trimestrale, anno VII numero 27
janus
comitato scientifico
DIRETTORE
Sandro Spinsanti
Luisella Battaglia
Docente di bioetica e filosofia morale, Genova
DIRETTORE RESPONSABILE
Pietro Greco
Giorgio Bert
Cardiologo, esperto di counselling medico, Torino
DIRETTORE EDITORIALE
Eva Benelli
Vito Cagli
Specialista medicina interna, Roma
E RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI
REDAZIONE
Margherita Martini
Paolo Gangemi
COPERTINA E ILLUSTRAZIONI
Mitra Divshali
PROGETTO GRAFICO E
Corinna Guercini
IMPAGINAZIONE
Gilberto Corbellini
Storia della medicina, Università La Sapienza, Roma
Giorgio Cosmacini
Storia della medicina e della salute,
Università Vita-Salute, Milano
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Istituto di Comunicazione istituzionale e formativa, Università della Svizzera italiana
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STAMPA
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Filosofia della scienza, Università di Milano
Paola Luzzatto
Arteterapia, Genova
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Istituto di neuroscienze, Cnr di Roma
istituto giano
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Sandro Spinsanti
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Docente di Sociologia dell’organizzazione, Ancona
Paolo Vineis
Docente di epidemiologia, Università di Torino
Franco Voltaggio
Storia della medicina, Roma
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05
EDITORIALE
IL FUTURO DEL PRESENTE
UNIVERSO
MH
10 Dagli Usa l’outsourcing del comitato etico
Chiara Badia
44 Ci son due pappagalli e un orangotango…
Franco Fasolo
12 Storie di migrazioni e di amori protetti
Stefania Santoro
15 Dona tu che dono io
Alessandra Feltrin
49 La psichiatria e il canto di sirena
delle neuroscienze
Rosa Bruni
18 2008, fuga nelle città. Più salute
o meno salute?
Paolo Gangemi
IL CASO
20 Il “confine” dell’accanimento terapeutico
Commenti di: • Valentina Di Bernardo e
Roberto Malacrida • Gianmariano Marchesi
• Sergio Fucci
L’OBIETTIVO:
Vivere mala-mente: medicina e
salute psichica
27 Individuo, famiglia, società: i tre livelli
dei disturbi psichici
Daniela Cipolloni
31 Psicoterapia per tutti: un diritto
e un investimento
Alberto Zucconi
34 Psicologi e psichiatri: amici o nemici?
Emilio Vercillo
39 Non solo “castelli di sabbia”
Marcella Merlino
56 La solitudine dello specializzando
Corrado Pontalti
61 Orizzonti europei e realtà locali
Gaddomaria Grassi
68 Anziani e badanti: un crocevia di solitudini
Alessandra Orsi
A PIÙ VOCI
72 Next di Michael Crichton
Lettura critica di:
• Lucio Luzzatto • Silvia Bencivelli
• Gavino Maciocco
81 Uno Schopenhauer al giorno toglie
il medico di torno
Guido Miccinesi
86 La “soluzione finale” per i malati
psichiatrici
Franco Fasolo
90 Sperimentazione clinica e comunicazione
Massimiliano Marinelli
94 Le prove di efficacia della pediatria
narrativa
Alfredo Pisacane
IL PROFITTO DELLA MEMORIA
Il polso letterario
98
L’etica medica al tempo della “Paranoia”
Sandro Spinsanti
La settima arte
103 Dallo psichiatra criminale al vissuto
del paziente
Giovanni Maio
Grammatiche mediche
109 L’insostenibile leggerezza della futility
Daniela Tarquini
Il ginnasio filosofico
114 Il problema del corpo,
tra umanismo e postumanismo
Roberto Marchesini
Vi racconto la mia professione
121 Sorveglianza e controllo: assistere il paziente
in modo diverso
Marinella Piscedda
Ultim’ora
indice
126 Seduzioni americane
Pietro Greco
A
scanso di equivoci: non stiamo parlando di personaggi della drammaturgia napoletana “isso, issa e ’o malamente’”. Il “mala-mente” che abbiamo preso a tema
dell’“Obiettivo” non è un personaggio, ma una condizione del nostro vivere: ciò
che grava in particolare sulla vita di alcuni, in misura maggiore che sulla vita di tutti. È pur
vero che nell’insieme viviamo tutti piuttosto malamente, rispetto alle possibilità che
avremmo come esseri umani e soprattutto a quanto lo scrittore Luigi Meneghello avrebbe desiderato vedere prima di morire: «Vorrei vedere la gente fremere d’amore intellettuale di Dio, lavorare con piacere, fabbricare giocattoli appassionanti, sciare ardita sulle
coste dei monti, nuotare a farfalla lungo le coste dei mari; sentirla cantare inni di elementare grazia e potenza, avendo per inno nazionale un Inno alla mortalità in cui si esprimesse la rassegnazione a questo sgradevole aspetto della vita, e la contentezza di potere
intanto produrre affetti e odi sereni, begli edifici, dolci macchine lisce come l’olio, istinti
severi e soavi, e quell’onestà nel fare e nel non fare che (quando c’è) cancella la paura e
perfino il rimpianto di non poter sopravvivere per sempre». Luigi Meneghello è morto, nel
giugno scorso, senza vedere un cenno
di inversione di rotta nella vita che ci
ostiniamo a vivere così malamente.
Alcuni, poi, all’ennesima potenza, perché portano il peso di disturbi psichici
ed emotivi. È su questo “vivere malamente” che il dossier di Janus fissa la
sua attenzione: su ciò che la medicina
sa e può fare, su ciò che potrebbe fare
e non sempre fa, per alleviare il peso
che tante persone devono portare.
editoriale
Entrando nell’ambito della medicina,
la malattia mentale suscita nelle persone attese e speranze comuni a tutte le
patologie sanitarie. Dalla medicina ci
aspettiamo risposte, non discorsi! Ma,
più che qualsiasi altra patologia, quella
psichiatrica rivela la complessità di cui la medicina è intessuta. La domanda più semplice
ed essenziale, che sta a cuore al paziente, è: «Ma io guarirò?». La risposta, osserva Franco
Fasolo, dipende dalla professione di chi gliela dà. Per l’infermiere, il paziente è guarito
quando è tranquillo e comunicativo; per lo psicologo, quando ha superato la posizione
schizoparanoidea e riesce a mantenere una posizione discretamente depressiva a costi
personali non troppo eccessivi; per l’assistente sociale, quando ha un lavoro o l’assegno
di invalidità e una discreta capacità di abitare accanto agli altri; per l’amministrativo,
quando è dimesso; per lo psichiatra ospedalocentrico quando è in compenso psicopatologico perché è compliant e assume tutti i farmaci che servono; per lo psichiatra di comunità quando la sua carta di rete documenta che le sue relazioni sociali sono più ricche,
autosostenibili, differenziate e più bilanciate tra legami forti e legami deboli (la guarigio-
5
ne la considera più una restitutio ad interim che una restitutio ad integrum). I sintomi
della sofferenza psichica, infatti, assumono un diverso significato a seconda del contesto
professionale in cui sono inseriti.
Nella pluralità degli approcci professionali alla malattia mentale o psichica possiamo
riconoscere il profilo di tre modelli ideali: quello psichiatrico, quello psicanalitico-psicoterapeutico e quello che si potrebbe chiamare “sapienziale”. Ogni modello lavora con un
paradigma interpretativo, più o meno esplicito ed elaborato, della malattia mentale;
ognuno accentua una dimensione dell’essere umano o attribuisce il primato a un diverso elemento. Mentre la psichiatria sottolinea la prevalenza della dimensione neurologica
o biochimica del cervello nel determinare la condizione patologica, la psicoterapia
accentua il primato della persona; la prospettiva sapienziale si orienta invece verso la
dimensione transpersonale. Di per sé, i tre approcci non si escludono a vicenda; solo
quando i referenti dottrinali si irrigidiscono in dogmatismo tendono a negare il valore di
altri sistemi e di altre modalità pratiche di rispondere all’appello di chi vive mala-mente.
I tre modelli ideali si modificano con il tempo. Il paradigma psichiatrico-sintomatico è
stato profondamente scosso dalla svolta avvenuta in medicina con la recente scoperta di
farmaci efficaci. Nella medicina dell’inizio del XX secolo (e in buona parte anche dopo) la
diagnostica procedeva più celermente della terapeutica. I migliori medici sapevano diagnosticare egregiamente l’ubicazione e la modalità delle malattie; ma, quanto al trattamento, erano in grado tutt’al più di palliare i mali, non di curare le cause. La rivoluzione
farmacologia, con l’uso di antibiotici a largo spettro, corticosteroidi, psicofarmaci, ha
permesso di bloccare le manifestazioni morbose, anche senza conoscere le loro vere
cause. L’introduzione degli psicofarmaci ha sconvolto il nichilismo terapeutico della psichiatria tradizionale, che per questo era costretta a ricorrere ai sistemi di contenzione in
uso negli ospedali psichiatrici. La possibilità di eliminare i sintomi non ha condotto a
rimettere in discussione il paradigma psichiatrico-sintomatico; anzi, non pochi psichiatri hanno ripiegato su un organicismo sempre più radicale (soprattutto nel seducente
riduttivismo offerto oggi dalle neuroscienze).
La pratica psicoterapica, di cui la psicanalisi costituisce il caso eccellente ma non esclusivo, ha in abominio il procedimento esclusivamente sintomatico. Nel suo paradigma il
sintomo è piuttosto un messaggio da interpretare; costituisce una crisi in un’autobiografia o in un sistema relazionale ed equivale a un appello e a uno stimolo al cambiamento.
La terapia consiste essenzialmente nel far parlare ciò che è stato “scomunicato” (nel
senso letterale della parola, ossia sottratto alla comunicazione).
Questo paradigma si può anche trovare, senza alcuna forzatura, nella medicina tradizionale, almeno in quella che si proponeva di leggere il sintomo come segno. Con gli sviluppi più recenti dell’arte medica l’interpretazione dei sintomi, finalizzata alla svolta e al
cambiamento, è diventata estranea alla pratica medica, per essere riservata all’esercizio
della psicoterapia. Questa divisione di compiti e funzioni è stata profondamente interiorizzata dal paziente dei nostri giorni: dal medico (psichiatra) ci si aspetta che tolga il sin-
6
Janus 27 • Autunno 2007
tomo, senza lavoro interpretativo o di scavo; chi vuole altro, va dallo psicoterapeuta. Il
medico curante si trova così costretto a colludere con il desiderio del paziente, teso a
coprire con il farmaco più efficace il male più profondo che si manifesta nei sintomi. I
pazienti stessi non accetterebbero un procedimento diverso.
Il terzo scenario, quello “sapienziale”, ha un antecedente nel paradigma religioso. Anche
qui bisogna riconoscere una rilevante trasformazione storica, che ha portato la religione
istituzionalizzata a lasciare progressivamente il campo dei fenomeni psichici, compresi
quelli a contenuto religioso, a discipline specialistiche. L’ambito spirituale si è psichiatrizzato. Oggi non si rischia più di finire sul rogo se si pretende di aver avuto “commercio con
il diavolo”; ma neppure si ha l’opportunità di avere l’onore degli altari per visioni e rivelazioni (semmai, se qualcuno confessa al padre spirituale di sentire delle voci, ha un’alta
probabilità di ricevere, di rimando, l’indirizzo di uno psichiatra di fiducia!).
È piuttosto al di fuori delle istituzioni religiose che più di recente si è appuntata l’attenzione verso espressioni psichiche, abitualmente interpretate in senso psichiatrico, ma che
potrebbero essere invece il segno di un’«emergenza spirituale» (per utilizzare un’espressione di Stanislav Grof). C’è un malessere che nasce dal non essere quelle persone realizzate che potremmo e dovremmo essere. Il movimento transpersonale afferma con forza
una concezione antropologica che vede nell’uomo anche una potenzialità spirituale, che
tende a stati di coscienza unitiva con il Tutto, meglio descritti con il linguaggio dei mistici
che degli psichiatri. La prospettiva transpersonale può educare la comunità scientifica
che non scelga di chiudersi pregiudizialmente a quest’ipotesi a nutrire quanto meno il sospetto che ci possa essere una dimensione di crescita che punta in questa direzione.
Per percorrere queste strade abbiamo bisogno di altri compagni di viaggio, oltre agli esperti delle scienze biomediche. Poeti, per esempio: due delle maggiori poetesse italiane contemporanee, Vivian Lamarque e Alda Merini, hanno dato voce alla sofferenza psichica passata al crogiolo della psicoterapia e alla stessa esperienza dell’ospedale psichiatrico.
Con una buona dose di consapevole ottimismo, se non di ingenuità, possiamo considerare un segno positivo che all’ultimo festival di Sanremo il primo posto nel tempio della futilità sia stato scalato da una canzone che ha preso a tema la malattia mentale. Il suo autore, Simone Cristicchi, nel libro Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti, ha voluto recuperare le tracce del passaggio doloroso di tanti malati mentali nei manicomi come
monito di un percorso tutt’altro che concluso. Le parole attribuite a un rappresentante
ideale del “vivere mala-mente” valgono come monito, e come promessa, a tutta la società:
editoriale
Sono Matto e rappresento la vostra Salvezza.
Quella sfocata percezione di essere nella ragione.
Io sarò sempre il torto, il distorto, l’adunco.
Sono una meravigliosa imperfezione, come uno
stupendo sbaglio di Dio.
Sandro Spinsanti
7
Il futuro del presente
10 Universo MH
20 Il caso
27 L’OBIETTIVO: Vivere mala-mente: medicina
e salute psichica
72 A più voci
Dagli Usa l’outsourcing
del comitato etico
I
comitati etici
che regolano
la sperimentazione clinica sui
pazienti sono protagonisti
di un lungo dibattito ancora aperto in varie nazioni,
tra cui la nostra. Janus ne
ha parlato anche recentemente affrontando proprio
la discussione sul ruolo dei
comitati etici nella ricerca
(“Comitati etici: come uscire dalla crisi” di Paolo
Gangemi in Janus 23 e “Il
I comitati etici sono spesso oggetto di critiche e
dibattiti. Dagli Stati Uniti
arriva l’idea di affidare i
casi a comitati etici esterni agli istituti di ricerca
comitato etico? Noi lo usiamo così” di Americo
Sbriccoli e Warren Reich in
Janus 26).
La missione di un comitato
etico è quella di verificare
che una sperimentazione
proposta sia scientificamente fondata e rispetti i
diritti fondamentali dei
pazienti.
Purtroppo i comitati etici
vengono spesso criticati
per la mancanza di competenza e di indipendenza
dalle istituzioni che li convocano. Avviene, infatti,
che le ricerche si svolgano
nelle stesse strutture in cui
opera il comitato etico e da
cui viene finanziato.
Sessant’anni da cavie
1947 • Viene pubblicato il Codice di
Norimberga in risposta agli esperimenti
nazisti condotti sui prigionieri.
1963 • Al Jewish Chronic Disease Hospital di
New York si iniettano cellule cancerose in
pazienti ignari di essere utilizzati come cavie
per valutare il rigetto dopo un trapianto.
1964 • La World Medical Association diffonde i principi etici riguardanti la sperimentazione umana pubblicando la Dichiarazione di
Helsinki che diventerà la base per i comitati etici di tutto il mondo.
10
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
1966 • Nasce il primo comitato etico britannico. Il New England Journal of Medicine
denuncia casi di violazione dei diritti umani
da parte di istituti di ricerca statunitensi.
1974 • A Washington viene istituita la
National Commission for the Protection of
Human Subjects of Biomedical and
Behavioral Research. È il primo ufficio interamente dedicato alla protezione nel campo
della ricerca sugli uomini.
1990 • Nasce in Italia il Comitato nazionale per la bioetica.
Ora arriva dagli Stati Uniti
una nuova proposta provocatoria: perché non affidare
la valutazione etica a comitati privati ed esterni alle
strutture e agli istituti di
ricerca? Lo riporta la rivista
Nature in uno dei suoi
numeri estivi. Si tratta di
una forma alternativa di
outsourcing della valutazione etica, soprattutto nel
campo della ricerca umana.
Tendenza da importare?
Questa nuova proposta, in
parte criticata dal sistema
britannico (generalmente
diffidente alla privatizzazione) potrebbe, secondo
alcuni esperti di bioetica,
portare a una messa a
punto della macchina ita-
liana nel campo della valutazione etica. In quest’ottica, la privatizzazione
auspicata dovrebbe però
essere affiancata da nuove
regole e controlli pubblici
che vigilino sul sottostante
sistema dei comitati. In
questo modo si risolverebbero, forse, alcuni dei problemi esistenti nei comitati
etici che si contraddistinguono per il loro duplice
legame con la ricerca e con
gli aspetti e le garanzie dei
diritti del cittadino. Questa
sottilissima linea di confine
tra etica e scienza è la fonte
del conflitto d’interessi che
da sempre minaccia l’imparzialità e la correttezza
morale nelle approvazioni
di protocolli di ricerca.
Sempre secondo l’articolo
di Nature, la privatizzazio-
Chiara Badia
ne della Dichiarazione di Helsinki che limita
l’uso dei trial controllati verso i placebo.
2001 • Il National Cancer Institute americano istituisce una commissione centrale
per la valutazione di tutti i casi di ricerca
umana, mirata a velocizzare e a standardizzare i procedimenti di approvazione.
2007 • Il Regno Unito costituisce il
National Research Ethics Service restringe il
campo di azione dei comitati etici locali e la
loro possibilità di richiedere cambiamenti
nei protocolli sperimentali.
universo MH
1997 • Nuove controversie a seguito di
esperimenti americani in Thailandia. Viene
testato l’effetto dell’azidotimidina sulla trasmissione del virus Hiv tra madre e figlio
durante la gravidanza.
1998 • In Italia, con un Decreto ministeriale vengono definite le linee guida di riferimento per i Comitati etici.
2000 • Viene istituito, a Londra, il Central
Office of Research Ethics Committees per la
supervisione dei casi di ricerca multiregionali. L’America rifiuta di sottoscrivere la revisio-
ne di questi comitati
potrebbe essere un’alternativa valida per risolvere il
problema economico delle
costose procedure per l’approvazione di un protocollo
di sperimentazione scientifica. I costi diminuirebbero
con il nascere di una nuova
concorrenza tra i futuri
“consulenti etici”. Infine la
possibilità per un’istituzione o una azienda di scegliere a quale comitato etico
affidare l’incarico di analisi
e approvazione, potrebbe
garantire l’efficienza e la
qualità della commissione
stessa che si ritroverebbe a
competere con le altre, in
un futuro mercato di diversi pareri etici da mettere a
confronto.
11
Storie di migrazioni e di amori
protetti
Fra gli immigrati in Italia è alto il numero di aborti, spesso clandestini. Per questo la Asl 4
di Torino ha prodotto una fiction di educazione all’amore protetto, in lingua creola. La
speranza è di avvicinare alla sanità italiana gli extracomunitari che non hanno una cultura della contraccezione e ignorano di poter accedere, anche se clandestini, a prestazioni
sanitarie di tutela della maternità, fra cui l’interruzione di gravidanza.
Stefania Santoro
S
torie di gravidanze
indesiderate,
di aborti “fai
da te”, di tradimenti e di
malattie. È la soap della
prossima stagione? No: la
fiction in questione,
Getting better, è lo strumento che la Asl 4 di
Torino ha scelto per promuovere tra gli stranieri
l’uso dei metodi contraccettivi. La strategia è insolita, ma permette di superare le barriere linguistiche e
culturali: gli interpreti sono
tutti africani e parlano la
lingua creola, che mescola
12
l’inglese agli idiomi locali.
La colonna sonora IyemeProtect Urself, scritta da
David Onyekwere e interpretata dalla cantante Miss
Jubilee, è stata registrata a
Lagos, in Nigeria. A Torino
infatti la comunità nigeriana è la più numerosa tra la
popolazione straniera ed è
quella che, anche per motivi linguistici, presenta le
maggiori difficoltà di integrazione.
In questo modo l’Asl spera
di poter raggiungere gli
immigrati che, per paura e
diffidenza, non si rivolgono
alle strutture sanitarie.
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
Nell’area dell’Asl 4 di
Torino gli immigrati irregolari sono più di 2000, e la
Asl è fortemente impegnata nel fornire assistenza e
informazione, grazie al
centro Informazione salute
immigrati, specifico per le
esigenze sanitarie di primo
livello della popolazione
migrante irregolare o clandestina.
Molti stranieri non sanno
di poter contare sul servizio sanitario italiano anche
se sprovvisti del permesso
di soggiorno, e numerose
donne, a causa delle drammatiche conseguenze di
aborti casalinghi, vengono
ricoverate d’urgenza. È per
questo che il filmato sarà
distribuito, oltre che nei
consultori familiari e negli
ambulatori medici, anche
nelle associazioni e negli
esercizi commerciali frequentati dagli stranieri.
Dalla consapevolezza di
questa necessità è nata l’idea di Getting better. La
realizzazione della fiction è
stata progettata e coordinata dall’associazione
Ideadonna Onlus, con la
collaborazione delle Asl 3 e
4 di Torino e il sostegno
Gli stranieri provengono spesso da società dove la
maternità è vista come un dovere: in Nigeria le donne
che non hanno figli sono emarginate, e per l’aborto ci
sono fino a 7 anni di reclusione o la lapidazione
della Provincia di Torino e
della Regione Piemonte.
Amore sì, ma protetto
Getting better non è un
caso isolato: già nel 2005
Ideadonna, un’associazione nata a Torino nel dicembre 2000 dall’impegno di
un gruppo di donne
migranti e italiane, aveva
realizzato il filmato Usa
sempre il preservativo – You
must use condom always
rivolto alle donne straniere
(soprattutto nigeriane e
dell’Europa orientale) che
si prostituiscono.
Sempre per diffondere
presso gli immigrati informazioni sulla salute è nato
anche il Fotoromanzo d’a-
L’autrice
Stefania Santoro, master in
Comunicazione e divulgazione scientifica, Università
Federico II di Napoli
[email protected]
l’obiettivo
Nel dvd che contiene la fiction sono inserite anche
vere e proprie lezioni sui
metodi per la prevenzione
delle gravidanze indesiderate: la maggior parte delle
immigrate non adotta
misure anticoncezionali
perché non le conosce. Le
straniere che ricorrono
all’interruzione volontaria
di gravidanza sono sempre
più numerose: nel 2006,
nella sola Asl 4, sono state
ben 325, nonostante
numerose iniziative in
tema di contraccezione
rivolte agli immigrati: probabilmente per educarli a
una sessualità più responsabile è necessario uno
sforzo non solo di informazione ma anche di sensibilizzazione.
more… protetto!, realizzato
dall’associazione Health
Information Network in
collaborazione con l’associazione culturale Mana
Manà e il centro
Volontariato, sviluppo e
solidarietà in Piemonte. Il
racconto è ambientato nell’ambulatorio per le infezioni sessualmente trasmesse dell’ospedale
Amedeo di Savoia di
Torino, dove la protagonista trova risposte ai dubbi
sui rischi legati ai rapporti
non protetti. In questo
modo si cerca di superare i
timori e le diffidenze degli
stranieri verso le strutture
sanitarie: uno dei problemi
principali è la differenza fra
il mondo della sanità italiana e quello di origine.
Da un’indagine del Centro
nazionale di epidemiologia
sorveglianza e promozione
della salute dell’Istituto
superiore di sanità è emerso infatti che in Italia le
immigrate si ritrovano ad
affrontare una medicalizzazione della sessualità sconosciuta nei loro Paesi. Gli
13
La legge italiana è accogliente
a Legge 194 del 22 maggio 1978 stabilisce le norme per
la tutela sociale della maternità e per l’interruzione
volontaria della gravidanza, sottolineando che è compito
dello Stato garantire il diritto alla procreazione cosciente
e responsabile, tutelando la vita umana dal suo inizio.
Il Decreto Dini del 18 novembre 1995 «per la tutela sociale della maternità responsabile come prevista dalle norme
applicabili alle cittadine italiane» garantisce la gratuità
delle prestazioni a tutte le cittadine straniere, comprese le
irregolari, così come sono garantite le prestazioni preventive per la tutela della maternità e della gravidanza.
La Legge 40 del 1998 “Disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero” ribadisce la gratuità delle prestazioni in tema di tutela della maternità,
compresa l’interruzione di gravidanza, e in più concede un
permesso di soggiorno alle cittadine straniere non regolari in gravidanza, che durerà fino a sei mesi dopo la nascita del bambino.
L
stranieri, inoltre, provengono spesso da società dove è
assente la cultura della pianificazione della famiglia,
la maternità è vista come
un dovere della donna, le
procreazioni sono ricercate
e ripetute e non c’è informazione sui metodi contraccettivi, spesso difficilmente reperibili. In Nigeria
le donne che non hanno
14
figli vengono emarginate
dalla società e per l’aborto
ci sono fino a 7 anni di
reclusione o la lapidazione.
In Italia gli extracomunitari
si trovano a confrontarsi
con modelli antropologici
diversi, ma vedono stravolte anche le proprie storie
personali: viene a mancare
la centralità del nucleo
familiare, cambiano le
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
aspettative, si stabiliscono
nuovi tipi di relazioni. Il
controllo della capacità
riproduttiva infatti è il
risultato di una serie di
mutamenti sociali e di
cambiamenti culturali, e gli
immigrati si trovano a
dover superare questo gradino in maniera repentina
e quindi sconvolgente.
Risultano perciò di fondamentale importanza le attività di informazione, accoglienza e assistenza svolte
dai consultori e facilitate
dalla presenza sempre più
forte della figura dei
mediatori culturali. Così si
cerca di garantire il diritto
universale alla salute nel
rispetto delle diversità di
cultura e di sensibilità. Da
qui parte la sfida di adeguamento alle necessità di
una società multietnica,
che tutte le strutture sanitarie hanno il dovere e l’opportunità di affrontare:
un’occasione di incontro
che le Asl e le associazioni
di Torino hanno creato con
impegno e creatività.
Stefania Santoro
Dona tu
che dono io
Come affrontare il tema della donazione di organi e tessuti con persone di religione, lingua
e cultura diverse dalla nostra? In una società multietnica come quella attuale il problema
è all’ordine del giorno. L’esperienza dimostra che le campagne di informazione, assieme
alla cura degli aspetti comunicativi, possono aiutare a superare le difficoltà che solo in
apparenza impediscono di conciliare la pratica della donazione con le varie culture.
Alessandra Feltrin
L
gioni diverse.
Anche se le varie prospettive religiose sono per la
quasi totalità a favore della
donazione e dei trapianti,
ci sono però fattori culturali, sociali, psicologici e
relazionali che intervengono in una simile decisione.
Ci si deve chiedere, e in
primo luogo lo devono fare
gli operatori sanitari, che
cosa può significare una
simile proposta per chi
appartiene a realtà socioculturali molto differenti
da quella occidentale:
quale tipo di rappresentazione possano avere dei
concetti e delle pratiche
che per noi sono tanto
familiari; se e come il
modo di concepire il corpo
e la persona, suggerito da
queste procedure, possa
essere compatibile con
quello sottostante alle loro
pratiche e tradizioni; quante e quali difficoltà possono
incontrare nel momento in
cui si affida loro la responsabilità di decidere al posto
di chi non c’è più.
Non sono molti gli studi
che trattano questo argomento, ma dai dati a disposizione e soprattutto dall’esperienza clinica raramente emerge un semplice
rifiuto o un’aperta diffidenza da parte degli immigrati.
Più semplicemente va riconosciuto un ampio ventaglio di difficoltà effettive
che richiamano alla necessità di evitare qualsiasi
universo MH
a donazione degli
organi è una
pratica che si
sta diffondendo sempre di
più nel mondo occidentale, grazie soprattutto a una
legislazione che richiama
ciascun individuo al diritto-dovere di dichiarare la
propria volontà in merito
alla donazione e stabilisce
che, in assenza di direttive,
i familiari aventi diritto
vengano informati rispetto
alla possibilità del prelievo
e interpretino la volontà
del defunto. La nostra
società, ormai multietnica,
deve però fare i conti con
le difficoltà che tutto ciò
può comportare per chi
appartiene a culture e reli-
15
generalizzazione e di cercare invece di comprendere le singole situazioni.
Un problema
di integrazione
Il livello di integrazione
sociale della famiglia ha un
ruolo decisivo rispetto al
donazione di organi, risultano più facilmente disponibili rispetto a chi è in
Italia da poco o attinge da
un background culturale
più lontano rispetto all’organizzazione sanitaria italiana. Nello specifico gli
immigrati provenienti dai
Paesi dell’Europa settentrionale, dalla Spagna e
Comunicare da subito è prioritario: aiuta a instaurare
tra i famigliari, gli operatori sanitari e le istituzioni la
fiducia necessaria affinché la famiglia accolga le indicazioni e le proposte dell’equipe medico sanitaria
modo in cui viene accolta
non solo la proposta di
donazione, ma l’intero dialogo con il personale sanitario, dalle informazioni
sullo stato del paziente alla
comunicazione della sua
morte. Le persone che si
trovano in Italia da più
tempo o hanno, per cultura
di origine, familiarità con
concetti medici specifici,
come morte cerebrale e
dagli Stati Uniti condividono gran parte delle usanze
mediche e della terminologia utilizzate in queste
situazioni, presentano
meno difficoltà di comunicazione e tendono a essere
favorevoli alla donazione.
Determinati gruppi culturali sono risultati, invece,
particolarmente restii a
entrare in relazione e stabilire una comunicazione. In
L’autrice
Alessandra Feltrin, è psicoterapeuta; responsabile
dell’Area psicologia e formazione del Centro regionale
per i trapianti del Veneto
[email protected]
16
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
parte ciò è dovuto a difficoltà linguistiche, ma si
sono dimostrati importanti
anche altri fattori, come il
grado di fiducia che il rappresentante dell’istituzione
sanitaria è riuscito a trasmettere, l’accoglienza
ricevuta al momento del
loro arrivo in Italia, la maggiore o minore tendenza
del gruppo etnico a integrarsi e assimilare spunti
provenienti dalla cultura
del Paese ospitante, il
significato che il dono e
l’appartenenza a una
comunità rivestono per
ogni specifica cultura, la
ritualità collegata alla
morte.
Prima di tutto:
comunicare
Comunicare da subito è
prioritario: aiuta infatti a
instaurare tra i famigliari, i
singoli operatori sanitari e
le istituzioni un rapporto di
fiducia necessario perché
la famiglia accolga le indicazioni e le proposte (compresa quella della donazione) che provengono dall’equipe medico sanitaria.
Il dialogo con i famigliari
va ricercato e instaurato fin
dall’ingresso del paziente
in ospedale, non solo al
momento della morte. È
fondamentale curare que-
per saperne di più
A. Feltrin et al.,
La cultura di donazione
nella popolazione extracomunitaria: l’esperienza
del Veneto
Una candela accesa
L’elaborazione del lutto, i
riti della separazione e le
modalità di preparazione
della salma cambiano da
cultura a cultura. Senza il
rispetto e la comprensione
di queste usanze non si
possono conciliare i bisogni delle famiglie con la
pratica del prelievo, vanificando in partenza ogni
possibilità di donazione.
Alcune popolazioni
dell’Europa orientale di
religione ortodossa, per
esempio, desiderano una
candela accesa nel
momento del trapasso, per
accompagnare l’anima del
malato: anche in Italia
chiedono che venga rispettato questo rito prima che
il congiunto venga portato
in sala operatoria. Presso
alcuni popoli di religione
islamica, invece, i famigliari usano spogliare la salma,
lavarla, ungerla e fasciarla;
per questo è importante
rassicurarli che il corpo
dell’estinto verrà restituito
senza che siano troppo evidenti le tracce del prelievo.
Nei casi in cui è stato possibile raggiungere un punto
di incontro con queste
famiglie, è stata subito
chiarita la condizione
imprescindibile di poter
svolgere il proprio rituale.
Il tema della donazione
degli organi rappresenta un
esempio delle inevitabili
difficoltà di interazione tra
operatori sanitari e pazienti appartenenti a realtà
socioculturali diverse.
L’esperienza dimostra che
si tratta di un’interazione
possibile se il dialogo e la
relazione si fondano su
un’adeguata conoscenza e
valorizzazione delle specificità non solo culturali ma
soprattutto umane dei soggetti coinvolti.
È necessario perciò favorire
iniziative volte ad
approfondire la reciproca
conoscenza e l’integrazione tra le culture, attraverso
la promozione di iniziative
di formazione del personale sociosanitario e attività
di ricerca di soluzioni organizzative, finalizzate anche
alla tutela di chi si trova a
operare in prima linea in
questo scenario.
Alessandra Feltrin
universo MH
sto aspetto durante tutto
l’iter del ricovero, dall’accoglienza alla descrizione
delle cure che si stanno
somministrando al malato,
dalla notizia dell’irreversibilità delle sue condizioni
al momento della donazione. A volte è necessario
compiere una vera e propria ricerca della famiglia
di origine, in quanto i famigliari che si presentano a
chiedere notizie sono
membri di un clan allargato, spesso restii a dare notizie ai parenti più prossimi,
che si trovano nel Paese di
origine.
Di primaria importanza è il
ruolo del mediatore culturale: una figura che non
deve rappresentare solo un
tramite linguistico, limitandosi alla semplice traduzione, ma deve saper trasmettere l’atteggiamento di
attenzione e solidarietà e,
contemporaneamente, fornire informazioni su eventuali ostacoli alla comunicazione e sull’organizzazio-
ne familiare.
Naturalmente far comparire il mediatore culturale
solo al momento della proposta della donazione è un
tipo di approccio che può
suscitare il sospetto e l’ostilità da parte della famiglia,
di qualsiasi nazionalità.
17
2008, fuga nelle città.
Più salute o meno salute?
Nel 2008, per la prima volta nella storia, più di metà della popolazione mondiale vivrà
nelle città. Il fenomeno, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, comporta grossi problemi, ma anche potenziali vantaggi dal punto di vista sanitario: nelle città è più facile fornire educazione e assistenza. Secondo un rapporto dello United Nations Population Fund,
però, queste opportunità non sono sfruttate, e anzi crescono le disuguaglianze.
Paolo Gangemi
I
l 2008 rappresenterà un
momento di svolta epocale per l’umanità, anche
se forse pochi in Italia se ne
accorgeranno: per la prima
volta nella storia, la popolazione urbana del pianeta
sarà superiore a quella
rurale. Il fenomeno dell’urbanizzazione, a cui stanno
contribuendo soprattutto i
Paesi in via di sviluppo,
non è un punto di arrivo,
ma anzi la crescita delle
città è destinata a continuare.
Messa in questi termini, la
questione può suscitare
timori di scenari apocalitti-
18
ci, e già Isaac Asimov, nei
suoi romanzi di fantascienza, aveva immaginato un
pianeta composto da un’unica, sterminata città.
Nell’immaginario di molti
questa prospettiva è uno
scenario da incubo, rappresentato dagli slum delle
megalopoli del terzo
mondo visti in film come
La città della gioia e City of
God.
Forse, però, come spesso
accade, non tutto il male
viene per nuocere.
Secondo David Bloom e
Tarun Khanna, docenti di
Harvard, l’urbanizzazione
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
porta vantaggi in termini di
scolarizzazione, mentre per
quanto riguarda la ricchezza l’effetto positivo è presu-
per saperne di più
D. Bloom, T. Khanna, “The
Urban Revolution”. In:
Finance & Development,
settembre 2007.
United Nations Population
Fund, State of world population 2007.
www.unfpa.org/swp/2007/
presskit/pdf/sowp2007
_eng.pdf
mibile ma non dimostrato.
Dal punto di vista della
salute, in particolare, gli
studiosi sostengono che
l’urbanizzazione è in grado
di portare più benefici che
danni: per evidenti motivi
di distanza, nelle città è più
facile per le autorità fornire
educazione e servizi sanitari. Naturalmente, però, i
vantaggi non cadranno dal
cielo: servono strategie
sanitarie che tengano
conto della situazione e
che, l’assenza di reti fognarie e di smaltimento dei
rifiuti e la cattiva alimentazione sono i fattori che più
minacciano la salute della
popolazione.
Un fenomeno irreversibile
Ma il vero problema, sostiene il rapporto, è quello delle
disuguaglianze. Nelle città
dei Paesi in via di sviluppo
le classi alte godono dei
La strategia migliore per combattere lo sviluppo demografico delle città non può essere cercata, come molti
governi stanno facendo, in politiche per scoraggiare le
migrazioni, ma nella riduzione delle nascite
vantaggi che la vita cittadina offre nei Paesi più sviluppati, mentre i ceti più
poveri non riescono a sfruttare queste opportunità.
Alle disuguaglianze sociali
si aggiungono quelle di
genere: la salute delle
donne è una questione particolarmente urgente, e
riguarda in particolare la
sfera riproduttiva. Secondo
il rapporto, il quadro della
salute riproduttiva fra le
donne povere delle città
assomiglia più a quella delle
donne di campagna che a
quella delle donne ricche
Paolo Gangemi
l’obiettivo
sappiano affrontarla efficacemente.
Per questo lo United
Nations Population Fund
ha pubblicato il rapporto
State of world population
2007, in cui, oltre a fornire
una panoramica della
situazione attuale, prende
in esame le conseguenze e
le implicazioni del processo
globale di urbanizzazione.
Il rapporto fotografa innanzitutto la situazione, ed evidenzia alcune aree critiche:
l’inquinamento dell’aria e
spesso dell’acqua, le insufficienti condizioni igieni-
delle città. Per questo lo sviluppo di programmi sanitari incisivi, accompagnati da
studi su come distribuire
servizi e risorse, può migliorare rapidamente la salute
femminile. Il caso dell’Aids
è emblematico: in un contesto urbano i rischi di contagio aumentano, ma nel
lungo periodo migliorano
anche le possibilità di rallentare l’epidemia.
Inoltre, contrariamente a
quanto si possa credere, il
fattore principale dello sviluppo demografico delle
città non è la migrazione
dalle campagne, ma la crescita interna. Di conseguenza la strategia migliore
per combatterlo non può
essere cercata, come molti
governi stanno facendo, in
politiche (fra l’altro inefficaci) per scoraggiare le
migrazioni, ma nella riduzione delle nascite, che a
sua volta si può ottenere
solo con una migliore educazione sessuale.
In ogni caso, conclude il
rapporto, il fenomeno della
crescita urbana è inevitabile e irreversibile: i governi
dovrebbero prenderne atto
e promuovere strategie per
cogliere le opportunità che
l’urbanizzazione offre in
termini di salute e benessere della popolazione.
19
Il “confine” dell’accanimento terapeutico
IL CASO Il paziente è un uomo quarantenne che da due anni si trova in uno stato di coma
vigile a seguito di un grave trauma cranico. Dopo il ricovero di un mese presso un reparto di
terapia intensiva, viene trasferito in una clinica riabilitativa di Basilea. Qui rimane per nove
mesi durante i quali, dopo alcuni segnali positivi, manifesta una polmonite e la scomparsa dei
segni reattivi prima osservati (apertura spontanea degli occhi, movimenti del capo in direzione dei rumori). Dopo un ulteriore trasferimento in una struttura di lungodegenza di Lugano,
l’uomo mostra i sintomi di una nuova polmonite con conseguente insufficienza respiratoria che
rende necessari un nuovo ricovero e l’intubazione. Alla guarigione dalla patologia infettiva non
si constata però alcun miglioramento neurologico. Ulteriori indagini diagnostiche confermano
la gravità della sua situazione neurologica: la possibilità che il recupero possa andare oltre i
primi segnali reattivi osservati durante la riabilitazione sembra remota.
Commenti di:
Valentina Di Bernardo e Roberto Malacrida, Gianmariano Marchesi, Sergio Fucci
Curare
o prendersi cura?
L
a Commissione di etica clinica dell’Ente
ospedaliero cantonale, (di cui fanno
parte gli autori di
questo commento,
ndr) ha giudicato
quasi nulle le possibilità di ripresa del
paziente. Ha ritenuto di far prevalere il
principio della beneficità e anche
quello della nonmaleficità, nel senso di evitare trattamenti «futili» in me-
20
dicina intensiva, ovvero quelli applicati
in casi privi di una
reale possibilità di
guarigione o di raggiungimento di una
qualità di vita accettabile. In questo
caso, infatti, l’autonomia del paziente
non può essere
considerata, dal
momento che non
si conoscono le sue
volontà. Se non fosse possibile giungere a un accordo con
i familiari, il perso-
nale curante sarebbe tenuto a comportarsi secondo
coscienza mettendo
in atto soltanto
quello che ritiene
essere la «buona
medicina». La
Commissione considera inoltre un atto di pietà nei confronti del paziente
evitare ogni terapia
aggressiva che prolungherebbe inutilmente la sua agonia.
La nostra esperienza di curanti ci
mette a confronto
quotidianamente
con il tema dell’ac-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
canimento terapeutico che per noi è
l’impiego di mezzi
artificiali sproporzionato rispetto alla
prognosi del
paziente. La medicina intensiva permette ai pazienti
che ne sono in
grado, di “tornare a
casa” in una condizione che corrisponda alla loro
idea di sufficiente
qualità di vita.
L’accanimento terapeutico esprime l’idea di azioni che
non riescono più a
conciliare la cura
con il prendersi
Considerata la prognosi, in termini di recupero neurologico e funzionale, e in previsione di ulteriori complicanze, viene chiesto il parere della Commissione di etica clinica dell’Ente ospedaliero cantonale circa l’opportunità dell’astensione da un atteggiamento terapeutico aggressivo.
La Commissione ha ritenuto che dopo molti mesi di coma vigile e in considerazione del referto della Tac (che indica una gravissima disfunzione corticale bilaterale) le possibilità di ripresa sono praticamente nulle. Pertanto, nell’eventualità di un peggioramento delle sue condizioni, un accanimento terapeutico con rianimazione e intubazione riporterebbe il paziente al massimo nella situazione attuale.
I familiari, convinti invece della possibilità di un miglioramento, desiderano che in caso di complicanze siano intraprese terapie massimali e, per questo, hanno chiesto e ottenuto di riportarlo in Italia dove riabilitazione e rianimazione non sono considerate accanimento terapeutico.
cura del paziente e,
per evitarlo, in
molti centri di terapia intensiva svizzeri, si sospendono le
terapie vitali quando non sono più
ritenute benefiche.
Nel caso di questo
paziente, evitare
l’accanimento terapeutico avrebbe
significato non
tanto sospendere le
terapie quanto astenersi dall’iniziarle.
Il problema com-
scientifica, di prevedere la mortalità
legata alle patologie
dei pazienti ma non
coma, dopo un
certo lasso di
tempo, permette il
miglioramento neu-
Nel 2005, in Svizzera, un uomo entra in coma vigile senza
lasciare direttive anticipate. Quando i medici decidono di astenersi da terapie aggressive inizia il braccio di ferro tra familiari
e specialisti, che si attengono alle decisioni della Commissione
di etica clinica. I commenti al caso sembrano concordare con la
Commissione, negli aspetti giuridici, etici e clinici
gnosi soprattutto
nel caso di pazienti
comatosi. La medicina permette,
attraverso le statistiche pubblicate
dalla letteratura
consente di fare
una prognosi soggettiva.
Da parecchi anni si
è in grado di affermare che un determinato stato di
rologico (non
necessariamente il
risveglio) per un
certo numero di
pazienti. Nel caso di
questo paziente i
dati della letteratura
il caso
Chi è quell’uno
per cento?
plesso nel definire
l’accanimento terapeutico è legato alla
difficoltà della pro-
21
ci dicono che la
possibilità di
miglioramento
riguarda un paziente ogni cento.
In definitiva, è
impossibile sapere
se quella persona su
cento che può
migliorare attraverso una terapia attiva
sia proprio quel
paziente del quale
ci stiamo prendendo cura.
Proprio per questa
difficoltà i curanti
non dovrebbero tralasciare cure attive
per nessun paziente. La difficoltà di
questa posizione
deontologica è nel
fatto che, se messa
coerentemente in
atto, vorrebbe dire
far del male (anche
rispetto al secondo
e al terzo principio
della bioetica) agli
altri novantanove
pazienti.
Recuperare
dignità
Una difficoltà ulteriore veniva dal
fatto che il paziente
non aveva lasciato
direttive anticipate:
non eravamo perciò
in grado di applica-
Familiari: testimoni
o sostituti?
I
due anni trascorsi dal
paziente in uno
stato vegetativo
permanente sono
un lasso di tempo
sufficiente per poter
formulare una prognosi sfavorevole
dal punto di vista
funzionale, in quanto i dati della letteratura scientifica
sono concordi nel-
22
l’affermare che non
sono stati segnalati
casi di recupero
neurologico significativo oltre questo
periodo di mancata
evoluzione.
Ci troviamo quindi
di fronte a un quadro caratterizzato
dall’esito di gravità
estrema di una
lesione neurologica
maggiore, di fronte
re il primo principio
della bioetica relativo all’autodeterminazione.
Quando si è nell’impossibilità di
conoscere i desideri
dei pazienti, soprattutto nel caso di
posizioni conflittuali fra i famigliari,
non rimane altro
che affidarsi a un’etica della reciprocità, nel senso di
non fare agli altri
quello che non vorremmo fosse fatto a
noi stessi.
Evitare l’accanimento terapeutico,
non da ultimo per
quanto riguarda
questo paziente
voleva dire facilitare
il suo rientro a casa
e consentire quindi
quelle relazioni di
affetto e di tenerezza che, di regola,
soprattutto sul
lungo periodo, sono
più facilmente
garantite in un
ambiente famigliare
o riabilitativo, mentre difficilmente si
possono creare nei
reparti di terapia
intensiva.
alla quale è doveroso chiedersi se un
intervento invasivo
sia da considerarsi
proporzionato, o se
non configuri piuttosto un accanimento terapeutico,
non essendo in
grado di migliorare
le condizioni di vita
ma solo di prolungare una sopravvivenza biologica con
la possibilità di
allungare inutili sofferenze.
La letteratura inter-
nazionale e le linee
guida della Società
italiana di anestesia
e rianimazione
indicano l’inopportunità di attuare
questi trattamenti,
in pieno accordo
con quanto dichiarato dalla
Commissione di
etica clinica
dell’Ente ospedaliero cantonale. Il
principio di nonmaleficità è infatti
invocato a sostegno
di un comporta-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
Valentina
Di Bernardo,
Roberto Malacrida
Secondo il primo
principio dell’etica
biomedica è necessario rispettare le
scelte dell’individuo,
che a loro volta
dipendono dai suoi
valori di fondo. Il
mancato rispetto di
questa volontà può
trasformare un atto
terapeutico in accanimento o viceversa
produrre una situazione di abbandono
terapeutico se il
medico non attuasse un intervento di
sostegno vitale
richiesto da un
paziente che desideri continuare a vivere nonostante i limiti imposti dalla sua
condizione clinica.
Tutta la riflessione
sulle dichiarazioni
anticipate di trattamento, e più recentemente quella sulla
figura del fiduciario,
sottolineano l’importanza delle persone vicine al
paziente come
testimoni della sua
volontà, non come
sostituti del paziente o come detentori
di un potere decisionale proprio.
Possiamo quindi
affermare che la
volontà dei familiari
in sé non può essere ritenuta vincolante, anche se deve
essere considerata
con il massimo
rispetto.
Una famiglia,
più opinioni
Un altro aspetto critico è rappresentato
dalla possibile
divergenza di vedute e i possibili conflitti esistenti tra i
componenti del
nucleo familiare.
Non è infrequente
infatti incontrare
famiglie legalmente
divise ma con legami affettivi ancora
presenti, o viceversa
conflitti interni talmente evidenti da
rendere impossibile
definire quale componente della fami-
glia possa essere
validamente ritenuto il miglior testimone della volontà
del paziente. La
legislazione attuale
non ci consente di
attribuire questo
ruolo a una figura
in particolare. Il
medico rimane solo
nella sua decisione,
con la possibilità
che questa venga
poi contestata.
Non dobbiamo infine dimenticare che
la divergenza di
atteggiamento tra
medici e familiari
dipende, nel caso in
questione, da una
diversa aspettativa
per il futuro del
paziente: i familiari
fanno riferimento ai
propri sentimenti,
certamente da
rispettare; i medici
utilizzano dati tecni-
I 4 CARDINI DELL’ETICA BIOMEDICA
NEL 1979 i bioeticisti americani Tom
Beauchamp e James Childress pubblicano i Principles of Biomedical Ethics.
In quest’opera vengono enunciati i quattro principi dell’etica biomedica:
di
di
di
di
autonomia
non-maleficità
beneficità
giustizia
il caso
mento non interventista. Mentre
lenire la sofferenza
è comunque un
dovere, un intervento artificiale e invasivo di sostegno
vitale non farebbe
altro che prolungare inutilmente e
artificialmente il
processo del morire. Sembrerebbe
quindi di poter concludere con una
piena condivisione
della dichiarazione
della Commissione.
Il caso descritto introduce però un ulteriore elemento di
riflessione, rappresentato dalla volontà dei familiari i
quali, sperando ancora in un futuro recupero, insistono
per l’attuazione di
interventi invasivi
qualora se ne ravvisasse la necessità al
fine di consentire la
sopravvivenza.
Poiché questa volontà è in contrasto
con l’orientamento
sopra espresso, ci si
chiede se debba essere ritenuta vincolante o almeno autorevole in caso di
assenza di una volontà espressa dal
paziente.
23
ci, secondo un corretto atteggiamento
da professionisti. Lo
scopo della medicina rimane la ricerca
del bene del paziente, sforzandosi di
condividere il contenuto della parola
“bene”. Così come è
legittimo che il
medico scelga di
attuare un interven-
to terapeutico senza
consenso del
paziente quando si
trovi “in stato di
necessità”, valutando in base alle conoscenze scientifiche
l’adeguatezza dell’intervento stesso
rispetto a un condivisibile beneficio
atteso, così è moralmente legittimo che
I limiti intrinseci all’atto
medico
I
l caso ripropone
il tema delle decisioni cliniche
sostitutive prese da
soggetti diversi dall’interessato.
Chi può decidere e
in base a quali criteri deve decidere
per conto e nell’interesse del paziente
in stato di incapacità irreversibile?
La decisione
dovrebbe essere il
risultato di un confronto, tra chi rappresenta legittimamente il malato e
l’equipe che lo ha in
cura, volto a individuare qual è in concreto il miglior inte-
24
resse del paziente,
con conseguente
esclusione di quegli
interventi che possono integrare un
inutile accanimento
terapeutico.
In questo caso l’equipe si trova a
confrontarsi con i
famigliari, categoria
indeterminata e
spesso conflittuale
al suo interno, cui
l’ordinamento giuridico italiano non
conferisce automaticamente un potere
di rappresentanza
del congiunto in
stato di incapacità
decisionale.
Sarebbe opportuno
formuli una prognosi prudente ma affidabile e orienti il
proprio operato in
questo senso, qualora la volontà del
paziente non sia
disponibile nemmeno attraverso testimonianze delle persone a lui vicine.
Ci si può dunque
trovare d’accordo
con la dichiarazione
della Commissione
di etica clinica che
affida alla coscienza
del personale
curante la valutazione di quella che
deve essere considerata la “buona
medicina”.
in casi del genere
attivare la procedura di nomina di un
legale rappresentante dell’incapace
che sia abilitato a
interloquire con i
medici sulle decisioni da prendere nell’eventualità di pro-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
Gianmariano
Marchesi
Gli autori
Roberto Malacrida è segretario
della Commissione di etica clinica dell’Ente
ospedaliero cantonale del Canton Ticino
[email protected]
Valentina Di Bernardo è membro
della Commissione di etica clinica dell’Ente
ospedaliero cantonale del Canton Ticino
[email protected]
Gianmariano Marchesi è medico chirurgo,
direttore della Rianimazione generale
adulti degli Ospedali Riuniti di Bergamo
[email protected]
Sergio Fucci è magistrato e bioeticista,
studioso degli aspetti etico-giuridici della
relazione di cura
[email protected]
babili complicanze
del quadro clinico.
In ogni caso l’obiettivo da perseguire
non può legittimamente essere solo
quello di tenere in
vita il paziente con
interventi aggressivi
che non sono utili a
migliorare la sua
gravissima situazione conseguente all’irreversibile disfunzione corticale
bilaterale diagnosticata, né possono incidere positivamente sulla qualità di vita dell’interessato.
Questi interventi,
infatti, non sembrano diretti a tutelare
alcun serio interesse del paziente e
che dovrebbe essere
l’obiettivo comune
sia per l’equipe
curante che per il
legale rappresentante dell’incapace.
Astenersi è un
diritto?
re utili linee guida
di comportamento
che individuino
quelle terapie che
appaiono “futili” in
base all’esperienza
e che consentano ai
curanti di assistere
correttamente il paziente evitando interventi aggressivi
in caso di prevedibili complicanze.
Queste linee guida
possono essere utilmente opposte alle
richieste dei familiari per dimostrare,
in base a dati scientifici, la sostanziale
inutilità delle terapie aggressive
astrattamente utilizzabili in caso di
complicanze.
Accordi
e disaccordi
È evidente che qualora il disaccordo
insorto con i familiari non sia risolvibile con un leale
confronto, rimane il
rischio di un contenzioso, prevenibile solo con un preventivo ricorso della
struttura (o dei
medici) all’autorità
giudiziaria per ottenere una preventiva
autorizzazione all’astensione dagli
interventi aggressivi
richiesti e ritenuti
non praticabili.
In Inghilterra un
conflitto del genere
è insorto tra l’equipe che aveva in
cura una neonata e
i suoi genitori ed è
stato deciso
dall’Alta Corte in
senso favorevole
alla struttura ospedaliera che aveva
chiesto l’autorizzazione a evitare
interventi di rianimazione aggressivi
non ritenuti corrispondenti al
miglior interesse
della piccola
paziente, affetta da
gravissime malattie.
In Italia non risultano casi giudiziari
analoghi e, quindi,
mancano precedenti cui fare riferimento, ma nell’interesse del paziente
incapace non si
dovrebbe cedere a
richieste incongrue,
che integrano un
inutile accanimento
terapeutico e non
portano alcun reale
beneficio al diretto
interessato.
Sergio Fucci
il caso
A conclusioni diverse si potrebbe giungere solo se si
dovesse ritenere
che rientra tra gli
obiettivi della medicina quello di impedire a ogni costo e,
quindi, anche con
interventi molto
aggressivi (come la
rianimazione e l’intubazione prospettati in questo caso),
l’exitus del paziente
affetto da patologia
inguaribile e privo
di concrete possibilità di ripresa.
Il comportamento
dell’equipe, d’altra
parte, sembra
conforme all’art. 16
del Codice di deontologia medica del
2006 che stabilisce
che il medico, anche tenendo conto
delle volontà del
paziente (se espresse), deve astenersi
dall’ostinazione in
trattamenti terapeutici da cui non si
possa fondatamente attendere un beneficio per la salute
del malato.
Sul piano umano le
richieste di intervento dei familiari
sono comprensibili,
ma non possono essere accettate qualora legittimamente
ritenute, in base a
convalidati criteri
scientifici, non corrispondenti all’interesse del paziente.
Ecco perché in casi
simili possono esse-
25
Individuo, famiglia, società:
i tre livelli dei disturbi psichici
La malattia mentale non è solo un problema individuale ma anche collettivo. Ha risvolti
sanitari, economici e sociali che diventano sempre più preoccupanti, specialmente nei
Paesi industrializzati con la diffusione di stili di vita frenetici l’inasprimento delle disuguaglianze sociali e l’isolamento insito nella modernità. Un aspetto non trascurabile è che le
malattie mentali sono un grave peso, sia psicologico che economico, per le famiglie.
Daniela Cipolloni
I
disagio che tende a incidere negativamente sulla
condizione fisica ed economica, oltre che su quella
giudiziaria e penale, si
aggiunge l’aggravante dell’emarginazione e dell’esclusione sociale.
In seconda battuta, il
disturbo mentale è un problema della famiglia, spesso l’unico contenitore
sociale su cui si ripercuote
l’onere della presa in carico del paziente, specialmente per le patologie
meno disabilitanti o non
diagnosticate.
In terzo luogo, quale che
sia, la malattia mentale
rappresenta un costo notevole per la collettività e una
sfida per la salute pubblica.
Nell’insieme,
l’Organizzazione mondiale
della sanità considera i
disturbi mentali ai primi
posti nella classifica dei
problemi di salute come
carico di sofferenza e di
disabilità per la popolazione. E le previsioni per il
futuro per i Paesi industrializzati non sono rosee:
numerosi fattori quali l’aumento della popolazione
anziana, l’incremento dell’immigrazione e il conse-
l’obiettivo
l disturbo psichico è,
prima di tutto, sofferenza individuale. Non
godere di una soddisfacente salute mentale (definita
dall’Organizzazione mondiale della sanità come lo
stato di benessere che permette al singolo di essere
consapevole delle proprie
capacità, affrontare le normali difficoltà quotidiane e
lavorare in modo utile e
produttivo) significa
disporre di una scarsa qualità della vita e aver difficoltà a gestire le relazioni
interpersonali, sentimentali e professionali. A questo
27
guente aumento delle condizioni di disagio a causa
della povertà e delle disuguaglianze nell’accesso alle
cure, le condizioni di stress
per i frenetici ritmi di vita e
di lavoro, il crescente disa-
bulimia nervose, l’abuso da
sostanze e da alcol.
Numerose, inoltre, sono le
persone che hanno problemi psicologici chiamati
“sottosoglia”, non così gravi
perché si possa fare una
Molti hanno problemi psicologici chiamati “sottosoglia”,
non così gravi perché si possa fare una diagnosi secondo
i criteri delle classificazioni internazionali, ma comunque responsabili di malessere nella vita di tutti i giorni
gio urbano, i problemi dell’adolescenza e della gioventù, potranno contribuire a favorire ulteriormente
la diffusione dei disturbi
mentali.
La dimensione
del problema
La gamma delle malattie
psichiatriche e comportamentali è estesa: i due poli
forti, di stretta competenza
psichiatrica, sono le malattie psicotiche come la schizofrenia e le psicosi maniaco depressive. Si tratta dei
disagi più gravi che riguardano circa l’1 per cento
della popolazione. Ben più
diffusi sono i disturbi d’ansia, le patologie ossessivocompulsive, i disturbi alimentari come anoressia e
28
diagnosi secondo i criteri
delle classificazioni internazionali, ma che comunque sono responsabili di
malessere e difficoltà nella
vita di tutti i giorni.
In Europa si stima che una
persona su quattro sperimenti nell’arco della vita
almeno una di queste
forme di disagio psichico.
Visto da un’altra angolatura, significa che prima o
poi tutti entriamo a contatto, direttamente oppure
indirettamente (attraverso
l’esperienza di un amico,
del proprio partner, di un
parente, di un collega), con
la negazione della salute
mentale.
Le stime per l’Italia della
prevalenza di questi disturbi sono confrontabili con
quelle degli altri Paesi.
Recentemente, è stato con-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
dotto uno studio epidemiologico sulla prevalenza
dei disturbi mentali nell’ambito del progetto europeo European Study on the
Epidemiology of Mental
Disorders. È emerso che
poco meno del 10 per
cento della popolazione ha
sofferto nell’arco di un
anno di indagine di uno dei
disturbi mentali più frequenti, come la depressione maggiore. Le fobie specifiche e la distimia sono
state accusate rispettivamente dal 5,7 e dal 3,4 per
cento dei 4.230 intervistati.
A seguire, il disturbo post
traumatico da stress, dalla
fobia sociale e dal disturbo
d’ansia generalizzata, sono
stati riscontrati nel 2 per
cento circa dei soggetti. Le
donne risultano più a
rischio di soffrire di un
disturbo mentale, rispetto
agli uomini, con l’eccezione dei disturbi correlati
all’uso di alcol. Anche l’essere disoccupati, casalinghe o disabili aumenta la
probabilità di soffrire di
disturbi psichici.
Un problema collettivo
Quali sono le conseguenze
del male vissuto da questa
consistente fetta di popolazione?
Dal punto di vista sanitario,
l’ottobre 2005 e intitolato
Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso
una strategia sulla salute
mentale per l’Unione
Europea, ogni anno in
Europa 58 mila cittadini
muoiono per suicidio, una
cifra che supera il numero
annuo di decessi causati da
incidenti stradali, omicidi o
Aids. In Italia il problema è
minore rispetto ai Paesi
dell’ex Unione Sovietica,
come Lituania, Lettonia ed
Estonia, che si contengono
il triste primato per numero di suicidi. Solo la Grecia
ha un numero di morti
volontarie più basso: 3,6
per 100 mila abitanti, contro i 6 dell’Italia.
Pazienti e cure,
quel gap da colmare
Nonostante questi dati, è
ancora ampio il gap tra il
tipo di cure di cui i malati
avrebbero bisogno e quelle
che invece ricevono. In
generale, nei Paesi europei
si stima che dal 44 al 70 per
cento di coloro che soffrono di malattie mentali non
sia sottoposto ad alcuna
terapia. Il sostegno umano
dei pazienti che non ricevono assistenza finisce per
gravare interamente sulle
loro famiglie. In Italia non
va molto meglio e, a fronte
di un aumento nella prevalenza delle patologie mentali, i servizi disponibili sul
territorio nazionale (211
Dipartimenti di salute
mentale, istituiti in ciascuna azienda sanitaria locale,
612 centri diurni e 1552
strutture residenziali) risultano complessivamente
inadeguati. Il giudizio è
contenuto nell’indagine
conoscitiva voluta dalla
Commissione igiene e
sanità del Senato sull’attuazione della Legge 180,
che trent’anni fa ha sancito
la chiusura dell’istituzione
manicomiale.
Nel documento è indicato
che i servizi psichiatrici in
Italia trattano solo il 10 per
cento dei pazienti e il 90
per cento delle risorse è
assorbito da 40 mila
pazienti gravi, che presentano costi assistenziali
molto elevati fino a 80 mila
euro all’anno. Questo
approccio, in cui la presa in
carico del paziente riguarda i casi più gravi, ha
lasciato scoperta una larga
L’autrice
Daniela Cipolloni
Agenzia di giornalismo
scientifico Zadigroma
[email protected]
l’obiettivo
notevoli. Oltre alle prestazioni specialistiche da
parte di psichiatri e psicologi clinici, è ben documentato che i pazienti con
disturbi psicopatologici
utilizzano maggiormente i
servizi sanitari a causa di
problemi di salute o dovuti
a somatizzazione.
La cartina di tornasole
delle sofferenze di vario
genere, entità e gravità
della psiche umana è la
spesa farmaceutica.
Secondo l’International
Labour Organization, i problemi di salute mentale
possono causare la perdita
di circa il 3-4 per cento del
Prodotto interno lordo
nell’Unione Europea, principalmente a causa della
perdita di produttività. I
disturbi psichici sono una
delle prime tre cause di
assenza dal lavoro e tra le
principali ragioni dei pensionamenti anticipati e
pensioni d’invalidità. Va
peggio rispetto alle altre
malattie: solo uno su cinque di coloro che hanno
gravi problemi mentali riesce a mantenere un lavoro
retribuito, contro il 65 per
cento di coloro che hanno
una disabilità fisica.
Ma la perdita più drammatica per la società riguarda i
suicidi: come riferisce il
Libro Verde elaborato dalla
Commissione europea nel-
29
fascia di popolazione afflitta da altri disturbi minori,
meno gravi ma più diffusi,
il cui carico è stato riversato principalmente sulle
famiglie.
Quando la famiglia paga
la sofferenza mentale
In Italia un milione di
pazienti con depressione
non è trattato per mancanza di diagnosi, con risvolti
pratici e psicologici nel
nucleo familiare. Come
rilevato nell’ambito del
Programma nazionale per
la salute mentale del ministero della Salute, tra le difficoltà più spesso segnalate
dai familiari di pazienti con
depressione ci sono i problemi economici, lamentati
dal 41 per cento dei parenti
stretti, per lo più dovuti alla
ridotta produttività del
paziente. Il 71 per cento
30
accusa la diminuzione dei
rapporti relazionali del
paziente. Inoltre, nelle
metà delle famiglie si
riscontrano problemi
coniugali, senso di perdita
e sensazione di non riuscire più a sostenere la situazione.
Frequentemente, la depressione di un membro della
famiglia si ripercuote sugli
altri soggetti, aggravando
ulteriormente la situazione: nel 36 per cento dei
familiari l’assistenza tra le
mura domestiche a un
individuo depresso provoca sintomi di malessere
psicologico, che necessitano a loro volta di un intervento specialistico. In casa
il 50 per cento afferma di
sentirsi depresso e il 62 per
cento di essere “sotto
stress”. A questo si aggiungono gli indotti sul lungo
temine, come le difficoltà
percepite dai figli minoren-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
ni dei pazienti.
Questo quadro dimostra
come le condizioni di vita
soggettive e oggettive delle
persone con disturbi mentali non dipendano solo
dalla gravità della malattia.
C’è un sommerso di persone con disagio che evitano
di chiedere aiuto, a volte
per paura dello stigma
sociale, rinunciando alle
visite e alle terapie più
opportune. In questo
senso, la maggior parte dei
Paesi riconosce la necessità
di introdurre politiche più
avanzate ed efficaci.
C’è bisogno di fare rapidi
passi avanti in questo settore, fornendo risposte
adeguate. Tenendo presente che la salute mentale del
singolo è la base per la prosperità, la solidarietà e la
giustizia dell’intera
società.
Daniela Cipolloni
Psicoterapia per tutti:
un diritto e un investimento
I disturbi mentali rappresentano una parte consistente del carico globale delle malattie,
e hanno effetti gravi anche sulla salute fisica di chi ne soffre. Inoltre, i costi umani ed economici ricadono sull’intera società. Nonostante tutto ciò, anche in Occidente non tutti
possono permettersi una psicoterapia. Consentirne l’accesso a chi ne ha bisogno è dunque un diritto costituzionale, ma anche un investimento di salute ed economico.
Alberto Zucconi
L’
una delle maggiori cause di
suicidio: i suicidi sono un
milione all’anno, e sempre
secondo l’Oms ogni anno
dai 10 ai 20 milioni di persone tentano il suicidio. Le
ricerche rilevano inoltre
che in Europa la depressione è una delle malattie più
disabilitanti; gli ultimi dati
disponibili mostrano che
nel solo 2004 ha causato il
6% del carico totale delle
malattie. In 28 Paesi europei, con una popolazione
complessiva di 466 milioni,
almeno 21 milioni sono
stati colpiti da depressione,
con un costo economico
stimato nel 2004 di 118
miliardi di euro, pari all’1%
del prodotto europeo
lordo.
Le ricadute negative
sulla società
Ancora più importante è
tenere presente che la salute mentale è una delle
determinanti della salute in
generale: le ricerche
mostrano che gli stati
ansiosi e depressivi provocano ricadute negative sul
sistema endocrino e
immunitario, con conse-
l’obiettivo
Oms stima attualmente in 450 milioni le persone che
soffrono di disturbi mentali
o comportamentali, e prevede che una persona su
quattro ne soffrirà durante
la propria vita. I disturbi
della salute mentale sono
una delle maggiori cause di
malattia e disabilità nel
mondo (circa il 15% del
totale delle malattie).
Nell’ambito della salute
mentale, una delle componenti principali è la depressione: 121 milioni di persone ne sono colpite in tutto
il mondo. La depressione è
31
guenze di deterioramento
della salute fisica.
Sempre secondo gli studi
dell’Oms, la salute mentale
provoca notevoli sofferenze
alle persone che ne sono
colpite e alle loro famiglie,
ma tutta la società paga un
caro prezzo in termini di:
perdita di produttività
conseguente a morti premature dovute al suicidio, che in alcuni Paesi
sono in numero pari o
QUALE
maggiore a quello delle
morti causate da incidenti stradali
perdita di produttività
per assenza dal lavoro
delle persone con problemi di salute mentale
perdita di produttività
per assenza dal lavoro
delle persone che hanno
un familiare con problemi di salute mentale
costo degli incidenti sul
lavoro sofferti o causati
dalle persone con pro-
PSICOTERAPIA È PIÙ EFFICACE?
PSICOTERAPIA PER TUTTI: sì, ma quale? In Francia imperversano le polemiche: da un lato i sostenitori delle terapie
cognitivo comportamentali basate sulle moderne tecniche
anglosassoni di neuroscienze e psicologia scientifica; dall’altra parte i difensori della psicoanalisi di Freud, Jacques
Lacan e Françoise Dolto.
A far da bandiera ai due orientamenti ci sono due libri,
usciti a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, e totalmente antitetici: Le Livre Noir de la Psychanalyse, raccolta di saggi curata da Catherine Meyer, e l’Anti-livre Noir de
la psycanalyse di Jacques Alain Miller. Il primo accusa con
toni vivaci le opere, le tecniche e il pensiero di Freud e
discepoli. La psicanalisi classica viene definita “teoria
vuota” e ormai superata dalle moderne terapie cognitivo
comportamentali che agiscono sulla condotta e sul pensiero delle persone per «vivere, pensare e star meglio
senza Freud», come spiegato dal sottotitolo del libro. La
risposta arriva dall’Anti-libro nero di Miller, che accusa le
nuove terapie standardizzate e i loro sostenitori in nome
del rispetto dell’individualità, dell’inconscio da osservare
e, in caso, curare.
Chiara Badia
32
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
blemi di salute mentale
costi diretti o indiretti
delle famiglie che devono prendersi cura di un
loro membro con problemi di salute mentale
costi relativi a disoccupazione, alienazione e
criminalità dei giovani
con problemi di salute
mentale come la depressione e i disordini del
comportamento; questi
problemi colpiscono
particolarmente i giovani
che non hanno ricevuto
cure efficaci e che per
questo non hanno potuto beneficiare delle
opportunità offerte dalla
pubblica istruzione
costi derivanti da problemi di sviluppo cognitivo
dei figli di genitori con
problemi psichici
disagi emozionali, stress
e perdita della qualità di
vita dei cittadini con problemi di salute mentale e
dei loro familiari
sofferenze e costi derivanti dal pregiudizio,
dalla discriminazione e
dall’isolamento sociale di
cui soffrono le persone
con problemi di salute
mentale.
Nel mondo, su quattro
utenti che si rivolgono al
servizio sanitario, uno è
affetto da almeno un disturbo mentale, neurologico o
comportamentale, che
però, nella maggioranza dei
casi, non è diagnosticato o
trattato efficacemente.
La salute mentale impatta
negativamente le malattie
croniche come il cancro, le
malattie cardiache o cardiovascolari, il diabete, le
immunodeficienze e l’Aids:
se i problemi di salute
mentale non sono trattati,
o non sono trattati efficacemente, le conseguenze
sono comportamenti nocivi alla salute, mancanza di
compliance alle cure,
abbassamento delle difese
immunitarie.
Questo quadro drammatico secondo l’Oms dipende
da fattori modificabili: trattamenti efficaci esistono
per la maggioranza dei
disordini della salute mentale e, se correttamente
applicati, renderebbero
possibile a chi ne è colpito
di ritornare a essere un cittadino produttivo.
L’Oms ritiene che le politiche sulla salute mentale
non ricevano la priorità e i
L’autore
disfunzionali non solo per
se stessi ma per l’intera
Nazione. Infatti non consentire l’accesso alla psicoterapia a chi ne ha bisogno
rappresenta la negazione di
un diritto costituzionale, a
cui stanno cercando di
rimediare le proposte di
legge recanti “Disposizioni
per l’accesso alla psicoterapia”. Inoltre, impedire l’ac-
Trattamenti efficaci esistono per la maggioranza dei
disordini della salute mentale e, se correttamente
applicati, renderebbero possibile ai cittadini che ne
sono colpiti di ritornare a essere cittadini produttivi
sociale, gli investimenti per
la promozione della salute
non solo sono largamente
insufficienti in ambito programmatico, ma solo una
minima parte dei fondi
stanziati viene realmente
usata per la promozione
della salute in termini biopsicosociali.
Purtroppo nel nostro
Paese, malgrado un alto
numero di persone abbia
necessità di psicoterapia
come trattamento di elezione, molti cittadini,
ovviamente quelli meno
abbienti e meno tutelati,
non riescono ad accedere a
questi servizi, con conseguenze drammatiche e
cesso alla psicoterapia a
chi ne ha bisogno non solo
condanna a inutili e aggravate sofferenze, ma produce enormi costi agli individui, alle famiglie e all’intera società: il disagio mentale non efficacemente trattato produce deterioramento delle condizioni fisiche, con ulteriori costi sia
per il Servizio sanitario
nazionale sia per la società,
in conseguenza della perdita di produttività per
assenza dal lavoro, dell’aumento degli incidenti e di
tutte le altre cause sopra
elencate.
Alberto Zucconi
l’obiettivo
Alberto Zucconi,
psicologo e psicoterapeuta, è tra i fondatori
dell’Istituto dell’approccio
centrato sulla persona
[email protected]
fondi necessari per gestire
efficacemente questa problematica che impatta così
gravemente tutti i Paesi.
Per quanto riguarda l’Italia,
anche se il ministero della
Sanità si è finalmente rinominato ministero della
Salute per uscire dall’obsoleto paradigma riduzionistico ed entrare doverosamente in quello biopsico-
33
Psicologi e psichiatri:
amici o nemici?
Psicologi e psichiatri, due categorie simili ma diverse. I confini tra le due discipline a volte
appaiono confusi. Nel corso della storia e dell’evoluzione di questi saperi si sono susseguiti incontri e scontri. La questione di fondo: da un lato gli psichiatri sono considerati
troppo medicalizzanti, dall’altro gli psicologi curano malati senza avere le responsabilità
proprie dei medici, a causa di uno status professionale ancora non del tutto chiaro.
Emilio Vercillo
P
iù spesso di quanto si
possa pensare si incontrano centri per la patologia mentale all’interno dei
quali, con mutuo rispetto
dei ruoli, reciproca stima, e
soprattutto con un vantaggio per il paziente, psicologi e psichiatri lavorano
insieme positivamente.
Al di là di questi casi non
rari, è bene dire però che
l’area di conflitto tra queste
due categorie cresce, frutto
inevitabile del perdurare di
una voluta confusione sin
dall’atto della definizione
giuridica della figura professionale dello psicologo
34
e, ancor più, da quando
con norme criticabili e criticate si è tentato di regolamentare il lavoro della psicoterapia.
Per capire i veri motivi alla
base del problema è utile
riflettere su qualche numero. Secondo quanto scritto
da Luca Pezzullo su
AltraPsicologia del 28 febbraio 2007, attualmente gli
iscritti all’Ordine degli psicologi sono circa 60 mila,
con un incremento di 8
mila iscritti in soli 2 anni.
Vanno inoltre messi in
conto i circa 50 mila iscritti
ai 26 corsi di laurea in psi-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
cologia di tutta Italia, con
una percentuale dell’80 per
cento che arriva a completare gli studi.
Dal piano sperimentale
a quello sanitario
La storia e l’evoluzione
della psicologia in Italia,
del corso di laurea e della
definizione del ruolo e dei
confini della professione di
psicologo, costituiscono un
excursus interessante su
come si rende necessaria la
ricerca di un’identità,
quando i domini di una
ma non esiste neppure una
psicologia».
Sono gli anni in cui si fa
forte la richiesta di formazione psicoterapeutica, in
cui la creazione dei servizi
territoriali per le malattie
mentali con l’assunzione di
psicologi sposta la centralità dello psicologo dal
piano scientifico sperimentale originario a quello
seguimento della laurea in
psicologia o in medicina e
chirurgia, mediante corsi di
specializzazione almeno
quadriennali che prevedano adeguata formazione e
addestramento in psicoterapia […]. Agli psicoterapeuti non medici è vietato
ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica […].
A fronte delle molte cause legali nei confronti di medici, gli psicologi godono del privilegio di minore responsabilità nel loro agire, visto lo stato non ben definito
della loro identità professionale e della loro pratica
strettamente sanitario.
Con la Legge 56 del 18 febbraio 1989 viene finalmente istituita la professione
dello psicologo che, come
recita l’articolo 1: «comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di
intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di
abilitazione-riabilitazione
e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali, e alle comunità». Inoltre, secondo l’articolo 3: «L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è
subordinato a una specifica
formazione professionale
da acquisirsi, dopo il con-
Previo consenso del
paziente, lo psicoterapeuta
e il medico curante sono
tenuti alla reciproca informazione». Come si può
notare, è nella natura contraddittoria di questi due
articoli che sta la causa
strutturale delle difficoltà
attuali.
Il ruolo medico
dello psichiatra
Agli psicologi, sin dal corso
di studi, vengono sottolineate le differenze con la
medicina. Ma qual è la
medicina che viene descritta? La professione medica,
l’obiettivo
disciplina e soprattutto di
una pratica sono tutt’altro
che univoci e definiti.
Da una specializzazione in
psicologia (una psicologia
soprattutto sperimentale, e
orientata verso l’uso dei
test), cui si accedeva dalle
facoltà di medicina e di
filosofia, si giunge negli
anni Settanta alla creazione
del corso di laurea di magistero, con tre indirizzi
(didattico, applicativo e
sperimentale), di cui solo
quello applicativo sembra
riferirsi al ruolo dello psicologo clinico.
Negli anni Ottanta, varata
la riforma psichiatrica,
molti psicologi entrano nel
Servizio sanitario nazionale, spesso nel ruolo di animatori. A questo proposito
Gaetano Kanizsa nel 1980
arriva a sostenere: «un
corso di laurea a carattere
professionalizzante è oggi
mistificante, non per le difficoltà di ordine pratico e
organizzativo certamente
esistenti o per le inadeguatezze della didattica e dei
tirocini, ma proprio per lo
stadio di immaturità della
disciplina che non legittima la formazione di una
vera figura professionale,
comunque si voglia definirla». E il decano Cesare
Musatti nel 1982 afferma:
«non solo non esiste la professione dello psicologo,
35
che pure esiste da circa
4000 anni con una varietà
grandissima di teorie, viene
presentata e ridotta a una
sorta di teoria lineare ingenua delle causalità, di tipo
fisico, naturalmente a fronte di modelli comprensivi
ed empatici in uso da parte
della psicologia.
Il medico, dal punto di
vista dello psicologo, ha un
solo campo di operazione
legittimo: la diagnosi d’organo e la somministrazione
dei farmaci adatti. Ma nessun medico però accetterebbe di vedere così ridotto
il suo ruolo, per altro privato del ruolo colloquiale con
il paziente, fattore necessario sia alla diagnosi che
all’intervento terapeutico.
Eppure è questa la visione
caricaturale in cui si tenta
di ricacciare lo psichiatra
per saperne di più
G. Kanizsa, “Ristrutturare
il corso di laurea?”.
In: Giornale Italiano di
Psicologia, 1980.
C. Musatti (1982),
“Documento di base”. In:
Psicologia Clinica, 1982.
L. Pezzullo, “Demografia
professionale prossima
(s)ventura...”. In:
AltraPsicologia, 2007.
36
da parte degli psicologi,
con tutta evidenza al fine
di mantenere un proprio
spazio esclusivo d’azione.
Eppure anche il sapere
della psicoterapia è nato
proprio in ambito medico:
i “trattamenti morali”
dell’Ottocento e la psicoanalisi sono nati da medici.
I confini
della diagnosi psicologica
Per creare un campo definito di identità, l’Italia è
ricorsa a una risorsa millenaria della sua cultura giuridica: il nominalismo. Ha
creato un termine che non
ha riscontro altrove, con la
pretesa che la realtà gli si
conformi: la diagnosi psicologica. Vale la pena precisare che non esiste nazione al mondo in cui sia permesso che una persona
senza preparazione medica
certificata, qual è un laureato in psicologia, formuli
una diagnosi.
Va ricordato che la diagnosi
è un processo di tipo differenziale: se non risultano
note almeno le 60 patologie non rare che possono
dare modificazioni psicologiche, nonché tutti gli effetti di farmaci, sostanze
varie, ritmi di vita sulla psiche, come si può fare diagnosi? Si obietterà che si
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
sta parlando di diagnosi
psicologica che è diversa
da quella medica; ma di
fatto i confini della diagnosi psicologica sono sconosciuti, visto che si tratta di
sapere quali stili psicologici
vengono attuati nella
mente del paziente, come
le dinamiche familiari e
sociali vengono a influire
nel vissuto della persona e
via dicendo.
Va precisato che non esiste
al mondo luogo in cui uno
psicologo possa prescrivere
una terapia senza che preliminarmente un medico
abbia formulato una diagnosi (neanche negli Usa,
dove gli psicologi godono
del prescription privilege, la
facoltà di prescrivere psicofarmaci). Questo privilegio
costituisce di fatto uno
degli obiettivi che si sono
posti gli psicologi italiani,
insieme alla facoltà di
poter richiedere consulenze specialistiche.
Il progetto è chiaro: sostituire in tutte le funzioni lo
psichiatra, affermando l’identità delle funzioni e
delle facoltà medico legali.
Ora, la diagnosi, la certificazione, la terapia, la prognosi e, nello specifico, la
richiesta e la convalida
necessarie per un trattamento sanitario obbligatorio, non sono solo atti
medici, ma sono atti medi-
ci dovuti. Per il medico esiste l’obbligo della diagnosi
e della certificazione, per
gli psicologi solo la facoltà.
Tra il fisico e lo psichico
intentate per i concorsi per
psicoterapeuti nell’ambito
del Servizio sanitario
nazionale, concorsi che si
vorrebbero esclusivamente
aperti a psicologi, cui a
rigore di termini e per
quanto detto possono con
tutta evidenza partecipare
anche gli psichiatri.
Dalla psichiatria
alla salute mentale
In verità lo stato attuale
delle cose è conseguenza
anche della peculiare posizione dello psichiatra in
Italia al quale, da più di
trent’anni, viene addossata
la colpa originale di essere
stato lo strumento della
repressione del disagio
sociale nei manicomi.
Questa posizione anti psichiatrica, che ha dominato
nel nostro Paese durante
questi decenni, finisce per
cancellare quella che è
stata la conquista maggiore
della riforma psichiatrica: il
riavvicinamento della psichiatria alle altre discipline
mediche e alla dignità
medico-specialistica.
Se non si considera quanto
rimane sedimentato nel
senso comune di queste
posizioni ideologiche estremistiche, non si arriva a
capire perché al giorno
d’oggi i servizi psichiatrici
l’obiettivo
Di fatto, a fronte delle
numerose cause legali nei
confronti di medici, gli psicologi sembrano godere del
privilegio di minore
responsabilità nel loro
agire, visto lo stato non ben
definito della loro identità
professionale nonché della
loro pratica. Anche per
quanto riguarda l’ambito
peritale (come si evince da
un documento congiunto
delle società italiane di criminologia, medicina legale
e psichiatria sull’imputabilità e sulla pericolosità
sociale) si esprime l’esigenza di evitare vaghe formulazioni psicologiche e la
necessità di utilizzare chiare misure diagnostiche psichiatriche.
Una terapia adeguata,
secondo una scienza che si
voglia empiricamente fondata sulla conoscenza delle
prove, non può che seguire
una corretta diagnosi. Solo
il medico, nello specifico lo
psichiatra, possiede una
competenza globale in
merito alle varie fasi della
malattia, anzi è proprio
nello spaziare tra fisico e
psichico che ha trovato
forma il pensiero psichiatrico. Così, nel momento in
cui si fanno sempre più
evidenti (per esempio con
tecniche di neuroimaging)
le conseguenze “organiche”
delle attività psicoterapeutiche sulla plasticità del
sistema nervoso, sempre
più pretestuosa appare la
distinzione tra il fisico e lo
psichico all’interno della
persona.
Ciò non esclude affatto che
tecniche operative terapeutiche possano essere
demandate a figure specificamente formate ad hoc,
come accade nel caso ad
esempio della fisioterapia.
Il fisioterapista, almeno per
ora, non sostituisce il fisiatra, il neurologo o l’ortopedico nella pienezza delle
sue funzioni.
Gli psicologi lamentano la
facoltà degli psichiatri di
esercitare la psicoterapia;
ma si deve ricordare che
l’insegnamento di tecniche
psicoterapeutiche è parte
costitutiva del corso di specializzazione in psichiatria,
come il fatto che molti psichiatri possiedono un’ulteriore formazione indipendente ottenuta presso
società private (psicoanalitiche, cognitive, sistemiche). In questo quadro si
possono così comprendere
le tante battaglie legali
37
devono essere invece definiti di “salute mentale”, laddove nessuno pensa di
cambiare il nome all’ortopedia in “salute delle ossa e
articolazioni”. Si progetta
addirittura di modificare il
nome della scuola di specializzazione in psichiatria,
usando il termine più politically correct “salute mentale”. Anche la dicitura
“processo di accoglienza”,
per indicare la prima visita
che viene fatta a chi si reca
nei dipartimenti di salute
mentale, rientra nell’ottica
dell’eliminazione di tutto
L’autore
Emilio Vercillo, psichiatra, psicoanalista, psicofarmacologo, lavora presso l’Ospedale S. Giacomo di Roma.
Si occupa di ricerca in psichiatria transculturale e di
psicotraumatologia
[email protected]
38
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
quanto possa ricordare
l’ambito medico.
Da tutto ciò gli psicologi
traggono il vantaggio di un
maggiore consenso generale, per altro senza il rischio
di essere percepiti come
“medicalizzanti” o addirittura “manicomializzanti”.
Il dibattito rimane acceso,
ma è necessario evitare che
tutto questo avvenga a scapito del buon senso, della
competenza, della buona
organizzazione e, soprattutto, dei malati.
Emilio Vercillo
Non solo
“castelli di sabbia”
Quando si ha a che fare con i tossicodipendenti e con le loro emozioni altalenanti, la psicoterapia non è sempre risolutiva. A volte è necessario aggirare l’incomunicabilità e trovare sistemi alternativi di aiuto psicologico. La terapia del gioco della sabbia è uno di questi approcci: stimola la creatività per far riaffiorare le esperienze del vissuto. E l’operatore
sanitario non può non essere coinvolto dai piccoli ma evidenti segnali di cambiamento.
Marcella Merlino
P
dovrà fare i conti con la sua
condizione.
Il passare degli anni ha
mostrato infatti quanto sia
difficile la loro integrazione, e come le ricadute
siano frequenti anche a
distanza di anni. Oggi l’approccio dei Servizi non è
più orientato esclusivamente verso l’uscita dalla
droga, ma piuttosto ad
arginare i danni che il tossicodipendente provoca a
se stesso e agli altri.
Anche la comunità terapeutica, che per un lungo
periodo è stata vista come
l’unica vera alternativa alla
droga (al contrario del
Servizio pubblico che, con
la somministrazione del
metadone, era accusato di
contribuire a instaurare la
tossicodipendenza) ha
dovuto ridimensionare la
portata del suo contributo,
trasformandosi in uno dei
tanti possibili interventi,
utile in un determinato
momento della storia dell’individuo.
In quest’ottica, in cui non
si crede più nella soluzione
unica e definitiva in grado
di “salvare” il giovane tossicodipendente, vanno
acquistando sempre più
l’obiettivo
er chi lavora in un Sert,
presidi territoriali di
assistenza e cura ai tossicodipendenti, la promozione
del benessere psichico è un
tema di grande attualità,
sia nei confronti degli
utenti sia degli operatori.
Nati agli inizi degli anni
Ottanta per arginare la diffusione dell’eroina, i Sert si
sono diffusi in tutta Italia e,
mentre inizialmente avevano una fiducia quasi illimitata nel recupero del tossicodipendente, oggi per lo
più lo considerano un
paziente cronico, che per
tutta la vita, tra alti e bassi,
39
importanza approcci alternativi e diversificati e centrati sulla tutela della salute, come la riduzione del
danno e la prevenzione.
Per esempio, la Sand Play
Therapy, o terapia del gioco
della sabbia, è una terapia
analitica che usa la creatività come strumento di
espressione. Utilizza come
materiale una cassetta,
contenete della sabbia e
diversi oggetti. Il linguaggio
delle sensazioni si antepone a quello delle parole,
dando la possibilità di
avviare non solo processi
terapeutici, ma anche di
aprire piccoli spiragli di
cambiamento, di offrire
opportunità nuove che
possono riguardare sia i
pazienti sia gli operatori.
Occuparsi della salute fisica e psichica del tossicodipendente è l’obiettivo principale che oggi si pongono
i Servizi.
Confrontarsi
con l’emozione diffusa
L’altro fronte di questo
nuovo scenario che è
importante sottolineare è il
benessere psichico di coloro che lavorano con i tossicodipendenti. Negli ultimi
anni questo aspetto è stato
finalmente preso in considerazione. Giornate di
40
lavoro dedicate alla formazione, convegni sul burn
out, supervisone all’interno
dei Servizi, sono risorse
preziose sempre più di frequente attivate e da potenziare ulteriormente nei
Sert, dove i livelli di stress
sono alti, in parte proprio
per l’utenza, difficile e
poco gratificante; in parte
per la scarsa considerazione di cui godono questi
Servizi.
Tranne rare eccezioni,
basta entrare in un Sert per
cogliere questo clima. Lo
stesso edificio, spesso in
avanzato stadio di degrado,
dà una sensazione di trasandatezza, scarsa accoglienza, freddezza. La guardia armata all’ingresso, le
porte d’accesso che possono aprirsi solo dall’interno,
le feritoie strategiche che
servono a far passare il
metadone (e solo quello,
impedendo la possibilità di
comunicare tra l’esterno e
l’interno), danno l’idea più
di una trincea blindata che
di un servizio pubblico
sanitario.
All’interno di questi spazi,
lo psicologo deve confrontarsi con chi porta la cronicità del proprio problema.
Lavorare con i tossicodipendenti significa dover far
fronte alle loro richieste di
urgenza, alle loro continue
manipolazioni, al loro affi-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
darsi totalmente all’operatore sanitario, per poi sparire il giorno dopo.
Significa doversi confrontare con l’emozione diffusa
che il paziente tossicodipendente esprime e scatena in chi l’assiste.
Sono condizioni “limite”,
entro le quali è particolarmente difficile riuscire a
costruire un intervento psicologico di crescita e cambiamento. Lo sanno bene
gli operatori, che si trovano
di fatto schierati in due
approcci che rischiano di
essere ugualmente improduttivi: l’uno orientato
all’utente fino ad accogliere urgenze o collusioni,
l’altro orientato alla costruzione di un setting dalle
regole rigide.
Spesso nei Servizi per tossicodipenzenze gli psicologi
oscillano tra queste due
posizioni, cercando di
difendersi dalla richiesta di
aiuto così come è pretesa
dal tossicodipendente, e
che troppo spesso presenta
le stesse caratteristiche di
alternanza dell’esperienza
della droga.
Una terapia non verbale
Per uscire dalla trappola
dei ritmi alterati è necessaria una terapia non esclusivamente verbale, nella spe-
ranza di negoziare un setting più adatto per un
paziente notoriamente
refrattario alla psicoterapia.
Quella utilizzata, sin dal
1995, nel Sert della Asl
RmB è la terapia del gioco
della sabbia, che si è rivelata particolarmente utile
nella patologia tossicomanica. Infatti il mondo inter-
storia delle proprie origini.
In pazienti dove tutto viene
percepito con urgenza,
distanza e indifferenza,
l’importanza della memoria diventa essenziale.
Un altro aspetto interessante, e in qualche modo
anche inaspettato, è che il
gioco della sabbia sembra
funzionare come attivatore
Il gioco della sabbia sembra funzionare come attivatore
della motivazione al cambiamento, nel senso di favorire
nell’utente la percezione di un mondo interno, dalle tante
evidenze, e con cui vale la pena di entrare in contatto
della motivazione al cambiamento, nel senso di
favorire nell’utente la percezione di un mondo interno, dalle tante evidenze, e
con cui vale la pena di
entrare in contatto. È sorprendente notare che, per
ottenere questo, spesso
bastano pochi incontri, in
cui vengono fatte affiorare
fantasie e domande implicite; vengono rivalutate e
sottolineate le potenzialità
di autorealizzazione. Con il
tossicodipendente, che
spesso fa fugaci apparizioni al Sert, è fondamentale
saper incidere nel “qui e
ora” del breve incontro.
Il gioco della sabbia, con il
suo setting così inaspetta-
Lo stupore che sollecita
il cambiamento
E già semplicemente l’essersi posti una domanda,
aver provato curiosità,
essersi meravigliati è un
mezzo per imboccare una
strada nuova.
Nell’esperienza psicoterapeutica il paziente tossicodipendente appare per lo
più chiuso e indifferente,
ripetitivo e superficiale:
fatto il primo colloquio, gli
altri sembrano tutti uguali.
Anche quando c’è un barlume di motivazione, le
capacità di riflessione sembrano inibite e bloccate.
L’incapacità di darsi una
l’obiettivo
no del paziente, sollecitato
dalle immagini, può riaffiorare: è questa la base di
partenza per il riconoscimento di parti inconsce
che pure appartengono
all’individuo.
Sono paure, richieste d’aiuto, fantasie, sogni e ricordi
che non si sa, o non si può,
esprimere con le parole. È
questo un materiale che il
paziente tossicodipendente
sembra aver completamente perduto e che la sabbia
tende ad attivare naturalmente. In particolare, le
scene che gli utenti realizzano sono spesso ricche di
esperienze legate alla
memoria: è il recupero di
una identità basata sulla
to, colorato e di forte
impatto emotivo, permette
una comunicazione carica
di significato anche laddove non si riesce a varcare la
soglia della noia e della
ripetizione. Anzi, forse proprio laddove la comunicazione era più difficile e il
rapporto più precario, i
risultati mostrano delle
significative aperture.
Chi entra per la prima volta
nella stanza della sabbia
normalmente si stupisce: i
commenti espressi sia da
pazienti sia da colleghi
sono sempre legati alla
curiosità; la meraviglia è
l’emozione dominante.
41
risposta è probabilmente
uno dei motivi chiave della
fuga dei tossicodipendenti
dal lavoro psicoterapeutico. La Sand Play Therapy,
per saperne di più
R. Amman, Sandplay:
immagini che curano e
trasformano. Vivarium,
Milano, 2000.
L. Cancrini, Quei temerari
sulle macchine volanti. La
Nuova Italia Scientifica,
Roma, 1982.
C.G. Jung, La vita simbolica. Bollati Boringhieri,
Torino,1993.
D. Kalsched, Il mondo
interiore del trauma.
Moretti & Vitali,
Bergamo, 2001.
D. Kalff, Sandplay. Sigo
Press, Boston, 1980.
M. Merlino, “Le immagini
del tempo. Clinica di
frontiera in un servizio
pubblico per la tossicodipendenza”. In: Studi
Junghiani, 2003.
M. Merlino, V. Padiglione,
“Ritmi Alterati. La tossicodipendenza come
disturbo della temporalizzazione”. In: Psicologia
Clinica, 1995.
P. Rigliano, Doppia diagnosi. Raffaello Cortina
Editore, Milano, 2004.
42
invece, si può vedere e toccare con le mani e in qualche modo rimane. È qualcosa di “concreto”, tanto è
vero che viene fotografata.
Giuseppe, un mio paziente,
dopo il primo momento di
sorpresa, si avvicina agli
scaffali e comincia a indagare: a che cosa serve, per
chi è, se c’è qualcuno che
la sta già facendo, quali sono le regole. Si immedesima talmente che già immagina cosa potrebbe fare: «io
utilizzerei lo scaffale verde»
(cioè lo scaffale dove ci sono alberelli, fiori, foglie).
Chiede un appuntamento,
e intanto comunica ciò che
gli piacerebbe fare, la prossima volta, e l’intenzione di
portare lui stesso qualcosa
da utilizzare per la terapia.
Cosa questa che, due sedute dopo, puntualmente
farà. Ovviamente, non può
essere la curiosità la sola
spinta che induce un tossicodipendente a percorrere
la lunga e faticosa strada
che porta verso il cambiamento, ma il gioco della
sabbia sembra possa rappresentare la risposta adatta a chi ha in sé la spinta
per un’evoluzione.
E gli oggetti aumentano
La realizzazione della stanza della sabbia ha richiesto
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
molto tempo. È stata però
un’esperienza entusiasmante, un fare i conti con
le emozioni che gli oggetti
suscitano e offrirle al
paziente che utilizzerà
quegli stessi oggetti, e
rimanderà, a sua volta, la
propria emozione, in un
continuo stimolo ad
aggiungere e integrare la
stanza della sabbia.
Anche se per questa terapia
sono previsti oggetti anche
banali, sciatti, poveri, scuri
o addirittura inquietanti, la
scelta si è rivolta verso un
materiale ricco, vario, bello
ma soprattutto tale da colpire l’attenzione e stimolare. La ricerca del materiale
per la stanza della sabbia
aiuta a capire l’emozione di
chi, di fronte agli scaffali,
osserva gli oggetti e poi ne
sceglie uno.
L’aver costruito un luogo
colorato, uno spazio psicologico inedito, dove è stato
possibile che alcuni medici
si sperimentassero nella
composizione di scene e
dove molti ragazzi portassero oggetti in dono, così
che il repertorio potesse
meglio accogliere il loro
mondo interno, ha probabilmente contribuito nel
quotidiano a far pensare
almeno un po’ di più alla
salute nel sistema Sert.
Quello che la letteratura
prevede, ma che con que-
sto tipo di utenti ha superato ogni previsione, è che
il repertorio degli oggetti è
stato col tempo ampliato
dai doni degli stessi
pazienti: dai pupazzetti di
gesso ai piccoli ortaggi di
L’autrice
Marcella Merlino ha
istituito la prima stanza di
terapia del gioco della
sabbia in un Sert del
territorio nazionale
marcella_merlino@
katamail.com
plastica colorata, dal rubino rosso e sfaccettato ai
cioccolatini in carta stagnola dorata, fino ad arrivare all’uovo di papera
preso da Andrea durante
un fine settimana in campagna con i suoi genitori.
Andrea, che ha fatto solo
tre sabbie ma che ogni
volta che viene osserva,
tocca, ne entra comunque
in contatto. Andrea, che
subito dopo Pasqua ha
avuto una grave crisi psicotica che lo ha spinto a non
uscire più di casa rendendo
infine necessario il suo
ricovero in ospedale.
Andrea che ora sta meglio
e, rifiutando l’aiuto di altri
Servizi, forse più idonei a
lui, è tornato al Sert, non
per l’abuso di eroina (che
da anni non prende più)
ma per venire a parlare con
chi c’è, medici e infermieri,
assistente sociale o educatori, chiunque sia disponibile a dargli quel senso di
appartenenza che non riesce a trovare altrove nella
sua vita: come lui stesso
dice, «essere un tossicodipendente è meglio che non
essere niente».
Marcella Merlino
l’obiettivo
43
Ci son due pappagalli
e un orangotango…
Due modelli di psichiatria a confronto, quello di tipo manicomiale e quello di comunità,
permettono di sottolineare l’importanza del concetto di salute mentale e del suo legame
con l’idea di guarigione. Ma la modernità porta a fare i conti con un terzo tipo di approccio: una psichiatria che ignora il dibattito tra manicomio e territorio per dare spazio e
voce alle multinazionali della sanità e con una visione di tipo aziendale.
Franco Fasolo
H
o trascorso gli ultimi
tre decenni e mezzo
abbondanti della mia vita
professionale a cercare di
praticare la psichiatria di
territorio, oggi “psichiatria
di comunità”, e a difenderne i meriti rispetto a quelli,
sempre presunti come
superiori dai miei Superiori
di ogni genere (politici,
amministratori, universitari e direttori, di ogni partito) della psichiatria ospedalocentrica, oggi “psichiatria manicomiale”. In questa impresa ho anche letto
molte migliaia di pagine e
ne ho scritte sicuramente
44
diverse centinaia.
Il lettore assolutamente
ignaro, se mai ne esistesse
qualcuno, è invitato a leggere le poche righe successive come mia nipote
ascolta e partecipa attivamente alla canzoncina per
bambini cui alludo nel titolo, travisandola solo un
pochino. È comunque il
migliore riassunto della
mia tesi che potessi immaginare oggi (estate 2007).
Allo stato attuale delle
conoscenze di cui dispongo, le due psichiatrie di cui
continuiamo ormai troppo
ingenuamente a dibattere
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
sono, in fondo, due pappagalli della stessa specie.
Due pappagalli
troppo simili
Il modello ospedalocentrico è quello più riduzionista, che si illude di essere
più scientifico solo perché
tratta gli esseri umani a
pezzi e bocconi: problemi
di mal-funzionamento
cerebrale, problemi di malfunzionamento psichico,
eccetera. In questo tipo di
lavoro si cura la gente in
ospedale, oppure in ambu-
noi non guariranno mai. Il
principio operativo, logicamente, è quello di esclusione. L’immagine giornalistica tipica è quella dello psichiatra strizzacervelli.
Guarigione
e salute mentale
La parola chiave per la psichiatria di comunità è
La filastrocca
Ci son due coccodrilli
e un orangotango,
due piccoli serpenti
e un’aquila reale,
il gatto, il topo, l’elefante:
non manca più nessuno;
solo non si vedono i due
leocorni.
Ndr: questo è il testo
originale della filastrocca,
ma probabilmente
esistono diverse versioni!
invece guarigione. Da tre,
forse quattro, decenni è
sopravvenuta l’idea della
salute mentale, e solo con
questa particolare nozione
si può finalmente parlare
anzi si può puntare concretamente e con successo
alla guarigione.
Infatti salute mentale è un
concetto “sopravveniente”
rispetto a quelli di livello
inferiore come cervello e
come psiche. Li include, li
comprende come necessari, ma non gli sono sufficienti.
La salute mentale si pratica
nella comunità locale, più
o meno, ma meglio se
bene, organizzata: la si
vede solo lì. L’altro pappagallo potrebbe ripetere che
è stata inventata lì, altrimenti non esiste e ha
anche ragione.
In questo tipo di lavoro, si
cura la gente dove è meglio
(a domicilio, in patronato,
in gruppo, qualcuno addirittura ha provato con la
barca a vela!), con il minimo intervento di volta in
volta sufficiente (si chiama
“trattamento sequenziale”)
a far crescere nelle persone
la tolleranza immunitaria,
di cui sopra, senza però
farle arrivare al rigetto o
alla crisi auto-immunitaria.
Il centro del servizio è il
famigerato Centro di salute
mentale, ma non quello
aperto 24 ore su 24, che è
psichiatria manicomiale
riciclata. Tutte le terapie
vanno bene, quando sono
indicate, per curare i
pazienti nelle loro successive fasi di vita in modo
che possano crescere e
maturare, secondo le loro
intenzioni. Sempre però
attraverso le “relazioni fac-
l’obiettivo
latori specialistici, con gli
psicofarmaci e perfino con
le psicoterapie individuali,
in termini però sempre
tendenzialmente escludenti gli uni dalle altre e viceversa.
I pazienti sono tutti maternamente trattati come se
ciascuno fosse un figlio
unico, e gli operatori sono
tutti trattati come portatori
sani di potenziali psicopatologie, perché se uno si
ammala di burn-out, che è
una malattia professionale
da insoddisfazione sui
risultati del proprio lavoro,
sono “pazzi” suoi e si mette
in malattia o si trasferisce.
Il modello di cura fondativo è in questo caso quello
immunitario: difendiamo
le persone da qualsiasi
“antigene” emozionale o
relazionale, virale o genetico, possa essere troppo
antigienico per loro, gli
anticorpi glieli garantiamo
noi, tenendole coperte di
medicine, lontane dai contesti che le fanno stare
male, in ambienti di vita
migliori (reparti o comunità con gradi variabili di
protettività) che riconoscono la loro fragilità, vulnerabilità e disabilità. Solo che
così dobbiamo farlo per
tutta la loro vita, cioè trattiamo le persone a priori (e
anche a posteriori) come
malati cronici. E infatti con
45
cia a faccia” che caratterizzano tutte le grandi organizzazioni di cura: la psichiatria come le organizzazioni scolastiche come le
organizzazioni religiose.
Soprattutto, le persone
vengono trattate riconoscendo loro che sono fatte
dalle proprie reti sociali,
che includono le famiglie o
gruppi famigliari, ma che
sono costituite anche dalla
grande quantità di gruppi
di pari estranei, che finalmente vengono valorizzati
da questo pappagallo
comunitario.
per saperne di più
G. Di Marco, “Psichiatria
sine psichiatria”.
In: Rivista sperimentale di
freniatria, 2001.
R. Esposito, Immunitas.
Einaudi, Torino, 2002.
M. Farkas, “The vision of
recovery today: what it is
and what it means for
services”. In: World
Psychiatry, 2007.
F. Fasolo,
Psichiatria senza rete.
Cleup, Padova, 2007.
C. Lister-Ford, A Short
Introduction to
Psychotherapy.
Sage Publications,
London, 2007.
46
I pazienti vengono curati
insieme con gli altri
pazienti, in gruppi terapeutici che vengono realizzati
in tutte quelle “comunità”
dove in certi periodi della
vita o della malattia sembra che i pazienti possano
migliorare, siano un reparto psichiatrico ospedaliero
o una comunità residenziale o la comunità locale.
Il personale viene concepito come indispensabile per
la salute mentale dei
pazienti, le equipe sono
uno fra i più preziosi gruppi da curare, e vengono
condotte con estrema
attenzione dai responsabili
competenti, che stanno
attenti ai minimi segni di
burn-out. In questo modello organizzativo è però
molto più difficile che i
professionisti siano insoddisfatti del loro lavoro,
visto che i pazienti non
sono mai così cronici, e
veder guarire le persone
con cui si lavora faccia a
faccia ti stanca senz’altro,
ma non ti esaurisce mai.
Naturalmente, nel lavoro di
comunità è impossibile trascurare arbitrariamente
(scientificamente?) qualche
aspetto significativo dei
pazienti, perché loro stessi
chiedono di essere trattati
come persone e collaborano sempre più attivamente
e in modo competente,
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
così come fanno non solo i
loro familiari, ma tutti gli
altri gruppi di interesse e
gli altri servizi coinvolti
nella salute mentale della
comunità.
Il principio operativo è qui,
logicamente, quello di
estensività, che comprende
le dimensioni relazionali
basiche della inclusione e
dell’attaccamento.
L’immagine cult che propongo ai giornalisti di utilizzare se proprio vogliono
sfotterci è quella dello psichiatra “specchiacervelli”,
perché i neuroni-specchio
scoperti dai neurofisiologi
di Parma garantiscono una
solida base neuroscientifica per alcuni dei più efficaci fattori terapeutici utilizzabili in terapia di gruppo:
il rispecchiamento, l’empatia, l’altruismo, l’universalità, l’apprendimento vicario, l’apprendimento interpersonale e di conseguenza
l’insight.
Insomma, adesso possiamo parlare di guarigione in
psichiatria, nel momento
in cui possiamo descrivere
precisi modelli organizzativi, consistenti prove di efficacia empiriche, espliciti
criteri di accreditamento
degli stessi servizi in quanto orientati alla guarigione
e non solo al controllo
sociale. Anzi, adesso possiamo anche dire ai diretto-
ri generali delle Aziende
sociosanitarie pubbliche
che la loro mission non è
affatto quella di far crescere il capitale economico e
finanziario delle fin troppo
numerose famiglie multinazionali e transnazionali
interessate nel giro della
sanità, ma solo ed esclusivamente quella di far crescere il capitale sociale
delle popolazioni servite
dalla loro azienda sociosanitaria. Impresa in cui la
psichiatria, che si può fare
e già si fa con molti dipartimenti di salute mentale e
con la normativa disponibile (mi riferisco almeno
alla 328/2000), è ormai
molto esperta ed efficace.
Irrompe l’orangotango
samente troppo locale,
infatti è sempre già una
piccola comunità), anche
se meglio sarebbe sotto il
monitoraggio degli psichiatri del dipartimento di
salute mentale, naturalmente.
Vista poi la riduzione delle
risorse disponibili per il
ministero della Giustizia, ci
sono già troppi psichiatri
molto democratici che insi-
In conseguenza della pressione degli stakeholder di ogni
genere, ma in particolare di tanti testimonial, la stessa
impostazione della nosografia sta già cambiando, fino
alla proposta di abolire la diagnosi di schizofrenia
tri del dipartimento di
salute mentale, naturalmente.
Vista poi la grande spinta
sia della richiesta che dell’offerta specialistica di psicoterapie, e visto il sostanzioso disinteresse degli psichiatri a utilizzare queste
tecniche di cura così poco
sponsorizzate dalle case
farmaceutiche, ci sono già
progetti espliciti di appaltare direttamente tutte le
competenze psicoterapeutiche a sofisticati “centri di
psicoterapia” (con approccio severamente individuale, perché il gruppo terapeutico è sempre pericolo-
stono con progetti espliciti
perché i sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani
vengano finalmente chiusi
e i malati mentali che
hanno commesso dei reati
vengano anche loro affidati
direttamente ai dipartimenti di salute mentale:
che tanto hanno a priori la
certezza della piena disponibilità del privato sociale,
a cui possono quindi senza
indugi affidare direttamente, brevi manu e sine cura,
questi stessi malati.
Inoltre, in conseguenza
della pressione di stakeholder di ogni genere, ma in
particolare di tanti testimo-
l’obiettivo
Beh, proprio adesso sta
arrivando con grande fracasso pubblicitario l’orangotango.
Succede infatti che, vista la
grande maturazione di
competenza e di utile efficacia del privato sociale e
del terzo settore in generale, ci sono già progetti istituzionali espliciti di affidare a loro direttamente tutta
la riabilitazione psichiatrica. Anzi, si può già sentir
sussurrare che in certe
realtà psichiatriche malamente organizzate, per
consentire il più strenuo
risparmio di risorse, una
quota della stessa utenza
complessiva potrebbe essere affidata fin dai primi
contatti al privato sociale.
Insomma: dato che la guarigione è garantita dal territorio, i malati da guarire se
li prenda allora direttamente il territorio, anche se
meglio sarebbe sotto il
monitoraggio degli psichia-
47
nial, la stessa impostazione
della nosografia (cioè la base del sapere accademico)
sta già rapidamente cambiando, fino alla proposta
di abolizione della diagnosi
di schizofrenia a tutto vantaggio del riconoscimento
che «essere bipolare è bello, anche perché è così deliziosamente genetico» e
che basta assumere i medici e i farmaci giusti per te-
L’autore
Franco Fasolo è presidente
dell’Associazione Veneta
per la ricerca e la formazione in terapia analitica
di gruppo e analisi istituzionale
[email protected]
48
nere sotto controllo questa
mitologica patologia.
Continuità di cura, addio?
Insomma, i dipartimenti di
salute mentale stanno per
cadere in mille pezzi.
Addio continuità di cura,
coerenza progettuale e
salute mentale come competenza e agency anche
civile e politica. Ma stanno
per sfasciarsi in mille pezzi
anche le cittadelle accademiche, perché stare dietro
alle richieste del mercato
globale sulle diagnosi da
inventare per smerciare
farmaci invenduti, o
comunque a qualsiasi altra
piccola lobby sufficientemente insistente e politicamente invadente, è perfino
più dura che mettersi d’ac-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
cordo fra tre servizi diversi.
I nostri due ormai vecchi
pappagalli stanno per
essere spiazzati dalla
potentissima psichiatria
sine psichiatria transnazionale. Ovvero da una psichiatria non solo “senza
anima” ma molto, molto
più “serena-mente” aziendale. E il suo modello organizzativo: l’ipermercato o
la “Città-Fiera”, degli starnazzi fra manicomio e territorio, dei battibecchi fra
clinica istituzionale e clinica universitaria, delle geometrie politichesi fra 180 e
328, delle sofisticherie fra
funzionamento cerebrale e
salute mentale, se ne fotte.
Esattamente come l’orangotango dei due pappagallini.
Franco Fasolo
La psichiatria e il canto di sirena
delle neuroscienze
Le neuroscienze si stanno affermando in modo sempre più trionfante e pervasivo, e aprono nuove prospettive anche dal punto di vista terapeutico. Ma si può ridurre la complessità della mente ai meccanismi neuronali? Una teoria scientifica unica che spiega e risolve
tutto è fascinosa, ma evoca gli scenari inquietanti di una cura intesa come ammaestramento e controllo. E soprattutto rischia di perdere di vista la cosa più importante: l’umanità.
Rosa Bruni
Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte
le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta,
i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati
Ludwig Wittgenstein
È
concorrono all’attività del
cervello. È altrettanto innegabile l’utilità di una scienza che sia sempre più
attenta alle individualità,
che offra la possibilità di
personalizzare il trattamento farmacologico, di
disporre di procedure terapeutiche capaci di liberare
da sintomi invalidanti che
costringono l’esistenza e
tormentano i giorni, di riaprire spazi di vivibilità per
chi è rimasto chiuso e
sopraffatto dalla sofferenza. Bisognerebbe essere
ottusi e indifferenti per non
riconoscere l’importanza
del progresso delle neuroscienze per l’universo della
psichiatria.
È certamente possibile, e
anzi necessario, accettare
l’obiettivo
facile parlare delle possibilità delle neuroscienze, delle «magnifiche
sorti e progressive»: non si
può negare l’importanza,
sul piano conoscitivo e
terapeutico, di una maggiore e sempre più raffinata
conoscenza dei meccanismi neuronali di base, delle
funzioni cerebrali e delle
altre funzioni corporee che
49
gradi di contaminazione
fra teorie diverse, ed è
importante per una disciplina che, come la psichiatria, aspiri a occuparsi dell’umano, accettare che non
esistano confini rigidi nei
territori del proprio sapere.
La storia della psichiatria,
d’altronde, è fin dalle sue
origini storia di pensieri e
pratiche differenti, spesso
distanti, in cui convivono,
più o meno pacificamente,
approcci e modelli della
mente e della cura diversi,
da quello fenomenologico
a quello psicanalitico, da
quello cognitivo a quello
sistemico, da quello biologico a quello psicosociale.
Ma di fronte all’emergere
sempre più trionfante e
pervasivo delle neuroscienze, sarà ancora possibile
parlare di integrazione o c’è
il rischio di andare verso un
sapere scientifico unico e
totalizzante, che tende alla
geometrizzazione dell’esistenza e alla desertificazione dell’umano?
«Tu sei le tue sinapsi»
Appare sempre più difficile
opporsi all’entusiasmo di
chi, come Jean-Pierre
Changeux, proclama che
«Tutto ciò che apparteneva
tradizionalmente all’ambito dello spirituale, del tra-
50
scendente e dell’immateriale, sta per essere materializzato, naturalizzato e,
tanto vale dirlo, semplicemente umanizzato». Ma
naturalizzare non vuol dire
ridurre la mente al cervello;
umanizzare non significa
confinare la natura umana
alla sola fisicità: i desideri, i
sogni, il pensiero, le intenzioni non sono meno naturali di cellule, organi e
mente, pensiero, intenzionalità, affettività dicono la
stessa realtà di circuiti neuronali, neuromediatori,
attivazione e disfunzioni?
Dire «sono depresso» è la
stessa cosa che dire «ho
una carenza di serotonina»
o «soffro di una disfunzione recettoriale»?
Certo, esiste anche un
approccio scientifico diverso, che considera la com-
La storia della psichiatria, d’altronde, è fin dalle sue
origini storia di pensieri e pratiche differenti, spesso
distanti, in cui convivono, più o meno pacificamente,
approcci e modelli della mente e della cura diversi
apparati. Viene da chiedersi quale idea di natura e di
uomo derivi dalle posizioni
di chi, come Joseph Le
Doux, afferma: «Le connessioni sinaptiche tengono
insieme il Sé nella maggior
parte di noi e per la maggior parte del tempo.[…] Tu
sei le tue sinapsi. Esse sono
chi sei tu».
Allo stesso tempo teorie
come quelle di Richard
Rorty suggeriscono sostituzioni di vocabolari considerati ormai obsoleti come
quelli psicologici con vocabolari neurobiologici. Ma è
possibile questo tipo di
“traduzione”? Psiche,
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
plessità della mente e della
stessa neurobiologia. Come
scrive Vito Enrico
Pettorossi, «Da una concezione delle funzioni cerebrali localistica, indifferenziata si è passati a una
visione dell’attività cerebrale distribuita, individualmente differenziata in
cui presupposti genetici
interagiscono e costruiscono reti neurali sulla base
dell’interazione della genetica con l’esperienza, attraverso meccanismi di selezione circuitale. […] Ora
sappiamo che il cervello sa
fare molto di ciò che la
mente fa: resta da vedere se
queste qualità che il neuroscienziato ha finalmente
dimostrato nella materialità del cervello diano ad
esso lo scettro del potere o
siano piuttosto le qualità di
un servitore fedele; se la
mente si dissolva nel cervello o viceversa». Per non
confondere piani e vocabolari, bisogna utilizzare strumenti multipli: saperi e
scienze diverse, dalla neurobiologia alla filosofia,
dalla psicologia alla poesia,
dalla fisica all’arte, possono
concorrere all’approfondimento e alla conoscenza
della dimensione mentale.
L’ottimismo
della “nuova scienza”
Confrontarsi
con la diversità
Ancora Le Doux afferma:
«L’essenza di quel che
siamo è codificata all’interno dei nostri cervelli, e i
cambiamenti del cervello
spiegano le alterazioni del
pensiero, dell’umore e del
comportamento che si
verificano con la malattia
mentale. La questione fondamentale non è se la
malattia mentale abbia
effettivamente un’origine
neurale in natura; è piuttosto la natura dei cambiamenti neurali che sottende
problemi psichici, e il
modo in cui il trattamento
dovrebbe procedere».
Ogni società propone un
suo modello di normalità
psichica, ne sancisce i confini, stabilisce appartenenze ed esclusioni. Quale rappresentazione della malattia e della sofferenza mentale sceglie il paradigma
neuroscientifico? Che tipo
di logica adotta per stabilire
ciò che è patologico e ciò
che è normale? Nel trionfalistico dominio dell’oggettività scientifica sarà ancora
possibile considerare che la
salute, la malattia, la normalità e la devianza rappresentano sempre oggetti culturali, inscritti in uno scenario storico in continuo
divenire? Sarà possibile
riconoscere che le scienze
della natura non possono
rivendicare un primato
ontologico su altri saperi?
Un approccio neurobiologi-
l’obiettivo
Se è vero poi, come sostiene Hans Kunz, che ogni
epoca sceglie la sua psichiatria, e così facendo
svela e nasconde insieme la
sua antropologia di base,
allora non rischia di perdersi solo la psichiatria, ma
qualcosa di più importante: la possibilità di pensare
l’umano. Non è detto che
l’antropologia delle nuove
neuroscienze sarà ancora
capace di pensare in termini di unità: rischia piuttosto di proporre l’idea di un
uomo monodimensionale,
frammentato, ridotto a
funzione, scisso dal conte-
sto, alienato da ogni orizzonte di significato e di
senso. L’attenzione esclusiva al particolare e alla funzione sembra favorire la
dissoluzione dell’identità e
la desoggettivazione. Quali
sono le conseguenze di ciò
sul senso di responsabilità,
in termini di controllo
sociale, di manipolazione
di coscienze e di identità?
Quale spazio rimane per il
dissenso, per il pensiero
diverso, per la democrazia?
Sono domande che diventano di giorno in giorno
più attuali e pressanti: si
inizia a parlare di neuroeconomia, di politica del
cervello e persino di neuroetica.
Ma lo Zeitgeist non ama la
complessità, bensì lo scintillio della tecnica e di un
sapere scientifico “forte e
certo” che spiega tutto,
tacitando le domande, dissolvendo le ombre: proprio
le ombre che rischiano di
essere escluse e dimenticate nell’ottimismo generale
della “nuova scienza” o,
per dirla con Steven Rose,
della «neurocentrica età
dell’oro».
51
co centrato sulla “campana
della normalità”, che utilizza la statistica come verità,
avrà spazio e categorie per
confrontarsi con la diversità? E una società sempre
più preoccupata dell’omologazione saprà accogliere
il deviante, chi non “funziona” normalmente o non ha
“performance cognitive”
adeguate?
La conformità è salute
o malattia?
Già negli ultimi anni categorie come quelle di adattamento, funzionalità e utilità hanno assunto un valore normativo, a scapito del
principio della sofferenza
soggettiva. Al paradigma
evoluzionistico, che in
ambito biologico pone
come principio fondamentale quello dell’adattamento, corrispondono modelli
psicologici che vedono in
questo principio una delle
categorie normative per
stabilire entità cliniche. Nel
principale strumento nosografico psichiatrico, il
Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali,
è annoverata una sindrome
denominata “disturbo dell’adattamento”: non adattarsi alle situazioni nuove,
nei tempi e nelle modalità
considerate statisticamente
52
normali, è diventato sinonimo di disturbo psichico.
Si tratta, secondo Umberto
Galimberti, di psicologie
che «assumono come ideale di salute proprio quell’essere conformi che, da
un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia». Alla
costruzione del nuovo
sapere concorrono inoltre
tecniche di indagine sempre più sofisticate che, analizzando i circuiti cerebrali
e individuandone i malfunzionamenti, finiscono per
stabilire nuovi criteri normativi e nuove entità nosografiche. Tutto ciò si traduce in nuovi interrogativi e
pone opzioni complesse di
pensiero e di pratica terapeutica: dove per esempio
si evidenzi una disfunzione
non accompagnata da sintomi evidenti, sarà opportuno parlare comunque di
disturbo e, di conseguenza,
sarà legittimo predisporre
un trattamento?
Mali sociali
e disfunzioni cerebrali
La malattia come disturbo
psichico, secondo il paradigma neuroscientifico, è
ricondotta alle sue componenti fisico chimiche, come
un errore da cancellare,
un’attività da regolare, un
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
organo da riparare, una
funzione da recuperare. La
sofferenza psichica perde
le sue caratteristiche “vitali”, di sofferenza inscritta in
una vita, in un percorso,
per diventare numero e
concretezza molecolare.
Viene meno così la relazione tra sofferenza e storia,
tra eventi e significati, tra
soggetto e mondo; si perdono i legami vitali che
dando significato, posizione e appartenenza identificano e specificano l’umano. Perdere la relazionalità
vuol dire perdere il proprio
posto nel mondo, il luogo
delle relazioni e degli affetti, dell’incontro con l’altro
e della scoperta di sé, del
senso costruito insieme e
dell’appartenenza.
Confinare la malattia mentale all’individuo, dimenticando il ruolo dell’ambiente nelle sue diverse e sempre più complesse articolazioni, rischia di essere un
errore preoccupante. Avrà
posto in questa prospettiva
teorica la concezione
secondo cui esistono mali
sociali, sofferenze indotte
dalla cultura e dall’ambiente e non solo disfunzioni
cerebrali? Certamente è più
comodo e immediato somministrare un farmaco
piuttosto che interrogarsi
su cosa significhi essere
bambino ai nostri giorni e
sui contesti educativi,
famigliari e scolastici in cui
si manifesta il disagio.
Una psicopatologia ridotta
alla distinzione tra normalità e patologia, tra carenza
ricerca creativa insieme?
In questa chiarificazione
biologica c’è forse il rischio
di perdere l’“oltre”, che proprio perché territorio
umano è anche territorio
Nel trionfalistico dominio dell’oggettività scientifica
sarà ancora possibile considerare che la salute e la
malattia rappresentano sempre oggetti culturali,
inscritti in uno scenario storico in continuo divenire?
ed eccesso, assenza e presenza porterà a logiche
binarie di esclusione dell’alterità, di segregazione,
di emarginazione. E
potrebbe ritornare,
mascherata di futuro e di
neurotecnica, la logica
manicomiale. Ridurre l’uomo alla nuda materialità,
alla concretezza, come se
solo in questo consistesse
la sua natura, è un’azione
di spoliazione e di incarceramento al tempo stesso.
Lo spaesamento
perturbante
I luoghi e le poetiche
della cura
A una concezione della
mente appiattita sul cervello corrisponde una cura
l’obiettivo
Se si cede alla logica che
spiega e ordina tutto, quale
spazio di espressione resta
per ciò che è al di fuori dell’ordine stabilito, per la follia, per l’esilio nel non
senso, per la perdita di
significato che è erranza e
della follia: all’annullamento dell’orizzonte di senso
corrisponde anche la rimozione dell’insensatezza.
Questo spaesamento perturbante è proprio il problema fondamentale della
psichiatria, come aveva già
intuito Freud quando parlava di Unheimlichkeit.
Forse non è azzardato
affermare che proprio nell’incontro con il perturbante si declina la vicenda psicopatologica e si articola la
sofferenza mentale.
Espressione per eccellenza
dell’estraneità familiare,
sinonimo di inconscio o
espressione dell’alterità, il
perturbante rappresenta il
luogo dell’irriducibilità ad
unum. Il “malato mentale”
è solo la sua sofferenza, il
suo disturbo, la sua follia?
È solo la malattia a conferire identità? Forse la follia
non rappresenta tanto uno
stato fattuale, quanto un
modo di esistere, di abitare
il linguaggio e il mondo
secondo una radicalità irriducibile. Per non parlare di
quelle situazioni che non
sono proprio malattia, ma
qualcosa che ci si avvicina:
una zona di disagio abitata
da fantasmi, da vita perduta, non vissuta, da attese
saturate dall’assenza. Le
grammatiche di superficie
non parlano della complessità. Luci abbaglianti di
saperi certi polverizzano la
sofferenza.
I territori della psichiatria
sono terre desolate di
senso e di speranza, abissi
impenetrabili, strade accidentate che si perdono,
sentieri improvvisi ritrovati, stanze anguste dei pensieri ossessivi, tunnel senza
fine del panico, leggerezze
pesantissime dell’anoressia, allucinati paesaggi
della schizofrenia, sabbie
mobili della paranoia, esistenze smarrite, vite in bilico, storie sbagliate. Ma
anche attimi luminosi, sorrisi inattesi, speranze che
aprono, affetti che curano.
53
per saperne di più
J.P. Changeux,
L’uomo di verità.
Feltrinelli, Milano, 2003.
J. Le Doux J, Il Sé
sinaptico. Raffaello
Cortina, Milano, 2002.
S. Freud, “Il perturbante”.
In: Oper. Vol. IX.
Boringhieri, Torino, 1977.
U. Galimberti,
Psiche e Techne.
Feltrinelli, Milano, 1999.
M. Heidegger, Sentieri
interrotti. La Nuova Italia,
Firenze, 1968.
Manuale diagnostico e
statistico dei disturbi
mentali. Masson,
Milano, 1995.
V.E. Pettorossi, Atti del
congresso “Dal cervello
alla mente, VIII incontro”, Perugina, 3 Febbraio
2007.
R. Rorty, “In Defense of
Eliminative Materialism”.
In: D.M. Rosenthal (a
cura di), Materialism and
the Mind-Body Problem.
Prentice Hall,
Englewood Cliffs, 1970.
L. Wittgenstein,
Ricerche filosofiche.
Einaudi, Torino, 1974.
L. Wittgenstein, Tractatus
logico-philosophicus e
Quaderni 1914-16.
Einaudi, Torino, 1983.
54
finalizzata a recuperare la
funzione perduta, sorda
alla complessità, incurante
della voce della sofferenza.
Il mito di una salute originaria e perfetta da recuperare e riattivare si traduce
in una cura che consiste
nel riparare il corpo macchina, eliminare l’eccesso,
colmare il difetto con
shock elettrici, stimolazioni
magnetiche, droghe intelligenti: sono nuove forme di
controllo e di omologazione volte a tacitare, nascondere, normalizzare.
Una cura fondata su un’antropologia neuroscientifica
diffida dell’umano e lo
disprezza, non tollerandone i limiti, odiando e
temendo in massimo grado
l’errore. Errore, devianza,
disturbo, limite, male: ecco
le voci da cancellare nel
vocabolario della neuroscienza. Così la cura psichiatrica rischia di trasformarsi in una zona muta in
cui il disagio è segregato
per garantirne il controllo.
Felicità e sofferenza chimicamente dominate e programmi genetici volti a preservare il modello esatto
suggeriscono scenari
inquietanti ed evocano
fantasmi di controllo: una
cura intesa come ammaestramento e addomesticamento, che ripara il danno
e compensa la carenza, che
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
non riesce a vedere nel
limite una risorsa, per
quanto modesta.
Ma la cura in psichiatria,
più che un sistema di pratiche giustificate sul piano
dottrinale, è una certa presenza, un certo modo di
accompagnare l’altro, di
percorrere con lui i territori
scoscesi della sofferenza, di
sostare nelle radure dell’infelicità, di respirare nei
chiari di bosco della speranza. Per chi è smarrito
nella sofferenza, la cura è
presenza che accompagna;
per chi è isolato, è comunità che accoglie; per chi è
chiuso nel silenzio, è parola
che apre; per chi è stanco, è
luogo dove sostare. La cura
è farmaco e parola, lavoro e
gioco, impegno e leggerezza, presenza e assenza
insieme. Si tratta cioè di
pensare a una cura declinata al plurale, a pratiche
diverse costruite da soggetti differenti: singoli, comunità, istituzioni. I luoghi e
le poetiche della cura sono
tanti quanti quelli della
malattia, quanti quelli della
vita.
Stare al mondo
diversa-mente
Forse abitare territori della
sofferenza psichica, per chi
cura e per chi è curato,
vuol dire abituarsi a vivere
sul confine: vivere la contingenza del qui e ora ma al
tempo stesso non perdere
lo slancio di trascendersi;
vuol dire cercare nuove
rappresentazioni e formazioni di senso, al di là delle
psicopatologie ridotte a
logiche binarie di presenza
e assenza di sintomi. Forse
c’è bisogno di praticare
quella «coscienza disabituale in cui ogni cosa si
colloca al di là del numerabile e del calcolabile» di cui
L’autrice
Rosa Bruni, specializzata
in psichiatria, è psicoterapeuta a indirizzo psicoanalitico
[email protected]
parla Heidegger, in cui la
conoscenza non aspira al
dominio ma a stabilire una
prossimità.
Bisogna abituarsi a vocabolari differenti, muoversi
lungo sentieri incerti, praticare le strade di un pensiero capace di pensare la differenza e di lasciarla libera
di essere. Forse allora nei
modi di stare al mondo
disturbati, diversa-mente,
si può rintracciare qualcosa
che ha a che fare con ciò
che è più propriamente
umano, e che ricorda da
vicino l’idea dell’irriducibile singolarità per cui ogni
volto è unico. Forse proprio
nell’errore, nell’incompletezza, nella mancanza, si
trova lo spazio dell’incontro, del nostro accedere al
mondo, agli altri, alla vita.
Imbonitori scaltri esaltano
le tante, straordinarie possibilità della nuova scienza
della mente; ingenui servitori della tecnica suggeriscono integrazioni improbabili. Una voce suadente
si leva nell’aria: la dolcezza,
il fascino della teoria unica
che spiega e risolve tutto,
che tacita lo sconforto e la
paura, che parla di un
mondo perfetto dove tutto
è bellezza, ordine, luce,
dove regna sovrana la normalità statistica, dove tutto
è fermo nella sua compiuta
perfezione. Ma un poeta
cieco illumina la nostra
oscurità, e ci ricorda, quando nell’aria si leva il canto
di sirena della semplificazione e della rassicurazione, di restare legati all’albero maestro.
Rosa Bruni
l’obiettivo
55
La solitudine
dello specializzando
Gli specializzandi in psichiatria sono esposti a situazioni molto complesse senza avere,
data la giovane età, né un’adeguata competenza professionale né una maturità sufficiente. Per giunta, spesso, sono lasciati soli, senza avere accanto una persona esperta che
possa dare consigli. Questa solitudine, oltre a ostacolare il processo di cura del paziente,
provoca un malessere negli stessi specializzandi.
Corrado Pontalti
U
na scuola di specializzazione raccoglie giovani professionisti che
appartengono a una coorte
generazionale ben precisa.
I laureati in medicina proseguono automaticamente
in una specializzazione e
quindi iniziano con età che
oscillano al massimo tra i
26 e i 28 anni. Escono da
sei anni di studi medici con
minime infarinature di psicologia generale e clinica e
di psichiatria. I laureati in
psicologia iniziano con una
dispersione maggiore di
età, dai 26 ai 35 anni.
Escono da cinque anni,
56
sicuramente intensi, ma
con una confusione terrificante tra epistemologie e
modellistiche che i docenti
trasmettono non come
addestramento a pensare
ma come apodittiche affermazioni totalizzanti. I giovani medici entrano quindi
nel nuovo territorio vocazionale con la consapevolezza, esplicita ma non
dichiarabile, di muoversi in
situazioni semanticamente
vuote, senza la minima
competenza esplorativa:
l’horror vacui è il significante che organizza le
tappe della loro formazio-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
ne specialistica. I giovani
psicologi non possono che
cercare di collocare “i
pazienti” entro il coacervo
delle migliaia di pagine
studiate con il sentimento
di un troppo pieno soffocante. Pur con fenomenologia antitetica, entrambi i
percorsi universitari depositano, sui territori della
specializzazione, persone
sanamente paralizzate, con
la lucida coscienza di una
radicale inadeguatezza. Fin
qui niente di male: le specializzazioni servono a
questo. Che succede, in
realtà, nella trama com-
plessiva dei percorsi di formazione?
Un campo esperienziale
totale
logia clinica) i luoghi dell’apprendimento durante la
specializzazione sono i più
variegati: servizi ambulatoriali, reparti ospedalieri,
day hospital, centri diurni,
comunità terapeutiche di
vario livello, cliniche psichiatriche private. Ognuna
di queste organizzazioni ha
la sua popolazione di
Le specializzazioni sanitarie dell’area “psi” sono ontologicamente discontinue rispetto alle altre, nelle quali
si può partire dalle operazioni cliniche più semplici e
via via affrontare operazioni più complesse
iscritto al rispettivo ordine
professionale: lo Stato lo
ritiene comunque responsabile anche se in formazione. Ci sono diverse sentenze, in medicina, che
chiariscono come non sia
motivo di non colpevolezza la giustificazione «Mi è
stato detto di fare questa o
quella operazione sanitaria
da un responsabile».
Nessun docente darebbe in
mano allo specializzando
nemmeno un ago da sutura se non in sua stretta presenza, fino a che abbia
verificato che quest’operazione sia stata correttamente appresa. In psichiatria (intesa in senso lato e
quindi comprendendo
anche il campo della psico-
pazienti, presenta situazioni che vanno dalle acuzie
psicopatologiche fino alle
cronicità più disperanti.
Come fa un giovane a calibrare il suo assetto mentale
in questa caotica varietà di
situazioni? Chi è con lui
quando incontra l’adolescente che si sta ritirando
dalla vita o il paziente definito schizofrenico cronico
di trent’anni (o anche,
come capita, di venti), o
quando incontra una
signora depressa e nessuno
gli ha insegnato a parlare
anche con il marito o con i
figli o con i genitori? Come
fa un giovane specializzando a condurre un gruppo di
pazienti in una comunità
terapeutica o a condurre
l’obiettivo
L’oggetto della professione
psichiatrica (che è per
legge una professione sanitaria e non una disputatio
filosofica) non appartiene
al mondo sensibile (non è
un cuore e non è un test
neuropsicologico per la
demenza) ma è l’esistere
umano nel suo essere con
se stesso e nel suo essere
comunità (familiare o
sociale che sia). Lo specializzando (e a volte anche il
laureando) si trova confrontato inevitabilmente
con un campo esperienziale totale, perché “totale” è
la persona con la quale
deve confrontarsi. In questo le specializzazioni sanitarie dell’area “psi” sono
ontologicamente discontinue rispetto alle altre specializzazioni, nelle quali si
può partire dalle operazioni cliniche più semplici e
via via affrontare operazioni più complesse che
richiedono maggiore competenza professionale.
Inoltre, e questo è un topos
deontologico ed etico
essenziale, ognuna di queste operazioni è strettamente monitorata in
tempo reale dal docente o
da chi comunque ha la
responsabilità legale della
situazione. Anche se nessuno specializzando si
rende conto delle implicazioni medico legali del suo
operare. Eppure è ben
chiaro il senso della normativa che richiede che
ogni specializzando sia
57
un gruppo di genitori di
pazienti psicotici? E come
ci si può aspettare che queste attività siano terapeutiche verso la meta che
sarebbe doveroso aspettarsi, cioè la guarigione, l’uscita dal circuito psichiatrico,
per saperne di più
A. Ballerini, Caduto da
una stella. Figure dell’identità nella psicosi.
Fioriti, Roma, 2005.
F. Fasolo, Psichiatria
senza rete. Cleup,
Padova, 2007.
G. Lanteri-Laura, Sapere,
fare e saper-fare in psichiatria: psicopatologia,
clinica ed epistemologia.
Fioriti, Roma, 2007.
C. Pontalti, “Etica e psicoterapia. Paradosso o
vincolo? Un percorso per
la clinica”. In: Terapia
Familiare, numero speciale
su Principi etici dell’intervento terapeutico 83.
M. Tartari, “Precari, isolati e stressati: i dolori dei
giovani psichiatri”. In: Il
Sole 24 Ore Sanità, 17-23
luglio 2007.
C. Vecchiato, M. Prelati,
“Criticità in psichiatria o
crisi dello psichiatra?”. In:
Psichiatria di Comunità,
VI, 2.
58
il ritorno del paziente alla
sua vita, faticosa come
tutte le vite umane?
«Il modello che seguiamo
è questo…»
C’è un dato sociologico
molto interessante che
nulla ha a che vedere con il
rigoroso metodo epistemologico che una scienza
“umana” come la psichiatria richiederebbe come
condizione fondante la
pretesa di essere una professione sanitaria. È un
dato presentato come
scientifico pur essendo in
realtà dell’ordine mitologico (per non dire puramente ideologico): viene autorevolmente affermato che
esistono molte psichiatrie,
e anche che esistono molte
psicoterapie (cioè molte
associazioni, molte scuole,
molte economie e molti
poteri), tanto che nemmeno ci si accorge più della
paradossalità del tutto.
Queste convinzioni fondano un capovolgimento
logico impensabile in qualunque epistemologia
scientifica. I saperi non
servono come guida al
comprendere e gestire le
situazioni cliniche nella
loro irriducibile singolarità,
ma le situazioni cliniche
(cioè la vita umana) vengo-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
no assorbite in vari e contraddittori paradigmi di
queste molteplicità.
Diagnosi, progetti di cura,
costruzione dei campi terapeutici sono di fatto posti
come a priori invarianti e
non come il risultato di
un’accurata valutazione
delle caratteristiche psicopatologiche, familiari e
ambientali di quella situazione. Il codice semantico
ripetuto dovunque in
modo stereotipato è infatti
«Qui lavoriamo così… il
modello che seguiamo è
questo… il nostro protocollo procedurale è…».
L’apprendista stregone
Per fare un esempio banale: arriva a un consultorio
una quindicenne accompagnata dalla madre. La
posizione automatica,
ancor prima di sapere
come si chiamano le due
persone, è: «Signora, vada a
farsi un giro e ritorni fra
un’ora». La signora ritorna
ma la psicologa ha il divieto di comunicare con lei.
Sarebbe più naturale chiedere: «Siete qui assieme,
volete entrare tutte e due?
Volete che parlo prima con
la ragazza e poi con lei, o
un pezzo del colloquio lo
facciamo assieme?». Come
si può esplorare il loro pro-
getto, il loro desiderio, se
invece di interpellarle le si
definiscono automaticamente? La giovane psicologa in formazione ritiene
che la procedura imposta
sia quella corretta e sempre
efficace, e la ripeterà in
ogni situazione e verosimil-
proporre la sospensione
della patria potestà. In un
paio di incontri si pietrifica
l’ontologia di un essere
umano; tutto quello che ne
conseguirà è già scritto, in
un percorso di cronicizzazione di una vita personale
e familiare. Lo specializ-
Se le strutture formative ritengono che si possa essere
efficaci senza aver acquisito la competenza necessaria,
significa che nessuno crede che la psichiatria sia una professione sanitaria intenzionata alla cura e alla guarigione
zando si accorge solo dopo
di ciò che ha messo in
movimento, come l’apprendista stregone di
Fantasia, ma nessun mago
esperto interviene; anzi, il
commento è: «Hai fatto
bene il tuo mestiere!». Lo
specializzando è solo, solo
con la sua consapevolezza
di aver causato tragedie
alle quali non sa porre
rimedio.
Il problema
è elegantemente aggirato
Gli specializzandi sono
esposti da soli a situazioni
molto complesse senza
avere, data la giovane età,
né una competenza professionale né una maturità
l’obiettivo
mente per molti anni.
Un altro esempio: in un
servizio ambulatoriale si
presenta un signore di 30
anni con impulsi violenti
contro la moglie. La procedura è di applicare subito
una scala per la diagnosi
dei disturbi di personalità
secondo il Manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali.
Ovviamente risulta un
disturbo borderline, e tale
diventa il paziente per lo
specializzando in psichiatria e per il servizio. Il
signor X è un borderline.
Cosa prevede il protocollo?
In un’ora il paziente esce
con una buona dose di farmaci, ma quello che è terribile è che questa diagnosi
motiva i servizi sociali a
personologica sufficienti.
Ma se le strutture formative
ritengono che si possa
essere efficaci senza aver
acquisito la lenta, progressiva competenza che ogni
professione richiede, questo significa ineluttabilmente che nessuno crede
che la psichiatria e la psicoterapia siano professioni
sanitarie intenzionate alla
cura e alla guarigione. È
ovvio per tutti che un intervento è efficace se può far
bene ma anche se può far
male (come per ogni farmaco in medicina: farmaco
e veleno); ma questo problema in psichiatria è elegantemente aggirato tramite convinzioni non modificabili: la malattia è in sé
cronicizzante; il paziente
ha troppe resistenze o non
è motivato, la madre simbiotica non tollera l’evoluzione del figlio, e così via.
Questa psichiatria e questa
psicologia clinica vengono
insegnate e apprese, e
quindi diventano cronicamente circolari nelle generazioni.
Questa situazione configura il vero significato del
costrutto “riduzionismo”.
Non attiene, come spesso
ci piace pensare, all’affermazione che la sofferenza
mentale è genetica, è dovuta ad alterazione dei
mediatori encefalici o a
59
destrutturazioni nell’architettura dell’ippocampo:
attiene alla drastica riduzione a priori delle variabili
strutturali presenti in quella configurazione esistenziale che è il proprium
della professione “psi”.
Questo riduzionismo ne
mina alla radice la credibilità come scienza, ma ha
un enorme vantaggio nell’economia psichica del
professionista: àncora a
certezze che riducono al
minimo la fatica intellettuale ed emotiva di costruire progetti terapeutici com-
L’autore
Corrado Pontalti è
professore di psicoterapia
presso la Scuola di specializzazione in psichiatria
dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Roma
[email protected]
60
plessi a gestione complessa. Agli specializzandi offre
appigli fasulli ma socialmente accettabili per l’insicurezza e l’incompetenza
della giovane età. Si configura quindi una collusione
strutturale, anche se con
finalità diverse, tra docente
e allievo. Qui sarebbe il
nocciolo di un profondo
ripensamento etico della
professione psichiatrica e
psicoterapeutica.
Obbligherebbe a scavare
nella formula cortocircuitante e onnipresente che si
sente sempre ripetere:
«Non abbiamo tempo per
fare quello che andrebbe
fatto!». Sarebbe come sentire un chirurgo che dice:
«Ho operato un’appendicite in dieci minuti; ne sarebbero occorsi almeno quaranta, ma non avevo
tempo». Certamente quel
chirurgo sarebbe convocato in procura; gli psichiatri
possono dirlo e farlo senza
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
che nessuno li cancelli
dagli ordini professionali.
Questa è la trama di significazione con la quale è confrontato lo specializzando,
con una differenza importante: lo specializzando
sente con dolore la consapevolezza di queste assurdità, ma non ha le parole
per esprimerle e piano
piano, senza accorgersene,
si rassegna e capisce che
sarà piccolo il territorio
dove lui riuscirà a far guarire i pazienti; il resto è cronicità inevitabile.
Parafrasando Ludwig
Binswanger (che parla
della psicosi), «bassa è la
base etica nel nostro lavoro rispetto all’altezza dell’esperienza con cui i
pazienti ci confrontano».
Allargare questa base
sarebbe il compito precipuo di una scuola di specializzazione.
Corrado Pontalti
Orizzonti europei
e realtà locali
La salute mentale della popolazione è una risorsa che deve essere migliorata, vista l’importanza epidemiologica del problema. Ancora oggi, le persone affette da patologie mentali subiscono atteggiamenti di discriminazione e stigmatizzazione. All’interno dell’ampio scenario europeo, l’Italia si è distinta per aver superato, prima di altri Paesi, la realtà
degli ospedali psichiatrici e per aver cercato un modello di psichiatria di comunità.
Gaddomaria Grassi
C
Questa premessa è necessaria perché le riflessioni e
i pur necessari confronti
fra modelli, pratiche, stili di
lavoro, devono inevitabilmente tenere presente
questa grande differenza di
fondo.
Prendendo spunto dai contenuti del Libro Verde della
Commissione europea,
intitolato Migliorare la
salute mentale della popolazione. Verso una strategia
sulla salute mentale per
l’Unione Europea, si può
riflettere brevemente sulle
specificità del modello italiano di psichiatria di
comunità o meglio, date le
notevoli differenze regionali e locali, sulla concreta
esperienza del
Dipartimento di salute
mentale di Reggio Emilia.
L’evoluzione del contesto
culturale
La Legge 180 ha sancito la
chiusura degli ospedali psichiatrici in tutto il territorio nazionale e l’avvio di
esperienze alternative, fondate sul ruolo centrale dei
Centri di salute mentale
dislocati nel territorio, sede
l’obiettivo
ome è noto, le legislazioni e le politiche sulla
salute mentale e di conseguenza i modelli organizzativi sono profondamente
diversi nei Paesi della
Comunità Europea. In questi ultimi trent’anni cambiamenti profondi hanno
caratterizzato le politiche
psichiatriche di tutti i Paesi
europei e in Italia, a differenza degli altre nazioni,
l’applicazione della Legge
180 del 1978 ha portato al
totale superamento degli
ospedali psichiatrici e alla
costruzione di un modello
di psichiatria di comunità.
61
di progettazione e di interventi ambulatoriali, domiciliari e di rete, che si avvalgono di presidi semiresidenziali, residenziali e
ospedalieri. L’applicazione
di questa legge, come confermato dalle ricerche epidemiologiche anche recenti, è stata a pelle di leopardo, con notevoli differenze
regionali e anche intraregionali.
Dalla fine degli anni
Settanta, quando la Legge
Basaglia è stata promulgata, il contesto culturale e
soli), dall’aumento dell’aspettativa di vita e dal progressivo incremento delle
fasce di popolazione anziana, dal rapido mutamento
della composizione sociale,
dalla rottura delle reti
sociali tradizionali, dalla
precarietà crescente del
mondo del lavoro. Questi
elementi, e in generale la
complessità delle problematiche sociali, hanno giocato e giocano un ruolo nel
percorso, mai concluso, di
lotta al pregiudizio e di
inclusione sociale delle
È mutato il contesto gestionale delle Unità sanitarie
locali e degli ospedali, oggi aziendalizzati, favorendo lo
sviluppo di una cultura improntata alla valutazione e la
saldatura fra logiche di governo clinico ed economico
socio-demografico è sensibilmente cambiato e con
questi mutamenti i servizi
sanitari, impegnati nel cercare di dare la migliore
applicazione alla legge,
hanno fatto e stanno
facendo i conti.
Sinteticamente, si può dire
che negli ultimi anni il contesto sociale è stato caratterizzato dall’accorciamento della “catena familiare”
(con l’aumento, per esempio, delle famiglie mononucleari e degli anziani
62
persone affette da disturbi
psichici.
Contestualmente a questi
cambiamenti è mutato il
contesto gestionale e organizzativo delle Unità sanitarie locali e degli ospedali,
oggi aziendalizzati: questo
ha favorito lo sviluppo di
una cultura più improntata
alla valutazione e la saldatura fra logiche di governo
clinico ed economico.
Infine, c’è stato il radicale
mutamento del ruolo di
utenti e familiari e delle
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
loro associazioni, nel senso
del maggiore protagonismo, con il riconoscimento
del pieno titolo delle associazioni di rappresentare
non solo interessi e bisogni
ma anche competenze.
Con il risultato di un avvicinamento fra servizi, utenti e familiari, che comporta
scambi e dialettiche intense ma anche proficue collaborazioni.
Salute mentale
come risorsa
Con il Libro Verde della
Commissione europea si è
voluto sottolineare che la
salute mentale della popolazione costituisce una
risorsa per il conseguimento degli obiettivi strategici
dell’Unione Europea e che,
a sua volta, può e deve
essere migliorata in considerazione della rilevanza
epidemiologica del problema (un cittadino su quattro
è afflitto nel corso della vita
da disturbi di natura psichica) e del fatto che nei
confronti delle persone
affette da patologie mentali
si verificano ancora oggi
atteggiamenti di stigmatizzazione e discriminazione.
Oltre a ciò, le patologie
mentali comportano oneri
significativi per il sistema
economico, sociale, educa-
tivo e giudiziario. È anche
significativo che questo
segnale arrivi nel momento
in cui c’è chi in Europa,
dopo gli anni in cui hanno
prevalso i processi di deistituzionalizzazione (riduzione di posti letto, sviluppo di esperienze territoriali
e di attenzione alla tutela
dei diritti delle persone
affette da disturbi psichici),
paventa il rischio di una
“reistituzionalizzazione”.
Promozione della salute
mentale
l personale non medico gioca un ruolo chiave nell’assistenza ai pazienti con disagio mentale. A dimostrarne
l’importanza è la pubblicazione del primo atlante mondiale
sugli infermieri che si occupano di salute mentale, realizzato dall’Oms insieme al Consiglio internazionale degli infermieri. L’atlante fotografa a livello globale la situazione del
personale infermieristico coinvolto in queste delicate attività di cui, fino a oggi, non esistevano dati ufficiali.
16 dei 39 milioni di lavoratori della sanità nel mondo sono
infermieri e, nei 177 Paesi rappresentativi del 98,5% della
popolazione mondiale in cui è stata condotta l’indagine, se
ne stima una carenza di almeno un milione.
Gli operatori non medici in campo psichiatrico soffrono particolarmente di questa mancanza. Nel mondo ci sono in
media 2,23 infermieri psichiatrici ogni centomila abitanti:
si va dai 28,78 in Europa agli 0,32 in Africa e 0,26 nel
Sudest asiatico. In Italia ce ne sono tra i 10 e i 50 negli
istituti di cura dei disturbi mentali, molti di meno lavorano
nelle unità psichiatriche degli ospedali generici.
Le ragioni di questa carenza sono lo scarso interesse per la
salute mentale, i bassi salari per gli infermieri, l’emigrazione
del personale specializzato, la mancanza di sicurezza fisica e
psicologica nell’ambiente lavorativo e lo stigma sociale del
disagio psichico. In molti Paesi la diagnosi dei disturbi mentali, la prescrizione e la somministrazione dei farmaci ai
pazienti vengono effettuate dagli infermieri psichiatrici
(spesso le uniche figure di assistenza per i pazienti) ma nonostante ciò non vengono coinvolti nelle politiche di pianificazione delle legislazioni sanitarie nazionali. Lo studio raccomanda un maggior riconoscimento del ruolo sociale degli operatori psichiatrici, la presenza di un loro numero adeguato
nelle strutture sanitarie e l’inserimento di corsi sul disagio
mentale nei percorsi formativi di base degli infermieri.
I
Fabrizio Soddu
Sul sito dell’Oms è possibile consultare e scaricare l’atlante:
“Atlas. Nurses in mental health. 2007”
www.who.int/mental_health/evidence/atlas/en/index.html
l’obiettivo
Alcuni punti trattati dal
Libro Verde sono utili stimoli per una riflessione
sulla pratica dei nostri servizi: promuovere la salute
mentale della popolazione,
combattere le malattie psichiche mediante interventi
preventivi, tutelare i diritti
fondamentali e la dignità
delle persone affette da
malattie psichiche e promuoverne l’inclusione
sociale.
Il Libro Verde sottolinea
l’importanza di politiche
per la salute mentale in
grado non solo di combattere le patologie ma anche
di promuovere attivamente
la salute con interventi che
devono riguardare gli individui, le famiglie, la scuola,
i luoghi di lavoro e la
AAA infermieri cercansi per la salute mentale
63
comunità nel suo insieme
con lo scopo di potenziare i
fattori protettivi e di ridur-
per saperne di più
G. De Girolamo et al,
“The characteristics and
activities of acute inpatient facilities: a national
survey in Italy”. In:
British Journal of
Psychiatry.
G. Grassi, “Priorità,
confini e limiti del Dsm”.
In: Psichiatria di
Comunità, 2007.
A. Lasalvia et al,
“Eterogeneità dei Dsm
veneti a dieci anni dal
Progetto Obiettivo ‘Tutela
della Salute mentale
1994-96’. Quali implicazioni per la pratica clinica? Indagine sui servizi
partecipanti al Progetto
PICOS-Veneto”. In:
Epidemiologia e Psichiatria
Sociale, 2007.
Libro Verde Migliorare la
Salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale
per l’Unione Europea.
Bruxelles, 2005.
S. Priebe, T. Turner,
“Reinstitionalisation in
mental health care”. In:
British Journal of
Psychiatry, 2003.
64
re i fattori di rischio.
Vengono anche individuate
alcune categorie particolarmente meritevoli di attenzione e di interventi, come
i bambini e gli adolescenti,
i lavoratori, le persone
anziane e quelle appartenenti a gruppi sociali più
vulnerabili.
Da questo punto di vista,
parlando della situazione
italiana, è in atto una trasformazione che vede la
mission dei Dipartimenti di
salute mentale spostarsi
dalla cura della patologia
psichiatrica alla salute
mentale intesa nella sua
accezione più ampia.
Obiettivo certamente
ambizioso, e da alcuni ritenuto irraggiungibile. Di
fatto non è più possibile
oggi ragionare in termini di
semplice risposta alla patologia: la stessa trasformazione dei contesti in cui si
sviluppa il disagio e delle
forme attraverso le quali
questo si manifesta spinge
verso questa direzione. Si
pensi per esempio al consumo di sostanze, oppure
alle risposte al fenomeno,
in grande aumento, dei
disturbi del comportamento alimentare: è evidente
che non si può disgiungere
l’attenzione a questi problemi (patologie) dall’attenzione alle problematiche più ampie della salute
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
mentale della popolazione
giovanile. Questo comporta
una definizione della mission e degli obiettivi dei
servizi di salute mentale
sostanzialmente diversa
rispetto al passato, orientata a progetti di cui la componente sanitaria non è
che una e probabilmente
neppure la più importante.
In altre parole, ha senso
parlare di obiettivi di salute
anziché solamente di
obiettivi di cura, a patto
che a questi concorrono
servizi sanitari, sociali, istituzioni, cittadini e associazioni, la comunità nel suo
insieme.
Parallelamente al mutare
dei bisogni è cambiato
anche il ruolo degli utenti,
dei famigliari e delle loro
associazioni: se in passato,
in particolare fra famigliari
e operatori psichiatrici,
non sono mancate le
incomprensioni, oggi è da
tutti riconosciuto il ruolo di
utenti e famigliari, fondamentale non solo in quanto portatori di bisogni, ma
anche di competenze e di
risorse. Da qui l’esigenza
del coinvolgimento reciproco, della condivisione e
della coprogettazione.
A proposito di promozione
della salute e di integrazione delle risorse è utile fare
un cenno all’organizzazione dei Dipartimenti di
salute mentale, la cornice
nella quale si collocano le
azioni dei singoli servizi e
operatori ed entro la quale
effettuare la verifica di
attuazione degli obiettivi.
Nella Regione Emilia
Romagna questo
Dipartimento è costituito
di integrazione, che sappiamo dipende in larga
parte dalla volontà dei singoli e dalla loro capacità di
sentire proprie appartenenze più ampie di quelle
rappresentate dal proprio
gruppo di lavoro o, peggio,
dalla propria categoria pro-
Se si pensa alla depressione e a ciò che significa ridurne i fattori di rischio e prevenirne le complicanze, non
c’è dubbio che il ruolo dei medici di medicina generale
sia determinante e lo sarà sempre di più
fessionale. Tuttavia, se si
vuole parlare di obiettivi di
salute, anziché della
somma di obiettivi di cura
specialistici, l’assetto organizzativo rappresenta una
condizione necessaria per
orientare e facilitare gli
sforzi verso l’integrazione.
Prevenzione e promozione
della salute mentale
Il discorso sulla prevenzione, che si intreccia fortemente con quello sulle iniziative di promozione della
salute e di stili di vita salutari, rimanda nuovamente
al tema dell’integrazione
fra le diverse agenzie e al
ruolo che devono avere i
servizi di salute mentale.
l’obiettivo
non solo dalle unità operative di salute mentale adulti ma anche da unità operative di neuropsichiatria
dell’infanzia e dell’adolescenza (per garantire coerenza fra i trattamenti per i
minori e gli adulti), da
unità operative o programmi di psicologia clinica e,
nel prossimo futuro, anche
dai Servizi per le tossicodipendenze.
L’obiettivo è quello di promuovere la salute mentale
in tutte le fasce d’età e di
garantire cure integrate alle
diverse condizioni patologiche, dalle sindromi
malformative ai disturbi
psichiatrici dell’età senile.
Le scelte organizzative
sono ben lungi dal costituire tout court una garanzia
A questo proposito merita
qualche parola il tema del
rapporto fra cure primarie
e salute mentale. In particolare è oggi giustamente
enfatizzata l’importanza
della figura del medico di
medicina generale. Questo
per vari motivi: in primo
luogo, non è detto che lo
psichiatra sia sempre e
necessariamente la persona più adatta a gestire tutte
le situazioni di interesse
psichiatrico (con un
paziente difficile per esempio il “medico di famiglia”
può stabilire una relazione
in modo più spontaneo);
come pure, a volte, la complessità delle situazioni e
dei casi non permette di
scindere i sintomi strettamente psichiatrici dal contesto sociale e familiare in
cui questo si genera a prende forma, e a volte anche
dallo stesso quadro clinico
somatico. E ancora perché
il medico di medicina
generale rappresenta la
prima porta d’accesso e il
primo punto di ascolto e di
domanda per tante situazioni anche gravi di tipo
psichiatrico.
A proposito di prevenzione
di disturbi psichiatrici, nel
Libro Verde sono individuate alcune aree di intervento che più di altre sono
ritenute strategiche per
una buona politica in
65
ambito preventivo: la
depressione, i disturbi connessi con l’uso di sostanze,
il suicidio (paradigmatico
esempio di indicatore non
solo e non tanto di efficacia
dei servizi di salute mentale quanto dello stato di
salute di una comunità). Se
si pensa a una patologia
come la depressione, che
giustamente l’Oms considera fra le più importanti
in termini epidemiologici e
di costi umani e sociali, e a
ciò che significa ridurne i
fattori di rischio e prevenirne le complicanze, non c’è
dubbio che il ruolo dei
medici di medicina generale sia determinante e lo
sarà sempre di più nel
prossimo futuro.
Dall’ospedale psichiatrico
al territorio
In tema di inclusione
sociale e di “territorializzazione dei servizi” il Libro
Verde raccoglie numerosi
contenuti che hanno ispirato il processo di deistituzionalizzazione che in
Italia ha portato al superamento degli ospedali psichiatrici e rappresenta uno
stimolo importante in questa direzione per tutti i
Paesi dell’Unione Europea.
Basti pensare all’enfasi
data alla necessità di superare i grandi ospedali psichiatrici fonte di stigmatizzazione e alla raccomandazione di dislocare i servizi
psichiatrici in centri medici
di base locali e negli ospedali generali.
Da questo punto di vista
non c’è dubbio che la storia dei servizi psichiatrici
italiani, pur con diversi
percorsi e disomogenee
modalità di applicazione
della Legge 180, sia stata
caratterizzata fin dall’inizio
dallo spostamento del baricentro progettuale e operativo dall’ospedale psichiatrico al territorio. I Centri
di salute mentale, vera
alternativa territoriale all’istituzione manicomiale,
non sono solo una sede
ambulatoriale o un punto
di partenza per visite
domiciliari ma anche e
soprattutto il cuore dei ser-
L’autore
Gaddomaria Grassi è direttore del Dipartimento
di salute mentale Ausl di Reggio Emilia
[email protected]
66
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
vizi di salute mentale,
luogo di formulazione di
progetti personalizzati e di
coordinamento delle diverse fasi dei processi di prevenzione, cura, assistenza e
riabilitazione.
Per questo motivo è necessario che siano dislocati nel
territorio in modo capillare. Nel bacino d’utenza del
Distretto di salute mentale
di Reggio Emilia, per esempio, sono presenti sette
Centri ognuno, dei quali si
avvale anche di altri punti
ambulatoriali.
Contestualmente all’apertura dei Centri di salute
mentale, si è trasferito il
servizio di ricovero di
emergenza-breve degenza,
utilizzato anche per trattamenti obbligatori, all’interno degli ospedali generali.
Va detto che, nel
Dipartimento di salute
mentale di Reggio Emilia,
le dimensioni del reparto
(15 posti letto per un bacino d’utenza di mezzo
milione d’abitanti) e la
degenza media (10 giorni)
sono già indicative dell’eccezionalità del ricovero,
della sua temporaneità e
della distanza dai tempi e
modi dei ricoveri in ospedale psichiatrico.
Nel corso degli anni poi i
servizi psichiatrici hanno
incrementato le opportunità residenziali nella
tive per il superamento di
questo tipo di ospedali,
anche se va detto che nel
corso di questi trent’anni,
anche in altre occasioni, il
dibattito è stato avviato
senza tuttavia giungere a
risultati concreti.
Quali muri e quali confini
per la salute mentale?
In conclusione, possiamo
affermare che le politiche
per la salute mentale nel
nostro Paese sono certamente coerenti con i contenuti del Libro Verde della
Commissione europea.
Non c’è dubbio che, in
modo più spedito che
altrove, si sia proceduto
sulla strada della territorializzazione dei servizi e del
riconoscimento dei pieni
diritti di cittadinanza delle
persone sofferenti per
disturbi di natura psichica.
I muri sono stati abbattuti
e la psichiatria italiana ha
rinunciato a strutture di
segregazione e di esclusione sociale come gli ospedali psichiatrici.
Oggi tuttavia occorre essere consapevoli del fatto
che le sfide attuali e future,
a fronte dell’emergenza di
nuove forme di espressione del disagio e della
malattia e in particolare se
parliamo di promozione
della salute e di prevenzione anziché solamente di
cura delle patologie psichiatriche, possono esser
vinte solo se si esce dai
limiti angusti dei servizi
specialistici e si pensa,
come risorsa, all’intera
comunità.
La salute mentale di una
popolazione non riguarda
solo i professionisti della
mente ma chiama in causa
l’intero patrimonio culturale e civile di una comunità e il suo capitale sociale. Potremmo dire che per
mettere in atto politiche
per la salute mentale coerenti ed efficaci non ci si
può accontentare solamente di avere abbattuto i
muri dell’ospedale psichiatrico ma è necessario
anche, oggi come in passato, saper guardare oltre i
propri confini culturali e
professionali.
Gaddomaria Grassi
l’obiettivo
nostra realtà, distinte a
seconda dei trattamenti,
intensivi, protratti e socioriabilitativi. Analogamente,
si sono sviluppate esperienze di tipo semiresidenziale caratterizzate dalla
personalizzazione dei progetti, maggiormente orientati in senso terapeutico o
riabilitativo.
Ma ogni politica di psichiatria di comunità non è tale
se, accanto a queste risorse
di tipo sanitario, non è in
grado di muoversi, di concerto e in collaborazione
con le risorse del territorio,
per garantire a chi è affetto
da disturbi psichici opportunità di socializzazione,
abitative e lavorative.
Infine, il tema della psichiatria giudiziaria, apparentemente molto specifico
e meno rilevante sul piano
epidemiologico ma che a
pieno titolo concorre a
definire le politiche psichiatriche di un Paese.
Come è noto, questo ambito non è stato interessato
dai fenomeni trasformativi
conseguenti alla Legge 180
e per gli autori di reato ritenuti pericolosi socialmente
è tuttora previsto il ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario, luogo di confine e di inevitabili contraddizioni fra sanità e giustizia. Sono di grande attualità nuove iniziative legisla-
67
Anziani e badanti:
un crocevia di solitudini
Sempre più numerose sono le famiglie che, in Italia, si rivolgono al di fuori della cerchia
dei parenti per la cura degli anziani. E sempre più spesso assumono badanti di altre
nazioni. La precarietà delle condizioni di lavoro di queste persone, il loro background culturale e di esperienze vissute (come la difficoltà della migrazione) vanno affrontate sia dal
punto di vista istituzionale sia, soprattutto, da quello psicologico.
Alessandra Orsi
S
econdo un recente rapporto dell’Istituto per la
ricerca sociale, in Italia
sono presenti oltre 693
mila assistenti familiari. Di
questi 619 mila sono stranieri. Secondo i ricercatori:
«L’esternalizzazione dell’onere della cura è uno dei
cambiamenti “dal basso”
più rilevanti che ha conosciuto il welfare italiano
negli ultimi anni».
Il “fai da te” in materia di
assistenza sta producendo
un fenomeno ormai rilevante sul piano sociale che,
oltre tutto, si è incrociato in
maniera spesso collusiva
68
con le carenze legislative
sul terreno della migrazione così da incrementare il
lavoro nero.
Le istituzioni stanno finalmente prendendone atto e
cercano di predisporre
nuove misure per facilitare
l’emersione del lavoro
clandestino, come le recenti proposte della ministro
per la famiglia Rosy Bindi,
che prevedono anche contributi per le famiglie, o
quelle del ministro dell’interno Giuliano Amato per
facilitare i permessi di soggiorno. Misure che dovrebbero favorire inoltre una
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
maggior qualifica professionale che tuteli entrambe
le parti: gli anziani e le
lavoratrici straniere, perché
quasi esclusivamente di
donne si tratta.
Quello che manca a
tutt’oggi è una riflessione
approfondita su quale cultura sia alla base di un
lavoro di cura di questo
genere. Se guardiamo, per
esempio, le linee guida stilate dal comune di Roma
per la creazione di un registro unico per l’assistenza
familiare, c’è una parte
dedicata alla formazione in
cui emerge un profilo pro-
fessionale assai articolato:
si va dalla conoscenza di
materie medico-infermieristiche fino a quelle burocratico-amministrative, ma
ben poco si prevede sul
piano del sostegno psicologico a chi si propone per
un simile lavoro.
Chi ha sofferto traumi legati alla migrazione, chi vive
sulla propria pelle la complessità del distacco del
proprio Paese e dei cambiamenti che questo comporta, può trovarsi in serie
condizioni di disagio psicosociale. In particolare, nel
caso di chi svolge un lavoro
basato sulle relazioni interpersonali come quello delle
badanti, c’è il rischio che il
malessere si rifletta anche
sulle persone circostanti.
Diventa dunque fondamentale che ci siano organizzazioni in grado di fornire questo tipo di assistenza a coloro che ne
hanno bisogno.
Un mondo
a cui attingere
molta solitudine, non
aiuta.
Un esempio tra i tanti è
quello di Maria una ragazza
moldava ventenne che per
tre anni ha assistito una
signora anziana, malata e
lasciata a se stessa dai due
figli che erano in lite tra
Pensando all’incontro tra badanti e anziani, ciascuno di
noi ha in mente storie diverse, talvolta incontri straordinari dal punto di vista umano, ma spesso crocevia di
due solitudini, diverse e in alcuni casi inconciliabili
vista umano, ma più spesso
assistiamo al crocevia di
due solitudini, diverse e in
alcuni casi inconciliabili.
Storie che il più delle volte
hanno un inizio analogo:
arrivi clandestini, titolo di
studio non riconosciuto, la
ricerca di una casa, il tramite di un parente e l’arrivo in casa altrui. E questa è
già considerata una fortuna, se solo si paragona
questo approdo con altri
ben più drammatici,
innanzitutto la strada, dove
troppo sovente finiscono le
più giovani, in una spirale
di sfruttamento che spesso
non concede ritorno.
Ma anche nel caso delle
badanti, la giovane età, che
implica inesperienza, spaesamento, e comunque
loro e con la madre vedova,
chiudendole gli occhi sul
letto di morte. Per giorni
non ha più parlato, poi
finalmente è riuscita a
esprimere l’angoscia che la
attanagliava: «Quella donna
non è morta tranquilla. Da
noi gli occhi di chi muore
devono essere chiusi da chi
più gli ha voluto bene ma
come è possibile che fossi
io? Quella donna di certo
non è morta tranquilla e
ora il suo spirito mi perseguiterà».
Diversa ma con molte analogie la storia di Helen, una
giovane donna nigeriana,
che ha dovuto licenziarsi
dal lavoro di badante dopo
la morte di sua madre che
non aveva potuto assistere
né andare a salutare al
l’obiettivo
Siamo di fronte a “nuove”
professioni che nascono da
un bisogno effettivo, ed è
dunque importante far
tesoro di quanto finora
avvenuto in regime “clandestino”, ascoltando cioè le
voci e le storie di chi ha già
vissuto questa esperienza
per identificare un arco di
bisogni assai variegato e
complesso.
Pensando all’incontro tra
badanti e anziani, ciascuno
di noi ha in mente storie
diverse, talvolta incontri
straordinari dal punto di
69
Ogni psichiatria è un’etnopsichiatria
etnopsichiatra è quel campo della scienza che si prefigge di curare le malattie psichiche all’interno del contesto culturale di appartenenza. La forma che assumono i
disturbi psichici, infatti, è funzione del mondo culturale in
cui si sviluppano, del senso che viene loro attribuito sempre all’interno del sistema socio-culturale di riferimento.
Dunque, si può legittimamente affermare che ogni forma di
psichiatria è, o almeno dovrebbe essere, un’etnopsichiatria.
Il problema sorge quando un sistema culturale si autolegittima come dominante, e assume che la sua etnopsichiatria
sia la “vera” psichiatria, che la sua nosografia sia quella
“giusta”, e che l’unico modo di curare le persone sia il proprio. È quanto, secondo alcuni, è avvenuto nel mondo occidentale, e non solo riguardo alle tecniche di cura: l’etnocentrismo è la tendenza di una cultura a considerarsi il
paradigma a cui tutte le altre debbono attenersi.
L’approccio etnocentrico, gravido di problemi in ogni ambito della vita, manifesta la propria inefficacia quando cerca
di curare chi segue sistemi di riferimento differenti.
Il primo a usare il termine “etnopsichiatria” è stato lo psicoanalista George Devereux, che ha coniato anche l’espressione “psichiatria transculturale”. Secondo alcuni i due termini sono sinonimi, secondo altri, la psichiatria transculturale è più appropriata per definire un aspetto specifico
dell’etnopsichiatria: quello che si occupa in particolare di
immigrati, cioè di persone che si trovano in un contesto
culturale dove elementi della nuova realtà migratoria coesistono con quella di origine.
Per chi assiste pazienti immigrati è infatti indispensabile
avere un approccio culturalmente sensibile pur con la
necessità di rinunciare a parametri culturali precodificati.
Lo specifico culturale di ogni singolo paziente, la sua
interpretazione della sintomatologia e i significati che vi
attribuisce devono, al contrario, essere ricostruiti con
l’aiuto del paziente stesso, insieme oggetto e soggetto del
percorso diagnostico e terapeutico, e integrati con gli specifici vissuti legati all’esperienza migratoria, fenomeno di
trasformazione non solo culturale ma anche identitaria.
L’
Marco Mazzetti
70
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
funerale in Nigeria perché
il suo permesso di soggiorno non era ancora pronto.
Quando ricevette la cassetta con la registrazione della
cerimonia funebre si chiuse in casa per un mese a
guardarla e riguardarla,
piangendo ogni giorno
disperata e limitando al
minimo anche le cure
verso il figlio che cresceva
da solo.
Non medicalizzare ma
ascoltare
In tutte queste storie oltre
al rischio di depressione
profonda ce n’è anche un
altro, non meno grave, ed è
che il malessere venga
interpretato alla “nostra”
maniera, il che molto spesso significa etichettato,
medicalizzato, in ultima
analisi patologizzato. E
invece, in questi casi come
in altri, ci può essere un
ascolto diverso, rassicurante, volto a ritrovare un
senso e a ricomporre lacerazioni intime e delicate.
Oltre a questo intervento,
che potremmo anche definire etno-psicologico, quel
che va innanzitutto ripensata è una “formazione”
finalizzata a una prevenzione di quella che è a tutti
gli effetti una forma di
burn out di questo lavoro
di cura. Forse uno dei
motivi per cui finora sono
poche le esperienze in questo senso è che nel nostro
Paese non si è ancora compreso quanto la prevenzione sia una risorsa per tutti,
e sia anche economicamente rilevante per impedire nuovi disagi.
Ed è infatti prevalentemente da enti con agganci
internazionali che arrivano
alcune offerte formative
che considerano la prevenzione come una priorità,
come i corsi organizzati
dall’Unità psicosociale
dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni
o il Master universitario
transculturale-multietnico
nel campo della salute del
sociale e del welfare del
Policlinico di Modena.
Come ha raccontato Gioia,
un’infermiera di una casa
di cura per anziani che pur
alle soglie della pensione
ha deciso di frequentare il
master modenese, «è stato
proprio dall’incontro con
L’autrice
Un affidamento
reciproco
Una nuova carta dei lavoratori nel campo dell’assistenza dovrebbe comprendere la garanzia che nessuno debba trascorrere troppe ore con il proprio datore
di lavoro.
A qualsiasi infermiera che
assiste un anziano viene
garantito il cambio turno. E
del resto, proprio contrattando sul terreno della
libertà è cresciuta la forza
dei lavoratori dei Paesi sviluppati. Non c’è stipendio
che possa compensare la
perdita dell’autonomia,
perché tale è la condizione
in cui vivono migliaia di
colf e badanti.
Nella parola affidamento
c’è una componente di
biunivocità che è ineludibile. Se noi ci affidiamo a
loro per le persone a cui
teniamo di più, cerchiamo
di fare in modo che anche
loro possano affidarsi a
noi. Altrimenti il rischio è
quello di creare nuove
forme di schiavitù come ha
segnalato la giornalista
Barbara Ehrenreich nel bel
libro Donne globali. Tate,
colf e badanti.
C’è un’altra via che va probabilmente sotto il nome
di “reciprocità”.
La condivisione di esperienze può funzionare
anche quando le radici
identitarie sono diverse.
Altrimenti non solo avremo
rinunciato al nostro passato ma anche al futuro:
quale idea di società
vogliamo trasmettere nelle
nostre case, ovvero ai
nostri figli e figlie, se eludiamo il tema delle relazioni umane?
Alessandra Orsi
l’obiettivo
Alessandra Orsi è counselor per l’età evolutiva.
Socio di Scirocco, associazione per il benessere
psicosociale dei migranti
[email protected]
alcune infermiere straniere
che ho sentito che volevo
capire qualcosa di più delle
altre culture, che verso la
vecchiaia e la morte hanno
di certo qualcosa da insegnarci».
Se facciamo ricorso alla
nostra memoria storica
non è difficile trovare una
strada per raccogliere dalle
vicende dei migranti qualcosa che è radicato anche
nella nostra tradizione, sia
che guardiamo all’emancipazione sul piano dei diritti, sia che si tratti di una
attenzione agli aspetti
umani delle relazioni, lavorative e non.
Che le badanti dichiarino
di volersi al più presto rendere indipendenti, anche a
costo di guadagnare di
meno, ma con un’occupazione che presenti minori
vincoli psicologici, non
deve dunque stupirci.
71
Ma la scienza è davvero
dogmatica e oscurantista?
LETTURA CRITICA Nel suo ultimo libro, Next, il medico
e scrittore Crichton prosegue la deriva antiscientifica su
cui si era già incamminato con Stato di paura. I messaggi
sono due; uno, esplicito, è contenuto in appendice, ed è
ragionevole: non si dovrebbero brevettare i geni. L’altro,
che percorre il romanzo, è molto meno sensato: gli scienziati sono rappresentati senza eccezioni come avidi, rancorosi, bugiardi e disonesti, come se la scienza fosse il
nuovo oscurantismo, e fermarla l’unico modo per mettere
fine agli abusi.
Fermare le biotecnologie per correggere gli abusi?
Lucio Luzzatto
D
a Jurassic Park in poi,
un libro di Michael
Crichton è evidentemente
un best seller assicurato:
Garzanti ha fatto uscire la
traduzione italiana di Next
nel giugno 2007, appena
sei mesi dopo l’originale
americano. Si tratta di fantascienza biotech: un genere ad alto potenziale sia di
buona divulgazione, sia di
buon divertimento.
Questo potenziale è stato
realizzato, assai più che in
72
questo, in alcuni romanzi
di Robin Cook; ma saranno
comunque i critici di professione a giudicare il valore letterario di Next. Sono
però altre le questioni interessanti, soprattutto ideologiche: il volume si conclude, dopo la fine del
romanzo, con un breve
manifesto politico sulle
carenze e sugli eccessi legislativi negli Stati Uniti nel
settore dei geni e della biotecnologia.
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
Lo spirito di questo manifesto, e buona parte della
lettera, sono ampiamente
condivisibili; è il romanzo
che invece suscita numerose perplessità.
Le vicende, che si accavallano in molti brevi capitoli,
costituiscono una trama
Next
Michael Crichton
Garzanti, Milano, 2007
pp. 488, euro 19,60
fumettistica variamente
intrecciata, ma il filo conduttore è abbastanza semplice: una ditta biotech sta
facendo, o spera di fare,
tanti soldi sfruttando una
cultura di cellule ottenuta
tempo fa da un paziente
affetto da un raro tipo di
leucemia. Il paziente è poi
guarito, a quanto pare grazie alla capacità eccezionale delle sue cellule di pro-
ottenere le cellule forzosamente dalla figlia o addirittura dal nipotino.
Il romanzo è poi “arricchito” dalla comparsa di un
bambino mezzo scimmia e
mezzo umano, dal trafugamento di parti di cadavere
per usi commerciali e dal
traffico tra ditte rivali di
embrioni transgenici congelati di topo.
Non c’è da stupirsi se un
Emerge un messaggio non subliminale: la biotecnologia
è un’industria trainata da imprenditori e speculatori più
o meno lungimiranti e resa possibile dall’attiva collaborazione connivente di scienziati e medici corrotti
romanzo di fantascienza
non è preciso nei dettagli;
ma perché sia educativo
occorre che sia verosimile
nei concetti, come ci ha
insegnato Jules Verne, un
precursore del genere.
Secondo questo criterio, se
la verosimiglianza di Next
nel settore legale è estrapolabile dalla verosimiglianza
nel settore biologico, il
libro non è educativo per
nulla.
Naturalmente si potrebbe
obiettare che l’intento dell’autore non è di educare
ma divertire (se ci riesca, lo
deve dire il singolo lettore).
Resta il fatto che dal libro
Le leggi sbagliate
e reati comuni
Bisogna ammettere che ci
sono, tra scienziati e medici, alcuni che potrebbero
comportarsi come dice
Crichton, e non c’è motivo
di difenderli. Non sarebbe
difficile confutare sul piano
scientifico le molte “imprecisioni” (per usare un eufemismo!) che abbondano in
Next, ma non è questo il
punto. È importante invece
confutare il messaggio
negativo contro la biologia
contemporanea che emerge da questo libro, mettendo un po’ d’ordine nella
grande confusione che,
volutamente o no, è stata
fatta da Michael Crichton.
Nel manifesto scritto alla
fine del libro Crichton condanna la brevettabilità dei
geni, e fa benissimo: il
buonsenso ci dice che
posso brevettare quello che
invento, ma non quello che
osservo. Posso brevettare
uno strumento che mi per-
a più voci
durre proteine particolari
appartenenti alla famiglia
delle citochine. L’ex
paziente, di nome Frank,
arrabbiato perché la ditta
biotech sta sfruttando le
cellule che aveva donato in
buona fede, ricorre a vie
legali per ottenere una
parte dei profitti, ma invano. Riesce allora a penetrare nei laboratori e a
distruggere tutte le culture.
Ma gli avvocati della ditta
ottengono un’ingiunzione
giudiziaria per il recupero
delle cellule “di loro proprietà”; e siccome Frank,
prevedendo la cosa, si era
reso latitante, cercano di
emerge un messaggio non
subliminale: la biotecnologia è un’industria trainata
da imprenditori e speculatori più o meno lungimiranti e resa possibile dall’attiva collaborazione connivente di scienziati e
medici corrotti.
73
metta di analizzare più
rapidamente un segmento
di Dna umano, ma non il
Dna stesso, che è il prodotto di milioni di anni di evoluzione. È grave poi, e ha
fatto storia, la pretesa di
una ditta nello Utah, la
Myriad, di avere l’esclusiva
sull’analisi di due geni che,
quando mutati, predispongono al cancro del seno e
dell’ovaio.
Ma che cosa c’entra questo
con un oncologo che, dopo
che il suo paziente è guarito, lo tiene deliberatamente
nell’incertezza per continuare a fargli prelievi e biopsie, per poi passare proditoriamente il materiale a
una ditta commerciale,
presumibilmente dietro
compenso?
Anche con le norme esistenti quell’ipotetico oncologo dovrebbe essere sottoposto a procedimento
disciplinare e, se i fatti
stanno così, radiato dall’albo professionale. Per la
brevettazione dei geni,
invece, occorre che il
Parlamento (statale o federale) cambi la legge.
Etica della
sperimentazione clinica
È difficile dire quando la
medicina sia diventata
scienza (per molti scienzia-
74
ti di base non lo sarà mai!).
Molti storici ne vedono gli
albori negli anfiteatri anatomici italiani del
Cinquecento, nella scoperta della circolazione del
sangue da parte del fisiologo inglese William Harvey e
nell’introduzione della
microscopia in Olanda nel
Seicento. Ma purtroppo a
quell’epoca, e anche più
tardi, molte donne che avevano disturbi in gravidanza
venivano per prima cosa
salassate, mentre molte
malattie febbrili erano
curate con purganti potenti: non sapremo mai quante morti erano iatrogene.
Insomma, c’è voluto molto
tempo perché maturasse il
concetto che, prima di
somministrare una medicina, occorre provare con
ragionevole certezza che è
efficace o che, come minimo, fa più bene che male.
Ciò nonostante, gli abusi
non sono mancati anche in
epoca recente. Senza voler
arrivare alle “ricerche” criminali su cavie umane fatte
nei campi di sterminio
nazisti, basti ricordare che
negli anni Trenta, in
Germania e in Italia, si
iniettavano parassiti malarici per curare la sifilide; e
negli anni Cinquanta negli
Stati Uniti era accettata la
sperimentazione di farmaci
su carcerati, anche su quel-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
li che prevedibilmente
erano ipersensibili. È proprio per questo che da
circa trenta anni sono stati
istituiti i comitati etici, ai
quali ogni sperimentazione
clinica deve venire obbligatoriamente sottoposta in
anticipo con un protocollo
dettagliato e una circostanziata documentazione giustificativa. I comitati etici,
presenti ormai in tutti gli
ospedali nei quali si fa sperimentazione clinica, e la
cui composizione comprende membri esterni
all’ospedale e alla professione medica, hanno tre
principi fondamentali:
qualunque cura sperimentale non dev’essere
da meno della miglior
cura sinora disponibile
i rischi, che non sono
mai nulli, per quanto
ragionevolmente prevedibili (e spesso la valutazione non è facile) devono essere giustificati dai
possibili vantaggi
i pazienti devono essere
informati di tutto; in primis, che viene loro offerto di partecipare a un
esperimento, e sono liberi di farlo oppure no.
Come tutte le operazioni
umane, i comitati etici non
sono perfetti, ma hanno
costituito un progresso
enorme nella serietà della
ricerca clinica e nella protezione dei pazienti.
Questo significa che le
norme per prevenire o
reprimere il comportamento dell’oncologo di Frank ci
sono; altra cosa è che quell’oncologo le abbia violate.
Qualcosa di ancora peggio
sembra aver fatto un altro
personaggio di Next: una
specie di incrocio tra scimpanzè e umano. È evidente
che né il comitato etico
dell’ospedale né il comitato
per la sperimentazione animale l’avrebbe autorizzato.
Luci e ombre
della terapia genica
a un protocollo sperimentale di terapia genica regolarmente approvato da un
comitato etico. L’antefatto
saliente di questo episodio
Non c’è nessun esempio di terapia genica in Next, eppure in almeno due occasioni l’autore fa dire a qualche suo
personaggio che «esperimenti umani nel campo della
terapia genica hanno causato centinaia di morti»
immunodeficienza, realizzate rispettivamente a
Parigi e a Milano. In effetti
la terapia non è stata scevra di complicazioni: 3
pazienti su 11 sono stati
colpiti da una forma di leucemia, che in un caso ha
avuto esito letale. Ma
Crichton non sembra voler
fare riferimento a questo:
non è certo un fatto inusuale che una terapia
nuova per una malattia
altamente invalidante (e
alla fine mortale) possa
comportare rischi anche
gravi (lo stesso vale, per
esempio, per molte procedure di trapianto d’organo). Probabilmente l’autore ha in mente invece un
episodio assai grave avvenuto nel 1999 a
Philadelphia, in cui ha
perso la vita un giovane di
19 anni sottoposto, per
un’altra malattia ereditaria,
è stato che Jim Wilson, il
principal investigator, era
anche uno dei principali
azionisti della ditta che
preparava il vettore (l’equivalente di un farmaco) per
il protocollo stesso.
Trasportato dall’ardore, e
violando il protocollo
approvato, Wilson ha somministrato una dose troppo
alta del vettore, malgrado il
fatto che dosi più basse
avessero già causato complicazioni: sembrava
insomma un grossolano
conflitto di interesse. Si dà
il caso che il Comitato etico
dell’American Society of
Gene Therapy avesse già
stilato un documento che
vietava a chiunque fosse
coinvolto in una sperimentazione clinica di avere
interessi economici nella
stessa. Purtroppo il documento fu adottato
dall’American Society of
a più voci
La terapia genica corrisponde al concetto che il
trasferimento di un gene
nelle cellule di un paziente
possa essere usato a scopo
terapeutico. Non c’è nessun esempio di terapia
genica nella narrazione di
Next, eppure in almeno
due occasioni l’autore fa
dire a qualche suo personaggio che «esperimenti
umani nel campo della
terapia genica hanno causato centinaia di morti». In
realtà, la terapia genica è
stata per un ventennio solo
un sogno, malgrado sforzi
enormi di molti valorosi
gruppi di ricercatori; final-
mente, negli ultimi anni, è
divenuta realtà, con le
effettive guarigioni durature di due malattie ereditarie caratterizzate da grave
75
Gene Therapy solo dopo il
fattaccio. Il giovane di
Philadelphia resta però l’unico paziente morto probabilmente a causa di un
abuso della terapia genica:
le centinaia di cui parla
Crichton sono semplicemente un’affermazione
falsa.
Protezione del pubblico
e oscurantismo
Si dice che il movente di
Alfred Nobel a istituire nel
1895 il premio al quale da
allora tutti gli scienziati
ambiscono fosse di farsi
perdonare per avere inventato la dinamite; ma nessuno ha proposto per questo
di abolire la chimica.
Mezzo secolo dopo, i progressi della fisica hanno
permesso di fabbricare le
bombe atomiche e termonucleari, ma nessuno ha
proposto di abolire la fisica. Oggi, all’inizio del
Ventunesimo secolo, è
innegabile che i progressi
della biologia fanno paura,
ma sarebbe vano, oltre che
assurdo, pretendere di abolire la biotecnologia. I suoi
portati pratici sono ormai
tali e tanti che non ce ne
rendiamo neppure conto.
Tanto per fare qualche
esempio eclatante: l’eritropoietina ricombinante, che
76
ha cambiato la vita di decine di migliaia di pazienti
con insufficienza renale
cronica; il fattore VIII
ricombinante, che ha cambiato la vita degli emofilici
evitando il rischio di Hiv; i
fattori di crescita dei granulociti, che hanno diminuito di un ordine di grandezza i rischi mortali del
trapianto di midollo osseo
e di molti protocolli chemioterapici; gli anticorpi
monoclonali “umanizzati”,
che hanno già sostanzialmente migliorato la prognosi di pazienti con carcinoma del seno o del colon
a stadi avanzati.
Meno noto al pubblico è il
fatto che ormai una quota
notevole di procedure diagnostiche cruciali per la
cura di molti malati sono
state rese possibili dalla
biotecnologia. Queste conquiste sono di tale entità
che nessuno le metterebbe
in questione; Michael
Crichton sembra invece
mettere sotto tiro proprio
la scienza. In effetti, i farmaci finora generati dalla
biotecnologia sono solo le
cime emergenti di tanti iceberg: sotto, c’è un’incredibile dovizia di nuove conoscenze che hanno rivoluzionato la biologia. La
sequenza del genoma
umano, che solo 10 anni fa
era un miraggio, ora è uno
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
strumento disponibile pubblicamente sulla rete, alla
portata di tutti; la funzione
di ogni gene può essere
studiata in dettaglio; le tecnologie transgeniche e l’inattivazione mirata dei
geni permettono di costruire modelli murini di ogni
malattia umana; l’uso della
reazione polimerasica a
catena permette di analizzare i tumori addirittura a
livello di una singola cellula. Insomma, questa è la
biologia contemporanea, e
non è certo colpa dei suoi
progressi se qualcuno vuole
approfittarne esageratamente o indebitamente.
In conclusione, si potrebbe
pensare che Next sia un
commento romanzesco al
manifesto delle ultime
pagine. Ma non è così.
La brevettabilità dei geni è
secondo molti un’aberrazione della legislazione
americana, e il titolo Next
vuole suggerire che prossimamente ne seguiranno
altre simili. È invece plausibile che questa degenerazione verrà corretta, anche
se naturalmente non è
detto. Quello che è certo,
invece, è che la ricerca di
terapie nuove deve continuare, con la più consapevole attenzione a prevenire
gli abusi e i conflitti di interesse. La terapia genica, e il
possibile uso di vari tipi di
cellule staminali, sono
buoni esempi.
Paradossalmente, i gruppi
migliori che lavorano in
questi settori lo fanno controcorrente: le grosse industrie farmaceutiche non
sono, almeno per ora, favorevoli a questi approcci,
perché puntano invece su
farmaci confezionabili in
flaconi. C’è però il timore
che il messaggio che troppi
lettori riceveranno da Next
è che l’unico modo di mettere fine agli abusi è fermare la scienza.
Fare di tutta l’erba un
fascio non è nell’interesse
né dei ricercatori né del
pubblico. In Italia, più che
in altri Paesi, uno dei maggiori fattori limitanti per la
ricerca scientifica è il
finanziamento; non lasciamo che il secondo fattore
sia, qui e altrove, l’oscurantismo.
Lucio Luzzatto
Il cardinale Bellarmino della scienza
Silvia Bencivelli
C’
l’ossessione per il
potere o,
nella
migliore
delle ipotesi, dall’ingenuo desiderio di compiacere la
mamma.
Tutto questo, a differenza
del precedente Jurassic
Park, non viene proposto
in veste di fiction, ma ha la
pretesa di descrivere una
realtà già esistente, o almeno poco lontana dal presente. Lo dice il titolo stesso: Next, cioè prossimo. Lo
ribadisce il risvolto di
copertina: «Next ci pone di
fronte alle scelte difficili
che dovremo prendere in
ambiti nei quali non ce lo
aspetteremmo: nella nostra
vita quotidiana, nei nostri
affetti, nel nostro rapporto
con la natura e con gli animali domestici». E lo insinua l’epigrafe: «Questo
romanzo è opera di fantasia, tranne per le parti che
non lo sono».
Finzione narrativa o
descrizione del reale?
L’ambiguità tra finzione
narrativa e descrizione del
reale conduce il lettore fino
alle ultime pagine, quando
Crichton, nel congedarsi,
propone una lunga nota in
cui descrive le conclusioni
che ha personalmente tratto dalla preparazione e
dalla stesura del romanzo:
a più voci
è di tutto: medici trafugatori di ossa di
cadavere, giovani scienziati
delusi che rubano embrioni transgenici per rivenderli a vecchi scienziati rampanti, oncologi che sottraggono cellule preziose ai
loro pazienti, biologi
pasticcioni che fanno inalare virus per topi a gente
capitata per caso, e persino
una scimmia parlante.
La sensazione è che stavolta Michael Crichton abbia
davvero esagerato. Nel suo
ultimo libro, Next, appena
uscito in Italia, la scienza
torna a fare la parte della
cattiva: è un mondo in cui
non c’è un camice bianco
che lavori per scopi diversi
dall’arricchimento personale, dalla vendetta, dal-
77
conclusioni sensate e sicuramente più che degne di
un dibattito serio (smettere
di brevettare i geni, stabilire linee guida per l’utilizzo
di tessuti umani, promulgare leggi che assicurino
che i dati sui geni testati
vengano resi pubblici…),
ma di certo capaci di
confondere le acque.
Stiamo parlando della
resurrezione di un dinosauro, o di quello che davvero accade oggi nei laboratori di tutto il mondo?
È vero, Next, in fondo, è
solo un libro: cerchiamo di
ricordarcelo noi, se anche
se ne dimentica il suo
autore. E poi la sua tesi
(non si dovrebbe permettere la brevettazione dei
geni) è più che ragionevole.
Ma il vero problema della
ricerca biomedica attuale
non è il rischio di creare
scimmie parlanti: è piuttosto la commistione con
certi poteri economici che
fino a pochi anni fa non
avevano nessun interesse
in provette e microscopi.
Raccontare un mondo in
cui gli scienziati, tutti senza
scrupoli né dubbi, creano
scimmie parlanti e, in più,
vendono cellule di pazienti
ignari non è perfettamente
onesto, se non è altrettanto
perfettamente chiaro che
di finzione si tratta.
Del resto, la deriva anti-
78
scientifica del medico scrittore che faceva vibrare il
cuore a tanti appassionati
di scienza non è cominciata oggi. Next fa seguito a
Preda, in cui un ammasso
di nanoparticelle autoorganizzate minacciava l’umanità, e a Stato di paura, in
cui si sosteneva che il
riscaldamento globale è
un’invenzione di una cricca
di climatologi truffatori.
Stavolta, nella carrellata
infinita di personaggi e
situazioni che popolano il
romanzo (e che, tra l’altro,
rendono la lettura decisamente faticosa), la ciliegina
sulla torta è un personaggio che risponde al nome
di Robert Bellarmino, come
il cardinale Roberto
Bellarmino che processò
Galileo.
Il Bellarmino di Crichton è
l’orrendo responsabile del
settore di ricerche genetiche dei Nih (National
Institute of Health) americani, un cristiano evangelico con pochissimi scrupoli
morali: «Politicamente
impegnato, era il prototipo
dello scienziato al passo
coi tempi, che abbinava un
modesto talento scientifico
a una spiccata astuzia
mediatica» (si noti, en passant, come l’impegno politico e la capacità di parlare
con i media siano considerati vizi per uno scienziato,
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
contrapposte a un generico
talento scientifico).
Bellarmino era stato il
primo ad affidarsi a un’agenzia pubblicitaria, riuscendo così a guadagnarsi
diverse copertine di riviste
scientifiche e una certa
fama di ricercatore di
punta, che, tra l’altro, aveva
attirato i ricercatori più
brillanti e ambiziosi nel
suo laboratorio: «Nel caso
del D4DR, Bellarmino fu in
grado di adattare le sue
dichiarazioni alle convinzioni del pubblico: parlava
entusiasticamente del
nuovo gene ai gruppi progressisti, e di fronte ai conservatori ne sminuiva l’importanza. Nelle sue previsioni era fantasioso, proiettato verso il futuro e disinibito. Arrivò al punto di
asserire che un giorno
sarebbe stato scoperto un
vaccino in grado di prevenire l’infedeltà».
Una scienza prossima
all’autodistruzione
I suoi assistenti, ovviamente solo ed esclusivamente
per desiderio di vendetta,
vorrebbero denunciarne le
violazioni dell’etica scientifica, ma sanno che sarebbe
del tutto inutile: «Se lo
accusiamo formalmente di
comportamento indegno
perdiamo solo un mucchio
di tempo e di energie. Le
nostre sovvenzioni potrebbero scadere. E alla fine
lamentarsi non porta da
nessuna parte.
Rob è una personalità di
spicco dei Nih. Dispone di
fondi enormi e dispensa
sovvenzioni per milioni di
dollari. È uno scienziato e
un credente. Al Congresso
lo amano. Non verrebbe
mai incriminato per comportamento indegno. Non
verrebbe incriminato nemmeno se lo sorprendessero
mentre sodomizza un assistente di laboratorio».
Ma il Bellarmino di
Crichton è soprattutto un
bugiardo, che mente sui
rapporti tra biologia e
industria a volte perfino
appellandosi alla volontà di
Dio, come fa di fronte alla
Commissione parlamentare sulla genetica e sulla
salute: «Bellarmino non
accennò al fatto che la differenza tra il mondo accademico e quello industriale
era svanita da tempo. […]
“Tuttavia”, proseguì
Bellarmino, “posso assicurare questo comitato che in
generale la brevettazione
dei geni è un sistema finalizzato al bene comune”.
[…] Non disse loro che
ogni anno venivano rilasciati più di quattromila
brevetti sul Dna – due all’ora di ogni giorno lavorativo.
Siccome nel genoma
umano c’erano soltanto
trentacinquemila geni, la
maggior parte degli esperti
stimava che più del venti
per cento fosse proprietà
dei privati».
Bellarmino, insomma, è il
cardinale di una nuova
Chiesa chiusa su se stessa e
disinteressata al resto del
mondo, dogmatica e oscurantista. È il cardinale della
scienza del ventunesimo
secolo, come il suo omonimo di quattro secoli fa era
l’inquisitore che metteva a
tacere Galileo. E la scienza
del Ventunesimo secolo, per
l’ultimo Crichton, è qualcosa di prossimo all’autodistruzione e alla perdita di
senso. Con buona pace di
tutti i fan del vecchio
Crichton, di ER e dei suoi
medici in prima linea.
Silvia Bencivelli
Biotecnologie e nuove disuguaglianze
Gavino Maciocco
C
genetica
riprendono
a vivere i
dinosauri).
Con il suo
ultimo
lavoro,
Next,
Crichton torna a interessarsi delle nuove frontiere
della biotecnologia. E lo fa
con un libro tanto noioso
quanto superficiale, composto da un insieme di
brevi storie, assemblate alla
rinfusa senza un inizio e
una fine, senza la parvenza
di un filo logico.
L’unica cosa chiara è il
messaggio che l’autore
a più voci
richton è un autore
noto per la sua abilità
nel tradurre in romanzi e
fiction argomenti di carattere biomedico, da Casi di
emergenza (che ha ispirato
le fortunata serie televisiva
ER, Medici in prima linea)
a Jurassic Park (dove grazie
ai miracoli dell’ingegneria
79
intende recapitare ai lettori: la loro esistenza sarà
sempre più condizionata
dai progressi delle biotecnologie (soprattutto nel
campo della genetica), con
scenari da incubo se la
gestione di questi processi
sarà dominata dalla pura
Gli autori
Lucio Luzzatto,
ematologo, è direttore
scientifico dell’istituto
Toscano Tumori
lucio.luzzatto@
regione.toscana.it
Silvia Bencivelli è medico
e giornalista scientifica
[email protected]
Gavino Maciocco è medico
di sanità pubblica e
professore a contratto di
Medicina di comunità
presso il corso di laurea
di Medicina e Chirurgia,
Università di Firenze
[email protected]
80
logica del mercato e del
profitto.
Su Repubblica del 10 luglio
è comparso un articolo di
Aldo Schiamone dedicato
all’emergere di nuove disuguaglianze. «Le nuove disuguaglianze», scrive
Schiamone, «non hanno
origine, come quelle di una
volta, sul terreno della produzione in senso stretto,
del conflitto tra capitale e
lavoro, insomma dell’economia classicamente intesa, anche se continueranno
ad apparire alla fine come
enormi disparità di ricchezza e di status. Le
nuove disuguaglianze
saranno tutte, molto prima
che disuguaglianze proprietarie o distributive,
disparità “di accesso”:
generate non direttamente
dall’economia, ma dal rapporto problematico e ancora oscuro fra l’avanzamento tecnologico e il suo uso
sociale. […] E riguarderanno per prima cosa il rapporto tra destino individuale e possibilità di
disporre in maniera ade-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
guata delle tecnologie da
cui dipenderanno sempre
di più la costruzione e la
conservazione della nostra
identità».
La relazione tra l’avanzata
delle biotecnologie e il
dilatarsi delle disuguaglianze è spiegata nel
recente saggio
“Globalization and social
determinants of health”, di
Ronald Labonte e Ted
Schrecker, pubblicato sulla
rivista online Globalization
and Health.
Il motivo sta, secondo i due
autori canadesi, nella progressiva privatizzazione del
bene pubblico per eccellenza: la conoscenza scientifica. Basta vedere cosa
succede nel campo dei farmaci, tra la questione dei
brevetti e la scelta delle
priorità negli investimenti
sui nuovi farmaci: delle
1223 formule chimiche sviluppate tra il 1975 e il 1996,
solo 11 hanno riguardato il
trattamento delle malattie
tropicali.
Gavino Maciocco
Uno Schopenhauer al giorno
toglie il medico di torno
DA LEGGERE Il counselling filosofico è sempre più spesso presentato come un nuovo modello di aiuto nella sofferenza. Irvin Yalom, nel libro La cura Schopenhauer, mostra
come la filosofia può curare, magari affiancata da una psicoterapia. È leggendo Schopenhauer che il protagonista
guarisce, e finalmente si riconcilia anche con il suo vecchio terapeuta. E sullo sfondo, la figura del filosofo tedesco, che a sua volta era “disturbato”.
Guido Miccinesi
L
ria, cambia chi la attraversa
più profondamente dei
confronti astratti, più definitivamente della ripetizione di tecniche, pratiche o
teoriche.
I grandi pensatori
Questo avviene in misura
modesta leggendo La cura
Schopenhauer di Irvin
Yalom; prevale invece la
comunicazione di un saper
fare, quello della psicoterapia di gruppo. A parte qualche domanda nuova, il
tutto è poco vivido: a volte
sembra di essere in un’aula
universitaria ad ascoltare
un resoconto di attività clinica, per quanto appassionante e ambigua come
quella psichiatrica (Yalom
è professore di psichiatria
alla Stanford University).
Tanto che quando uno dei
protagonisti desidera la
donna che ha ferito e perso
La cura Schopenhauer
Irvin Yalom
Neri Pozza, Milano, 2005
pp. 448, euro 18,00
a più voci
a forza di una storia
non si può ridurre a
niente di meno che a tutta
la storia stessa, cioè al susseguirsi di eventi, personaggi, svelamenti dell’animo dei personaggi. È questo che porta continuamente a rileggere quanto
già letto o ascoltato, e a
mutare la propria posizione emotiva verso quella
realtà così intimamente
incontrata, di cui ormai ci
si è appropriati: quello che,
per semplicità e convenzione, ancora chiamiamo
storia. La storia genera sto-
81
quando era meno in contatto con se stesso e più
impaurito dagli altri, quando quindi questo protagonista (uno dei due della
storia) si esprime con
immagini intense sul desiderio per questa donna fortuitamente incontrata di
nuovo in un gruppo di
terapia, l’effetto sul lettore
è un po’ (nel senso di:
modestamente) pornografico, per niente coinvolgente, quasi che il professore
(Yalom) si fosse lasciato
andare a una battuta fuori
luogo.
Non una grande scrittura,
insomma. A maggior ragione risalta lo schema su cui
è costruita, il plot, la trama,
da cui si possono comprendere le opinioni dell’autore. Il tema è in Italia
ancora di nicchia, ma già
manifesta una qualche
propulsività, una capacità
di innescare dibattiti, una
tendenza a far parlare di sé,
e pone qualche domanda
nuova. È il tema della filosofia che vuole curare.
Infatti, in questa storia ma
non solo, è la filosofia che
adesso si propone, che si fa
avanti. È la filosofia che si
riconosce nella risposta
possibile a una domanda
non espressa, a una
domanda che solo alcuni
hanno saputo rivolgere a se
stessi e a quei personaggi
82
ideali che Yalom chiama i
grandi pensatori. La trama
della Cura Schopenhauer
dice appunto questo.
Dobbiamo sperare o temere qualcosa da questo tipo
di counselling filosofico,
presentato come nuovo
modello di aiuto nella sofferenza? La filosofia per la
cura del disagio esistenziale, la filosofia al posto della
no di una redditizia professione di chimico. Da allora
vive di rendita, in attesa di
poter vivere di filosofia. E
guarisce. Ma come si fa a
vivere di filosofia, se non si
è o non si è riconosciuti in
vita come grandi pensatori? È evidente il parallelo
con Schopenhauer, che
pure visse per un lungo
periodo grazie a una rendi-
Ma come si fa a vivere di filosofia, se non si è o non si
è riconosciuti in vita come grandi pensatori? È evidente il parallelo con Schopenhauer, che pure visse per un
lungo periodo grazie a una rendita lasciatagli dal padre
psicoterapia ma anche la
filosofia insieme alla psicoterapia, il prefigurarsi di
qualcosa di nuovo e di ibrido su cui cominciare a
discutere.
Vivere di filosofia
Per uno dei protagonisti
(quello già introdotto) la
storia comincia con l’inutile sforzo della psicoterapia,
sforzo senza resa, solo
buona volontà e impotenza. Tre anni. Poi il drop out
dalla relazione terapeutica,
lo studio della filosofia, il
conseguimento di una
seconda laurea, l’abbando-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
ta lasciatagli dal padre e
non ottenne riconoscimento per la sua opera filosofica. Più modestamente, se
l’insegnamento dà poca
soddisfazione, gli studenti
sono sciatti e gli stipendi
bassi, perché non proporre
anche agli altri la cura della
filosofia, perché non trarne
in qualche modo (già: in
quale modo?) un lavoro,
con tanto di training e
debito di supervisione?
Questo paziente, refrattario
alla psicoterapia, è guarito
con la filosofia. Sono scomparsi i sintomi odiosi,
come la coazione a fare
sesso e poi cambiare partner (o meglio “soggetto”)
Cercare il caso andato
male, contro le attese,
quello che indica i limiti
del proprio metodo di
intervento: quindi il più
vitale, quello dal quale passare per continuare a evolvere, perché ormai tutti
sappiamo che evolvere
(compiere ogni sforzo conscio e inconscio per
lasciarsi selezionare dalla
vita) vuol dire vivere.
I due battiti della storia
Sono i due battiti di tutto il
libro di Yalom, il ritmo che
gli dà un po’ di unità estetica: i lampi della filosofia e
il lento lavoro su se stessi.
Il terapeuta alle prese con
la morte e il caso fallito si
incontrano molti anni
dopo il termine di quella
terapia. Hanno avuto tutto
il tempo di cambiare,
anche se subito, come
dolorosamente avviene
anche nella nostra vita,
entrambi cercano di ripartire dagli schemi acquisiti,
dalle prese dell’uno sull’altro che già avevano funzionato. Il terapeuta ha consapevolezza di questo, l’altro
no. Si incontrano, si studiano, si gettano l’uno sull’altro e si combattono. Prima
in privato, poi di fronte ad
altri e attraverso di loro, in
un gruppo di psicoterapia.
Alla fine si aprono e si corrispondono (quando mai
uno psicoterapeuta
sosterrà che un determinato incontro umano è
impossibile?). Lo scontro
diventa una danza e il più
giovane, il filosofo, accompagna danzando alla porta,
all’uscita di scena, il più
anziano, lo psicoterapeuta.
Non c’è più tragedia. Tutto
è compiuto, ma non c’è
mistero. Solo la consolazione, la nuova consolazione
per i nuovi gruppi che si
faranno. La nuova guida, il
filosofo, sarà diversa,
affiancata (messa sotto
tutela?) da un socio, un ex
paziente che rappresenta la
capacità di stare nelle relazioni, di attraversare le
emozioni e i momenti topici dei processi di gruppo:
non direttamente uno psicoterapeuta, ma senz’altro
la cultura della psicoterapia, nello specifico della
psicoterapia di gruppo.
«La malattia è
la medicina»
Al posto del mistero della
morte di un uomo amato
(il terapeuta ha quasi solo
la caratteristica che chi lo
incontra impara ad amarlo
per l’attenzione e l’intelligenza emotiva che ne riceve), la storia si congeda con
a più voci
per sedare un’ossessione
che già rinasce al consumarsi di ogni incontro,
proprio là dove molti altri
si scoprono finalmente
soddisfatti. La lettura assidua di Schopenhauer e
l’interiorizzazione della sua
vita sono state il passaggio
per lui decisivo. Se sia stata
vera cura lo giudicherà
però chi già è riconosciuto
essere in grado di curare,
l’altro protagonista della
storia di Yalom: un terapeuta, forse Yalom stesso.
Per questo secondo protagonista la storia comincia
con una diagnosi di cancro
metastatico. Messo di fronte al limite, immerso nella
situazione estrema della
propria morte, sceglie per
due mosse (il famoso
coping). Prima viene la
decisione di seguire
Nietzsche nel ritenere che
la buona vita sia quella che
in ogni momento vorrebbe
essere infinitamente ripetuta esattamente così come
è stata. Sceglie dunque
quale debba essere l’ultimo
tratto del proprio cammino: continuare a vivere
come prima. Curare ancora, fare ancora gruppi di
psicoterapia, fino a quando
la malattia lo lascerà libero
dal dolore. Poi viene la
seconda mossa: cercare di
falsificare qualcosa della
propria opera scientifica.
83
la promessa di una consolazione nuova, che è solo
prefigurata e di cui invece
sono chiari i pericoli: la
mancanza di training e
competenza sui processi
relazionali. C’è di che
preoccuparsi? Pier Aldo
Rovati, nel libro La filosofia
può curare?, mette in guardia la filosofia che vuole
curare dal proporsi come
terapia, fosse anche specifica per il disagio esistenziale. La mette cioè in guardia dal cadere irriflessivamente nella ragnatela “psy”
fatta di aiuti, consiglieri,
consulenze, letta come
Per saperne di più H.M. Chochinov,
W. Breitbart, Handbook
of Psychiatry in Palliative
Medicine.
Oxford University Press,
New York, 2007.
P.A. Rovati,
La filosofia può curare?
Raffaello Cortina,
Milano, 2006.
A. Schopenhauer, L’arte
di conoscere se stessi.
Adelphi, Milano, 2003.
S. Toulmin,
Ragione ed etica.
Un esame del posto
della ragione nell’etica.
Astrolabio, Roma, 1987.
84
espressione del potere
disciplinare, del potere fattosi autosorveglianza. «La
malattia è la medicina. La
cura è il persuadersi della
propria impotenza».
Questa impressione riguardo alla terapia “psy” è in
effetti l’unica davvero vivida che si trae dalla storia di
Yalom: il potere normalizzante del gruppo, la
medietà nell’assegnazione
di senso alle storie personali incessantemente
riportandole al qui e ora
delle relazioni gruppo,
all’imparare a vivere senza
generare sofferenza inutile.
Rovati è per una filosofia
che sappia bene tutto questo, che si smarchi e giochi
piuttosto la resistenza al
potere anche disciplinare,
che miri a soggettivare, a
rimettere in piedi incessantemente il soggetto schiacciato dall’organizzazione
sempre più totale. Una filosofia che anche nelle
aziende, il luogo naturale
dal quale cominciare questa nuova pratica filosofica,
comporti «respirazione
contro, non semplici spazi
per riflettere meglio».
Bisogna quindi prima
intendersi sulla parola filosofia e su cosa sia una
«pratica filosofica, terreno
di base di ogni consulenza
filosofica che voglia essere
davvero tale». La sua pro-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
posta è che «la filosofia è
una particolare cura, è un
prendersi cura di se stessi
che implica un prendersi
cura degli altri. È una pratica di pensiero ma, appunto, è essenzialmente una
pratica, un esercizio da
applicare costantemente
alla propria esistenza.
Come tale è anche un
governo, un modo di
governare se stessi. È una
politica della soggettività».
Se accolta con un simile
livello di riflessività e di
distanziamento dalla
ragnatela “psy”, la filosofia
che cura può essere di
nuovo (torna in mente la
bioetica per Stephen
Toulmin) una cura della
filosofia per se stessa, un
modo per riattivare il legame tra filosofia e vita.
Il filosofo negli hospice?
Avremo il filosofo, per
esempio, negli hospice? Su
quest’ultimo punto una
risposta si sta già delineando. A New York, in Canada,
in Giappone qualcuno
(Harvey Max Chochinov,
William Breitbart, Tatsuya
Morita), insoddisfatto di
tante affermazioni generali
sulla dignità del morire, e
forse preoccupato della
superficialità con cui
potremmo imparare a
rispondere al desiderio di
morire, ha pensato e sperimentato forme di accompagnamento al morente
centrate sul significato
della vita per lui. Il riferimento è, tra gli altri, alla
logoterapia di Viktor
Frankl. È presto per dare
un giudizio, probabilmente
presto anche per ripetere
l’esperienza in Italia.
L’unico dubbio è che anche
questo, di fronte alla fine
della vita, sia troppo, sia
invasivo, sia normalizzante
e pensato per ora in modo
non sufficientemente critico, quasi come una prevenzione delle decisioni di fine
vita. Ma la strada è tracciata: la tradizione ormai consolidata delle cure di fine
vita indica i modi per trattare il disagio esistenziale.
Perché Schopenhauer? La
scelta di Yalom è probabilmente solo narrativa, un
modo per introdurre la filosofia nei processi terapeutici descritti, drammatizzandola attraverso la bio-
L’autore
Tra Scilla, la povertà,
e Cariddi, la ricchezza
Al di fuori della giustificazione narrativa, il focus su
Schopenhauer ha poco
seguito per la discussione
attuale sulla filosofia come
cura che certo, come
sostiene Rovati, non è da
intendersi come una produzione di metodi e canoni
atti a dirigere il pensiero,
ma come pratica ed esercizio essa stessa. La lettura di
Yalom, lo psichiatra, porta
un po’ fuori strada riguardo
alla filosofia che cura. Ma
la figura di Schopenhauer,
presente in quest’opera
anche con la sua biografia
oltre che con un certo
numero di aforismi, non
cessa di agire al termine
della lettura; anzi, è la
parte più riuscita in senso
narrativo. Non si dimentica
lo Schopenhauer che tutta
la vita lotta per il tempo
libero, preso tra la Scilla
della «povertà, che ci toglie
tutto il tempo libero», e la
Cariddi della «ricchezza
che tende in ogni modo a
guastarcelo e sottrarcelo».
Infatti «la Natura determina la sorte dell’uomo – di
giorno il lavoro, di notte il
riposo, e ben poco tempo
libero». Qui non c’è consolazione, non c’è autosorveglianza, ma piuttosto il
respiro contro che ci si
aspetta dalla filosofia, l’invito a una pratica che,
come dice Rovati, ha i
caratteri del gioco e permette di imparare a mettersi in gioco.
Guido Miccinesi
a più voci
Guido Miccinesi
si interessa dei temi
della qualità della vita,
delle cure palliative e
delle decisioni di fine vita
[email protected]
grafia di un filosofo controverso. Forse la preferenza è
andata a Schopenhauer
perché era chiaramente,
come dice Yalom, «disturbato», e la sua biografia
così esplicativa di questo
disturbo. Era sia più vicino
a certe angosce, e quindi
più facilmente identificabile come modello di guarigione attraverso la filosofia,
sia più esemplare dei limiti
di competenza di chi si
presenta con la sola pratica
filosofica, per cui questa
dovrebbe lasciarsi affiancare (sembra questa l’opinione esperta di Yalom) dalle
competenze sulle relazioni,
le emozioni e i processi di
gruppo che da decenni
sono confluite nella psicoterapia.
85
La “soluzione finale”
per i malati psichiatrici
DA LEGGERE Nel 1955, con il suo primo romanzo che si
può definire fantascientifico, Stanislaw Lem sfrutta la sua
formazione medica e descrive un ospedale dove la condizione di malato psichiatrico è terminale, e la guarigione un
evento accidentale e imprevisto. Il finale, tragico e addirittura catastrofico, lascia però una porta aperta alla speranza. Per noi, oggi, la speranza è che le intuizioni di Lem non
restino pura fantascienza.
Franco Fasolo
S
tanislaw Lem, polacco,
morto nel 2006 a ottantacinque anni, era laureato
in medicina ma, come
anche il suo più giovane
collega americano Michael
Crichton, aveva abbandonato presto la professione
per dedicarsi all’esclusivo
impegno di scrittore di fantascienza. Ed è stato, all’interno della categoria, uno
dei pochi capaci di uno
stile ironico, spesso surreale, tendenzialmente filosofeggiante ma sempre argutamente paradossale.
Questa doppia caratteriz-
86
zazione può far immaginare un parallelismo fra Lem,
medico e scrittore di fantascienza, e la figura dello
psichiatra, dedito (o forse
dannato) alla più fantascientifica delle specialità
mediche. La sua produzione letteraria infatti è stata
considerata dai critici
come particolarmente
impegnata a esplorare i
meandri e i misteri celati
nella profondità della psiche umana, come ha fatto
il suo collega statunitense
più noto (forse indebitamente) Philip Dick.
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
Nelle intenzioni dell’autore
L’ospedale dei dannati sembra che non fosse un
romanzo di fantascienza,
anche se la centratura sulle
problematiche filosofiche
dell’esistenza e una tendenza alla valorizzazione
del grottesco nello stile
narrativo, caratteristiche
del grande Lem fantascien-
L’ospedale dei dannati
Stanislaw Lem
Bollati Boringhieri,
Torino, 2006
pp. 203, euro 18,00
tifico, sono già visibili in
questo romanzo.
Ma la fantascienza ha la
singolare capacità di tradurre in una narrazione
coinvolgente anche le
intuizioni scientifiche più
difficili da formulare, più o
meno come i mandala
induisti e le cattedrali
medioevali erano studiati
per comunicare a livello
emotivo i loro rispettivi
modelli del cosmo. In questo senso nel libro sono
trasposte, in pura forma
narrativa, alcune intuizioni
sulla realtà profonda della
psichiatria che proprio
oggi, a più di cinquant’anni
dalla sua pubblicazione,
andrebbero considerate
con attenzione.
Oggi troppi pazienti psichiatrici sono trattati nello
stesso modo descritto da
Lem (anche se in Italia
forse un po’ meno che
negli altri Paesi globalizzati). L’ospedale dei dannati,
che si può considerare il
suo primo vero libro di fantascienza, è dunque anche
in un certo senso profetico.
Il protagonista, un giovane
medico, va con notevole
disagio personale al funerale di un parente e si trova
In particolare Lem, in una
delle scene più forti del
libro, stigmatizza la neurochirurgia con la descrizione di un crudissimo intervento intracranico.
L’operazione è certamente
più sanguinolenta, ma solo
apparentemente più indifferente alla persona del
malato rispetto agli sviluppi sofisticatissimi del vecchio elettroshock, come la
stimolazione magnetica
transcranica ripetitiva,
decantata come un intervento a bassa invasività che
non richiede nessun dispositivo da impiantare in situ.
Obbedienza religiosa
e compliance
Un altro aspetto da segnalare riguarda la posizione
etica e deontologica della
suora nella scena dell’intervento neurochirurgico:
l’obbedienza al medico.
Per lunghi anni e fino a
poco tempo fa si è spettegolato sul fatto che le strutture psichiatriche venivano
troppo spesso collocate in
contesti religiosi, anche
dopo che la riduzione delle
vocazioni aveva costretto
molti Ordini a ritirare da
questo particolare tipo di
servizio le poche suore
rimaste operative.
L’attenzione letteraria dello
a più voci
Diagnosi dettate
dalle lobby
coinvolto per caso a lavorare in un vicino piccolo
ospedale psichiatrico. Qui
scopre rapidamente che le
competenze professionali
richieste per occuparsi dei
ricoverati sono scarse e
generiche. Tutto quello che
gli psichiatri di Lem sanno
fare, e soprattutto vengono
richiesti di fare, sono le
diagnosi. Da un lato, le diagnosi ratificano situazioni
fissate o meglio ancora
congelate dalle stesse
situazioni di cura in cui i
pazienti vengono incastrati
dalle linee guida e dai protocolli terapeutici.
Dall’altro lato, sono sempre
più dettate dagli psicofarmaci che le lobby transnazionali e le grandi case farmaceutiche individuano
come i più indicati per
curare miratamente quelle
patologie altrettanto miratamente specificate dalla
ricerca scientifica sovvenzionata dalle stesse case
farmaceutiche, in una circolarità che la claustrofobia sottilmente pervasiva
del libro illustra con sconvolgente aderenza.
Oggi questa situazione è
esasperata dal peso istituzionale ed economico di
tante correnti dottrinarie e
di tante pratiche cliniche
improntate di volta in volta
al più deciso e semplicistico riduzionismo di turno.
87
scrittore di fantascienza
all’incrollabile obbedienza
della suora agli ordini del
medico e scienziato suo
superiore fa pensare a
qualche tipo di isomorfismo profondo fra le istanze
originali dell’obbedienza
religiosa e l’estenuante
vede quando il protagonista fa il primo giro per i
reparti dell’ospedale; questa sopravvivenza però
resta garantita solo fintanto
che motivi di ordine superiore non orientino le scelte istituzionali verso opzioni alternative.
Quando diventa “psichiatrica” una persona entra in un
regime che le nega qualsiasi altra capacità o competenza diversa da quella a cui viene in questo modo veramente con-dannata: la condizione di paziente
ricerca della compliance da
parte dei pazienti in psichiatria. Quando diventa
“psichiatrica”, infatti, una
persona entra in un regime
che, a priori e sistematicamente, le nega qualsiasi
altra capacità o competenza diversa da quella a cui
viene in questo modo veramente con-dannata: la
condizione di paziente.
Dunque, la scelta di mettere la psichiatria in contesti
architettonici religiosi
risulterebbe una decisione
intimamente coerente,
aziendalmente pensando.
All’interno di questo regime, al paziente psichiatrico
viene senz’altro offerta l’estenuante possibilità di
una sopravvivenza fisica fin
troppo stilizzata, come si
88
È questa la “fidelizzazione”
dei malati psichiatrici praticata negli attuali stabilimenti di cura, pubblici e
privati: malati cosiddetti
“cronici” ma, appunto,
semplicemente ben fidelizzati. I pazienti in riabilitazione avanzata invece vengono ormai accompagnati
da operatori dedicati a fare
gite in barca e a passare la
serata in locali di lap
dance. Si potrà senz’altro,
al bisogno (aziendale), passare all’uso sistematico dei
malati come cavie, neppure tanto ben informate, per
la ricerca scientifica: un
uso che a sua volta potrà
lasciare adito alle proposte
di prevenzione sistematica
delle malattie mentali con
la somministrazione a tutti
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
i cittadini, tramite l’acqua
degli acquedotti pubblici,
di farmaci tranquillanti,
antidepressivi, regolatori
dell’umore.
Infine, la condizione di
malato psichiatrico potrà
lasciare la strada alla soluzione definitiva: Lem
descrive il completo sterminio dei ricoverati da
parte dei nazisti, comandati da un ufficiale medico e
psichiatra alto e bello, convinto dell’assoluta necessità di questo “intervento
ospedaliero”.
Come gli antichi schiavi
Diventare “psichiatrico”
può fare entrare, come racconta Lem, in un livello di
realtà in cui non si è più
“persone”, ma come gli
schiavi del mondo antico si
resta a disposizione di
chiunque voglia approfittarne in piena indipendenza d’animo. E la posizione
etica (o almeno deontologi-
per saperne di più Per approfondire il tema
della “fidelizzazione”:
F. Fasolo,
Psichiatria senza rete.
Cleup, Padova, 2007.
L’autore
Franco Fasolo è presidente
dell’Associazione Veneta per
la ricerca e la formazione in
terapia analitica di gruppo
e analisi istituzionale
[email protected]
Colpo di scena finale
Oggi, anche se non ancora
ufficialmente, si incomincia invece a praticare sempre più una clinica fondata
su una chiara organizzazione di servizio apertamente
“orientata alla guarigione”,
sulla base sia di sviluppi
metodologici consistenti
(tecniche di lavoro con i
gruppi terapeutici e con le
reti sociali), sia di orientamenti scientifici complessi.
Fra questi ultimi, un esempio è la nozione di salute
mentale intesa come concetto sopravveniente
rispetto al livello inferiore
della psiche individuale e a
quello, certamente a sua
volta altrettanto indispensabile ma ancora più insufficiente, del cervello.
Sarebbe però un peccato se
il libro finisse così, con
poche piccole prove della
capacità anticipatoria di
Lem riguardo ad alcuni
degli sviluppi più fantascientifici della psichiatria.
Ecco allora un colpo di
scena finale: muoiono
quasi tutti tranne i nazisti,
come si sarebbe potuto
prevedere per un vero
romanzo, ma il protagonista si salva insieme a una
psichiatra bellissima: un
happy end caratteristico
della fantascienza, non solo
nordamericana. La storia
iniziata in un cimitero finisce con un trepido atto d’amore e può aprirsi verso la
speranza di una rinascita.
Gli sviluppi più avveniristici della psichiatria riguardano infatti la centralità
della relazione di cura in
quanto incontro personale,
declinato metodicamente
ed empaticamente in
un’attenta elaborazione sul
senso e sull’intenzionalità
della stessa malattia mentale. Ma riguardano anche
la necessità di una matura
capacità di trepidazione e
di speranza, nei tempi mai
lineari ma spesso sequenziali della guarigione, cioè
della vita stessa. La speranza è che l’ardita anticipazione da parte di Lem di
alcuni possibili sviluppi
tecnici della psichiatria,
cruciali nel bene e nel
male, non resti pura fantascienza.
Franco Fasolo
a più voci
ca) degli psichiatri di Lem è
chiara: sostanzialmente,
lasciano fare ai nazisti.
Il problema che si pone è
sottile: questi psichiatri
erano semplicemente degli
accidiosi più o meno pavidi, oppure la loro stessa
professionalità “psichiatrica” li poneva nella condizione di lasciar fare, come
la suora, alle decisioni del
Potere superiore rispetto
alla categoria dei matti?
Il fatto che Lem abbia scritto pagine sulla guarigione
dimostra che non aveva
studiato tanto la psichiatria, né lavorato in ambienti specialistici: in psichiatria si è iniziato a parlare di
guarigione solo da tre o
quattro decenni, e perciò
Lem non poteva avere neppure sentito parlare di guarigione dei malati mentali
fino al 1955, anno di pubblicazione del testo.
La guarigione viene discussa fra pubblico imbarazzo e
segreta derisione nei suoi
esiti per il paziente, oscil-
lante fra la nostalgia dell’eroica malattia e il pesante
rammarico per la perdita
delle sinecure garantite
dalla condizione di malato
psichiatrico. Alla fine però
risulterà che quella guarigione era solo il fallito tentativo di fare carriera scientifica da parte di uno psichiatra troppo ambizioso.
89
Sperimentazione clinica
e comunicazione
DA LEGGERE Può la sperimentazione clinica non essere
un rischio, ma un’opportunità per riconsiderare diritti e
doveri di chi, a vario titolo, vi si trovi coinvolto? La sperimentazione umana, di Gaia Marsico, non solo offre un’introduzione al mondo della sperimentazione e agli aspetti
etici che solleva, ma amplia lo sguardo al rapporto tra
sanità e società. Con l’invito a diventare non solo più
“esperti”, ma più capaci di partecipazione.
Massimiliano Marinelli
L
a sperimentazione clinica farmacologica ha
consegnato ai medici farmaci innovativi in grado di
colpire bersagli sempre più
specifici. In campo diagnostico, le biotecnologie
hanno aumentato in modo
straordinario la capacità di
risoluzione e hanno messo
a disposizione una serie di
presidi medicali di grande
valore terapeutico.
Al di là dei risultati ottenuti, inoltre, la sperimentazione clinica è salita al
rango di modalità conoscitiva privilegiata e si è con-
90
cretizzata nell’evidence
based medicine (Ebm), la
medicina basata sulle
prove di efficacia, che oggi
rappresenta la modalità
operativa migliore per fare
delle scelte terapeutiche
fondate su dati significativi
e trasparenti. In quest’ottica, l’Ebm rappresenta per
la medicina ciò che la filosofia della scienza è per la
filosofia stessa. Come la
filosofia della scienza cerca
di chiarire le nozioni strutturali del discorso scientifico e di indagare sul processo di sviluppo della cono-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
scenza, così l’Ebm rappresenta la modalità scientifica con cui la medicina produce se stessa, giorno per
giorno, trial dopo trial,
costruendo un sapere che
diviene patrimonio di tutti.
Tuttavia, nel suo recente libro La sperimentazione
umana, Gaia Marsico ricorda opportunamente che «la
La sperimentazione umana.
Diritti violati/diritti condivisi
Gaia Marsico
FrancoAngeli, Milano, 2007
pp. 272, Euro 23,00
sperimentazione non avviene in laboratori ipertecnologici, ma nelle corsie
degli ospedali, laddove si
nasce, si soffre, si muore, si
suscitano aspettative e si
creano illusioni, laddove
spesso l’universo dei valori,
dei bisogni, delle attese,
delle paure si scontra con
l’arroganza, la non comunicazione, la violazioni dei diritti fondamentali». Inoltre,
la sperimentazione umana
si inserisce in un contesto
più ampio dove la salute è
intesa come bene comune
e diritto inalienabile dell’individuo. In virtù del diritto
alla salute, «ogni persona
che si trovi in una situazione dove non ci sono certezze o risposte soddisfacenti
ha il diritto di entrare in
una sperimentazione».
Ma che cosa significa
entrare in una sperimentazione? Qual è il ruolo della
persona arruolata e quali
sono le condizioni che
autorizzano a parlare di
partecipazione?
Una terra da esplorare
ruolo nei confronti della
propria salute e del contributo possibile al progresso
della ricerca scientifica.
L’autrice ci invita quindi a
non interpretare mai la
partecipazione a una ricerca clinica «come il modo
più efficace per essere
seguiti con competenza e
attenzione».
Ma coinvolgimento e partecipazione dei soggetti
chiamati a entrare in una
sperimentazione non possono prescindere da una
comunicazione chiara sui
valori in gioco. A questo
proposito Gaia Marsico
affronta con competenza,
sensibilità e passione il difficile tema dell’informazione e del consenso informato. «La comunicazione è
ancora un territorio che la
medicina non riesce a
gestire» e, talvolta, manca
proprio nelle situazioni
dove maggiore è il diritto di
condivisione delle incertezze e di trasparenza.
Nell’ambito del consenso
informato l’autrice richiama i comitati etici alle loro
responsabilità: troppo
spesso, infatti, il modulo di
informazione è «semplicemente e banalmente una
liturgia con poco a che fare
con i diritti dei pazienti e
con molto a che fare con la
correttezza di procedure
formali». I fogli informativi
a più voci
Il significato profondo del
termine “partecipazione”
richiama alla necessità di
una pari dignità tra i protagonisti della sperimentazione. Solo in una relazione
tra pari, infatti, sarà possi-
bile sperimentare con l’uomo e utilizzare la ricchezza
informativa derivata dal
coinvolgimento attivo del
malato in una ricerca.
In una logica di condivisione e collaborazione, le persone coinvolte potrebbero
«portare un contributo essenziale, aiutare a capire
quali bisogni sono più urgenti, quali informazioni
sono più importanti e come
meglio possono essere comunicate, quali effetti collaterali sono più pesanti».
Inoltre, i pazienti arruolati
nelle sperimentazioni
potrebbero svolgere un
ruolo essenziale nell’individuare e nel fornire un messaggio di feed back, rispetto alle procedure della
medicina più a rischio di
disumanizzazione. Nella
medicina ad alta tecnologia, come spesso accade
nei protocolli sperimentali
di frontiera, esiste un
rischio che le procedure
mediche, nella loro rigorosa ma rigida applicazione,
privino il cittadino della
sua soggettività. Si crea
cioè un altro mondo, con
linguaggi, spazi e tempi
differenti, che non rispetta
sino in fondo la dignità di
chi diviene oggetto di sperimentazione.
Partecipare, quindi, significa essere sempre soggetti
consapevoli del proprio
91
dovrebbero essere brevi e
leggibili, ma nella maggior
parte dei casi sono lunghi e
complessi. Tuttavia, i comitati etici continuano ad
approvare moduli che i
pazienti molto probabilmente non leggeranno o
capiranno. Gaia Marsico
propone quindi una griglia
di lettura di un modulo
informativo che, per la
chiarezza e la praticità
molti fattori: da una parte
il diritto a non sapere, dall’altra le capacità dell’individuo, vincolate dalla sofferenza indotta dalla patologia di cui soffre. E ancora,
la peculiarità della patologia, che può prestarsi o
meno a una comunicazione autentica della realtà,
per arrivare al personale
rapporto del medico con la
malattia e con la morte.
Il termine “partecipazione” richiede una pari dignità
tra i protagonisti della sperimentazione: solo in una
relazione tra pari si può usare la ricchezza informativa
derivata dal coinvolgimento attivo del paziente
d’uso, dovrebbe essere
adottata da ogni comitato
etico chiamato a esprimere
un parere sul processo
informativo all’interno di
un progetto sperimentale.
Domande per il comitato
Al di là della valutazione
della proposta informativa
cartacea consegnata al
paziente, il comitato etico
dovrebbe interrogarsi sul
grado di libertà che il
paziente possiede per decidere consapevolmente se
entrare o meno nella sperimentazione. Si tratta di
una libertà condizionata da
92
Eppure, la possibilità che il
paziente possa esercitare il
suo diritto all’autodeterminazione è essenziale,
soprattutto in condizioni di
forte incertezza come
avviene spesso negli studi
sperimentali di frontiera.
Quando un disegno sperimentale evidenzia un reale
interesse del paziente a
partecipare allo studio, sia
per il bilancio favorevole
tra rischi e benefici, sia per
la mancanza di una terapia
standard, il comitato etico
non ha molti problemi nel
valutare il percorso di informazione e comunicazione:
si può presumere, infatti,
che una persona normal-
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
mente capace possa comprendere l’oggettiva opportunità della sperimentazione per la sua salute.
Ci sono però delle sperimentazioni, soprattutto in
ambito oncologico, caratterizzate da forte incertezza,
in cui questa presunzione
cade; e così la tranquillità
del comitato etico. Di fronte a un trattamento sperimentale, un malato di cancro in fase avanzata ha
essenzialmente tre possibilità: sottoporsi al trattamento standard disponibile in quel momento, entrare nella sperimentazione o
fare soltanto una terapia
palliativa. In condizioni di
incertezza, questa scelta
non può essere decisa su
basi scientifiche, ma dipende essenzialmente dall’individuo, dalla sua storia e
dalla sua carta di valori di
riferimento. È proprio in
questi casi che il foglio di
informazione e il modulo
del consenso informato
rivelano tutta la loro fragilità. Questa particolare persona ha compreso (o vuole
comprendere) la precarietà
della sua condizione e può
scegliere in uno dei
momenti più significativi
della propria vita?
Il comitato etico non può
rispondere a una domanda
come questa, che si gioca
nel rapporto di relazione e
L’autore
Massimiliano Marinelli è bioeticista presso il Comitato
etico degli Ospedali Riuniti di Ancona
[email protected]
di fiducia con lo sperimentatore e nel suo rapporto
personale con il paziente.
Si apre così il capitolo della
responsabilità del comitato
di tessere una fitta rete
relazionale con i medici e
gli sperimentatori, condividendo i temi etici rilevanti
in un dialogo incessante e
proponendo occasioni di
riflessione comune.
Allargare lo sguardo
Massimiliano Marinelli
a più voci
Per quanto culturalmente
avanzato e illuminato, un
comitato etico tradirebbe il
suo compito se lavorasse
isolato e non contagiasse il
personale sanitario della
struttura di riferimento con
la propria passione. Questo
ci riporta alla prospettiva
globale di partenza che ha
aperto il libro di Gaia
Marsico e alla realtà
profonda della sperimentazione come osservatorio
sulle possibilità e sulle contraddizioni della medicina.
Si tratta di una visione più
ampia che ci richiama alla
necessità di «ridare finalmente voce ad alcuni diritti
negati: da una parte quello
di essere medicalizzati il
meno possibile, e dunque
più indipendenti dalla medicina e dalle sue tante forme di potere; dall’altra il
diritto alle cure necessarie,
laddove esistono, ovunque
si trovino i pazienti». Non è
possibile, quindi, considerare il progresso scientifico
e la ricerca solo dal suo interno, attraverso i meccanismi scientifici, tecnologici
ed economici prodotti dalla medicina dell’evidence.
La ricerca clinica va inserita in una dimensione
sociale globale, che tenga
conto delle grandi diseguaglianze socioeconomiche e
della responsabilità collettiva a «un’equa distribuzione delle risorse e perciò
anche dei risultati che si
ottengono attraverso la
ricerca». Serve inoltre una
riflessione critica anche
sulla stessa Ebm, ritenuta
spesso l’unica modalità per
produrre conoscenze e
risultati, e sui rapporti di
questo modello scientifico
con gli interessi economici
e commerciali. «La pressione del mercato e l’induzio-
ne al consumo di farmaci,
l’occultamento di dati,
l’immissione in commercio
di farmaci me-too che non
introducono novità terapeutiche»: sono tutti fatti
che si riflettono sulla vita di
un comitato etico e ritagliano, tra tutti i mondi
possibili, un particolare
tipo di società dove «più
del 90 per cento della ricerca è concentrata sui problemi che interessano il 10
per cento della popolazione mondiale che può permettersi di consumare farmaci e servizi».
La conclusione dell’autrice,
offerta come un protocollo
da condividere, è questa: «è
possibile che la sperimentazione possa essere sul
serio scuola e laboratorio
di una medicina che promuove diritto attraverso la
ricerca di risposte ai bisogni inevasi?».
La risposta dipende dal
grado di ottimismo o, se si
vuole, di sana utopia, del
singolo lettore. In ogni
caso, questo libro invita
chiunque lavori nell’ambito sperimentale, e soprattutto i componenti dei
comitati etici, ad allargare
la visione dei propri compiti e delle responsabilità di
fronte alla società di appartenenza.
93
Le prove di efficacia
della pediatria narrativa
DA LEGGERE Nell’approccio alla medicina evidence based
spesso si dimentica un punto importante: le prove di efficacia della medicina narrativa, in particolare in ambito
pediatrico. Il nuovo libro di Gangemi, Zanetto ed Elli
riprende il tema scegliendo un punto di vista ben preciso:
nessun discorso troppo astratto o complesso, ma un riferimento costante alla pratica quotidiana e ai casi reali di
bambini, genitori e pediatri che sanno ascoltare.
Alfredo Pisacane
C
hi si occupa di evidence
based medicine concentra spesso la sua attenzione su come ricercare le
prove scientifiche e come
valutarle in modo critico.
Negli ultimi anni medici e
studenti hanno inserito nel
proprio patrimonio culturale la capacità di fare
domande appropriate a
partire da una determinata
situazione clinica, interrogare la letteratura con le
parole chiave giuste, sapersi muovere bene tra le pubblicazioni secondarie, leggere un lavoro scientifico
94
originale o una revisione
sistematica comprendendone i limiti e le possibili
applicazioni nel proprio
contesto.
C’è però un punto, pure
appartenente all’approccio
evidence based, più complesso e quindi meno “battuto”. È il punto che
costringe il professionista
della salute a rallentare il
suo ritmo, a mettere per un
momento da parte il suo
messaggio educativo o la
prescrizione che gli sembra
indispensabile, a sedersi, a
guardare negli occhi il suo
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
interlocutore e, finalmente,
ad ascoltarlo per confrontare le prove scientifiche
con le opinioni, i desideri,
le convinzioni e i valori
della persona che ha di
fronte.
La narrazione, scrive
Narrazione e prove
di efficacia in pediatria
Michele Gangemi,
Federica Zanetto,
Patrizia Elli
Il pensiero scientifico,
Roma, 2006
116 pagine, 12,00 euro
Giorgio Bert nell’introduzione del bel libro di
Gangemi, Zanetto ed Elli,
«è il ponte che permette di
valicare il fossato esistente
tra i modelli esplicativi
della malattia del medico e
quelli del malato».
Senza la narrazione del
bambino o dei genitori, la
malattia resterà la disease
dei trattati medici e il pro-
per crearsi competenze di
counselling e convincersi
che per la buona riuscita di
una relazione di cura è fondamentale saper ascoltare,
per capire cosa sta veramente dicendo un’altra
persona, cosa la preoccupa, cosa teme, cosa le interessa conoscere.
Molto è stato scritto in
questi anni sull’importanza
I professionisti che si muovono in questo libro, pur non
rinunciando alla ricerca delle prove scientifiche e alle
proprie convinzioni, ascoltano, cercano soluzioni possibili e condivise, mostrano disponibilità al confronto
della medicina narrativa; in
diverse occasioni commenti in proposito sono già
apparsi su Janus (si vedano
per esempio gli articoli
“Una storia per due, la narrazione tra malattia e cura”
di Cinzia Colombo in Janus
14, “Vivace ma non troppo:
la buona comunicazione
empatica”, di Elena
Mancini in Janus 24 e il più
recente “Ecm e medicina
narrativa: assolti… con
vendetta” di Silvana
Quadrino in Janus 26).
Inoltre l’integrazione possibile tra medicina basata
sulle prove scientifiche e
medicina narrativa, in
un’ottica di miglioramento
Spettatore invisibile
di una negoziazione
L’agile manuale di
Gangemi e colleghi ha però
un pregio ulteriore per il
professionista della salute:
l’esemplificazione di scenari della pratica quotidiana. Decidendo di non trattare aspetti teorici complessi, come per esempio il
modello esplicativo ed
ermeneutico culturale della
medicina, il libro propone
piuttosto una serie di
tematiche quasi come
capitoli virtuali: l’informazione corretta come strumento di cambiamento, la
risposta a richieste incon-
L’autore
Alfredo Pisacane è
professore di pediatria
e direttore dell’Ufficio
formazione continua
all’Università Federico II
di Napoli
[email protected]
a più voci
fessionista della salute perderà la ricchezza del significato dell’illness per quel
bambino e per la sua famiglia, ricchezza che non è
solo teorica o mero vantaggio culturale, ma principalmente una risorsa di aderenza terapeutica, di
alleanza, di opportunità di
interventi efficaci.
Tra gli insegnamenti delle
professioni sanitarie non
ce n’è uno che si chiami
“Saper ascoltare”, né
“Prendersi cura”, né forse
uno che intenda creare
negli studenti competenze
di comunicazione efficace
e consapevole. Spesso bisogna uscire dall’università
della qualità dell’assistenza, è stata oggetto di trattazioni rilevanti da parte di
vari autori, fra cui Giulio
Giarelli, Byron Good,
Arthur Kleinman, Trisha
Greenhalgh e Brian
Hurwitz.
95
grue, la comunicazione
dell’incertezza, la comunicazione del rischio, l’alleanza terapeutica, i messaggi che ottimizzano le
cure. Ognuna di queste
tematiche è esemplificata
da uno o più scenari clinici, nei quali sono riportati
da una parte il racconto dei
genitori o dei ragazzi, le
Per saperne di più G. Giarelli et al., Storie di
cura. Medicina narrativa e
medicina delle evidenze:
l’integrazione possibile.
FrancoAngeli, Milano,
2005.
B.J. Good, Narrare la
malattia. Edizioni di
Comunità, Milano, 1999.
T. Greenhalgh, B.
Hurtwitz, Narrative based
medicine. Bmj Books,
Londra, 1998.
A. Kleinman, The illness
narrative. Basic Books,
New York, 1988.
J. Launer, Narrative-based
primary care. A practical
guide. Radcliffe Medical
Press, Oxford, 2002.
V. Masini, Medicina narrativa, comunicazione empatica e interazione dinamica nella relazione medicopaziente. FrancoAngeli,
Milano, 2005.
96
domande, i dubbi, i timori,
le convinzioni; dall’altra il
lavoro del pediatra nel
tenere conto non solo di
quanto la letteratura suggerisce, ma anche di questi
dubbi, timori e convinzioni. In questo modo il libro
dà al lettore un po’ la sensazione di trovarsi in
ambulatorio, come uno
spettatore invisibile di una
negoziazione. Rispetto alle
visite tipo che siamo abituati a vedere, i professionisti che si muovono in
questo libro, pur non
rinunciando alla ricerca
delle prove scientifiche e
alle proprie convinzioni,
ascoltano, accolgono le
preoccupazioni dei genitori, non banalizzano né svalutano alcune loro convinzioni (anche quando non le
condividono). Cercano
inoltre soluzioni possibili e
condivise, mostrano disponibilità al confronto e a
soluzioni alternative, fanno
proposte concrete, danno
le informazioni con un linguaggio semplice e, infine,
riconoscono la difficoltà di
situazioni di incertezza;
anche in questi casi,
comunque, tentano di
individuare obiettivi di
azione con (e modalità di
sostegno per) le famiglie
con cui lavorano.
Sono pediatri che si pongono domande del tipo:
Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente
«Cosa mi stanno veramente chiedendo questi genitori? Cosa è importante sapere per loro? Cosa sono in
grado di rispondere? Cosa
posso fare per aiutare questa famiglia ad avere un
ruolo attivo nella gestione
della malattia del bambino
e a tirare fuori in questo
momento di difficoltà le
risorse possibili?».
Così il libro scorre piacevolmente, pieno di domande e dubbi di grande interesse, in un contesto in cui
non si rivisita il capitolo
dell’insonnia, ma ci si
occupa di Matilde, una piccolina di 9 mesi che dorme
pochissimo e della speranza nei rimedi omeopatici e
nella niaprazina dei suoi
genitori. Non si rileggono
la classificazione e la terapia delle cefalee, ma si
accolgono i dubbi dei genitori di Valentina sulla lunga
durata di una terapia profilattica o i timori sui possibili effetti collaterali.
In ciascuno di questi scenari le soluzioni possibili e
praticabili sono suggerite
non dalle sole prove scientifiche dell’Ebm, ma da
quanto la narrazione e un
attento ascolto riescono a
far capire al professionista
le aspettative e i valori della
persona che ha di fronte.
Alfredo Pisacane
Il profitto della memoria
98 Il polso letterario
103 La settima arte
109 Grammatiche mediche
114 Il ginnasio filosofico
121 Vi racconto la mia professione
126 Ultim’ora
L’etica medica al tempo
della “Paranoia”
Gli attentati terroristici di matrice islamica che la scorsa estate hanno avuto come esecutori alcuni medici fanno riflettere su come sia possibile che in uno stesso uomo possano
convivere due aspetti così contrapposti. Una chiave di lettura viene dalla letteratura sulla
realtà dei gulag sovietici, in cui i medici si trovavano allo stesso tempo a svolgere la loro
professione e a servire un’ideologia basata sul disprezzo delle vite umane.
Sandro Spinsanti
U
Il polso letterario
Secondo il critico letterario
George Steiner, «i libri sono la
password per diventare migliori
di quelli che siamo».
Soprattutto quelli che la memoria collettiva ha selezionato come classici letterari.
Le medical humanities non si
stancano di rivisitarli, nella
convinzione che la pratica medica possa trarre beneficio da
un costante contatto con il polso della letteratura, oltre che
con quello del malato.
98
n medico terrorista?
Ma com’è possibile
conciliare due identità, due
mondi così opposti: dedicarsi a salvare vite umane e
contemporaneamente tramare per distruggerle?
Domande di questo genere
hanno accolto la notizia
che a Londra tra i principali artefici della preparazione degli attentati dello
scorso luglio, andati solo
parzialmente in porto, ci
fossero dei medici di religione islamica. Non riusciamo a trovare una risposta. Il mondo in cui vive il
terrorista è un mondo pa-
Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
rallelo al nostro: le condizioni di vita e soprattutto il
suo orizzonte mentale (ciò
che vede e ciò che sente, le
sue speranze, i suoi obiettivi) sono impenetrabili per
chi vive una vita “normale”.
È un mondo paranoico:
non nel senso clinico del
termine, ma in quello colloquiale. La mente del terrorista, il nous dei Greci,
ampliato fino a includere
tutto il suo universo interiore, non ha interferenze o
momenti di comunicazione con altre menti. Vive,
appunto, in un mondo “para-noico”.
come forza-lavoro, era
ridotta alla lotta per la
sopravvivenza: una lotta
condotta non insieme, ma
gli uni contro gli altri.
L’ingranaggio paranoico
del lager
alamov, dopo diciotto
anni di deportazione nella
Kolyma, è uno dei rari
così alla morte sicura dei
lavori in miniera.
Dal suo osservatorio fu in
grado di analizzare i comportamenti di medici e
infermieri, presi anche loro
nell’ingranaggio paranoico
del lager; i Racconti riportano una quantità di ritratti
di personaggi del mondo
concentrazionario e di
osservazioni sulla logica
che teneva insieme l’atti-
Quello che colpisce è anzitutto la permanenza formale
dell’etica medica anche in quel mondo parallelo, dove
sono revocati i diritti umani e i valori abitualmente presenti nella nostra convivenza sociale
sopravissuti. La testimonianza letteraria di quel
mondo ha preso forma nei
Racconti della Kolyma. Può
essere utile ripercorrere la
sua esperienza tenendo
presente la nostra domanda iniziale: come si può
conciliare medicina e indifferenza per la vita umana?
Dentro l’inferno della
Kolyma, infatti, erano previsti servizi medici. Lo stesso alamov deve la sua vita
al fatto che un medico
detenuto nel 1946 lo
destinò ai corsi di addestramento per infermieri
che si tenevano nell’ospedale centrale, scampando
vità professionale rivolta a
salvare la vita con una concezione ideologica centrata
sull’assoluto disprezzo per
la vita dei prigionieri.
Colpisce anzitutto la permanenza formale dell’etica
medica anche in quel
mondo parallelo, dove
sono revocati i diritti
umani e i valori abitualmente presenti nella nostra
convivenza sociale.
Nell’addestramento dei
futuri infermieri viene
inculcato «come deve essere la vera medicina nel
lager»: infatti, «la mostruosità della vita nel lager non
deve distogliere il medico
il polso letterario
Alcuni approdano nel
paese di Paranoia spinti
dalla malattia: sono l’oggetto di studio e, quando
possibile, di cura degli psichiatri. Altri vi entrano per
libera scelta, perché
abbracciano un’ideologia
totalitaria. È quanto avviene, immaginiamo, per chi
aderisce al terrorismo.
Una terza categoria di abitanti di Paranoia sono le
vittime degli universi concentrazionari. Per estensione nel tempo e nello spazio
e per numero di persone
coinvolte, i lager nati come
gulag staliniani meritano
un infame primato. La
testimonianza letteraria
più incisiva è quella di
Varlam alamov, deportato
nell’immenso territorio
della Siberia nordorientale
al di sopra del circolo polare artico, nella regione
della Kolyma. Milioni di
persone vi sono state inviate, soprattutto nel periodo
del maggior terrore staliniano, negli anni 19371938, in base al famigerato
art. 58 della Costituzione
sovietica, con l’accusa di
essere “spie”, “sabotatori”,
“controrivoluzionari”. Il
freddo, la fame, il lavoro
bestiale nelle miniere
hanno falciato un numero
incalcolabile di vite umane.
L’esistenza dei deportati,
considerati esclusivamente
99
dalla retta via».
alamov spiega: «Tutti i
nostri insegnanti cercavano di coltivare in noi l’onestà morale e con digressioni liriche ci descrivevano
quel loro ideale di purezza,
cercavano di coltivare il
senso di responsabilità
verso il grande compito di
aiutare i malati, malati che
erano per di più detenuti, e
per di più detenuti della
Kolyma – ripetendo, come
potevano, le stesse cose
che erano state loro inculcate negli anni della giovinezza dagli istituti, dalle
facoltà di medicina, dal
giuramento di Ippocrate».
L’inversione dei valori
Anche in pratica, per alcuni
Per saperne di più G. Knopp, Complici ed
esecutori di Hitler.
Corbaccio, Milano, 2000.
V. alamov, I racconti
della Kolyma. Adelphi,
Milano, 1999.
A. Solenicyn, Arcipelago
Gulag. Mondadori,
Milano, 2001.
A. Solenicyn, Una giornata di Ivan Denisovi.
Einaudi, Torino, 2006.
gli ideali dell’etica medica
erano una cosa viva, in un
mondo in cui gli esseri
umani assomigliano alla
natura congelata dal freddo
e riescono ancora a pensare e agire solo al livello più
infimo, al di sotto della
stessa animalità.
«Si era creato un gruppo di
medici e infermieri che
cercavano di fare ogni cosa
nel migliore dei modi. Per
moltissimi di loro si trattava di un dovere sacro: rendere un servizio per la preparazione medica ricevuta,
aiutare la gente».
Ma a proprio rischio: nell’inversione di valori e
significati dell’universo
concentrazionario, la comprensione può comportare
la morte e la bontà può
essere interpretata come
ribellione.
alamov non condivide la
convinzione di Aleksandr
Solenicyn (che in Una
giornata di Ivan Denisovi
descrive lo stesso ambiente
del gulag e le strategie per
la sopravvivenza al grado
più elementare) secondo
cui la sofferenza può condurre alla salvezza e perciò
la vita nel lager può avere
anche aspetti positivi: per
alamov la sofferenza
estrema può solo portare
alla brutalizzazione dell’uomo. Tuttavia nell’universo del lager da lui
100 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
descritto non mancano
figure positive a tutto
tondo.
Accanto al dottor Doktor,
descritto come «una vera
canaglia... odiava i detenuti. Non li trattava semplicemente male o con diffidenza. Li tiranneggiava, li umiliava ogni giorno e ogni
momento, cercava pretesti,
li offendeva e si valeva
ampiamente del suo potere, illimitato nell’ambito
dell’ospedale, per riempire
le celle d’isolamento, le
unità di correzione. Non
considerava gli ex detenuti
degli essere umani», si staglia la figura eroica del dottor Loskutov: «Uomo di alte
qualità morali, subordinò
tutta la sua vita di medico
del lager, a un unico compito: aiutare attivamente e
costantemente gli altri, in
primo luogo i detenuti. Un
aiuto che non era assolutamente solo medico. Trovava
sempre il modo di sistemare qualcuno, di raccomandarlo per un lavoro dopo
che era stato dimesso dall’ospedale».
Essere ancora capaci,
nonostante tutto
Più utili a capire il mondo
parallelo in cui vivono gli
abitanti del lager non sono
i ritratti a due colori, il
“DOTTOR MORTE”
SULLO SCHERMO
Anche nel cinema si possono trovare esempi di storie, vere o fittizie, che hanno come protagonisti
medici che vengono meno alla loro
missione per seguire un’ideologia.
Gregory Peck è il dottor Josef Mengele in
I ragazzi venuti dal Brasile
I ragazzi venuti dal Brasile, di Franklin Schaffner (1978)
Anni ‘70: Josef Mengele, il cosiddetto angelo della morte
di Auschwitz che usava i prigioneri per esperimenti genetici, è ancora vivo e si trova in Paraguay. Sta portando
avanti un progetto scientifico cominciato alla fine della
Seconda guerra mondiale: clonare Adolf Hitler. Un anziano
ebreo cacciatore di nazisti (Laurence Olivier) si mette sulle
sue tracce e cerca di impedire la nascita di una nuova
razza hitleriana fondata su manipolazioni genetiche.
Il maratoneta, di John Schlesinger (1976)
L’ex criminale nazista Szell (Laurence Olivier) ha il problema di recuperare il suo bottino di guerra: i diamanti frutto dell’internamento degli ebrei nei campi di sterminio.
Ispirato alla figura di Josef Mengele, questo personaggio
è ancora una volta l’esempio di un medico asservito a un
regime, che utilizza le sue conoscenze di dentista per torturare il suo avversario (Dustin Hoffman).
L’ultimo Re di Scozia, di Kevin Macdonald (2006)
Agli inizi degli anni ‘70, un giovane medico scozzese, partito alla volta dell’Uganda per scopi umanitari, finisce per
diventare il medico personale e il principale confidente
del dittatore del Paese: Amin (Forest Whitaker, Oscar
miglior attore 2007). Inizialmente affascinato dalla personalità e dal carisma del tiranno africano, in un secondo momento il protagonista prenderà coscienza di tutta la
sua ferocia e crudeltà. Basato su una storia vera.
il polso letterario
bianco o il nero, ma quelli
che danno conto delle sfumature, anzi delle contraddizioni. Come, per esempio, il profilo del dottor
Pëtr Ivanovi Merzljakov,
che dà conto di un atteggiamento complesso;
Merzljakov può essere,
contemporaneamente,
“salvatore” e “persecutore”
dei suoi pazienti. L’essere
medico non lo mette, univocamente, dalla loro
parte: proprio dalla scienza
medica mutua le conoscenze necessarie a smascherare i detenuti che
simulano una malattia per
salvarsi dal lavoro forzato
che li porta alla morte.
«Più della metà del suo
tempo lavorativo Pëtr
Ivanovi la passava a smascherare i simulatori.
Naturalmente capiva bene
le cause che spingevano i
detenuti alla simulazione.
Lui stesso fino a poco
tempo prima era stato un
detenuto, e non lo stupivano né l’infantile ostinazione dei simulatori, né la
sconsiderata ingenuità
delle loro finzioni. Ex
docente in uno degli istituti
siberiani, Pëtr Ivanovi
aveva fatto la sua carriera
scientifica su quelle stesse
nevi dove certi pazienti
cercavano di salvarsi la vita
ingannandolo. Non si può
dire che non provasse pena
101
per quelle persone. Ma era
più medico che uomo, era
prima di tutto uno specialista. Era fiero che un anno
ai lavori comuni non avesse avuto la meglio sul
medico specialista. Non
guardava al compito di
smascherare i simulatori
dal punto di vista di un
qualche superiore interesse
dello Stato, né da posizioni
morali. Ci vedeva una giusta applicazione delle proprie conoscenze, della propria capacità psicologica di
tendere trappole – trappole
in cui, per maggior gloria
della scienza, dovevano
cadere uomini affamati,
disgraziati, sull’orlo della
follia. In questa lotta tra il
medico e il simulatore
tutto stava dalla parte del
medico: migliaia di astute
medicine, centinaia di
manuali, una ricca attrezzatura, l’aiuto della scorta,
l’enorme esperienza dello
specialista, mentre dalla
parte del malato c’era soltanto l’orrore del mondo
che aveva lasciato per venire all’ospedale e nel quale
aveva paura di ritornare.
Era proprio questo orrore a
dargli la forza di lottare.
Smascherando l’ennesimo
simulatore, Pëtr Ivanovi
provava un piacere profondo: ancora una volta la vita
gli dimostrava che era un
bravo medico, che non
aveva perduto la sua professionalità, ma che al contrario l’aveva affinata, limata – in una parola che era
“ancora capace?».
Gli sguardi che alamov ci
ha permesso di gettare nel
mondo della Kolyma non ci
danno elementi per poter
rispondere alla domanda
su come si possa essere,
contemporaneamente,
medici e terroristi. Ci
102 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
fanno, però, almeno balenare la complessità che
nasce quando il totalitarismo ideologico e la violenza sistematica annettono la
medicina, per farla aderire
ai propri fini. La realtà
“paranoica” ha singolari
somiglianze con il mondo
“normale”: vi transitano
esseri umani (pochi) che
hanno fatto della diffusione del Bene l’obiettivo
della loro vita; altri (molti)
che si sono messi a servizio
del Male, cancellando ogni
riferimento all’umanità,
propria e degli altri; altri
ancora (la maggioranza)
che oscillano tra l’uno e
l’altro polo, con molte contraddizioni e compromessi.
I medici non fanno eccezione: sono parte di questa
umanità distribuiti nelle
stesse categorie.
Sandro Spinsanti
Dallo psichiatra criminale
al vissuto del paziente
Nella storia del cinema la psichiatria è presente fin dagli inizi, ma il modo in cui è rappresentata sullo schermo è cambiato notevolmente nel tempo: è stata vista di volta in volta
come criminale, consolatrice e oppressiva. Solo negli ultimi decenni però si è osservato
un vero cambiamento: l’attenzione non è più concentrata solo sulla psichiatria o sullo
psichiatra, ma piuttosto sul mondo interiore del paziente.
Giovanni Maio
La settima arte
gnuno ha in mente
una sua immagine
della psichiatria, con la
quale però la maggior parte delle persone non hanno mai avuto a che fare,
neanche indirettamente: la
loro idea è quindi evidentemente filtrata dai media,
che giocano in generale un
ruolo importante nella formazione di immagini e
rappresentazioni e che, in
qualità di cantastorie del
nostro tempo, raccontano
alle persone storie che sono espressione di una cultura comune.
Fra tutti i media, il cinema
ha una posizione particolare perché aprendo nuovi
orizzonti soddisfa un dato
bisogno degli uomini, e li
affascina con la sua immediatezza e la sua capacità
di suggestione.
Per la psichiatria si pone
quindi la domanda di
come viene interpretata e
valutata in queste storie. Le
immagini che si formano
in questo modo appartengono alla base culturale
sulla quale si costruisce la
realtà.
L’importanza di questa
domanda diventa più chiara se si pensa che in un
la settima arte
Al cinema per divertirsi? Sì,
certo. Al cinema per emozionarsi? Anche. Al cinema per riflettere? Perché no! Il cinema
ci rimanda volentieri i vissuti di
malattia, guarigione, nascita e
morte, che costituiscono la trama essenziale della nostra esistenza corporea. Questo rispecchiamento offre grandi opportunità per riflettere, in quanto
attività di pensiero. Per le medical humanities il cinema è
una manna. Con una sola difficoltà: scegliere tra le tante offerte che la settima arte ci propone a ritmo incalzante.
O
103
film su dieci vengono rappresentate, direttamente o
indirettamente, malattie
psichiche, e così ogni spettatore riceve involontariamente rappresentazioni
mediate della psichiatria.
Attraverso i film vengono
trasmessi molti stereotipi,
di cui alcuni particolarmente significativi.
Scenario della commedia
Il primo psichiatra è apparso sullo schermo nel 1906,
in un cortometraggio muto
americano di 20 minuti,
intitolato Dr. Dippy’s sanitarium. In questa commedia i residenti di un reparto
psichiatrico riescono a
sopraffare il nuovo guardiano e in varie scene
slapstick lo usano come
trastullo, finché compare
l’“eroe”, il dottor Dippy, con
un cestino da picnic e
riconduce alla calma i
rivoltosi distribuendo il
cibo. Il dottor Dippy non è
assolutamente un’invenzione del film, ma un’elaborazione cinematografica
di un personaggio dei
fumetti all’epoca molto
popolare.
Si potrebbe pensare che
questo sia un film sulla psichiatria, e in effetti nella
maggior parte dei film la
clinica psichiatrica è
immersa in una luce altrettanto insolita. Però in questo modo si ignorerebbe la
condizione drammaturgica
basilare: qui il reparto psichiatrico non è che lo sfondo sul quale si sviluppa la
commedia. L’azione si
sarebbe potuta svolgere
altrettanto bene in una
scuola o in un campo di
calcio: è importante solo la
piattaforma sulla quale è
possibile la slapstick
comedy. Se agli inizi della
storia del cinema si ricorre
spesso al reparto psichiatrico, è perché la commedia è stata uno dei primi
generi del film muto, e il
reparto psichiatrico si offriva bene come scenario. Lo
psichiatra come personaggio comico rimane comunque un tema popolare
anche in epoche successive; una rielaborazione più
L’autore
Giovanni Maio è professore di bioetica,
direttore dell’Istituto di bioetica e storia della medicina,
Università di Friburgo, Germania
[email protected]
104 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
recente dello stesso tema è
rappresentata nel film
americano Tutte le manie
di Bob (1991).
Scenario del thriller
Per il cinema la psichiatria
non è solo lo scenario per
le commedie: è altrettanto
appropriato per i thriller.
Alla rappresentazione dello
psichiatra come personaggio comico è seguita presto
la contestualizzazione della
psichiatria nell’orizzonte
del pericolo. Uno dei più
famosi thriller della storia
del cinema, e il più famoso
film muto tedesco, è Il
gabinetto del dottor
Caligari (1919), di Robert
Wiene, in cui l’ipnotizzatore Caligari fa uccidere
diverse persone dal suo
sonnambulo Cesare. Dopo
che uno studente lo smaschera, si scopre che
Cesare è in realtà un
paziente del manicomio, il
cui direttore è proprio
Caligari. Il tema quindi è
quello dello psichiatra
come criminale.
Secondo lo storico dei
media Siegfried Kracauer,
la psichiatria, nello spirito
originale della sceneggiatura di Wiene, è un simbolo
dell’onnipotente autorità
statale. Nel famoso libro
Da Caligari a Hitler,
Kracauer interpreta Cesare
come l’uomo della strada,
che sotto la pressione del
servizio militare è addestrato a uccidere e a essere
ucciso a sua volta. La scoperta che lo psichiatra è
Caligari significa che il
potere assoluto dev’essere
stigmatizzato e l’autorità
stessa è costretta ad abdicare: il messaggio è quindi
fortemente politico.
indirettamente; si potrebbe
anche sostenere che il messaggio originale è stato
ribaltato dalla trama.
Se dunque nel Gabinetto
del dottor Caligari lo psichiatra viene rappresentato
come un criminale, è significativo che nel film di
Douglas Fairbanks Quando
le nuvole volano via, dello
stesso anno, si trovi il tema
dello psichiatra che si sco-
Gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta sono stati l’epoca d’oro della psicoanalisi, soprattutto in America.
Analogamente, gli anni dal 1957 al 1963 sono considerati «l’epoca d’oro della psichiatria al cinema»
pre essere un paziente fuggito dalla psichiatria.
La psichiatria è quindi rappresentata spesso come
scenario per i thriller, e non
è raro che il ruolo del cattivo venga attribuito allo psichiatra, come nei primi
film della serie del Dottor
Mabuse, in particolare nel
Testamento del dottor
Mabuse (1932) di Fritz
Lang. Un esempio rappresentativo è anche il film La
morte dietro il cancello
(1972), in cui lo psichiatra
alla fine viene smascherato
come il vero assassino. Più
recentemente, anche Il
silenzio degli innocenti
Rifugio e consolazione
Spesso la clinica psichiatrica appare in una luce negativa, ma non sempre. Oltre
al personaggio comico
(dottor Dippy) e al cattivo
(dottor Evil), c’è anche l’eroe, il dottor Wonderful. Un
esempio è il film La tela del
ragno (1955), di Vincente
Minnelli, in cui Richard
Widmark è lo psichiatra di
una clinica privata ed elegante, amministrata in
buona parte dagli stessi
pazienti. Questo film
mostra molti segni caratteristici della psichiatria, e
soprattutto una certa
demedicalizzazione: i
pazienti sono a malapena
distinguibili dai non
pazienti e la terapia si attua
primariamente in forma di
colloqui personali che arrivano sempre a una catarsi.
Il film suggerisce che i
pazienti hanno solo bisogno di affetto e comprensione, e l’eroe-psichiatra,
dal momento in cui si
mostra empatico, li può
guarire.
Bisogna osservare che gli
anni Cinquanta e l’inizio
dei Sessanta sono stati l’epoca d’oro della psicoanalisi, soprattutto in America.
Analogamente, gli anni dal
la settima arte
Ma l’aspetto interessante è
che il regista ha cambiato
la sceneggiatura originale
in un punto cruciale: nella
scena finale tutta la storia è
raccontata da un degente
del manicomio, e solo nella
sua immaginazione il direttore era il “cattivo”. Questa
scena finale, in cui tutta
l’azione è rappresentata
solo come vaneggiamento
di un malato di mente,
distorce il messaggio del
film: mentre la sceneggiatura originale svelava la follia che si nasconde dietro
l’autorità, la versione definitiva contiene questa critica (se la contiene) solo
ricade in questa categoria.
105
1957 al 1963 sono considerati «l’epoca d’oro della
psichiatria al cinema»,
come li hanno descritti
Krin e Glen Gabbard. A loro
avviso, in quel periodo è
stata rappresentata un’immagine idealizzata della
psichiatria e soprattutto
dello psichiatra: in sette
anni lo psichiatra amabile
e sempre premuroso si
trova in non meno di 22
film americani, fra cui il
più emblematico è sicuramente Freud, passioni
segrete (1962) di John
Huston.
La psichiatria
come potere repressivo
Già negli anni Sessanta,
tuttavia, la psichiatria era
diventata una delle istituzioni sottoposte a feroci
critiche, soprattutto dagli
stessi psichiatri “impegnati”. Da qui si è sviluppato
per saperne di più
G. Gabbard, K. Gabbard,
Cinema e psichiatria.
Cortina, Milano, 1995.
S. Kracauer, Da Caligari
a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco.
Lindau, Torino, 2001.
un vero e proprio movimento antipsichiatrico,
culminato a metà degli
anni Sessanta e basato
sulla tesi che la definizione
della malattia psichica è
una costruzione esclusivamente sociale, che serve
solo a disciplinare chi è
diverso o pensa in modo
diverso. Il movimento
accusava in particolare il
trattamento psichiatrico
dei pazienti e chiedeva alla
psichiatria di rinunciare a
ogni mezzo di costrizione.
Il romanzo Qualcuno volò
sul nido del cuculo (1962)
di Ben Kesey conteneva già
questa tesi, ed è servito
come modello per l’omonimo film, girato significativamente solo 13 anni dopo,
quindi in un’epoca in cui
nel mondo scientifico l’utilità del trattamento psichiatrico era tornata gradualmente in auge. Eppure
la psichiatria come potere
repressivo è un tratto
distintivo del film di
Forman, che come regista
di origine ceca voleva criticare la psichiatria nel blocco orientale.
Comunque il film ha invertito il messaggio originario
del libro: nel romanzo il
protagonista riesce a liberare dall’angoscia gli altri
pazienti, che tornano a
sentirsi persone sane. Il
messaggio che i pazienti
106 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
psichiatrici in certe condizioni sono più sani dei
pazienti “sani” nel film
viene sovvertito nel messaggio opposto: di base,
tutti i pazienti psichiatrici
hanno bisogno dell’istituzione. Solo il protagonista
McMurphy è, come l’uovo
del cuculo, approdato all’istituzione sbagliata.
Rispetto al libro, balza agli
occhi la concentrazione del
film su una lotta di potere
individuale. Tutto il film si
costruisce di più sulla lotta
fra McMurphy e l’infermiera Miss Ratched che sul
messaggio politico. Il personaggio di McMurphy,
che nel romanzo si sacrifica per la liberà degli altri,
nel film diventa un banale
eroe americano. Il messaggio del film resta così
ambivalente: da un lato i
pazienti sono effettivamente dei malati e appartengono alla psichiatria;
dall’altro la lotta di potere
(personale) contro una
rappresentante della psichiatria inevitabilmente
mette la psichiatria stessa
in una luce negativa e la
mostra come repressiva.
La psichiatria come repressione non entra nella storia
del cinema con Forman:
molto prima c’erano altri
film dello stesso tipo, fra
cui il più famoso è sicuramente La fossa dei serpenti
Il ruolo della famiglia
e degli amici
Oggi non si potrebbe girare
un film come Qualcuno
volò sul nido del cuculo: è
cambiata la percezione
sociale della psichiatria,
ma è cambiata anche la
psichiatria stessa.
Guardando i nuovi film si
nota che il tenore è completamente diverso: è evidente la depoliticizzazione
del tema, e al centro dei
nuovi film non c’è più la
beautiful mind (Oscar
come miglior film) del
2001, che racconta la storia
di John Nash, premio
Nobel per l’economia nel
1994, malato di schizofrenia per 25 anni.
Nel film il giovane Nash è
ricoverato forzatamente in
una clinica psichiatrica,
dove vive il trattamento
«I sanatori hanno due compiti: la guarigione dei malati e la difesa della società. Soprattutto la seconda ci
interessa tutti, ed è facile da realizzare. Me l’hanno
insegnato 30 anni di esperienza professionale»
psichiatria come istituzione, né la lotta di potere,
bensì la vita interiore dei
malati. La psichiatria (con
l’eccezione di alcuni film
dell’Europa orientale) non
è più oppressione, né carcerazione, né custodia; non
è più il luogo della consolazione né del ritrovarsi.
Un buon esempio di questo nuovo approccio cinematografico alla psichiatria
è Shine (1996), di Scott
Hicks, in cui è descritto l’isolamento interiore di un
pianista schizofrenico. Nel
film spicca la rappresentazione notevolmente ottimistica della trattabilità della
schizofrenia. Lo stesso
tema caratterizza anche A
con shock insulinico come
una tortura e la terapia farmacologia come «confondente».
Il protagonista rifiuta ogni
altro trattamento clinico,
perde il suo posto di lavoro
e vaga per il mondo, per
poi tornare alla sua università, dove viene accettato.
Alla fine riesce a trovare un
modo di convivere con la
sua malattia. È particolare
in questo film il ruolo dei
colleghi, della famiglia e
degli amici, che con la
comprensione, vedendo la
persona dietro la malattia,
lo proteggono dall’isolamento e permettono il suo
ritorno a una relativa normalità.
la settima arte
(1948) di Anatole Litvak. La
psichiatria come istituzione dell’oppressione era
anche stata il tema del film
Una splendida canaglia
(1966) di Irvin Kershner, in
cui Sean Connery guida la
resistenza contro la psichiatria oppressiva.
Un altro esempio molto
indicativo è La fossa dei
disperati (1958) di Georges
Franju, tratto da un romanzo di Hervé Bazin, che con
il suo libro voleva denunciare la psichiatria francese:
un uomo, che il padre non
ama e fa ricoverare, sano, in
psichiatria, è un tema che
torna sempre rielaborato
nella storia del cinema. Il
film di Franju è dichiaratamente critico verso la psichiatria; lo si vede per
esempio dalla definizione
di psichiatria messa in
bocca al responsabile della
clinica psichiatrica: «I sanatori hanno due compiti: la
guarigione dei malati e la
difesa della società.
Soprattutto la seconda ci
interessa tutti, ed è facile da
realizzare. Me l’hanno insegnato 30 anni di esperienza
professionale».
107
Questo film è tipico dell’approccio moderno, che
si dedica soprattutto al
mondo interiore dei malati.
Anche qui si tratta in particolare dello sviluppo della
capacità di sconfiggere la
malattia. I lati meno piacevoli del carattere di Nash,
descritti nel libro, non trovano spazio nel film. Il
messaggio significativo è
che i malati, con l’aiuto del
loro ambiente, possono
riuscire a trovare un modo
di convivere con la schizofrenia e quindi a ottenere
un riconoscimento sociale.
Un altro esempio della
moderna concentrazione
sul mondo interiore dei
pazienti è il pluripremiato
Un angelo alla mia tavola
(1990), di Jane Campion: la
versione cinematografica
del ciclo di romanzi della
scrittrice australiana Janet
Frame, che supera la schizofrenia per mezzo della
scrittura.
Certo, non tutti i film
moderni sono ottimistici:
nella recente storia del
cinema sono numerosi i
film in cui il tema principale è la distruzione progressiva della mente dei malati
di Alzheimer. Uno dei più
famosi è Iris (2001) di
Richard Eyre, tratto dal
libro Elegy for Iris di John
Bayley, in cui lo scrittore
racconta la malattia di sua
moglie. Dal punto di vista
108 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
dell’etica della medicina è
particolarmente interessante il film tv americano
Mercy or murder? (1987), di
Steven Gethers, in cui un
marito aiuta a morire la
moglie, malata di
Alzheimer e incapace di
intendere. Un film tv tedesco che affronta questo
tema è Reise in die
Dunkelheit (letteralmente
“Viaggio nell’oscurità”) di
Berthold Mittermayr, del
1997. È probabile che il
tema dell’Alzheimer in
futuro sarà ripreso da molti
film. Sarà molto interessante vedere quale ruolo giocherà la psichiatria.
Giovanni Maio
L’insostenibile leggerezza
della futility
Le discussioni etiche e linguistiche sull’accanimento terapeutico non sono un’esclusiva
italiana: la parola inglese futility dà luogo ad altrettanti dibattiti. In Francia all’espressione acharnement si sta preferendo obstination. Seguendo quest’esempio, in Italia si
potrebbe adottare il termine “ostinazione”, preferibile anche a “futilità”. Ma il vero problema è che non si può definire oggettivamente quello che è soggettivo.
Daniela Tarquini
Grammatiche mediche
espressione “accanimento terapeutico” è
usata solo nelle lingue romanze: l’equivalente per gli
anglosassoni è il termine
futility.
Secondo il Webster
Unabridged Dictionary, la
definizione di futility è:
«The quality of being useless or ineffectual», dal latino futilis (ciò che non
può tenere o contenere, e
per traslato vano, leggero,
frivolo).
Nel luglio del 2000 sul New
England Journal of
Medicine è comparsa sull’argomento una breve
review: “The rise and fall of
the futility movement”.
Secondo gli autori (Paul
Helft, Mark Siegler e John
Lantos), il concetto di futilità medica si è sviluppato
negli Stati Uniti dal 1987 al
1996. Il fatto che gli articoli
sul tema nel 1999 erano
solo 31 li ha portati a concludere che il movimento si
è praticamente estinto.
Il movimento avrebbe
avuto un intento preciso:
convincere la società che i
medici possono usare il
loro giudizio clinico e il
loro sapere epidemiologico
per valutare l’inutilità di un
grammatiche mediche
Che lingua si parla in medicina?
La questione non può esulare
dagli interessi di Janus. Perché
chi non parla bene non pensa
bene; e chi non pensa bene non
può operare bene. Ma anche
perché l’esperienza umana non
è completa se, oltre al vero e al
buono, non facciamo spazio al
bello. A cominciare dalla bellezza che prende corpo nel linguaggio. In questa rubrica ospitiamo riflessioni che riconducono alla medicina parlata, ossia
alla medicina come momento
essenziale di una comunicazione tra esseri umani.
L’
109
particolare trattamento in
una determinata situazione
e che, di conseguenza,
sarebbero autorizzati a non
iniziare o a sospendere un
trattamento anche senza il
consenso di un paziente
competente.
Nella review gli autori riassumono i vari tentativi fatti
per chiarire cosa si intende
quando si usa il termine
“futile”; nessuna delle solu-
limita a conservare uno
stato di permanente incoscienza o non in grado di
modificare la dipendenza
totale dalle terapie intensive. Quando un trattamento
viene definito futile i medici non hanno alcun dovere
etico di effettuarlo (si sottintende che l’efficacia di
un trattamento non equivale necessariamente a un
beneficio).
Si potrebbe sostituire ad “accanimento terapeutico” la
dizione anglosassone futility? Questo termine ha in italiano (e in genere anche in inglese) un’insostenibile
leggerezza che mal si coniuga con la sua sostanza
zioni ha avuto un consenso
molto ampio.
La valutazione empirica
della futilità
Lawrence Schneiderman,
Nancy Jecker e Albert
Jonsen hanno distinto la
futilità in quantitativa e
qualitativa: da un punto di
vista quantitativo, quando i
medici concludono che
negli ultimi 100 casi un
trattamento medico è stato
inutile, dovrebbero considerarlo futile. Da un punto
di vista qualitativo, un trattamento è futile quando si
Alcuni autori hanno sostenuto nell’articolo “The illusion of futility in medical
practice” che nessuno
meglio del paziente sa cosa
sia meglio per lui, e che
quindi la futilità non può
essere stabilita oggettivamente, ma deve essere
determinata in base alle
opinioni e agli scopi del
paziente. La valorizzazione
dell’autonomia del paziente è stata affermata anche
da Alan Brett, Lawrence
McCullough e Robert
Veatch.
Altri però, fra cui John Paris
e Frank Reardon, hanno
obiettato che il medico non
110 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
può essere considerato
solo il braccio dei voleri del
paziente: ci sono limiti ai
suoi obblighi di cura quando, secondo la sua opinione, questa cura è futile.
Delese Wear e David
Doukas hanno suggerito il
cosiddetto approccio etico
preventivo: il medico di
base dovrebbe discutere le
decisioni sulla futilità della
cura prima che si verifichino situazioni cliniche particolari. Se però da una
parte il contesto della relazione medico-paziente
sembra quello più appropriato, dall’altra il dover
decidere in assenza di
malattia rende le decisioni
opinabili (il paziente
potrebbe cambiare idea
quando si ammala). Nella
pratica comunque questo
approccio è poco usato.
Altri ancora, fra cui Bruce
Zawacki e Robert Truog,
hanno sostenuto la proposta dell’approccio passo
dopo passo: quando le circostanze lo richiedono, si
cerca di spiegare la situazione, si prospettano le
varie opzioni, si apre una
negoziazione arrivando a
dei compromessi (con la
consulenza dei comitati
etici o dei legislatori).
Vari singoli ospedali o Stati
inoltre hanno elaborato
linee guida sull’argomento
(esempi importanti sono le
stante il termine “futile”
renda pienamente la sensazione del medico rispetto
a determinate cure, non si
è ancora arrivati a descrivere criteri univoci. La conclusione degli autori della
review è che non ci sono
regole che ci consentano di
evitare il dialogo e la
discussione con i pazienti e
i loro familiari; anzi, la
discussione esposta non fa
che sottolineare come parlare con i pazienti e le loro
famiglie deve rimanere al
centro degli sforzi dei
medici.
La pesantezza
dell’accanimento
In Italia gli studiosi di etica
hanno cercato di individuare a livello teorico criteri moralmente validi che
consentano al medico di
non ricorrere a provvedimenti che, anziché migliorare la qualità e la durata
della vita del paziente,
rischiano solo di prolungare il processo del morire e
di accrescere la sofferenza
del paziente.
Un primo orientamento,
proposto durante il magistero di Pio XII nell’ambito
della morale medica di
ispirazione cattolica, è
stato quello di differenziare
i mezzi a cui si fa ricorso
per contrastare la morte in
mezzi ordinari e mezzi
straordinari: quando gli
sforzi hanno carattere di
straordinarietà è meglio
tralasciarli, mentre è
moralmente obbligatorio
fare tutto quanto ha carattere di ordinarietà.
Questo criterio è stato
adottato anche dalla morale laica: la maggior parte
degli studiosi di vario
orientamento concorda nel
sostenere che non è sempre doveroso impiegare
ogni mezzo disponibile per
salvare la vita umana, qualora i mezzi da impiegare
comportino per il paziente
un onere troppo gravoso.
La differenziazione fra
mezzi ordinari e mezzi
straordinari ha avuto una
sua utilità negli anni
Cinquanta per sviluppare
un pensiero etico più sfumato rispetto al tutto o
nulla, ma ben presto ci si è
resi conto che nella pratica
sanitaria il principio di
straordinarietà dei mezzi è
difficile da utilizzare. Per
essere operativo deve essere abbinato a qualche altro
criterio: per esempio, stabilire se l’intervento terapeutico previsto prolunghi la
vita o soltanto il processo
del morire.
Inoltre la straordinarietà
non è insita nei mezzi stessi: gli antibiotici, per esem-
grammatiche mediche
Guidelines for the use of
intensive care in Denver e la
Houston Citywide policy on
Medical Futility). Anche in
questo caso emerge la difficoltà di arrivare a un consenso; vengono riaffermati
il divieto di una decisione
unilaterale da parte dei
medici e l’invito a utilizzare
comitati multidisciplinari
prima di ricorrere alla
legge; viene inoltre lasciata
aperta la possibilità di trasferire a un altro medico o
a un’altra istituzione la
cura del paziente, nel caso
non si arrivi a una risoluzione condivisa.
La review conclude:
«Nonostante il dibattito
sulla futilità sembra essersi
esaurito, il problema di
cosa fare nel caso di trattamenti che abbiano un
beneficio minimo rimane
aperto. Che la discussione
sia stata così animata è
comprensibile per vari
motivi: la speranza di arrivare a conclusioni condivise, come nel caso della
morte cerebrale; la preoccupazione delle conseguenze dell’illusione di controllare la vita e la morte che i
progressi della tecnologia
hanno creato; non ultimo il
problema del contenimento dei costi in sanità».
Il problema di prendere
decisioni sulla futilità continua a esistere, ma nono-
111
pio, sono una risorsa farmaceutica standard e del
tutto ordinaria per curare
una polmonite, ma potrebbero non essere considerati
una procedura ordinaria se
somministrati a un paziente in coma irreversibile con
una polmonite.
È stata quindi preferita a
Per saperne di più C.A. Defanti,
Vivo o morto?
Zadig, Milano, 1999.
C.A. Defanti “In memoria
di Piergiorgio Welby”.
http://bioetiche.
blogspot.com/2006/12/
in-memoria-di-piergiorgiowelby-di.html
P. Helft, M. Siegler,
J. Lantos, “The rise and
fall of the futility
movement”. In: N Engl J
Med 2000; 343(4).
J.D. Lantos et al.,
“The illusion of futility in
medical practice”.
In: Am J Med 1989;87.
L.J. Schneiderman et al.,
“The rise and fall of the
futility movement”. In: N
Engl J Med 2000; 343.
S. Spinsanti, “Il tempo
giusto, il luogo appropriato”. In: AA.VV., Un tempo,
un luogo per morire.
Zadigroma, Roma, 2003.
questa distinzione quella
fra mezzi proporzionati e
sproporzionati; la transizione da una terminologia
all’altra è stata sottoscritta
dalla dichiarazione sull’eutanasia emanata dalla
Sacra Congregazione per la
fede nel maggio del 1980.
Secondo quest’ottica, l’accanimento terapeutico va
quindi inteso come la moltiplicazione ostinata degli
sforzi terapeutici nelle fasi
terminali della vita, spesso
attuata tramite un imponente uso di presidi e tecnologie sproporzionati in
relazione ai benefici ragionevolmente sperabili.
Accanimento, futilità,
ostinazione
Nel 1995 il Comitato nazionale per la bioetica, nel
documento Questioni relative alla fine della vita
umana, ha definito l’accanimento terapeutico come
«trattamento di documentata inefficacia in relazione
all’obiettivo, a cui si
aggiunga la presenza di un
rischio elevato e/o una
particolare gravosità per il
paziente con un’ulteriore
sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati
risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi
della condizione specifica».
112 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
Questa definizione, tutt’altro che risolutiva, presta il
fianco a varie critiche sulla
sua utilizzabilità in situazioni concrete, come
hanno sottolineato Carlo
Alberto Defanti e Sandro
Spinsanti.
La parola “accanimento” è
probabilmente ingiusta e
colpevolizzante; “accanirsi”, per il Devoto-Oli, è
«scagliarsi ferocemente su
qualcuno per infierire» o
«dar prova di rabbiosa ostinazione», mentre per
“accanimento terapeutico”
lo stesso dizionario dà una
definizione più morbida:
«cura protratta di malati
terminali». Alcuni quindi
preferiscono il termine
“ostinazione”.
Anche nella lingua francese, che utilizza come in italiano il termine accanimento (acharnement), si sta
preferendo il termine obstination. Nella nuova parte
legislativa relativa ai diritti
dei malati e alla fine della
vita, aggiunta il 22 aprile
2005 al Code de la Santé
Publique, si legge «Ces
actes [riferendosi a quelli di
prevenzione, diagnosi e
terapia] ne doivent pas être
poursuivis par une obstination déraisonnable».
Il Codice deontologico
medico, sia nella stesura
del 1995 sia in quella del
1998, con minime varianti
L’autrice
Daniela Tarquini, medico neurologo ospedaliero, è direttore Uoc di neurologia dell’Ospedale San Giacomo a Roma
[email protected]
clinico al malato o di alleviarne le sofferenze».
Si potrebbe sostituire ad
“accanimento terapeutico”
la dizione anglosassone
futility? Questo termine ha
in italiano (e in genere
anche nella lingua inglese)
un’insostenibile leggerezza
che mal si coniuga con la
sua sostanza.
Diritto alla cura,
non condanna alla cura
Dall’esperienza anglosassone si vede comunque
che l’uso di un termine
diverso dal nostro “accanimento” non ha portato una
chiarezza maggiore nella
sua definizione.
Il problema è che non si
può definire oggettivamente quello che è di fatto soggettivo. Ed è per questo che
l’accanimento terapeutico
o l’ostinazione nel trattamento, che dir si voglia,
non si può definire con una
legge: solo il paziente stesso
può stabilire quando fermarsi. Nessun atto medico,
va ricordato, può essere
Daniela Tarquini
grammatiche mediche
utilizza entrambi i termini,
dando comunque una definizione più esaustiva che
non parla di fasi terminali
della vita e introduce il criterio di qualità della vita.
L’articolo 14 (Accanimento
diagnostico terapeutico)
recita infatti: «Il medico
deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui
non si possa fondatamente
attendere un beneficio per
la salute del malato e/o un
miglioramento della qualità della vita».
Nella versione del 2006,
nell’articolo (diventato il
numero 16) viene aggiunto
«anche tenendo conto
delle volontà del paziente
laddove espresse» (aprendo così al testamento biologico). Rimane invece
invariato l’articolo 15
(Trattamenti che incidono
sulla integrità psico-fisica),
ora articolo 18: «I trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica del
malato possono essere
attuati, previo accertamento della necessità terapeutica, e solo al fine di procurare un concreto beneficio
praticato senza il consenso
del paziente, e questo consenso può essere ritirato in
ogni momento.
L’articolo 32 della
Costituzione recita:
«Nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizioni di legge». Il rifiuto delle
cure non parla di limiti, e si
fonda sull’autonomia:
posso rifiutare di farmi
togliere un dente, di assumere antibiotici e morire di
setticemia. A quanto pare
la differenza fondamentale
è nei muscoli: se sono in
grado di muovere gambe o
mani (o di alzare la voce)
posso scegliere, altrimenti
saranno gli altri a decidere
per me.
Forse poteva non esserci
bisogno di una legge ad
hoc per chiarire che il diritto alla cura non significa la
condanna alla cura: poteva
essere sufficiente la nostra
Costituzione.
I fatti però dimostrano che
non è così e che, a parte la
legge sulle direttive anticipate, per quando non saremo in grado di esprimere la
nostra volontà, dovremo
fare delle aggiunte alle
nostre leggi, magari introducendo alcuni articoli del
Codice di deontologia
medica.
113
Il problema del corpo,
tra umanismo e postumanismo
Per un umanista come Pico della Mirandola il corpo dell’uomo, a metà strada tra la bestia
e l’angelo, è immaturo, non specificato, scarsamente correlativo e perciò carente. Nella
visione postumanistica la carenza assomiglia di più alla mancanza della persona cara che
segue l’innamoramento: non presente prima dell’evento, non inerente alla biografia della
persona, non diretta verso il superamento di questa sensazione.
Roberto Marchesini
I
Il ginnasio filosofico
Quod optimus medicus sit
quoque philosophus: «È chiaro
che il miglior medico è sempre
anche filosofo». L’opinione di
Galeno si scontra con la costruzione dei saperi che è propria
del nostro tempo: medicina e
filosofia hanno preso due strade diverse. Eppure i punti di
raccordo esistono.
In questa rubrica andiamo a
cercarli, per valorizzare l’apporto del pensiero filosofico alle
medical humanities.
l corpo rappresenta nell’età contemporanea uno
dei fulcri di discussione sia
per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e scientifico delle prassi sempre
più invasive sviluppate nel
Novecento, sia nella sfera
dei diritti umani e delle
coordinate di interpretazione antropologica e sociale, come già aveva intuito Michel Foucault quando
parlava di biopolitica.
Nell’ermeneutica del corpo
esistono, tra il pensiero
umanista e quello postumanista, differenze significative che stanno caratte-
114 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
rizzando il dibattito odierno e sempre più daranno
luogo a progetti antropopoietici divergenti.
Nell’Umanismo, già a partire dagli autori del XV secolo, il corpo si propone
come fulcro di rinascita ma
in una scansione ben precisa, vale a dire nella cifra
concettuale di un corpo
evolutivo e virtuale.
Giovanni Pico della
Mirandola interpreta la
corporeità dell’uomo in
modo tensionale, non
completamente immersa
nel tellurico né capace di
una totale levitazione: l’uo-
Il corpo virtuale
Ci sono diversi aspetti che
meritano attenzione rispetto a questo corpo virtuale
che si attribuisce all’essere
umano. Innanzitutto la non
definizione declinativa lo
rende plasmabile e quindi
funzionale alla progettualità umanistica. Inoltre la
non dedicazione crea uno
iato tra l’uomo e la natura e
un operatore di disgiunzione identitaria rispetto agli
altri viventi. Infine l’essere
proteiforme lo rende capace di coestensione, perché
cifra di ogni possibile declinazione.
Il corpo virtuale pertanto
diventa fondamento stesso
del progetto umanistico di
elevazione e disgiunzione
dell’umano. Il corpo è la
malta con cui l’umanismo
costruisce il suo progetto,
da cui l’inevitabile urgenza
di sentire il corpo come
proprietà, di approcciarlo
come rivendicazione di
titolarità, di liberarlo dagli
impedimenti esterni, di
fluidificarlo allontanandolo
dai secoli bui della cristallizzazione. Per gli umanisti
il corpo deve diventare
magma attivo, aperto al
divenire e libero da ogni
specificazione imposta dall’esterno. È un corpo che
deve sancire la possibilità
dell’uomo di tenere saldamente in mano i fili del
proprio destino.
In questa visione l’umano
si caratterizza per un non
equilibrio creativo a cui né
la bestia né l’angelo possono anelare: l’uomo misura
del mondo, l’uomo creatore di mondi. Il fascino
indubbio che ancora oggi
esercita l’Uomo di Vitruvio
di Leonardo sta proprio in
questa duplice scansione
di “corpo compasso” che lo
porta a circoscrivere il
mondo e ad aprirsi al
mondo, vale a dire a riassumere con un solo gesto le
due dimensioni. Di questa
tradizione siamo tutti un
po’ figli: il corpo è per noi
un territorio di conoscenza
e di conquista, un apparato
di dotazioni attraverso le
quali il sé pretende soddisfazione, ma anche un fardello da rendere sempre
più evanescente.
L’età moderna è caratterizzata, dopo i secoli bui della
negazione, proprio da questo modo di sentire il corpo
come una proprietà che il
sé riassume prepotentemente per inserirlo in una
dinamicità progettuale e
renderlo al di sopra di un
rango naturale.
Il corpo dell’uomo che ci
riporta la tradizione umanistica è diafano, teso naturalmente all’elevazione
perché non ancorato alla
funzione. Lo zoccolo del
cavallo è un tutt’uno con il
terreno su cui esercita il
suo dinamismo; le zanne e
gli artigli del leone diventano consustanziali con la
cute spessa dei grandi erbivori della savana; la tromba
di una farfalla è il corri-
il ginnasio filosofico
mo diventa così un cantiere aperto proprio perché a
metà strada tra la bestia,
priva di libertà, e l’angelo,
privo di tensionalità. Nel
teromorfo il corpo è la sede
della cattività, è la ragione
stessa della mancanza di
libertà, perché totalmente
funzionale alla prestazione
e quindi schiavo della dedicazione naturale. L’angelo
disincarnato non può essere tensionale e quindi progettuale. Nel corpo virtuale
dell’uomo, e solo nel suo
incarnato indefinito, l’esistere è diacronico; al contrario, tanto la bestia quanto l’angelo sono immersi in
un eterno presente, sono
cioè entità sincroniche.
L’umanismo si propone fin
dalle prime battute come
un progetto per l’uomo, e
in questo senso si potrebbe
dire che questa cornice si
fonda proprio sul diacronico. Come giustamente fa
osservare Eugenio Garin, il
farsi umano, è un tutt’uno
con la storia e viceversa.
115
spettivo della cavità del fiore. L’uomo al contrario non
ha rango, il suo corpo è immaturo, non specificato,
scarsamente correlativo e
perciò carente. La dichiarazione di un corpo carente è
solo apparentemente un
atto di umiltà (l’uomo come il punto negletto della
creazione), perché rivela
immediatamente il suo
punto di forza: la piena disarticolazione dalla natura
che gli permette la tensionalità, ossia il pieno possesso del proprio destino.
È ancora possibile oggi
interpretare l’uomo come
entità carenziale? In altre
parole, il “senso di carenza”
dev’essere tuttora letto
come un’incompletezza ab
origine, nel senso pichiano
di uomo «plasmato quando
i modelli della creazione
erano tutti esauriti» (o in
quello gehleniano di entità
portatrice di oneri)?
Oppure c’è un altro modo
più coerente e produttivo
di considerare la carenza
come percezione di una
mancanza? Su questo
aspetto si gioca la differenza più significativa tra il
pensiero umanistico e
quello postumanistico.
Infatti la carenza può
nascere dalla vacuità di un
ente ma anche dalla ridondanza dello stesso; può
sortire da un effettivo cari-
co di oneri quanto da una
tensionalità produttrice di
oneri. Si può sentire la
carenza come uno stato
primigenio da superare
oppure, come nel caso dell’innamoramento, come un
bisogno dell’altro non a
priori ma a posteriori, non
da esonerare ma da rafforzare. Ci sono allora tre
aspetti da considerare:
la percezione della
carenza, cioè su quali
coordinate si strutturi
l’idea di una carenza e
attraverso quali processi
di confronto
la natura della carenza,
cioè quali tratti vengano
considerati carenti e
perché
l’emergenza della carenza, se come processo
esonerativo o come processo integrativo.
La magmaticità
della natura umana
Secondo il paradigma
umanistico, da Pico della
Mirandola ad Arnold
Gehlen, la carenza viene
estrapolata attraverso un
confronto preconcetto tra
l’uomo e non una singola
specie animale bensì
un’entità categoriale, l’animalità, costruita apposta
per fare da sfondo all’uo-
116 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
mo. L’entità categoriale
contiene caratteri presenti
in altre specie (per esempio
il carattere predatorio e la
pulsione sessuale), ma non
attraverso un comune
denominatore (tutte le specie non umane presentano
quel carattere) bensì attraverso una sorta di rete di
condivisioni sfumate o parzialmente sovrapposte. È
quello che Wittgenstein
chiama categoria per famiglia, chiaramente per riferirsi a un’entità concettuale. È tuttavia evidente la
natura attributiva o arbitraria di questo procedimento. Il profilo di questa categoria per famiglia non corrisponde infatti a nessuna
specie, ma dà luogo a un’idea di animalità funzionale
al progetto umanistico di
creare due poli contrapposti, cioè due modalità antinomiche di incarnato: da
una parte l’animale con la
sua corporeità correlata
alla funzione, ossia pienamente inserita nella natura; dall’altra l’uomo con la
sua corporeità diafana, di
tensionalità verso la virtualità disincarnata, cantiere
aperto alla storia. La completezza dell’animale gli
nega un divenire storico,
un farsi, mentre è proprio
la carenza a dare magmaticità all’umano, a partire
dalla sua stessa corporeità.
La carenza invocata dagli
umanisti per spiegare l’incarnato umano parte già
da una precisa visione dell’uomo, la cui tendenza a
esternalizzare le funzioni,
vale a dire a utilizzare gli
strumenti, viene ritenuta
come esonerativa ed esplicativa di una nudità a prio-
nell’impostare le coordinate evolutive del corpo.
Perciò lo strumento non è
al di fuori di noi ma in noi,
cosicché non ci si può spogliare di uno strumento
con la pretesa di ritrovare
la condizione di partenza.
Lo strumento ha trasformato il corpo: togliendolo
Non ci si può spogliare di uno strumento con la pretesa
di ritrovare la condizione di partenza. Lo strumento ha
trasformato il corpo: togliendolo non si ritrova un’essenza primigenia, ma un corpo modificato
non si ritrova un’essenza
primigenia, ma un corpo
modificato.
La nudità del nostro corpo
non indica lo stato originale dell’uomo, la sua carenza
ab origine, bensì testimonia della collezione di partnership esterne che l’uomo
ha affardellato sul suo
cammino. La carenza pertanto non nasce dall’onere
originale ma dall’effetto
della partnership integrata.
Rispetto alla percezione di
ottimalità è evidente che
non si può parlare di ottimalità o di deficit sul piano
performativo senza avere
un piano di confronto:
prima della diffusione dei
personal computer e dei
cellulari, nessuno si sentiva
Un corpo
estremamente raffinato
Per quanto riguarda la
natura della carenza, ancora una volta occorre riferirsi al teromorfo come rivelatore del pregiudizio. Il volo
di un falco è considerato
un carattere biologico e
così pure il nuoto di un
delfino, l’abilità predatoria
di un gatto, l’agilità di un
roditore, la percezione
olfattiva di un cane, la
capacità di tessere di un
ragno, la complessità architettonica delle termiti e via
dicendo. Al contrario, le
proprietà esternalizzanti
dell’uomo, vale a dire la
capacità di usare supporti
(uno strumento o un insieme di segni) come qualità
caratterizzante (anche se
non in modo esclusivo)
della nostra specie viene
ritenuta metabiologica,
attinente cioè a un altro
dominio. Questo pregiudizio ci fa credere che, mentre gli altri animali sono
degli specialisti, l’uomo sia
un non specialista, cioè un
essere vivente caratterizzato da incompletezza e non
declinazione. A dire il vero
il ginnasio filosofico
ri. La percezione è in pratica questa: se l’uomo si privasse dei suoi strumenti, se
denudassimo l’uomo,
avremmo un’idea ben precisa dello stato originale e
degli oneri che i nostri lontani progenitori hanno
dovuto sopportare possedendo un corpo tanto
carente. Ma questa idea è
doppiamente errata, perché implica da un lato che
lo strumento non abbia
avuto alcun feedback sull’uomo, e dall’altro che la
percezione di subottimalità
venga prima dello strumento. Rispetto al rapporto
corpo-strumento, è provato
che qualunque strumento
interviene sia a livello filogenetico sia ontogenetico
carente di qualcosa; ora
non potremmo liberarcene
senza avvertire un senso di
carenza.
117
Per saperne di più M. Fimiani, V. Gessa
Kurotschka, E. Pulcini,
Umano Post-umano.
Editori Riuniti,
Roma, 2004.
E. Garin,
L’umanesimo italiano.
Laterza, Roma-Bari, 1993.
A. Gehlen, “Rückblick
auf die Anthropologie
Max Schelers”.
In: P. Good (a cura di),
Max Scheler in
Gegenwartsgeschehen der
Philosophie. Francke,
Bern-München, 1975.
G.O. Longo, Homo
technologicus.
Meltemi, Roma, 2001.
R. Marchesini, Il concetto
di soglia. Theoria,
Roma-Napoli, 1996.
R. Marchesini,
Post-human. Verso nuovi
modelli di esistenza.
Bollati Boringhieri,
Torino, 2002.
R. Marchesini, S. Tonutti,
Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma, 2007.
A. Santosuosso,
Corpo e libertà. Una storia
tra diritto e scienza.
Raffaello Cortina,
Milano, 2001.
R. Terrosi, La filosofia
del postumano. Costa &
Nolan, Genova, 1997.
l’esternalizzazione richiede
una specializzazione biologica di notevole consistenza: capacità astrattiva,
mnestica, prefigurativa,
prattognosica, visione
binoculare, apparato di
fonazione ad hoc. L’uomo
possiede un corpo estremamente raffinato nella
capacità di precisione operativa e percettiva, ben lontano dall’incompletezza o
dall’indeclinazione.
Di certo possedere un
sistema nervoso centrale
così magnificato (12 miliardi di neuroni con un costo
energetico di quasi il 50%
delle risorse alimentari)
rispetto al corpo che lo
deve contenere e mantenere non ci permette certo di
assurgere al ruolo di non
specialisti! La magnificazione che quest’organo ha
avuto nel corso filogenetico
dell’ominizzazione non
solo ha costretto la nostra
specie a un maggiore
dispendio di risorse, e pertanto a un maggior carico
di procacciamento alimentare, ma ha anche modificato profondamente il profilo dell’età evolutiva. Per
evitare la distocia (un neurocranio tanto capiente
rende difficile il passaggio
nel canale del parto) la
nostra specie ha dovuto
imboccare la strada del differimento dello sviluppo
118 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
fetale: il cucciolo d’uomo è
molto immaturo alla nascita. La conseguenza è un
estremo bisogno di specializzarsi nelle cure parentali.
Specializzazione è anche
complessità delle coordinate filogenetiche comportamentali che nell’uomo
non sono affatto evanescenti, come giustamente
l’etologia umana ha fatto
notare.
L’ibridazione, una nuova
dimensione umana
Per quanto riguarda infine
l’emergenza della carenza,
l’inconsistenza del presupposto umanistico, che
ancora sopravvive nel pensiero di Arnold Gehlen, è
ancora più evidente se si
paragona il concetto di
carenza esonerativa con
quello di carenza integrativa. Nella visione esonerativa la cultura diventa una
sorta di stampella all’onere
ab origine dell’uomo; da
questo derivano due conseguenze: la carenza è un
deficit che l’uomo cerca di
superare per raggiungere
uno stato di equilibrio
performativo; la cultura
può essere estratta per
calco negativo dalla carenza, cioè è in qualche modo
un evento necessitato.
Questi due aspetti sono i
luogo a una dimensione
nuova dell’esistere. In questo senso l’esternalizzazione non va intesa come
non autarchica, della condizione umana. Ma è proprio la ricchezza dei contenuti, la ridondanza del
«Secondo la filosofia postumanista l’uomo non è in
grado da solo di spiegare l’umano. Il non umano si
affaccia alla soglia dell’uomo e trova un sistema aperto
all’accoglienza»
compensazione di una
mancanza, ma nemmeno
in senso macluhaniano di
estensione e amputazione
dei caratteri inerenti dell’uomo. L’esternalizzazione,
per esempio l’invenzione
di uno strumento, va considerata come un processo di
ibridazione che dà vita a
una nuova dimensione
della condizione umana.
L’emergenza culturale è
quindi un atto creativo e
contingente, capace di
aprire la strada a una
dimensione dell’umano
che non era prevista prima
che l’atto di partnership
arrivasse a compimento.
Ora è chiaro che privarsi
del partner con cui quella
dimensione è stata costruita significa sentirsi di colpo
carenti; ma questo non può
essere usato come rivelatore della condizione originale, bensì come indicatore
della natura integrativa,
sistema uomo, che gli permette di costruire eventi
ibridativi, ossia di allargare
il dominio della propria
interfaccia con il mondo.
Attraverso le esternalizzazioni l’uomo costruisce le
sue carenze, non tanto perché amputa il proprio corredo, il cosiddetto effetto
reversivo prospettato da
Darwin, ma perché inaugura nuove dimensioni esistenziali che possono essere raggiunte solo in una
condizione di partnership.
C’è un progetto
per l’uomo?
Secondo la filosofia postumanista l’uomo non è in
grado da solo di spiegare
l’umano: non è cioè autosufficiente nella definizione antropopoietica. Il non
umano si affaccia alla soglia dell’uomo e trova un
il ginnasio filosofico
più critici perché implicano degli assunti chiaramente contraddittori, per
esempio che il dimensionamento antropopoietico
vada nella direzione di un
maggiore equilibrio e che
le diverse culture non
abbiano la possibilità di
svilupparsi in modo plurale
e contingente.
La cultura è un evento
creativo, tutt’altro che
necessitato e uniforme: per
questo non sono soddisfacenti né l’approccio emanativo della sociobiologia
né quello compensativo
tipico della tradizione dell’antropologia filosofica.
Per la visione postumanistica la carenza assomiglia
di più alla mancanza della
persona cara che segue
all’evento dell’innamoramento: non presente prima
dell’evento, non inerente
alla biografia della persona,
non diretta verso il superamento di questa sensazione. Nella visione esonerativa l’atto si giustifica nel
peso dell’onere; viceversa
nella visione integrativa si
spiega nell’emergenza della
partnership.
Si può considerare la cultura come un processo di
apertura del sistema uomo
alla partnership con un
ente esterno, in altre parole
di accoglienza e integrazione dell’alterità per dar
119
L’autore
Roberto Marchesini
insegna psicologia
del linguaggio
e della comunicazione
presso l’Università
degli studi di Udine
www.robertomarchesini.com
sistema aperto all’accoglienza, disponibile a lasciarsi ibridare dando luogo a eventi emergenziali,
cioè alla creazione di mondi non preesistenti.
Rispetto a questo punto è
evidente la vicinanza tra
umanismo e postumanismo nel sottolineare l’importanza della focale diacronica. Il farsi umano è un
evento storico che non può
essere approcciato in mo-
do riduzionistico, facendo
a meno delle discipline storiche: su questo vi è un sostanziale accordo.
La differenza sta nella rinuncia, propria del postumanismo, alla definizione
di un destino per l’uomo: il
farsi umano è un cantiere
aperto senza progetto, è
una totale apertura verso
innumerevoli possibilità
ibridative, ovviamente nei
limiti delle possibilità di
accoglienza della casa uomo. Siamo destinati ad accrescere il nostro senso di
carenza, non a diminuirlo,
quanto più intraprenderemo questo percorso di
esternalizzazione. Se veramente la technè avesse sul
corpo un compito esonerativo, ci dovremmo aspettare che quanto più la tecno-
120 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
scienza progredisce, tanto
più l’uomo dovrebbe sentirsi in uno stato di equilibrio di interfaccia con il
mondo esterno.
Le cose stanno esattamente al contrario: l’evoluzione
tecnosferica permette sì di
raggiungere nuove dimensioni dell’esistere, ma questo si accompagna a un’accelerazione dello stato di
non equilibrio del sistema
uomo e parallelamente del
senso di carenza.
Il corpo dell’uomo è pertanto un luogo di accoglienza, un palcoscenico
capace di ospitare all’interno di una cornice precisa
attori esterni per rappresentazioni sempre
nuove.
Roberto Marchesini
Sorveglianza e controllo: assistere
il paziente in modo diverso
Per un’infermiera, lavorare all’Ufficio epidemiologico di un ospedale è un modo diverso
di assistere i pazienti: non con un contatto diretto, ma in un’ottica di sorveglianza e controllo delle infezioni ospedaliere. I principali settori sono la sorveglianza attiva sulle
malattie infettive sottoposte a obbligo di denuncia, la prevenzione e la sorveglianza delle
infezioni ospedaliere, la sorveglianza igienica e il controllo sui servizi alberghieri.
Marinella Piscedda
Un tempo il personale sanitario
era composto da pochi attori:
medico, infermiere, farmacista
e pochi altri. La tecnologizzazione della medicina, il processo di empowerment del paziente e i cambiamenti sociali e normativi hanno fatto sì che oggi il
panorama sia composto da numerose figure professionali, che
in questa rubrica possono far
sentire la loro voce e raccontare
le loro esperienze: è nella natura più profonda delle medical
humanities considerare l’interdisciplinarità della medicina come una ricchezza culturale e
professionale.
S
ono infermiera dal 1987;
ho lavorato 4 anni in
Unità spinale e 7 in
Rianimazione cardiochirurgica presso l’Azienda
ospedaliera Niguarda Cà
Granda, a Milano. Queste
esperienze lavorative mi
hanno permesso di acquisire conoscenze cliniche e
tecnico assistenziali importanti anche per l’attività
che svolgo attualmente: infermiera addetta alla sorveglianza e controllo delle infezioni ospedaliere.
Nel 1998 mi è stato proposto dalla Direzione infermieristica di far parte del
team iniziale dell’Ufficio
epidemiologico, parte integrante dell’organico della
Direzione medica di presidio e organo operativo del
Comitato infezioni ospedaliere. Era per me un campo
completamente nuovo:
avrei dovuto rinunciare
all’assistenza diretta al
paziente ed entrare in una
dimensione diversa dell’essere infermiera. Bisognava
riprendere in mano i libri e
studiare nuove materie e le
normative correlate. Ho
trovato la proposta stimolante e ho accettato.
Il dirigente medico igieni-
vi racconto la mia professione
Vi racconto
la mia professione
121
sta si è occupato della
nostra formazione sommergendoci di libri, linee
guida, leggi e capitolati
degli appalti da studiare,
abbiamo partecipato a
corsi di aggiornamento e
INFEZIONI
altro ancora. Agli inizi è
stato difficile capire quali
fossero le nostre competenze specifiche, perché ci
veniva chiesto di occuparci
di tutto un po’; ma col
tempo sono stati definiti
OSPEDALIERE: GESTIRE L’EMERGENZA
LE INFEZIONI OSPEDALIERE sono da sempre al centro dell’attenzione di tutte le direzioni sanitarie e infermieristiche,
e lo sono sempre di più per l’effettivo aumento costante
dei casi epidemiologici.
L’Ipasvi ha dedicato un numero (luglio 2002) dei
“Quaderni de L’infermiere” a un’ampia panoramica su cosa
sono le infezione ospedaliere e su come si potrebbero evitare. Già ai tempi di Ippocrate era stata compresa e studiata la possibilità di infezione e trasmissione di malattie
tra i pazienti ospitati in una struttura; negli ultimi anni
il rischio è aumentato, essenzialmente perché sono cambiate le strutture sanitarie e le caratteristiche dei pazienti. Inoltre, accanto agli ospedali tradizionali sono sorte
case di cura o forme di assistenza domiciliari: un fenomeno che oltre ai vantaggi in termine di salute comporta il
rischio di diffusione all’esterno delle infezioni ospedaliere. Il ruolo degli infermieri nella prevenzione delle è cruciale, tanto che sono loro a risponderne giuridicamente.
Nell’opuscolo vengono quindi riportati i principali strumenti di prevenzione e i consigli pratici che possono
ridurre del 35 per cento la frequenza di queste complicanze. Da un punto di vista generale, si sottolinea che quando si mettono in atto strategie per arginare o evitare i
casi di infezione è importante tener conto dell’età avanzata e del maggior numero di pazienti assistiti rispetto al
passato. In particolare, alcune delle misure sicuramente
efficaci, spiegate in dettaglio nella rivista, sono il lavaggio delle mani e la sterilizzazione accurata degli strumenti da effettuare prima di ogni procedura medica.
Chiara Badia
122 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
degli ambiti più precisi.
In generale le attività
dell’Ufficio epidemiologico
riguardano tutto ciò che
presuppone una sorveglianza igienico sanitaria. I
principali settori di cui ci
occupiamo sono la sorveglianza attiva sulle malattie
infettive sottoposte a obbligo di denuncia agli uffici
competenti, la prevenzione
e la sorveglianza delle infezioni ospedaliere, la sorveglianza igienica e il controllo sui servizi alberghieri.
Gestire l’allarmismo
La segnalazione da parte
del medico di reparto di
una malattia infettiva (per
esempio la tubercolosi polmonare, la meningite
meningococcica, una
malattia esantematica o
parassitaria) richiede spesso un nostro intervento
immediato. Ci rechiamo
personalmente nelle unità
operative e avviamo un’indagine volta alla ricerca dei
contatti tra i ricoverati e gli
operatori per iniziare
quanto prima la sorveglianza sanitaria prevista
per le diverse tipologie di
trasmissione dei microrganismi.
Sono fondamentali la collaborazione e lo scambio
continuo di informazioni
L’autrice
Marinella Piscedda è infermiera professionale presso
l’azienda ospedaliera Niguarda Ca’ Granda di Milano.
Lavora presso l’Ufficio epidemiologico come infermiera
addetta al controllo delle infezioni ospedaliere
[email protected]
del microrganismo nei
condotti di distribuzione e
di erogazione.
Nell’Azienda ospedaliera
Niguarda Ca’ Granda
abbiamo optato per la
disinfezione continua con
biossido di cloro, che all’azione distruttiva nei confronti del microrganismo
unisce anche quella di
impedire o sciogliere la formazione di biofilm e di
depositi di calcare e materiali ferrosi che favoriscono
appunto l’annidamento
della legionella.
Gli impianti sono stati
installati nelle centrali termiche di tutti i padiglioni.
Questo sistema presuppone un controllo continuo,
da parte degli addetti alla
manutenzione, sul buon
funzionamento degli
impianti di erogazione di
biossido di cloro e il relativo invio al nostro ufficio
della registrazione delle
concentrazioni erogate.
Il sistema di sorveglianza
prevede inoltre il controllo
periodico dell’acqua calda
erogata sia a monte, e
quindi dalla centrale termica, sia nei singoli reparti,
scegliendo come punti
acqua quelli più a rischio
per il paziente, come per
esempio il soffione della
doccia o del lavabo.
Coinvolgere,
non colpevolizzare
Per la sorveglianza e la prevenzione delle infezioni
ospedaliere ci muoviamo
sulle segnalazioni in tempo
reale da parte del laboratorio di microbiologia di
eventi sentinella, vale a
dire l’isolamento dai campioni biologici dei ricoverati di microrganismi ad alta
diffusibilità che potrebbero
dare origine a cluster epidemici o a vere e proprie
epidemie.
Eventi di questo tipo,
quando si verificano, possono compromettere il
normale decorso clinico
dei pazienti in termini di
durata e aggravamento
vi racconto la mia professione
con l’Ufficio di malattie
infettive dell’Asl territoriale
di competenza, al quale
inviamo le segnalazioni.
In alcuni casi ci troviamo a
gestire l’allarmismo che
irrazionalmente o a ragione si diffonde tra il personale. Emerge la rabbia per
non aver potuto o saputo
evitare l‘evento, la paura di
ammalarsi o di far ammalare i propri familiari, il
fastidio di dover comunque sottoporsi a una profilassi che in questi casi è
obbligatoria, perché si tratta di un problema di salute
pubblica.
Diventa quindi imperativo
da parte nostra dare disposizioni chiare, indiscutibili,
supportate da basi scientifiche, senza lasciare spazio
alla fantasia.
Nel 2006 abbiamo ricevuto
complessivamente 555
denunce di malattie infettive, fra cui 57 casi di Tbc
polmonare, 235 di malattie
esantematiche e 4 di polmonite da Legionella pneumophila.
Per la prevenzione della
diffusione della legionella
nell’acqua di rete, la normativa impone all’Azienda
ospedaliera di attuare un
sistema di disinfezione
sulla rete di distribuzione
dell’acqua calda, cioè un
sistema preventivo che non
consenta l’annidamento
123
della malattia.
In questo caso la nostra
indagine ci porta a verificare se in quella unità operativa si è verificato un errore
nel processo assistenziale e
a quale livello, e, dopo aver
fatto emergere le criticità, a
trovare la soluzione per far
fronte al problema.
Naturalmente gli operatori
devono essere coinvolti;
non colpevolizzati, ma
messi nelle condizioni di
poter mettere in discussione con serenità i propri
metodi lavorativi e, nel
caso venisse individuato il
punto debole, riconoscerlo
e da lì ricominciare.
Nel 2006 gli eventi sentinella segnalati dal laboratorio
di microbiologia sono stati
870, ognuno dei quali è
stato registrato nel nostro
archivio informatico e
valutato per verificare se il
microrganismo ha rappresentato un evento isolato o
un “caso”.
Negli alberghi
e nei ristoranti
La sorveglianza e il controllo sui servizi alberghieri
riguarda azioni specifiche
su diversi appalti.
Per l’igiene e la sanificazione ambientale, la sorveglianza viene attuata sia
tramite sopralluoghi perio-
dici in tutte le aree appaltate, sia per mezzo di ispezioni in risposta ai disservizi segnalati dai coordinatori di reparti, servizi, uffici.
Normalmente questo genere di verifica viene effettuata alla presenza dell’infermiera epidemiologa, di un
responsabile dell’impresa,
effettuate alla presenza del
direttore della mensa; il
verbale viene quindi redatto, controfirmato dai presenti e, in seconda battuta,
inoltrato al responsabile
dell’ufficio economale che
procederà ai provvedimenti del caso. Anche le cucine
di reparto sono soggette a
Gli strumenti, per sofisticati che siano, non sostituiscono le necessarie conoscenze tecniche, la curiosità e l’analisi di dati e informazioni. Ma sono necessarie anche
buone capacità relazionali
del coordinatore del reparto e del referente economale. Al termine dell’ispezione viene redatto un verbale
controfirmato dai presenti,
inviato ufficialmente al
responsabile economale
che provvederà di conseguenza in caso di eventuali
inadempienze contrattuali.
Anche per la ristorazione
svolgiamo un’attività di tipo
ispettivo, rivolta alla verifica
dell’applicazione delle procedure igieniche e di buona
pratica lavorativa dichiarata
nel manuale di Hazard
Analysis Critical Control
Point (Haccp) redatto dalla
ditta appaltatrice.
Le ispezioni, analogamente
a quelle svolte per il servizio di pulizia, vengono
124 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
sopralluoghi, in quanto
ultimi utilizzatori e distributori del cibo. In questo
caso il manuale Haccp è
stato redatto dall’azienda
ospedaliera, che diventa
responsabile, davanti agli
organi competenti, della
corretta applicazione delle
prassi dichiarate nel
manuale.
Interazione
con altre strutture
Per quanto riguarda gli
strumenti di lavoro, ci si avvale in modo importante
degli strumenti informatici
e della rete aziendale per la
consultazione di dati clinici
e dati di laboratorio. Questo
viene inviato il risultato
delle nostre indagini sui
casi di malattie infettive,
nel caso in cui siano stati
individuati contatti a
rischio infettivo tra gli operatori. È importante anche
la collaborazione con la
Direzione infermieristica
per le opportune interazioni con i colleghi nei reparti,
con l’ufficio tecnico per i
necessari interventi sugli
impianti, con il servizio
economale per gli appalti e
gli accordi necessari all’acquisizione di nuove molecole, se riguardano la
nostra attività. La collaborazione si estende però
anche ad altre strutture che
di volta in volta vengono
coinvolte per le competenze specifiche. Un esempio
è il Centro antiveleni, al
quale ci rivolgiamo ogni
volta che abbiamo bisogno
di informazioni per l’autorizzazione interna all’introduzione di nuovi prodotti
per l’igiene ambientale o
per la disinfestazione.
L’attività peraltro genera
relazioni e documentazioni
per la Direzione aziendale
e il Comitato infezioni
ospedaliere, che si concretizzano in linee guida e
procedure che rientrano
nel Sistema di qualità
aziendale.
In buona sostanza sono
soddisfatta della scelta
lavorativa effettuata, pur
sempre orientata all’assistenza al paziente anche se
non più in un rapporto
diretto, ma in una diversa
dimensione.
Marinella Piscedda
vi racconto la mia professione
ci permette di rendere più
tempestive le decisioni di
merito. Per gli aspetti formali la documentazione
cartacea rimane però quasi
insostituibile.
Gli strumenti, comunque,
per sofisticati che siano,
non sostituiscono le necessarie conoscenze tecniche,
la curiosità e l’analisi di
dati e informazioni. Sono
necessarie anche buone
capacità relazionali, in
quanto gli interlocutori e i
destinatari delle nostre
attività hanno ruoli, professionalità e competenze
diverse.
L’attività infatti dà origine a
interazioni: per esempio,
nel caso della sorveglianza
si integra con quella di
altre strutture, come il servizio di medicina preventiva, al cui responsabile
125
Seduzioni americane
Pietro Greco
he New York Times lo ha trovato un tantino esagerato. Dunque, anche agli occhi del più autorevole quotidiano degli Stati Uniti, Sicko, il film inchiesta che Michael Moore ha presentato a fine
agosto a Roma, racconta e denuncia, in buona sostanza, una verità. E la verità è piuttosto secca: il sistema sanitario del più ricco e scientificamente
avanzato paese del mondo non funziona perché è
inefficiente, caro e ingiusto. Ne consegue che anche l’ammonimento del regista – europei, non lasciatevi accecare dall’ideologia e difendete a denti
stretti il vostro welfare sanitario – ha un qualche
fondamento.
D’altra parte la denuncia di Michael Moore non si
basa solo su una percezione soggettiva, ma sui
numeri proposti da una vasta letteratura scientifica internazionale.
Gli Stati Unti, come si sa, non hanno un sistema sanitario nazionale. Hanno un sistema misto,
fondato essenzialmente sull’assistenza pubblica ai più bisognosi e sull’assistenza privata
mediante polizze assicurative che coprono (che dovrebbero coprire) le spese sanitarie della
gran parte della popolazione. L’idea di fondo è che la salute non è un diritto universale, ma
un bene che va conquistato; che i pazienti non sono, appunto, pazienti, ma agenti in un mercato. Nella speranza, tipica del liberismo, che la mano invisibile del mercato trovi il migliore
equilibrio tra costi (tra gli enormi costi della sanità) e benefici (la salute dei cittadini).
Ebbene, ha ragione Michael Moore: questo sistema, semplicemente, non funziona. Perché è
molto più inefficiente, molto più costoso e molto più ingiusto dei sistemi sanitari europei,
fondati sull’idea che la salute sia un diritto universale e non un bene da conquistare.
T
Il sistema è inefficiente. Facciamo, a esempio, un’analisi comparata tra i paesi che si autoriconoscono i più ricchi del mondo: quelli del G7 (escludiamo la Russia, che ha una storia
diversa). Ebbene, tra i cittadini di questi paesi, l’età media degli statunitensi è la più bassa in
assoluto. Un maschio negli Usa vive, in media, 75 anni: 3 anni in meno di un italiano. Una
donna negli Usa vive, in media, 80 anni: 6 in meno di una giapponese. Gli Stati Uniti sono
ultimi nel G7 per mortalità da malattie non comunicabili, penultimi per morti da incidenti,
ancora ultimi per incidenza del contagio da Aids tra persone adulte.
Né va meglio sul fronte delle strutture. I posti letto in ospedale, per esempio, sono solo 33
126 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria
ogni mille abitanti, contro i 40 dell’Italia, i 75 della Francia, gli 84 della Germania e i 129 del
Giappone.
Il sistema è costoso. Gli Usa spendono in sanità più di ogni altro paese al mondo: il 15,4%
della ricchezza che producono ogni anno, contro il 10,6% della Germania, il 10,5% della
Francia, il 9,8% del Canada, l’8,7% dell’Italia, l’8,1% del Regno Unito e addirittura il 7,8% del
Giappone. La spesa procapite di un americano è di 6096 dollari l’anno, contro i 3171 di un
tedesco, i 2414 di un italiano o i 2293 di un giapponese.
Si dirà: non importa. Perché la spesa è soprattutto privata e non incide sui conti pubblici.
Falso. Il sistema americano è oneroso anche per lo stato. Se pure tenessimo conto dei soli
investimenti pubblici, la sanità Usa risulterebbe comunque la più cara tra i paesi del G7. Il
contribuente americano spende infatti per la sanità 2725 dollari l’anno a persona, contro i
2440 in Germania, i 2382 in Francia, i 2215 in Canada, i 2209 nel Regno Unito, i 1864 del
Giappone. Lo stato italiano, contrariamente a quanto si crede, con 1812 dollari per cittadino
l’anno è quello che spende di meno nel G7. Non è un caso, come ha rilevato Michael Moore,
che nelle classifiche dell’Organizzazione mondiale di sanità la Francia e l’Italia (malgrado i
casi, reali, di malasanità) possono vantare i sistemi più efficienti del mondo, mentre gli Usa
si ritrovano al 37° posto.
I
l sistema è ingiusto. Malgrado questa spesa enorme, sia privata, che pubblica, sono sostanzialmente privi di assistenza negli Usa oltre 45 milioni di cittadini. Il che significa che il 15%
dell’intera popolazione deve mettere direttamente mano alla tasca quando ha bisogno di cure. E poiché si tratta della componente più povera della popolazione, se ne può fare a meno
evita di curarsi per non spendere troppo. In definitiva la salute negli Usa ha una fortissima
stratificazione di classe. Accessibile ai ricchi (anche troppo, le classi agiate tendono a medicalizzare troppo la propria vita). Di difficile accesso per i meno ricchi e i meno protetti.
ultim’ora
La denuncia di Michael Moore è dunque fondata. E, con la capacità che ha il cinema di rompere il muro dell’attenzione e mobilitare l’opinione pubblica, potrà contribuire a proporre
quello del welfare sanitario come uno dei temi della prossima campagna per l’elezione presidenziali Usa. Ma cosa dire dell’ammonimento di Moore agli europei? Non è fuori luogo? In
fondo da noi, qui in Europa (ma anche in Canada e in Giappone) ci sono sistemi sanitari
nazionali che, pur nella loro diversità, funzionano.
Eh, no. Anche in questo caso il regista americano ha sostanzialmente ragione. Perché, per
quanto ingiusto, costoso e inefficiente, il sistema americano ha una forte capacità di seduzione. Piace a molti. Prendete il caso della Svezia, dove in mezzo secolo e oltre di governo socialdemocratico senza quasi interruzioni si è costruito uno dei sistemi di welfare sanitario più
giusti, efficaci e civili del mondo. Ebbene, la seduzione americana ha colpito e il nuovo governo conservatore che si è insediato a Stoccolma vuole cancellare tutto e “fare come negli Usa”.
Proponiamo ai membri del governo svedese (e a chiunque altro in Europa si senta attratto
dal modo americano di interpretare la sanità) di pensarci un attimo. E, prima di varare la
riforma, di dare un’occhiata al nuovo appassionato film di Michael Moore. E, magari, alle più
fredde statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità. 127
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