un volume di ‘A livella entrambe con la stessa
dedica ma nella seconda «aveva inserito al posto di ‘carissimo Direttore’, la frase ‘al mio
carissimo e fraterno amico’».
Tutto gira, dunque, attorno a quella poesia, origine e fulcro della sua iniziazione, i cui primi
versi sono apparsi nel 1953, in appendice al libro Siamo uomini o caporali?
Un inno alla livella (dal lat. libella, bilancia), all’orizzontalità perfetta, alla Grande
Eguagliatrice.
Il poeta ci racconta in versi di essere stato testimone, il giorno dei morti, al cimitero, di un
fatto curioso; il fantasma di un marchese e quello di un netturbino si incontrano dove sono
sepolte le loro salme, l’una accanto all’altra.
Il marchese, irritato dalla vicinanza della spoglia e sporca tomba dell’altro, lo aggredisce:
"come avete osato di farvi seppellir, per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato?! [
... ]
Ancor oltre sopportar non posso la vostra vicinanza puzzolente".
Il netturbino, dopo averlo ascoltato, si spazientisce: "Ma chi te cride d’essere... nu ddio?
Ccà dinto, ‘o vvuò capì, ca simmo eguale?
Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io; ognuno comme a ‘n’ato è tale e qquale".
I due protagonisti si presentano con caratteristiche umane e terrene: il nobile è vestito col
cilindro e un gran pastrano, è marchese, signore di Rovigo e di Belluno, porta solo
appellativi ma non possiede un nome e parla correttamente; lo "scupatore" è tutto sporco e
misero, si chiama Gennaro Esposito e parla in dialetto napoletano.
Immancabilmente presenti le due anime di Antonio de Curtis, il principe e il povero, il
blasonato e il figlio di N.N.
La morte che qui viene celebrata, non è la nemica, non rappresenta la fine, non è
drammatica.
Per i Fratelli la morte si lega alla simbologia della terra.
È un rito di passaggio: rivelazione e introduzione.
Putrescat ut resurgat: tutte le iniziazioni attraversano una fase di morte prima di spalancare
le porte ad una vita nuova.
La morte libera le forze ascensionali dello spirito, è la condizione per accedere ad una vita
superiore. Il messaggio è affidato a Gennaro, lo scopatore: "nuje simmo serie...
appartenimmo â morte!".
La Morte è, del resto, il campo neutro, dove non esistono distinzioni né per bontà o
cattiveria, né per nobiltà o povertà, né di gerarchia e potere: «’A morte ‘o ssaje ched’è? ... è
una livella»[…]
La livella e il filo a piombo sono gli attributi dei due Sorveglianti e la loro dualità
corrisponde a quella delle due colonne del Tempio.
La livella è costituita da una squadra al vertice della quale è sospeso un filo a piombo:
quindi non solo determina l’orizzontale, ma anche la verticale, l’espansione cosmica.
Il passaggio dalla perpendicolare alla livella esprime una crescita, quella dal grado di
Apprendista a quello di Compagno.
La sintesi della perpendicolare con la livella non è realizzata se non per mezzo della
squadra, attributo del Venerabile.
La livella si lega all’iniziazione, all’inizio del percorso muratorio, esprime la crescita del
massone, e come tale possiamo pensare che fu scritta da Totò [...]
"Il Poeta"
'A Livella
Ogn'anno, il due novembre, c'é l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.
St'anno m'é capitato 'navventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo, e che paura!
ma po' facette un'anema e curaggio.
'O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d'à chiusura:
io, tomo tomo, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.
"Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l'11 maggio del'31".
'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto
...
...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele, cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore
nce stava 'n 'ata tomba piccerella,
abbandunata, senza manco un fiore;
pe' segno, sulamente 'na crucella.
E ncoppa 'a croce appena se liggeva:
"Esposito Gennaro - netturbino"
:
guardannola, che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pur all'atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero,
muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.
Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje:stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato...dormo, o è fantasia?
Ate che fantasia;era 'o Marchese:
c'o' tubbo, 'a caramella e c'o' pastrano;
chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu 'nascopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro...
'omuorto puveriello...'o scupatore.
'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se ritirano a chest'ora?
Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo,
quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e tomo tomo..calmo calmo,
dicette a don Gennaro:"Giovanotto!
Da Voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va, si, rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava, si, inumata;
ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente".
"Signor Marchese, nun è colpa mia,
i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,
i' che putevo fa' si ero muorto?
Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse
e proprio mo, obbj'...'nd'a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".
"E cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!"
"Famme vedé..-piglia sta violenza...
'A verità, Marché, mme so' scucciato
'e te senti;e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...
Ma chi te cride d'essere...nu ddio?
Ccà dinto, 'o vvuo capi, ca simmo eguale?
...
...Muorto si'tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".
"Lurido porco!...Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?".
"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo... 'int'a cervella
che staje malato ancora e' fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.
'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a ssenti...nun fa''o restivo, suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"
'O Schiattamuorto
I' faccio 'o schiattamuorto 'e prufessione,
modestamente songo conosciuto
pe' tutt' 'e ccase 'e dinto a stu rione,
peccheè quann'io manèo 'nu tavuto,
songo 'nu specialista 'e qualità.
I' tengo mode, garbo e gentilezza.
'O muorto nmano a me po' sta' sicuro,
ca nun ave 'nu sgarbo, 'na schifezza.
Io 'o tratto comme fosse 'nu criaturo
che dice 'o pate, mme voglio jì a cuccà.
E 'o còcco luongo, stiso 'int' 'o spurtone,
oure si è viecchio pare n'angiulillo.
'O muorto nun ha età, è 'nu guaglione
ca s'è addurmuto placido e tranquillo
'nu suonno doce pe' ll'eternità.
E 'o suonno eterno tene stu vantaggio,
ca si t'adduorme nun te scite maie.
Capisco, pe' murì 'nce vo' 'o curaggio;
ma quanno chella vene tu che ffaie?
Nn' 'a manne n'ata vota all'al di là?
Chella nun fa 'o viaggio inutilmente.
Chella nun se ne va maie avvacante.
Si' povero, si' ricco, si' putente,
'nfaccia a sti ccose chella fa a gnurante,
comme a 'nu sbirro che t'adda arrestà.
E si t'arresta nun ce stanno sante,
nun ce stanno raggione 'a fa' presente;
te ll'aggio ditto, chella fa 'a gnurante...
'A chesta recchia, dice, io nun ce sento;
e si nun sente, tu ch'allucche a ffa'?
'A morta, 'e vvote, 'e comme ll'amnistia
che libbera pe' sempe 'a tutt' 'e guaie
a quaccheduno ca, parola mia,
'ncoppa a sta terra nun ha avuto maie
'nu poco 'e pace... 'na tranquillità.
E quante n'aggio visto 'e cose brutte:
'nu muorto ancora vivo dinto 'o lietto,
'na mugliera ca già teneva 'o llutto
appriparato dinto a nu' cassetto,
aspettanno 'o mumento 'e s' 'o 'ngignà.
C'è quacche ricco ca rimane scritto:
« Io voglio un funerale 'e primma classe! ».
E 'ncapo a isso penza 'e fa' 'o deritto:
« Così non mi confondo con la massa ».
Ma 'o ssape, o no, ca 'e llire 'lasse cca'?!
'A morta è una, 'e mezze songhe tante
ca tene sempe pronta sta signora.
Però, 'a cchiù trista è « la morte ambulante »
che può truvà p' 'a strada a qualunq'ora
(comme se dice?...) pe' fatalità.
Ormai per me il trapasso è 'na pazziella;
è 'nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s'è stutata 'a lamella
significa ca ll'opera è fernuta
e 'o primm'attore s'è ghiuto a cuccà.
A VITA
'A vita e' bella, si' è stato un dono,
un dono che ti ha fatto la natura.
Ma quanno po' sta vita e' 'na sciagura,
vuie mm' 'o chiammate dono chisto cca' ?
E nun parlo pe' me ca, stuorto o muorto,
riesco a mm'abbusca' 'na mille lire.
Tengo 'a salute e, non faccio per dire,
songo uno 'e chille ca se fire 'e fa'.
Ma quante n' aggio visto 'e disgraziate :
cecate, ciunche,scieme, sordomute.
Gente ca nun ha visto e maie avuto
'nu poco 'e bbene 'a chesta umanita'.
Guerre, miseria, famma, malatie,
crestiane addeventate pelle e ossa,
e tanta gioventu' c' 'o culo 'a fossa.
Chisto nun e' 'nu dono, e' 'nfamita'
R. KIPLING
Il Fratello
Il Poeta
Inno del punto di rottura
Loggia madre
Se...
La sera dell'Agape
Città, Troni e Potenze
Congedo
Kipling entra in Massoneria nell'aprile del 1886, all'età di 20 anni, a Lahore, nella Loggia
"Hope and Perseverance" (N. 782).
Dal verbale dei lavori della seduta regolare, tenutasi nella Casa Massonica (Anarkali) il
lunedi 5 aprile 1886, si legge: "Maestro Venerabile: Fratello G.B. Wolseley.
Punto 3: Votazione per il Signor Joseph Rudyard Kipling, di 20 anni e due mesi e mezzo,
Vice Direttore della "Civil & Military Gazette", residente a Lahore, candidato per la
iniziazione.
Fratello presentatore il Fr. Col. Menzies.
Appoggia il Fr. C. Brown.
Si approva alla unanimità.
Dispensa del Gran Maestro Distrettuale, in quanto non maggiorenne".
Il suo attaccamento alla Libera Muratoria lo accompagnò lungo tutta la sua movimentata
vita.
Le notizie sulla vita di Kipling sono tratte da "Massoneria Oggi" anno III n. 6 - dicembre
1996, pag. 33 - Editrice Società Erasmo da un articolo a firma di W.De D.
Kipling e la Massoneria
Joseph Rudyard (luogo dove i genitori si erano incontrati) nasce a Bombay nel 1865 e
muore il 18 gennaio 1936, poco dopo aver compiuto i 70 anni.
Premio Nobel per la letteratura nel 1908, riceve nel 1921 la laurea ad honorem
dell'Università di Parigi.
É ora sepolto nella Abbazia di Westminster, nel famoso Angolo dei Poeti. La sua fu
un'infanzia provatissima e piuttosto infelice, sia a Bombay che a Southsea, in Inghilterra,
lontano dai genitori, entrambi metodisti.
Esordisce nel giornalismo come giovanissimo vicedirettore della Civil and Military Gazette
di Lahore (attuale capitale del Pakistan dell'Ovest).
Kipling entra in Massoneria nell'aprile del 1886, all'età di 20 anni, a Lahore, nella Loggia
Hope and Perseverance (N. 782).
Dal verbale dei lavori della seduta regolare, tenutasi nella Casa Massonica (Anarkali) il
lunedi 5 aprile 1886, si legge: Maestro Venerabile: Fratello G.B. Wolseley. Punto 3:
Votazione per il Signor Joseph Rudyard Kipling, di 20 anni e due mesi e mezzo, Vice
Direttore della 'Civil & Military Gazette', residente a Lahore, candidato per la iniziazione.
Fratello presentatore il Fr. Col. Menzies. Appoggia il Fr. C. Brown. Si approva alla
unanimità. Dispensa del Gran Maestro Distrettuale, in quanto non maggiorenne.
Il verbale che ricorda la sua elevazione al Terzo Grado fu compilato di suo pugno, avendo
Kipling svolto le mansioni di Segretario proprio nella seduta in cui fu elevato a Maestro.
Una situazione singolare, probabilmente.
Iniziato nell'aprile 1886, promosso al grado di Compagno nel maggio, elevato a Maestro
sempre dello stesso anno.
Nella tornata del febbraio 1887 è investito della carica di Segretario e nominato
Cerimoniere.
In una lettera al quotidiano londinese The Times del 1925 scrive: ... Per alcuni anni fui
Segretario della Loggia Hope and Perseverance N. 782, Lahore, che aveva nel suo seno
Fratelli di almeno quattro credi.
Venni accolto da un membro della Bramo Samaj, un Indù, promosso da un Maomettano e
elevato da un Inglese. Il Copritore era un Ebreo Indiano.
Sappiamo del suo trasferimento ad Allahabad, presso il più noto e diffuso giornale The
Pioneer, e della richiesta dell'exeat per poter aderire alla Loggia Independence with
Philanthropy, N. 391, la quarta loggia, riguardo al numero, della Gran Loggia Distr. del
Bengala.
É presente, comunque, il 22 dicembre 1887, quando, davanti ad un'enorme assemblea, è
installato Maestro Venerabile Sir John Edge, Magistrato Supremo delle Province Nord
Occidentali.
La partecipazione alla vita della nuova Officina dura poco meno di un anno.
Si avvicinava infatti la partenza per l'Inghilterra e Kipling non tornerà mai più ad
Allahabad.
Nel febbraio del 1889 compie una visita di commiato a Lahore e, subito dopo, parte per
Calcutta.
Viaggia e miete successi negli Stati Uniti.
Dichiarato fuori pericolo, insieme alla moglie, da una brutta polmonite (i bambini subirono
pertosse e bronchite), riceve a New York grandi attestazioni di simpatia e solidarietà:
lettere, fiori, giornalisti in permanenza dentro e fuori l'albergo che lo ospitava, preghiere
nelle chiese e incredibili manifestazioni di affetto.
La bambina più grande, tuttavia, muore.
Andrew Carnegie (famoso fabbricante di seta e filantropo di origine scozzese) offre alla
famiglia, per la convalescenza, una casetta sugli altopiani della Scozia.
In quell'occasione Kipling ottiene (ottobre 1889) la nomina a Membro Onorario della
Loggia Canongate Kilwinning - la più antica e la più famosa del mondo - e, onore
rarissimo, quella di Poet Laureate della medesima Loggia.
La Massoneria é stata uno dei suoi primi interessi.
Nel 1900 è in Sud Africa.
Qui ha la prima diretta esperienza degli orrori di una guerra.
Sviluppa un rapporto attivo e fraterno con Conan Doyle (massone, creatore di SherlocK
Holmes, ufficiale medico dell'Ospedale di Campo di Langham). Insieme ad altri liberi
muratori di rilievo, fondano a Bloemfontein la Emergency Lodge.
Nel giugno del 1900 entra a far parte della Società dei Rosacroce. In Inghilterra, tale
Società, più che di alchimia, è stata, ed è, cultrice di esoterismo cristiano.
Risulta fra i fondatori della Authors Lodge, N. 3456 (1910), ma non è presente in occasione
della Consacrazione.
Durante la prima guerra mondiale, si prodiga nell'ambito della Croce Rossa, visitando
ospedali, campi di addestramento e scrivendo per Daily Telegraph.
Un telegramma del 2 ottobre 1915 gli comunica che il figlio è rimasto gravemente ferito e
risulta disperso; solo dopo due anni riesce a sapere che era stato colpito alla testa durante
una azione della sua compagnia.
Nel 1917 è in Italia al fine di raccogliere materiale, fra gli Alpini, per una storia della
campagna nel nostro paese (The War in the Mountains).
Nella Freemasons Hall di Londra, il 28 giugno 1918, viene consacrata la Motherlan Lodge,
N. 3861. Kipling è invitato, ma inviò una lettera di scuse; ne diviene però Membro
Onorario.
Nel gennaio 1922 è consacrata a St. Ome (Quartiere Generale della Commissione Imperiale
per i Cimiteri di Guerra) una Loggia, col numero 12, alla Obbedienza della Grand Loge
Nationale Indépendente et Régulière pour la France et les Colonies Françaises.
Tra i fondatori troviamo Kipling che le dà il nome The Builders of the Silent Cities
(Costruttore delle Città del Silenzio).
Fra i primi iniziati, il Generale di Divisione Sir Fabian Ware vicepresidente della
Commissione. In omaggio a Kipling, la Loggia adotta, per il Terzo Grado il rituale Sussex.
Sarà sempre attivo, nonostante lutti e malattie.
La sua casa è ormai meta di pellegrinaggi di ogni genere.
Ad un invito del segretario della Loggia degli Autori così risponde: Bateman's Burnwash,
Sussex 2 gennaio 1936.
Caro Fratello Spalding, grazie assai dell'invito per il 15, ma sono spiacente di dover dire
che ogni anno passo dalle fatiche per combattere il clima inglese al sollievo del Sud della
Francia e per il 15 vorrei trovarmi in qualsiasi parte di questo pazzo mondo purché vi
splenda il sole.
Ti prego di trasmettere il mio rammarico e le mie scuse ai Fratelli e credimi fraternamente
tuo (firmato) Rudyard Kipling. Si spegne qualche giorno dopo.
Nelle sue opere, spesso, i riferimenti massonici non hanno particolare rilevanza in rapporto
alla storia narrata; sembrano essere scivolati nel testo quasi involontariamente, come se
l'autore non riuscisse a trovare un modo migliore per esprimersi.
Riflettono comunque una spinta interiore (una abitudine) che è, di per sé, misura
dell'attaccamento di Kipling alla Istituzione.
Ne L'Uomo che volle farsi Re compare la persuasione - diffusa fra viaggiatori e studiosi di
folklore - che molte tribù primitive del vicino e del lontano Oriente facciano uso di segni e
simboli noti e in opera nella Muratoria speculativa: la Parola, la stretta di mano, i gradi di
Apprendista e Compagno, ad esempio.
Uno dei suoi tanti racconti, With the Main Guard (1890) (La Gran Guardia), tratta di una
spedizione punitiva contro gli uomini della tribù Pathan.
Durante l'attacco, il reggimento, formato da rompicollo di una contea del nord d'Irlanda,
finisce schiacciato in una stretta gola montana.
Ne conseguono feroci corpo a corpo: Ginocchio contro ginocchio! ordina con voce alta e
forte Crook, accompagnando con una risata il venir meno del nostro slancio, e mentre si
teneva stretto abbracciato a un grosso e irsuto Pathan, né l'uno né l'altro riuscendo così a
sferrare colpi, nonostante la gran voglia di farlo.
Petto contro petto! dice, mentre l'irlandese ci spingeva in avanti.
Mano sulla spalla! fa un Sergente appena dietro di me.
E vidi una sciabola lambire l'orecchio di Crook, simile alla lingua di un serpente, e andare a
colpire quello della tribù Pathan al pomo della sua gola, come un maiale alla fiera di
Dromeen.
Grazie a te, Fratello Copritore Interno, dice Crook, imperturbabile... avevo proprio
bisogno di spazio.
The Mother-Lodge (1806) (La Loggia Madre) è la più nota e forse la più amata delle poesie
massoniche di Kipling.
Niente potrebbe meglio esprimere la profonda impressione che la universalità della
Massoneria aveva compiuto su di lui.
Nell'omonimo romanzo, Kim, bambino orfano, è sorpreso nell'accampamento di una
pattuglia dal Padre Cappellano e scambiato per un ladruncolo.
Mentre lotta per liberarsi, si rompe il cordoncino di un astuccio che portava sempre appeso
al collo e compaiono tre fogli: uno chiamato dal padre il suo "ne varietur", il foglio del suo
congedo e, il terzo, l'atto di nascita di Kim.
Si aprono allora le porte dell'Orfanotrofio Massonico, ma poi fugge da un Lama e comincia
una sua ricerca, in ogni direzione.
Potrebbe risultare una forma di violenza riassumere In the Interest of the Brethren (1926)
(Al Servizio dei Fratelli).
In ogni rigo del racconto, infatti, si respira il senso autentico della Libera Muratoria.
Un piccolo capolavoro di ispirazione massonica, al di là di ogni tempo, luogo o moda.
Nella poesia Banquet Night (1926) (La sera dell'Agape) si esortano i Fratelli a Dimenticare
quelle cose, ossia le preoccupazioni del mondo esterno per godere della compagnia
fraterna.
In On the City Wall (1890) siamo nella casa di Lalun, una donna che esercita il più antico
mestiere: ... il salotto di Lalun è eclettico.
Mai visto riunita una varietà simile di individui, se non in una Loggia Massonica, dove una
volta ho banchettato persino con un Yahoudi!.
007 (1898) è la storia di una nuova locomotiva americana che passa rombando: è il Gran
Treno Imperiale, l'espresso dei milionari, e Smistino, una piccola cordiale macchina per gli
scambi dice: Si tratta del Maestro Venerabile della nostra Loggia... Te lo presenterò .......
Felice di fare la tua conoscenza, disse il Gran Treno Imperiale... In virtù dei poteri a me
conferiti, in qualità di Capo e Guida della Strada Ferrata, io qui proclamo solennemente il
N. 007 Fratello a pieno titolo della Fratellanza Unita delle Locomotive, e come tale
autorizzato a godere di tutti i privilegi derivanti dall'officina, dallo scambio, dal binario,
dal serbatoio e dal deposito... col grado di Treno Rapido Superiore, essendo a tutti noto
ormai... che il nostro Fratello ha coperto quarantuno miglia in trentanove minuti e mezzo
per compiere un'opera di misericordia in favore degli afflitti.
Al momento opportuno, ti comunicherò il Canto e il Segno di questo grado affinché possa
farti riconoscere nella notte più buia.
Ed ora... prendi pure il tuo posto fra le Locomotive.
Ne The Tender Achilles (1932) (Achille il Fragile) si assiste ad una discussione sui relativi
meriti, tra chirurghi e medici generici, con la storia di Wilks, il batteriologo, ferito e affetto
da turbe mentali dopo un duro periodo di guerra.
Il chirurgo, durante il consueto giro di visite, traccia una distinzione tra le rispettive
professioni: "Ha detto che era un massone operativo non uno speculativo!.
In un discorso sui Resoconti dell'Impero (1907), Kipling dice, davanti a un pubblico d
Canadesi: Istruzione, Immigrazione, Trasporti Irrigazione, Amministrazione.
Sono questi i cinque grandi problemi da affrontare, che io preferisco chiamare I Cinque
Punti della Maestria!.
Edwind Wilson, ne Il Kipling che nessun ha letto (La ferita e l'arco: sette studi di
letteratura, Garzanti, 1973), scrive: La religiosità senza chiesa di Kipling ricorre a strane
fratellanze e fedi per sorreggere i suoi uomini finiti In India era entrato in Massoneria e
questa aveva avuto una sua parte in Kim, e pareva si fosse improvvisamente travestita da
mitraismo nei racconti romani di Puck of Pook's Hill.
Ora Kipling inventa, per una serie di racconti, un circolo di massoni filantropi, che si
riuniscono nel retrobottega di una tabaccheria e cercano di aiutare i relitti della guerra.
Comincia ad apparire in questi racconti il nuovo ideale di fratellanza non delimitata dalla
discriminazione da una armata in guerra o di una casta, ma si tratta dell'ideale di un uomo
stanco e umiliato.
A leggerli, potrebbe anche apparire il contrario!
Se fosse possibile riassumere il carattere massonico di un uomo che ebbe una vita piena,
movimentata e colma di successi, occorrerebbe dire che la carriera massonica fu impedita
dalla sua attività di giornalista e inviato speciale, dai suoi viaggi, dai suoi vari e frequenti
impegni.
Il fervore muratorio è testimoniato, tuttavia, in modo costante, dai suoi scritti.
Certo, aveva un temperamento impetuoso che gli procurò non pochi fastidi, ma possedeva
anche una carica smagliante di simpatia umana che lo spingeva a scrivere, con capacità di
penetrazione e comprensione, per ragazzi come per adulti, nel campo dei racconti, in modo
finora non superato.
Fu un Massone pratico, vivamente persuaso dell'utilità della Libera Muratoria
nell'indirizzare gli uomini verso buone ed efficaci azioni.
Ma in Kim, e in alcune poesie, mostrò genuina consapevolezza degli aspetti spirituali della
Massoneria.
Non risulta che Kipling abbia mai diretto il suo impegno verso le questioni organizzative
della Istituzione o verso i suoi rituali.
E la varietà dei caratteri che sempre lo interessò vivamente, insieme al calore che poteva
scaturire da una amicizia fraterna e sicura, dallo stare insieme frequentemente con gente di
ogni ceto, razza o credo.
Quella che lo accolse appena ventenne in Loggia a Lahore, in India, e che lo segnerà dentro
in modo indelebile.
"Il Poeta"
Inno del punto di rottura
Precisi manuali han calcolato
(in guardia costruttori!)
il carico, l'impatto, la pressione
che può reggere ogni materiale.
Così, quando per trave che s'incurva
l'intera campata è frantumata,
la colpa dei danni, o della morte,
sul conto dell'uomo va segnata.
Dell'uomo - non dei materiali!
Ma nel nostro rapporto quotidiano
con pietra e acciaio,
noi vediamo gli Dei non vincolati
a una simile giustizia per gli umani.
Ci forgiano senza prendere misure,
non frequentano un corso su di noi,
alla cieca ci gravano di pesi.
Troppo spietati da sopportare.
Precisi manuali hanno tabelle:
quale stress lacera i bulloni,
quanto traffico logora l'asfalto,
quant'a lungo dura il calcestruzzo.
Ma per noi, poveri figli di Adamo,
non stamparono tali avvertimenti.
Per l'uso in piena sicurezza.
Rapiniamo tutta la Terra
e Tempo e Spazio insieme;
troppo sazi ormai di meraviglie
per stupirci a nuovi miracoli;
finché, nella dolce illusione
d'aver già sottomano il divino,
una multipla confusione assale
ogni cosa compiuta o ideata:
Le opere possenti progettate.
Noi soli nel Creato soffriamo
(più fortunati ponti e rotaie!)
la duplice condanna di fallire
e sapere il proprio fallimento.
Ma un segno, l'unico, svela
che fummo Dei: è la vergogna
di crollare, pur sotto pesi immani.
Gran carico o dure avversità.
Oh Potenza velata di mistero,
di cui invano cerchiamo il sentiero,
assistici nell'ora di pena e rovina.
E per quel segno che Ti manifesta,
noi gli spezzati, proprio perché spezzati,
sorgeremo ancora a costruir di nuovo.
In piedi, a costruire ancora!
Loggia Madre
C'erano Rundle, il capo stazione,
E Beazeley, delle Ferrovie,
E Ackman dell'Intendenza,
E Donkin delle Prigioni,
E Blake il sergente istruttore,
Per due volte fu il nostro Venerabile
Con quello che aveva il negozio «Europa»,
Il vecchio Framjee Eduljee.
Fuori - «Sergente, Signore,
Saluto, Salaam»
Dentro, «Fratello»,
e non c'era nulla di male.
Ci incontravamo sulla Livella
e ci separavamo sulla Squadra,
Ed io ero Secondo Diacono
nella mia Loggia Madre laggiù!
Avevamo Bola Nath il contabile
E Saul, l'israelita di Aden,
E Din Mohammed disegnatore al Catasto,
C'erano Babu Chuckerbutty,
E Amir Singh, il Sikh,
E Castro delle officine di riparazione,
Il Cattolico Romano!
Non avevamo belle insegne,
E il nostro Tempio era vecchio e spoglio,
Ma conoscevamo gli antichi Landmarks,
E li osservavamo per filo e per segno.
E guardando tutto ciò all'indietro,
Mi colpisce questo fatto,
Che non esiste qualcosa come un infedele,
Eccetto, forse, noi stessi.
Poiché ogni mese, finiti i Lavori,
Ci sedevamo tutti e fumavamo,
(Non osavamo fare banchetti
Per non violare la casta di un Fratello),
E si parlava, uno dopo l'altro,
Di Religione e di altre cose,
Ognuno rifacendosi al Dio
che meglio conosceva.
L'uno dopo l'altro si parlava,
E non un solo Fratello si agitava,
Fino a che il mattino svegliava i pappagalli,
E quell'altro uccello vaneggiante;
Si diceva che ciò era curioso,
E si rincasava per dormire,
Con Maometto, Dio e Shiva
Che facevano il cambio della guardia
nelle nostre teste.
Sovente, al servizio del Governo,
Questi passi erranti hanno visitato
E recato saluti fraterni
A Logge d'oriente e d'occidente,
Secondo l'ordine ricevuto,
Da Kohat a Singapore,
Ma come vorrei rivedere
Ancora una volta quelli
della mia Loggia Madre!
Vorrei potere rivederli,
I miei Fratelli neri e scuri,
Tra l'odore piacevole dei sigari di là,
Mentre ci si passa l'appiccicafuoco;
E con il vecchio khansamah che russa
Sul pavimento della dispensa,
Ah! essere Maestro Massone di buona fama
Nella mia Loggia Madre, ancora una volta!
Fuori - «Sergente, Signore, Saluto, Salaam»
Dentro, «Fratello», e non c'era nulla di male.
Ci incontravamo sulla Livella
e ci separavamo sulla Squadra,
Ed io ero Secondo Diacono
nella mia Loggia Madre laggiù!
Se...
Se riesci a non perdere la testa, quando tutti intorno
La perderanno, e te ne incolperanno;
Se crederai in te stesso, quando tutti dubiteranno,
ma saprai intendere il loro dubbio,
Se saprai attendere, e non ti stancherai di attendere;
ed essere calunniato senza calunniare;
Se saprai essere odiato, senza dar sfogo all'odio,
e non apparir troppo bello, né parlar troppo saggio;
Se saprai sognare - ma dai sogni saprai non farti dominare;
Se saprai pensare - ma dei pensieri saprai non farne il fine;
Se saprai trattare nello stesso modo due impostori
Trionfo e Disastro - quando ti capiteranno innanzi;
Se saprai sopportare di sentire quello che hai detto di giusto,
falsato da ribaldi per farne trappola ai creduli;
Se saprai piegarti a ricostruire, con gli utensili ormai tutti consumati,
Le cose a cui hai dato la vita, ormai infrante;
Se saprai fare un mucchio di tutte le tue vincite
e rischiarlo in un giro di testa e croce;
E perdere e ricominciare da capo
e non fiatar verbo sulle tue perdite;
Se saprai forzare cuore, nervi e tendini
per aiutare il tuo volere, ben oltre la stanchezza,
E così resistere quando non c'è più nulla in te
tranne che le volontà che dice loro: reggete!
Se saprai parlare alle folle senza sentirti re,
O intrattenere i re parlando francamente,
Se né amici né nemici avranno il potere di offenderti,
Pur tutti contando per te, ma troppo mai nessuno;
Se saprai riempire il minuto che non perdona,
coprendo una distanza che valga i sessanta secondi;
Tuo sarà il mondo e tutto ciò che contiene
E, ancor di più, ragazzo mio, sarai un Uomo!
La sera dell'Agape
Di quando in quando, disse Re Salomone,
Osservando i suoi cavatori estrarre la pietra,
Metteremo assieme il nostro aglio e il vino e il pane
E banchetteremo ai piedi del Trono.
E tutti i Fratelli verranno a mensa
Come semplici Compagni
Né più né meno.
Portate questo messaggio a Hiram Abif,
Eccellente Maestro alla fucina e in miniera:
Nevica quasi sempre sulle gole del Libano,
E soffia sempre il vento giù sulla spiaggia di Joppa:
Ma una volta tanto, il messaggio porta
L'ordine di Salomone: Dimentica queste cose!
Fratello ai Mendicanti e Compagno ai Re,
Compagno ai Principi
Dimentica queste cose!
Compagno, dimentica queste cose.
Città, Troni e Potenze
Città, Troni e Potenze
stanno al cospetto del Tempo,
non più a lungo dei fiori,
che ogni giorno muoiono:
ma, come nuove gemme spuntano
per rallegrare nuovi uomini,
dalla Terra esausta e trascurata
le Città risorgono.
Il narciso di questa stagione,
mai non sa
qual mutamento, caso, o gelo,
ha falciato quelli dello scorso anno;
ma con contegno audace,
e poco consapevole,
crede che i suoi sette giorni
durino eterni.
Così il Tempo clemente
verso tutti gli esseri,
ci fa altrettanto ciechi
e audaci di lui:
e sul punto stesso della morte,
e certa sepoltura,
ombra a ombra convinta afferma:
"Vedi l'opera nostra come dura!"
Tratto da "I capolavori di Rudyard Kipling" Mursia Editore 1966 - 1968
Congedo
Il fumo sul vostro Altare muore,
I fiori appassiscono,
La Dea del vostro sacrificio
E’ fuggita.
Che serve dunque cantare o immolare
La vittima un giorno dopo l'altro?
«Sappiamo che il Santuario è vuoto»,risposero,
« E la Dea fuggita Eppure ghirlande sono deposte sull'altare –
La Pietra dell'Altare
è annerita dal fumo dei sacrifici,
Sebbene Essa sia fuggita ai nostri occhi.
Perché forse, se continuiamo a cantare
E ad aver cura del Santuario,
Qualche vagante Divinità alata
Si dirigerà qui;
E trovando tutto disposto in ordine,
Si fermerà mentre adoriamo ai Suoi piedi».
Giovanni Bovio
L'Uomo
Giovanni Bovio "[...]
É unanimemente considerato uno dei personaggi più autentici del laicismo ottocentesco,
venerato sia da coloro che ne condividevano il pensiero, fino all'esaltazione, sia da coloro
che se ne consideravano avversari irriducibili; la sua onestà, la sua incorruttibilità fu un faro
allorché la tensione unitaria sì era esaurita e i 'notabili' dell'Italia umbertina"[....] "si
abbandonavano ad ogni sorta di prevaricazione.
Fu filosofo e giurista, militò nella sinistra democratica sedendo per lunghi anni a
Montecitorio come rappresentante del collegio di Minervino Murge, e generalmente viene
considerato uno dei più brillanti oratori politici della Nuova Italia..."
Le notizie su Giovanni Bovio sono tratte da "Hiram" n. 1 - novembre 1988 - Editrice
Società Erasmo da un articolo a firma di D.D'A.
Giovanni Bovio "[...] É unanimemente considerato uno dei personaggi più autentici del
laicismo ottocentesco, venerato sia da coloro che ne condividevano il pensiero, fino
all'esaltazione, sia da coloro che se ne consideravano avversari irriducibili; la sua onestà, la
sua incorruttibilità fu un faro allorché la tensione unitaria sì era esaurita e i 'notabili'
dell'Italia umbertina" [...] "si abbandonavano ad ogni sorta di prevaricazione.
Fu filosofo e giurista, militò nella sinistra democratica sedendo per lunghi anni a
Montecitorio come rappresentante del collegio di Minervino Murge, e generalmente viene
considerato uno dei più brillanti oratori politici della Nuova Italia [...]".
Fu massone: maestro per più generazioni.
Dirà di se stesso negli ultimi anni della sua vita: "Io sono un contemporaneo di
Melchisedek, perché l'ideale è antico, ma sono anche contemporaneo con i più giovani,
perché l'ideale vive tuttavolta, ed a contatto con quest'ideale gli anni mi cadono di dosso, la
malattia si allontana dalle mie membra, ed io palpito, lotto e giovaneggio, e la mia stagione
si rinnovella di giorno in giorno, ed in ogni ora si compie la mia resurrezione".
Egli "non fu chiamato santo perché i santi si creano e si venerano sugli altari dei templi
della religione ufficiale: e l'unico altare, per Bovio, fu la sua coscienza e l'unico suo tempio,
l'Universo".
Ai massoni napoletani, nel 1888, così esprimeva la sua concezione della libero-muratoria:
"La nostra Istituzione, che è universale quanto l'umanità e antica quanto le memorie, ha le
sue primavere periodiche perché da una parte custodisce le tradizioni e i riti che la legano al
secoli, dall'altra si mette all'avanguardia di ogni nuovo pensiero e cammina con la
giovinezza del mondo".
"Affermiamolo, consacriamolo questo nuovo pensiero, facciamolo nostro integrandolo,
trasformandolo negli inerti, confortandolo nei dubbiosi, alimentandolo di ora in ora nei
violenti, trasferendolo, arditi e vigili, da' templi nella vita pubblica.
Esso vuole liberare le nazioni, una l'umanità, elevate a dignità umana le classi diseredate,
dominatrice degli intelletti la scienza, non occhio di prete tra l'uomo e la coscienza.
Informò tutta la sua vita perché l'uomo fosse libero. Operò fermamente convinto del
principio per cui: "Il diritto senza dovere fa il padrone, il dovere senza diritto fa il servo;
diritto e dovere equilibrati nella persona fanno l'uomo, non padrone o servo, non signore o
suddito, ma l'uomo veramente, l'uomo libero".
La sua vita di lotte, di orazioni grondanti impegno dì uomo giusto, dal forte ingegno e con
una carica eccezionale morale ed ideale; di lezioni da vero maestro impartite dalla sua
cattedra presso l'Università di Napoli, ebbe una stagione particolarmente significativa
durante il colera del 1884.
Nel 1884 scoppiò a Napoli una terribile epidemia di colera. Dall'1 al 10 settembre furono
riscontrati ufficialmente 3337 casi, di cui solo 349 riferiti ai quartieri dei ricchi e ben 2988
ai quartieri poveri e malsani.
Dati impressionanti ma di cui non si può avere una chiara cognizione se non si tiene nel
dovuto conto cos'era la Napoli dell'epoca.
Giustino Fortunato, nel 1878, così l'aveva descritta: "Ricavo da un lavoro manoscritto
dell'ufficio di statistica municipale, che, a fronte di 45.000 vani, Napoli possiede 54.000
bassi, dei quali ben 36.000 lungo le vie.
E questi nondimeno, quantunque privi di luce, specialmente nei rioni della marina e su per i
vicoli de' colli, umidi e muffiti, non sono il più abietto ricettacolo della plebe napoletana.
Vi è qualche cosa di molto triste, vi sono i fondaci: cortili vecchi e luridi, vicoletti senza
uscita, cui di solito si accede per un androne, chiusi da alte fabbriche e mezzo nascosti qua
e là in tutte le dodici sezioni.
Nel fondaco, le famiglie sono come ammucchiate in camere successive, le une accanto e su
le altre; non più il vantaggio di una boccata d'aria o di un po' di spazio sul selciato della via;
quasi non più l'idea della famiglia o della casa.
E se ne hanno centotrenta di siffatti depositi di carne umana, dimore abituali del vizio e
dell'abbrutimento, rifugi sicuri dei mestieri più nocivi, veri nascondigli della più squallida
miseria; bolge in feste di quella dura eredità della plebe napoletana, la scrofola, che da sola,
popola di tisici i due terzi dei nostri ospedali!"
"Ma, se ciò relativamente è per la città in generale, si immagini ognuno quel che poi debba
essere quella parte della vecchia Napoli, che ne è proprio il basso ventre".
Una epidemia di colera, nella descritta realtà sociale e sanitaria, determinò il panico.
Lo stesso Umberto I ritenne di dover lasciare una festa a Pordenone per accorrere "dove si
moriva"; e se ne ebbe un monumento sulla cosiddetta Via Nuova di Capodimonte che
Gioacchino Murat aveva realizzato alcuni decenni prima.
L'atto del Re fu apprezzato quale gesto coraggioso ma determinò altri problemi: durante
una epidemia di quella specie è opportuno evitare assembramenti, la presenza dei Re li
favorì perché accorrevano anche coloro che ancora sani volevano dirgli "Maestà non è il
colera è la fame".
Senza creare assembramenti, chiamati dalla volontà di operare per il bene dell'umanità, nel
mentre anche i preti noti trovavano di meglio che organizzare continue processioni,
accorsero a Napoli volontari, massoni, socialisti, repubblicani, per soccorrere i colerosi.
Le difficoltà di intervento erano enormi!
Le condizioni di vita descritte portavano anche ad un relativo senso della morale, ad una
eccezionale diffidenza nei confronti della medicina.
É utile evincerle da due testimonianze di memorialisti stranieri: "La prostituzione nelle
infime classi è un mestiere come un altro; non ha nulla di particolare; permette persino di
essere una buona madre di famiglia.
Di giorno le prostitute vivono come tutte le altre donne: lavorano un po', ciarlano, hanno
famiglia, hanno figli e sono sfuggite dalle altre.
Il mestiere notturno è in coscienza loro onesto, quanto onesto furto".
"E come possedere idee di moralità?
Vivono nelle stesse camere varie famiglie, dormono nello stesso letto padre, madre, fratelli,
sorelle.
Al teatro anatomico, ove si sezionano i cadaveri dei poveri che non pagarono il mortorio,
fra le ragazze dai dodici anni in su non si notò nessuna vergine".
Aveva scritto nel suo libro su Napoli nel 1877 White Mario, scrittrice inglese, moglie del
Fratello Alberto Mario, che venuta in Italia negli anni '50 aveva partecipato alla congiura di
Pisacane, del cui testamento politico fu depositaria, e che fu molto attiva nella spedizione
dei Mille e nei successivi movimenti garibaldini di cui fu memorialista.
Axel Munthe, medico e scrittore svedese testimonia:
"Ho conosciuto un medico, al quale, ogni volta che egli apprestava una pozione al malato,
si rivolgeva questa apostrofe: "Bevete prima voi".
Giovanni Bovio si prodigò per l'organizzazione e la razionalizzazione dell'intervento dei
volontari.
Cosicché i massoni, alla luce del sole con le tre stellette massoniche sul petto e la croce
verde sul braccio, intervennero direttamente in soccorso della popolazione.
Tra questi Luigi Musini, (massone, giornalista, garibaldino, socialista, già eroe di Villa
Glori nel '67 ed entrato in Parlamento assieme ad Andrea Costa, entrambi rappresentanti
del "nuovo socialismo" romagnolo staccatosi dall'anarchia) che lascia una cruda
testimonianza nel suo libro "Da Garibaldi al socialismo".
"Vidi Musini e Costa all'opera.
Essi girano giorno e notte nei quartieri più infetti, il primo come medico il secondo come
infermiere" dirà l'inviato del Messaggero di Roma in un resoconto di quel giorni.
Andrea Costa, mito delle plebi romagnole, grande protagonista delle lotte operaie
dell'epoca, accorse a Napoli.
"Appena giunto a Napoli, si era presentato al Comitato della Croce Verde, formato da
volontari appartenenti soprattutto alla Massoneria ed ai partiti estremisti e diretto da
Giovanni Bovio.
Vi erano con lui altri deputati: Cavallotti, Maffi, Musini.
Giorno e notte percorreva le luride vie del Mercato e del Borgo, entrava nei tuguri infetti
dal morbo: penetrava nelle stanze che parevano tane, portava medicinali, accompagnava i
colerosi al lazzaretto, li assisteva.
Attorno a lui cadevano, contagiati, i compagni: "Il morbo è gravissimo", scriveva agli amici
di Imola,"Valdrè è morto.
Egli è il secondo della nostra squadra".
"Benché pedinato da un agente di polizia, "(grande eco ebbe sulla stampa in quei giorni la
denuncia del pedinamento dei volontari intervenuti a soccorso dei colerosi) "Costa continuò
il suo ministero, e anche quando Cavallotti e la squadra tosco-lombarda lasciarono Napoli il
25 settembre, volle rimanere sino alla fine.
Si chiesero uomini da mandare nel vicino comune di Afragola, ma uomini coraggiosi che
sapessero imporsi ai contadini, i quali, retrogradi com'erano, non volevano saperne di cure
e di disinfezioni.
Egli fu tra i primi ad offrirsi".
"Soltanto il 4 ottobre lasciò Napoli per tornare a Imola.
Ma prima di partire Giovanni Bovio, Gran Maestro della Loggia napoletana, lo accolse
nella setta.
Quando egli lasciò Napoli, era il fratello Costa"
Durante questa epidemia massoni caddero, uomini liberi videro la luce.
Bovio ricorderà i martiri con questa lapide:
QUALE TU SII E QUALUNQUE FORTUNA TI MENI STRANIERO
TU SEI GIUNTO IN LUOGO CHE VIDE NEL COLERA
DEL MDCCCLXXXIV ACCORRE DA OGNI TERRA D'ITALIA
RE MINISTRI REPUBBLICANI SOCIALISTI A RIFERMARE
INNANZI ALLA MORTE CHE DOVE UNA É LA PATRIA
UNO É IL DOLORE. STRANIERO DI AI TUOI
CIO' CHE CARITA' E VALORE RICONGIUNSERO
NON UOMINI NON SECOLI DIVIDERANNO MAI
"La sua filosofia", ha scritto Tommaso Ventura nel 1958, "né servile né timida, seppe
antivedere, ammonire, correggere, ed interpretando il sentimento universale, spiegò il
presente e lo superò con l'occhio dell'avvenire.
E però in essa i bisogni delle plebi diventarono conclusioni; i fremiti e le aspirazioni di
libertà diventarono teorica; i dolori degli oppressi si fecero protesta; gli ideali di giustizia
sociale si fecero sistema".
Quanto ingegno, quanta tensione morale ed ideale.
Le sue azioni, i suoi atti sempre coerenti con le sue convinzioni ed il suo pensiero che
furono e, forse ancora più oggi, sono di attualità.
Tommaso Crudeli
Il Fratello
Il Poeta
Vanne "Amabil Rosa"
Che Tommaso Crudeli, protomartire massone, fosse un poeta, un poeta Vero, caro al
Carducci e al Croce lo sapevano, finora, in pochi studiosi della Letteratura i quali ne
avevano potuto apprezzare l'opera sulle antiche e ormai rarissime edizioni semiclandestine
de suoi componimenti, fissati sulla carta, praticamente mentre egli era sul letto di morte a
cui l'aveva costretto l'Inquisizione.
Le notizie su Tommaso Crudeli sono tratte da "Hiram" n. 1/12 - novembre dicembre 1990 Editrice Società Erasmo da un articolo a firma di F. I.
"Il Fratello"
Che Tommaso Crudeli, protomartire massone, fosse un poeta, un poeta Vero, caro al
Carducci e al Croce lo sapevano, finora, in pochi studiosi della Letteratura i quali ne
avevano potuto apprezzare l'opera sulle antiche e ormai rarissime edizioni semiclandestine
de suoi componimenti, fissati sulla carta, praticamente mentre egli era sul letto di morte a
cui l'aveva costretto l'Inquisizione.
Di Crudeli, la Massoneria Italiana, soprattutto in Toscana, aveva esaltato l'anelito di libertà,
l'ingegno vivace, la fiera resistenza contro le accuse diffamatorie che lo avevano colpito
con un processo-farsa nella prima "caccia alle streghe" a carattere antimassonico.
La canea era stata scatenata in tutta Europa dalla famigerata bolla "In eminenti
Apostolorum specula" con cui papa Clemente XII, il 28 Aprile 1738, scomunicava gli
aderenti alla neonata Istituzione Muratoria (la data di nascita della Gran Loggia
d'Inghilterra è storicamente fissata al 24 Giugno 1717), che cominciava a diffondersi nel
continente.
Un Crudeli, quindi, facente parte a pieno titolo della memoria storica dell'Italia laica, una
bandiera di libertà da sventolare contro l'intolleranza bieca, oscurantista e prevaricatrice,
che ogni tanto affiora, sapientemente aizzata e orchestrata, a impedire la nascita e la
diffusione di ogni cultura diversa da quella di regime.
In fondo, a una figura divenuta emblematica non si richiede una particolare qualificazione
"professionale".
E, invece, Crudeli era un vero "professionista" dell'arte poetica, in tutti i sensi: per la poesia
egli viveva e del suo grande talento poetico si serviva per campare, alternando, per sbarcare
il lunario, le traduzioni in rima delle favole di La Fontaine, alle lezioni di lingua e
letteratura italiana date ad esponenti dell'aristocratica comunità inglese di Firenze.
Tutto questo lo si può oggi riscoprire grazie a un'iniziativa editoriale, culturalmente
ineccepibile, coraggiosa e di ampio respiro, varata dal Comune di Poppi (in provincia di
Arezzo), dove Crudeli nacque il 3 Marzo 1703 e dove morì il 27 Gennaio 1745, minato nel
fisico da un anno di carcere a Firenze e poi dal confino a Poppi e a Pontedera.
L'Amministrazione comunale di Poppi ha appena dato alle stampe l'opera omnia di
Tommaso Crudeli, intitolata "Poesie con appendice di Prose e Lettere", a cura di Gabriella
Milan, autrice di una ricerca filologico-storica completa sull'opera del poeta casentinese e
di un apparato critico in cui il rigore scientifico si sposa con una sensibilità impareggiabile.
Gabriella Milan sa guidare, con mano esperta, il lettore tra le liriche arcadiche, le traduzioni
e le canzoni innovative e anticonformiste di Crudeli, felicemente influenzato dalla
conoscenza della poesia inglese e francese del suo tempo, e mostra tutte le valenze
artistiche di un poeta che si colloca accanto a Rolli, Frugoni e Metastasio.
"Le poesie del Crudeli - ha scritto la Milan nell'introduzione - formano un corpus di
trentanove componimenti.
Un insieme decisamente modesto se paragonato alle dimensioni di analoghe raccolte di
versi stampate durante la prima metà del Settecento e nel corso del secolo XVIII: basti solo
pensare alla sterminata produzione frugoniana.
Ma forse non sarà superfluo ricordare che fra le ragioni di questa "misura" vanno
considerati i dati biografici: la triste vicenda di cui il poeta fu vittima e le conseguenze che
ne derivarono; oltre al fatto che il Crudeli, come ci assicurano le testimonianze dei
contemporanei, ha sempre preferito comporre per una cerchia privata di persone e far
circolare le sue poesie soprattutto fra gli amici, destinando solo eccezionalmente alla
pubblicazione alcune di esse.
Non a caso uno dei tratti dominanti che caratterizzano la sua raccolta di versi è
rappresentato dall'occasionalità, confermando tutta una tendenza della prassi poetica
dell'Arcadia ...
"Rientrano in questa distinzione - prosegue la Milan - sia il nucleo di poesie 'per nozze? (gli
epitalami), tra cui la deliziosa plaquette per Marco e Paulina Contarini di gusto
classicistico-rococò, sia le grandi odi encomiastico-celebrative al senator Filippo
Buonarroti e al cantante Farinello che denotano il sensibile aggiornamento compiuto dal
Crudeli, tanto sul piano tematico, su modelli di matrice filosofica (Lucrezio -Conti), tanto,
dal punto di vista formale, su modelli di provenienza inglese (la poesia di Dryden e Pope)".
Il volume della Milan si snoda così tra "anacreontiche", sonetti, madrigali e componimenti
"estemporanei" del Crudeli, spesso fortemente ironici contro le ariette tipiche del
melodramma più manierato, nonché fra traduzioni, lettere e scritti in prosa.
Tra questi ultimi vanno citati "La Cicalata accademica" e L'arte del piacere alle donne e alle
amabili compagnie", che, dietro l'apparente licenziosità è leggerezza del titolo, nasconde un
atteggiamento meditativo sui temi della felicità e contrario all'ottimismo dei valori
razionalistici dominanti nel suo tempo.
Fra tanti componimenti, vale la pena ricordare l'ottava canzonetta, "Vanne, amabil rosa",
uno dei più significativi per apprezzare il tema leggiadro e caduco dell'Amore, in Crudeli.
Per chi volesse saperne di più sulla storia della Firenze nel periodo in cui visse il Crudeli
(molto più tollerante di quanto non si pensi comunemente, Inquisizione a parte), non può
trascurare un'altra valente opera, favorita dall'Amministrazione del Comune di Poppi nel
1988: "Il Caso Crudeli: persecuzione e tolleranza nella Toscana Granducale" di Attilio
d'Anzeo, con introduzione di Leonardo Sciascia, nelle Edizioni della Biblioteca Rilliana.
Vanne "Amabil Rosa"
Vanne, amabile rosa,
A lei che disdegnosa
Disprezza amore e perde
A sé l'età più verde,
E a me consuma il core.
Dille che miri in te,
In te leggiadro fiore,
Il ritratto di sé.
Dille: - lo son giovinetta
E giovine sei tu,
Ma nostra gioventù
Oh come il volo affretta!
Dille: - Quella beltà
La qual non si produce,
Anzi fugge la luce,
Alcun pregio non ha;
Ed io vermiglia rosa,
Se fussi sempre stata
Nella mia siepe ascosa
Con tutti i pregi miei,
Adesso io non godrei
La gloria desiata
D'adornarti il bel seri.
Dille che ella esca fuore
Ed il mondo arricchisca
D'un novello splendore,
Ma che non arrossisca,
Se ognuno la rimira,
Se ognuno la desira.
Ciò detto, di repente
Cadile a' piedi e muori,
Acciò che ella rimiri
Ne' tuoi perduti onori,
Nel tuo misero stato
Delle cose più belle
Il comun fato.
C.A. Salustri
(Trilussa)
L'Uomo
Il Poeta
Li Frammassoni
Li Frammassoni d'oggi
La Libertà
L'Uguaglianza
Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa, fu un massone che non venne mai iniziato
nell'Ordine.
Per questo motivo, che può sembrare paradossale, si ritiene curioso lumeggiare il
personaggio e i suoi rapporti con l'Istituzione, attraverso le cose che sulla stessa ha scritto,
le cose che ad essa lo avvicinano, fino, da ultimo, alla domanda di affiliazione che presentò
oramai in prossimità della morte.
Le notizie su Trilussa sono tratte da "Hiram" anno III n. 10 - ottobre 1986, pag. 33 Editrice Società Erasmo da un articolo a firma di A. Z.
Trilussa e la Massoneria di A. Z.
Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa, fu un massone che non venne mai iniziato
nell'Ordine.
Per questo motivo, che può sembrare paradossale, si ritiene interessante lumeggiare il
personaggio e i suoi rapporti con l'Istituzione, attraverso le cose che sulla stessa ha scritto,
le cose che ad essa lo avvicinano, fino, da ultimo, alla domanda di affiliazione che presentò
oramai in prossimità della morte.
Nel panorama della letteratura italiana narratori e poeti spesso si sono avvicinati alla
Massoneria sia direttamente che indirettamente.
Taluni, appartenenti all'ordine, hanno riportato nelle loro opere il frutto degli studi esoterici
e della filosofia dell'Istituzione; altri pur non appartenendovi hanno colto certi
insegnamenti; altri ancora hanno deriso o contrastato la Libera Muratoria assegnandola,
nella più benevola delle formulazioni, a quelle attività dell'uomo un po' superflue e un po'
goliardiche.
Alcuni attraverso lo sviluppo e la dinamica del loro pensiero hanno finito con l'approdare
all'Ordine ancora in età tale da portare un contributo di lungo periodo; altri si sono formati,
anche come uomini, all'ombra dei simboli muratori, taluni nel ricordo di passate presenze
negli avvenimenti risorgimentali, altri ancora attirati e, direi, attivati dalla ricerca iniziatica
che è la prerogativa principale della Libera Muratoria.
Del tutto anomala, rispetto ad altre situazioni presenti appunto tra i protagonisti della storia
letteraria italiana, appare la vicenda di Trilussa, poeta dialettale romano fiorito tra gli ultimi
anni dell'800 e la seconda metà del '900.
La decisione di richiedere l'ammissione alla Libera Muratoria la matura in tarda età tanto
che la domanda, che pure era stata accolta, non ha seguito per la morte improvvisa del
poeta.
Ed è curioso come anche la nomina a senatore lo raggiunga appena venti giorni prima della
sua morte, il 21 dicembre 1950, quando ormai la vita gli aveva dato tutto quello che un
artista può desiderare compreso l'ultimo riconoscimento, appunto quello di senatore a vita,
per aver con le proprie opere illustrato la Patria, come dice la motivazione firmata da Luigi
Einaudi.
Trilussa, tuttavia, non era mai stato un compiacente osservatore delle vicende dell'Italia, ma
le aveva sempre trattate con quella ironia che nasceva da una sorta di comune buon senso
popolare, che pervade tutta la sua opera, quando aveva sorriso sulle guerre propiziatrici
dell'impero, o quando, senza eccessi e col sorriso sulle labbra di chi intravede, nelle umane
vicende, il buffo e talvolta inutile agitarsi dei piccoli che vogliono apparire grandi; colpisce
il regime fascista senza usare mai, però, il metro pesante della fustigazione o dell'invettiva.
D'altronde nello stesso modo aveva ironizzato, durante l'era liberal-democratica, verso quei
governi, e poi anche verso i partiti che andavano allora formandosi e che erano ovviamente
agguerriti e rinchiusi nelle loro ideologie nascenti, talvolta con riferimento ai fasti e nefasti
ottocenteschi e risorgimentali, talaltra per esplicita certificazione di nascita dovuta alle
incalzanti nuove esigenze della storia e dell'umanità.
É il suo un modo di rappresentarsi al di sopra delle parti, è un modo, quasi giornalistico, di
raccontare la propria insofferenza in versi, insofferenza che non ha nulla di rivoluzionarlo,
di combattivo ad oltranza, ma che si stempera nella vita quotidiana e in questa trova origine
e morte alla propria esistenza.
Pur tuttavia la Patria riconosce in lui un suo figlio benemerito e lo nomina senatore, e
Trilussa, come nella sua poesia, ringrazia ed esce dalla comune forse anche questa volta
con ironia e con il sorriso sulle labbra, conscio della caducità delle cose della vita.
I piccoli personaggi, la piccola umanità pure vengono chiamati, attraverso la sua persona, a
posizioni più alte, vengono innalzati dal pianterreno della vita e loro viene riconosciuta una
importanza nuova, quella importanza che Carlo Alberto Salustri aveva già deciso di
riconoscergli in qualche modo facendoli tutti protagonisti della propria arte.
L'epoca in cui visse Trilussa, fu un'epoca di transizione e nello stesso tempo di
assestamento della società italiana e di quella europea più in generale, anche dal punto di
vista politico ed economico.
Dalla presa di Roma ad opera del nuovo Stato italiano nel 1870, un anno prima della
nascita del poeta, fino alla Grande Guerra e poi con la conclusione della Seconda Guerra
Mondiale l'Italia e l'Europa trovarono l'assestamento che tuttora permane.
Ma anche dal punto di vista culturale movimenti, scuole e indirizzi di vario genere fiorirono
apportando una ventata di cambiamenti nel canoni dell'arte così come erano fino ad allora
conosciuti.
Anche la Massoneria subì i suoi travagli, i suoi adattamenti, dal punto di vista statuale, che
i tempi proponevano, cambiando spesso anche proprio la qualità degli uomini subì, nel
corso del tempo, soprattutto in Italia, una lenta trasformazione che finì con il portarla al
superamento di antichi vincoli riferiti al passato, restituendola in pieno ad una tradizione
più vicina alle Obbedienze europee che non avevano, almeno con i propri uomini se non
certamente come istituzioni, dovuto affrontare una dura prova politica ed ideologica come
quella risorgimentale.
Pure, ancora all'epoca della giovinezza del poeta, talune antiche ferite erano presenti
nell'anima dell'Istituzione la quale con forza continuava a contrapporre il "libero pensiero"
alla sorda conservazione che sotto sotto covava nella società italiana vuoi per intimo
convincimento, vuoi per millenaria educazione, vuoi per attento e opportuno calcolo
politico dovuto anche all'economia dei tempi che venivano vissuti.
E ancora lo sbandierato "Libertà, Uguaglianza, Fratellanza", ereditato dalle vicende
transalpine della fine del secolo precedente e portato e adattato alle italiche venture,
suonava da una parte come richiamo ad un nuovo ordine etico e sociale e quindi politico ed
economico, e dall'altra appariva come il vessillo del sovvertimento di valori consolidati dal
tempo, come immiserimento dello spirito, quasi la premonizione e la preparazione
all'avvento dell'Anticristo.
Tuttavia non era la sola Massoneria italiana propugnatrice di questo sovvertimento.
Anzi all'interno della stessa si agitavano due anime che avrebbero portato alfine alla
scissione del Grande Oriente d'Italia, proprio, tra le altre più interne ragioni, su un fatto di
natura politico-sociale: quello dell'insegnamento religioso nelle scuole.
Anche tra i nuovi partiti, che andavano formandosi e che nascevano dalla crisi dell'antica
distinzione tra Destra e Sinistra storiche, alcune delle idee propugnate dal massoni
andavano prendendo consistenza, anche se contenuti e forme dovevano essere forzatamente
diverse.
Trilussa visse quest'epoca e la rappresentò nella sua poesia non prendendo però veramente
parte, non facendosi partigiano né di un passato che poco conosceva, ma neppure del futuro
che non voleva immaginare né profetizzare, accontentandosi piuttosto di registrare con
l'ironia più che con il sarcasmo, lo stato delle cose, con l'arguzia, ma anche con la bonomia,
la compostezza e la rassegnazione dei popolo che sa di non essere sovrano e che non se ne
lamenta, o se ne lamenta con moderazione, ma desidera almeno non essere portato per il
naso.
L'attenzione di Trilussa è per le cose di tutti i giorni, per le cose minute che sono la
rappresentazione in sedicesimo dei grandi avvenimenti e sconvolgimenti che finiscono però
col non cambiare in alcun modo lo stato di coloro che non hanno voce nelle decisioni.
E infatti l'anima che il poeta interpreta è sempre quella della buona piccola borghesia che,
se pure ancora legata agli ideali del Risorgimento, è tuttavia lontana dalle infatuazioni di
ogni genere che i tempi suggerirebbero, sensibile solo ai problemi e alle norme
fondamentali della vita quotidiana.
Ma non una borghesia tutta romana, come tutto romano era stato il popolino irriverente ed
anticlericale del Belli, né una vera e propria borghesia che oramai sembrava aver già
acquisito un senso della nazionalità e della appartenenza allo Stato italiano con tutti i suoi
problemi e le sue aspirazioni, quale era quella emersa dalla poesia del Pascarella di "Villa
Glori" e di "Storia nostra".
Piuttosto era una borghesia impiegatizia e di varia etnicità, calata a Roma al seguito del
trasferimento della capitale e dello Stato amministrativo, una buzzurropoli in cui dissidi e
conflitti Trilussa avvertiva come puri e semplici riflessi di una precaria situazione sociale e
morale.
Era la stessa società che, con riferimento alle sollecitudini e alle vicende del proprio piccolo
mondo, sarebbe rappresentata più tardi da Pirandello, il quale avrebbe spinto proprio questi
dissidi e questi conflitti di cui Trilussa, dicevo prima, aveva gia avvertito l'esistenza, alle
soglie di un conflitto gnoseologico ed ontologico fra sogno e realtà.
Il mezzo della poesia in vernacolo di per sé consente maggiori possibilità alla satira che non
quello in lingua.
E in modo particolare quel certo "spirito",che da sempre è parte del costume dei napoletani
e dei romani, trova una sua nobilitazione proprio nella poesia in vernacolo.
Talvolta però l'ispirazione liricizzante appanna la vena satirica di un Salvatore Di Giacomo,
mentre più raramente, per non dire quasi mai, accade nella poesia romanesca, ed è in questo
contesto che va collocato Trilussa, appunto, nella storia della poesia dialettale romana.
Se il Belli è la voce autentica, se pure genialmente portata sul piano dell'universale, della
plebe romana del periodo più oscuro e disastroso dell'agonizzante potere temporale, di una
collettività cioè priva di ogni illuminazione spirituale, chiusa in un opaco destino senza
apparente uscita,
Se nel Pascarella si registra il decisivo spostamento verso il popolo da cui erano usciti
Monti, Tognetti e Giuditta Tavani Arcuati.
Trilussa ci rappresenta la romanità nuova, la collettività impiegatizia che legge il giornale,
che crede di intendersi anche dei problemi politici fondamentali, che pretende d'interpretarli
e risolverli sulla base dei suoi elementari bisogni e delle semplici ma solide sue
pregiudiziali etiche, che risulta dalla fusio che fra i vecchi "romani de Roma" e il
buzzurrame piovuto nell'Urbe che tutta via, negli spiriti migliori, trova anche il tempo per
una riflessione, se non proprio culturale e spirituale, attenta almeno e ben disposta verso
quelle manifestazioni che con la cultura e lo spirito appaiono avere una qualche
connessione, come la Istituzione libero-muratoria alla quale finiscono per aderire e non solo
per utile tornaconto personale.
La riprova di tutto ciò è nel carattere di tenue coloritura esteriore che il dialetto romanesco
ha nella compagine linguistica di Trilussa, in cui tocca il vertice quel processo di
progressiva attenuazione, di regolarizzazione e raddolcimento che il romanesco palesa nella
poesia a partire dai successori del Belli.
Le parolacce così sistematicamente frequenti in Giuseppe Gioacchino e non rare neanche
nel Pascarella, sono invece rarissime in Trilussa, il quale parla come normalmente parla il
romano oramai civilizzato (ciovile direbbe appunto Trilussa), che ha ricevuto una certa
educazione e si esprime all'usuale livello della piccola borghesia ben costumata.
Ed ecco, quindi, che anche nel linguaggio usato, Trilussa si appropria di una universalità
che manca alla satira di altri poeti dialettali.
Questa universalità del mondo poetico di Trilussa.
Questi travagli dei suoi personaggi, siano essi uomini o gli animali delle favole, che
finiscono con l'essere problemi di fondo dell'umanità, detti con il tono sornione e quasi
distaccato di chi non vorrebbe se ne capisse l'intima importanza, di chi sembrerebbe
interessato soltanto al motto di spirito, che pure c'è, allo scherzo liberatorio, ma non troppo;
questa universalità, dicevo, fa di Trilussa l'uomo, il poeta vicino agli ideali della Libera
Muratoria.
Nonostante appaia nelle sue opere talvolta come insofferente a tutto quello che lo circonda,
per principio contrario a re, repubblica, socialismo, clericalismo, democrazia, anarchia,
tuttavia la sua anima non è "qualunquista".
Anzi ironizza anche su quel movimento affermatosi in Italia negli ultimi anni di questo
dopoguerra che si faceva chiamare "Uomo qualunque-:
"Omo qualunque" spesso fa er tribbuno
pe diventà quarcuno
ma quanno semo ar dunque
è un tribbuno qualunque
dice il poeta in una inedita poesia riportata da Giuseppe D'Arrigo nel suo "Trilussa".
Certamente non trova nelle istituzioni umane, o per meglio dire, negli uomini che le
rappresentano, quelle doti etiche alle quali il poeta fa continuo riferimento e che vorrebbe,
invece, fossero tra tutti gli uomini patrimonio comune.
Ed anche in questa aspirazione, in questa ricerca e in questa denuncia, sembra richiamare
gli ideali della Massoneria al di là delle dirette chiamate in causa rappresentate da i quattro
sonetti "Li frammassoni de jeri" e "Li frammassoni de oggi", dove certamente non colpisce
tanto le idee della Frammassoneria, quanto l'applicazione delle stesse da parte di massoni
che allora come oggi dovevano aver dato una rappresentazione della Massoneria
certamente poco felice.
Ma anche in altre poesie, non specificatamente interessanti la Libera Muratoria,
continuamente ricorrono non solo concetti che richiamino quelli propugnati dalla
Massoneria, ma anche deliberatamente poesie intitolate alla "Fratellanza", alla "Libertà",
all'"Uguaglianza", al "Libero Pensiero".
C'è pure in Trilussa questa aspirazione all'universalità e all'uguaglianza, questo
riconoscimento dell'universalità e dell'uguaglianza che in qualche modo si realizza, che non
solo trovi espressione nelle cose quotidiane e di piccolo respiro, ma soprattutto spazi nelle
grandi tragedie che sconvolgono l'Umanità, come la guerra.
In "Fra cent'anni" del 1915 da "Lupi e agnelli" il poeta, a proposito della Prima Guerra
Mondiale che sta sconvolgendo l'Europa, afferma:
Da qui a cent'anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po' che montarozzo d'ossa
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terrà smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesi, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
0 gialla o rossa o nera
ognuno avrà difeso una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.
Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna differenza.
Nell'occhio vóto e fonno
non ce sarà né l'odio né l'amore
pe' le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
non resterà che l'urtima risata
a la minchionatura della vita.
E diranno fra loro: - Solo adesso
ciavemo pe lo meno la speranza
de godesse la pace e l'uguajanza
che cianno predicato tanto spesso.
Tutti saranno divenuti compagni, in pace tra loro, uguali nella morte, la nera signora che
anche il massone Antonio de Curtis, in arte Totò, ne "A livella" dirà che tutti rende uguali e
senza differenze.[...]
Il pessimismo di Trilussa, a mio avviso, non è distruttivo.
Questo rendersi ragione della negatività di cui è corredata la vicenda dell'Umanità; questo
senso del "pantarei"-, del transeunte e della caducità delle cose non è nichilismo ottuso e
cieco senza speranza.
Non è la malattia mortale che colpisce l'esistenzialismo disperato e ateo che ancora corre
nel pensiero occidentale.
Nasconde invece la speranza che alla fine l'Umanità sia riscattata, che almeno le sofferenze
servano a migliorare il mondo.
Qua e là tra il sorriso ironico e la satira pungente, anche se non proprio graffiante, tra le
favole dove gli animali si dimostrano e si riconoscono migliori dell'uomo, anche se talvolta
con l'amaro in bocca, spunta la speranza di Trilussa nel momento più inaspettato a
conferma che la sua visione del mondo non è del tutto negativa.
Ed è in fondo questa speranza che concettualmente la Libera Muratoria consegna e affida al
propri aderenti, spingendoli a lavorare "per il bene e il progresso dell'Umanità".
E questo Trilussa lo sa benissimo.
La paura poteva essere che non tutti avessero compreso bene il precetto, e che anzi non
volessero capirlo, e che limitassero la loro adesione alla Massoneria al: ... giochetto de le
deta...
Nei rapporti poetici con la Massoneria, non può essere presa in seria considerazione la
teoria, per così dire statistica, che avanza Ettore Paratore nel due scritti pubblicati
dall'Istituto di studi romani in occasione del Centenario della nascita di Trilussa.
Argomenta, infatti, il Paratore che a "fronte di ventiquattro espliciti pamplhets poetici del
periodo prefascista contro la retorica socialdemocratica e sempre rilevanti un preciso
intento politico e un intento sempre sfottitorio al danni degli ideali socialisti e delle
infatuazioni per la democrazia più sinistrorsa", "solo quattro o cinque", invece, "sono quelli
in cui la frecciata al fascismo si configura in maniera evidente''.
E ancora che il breve ciclo formato dal due sonetti intitolato "I frammassoni de oggi'' che è
stato addirittura composto negli anni del fascismo, "dopo i provvedimenti presi contro la
società dei Grande Architetto, è irridente le attività della Massoneria, con quella inimitabile
tendenza smitizzatrice e ridimensionatrice che lo contraddistingue e che è il segno
infallibile del suo equilibrio e della sua onestà, Trilussa dà un colpo al cerchio e uno alla
botte, facendo le sue ironie su chi si sbracciava a salutare romanamente 'pro bono pacis'.
Ma è evidente che chi ne fa le spese in misura più massiccia è l'ambiente massonico".
E con questa statistica numerica ritiene di aver giustificato una classifica dell'insofferenza
trilussiana che vedrebbe la Massoneria precedere il fascismo nell'antipatia di Trilussa.
Sarebbe veramente curioso pensare che un uomo della cultura di Ettore Paratore non avesse
inteso effettivamente il pensiero di Trilussa, se non fosse altrettanto nota, oltre la sua
sensibilità critica e culturale, la sua appartenenza anche politica a ben individuati ambienti
culturali della destra conservatrice, passato di volta in volta dal più moderati a quelli più
estremistici, che lo hanno portato a ridimensionare quanto, in verità troppo spesso, la più
recente critica, anche di estrazione marxista, ha voluto attribuire a Croce e proprio a
Trilussa circa il loro atteggiamento contrario al regime durante il periodo fascista,
considerandoli le due uniche voci solitarie ancora capaci di parlare liberamente nel
generalizzato conformismo del culturame imposto dal Minculpop.
Certamente i nostri non sono stati gli unici, né la loro è stata una voce particolarmente
rumorosa e avversa, particolarmente contraria al regime in sé, dato anche lo scarso interesse
per quella cultura dai due dimostrato, e per quel tanto di snobismo culturale, ma anche per
la sincera e schietta valutazione della propria posizione e, soprattutto per Trilussa, per quel
senso tutto romano dell'ironia e della capacità di credere che lo scherzo e la battuta,
quand'anche si dimostrassero veritieri della realtà, non possono essere causa di un reato o
accusati di irrispettosità oltraggiosa sia pure da un regime come quello fascista.
Tuttavia al di là delle polemiche diciamo ideologiche, mi preme sottolineare come proprio
dai quattro sonetti intitolati alla Massoneria di ieri e di oggi, emerga invece una posizione
del poeta che non è senz'altro negativa della Istituzione, mentre da altre, forse anche
dimenticate dal Paratore oltre le quattro o cinque citate, appare evidente l'insofferenza di
Trilussa per quanto il regime andava costruendo.
Mentre la satira dei sonetti "massonici" non colpisce direttamente l'ideologia, che anzi trova
modo di apprezzare, ma irride anche bonariamente all'atteggiamento di coloro che vi
appartengono, forse perché appunto borghesucci ministeriali che nulla hanno a che vedere
con il "generone" dei vecchi borghesi romani, nelle poesie ispirate al regime fascista
capovolge completamente lo sfottimento e colpisce più l'ideologia che non le persone, così
come aveva già fatto a proposito delle imprese coloniali e delle velleità imperiali dell'Italia
della fine dell'Ottocento e dei primi del Novecento.[...]
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando dopo la caduta del fascismo e la
liberazione in Italia riprendono le attività anche culturali, e pure i lavori della Massoneria
riprendono ''forza e vigore", Trilussa, sollecitato da amici massoni, come d'altronde è
costume dell'Istituzione, chiede l'affiliazione che viene senz'altro accettata e che purtroppo
soltanto la morte impedisce di sancire ritualmente.
E d'altronde la sua non è una richiesta senza coscienza, è sorretta dalla conoscenza, almeno
libraria, delle cose della Massoneria, e dalla certezza della buona fede delle persone che lo
invitavano.
Virtualmente, però, Trilussa, che aveva per tutta la vita creduto nel "Libero Pensiero", non
certamente quello sbandierato da coloro che lo invocavano a giustificazione del proprio
tornaconto e di una malintesa libertà faccendiera.
Che aveva avuto sempre presente il trinomio massonico e si era sforzato di applicarlo
coerentemente nella propria vita.
Trilussa che, nonostante l'ironia e il pessimismo nei confronti dell'uomo, non era stato mai
un ateo, Trilussa, dicevo, può essere annoverato nella schiera di coloro che sono o sono
stati massoni a buon diritto e non solo perché la sua domanda era stata formalmente
accettata.
"Il Poeta"
Li Frammassoni
Che credi tu? Ch’a le rivoluzioni
Fussero carbonari per davero,
Cor sacco su le spalle e er grugno nero?
Ma che! È lo stesso de li frammassoni.
So’ muratori, si, ma mica è vero
Che te vengheno a mette’ li mattoni!
Loro so’ muratori d’opinioni,
Cianno la puzzolana ner pensiero.
Tutta la mano d’opera se basa
Ner demolì li preti, cor proggetto
De fabbricaje sopra un’antra casa.
Pe’ questo so’ chiamati muratori
E er loro Dio lo chiameno Architetto...
Ma poco più j’assiste a li lavori!
E siccome er Dio loro è libberale,
Ma gira gira è sempre er Padreterno,
Ne viè’ ch’er frammassone va ar governo,
Ce trova er prete e ce rimane eguale.
Se sa, l’ambizzioncella personale
je strozza spesso er sentimento interno:
È un modo de pensà tutto moderno
E in questo nun ce trovo ’sto gran male;
Se er frammassone cià li tre puntini,
Er prete cià er treppizzi, e m’hai da ammette’
Che armeno in questo qui je s’avvicini;
Vedrai che troveranno la maniera
De sarvà capra e cavoli cor mette’
Un puntino per pizzo e... bona sera!
Li Frammassoni D'Oggi
Un anno fa, quann'ero frammassone,
se strignevo la mano d'un fratello
me ricordavo der tinticarello (1),
ma lo facevo senza convinzione.
Annavo in Loggia pe' giocà a scopone,
a sett'e mezzo, a briscola, a piattello,
con uno scopo solo, ch'era quello
de poté mijorà la condizzione.
Ma da quanno ce chiusero la Loggia (2)
nun trovi più nessuno che ce crede,
nun trovi più nessuno che t'appoggia.
Perché la Fratellanza Universale
che ce riuniva tutti in una fede
finì co' la chiusura der locale.
II
Er frammassone d'oggi, s'è prudente,
pe' sta' tranquillo e fa' la vita quieta,
invece der giochetto del le dita
s'adatta a salutà romanamente.
Così che ce capischi? Un accidente (3)
Finché l'associazione era segreta
se sapeva dall'a fino a la zeta,
nome e cognome d'ogni componente.
Invece mó, che nun è più un mistero,
chi riconosce er frammassone puro?
chi riconosce er frammassone vero?
chi riconosce er frammassone esperto
che, nun potenno lavorà (4) a lo scuro,
te dà le fregature a lo scoperto?
NOTE:
1.
Contrassegno di riconoscimento in uso trai i fratelli nello stringere la mano.
2.
Da parte del regine fascista, 1925.
3.
Nulla.
4.
Termine massonico.
La Libbertà
La Libbertà, sicura e persuasa
d'esse stata capita veramente,
una matina se n'uscì da casa:
ma se trovò con un fottìo de gente
maligna, dispettosa e ficcanasa
che j'impedì d'annà libberamente.
E tutti je chiedeveno: - Che fai? E tutti je chiedeveno: - Chi sei?
Esci sola? a quest'ora? e come mai?...
- Io so' la Libbertà! - rispose lei Per esse vostra ciò sudato assai,
e mó che je l'ho fatta spererei...
- Dunque potemo fa' quer che ce pare...fece allora un ometto: e ner di' questo
volle attastalla in un particolare...
Però la Libbertà che vidde er gesto
scappò strillanno: - Ancora nun è affare,
se vede che so' uscita troppo presto!
L'Uguaglianza
Fissato ne l'idea de l'uguajanza
un Gallo scrisse all'Aquila: - Compagna,
siccome te ne stai su la montagna
bisogna che abbolimo 'sta distanza:
perché nun è né giusto né civile
ch'io stia fra la monnezza d'un cortile,
ma sarebbe più commodo e più bello
de vive ner medesimo livello.-
L'Aquila je rispose: - Caro mio,
accetto volentieri la proposta:
volemo fa' amicizzia? So' disposta:
ma nun pretenne che m'abbassi io.
Se te senti la forza necessaria
spalanca l'ale e viettene per aria:
se nun t'abbasta l'anima de fallo
io seguito a fa' l'Aquila e tu er Gallo.
Agostino Depretis
L'Uomo
A fine agosto nel 1887 la "Rivista della Massoneria Italiana" pubblicò lo "stato di servizio
massonico dell'Illustre Fratello Agostino Depretis 33°" morto a Stradella il 29 luglio dello
stesso anno.
Iniziato nella R.L. "Dante Alighieri" di Torino il 22 dicembre 1864, promosso Compagno e
Maestro il 21 gennaio 1865, secondo l'informata rivista ufficiosa del Grande Oriente
d'Italia, su proposta dei massone generale Federico Pescetto, il 21 gennaio 1868 Depretis
venne affiliato alla "Universo", all'Oriente di Firenze, che raccoglieva un cospicuo numero
di parlamentari e notabili in quegli anni durante i quali la capitale del regno era
"parcheggiata" sulle rive dell'Arno in attesa dei riscatto di Roma.
Le notizie su Agostino Depretis sono tratte da "Hiram" n. 11 - novembre 1987 - Editrice
Società Erasmo da un articolo a firma di A. A. M.
A fine agosto nel 1887 la "Rivista della Massoneria Italiana" pubblicò lo "stato di servizio
massonico dell'Illustre Fratello Agostino Depretis 33°" morto a Stradella il 29 luglio dello
stesso anno.(1)
Iniziato nella R.L. "Dante Alighieri" di Torino il 22 dicembre 1864, promosso Compagno e
Maestro il 21 gennaio 1865, secondo l'informata rivista ufficiosa del Grande Oriente
d'Italia, su proposta dei massone generale Federico Pescetto, il 21 gennaio 1868 Depretis
venne affiliato alla "Universo", all'Oriente di Firenze, che raccoglieva un cospicuo numero
di parlamentari e notabili in quegli anni durante i quali la capitale del regno era
"parcheggiata" sulle rive dell'Arno in attesa dei riscatto di Roma.
Incorporato in un'Officina di Rito Scozzese Antico e Accettato, Depretis percorse la scala
rituale sino al conferimento del grado di 33°, il 14 gennaio 1877.
Nel 1882 venne incluso nel Supremo Consiglio del Rito, presieduto da Tamaio e nel quale
figuravano Giuseppe Petroni, Giuseppe Garibaldi, Federico Campanella, Ariodante
Fabretti, Adriano Lemmi, Giovanni Nicotera, Camillo Finocchiaro Aprile, Antonio
Mordini, Luigi Orlando, Luigi Castellazzo e altri insigni protagonisti delle battaglie
risorgimentali.
Di certo Depretis fu tra i più autorevoli massoni presenti all'Assemblea Costituente
dell'Ordine tenuta a Firenze nel 1869; ma per lungo tempo il suo nome comparve
ripetutamente tra quelli degli alti dignitari della Comunione italiana, nel Consiglio
dell'Ordine o con altri incarichi eminenti.
Nella celebre lettera ad Alberi Goodal, pubblicata in Firenze il 7 luglio 1871, (uno fra i
documenti "più preziosi" della vita massonica italiana anche a giudizio dell'informatissimo
Ulisse Bacci), Ludovico Frapolli retrodatò l'iniziativa massonica di Depretis se, a suo dire ma senza conferma documentaria -, Depretis, "allora 18° già nel maggio 1863 compariva
nel novero dei Fratelli decisi a trasformare il Grande Oriente Italiano "in una gran
Comunione massonica con libertà di Riti".
Nell'appassionato volume Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano Giuseppe
Leti andò oltre, tantoché, a proposito della formazione del governo succeduto al ministero
Ricasoli, vi si legge che il nuovo presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi, in odore di
massonismo, si premurò d'assicurarsi la presenza d'un Fratello: Depretis, appunto, il quale
riuscì a inalveare il garibaldinismo nella Società Emancipatrice.
Del pari, a proposito del rovente dibattito che a fine giugno del 1862 auspicò il
coronamento dell'unificazione nazionale e preluse alla spedizione naufragata ad
Aspromonte, Leti ricorda che intervennero Conforti, Bixio, Sineo, Friscia, Ricciardi,
Depretis, La Farina, Mordini, Saffi, Crispi, Miceli, "tutti massoni".
Ma davvero Depretis era già iniziato nel 1862 o nel maggio 1863?
In realtà il suo nome non compare in nessuno dei piedilista a noi noti di logge torinesi tra il
1860-1864, quand'egli operava nella capitale subalpina, né, aggiungiamo, nella matricola
generale redatta dopo il 1874.
In ogni modo occorre guardarsi dalla un tempo consueta dilatazione del massonismo
dall'iniziazione all'intera vita dei diversi personaggi storici: la cautela è d'obbligo per
valutare l'opera degli uomini politici, la cui militanza subì spesso altre e più condizionanti
influenze e vale sia per il talvolta lungo percorso compiuto prima dell'iniziazione e sia per il
talora non meno ampio periodo da essi trascorso "in sonno", più o meno esplicitamente
dichiarato.
Ricorderemo, anzi, che le notizie sullo "stato di servizio massonico del presidente del
consiglio da poco passato all'Oriente Eterno vennero pubblicate dalla "Rivista della
massoneria Italiana"proprio perché la clericale "Voce della Verità" aveva affermato che
Depretis da tempo era ormai estraneo all'Ordine e anzi contrario alle sue direttive e che i
suoi più accaniti avversari andavano cercati proprio nelle logge.
"Morì fido nelle sue convinzioni massoniche" ribatté il portavoce ufficioso del Grande
Oriente d'Italia.
E aggiunse: "il giorno dei suoi funerali a Stradella, lo stendardo dell'Ordine apparve
abbrunato a mezz'asta al balcone della sede del Grande Oriente e del Supremo Consiglio".
Da parte sua il Gran Maestro e Delegato S.G.C., Lemmi, espresse alla vedova, donna
Amalia, Collaressa dell'Annunziata, il cordoglio della Comunione.
Il messaggio del Gran Maestro risulta tanto più significativo perché almeno due volte
proprio Lemmi aveva guidato la ferma protesta della sinistra italiana contro Depretis.
La prima volta, nel 1881, con Garibaldi, Saffi, Carducci e altri egli aveva fustigato la
debolezza del governo dinanzi alla tracotanza della Francia, che aveva imposto il suo
protettorato sulla Tunisia, in spregio delle aspirazioni italiane colà rappresentate da una
numerosa colonia di emigrati.
Poco attratto dalla politica estera, Depretis non ne aveva fatto gran caso; ma era poi dovuto
ricorrere ai ripari sottoscrivendo la Triplice Alleanza, tenuta ben segreta per quasi un anno
nel timore d'una nuova più aspra insorgenza della Sinistra garibaldina: e non è certo un caso
che nulla ne fosse trapelato sino a molto dopo l'inumazione dell'Eroe a Caprera.
La seconda volta, il fatidico bruniano 17 febbraio 1886, il Gran Maestro aveva intimato:" In
nome dei Liberi Muratori italiani chieggo al governo che intorno ai gravi indizi di
cospirazione clericale contro la patria, denunciati da quasi tutta la stampa, sia fatta, senza
indugio, o piena luce o intiera giustizia". (2)
Era trapelato qualche indizio di "conciliazione", avviata a passi felpati dal presidente del
consiglio, pensoso sul futuro delle istituzioni mentre alle schiere, via via più folte, di
radicali e democratici s'aggiungevano le prime organizzazioni socialiste, da quattro anni
rappresentate alla Camera da Andrea Costa, la cui "pericolosità", agli occhi di Depretis, non
era sminuita, dal fatto che si trattasse, ancora una volta, d'un massone.
Per qualche mese la "conciliazione" fu la testa di turco della "Rivista della Massoneria
Italiana" e dei più autorevoli esponenti dell'Ordine.
Ne scrisse, tra gli altri, Giovanni Bovio (1887, pp. 181-83), in. termini netti: "0 il Papa vuol
fare il prete, e non ha bisogno di conciliarsi con lo Stato italiano; o vuol fare il re, e non può
conciliarsi col potere civile [ ... ]
A chi porterà bene, se mai, questa conciliazione?
All'Italia No.
Il Papa, per generoso ed arrendevole che si mostri da prima, finirà, come è costume della
Chiesa, per abboccare anima e corpo.
Vorrà scuole, poi entrerà nei municipi e nelle cose dello Stato [...] dopo pochi anni di
questa educazione l'Italia sarebbe cadavere [...]
Per l'Italia una quistione romana non c'è. Il Vaticano tenterà sempre riaprirla; per l'Italia è
chiusa.
Un governo che la discutesse sarebbe scoperto a tutti i sospetti".
Era anche una risposta a padre Luigi Tosti che da Monte Cassino aveva affacciato
l'auspicio d'un clima nuovo e d'una pacificazione a un quarto di secolo dall'avvento del
regno e a tre lustri da Porta Pia. (3)
Il 1° luglio 1887 la "R.M.I. "pubblicò per esteso l'interrogazione parlamentare di Bovio al
governo, Depretis sulle persistenti voci di conciliazione e le risposte dei ministri Crispi e
Zanardelli, presentati senza meno come Fratelli. In apertura la Rivista sentenziava:" Lo
Stato Italiano rimane qual è di fronte al papato, col suo organismo, con le sue leggi e quel
che più importa con le sue fatali aspirazioni verso una libertà, una civiltà ed una
indipendenza sempre maggiori.
Che senso ha dunque la parola conciliazione?
Questo solo, che il papato, vedendosi, malgrado effimere e parziali vittorie, diminuire ogni
giorno i mezzi materiali e morali per continuare una lotta impossibile, fa atto di pentimento
ed accetta le condizioni di vita che gli ha concesse l'Italia", cioè le "guarentigie".
"Non si tratta insomma di due nemici che si conciliano, ma di una istituzione che dichiara,
dopo molte e lunghe e sfatate macchinazioni, di accettare le leggi dello Stato nel quale vuol
vivere ed esercitare il suo ministero".
In quell'occasione Bovio pronunziò la frase famosa: "Quando in questa città (Roma) vidi
nel medesimo giorno re Vittorio Emanuele al Quirinale, Pio IX al Vaticano e Giuseppe
Garibaldi in una villa modesta, e vidi tre popoli diversi, senza offendersi, senza urtarsi,
trarre a questi tre numi del tempo, ecco, dissi, la città pantheon, la città universale, ove
l'Iddio e i popoli si conciliano nell'unità del diritto, che è l'unità di libertà per tutti innanzi
alla sovranità unica dello Stato".
Bovio non voleva poi riuscir sarcastico affermando: "Una conciliazione veramente
necessita!
Ma la si ha da fare in altro modo.
Il prete si riconcilii con la religione", ché subito aggiunse: "Noi dobbiamo conciliarci col
nostro diritto pubblico troncato o deviato nella sua evoluzione".
Da canto loro, Zanardelli e Crispi assentirono.
Il primo negò che un qualsiasi atto del governo giustificasse i timori di Bovio ("Il governo,
come è alieno da ogni persecuzione e animato dal più grande spirito di tolleranza, così è
mosso da una cura vigile e continua per la incolumità dello Stato e le necessità della
Patria").
Il secondo - non meno di Depretis sospettato a sua volta di sotterranei contatti oltre Tevere asserì con forza: "Non cerchiamo conciliazioni, perché lo Stato non è in guerra con
nessuno.
Noi non vogliamo sapere quello che accade in Vaticano, ove impera il pontefice, che non è
un uomo ordinario qualunque.
I tempi maturano; possono anche maturare i ravvicinamenti!
Ma da parte nostra nulla sarà toccato al diritto nazionale sancito dai plebisciti!
L'Italia appartiene a se stessa.
L'Italia ha un solo capo: il re!".
A sua volta Depretis invitò la Camera a ritenere come sue proprie le díchiarazioni dei due
ministri, forza e ornamento dell'ultimo governo da lui presieduto.
Così, con la proverbiale pacatezza, il Fratello Depretis, nato a Mezzana Corti Bottarone il
lontano 13 gennaio 1813, nel 1834 implicato in una cospirazione mazziniana, eletto il 26
giugno 1848 al Parlamento Subalpino pel mandamento di Broni e sempre riconfermato,
fondatore di più giornali (tra i quali "Il Progresso"), governatore di Brescia su mandato di
Cavour nel 1859, nel 1860 prodittatore in Sicilia con Garibaldi (al quale si contrappose sul
nodo dell'immediata annessione dell'isola al Piemonte), ministro dei Lavori Pubblici con
Rattazzi nel 1862, della Marina ancora con Rattazzi nel 1866 e delle Finanze l'anno
seguente con Ricasoli, capo riconosciuto della Sinistra dalla morte di Rattazzi (1873) e
presidente del consiglio per la Sinistra storica dal marzo 1876 alla morte, col breve
intervallo di tre governi Cairoli, suggellava mezzo secolo di laicismo.
Egli esprimeva la sobrietà propria di chi sentiva d'aver vinto la partita fondamentale: la
fondazione della nazione, la costruzione d'uno Stato non più esposto a ventate emotive e
pertanto capace di reggere, senza danni, al sopraggiungere di nubi che sembravan foriere di
rovinose tempeste e invece eran solo gonfie delle effimere parole di giornali e comizi.
Il mazziniano divenuto ministro del re era anche l'uomo che, col Fratello Coppino, aveva
assicurato agl'Italiani l'istruzione elementare obbligatoria, gratuita e laica, aveva portato gli
elettori da 500.000 a oltre tre milioni ed era riuscito a far dell'Italia un Paese rispettato: la
più piccola delle grandi potenze, come sarcasticamente taluno diceva, ma tuttavia una realtà
che nessuno più avrebbe potuto ignorare nel "concerto" delle diplomazie.
Coronando le speranze di Cavour, agl'Italiani Depretis assicurò uno Stato.
Non il migliore degli Stati possibili, s'intende, ma quanto bastava per garantire la vita
nazionale, nel segno della tolleranza all'interno e della collaborazione nella comunità
internazionale.
Nel gradualismo delle conquiste e nell'esser riuscito a inalveare nello Stato, la grande casa
di tutti gli Italiani, le forze vive sorgenti dalla società - frutto di autoeducazione e diffusione
della scienza - si può cogliere il tratto eminentemente massonico della costruzione cui pose
mano per tanti decenni l'insigne statista morto nella quiete di Stradella: tratto rivelatore,
anche questo, della sua forte e serena misura umana.
NOTE:
1)
Per un suggestivo profilo dello statista subalpino v. GIOVANNI SPADOLINI (a cura di),
Agostino Depretis, in "Nuova Antologia", luglio-sett. 1987, fasc. 2163, pp. 432-55.
2)
Le preoccupazioni della Massoneria vennero ribadite dal Gran Maestro nella Balaustra del
28 aprile 1886 sulla condotta da tenere nelle elezioni politiche generali (per la cui
'preparazione' furono costituite apposite commissioni in ciascuna loggia e una commissione
centrale presso il Grande Oriente d'Italia).
Il 15 giugno 1887 Lemmi tornò a invocare l'unione della Famiglia dinanzi ai nemici esterni,
nell'interesse dello Stato (v. A. A. MOLA, Adriano Lemmi, Gran Maestro della nuova
Italia, 1885-1896, pref. di Armando Corona, Roma, Erasmo, 1985 pp. 34 e ss. e XXIX e
ss.).
3)
Nello stesso 1887 comparve, com'è noto, il celebre opuscolo di padre Luigi Tosti, La
Conciliazione (Roma).
Ma sullo stesso tema son da vedere altresì
La conciliazione tra l'Italia e il Papato nelle lettere dei P. Luigi Tosti e del senatore Gabrio
Carati,a cura di F. Quintavalle, Milano, 1907 e G. PALADINO, Il Padre Tosti in alcune sue
nuove lettere,"Rassegna storica del Rinascimento", 1920, pp.597-628.
Sulla questione, oltre a F. SALATA, Per la storia diplomatica della questione romana,
Milano,1929 e V FEDELE, Leone XIII e l'abate Tosti (in documenti inediti), "Nuova
Antologia", 16 aprile 1934, pp. 562-78, è da vedere A.C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia
negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948 e ss.
Le negative reazioni di Leone XIII e dello stesso Crispi alle sue aperture e proposte
costrinsero l'abate Tosti alla ritrattazione, seguita, dieci anni dopo, dalla morte.
Negli ultimi anni di vita l'abate pubblicò l'emblematica Vita di San Benedetto (1892).
Non meno importante l'evoluzione seguita dal gesuita Carlo Maria Curci, sul quale v.
l'eccellente lavoro di GIANDOMENICO MUCCI, Il primo direttore della "Civiltà Cattolica
". C M. C. tra cultura dell'immobilismo e la cultura della storicità, Roma, Edizioni "La
Civiltà Cattolica", presentazione di Giovanni Spadolini, 1986, soprattutto alle pp. 23-25 e
218-26.
Emilio Servadio
Il Massone
◊ Fuoco che congela... Acqua che arde
◊ Oscure e profonde prigioni...
◊ Eccezionali produttori di arte
◊ Il gioco dei quattro Massoni
◊ Istruzioni agli Apprendisti (della Montesion)
Il Poeta
◊ Fra le braccia della Morte...
◊ La verità
◊ Le aritmie del Tempo
Fuoco che congela...
Acqua che arde
Non senza imbarazzo mi accingo a parlare a Voi di un argomento così importante come è
quello il cui tema mi è stato assegnato: a dirvi, cioè, dei due Principi, e dei due simboli, del
Fuoco e dell'Acqua, sia nella loro alterità (vera o apparente), sia negli specifici aspetti e
funzioni indicati dalle espressioni, apparentemente paradossali, di Fuoco che congela e di
Acqua che arde.
Prendiamo in considerazione, anzitutto, il Fuoco. Quando parliamo di Fuoco in questa sede
intendiamo, ovviamente un Fuoco essenzialmente immateriale, il Fuoco spirituale che
conduce, rischiara, illumina: il Fuoco iniziatico.
Non vi è Massone che non abbia preso coscienza dell'aspetto illuminante del Fuoco, dato
che la Loggia s'illumina allorché il neofita esce dalla simbolica caverna, e che i nostri lavori
hanno inizio con l' accensione, altrettanto simbolica, dei tre candelabri.
Sul piano di un lavoro iniziatico più individualizzato, troviamo il Fuoco come energia
interiore, potenza spirituale, il Fuoco filosofico della tradizione alchemica, chiamato anche
dagli ermetici Fuoco sacro" e di cui nel Trionfo Ermetico è detto che esso: "É un Fuoco
che l'artista prepara secondo l'arte e questo fuoco non è caldo, ma è uno spirito di fuoco
introdotto nel soggetto di una stessa natura della pietra e, mediocremente eccitato dal fuoco
esterno, la calcina, la dissolve, la sublima ...".
L'alchimista - intendendo ovviamente questo termine in senso spirituale - ci appare in realtà
come soggetto che domina, o che cer-ca di dominare il Fuoco; e perciò la Tradizione
Ermetica si apparenta per tanti versi, come ha mostrato Micerea Eliade, alla Tradizione
Fabbrile.
Sul piano fenomenologico - su cui non intenderei qui soffermarmi - è abbastanza noto che
certi esercizi e certe esperienze interiori, indicati in molte tradizioni iniziatiche, sono
accompagnati sia da sensazioni soggettive, sia anche da manifestazioni oggettive di calore e
di luce.
Ciò è stato riportato ed esemplificato in molti testi, che non starò qui a ricordare.
Vorrei però citare, anche in un senso esortativo per il lavoro che ci accomuna, queste belle
parole di Arturo Onofri, poeta che indubbiamente aveva avuto esperienze dell'ordine
indicato:
Figlio del sole, che dormi dentro la ressa delle tue ossa,
ti desterà la potenza di fuoco d'un volere mondiale rinato in te uomo,
quello che vai presentendo, come un sogno, nel macigno pulsante del sangue.
Non meno di quello del Fuoco, il contenuto simbolico ed iniziatico dell'Acqua è noto a
chiunque si sia occupato di scienze tradizionali.
Opposta, e al tempo stesso complementare al Fuoco, essa è rappresentata dal triangolo la
cui punta è diretta verso il basso, e costituisce con il triangolo ascendente - quello, appunto,
che simboleggia il Fuoco - la perfetta intesa ciò che è in alto e ciò che è in basso.
Molti, che ben conoscono il simbolismo del battesimo - vera e propria figurazione, sia pure
ridotta, della prova, e pertanto della conoscenza, del cambiamento di stato e di nuova
nascita - dovrebbero ricordare che anche al livello profano e normale dei meccanismi
psichici, per esempio nel sogno, la nascita è molto frequentemente rappresentata da
un'uscita dall'acqua.
D'altronde, a guardar bene, ciò è vero anche sul piano filogenetico (poiché tutti sanno che la
vita ha avuto inizio nell’acqua), nonché su quello ontogenetico (poiché prima di uscire
dall'alvo materno, il feto umano si trova nelle acque dell'amnios).
Ma per rifarci ad uno dei tanti possibili esempi tratti dalla Tradizione Massonica, basterà
pensare alle due grotte - una contenente fuoco, l'altra acqua - nelle quali passano, nel corso
delle loro prove, Tamino e Pamina nell' immortale "Flauto magico" del Fratello Mozart.
E a proposito di una confraternita che rappresenta tuttora per noi grande interesse, quella
dei Templari, ricordiamo, con Fulcanelli, che i Templari avevano due battesimi: uno quello
dell'acqua o essoterico, l'altro, esoterico, quello dello spirito o del fuoco… è scrive
Fulcanelli il battesimo di luce dei Massoni.
Nella tradizione ermetica le acque - variamente chiamate umido radicale, Venere terrestre,
matrice cosmica, sostanza primordiale… sono la sostanza indifferenziata e plastica, lo
sfuggente Mercurio, il fluido riflettente che occorre fermare e fissare.
Nel Genesi lo Spirito di Dio aleggia sopra le acque; e in varie leggende e tradizioni, il
superamento vittorioso della prova dell'acqua è indicato, per l'appunto, nella immagine di
chi arresta o divide le acque, o di chi, addirittura, cammina sull'acqua.
Dopo le anzidette premesse generali, ancorché oltremodo sommarie, circa i significati
simbolici e iniziatici del Fuoco e dell'Acqua, debbo ora considerare, volta a volta i due temi
specifici, oggetto principale di questa Tavola: le rappresentazioni, cioè del Fuoco che
congela e dell'Acqua che arde.
Cominciamo dal primo, non senza rilevare, subito all'inizio, che il congelamento di cui qui
si tratta, non implica sempre e necessariamente l'idea di freddo - anche se talvolta questo
ultimo possa verificarsi internamente o esternamente.
Per congelamento si può e si deve intendere, anzitutto, l’azione di rendere fisso il volatile,
secondo la terminologia alchemica; la qual cosa è, appunto, uno dei risultati a cui deve
tendere l'azione del Fuoco interiore.
É ciò che esprime un mistico cristiano troppo poco studiato il Gichtel, allorché trattando di
quella che egli chiama l'ottava forma del Fuoco, scrive che per passare il limite fra la
natura esteriore temporale e quella interiore eterna, occorre: che l'anima, per ripetuti
passaggi attraverso le forme del Fuoco, sia divenuta fissa.
Nella Lettera sul Fuoco Filosofico, di Giovanti Pontano, è scritto che il Fuoco stesso
disgrega, scioglie, congela tutto e similmente calcina.
Il nostro Fuoco è minerale ed eterno, non evapora se non è eccitato oltre misura; partecipa
dello zolfo, non proviene dalla materia; distrugge, dissolve, congela e calcina tutte le cose.
Da un punto di vista più vicino alle nostre abituali concezioni, e tecniche, non troveremo
strano che il Fuoco, adoperato nella guisa indicata, ponga l'iniziato di fronte a qualche cosa
che apparentemente lo contraddice per cui a un traboccamento di calorifica luce può
corrispondere quel nero più nero del nero, in cui qualcuno, nel corso di certi esercizi, si
sarà probabilmente
imbattuto.
É curioso notare come anche nel mondo fisico sembrino trovarsi corrispondenza a ciò che
qui andiamo considerando.
Giunti ad una certa altezza nella stratosfera, gli osservatori - primo tra essi il celebre
professor Picard - hanno percepito il sole come nero e ne hanno derivato una sensazione di
gelo, sembrando così confermare, su un piano di constatazione o di percezione profana, ciò
che scrive, ad esempio, Fulcanelli, e cioè che secondo certi alchimisti, il sole è un astro
freddo e i suoi raggi sono oscuri.
Si tratta, beninteso, di modi di dire: o maglio, di esperienze soprattutto interiori, che solo
apparentemente sembrano contraddire una realtà percepibile, in nome di una realtà più
universale e più vera.
Estendendo queste ultime considerazioni si potrebbe pensare a molte deità nere,
dall'Osiride delle alte iniziazioni egiziane alla Venere Urania e alle diverse Vergini nere,
venerate qui e là nel mondo cattolico.
La stessa pietra nera della Mecca è probabilmente il simbolo del ghiacciamento operato dal
Fuoco interiore e ctonico.
In un testo tibetano, i due principi metafisici qui considerati sono, rispettivamente, chiamati
Diamante - Folgore e la sua Sposa. Dal loro amplesso nasce la potenza.
Citiamo ancora una volta Arturo Onofri:
E fra l'altre manie del mezzogiorno,
ecco me, congelato in stella fissa,,
che esaspero l'antica aria di piaghe
metalliche, sull'erba di corallo.
Il congelamento in stella fissa, secondo l'espressione del poeta, corrisponde allo stato di
coscienza che ho cercato di lumeggiare, e mi pare illustri assai bene un momento
dell'esperienza interiore tipico del congelamento operato dal Fuoco.
Ed eccoci, infine, all'Acqua che arde. Non è questa, evidentemente l'acqua della cosiddetta
via umida; è piuttosto l'Acqua ignea che opera quale solvente nelle operazioni alchemiche,
è l'Acqua tersa permanente della Turba Philosophorum.
In questo celebre testo alchemico troviamo scritto: vi raccomando di lavar la Materia
vostra col Fuoco e di cuocerla con l'Acqua; giacché la nostra Acqua la cuoce e la brucia e
il nostro Fuoco la lava e la dénuda.
Questa Acqua, questo solvente universale", o come altrimenti è stata definita, questa Acqua
di Tartaro, è in primo luogo, beninteso, il simbolo di qualche cosa che occorre mobilitare e
utilizzare attingendo alle nostre stesse profondità: prima, molto prima che si possa pensare
a trovarne un corrispettivo in quelle che tradizionalmente sono state anche chiamate Acque
corrosive.
ben noto che in certi procedimenti iniziatici, talune sostanze chimiche sono state e sono
adoperate a certi scopi, così descritti da un occultista che ha preferito celarsi sotto il velo
dell’anonimato: invece di disciogliere il corpo a mezzo del risveglio preliminare
dell'anima, costringere l'anima al risveglio a mezzo di agenti speciali, che provocano
subitanee reazioni nella compagine più profonda delle forze del corpo, nel senso di salti
bruschi di stati abnormi di vibratïlità e di instabilità fluidica.
É dunque un'opera di corrosione, che costringe a salti di qualità assai pericolosi, per cui
non si saprebbe se non energicamente dissentire da simili procedimenti.
Voglio dire, e confermo, che tali tecniche vanno, a circostanze e individui del tutto
eccezionali, in favore dei metodi di gradualità muratoria, architettonici e corali che ci sono
propri, che abbiamo liberamente scelto, e che intendiamo perseguire e praticare.
Giunto al termine di questa mia esposizione, me ne appaiono tutte le manchevolezze, ma
intendo affidarla ugualmente alla vostra considerazione e alla vostra critica.
Per terminare, e richiamandomi ancora una volta alle apparenti antinomie oggi trattate del
Fuoco e dell'Acqua, del Fuoco che congela e dell'Acqua che arde, vorrei ricordare che di là
dal piano in cui si affermano gli opposti, essi debbono, come tutti i contrari, in un certo
modo congiungersi e unirsi, fondendosi in una sintesi superiore.
Anche sotto l'aspetto fisico, vediamo che il fuoco e l'acqua trovano una loro
complementarità negli aspetti celesti della folgore e della pioggia.
Tanto più, quindi possiamo capire che gli alchimisti intendano come acque i raggi e la luce
del loro fuoco, e chiamino abluzione una purificazione che avvenga a mezzo del fuoco.
Ecco dunque che al limite, possiamo sussunere in un'unica immagine l'Acqua ignea ed il
Fuoco liquido, così come in altra reciproca conversione degli opposti possiamo trovare
l'Aria solida e la Terra senza peso.
E non è certo a caso che in una tavoletta Assira, custodita oggi al British Museum di
Londra e che risale al primo secolo avanti Cristo, i raggi del sole siano rappresentati in due
maniere, ossia tanto da linee rette che da linee ondulate: simboli, rispettivamente e
congiuntamente, di Fuoco e di Acqua. Proprio come li troviamo, mi sembra di poter
concludere, nella Spada Fiammeggiante che abbiamo dinanzi agli occhi, sintesi feconda
delle alterità, supremo strumento operativo e, al tempo stesso illuminativi, di chi ci sprona,
ci rischiara e armoniosamente ci orienta.
Oscure e profonde
Prigioni
"Vizio: Incapacità del bene e abitudine e pratica del male".
(Dizionario Enciclopedico Treccani)
Abbiamo più volte indicato, verbalmente o per iscritto, che a nostro avviso i simboli e i
Rituali muratori offrono spunti inesauribili di meditazione, e costituiscono fonti perenni
d'insegnamento.
Non di rado, perciò, ci siamo meravigliati nel vedere che per taluni Fratelli, certe parole e
frasi del Rituale erano considerate quasi materia di routine, da recitare o da ascoltare senza
badarci troppo, e in attesa di "passare ad altro" laddove per la maggioranza dei Massoni ne siamo sicuri - le suddette parole e frasi, anche ascoltate mille volte non mancano di
destare importanti e sottili risonanze sub specie interioritatis.
Dobbiamo confessare che per lungo tempo, alcune parole pronunziate dal Primo
Sorvegliante in sede di apertura dei Lavori ci erano sembrate assai enigmatiche, se non
addirittura contrarie a certe nozioni apprese per altra via.
Vogliamo alludere al passo in cui è asserito che i Massoni si riuniscono in Loggia "per
scavare oscure e profonde prigioni al vizio".
Le nostre riflessioni erano state, a un dipresso, le seguenti.
Per "vizio" si possono intendere diverse cose.
Vizio può essere un'abitudine discutibile, ma tutto sommato tollerabile (per esempio, il
"vizio del fumo").
Vi sono comportamenti, o sindromi comportamentali, che un tempo erano universalmente
chiamati "vizi", mentre prevale oggi il criterio secondo cui si tratta in certi casi di
deviazioni dalla norma - talora ammissibili, talora deprecabili, ma non propriamente
condannabili (per esempio, il "vizio del giuoco").
Vi sono, infine, manifestazioni del comportamento che per secoli sono state considerate
esecrandi "vizi", e che oggi fanno piuttosto parte della patologia (come ad esempio
l'omosessualità, o le tossicomanie).
Questo, sul piano di una valutazione psicologica, etica e nosografica al livello profano.
In tutti i casi anzidetti, e qualora l'uomo di scienza e di coscienza pensi che un intervento
sia necessario, tutto si fa, in genere, fuorché scavare metaforiche "prigioni".
Il fumatore accanito, il giocatore inveterato, il tossicomane, ecc., possono, casomai, essere
oggetto di cure - di solito, medico-psicologiche.
Il principio "dell'imprigionamento" di una manifestazione patologica (ossia, il volerla in
qualche modo sopprimere e soffocare) sarebbe contrario a tutto quello che insegnano la
moderna psicologia dinamica e la psicoanalisi.
"Condannare", e cercare di ricacciare nel buio dell'inconscio, sopprimendone la
manifestazione esteriore, un fenomeno, p. esempio, come l'esibizionismo compulsavo (che
un tempo era chiamato "vizio", e che oggi viene considerato come una delle tante
deviazioni sessuali) sarebbe agire in opposizione ai più elementari criteri psicologici e
psicoterapici.
L'esibizionismo compulsivo - se di questo si tratta - non va certo metaforicamente affossato
in "oscure prigioni": le sue cause profonde, anzi, debbono essere tratte fuori dalle tenebre
dell'inconscio, portate grado grado alla coscienza, e chiarite il più possibile.
Solo così, infatti, si può sperare di vincere e neutralizzare l'anzidetta abnorme tendenza, che
molti ancora si ostinano a chiamare "vizio".
Giunti a questo punto delle nostre considerazioni, ci è apparso evidente che se l'espressione
del Rituale aveva un senso, esso andava cercato in direzioni tutt'affatto diverse da quelle fin
qui indicate, tipiche di un sapere "profano".
In primo luogo, si trattava di ben capire quale connotazione fosse implicitamente data, nel
Rituale, al termine "vizio".
Ci sembra anzitutto che il "vizio" di cui è detto nel Rituale (al pari dell'altro termine,
"virtù", che gli si contrappone nello stesso paragrafo) indichi non già una qualità morale, o
comportamentale, bensì una "categoria" nel senso Kantiano del termine, per cui entrambi i
vocaboli potrebbero benissimo essere scritti con l'iniziale maiuscola.
Non diversamente, pensiamo, appaiono con le iniziali maiuscole, in altri testi, i termini
Bene e Male.
In secondo luogo, non si può non ricordare (e sembra quasi incredibile doverlo fare) che il
piano su cui il Rituale spazia, e a cui fa riferimento, è un piano iniziatico - sul quale cioè i
termini e le definizioni assumono necessariamente un valore diverso (e spesso, come si sa,
"con segno contrario") avendo riguardo ai loro significati profondi.
Ergo, il "vizio" menzionato nel Rituale deve essere per definizione vizio metafisico, in
contrapposto al vizio, o ai vizi, del mondo fisico e terreno.
La distinzione non è facile per chi abbia perduto, come è di regola nell'epoca attuale, il
senso delle proporzioni e delle gerarchie: ma non dovrebbe essere difficile per un Massone.
La differenza tra "vizio" nel senso comune del termine, e ciò che il Rituale indica come
"vizio", è stata indicata, in modi diversi da materialisti, filosofi o psicologi.
Pensiamo a Melville, a Henry James, al Dostoiewski dei Dèmoni, o a certi scrittori a noi
più vicini, come Lovecraft o Machen, dotati di particolare sensibilità esoterica (o
addirittura, come nel caso di Machen, iniziati).
Vediamo, per l'appunto, ciò che scrive Artur Machen (1863-1947), che fu membro della
Golden Dawn e profondo conoscitore di mistica, occultismo, simbolismo, ecc.
Si tratta della introduzione a una lunga novella intitolata The White People (1899).
"Gli esseri supremamente perversi" - dice Ambrose, uno dei personaggi del racconto "fanno anch'essi parte del mondo spirituale.
L'uomo comune, carnale e sensuale, non sarà mai un gran santo, né un grande peccatore".
"Certo" egli prosegue - "c'è un rapporto tra il Peccato maiuscolo e gli atti che si
considerano colpevoli: assassinio, furto, adulterio, ecc.
Esattamente lo stesso rapporto che c'è fra l'alfabeto e la più geniale poesia ...
Noi sopravalutiamo il peccato, oppure lo sottovalutiamo.
Da un lato, chiamiamo peccati le infrazioni alle regole della società, ai tabù sociali.
È un'esagerazione assurda. D'altro lato, attribuiamo un'importanza così enorme al "peccato"
che consiste nella manomissione dei nostri beni, o delle nostre donne, che abbiamo del tutto
perduto di vista ciò che vi è di orribile nei veri peccati".
"Che cos'è, allora, il peccato?" - chiede l'interlocutore di Ambrose, Cotgrave.
E l'altro risponde:
"Che cosa provereste se il vostro gatto o il vostro cane si mettesse a parlare con voce
umana?
Se le rose del vostro giardino si mettessero a cantare? ...
Ebbene questi esempi possono darvi una vaga idea di ciò che è realmente il peccato".
"Allora" - riprende Cotgrave - "l'essenza del peccato sarebbe..."
"Voler prendere d'assalto il cielo" - replica Ambrose.
"Il peccato consiste a mio avviso nella volontà di penetrare in modo proibito in un'altra e
più alta sfera ...
Il peccato è il tentativo di ottenere un'estasi e un sapere che non sono e non sono stati mai
dati all'uomo...".
E più oltre: "Il vero peccato si eleva ad un grado tale, che non possiamo assolutamente
supporne l'esistenza.
È come la nota più bassa dell'organo: tanto profonda che nessuno la sente ...
In nessun caso dovete confonderlo con gli atti asociali ...
Come si può dare tutto ai poveri e mancare di carità, così si possono evitare tutti i peccati,
eppure essere una creatura del male ...".
Il discorso di Ambrose ha indubbi aspetti esoterici.
Questi si possono individuare di là dal suo orientamento di fondo, che è ovviamente
religioso, e pertanto diverso dal nostro.
Comunque, se si sostituisce alla parola "peccato" (che noi non adoperiamo perché
moralistica e devozionale) la parola "vizio", menzionata nel Rituale, cominciamo ad avere
una nozione un po' più precisa di ciò che essa vuol designare, e perché i saggi estensori del
Rituale stesso abbiano voluto inserirvela.
Ma qualche altro riferimento gioverà a chiarire ancora meglio il concetto. Scrive Elémire
Zolla nella sua recente opera, Che cos'è la Tradizione (Milano, 1971): «Invero si è giunti in
un momento storico in cui l'involucro di piombo delle teorie materialistiche, nel quale
l'uomo si era rinserrato sì da non ricevere più influssi celesti, ma neanche emanazioni dagli
inferi, comincia ad aprirsi dal basso, e gli spiriti del male salgono ad impadronirsi
dell'uomo inerme, dimentico dei più semplici scongiuri.
La profezia e l'immagine sono di Guénon".
E più oltre, in perfetto parallelo con quanto scrive Machen:
"Lo stregone non è il violatore di norme, il comune malvagio.
È colui che con un'ascesi simmetrica a quella della santificazione, perfeziona il proprio
male ...
È in gioco qualcosa di molto più sottile che una ribellione alla società, all'animo collettivo.
E comunque, parlando della società come qualcosa di superiore agli associati, non si è
molto distanti dalla configurazione di un ente animato invisibile".
E ancora: "Soltanto mercé la conoscenza tradizionale si può intendere la demonicità: la
forza che sentiamo operare con intelligenza e volontà a impedirci il passo, allorquando
procuriamo di purificare il sentire e la mente per accedere appunto a quella conoscenza.
Chi non abbia mosso un passo in quella direzione, nemmeno può avere notizie sperimentali
di quella presenza avversa.
Egli ha conosciuto soltanto calamità, grandi, strazianti, ma non di questo genere, non ha
sentito una malizia dietro il male, quale si avverte allorquando si incomincia a cacciare da
se stessi le immagini e i pensieri che non portino alla conoscenza soprannaturale.
A questo punto si intende perché appaiono così sbiaditi e malcerti i ragguagli del comune
etnologo o i racconti del comune letterato, quando parlano dell'avversario ...".
Anche Zolla, è chiaro, si muove in una dimensione misticoreligiosa, come è stato indicato
dall'accostamento fra il suo pensiero e quello di Machen.
Basterebbe l'accenno finale a un "avversario", nel quale sembra quasi scorgere, con gli
spiriti infernali, il diavolo delle rappresentazioni medioevali, completo di corna e di coda.
Ma si tratta pur sempre di un inquadramento, in fin dei conti, soprannaturale ed esoterico,
di ciò che si può benissimo chiamare "male", purché non si dia a questo termine un
significato deprecatorio in senso etico-religioso.
Ci sembra pertanto assai bene applicabile al "vizio", nel senso qui esaminato, la definizione
già citata, che lo qualifica come ciò che "si avverte quando si incomincia a cacciare da se
stessi le immagini e i pensieri che non portino alla conoscenza soprannaturale".
Chiunque abbia fatto anche solo qualche passo sulla via iniziatica (e i Liberi Muratori
dovrebbero evidentemente essere fra quelli) ben sanno a che cosa qui è fatto esplicito
riferimento.
Il discorso tenuto sin qui dovrebbe ormai permettere di capire quanto sarebbe ingenuo e
ozioso meravigliarsi, e reagire in base ai criteri psicologici e psicodinamici enunciati in
principio, all'insegnamento del Rituale, in base al quale i Fratelli hanno tra i loro còmpiti,
quando si riuniscono, quello di "scavare oscure e profonde prigioni al vizio".
In quale altro modo infatti, sarebbe possibile affrontare un "vizio" siffatto, di cui sono state
messe chiaramente in evidenza le caratteristiche metafisiche, per cui esso non è da
confondersi con i "vizi" del mondo profano?
Tale "vizio" è, puramente e semplicemente, una forza avversa da sconfiggere.
E dato che non lo si può estirpare (esso costituisce, infatti, l'inevitabile "alterità" rispetto
alla "virtù" iniziatica), non vi è, per l'appunto, altro rimedio se non chiuderlo,
"ermeticamente", in "oscure e profonde prigioni".
In non poche religioni codificate e "ufficiali" (e in modo preminente, ci sembra, nella
religione cattolica), il rappresentante, o il veicolo per eccellenza, del "vizio" così come lo
abbiamo inteso (o del male o dei peccato come preferiscono chiamarlo gli scrittori
religiosamente orientati), è stato individuato, come ben si sa, nella figura dell'angelo caduto
e negativo, del demonio, di Satana altrimenti detto "il Maligno".
Nei limiti - e sono limiti piuttosto vasti - in cui anche certi insegnamenti e rituali della
Chiesa Cattolica hanno aspetti esoterici (anche se molti membri della Chiesa militante non
sembrano averne la minima nozione), la "difesa radicale" contro l'anti-spirito è del tutto
consimile a quella che consiste nel confinarlo entro "oscure e profonde prigioni", insegnata
dal Rituale Massonico.
Basti in proposito riferire le ultime parole dell'"ordinario" della Messa, l'invocazione a San
Michele: "San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia, vieni in nostro aiuto contro la
milizia e le insidie del diavolo.
Che Dio eserciti su di lui il suo imperio, te ne preghiamo supplichevoli; e tu, o Principe
delle milizie celesti, col tuo divino potere, incatena nell'inferno Satana e gli altri spiriti
maligni, che per perdere le anime scorrazzano pel mondo".
Il parallelo ci sembra abbastanza eloquente, e tale da dispensarci da ogni ulteriore
commento.
Sulla via iniziatica - come è stato già menzionato – "l’incontro" con le oscurità e gli aspetti
terrorizzanti del "vizio" si presenta come una tappa necessaria e condizionante.
Il viaggio simbolico di Dante non è soltanto una discesa nelle proprie profondità secondo il
dettame ermetico-alchemico ("Visita Interiora Terrae"), ma anche una angosciante presa di
contatto con quella che vorrei chiamare la "metafisica del vizio", sin nelle sue più profonde
propaggini, quale condizione necessaria per la successiva "risalita".
Il "nero" della prima fase dell'Opera ha, come si può notare, più di una connotazione!
Ciò ben compreso e chiarito, risulta tanto più fulgida l'altra branca della dicotomia, ossia
ciò che nel Rituale viene indicato con l'espressione "elevare templi alla virtù".
Ma di ciò diremo, eventualmente, un'altra volta, ricordando - si parva licet - la
"progressione" dantesca dal buio alla luce, dall'Inferno al Paradiso.
Eccezionali produttori
di Arte
Che cosa sia l’arte, quali ne siano le origini, a quali esigenze obbediscano gli artisti...
Sono quesiti a cui hanno cercato di rispondere centinaia di filosofi, di saggisti e di critici da Aristotele sino ai giorni nostri.
La letteratura al riguardo consiste di diecine - forse centinaia - di migliaia di pagine.
Tuttavia, non si può certo dire che si sia giunti a una conclusione unanime.
Si sa soltanto che una certa energia sollecita l’artista, e lo spinge a produrre.
Ma qual’è questa energia?
Anche se volessimo aderire a un concetto ormai vieto e superato, ossia all’idea che l’arte
imiti la natura, l’interrogativo rimarrebbe.
Perché mai l’uomo l’artista dovrebbe sentire il bisogno, disegnando o dipingendo, di
imitare la natura?
Perché la stragrande maggioranza degli uomini non avverte invece affatto tale esigenza, o
comunque la spinta a creare, a esprimersi artisticamente?
In antico, si pensava che l’opera creativa avesse origini poco o tanto soprannaturali, e che
Apollo, o le Muse, infondessero al poeta, al pittore, allo scultore, la virus che gli consentiva
di produrre poemi, o dipingere quadri, o far balzare figure e ornati dal blocco di marmo.
L’artista era perciò considerato, essenzialmente, un “ispirato”, un individuo a cui deità
superne infondevano “celesti ardori” - quasi un tramite fra gli abitatoti degli alti spazi
invisibili ed il resto dell’umanità.
Anche quando non si credette più al “dio dall’arco d’argento”, o alle Muse, l’idea che
l’ispirazione artistica provenisse da livelli ignoti dell’essere non scomparve.
Dante non pensava certo alle Muse quando si provò a descrivere ciò che sentiva quando
poneva mano al calamo, e componeva poesie: ma anch’egli fece riferimento a un’istanza
impersonale, e quasi divina, allorché scrisse che la sua possibilità di “significare” - cioè di
esprimersi creativamente era condizionata dallo “spirare” (cioè, dal soffio ispirativo)
dell’amore.
E chi ha letto Dante con cura sa che l’amore, di cui il poeta parla, è un amore non terreno:
un amore “con l’A maiuscola”; un amore se è consentito l’aggettivo - “paranormale”.
Ma esiste un “arte paranormale”?
In base a una documentazione ormai molto ampia, si può rispondere di sì.
Curioso a dirsi, tale arte è più spesso chiamata “arte medianica”; e qui ritorna il concetto
tradizionale di “mediazione”, al quale ci siamo riferiti a proposito del ruolo dell’artista.
Tuttavia il termine fa pensare a ciò che modernamente s’intende quando si allude al
cosiddetti medium, alle “sedute medianiche”, alla “medianità”.
Tutti questi vocaboli furono introdotti allorché, nel secolo scorso, ebbe massima voga il
movimento spiritico.
Si pensò che certi individui potessero fungere da tramite, da “mezzo”, tra il mondo dei
viventi e quello dei defunti.
“Medianità” era la qualifica attribuita a costoro, e “medianiche” furono perciò anche
chiamate le sedute.
I termini sono, attualmente, ancora adoperati: anche da chi, senza minimamente pensare a
eventuali interventi di “spiriti”, vuole indicare una condizione psicologica particolare, uno
status caratterizzato sia da un parziale o totale offuscamento delle percezioni abituali, sia
dal prodursi di quei fenomeni psichici o psicofisici paranormali (percezioni extra sensoriali,
effetti psicocinetici), di cui si occupa la moderna parapsicologia.
Nel vasto campo della medianità sembra locarsi, nei suoi diversi aspetti, 1’ “arte
paranormale”.
I soggetti la cui produzione può così definirsi hanno tre caratteristiche in comune:
1)
hanno cominciato a insegnare o a dipingere improvvisamente, senza alcun preavviso o
preparazione specifica, anche in età avanzata;
2)
sono stati in certo modo “costretti” a farlo, come se una qualche forza estranea
s’impadronisse ogni tanto della loro mente e delle loro azioni;
3)
sono in genere convinti che ciò che li fa agire sia lo “spirito” di qualche trapassato.
Perciò rifiutano quasi sempre di vendere le loro produzioni, che ritengono avere un origine
di là da ciò che è terreno e umano.
Questi soggetti si esprimono in modi diversissimi: anche ovviamente - quanto ai livelli ai
quali si possono collocare le loro opere da un punto di vista puramente estetico.
Una pregevolissima “presentazione” di circa trenta di essi - corredata da molte, splendide
riproduzioni anche a colori - è stata curata da Paola Giovetti in un volume intitolato Arte
medianica, apparso nel 1982 a cura delle Edizioni Mediterranee, e che costituisce a
tutt’oggi l’opera più completa sull’argomento.
Ma come interpretare, in sostanza, il processo creativo in atto presso questi eccezionali
“produttori d’arte” - la cui vita spesso sbalordisce per la sua apparente povertà e
“incongruenza” rispetto alle straordinarie opere a cui danno vita?
Non sembra potersi senz’altro applicare, a costoro, la classica interpretazione
psicoanalitica, secondo la quale si dovrebbe pensare che anche certe manifestazioni della
cosiddetta “arte medianica” dovrebbero come quelle artistiche in genere provenire da una
larga partecipazione del sistema psichico secondario, ossia del preconscio.
I prodotti dell’ “arte medianica” sembrano invece arrivare più o meno direttamente
automaticamente, dall’inconscio, disattendendo le anticamere della coscienza (ossia il
preconscio, appunto), e giungere d’un balzo alla luce della coscienza.
Non pochi di questi “artisti medianici” - è opportune ricordarlo - creano in condizioni di
assoluta inconsapevolezza: non sanno che cosa apparirà sul foglio o sulla tela, cominciano
da un qualsiasi punto, spesso si trovano in stati oniroidi, o addirittura sonnambolici.
Qualche volta il “dono”, dopo un certo tempo, viene improvvisamente e inspiegabilmente a
mancare, e colui o colei che per mesi ha accumulato quadri degni di mostre internazionali
non riesce più a tracciare un semplice schizzo o bozzetto - senza sapere perché la “cosa” ha
avuto fine, così come non ha mai saputo perché avesse avuto inizio...
Se il lettore ha presente ciò che è stato indicato nella prima parte di questa esposizione, gli
apparirà chiaro che in fondo, l’espressione “arte medianica” può benissimo essere accettata
sia da un punto di vista semantico, sia da chi la consideri sotto il profilo psicologico.
Negli esponenti di quest’arte si potrebbe forse ravvisare più da vicino, e per dir così dal
vivo, il processo che in altri artisti è meno immediato, meno soggetto a ripensamenti e a
correzioni.
Qui è veramente come se la Musa - o chi per essa - s’impadronisse ex abrupto di un Tizio
magari sino a quel momento del tutto impreparato e ignaro - e si esprimesse forzosamente
attraverso di lui, con risultati spesso meravigliosi, sempre affascinanti.
Considerata da questo punto di vista, 1’ “ arte paranormale” (o, se si preferisce, l’ “arte
medianica”) potrebbe essere dunque un aspetto “estremo”, e rivelatore, di un processo che
probabilmente, dal più al meno, è quello che avviene in ogni creazione artistica.
Forse con 1’ “arte medianica” risaliamo verso la misteriosa magia dell’arte tout court,
dell’arte come fenomeno creativo specifico, vanto e orgoglio dell’uomo.
Il Gioco dei quattro Massoni
Questo ironico documento fu redatto dal Fratello Emilio Servadio durante il periodo del
rinnovo delle cariche della Loggia Montesion (1978), un momento in cui i Fratelli, allora,
erano notoriamente latitanti.
Il "Gioco dei Quattro Massoni" può essere effettuato in 8, in 16, in 24, ecc.: ma in ogni caso
il numero dei giocatori non può superare, almeno a Roma, i 48 - dato che è questo
all'incirca il numero dei Massoni che sono in grado effettivamente di giocarlo, sugli 800
circa che risultano iscritti nelle Logge romane. [siamo nel 1978]
Lo spirito del gioco è molto diverso a quello del ben noto "Gioco dei Quattro Cantoni".
Infatti, mentre in questo ultimo, il giocatore che "occupa il centro" cerca in tutti i modi di
occupare un posto libero, e i quattro che stanno nei cantoni cercano, pur scambiandosi i
posti di impedirglielo, nel "Gioco dei Quattro Massoni" avviene esattamente il contrario!
I quattro che occupano i posti fanno di tutto perché il Massone "Libero" occupi un posto
vacante: ma questi finge in mille modi di distrarsi, ricorre piccoli trucchi, e si guarda bene
dall'abbandonare la sua posizione.
Il rammarico che si legge sui volti dei quattro Massoni è evidente, e costituisce una delle
attrattive del gioco.
Una partita modello può svolgersi, ad esempio, come segue.
Ai 4 angoli stanno i Massoni A, B, C e D, che occupano rispettivamente, supponiamo, le
seguenti cariche:
A è Venerabile di una Loggia, appartiene al Grado 18° ed è Segretario del 9°.
B è Secondo Sorvegliante di una Loggia, appartiene al 30° Grado ed è Consigliere
dell'Ordine.
C è Oratore di una Loggia, regge l'Areopago e appartiene al 32° grado.
D è Primo Sorvegliante di una Loggia, appartiene al 31° Grado, regge il 9° Grado ed è
Membro Onorario di un'altra Loggia.
Sta nel mezzo E.
Questi appartiene regolarmente a una Loggia e la frequenta altrettanto regolarmente, una
volta ogni tre mesi.
A, B, C e D si muovono lentamente, scambiandosi i posti e le cariche, rivolgendo nel
frattempo occhiate significative ad E, cercando di far si che egli occupi uno dei loro angoli.
Qualcuno assume un'aria mesta e supplichevole.
Un altro, passandogli vicino, gli descrive a bassa voce le delizie attinenti al posto di
Segretario, o quelle che attendono un Elemosiniere.
Un terzo gli promette di prestargli la "Rivista Massonica".
Ma invano!
L'astuto E finge di non vedere, o volge lo sguardo altrove.
In una fase particolarmente impegnativa del gioco, può pretendersi sordo.
In un'altra occasione, può cercar d'impietosire A, B, C o D dicendosi padre di numerosa
prole.
Il "Gioco. dei Quattro Massoni" di solito non ha termine.
Spesse volte, i 4 cercano di animarlo sostituendo E con F, o con G, o con H: ma il risultato
è sempre lo stesso.
L'istruzione agli Apprendisti
Questo caricaturale documento fu redatto dal F:. Emilio Servadio durante il periodo in cui
il Fratello Ivan Mosca ricopriva la carica di Secondo Sorvegliante, quindi delegato
all'istruzione degli Apprendisti della Loggia.
◊ 2° Sorvegliante:
Cominciamo dal principio.
Il Primo Principio, il Centro, è un punto, ed essendo per l'appunto un punto, è senza
dimensioni, è praticamente un vuoto... eh! eh! - un punto vuoto, un vuoto assoluto - è
chiaro? da qui si dipartono, in ogni direzione, altri vuoti, che nel binario saranno vuoti
pneumatici spirituali, nel ternario vuoti d'aria, e nel quaternario, finalmente vuoti a rendere.
É chiaro?
◊ Mascetti: (polemico)
Ma se sono vuoti, che cosa possono contenere?
◊ 2° Sorvegliante: (alterato)
Dell'altro vuoto, naturalmente.
Ma è semplice…
Non è così Aleandro?
◊ Aleandro (annuisce e guarda... nel vuoto).
◊ 2° Sorvegliante:
Vedo che hai capito... bene!
Adesso, dopo aver spiegato il vuoto, passiamo ad un'altra speculazione, i colori degli
elementi.
Si tratta ovviamente di colori simbolici, per cui se dico "rosso", voi non dovete intendere
rosso, ma un'altra cosa: è chiaro?
Per esempio: l'aria è gialla.
◊ Aleandro (sognante ):
È verooo... a Roma... in centro.. già....
◊ 2° Sorvegliante: (indispettito)
Ma che dici, qui non si tratta di Roma o di New York, l'aria è gialla anche in cima al Monte
Everest, anzi, li è più gialla ancora, ma ripeto è un giallo simbolico… ma vi ho detto che
non dovete prendere le cose alla lettera… chiaro?
Il mare, poi, è blu - va bene? e il fuoco è rosso.
◊ Mascetti:
Be', è naturale.
◊ 2° Sorvegliante:
Ci vuole pazienza… (e alzando la voce)
Non è affatto naturale… non c'è nulla di naturale in queste speculazioni, mettetevelo bene
in testa.
É strano come non riusciate a capire delle cose tanto elementari.
Si vede che non siete dei pittori. Mascetti, hai fatto il compito?
◊ Mascetti:
Si ho calcolato che la spirale tracciata dalla Luna via via che la Terra si dirige verso la stella
Alfa del Centauro ha un passo uguale a quello del Cerimoniere (il Maestro delle Cerimonie)
quando gira intorno al Quadro di Loggia; e che il relativo logaritmo si può indicare con due
elevato a meno tredici con riporto di tre e una approssimazione di uno su cento milioni di
miliardi.
Almeno, così dicono i calcolatori della IBM… va' a sapere!
◊ 2° Sorvegliante –
Oh! ma che dici?
Questa è una tua... speculazione.
Nel Bouché non c'è, e non ne parla neanche il Barbanera libro iniziatico importantissimo
che voi non potete ancora conoscere ma che un giorno o l'altro conoscerete.
◊ Aleandro:
Ma quando ce lo farai conoscere Ivan?
◊ 2° Sorvegliante:
quando sarete arrivati a quel tal punto d'intersezione che… eh! eh! eccetera eccetera
eccetera.
É chiaro?....
◊ Aleandro: (insistendo)
No!
Non ho capito... quando?
◊ 2° Sorvegliante: (alzando la voce)
ma quanti anni hai?
◊ Aleandro: Quarantadue!
◊ 2° Sorvegliante:
Vediamo (prendendo la sua penna dal fodero degli occhiali) 3x7 fa 21; bene... il settenario
per il settenario da 49 e se ci aggiungiamo quello di vita abbiamo… 56… no, non è ancora
ora!
FORSE LE BRACCIA DELLA MORTE...
Forse le braccia della morte
Sono dolci e affettuose
Come quelle della donna del mio sogno
Che mi attende sull'uscio
E mi stringe e mi bacia.
Forse le braccia della morte
Sono tenere e calde
Come quelle della madre
Che trattiene a lungo il suo bambino
Ed esita a deporlo nella culla.
Forse le braccia della morte
Sono quelle dell'Entità somma
Che mi aspetta da sempre
Ed è lieta
Di avermi finalmente nel suo grembo
Forse tra le braccia della morte
Troverò quel che cerco ed agogno:
La donna che mi accolga e che mi abbracci,
La madre che mi culli come un bimbo,
L'Eterno che mi dica: "Benvenuto"!
LA VERITA'
La verità è in noi. Non sboccia
Da alcuna cosa esterna.
C'è un profondo centro in noi tutti
Dove la verità alberga in assoluto; e fuori,
Strato su strato, la densa carne la racchiude.
Questa percezione chiara e perfetta - che è la verità –
E' trattenuta da un illusorio e perverso involucro carnale,
E CONOSCERE consiste più nell'aprire un varco
Attraverso il quale lo splendore prigioniero può evadere
Che non cercar di fare entrare una luce
Da un immaginario "fuori" di noi
LE ARITMIE DEL TEMPO
Trasalimenti, quasi aritmie
Del tempo,
Pause brevissime
In cui s'inseriscono
Bagliori improvvisi
D'una realtà diversa.
Forse, quando il cuore
Sospende per un attimo i suoi battiti,
Riceviamo un segnale,
Un lampo,
Lo scatto di un diaframma
Sopra una vita
Fuori dal tempo.
E l'anima s'apre sgomenta
A possibili oceani celesti,
Ad accessibili paradisi.
Ernesto Nathan
L'Uomo
Ernesto Nathan
Il politico
Il discorso del XX settembre 1910
La risposta di Pio X
La lettera di Nathan ai giornali
Il massone
Il discorso di insediamento del 1897
Ernesto Nathan, Gran Maestro della Massoneria dal 1896 al 1904 e dal 1917 al 1919.
Eletto in Consiglio comunale a Roma nel 1898, è Sindaco dal 1907 al 1913.
Eletto Sindaco in un momento particolarmente critico per Roma capitale, allo sfascio
morale ed edilizio (saccheggio del patrimonio storico con stupende ville abbattute per
costruire nuovi cantieri, dando spazio a enormi speculazioni edilizie).
Proprio in questa Roma Nathan viene eletto e nei suoi sette anni di amministrazione
municipalizza i servizi pubblici più importanti (dai trasporti all'acqua, alla luce) e realizza
grandi opere come la Galleria del Traforo e dei nuovi ponti sul Tevere).
Ma non è questa attività, secondo me, che ha fatto grande Nathan: lo hanno fatto grande le
Scuole elementari costruite in tutti i vecchi rioni.
Lo hanno fatto grande le Case popolari del rione Testaccio con assistenza scolastica e
sanitaria per tutti gli abitanti.
L'hanno fatto grande gli alberghi dei poveri e le mense popolari create nello stesso
quartiere.
L'hanno fatto grande decine di iniziative sociali, sanitarie a favore dei meno abbienti,
istituzioni per i poveri e per gli operai.
E voglio ricordare - perché pochi lo sanno- una grande opera fondata nel 1874 dalla
mamma di Nathan, Sarina Levi di Pesaro, la scuola Mazzini, con sede a Trastevere in via S.
Crisogono al numero 37.
Ernesto Nathan fu anche fra i fondatori della "Dante Alighieri ",
autore di decine di libri, pubblicazioni, articoli, studi (a questo proposito interessante ed
opportuna la bibliografia degli scritti di Nathan, edita dal Grande Oriente d'Italia a cura di
A.M. Isastia e G. Schiavone).
Iniziato il 24 giugno 1887 nella Loggia "Propaganda Massonica" Oriente di Roma, fu eletto
Gran Maestro dal 1896 al 1904 e dal 1917 al 1919.
Fu anche membro effettivo del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato.
Nel 1910 Nathan, nella sua qualità di Sindaco di Roma, pronuncia il 20 Settembre dinanzi
alla breccia di Porta Pia un discorso che crea violenti polemiche.
Scriverà a proposito Nathan: Lo sdegno pontificale, misurato o no, calcolato o no (le teste
di Turco sono sempre «manichini» pregiati nell'arte diplomatica), ha richiamato sulle mie
povere parole l'attenzione di molte persone, in molte parti del mondo.
L'appassionato appello alla universalità contro il «blasfema» contro l'usurpazione italiana
che ad un cittadino lascia la libertà di pensiero, libertà di parola nella città Eterna, danno
alla consueta annua rivendicazione dinnanzi alla breccia di Porta Pia un valore diverso: la
importanza di un documento, non utile illustrazione di un dato momento nella storia di
Roma e dei poteri che se ne contrastano il possesso.
Conoscerlo nella sua integrità, non come fu raffazzonato, riassunto, commentato, è bene.
Come non è male mettere sott'occhio, a chi voglia serenamente conoscere e giudicare, il
testo preciso della unilateralmente appassionata discussione.
Il discorso originale, la requisitoria solenne e vibrata in nome del Pontificato, l'austera
pacifica risposta.
Varranno le brevi pagine a snebbiare la mente di non pochi, tratti in errore.
Altri illumineranno sull'atteggiamento di chi, ritornando ai tempi classici di Pio IX, in nome
del Redentore e della Religione, inutilmente s'affanna a trascinare Stati e Popoli ad
insorgere contro l'unità dello Stato e la volontà del Popolo.
Roma, 15 novembre 1910
«Cittadini,
Non parlo in nome della sola Roma, ne è segno la corona or ora presentatami, la presenza
del Consiglio provinciale, presieduto dall'illustre suo vice-presidente.
È tutta la plaga intorno a noi, è tutta la provincia che s'unisce alla città, solidale con essa
nelle libere affermazioni, nelle popolari aspirazioni.
E, se di nuovo io m'indirizzo a Voi da questo storico luogo, è per volontà vostra, da poco
manifestata col vostro suffragio; voleste che la voce dell'Amministrazione popolare
risonasse di nuovo qui, e questa rappresentanza voleste nell'anno quando da ogni lato
d'Italia e da fuori, dai due emisferi, connazionali e stranieri si recheranno qui in
pellegrinaggio per rammemorare il giorno in cui, mezzo secolo fa, il Parlamento
subalpino, nella certa visione dei destini nazionali, Roma rivendicò Capitale dell'Italia
nuova.
Dinanzi alla volontà del popolo, all'opera dei grandi fattori, l'Apostolo, il Guerriero, il Re,
lo Statista, dinanzi al prode esercito, ai valorosi volontari, ai cittadini, quanti oprarono,
soffrirono, morirono, per la prescienza che talvolta illumina uomini ed assemblee, così
allora statuì quell'illustre patriottico consesso, e così, nella maturità degli eventi, fu!
Conferma di quel voto solenne, noi siamo qui oggi; e domani il mondo intero nelle
molteplici sue rappresentanze qui converrà per constatare come la Roma dell'oggi, la
Roma della Terza Italia, riprenda il cammino dal destino assegnatole, riassuma in sé la
volontà e le aspirazioni di un grande popolo, varchi le frontiere, e nelle estrinsecazioni
della vita, nelle manifestazioni del pensiero, attraverso i monti, attraverso i mari,
s'affratelli con gli altri popoli.
Tale la Roma ch'è onorato mio ufficio qui rappresentare, vindice della libertà del pensiero,
entrata in un con la bandiera tricolore, attraverso questa breccia; un'altra Roma, prototipo
del passato, si rinchiude entro un perimetro più ristretto delle mura di Belisario, intesa a
comprimere nel brevissimo circuito il pensiero, nella tema che, come gli imbalsamati
cadaveri del vecchio Egitto, il contatto con l'aria libera abbia a risolverla in polvere.
Da lì, dal fortilizio del dogma, ultimo disperato sforzo per eternare il regno dell'ignoranza,
scende, da un lato, l'ordine ai fedeli di bandire dalle scuole la stampa periodica, quella che
narra della vita e del pensiero odierno; dall'altro risuona tonante — elettricità negativa
senza contatto con la positiva — la proscrizione contro gli uomini e le associazioni
desiderosi di conciliare le pratiche e i dettati della loro fede, con gl'insegnamenti
dell'intelletto, della vita vissuta, delle aspirazioni morali e sociali della civiltà...
Ritornate, o cittadini, alla Roma di un anno prima della breccia; nel 1869.
Convennero allora in pellegrinaggio i fedeli da tutte le parti del mondo, qui chiamati per
una grande solenne affermazione della cattolicità regnante.
S. Pietro, nella monumentale sua maestosità, raccoglieva nell'ampio grembo i
rappresentanti del dogma, in Eucumenico Concilio; vennero per sancire che il Pontefice, in
diretta rappresentanza e successione di Gesù, dovesse, come il Figlio, ereditare
onnisciente illimitato potere sugli uomini, e da ogni giudizio umano i decreti suoi sottrarre,
in virtù della infallibilità proclamata, riconosciuta, accettata.
Era l'inverso della rivelazione biblica del Figlio di Dio fattosi uomo in terra; era il figlio
dell'uomo fattosi Dio in terra!
Vi fu chi, forte nella storia dei Pontefici attraverso i secoli, reagì alla bestemmia rivolta a
Dio e agli uomini, Doellinger.
Rimase solo!
Revocare in dubbio, discutere i decreti del Capo della Chiesa per la gerarchia era il primo
passo per sottometterli al libero esame; era il forellino attraverso cui passava l'aria
ossigenata della scienza, del progresso civile.
E però sulle vecchie mura del dogma si sovrappose l'intonaco dell'infallibilità per unanime
consenso.
Fu l'ultima grande affermazione dinanzi al mondo della Roma prima della breccia, era
l'ultimo pellegrinaggio al Pontefice-Re.
Confrontate il fatto di allora con quello che ora si prepara, e misurate il cammino percorso
in quarant'anni, un giorno nella vita della città eterna?
Guardatela nelle nuove forme, nei nuovi atteggiamenti!
Le mura di Belisario trapassate da ogni lato, come le mura di Servio Tullio, stanno là a
determinare il circuito della vecchia Roma, coi suoi orti, con le sue ville, con le sue
straducole inondate dal Tevere; oggi le ville e gli orti si protendono verso il colle e il mare,
senza soluzioni di continuità, e appena qualche albero, tra le nuove, larghe, illuminate vie,
fra le case moderne, delle altre ricorda l'esistenza.
Il Gesù è divenuto un archivio nazionale, archivio anche di tristi memorie; Castel S.
Angelo, la tomba del morto imperatore romano, ridotta poi a tomba dei viventi sudditi
papali, è un museo di ricordi e d'arte medioevale, per insegnamento ed affinamento dei
cittadini.
L'insigne e colossale monumento della grandezza romana, le Terme Diocleziane, ridotte a
fienili, magazzini e sconci abituri, ora si circonda di giardini e ritorna in vita, degna vita,
grande, impareggiabile museo nazionale di arte antica.
E potrei continuare; mostrarvi la scuola elementare, il Lungo Tevere, là dove si ergeva,
monumento di stolta intolleranza, il Ghetto; i bagni pubblici in recinti ove la tolleranza
consentiva la corruzione dei costumi: riassumo.
Nella Roma di un tempo non bastavano mai le chiese per pregare, mentre invano si
chiedevano le scuole; oggi le chiese sovrabbondano, esuberano; le scuole, non bastano
mai!
Ecco il significato della breccia, o cittadini!
Nessuna chiesa senza scuola! Illuminata coscienza per ogni fede, ecco il significato della
Roma d'oggi...».
«Cittadini,
Ovunque, da Torino a Marsala e Palermo, da Napoli a Perugia, ai campi di
Castelfidardo, l'Italia ha celebrato la ricorrenza cinquantenaria dei fasti della sua
ricomposizione ad unità, ed ovunque fu presente Roma nel cuore della sua cittadinanza
nella parola dei rappresentanti suoi.
Oggi alla quarantenaria ricorrenza del giorno fatidico, che ha sacrato l'unità patria, il
Paese tutto è qui presente, nella sua più Augusta Rappresentanza; con noi ricorda il
passato, con noi fraternamente opra il presente, con noi prepara nella coscienza del
comune dovere l'avvenire.
Un solo grido prorompa dai vostri petti dinanzi a questa breccia: evviva la Terza Italia».
Fatto nuovo negli annali del Pontificato, al discorso di Ernesto Nathan del 20 Settembre,
rispose il Pontefice Pio X colla seguente lettera indirizzata al Cardinal Vicario:
«Al diletto figlio Pietro cardinal Respighi Nostro Vicario Generale.
Signor Cardinale,
Una circostanza di eccezionale gravità Ci muove a rivolgerle la Nostra parola per
manifestarle il dolore profondo dell'animo Nostro.
Da due giorni un pubblico funzionario nell'esercizio del suo mandato, non pago di
ricordare solennemente la ricorrenza anniversaria del giorno in cui furono calpestati i
sacri diritti della Sovranità Pontificia, ha alzato la voce per lanciare contro le dottrine
della Fede Cattolica, contro il Vicario di Cristo in terra e contro la Chiesa stessa lo
scherno e l'oltraggio.
Parlandosi in nome di questa Roma, che pur doveva essere, secondo autorevoli
dichiarazioni, la dimora onorata e pacifica del Sommo Pontefice, si è presa direttamente di
mira la Nostra stessa giurisdizione spirituale, arrivando impunemente a denunziare al
pubblico disprezzo perfino gli atti del Nostro Apostolico Ministero.
A questa audace contestazione della missione affidata da Cristo Signor Nostro a Pietro ed
ai suoi successori, accoppiandosi pensieri e parole blasfeme, si è osato d'insorgere altresì
pubblicamente contro la divina essenza della Chiesa, contro la veracità dei suoi dommi e
contro l'autorità dei suoi Concili.
E poiché all'odio della Chiesa va naturalmente congiunto l'odio più dichiarato ad ogni
manifestazione di pietà cristiana, non si è indietreggiato neppure dinanzi al proposito
malvagio e anti-sociale di offendere il sentimento religioso del popolo credente.
Per questo cumulo di empie affermazioni, quanto gratuite altrettanto blasfeme, non
possiamo non levare alta la voce di giusta indignazione e di protesa, e richiamare in pari
tempo, per mezzo di Lei, Signor Cardinale, la considerazione dei Nostri figli di Roma sulle
offese continue ed ognor maggiori alla Religione Cattolica, anche per parte di pubbliche
autorità, nella sede stessa del Romano Pontefice.
Questa nuova e ben dolorosa constatazione non isfuggirà certamente ai fedeli tutti del
mondo cattolico, offesi anche essi, i quali si uniranno con i Nostri cari figli di Roma per
innalzare con fervore le loro preghiere all'Altissimo, affinché sorga a difesa della sua
Sposa divina, la Chiesa fatta così indegnamente bersaglio a calunnie sempre più velenose e
ad attacchi sempre più violenti dalla impune baldanza dei suoi nemici.
Facciamo voti che, per l'onore stesso della città Eterna, non abbiano a rinnovarsi questi
intollerabili attacchi; ed intanto come pegno della Nostra speciale benevolenza Le
impartiamo di cuore, Signor Cardinale, l'Apostolica Benedizione».
All'inatteso, quanto violento ed ingiustificato attacco del Vaticano, il Sindaco Nathan
oppose una calma e misurata difesa, sotto forma di lettera ai Direttori dei giornali cittadini:
«Preg.mo signor Direttore,
Per gli atti dell'Ufficio mio devo rispondere al Consiglio, alle competenti Autorità;
interviene per il discorso del XX Settembre un rescritto del Sommo Pontefice
all'Eminentissimo Cardinale Vicario per stigmatizzare le parole mie al cospetto della
cittadinanza, dell'Italia, di tutto il mondo.
Il rispetto verso di Lui, verso tutto il consorzio civile, impone spiegazione.
Egli, dal Vaticano fulminando chi sta al Campidoglio, non rende più evidente il tema del
discorso, il contrasto tra la Roma del passato e la Roma del presente?
Son colpevole – come egli dice – «nell'anniversario del giorno in cui furono calpestati i
diritti della Sovranità Pontificia»; «di lanciare offese ed ognor maggiori alla Religione
cattolica»; ho «alzato la voce per lanciare contro il Vicario di Cristo in terra lo scherno e
l'oltraggio»?!
O non ho messo invece dinanzi agli occhi dei cittadini uno specchio fedele perché tutti vi
vedessero riflessi gli eventi del passato, quelli verificatisi attraverso altro Governo, altra
volontà, altri insegnamenti, altre aspirazioni?
Non sono io autore od inventore del bando per esiliare dalle scuole e dai seminari tutta la
stampa periodica.
Non io ad immaginare condanne solenni alla democrazia cristiana, ai modernisti, ai
Sillonisti, a quanti muovono affannosamente alla ricerca di una fede che concili intelletto e
cuore, tradizione ed evoluzione, sapere e religione.
Non io a fondere insieme dogma, rito e religione in guisa da negare la consolazione della
fede a chi ai mutabili precetti e volontà degli uomini non potette umiliare cieca
sottomissione.
Non io a creare la ignoranza che abbandonandosi alla superstizione brutalmente respinge
il sapere.
Non io a mancare di rispetto alle altrui credenze, diritti imprescrittibili dell'individuale
coscienza, né tampoco venir meno ai riguardi dovuti al Pontefice, all'uomo chiamato ad
altissimo ufficio, che nei limiti consentiti da cuore ed intelletto sacrifica tutto l'essere suo
per amor del bene, secondo i dettami della sua coscienza.
No. Come il Sommo Pontefice dall'alto della Cattedra di S. Pietro ha dovere di dire la
verità quale a lui appare ai credenti, così il minuscolo Sindaco di Roma dinanzi alla
breccia di Porta Pia, per lui iniziatrice di una nuova auspicata era politica e civile, ha
uguale dovere innanzi alla cittadinanza.
Offende le orecchie di Chi afferma «calpestati i diritti della Sovranità Pontificia»; ma non
è l'uomo, non sono le sue parole, è il fatto che offende, opprime, preoccupa, esaspera: il
fatto avvenuto in passato, il fatto che si avanza fatale, con passo più sicuro, a misura che
l'albeggiante giorno della nuova Italia rischiara la strada agli ansiosi trepidi viandanti; il
fatto che guida le genti, iscritto fra i dettati della legge che governa l'universo dalla mano
del progresso: fatto che sovrasta a Pontefice e Sindaco.
Tutto si muove, si evolve, si allarga e gli uomini volgono gli occhi in su alla ricerca della
fede, illuminata dal sapere.
Se ho offeso i doveri dell'ufficio mio, spetta al Tribunale; se ho offeso i doveri dell'ufficio
mio, spetta il giudizio alla cittadinanza; se ho offeso la Religione, la coscienza tranquilla,
senza intermediario, risponde innanzi a Dio.
Roma, 24 settembre 1910».
ERNESTO NATHAN Sindaco di Roma
Nell'assumere per la prima volta (fu eletto una seconda volta nel 1917) il Supremo
Maglietto della Massoneria nel 1897 - che mantenne fino al 1904 - Ernesto Nathan
indirizzò a tutte le Logge Massoniche la seguente Balaustra:
«Fratelli!
Chiamatovi dai vostri suffragi, dal voto dei vostri delegati, assumo il maggior ufficio di
rappresentanza della nostra Famiglia, spintovi dal sentimento del dovere, principio
informativo dell'essere nostro.
Gli altri servigi resi al Sodalizio dal mio predecessore, che seppe riorganizzarlo e
fortemente costituirlo, col sacrificio delle migliori sue facoltà e di quei migliori anni in cui
l'energia e l'esperienza si completano, restituirono alla Famiglia nostra il posto che le
spetta fra i popoli massonici nella lotta per il bene.
Mantenervela, sollevarla sempre più in alto, conservarne immacolata la bandiera,
chiarirne l'indirizzo, sì che non possa essere, né affermarsi, con sembianza di verità,
ignoto, è ufficio di chi raccoglie l'ardua successione.
Ardua invero quando ai nemici della Patria, ai fautori dell'oscurantismo, si collegano
uomini professionisti liberali per ingiuriare e calunniare; quando le più solide accuse sono
gittate di rimando dai crocchi ai giornali, dai giornali alle aule legislative, sì da
ingenerare nella mente di quanti ignorano i nostri fini, dubbi e sospetti indegni di essi e di
noi.
E ora, o Fratelli, di parlar chiaro ed alto, di ripetere ciò che noi siamo, dove andiamo; è
ora che noi, puri di opera e di intendimenti, fughiamo dalla mente degli uomini di buona
fede i fantasmi che la malignità cerca di evocare.
Si dice che siamo profanatori di ogni religione, d'ogni coscienza: è menzogna.
La tradizione massonica svoltasi attraverso i secoli dalla più fitta notte dei tempi ha
raccolto i veri divulgati da tutte le religioni, rivelati dalla scienza, per estrinsecarli,
propugnarli e diffonderli nella umanità.
La Massoneria accoglie tutte le religioni senza adottarne alcuna: affratella gli uomini di
ogni credenza che seguono la legge eterna d'infinito progresso e vogliono attuarlo su
questa terra: qui la sua missione, qui il vasto campo all'opera sua; alla coscienza di ogni
Fratello il sollevarsi sulle ali della fede e penetrare i misteri dell'al di là.
Si dice che siamo mancîpi di determinati partiti di governo: è menzogna.
L'alto, sereno concetto politico nostro si svolge al di sopra delle scuole che si contendono
gli intelletti e dei partiti che si contrastano il potere.
Anzitutto e soprattutto siamo italiani; la Patria, leva per cui operiamo nell'umanità, è in
cima ad ogni nostro pensiero.
Erigerci barriera contro coloro che la vorrebbero spezzata o distrutta, disperdendo la
gloriosa epopea che la ricondusse a vita nuova, è politica nostra; e sta in sintesi lucente
nel glorioso trinomio Libertà, Fratellanza, Uguaglianza.
A quello inspirarci nella nostra Comunione, nei mutui rapporti; quello divulgare e
propugnare nei limiti della legge, integre serbando le libere convinzioni dei Fratelli; quello
esplicare coi mezzi consentiti ad una fratellanza in cui uomini di diversa fede depongono
"le passioni loro sulla porta del tempio" per accomunarsi in un concetto di bene umano;
per quello stendere la mano alle altre famiglie, perché i confini fra nazione e nazione
scompaiano dinnanzi a sentimenti di pace e di amore; tale la nostra politica.
Né altra può essere; quando la Massoneria si assoggetti ad una scuola, ad un partito, ad
un uomo, smarrisce il suo carattere fondamentale di universalità, di umanità; sparisce la
fratellanza, subentra la setta.
Si dice che siamo consorteria coalizzata per facilitare il soddisfacimento degli egoismi
affiliati: è menzogna.
Siamo famiglia e nell'affetto reciproco ci stendiamo la mano l'uno all'altro per confortarci
nelle sventure e nei dolori, per sorreggerci quando per le aspre vie della vita sentiamo
travolgerci in basso; ma famiglia che non può né suole rinserrarsi intorno al focolare,
sorda ai gemiti che si alzano intorno; famiglia che ha diritto all'esitenza soltanto perché la
consacra a beneficio dei simili.
La Massoneria è mutua assistenza per poter essere pubblica assistenza; altrimenti,
travagliata e consunta da lotte intestine, di egoismi contrastanti, perirebbe al pari di tutti
gli organismi che non sanno comprendere la missione della vita.
Si dice che fra i riti profanatori copriamo col segreto illecite aspirazioni, turpi mezzi,
inconfessabili fini: è menzogna.
I nostri riti, i nostri simboli, armi gentilizie nobilissime, tramandateci da remote età, sintesi
esterna di una storia gloriosa di martiri, di sacrifici di civili conquiste, sono linguaggio
internazionale, segni di riconoscimento fra famiglia e famiglia, nazione e nazione; titoli ed
emblemi innanzi a cui s'inchinano uomini di ogni paese, di ogni posizione, dal potente
monarca al modesto operaio; i titoli ed emblemi immortalati dai maggiori ingegni umani,
divulgati da numerose pubblicazioni; né vogliamo abbandonarli, né potremmo.
Verrà giorno auguriamo vicino, quando le coscienze abbiano penetrato il vero, quando
non sieno disseminate per la scala sociale menti ottuse o malvagie che pongono all'indice
un uomo, lo perseguitano e lo sacrificano perché si prefigge una missione di civiltà.
Verrà il giorno quando la tolleranza ed il rispetto che noi professiamo e pratichiamo con
tutti saranno da tutti estesi anche a noi: allora sarà tempo di giudicare come l'onesto
segreto che vieta alla malignità di danneggiare i nostri Fratelli debba essere
abbandonato.
Le cose dette non giovano a voi, Fratelli; vi sono già note, come vi è nota la dichiarazione
sintetica dei nostri principii, in cui si determina che «la Massoneria ha per fine il lottare
contro l'ignoranza sotto tutte le forme; deve obbedire alle leggi, vivere con integrità,
praticare la giustizia, amare il simile, lavorare senza posa per il bene dell'umanità
mediante la sua emancipazione progressiva e pacifica».
A voi è superfluo ripeterle, né le ripeto per voi. Ditele, diffondetele nelle vostre valli: valga
la parola del Capo dell'Ordine da voi eletto per svelare a tutti gli onesti qual sia il segreto,
quale la congiura, quale la setta: per gli altri la indifferenza ed il disprezzo.
Ed ora dove andiamo?
Quali i fini immediati dell'opera nostra?
Il programma parla chiaro.
Non vi è problema di progresso, di civile rivendicazione che non sia di nostra competenza,
che non debba ripetere da noi studio e cooperazione, quando si conformi ai principii
regolatori dell'Ordine, quando possa essere liberamente accettato dal popolo massonico.
Nella lenta evoluzione sociale le ingiustizie e le conseguenze sono troppe, troppo scarse le
forze attive a combatterle, perché, entro quei limiti, manchi ad ogni Fratello scopo e
sprone al lavoro.
E oggi due compiti soprattutto spettano a noi, perché il progresso della nazione sia più
rapido e sicuro.
Una organizzazione davvero segreta, potente per mezzi, con gli occhi rivolti ad un passato
condannato per sempre, si insinua in tutte le molteplici ramificazioni dell'organismo
sociale, e con arti subdole, operosità costante, affinato intelletto, tende ad impossessarsi
delle maggiori funzioni del consorzio civile.
Da un lato cerca accaparrarsi le coscienze per foggiarle a sua immagine; dall'altro mira a
far sue le sorgenti della prosperità per dominare le passioni e gli appetiti, e riprendere, col
possesso dei maggiori meccanismi della vita pubblica, l'antico vagheggiato dominio.
Credenti nel progresso, devoti al nostro paese, pronti ad ogni sacrificio per serbarlo
integro a più glorioso avvenire, è dover nostro sventare questi biechi disegni, che mirano a
scinderlo e risospingerlo nel passato: combatterli in ogni manifestazione della vita
pubblica, in ogni attentato alla vita privata ed alla libertà di coscienza; combatterli col
pensiero e con l'azione.
Combatterli sopratutto con l'esempio e con l'operosità, colla moralità, collo spirito di
sacrificio, col senso del più puro altruismo.
Dimostrare che per la rigenerazione morale e materiale di un popolo val più la virtù civile,
che l'innesto della superstizione su di un dogma qualsiasi: questa deve essere l'opera della
Massoneria.
Sia lontano da noi il pensiero di infiacchire la fede che innalza e purifica e sprona al bene;
sia invece lavoro d'ogni giorno, d'ogni ora, il combattere senza tregua i trafficanti di tutte
le confessioni che, speculando sulla credulità e sulla ignoranza, commerciano in spirituali
promesse per batterle con interessi temporali.
Dissi della rigenerazione morale!
In tempi nei quali la lotta d'interessi, che si va svolgendo ognor più acerba in ogni campo
di attività pubblica e privata, ha affievolito in ogni paese la percezione chiara del lecito e
dell'illecito, pensate o Fratelli, se l'Ordine nostro, che si fonda sulla rettitudine, non abbia
dinanzi il nobilissimo fra gli apostolati.
Pensate se ad esso non spetti rendersi interprete della coscienza tacita delle moltitudini,
perché, nell'alternarsi di uomini e cose, nelle grandi e piccole lotte, nella vita pubblica e
privata, domini e regni sovrana la moralità.
Noi raccolti insieme da ogni fede, da ogni scuola, da ogni partito abbiamo il diritto di
chiedere ad ogni fede, ad ogni scuola e ad ogni partito una qualifica fondamentale per
l'esercizio di qualunque diritto ad ufficio pubblico: specchiata integrità e disinteresse.
Su ciò nella Massoneria mondiale non vi può essere divergenza; è ufficio morale indicatole
dal triste momento storico, è dover suo di educatrice portarlo in alto, bandirlo alla luce,
integrarlo nella coscienza delle genti.
Né dimentichiamo quanto è geloso l'ufficio a cui siamo chiamati dall'indole e dai fini dell'
Ordine, né la moltitudine di coloro i quali anelerebbero di unirsi a noi.
Sia ponderata la scelta, fitto il vaglio per sceverare i più degni; esercito di milioni sparso
nel mondo, la nostra forza, nondimeno, non è nel numero, è nei fini chiamati a
promuoverli.
Molti e gravi sono i problemi che travagliano oggi la mente degli scienziati e degli statisti,
e non pochi furono da varie Logge sottoposti all'Assemblea; essi vi saranno trasmessi
perché il coscenzioso studio e la serena vostra discussione chiariscano fin dove l'Ordine
nostro possa giungere per risolverli.
L'Assemblea legislativa, presa cognizione di varie proposte di riforma delle nostre
Costituzioni, decise che materia sì grave non dovesse risolversi senza ponderato e maturo
esame.
Quelle proposte vi saranno comunicate: studiatele, Fratelli; sia anche questo argomento
delle discussioni vostre, affinché se opportuno appaia qualche ritocco alle leggi che
abbiamo liberamente accettate, per meglio adattarle alle esigenze dei tempi e della nostra
organizzazione, ciò avvenga mediante consenso unanime, frutto di illuminata e meditata
investigazione.
Nessuna nostra riunione si chiude senza che si sia passato di mano in mano, raccogliendo
l'obolo dei Fratelli, il «tronco della vedova», fonte di soccorsi e in pari tempo simbolo
dello spirito eminentemente benefico della Massoneria.
Quello spirito non deve arrestarsi ai sottili rivoli degli aiuti diretti, ma risalire alle larghe
fonti, e vegliare perché il patrimonio dei poveri, il largo concorso della filantropia non
siano sviati e la sola sventura ne tragga beneficio, mercé quelli illuminati criteri che
mirano a prevenire prima, poi a soccorrere la miseria.
Ispirati da quei sentimenti, i nostri Fratelli di qui e delle colonie, notevolmente quelli di
San Paolo, hanno trasmesso somme in soccorso delle famiglie povere dei morti e feriti in
Africa.
Sappiano i Venerabili, ognuno nel suo circondario, indicarmi quelle più degne di aiuto per
le condizioni tristi in cui versano per la perdita dei loro cari.
Nulla dico di nuovo: per studio coscenzioso delle tradizioni dell'Ordine ho riassunto il
nostro pensiero, la nostra azione, che, attraverso le inquisizioni dei dogmatici di ogni
scuola, ci valsero persecuzioni e calunnie.
Né oggi è diverso da ieri.
Nell'ora grigia che precede l'alba novella, quando i dubbi solcano gli animi, e gli uomini
incapaci di spinger lo sguardo attraverso le nebbie che chiudono il breve loro orizzonte, lo
volgono attorno per adagiarsi ancora una volta nella passiva tranquillità di un passato
consunto, le persecuzioni di ieri potranno essere quelle di oggi: maggior ragione, o
Fratelli, per stringerci insieme, levare la voce, dichiarare l'esser nostro; maggior ragione
per ravvivare la fede nel nostro apostolato e debellare il male che insidia, assai più che
noi, il progresso e la civiltà del nostro paese.
Con questi pensieri, con queste convinzioni, profondamente riconoscente per la vostra
fiducia, assumo l'ufficio a cui mi avete votato.
Cercherò, per quanto lo consentono le forze e l'intelletto, di esserne fedele interprete.
Se ho bene compreso la coscienza del popolo massonico, e, stretti nel fascio, continueremo
l'opera franchi, risoluti, costanti, ho fede che il grande passato ci sospinga a più grande
avvenire.
Abbiate il mio fraterno saluto.
Or:. di Roma, li 12 giugno 1896 E:. V:.»
Ivan Mosca
◊ Il Massone
◊ L'Artista
Da Milano a Roma, da Siena a Parma, da Bolzano a Roccella Jonica, da Ventimiglia a
Pesaro, il Maestro Ivan Mosca ha tenuto Seminari in tutta Italia per venticinque anni: dal
1969 al 1994.
In quel quarto di secolo, migliaia di Fratelli si sono abbeverati e formati alla fonte della loro
stessa Arte: quella dei costruttori di sé stessi e degli edificatori del Tempio dell’Umanità
che l’istruttore Ivan, con la maieutica di una levatrice spirituale, aiutava a portare alla luce.
C'è chi subisce repentine battute d'arresto e sceglie di porsi a riparo, non oltrepassare altri
ostacoli preferendo fermarsi lì, sulla soglia del già visto senza pretendere altro dalla vita:
questo è il confine crudele, là dove giace immobile ogni curiosità e desiderio.
Nel caso di Ivan Mosca lo scorrere del tempo oltre a sedimentare, aggiungere ogni giorno
qualcosa, ha determinato un corso degli avvenimenti anomalo, là dove giovinezza e
saggezza convivono sotto il tiro radente di una luce particolare.
Giovanni Mosca (Ivan)
La Fratellanza
Capita spesso che la maggior parte delle “organizzazioni spirituali” si faccia promotrice e
perentoriamente stimoli il proprio affiliato ad esprimere in fretta quella che viene definita
“fratellanza”.
Vi sono anche religioni il cui obbiettivo è quello, appunto, di promuovere la fratellanza
universale mediante ciò che potremmo chiamare attivismo emotivo.
Quello della fratellanza non è un problema del presente, ma esso risale fino alla notte dei
tempi.
Le parole possono cambiare, ma il fondo rimane lo stesso.
Ora, tutto questo risponde a
verità, e non si vuole di certo confutarle.
Chi accetta la verità “una e senza secondo” non può che affermare l’unità della vita,
l’amore unitivo e il suo corollario, a livello umano, la fratellanza.
Il problema, dunque, non investe l’affermazione in sé, ma riguarda un altro aspetto di non
poca importanza: infatti, queste organizzazioni propongono generalmente tale problema in
linea solo teorica, in termini esclusivamente semplicistici, con enfasi emotiva e, come
prima si affermava, con un attivismo pressante da condizionare persino la libertà altrui.
In altri termini, all’individuo si dice: fai il buono, devi considerare gli altri come tuoi
fratelli, non devi far loro del male, ecc..
E queste frasi vengono elargite continuamente giorno dopo giorno, da millenni.
Eppure, malgrado tutto il vociare, l’individuo di oggi - in quanto a “cuore” (sentimento) non è che sia migliore di quello dei tempi di Cristo, dei Faraoni e giù di lì.
Ciò è una constatazione ancora più evidente dell’altra che si è enunciata all’inizio.
Certamente qualcosa non va o in chi dice queste cose o in chi le riceve o in entrambi.
E questa non può non essere un’altra evidenza.
Qualcuno può anche arrivare alla conclusione che l’idea di fratellanza non sussiste.
Eppure esiste.
E allora, perché la fratellanza non si attua malgrado venga proclamata, “reclamizzata” e
gridata ai quattro venti da millenni?
Una tale verità - che in definitiva costituisce il riflesso di un principio universale - perché
non prende corpo nel mondo del particolare e dell’individuale?
I motivi potrebbero essere
questi:
1)
Perché in chi l’afferma, essa rappresenta una parola vuota.
2)
Perché spesso la mente di chi l’ascolta non è ricettiva né adeguatamente preparata.
3)
Perché fin quando sussiste lo stato individuato (il “senso dell’io” contrapposto all’altro io)
non vi è possibilità alcuna di poter esprimere verità che appartengono a un altro ordine e ad
altre dimensioni dell’essere.
4)
Perché le “forze negative” fanno di tutto perché questa verità si dimostri esclusivamente
come un semplice e trito modo di dire propagandistico sentimentale.
Possono esserci altri motivi ma, per il momento, si prendano in considerazione questi
quattro punti. Naturalmente essi sono interrelati.
Prima di tutto, occorre ribadire che, sul piano umano, l’istanza di fratellanza è un effetto di
una causa la quale è di ordine principiale universale. Tale causa ha nome Amore.
Un corollario dell’Amore è proprio quello di considerare l’altro come parte di sé, perché
l’Amore fa comprendere e svela l’UNITA’ della vita.
Si è gocce dello stesso oceano, figli dello stesso PADRE-MADRE universali.
La Vita è unità indivisa, ma l’ “uomo decaduto” si è scisso da questo tutto indiviso e si è
costituito come ente autonomo, indipendente, isolandosi nella solitudine e nel conflitto.
L’Amore, poi, si appoggia a un altro principio universale che è la Conoscenza-sapienza.
L’Amore non guidato dalla Conoscenza-sapienza risulta una forza cieca, irrazionale: da qui
le varie passioni umane che sono amore degenerato.
Ma la stessa Conoscenza non infusa dall’Amore diventa infruttuosa, priva di fuoco, di
anima, di operatività.
Si può dire che questi due princìpi rappresentano una moneta a due facce, per cui si ha
Conoscenza d’Amore (Intelletto d’Amore) e Amore di Conoscenza (Amor intellectualis).
La fratellanza, nel campo umano, è frutto, quindi, della presa di consapevolezza della
Verità universale.
Laddove questa non c’è non può esserci effettiva espressione di Amore e quindi di
fratellanza.
Colui che ama percorre una doppia linea, l’una - quella essenziale - è rivolta al
“desiderio d’Amor divino”… «…cercando di dimostrare che la forza dell’amore non è altro
se non quella che conduce l’anima dalla terra agli eccelsi fastigi del cielo, e che non si può
arrivare alla somma beatitudine se non per la spinta del desiderio d’amore» (Platone,
Simposio) e questa linea implica un ENTRARE IN SÉ, uno sprofondare nella propria
Presenza, quale immagine sostanziale del divino.
L’Amore può divenire autenticamente attivo in chi è permeato di questa immagine
celeste.
L’altra [linea] - che è di ordine posteriore alla prima - è rivolta all’esterno; colui che ama
perché POSSIEDE l’Amore, si protende fuori di sé, si volge all’altro per compenetrarlo e
comprenderlo, avvolgendolo del proprio fuoco d’Amore.
Ma Amore - quello vero con lettera maiuscola - è desiderio di bene dell’Anima, perché è
Amore intelligibile che opera nell’immanenza, e il bene che possiamo offrire all’Anima
decaduta e in conflitto, all’Anima con le ali mozze, secondo l’espressione di Platone, è
quella di indicarle la via della sua salvezza, della sua trascendenza, è quello di ridarle le ali
per volare verso lo splendore del Bello divino.
Rimane ovvio che alcune cose, le quali appartengono al piano dei Princìpi, non possono
essere “reclamizzate”, o ripetute come slogan commerciali, o imposte, per il semplice fatto
che un Principio non è un “concetto”, una nozione o rappresentazione mentale da essere
donata come un oggetto.
Un Principio - e quello dell’Amore è un Principio - può essere solo COMPRESO,
INTEGRATO, VISSUTO.
E tutto ciò richiede la morte dell’egotismo, dell’egoismo e del “concetto” del dualismo
coscienziale.
Ciò, a sua volta, implica perfetta Realizzazione; in altri termini, comporta la “morte
iniziatica”.
Ma morire all’individuazione non è per tutti, perché “molti sono i chiamati, pochi gli
eletti”, per cui lungo il tempo ciò che si è dato all’individuo avido di sé stesso, e della
propria separatività è stato proprio il “concetto” mentale sfumato di fratellanza.
Però i concetti non sono la realtà, sono solo semplici immagini mentali, apparenze che non
producono niente; sono, in definitiva PAROLE CHE NON VIBRANO, perché la parola
che proviene esclusivamente dalla mente empirica, è parola morta.
Le concettualizzazioni servono sul piano della quantità non sul piano della qualità, quella
non può essere concettualizzata, ma REALIZZATA e VISSUTA.
Non si può concettualizzare la Conoscenza iniziatica, perché essa è Conoscenza d’Identità,
per questo riveste carattere simbolico; non può essere concettualizzata la stessa Volontà di
Bene, essa può essere solo evocata, realizzata, attuata.
Certe cose di ordine iniziatico possono essere trasmesse solo operando mediante influsso,
non tramite la concettualizzazione e, per di più, emotiva ed empatica.
Si sa, per evidenza, che il neofito, anche avanzato in campo mentale (anzi sono proprio
questi neofiti), aumenta la sua sensibilità psichica per cui - essendoci ancora l’io, e non può
non esserci - risulta essere molto reattivo.
Diventa persino fanatico delle sue idee-concetti, del suo sentiero, della sua dottrina.
E nel parlargli bisogna fare molta attenzione perché si offende facilmente e può diventare
anche violento.
Un grande Maestro ha detto che non c’è peggior egoista di un discepolo, non perché non sia
attivo, ma perché vuole offrirsi agli altri per appagare il suo “CONCETTO” di verità, per
gratificare la sua enfasi, le sue emozioni scomposte, il suo assolutismo, e questo
comportamento risulta ancor più sollecitato da pseudo-istruttori fino a portare il poveretto
all’alienazione.
Vi sono organizzazioni religiose che hanno imposto con la forza il messaggio dell’Amorefratellanza, mettendo al bando, isolando e persino uccidendo.
In verità, vi sono molti “dicitori” ma pochi “facitori”, secondo l’espressione di San Paolo,
ed è per questo che mancando i veri operai le messi vanno in rovina.
La mente di chi
ascolta, e poi la coscienza, spesso non recepisce il messaggio per due motivi:
1)
perché questo, esprimendosi in termini di semplice rappresentazione mentale, non parte dal
cuore, che solo sa comprendere, che intelligentemente sa donarsi, che armonicamente sa
vibrare, e quindi non può penetrare a livelli profondi di coscienza.
2)
Il neofito, non essendo totalmente pronto, deve essere in qualche modo preparato.
E qui interviene l’atto dell’Insegnamento, che si palesi con un metodo o un altro ha poca
importanza, purché risponda al “risveglio del cuore” del neofito.
Si è visto che il fiorire del Principio Amore implica la morte dell’io empirico separativo;
ora, questo atto - bisogna ancora ribadire - non è per tutti.
Non tutti sono qualificati (per quanto tutti lo siano potenzialmente) né disposti a
comprendere e trascendere l’io empirico per ritrovarsi nell’io ontologico.
Diremo ancora, non tutti vogliono o si sentono di amare veramente.
Molti discepoli guidati dal loro sentimentalismo emotivo proclamano a tutti
indiscriminatamente, con la parola e la penna, questo principio di fratellanza riuscendo a
stimolare semplicemente il fattore sentimentalistico, emotivo e quindi soggettivo egoistico
degli aspiranti e di tutti coloro che si accostano - anche per curiosità, per tornaconto o
compensazioni psicologiche - alle organizzazioni iniziatiche.
Ciò che si ottiene è quindi lo sviluppo di un sentimento prettamente soggettivo che opera
nella sfera dello psicologico e che è caratterizzato dal dualismo attrattivo-repulsivo.
Da qui il fanatismo e la passionalità unilaterale del neofito (la quale spesso si precipita a
livello della sessualità).
Ma l’Amore - e quindi il suo effetto, la fratellanza - come si è visto, non è un concetto, né
un sentimento soggettivo, è un Principio, è un’Idea, è una realtà ontologica che prescinde
da ogni dualismo soggettivistico e da ogni concettualizzazione dianoetica.
Ogni essere umano “sente” a suo modo e non vi è uno che senta in un modo uguale a un
altro.
Ma è certo che cose universali trasposte sul piano dello psicologico vengano snaturate,
perché l’io empirico se ne appropria , e allora non si ha più, ad esempio, l’espressione
dell’Amore, ma l’attuazione dell’amor di sé in quanto individualità separata e contrapposta.
Al posto della realizzazione del Sé si ha invece, o si crede di avere, la realizzazione dell’io
empirico (cosa, questa, impossibile nella manifestazione quaternaria).
E non vi sono le varie religioni che si contendono, a volte in termini non strettamente
verbali, lo stesso Iddio di Amore e Conoscenza?
E non avviene che in alcuni gruppi esoterici, anche iniziatici, si individualizzi e si fanatizzi
la Dottrina fino a contrapporsi ad altri gruppi?
Può capitare - e ciò non è raro - che un “gruppo spirituale” esoterico o persino iniziatico,
costituisca “un composto egoico” di straordinaria potenza che può essere capace di tutto.
Per quanto si possano offrire all’individualità le cose più sacre e più belle, essa ne formula
solo un “concetto”, poi s’illude di vivere la realtà che sta dietro il concetto.
«Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le pestino
con i loro piedi (e non zampe) e, rivoltandosi, vi sbranino» (Matt. VII,6).
E quando tale individualità, illusa di essere iniziata o di esprimere Amore e Conoscenza,
viene stimolata in un certo modo, si offende, reagisce e diventa anche violenta.
Lo stato individuato, appartenendo all’ordine del divenire, esprime solo “avere” e non
Essere, quindi aderisce a tutte quelle cose che possono essere possedute quantitativamente
le quali, rappresentando semplici oggetti (concetti, sentimenti, istinti, ecc.), non sono, né
possono essere.
Vi è ancora dell’altro, perché certe “forze negative” - che siano consce o inconsce ha poca
importanza, generalmente, quelle consce si servono di quelle inconsce - operano proprio
nell’ambito dello psichismo sentimentale laddove appunto si parla di fratellanza, di
“conoscenza passionale”, di amore soggettivo egoico, di fare del “bene”, di voler redimere,
a dir poco, tutta l’umanità per cui, stimolati adeguatamente, questi soggetti sono capaci di
fare le crociate verbali, per iscritto o anche di fatto, violentando persino il libero arbitrio di
ogni anima.
E’ così che nascono le lotte, le contrapposizioni, le violenze tra i vari gruppi spirituali e in
una stessa confraternita.
La fratellanza è solo un derivato del Principio dell’Amore; ma occorre comprendere che se
non si attua prima di tutto la captazione di tale Principio, se non si segue, in altri termini, la
linea verticale, quella orizzontale non può essere espressa.
Laddove non c’è realizzazione non può esserci espressione, attualizzazione di qualcosa.
Eppure tante organizzazioni e gruppi spiritualistici non fanno altro che incitare i propri
neofiti a fare del “bene”, a donarsi - in modo, si dice, disinteressato -, a non isolarsi, ma a
vivere nel mondo e con il mondo dell’inconscio collettivo, perché badare a sé - dicono loro
- è egoismo.
Ecco il rovescio della verità iniziatica.
Ecco la “forza negativa” come opera: costringere, o convincere, i veri neofiti a non
interessarsi di sé, in modo che non possano operare alcuna introspezione, non possano
conoscersi, non possano arricchirsi spiritualmente per evitare proprio di donarsi veramente
e utilmente.
Ma, si potrebbe dire, in che modo potrebbero donarsi, offrirsi se prima non hanno riempito
le proprie bisacce?
In che modo possono praticare la fratellanza se prima non hanno scoperto, con la
“realizzazione” e con l’attualizzazione delle loro potenzialità, che cosa sia l’Amore e la
fratellanza?
In che modo possono offrire l’Arte (iniziatica) se prima non vanno a scuola per impararla?
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Laddove c’è ignoranza là c’è un potenziale canale per le “forze negative”.
Bisogna anche
dire che oggi l’ “aura sociale” tende al raggruppamento, allo spirito di gregge,
all’ammassamento, al condizionamento di gruppo, all’attivismo sociale, all’oggettivazione,
per cui un individuo si sente già in conflitto se riesce a stare una mezza giornata in casa per
documentarsi e prendere consapevolezza delle proprie incompiutezze, lacune, o del proprio
imperituro Sé.
Però, le autentiche tradizioni iniziatiche sostengono che il fine dell’uomo è la conquista del
“Sapere indefettibile”, attraverso gli stadi meditativi e contemplativi.
L’attivismo è un fenomeno prettamente profano e soprattutto dell’epoca recente, per cui
anche le organizzazioni spirituali, purtroppo, soffrono di questa spinta dell’inconscio
collettivo, ritardando così o impedendo addirittura, il conseguimento, ai loro aderenti, dello
stato beatifico di totale armonia che l’uomo ha potenzialmente in sé. In definitiva, il
problema di fondo non consiste in “che cosa fare”, ma in “che cosa essere”.
La ricerca spirituale non è un modo di “avere e ottenere” qualcosa (gratificazioni dal e del
fare), ma un Modo di essere nel Semplice e nel Silenzio; e la più alta contemplazione è
appunto quella che porta al Silenzio metafisico, il quale si dimostra anche come autentica
creazione vivente (Plotino, Enneadi III, 8, III; Platone, Fedro; ecc.).
L’agire riguarda l’individualità, la sfera dei rapporti interpersonali, nella quale si colloca il
dualismo conflittuale.
«L’azione, pertanto, sussiste per virtù della contemplazione e della visione; tanto è vero che
anche per coloro che agiscono, la finalità è la contemplazione: come se essi, impotenti a
raggiungere qualcosa per via diretta, cerchino poi di conquistarla con un giro smarrito»
(Plotino, Enneadi III, 8, VI).
Il vero e giusto agire nel mondo dell’individuale deve essere in accordo con i doveri morali
e religiosi universali.
Ma se non si ha la Visione universale - frutto di realizzazione (ossia la conoscenza della
legge causale, degli elementi, delle entità) - in che modo si potrà giustamente agire?
L’attuale civiltà si è degradata completamente sul piano del fare e del produrre (dominio
della quantità) riducendo l’uomo a semplice elemento tecnico-metallico-riduttivo; ciò che
costituisce il trionfo della “prassi del materialismo” - sulla qualità - dell’Anima e
dell’intelligibile, per quanto qua e là si possano avvertire segni di qualche ripensamento.
Ora, gli aspiranti alla pura Conoscenza dovrebbero fare attenzione a non essere coinvolti da
questo attivismo quantistico e del “fare” esclusivamente sentimentale che impera
nell’inconscio collettivo e che porta ineluttabilmente nella sfera delle apparenze e sempre
più a dimenticarsi del Sé verso cui invece deve tendere il dovere primo e ultimo del nostro
esistere.
L’Amore è un Principio universale, principiale che non tocca il mondo delle forme e dei
composti, ma il mondo delle Anime, esso sta dietro alle apparenze per cui è frutto di ascesi
e di realizzazione.
L’Amore implica unione: è anche sete ardente del Divino in noi.
Esso è l’agente magico che ti consente di compiere e saturare le fasi dell’Opera.
Ricorda che l’Amore muove e unifica le sostanze dell’Opus, mentre la Volontà dona forza
concentrata e determinata, e l’Intelligenza direzione saggia [Vedi appunti sulle 12 fasi
alchemiche e la realizzazione del 7° assioma (Amare)] e l’unione non può essere operata
sul piano formale individuale: in questo ambito si può avere accoppiamento, si può avere
simpatia emotiva, si può avere solidarietà e partecipazione sentimentale (tutte cose spaziotemporali), ma non unità perfetta che appartiene a una dimensione sovraindividuale, ed è di
là dal tempo e dallo spazio.
Solo chi si è unificato può comprendere tutti gli altri (dentro di sé); ma per unificarsi
occorre proprio uscire da quell’inconscio collettivo, fatto di individualità passionali, come
bisogna uscire dallo stesso piano del sensibile.
Solo quando si è riconquistata l’unità, e quindi la Conoscenza e l’Amore immortali, solo
allora ci si può “immolare” nel mondo degli uomini e dell’inconscio collettivo.
Tentare di risolvere i problemi dell’individuato è come voler svuotare gli oceani con un
catino bucato.
La problematica esistenziale individuata è duale e appartiene alla sfera del divenire e
dell’impermanenza, quindi essa non può essere risolta.
Eliminato un problema ne nascono altri due, risolti questi due ne appaiono altri ancora - e
ciò è un’evidenza - studiando il mondo della individualità dal suo apparire su questo piano
di vita. Si può concludere che il problema che nasce dall’individuato non può essere risolto,
ma semplicemente trasceso e per trascenderlo occorre arrivare a quell’unificazione di sé a
cui prima si è fatto cenno.
Nel mondo dei Princìpi non vi sono problemi, perché vi sono solo verità da svelare.
I
problemi nascono nel mondo del duale psicologico, del movimento dell’illusione o
dell’ignoranza, del divenire, del desiderio e dell’irrequietezza del dubbio e della rinascita,
non nel mondo dell’Essere.
E per quanto si cerchi di armonizzare tale problematica, tuttavia, non si può dire di
risolvere la problematica esistenziale del composto individuato, perché questo - in
definitiva - può essere risolto solo con la sua… soluzione, con la sua morte (morte
iniziatica) e anche con la vera che è la sola “iniziatica”.
Per attuare e svelare l’Amore unitivo, e di conseguenza la fratellanza nel campo umano,
v’è un preciso sentiero realizzativo da percorrere e necessitano qualificazioni preliminari
senza le quali di certo si va incontro al fallimento.
Quindi, sarebbe opportuno non avere istanze velleitarie premature di voler redimere l’intera
umanità né di promuovere “catene affettive sentimentali” per aiutare individualità che
ancora abbisognano del piano e delle esperienze del sensibile e per le quali esistono già
istituti sociali che rispondono adeguatamente ai loro bisogni contingenti.
Non si può dare ciò che non si ha.
I più sperano di dare ciò che non hanno. I più sperano
di dare senza possedere; l’io empirico vive e si perpetua nell’illusione.
Non cercare di “trasformare” gli altri.
Trasforma te stesso.
Solo la tua compiutezza rende “compiuto” lo spazio di vita che ti circonda.
Sono sempre gli altri!
Che vengano di destra o di sinistra, che siano abbienti o poveri, forti o deboli, di età matura
oppure che siano giovani: se in qualche occasione si abbia un errore, un cedimento, un
disagio ovvero un danno rilevante, subito è sull'altro che si punta il dito.
Perché la colpa è sempre dell'altro.
Questo modo di fare proviene da quella impostazione insita nell'uomo, secondo cui è
sentita la necessità di liberarsi dalla colpa, presupponendo che addossandola a un altro ci se
ne sia liberati e ci si senta senza macchia.
É un errore.
É assolutamente sbagliato.
Chi attribuisce a un altro la colpa, non è che la tolga di mezzo: provoca, invece, soltanto
litigi e contrasti inutili.
Che cosa è quel che si chiede per primo al Libero Muratore?
"Conosci te stesso".
Vale a dire, cerca sempre dapprima presso di te, dove potrebbe trovarsi la colpa o almeno
una parte della colpa.
Quel che si chiede non è di lavorare alla pietra grezza del prossimo, del Fratello, ma
solamente sulla propria, che purtroppo è così spesso una pietra molto grezza e informe.
Se il Libero Muratore vuole - e sia pur anche in parte estremamente esigua - migliorare
appena un poco il mondo, quando ricerca errori e difetti, incominci da se stesso.
Così è propiziato uno straordinario effetto: si viene colti dalla singolare sensazione, perfino
rallegrante, di sentirsi liberi.
Colpa riconosciuta è colpa vinta.
Non uniformiamoci alle maniere dei politici che, a quanto sembra, mirano a umiliare
l'avversario non appena possono.
La Libera Muratoria è un modo di vivere che scaturisce dalla Fratellanza, sicché ciascun
Fratello, volgendosi a questo fine, cercherà la colpa incominciando da sé.
Così si apre la via all'amicizia!
L'Artista
◊ I Segni. Un Cammino
◊ Una selezione delle sue Opere
◊ Gli amici e le caricature
C'è chi subisce repentine battute d'arresto e sceglie di porsi a riparo, non oltrepassare altri
ostacoli preferendo fermarsi lì, sulla soglia del già visto senza pretendere altro dalla vita:
questo è il confine crudele, là dove giace immobile ogni curiosità e desiderio.
Nel caso di Ivan Mosca lo scorrere del tempo oltre a sedimentare, aggiungere ogni giorno
qualcosa, ha determinato un corso degli avvenimenti anomalo, là dove giovinezza e
saggezza convivono sotto il tiro radente di una luce particolare.
Giovinezza dei suoi novant'anni.
Giovinezza di quegli occhi capaci sempre di stupirsi per abbandonarsi come un bambino al
sogno, perché oggi occorrono sogni per sconfiggere la morte.
Ivan fu artista completo, perché visse nella certezza di poter vivere ed esplorare ogni giorno
un territorio fatto di segni e tracce di colore e materia; ed è proprio questo che fa di ogni
uomo comune un artista.
Ivan Mosca è nato a Parma il 14 gennaio 1915. Vissuto fino all'età di ventun anni a Milano,
ha frequentato la Scuola del Libro all'Umanitaria e, successivamente a Monza, la Reale
Accademia delle Arti Figurative.
Negli anni '30 è attratto dall'esperienza astratto-lineare degli artisti che lavoravano con la
Galleria Il Milione come Soldati, Licini, Rho e Radice il cui linguaggio è volto alla
restituzione in termini pittorici e materici di realtà trascendenti.
All'indomani della fine dell'ultimo conflitto, l'artista elabora i termini di una personale
visione pittorica dove l'espressionismo - comune matrice storica di molti artisti della sua
generazione - sembra stemperarsi, liberandosi delle sue terminologie più esasperate,
nell'uso di una sintassi poetica lirica e soggettiva coniugata con l'impiego di un impianto
realistico-figurativo.
I lavori degli anni '40, come le opere esposte nella personale alla Galleria Sant 'Agostino
(1947) o alla Galleria del Secolo (1949), costituiscono una personale e personalizzata
riflessione sulle potenzialità evocative di un linguaggio metaforico ed ultraterreno che apre
a visioni su mondi interiori, geograficamente lontani, oniricamente universali.
Lontano, nello spirito così come nel carattere, dalle dispute polemiche riconducibili ad una
tendenza che così fortemente hanno condizionato negli anni '40 il neo-espressionismo della
Scuola Romana della seconda generazione, Mosca ha saputo compiere dalla metà degli
anni Quaranta scelte ed imprese coraggiose, guardando oltre, spinto dalla curiosità e da una
felice intraprendenza pittorica così distante da qualsiasi speculazione intellettuale o
stilistica.
Un universo in espansione che verrà attraversato con passo sicuro, senza remore o
incertezze, come testimoniano gli ampi cicli pittorici e narrativi realizzati all'indomani del
1936, data del suo trasferimento a Roma.
Lo sviluppo emotivo ed emozionale di un'immagine simbolica verrà interrotto nel 1943,
anno della sua trasferimento in Francia.
Ma la pesantezza e la drammaticità di questi eventi verranno, come dire, metabolizzati,
riconvertiti in termini positivi e solari dalla sensibilità di quest'artista che, tenacemente e
caparbiamente proprio negli anni dell'espatrio, riesce a riformulare l'apparizione di un
mondo visualizzato in materia pittorica.
Dal 1945, anno del suo definitivo rientro in patria, Ivan Mosca partecipa ad avvenimenti
artistico-culturali di rilevanza internazionale come testimonia un fitto cammino esplorativo
costituito da mostre personali e collettive realizzate in Italia ed all'estero.
Quella di Ivan Mosca è una presenza anomala nel panorama dell'arte del suo tempo: la
particolarità di alcuni suoi soggetti, il modo di esprimerli od abbandonarli repentinamente,
sono i segni più evidenti di un' inclinazione dello spirito volubile e personale rischiarata
dalla capacità di individuare temi e presupposti narrativi restituiti in visioni naturali colte in
uno stato di sospensione onirica e visionaria.
E la favola infinita di Ivan Mosca è dopotutto il racconto autobiografico di quell'insetto
ribelle e caparbio che non si lascia catturare dalle maglie di un unico registro compositivo
per poi fuggire poco più in là, dove l'astrazione e la materia lo consentono, dove è possibile
vivere e ricordare nel tepore sommesso della pittura.
Un insetto, per Ivan Mosca, non è mai uguale ad un altro dal momento che Ivan interessato
agli occhi ed al cuore di quell'insetto così vicino al cuore di ognuno di noi.
Spirito nomade ma non randagio quello di Ivan Mosca, l'astrazione pittorica che
caratterizzerà i lavori nel decennio 1940/50 è la dimostrazione più evidente di un cammino
faticoso, in salita, comunque segnato dalla curiosità per la scoperta di un mondo naturale in
continua metamorfosi.
Ed un'estrema versatilità - che dopotutto è soltanto capacità innata di praticare i differenti
linguaggi dell'arte - caratterizza in questi anni i lavori di Ivan Mosca che catapultano
l'osservatore all'interno di un'allegoria multipla del mondo naturale riassunto nel suono di
una sola parola che è frammento, pura astrazione lineare e mentale che taglia come una
ferita l'intero percorso pittorico del mondo, fino a far riemergere dalle ceneri dell'Araba
fenice-astrazione l'ombra di un'iconografia del cuore che riaffiorerà nella pratica del
disegno, della pittura, della grafica seguendo le tappe di un percorso evolutivo che sorpassa
in velocità i confini dell'esperienza del Novecento.
Negli anni '50 l'artista partecipa a grandi progetti espositivi esponendo vicino ad artisti
come Giorgio Morandi, Massimo Campigli, Alberto Burri (v. la mostra "Eterna
Primavera" , 1954) e Afro, Music, Gino Severini, Fausto Pirandello, Renzo Vespignani (v.
la mostra "Trend in Contennporary Italian Art", San Francisco, 1955), fino ad arrivare alle
grandi rassegne internazionali curate da Palma Bucarelli a Barcellona ("Exposicion de
Peintura Italiana Contemporanea", 1955) dove Mosca esporrà i suoi lavori accanto a quelli
dei grandi maestri dell'avanguardia storica (Umberto Boccioni, Luigi Russolo, Ottone
Rosai, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Scipione, Massimo Rosai, Andrea Savinio, Filippo
De Pisis) o ai pionieri dell'astrazione italiana (Alberto Magnelli, Atanasio Soldati, Corrado
Cagli, Giuseppe Caporossi, Antonimo Corpora, Giuseppe Santomaso, Toti Scialoja) o agli
esponenti del tardo realismo (Renato Birolli, Giovanni Sadun).
Nella seconda metà degli anni '40 datano una serie di importanti mostre realizzate sia in
gallerie storiche (cfr. Il Cortile, Roma 1946-47; La Gregoriana, 1948) che in spazi
istituzionali (Cama della Cultura, Roma 1945; Palazzo Venezia, Roma, 1947; Museo di
Valle Giulia, 1948; Palazzo Torlonia, 1948; Palazzo delle Esposizioni (1953, 1955).
Sempre in questo decennio Ivan Mosca partecipa attivamente alle esposizioni dell'Art Club
(1947, 1949).
Dagli anni '50 agli anni '90 Ivan Mosca è impegnato nella realizzazione di grandi mostre
personali e collettive realizzate sia in Italia (Milano, 1948-49, 1962, 1966) che all'estero
(Londra (1960, 1966,), New York (1960/63), Zurigo (1960), Filadelfia (1960-61),
Washington (1955, 1958, 1961), San Francisco, (1954-55, 1959,), Sidney (1955), Chicago
(1952/54), Los Angeles (1955, 1959), Stoccolma (1955), Tangeri (1954), Pittsburg (1961),
Montreal (1963), Boston (1955-56, 1962)s Bogotà (1955) Praga (1949), Budapest (1949),
Praga (1947), Parigi (1963), Palma di Maiorca (1965), Berna (1957) Milano (1957, 1966)
stringendo sempre di più il rapporto con la terra e la cultura spagnola come testimoniano le
numerose quanto significative presenze in spazi espositivi di rilevanza internazionale a
Barcellona (1952s 1955-56, 1962, 1964-65, 1973, 1990), Santander (1957, 1965-66),
Madrid (1951/53 1954), Saragozza (1952).
Ma sicuramente il sodalizio più importante per l'artista è quello stabilito con la Galleria Il
Secolo (1949) e con la Galleria L'Obelisco di Irene Brin e Gàsparo del Corso.
A Roma la Galleria L'Obelisco è stata sicuramente un punto di riferimento per gli artisti che
operavano nell'ultimo dopoguerra.
Punto di incontro e confronto tra differenti linguaggi e generazioni dell'arte, luogo di accesi
dibattiti artistico-culturali, la galleria è stata una sorta di trait-d'union tra l'arte statunitense e
l'astrazione italiana.
Sia nella sede romana che successivamente in quella di Washington, la galleria L'Obelisco
è stata una vera e propria officina culturale con un progetto diversificato di scambi, transiti
e relazioni tra Europa ed America.
Nel decennio 1950/1960 Mosca esporrà a più riprese sia alla Galleria L'Obelisco (Roma,
(1952/54, 1955s 1957, 1960-61) che all'Obelisk Gallery (Washington,1952-53, 1958,
1961).
Tra la seconda metà degli anni '40 e '50, Ivan Mosca esporrà alla Quadriennale d'Arte di
Roma (1948, 1955, 1957).
Certo è che il gioco dell'ironia e dell'esplorazione del futuro resteranno per Ivan Mosca bambino con il viso segnato da qualche ruga di gioia - quell'ombra silenziosa che lo ha
accompagnato negli anni e che ancora lo condurrà attraverso le onde impetuose di un nuovo
secolo che si delinea incerto sull'orizzonte instabile di ognuno di noi.
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