Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VI - numero 48 Lettera al futuro Don Milani Gennaio / 2005 2 Gennaio / 2005 3 Dicembre / 2007 Istituto Italiano di Cultura Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil L’enjambement nella poesia di Edoardo Cacciatore: l’apertura della forma chiusa www.comunitaitaliana.com [email protected] Direttore dell’IIC Rubens Piovano Editore Marco Lucchesi Redattore Andréia Guerini Anna Palma Grafico Alberto Carvalho Copertina Illustrazione COMITATO DI REDAZIONE Andrea Lombardi (UFRJ); Anna Palma; Annita Gullo (UFRJ); Arcangelo Carrera; Constança Hertz (UFRJ); Cristiana Cocco (UFF); Cristiane Magalhães; Doris Natia Cavallari (USP); Esman Dias (UFPE); Eugenia Maria Galeffi (UFBA); Fabio Andrade (UFPE); Fabrizio Fassio; Flora De Paoli Faria (UFRJ); Giuseppe Fusco; Giuzy D’Alconzo; Hilário Antonio Amaral (UNESP); Katia d’Errico; Livia Apa (Istituto Orientale di Napoli); Maria Lizete dos Santos (UFRJ); Maria Pace Chiavari (IIC-RJ); Mauricio Santana Dias (UFF); Mauro Porru (UFBA); Paola Micheli (Siena); Paolo Spedicato (UFES); Rubens Piovano; Sonia Cristina Reis (UFRJ); Wander Melo Miranda (UFMG); Débora Ramos (collaboratore); Adriana Neves (stagista); Andressa Abraão (stagista); Graciela da Silva (stagista); Luana Rosa (stagista); Paulo Ponteiro (stagista); Thalys Pontes (stagista) COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Luciana Stegagno Picchio; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus Gruppo di Traduzioni Antonella Genna; NUPLITT - Núcleo de pesquisa em literatura e tradução da UFSC (Universidade Federal de Santa Catarina): Andréia Guerini, Cláudia Borges de Faveri, Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan, Walter Carlos Costa e Werner Heidermann. Ricerca Federico Bertolazzi; Nello Avella; Rino Caputo; Università Roma II “Tor Vergata” ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. SI RINGRAZIAno ABPI, ACIB, Imprensa Oficial do Estado do Rio de Janeiro, UFBA, UFF, UFRJ, IIC, USP. STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 1676-3220 2 Giovanni Zambito Lena Jesus Ponte Pousa a ave no mármore. Num leve tremor, a estátua sente o que é ter vida. Posa l´uccel sul marmo. In un lieve tremore, la statua prova ciò che vuol dir vita. Nato a Palermo il 18 novembre 1912 da genitori agrigentini, Edoardo Cacciatore si trasferisce con la famiglia a Roma nel 1917, dove, fino alla morte il 25 settembre 1996, vive in maniera sempre appartata insieme alla moglie Vera Signorelli, anch’ella scrittrice, con la quale frequenta l’ambiente artistico e letterario romano e internazionale. Il trauma della morte del fratello nel 1928 contribuisce a indirizzare il suo interesse alla riflessione filosofica, pratica intellettuale costante nella sua vita che, unita indissolubilmente all’ingente attività poetica, segna uno dei tratti distintivi fondamentali della sua produzione e, insieme, uno dei principali motivi della sua pressoché totale emarginazione dal panorama critico-letterario italiano. L ungo tutta la parabola della sua esperienza poetica egli si è sempre mosso esclusivamente all’interno delle forme chiuse, regolate da sistemi di norme fisse, contribuendo al contempo ad allargarle, ampliandone gli orizzonti e le potenzialità. Il rispetto rigoroso dei canoni metrico-formali da parte sua è accompagnato da forme fluide che consistono in un inedito sistema strofico, metrico e rimico attraverso il quale reinventa e rimodella tecniche scrittorie che si avvolgono in spirali di suoni, eco e ritmi, dando a quelle forme movimento e dinamismo, un aspetto rigenerato, nuovo nella sua esagerazione formale. Ma è soprattutto il loro significato teorico-poetico che è cambiato: lo scopo di un uso così insistito e inflessibile di forme regolate non è più tanto estetico, quanto funzionale al progetto globale della scrittura, ovvero una via pionieristica di conoscenza. Lo stesso Cacciatore afferma “Se ad ognuno è lecito incarnare l’espressione poetica nella forma arbitrariamente più prediletta, tuttavia è giusto asserire la forma chiusa esser proprio quella che può procurare il massimo di apertura conoscitiva”. La forma chiusa allora, lungi dall’essere considerata una gabbia restrittiva che impedisce la libera espansione dell’Io lirico, appare al contrario una fertile trama di rapporti che gradualmente s’instau- ra nel processo della scrittura; una costruzione dove le rispondenze foniche, ritmiche e rimiche stabiliscono una novità di legami che garantisce al testo “il massimo di apertura conoscitiva”. La chiusura dunque risulta sempre funzionale e prodroma di un’apertura, giustificata e anzi generata dai meccanismi artificiosi della forma chiusa, in modo che secondo Tommaso Ottonieri “ogni chiusura schiuda un margine ulteriore, da cui revertire il senso non appena lo si sia acquisito”. Tra le raccolte poetiche di Cacciatore La puntura dell’assillo è quella sicuramente meno articolata e complessa rispetto alle altre (La restituzione, Lo specchio e la trottola, Ma chi è qui il responsabile): un’unica forma fissa già esistente e ben collaudata si snoda in cinquantuno sonetti elisabettiani, composti di tre quartine a rima alternata e un distico finale a rima baciata, non più però di endecasillabi ma di dodecasillabi. Ogni verso è formato da due senari, ciascuno accentato sulla seconda e sulla quinta sillaba: i tempi forti in posizione fissa consente un rilievo particolare all’elemento ritmico al quale viene conferito un peso gnomico eccezionale. La frase disposta all’interno della struttura ritmica crea un divario programmatico tra metro e logica discorsiva e consegue l’obiettivo di 3 Gennaio / 2005 4 una lettura straniante, orientando la fruizione a una consapevolezza della difficoltà e della non immediata univocità del segno linguistico. Strumento retorico principale di tale strategia scritturale è l’enjambement che consente lo scivolamento semantico di un verso nel successivo, con un senso derivante di apertura e fluidità: Cacciatore lo porta al più alto livello di efficacia, là dove il battere deciso del metro, a fine verso, lavora a contrasto; da qui un effetto suggestivo e fertile sbilanciamento. Ecco alcuni esempi: Da L’energico impatto (VII): vv. 3-4 Di pianto fa subito riso e sussiste/ Assiduo Da Il saliscendi ilare (VIII): vv. 1-2 e 8-9 Ne avverti il fruscio seppure non tendi/ L’udito a distanza Da Il cibo croccante (IX): vv. 1-2 Nel buio è esitante splendore di lucciola/ sospesa a ramengo Da Laboriosità dell’ozio (X): vv. 3-4 Si finge una tappa ma in pratica stasi/ È studio di chi tende agguati Da Gran festa efferata (XIV): vv. 1-3 Per giuoco vistoso falò cosa grata/ Pareva in principio ma poi era rogo/ Che i visi scartoccia… Da Molteplicità dell’unico (XIX): vv. 3-5 e 7-11 Funziona da perno ed ecco è la gente/ D’accordo nell’atto preciso di darti/ Notizia che sei quell’uno tra i molti Ottieni e ridai agli altri una spinta/ Retrograda… Da Costanza dell’agire (XXI): vv. 4-5 Ti àlteri e agisci altrimenti è la legge/ Dell’Essere… Da Divieto di transito (XXIV): vv. 1-2 4 La targa d’avviso al pubblico dice/ Divieto di transito… Gennaio / 2005 Don Milani: Lettera al futuro Da Intelletto (XXV): vv. 11-12 Sull’attimo subito innalzi una scala/ Armonica… In questi, come in tanti altri casi, l’enjambement tende a farsi assidua cerniera tra i versi, coinvolgendone spesso più di due, formando una struttura serpentina. Nel sonetto XXXI, Febbribile è il senza, addirittura ogni verso s’inarca in quello seguente, attraverso legami forti soggetto-verbo, sostantivo-attributo, sostantivo-complemento di specificazione. L’inarcatura è poi tanto più efficace quando il senso viene stravolto o modifica il suo segno nel passaggio di verso, provocando un vero terremoto nella lettura che deve prontamente deviare le proprie supposizioni interpretative. Tale contatto stretto con i sussulti del metro porta a una straniante arbitrarietà della costruzione del periodo, a quella che Marcello Carlino chiama “una pronunciata ‘inquietudine’ semantica”, che è però anche garanzia del permanere nel verso, nonostante la martellante fissità degli accenti, di una notevole mobilità interna, che consente slittamenti, fratture, unioni foniche e semantiche, un fluire aspramente musicale delle parole del sonetto. In questa maniera la griglia fissa della forma chiusa non è affatto una gabbia costrittiva ma diventa fattore di apertura conoscitiva infinita. Le rime, dispositivi meccanici imprevedibili, trappole acustiche e visive, acquistano un enorme potere di cambiare volto alle parole, vitalizzando ciò che da solo era esangue e non comunicativo. La forma chiusa come nel caso cacciatoriano è in grado di provocare incontri della lingua inaspettati, contatti inediti ed insoliti tra le parole accrescendo e rimandando gli orizzonti immaginativi e conoscitivi del lettore, spiazzandoli e ampliandoli di continuo con la violenza della sorpresa. Bibliografia E. Cacciatore, Carichi pendenti, Lubrina, Bergamo, 1989 E. Cacciatore, Itto Itto, Manni, Lecce, 1994 E. Cacciatore, Tutte le poesie, Manni, Lecce, 2003 F. Fusco, Estetica verso noesi in Edoardo Cacciatore, in “il verri”, n.42, 2002 F. Fusco, Compositio illimitata e ricerca del Livre, in E. Cacciatore, Tutte le poesie, cit. T. Ottonieri, Ricordo di Edoardo Cacciatore, in “Poesia”, n. 102, 1997 «Quaderni di critica» (a cura di), Edoardo Cacciatore: la rivoluzione poetica del Novecento, Roma 1997: saggi sull’intera parabola letteraria di Cacciatore di C. Bello, F. Bettini, I. Capotondi, M. Carlino, R. Di Marco, G.R. Hocke, M. Lunetta, L. Malerba, M. Manganelli, S.M. Martini, F. Muzzioli, G. Patrizi, M. Perriera 5 L orenzo Carlo Domenico Milani Comparetti nasce a Firenze il 27 maggio 1923 in una famiglia ricca di cultura oltre che di denaro. Quel “Comparetti” gli viene da un bisnonno paterno: Domenico, filologo tra i maggiori dell’Ottocento, senatore del regno in riconoscimento dei meriti scientifici, morto nel 1927 a 92 anni (Lorenzo ne aveva 4) senza discendenti maschi. Per rispettare le sue volontà i nipoti, figli dell’unica figlia, e i pronipoti, aggiunsero al proprio il cognome di Comparetti. Affettuoso è il ricordo che Lorenzo conservò del bisnonno e proprio da questo grande studioso, appassionato della lingua e della parola, forse don Lorenzo ha acquisito la consapevolezza della grande potenzialità che la lingua ha nel cammino di riscatto dalla povertà e dall’emarginazione. Ordinato sacerdote il 13 luglio del 1947, dopo un brevissimo incarico nella parrocchia di Montespertoli, don Lorenzo Milani viene mandato cappellano a San Donato di Calenzano, in aiuto del vecchio parroco. Qui scopre due realtà assolutamente nuove per lui, e inaspettate: la povertà, materiale e culturale; la mancata, o perduta, cristianizzazione. Si trova così a dover impostare e risolvere un problema cui gli studi teorici del seminario non l’hanno preparato: come fare concretamente il proprio mestiere di prete secolare, in coerenza col Vangelo e con la propria scelta esistenziale e di fede. Dopo vari tentativi di approccio che presto gli si rivelano sbagliati, decide di impiantare in canonica una scuola serale aperta a tutti i giovani, senza discriminazioni politiche o partitiche purché di estrazione popolare e operaia. Con questa scuola, di giorno in giorno più intensa, appassionata e appassionante, ma non soltanto con essa, in breve tempo si tira addosso prima la diffidenza poi l’aperta ostilità dei parrocchiani che contano, benpensanti moderati, democristiani in testa; e di molti altri preti della zona. Ha presto inizio così una campagna prima di opposizione sorda, poi di diffamazione aperta che dopo sette anni, nel dicembre del 1954, culmina in una “promozione”: la nomina a priore di Sant’Andrea di Barbiana, parrocchia nel comune di Vicchio del Mugello: un centina- io d’anime in una manciata di case sparpagliate sulle pendici del monte Giovi, senza strada, senz’acqua, senza luce. La curia, rimangiandosi la decisione di chiusura annunciata, decide di tenerla aperta per esiliarlo lassù. Già a San Donato, Don Milani ha fatto una scelta di povertà austera, che a Barbina si radicalizza, fino al rifiuto di gestire il podere costituente il “beneficio” della parrocchia. Campa della sola “congrua”: il magro stipendio statale assegnato,col concordato del 1929, ai preti. Dalla famiglia, e dagli amici vecchi e nuovi, accetta soltanto, e all’occorrenza sollecita, aiuti per il lavoro della scuola e per la salute dei suoi ragazzi, spesso minata dalla miseria secolare e dalla denutrizione ancestrale della gente della montagna: la guerra è finita da una decina d’anni appena, il “miracolo economico” dell’Italia non arriva ancora 5 Gennaio / 2005 6 in vetta all’Appennino. Gli servono libri, enciclopedie, atlanti e carte geografiche, dischi e giradischi a molla o a pile, macchine per scrivere e calcolatrici, cancelleria, utensili. Ha bisogno, per i suoi ragazzi, di medicine, vitamine, ricostituenti, analisi ed esami medici, cure dentarie. Denari, ne chiede per i viaggi all’estero, quando d’estate manda i ragazzi, a turno, a imparare le lingue e la vita degli altri popoli. Ma unicamente i denari per il biglietto meno costoso: a mantenersi devono provvedere da soli, lavorando. La vita a Barbina scorre austera come in un monastero in cui il tempo è prezioso e non deve essere sprecato, con l’obiettivo di dare strumenti intellettuali e linguistici ai senza voce del suo tempo. Tutto sarà scuola in questo angolo di Appennino, tutte le esperienze saran- no dettate dal grande amore di don Milani per i suoi ragazzi, piccoli e disarmati, da riscattare ed emancipare.” Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.…”, così diceva don Milani sul letto di morte, testimoniando il grande legame affettivo, da maestro ed educatore, che aveva con i suoi ragazzi. Nel 1958, in primavera, esce Esperienze pastorali, il suo primo e unico libro, del quale, a dicembre, il santo Uffizio ordina il ritiro dal commercio. Nel 1960 avverte i primi sintomi del morbo di Hodgkin. Nel 1965 replica pubblicamente agli insulti rivolti da un gruppo di cappellani militari agli obbiettori di coscienza, e si guadagna un rinvio a giudizio per vilipendio e apologia di reato. Impossibilitato dalla malattia a presentarsi in tribunale, scrive la propria autodifesa, resa pubblica alla prima udienza del processo: è la Lettera ai giudici. Nonostante l’aggravarsi della malattia prepara “La lettera a una professoressa” che, come spiega Agostino Ammannati ‘non è un libro di pedagogia. E’ un libro civile: riguarda la civitas che deve migliorare’, in cui si analizzano, con una prosa incalzante, asciutta ed incisiva i mali della scuola italiana: una rampogna agli intellettuali al servizio di una sola classe, scritta collettivamente dai ragazzi della scuola di Barbiana e che verrà pubblicata nel maggio del 1967. a cura di Primetta Bertolozzi Dirigente Scolastico Istituto Comprensivo Massarosa 1 San Donato di Calenzano: la prima parrocchia A S. Donato don Milani dà inizio ad una attività che caratterizzò in modo notevole la sua figura: la scuola popolare. Per capire come funzionasse la scuola popolare di don Milani a S. Donato, occorre leggere le pagine di Esperienze pastorali. Don Milani avverte lo stato di arretratezza culturale dei suoi parrocchiani; egli vede come l’ignoranza sia la causa prima dei loro mali. I poveri non riescono a far valere i loro diritti perché mancano del linguaggio occorrente per discutere da pari a pari con i borghesi. La loro ignoranza li ha chiusi 6 in una religiosità del tutto formale, che rende impossibile, da parte del sacerdote, il dialogo capace di penetrare nelle anime, di mirare ai valori essenziali della dottrina di Cristo. È dovere del Sacerdote, secondo don Milani, aiutare i giovani ad uscire da questa ignoranza. Alla scuola vengono ammessi tutti i ragazzi che lo desiderino, indipendentemente dal loro atteggiamento religioso o dalla loro fede politica. Nel volume Lettere alla mamma è riportata la minuta di una lettera (forse mai spedita) al Cardinale Arcivescovo, datata 29-4-53; in essa don Milani difende il suo operato da accuse che erano state fatte nei suoi riguardi presso la Curia. A proposito della scuola popolare egli scrive: “La grandissima maggioranza dei giovani ha frequentato la nostra Scuola Popolare. Comunisti e democristiani han seduto per sei anni sugli stessi banchi sotto l’influsso profondo di un prete che non ha fatto nulla per vincerli ma neppure per convincerli. Così è per molti caduto il muro della divisione, per quasi tutti l’idolatria dei partiti e dei giornali, in tutti cresciuta la stima per l’oggettività inattaccabile Gennaio / 2005 di quel prete. Mi si accusa di non avere in classe il Crocifisso e che in classe non parlo mai ex professo di religione. Prima di trovarci a ridire bisognava esaminare con serenità gli scopi e i risultati. Il numero dei giovani che frequentano i Sacramenti e il loro venirci da sé senza organizzazione né invito né occasione festiva o periodica, prova che l’influenza della scuola è stata profondamente religiosa anche senza quel contorno esteriore” . Si incomincia a intravedere la natura del contrasto che stava sorgendo tra don Milani da un lato e gran parte del mondo ecclesiastico fiorentino dall’altro: l’atteggiamento di fronte ai partiti politici, e in particolare al Comunismo. In una lettera del 13 agosto 1949 egli parla di una vivace discussione con alcu- 7 ni confratelli del Vicariato sul problema del negare o meno i sacramenti, e in particolare il matrimonio, ai comunisti. Una più grave questione sorse nel 1951. In quell’anno si tennero le elezioni amministrative a Calenzano; le istruzioni dei vescovi della Regione toscana del 20 maggio 1951 (riportate parzialmente nella sopra menzionata minuta della lettera di don Milani al Cardinale Arcivescovo) stabilivano che “Gli elettori per grave obbligo di coscienza devono votare per quei candidati o liste di candidati che sapranno difendere i diritti di Dio, della Chiesa, della Famiglia Cristiana”. A Calenzano si presentarono due sole liste: una del PCI e PSI, l’altra degli altri partiti (presumibilmente, DC e partiti di centro). L’elettore, in base alla legge allora vigente per i comuni con me- no di 10.000 abitanti, poteva votare per una lista, oppure per singoli candidati scelti dalle varie liste. Don Milani sostenne pubblicamente che, poiché non tutti i candidati della lista contenente la DC davano a suo giudizio le garanzie richieste dalle istruzioni dei Vescovi, l’elettore cattolico dovesse dare il voto ai singoli candidati (che offrissero tali garanzie) e non a tutta la lista. Ma, secondo quanto risulta dalla suddetta minuta, il Cardinale mandò a chiamare don Milani e gli ordinò di tacere. Don Milani, anche su consiglio della mamma, per non creare scandalo, partì per l’estero, e non partecipò alle votazioni.” DON MILANI OTTO ANNI DOPO di GUIDO ZAPPA Studium, n° 5, 1975, pagg. 697 La posizione politica di Don Lorenzo Milani (1947-1967) A vent’anni dalla morte di don Lorenzo Milani, appare evidente il contrasto tra l’esaltazione che si fece di lui e della sua opera negli anni Sessanta e Settanta ed il quasi oblio degli anni Ottanta. Soprattutto negli anni Settanta cattolici, comunisti, extraparlamentari di sinistra facevano a gara nell’individuare il “don Milani” che più faceva comodo per farne uno dei “loro” ed utilizzarlo ai fini della loro battaglia politica quotidiana. Alcune citazioni tratte da “Civiltà Cattolica”, da “Rinascita” e da “Scuo- Antonino Bencivinni la documenti” potranno dare un’idea dei numerosi tentativi di cattura ideologica cui fu sottoposta l’attività dell’autore di Esperienze pastorali e del “regista” di Lettera a una professoressa. “Esperienze pastorali confonde le menti, esaspera gli spiriti, scalfisce la fiducia nella Chiesa e suggerisce propositi sconsigliati... Il cuore si restringe al pensiero che un sacerdote scriva con stile tanto risentito ed incontrollato” (“Civiltà Cattolica” 1958). ”C’è nella figura e nell’opera di don Milani una carica umana e cristiana che affascina... E’ stato un uomo che riesce oggi a scuotere salutarmente il lettore e a farlo riflettere su un certo tipo di cristianesimo e su certi modi di essere cristiano” (“Civiltà Cattolica”, 1970). “Il valore politico della sua lotta è la guerra contro la cultura borghese, la scelta dell’anticultura, la scelta degli sfruttati come compagni di strada, la necessità di cambiare, l’analisi spietata della scuola e del suo classismo” (“Scuola documenti”, 1975). “Sarebbe proprio assurdo cercar di deformare questo sacerdote, farne “uno dei 7 Gennaio / 2005 8 nostri”. Non è marxista, si capisce. Non gli interessa che i “poveri” non siano più “poveri”, gli interessa che si salvino” (“Rinascita”, 1970). Queste diverse utilizzazioni degli scritti e dell’opera di don Milani sono state rese possibili soprattutto dalla mancanza di studi che, più che ad esaltare la “correttezza” di certe prese di posizione del Priore di Barbiana, mirassero a dare una spiegazione coerente delle reali o, più spesso presunte, contraddizioni individuate nella sua opera. Il mio vuole essere un contributo in direzione della comprensione della posizione politica di don Milani, così come si evince dai suoi scritti. Appoggio politico alla DC e valutazione positiva della CISL Nonostante il riconoscimento delle gravi ingiustizie sociali e delle responsabilità del partito di maggioranza al governo, don Lorenzo accoglie l’indicazione della gerarchia di votare e far votare per la Democrazia Cristiana, ma nel tempo l’appoggio alla DC sarà sempre più critico. Così nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948, l’appoggio è totale. Scrive don Milani: “Poi venne il 18 aprile. il prete aprì gli occhi sul mondo e vide profilarsi vicina la minaccia dei nemici di Dio. Allora gridò forte come la mamma in difesa dei suoi pulcini, se li chiamò intorno, li coprì colle sue ali. Anche il ricco ebbe paura, e aiutò il prete a salvare i suoi pulcini dai nemici di Dio. Così il grande male fu scongiurato e ognuno poté riprendere a sognare cose belle, vittorie sugli altri mali. Ma fra tutti i sogni il più bello fu quello di Fanfani” (Milani 1950, p. 171). 8 Gennaio / 2005 9 Don Milani, prete esiliato dalla chiesa Adriano Sofri V Nelle elezioni successive don Milani comincia a fare delle distinzioni e ad appoggiare nella DC la componente più sensibile alle istanze sociali; il motivo lo esplicita chiaramente in una lettera del 1953 al Cardinale Arcivescovo a spiegazione del suo comportamento nelle elezioni del 1951.: “Mi son... convinto del grave stato di disagio in cui vive il mio popolo, delle ingiustizie sociali delle quali è vittima e della profondità del rancore che nutriva verso la classe dirigente, il governo e il clero. Ho allora sentito quanto questo rancore fosse insormontabile ostacolo alla sua evangelizzazione e ho perciò deciso di dedicarmi a una precisa distinzione di responsabilità. Scindere cioè con esattezza a costo d’esser crudeli le responsabilità (fittizie o reali che siano) del governo dai purissimi principii del Vangelo e delle Encicliche sociali ” (LM pp. 82-83). Don Milani, volendo dimostrarne la validità contro il comunismo, scrive che con i metodi da lui seguiti, ad esempio “obbligo di votare solo per i candidati democristiani e di cancellare gli alleati, anche a costo di indebolire la lista” e anche “continua denigrazione del Governo e della DC” (EP p 256), i comunisti a S. Donato, tra il 1946 e il 1951, perdono complessivamente il 23,3% dei voti, a differenza delle altre parrocchie (i cui parroci seguono ben altri metodi) in cui perdono negli stessi anni solo il 10,3% dei voti; d’altra parte la DC negli stessi anni a S. Donato registra un aumento del 43% di voti, nelle altre parrocchie invece ottiene un aumento soltanto del 16,7% (EP p. 257). Il ragionamento di don Lorenzo, che svolge - come si ricorderà - la sua attività pastorale in una parrocchia operaia come quella di S. Donato, è dunque molto chiaro: il prete deve criticare gli sbagli del governo e della DC se vuole essere creduto dai poveri quando critica i comunisti; inoltre deve dare l’indicazione di votare per la DC, suggerendo di assegnare la preferenza ai candidati più sensibili alle istanze sociali. Scuola e Città, Roma, n° 2, 29 febbraio 1988, pagg. 52-57 i segnalo uno dei capitoli più inediti di un nuovo libro di e su don Lorenzo Milani, I care ancora, appena uscito per l’Editrice missionaria italiana a cura di Giorgio Pecorini (480 pagine, 35 mila lire). È un carteggio con monsignor Loris Francesco Capovilla, iniziato nel ’60 da una lettera di don Milani. Capovilla era stato segretario particolare di Angelo Roncalli quando era ancora patriarca di Venezia, poi lo aveva seguito a Roma quando, nel ‘58, diventò inopinatamente Papa. Fu la sua ombra per tutta la durata di quello sconvolgente pontificato, poi fu da vescovo a Chieti e Loreto e oggi è arcivescovo e vive a Sotto il Monte Giovanni XXIlI, Bergamo, dedicandosi senza risparmio alla memoria del suo Papa e alla causa della sua santità. Nella prima lettera don Milani gli domanda se il decreto del Santo Uffizio del ‘58 che aveva ritirato dal commercio il suo libro Esperienze pastorali e ne aveva vietate le traduzioni non possa considerarsi ormai superato. Gli hanno chiesto una traduzione francese per le Editions du Seuil. Forse Capovilla potrebbe accennarne al Papa? Il tono di don Milani è spiritoso. “Sono passati due anni da quando il mio libro era “esplosivo”, le cose “ardite” che conteneva sono ormai patrimonio delle persone moderate”. Don Milani ricorda di avere ricevu- to in passato un opuscolo da Capovilla e gli dice: “Non so perché, ma ho idea che ella debba provar per me dell’affetto e del rispetto”. Monsignor Loris risponde subito, in un tono affezionato ma cauto: in sostanza esortando alla pazienza e alla discrezione. Passano altri due anni e nel maggio del ‘62 don Milani accompagna i suoi ragazzi a Roma, ad assistere a una seduta parlamentare, a partecipare a un’udienza papale e a visitare i Musei Vaticani. È la visita ai Musei e alla basilica di San Pietro a suscitare lo scandalo dei ragazzi e del loro padre, che lo mette senz’altro per iscritto. “L’impressione favorevole, inutile dirlo, l’ha data il Papa. Per le cose dette e per la maniera di dirle. Sembrava davvero un contadino o un vecchio parroco di montagna”. Per il resto, un disastro. Prezzi dei biglietti esosi, impiegati sprezzanti, “insensibili di fronte a ragazzi di montagna, sensibili solo alle contesse tinte e ingioiellate”. Ecco come finisce la lettera: “In Vaticano dei ragazzi di montagna che vivono fra dure privazioni contano meno di un oppressore in marsina e cilindro con moglie letteralmente coperta di gioielli e tinta che abbiamo visto distintamente a mezzo metro dal Papa. I miei ragazzi non sono abituati a vedere donne tinte. Nessuna delle loro mamme o sorelle si tinge. Non potrebbe il Papa mettere dei lavandini agli ingressi del Vaticano e ricever solo figliole con la faccia lavata? In tal caso può mettere anche il sapone a pagamento perché le mie bambine non ne avranno bisogno”. Panorama, Roma, 5 aprile 2001, pag. 310 9 Gennaio / 2005 10 L’esilio a barbiana, speduta parrocchia sui monti di Firenze D a una lettera alla mamma del 14 luglio 1952 si comprende come successivamente i contrasti tra don Milani e l’ambiente ecclesiastico circostante si fossero ulteriormente accentuati. E’ una delle lettere più notevoli per l’elevatezza dei concetti e dei sentimenti professati. “Ieri ho fatto una leticata che forse sarà decisiva. Con un canonico di Prato che era qui a predicare. Ho l’impressione che la mia carriera ecclesiastica stia precipitando. Ma te non cominciare a allarmarti, te devi preoccuparti solo ch’io sia sereno e buono. E sereno sono... Ti ricordi come rispose Simone Weil al superiore che minacciava di destituirla? “Ho sempre considerato la destituzione il naturale coronamento della mia carriera scolastica””. Don Milani continua la lettera dicendo che egli sarà certamente allontanato da S. Donato alla morte del Proposto, e comunque prima delle prossime elezioni (del 1953). “Comunque per me non c’è nessuna possibilità di restare qui. Sono decisissimo a non difendermi e a non lasciarmi difendere da amici... L’unica cosa che mi farebbe veramente male sarebbe che mi condannassero dottrinalmente. Ma questo non dovrebbe poter avvenire 10 perché ho sempre guardato d’esser cristiano e cattolico e ho sempre chiesto di morire in questa fede. E del resto mi ci sento ogni giorno più vicino tant’è vero che mi dedico tutto alla sua diffusione e tutta la divergenza sta sul modo di diffusione... Io sono grato al Signore d’ogni minuto di più che mi lascia a S. Donato perché son tutti regalati. Te non ti dar pensiero perché sai che mi son sempre trovato bene da per tutto. A andar male male mi potranno mettere maestro al Seminario Minore. E 6 mesi dopo mi leverebbero anche di lì e mi farebbero parroco in una chiesetta di montagna così saranno accontentati anche i tuoi desideri medici. Mi dedicherò al catechismo e agli studi e avrei modo di raffinare nella solitudine la mia spiritualità che ne ha urgente bisogno!”. Don Milani poté rimanere a S. Donato sino al 1954, cioè sino alla morte del Proposto. Ma allora si verificò, sia pure in parte, ciò che aveva previsto. Non fu mandato al Seminario Minore, bensì direttamente parroco in montagna, a Barbiana. Così la descrive la mamma in una nota a piè di pagina: “A 7 chilometri da Vicchio nel Mugello. C’è una chiesa del Trecento, una canonica e qualche casa sparsa nei boschi. Mancava allora l’acqua, la corrente elettrica, la strada, il servizio postale. Per i primi anni le lettere arrivavano a Barbiana quando qualcuno le andava a prendere a Vicchio”. Egli infatti si mise all’opera a Barbiana con tutte le sue forze, e in breve la trasformò materialmente e moralmente. Aiutato da alcuni giovani di S. Donato e poi dai Barbianesi, riuscì a sistemare la strada di accesso a Barbiana in modo che vi giungessero le macchine. E tanti tanti altri miglioramenti seppe realizzare, atti a diminuire l’isolamento del paese e a renderlo meno inospitale. Tutto ciò si deduce dalle lettere degli anni seguenti, assieme con la descrizione dell’arretratezza della vita dei montanari (in inverno, sotto la neve, la zona restava completamente isolata), della loro miseria ed anche un po’ della loro chiusura mentale e diffidenza, causate dall’abbandono in cui erano lasciati da parte dei pubblici poteri. Ma l’opera più bella fu la scuola popolare, che subito prese a realizzare e che ebbe un successo grandissimo. Gennaio / 2005 11 Le Stazioni di Lisbona Thierry Perret Cinemateca La Bohème, de King Vidor. Un pianista eseguisce temi e variazioni alla scena del film senza voce; la protagonista infelice fa piangere con indifferenza sia in inglese che in portoghese uno spazio quasi vuoto, e tutto qui: il sacrificio di una sciagurata che fa credere che l´amore è sempre tragico, l´umore è il virtuosismo del realizzatore, il non congruo di questo film scelto a caso, adesso, qui; tutto ciò è pacifico ed emoziona, per delle ragioni che riguardano la solitudine e la soddisfazione di pensare che la grazia vi possa sorprendere in qualunque occasione, nei luoghi e nei momenti di maggior disperazione. Si fanno delle cose straordinarie in viaggio: si va al cinema, si entra in una libreria, si visita un supermercato. Tutto è possibile, tutto è pieno di intensità. A cura di Maria Coppolecchia Ufficio Scolastico Provinciale di Prato 11 Gennaio / 2005 12 Gennaio / 2005 13 Ponte 25 de abril Estrela Sono alfine sul ponte dei terribili capogiri, ma niente vedo del vuoto, stasera in um traffico pieno, tornando dall´escursione al Capo Espichel, con José Gil. Il filosofo finisce il lavoro del suo libro, in cui si rivolge al “mal” portoghese: il rifiuto del passato, d´un Portogallo modellato per decenni dal fascismo, illuso dal mito della Rivoluzione del 74. Rifiuto del passato, e perciò della realtà, e le sue implicazioni: la non-responsabilità, l´assenza di iniziativa, e sicuramente d´engagement. Con José Gil, come con tanti altri, quel sentimento secondo il quali gli intellettuali portoghesi sono duri. Ecco un paese che ha un forte subconsciente. Il Portogallo, è la merda, dirà Daniel un giorno, a Parigi. Una pastelaria, il piatto del giorno alle vecchie signore che, con tanta cerimonia, si danno il buongiorno. Dei turisti rumorosi con i suoi bambini: questa voce dei Francesi e i loro sbiaditi accenti. Il turista, da queste parti, è sovente francese. Bairro das colônias Jardim da Estrela: conosco la stanchezza, il suo segno come uma vecchia parte di me che torna a casa amorevolmente, in cui as di essere bene accolta (poco spazio qui, io mi ranniccchio per farle posto). Niente di quel che vedo, o sento, le risulta sconosciuto, essa prende tutto per sé, affamata, prima di far piazza pulita – lei. Traduzione Manuel Jardim Da Livia, una terrazza alta appollaiata e che s´affaccia su delle vie lontane, Mozambico, Capo Verde, Angola, per ricordare i lunghi tempi coloniali. Lunghi, perché la storia è qui del tutto aperta, un dolore nazionale. 12 13 Gennaio / 2005 14 Guimarães Rosa e la traduzione A lfredo Bosi in História Concisa da Literatura descrive Guimarães Rosa come un “artista-demiurgo”, che seppe abolire “intenzionalmente le frontiere fra narrativa e lirica [...].Grande Sertão: Veredas e le altre novelle di Corpo de baile includono e rivitalizzano risorse dell’espressione poetica: cellule ritmiche, allitterazioni, onomatopee, rime interne, audacie morfologiche, ellissi, tagli e dislocamenti di sintassi, vocabolario insolito, arcaico o del tutto neologico, associazioni rare, metamorfosi, anafore, metonimie, fusione di stili, coralità”. Per questa “rivoluzione”, Guimarães Rosa è considerato uno dei più grandi innovatori della lingua letteraria, potendo essere comparato con James Joyce o con Carlo Emilio Gadda. La complessità del linguaggio letterario rosiano, come non potrebbe essere altrimenti, è caratterizzata da un’accentuata attenzione estetica ed una delle preoccupazioni dell’autore mineiro era quella di far diventare quella lingua letteraria “adatta al mondo”. Non è a caso che Guimarães Rosa ebbe un successo immediato all’estero e alcune delle principali case editrici in Francia, Germania, Italia, Spagna e USA si interessarono a pubblicare le sue opere. Ma come tradurre queste opere, in cui i neologismi, la toponimia esotica di un universo per metà sertanejo, per metà metafisico e molte volte di difficile comprensione per- 14 Andréia Guerini sino per il lettore brasiliano? Una delle strategie usate dai suoi traduttori nel loro arduo compito è stata quella di consultare lo stesso autore per risolvere i loro dubbi. Com’è noto, Guimarães Rosa stabilì relazioni epistolari con vari dei suoi traduttori in varie lingue. In totale, ci sono 73 lettere tra lui e Curt Meyer-Clason, traduttore al tedesco (dal 1958 al 1967), 129 lettere scambiate con Harriet de Onís, traduttrice all’inglese (dal 1958 al 1966), 47 lettere scritte a e ricevuta da Jean-Jacques Villard, traduttore al francese (dal 1961 al 1967), 20 lettere tra lui e Angel Crespo e Pilar G. Bedate, traduttori allo spagnolo (dal 1964 al 1967), 30 lettere tra lui e traduttori di diverse lingue per pubblicazioni isolate (dal dic/54 al 1967), 73 lettere scambiate con Edoardo Bizzarri, traduttore all’italiano dal 05/10/59 al 20/10/67). L’insieme della corrispondenza, che si trova nell’Istituto di Studi Brasiliani, raggiunge un totale di 372 documenti, molti dei quali contenenti allegati fino a 10 pagine con soluzioni ai dubbi. Non ha esagerato Paulo Rónai nel dire, nel 1971, che “il tempo perso con questa corrispondenza sarebbe stato sufficiente per scrivere un altro Corpo de Baile o un altro Grande Sertão: Veredas”. L’esame di questa corrispondenza mostra come lo scrittore si sia dedicato con accanimento al lavoro insieme ai traduttori, chiarendo dubbi lessicali e sintattici che questi gli presentavano, a volte nella forma di lunghi questionari e che l’italiano Edoardo Bizzarri aveva soprannominato “procosti”. In questa intensa corrispondenza, Guimarães Rosa aiutò sistematicamente i suoi traduttori a comprendere meglio espressioni, nomi, suoni e a decidere su alcune scelte, poiché l’autore brasiliano era un grande conoscitore di lingue straniere. La lettura delle lettere fra lui e i traduttori mostra come lo scrittore non solo rispondeva con impressionante minuzia ai questionari che gli erano presentati, ma dettagliava a volte spontaneamente significati occulti delle opere, svelando in esse quello che chiamava di suprassenso: ossia, il senso metafisico che intenzionalmente nascondeva dietro a una descrizione della natura o al nome di un personaggio. Niente di meno che una spiegazione dell’essenza delle sue metafore, a loro volta essenza della sua poetica, secondo quanto osserva Fernando Viotti in “Le lettere di Guimarães Rosa: traduzione e progetto letterario”. Ma c’era di più, Guimarães Rosa indicava cammini che credeva fossero i migliori per mimetizzare nelle lingue-target gli effetti ottenuti dal testo in portoghese. È anche attraverso i suggerimenti di procedimenti per un efficiente traduzione che possiamo estrarre il concetto di traduzione dell’autore di Primeiras estórias. Se prendiamo come esempio le lettere scambiate con Gennaio / 2005 il traduttore italiano, Edoardo Bizzarri, si percepisce, prima di tutto, che esiste un’intensa alleanza fra autore e traduttore. In molte lettere, Guimarães Rosa parla del traduttore come di un co-autore, al punto di dichiarare: “lei non è solo un traduttore. Siamo “soci”, questo sì, e l’invenzione e la creazione devono essere costanti. Il 18 agosto 1963, quando Bizzarri comincia a “parlare dei problemi, ignoranze e dubbi” che affronterà nella traduzione di Corpo de baile, dimostra di essere un traduttore di apparente buon senso, in cui molte volte opta per una traduzione che conservi elementi della lingua di partenza, ma preservi anche la lingua d’arrivo. Questa soluzione mista, di conservarne una parte e tradurre il resto non è assoluta per l’autore mineiro. Inoltre, è lo stesso Guimarães Rosa che lo propone, e questo forse sia il contributo più fecondo per la teoria della traduzione, che una volta il traduttore lasci alcune cose in originale, un’altra le traduca, un’altra faccia una traducadattamento. E consiglia ancora al traduttore italiano: “quanto più inventa a suo agio, più mi farà felice”. In realtà, l’autore di Grande Sertão: Veredas sa che la sua prosa letteraria si caratterizza per quello che Antoine Berman chiamò in A tradução da letra ou o albergue do longínquo come qualcosa capace di “captare, condensare e mescolare tutto lo spazio polilinguistico di una comunità. Essa mobilita ed attiva la totalità delle “lingue” coesistendo in una lingua. [...]Così, dal punto di vista della forma, questo cosmo linguistico che è la prosa, e in primo luogo il romanzo, si caratterizza per una certa informità, che risulta dall’enorme mistura delle lingue nell’opera. Essa è caratteristica della grande prosa”. 15 Forse per questo, Guimarães Rosa enfatizza la questione della libertà di invenzione e creazione da parte del traduttore. Edoardo Bizzarri segue i consigli dello scrittore mineiro, ma anche la sua propria intuizione di “dare il ritmo, la rima, il gusto delle approssimazioni inattese, il senso generale e giocoso dell’assurda ambizione umana, fuggendo forzatamente da una traduzione letterale”. Nelle lettere fra l’autore e il traduttore italiano, si percepisce che Guimarães Rosa tende ad avere una posizione che io chiamerei, per mancanza di un termine più adatto, sensata, visto che non è radicale nelle decisioni e comprende che, dovuto alla complessità del suo linguaggio letterario, a volte è più prudente analizzare i problemi nella misura in cui sorgevano e prendere decisioni in ciascuno dei casi separatamente. Perciò, in lettera del 25 novembre 1963, l’autore di Sagarana consiglia il traduttore italiano ad “accentuare di più, quello che trovi necessario. Omettere ciò che, in una traduzione, si dimostri inutile escrescenza. Lasciare in un canto ciò che è intraducibile, o riassumere, depurare, concentrare o ancora “Lei, come in tutte le restanti parti del libro, anzi, deve di preferenza prendersi libertà, senza sottomettersi con esattissimo rigore al corpo, alle parole del testo originale, [...] essendo meno importante la stretta equivalenza”. Come si sa, la questione della libertà e del ricreare nella traduzione, soprattutto poetica, fu teorizzata da Jakobson, Pound e i loro seguaci massimi in Brasile furono i fratelli Campos. Anzi, il ricreare c’entra molto bene nelle opere di Guimarães Rosa, poiché sono testi “traboccanti di diffi- coltà”, come li aveva ben definiti Haroldo de Campos. In lettera del 04 dicembre 1963, Guimarães Rosa compara l’atto di scrivere con quello del tradurre, poiché nello scrivere un libro, l’autore dice: io lo vado facendo come se lo stessi “traducendo”, da alcun alto originale, esistente in qualsivoglia posto, nel mondo astrale o nel “piano delle idee”, degli archetipi, per esempio. Non so mai se sto indovinando o sbagliando in questa “traduzione”. Così, quando mi “ri” - traducono in un’altro idioma, non so mai neanche se, in casi di divergenza, non è stato il Traduttore colui che, in effetti, ci ha indovinato, ristabilendo la verità dell’ “originale ideale”, che avevo travisato... Nello esplicitare come aveva elaborato il suo lavoro, Guimarães Rosa colloca scrittore e traduttore sullo stesso piano di scrittura e creazione, ambedue in cerca di un’opera “ideale”, avvicinandosi a Benjamin quando parla della traduzione come Forma, ma anche a Leopardi e Borges, perché per loro sia l’autore che il traduttore sono importanti, ambedue sono elementi fondamentali in questo processo, così come lo è il lettore. Per sapere che tradurre è compito duro, l’autore di Corpo de Baile risalta la sua preoccupazione di preservare non solo il contenuto, ma anche gli aspetti estetici degli originali, come già visto. Essendo così, il ricreare e la coproduzione sono elementi chiave per far sopravvivere l’opera letteraria di uno dei maggiori scrittori brasiliani di tutti i tempi in altre lingue. Traduzione di Anna Palma 15 Gennaio / 2005 16 Intervista a Roberto Mulinacci Andréia Guerini e Walter Costa In una recente visita alla UFSC (Università Federale di Santa Catarina) per presentare una conferenza nella Post-Laurea in Studi della Traduzione, intitolata “Metaletture. Claudio Magris lettore di Guimarães Rosa”, Roberto Mulinacci, professore di letteratura brasiliana e portoghese dell’Università di Bologna, ha concesso la seguente intervista ad Andréia Guerini e Walter Costa. Q uando e come è sorto il tuo interesse per le letterature in lingua portoghese? Il mio interesse è sorto solo negli anni della Facoltà di Lettere a Firenze e per pura curiosità intellettuale. Ossia, non avevo nessuna ragione specifica che mi spingesse a studiare la lingua portoghese: non avevo fidanzate lusitane o brasiliane, non ero pazzo per la MBP (ragione più che sufficiente, oggi, per molti studenti dei nostri corsi, interessati soprattutto a decifrare le parole delle canzoni di Caetano Veloso o Chico Buarque), non sognavo una vita ai tropici e ancor meno le spiagge dell’Algarve (una delle mete privilegiate dal turismo di massa europeo). In quegli anni io ero studente di Letteratura tedesca e stavo per concludere la mia formazione accademica di germanista, quando ho scoperto la narrativa di Antonio Tabucchi, che mi ha subito affascinato molto anche per le sue profonde radici portoghesi, facendomi sprofondare nelle suggestioni passatiste di una sonnolenta Lisbona piena d’incanto. Ma tutto ciò era, purtroppo, un mondo che io conoscevo ancora troppo po- 16 co, a parte, chiaramente, quel bagaglio elementare di conoscenze, non del tutto immune purtroppo dagli stereotipi, che è appannaggio di tutte le persone di cultura, in Italia e altrove. È stato quindi per assecondare un sincero desiderio di saperne di più che ho cominciato a frequentare le lezioni di portoghese e questa lingua, insieme alla sua letteratura, mi ha pian piano conquistato al punto che, alla fine di quell’anno, ho deciso di abbandonare il tedesco per il portoghese. Con grande delusione dei miei genitori, che mi pagavano gli studi e temevano, quindi, che una tale scelta avrebbe potuto non solo pregiudicare i loro sacrifici in prospettiva futura, ma anche aggravarli nell’immediato, con un prolungamento, perlomeno biennale, del mio percorso universitario: cosa che si è, in effetti, puntualmente verificata, benché forse, alla fin fine, col senno di poi, si possa dire che ne è valsa davvero la pena, soprattutto per il fatto di avere avuto l’enorme privilegio di trasformare una passione in lavoro. Come distribuisci questo interesse tra le letterature del Por- togallo, del Brasile e degli altri paesi di lingua portoghese? Il mio interesse per le letterature di lingua portoghese si limita in realtà al Portogallo e al Brasile. Che è già così – ossia, anche in questa veste “ridotta” - un campo di studio immenso e complesso, tanto è vero che situazioni analoghe in altri meridiani culturali sono affrontate con specializzazioni disciplinari assolutamente autonome. Basti pensare, ad es., a quel che succede con la letteratura spagnola e quella ispano-americana o, in ambito anglofono, con la letteratura inglese e quella nordamericana, le quali godono tutte di uno statuto individuale riconosciuto. In Italia, invece, la letteratura portoghese e quella brasiliana continuano ancora ad essere accorpate, a livello accademico, in un unico raggruppamento scientifico-disciplinare (si parla, infatti, di corsi di Letteratura Portoghese e Brasiliana, oppure di Lingua e Traduzione Portoghese e Brasiliana), ancorché la pratica didattica comporti evidentemente uno sdoppiamento dei percorsi, con insegnamenti di letteratura brasiliana sempre più frequenti negli atenei italiani. Gennaio / 2005 Ma, appunto, i docenti che la insegnano non risultano ufficialmente come brasilianisti – ancorché alcuni di loro lo siano a tutti gli effetti e, per giunta, di eccellente qualità (penso, tra gli altri, al mio collega e grande amico, Roberto Vecchi) -, rientrando piuttosto nella categoria storica ed onnicomprensiva dei lusitanisti, con la sola eccezione dell’Università La Sapienza di Roma, dove, invece, da anni ormai, è attiva una cattedra di Letteratura Brasiliana distinta da quella di Letteratura Portoghese. Sarà, dunque, anche per le difficoltà oggettive nel dominare una materia di tale ampiezza che il mio rapporto con la lusofonia si è fatto progressivamente sempre più selettivo, concentrandosi, appunto, su questa macro area luso-brasiliana, verso la quale convergono in modo pressoché esclusivo – e, invero, senza troppi rimpianti - i miei modesti sforzi attuali. Del resto, nonostante l’Africa di espressione portoghese non figuri tra i miei interessi principali, non ho del tutto reciso quel tenue vincolo professionale che mi legava ad essa, se non altro in qualità di traduttore di Mia Couto, del quale apprezzo in particolare la creatività linguistica, affine, mutatis mutandis, a quella rosiana. Come hai cominciato a tradurre? È successo per caso. Una mia collega del dottorato collaborava, come traduttrice dallo spagnolo, con una giovane casa editrice fiorentina - la Passigli, che adesso è diventata una delle più importanti nel panorama italiano (si tratta, per fare un esempio, della casa editrice che ha acquisito i diritti per pubblicare in Italia l’opera di Fernando Pessoa) 17 - e mi domandò se anch’io fossi interessato a partecipare ai progetti editoriali che vi si stavano elaborando, ovviamente, per quanto riguarda il settore delle traduzioni portoghesi. Io accettai con grande entusiasmo, ma non immaginavo che, nella mia prima sfida da traduttore, avrei dovuto misurarmi proprio con Fernando Pessoa, sebbene con i suoi scritti in prosa anziché con quelli poetici (il testo da tradurre era, infatti, A hora do diabo, un’ipotesi di racconto, in perfetto stile pessoano, ricostruita da Teresa Rita Lopes mettendo insieme frammenti usciti dal famosissimo baule del poeta). Così, L’ora del diavolo è stata, nel 1998, la mia prima traduzione, seguita, un anno più tardi, dalle Novelas policiárias, una serie di improbabili detective stories sempre a firma di Fernando Pessoa e sempre pubblicate da Passigli. Com’è stato tradurre il racconto Meu Tio o Iauaretê di Guimarães Rosa? E in cosa si assomiglia o differisce dalle traduzioni precedenti di Rosa in italiano? È stato molto complicato. Quando, in quello stesso anno, il 1999, la Guanda - una casa editrice italiana di antica tradizione, originaria di Parma sebbene ormai trasferitasi da decenni a Milano - mi propose la traduzione di Meu tio o Iauaretê, io sapevo che sarebbe stato difficilissimo. Ancora non conoscevo quel racconto, ma la lettura emozionante di Grande Sertão: Veredas mi aveva già fornito, oltre ad un immenso piacere, anche una nitida coscienza delle difficoltà che avrebbe comportato una sua qualsiasi trasposizione in altre lingue. Mi sentivo confortato solamente dalla dimensione ridotta del testo e quindi dalla speranza che, rispetto al capolavoro rosiano, il numero delle questioni spinose sollevate da Meu tio o Iauaretê potesse essere quantitativamente minore. Invece, il processo di traduzione si è rivelato ancora più impegnativo di quanto mi aspettassi, soprattutto perché, all’inizio, io non riuscivo a trovare un registro linguistico più o meno equivalente al modo di parlare del cacciatore di giaguari in procinto di trasformarsi in giaguaro. Tra tutti i problemi di traduzione che questo testo mette sul tavolo, io credo che quello di una resa plausibile dell’oralità scomposta del narratore, i cui peculiari aspetti diastratici non rientrano nelle modalità di una qualsivoglia dialettizzazione nazionale, sia stato il problema più grande. Non era, insomma, la metamorfosi zoomorfica del caboclo a spaventarmi – anche perché fortunatamente Guimarães Rosa ne permette la ricostruzione attraverso il progressivo ispes- 17 Gennaio / 2005 18 simento di un ricco tessuto di interiezioni e monosillabi intercalari, il quale, alla fine del racconto, esplode in una serie di parole incomprensibili - bensì il tono del monologo, che doveva rendere l’idea di una varietà linguistica anti-normativa, ma non di tipo regionale. Forse è questo che, insieme ad una forte tupinizzazione del linguaggio, caratterizza maggiormente la traduzione di Meu tio o Iauaretê rispetto alle altre traduzioni rosiane pubblicate in Italia, creando, alla fine, un testo profondamente ibrido in tutti i sensi. Secondo te le letterature in lingua portoghese sono ben rappresentate in italiano. Ci sono autori importanti che non sono stati mai tradotti o autori poco considerati in Brasile e in Portogallo che sono valorizzati di più in Italia? Sì, penso che, tutto sommato, ci sia stato negli ultimi anni un grande impulso, in Italia, alla traduzione di testi in lingua portoghese, non solo lusitani e brasiliani, ma anche africani. Direi che gli autori più importanti sono, in linea di massima, quasi tutti presenti in questo ideale canone italiano delle letterature lusofone, ma certamente ne avrò dimenticato qualcuno (del resto, il gioco del “chi c’è e chi manca” nelle varie liste letterarie, antologiche o meno, è sempre, come si sa, un esercizio che suscita polemiche e revisioni). Chiaro che potrei citare opere fondamentali del pensiero luso-brasiliano che ancora non hanno trovato cittadinanza nella “repubblica delle lettere” del mio paese, oppure opere già esaurite e che dovrebbero essere nuovamente ripubblicate, senza contare gli autori che figura- 18 no in questo panorama solo in forma ridotta, attraverso arbitrari processi di antologizzazione. Sulla base di ciò che mi viene in mente adesso, però, ritengo che i lettori italiani possano avere materiale sufficiente per un approccio preliminare a questo universo “esotico”, materiale, cioè, in grado finalmente di offrirne anche una visione più articolata e complessa, sottraendolo al rischio del facile esotismo. Così, sebbene sovrastati dalla presenza sempre più invadente di Paulo Coelho, che gode - per me, in modo incomprensibile - di un successo enorme tra il pubblico di massa italiano, sono fortunatamente disponibili sul mercato anche dei validi “antidoti” brasiliani al “coelhismo”, da Paulo Prado a Sergio Buarque de Hollanda, da Antônio Callado a Carlos Drummond de Andrade, da Rubem Fonseca a João Ubaldo Ribeiro (oltre, naturalmente, ai “classici” della biblioteca brasiliana d’Italia: l’intramontabile Jorge Amado, ambasciatore per antonomasia del Brasile nel mondo, ma anche Machado de Assis e, appunto, Guimarães Rosa.). Qual è l’impatto che hanno avuto le traduzioni dal portoghese nel sistema letterario italiano? Questa è veramente una domanda difficile, a cui non saprei rispondere. Ossia, il successo delle letterature in lingua portoghese in Italia è molto recente, forse troppo, per poter valutare gli effetti di questa ricezione sul polisistema letterario nazionale. Effettivamente, oltre alle polemiche circostanziali sul tipo di edizione adottata o sulla qualità delle singole traduzioni, polemiche che di tanto in tanto travalicano il consueto ambito specialistico per confluire in giornali e riviste di più ampia diffusione, penso che l’impatto sia abbastanza limitato. Pessoa e Saramago, tanto per fare un esempio, sono senza dubbio autori conosciuti dal pubblico italiano più colto, ma quando si passa dalla semplice constatazione della fortuna critica ad una relazione fruitiva del lettoreautore con i loro testi, al punto, supponiamo, di stimolare un processo di imitazione creativa, le cose si complicano. Forse questo potrebbe costituire un argomento di riflessione molto stimolante per future ricerche nell’ambito della teoria della traduzione. Qual è stato, secondo te, il contributo dell’Italia in teoria e critica della traduzione? Credo che l’Italia abbia dato un contributo notevole alla traduttologia, fin da tempi remoti. Vorrei solo ricordare il Libellus de optimo genere oratorum, nel quale Marco Tullio Cicerone (nativo di Arpino, nel Lazio), già nel 46 a.C., raccomandava al buon oratore di non tradurre “verbum pro verbo”, ma di badare piuttosto all’efficacia espressiva, introducendo, così, una distinzione che avrebbe fatto fortuna in questo ambito di studio: quella fra il “senso” e la “lettera”, che continua ancora oggi a dividere i traduttori. E poi come non citare quel Leonardo Bruni, umanista mio concittadino (era di Arezzo, come me), che non si limita – nel suo De interpretatione recta, all’incirca del 1420 - a delineare i capisaldi metodologici del tradurre, sottolineando, ad es., l’importanza della fedeltà al testo, ma, in una lettera ormai celebre del 1400, conia perfino il cosiddetto nomen actionis, Gennaio / 2005 usando, appunto, in un’accezione tecnica quel neologismo semantico traducere che si sarebbe definitivamente imposto sulla schiera dei suoi svariati predecessori lessicali? Se a queste pietre miliari della teoria della traduzione aggiungiamo anche il trattato cinquecentesco di Fausto da Longiano, nonché le riflessioni di Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, o quelle di Giacomo Leopardi e Benedetto Croce – quest’ultimo, in particolare, autore ormai canonizzato dalla critica congenere, a partire soprattutto dalla sua tesi dell’intraducibilità della parola poetica - avremo l’esatto quadro dell’importanza della traduttologia italiana. Com’è tradurre testi di generi differenti come i romanzi di Guimarães Rosa, di Fernando Pessoa e di Mia Couto, da una parte, e la saggistica di Ruy Castro, dall’altra? In realtà, nonostante la diversità degli ambiti culturali di riferimento e la varietà dei testi tradotti, penso che sia stato un lavoro, nel complesso, provvisto di una sua coerenza. Voglio dire: Fernando Pessoa, Guimarães Rosa e Mia Couto sono probabilmente i tre principali rappresentanti di creatività linguistica del mondo lusofono e soprattutto gli ultimi due, trattandosi di eccellenti manipolatori del linguaggio (si pensi per es. ai processi di neologia abbastanza simili a cui ricorrono frequentemente entrambi, dall’agglutinazione alla formazione parasintetica, ecc.), mi hanno causato non poche difficoltà di resa in italiano. Ma anche Pessoa, sia pure in forma meno smaccata, appartiene alla stessa famiglia di virtuosi della parola, come spiega, almeno in parte, il suo rapporto con il 19 portoghese, che il poeta dovette di fatto rimparare dopo il rientro dal Sudafrica e che presenta continue contaminazioni con la sua autentica lingua mentale, l’inglese. Per questo, oltre alle contorsioni di pensiero tipiche dello stile pessoano, il suo traduttore è chiamato a confrontarsi con le peculiarità di una lingua seconda, utilizzata non raramente con un certo compiacimento snobistico della differenza (per es., l’aggettivo “policiário” invece del comune “policial”). Da questo punto di vista, Ruy Castro appare linguisticamente meno problematico, ma è soltanto perché la creatività del traduttore è sollecitata ad un diverso livello, che riguarda non tanto il piano della parole, quanto, piuttosto, quello della langue: per es., il registro colloquiale del suo Carnaval no fogo si alimenta di un’espressività carioca che non è sempre agevole trasporre in contesti culturali altri, senza contare, poi, che non mancano neppure qui certe coniazioni lessicali sul modello degli autori citati sopra (mi ricordo, tra i vari esempi possibili, di un “empingunçado” per “bêbado”, che sfrutta, appunto, il principio della derivazione creativa). Qual è il ruolo che la traduzione svolge e può svolgere nelle relazioni tra le letterature italiana e brasiliana? Un ruolo fondamentale, soprattutto per chi non ha accesso linguistico agli originali, che è fra l’altro la situazione in cui si trova la maggioranza dei lettori, non solo italiani. Per questo, io penso che la traduzione debba rendersi conto della grande responsabilità che essa ha nei confronti degli altri, una respon- sabilità che, tuttavia, non deve circoscriversi al lettore, ma allargarsi fino a comprendere la relazione stessa con l’alterità e l’inevitabile straniamento prodotto dal testo fonte. Una traduzione, insomma, che sfuggendo a qualsiasi tentazione etnocentrica - ossia, di riduzione dell’Altro alla misura dell’Io (per esempio, parlando dell’Italia e del Brasile, la riduzione della cultura brasiliana alla misura del folcloristico o dell’esotico) - possa dar corpo eticamente all’estraneo, al diverso, ospitandolo dentro di sé e non smussandone i tratti più marcati e differenziali in nome di una pretesa leggibilità. Se la traduzione è capace di diventare una maniera di abitare la distanza tra le lingue, ovvero, un autentico non-luogo dove la mia lingua e quella dell’Altro si incontrano contaminandosi reciprocamente, allora credo che la traduzione si possa trasformare in una frontiera che unisce, anziché in un confine che divide. Traduzione di Anna Palma 19 Gennaio / 2005 20 Gennaio / 2005 21 Scheda Tecnica Regia: Thalys Pontes Sceneggiatura: Andressa Abraão Arte grafica: Luana Rosa Fotografia: Thiago Belinato Costumi: Vanessa Ferreira Suoni: Chitarra AlineVarela,Glênia, Campanello Luana Rosa Mensageiro dos Ventos Vanessa Pilão Rodrigo Torres, Thalys Pontes Attori: Presentazione Cristina Márcia Serata Letteraria - UFRJ 20 Dante Petrarca (...)Lasciate ogne speranza, voi ch’entrate”.(...) (...)Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. (...) (...)E caddi come corpo morto cade.(...) (...)Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, (...) (...)”Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘i core...“(...) (...)”Però, turbata nel primiero assalto, non ebbe tanto né vigor né spazio....“(...) (...)Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo Fattore i rai,(...) (...)Quel ch’infinita provvidenza, ed arte mostrò nel suo mirabil magistero (...) Dante 1 – Thalys Pontes Dante 2 – Luana Rosa Dante 3 – Andressa Abraão Dante 4 – Aline Varela Ariosto Tasso (...)” Qui riman l´elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l´usbergo: l´arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo.“(...) (...)Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l’alma sì; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia colpa lave. - In queste voci languide risuona un so che di flebile e soave ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. (...) (...)Non son, non sono io quel che paio in viso: quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.(...) Petrarca 1 – Ângela Ribeiro Petrarca 2 – Glênia Petrarca 3 – Vanessa Ferreira Petrarca 4 – Olívia Maia Ariosto 1 – Rodrigo Torres Ariosto 2 – Milena Vargas Tasso 1 – Milena Moraes 9, luglio 2007 11:00 ore Posto Giardino della Facoltà di Lettere 21 Gennaio / 2005 22 Serata Letteraria Gennaio / 2005 23 Aldilà della baia Andressa Abraão Costa & Cristina Márcia Monteiro de Lima Corrêa R ecentemente, nell’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ) è stata realizzata una serata letteraria in lingua italiana proposta dal professor Marco Lucchesi. La congiunzione tra letteratura, lingua ed espressione corporale ha presentato agli alunni una faccia nuova dell’attività accademica - leggera, interattiva e capace di arricchire - attingendo diversi piani, quello educativo e quello umano. Questo articolo mostrerà tappe e partecipazioni di questo movimento artistico letterario, sottolineandone le caratteristiche che evidenziano l’importanza di attività preoccupate della formazione dell’alunno in differenti prismi. La conoscenza teorica della lingua italiana, discussa in classe, è stata la grande base per l’ampliamento della creatività degli alunni. E la proposta della serata ha incentivato sensibili percezioni delle opere di Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Alcune responsabilità sono state attribuite agli integranti della serata. L’attività aveva, per esempio, un direttore, una sceneggiatrice, un interlocutore ed una figurinista. In questo modo tutti vi hanno partecipato attivamente, preoccupati affinché la serata fosse un movimento realmente artistico e letterario. Il processo con cui è stata modellata la serata è stato idealizzato dagli alunni - diverse idee e proposte - essendo questo un grande stage nel campo dell’integrazione, del- 22 la convivenza e della percezione. La serata ha messo in risalto certe abilità nell’ambito della poesia, delle arti sceniche, della direzione, della redazione che fino a quel momento erano sconosciute. La realizzazione del progetto, nuovo per la classe di italiano, è stata la scintilla che ha acceso rinnovati interessi verso la Facoltà di Lettere della UFRJ. Tutto ciò è significato ricerca e scoperta di diverse capacità - che vanno oltre il curriculum del corso di laurea - grazie allo stimolo del professor Lucchesi. Per la presentazione della serata, tutti gli alunni hanno memorizzato parti di determinate opere, tra le quali, La Divina Commedia di Dante Alighieri, Il Canzoniere di Petrarca, Orlando Impazzito di Ludovico Ariosto e Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. E, nel recitarle, ogni alunno ha dato un’intonazione adeguata a trasporre il senso appropriato del testo. La serata è stata divisa in quattro atti: il primo comprendeva la recitazione di frammenti dei canti Porta dell’Inferno e Amore proibito di Paolo e Francesca dell’Inferno e Vergine Maria del Paradiso, tutti di Dante Alighieri; il secondo includeva sezioni di quattro poesie de Il canzoniere di Petrarca; il terzo, Orlando Impazzito (canto XXIII), di Ariosto; ed il quarto, La morte di Clorinda, di Tasso. Ad ogni cambiamento di atto, marcato dal passaggio di cartelli, c’è stato il pronunciamento della presentatrice, ci- tando le caratteristiche degli autori e delle opere; e l’uso di un simbolo (libro), indicava il dono della parola. Inoltre alcuni strumenti - chitarre, campane tubolari, campanello e pestello - e piccoli espressioni corporali, hanno denotato il sentimento proposto nel testo e marcato la sequenza delle opere. Invece lo scenario scelto per la realizzazione della serata è stato un bel giardino della facoltà. La presenza costante degli integranti e la proposta di una serata in quel luogo apparentemente dimenticato sembrava avergli ridato la vita, visto che, il giorno della serata, l’iniziativa ha ricevuto in regalo un gradevole clima autunnale. Ogni elemento proposto, dalla scelta delle opere a quella dello scenario, è stato di fondamentale importanza per comporre l’atmosfera della serata. A partire da questo insieme di elementi è stato possibile verificare un esempio di attività che proponeva, innanzitutto, un approfondimento degli studi letterari. Quindi è nata l’aspettativa di avere, con più frequenza nelle istituzioni destinate all’insegnamento, esercizi interdisciplinari in cui gli alunni possano applicare gli aspetti teorici assimilati. In questo modo, gli incentivi ad attività innovatrici potrebbero stimolare diverse abilità creative. Traduzione di Anna Palma Sebastião Barbosa 23 24 Gennaio / 2005 Sebastião Barbosa 24 Gennaio / 2005 25 Sebastião Barbosa 25 La maldicenza colpisce di più le persone generose 26 rità per cui alcuni cattivi dirigenti li incoraggiano. La terza forma di maldicenza è quella «del lamento ». C’è gente che, quando ritiene di essere ingiustamente trattata da qualcuno, l’accusa di essere un delinquente, un farabutto e gli attribuisce ogni tipo di malefatte. Salvo poi, non appena costui l’aiuta, dirvi invece che è bravo, intelligente, onestissimo. È un veleno che gira molto nei corridoi del potere e della politica. Poi c’è la maldicenza che nasce dall’invidia e che colpisce chi sta in alto, chi ha potere. Meno quelli che hanno posizioni consolidate, i duri, i violenti che incutono paura e che si vendicano. Molto di più le persone aperte e generose, che fanno tutto bene e sono amate dalla gente. Perché l’invidia si rivolge sempre ai migliori, non ai peggiori. È il loro valore che odia. Da ultimo abbiamo la calunnia intenzionale, la menzogna scagliata per distruggere il credito di chi è salito in alto e prenderne il posto. La calunnia che prepara e giustifica la congiura, come nel caso di Cesare accusato di voler diventare re. O contro il generale Dalla Chiesa accusato di mettersi troppo in vista. Un metodo che viene sempre adoperato contro chi ha creato qualcosa di grande ma ha, come difesa, solo il suo valore e la sua rettitudine. Miscellanea L a maldicenza è dovunque attorno a noi. Ma si presenta in forme diverse, più o meno cattiva e più o meno pericolosa. La modalità più semplice è quella del pettegolezzo, una forma di sapere sulle relazioni umane nascoste, non ufficiali, uno scavare nei sentimenti degli altri, nelle loro relazioni erotiche riservate. Un sapere essenzialmente femminile, perché sono le donne che studiano l’animo umano, l’amore, l’odio, l’erotismo, e ne parlano quotidianamente fra loro. E nel pettegolezzo può esserci l’informazione maligna, che diventa un’arma nelle mani di chi ha risentimenti e rancori. Esiste poi la maldicenza degli uffici, di tutti gli uffici, dagli ospedali all’università, che nasce da rivalità, invidie, ingiustizie. Diverse volte, non appena chiamato a dirigere una nuova istituzione è venuto qualcuno a darmi informazioni — riservate, riservatissime si intende — un semplice «si dice», su tizio, caio, le loro storie sessuali, i loro errori, gli imbrogli che hanno fatto. E a spiegarmi perché questo ha fatto carriera e l’altro no. Pettegolezzi maligni per liberarsi di avversari, per farsi strada. Ma che contengono qualche ve- SOLUZIONI Francesco Alberoni Miscellanea Curiosità: Le donne dell’antico Egitto, per avere unprofumo persistente e che durasse a lungo, portavano sul capo particolari coni di cera, che erano profumati con estratti di erbe e dopo venir accesi si fondevano sulle parrucche indossate dalle donne, emanando un dolce profumo. 27