Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente.
ano VI - numero 48
Lettera al futuro
Don Milani
Gennaio / 2005
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Gennaio / 2005
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Dicembre / 2007
Istituto Italiano di Cultura
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
L’enjambement nella
poesia di Edoardo
Cacciatore: l’apertura
della forma chiusa
www.comunitaitaliana.com
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Direttore dell’IIC
Rubens Piovano
Editore
Marco Lucchesi
Redattore
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Grafico
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(stagista); Luana Rosa (stagista); Paulo
Ponteiro (stagista); Thalys Pontes (stagista)
COMITATO EDITORIALE
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Savino; Everardo Norões; Floriano Martins;
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Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda
Papaleo Ruffo; Luciana Stegagno Picchio;
Maria Helena Kühner; Marina Colasanti;
Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio
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Gruppo di Traduzioni
Antonella Genna; NUPLITT - Núcleo de
pesquisa em literatura e tradução da UFSC
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Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan,
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Editora Comunità Ltda.
ISSN 1676-3220
2
Giovanni Zambito
Lena Jesus Ponte
Pousa a ave no mármore.
Num leve tremor, a estátua
sente o que é ter vida.
Posa l´uccel sul marmo.
In un lieve tremore, la statua
prova ciò che vuol dir vita.
Nato a Palermo il 18 novembre 1912 da genitori agrigentini, Edoardo Cacciatore si trasferisce
con la famiglia a Roma nel 1917, dove, fino alla morte il 25 settembre 1996, vive in maniera
sempre appartata insieme alla moglie Vera Signorelli, anch’ella scrittrice, con la quale
frequenta l’ambiente artistico e letterario romano e internazionale. Il trauma della morte del
fratello nel 1928 contribuisce a indirizzare il suo interesse alla riflessione filosofica, pratica
intellettuale costante nella sua vita che, unita indissolubilmente all’ingente attività poetica,
segna uno dei tratti distintivi fondamentali della sua produzione e, insieme, uno dei principali
motivi della sua pressoché totale emarginazione dal panorama critico-letterario italiano.
L
ungo tutta la parabola della sua esperienza
poetica egli si è sempre mosso esclusivamente all’interno delle forme chiuse, regolate da sistemi di norme fisse, contribuendo al
contempo ad allargarle, ampliandone gli orizzonti e le potenzialità. Il rispetto rigoroso dei
canoni metrico-formali da parte sua è accompagnato da forme fluide che consistono in un
inedito sistema strofico, metrico e rimico attraverso il quale reinventa e rimodella tecniche
scrittorie che si avvolgono in spirali di suoni,
eco e ritmi, dando a quelle forme movimento e dinamismo, un aspetto rigenerato, nuovo
nella sua esagerazione formale. Ma è soprattutto il loro significato teorico-poetico che è
cambiato: lo scopo di un uso così insistito e
inflessibile di forme regolate non è più tanto
estetico, quanto funzionale al progetto globale della scrittura, ovvero una via pionieristica
di conoscenza. Lo stesso Cacciatore afferma
“Se ad ognuno è lecito incarnare l’espressione
poetica nella forma arbitrariamente più prediletta, tuttavia è giusto asserire la forma chiusa
esser proprio quella che può procurare il massimo di apertura conoscitiva”. La forma chiusa
allora, lungi dall’essere considerata una gabbia restrittiva che impedisce la libera espansione dell’Io lirico, appare al contrario una fertile
trama di rapporti che gradualmente s’instau-
ra nel processo della scrittura; una costruzione dove le rispondenze foniche, ritmiche e rimiche stabiliscono una novità di legami che
garantisce al testo “il massimo di apertura conoscitiva”. La chiusura dunque risulta sempre
funzionale e prodroma di un’apertura, giustificata e anzi generata dai meccanismi artificiosi della forma chiusa, in modo che secondo
Tommaso Ottonieri “ogni chiusura schiuda un
margine ulteriore, da cui revertire il senso non
appena lo si sia acquisito”.
Tra le raccolte poetiche di Cacciatore La
puntura dell’assillo è quella sicuramente meno articolata e complessa rispetto alle altre (La
restituzione, Lo specchio e la trottola, Ma chi
è qui il responsabile): un’unica forma fissa già
esistente e ben collaudata si snoda in cinquantuno sonetti elisabettiani, composti di tre quartine a rima alternata e un distico finale a rima
baciata, non più però di endecasillabi ma di
dodecasillabi. Ogni verso è formato da due senari, ciascuno accentato sulla seconda e sulla
quinta sillaba: i tempi forti in posizione fissa
consente un rilievo particolare all’elemento
ritmico al quale viene conferito un peso gnomico eccezionale.
La frase disposta all’interno della struttura
ritmica crea un divario programmatico tra metro e logica discorsiva e consegue l’obiettivo di
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una lettura straniante, orientando la fruizione
a una consapevolezza della difficoltà e della
non immediata univocità del segno linguistico.
Strumento retorico principale di tale strategia scritturale è l’enjambement che consente lo scivolamento semantico di un verso nel successivo, con un senso derivante di
apertura e fluidità: Cacciatore lo porta al più
alto livello di efficacia, là dove il battere deciso del metro, a fine verso, lavora a contrasto; da qui un effetto suggestivo e fertile sbilanciamento.
Ecco alcuni esempi:
Da L’energico impatto (VII): vv. 3-4
Di pianto fa subito riso e sussiste/
Assiduo
Da Il saliscendi ilare (VIII): vv. 1-2 e 8-9
Ne avverti il fruscio seppure non tendi/
L’udito a distanza
Da Il cibo croccante (IX): vv. 1-2
Nel buio è esitante splendore di lucciola/
sospesa a ramengo
Da Laboriosità dell’ozio (X): vv. 3-4
Si finge una tappa ma in pratica stasi/
È studio di chi tende agguati
Da Gran festa efferata (XIV): vv. 1-3
Per giuoco vistoso falò cosa grata/
Pareva in principio ma poi era rogo/
Che i visi scartoccia…
Da Molteplicità dell’unico (XIX): vv. 3-5 e 7-11
Funziona da perno ed ecco è la gente/
D’accordo nell’atto preciso di darti/
Notizia che sei quell’uno tra i molti
Ottieni e ridai agli altri una spinta/
Retrograda…
Da Costanza dell’agire (XXI): vv. 4-5
Ti àlteri e agisci altrimenti è la legge/
Dell’Essere…
Da Divieto di transito (XXIV): vv. 1-2
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La targa d’avviso al pubblico dice/
Divieto di transito…
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Don Milani:
Lettera al futuro
Da Intelletto (XXV): vv. 11-12
Sull’attimo subito innalzi una scala/
Armonica…
In questi, come in tanti altri casi, l’enjambement tende a farsi assidua cerniera tra i versi, coinvolgendone spesso più di due, formando una struttura serpentina. Nel sonetto XXXI,
Febbribile è il senza, addirittura ogni verso
s’inarca in quello seguente, attraverso legami forti soggetto-verbo, sostantivo-attributo,
sostantivo-complemento di specificazione.
L’inarcatura è poi tanto più efficace quando il
senso viene stravolto o modifica il suo segno
nel passaggio di verso, provocando un vero
terremoto nella lettura che deve prontamente
deviare le proprie supposizioni interpretative.
Tale contatto stretto con i sussulti del metro porta a una straniante arbitrarietà della costruzione del periodo, a quella che Marcello
Carlino chiama “una pronunciata ‘inquietudine’ semantica”, che è però anche garanzia del
permanere nel verso, nonostante la martellante fissità degli accenti, di una notevole mobilità interna, che consente slittamenti, fratture,
unioni foniche e semantiche, un fluire aspramente musicale delle parole del sonetto.
In questa maniera la griglia fissa della forma
chiusa non è affatto una gabbia costrittiva ma diventa fattore di apertura conoscitiva infinita. Le
rime, dispositivi meccanici imprevedibili, trappole acustiche e visive, acquistano un enorme potere di cambiare volto alle parole, vitalizzando ciò
che da solo era esangue e non comunicativo.
La forma chiusa come nel caso cacciatoriano è in grado di provocare incontri della lingua inaspettati, contatti inediti ed insoliti tra le
parole accrescendo e rimandando gli orizzonti
immaginativi e conoscitivi del lettore, spiazzandoli e ampliandoli di continuo con la violenza della sorpresa.
Bibliografia
E. Cacciatore, Carichi pendenti, Lubrina, Bergamo, 1989
E. Cacciatore, Itto Itto, Manni, Lecce, 1994
E. Cacciatore, Tutte le poesie, Manni, Lecce, 2003
F. Fusco, Estetica verso noesi in Edoardo Cacciatore, in “il
verri”, n.42, 2002
F. Fusco, Compositio illimitata e ricerca del Livre, in E. Cacciatore, Tutte le poesie, cit.
T. Ottonieri, Ricordo di Edoardo Cacciatore, in “Poesia”, n.
102, 1997
«Quaderni di critica» (a cura di), Edoardo Cacciatore: la rivoluzione poetica del Novecento, Roma 1997: saggi sull’intera parabola letteraria di Cacciatore di C. Bello, F. Bettini,
I. Capotondi, M. Carlino, R. Di Marco, G.R. Hocke, M. Lunetta, L. Malerba, M. Manganelli, S.M. Martini, F. Muzzioli,
G. Patrizi, M. Perriera
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L
orenzo Carlo Domenico
Milani Comparetti nasce a
Firenze il 27 maggio 1923
in una famiglia ricca di cultura oltre che di denaro. Quel
“Comparetti” gli viene da un
bisnonno paterno: Domenico,
filologo tra i maggiori dell’Ottocento, senatore del regno
in riconoscimento dei meriti scientifici, morto nel 1927
a 92 anni (Lorenzo ne aveva
4) senza discendenti maschi.
Per rispettare le sue volontà i
nipoti, figli dell’unica figlia, e
i pronipoti, aggiunsero al proprio il cognome di Comparetti. Affettuoso è il ricordo che
Lorenzo conservò del bisnonno e proprio da questo grande studioso, appassionato della lingua e della parola, forse
don Lorenzo ha acquisito la
consapevolezza della grande
potenzialità che la lingua ha
nel cammino di riscatto dalla
povertà e dall’emarginazione.
Ordinato sacerdote il 13
luglio del 1947, dopo un brevissimo incarico nella parrocchia di Montespertoli, don
Lorenzo Milani viene mandato cappellano a San Donato di Calenzano, in aiuto del
vecchio parroco. Qui scopre due realtà assolutamente
nuove per lui, e inaspettate: la
povertà, materiale e culturale;
la mancata, o perduta, cristianizzazione. Si trova così a dover impostare e risolvere un
problema cui gli studi teorici del seminario non l’hanno
preparato: come fare concretamente il proprio mestiere di
prete secolare, in coerenza
col Vangelo e con la propria
scelta esistenziale e di fede.
Dopo vari tentativi di approccio che presto gli si rivelano
sbagliati, decide di impiantare
in canonica una scuola serale
aperta a tutti i giovani, senza
discriminazioni politiche o
partitiche purché di estrazione popolare e operaia. Con
questa scuola, di giorno in
giorno più intensa, appassionata e appassionante, ma non
soltanto con essa, in breve
tempo si tira addosso prima la
diffidenza poi l’aperta ostilità
dei parrocchiani che contano,
benpensanti moderati, democristiani in testa; e di molti altri preti della zona.
Ha presto inizio così una
campagna prima di opposizione sorda, poi di diffamazione aperta che dopo sette
anni, nel dicembre del 1954,
culmina in una “promozione”: la nomina a priore di
Sant’Andrea di Barbiana, parrocchia nel comune di Vicchio del Mugello: un centina-
io d’anime in una manciata di
case sparpagliate sulle pendici del monte Giovi, senza
strada, senz’acqua, senza luce. La curia, rimangiandosi la
decisione di chiusura annunciata, decide di tenerla aperta
per esiliarlo lassù.
Già a San Donato, Don
Milani ha fatto una scelta di
povertà austera, che a Barbina si radicalizza, fino al rifiuto di gestire il podere costituente il “beneficio” della
parrocchia. Campa della sola
“congrua”: il magro stipendio
statale assegnato,col concordato del 1929, ai preti. Dalla
famiglia, e dagli amici vecchi
e nuovi, accetta soltanto, e
all’occorrenza sollecita, aiuti per il lavoro della scuola e
per la salute dei suoi ragazzi,
spesso minata dalla miseria
secolare e dalla denutrizione
ancestrale della gente della
montagna: la guerra è finita
da una decina d’anni appena, il “miracolo economico”
dell’Italia non arriva ancora
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in vetta all’Appennino. Gli
servono libri, enciclopedie,
atlanti e carte geografiche, dischi e giradischi a molla o a
pile, macchine per scrivere e
calcolatrici, cancelleria, utensili. Ha bisogno, per i suoi ragazzi, di medicine, vitamine,
ricostituenti, analisi ed esami
medici, cure dentarie. Denari,
ne chiede per i viaggi all’estero, quando d’estate manda i
ragazzi, a turno, a imparare le
lingue e la vita degli altri popoli. Ma unicamente i denari
per il biglietto meno costoso: a
mantenersi devono provvedere da soli, lavorando. La vita a
Barbina scorre austera come
in un monastero in cui il tempo è prezioso e non deve essere sprecato, con l’obiettivo
di dare strumenti intellettuali
e linguistici ai senza voce del
suo tempo. Tutto sarà scuola
in questo angolo di Appennino, tutte le esperienze saran-
no dettate dal grande amore
di don Milani per i suoi ragazzi, piccoli e disarmati, da riscattare ed emancipare.” Ho
voluto più bene a voi che a
Dio, ma ho speranza che lui
non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto
al suo conto.…”, così diceva
don Milani sul letto di morte,
testimoniando il grande legame affettivo, da maestro ed
educatore, che aveva con i
suoi ragazzi. Nel 1958, in primavera, esce Esperienze pastorali, il suo primo e unico
libro, del quale, a dicembre,
il santo Uffizio ordina il ritiro
dal commercio. Nel 1960 avverte i primi sintomi del morbo di Hodgkin.
Nel 1965 replica pubblicamente agli insulti rivolti da un
gruppo di cappellani militari
agli obbiettori di coscienza, e
si guadagna un rinvio a giudizio per vilipendio e apologia
di reato. Impossibilitato dalla
malattia a presentarsi in tribunale, scrive la propria autodifesa, resa pubblica alla prima udienza del processo: è la
Lettera ai giudici. Nonostante l’aggravarsi della malattia
prepara “La lettera a una professoressa” che, come spiega
Agostino Ammannati ‘non è
un libro di pedagogia. E’ un
libro civile: riguarda la civitas
che deve migliorare’, in cui
si analizzano, con una prosa
incalzante, asciutta ed incisiva i mali della scuola italiana:
una rampogna agli intellettuali al servizio di una sola classe, scritta collettivamente dai
ragazzi della scuola di Barbiana e che verrà pubblicata
nel maggio del 1967.
a cura di Primetta Bertolozzi
Dirigente Scolastico
Istituto Comprensivo
Massarosa 1
San Donato di Calenzano:
la prima parrocchia
A
S. Donato don Milani dà
inizio ad una attività che
caratterizzò in modo notevole la sua figura: la scuola popolare. Per capire come
funzionasse la scuola popolare di don Milani a S. Donato, occorre leggere le pagine
di Esperienze pastorali. Don
Milani avverte lo stato di arretratezza culturale dei suoi
parrocchiani; egli vede come
l’ignoranza sia la causa prima
dei loro mali. I poveri non riescono a far valere i loro diritti
perché mancano del linguaggio occorrente per discutere
da pari a pari con i borghesi.
La loro ignoranza li ha chiusi
6
in una religiosità del tutto formale, che rende impossibile,
da parte del sacerdote, il dialogo capace di penetrare nelle
anime, di mirare ai valori essenziali della dottrina di Cristo. È dovere del Sacerdote,
secondo don Milani, aiutare
i giovani ad uscire da questa
ignoranza. Alla scuola vengono ammessi tutti i ragazzi che
lo desiderino, indipendentemente dal loro atteggiamento religioso o dalla loro fede
politica. Nel volume Lettere
alla mamma è riportata la minuta di una lettera (forse mai
spedita) al Cardinale Arcivescovo, datata 29-4-53; in essa
don Milani difende il suo operato da accuse che erano state fatte nei suoi riguardi presso la Curia. A proposito della
scuola popolare egli scrive:
“La grandissima maggioranza
dei giovani ha frequentato la
nostra Scuola Popolare. Comunisti e democristiani han
seduto per sei anni sugli stessi
banchi sotto l’influsso profondo di un prete che non ha fatto nulla per vincerli ma neppure per convincerli. Così è
per molti caduto il muro della
divisione, per quasi tutti l’idolatria dei partiti e dei giornali, in tutti cresciuta la stima
per l’oggettività inattaccabile
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di quel prete. Mi si accusa di
non avere in classe il Crocifisso e che in classe non parlo
mai ex professo di religione.
Prima di trovarci a ridire bisognava esaminare con serenità
gli scopi e i risultati. Il numero dei giovani che frequentano i Sacramenti e il loro venirci da sé senza organizzazione né invito né occasione
festiva o periodica, prova che
l’influenza della scuola è stata profondamente religiosa
anche senza quel contorno
esteriore” .
Si incomincia a intravedere la natura del contrasto che
stava sorgendo tra don Milani da un lato e gran parte del
mondo ecclesiastico fiorentino dall’altro: l’atteggiamento di fronte ai partiti politici, e in particolare al Comunismo. In una lettera del 13
agosto 1949 egli parla di una
vivace discussione con alcu-
7
ni confratelli del Vicariato sul
problema del negare o meno
i sacramenti, e in particolare
il matrimonio, ai comunisti.
Una più grave questione sorse nel 1951. In quell’anno si
tennero le elezioni amministrative a Calenzano; le istruzioni dei vescovi della Regione toscana del 20 maggio
1951 (riportate parzialmente
nella sopra menzionata minuta della lettera di don Milani
al Cardinale Arcivescovo) stabilivano che “Gli elettori per
grave obbligo di coscienza
devono votare per quei candidati o liste di candidati che
sapranno difendere i diritti di
Dio, della Chiesa, della Famiglia Cristiana”. A Calenzano
si presentarono due sole liste:
una del PCI e PSI, l’altra degli
altri partiti (presumibilmente,
DC e partiti di centro). L’elettore, in base alla legge allora
vigente per i comuni con me-
no di 10.000 abitanti, poteva votare per una lista, oppure per singoli candidati scelti
dalle varie liste. Don Milani
sostenne pubblicamente che,
poiché non tutti i candidati
della lista contenente la DC
davano a suo giudizio le garanzie richieste dalle istruzioni dei Vescovi, l’elettore cattolico dovesse dare il voto ai
singoli candidati (che offrissero tali garanzie) e non a tutta
la lista. Ma, secondo quanto
risulta dalla suddetta minuta,
il Cardinale mandò a chiamare don Milani e gli ordinò di
tacere. Don Milani, anche su
consiglio della mamma, per
non creare scandalo, partì per
l’estero, e non partecipò alle
votazioni.”
DON MILANI OTTO ANNI
DOPO di GUIDO ZAPPA
Studium, n° 5, 1975,
pagg. 697
La posizione politica di
Don Lorenzo Milani (1947-1967)
A
vent’anni dalla morte
di don Lorenzo Milani,
appare evidente il contrasto tra l’esaltazione che si
fece di lui e della sua opera
negli anni Sessanta e Settanta ed il quasi oblio degli anni
Ottanta.
Soprattutto negli anni Settanta cattolici, comunisti, extraparlamentari di sinistra facevano a gara nell’individuare il “don Milani” che più faceva comodo per farne uno
dei “loro” ed utilizzarlo ai fini della loro battaglia politica
quotidiana. Alcune citazioni
tratte da “Civiltà Cattolica”,
da “Rinascita” e da “Scuo-
Antonino Bencivinni
la documenti” potranno dare
un’idea dei numerosi tentativi di cattura ideologica cui
fu sottoposta l’attività dell’autore di Esperienze pastorali e
del “regista” di Lettera a una
professoressa.
“Esperienze pastorali confonde le menti, esaspera gli
spiriti, scalfisce la fiducia nella Chiesa e suggerisce propositi sconsigliati... Il cuore si
restringe al pensiero che un
sacerdote scriva con stile tanto risentito ed incontrollato”
(“Civiltà Cattolica” 1958).
”C’è nella figura e
nell’opera di don Milani una
carica umana e cristiana che
affascina... E’ stato un uomo
che riesce oggi a scuotere salutarmente il lettore e a farlo
riflettere su un certo tipo di
cristianesimo e su certi modi
di essere cristiano” (“Civiltà
Cattolica”, 1970).
“Il valore politico della
sua lotta è la guerra contro
la cultura borghese, la scelta
dell’anticultura, la scelta degli sfruttati come compagni
di strada, la necessità di cambiare, l’analisi spietata della
scuola e del suo classismo”
(“Scuola documenti”, 1975).
“Sarebbe proprio assurdo cercar di deformare questo sacerdote, farne “uno dei
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nostri”. Non è marxista, si capisce. Non gli interessa che i
“poveri” non siano più “poveri”, gli interessa che si salvino” (“Rinascita”, 1970).
Queste diverse utilizzazioni degli scritti e dell’opera di don Milani sono state
rese possibili soprattutto dalla mancanza di studi che, più
che ad esaltare la “correttezza” di certe prese di posizione del Priore di Barbiana, mirassero a dare una spiegazione coerente delle reali o, più
spesso presunte, contraddizioni individuate nella sua opera.
Il mio vuole essere un contributo in direzione della comprensione della posizione politica di don Milani, così come
si evince dai suoi scritti.
Appoggio politico alla DC e
valutazione positiva della CISL
Nonostante il riconoscimento delle gravi ingiustizie sociali e delle responsabilità del
partito di maggioranza al governo, don Lorenzo accoglie
l’indicazione della gerarchia
di votare e far votare per la
Democrazia Cristiana, ma nel
tempo l’appoggio alla DC sarà sempre più critico.
Così nelle elezioni politiche
del 18 aprile 1948, l’appoggio
è totale. Scrive don Milani:
“Poi venne il 18 aprile. il
prete aprì gli occhi sul mondo
e vide profilarsi vicina la minaccia dei nemici di Dio. Allora gridò forte come la mamma in difesa dei suoi pulcini,
se li chiamò intorno, li coprì
colle sue ali. Anche il ricco
ebbe paura, e aiutò il prete a
salvare i suoi pulcini dai nemici di Dio. Così il grande
male fu scongiurato e ognuno poté riprendere a sognare cose belle, vittorie sugli altri mali. Ma fra tutti i sogni il
più bello fu quello di Fanfani”
(Milani 1950, p. 171).
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Don Milani, prete
esiliato dalla chiesa
Adriano Sofri
V
Nelle elezioni successive
don Milani comincia a fare
delle distinzioni e ad appoggiare nella DC la componente più sensibile alle istanze
sociali; il motivo lo esplicita chiaramente in una lettera
del 1953 al Cardinale Arcivescovo a spiegazione del suo
comportamento nelle elezioni del 1951.:
“Mi son... convinto
del grave stato di disagio
in cui vive il mio popolo, delle ingiustizie sociali
delle quali è vittima e della profondità del rancore
che nutriva verso la classe dirigente, il governo e
il clero. Ho allora sentito
quanto questo rancore
fosse insormontabile ostacolo alla sua evangelizzazione e ho perciò deciso
di dedicarmi a una precisa distinzione di responsabilità. Scindere cioè con
esattezza a costo d’esser
crudeli le responsabilità
(fittizie o reali che siano)
del governo dai purissimi principii del Vangelo e
delle Encicliche sociali ”
(LM pp. 82-83).
Don Milani, volendo dimostrarne la validità contro il
comunismo, scrive che con i
metodi da lui seguiti, ad esempio “obbligo di votare solo per
i candidati democristiani e di
cancellare gli alleati, anche a
costo di indebolire la lista” e
anche “continua denigrazione
del Governo e della DC” (EP p
256), i comunisti a S. Donato,
tra il 1946 e il 1951, perdono
complessivamente il 23,3%
dei voti, a differenza delle altre parrocchie (i cui parroci
seguono ben altri metodi) in
cui perdono negli stessi anni
solo il 10,3% dei voti; d’altra
parte la DC negli stessi anni a
S. Donato registra un aumento del 43% di voti, nelle altre
parrocchie invece ottiene un
aumento soltanto del 16,7%
(EP p. 257).
Il ragionamento di don Lorenzo, che svolge - come si ricorderà - la sua attività pastorale in una parrocchia operaia come quella di S. Donato,
è dunque molto chiaro: il prete deve criticare gli sbagli del
governo e della DC se vuole essere creduto dai poveri
quando critica i comunisti;
inoltre deve dare l’indicazione di votare per la DC, suggerendo di assegnare la preferenza ai candidati più sensibili alle istanze sociali.
Scuola e Città, Roma, n° 2, 29
febbraio 1988, pagg. 52-57
i segnalo uno dei capitoli più inediti di un nuovo
libro di e su don Lorenzo
Milani, I care ancora, appena
uscito per l’Editrice missionaria italiana a cura di Giorgio
Pecorini (480 pagine, 35 mila
lire). È un carteggio con monsignor Loris Francesco Capovilla, iniziato nel ’60 da una
lettera di don Milani. Capovilla era stato segretario particolare di Angelo Roncalli quando era ancora patriarca di Venezia, poi lo aveva seguito a
Roma quando, nel ‘58, diventò inopinatamente Papa. Fu la
sua ombra per tutta la durata
di quello sconvolgente pontificato, poi fu da vescovo a
Chieti e Loreto e oggi è arcivescovo e vive a Sotto il Monte Giovanni XXIlI, Bergamo,
dedicandosi senza risparmio
alla memoria del suo Papa e
alla causa della sua santità.
Nella prima lettera don
Milani gli domanda se il decreto del Santo Uffizio del
‘58 che aveva ritirato dal
commercio il suo libro Esperienze pastorali e ne aveva
vietate le traduzioni non possa considerarsi ormai superato. Gli hanno chiesto una
traduzione francese per le
Editions du Seuil. Forse Capovilla potrebbe accennarne
al Papa? Il tono di don Milani è spiritoso. “Sono passati
due anni da quando il mio
libro era “esplosivo”, le cose “ardite” che conteneva
sono ormai patrimonio delle
persone moderate”. Don Milani ricorda di avere ricevu-
to in passato un opuscolo da
Capovilla e gli dice: “Non so
perché, ma ho idea che ella
debba provar per me dell’affetto e del rispetto”. Monsignor Loris risponde subito, in
un tono affezionato ma cauto: in sostanza esortando alla
pazienza e alla discrezione.
Passano altri due anni e nel
maggio del ‘62 don Milani
accompagna i suoi ragazzi a
Roma, ad assistere a una seduta parlamentare, a partecipare a un’udienza papale e
a visitare i Musei Vaticani. È
la visita ai Musei e alla basilica di San Pietro a suscitare lo scandalo dei ragazzi e
del loro padre, che lo mette
senz’altro per iscritto.
“L’impressione favorevole, inutile dirlo, l’ha data il
Papa. Per le cose dette e per
la maniera di dirle. Sembrava davvero un contadino o
un vecchio parroco di montagna”. Per il resto, un disastro.
Prezzi dei biglietti esosi, impiegati sprezzanti, “insensibili di fronte a ragazzi di montagna, sensibili solo alle contesse tinte e ingioiellate”. Ecco come finisce la lettera: “In
Vaticano dei ragazzi di montagna che vivono fra dure privazioni contano meno di un
oppressore in marsina e cilindro con moglie letteralmente
coperta di gioielli e tinta che
abbiamo visto distintamente a
mezzo metro dal Papa. I miei
ragazzi non sono abituati a
vedere donne tinte. Nessuna
delle loro mamme o sorelle
si tinge. Non potrebbe il Papa mettere dei lavandini agli
ingressi del Vaticano e ricever
solo figliole con la faccia lavata? In tal caso può mettere
anche il sapone a pagamento perché le mie bambine non
ne avranno bisogno”.
Panorama, Roma, 5 aprile
2001, pag. 310
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L’esilio a barbiana,
speduta parrocchia
sui monti di Firenze
D
a una lettera alla mamma del 14 luglio 1952
si comprende come
successivamente i contrasti
tra don Milani e l’ambiente
ecclesiastico circostante si
fossero ulteriormente accentuati. E’ una delle lettere più
notevoli per l’elevatezza dei
concetti e dei sentimenti professati. “Ieri ho fatto una leticata che forse sarà decisiva.
Con un canonico di Prato che
era qui a predicare. Ho l’impressione che la mia carriera
ecclesiastica stia precipitando. Ma te non cominciare a
allarmarti, te devi preoccuparti solo ch’io sia sereno e
buono. E sereno sono... Ti ricordi come rispose Simone
Weil al superiore che minacciava di destituirla? “Ho sempre considerato la destituzione il naturale coronamento
della mia carriera scolastica””. Don Milani continua
la lettera dicendo che egli
sarà certamente allontanato
da S. Donato alla morte del
Proposto, e comunque prima delle prossime elezioni
(del 1953). “Comunque per
me non c’è nessuna possibilità di restare qui. Sono decisissimo a non difendermi e
a non lasciarmi difendere da
amici... L’unica cosa che mi
farebbe veramente male sarebbe che mi condannassero dottrinalmente. Ma questo
non dovrebbe poter avvenire
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perché ho sempre guardato
d’esser cristiano e cattolico
e ho sempre chiesto di morire in questa fede. E del resto mi ci sento ogni giorno
più vicino tant’è vero che mi
dedico tutto alla sua diffusione e tutta la divergenza sta
sul modo di diffusione... Io
sono grato al Signore d’ogni
minuto di più che mi lascia
a S. Donato perché son tutti regalati. Te non ti dar pensiero perché sai che mi son
sempre trovato bene da per
tutto. A andar male male mi
potranno mettere maestro al
Seminario Minore. E 6 mesi
dopo mi leverebbero anche
di lì e mi farebbero parroco
in una chiesetta di montagna
così saranno accontentati anche i tuoi desideri medici. Mi
dedicherò al catechismo e
agli studi e avrei modo di raffinare nella solitudine la mia
spiritualità che ne ha urgente
bisogno!”.
Don Milani poté rimanere
a S. Donato sino al 1954, cioè
sino alla morte del Proposto.
Ma allora si verificò, sia pure
in parte, ciò che aveva previsto. Non fu mandato al Seminario Minore, bensì direttamente parroco in montagna,
a Barbiana. Così la descrive
la mamma in una nota a piè
di pagina: “A 7 chilometri da
Vicchio nel Mugello. C’è una
chiesa del Trecento, una canonica e qualche casa sparsa
nei boschi. Mancava allora
l’acqua, la corrente elettrica,
la strada, il servizio postale.
Per i primi anni le lettere arrivavano a Barbiana quando
qualcuno le andava a prendere a Vicchio”.
Egli infatti si mise all’opera a Barbiana con tutte le sue
forze, e in breve la trasformò
materialmente e moralmente. Aiutato da alcuni giovani
di S. Donato e poi dai Barbianesi, riuscì a sistemare la
strada di accesso a Barbiana
in modo che vi giungessero
le macchine. E tanti tanti altri miglioramenti seppe realizzare, atti a diminuire l’isolamento del paese e a renderlo meno inospitale. Tutto ciò si deduce dalle lettere
degli anni seguenti, assieme
con la descrizione dell’arretratezza della vita dei montanari (in inverno, sotto la
neve, la zona restava completamente isolata), della loro miseria ed anche un po’
della loro chiusura mentale
e diffidenza, causate dall’abbandono in cui erano lasciati da parte dei pubblici poteri. Ma l’opera più bella fu la
scuola popolare, che subito
prese a realizzare e che ebbe
un successo grandissimo.
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Le Stazioni
di Lisbona
Thierry Perret
Cinemateca
La Bohème, de King Vidor. Un pianista eseguisce temi e variazioni alla scena del film senza voce; la protagonista infelice fa
piangere con indifferenza sia in inglese che in portoghese uno
spazio quasi vuoto, e tutto qui: il sacrificio di una sciagurata
che fa credere che l´amore è sempre tragico, l´umore è il virtuosismo del realizzatore, il non congruo di questo film scelto
a caso, adesso, qui; tutto ciò è pacifico ed emoziona, per delle
ragioni che riguardano la solitudine e la soddisfazione di pensare che la grazia vi possa sorprendere in qualunque occasione, nei luoghi e nei momenti di maggior disperazione.
Si fanno delle cose straordinarie in viaggio: si va al cinema, si entra in una libreria, si visita un supermercato. Tutto è
possibile, tutto è pieno di intensità.
A cura di Maria
Coppolecchia
Ufficio Scolastico
Provinciale di Prato
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Ponte 25 de abril
Estrela
Sono alfine sul ponte dei terribili capogiri, ma niente vedo del
vuoto, stasera in um traffico pieno, tornando dall´escursione al
Capo Espichel, con José Gil. Il filosofo finisce il lavoro del suo
libro, in cui si rivolge al “mal” portoghese: il rifiuto del passato,
d´un Portogallo modellato per decenni dal fascismo, illuso dal
mito della Rivoluzione del 74. Rifiuto del passato, e perciò della realtà, e le sue implicazioni: la non-responsabilità, l´assenza
di iniziativa, e sicuramente d´engagement.
Con José Gil, come con tanti altri, quel sentimento secondo il
quali gli intellettuali portoghesi sono duri. Ecco un paese che
ha un forte subconsciente. Il Portogallo, è la merda, dirà Daniel
un giorno, a Parigi.
Una pastelaria, il piatto del giorno alle vecchie signore che,
con tanta cerimonia, si danno il buongiorno. Dei turisti rumorosi con i suoi bambini: questa voce dei Francesi e i loro sbiaditi accenti. Il turista, da queste parti, è sovente francese.
Bairro das colônias
Jardim da Estrela: conosco la stanchezza, il suo segno come
uma vecchia parte di me che torna a casa amorevolmente, in
cui as di essere bene accolta (poco spazio qui, io mi ranniccchio per farle posto). Niente di quel che vedo, o sento, le risulta sconosciuto, essa prende tutto per sé, affamata, prima di far
piazza pulita – lei.
Traduzione Manuel Jardim
Da Livia, una terrazza alta appollaiata e che s´affaccia su delle
vie lontane, Mozambico, Capo Verde, Angola, per ricordare
i lunghi tempi coloniali. Lunghi, perché la storia è qui del tutto
aperta, un dolore nazionale.
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Guimarães Rosa
e la traduzione
A
lfredo Bosi in História
Concisa da Literatura descrive Guimarães Rosa
come un “artista-demiurgo”,
che seppe abolire “intenzionalmente le frontiere fra
narrativa e lirica [...].Grande Sertão: Veredas e le altre
novelle di Corpo de baile includono e rivitalizzano risorse dell’espressione poetica:
cellule ritmiche, allitterazioni, onomatopee, rime interne,
audacie morfologiche, ellissi,
tagli e dislocamenti di sintassi, vocabolario insolito, arcaico o del tutto neologico, associazioni rare, metamorfosi,
anafore, metonimie, fusione
di stili, coralità”. Per questa
“rivoluzione”, Guimarães Rosa è considerato uno dei più
grandi innovatori della lingua letteraria, potendo essere
comparato con James Joyce o
con Carlo Emilio Gadda.
La complessità del linguaggio letterario rosiano, come
non potrebbe essere altrimenti, è caratterizzata da un’accentuata attenzione estetica
ed una delle preoccupazioni
dell’autore mineiro era quella
di far diventare quella lingua
letteraria “adatta al mondo”.
Non è a caso che Guimarães Rosa ebbe un successo immediato all’estero e alcune delle principali case editrici in Francia, Germania, Italia,
Spagna e USA si interessarono
a pubblicare le sue opere.
Ma come tradurre queste
opere, in cui i neologismi, la
toponimia esotica di un universo per metà sertanejo, per
metà metafisico e molte volte
di difficile comprensione per-
14
Andréia Guerini
sino per il lettore brasiliano?
Una delle strategie usate dai suoi traduttori nel loro
arduo compito è stata quella
di consultare lo stesso autore per risolvere i loro dubbi.
Com’è noto, Guimarães Rosa
stabilì relazioni epistolari con
vari dei suoi traduttori in varie lingue. In totale, ci sono
73 lettere tra lui e Curt Meyer-Clason, traduttore al tedesco (dal 1958 al 1967), 129
lettere scambiate con Harriet
de Onís, traduttrice all’inglese (dal 1958 al 1966), 47
lettere scritte a e ricevuta da
Jean-Jacques Villard, traduttore al francese (dal 1961 al
1967), 20 lettere tra lui e Angel Crespo e Pilar G. Bedate,
traduttori allo spagnolo (dal
1964 al 1967), 30 lettere tra
lui e traduttori di diverse lingue per pubblicazioni isolate
(dal dic/54 al 1967), 73 lettere scambiate con Edoardo
Bizzarri, traduttore all’italiano dal 05/10/59 al 20/10/67).
L’insieme della corrispondenza, che si trova nell’Istituto di Studi Brasiliani, raggiunge un totale di 372 documenti,
molti dei quali contenenti allegati fino a 10 pagine con soluzioni ai dubbi. Non ha esagerato Paulo Rónai nel dire, nel
1971, che “il tempo perso con
questa corrispondenza sarebbe
stato sufficiente per scrivere un
altro Corpo de Baile o un altro
Grande Sertão: Veredas”.
L’esame di questa corrispondenza mostra come lo
scrittore si sia dedicato con
accanimento al lavoro insieme ai traduttori, chiarendo
dubbi lessicali e sintattici che
questi gli presentavano, a volte nella forma di lunghi questionari e che l’italiano Edoardo Bizzarri aveva soprannominato “procosti”.
In questa intensa corrispondenza, Guimarães Rosa
aiutò sistematicamente i suoi
traduttori a comprendere meglio espressioni, nomi, suoni
e a decidere su alcune scelte,
poiché l’autore brasiliano era
un grande conoscitore di lingue straniere.
La lettura delle lettere fra
lui e i traduttori mostra come lo
scrittore non solo rispondeva
con impressionante minuzia ai
questionari che gli erano presentati, ma dettagliava a volte
spontaneamente significati occulti delle opere, svelando in
esse quello che chiamava di
suprassenso: ossia, il senso metafisico che intenzionalmente
nascondeva dietro a una descrizione della natura o al nome di un personaggio. Niente
di meno che una spiegazione
dell’essenza delle sue metafore, a loro volta essenza della
sua poetica, secondo quanto
osserva Fernando Viotti in “Le
lettere di Guimarães Rosa: traduzione e progetto letterario”.
Ma c’era di più, Guimarães
Rosa indicava cammini che
credeva fossero i migliori per
mimetizzare nelle lingue-target gli effetti ottenuti dal testo
in portoghese. È anche attraverso i suggerimenti di procedimenti per un efficiente traduzione che possiamo estrarre il
concetto di traduzione dell’autore di Primeiras estórias.
Se prendiamo come esempio le lettere scambiate con
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il traduttore italiano, Edoardo
Bizzarri, si percepisce, prima
di tutto, che esiste un’intensa
alleanza fra autore e traduttore. In molte lettere, Guimarães
Rosa parla del traduttore come
di un co-autore, al punto di dichiarare: “lei non è solo un
traduttore. Siamo “soci”, questo sì, e l’invenzione e la creazione devono essere costanti.
Il 18 agosto 1963, quando Bizzarri comincia a “parlare dei problemi, ignoranze
e dubbi” che affronterà nella
traduzione di Corpo de baile,
dimostra di essere un traduttore di apparente buon senso,
in cui molte volte opta per una
traduzione che conservi elementi della lingua di partenza,
ma preservi anche la lingua
d’arrivo. Questa soluzione mista, di conservarne una parte e
tradurre il resto non è assoluta
per l’autore mineiro. Inoltre, è
lo stesso Guimarães Rosa che
lo propone, e questo forse sia
il contributo più fecondo per
la teoria della traduzione, che
una volta il traduttore lasci alcune cose in originale, un’altra
le traduca, un’altra faccia una
traducadattamento. E consiglia ancora al traduttore italiano: “quanto più inventa a suo
agio, più mi farà felice”.
In realtà, l’autore di Grande Sertão: Veredas sa che la
sua prosa letteraria si caratterizza per quello che Antoine
Berman chiamò in A tradução
da letra ou o albergue do longínquo come qualcosa capace di “captare, condensare e
mescolare tutto lo spazio polilinguistico di una comunità. Essa mobilita ed attiva la
totalità delle “lingue” coesistendo in una lingua. [...]Così,
dal punto di vista della forma,
questo cosmo linguistico che
è la prosa, e in primo luogo il
romanzo, si caratterizza per
una certa informità, che risulta dall’enorme mistura delle
lingue nell’opera. Essa è caratteristica della grande prosa”.
15
Forse per questo, Guimarães Rosa enfatizza la questione della libertà di invenzione e creazione da parte
del traduttore. Edoardo Bizzarri segue i consigli dello
scrittore mineiro, ma anche
la sua propria intuizione di
“dare il ritmo, la rima, il gusto
delle approssimazioni inattese, il senso generale e giocoso
dell’assurda ambizione umana, fuggendo forzatamente da
una traduzione letterale”.
Nelle lettere fra l’autore e il
traduttore italiano, si percepisce che Guimarães Rosa tende
ad avere una posizione che io
chiamerei, per mancanza di
un termine più adatto, sensata, visto che non è radicale
nelle decisioni e comprende
che, dovuto alla complessità
del suo linguaggio letterario, a
volte è più prudente analizzare i problemi nella misura in
cui sorgevano e prendere decisioni in ciascuno dei casi separatamente.
Perciò, in lettera del 25
novembre 1963, l’autore di
Sagarana consiglia il traduttore italiano ad “accentuare
di più, quello che trovi necessario. Omettere ciò che,
in una traduzione, si dimostri
inutile escrescenza. Lasciare
in un canto ciò che è intraducibile, o riassumere, depurare, concentrare o ancora “Lei,
come in tutte le restanti parti
del libro, anzi, deve di preferenza prendersi libertà, senza
sottomettersi con esattissimo
rigore al corpo, alle parole
del testo originale, [...] essendo meno importante la stretta
equivalenza”.
Come si sa, la questione
della libertà e del ricreare nella traduzione, soprattutto poetica, fu teorizzata da Jakobson, Pound e i loro seguaci
massimi in Brasile furono i fratelli Campos. Anzi, il ricreare
c’entra molto bene nelle opere di Guimarães Rosa, poiché
sono testi “traboccanti di diffi-
coltà”, come li aveva ben definiti Haroldo de Campos.
In lettera del 04 dicembre
1963, Guimarães Rosa compara l’atto di scrivere con quello
del tradurre, poiché nello scrivere un libro, l’autore dice:
io lo vado facendo come
se lo stessi “traducendo”,
da alcun alto originale,
esistente in qualsivoglia
posto, nel mondo astrale
o nel “piano delle idee”,
degli archetipi, per esempio. Non so mai se sto indovinando o sbagliando
in questa “traduzione”.
Così, quando mi “ri” - traducono in un’altro idioma, non so mai neanche
se, in casi di divergenza,
non è stato il Traduttore
colui che, in effetti, ci ha
indovinato, ristabilendo la
verità dell’ “originale ideale”, che avevo travisato...
Nello esplicitare come
aveva elaborato il suo lavoro,
Guimarães Rosa colloca scrittore e traduttore sullo stesso
piano di scrittura e creazione,
ambedue in cerca di un’opera
“ideale”, avvicinandosi a Benjamin quando parla della traduzione come Forma, ma anche a Leopardi e Borges, perché per loro sia l’autore che
il traduttore sono importanti,
ambedue sono elementi fondamentali in questo processo,
così come lo è il lettore.
Per sapere che tradurre
è compito duro, l’autore di
Corpo de Baile risalta la sua
preoccupazione di preservare non solo il contenuto, ma
anche gli aspetti estetici degli originali, come già visto.
Essendo così, il ricreare e la
coproduzione sono elementi chiave per far sopravvivere l’opera letteraria di uno dei
maggiori scrittori brasiliani di
tutti i tempi in altre lingue.
Traduzione di Anna Palma
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Intervista a
Roberto Mulinacci
Andréia Guerini e Walter Costa
In una recente visita alla UFSC (Università Federale di Santa Catarina) per
presentare una conferenza nella Post-Laurea in Studi della Traduzione, intitolata
“Metaletture. Claudio Magris lettore di Guimarães Rosa”, Roberto Mulinacci,
professore di letteratura brasiliana e portoghese dell’Università di Bologna, ha
concesso la seguente intervista ad Andréia Guerini e Walter Costa.
Q
uando e come è sorto il tuo
interesse per le letterature in lingua portoghese?
Il mio interesse è sorto solo negli anni della Facoltà di
Lettere a Firenze e per pura
curiosità intellettuale. Ossia,
non avevo nessuna ragione
specifica che mi spingesse a
studiare la lingua portoghese: non avevo fidanzate lusitane o brasiliane, non ero
pazzo per la MBP (ragione
più che sufficiente, oggi, per
molti studenti dei nostri corsi,
interessati soprattutto a decifrare le parole delle canzoni
di Caetano Veloso o Chico
Buarque), non sognavo una
vita ai tropici e ancor meno
le spiagge dell’Algarve (una
delle mete privilegiate dal turismo di massa europeo). In
quegli anni io ero studente
di Letteratura tedesca e stavo
per concludere la mia formazione accademica di germanista, quando ho scoperto la
narrativa di Antonio Tabucchi, che mi ha subito affascinato molto anche per le sue
profonde radici portoghesi,
facendomi sprofondare nelle
suggestioni passatiste di una
sonnolenta Lisbona piena
d’incanto. Ma tutto ciò era,
purtroppo, un mondo che io
conoscevo ancora troppo po-
16
co, a parte, chiaramente, quel
bagaglio elementare di conoscenze, non del tutto immune purtroppo dagli stereotipi,
che è appannaggio di tutte le
persone di cultura, in Italia e
altrove. È stato quindi per assecondare un sincero desiderio di saperne di più che ho
cominciato a frequentare le
lezioni di portoghese e questa lingua, insieme alla sua
letteratura, mi ha pian piano
conquistato al punto che, alla
fine di quell’anno, ho deciso
di abbandonare il tedesco per
il portoghese. Con grande delusione dei miei genitori, che
mi pagavano gli studi e temevano, quindi, che una tale scelta avrebbe potuto non
solo pregiudicare i loro sacrifici in prospettiva futura, ma
anche aggravarli nell’immediato, con un prolungamento, perlomeno biennale, del
mio percorso universitario:
cosa che si è, in effetti, puntualmente verificata, benché
forse, alla fin fine, col senno
di poi, si possa dire che ne
è valsa davvero la pena, soprattutto per il fatto di avere
avuto l’enorme privilegio di
trasformare una passione in
lavoro.
Come distribuisci questo interesse tra le letterature del Por-
togallo, del Brasile e degli altri
paesi di lingua portoghese?
Il mio interesse per le letterature di lingua portoghese si limita in realtà al Portogallo e
al Brasile. Che è già così – ossia, anche in questa veste “ridotta” - un campo di studio
immenso e complesso, tanto
è vero che situazioni analoghe in altri meridiani culturali
sono affrontate con specializzazioni disciplinari assolutamente autonome. Basti pensare, ad es., a quel che succede
con la letteratura spagnola e
quella ispano-americana o, in
ambito anglofono, con la letteratura inglese e quella nordamericana, le quali godono
tutte di uno statuto individuale riconosciuto. In Italia, invece, la letteratura portoghese e
quella brasiliana continuano
ancora ad essere accorpate,
a livello accademico, in un
unico raggruppamento scientifico-disciplinare (si parla,
infatti, di corsi di Letteratura
Portoghese e Brasiliana, oppure di Lingua e Traduzione Portoghese e Brasiliana),
ancorché la pratica didattica
comporti evidentemente uno
sdoppiamento dei percorsi,
con insegnamenti di letteratura brasiliana sempre più frequenti negli atenei italiani.
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Ma, appunto, i docenti che la
insegnano non risultano ufficialmente come brasilianisti
– ancorché alcuni di loro lo
siano a tutti gli effetti e, per
giunta, di eccellente qualità
(penso, tra gli altri, al mio collega e grande amico, Roberto Vecchi) -, rientrando piuttosto nella categoria storica
ed onnicomprensiva dei lusitanisti, con la sola eccezione
dell’Università La Sapienza di
Roma, dove, invece, da anni
ormai, è attiva una cattedra di
Letteratura Brasiliana distinta
da quella di Letteratura Portoghese. Sarà, dunque, anche
per le difficoltà oggettive nel
dominare una materia di tale
ampiezza che il mio rapporto con la lusofonia si è fatto
progressivamente sempre più
selettivo, concentrandosi, appunto, su questa macro area
luso-brasiliana, verso la quale convergono in modo pressoché esclusivo – e, invero,
senza troppi rimpianti - i miei
modesti sforzi attuali. Del resto, nonostante l’Africa di
espressione portoghese non
figuri tra i miei interessi principali, non ho del tutto reciso
quel tenue vincolo professionale che mi legava ad essa, se
non altro in qualità di traduttore di Mia Couto, del quale apprezzo in particolare la
creatività linguistica, affine,
mutatis mutandis, a quella rosiana.
Come hai cominciato a tradurre?
È successo per caso. Una mia
collega del dottorato collaborava, come traduttrice dallo
spagnolo, con una giovane
casa editrice fiorentina - la
Passigli, che adesso è diventata una delle più importanti
nel panorama italiano (si tratta, per fare un esempio, della
casa editrice che ha acquisito
i diritti per pubblicare in Italia
l’opera di Fernando Pessoa)
17
- e mi domandò se anch’io
fossi interessato a partecipare ai progetti editoriali che vi
si stavano elaborando, ovviamente, per quanto riguarda il
settore delle traduzioni portoghesi. Io accettai con grande
entusiasmo, ma non immaginavo che, nella mia prima sfida da traduttore, avrei dovuto misurarmi proprio con Fernando Pessoa, sebbene con i
suoi scritti in prosa anziché
con quelli poetici (il testo da
tradurre era, infatti, A hora do
diabo, un’ipotesi di racconto, in perfetto stile pessoano,
ricostruita da Teresa Rita Lopes mettendo insieme frammenti usciti dal famosissimo
baule del poeta). Così, L’ora
del diavolo è stata, nel 1998,
la mia prima traduzione, seguita, un anno più tardi, dalle
Novelas policiárias, una serie
di improbabili detective stories sempre a firma di Fernando Pessoa e sempre pubblicate da Passigli.
Com’è stato tradurre il racconto Meu Tio o Iauaretê di Guimarães Rosa? E in cosa si assomiglia o differisce dalle traduzioni precedenti di Rosa in
italiano?
È stato molto complicato.
Quando, in quello stesso anno, il 1999, la Guanda - una
casa editrice italiana di antica
tradizione, originaria di Parma sebbene ormai trasferitasi
da decenni a Milano - mi propose la traduzione di Meu tio
o Iauaretê, io sapevo che sarebbe stato difficilissimo. Ancora non conoscevo quel racconto, ma la lettura emozionante di Grande Sertão: Veredas mi aveva già fornito, oltre
ad un immenso piacere, anche una nitida coscienza delle difficoltà che avrebbe comportato una sua qualsiasi trasposizione in altre lingue. Mi
sentivo confortato solamente
dalla dimensione ridotta del
testo e quindi dalla speranza che, rispetto al capolavoro rosiano, il numero delle questioni spinose sollevate
da Meu tio o Iauaretê potesse
essere quantitativamente minore. Invece, il processo di
traduzione si è rivelato ancora più impegnativo di quanto
mi aspettassi, soprattutto perché, all’inizio, io non riuscivo
a trovare un registro linguistico più o meno equivalente al
modo di parlare del cacciatore di giaguari in procinto di
trasformarsi in giaguaro. Tra
tutti i problemi di traduzione
che questo testo mette sul tavolo, io credo che quello di
una resa plausibile dell’oralità scomposta del narratore, i
cui peculiari aspetti diastratici
non rientrano nelle modalità
di una qualsivoglia dialettizzazione nazionale, sia stato
il problema più grande. Non
era, insomma, la metamorfosi
zoomorfica del caboclo a spaventarmi – anche perché fortunatamente Guimarães Rosa
ne permette la ricostruzione
attraverso il progressivo ispes-
17
Gennaio / 2005
18
simento di un ricco tessuto di
interiezioni
e monosillabi
intercalari, il quale, alla fine
del racconto, esplode in una
serie di parole incomprensibili - bensì il tono del monologo, che doveva rendere
l’idea di una varietà linguistica anti-normativa, ma non di
tipo regionale. Forse è questo
che, insieme ad una forte tupinizzazione del linguaggio,
caratterizza maggiormente la
traduzione di Meu tio o Iauaretê rispetto alle altre traduzioni rosiane pubblicate in
Italia, creando, alla fine, un
testo profondamente ibrido in
tutti i sensi.
Secondo te le letterature in lingua portoghese sono ben rappresentate in italiano. Ci sono
autori importanti che non sono
stati mai tradotti o autori poco
considerati in Brasile e in Portogallo che sono valorizzati di
più in Italia?
Sì, penso che, tutto sommato,
ci sia stato negli ultimi anni
un grande impulso, in Italia,
alla traduzione di testi in lingua portoghese, non solo lusitani e brasiliani, ma anche
africani. Direi che gli autori
più importanti sono, in linea
di massima, quasi tutti presenti in questo ideale canone
italiano delle letterature lusofone, ma certamente ne avrò
dimenticato qualcuno (del resto, il gioco del “chi c’è e chi
manca” nelle varie liste letterarie, antologiche o meno, è
sempre, come si sa, un esercizio che suscita polemiche e
revisioni). Chiaro che potrei
citare opere fondamentali del
pensiero luso-brasiliano che
ancora non hanno trovato cittadinanza nella “repubblica
delle lettere” del mio paese,
oppure opere già esaurite e
che dovrebbero essere nuovamente ripubblicate, senza
contare gli autori che figura-
18
no in questo panorama solo
in forma ridotta, attraverso arbitrari processi di antologizzazione. Sulla base di ciò che
mi viene in mente adesso, però, ritengo che i lettori italiani possano avere materiale
sufficiente per un approccio
preliminare a questo universo “esotico”, materiale, cioè,
in grado finalmente di offrirne
anche una visione più articolata e complessa, sottraendolo al rischio del facile esotismo. Così, sebbene sovrastati
dalla presenza sempre più invadente di Paulo Coelho, che
gode - per me, in modo incomprensibile - di un successo enorme tra il pubblico di
massa italiano, sono fortunatamente disponibili sul mercato anche dei validi “antidoti” brasiliani al “coelhismo”,
da Paulo Prado a Sergio Buarque de Hollanda, da Antônio
Callado a Carlos Drummond
de Andrade, da Rubem Fonseca a João Ubaldo Ribeiro
(oltre, naturalmente, ai “classici” della biblioteca brasiliana d’Italia: l’intramontabile
Jorge Amado, ambasciatore
per antonomasia del Brasile
nel mondo, ma anche Machado de Assis e, appunto,
Guimarães Rosa.).
Qual è l’impatto che hanno avuto le traduzioni dal portoghese
nel sistema letterario italiano?
Questa è veramente una domanda difficile, a cui non
saprei rispondere. Ossia, il
successo delle letterature in
lingua portoghese in Italia è
molto recente, forse troppo,
per poter valutare gli effetti
di questa ricezione sul polisistema letterario nazionale. Effettivamente, oltre alle polemiche circostanziali sul tipo
di edizione adottata o sulla
qualità delle singole traduzioni, polemiche che di tanto in
tanto travalicano il consueto
ambito specialistico per confluire in giornali e riviste di
più ampia diffusione, penso
che l’impatto sia abbastanza
limitato. Pessoa e Saramago,
tanto per fare un esempio, sono senza dubbio autori conosciuti dal pubblico italiano
più colto, ma quando si passa
dalla semplice constatazione
della fortuna critica ad una
relazione fruitiva del lettoreautore con i loro testi, al punto, supponiamo, di stimolare un processo di imitazione
creativa, le cose si complicano. Forse questo potrebbe costituire un argomento di riflessione molto stimolante per future ricerche nell’ambito della teoria della traduzione.
Qual è stato, secondo te, il contributo dell’Italia in teoria e critica della traduzione?
Credo che l’Italia abbia dato un contributo notevole alla traduttologia, fin da tempi
remoti. Vorrei solo ricordare
il Libellus de optimo genere oratorum, nel quale Marco Tullio Cicerone (nativo di
Arpino, nel Lazio), già nel 46
a.C., raccomandava al buon
oratore di non tradurre “verbum pro verbo”, ma di badare piuttosto all’efficacia
espressiva, introducendo, così, una distinzione che avrebbe fatto fortuna in questo
ambito di studio: quella fra
il “senso” e la “lettera”, che
continua ancora oggi a dividere i traduttori. E poi come
non citare quel Leonardo Bruni, umanista mio concittadino
(era di Arezzo, come me), che
non si limita – nel suo De interpretatione recta, all’incirca
del 1420 - a delineare i capisaldi metodologici del tradurre, sottolineando, ad es., l’importanza della fedeltà al testo,
ma, in una lettera ormai celebre del 1400, conia perfino
il cosiddetto nomen actionis,
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usando, appunto, in un’accezione tecnica quel neologismo semantico traducere che
si sarebbe definitivamente
imposto sulla schiera dei suoi
svariati predecessori lessicali? Se a queste pietre miliari
della teoria della traduzione
aggiungiamo anche il trattato
cinquecentesco di Fausto da
Longiano, nonché le riflessioni di Vincenzo Monti e Ugo
Foscolo, o quelle di Giacomo
Leopardi e Benedetto Croce
– quest’ultimo, in particolare, autore ormai canonizzato
dalla critica congenere, a partire soprattutto dalla sua tesi
dell’intraducibilità della parola poetica - avremo l’esatto
quadro dell’importanza della
traduttologia italiana.
Com’è tradurre testi di generi differenti come i romanzi di
Guimarães Rosa, di Fernando
Pessoa e di Mia Couto, da una
parte, e la saggistica di Ruy Castro, dall’altra?
In realtà, nonostante la diversità degli ambiti culturali di riferimento e la varietà dei testi
tradotti, penso che sia stato un
lavoro, nel complesso, provvisto di una sua coerenza.
Voglio dire: Fernando Pessoa,
Guimarães Rosa e Mia Couto
sono probabilmente i tre principali rappresentanti di creatività linguistica del mondo lusofono e soprattutto gli ultimi
due, trattandosi di eccellenti
manipolatori del linguaggio
(si pensi per es. ai processi di
neologia abbastanza simili a
cui ricorrono frequentemente
entrambi, dall’agglutinazione
alla formazione parasintetica,
ecc.), mi hanno causato non
poche difficoltà di resa in italiano. Ma anche Pessoa, sia
pure in forma meno smaccata, appartiene alla stessa famiglia di virtuosi della parola, come spiega, almeno in
parte, il suo rapporto con il
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portoghese, che il poeta dovette di fatto rimparare dopo
il rientro dal Sudafrica e che
presenta continue contaminazioni con la sua autentica
lingua mentale, l’inglese. Per
questo, oltre alle contorsioni
di pensiero tipiche dello stile
pessoano, il suo traduttore è
chiamato a confrontarsi con
le peculiarità di una lingua
seconda, utilizzata non raramente con un certo compiacimento snobistico della differenza (per es., l’aggettivo
“policiário” invece del comune “policial”). Da questo punto di vista, Ruy Castro appare
linguisticamente meno problematico, ma è soltanto perché la creatività del traduttore
è sollecitata ad un diverso livello, che riguarda non tanto
il piano della parole, quanto,
piuttosto, quello della langue:
per es., il registro colloquiale del suo Carnaval no fogo
si alimenta di un’espressività carioca che non è sempre
agevole trasporre in contesti
culturali altri, senza contare,
poi, che non mancano neppure qui certe coniazioni lessicali sul modello degli autori citati sopra (mi ricordo, tra
i vari esempi possibili, di un
“empingunçado” per “bêbado”, che sfrutta, appunto, il
principio della derivazione
creativa).
Qual è il ruolo che la traduzione
svolge e può svolgere nelle relazioni tra le letterature italiana e brasiliana?
Un ruolo fondamentale, soprattutto per chi non ha accesso linguistico agli originali, che è fra l’altro la situazione in cui si trova la maggioranza dei lettori, non solo italiani. Per questo, io penso che
la traduzione debba rendersi
conto della grande responsabilità che essa ha nei confronti degli altri, una respon-
sabilità che, tuttavia, non deve circoscriversi al lettore, ma
allargarsi fino a comprendere
la relazione stessa con l’alterità e l’inevitabile straniamento prodotto dal testo fonte. Una traduzione, insomma, che sfuggendo a qualsiasi tentazione etnocentrica
- ossia, di riduzione dell’Altro
alla misura dell’Io (per esempio, parlando dell’Italia e del
Brasile, la riduzione della
cultura brasiliana alla misura
del folcloristico o dell’esotico) - possa dar corpo eticamente all’estraneo, al diverso, ospitandolo dentro di sé e
non smussandone i tratti più
marcati e differenziali in nome di una pretesa leggibilità.
Se la traduzione è capace di
diventare una maniera di abitare la distanza tra le lingue,
ovvero, un autentico non-luogo dove la mia lingua e quella
dell’Altro si incontrano contaminandosi reciprocamente,
allora credo che la traduzione si possa trasformare in una
frontiera che unisce, anziché
in un confine che divide.
Traduzione di Anna Palma
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Scheda Tecnica
Regia: Thalys Pontes
Sceneggiatura:
Andressa Abraão
Arte grafica: Luana Rosa
Fotografia: Thiago Belinato
Costumi: Vanessa Ferreira
Suoni:
Chitarra
AlineVarela,Glênia,
Campanello
Luana Rosa
Mensageiro dos Ventos
Vanessa
Pilão
Rodrigo Torres, Thalys Pontes
Attori:
Presentazione
Cristina Márcia
Serata Letteraria - UFRJ
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Dante
Petrarca
(...)Lasciate ogne speranza, voi ch’entrate”.(...) (...)Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. (...) (...)E caddi come corpo morto cade.(...) (...)Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, (...) (...)”Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘i core...“(...)
(...)”Però, turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto né vigor né spazio....“(...)
(...)Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo Fattore i rai,(...) (...)Quel ch’infinita provvidenza, ed arte mostrò nel suo mirabil magistero (...)
Dante 1 – Thalys Pontes
Dante 2 – Luana Rosa
Dante 3 – Andressa Abraão
Dante 4 – Aline Varela
Ariosto
Tasso
(...)” Qui riman l´elmo, e là
riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più
lontan l´usbergo:
l´arme sue tutte, in somma
vi concludo,
avean pel bosco differente
albergo.“(...)
(...)Amico, hai vinto: io ti
perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che
nulla pave, a l’alma sì; deh! per lei
prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia
colpa lave.
- In queste voci languide
risuona un so che di flebile e soave ch’al cor gli scende ed ogni
sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli
invoglia e sforza. (...)
(...)Non son, non sono io
quel che paio in viso: quel ch’era Orlando è
morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima
l’ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha
fatto guerra.(...)
Petrarca 1 – Ângela Ribeiro
Petrarca 2 – Glênia
Petrarca 3 – Vanessa Ferreira
Petrarca 4 – Olívia Maia
Ariosto 1 – Rodrigo Torres
Ariosto 2 – Milena Vargas
Tasso 1 – Milena Moraes
9, luglio 2007 11:00 ore
Posto
Giardino della
Facoltà di Lettere
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Serata Letteraria
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Aldilà della baia
Andressa Abraão Costa & Cristina Márcia Monteiro de Lima Corrêa
R
ecentemente, nell’Università Federale di Rio
de Janeiro (UFRJ) è stata
realizzata una serata letteraria
in lingua italiana proposta dal
professor Marco Lucchesi. La
congiunzione tra letteratura,
lingua ed espressione corporale ha presentato agli alunni
una faccia nuova dell’attività
accademica - leggera, interattiva e capace di arricchire - attingendo diversi piani, quello
educativo e quello umano.
Questo articolo mostrerà tappe e partecipazioni di
questo movimento artistico
letterario, sottolineandone le
caratteristiche che evidenziano l’importanza di attività
preoccupate della formazione dell’alunno in differenti
prismi.
La conoscenza teorica della lingua italiana, discussa in
classe, è stata la grande base
per l’ampliamento della creatività degli alunni. E la proposta della serata ha incentivato
sensibili percezioni delle opere di Dante, Petrarca, Ariosto
e Tasso.
Alcune responsabilità sono state attribuite agli integranti della serata. L’attività
aveva, per esempio, un direttore, una sceneggiatrice, un
interlocutore ed una figurinista. In questo modo tutti vi
hanno partecipato attivamente, preoccupati affinché la serata fosse un movimento realmente artistico e letterario.
Il processo con cui è stata modellata la serata è stato
idealizzato dagli alunni - diverse idee e proposte - essendo questo un grande stage nel
campo dell’integrazione, del-
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la convivenza e della percezione. La serata ha messo in
risalto certe abilità nell’ambito della poesia, delle arti sceniche, della direzione, della
redazione che fino a quel momento erano sconosciute.
La realizzazione del progetto, nuovo per la classe di
italiano, è stata la scintilla
che ha acceso rinnovati interessi verso la Facoltà di Lettere della UFRJ. Tutto ciò è significato ricerca e scoperta di
diverse capacità - che vanno
oltre il curriculum del corso
di laurea - grazie allo stimolo
del professor Lucchesi.
Per la presentazione della serata, tutti gli alunni hanno memorizzato parti di determinate opere, tra le quali,
La Divina Commedia di Dante Alighieri, Il Canzoniere di
Petrarca, Orlando Impazzito
di Ludovico Ariosto e Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. E, nel recitarle, ogni
alunno ha dato un’intonazione adeguata a trasporre il senso appropriato del testo.
La serata è stata divisa in
quattro atti: il primo comprendeva la recitazione di frammenti dei canti Porta dell’Inferno e Amore proibito di Paolo e Francesca dell’Inferno e
Vergine Maria del Paradiso,
tutti di Dante Alighieri; il secondo includeva sezioni di
quattro poesie de Il canzoniere di Petrarca; il terzo, Orlando Impazzito (canto XXIII), di
Ariosto; ed il quarto, La morte
di Clorinda, di Tasso.
Ad ogni cambiamento di
atto, marcato dal passaggio di
cartelli, c’è stato il pronunciamento della presentatrice, ci-
tando le caratteristiche degli
autori e delle opere; e l’uso di
un simbolo (libro), indicava il
dono della parola.
Inoltre alcuni strumenti
- chitarre, campane tubolari, campanello e pestello - e
piccoli espressioni corporali,
hanno denotato il sentimento
proposto nel testo e marcato
la sequenza delle opere.
Invece lo scenario scelto per la realizzazione della
serata è stato un bel giardino della facoltà. La presenza costante degli integranti e
la proposta di una serata in
quel luogo apparentemente
dimenticato sembrava avergli ridato la vita, visto che, il
giorno della serata, l’iniziativa ha ricevuto in regalo un
gradevole clima autunnale.
Ogni elemento proposto, dalla scelta delle opere a
quella dello scenario, è stato
di fondamentale importanza
per comporre l’atmosfera della serata.
A partire da questo insieme di elementi è stato possibile verificare un esempio di
attività che proponeva, innanzitutto, un approfondimento
degli studi letterari.
Quindi è nata l’aspettativa di avere, con più frequenza nelle istituzioni destinate all’insegnamento, esercizi interdisciplinari in cui gli
alunni possano applicare gli
aspetti teorici assimilati. In
questo modo, gli incentivi ad
attività innovatrici potrebbero stimolare diverse abilità
creative.
Traduzione di
Anna Palma
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Sebastião Barbosa
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La maldicenza colpisce di
più le persone generose
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rità per cui alcuni cattivi dirigenti
li incoraggiano.
La terza forma di maldicenza
è quella «del lamento ». C’è gente
che, quando ritiene di essere ingiustamente trattata da qualcuno, l’accusa di essere un delinquente, un
farabutto e gli attribuisce ogni tipo
di malefatte. Salvo poi, non appena costui l’aiuta, dirvi invece che
è bravo, intelligente, onestissimo. È
un veleno che gira molto nei corridoi del potere e della politica.
Poi c’è la maldicenza che nasce dall’invidia e che colpisce chi
sta in alto, chi ha potere. Meno
quelli che hanno posizioni consolidate, i duri, i violenti che incutono paura e che si vendicano.
Molto di più le persone aperte e
generose, che fanno tutto bene e
sono amate dalla gente. Perché
l’invidia si rivolge sempre ai migliori, non ai peggiori. È il loro
valore che odia.
Da ultimo abbiamo la calunnia intenzionale, la menzogna
scagliata per distruggere il credito
di chi è salito in alto e prenderne
il posto. La calunnia che prepara
e giustifica la congiura, come nel
caso di Cesare accusato di voler
diventare re. O contro il generale
Dalla Chiesa accusato di mettersi troppo in vista. Un metodo che
viene sempre adoperato contro
chi ha creato qualcosa di grande
ma ha, come difesa, solo il suo
valore e la sua rettitudine.
Miscellanea
L
a maldicenza è dovunque attorno a noi. Ma si
presenta in forme diverse,
più o meno cattiva e più o meno
pericolosa.
La modalità più semplice è
quella del pettegolezzo, una
forma di sapere sulle relazioni
umane nascoste, non ufficiali,
uno scavare nei sentimenti degli altri, nelle loro relazioni erotiche riservate. Un sapere essenzialmente femminile, perché sono le donne che studiano
l’animo umano, l’amore, l’odio,
l’erotismo, e ne parlano quotidianamente fra loro. E nel pettegolezzo può esserci l’informazione maligna, che diventa
un’arma nelle mani di chi ha risentimenti e rancori.
Esiste poi la maldicenza degli uffici, di tutti gli uffici, dagli
ospedali all’università, che
nasce da rivalità, invidie, ingiustizie.
Diverse volte, non appena
chiamato a dirigere una nuova
istituzione è venuto qualcuno a
darmi informazioni — riservate,
riservatissime si intende — un
semplice «si dice», su tizio, caio, le loro storie sessuali, i loro errori, gli imbrogli che hanno
fatto. E a spiegarmi perché questo ha fatto carriera e l’altro no.
Pettegolezzi maligni per liberarsi di avversari, per farsi strada.
Ma che contengono qualche ve-
SOLUZIONI
Francesco
Alberoni
Miscellanea
Curiosità: Le donne dell’antico Egitto, per avere unprofumo persistente e che durasse a lungo, portavano sul capo
particolari coni di cera, che erano profumati con estratti
di erbe e dopo venir accesi si fondevano sulle parrucche
indossate dalle donne, emanando un dolce profumo.
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Lettera al futuro - Comunità Italiana