trimestrale, anno VII numero 27 janus comitato scientifico DIRETTORE Sandro Spinsanti Luisella Battaglia Docente di bioetica e filosofia morale, Genova DIRETTORE RESPONSABILE Pietro Greco Giorgio Bert Cardiologo, esperto di counselling medico, Torino DIRETTORE EDITORIALE Eva Benelli Vito Cagli Specialista medicina interna, Roma E RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI REDAZIONE Margherita Martini Paolo Gangemi COPERTINA E ILLUSTRAZIONI Mitra Divshali PROGETTO GRAFICO E Corinna Guercini IMPAGINAZIONE Gilberto Corbellini Storia della medicina, Università La Sapienza, Roma Giorgio Cosmacini Storia della medicina e della salute, Università Vita-Salute, Milano Gianfranco Domenighetti Istituto di Comunicazione istituzionale e formativa, Università della Svizzera italiana © ZADIGROMA EDITORE Via Monte Cristallo 6, 00141 Roma Tel. 068175644 [email protected] www.zadigroma.it Alessandro Liberati Università degli studi di Modena e Reggio Emilia STAMPA Tipografia Graffiti, Via Catania 8, Pavona (RM) Felice Mondella Filosofia della scienza, Università di Milano Paola Luzzatto Arteterapia, Genova Alberto Oliverio Istituto di neuroscienze, Cnr di Roma istituto giano DIRETTORE Sandro Spinsanti Via Buonarroti, 7 00185 Roma Tel. 06 7725 0540 [email protected] Pubblicazione trimestrale Singolo numero 16,00 Euro (arretrati 20,00 Euro) Abbonamento annuale 55,00 Euro c/c postale n. 38909024 intestato a Zadigroma srl Registrazione del Tribunale di Roma n. 81/2001 Spedizione in abbonamento postale – Poste Italiane S.p.A. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1 comma 1 Dcb – Roma Finito di stampare nel mese di settembre 2007 Alberto Piazza Ordinario di genetica umana, Università di Torino Claudio Rugarli Ordinario di medicina interna, Università Vita-Salute, Milano Roberto Satolli Agenzia di giornalismo scientifico Zadig, Milano Annalisa Silvestro Presidente Federazione Nazionale Collegi IPASVI Giovanna Vicarelli Docente di Sociologia dell’organizzazione, Ancona Paolo Vineis Docente di epidemiologia, Università di Torino Franco Voltaggio Storia della medicina, Roma L’editore Zadigroma, titolare del trattamento ai sensi e per gli effetti del D.Lgs. 196/2003, dichiara che i dati personali dei clienti non saranno oggetto di comunicazione o diffusione e ricorda che gli interressati possono far valere i propri diritti ai sensi dell’articolo 7 del suddetto decreto. Ai sensi dell’art. 2 comma 2 del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, si rende nota l’esistenza di una banca dati personali di uso redazionale presso la sede di Roma, via Monte Cristallo 6. I dati necessari per l’invio della rivista sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’editore Zadigroma per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. IVA assolta dall’editore ai sensi dell’art. 74 lettera C del DPR 26/10/1972 n. 633 e successive modificazioni e integrazioni, nonché ai sensi del DM 29/12/1989. Non si rilasciano quindi fatture (art. 1. c. 5 DM 29/12/1989). 05 EDITORIALE IL FUTURO DEL PRESENTE UNIVERSO MH 10 Dagli Usa l’outsourcing del comitato etico Chiara Badia 44 Ci son due pappagalli e un orangotango… Franco Fasolo 12 Storie di migrazioni e di amori protetti Stefania Santoro 15 Dona tu che dono io Alessandra Feltrin 49 La psichiatria e il canto di sirena delle neuroscienze Rosa Bruni 18 2008, fuga nelle città. Più salute o meno salute? Paolo Gangemi IL CASO 20 Il “confine” dell’accanimento terapeutico Commenti di: • Valentina Di Bernardo e Roberto Malacrida • Gianmariano Marchesi • Sergio Fucci L’OBIETTIVO: Vivere mala-mente: medicina e salute psichica 27 Individuo, famiglia, società: i tre livelli dei disturbi psichici Daniela Cipolloni 31 Psicoterapia per tutti: un diritto e un investimento Alberto Zucconi 34 Psicologi e psichiatri: amici o nemici? Emilio Vercillo 39 Non solo “castelli di sabbia” Marcella Merlino 56 La solitudine dello specializzando Corrado Pontalti 61 Orizzonti europei e realtà locali Gaddomaria Grassi 68 Anziani e badanti: un crocevia di solitudini Alessandra Orsi A PIÙ VOCI 72 Next di Michael Crichton Lettura critica di: • Lucio Luzzatto • Silvia Bencivelli • Gavino Maciocco 81 Uno Schopenhauer al giorno toglie il medico di torno Guido Miccinesi 86 La “soluzione finale” per i malati psichiatrici Franco Fasolo 90 Sperimentazione clinica e comunicazione Massimiliano Marinelli 94 Le prove di efficacia della pediatria narrativa Alfredo Pisacane IL PROFITTO DELLA MEMORIA Il polso letterario 98 L’etica medica al tempo della “Paranoia” Sandro Spinsanti La settima arte 103 Dallo psichiatra criminale al vissuto del paziente Giovanni Maio Grammatiche mediche 109 L’insostenibile leggerezza della futility Daniela Tarquini Il ginnasio filosofico 114 Il problema del corpo, tra umanismo e postumanismo Roberto Marchesini Vi racconto la mia professione 121 Sorveglianza e controllo: assistere il paziente in modo diverso Marinella Piscedda Ultim’ora indice 126 Seduzioni americane Pietro Greco A scanso di equivoci: non stiamo parlando di personaggi della drammaturgia napoletana “isso, issa e ’o malamente’”. Il “mala-mente” che abbiamo preso a tema dell’“Obiettivo” non è un personaggio, ma una condizione del nostro vivere: ciò che grava in particolare sulla vita di alcuni, in misura maggiore che sulla vita di tutti. È pur vero che nell’insieme viviamo tutti piuttosto malamente, rispetto alle possibilità che avremmo come esseri umani e soprattutto a quanto lo scrittore Luigi Meneghello avrebbe desiderato vedere prima di morire: «Vorrei vedere la gente fremere d’amore intellettuale di Dio, lavorare con piacere, fabbricare giocattoli appassionanti, sciare ardita sulle coste dei monti, nuotare a farfalla lungo le coste dei mari; sentirla cantare inni di elementare grazia e potenza, avendo per inno nazionale un Inno alla mortalità in cui si esprimesse la rassegnazione a questo sgradevole aspetto della vita, e la contentezza di potere intanto produrre affetti e odi sereni, begli edifici, dolci macchine lisce come l’olio, istinti severi e soavi, e quell’onestà nel fare e nel non fare che (quando c’è) cancella la paura e perfino il rimpianto di non poter sopravvivere per sempre». Luigi Meneghello è morto, nel giugno scorso, senza vedere un cenno di inversione di rotta nella vita che ci ostiniamo a vivere così malamente. Alcuni, poi, all’ennesima potenza, perché portano il peso di disturbi psichici ed emotivi. È su questo “vivere malamente” che il dossier di Janus fissa la sua attenzione: su ciò che la medicina sa e può fare, su ciò che potrebbe fare e non sempre fa, per alleviare il peso che tante persone devono portare. editoriale Entrando nell’ambito della medicina, la malattia mentale suscita nelle persone attese e speranze comuni a tutte le patologie sanitarie. Dalla medicina ci aspettiamo risposte, non discorsi! Ma, più che qualsiasi altra patologia, quella psichiatrica rivela la complessità di cui la medicina è intessuta. La domanda più semplice ed essenziale, che sta a cuore al paziente, è: «Ma io guarirò?». La risposta, osserva Franco Fasolo, dipende dalla professione di chi gliela dà. Per l’infermiere, il paziente è guarito quando è tranquillo e comunicativo; per lo psicologo, quando ha superato la posizione schizoparanoidea e riesce a mantenere una posizione discretamente depressiva a costi personali non troppo eccessivi; per l’assistente sociale, quando ha un lavoro o l’assegno di invalidità e una discreta capacità di abitare accanto agli altri; per l’amministrativo, quando è dimesso; per lo psichiatra ospedalocentrico quando è in compenso psicopatologico perché è compliant e assume tutti i farmaci che servono; per lo psichiatra di comunità quando la sua carta di rete documenta che le sue relazioni sociali sono più ricche, autosostenibili, differenziate e più bilanciate tra legami forti e legami deboli (la guarigio- 5 ne la considera più una restitutio ad interim che una restitutio ad integrum). I sintomi della sofferenza psichica, infatti, assumono un diverso significato a seconda del contesto professionale in cui sono inseriti. Nella pluralità degli approcci professionali alla malattia mentale o psichica possiamo riconoscere il profilo di tre modelli ideali: quello psichiatrico, quello psicanalitico-psicoterapeutico e quello che si potrebbe chiamare “sapienziale”. Ogni modello lavora con un paradigma interpretativo, più o meno esplicito ed elaborato, della malattia mentale; ognuno accentua una dimensione dell’essere umano o attribuisce il primato a un diverso elemento. Mentre la psichiatria sottolinea la prevalenza della dimensione neurologica o biochimica del cervello nel determinare la condizione patologica, la psicoterapia accentua il primato della persona; la prospettiva sapienziale si orienta invece verso la dimensione transpersonale. Di per sé, i tre approcci non si escludono a vicenda; solo quando i referenti dottrinali si irrigidiscono in dogmatismo tendono a negare il valore di altri sistemi e di altre modalità pratiche di rispondere all’appello di chi vive mala-mente. I tre modelli ideali si modificano con il tempo. Il paradigma psichiatrico-sintomatico è stato profondamente scosso dalla svolta avvenuta in medicina con la recente scoperta di farmaci efficaci. Nella medicina dell’inizio del XX secolo (e in buona parte anche dopo) la diagnostica procedeva più celermente della terapeutica. I migliori medici sapevano diagnosticare egregiamente l’ubicazione e la modalità delle malattie; ma, quanto al trattamento, erano in grado tutt’al più di palliare i mali, non di curare le cause. La rivoluzione farmacologia, con l’uso di antibiotici a largo spettro, corticosteroidi, psicofarmaci, ha permesso di bloccare le manifestazioni morbose, anche senza conoscere le loro vere cause. L’introduzione degli psicofarmaci ha sconvolto il nichilismo terapeutico della psichiatria tradizionale, che per questo era costretta a ricorrere ai sistemi di contenzione in uso negli ospedali psichiatrici. La possibilità di eliminare i sintomi non ha condotto a rimettere in discussione il paradigma psichiatrico-sintomatico; anzi, non pochi psichiatri hanno ripiegato su un organicismo sempre più radicale (soprattutto nel seducente riduttivismo offerto oggi dalle neuroscienze). La pratica psicoterapica, di cui la psicanalisi costituisce il caso eccellente ma non esclusivo, ha in abominio il procedimento esclusivamente sintomatico. Nel suo paradigma il sintomo è piuttosto un messaggio da interpretare; costituisce una crisi in un’autobiografia o in un sistema relazionale ed equivale a un appello e a uno stimolo al cambiamento. La terapia consiste essenzialmente nel far parlare ciò che è stato “scomunicato” (nel senso letterale della parola, ossia sottratto alla comunicazione). Questo paradigma si può anche trovare, senza alcuna forzatura, nella medicina tradizionale, almeno in quella che si proponeva di leggere il sintomo come segno. Con gli sviluppi più recenti dell’arte medica l’interpretazione dei sintomi, finalizzata alla svolta e al cambiamento, è diventata estranea alla pratica medica, per essere riservata all’esercizio della psicoterapia. Questa divisione di compiti e funzioni è stata profondamente interiorizzata dal paziente dei nostri giorni: dal medico (psichiatra) ci si aspetta che tolga il sin- 6 Janus 27 • Autunno 2007 tomo, senza lavoro interpretativo o di scavo; chi vuole altro, va dallo psicoterapeuta. Il medico curante si trova così costretto a colludere con il desiderio del paziente, teso a coprire con il farmaco più efficace il male più profondo che si manifesta nei sintomi. I pazienti stessi non accetterebbero un procedimento diverso. Il terzo scenario, quello “sapienziale”, ha un antecedente nel paradigma religioso. Anche qui bisogna riconoscere una rilevante trasformazione storica, che ha portato la religione istituzionalizzata a lasciare progressivamente il campo dei fenomeni psichici, compresi quelli a contenuto religioso, a discipline specialistiche. L’ambito spirituale si è psichiatrizzato. Oggi non si rischia più di finire sul rogo se si pretende di aver avuto “commercio con il diavolo”; ma neppure si ha l’opportunità di avere l’onore degli altari per visioni e rivelazioni (semmai, se qualcuno confessa al padre spirituale di sentire delle voci, ha un’alta probabilità di ricevere, di rimando, l’indirizzo di uno psichiatra di fiducia!). È piuttosto al di fuori delle istituzioni religiose che più di recente si è appuntata l’attenzione verso espressioni psichiche, abitualmente interpretate in senso psichiatrico, ma che potrebbero essere invece il segno di un’«emergenza spirituale» (per utilizzare un’espressione di Stanislav Grof). C’è un malessere che nasce dal non essere quelle persone realizzate che potremmo e dovremmo essere. Il movimento transpersonale afferma con forza una concezione antropologica che vede nell’uomo anche una potenzialità spirituale, che tende a stati di coscienza unitiva con il Tutto, meglio descritti con il linguaggio dei mistici che degli psichiatri. La prospettiva transpersonale può educare la comunità scientifica che non scelga di chiudersi pregiudizialmente a quest’ipotesi a nutrire quanto meno il sospetto che ci possa essere una dimensione di crescita che punta in questa direzione. Per percorrere queste strade abbiamo bisogno di altri compagni di viaggio, oltre agli esperti delle scienze biomediche. Poeti, per esempio: due delle maggiori poetesse italiane contemporanee, Vivian Lamarque e Alda Merini, hanno dato voce alla sofferenza psichica passata al crogiolo della psicoterapia e alla stessa esperienza dell’ospedale psichiatrico. Con una buona dose di consapevole ottimismo, se non di ingenuità, possiamo considerare un segno positivo che all’ultimo festival di Sanremo il primo posto nel tempio della futilità sia stato scalato da una canzone che ha preso a tema la malattia mentale. Il suo autore, Simone Cristicchi, nel libro Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti, ha voluto recuperare le tracce del passaggio doloroso di tanti malati mentali nei manicomi come monito di un percorso tutt’altro che concluso. Le parole attribuite a un rappresentante ideale del “vivere mala-mente” valgono come monito, e come promessa, a tutta la società: editoriale Sono Matto e rappresento la vostra Salvezza. Quella sfocata percezione di essere nella ragione. Io sarò sempre il torto, il distorto, l’adunco. Sono una meravigliosa imperfezione, come uno stupendo sbaglio di Dio. Sandro Spinsanti 7 Il futuro del presente 10 Universo MH 20 Il caso 27 L’OBIETTIVO: Vivere mala-mente: medicina e salute psichica 72 A più voci Dagli Usa l’outsourcing del comitato etico I comitati etici che regolano la sperimentazione clinica sui pazienti sono protagonisti di un lungo dibattito ancora aperto in varie nazioni, tra cui la nostra. Janus ne ha parlato anche recentemente affrontando proprio la discussione sul ruolo dei comitati etici nella ricerca (“Comitati etici: come uscire dalla crisi” di Paolo Gangemi in Janus 23 e “Il I comitati etici sono spesso oggetto di critiche e dibattiti. Dagli Stati Uniti arriva l’idea di affidare i casi a comitati etici esterni agli istituti di ricerca comitato etico? Noi lo usiamo così” di Americo Sbriccoli e Warren Reich in Janus 26). La missione di un comitato etico è quella di verificare che una sperimentazione proposta sia scientificamente fondata e rispetti i diritti fondamentali dei pazienti. Purtroppo i comitati etici vengono spesso criticati per la mancanza di competenza e di indipendenza dalle istituzioni che li convocano. Avviene, infatti, che le ricerche si svolgano nelle stesse strutture in cui opera il comitato etico e da cui viene finanziato. Sessant’anni da cavie 1947 • Viene pubblicato il Codice di Norimberga in risposta agli esperimenti nazisti condotti sui prigionieri. 1963 • Al Jewish Chronic Disease Hospital di New York si iniettano cellule cancerose in pazienti ignari di essere utilizzati come cavie per valutare il rigetto dopo un trapianto. 1964 • La World Medical Association diffonde i principi etici riguardanti la sperimentazione umana pubblicando la Dichiarazione di Helsinki che diventerà la base per i comitati etici di tutto il mondo. 10 Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente 1966 • Nasce il primo comitato etico britannico. Il New England Journal of Medicine denuncia casi di violazione dei diritti umani da parte di istituti di ricerca statunitensi. 1974 • A Washington viene istituita la National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research. È il primo ufficio interamente dedicato alla protezione nel campo della ricerca sugli uomini. 1990 • Nasce in Italia il Comitato nazionale per la bioetica. Ora arriva dagli Stati Uniti una nuova proposta provocatoria: perché non affidare la valutazione etica a comitati privati ed esterni alle strutture e agli istituti di ricerca? Lo riporta la rivista Nature in uno dei suoi numeri estivi. Si tratta di una forma alternativa di outsourcing della valutazione etica, soprattutto nel campo della ricerca umana. Tendenza da importare? Questa nuova proposta, in parte criticata dal sistema britannico (generalmente diffidente alla privatizzazione) potrebbe, secondo alcuni esperti di bioetica, portare a una messa a punto della macchina ita- liana nel campo della valutazione etica. In quest’ottica, la privatizzazione auspicata dovrebbe però essere affiancata da nuove regole e controlli pubblici che vigilino sul sottostante sistema dei comitati. In questo modo si risolverebbero, forse, alcuni dei problemi esistenti nei comitati etici che si contraddistinguono per il loro duplice legame con la ricerca e con gli aspetti e le garanzie dei diritti del cittadino. Questa sottilissima linea di confine tra etica e scienza è la fonte del conflitto d’interessi che da sempre minaccia l’imparzialità e la correttezza morale nelle approvazioni di protocolli di ricerca. Sempre secondo l’articolo di Nature, la privatizzazio- Chiara Badia ne della Dichiarazione di Helsinki che limita l’uso dei trial controllati verso i placebo. 2001 • Il National Cancer Institute americano istituisce una commissione centrale per la valutazione di tutti i casi di ricerca umana, mirata a velocizzare e a standardizzare i procedimenti di approvazione. 2007 • Il Regno Unito costituisce il National Research Ethics Service restringe il campo di azione dei comitati etici locali e la loro possibilità di richiedere cambiamenti nei protocolli sperimentali. universo MH 1997 • Nuove controversie a seguito di esperimenti americani in Thailandia. Viene testato l’effetto dell’azidotimidina sulla trasmissione del virus Hiv tra madre e figlio durante la gravidanza. 1998 • In Italia, con un Decreto ministeriale vengono definite le linee guida di riferimento per i Comitati etici. 2000 • Viene istituito, a Londra, il Central Office of Research Ethics Committees per la supervisione dei casi di ricerca multiregionali. L’America rifiuta di sottoscrivere la revisio- ne di questi comitati potrebbe essere un’alternativa valida per risolvere il problema economico delle costose procedure per l’approvazione di un protocollo di sperimentazione scientifica. I costi diminuirebbero con il nascere di una nuova concorrenza tra i futuri “consulenti etici”. Infine la possibilità per un’istituzione o una azienda di scegliere a quale comitato etico affidare l’incarico di analisi e approvazione, potrebbe garantire l’efficienza e la qualità della commissione stessa che si ritroverebbe a competere con le altre, in un futuro mercato di diversi pareri etici da mettere a confronto. 11 Storie di migrazioni e di amori protetti Fra gli immigrati in Italia è alto il numero di aborti, spesso clandestini. Per questo la Asl 4 di Torino ha prodotto una fiction di educazione all’amore protetto, in lingua creola. La speranza è di avvicinare alla sanità italiana gli extracomunitari che non hanno una cultura della contraccezione e ignorano di poter accedere, anche se clandestini, a prestazioni sanitarie di tutela della maternità, fra cui l’interruzione di gravidanza. Stefania Santoro S torie di gravidanze indesiderate, di aborti “fai da te”, di tradimenti e di malattie. È la soap della prossima stagione? No: la fiction in questione, Getting better, è lo strumento che la Asl 4 di Torino ha scelto per promuovere tra gli stranieri l’uso dei metodi contraccettivi. La strategia è insolita, ma permette di superare le barriere linguistiche e culturali: gli interpreti sono tutti africani e parlano la lingua creola, che mescola 12 l’inglese agli idiomi locali. La colonna sonora IyemeProtect Urself, scritta da David Onyekwere e interpretata dalla cantante Miss Jubilee, è stata registrata a Lagos, in Nigeria. A Torino infatti la comunità nigeriana è la più numerosa tra la popolazione straniera ed è quella che, anche per motivi linguistici, presenta le maggiori difficoltà di integrazione. In questo modo l’Asl spera di poter raggiungere gli immigrati che, per paura e diffidenza, non si rivolgono alle strutture sanitarie. Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente Nell’area dell’Asl 4 di Torino gli immigrati irregolari sono più di 2000, e la Asl è fortemente impegnata nel fornire assistenza e informazione, grazie al centro Informazione salute immigrati, specifico per le esigenze sanitarie di primo livello della popolazione migrante irregolare o clandestina. Molti stranieri non sanno di poter contare sul servizio sanitario italiano anche se sprovvisti del permesso di soggiorno, e numerose donne, a causa delle drammatiche conseguenze di aborti casalinghi, vengono ricoverate d’urgenza. È per questo che il filmato sarà distribuito, oltre che nei consultori familiari e negli ambulatori medici, anche nelle associazioni e negli esercizi commerciali frequentati dagli stranieri. Dalla consapevolezza di questa necessità è nata l’idea di Getting better. La realizzazione della fiction è stata progettata e coordinata dall’associazione Ideadonna Onlus, con la collaborazione delle Asl 3 e 4 di Torino e il sostegno Gli stranieri provengono spesso da società dove la maternità è vista come un dovere: in Nigeria le donne che non hanno figli sono emarginate, e per l’aborto ci sono fino a 7 anni di reclusione o la lapidazione della Provincia di Torino e della Regione Piemonte. Amore sì, ma protetto Getting better non è un caso isolato: già nel 2005 Ideadonna, un’associazione nata a Torino nel dicembre 2000 dall’impegno di un gruppo di donne migranti e italiane, aveva realizzato il filmato Usa sempre il preservativo – You must use condom always rivolto alle donne straniere (soprattutto nigeriane e dell’Europa orientale) che si prostituiscono. Sempre per diffondere presso gli immigrati informazioni sulla salute è nato anche il Fotoromanzo d’a- L’autrice Stefania Santoro, master in Comunicazione e divulgazione scientifica, Università Federico II di Napoli [email protected] l’obiettivo Nel dvd che contiene la fiction sono inserite anche vere e proprie lezioni sui metodi per la prevenzione delle gravidanze indesiderate: la maggior parte delle immigrate non adotta misure anticoncezionali perché non le conosce. Le straniere che ricorrono all’interruzione volontaria di gravidanza sono sempre più numerose: nel 2006, nella sola Asl 4, sono state ben 325, nonostante numerose iniziative in tema di contraccezione rivolte agli immigrati: probabilmente per educarli a una sessualità più responsabile è necessario uno sforzo non solo di informazione ma anche di sensibilizzazione. more… protetto!, realizzato dall’associazione Health Information Network in collaborazione con l’associazione culturale Mana Manà e il centro Volontariato, sviluppo e solidarietà in Piemonte. Il racconto è ambientato nell’ambulatorio per le infezioni sessualmente trasmesse dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino, dove la protagonista trova risposte ai dubbi sui rischi legati ai rapporti non protetti. In questo modo si cerca di superare i timori e le diffidenze degli stranieri verso le strutture sanitarie: uno dei problemi principali è la differenza fra il mondo della sanità italiana e quello di origine. Da un’indagine del Centro nazionale di epidemiologia sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità è emerso infatti che in Italia le immigrate si ritrovano ad affrontare una medicalizzazione della sessualità sconosciuta nei loro Paesi. Gli 13 La legge italiana è accogliente a Legge 194 del 22 maggio 1978 stabilisce le norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza, sottolineando che è compito dello Stato garantire il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, tutelando la vita umana dal suo inizio. Il Decreto Dini del 18 novembre 1995 «per la tutela sociale della maternità responsabile come prevista dalle norme applicabili alle cittadine italiane» garantisce la gratuità delle prestazioni a tutte le cittadine straniere, comprese le irregolari, così come sono garantite le prestazioni preventive per la tutela della maternità e della gravidanza. La Legge 40 del 1998 “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” ribadisce la gratuità delle prestazioni in tema di tutela della maternità, compresa l’interruzione di gravidanza, e in più concede un permesso di soggiorno alle cittadine straniere non regolari in gravidanza, che durerà fino a sei mesi dopo la nascita del bambino. L stranieri, inoltre, provengono spesso da società dove è assente la cultura della pianificazione della famiglia, la maternità è vista come un dovere della donna, le procreazioni sono ricercate e ripetute e non c’è informazione sui metodi contraccettivi, spesso difficilmente reperibili. In Nigeria le donne che non hanno 14 figli vengono emarginate dalla società e per l’aborto ci sono fino a 7 anni di reclusione o la lapidazione. In Italia gli extracomunitari si trovano a confrontarsi con modelli antropologici diversi, ma vedono stravolte anche le proprie storie personali: viene a mancare la centralità del nucleo familiare, cambiano le Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente aspettative, si stabiliscono nuovi tipi di relazioni. Il controllo della capacità riproduttiva infatti è il risultato di una serie di mutamenti sociali e di cambiamenti culturali, e gli immigrati si trovano a dover superare questo gradino in maniera repentina e quindi sconvolgente. Risultano perciò di fondamentale importanza le attività di informazione, accoglienza e assistenza svolte dai consultori e facilitate dalla presenza sempre più forte della figura dei mediatori culturali. Così si cerca di garantire il diritto universale alla salute nel rispetto delle diversità di cultura e di sensibilità. Da qui parte la sfida di adeguamento alle necessità di una società multietnica, che tutte le strutture sanitarie hanno il dovere e l’opportunità di affrontare: un’occasione di incontro che le Asl e le associazioni di Torino hanno creato con impegno e creatività. Stefania Santoro Dona tu che dono io Come affrontare il tema della donazione di organi e tessuti con persone di religione, lingua e cultura diverse dalla nostra? In una società multietnica come quella attuale il problema è all’ordine del giorno. L’esperienza dimostra che le campagne di informazione, assieme alla cura degli aspetti comunicativi, possono aiutare a superare le difficoltà che solo in apparenza impediscono di conciliare la pratica della donazione con le varie culture. Alessandra Feltrin L gioni diverse. Anche se le varie prospettive religiose sono per la quasi totalità a favore della donazione e dei trapianti, ci sono però fattori culturali, sociali, psicologici e relazionali che intervengono in una simile decisione. Ci si deve chiedere, e in primo luogo lo devono fare gli operatori sanitari, che cosa può significare una simile proposta per chi appartiene a realtà socioculturali molto differenti da quella occidentale: quale tipo di rappresentazione possano avere dei concetti e delle pratiche che per noi sono tanto familiari; se e come il modo di concepire il corpo e la persona, suggerito da queste procedure, possa essere compatibile con quello sottostante alle loro pratiche e tradizioni; quante e quali difficoltà possono incontrare nel momento in cui si affida loro la responsabilità di decidere al posto di chi non c’è più. Non sono molti gli studi che trattano questo argomento, ma dai dati a disposizione e soprattutto dall’esperienza clinica raramente emerge un semplice rifiuto o un’aperta diffidenza da parte degli immigrati. Più semplicemente va riconosciuto un ampio ventaglio di difficoltà effettive che richiamano alla necessità di evitare qualsiasi universo MH a donazione degli organi è una pratica che si sta diffondendo sempre di più nel mondo occidentale, grazie soprattutto a una legislazione che richiama ciascun individuo al diritto-dovere di dichiarare la propria volontà in merito alla donazione e stabilisce che, in assenza di direttive, i familiari aventi diritto vengano informati rispetto alla possibilità del prelievo e interpretino la volontà del defunto. La nostra società, ormai multietnica, deve però fare i conti con le difficoltà che tutto ciò può comportare per chi appartiene a culture e reli- 15 generalizzazione e di cercare invece di comprendere le singole situazioni. Un problema di integrazione Il livello di integrazione sociale della famiglia ha un ruolo decisivo rispetto al donazione di organi, risultano più facilmente disponibili rispetto a chi è in Italia da poco o attinge da un background culturale più lontano rispetto all’organizzazione sanitaria italiana. Nello specifico gli immigrati provenienti dai Paesi dell’Europa settentrionale, dalla Spagna e Comunicare da subito è prioritario: aiuta a instaurare tra i famigliari, gli operatori sanitari e le istituzioni la fiducia necessaria affinché la famiglia accolga le indicazioni e le proposte dell’equipe medico sanitaria modo in cui viene accolta non solo la proposta di donazione, ma l’intero dialogo con il personale sanitario, dalle informazioni sullo stato del paziente alla comunicazione della sua morte. Le persone che si trovano in Italia da più tempo o hanno, per cultura di origine, familiarità con concetti medici specifici, come morte cerebrale e dagli Stati Uniti condividono gran parte delle usanze mediche e della terminologia utilizzate in queste situazioni, presentano meno difficoltà di comunicazione e tendono a essere favorevoli alla donazione. Determinati gruppi culturali sono risultati, invece, particolarmente restii a entrare in relazione e stabilire una comunicazione. In L’autrice Alessandra Feltrin, è psicoterapeuta; responsabile dell’Area psicologia e formazione del Centro regionale per i trapianti del Veneto [email protected] 16 Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente parte ciò è dovuto a difficoltà linguistiche, ma si sono dimostrati importanti anche altri fattori, come il grado di fiducia che il rappresentante dell’istituzione sanitaria è riuscito a trasmettere, l’accoglienza ricevuta al momento del loro arrivo in Italia, la maggiore o minore tendenza del gruppo etnico a integrarsi e assimilare spunti provenienti dalla cultura del Paese ospitante, il significato che il dono e l’appartenenza a una comunità rivestono per ogni specifica cultura, la ritualità collegata alla morte. Prima di tutto: comunicare Comunicare da subito è prioritario: aiuta infatti a instaurare tra i famigliari, i singoli operatori sanitari e le istituzioni un rapporto di fiducia necessario perché la famiglia accolga le indicazioni e le proposte (compresa quella della donazione) che provengono dall’equipe medico sanitaria. Il dialogo con i famigliari va ricercato e instaurato fin dall’ingresso del paziente in ospedale, non solo al momento della morte. È fondamentale curare que- per saperne di più A. Feltrin et al., La cultura di donazione nella popolazione extracomunitaria: l’esperienza del Veneto Una candela accesa L’elaborazione del lutto, i riti della separazione e le modalità di preparazione della salma cambiano da cultura a cultura. Senza il rispetto e la comprensione di queste usanze non si possono conciliare i bisogni delle famiglie con la pratica del prelievo, vanificando in partenza ogni possibilità di donazione. Alcune popolazioni dell’Europa orientale di religione ortodossa, per esempio, desiderano una candela accesa nel momento del trapasso, per accompagnare l’anima del malato: anche in Italia chiedono che venga rispettato questo rito prima che il congiunto venga portato in sala operatoria. Presso alcuni popoli di religione islamica, invece, i famigliari usano spogliare la salma, lavarla, ungerla e fasciarla; per questo è importante rassicurarli che il corpo dell’estinto verrà restituito senza che siano troppo evidenti le tracce del prelievo. Nei casi in cui è stato possibile raggiungere un punto di incontro con queste famiglie, è stata subito chiarita la condizione imprescindibile di poter svolgere il proprio rituale. Il tema della donazione degli organi rappresenta un esempio delle inevitabili difficoltà di interazione tra operatori sanitari e pazienti appartenenti a realtà socioculturali diverse. L’esperienza dimostra che si tratta di un’interazione possibile se il dialogo e la relazione si fondano su un’adeguata conoscenza e valorizzazione delle specificità non solo culturali ma soprattutto umane dei soggetti coinvolti. È necessario perciò favorire iniziative volte ad approfondire la reciproca conoscenza e l’integrazione tra le culture, attraverso la promozione di iniziative di formazione del personale sociosanitario e attività di ricerca di soluzioni organizzative, finalizzate anche alla tutela di chi si trova a operare in prima linea in questo scenario. Alessandra Feltrin universo MH sto aspetto durante tutto l’iter del ricovero, dall’accoglienza alla descrizione delle cure che si stanno somministrando al malato, dalla notizia dell’irreversibilità delle sue condizioni al momento della donazione. A volte è necessario compiere una vera e propria ricerca della famiglia di origine, in quanto i famigliari che si presentano a chiedere notizie sono membri di un clan allargato, spesso restii a dare notizie ai parenti più prossimi, che si trovano nel Paese di origine. Di primaria importanza è il ruolo del mediatore culturale: una figura che non deve rappresentare solo un tramite linguistico, limitandosi alla semplice traduzione, ma deve saper trasmettere l’atteggiamento di attenzione e solidarietà e, contemporaneamente, fornire informazioni su eventuali ostacoli alla comunicazione e sull’organizzazio- ne familiare. Naturalmente far comparire il mediatore culturale solo al momento della proposta della donazione è un tipo di approccio che può suscitare il sospetto e l’ostilità da parte della famiglia, di qualsiasi nazionalità. 17 2008, fuga nelle città. Più salute o meno salute? Nel 2008, per la prima volta nella storia, più di metà della popolazione mondiale vivrà nelle città. Il fenomeno, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, comporta grossi problemi, ma anche potenziali vantaggi dal punto di vista sanitario: nelle città è più facile fornire educazione e assistenza. Secondo un rapporto dello United Nations Population Fund, però, queste opportunità non sono sfruttate, e anzi crescono le disuguaglianze. Paolo Gangemi I l 2008 rappresenterà un momento di svolta epocale per l’umanità, anche se forse pochi in Italia se ne accorgeranno: per la prima volta nella storia, la popolazione urbana del pianeta sarà superiore a quella rurale. Il fenomeno dell’urbanizzazione, a cui stanno contribuendo soprattutto i Paesi in via di sviluppo, non è un punto di arrivo, ma anzi la crescita delle città è destinata a continuare. Messa in questi termini, la questione può suscitare timori di scenari apocalitti- 18 ci, e già Isaac Asimov, nei suoi romanzi di fantascienza, aveva immaginato un pianeta composto da un’unica, sterminata città. Nell’immaginario di molti questa prospettiva è uno scenario da incubo, rappresentato dagli slum delle megalopoli del terzo mondo visti in film come La città della gioia e City of God. Forse, però, come spesso accade, non tutto il male viene per nuocere. Secondo David Bloom e Tarun Khanna, docenti di Harvard, l’urbanizzazione Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente porta vantaggi in termini di scolarizzazione, mentre per quanto riguarda la ricchezza l’effetto positivo è presu- per saperne di più D. Bloom, T. Khanna, “The Urban Revolution”. In: Finance & Development, settembre 2007. United Nations Population Fund, State of world population 2007. www.unfpa.org/swp/2007/ presskit/pdf/sowp2007 _eng.pdf mibile ma non dimostrato. Dal punto di vista della salute, in particolare, gli studiosi sostengono che l’urbanizzazione è in grado di portare più benefici che danni: per evidenti motivi di distanza, nelle città è più facile per le autorità fornire educazione e servizi sanitari. Naturalmente, però, i vantaggi non cadranno dal cielo: servono strategie sanitarie che tengano conto della situazione e che, l’assenza di reti fognarie e di smaltimento dei rifiuti e la cattiva alimentazione sono i fattori che più minacciano la salute della popolazione. Un fenomeno irreversibile Ma il vero problema, sostiene il rapporto, è quello delle disuguaglianze. Nelle città dei Paesi in via di sviluppo le classi alte godono dei La strategia migliore per combattere lo sviluppo demografico delle città non può essere cercata, come molti governi stanno facendo, in politiche per scoraggiare le migrazioni, ma nella riduzione delle nascite vantaggi che la vita cittadina offre nei Paesi più sviluppati, mentre i ceti più poveri non riescono a sfruttare queste opportunità. Alle disuguaglianze sociali si aggiungono quelle di genere: la salute delle donne è una questione particolarmente urgente, e riguarda in particolare la sfera riproduttiva. Secondo il rapporto, il quadro della salute riproduttiva fra le donne povere delle città assomiglia più a quella delle donne di campagna che a quella delle donne ricche Paolo Gangemi l’obiettivo sappiano affrontarla efficacemente. Per questo lo United Nations Population Fund ha pubblicato il rapporto State of world population 2007, in cui, oltre a fornire una panoramica della situazione attuale, prende in esame le conseguenze e le implicazioni del processo globale di urbanizzazione. Il rapporto fotografa innanzitutto la situazione, ed evidenzia alcune aree critiche: l’inquinamento dell’aria e spesso dell’acqua, le insufficienti condizioni igieni- delle città. Per questo lo sviluppo di programmi sanitari incisivi, accompagnati da studi su come distribuire servizi e risorse, può migliorare rapidamente la salute femminile. Il caso dell’Aids è emblematico: in un contesto urbano i rischi di contagio aumentano, ma nel lungo periodo migliorano anche le possibilità di rallentare l’epidemia. Inoltre, contrariamente a quanto si possa credere, il fattore principale dello sviluppo demografico delle città non è la migrazione dalle campagne, ma la crescita interna. Di conseguenza la strategia migliore per combatterlo non può essere cercata, come molti governi stanno facendo, in politiche (fra l’altro inefficaci) per scoraggiare le migrazioni, ma nella riduzione delle nascite, che a sua volta si può ottenere solo con una migliore educazione sessuale. In ogni caso, conclude il rapporto, il fenomeno della crescita urbana è inevitabile e irreversibile: i governi dovrebbero prenderne atto e promuovere strategie per cogliere le opportunità che l’urbanizzazione offre in termini di salute e benessere della popolazione. 19 Il “confine” dell’accanimento terapeutico IL CASO Il paziente è un uomo quarantenne che da due anni si trova in uno stato di coma vigile a seguito di un grave trauma cranico. Dopo il ricovero di un mese presso un reparto di terapia intensiva, viene trasferito in una clinica riabilitativa di Basilea. Qui rimane per nove mesi durante i quali, dopo alcuni segnali positivi, manifesta una polmonite e la scomparsa dei segni reattivi prima osservati (apertura spontanea degli occhi, movimenti del capo in direzione dei rumori). Dopo un ulteriore trasferimento in una struttura di lungodegenza di Lugano, l’uomo mostra i sintomi di una nuova polmonite con conseguente insufficienza respiratoria che rende necessari un nuovo ricovero e l’intubazione. Alla guarigione dalla patologia infettiva non si constata però alcun miglioramento neurologico. Ulteriori indagini diagnostiche confermano la gravità della sua situazione neurologica: la possibilità che il recupero possa andare oltre i primi segnali reattivi osservati durante la riabilitazione sembra remota. Commenti di: Valentina Di Bernardo e Roberto Malacrida, Gianmariano Marchesi, Sergio Fucci Curare o prendersi cura? L a Commissione di etica clinica dell’Ente ospedaliero cantonale, (di cui fanno parte gli autori di questo commento, ndr) ha giudicato quasi nulle le possibilità di ripresa del paziente. Ha ritenuto di far prevalere il principio della beneficità e anche quello della nonmaleficità, nel senso di evitare trattamenti «futili» in me- 20 dicina intensiva, ovvero quelli applicati in casi privi di una reale possibilità di guarigione o di raggiungimento di una qualità di vita accettabile. In questo caso, infatti, l’autonomia del paziente non può essere considerata, dal momento che non si conoscono le sue volontà. Se non fosse possibile giungere a un accordo con i familiari, il perso- nale curante sarebbe tenuto a comportarsi secondo coscienza mettendo in atto soltanto quello che ritiene essere la «buona medicina». La Commissione considera inoltre un atto di pietà nei confronti del paziente evitare ogni terapia aggressiva che prolungherebbe inutilmente la sua agonia. La nostra esperienza di curanti ci mette a confronto quotidianamente con il tema dell’ac- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente canimento terapeutico che per noi è l’impiego di mezzi artificiali sproporzionato rispetto alla prognosi del paziente. La medicina intensiva permette ai pazienti che ne sono in grado, di “tornare a casa” in una condizione che corrisponda alla loro idea di sufficiente qualità di vita. L’accanimento terapeutico esprime l’idea di azioni che non riescono più a conciliare la cura con il prendersi Considerata la prognosi, in termini di recupero neurologico e funzionale, e in previsione di ulteriori complicanze, viene chiesto il parere della Commissione di etica clinica dell’Ente ospedaliero cantonale circa l’opportunità dell’astensione da un atteggiamento terapeutico aggressivo. La Commissione ha ritenuto che dopo molti mesi di coma vigile e in considerazione del referto della Tac (che indica una gravissima disfunzione corticale bilaterale) le possibilità di ripresa sono praticamente nulle. Pertanto, nell’eventualità di un peggioramento delle sue condizioni, un accanimento terapeutico con rianimazione e intubazione riporterebbe il paziente al massimo nella situazione attuale. I familiari, convinti invece della possibilità di un miglioramento, desiderano che in caso di complicanze siano intraprese terapie massimali e, per questo, hanno chiesto e ottenuto di riportarlo in Italia dove riabilitazione e rianimazione non sono considerate accanimento terapeutico. cura del paziente e, per evitarlo, in molti centri di terapia intensiva svizzeri, si sospendono le terapie vitali quando non sono più ritenute benefiche. Nel caso di questo paziente, evitare l’accanimento terapeutico avrebbe significato non tanto sospendere le terapie quanto astenersi dall’iniziarle. Il problema com- scientifica, di prevedere la mortalità legata alle patologie dei pazienti ma non coma, dopo un certo lasso di tempo, permette il miglioramento neu- Nel 2005, in Svizzera, un uomo entra in coma vigile senza lasciare direttive anticipate. Quando i medici decidono di astenersi da terapie aggressive inizia il braccio di ferro tra familiari e specialisti, che si attengono alle decisioni della Commissione di etica clinica. I commenti al caso sembrano concordare con la Commissione, negli aspetti giuridici, etici e clinici gnosi soprattutto nel caso di pazienti comatosi. La medicina permette, attraverso le statistiche pubblicate dalla letteratura consente di fare una prognosi soggettiva. Da parecchi anni si è in grado di affermare che un determinato stato di rologico (non necessariamente il risveglio) per un certo numero di pazienti. Nel caso di questo paziente i dati della letteratura il caso Chi è quell’uno per cento? plesso nel definire l’accanimento terapeutico è legato alla difficoltà della pro- 21 ci dicono che la possibilità di miglioramento riguarda un paziente ogni cento. In definitiva, è impossibile sapere se quella persona su cento che può migliorare attraverso una terapia attiva sia proprio quel paziente del quale ci stiamo prendendo cura. Proprio per questa difficoltà i curanti non dovrebbero tralasciare cure attive per nessun paziente. La difficoltà di questa posizione deontologica è nel fatto che, se messa coerentemente in atto, vorrebbe dire far del male (anche rispetto al secondo e al terzo principio della bioetica) agli altri novantanove pazienti. Recuperare dignità Una difficoltà ulteriore veniva dal fatto che il paziente non aveva lasciato direttive anticipate: non eravamo perciò in grado di applica- Familiari: testimoni o sostituti? I due anni trascorsi dal paziente in uno stato vegetativo permanente sono un lasso di tempo sufficiente per poter formulare una prognosi sfavorevole dal punto di vista funzionale, in quanto i dati della letteratura scientifica sono concordi nel- 22 l’affermare che non sono stati segnalati casi di recupero neurologico significativo oltre questo periodo di mancata evoluzione. Ci troviamo quindi di fronte a un quadro caratterizzato dall’esito di gravità estrema di una lesione neurologica maggiore, di fronte re il primo principio della bioetica relativo all’autodeterminazione. Quando si è nell’impossibilità di conoscere i desideri dei pazienti, soprattutto nel caso di posizioni conflittuali fra i famigliari, non rimane altro che affidarsi a un’etica della reciprocità, nel senso di non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi stessi. Evitare l’accanimento terapeutico, non da ultimo per quanto riguarda questo paziente voleva dire facilitare il suo rientro a casa e consentire quindi quelle relazioni di affetto e di tenerezza che, di regola, soprattutto sul lungo periodo, sono più facilmente garantite in un ambiente famigliare o riabilitativo, mentre difficilmente si possono creare nei reparti di terapia intensiva. alla quale è doveroso chiedersi se un intervento invasivo sia da considerarsi proporzionato, o se non configuri piuttosto un accanimento terapeutico, non essendo in grado di migliorare le condizioni di vita ma solo di prolungare una sopravvivenza biologica con la possibilità di allungare inutili sofferenze. La letteratura inter- nazionale e le linee guida della Società italiana di anestesia e rianimazione indicano l’inopportunità di attuare questi trattamenti, in pieno accordo con quanto dichiarato dalla Commissione di etica clinica dell’Ente ospedaliero cantonale. Il principio di nonmaleficità è infatti invocato a sostegno di un comporta- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente Valentina Di Bernardo, Roberto Malacrida Secondo il primo principio dell’etica biomedica è necessario rispettare le scelte dell’individuo, che a loro volta dipendono dai suoi valori di fondo. Il mancato rispetto di questa volontà può trasformare un atto terapeutico in accanimento o viceversa produrre una situazione di abbandono terapeutico se il medico non attuasse un intervento di sostegno vitale richiesto da un paziente che desideri continuare a vivere nonostante i limiti imposti dalla sua condizione clinica. Tutta la riflessione sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, e più recentemente quella sulla figura del fiduciario, sottolineano l’importanza delle persone vicine al paziente come testimoni della sua volontà, non come sostituti del paziente o come detentori di un potere decisionale proprio. Possiamo quindi affermare che la volontà dei familiari in sé non può essere ritenuta vincolante, anche se deve essere considerata con il massimo rispetto. Una famiglia, più opinioni Un altro aspetto critico è rappresentato dalla possibile divergenza di vedute e i possibili conflitti esistenti tra i componenti del nucleo familiare. Non è infrequente infatti incontrare famiglie legalmente divise ma con legami affettivi ancora presenti, o viceversa conflitti interni talmente evidenti da rendere impossibile definire quale componente della fami- glia possa essere validamente ritenuto il miglior testimone della volontà del paziente. La legislazione attuale non ci consente di attribuire questo ruolo a una figura in particolare. Il medico rimane solo nella sua decisione, con la possibilità che questa venga poi contestata. Non dobbiamo infine dimenticare che la divergenza di atteggiamento tra medici e familiari dipende, nel caso in questione, da una diversa aspettativa per il futuro del paziente: i familiari fanno riferimento ai propri sentimenti, certamente da rispettare; i medici utilizzano dati tecni- I 4 CARDINI DELL’ETICA BIOMEDICA NEL 1979 i bioeticisti americani Tom Beauchamp e James Childress pubblicano i Principles of Biomedical Ethics. In quest’opera vengono enunciati i quattro principi dell’etica biomedica: di di di di autonomia non-maleficità beneficità giustizia il caso mento non interventista. Mentre lenire la sofferenza è comunque un dovere, un intervento artificiale e invasivo di sostegno vitale non farebbe altro che prolungare inutilmente e artificialmente il processo del morire. Sembrerebbe quindi di poter concludere con una piena condivisione della dichiarazione della Commissione. Il caso descritto introduce però un ulteriore elemento di riflessione, rappresentato dalla volontà dei familiari i quali, sperando ancora in un futuro recupero, insistono per l’attuazione di interventi invasivi qualora se ne ravvisasse la necessità al fine di consentire la sopravvivenza. Poiché questa volontà è in contrasto con l’orientamento sopra espresso, ci si chiede se debba essere ritenuta vincolante o almeno autorevole in caso di assenza di una volontà espressa dal paziente. 23 ci, secondo un corretto atteggiamento da professionisti. Lo scopo della medicina rimane la ricerca del bene del paziente, sforzandosi di condividere il contenuto della parola “bene”. Così come è legittimo che il medico scelga di attuare un interven- to terapeutico senza consenso del paziente quando si trovi “in stato di necessità”, valutando in base alle conoscenze scientifiche l’adeguatezza dell’intervento stesso rispetto a un condivisibile beneficio atteso, così è moralmente legittimo che I limiti intrinseci all’atto medico I l caso ripropone il tema delle decisioni cliniche sostitutive prese da soggetti diversi dall’interessato. Chi può decidere e in base a quali criteri deve decidere per conto e nell’interesse del paziente in stato di incapacità irreversibile? La decisione dovrebbe essere il risultato di un confronto, tra chi rappresenta legittimamente il malato e l’equipe che lo ha in cura, volto a individuare qual è in concreto il miglior inte- 24 resse del paziente, con conseguente esclusione di quegli interventi che possono integrare un inutile accanimento terapeutico. In questo caso l’equipe si trova a confrontarsi con i famigliari, categoria indeterminata e spesso conflittuale al suo interno, cui l’ordinamento giuridico italiano non conferisce automaticamente un potere di rappresentanza del congiunto in stato di incapacità decisionale. Sarebbe opportuno formuli una prognosi prudente ma affidabile e orienti il proprio operato in questo senso, qualora la volontà del paziente non sia disponibile nemmeno attraverso testimonianze delle persone a lui vicine. Ci si può dunque trovare d’accordo con la dichiarazione della Commissione di etica clinica che affida alla coscienza del personale curante la valutazione di quella che deve essere considerata la “buona medicina”. in casi del genere attivare la procedura di nomina di un legale rappresentante dell’incapace che sia abilitato a interloquire con i medici sulle decisioni da prendere nell’eventualità di pro- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente Gianmariano Marchesi Gli autori Roberto Malacrida è segretario della Commissione di etica clinica dell’Ente ospedaliero cantonale del Canton Ticino [email protected] Valentina Di Bernardo è membro della Commissione di etica clinica dell’Ente ospedaliero cantonale del Canton Ticino [email protected] Gianmariano Marchesi è medico chirurgo, direttore della Rianimazione generale adulti degli Ospedali Riuniti di Bergamo [email protected] Sergio Fucci è magistrato e bioeticista, studioso degli aspetti etico-giuridici della relazione di cura [email protected] babili complicanze del quadro clinico. In ogni caso l’obiettivo da perseguire non può legittimamente essere solo quello di tenere in vita il paziente con interventi aggressivi che non sono utili a migliorare la sua gravissima situazione conseguente all’irreversibile disfunzione corticale bilaterale diagnosticata, né possono incidere positivamente sulla qualità di vita dell’interessato. Questi interventi, infatti, non sembrano diretti a tutelare alcun serio interesse del paziente e che dovrebbe essere l’obiettivo comune sia per l’equipe curante che per il legale rappresentante dell’incapace. Astenersi è un diritto? re utili linee guida di comportamento che individuino quelle terapie che appaiono “futili” in base all’esperienza e che consentano ai curanti di assistere correttamente il paziente evitando interventi aggressivi in caso di prevedibili complicanze. Queste linee guida possono essere utilmente opposte alle richieste dei familiari per dimostrare, in base a dati scientifici, la sostanziale inutilità delle terapie aggressive astrattamente utilizzabili in caso di complicanze. Accordi e disaccordi È evidente che qualora il disaccordo insorto con i familiari non sia risolvibile con un leale confronto, rimane il rischio di un contenzioso, prevenibile solo con un preventivo ricorso della struttura (o dei medici) all’autorità giudiziaria per ottenere una preventiva autorizzazione all’astensione dagli interventi aggressivi richiesti e ritenuti non praticabili. In Inghilterra un conflitto del genere è insorto tra l’equipe che aveva in cura una neonata e i suoi genitori ed è stato deciso dall’Alta Corte in senso favorevole alla struttura ospedaliera che aveva chiesto l’autorizzazione a evitare interventi di rianimazione aggressivi non ritenuti corrispondenti al miglior interesse della piccola paziente, affetta da gravissime malattie. In Italia non risultano casi giudiziari analoghi e, quindi, mancano precedenti cui fare riferimento, ma nell’interesse del paziente incapace non si dovrebbe cedere a richieste incongrue, che integrano un inutile accanimento terapeutico e non portano alcun reale beneficio al diretto interessato. Sergio Fucci il caso A conclusioni diverse si potrebbe giungere solo se si dovesse ritenere che rientra tra gli obiettivi della medicina quello di impedire a ogni costo e, quindi, anche con interventi molto aggressivi (come la rianimazione e l’intubazione prospettati in questo caso), l’exitus del paziente affetto da patologia inguaribile e privo di concrete possibilità di ripresa. Il comportamento dell’equipe, d’altra parte, sembra conforme all’art. 16 del Codice di deontologia medica del 2006 che stabilisce che il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente (se espresse), deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato. Sul piano umano le richieste di intervento dei familiari sono comprensibili, ma non possono essere accettate qualora legittimamente ritenute, in base a convalidati criteri scientifici, non corrispondenti all’interesse del paziente. Ecco perché in casi simili possono esse- 25 Individuo, famiglia, società: i tre livelli dei disturbi psichici La malattia mentale non è solo un problema individuale ma anche collettivo. Ha risvolti sanitari, economici e sociali che diventano sempre più preoccupanti, specialmente nei Paesi industrializzati con la diffusione di stili di vita frenetici l’inasprimento delle disuguaglianze sociali e l’isolamento insito nella modernità. Un aspetto non trascurabile è che le malattie mentali sono un grave peso, sia psicologico che economico, per le famiglie. Daniela Cipolloni I disagio che tende a incidere negativamente sulla condizione fisica ed economica, oltre che su quella giudiziaria e penale, si aggiunge l’aggravante dell’emarginazione e dell’esclusione sociale. In seconda battuta, il disturbo mentale è un problema della famiglia, spesso l’unico contenitore sociale su cui si ripercuote l’onere della presa in carico del paziente, specialmente per le patologie meno disabilitanti o non diagnosticate. In terzo luogo, quale che sia, la malattia mentale rappresenta un costo notevole per la collettività e una sfida per la salute pubblica. Nell’insieme, l’Organizzazione mondiale della sanità considera i disturbi mentali ai primi posti nella classifica dei problemi di salute come carico di sofferenza e di disabilità per la popolazione. E le previsioni per il futuro per i Paesi industrializzati non sono rosee: numerosi fattori quali l’aumento della popolazione anziana, l’incremento dell’immigrazione e il conse- l’obiettivo l disturbo psichico è, prima di tutto, sofferenza individuale. Non godere di una soddisfacente salute mentale (definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come lo stato di benessere che permette al singolo di essere consapevole delle proprie capacità, affrontare le normali difficoltà quotidiane e lavorare in modo utile e produttivo) significa disporre di una scarsa qualità della vita e aver difficoltà a gestire le relazioni interpersonali, sentimentali e professionali. A questo 27 guente aumento delle condizioni di disagio a causa della povertà e delle disuguaglianze nell’accesso alle cure, le condizioni di stress per i frenetici ritmi di vita e di lavoro, il crescente disa- bulimia nervose, l’abuso da sostanze e da alcol. Numerose, inoltre, sono le persone che hanno problemi psicologici chiamati “sottosoglia”, non così gravi perché si possa fare una Molti hanno problemi psicologici chiamati “sottosoglia”, non così gravi perché si possa fare una diagnosi secondo i criteri delle classificazioni internazionali, ma comunque responsabili di malessere nella vita di tutti i giorni gio urbano, i problemi dell’adolescenza e della gioventù, potranno contribuire a favorire ulteriormente la diffusione dei disturbi mentali. La dimensione del problema La gamma delle malattie psichiatriche e comportamentali è estesa: i due poli forti, di stretta competenza psichiatrica, sono le malattie psicotiche come la schizofrenia e le psicosi maniaco depressive. Si tratta dei disagi più gravi che riguardano circa l’1 per cento della popolazione. Ben più diffusi sono i disturbi d’ansia, le patologie ossessivocompulsive, i disturbi alimentari come anoressia e 28 diagnosi secondo i criteri delle classificazioni internazionali, ma che comunque sono responsabili di malessere e difficoltà nella vita di tutti i giorni. In Europa si stima che una persona su quattro sperimenti nell’arco della vita almeno una di queste forme di disagio psichico. Visto da un’altra angolatura, significa che prima o poi tutti entriamo a contatto, direttamente oppure indirettamente (attraverso l’esperienza di un amico, del proprio partner, di un parente, di un collega), con la negazione della salute mentale. Le stime per l’Italia della prevalenza di questi disturbi sono confrontabili con quelle degli altri Paesi. Recentemente, è stato con- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente dotto uno studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi mentali nell’ambito del progetto europeo European Study on the Epidemiology of Mental Disorders. È emerso che poco meno del 10 per cento della popolazione ha sofferto nell’arco di un anno di indagine di uno dei disturbi mentali più frequenti, come la depressione maggiore. Le fobie specifiche e la distimia sono state accusate rispettivamente dal 5,7 e dal 3,4 per cento dei 4.230 intervistati. A seguire, il disturbo post traumatico da stress, dalla fobia sociale e dal disturbo d’ansia generalizzata, sono stati riscontrati nel 2 per cento circa dei soggetti. Le donne risultano più a rischio di soffrire di un disturbo mentale, rispetto agli uomini, con l’eccezione dei disturbi correlati all’uso di alcol. Anche l’essere disoccupati, casalinghe o disabili aumenta la probabilità di soffrire di disturbi psichici. Un problema collettivo Quali sono le conseguenze del male vissuto da questa consistente fetta di popolazione? Dal punto di vista sanitario, l’ottobre 2005 e intitolato Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l’Unione Europea, ogni anno in Europa 58 mila cittadini muoiono per suicidio, una cifra che supera il numero annuo di decessi causati da incidenti stradali, omicidi o Aids. In Italia il problema è minore rispetto ai Paesi dell’ex Unione Sovietica, come Lituania, Lettonia ed Estonia, che si contengono il triste primato per numero di suicidi. Solo la Grecia ha un numero di morti volontarie più basso: 3,6 per 100 mila abitanti, contro i 6 dell’Italia. Pazienti e cure, quel gap da colmare Nonostante questi dati, è ancora ampio il gap tra il tipo di cure di cui i malati avrebbero bisogno e quelle che invece ricevono. In generale, nei Paesi europei si stima che dal 44 al 70 per cento di coloro che soffrono di malattie mentali non sia sottoposto ad alcuna terapia. Il sostegno umano dei pazienti che non ricevono assistenza finisce per gravare interamente sulle loro famiglie. In Italia non va molto meglio e, a fronte di un aumento nella prevalenza delle patologie mentali, i servizi disponibili sul territorio nazionale (211 Dipartimenti di salute mentale, istituiti in ciascuna azienda sanitaria locale, 612 centri diurni e 1552 strutture residenziali) risultano complessivamente inadeguati. Il giudizio è contenuto nell’indagine conoscitiva voluta dalla Commissione igiene e sanità del Senato sull’attuazione della Legge 180, che trent’anni fa ha sancito la chiusura dell’istituzione manicomiale. Nel documento è indicato che i servizi psichiatrici in Italia trattano solo il 10 per cento dei pazienti e il 90 per cento delle risorse è assorbito da 40 mila pazienti gravi, che presentano costi assistenziali molto elevati fino a 80 mila euro all’anno. Questo approccio, in cui la presa in carico del paziente riguarda i casi più gravi, ha lasciato scoperta una larga L’autrice Daniela Cipolloni Agenzia di giornalismo scientifico Zadigroma [email protected] l’obiettivo notevoli. Oltre alle prestazioni specialistiche da parte di psichiatri e psicologi clinici, è ben documentato che i pazienti con disturbi psicopatologici utilizzano maggiormente i servizi sanitari a causa di problemi di salute o dovuti a somatizzazione. La cartina di tornasole delle sofferenze di vario genere, entità e gravità della psiche umana è la spesa farmaceutica. Secondo l’International Labour Organization, i problemi di salute mentale possono causare la perdita di circa il 3-4 per cento del Prodotto interno lordo nell’Unione Europea, principalmente a causa della perdita di produttività. I disturbi psichici sono una delle prime tre cause di assenza dal lavoro e tra le principali ragioni dei pensionamenti anticipati e pensioni d’invalidità. Va peggio rispetto alle altre malattie: solo uno su cinque di coloro che hanno gravi problemi mentali riesce a mantenere un lavoro retribuito, contro il 65 per cento di coloro che hanno una disabilità fisica. Ma la perdita più drammatica per la società riguarda i suicidi: come riferisce il Libro Verde elaborato dalla Commissione europea nel- 29 fascia di popolazione afflitta da altri disturbi minori, meno gravi ma più diffusi, il cui carico è stato riversato principalmente sulle famiglie. Quando la famiglia paga la sofferenza mentale In Italia un milione di pazienti con depressione non è trattato per mancanza di diagnosi, con risvolti pratici e psicologici nel nucleo familiare. Come rilevato nell’ambito del Programma nazionale per la salute mentale del ministero della Salute, tra le difficoltà più spesso segnalate dai familiari di pazienti con depressione ci sono i problemi economici, lamentati dal 41 per cento dei parenti stretti, per lo più dovuti alla ridotta produttività del paziente. Il 71 per cento 30 accusa la diminuzione dei rapporti relazionali del paziente. Inoltre, nelle metà delle famiglie si riscontrano problemi coniugali, senso di perdita e sensazione di non riuscire più a sostenere la situazione. Frequentemente, la depressione di un membro della famiglia si ripercuote sugli altri soggetti, aggravando ulteriormente la situazione: nel 36 per cento dei familiari l’assistenza tra le mura domestiche a un individuo depresso provoca sintomi di malessere psicologico, che necessitano a loro volta di un intervento specialistico. In casa il 50 per cento afferma di sentirsi depresso e il 62 per cento di essere “sotto stress”. A questo si aggiungono gli indotti sul lungo temine, come le difficoltà percepite dai figli minoren- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente ni dei pazienti. Questo quadro dimostra come le condizioni di vita soggettive e oggettive delle persone con disturbi mentali non dipendano solo dalla gravità della malattia. C’è un sommerso di persone con disagio che evitano di chiedere aiuto, a volte per paura dello stigma sociale, rinunciando alle visite e alle terapie più opportune. In questo senso, la maggior parte dei Paesi riconosce la necessità di introdurre politiche più avanzate ed efficaci. C’è bisogno di fare rapidi passi avanti in questo settore, fornendo risposte adeguate. Tenendo presente che la salute mentale del singolo è la base per la prosperità, la solidarietà e la giustizia dell’intera società. Daniela Cipolloni Psicoterapia per tutti: un diritto e un investimento I disturbi mentali rappresentano una parte consistente del carico globale delle malattie, e hanno effetti gravi anche sulla salute fisica di chi ne soffre. Inoltre, i costi umani ed economici ricadono sull’intera società. Nonostante tutto ciò, anche in Occidente non tutti possono permettersi una psicoterapia. Consentirne l’accesso a chi ne ha bisogno è dunque un diritto costituzionale, ma anche un investimento di salute ed economico. Alberto Zucconi L’ una delle maggiori cause di suicidio: i suicidi sono un milione all’anno, e sempre secondo l’Oms ogni anno dai 10 ai 20 milioni di persone tentano il suicidio. Le ricerche rilevano inoltre che in Europa la depressione è una delle malattie più disabilitanti; gli ultimi dati disponibili mostrano che nel solo 2004 ha causato il 6% del carico totale delle malattie. In 28 Paesi europei, con una popolazione complessiva di 466 milioni, almeno 21 milioni sono stati colpiti da depressione, con un costo economico stimato nel 2004 di 118 miliardi di euro, pari all’1% del prodotto europeo lordo. Le ricadute negative sulla società Ancora più importante è tenere presente che la salute mentale è una delle determinanti della salute in generale: le ricerche mostrano che gli stati ansiosi e depressivi provocano ricadute negative sul sistema endocrino e immunitario, con conse- l’obiettivo Oms stima attualmente in 450 milioni le persone che soffrono di disturbi mentali o comportamentali, e prevede che una persona su quattro ne soffrirà durante la propria vita. I disturbi della salute mentale sono una delle maggiori cause di malattia e disabilità nel mondo (circa il 15% del totale delle malattie). Nell’ambito della salute mentale, una delle componenti principali è la depressione: 121 milioni di persone ne sono colpite in tutto il mondo. La depressione è 31 guenze di deterioramento della salute fisica. Sempre secondo gli studi dell’Oms, la salute mentale provoca notevoli sofferenze alle persone che ne sono colpite e alle loro famiglie, ma tutta la società paga un caro prezzo in termini di: perdita di produttività conseguente a morti premature dovute al suicidio, che in alcuni Paesi sono in numero pari o QUALE maggiore a quello delle morti causate da incidenti stradali perdita di produttività per assenza dal lavoro delle persone con problemi di salute mentale perdita di produttività per assenza dal lavoro delle persone che hanno un familiare con problemi di salute mentale costo degli incidenti sul lavoro sofferti o causati dalle persone con pro- PSICOTERAPIA È PIÙ EFFICACE? PSICOTERAPIA PER TUTTI: sì, ma quale? In Francia imperversano le polemiche: da un lato i sostenitori delle terapie cognitivo comportamentali basate sulle moderne tecniche anglosassoni di neuroscienze e psicologia scientifica; dall’altra parte i difensori della psicoanalisi di Freud, Jacques Lacan e Françoise Dolto. A far da bandiera ai due orientamenti ci sono due libri, usciti a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, e totalmente antitetici: Le Livre Noir de la Psychanalyse, raccolta di saggi curata da Catherine Meyer, e l’Anti-livre Noir de la psycanalyse di Jacques Alain Miller. Il primo accusa con toni vivaci le opere, le tecniche e il pensiero di Freud e discepoli. La psicanalisi classica viene definita “teoria vuota” e ormai superata dalle moderne terapie cognitivo comportamentali che agiscono sulla condotta e sul pensiero delle persone per «vivere, pensare e star meglio senza Freud», come spiegato dal sottotitolo del libro. La risposta arriva dall’Anti-libro nero di Miller, che accusa le nuove terapie standardizzate e i loro sostenitori in nome del rispetto dell’individualità, dell’inconscio da osservare e, in caso, curare. Chiara Badia 32 Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente blemi di salute mentale costi diretti o indiretti delle famiglie che devono prendersi cura di un loro membro con problemi di salute mentale costi relativi a disoccupazione, alienazione e criminalità dei giovani con problemi di salute mentale come la depressione e i disordini del comportamento; questi problemi colpiscono particolarmente i giovani che non hanno ricevuto cure efficaci e che per questo non hanno potuto beneficiare delle opportunità offerte dalla pubblica istruzione costi derivanti da problemi di sviluppo cognitivo dei figli di genitori con problemi psichici disagi emozionali, stress e perdita della qualità di vita dei cittadini con problemi di salute mentale e dei loro familiari sofferenze e costi derivanti dal pregiudizio, dalla discriminazione e dall’isolamento sociale di cui soffrono le persone con problemi di salute mentale. Nel mondo, su quattro utenti che si rivolgono al servizio sanitario, uno è affetto da almeno un disturbo mentale, neurologico o comportamentale, che però, nella maggioranza dei casi, non è diagnosticato o trattato efficacemente. La salute mentale impatta negativamente le malattie croniche come il cancro, le malattie cardiache o cardiovascolari, il diabete, le immunodeficienze e l’Aids: se i problemi di salute mentale non sono trattati, o non sono trattati efficacemente, le conseguenze sono comportamenti nocivi alla salute, mancanza di compliance alle cure, abbassamento delle difese immunitarie. Questo quadro drammatico secondo l’Oms dipende da fattori modificabili: trattamenti efficaci esistono per la maggioranza dei disordini della salute mentale e, se correttamente applicati, renderebbero possibile a chi ne è colpito di ritornare a essere un cittadino produttivo. L’Oms ritiene che le politiche sulla salute mentale non ricevano la priorità e i L’autore disfunzionali non solo per se stessi ma per l’intera Nazione. Infatti non consentire l’accesso alla psicoterapia a chi ne ha bisogno rappresenta la negazione di un diritto costituzionale, a cui stanno cercando di rimediare le proposte di legge recanti “Disposizioni per l’accesso alla psicoterapia”. Inoltre, impedire l’ac- Trattamenti efficaci esistono per la maggioranza dei disordini della salute mentale e, se correttamente applicati, renderebbero possibile ai cittadini che ne sono colpiti di ritornare a essere cittadini produttivi sociale, gli investimenti per la promozione della salute non solo sono largamente insufficienti in ambito programmatico, ma solo una minima parte dei fondi stanziati viene realmente usata per la promozione della salute in termini biopsicosociali. Purtroppo nel nostro Paese, malgrado un alto numero di persone abbia necessità di psicoterapia come trattamento di elezione, molti cittadini, ovviamente quelli meno abbienti e meno tutelati, non riescono ad accedere a questi servizi, con conseguenze drammatiche e cesso alla psicoterapia a chi ne ha bisogno non solo condanna a inutili e aggravate sofferenze, ma produce enormi costi agli individui, alle famiglie e all’intera società: il disagio mentale non efficacemente trattato produce deterioramento delle condizioni fisiche, con ulteriori costi sia per il Servizio sanitario nazionale sia per la società, in conseguenza della perdita di produttività per assenza dal lavoro, dell’aumento degli incidenti e di tutte le altre cause sopra elencate. Alberto Zucconi l’obiettivo Alberto Zucconi, psicologo e psicoterapeuta, è tra i fondatori dell’Istituto dell’approccio centrato sulla persona [email protected] fondi necessari per gestire efficacemente questa problematica che impatta così gravemente tutti i Paesi. Per quanto riguarda l’Italia, anche se il ministero della Sanità si è finalmente rinominato ministero della Salute per uscire dall’obsoleto paradigma riduzionistico ed entrare doverosamente in quello biopsico- 33 Psicologi e psichiatri: amici o nemici? Psicologi e psichiatri, due categorie simili ma diverse. I confini tra le due discipline a volte appaiono confusi. Nel corso della storia e dell’evoluzione di questi saperi si sono susseguiti incontri e scontri. La questione di fondo: da un lato gli psichiatri sono considerati troppo medicalizzanti, dall’altro gli psicologi curano malati senza avere le responsabilità proprie dei medici, a causa di uno status professionale ancora non del tutto chiaro. Emilio Vercillo P iù spesso di quanto si possa pensare si incontrano centri per la patologia mentale all’interno dei quali, con mutuo rispetto dei ruoli, reciproca stima, e soprattutto con un vantaggio per il paziente, psicologi e psichiatri lavorano insieme positivamente. Al di là di questi casi non rari, è bene dire però che l’area di conflitto tra queste due categorie cresce, frutto inevitabile del perdurare di una voluta confusione sin dall’atto della definizione giuridica della figura professionale dello psicologo 34 e, ancor più, da quando con norme criticabili e criticate si è tentato di regolamentare il lavoro della psicoterapia. Per capire i veri motivi alla base del problema è utile riflettere su qualche numero. Secondo quanto scritto da Luca Pezzullo su AltraPsicologia del 28 febbraio 2007, attualmente gli iscritti all’Ordine degli psicologi sono circa 60 mila, con un incremento di 8 mila iscritti in soli 2 anni. Vanno inoltre messi in conto i circa 50 mila iscritti ai 26 corsi di laurea in psi- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente cologia di tutta Italia, con una percentuale dell’80 per cento che arriva a completare gli studi. Dal piano sperimentale a quello sanitario La storia e l’evoluzione della psicologia in Italia, del corso di laurea e della definizione del ruolo e dei confini della professione di psicologo, costituiscono un excursus interessante su come si rende necessaria la ricerca di un’identità, quando i domini di una ma non esiste neppure una psicologia». Sono gli anni in cui si fa forte la richiesta di formazione psicoterapeutica, in cui la creazione dei servizi territoriali per le malattie mentali con l’assunzione di psicologi sposta la centralità dello psicologo dal piano scientifico sperimentale originario a quello seguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia […]. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica […]. A fronte delle molte cause legali nei confronti di medici, gli psicologi godono del privilegio di minore responsabilità nel loro agire, visto lo stato non ben definito della loro identità professionale e della loro pratica strettamente sanitario. Con la Legge 56 del 18 febbraio 1989 viene finalmente istituita la professione dello psicologo che, come recita l’articolo 1: «comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali, e alle comunità». Inoltre, secondo l’articolo 3: «L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato a una specifica formazione professionale da acquisirsi, dopo il con- Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione». Come si può notare, è nella natura contraddittoria di questi due articoli che sta la causa strutturale delle difficoltà attuali. Il ruolo medico dello psichiatra Agli psicologi, sin dal corso di studi, vengono sottolineate le differenze con la medicina. Ma qual è la medicina che viene descritta? La professione medica, l’obiettivo disciplina e soprattutto di una pratica sono tutt’altro che univoci e definiti. Da una specializzazione in psicologia (una psicologia soprattutto sperimentale, e orientata verso l’uso dei test), cui si accedeva dalle facoltà di medicina e di filosofia, si giunge negli anni Settanta alla creazione del corso di laurea di magistero, con tre indirizzi (didattico, applicativo e sperimentale), di cui solo quello applicativo sembra riferirsi al ruolo dello psicologo clinico. Negli anni Ottanta, varata la riforma psichiatrica, molti psicologi entrano nel Servizio sanitario nazionale, spesso nel ruolo di animatori. A questo proposito Gaetano Kanizsa nel 1980 arriva a sostenere: «un corso di laurea a carattere professionalizzante è oggi mistificante, non per le difficoltà di ordine pratico e organizzativo certamente esistenti o per le inadeguatezze della didattica e dei tirocini, ma proprio per lo stadio di immaturità della disciplina che non legittima la formazione di una vera figura professionale, comunque si voglia definirla». E il decano Cesare Musatti nel 1982 afferma: «non solo non esiste la professione dello psicologo, 35 che pure esiste da circa 4000 anni con una varietà grandissima di teorie, viene presentata e ridotta a una sorta di teoria lineare ingenua delle causalità, di tipo fisico, naturalmente a fronte di modelli comprensivi ed empatici in uso da parte della psicologia. Il medico, dal punto di vista dello psicologo, ha un solo campo di operazione legittimo: la diagnosi d’organo e la somministrazione dei farmaci adatti. Ma nessun medico però accetterebbe di vedere così ridotto il suo ruolo, per altro privato del ruolo colloquiale con il paziente, fattore necessario sia alla diagnosi che all’intervento terapeutico. Eppure è questa la visione caricaturale in cui si tenta di ricacciare lo psichiatra per saperne di più G. Kanizsa, “Ristrutturare il corso di laurea?”. In: Giornale Italiano di Psicologia, 1980. C. Musatti (1982), “Documento di base”. In: Psicologia Clinica, 1982. L. Pezzullo, “Demografia professionale prossima (s)ventura...”. In: AltraPsicologia, 2007. 36 da parte degli psicologi, con tutta evidenza al fine di mantenere un proprio spazio esclusivo d’azione. Eppure anche il sapere della psicoterapia è nato proprio in ambito medico: i “trattamenti morali” dell’Ottocento e la psicoanalisi sono nati da medici. I confini della diagnosi psicologica Per creare un campo definito di identità, l’Italia è ricorsa a una risorsa millenaria della sua cultura giuridica: il nominalismo. Ha creato un termine che non ha riscontro altrove, con la pretesa che la realtà gli si conformi: la diagnosi psicologica. Vale la pena precisare che non esiste nazione al mondo in cui sia permesso che una persona senza preparazione medica certificata, qual è un laureato in psicologia, formuli una diagnosi. Va ricordato che la diagnosi è un processo di tipo differenziale: se non risultano note almeno le 60 patologie non rare che possono dare modificazioni psicologiche, nonché tutti gli effetti di farmaci, sostanze varie, ritmi di vita sulla psiche, come si può fare diagnosi? Si obietterà che si Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente sta parlando di diagnosi psicologica che è diversa da quella medica; ma di fatto i confini della diagnosi psicologica sono sconosciuti, visto che si tratta di sapere quali stili psicologici vengono attuati nella mente del paziente, come le dinamiche familiari e sociali vengono a influire nel vissuto della persona e via dicendo. Va precisato che non esiste al mondo luogo in cui uno psicologo possa prescrivere una terapia senza che preliminarmente un medico abbia formulato una diagnosi (neanche negli Usa, dove gli psicologi godono del prescription privilege, la facoltà di prescrivere psicofarmaci). Questo privilegio costituisce di fatto uno degli obiettivi che si sono posti gli psicologi italiani, insieme alla facoltà di poter richiedere consulenze specialistiche. Il progetto è chiaro: sostituire in tutte le funzioni lo psichiatra, affermando l’identità delle funzioni e delle facoltà medico legali. Ora, la diagnosi, la certificazione, la terapia, la prognosi e, nello specifico, la richiesta e la convalida necessarie per un trattamento sanitario obbligatorio, non sono solo atti medici, ma sono atti medi- ci dovuti. Per il medico esiste l’obbligo della diagnosi e della certificazione, per gli psicologi solo la facoltà. Tra il fisico e lo psichico intentate per i concorsi per psicoterapeuti nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, concorsi che si vorrebbero esclusivamente aperti a psicologi, cui a rigore di termini e per quanto detto possono con tutta evidenza partecipare anche gli psichiatri. Dalla psichiatria alla salute mentale In verità lo stato attuale delle cose è conseguenza anche della peculiare posizione dello psichiatra in Italia al quale, da più di trent’anni, viene addossata la colpa originale di essere stato lo strumento della repressione del disagio sociale nei manicomi. Questa posizione anti psichiatrica, che ha dominato nel nostro Paese durante questi decenni, finisce per cancellare quella che è stata la conquista maggiore della riforma psichiatrica: il riavvicinamento della psichiatria alle altre discipline mediche e alla dignità medico-specialistica. Se non si considera quanto rimane sedimentato nel senso comune di queste posizioni ideologiche estremistiche, non si arriva a capire perché al giorno d’oggi i servizi psichiatrici l’obiettivo Di fatto, a fronte delle numerose cause legali nei confronti di medici, gli psicologi sembrano godere del privilegio di minore responsabilità nel loro agire, visto lo stato non ben definito della loro identità professionale nonché della loro pratica. Anche per quanto riguarda l’ambito peritale (come si evince da un documento congiunto delle società italiane di criminologia, medicina legale e psichiatria sull’imputabilità e sulla pericolosità sociale) si esprime l’esigenza di evitare vaghe formulazioni psicologiche e la necessità di utilizzare chiare misure diagnostiche psichiatriche. Una terapia adeguata, secondo una scienza che si voglia empiricamente fondata sulla conoscenza delle prove, non può che seguire una corretta diagnosi. Solo il medico, nello specifico lo psichiatra, possiede una competenza globale in merito alle varie fasi della malattia, anzi è proprio nello spaziare tra fisico e psichico che ha trovato forma il pensiero psichiatrico. Così, nel momento in cui si fanno sempre più evidenti (per esempio con tecniche di neuroimaging) le conseguenze “organiche” delle attività psicoterapeutiche sulla plasticità del sistema nervoso, sempre più pretestuosa appare la distinzione tra il fisico e lo psichico all’interno della persona. Ciò non esclude affatto che tecniche operative terapeutiche possano essere demandate a figure specificamente formate ad hoc, come accade nel caso ad esempio della fisioterapia. Il fisioterapista, almeno per ora, non sostituisce il fisiatra, il neurologo o l’ortopedico nella pienezza delle sue funzioni. Gli psicologi lamentano la facoltà degli psichiatri di esercitare la psicoterapia; ma si deve ricordare che l’insegnamento di tecniche psicoterapeutiche è parte costitutiva del corso di specializzazione in psichiatria, come il fatto che molti psichiatri possiedono un’ulteriore formazione indipendente ottenuta presso società private (psicoanalitiche, cognitive, sistemiche). In questo quadro si possono così comprendere le tante battaglie legali 37 devono essere invece definiti di “salute mentale”, laddove nessuno pensa di cambiare il nome all’ortopedia in “salute delle ossa e articolazioni”. Si progetta addirittura di modificare il nome della scuola di specializzazione in psichiatria, usando il termine più politically correct “salute mentale”. Anche la dicitura “processo di accoglienza”, per indicare la prima visita che viene fatta a chi si reca nei dipartimenti di salute mentale, rientra nell’ottica dell’eliminazione di tutto L’autore Emilio Vercillo, psichiatra, psicoanalista, psicofarmacologo, lavora presso l’Ospedale S. Giacomo di Roma. Si occupa di ricerca in psichiatria transculturale e di psicotraumatologia [email protected] 38 Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente quanto possa ricordare l’ambito medico. Da tutto ciò gli psicologi traggono il vantaggio di un maggiore consenso generale, per altro senza il rischio di essere percepiti come “medicalizzanti” o addirittura “manicomializzanti”. Il dibattito rimane acceso, ma è necessario evitare che tutto questo avvenga a scapito del buon senso, della competenza, della buona organizzazione e, soprattutto, dei malati. Emilio Vercillo Non solo “castelli di sabbia” Quando si ha a che fare con i tossicodipendenti e con le loro emozioni altalenanti, la psicoterapia non è sempre risolutiva. A volte è necessario aggirare l’incomunicabilità e trovare sistemi alternativi di aiuto psicologico. La terapia del gioco della sabbia è uno di questi approcci: stimola la creatività per far riaffiorare le esperienze del vissuto. E l’operatore sanitario non può non essere coinvolto dai piccoli ma evidenti segnali di cambiamento. Marcella Merlino P dovrà fare i conti con la sua condizione. Il passare degli anni ha mostrato infatti quanto sia difficile la loro integrazione, e come le ricadute siano frequenti anche a distanza di anni. Oggi l’approccio dei Servizi non è più orientato esclusivamente verso l’uscita dalla droga, ma piuttosto ad arginare i danni che il tossicodipendente provoca a se stesso e agli altri. Anche la comunità terapeutica, che per un lungo periodo è stata vista come l’unica vera alternativa alla droga (al contrario del Servizio pubblico che, con la somministrazione del metadone, era accusato di contribuire a instaurare la tossicodipendenza) ha dovuto ridimensionare la portata del suo contributo, trasformandosi in uno dei tanti possibili interventi, utile in un determinato momento della storia dell’individuo. In quest’ottica, in cui non si crede più nella soluzione unica e definitiva in grado di “salvare” il giovane tossicodipendente, vanno acquistando sempre più l’obiettivo er chi lavora in un Sert, presidi territoriali di assistenza e cura ai tossicodipendenti, la promozione del benessere psichico è un tema di grande attualità, sia nei confronti degli utenti sia degli operatori. Nati agli inizi degli anni Ottanta per arginare la diffusione dell’eroina, i Sert si sono diffusi in tutta Italia e, mentre inizialmente avevano una fiducia quasi illimitata nel recupero del tossicodipendente, oggi per lo più lo considerano un paziente cronico, che per tutta la vita, tra alti e bassi, 39 importanza approcci alternativi e diversificati e centrati sulla tutela della salute, come la riduzione del danno e la prevenzione. Per esempio, la Sand Play Therapy, o terapia del gioco della sabbia, è una terapia analitica che usa la creatività come strumento di espressione. Utilizza come materiale una cassetta, contenete della sabbia e diversi oggetti. Il linguaggio delle sensazioni si antepone a quello delle parole, dando la possibilità di avviare non solo processi terapeutici, ma anche di aprire piccoli spiragli di cambiamento, di offrire opportunità nuove che possono riguardare sia i pazienti sia gli operatori. Occuparsi della salute fisica e psichica del tossicodipendente è l’obiettivo principale che oggi si pongono i Servizi. Confrontarsi con l’emozione diffusa L’altro fronte di questo nuovo scenario che è importante sottolineare è il benessere psichico di coloro che lavorano con i tossicodipendenti. Negli ultimi anni questo aspetto è stato finalmente preso in considerazione. Giornate di 40 lavoro dedicate alla formazione, convegni sul burn out, supervisone all’interno dei Servizi, sono risorse preziose sempre più di frequente attivate e da potenziare ulteriormente nei Sert, dove i livelli di stress sono alti, in parte proprio per l’utenza, difficile e poco gratificante; in parte per la scarsa considerazione di cui godono questi Servizi. Tranne rare eccezioni, basta entrare in un Sert per cogliere questo clima. Lo stesso edificio, spesso in avanzato stadio di degrado, dà una sensazione di trasandatezza, scarsa accoglienza, freddezza. La guardia armata all’ingresso, le porte d’accesso che possono aprirsi solo dall’interno, le feritoie strategiche che servono a far passare il metadone (e solo quello, impedendo la possibilità di comunicare tra l’esterno e l’interno), danno l’idea più di una trincea blindata che di un servizio pubblico sanitario. All’interno di questi spazi, lo psicologo deve confrontarsi con chi porta la cronicità del proprio problema. Lavorare con i tossicodipendenti significa dover far fronte alle loro richieste di urgenza, alle loro continue manipolazioni, al loro affi- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente darsi totalmente all’operatore sanitario, per poi sparire il giorno dopo. Significa doversi confrontare con l’emozione diffusa che il paziente tossicodipendente esprime e scatena in chi l’assiste. Sono condizioni “limite”, entro le quali è particolarmente difficile riuscire a costruire un intervento psicologico di crescita e cambiamento. Lo sanno bene gli operatori, che si trovano di fatto schierati in due approcci che rischiano di essere ugualmente improduttivi: l’uno orientato all’utente fino ad accogliere urgenze o collusioni, l’altro orientato alla costruzione di un setting dalle regole rigide. Spesso nei Servizi per tossicodipenzenze gli psicologi oscillano tra queste due posizioni, cercando di difendersi dalla richiesta di aiuto così come è pretesa dal tossicodipendente, e che troppo spesso presenta le stesse caratteristiche di alternanza dell’esperienza della droga. Una terapia non verbale Per uscire dalla trappola dei ritmi alterati è necessaria una terapia non esclusivamente verbale, nella spe- ranza di negoziare un setting più adatto per un paziente notoriamente refrattario alla psicoterapia. Quella utilizzata, sin dal 1995, nel Sert della Asl RmB è la terapia del gioco della sabbia, che si è rivelata particolarmente utile nella patologia tossicomanica. Infatti il mondo inter- storia delle proprie origini. In pazienti dove tutto viene percepito con urgenza, distanza e indifferenza, l’importanza della memoria diventa essenziale. Un altro aspetto interessante, e in qualche modo anche inaspettato, è che il gioco della sabbia sembra funzionare come attivatore Il gioco della sabbia sembra funzionare come attivatore della motivazione al cambiamento, nel senso di favorire nell’utente la percezione di un mondo interno, dalle tante evidenze, e con cui vale la pena di entrare in contatto della motivazione al cambiamento, nel senso di favorire nell’utente la percezione di un mondo interno, dalle tante evidenze, e con cui vale la pena di entrare in contatto. È sorprendente notare che, per ottenere questo, spesso bastano pochi incontri, in cui vengono fatte affiorare fantasie e domande implicite; vengono rivalutate e sottolineate le potenzialità di autorealizzazione. Con il tossicodipendente, che spesso fa fugaci apparizioni al Sert, è fondamentale saper incidere nel “qui e ora” del breve incontro. Il gioco della sabbia, con il suo setting così inaspetta- Lo stupore che sollecita il cambiamento E già semplicemente l’essersi posti una domanda, aver provato curiosità, essersi meravigliati è un mezzo per imboccare una strada nuova. Nell’esperienza psicoterapeutica il paziente tossicodipendente appare per lo più chiuso e indifferente, ripetitivo e superficiale: fatto il primo colloquio, gli altri sembrano tutti uguali. Anche quando c’è un barlume di motivazione, le capacità di riflessione sembrano inibite e bloccate. L’incapacità di darsi una l’obiettivo no del paziente, sollecitato dalle immagini, può riaffiorare: è questa la base di partenza per il riconoscimento di parti inconsce che pure appartengono all’individuo. Sono paure, richieste d’aiuto, fantasie, sogni e ricordi che non si sa, o non si può, esprimere con le parole. È questo un materiale che il paziente tossicodipendente sembra aver completamente perduto e che la sabbia tende ad attivare naturalmente. In particolare, le scene che gli utenti realizzano sono spesso ricche di esperienze legate alla memoria: è il recupero di una identità basata sulla to, colorato e di forte impatto emotivo, permette una comunicazione carica di significato anche laddove non si riesce a varcare la soglia della noia e della ripetizione. Anzi, forse proprio laddove la comunicazione era più difficile e il rapporto più precario, i risultati mostrano delle significative aperture. Chi entra per la prima volta nella stanza della sabbia normalmente si stupisce: i commenti espressi sia da pazienti sia da colleghi sono sempre legati alla curiosità; la meraviglia è l’emozione dominante. 41 risposta è probabilmente uno dei motivi chiave della fuga dei tossicodipendenti dal lavoro psicoterapeutico. La Sand Play Therapy, per saperne di più R. Amman, Sandplay: immagini che curano e trasformano. Vivarium, Milano, 2000. L. Cancrini, Quei temerari sulle macchine volanti. La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1982. C.G. Jung, La vita simbolica. Bollati Boringhieri, Torino,1993. D. Kalsched, Il mondo interiore del trauma. Moretti & Vitali, Bergamo, 2001. D. Kalff, Sandplay. Sigo Press, Boston, 1980. M. Merlino, “Le immagini del tempo. Clinica di frontiera in un servizio pubblico per la tossicodipendenza”. In: Studi Junghiani, 2003. M. Merlino, V. Padiglione, “Ritmi Alterati. La tossicodipendenza come disturbo della temporalizzazione”. In: Psicologia Clinica, 1995. P. Rigliano, Doppia diagnosi. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004. 42 invece, si può vedere e toccare con le mani e in qualche modo rimane. È qualcosa di “concreto”, tanto è vero che viene fotografata. Giuseppe, un mio paziente, dopo il primo momento di sorpresa, si avvicina agli scaffali e comincia a indagare: a che cosa serve, per chi è, se c’è qualcuno che la sta già facendo, quali sono le regole. Si immedesima talmente che già immagina cosa potrebbe fare: «io utilizzerei lo scaffale verde» (cioè lo scaffale dove ci sono alberelli, fiori, foglie). Chiede un appuntamento, e intanto comunica ciò che gli piacerebbe fare, la prossima volta, e l’intenzione di portare lui stesso qualcosa da utilizzare per la terapia. Cosa questa che, due sedute dopo, puntualmente farà. Ovviamente, non può essere la curiosità la sola spinta che induce un tossicodipendente a percorrere la lunga e faticosa strada che porta verso il cambiamento, ma il gioco della sabbia sembra possa rappresentare la risposta adatta a chi ha in sé la spinta per un’evoluzione. E gli oggetti aumentano La realizzazione della stanza della sabbia ha richiesto Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente molto tempo. È stata però un’esperienza entusiasmante, un fare i conti con le emozioni che gli oggetti suscitano e offrirle al paziente che utilizzerà quegli stessi oggetti, e rimanderà, a sua volta, la propria emozione, in un continuo stimolo ad aggiungere e integrare la stanza della sabbia. Anche se per questa terapia sono previsti oggetti anche banali, sciatti, poveri, scuri o addirittura inquietanti, la scelta si è rivolta verso un materiale ricco, vario, bello ma soprattutto tale da colpire l’attenzione e stimolare. La ricerca del materiale per la stanza della sabbia aiuta a capire l’emozione di chi, di fronte agli scaffali, osserva gli oggetti e poi ne sceglie uno. L’aver costruito un luogo colorato, uno spazio psicologico inedito, dove è stato possibile che alcuni medici si sperimentassero nella composizione di scene e dove molti ragazzi portassero oggetti in dono, così che il repertorio potesse meglio accogliere il loro mondo interno, ha probabilmente contribuito nel quotidiano a far pensare almeno un po’ di più alla salute nel sistema Sert. Quello che la letteratura prevede, ma che con que- sto tipo di utenti ha superato ogni previsione, è che il repertorio degli oggetti è stato col tempo ampliato dai doni degli stessi pazienti: dai pupazzetti di gesso ai piccoli ortaggi di L’autrice Marcella Merlino ha istituito la prima stanza di terapia del gioco della sabbia in un Sert del territorio nazionale marcella_merlino@ katamail.com plastica colorata, dal rubino rosso e sfaccettato ai cioccolatini in carta stagnola dorata, fino ad arrivare all’uovo di papera preso da Andrea durante un fine settimana in campagna con i suoi genitori. Andrea, che ha fatto solo tre sabbie ma che ogni volta che viene osserva, tocca, ne entra comunque in contatto. Andrea, che subito dopo Pasqua ha avuto una grave crisi psicotica che lo ha spinto a non uscire più di casa rendendo infine necessario il suo ricovero in ospedale. Andrea che ora sta meglio e, rifiutando l’aiuto di altri Servizi, forse più idonei a lui, è tornato al Sert, non per l’abuso di eroina (che da anni non prende più) ma per venire a parlare con chi c’è, medici e infermieri, assistente sociale o educatori, chiunque sia disponibile a dargli quel senso di appartenenza che non riesce a trovare altrove nella sua vita: come lui stesso dice, «essere un tossicodipendente è meglio che non essere niente». Marcella Merlino l’obiettivo 43 Ci son due pappagalli e un orangotango… Due modelli di psichiatria a confronto, quello di tipo manicomiale e quello di comunità, permettono di sottolineare l’importanza del concetto di salute mentale e del suo legame con l’idea di guarigione. Ma la modernità porta a fare i conti con un terzo tipo di approccio: una psichiatria che ignora il dibattito tra manicomio e territorio per dare spazio e voce alle multinazionali della sanità e con una visione di tipo aziendale. Franco Fasolo H o trascorso gli ultimi tre decenni e mezzo abbondanti della mia vita professionale a cercare di praticare la psichiatria di territorio, oggi “psichiatria di comunità”, e a difenderne i meriti rispetto a quelli, sempre presunti come superiori dai miei Superiori di ogni genere (politici, amministratori, universitari e direttori, di ogni partito) della psichiatria ospedalocentrica, oggi “psichiatria manicomiale”. In questa impresa ho anche letto molte migliaia di pagine e ne ho scritte sicuramente 44 diverse centinaia. Il lettore assolutamente ignaro, se mai ne esistesse qualcuno, è invitato a leggere le poche righe successive come mia nipote ascolta e partecipa attivamente alla canzoncina per bambini cui alludo nel titolo, travisandola solo un pochino. È comunque il migliore riassunto della mia tesi che potessi immaginare oggi (estate 2007). Allo stato attuale delle conoscenze di cui dispongo, le due psichiatrie di cui continuiamo ormai troppo ingenuamente a dibattere Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente sono, in fondo, due pappagalli della stessa specie. Due pappagalli troppo simili Il modello ospedalocentrico è quello più riduzionista, che si illude di essere più scientifico solo perché tratta gli esseri umani a pezzi e bocconi: problemi di mal-funzionamento cerebrale, problemi di malfunzionamento psichico, eccetera. In questo tipo di lavoro si cura la gente in ospedale, oppure in ambu- noi non guariranno mai. Il principio operativo, logicamente, è quello di esclusione. L’immagine giornalistica tipica è quella dello psichiatra strizzacervelli. Guarigione e salute mentale La parola chiave per la psichiatria di comunità è La filastrocca Ci son due coccodrilli e un orangotango, due piccoli serpenti e un’aquila reale, il gatto, il topo, l’elefante: non manca più nessuno; solo non si vedono i due leocorni. Ndr: questo è il testo originale della filastrocca, ma probabilmente esistono diverse versioni! invece guarigione. Da tre, forse quattro, decenni è sopravvenuta l’idea della salute mentale, e solo con questa particolare nozione si può finalmente parlare anzi si può puntare concretamente e con successo alla guarigione. Infatti salute mentale è un concetto “sopravveniente” rispetto a quelli di livello inferiore come cervello e come psiche. Li include, li comprende come necessari, ma non gli sono sufficienti. La salute mentale si pratica nella comunità locale, più o meno, ma meglio se bene, organizzata: la si vede solo lì. L’altro pappagallo potrebbe ripetere che è stata inventata lì, altrimenti non esiste e ha anche ragione. In questo tipo di lavoro, si cura la gente dove è meglio (a domicilio, in patronato, in gruppo, qualcuno addirittura ha provato con la barca a vela!), con il minimo intervento di volta in volta sufficiente (si chiama “trattamento sequenziale”) a far crescere nelle persone la tolleranza immunitaria, di cui sopra, senza però farle arrivare al rigetto o alla crisi auto-immunitaria. Il centro del servizio è il famigerato Centro di salute mentale, ma non quello aperto 24 ore su 24, che è psichiatria manicomiale riciclata. Tutte le terapie vanno bene, quando sono indicate, per curare i pazienti nelle loro successive fasi di vita in modo che possano crescere e maturare, secondo le loro intenzioni. Sempre però attraverso le “relazioni fac- l’obiettivo latori specialistici, con gli psicofarmaci e perfino con le psicoterapie individuali, in termini però sempre tendenzialmente escludenti gli uni dalle altre e viceversa. I pazienti sono tutti maternamente trattati come se ciascuno fosse un figlio unico, e gli operatori sono tutti trattati come portatori sani di potenziali psicopatologie, perché se uno si ammala di burn-out, che è una malattia professionale da insoddisfazione sui risultati del proprio lavoro, sono “pazzi” suoi e si mette in malattia o si trasferisce. Il modello di cura fondativo è in questo caso quello immunitario: difendiamo le persone da qualsiasi “antigene” emozionale o relazionale, virale o genetico, possa essere troppo antigienico per loro, gli anticorpi glieli garantiamo noi, tenendole coperte di medicine, lontane dai contesti che le fanno stare male, in ambienti di vita migliori (reparti o comunità con gradi variabili di protettività) che riconoscono la loro fragilità, vulnerabilità e disabilità. Solo che così dobbiamo farlo per tutta la loro vita, cioè trattiamo le persone a priori (e anche a posteriori) come malati cronici. E infatti con 45 cia a faccia” che caratterizzano tutte le grandi organizzazioni di cura: la psichiatria come le organizzazioni scolastiche come le organizzazioni religiose. Soprattutto, le persone vengono trattate riconoscendo loro che sono fatte dalle proprie reti sociali, che includono le famiglie o gruppi famigliari, ma che sono costituite anche dalla grande quantità di gruppi di pari estranei, che finalmente vengono valorizzati da questo pappagallo comunitario. per saperne di più G. Di Marco, “Psichiatria sine psichiatria”. In: Rivista sperimentale di freniatria, 2001. R. Esposito, Immunitas. Einaudi, Torino, 2002. M. Farkas, “The vision of recovery today: what it is and what it means for services”. In: World Psychiatry, 2007. F. Fasolo, Psichiatria senza rete. Cleup, Padova, 2007. C. Lister-Ford, A Short Introduction to Psychotherapy. Sage Publications, London, 2007. 46 I pazienti vengono curati insieme con gli altri pazienti, in gruppi terapeutici che vengono realizzati in tutte quelle “comunità” dove in certi periodi della vita o della malattia sembra che i pazienti possano migliorare, siano un reparto psichiatrico ospedaliero o una comunità residenziale o la comunità locale. Il personale viene concepito come indispensabile per la salute mentale dei pazienti, le equipe sono uno fra i più preziosi gruppi da curare, e vengono condotte con estrema attenzione dai responsabili competenti, che stanno attenti ai minimi segni di burn-out. In questo modello organizzativo è però molto più difficile che i professionisti siano insoddisfatti del loro lavoro, visto che i pazienti non sono mai così cronici, e veder guarire le persone con cui si lavora faccia a faccia ti stanca senz’altro, ma non ti esaurisce mai. Naturalmente, nel lavoro di comunità è impossibile trascurare arbitrariamente (scientificamente?) qualche aspetto significativo dei pazienti, perché loro stessi chiedono di essere trattati come persone e collaborano sempre più attivamente e in modo competente, Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente così come fanno non solo i loro familiari, ma tutti gli altri gruppi di interesse e gli altri servizi coinvolti nella salute mentale della comunità. Il principio operativo è qui, logicamente, quello di estensività, che comprende le dimensioni relazionali basiche della inclusione e dell’attaccamento. L’immagine cult che propongo ai giornalisti di utilizzare se proprio vogliono sfotterci è quella dello psichiatra “specchiacervelli”, perché i neuroni-specchio scoperti dai neurofisiologi di Parma garantiscono una solida base neuroscientifica per alcuni dei più efficaci fattori terapeutici utilizzabili in terapia di gruppo: il rispecchiamento, l’empatia, l’altruismo, l’universalità, l’apprendimento vicario, l’apprendimento interpersonale e di conseguenza l’insight. Insomma, adesso possiamo parlare di guarigione in psichiatria, nel momento in cui possiamo descrivere precisi modelli organizzativi, consistenti prove di efficacia empiriche, espliciti criteri di accreditamento degli stessi servizi in quanto orientati alla guarigione e non solo al controllo sociale. Anzi, adesso possiamo anche dire ai diretto- ri generali delle Aziende sociosanitarie pubbliche che la loro mission non è affatto quella di far crescere il capitale economico e finanziario delle fin troppo numerose famiglie multinazionali e transnazionali interessate nel giro della sanità, ma solo ed esclusivamente quella di far crescere il capitale sociale delle popolazioni servite dalla loro azienda sociosanitaria. Impresa in cui la psichiatria, che si può fare e già si fa con molti dipartimenti di salute mentale e con la normativa disponibile (mi riferisco almeno alla 328/2000), è ormai molto esperta ed efficace. Irrompe l’orangotango samente troppo locale, infatti è sempre già una piccola comunità), anche se meglio sarebbe sotto il monitoraggio degli psichiatri del dipartimento di salute mentale, naturalmente. Vista poi la riduzione delle risorse disponibili per il ministero della Giustizia, ci sono già troppi psichiatri molto democratici che insi- In conseguenza della pressione degli stakeholder di ogni genere, ma in particolare di tanti testimonial, la stessa impostazione della nosografia sta già cambiando, fino alla proposta di abolire la diagnosi di schizofrenia tri del dipartimento di salute mentale, naturalmente. Vista poi la grande spinta sia della richiesta che dell’offerta specialistica di psicoterapie, e visto il sostanzioso disinteresse degli psichiatri a utilizzare queste tecniche di cura così poco sponsorizzate dalle case farmaceutiche, ci sono già progetti espliciti di appaltare direttamente tutte le competenze psicoterapeutiche a sofisticati “centri di psicoterapia” (con approccio severamente individuale, perché il gruppo terapeutico è sempre pericolo- stono con progetti espliciti perché i sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani vengano finalmente chiusi e i malati mentali che hanno commesso dei reati vengano anche loro affidati direttamente ai dipartimenti di salute mentale: che tanto hanno a priori la certezza della piena disponibilità del privato sociale, a cui possono quindi senza indugi affidare direttamente, brevi manu e sine cura, questi stessi malati. Inoltre, in conseguenza della pressione di stakeholder di ogni genere, ma in particolare di tanti testimo- l’obiettivo Beh, proprio adesso sta arrivando con grande fracasso pubblicitario l’orangotango. Succede infatti che, vista la grande maturazione di competenza e di utile efficacia del privato sociale e del terzo settore in generale, ci sono già progetti istituzionali espliciti di affidare a loro direttamente tutta la riabilitazione psichiatrica. Anzi, si può già sentir sussurrare che in certe realtà psichiatriche malamente organizzate, per consentire il più strenuo risparmio di risorse, una quota della stessa utenza complessiva potrebbe essere affidata fin dai primi contatti al privato sociale. Insomma: dato che la guarigione è garantita dal territorio, i malati da guarire se li prenda allora direttamente il territorio, anche se meglio sarebbe sotto il monitoraggio degli psichia- 47 nial, la stessa impostazione della nosografia (cioè la base del sapere accademico) sta già rapidamente cambiando, fino alla proposta di abolizione della diagnosi di schizofrenia a tutto vantaggio del riconoscimento che «essere bipolare è bello, anche perché è così deliziosamente genetico» e che basta assumere i medici e i farmaci giusti per te- L’autore Franco Fasolo è presidente dell’Associazione Veneta per la ricerca e la formazione in terapia analitica di gruppo e analisi istituzionale [email protected] 48 nere sotto controllo questa mitologica patologia. Continuità di cura, addio? Insomma, i dipartimenti di salute mentale stanno per cadere in mille pezzi. Addio continuità di cura, coerenza progettuale e salute mentale come competenza e agency anche civile e politica. Ma stanno per sfasciarsi in mille pezzi anche le cittadelle accademiche, perché stare dietro alle richieste del mercato globale sulle diagnosi da inventare per smerciare farmaci invenduti, o comunque a qualsiasi altra piccola lobby sufficientemente insistente e politicamente invadente, è perfino più dura che mettersi d’ac- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente cordo fra tre servizi diversi. I nostri due ormai vecchi pappagalli stanno per essere spiazzati dalla potentissima psichiatria sine psichiatria transnazionale. Ovvero da una psichiatria non solo “senza anima” ma molto, molto più “serena-mente” aziendale. E il suo modello organizzativo: l’ipermercato o la “Città-Fiera”, degli starnazzi fra manicomio e territorio, dei battibecchi fra clinica istituzionale e clinica universitaria, delle geometrie politichesi fra 180 e 328, delle sofisticherie fra funzionamento cerebrale e salute mentale, se ne fotte. Esattamente come l’orangotango dei due pappagallini. Franco Fasolo La psichiatria e il canto di sirena delle neuroscienze Le neuroscienze si stanno affermando in modo sempre più trionfante e pervasivo, e aprono nuove prospettive anche dal punto di vista terapeutico. Ma si può ridurre la complessità della mente ai meccanismi neuronali? Una teoria scientifica unica che spiega e risolve tutto è fascinosa, ma evoca gli scenari inquietanti di una cura intesa come ammaestramento e controllo. E soprattutto rischia di perdere di vista la cosa più importante: l’umanità. Rosa Bruni Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati Ludwig Wittgenstein È concorrono all’attività del cervello. È altrettanto innegabile l’utilità di una scienza che sia sempre più attenta alle individualità, che offra la possibilità di personalizzare il trattamento farmacologico, di disporre di procedure terapeutiche capaci di liberare da sintomi invalidanti che costringono l’esistenza e tormentano i giorni, di riaprire spazi di vivibilità per chi è rimasto chiuso e sopraffatto dalla sofferenza. Bisognerebbe essere ottusi e indifferenti per non riconoscere l’importanza del progresso delle neuroscienze per l’universo della psichiatria. È certamente possibile, e anzi necessario, accettare l’obiettivo facile parlare delle possibilità delle neuroscienze, delle «magnifiche sorti e progressive»: non si può negare l’importanza, sul piano conoscitivo e terapeutico, di una maggiore e sempre più raffinata conoscenza dei meccanismi neuronali di base, delle funzioni cerebrali e delle altre funzioni corporee che 49 gradi di contaminazione fra teorie diverse, ed è importante per una disciplina che, come la psichiatria, aspiri a occuparsi dell’umano, accettare che non esistano confini rigidi nei territori del proprio sapere. La storia della psichiatria, d’altronde, è fin dalle sue origini storia di pensieri e pratiche differenti, spesso distanti, in cui convivono, più o meno pacificamente, approcci e modelli della mente e della cura diversi, da quello fenomenologico a quello psicanalitico, da quello cognitivo a quello sistemico, da quello biologico a quello psicosociale. Ma di fronte all’emergere sempre più trionfante e pervasivo delle neuroscienze, sarà ancora possibile parlare di integrazione o c’è il rischio di andare verso un sapere scientifico unico e totalizzante, che tende alla geometrizzazione dell’esistenza e alla desertificazione dell’umano? «Tu sei le tue sinapsi» Appare sempre più difficile opporsi all’entusiasmo di chi, come Jean-Pierre Changeux, proclama che «Tutto ciò che apparteneva tradizionalmente all’ambito dello spirituale, del tra- 50 scendente e dell’immateriale, sta per essere materializzato, naturalizzato e, tanto vale dirlo, semplicemente umanizzato». Ma naturalizzare non vuol dire ridurre la mente al cervello; umanizzare non significa confinare la natura umana alla sola fisicità: i desideri, i sogni, il pensiero, le intenzioni non sono meno naturali di cellule, organi e mente, pensiero, intenzionalità, affettività dicono la stessa realtà di circuiti neuronali, neuromediatori, attivazione e disfunzioni? Dire «sono depresso» è la stessa cosa che dire «ho una carenza di serotonina» o «soffro di una disfunzione recettoriale»? Certo, esiste anche un approccio scientifico diverso, che considera la com- La storia della psichiatria, d’altronde, è fin dalle sue origini storia di pensieri e pratiche differenti, spesso distanti, in cui convivono, più o meno pacificamente, approcci e modelli della mente e della cura diversi apparati. Viene da chiedersi quale idea di natura e di uomo derivi dalle posizioni di chi, come Joseph Le Doux, afferma: «Le connessioni sinaptiche tengono insieme il Sé nella maggior parte di noi e per la maggior parte del tempo.[…] Tu sei le tue sinapsi. Esse sono chi sei tu». Allo stesso tempo teorie come quelle di Richard Rorty suggeriscono sostituzioni di vocabolari considerati ormai obsoleti come quelli psicologici con vocabolari neurobiologici. Ma è possibile questo tipo di “traduzione”? Psiche, Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente plessità della mente e della stessa neurobiologia. Come scrive Vito Enrico Pettorossi, «Da una concezione delle funzioni cerebrali localistica, indifferenziata si è passati a una visione dell’attività cerebrale distribuita, individualmente differenziata in cui presupposti genetici interagiscono e costruiscono reti neurali sulla base dell’interazione della genetica con l’esperienza, attraverso meccanismi di selezione circuitale. […] Ora sappiamo che il cervello sa fare molto di ciò che la mente fa: resta da vedere se queste qualità che il neuroscienziato ha finalmente dimostrato nella materialità del cervello diano ad esso lo scettro del potere o siano piuttosto le qualità di un servitore fedele; se la mente si dissolva nel cervello o viceversa». Per non confondere piani e vocabolari, bisogna utilizzare strumenti multipli: saperi e scienze diverse, dalla neurobiologia alla filosofia, dalla psicologia alla poesia, dalla fisica all’arte, possono concorrere all’approfondimento e alla conoscenza della dimensione mentale. L’ottimismo della “nuova scienza” Confrontarsi con la diversità Ancora Le Doux afferma: «L’essenza di quel che siamo è codificata all’interno dei nostri cervelli, e i cambiamenti del cervello spiegano le alterazioni del pensiero, dell’umore e del comportamento che si verificano con la malattia mentale. La questione fondamentale non è se la malattia mentale abbia effettivamente un’origine neurale in natura; è piuttosto la natura dei cambiamenti neurali che sottende problemi psichici, e il modo in cui il trattamento dovrebbe procedere». Ogni società propone un suo modello di normalità psichica, ne sancisce i confini, stabilisce appartenenze ed esclusioni. Quale rappresentazione della malattia e della sofferenza mentale sceglie il paradigma neuroscientifico? Che tipo di logica adotta per stabilire ciò che è patologico e ciò che è normale? Nel trionfalistico dominio dell’oggettività scientifica sarà ancora possibile considerare che la salute, la malattia, la normalità e la devianza rappresentano sempre oggetti culturali, inscritti in uno scenario storico in continuo divenire? Sarà possibile riconoscere che le scienze della natura non possono rivendicare un primato ontologico su altri saperi? Un approccio neurobiologi- l’obiettivo Se è vero poi, come sostiene Hans Kunz, che ogni epoca sceglie la sua psichiatria, e così facendo svela e nasconde insieme la sua antropologia di base, allora non rischia di perdersi solo la psichiatria, ma qualcosa di più importante: la possibilità di pensare l’umano. Non è detto che l’antropologia delle nuove neuroscienze sarà ancora capace di pensare in termini di unità: rischia piuttosto di proporre l’idea di un uomo monodimensionale, frammentato, ridotto a funzione, scisso dal conte- sto, alienato da ogni orizzonte di significato e di senso. L’attenzione esclusiva al particolare e alla funzione sembra favorire la dissoluzione dell’identità e la desoggettivazione. Quali sono le conseguenze di ciò sul senso di responsabilità, in termini di controllo sociale, di manipolazione di coscienze e di identità? Quale spazio rimane per il dissenso, per il pensiero diverso, per la democrazia? Sono domande che diventano di giorno in giorno più attuali e pressanti: si inizia a parlare di neuroeconomia, di politica del cervello e persino di neuroetica. Ma lo Zeitgeist non ama la complessità, bensì lo scintillio della tecnica e di un sapere scientifico “forte e certo” che spiega tutto, tacitando le domande, dissolvendo le ombre: proprio le ombre che rischiano di essere escluse e dimenticate nell’ottimismo generale della “nuova scienza” o, per dirla con Steven Rose, della «neurocentrica età dell’oro». 51 co centrato sulla “campana della normalità”, che utilizza la statistica come verità, avrà spazio e categorie per confrontarsi con la diversità? E una società sempre più preoccupata dell’omologazione saprà accogliere il deviante, chi non “funziona” normalmente o non ha “performance cognitive” adeguate? La conformità è salute o malattia? Già negli ultimi anni categorie come quelle di adattamento, funzionalità e utilità hanno assunto un valore normativo, a scapito del principio della sofferenza soggettiva. Al paradigma evoluzionistico, che in ambito biologico pone come principio fondamentale quello dell’adattamento, corrispondono modelli psicologici che vedono in questo principio una delle categorie normative per stabilire entità cliniche. Nel principale strumento nosografico psichiatrico, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, è annoverata una sindrome denominata “disturbo dell’adattamento”: non adattarsi alle situazioni nuove, nei tempi e nelle modalità considerate statisticamente 52 normali, è diventato sinonimo di disturbo psichico. Si tratta, secondo Umberto Galimberti, di psicologie che «assumono come ideale di salute proprio quell’essere conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia». Alla costruzione del nuovo sapere concorrono inoltre tecniche di indagine sempre più sofisticate che, analizzando i circuiti cerebrali e individuandone i malfunzionamenti, finiscono per stabilire nuovi criteri normativi e nuove entità nosografiche. Tutto ciò si traduce in nuovi interrogativi e pone opzioni complesse di pensiero e di pratica terapeutica: dove per esempio si evidenzi una disfunzione non accompagnata da sintomi evidenti, sarà opportuno parlare comunque di disturbo e, di conseguenza, sarà legittimo predisporre un trattamento? Mali sociali e disfunzioni cerebrali La malattia come disturbo psichico, secondo il paradigma neuroscientifico, è ricondotta alle sue componenti fisico chimiche, come un errore da cancellare, un’attività da regolare, un Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente organo da riparare, una funzione da recuperare. La sofferenza psichica perde le sue caratteristiche “vitali”, di sofferenza inscritta in una vita, in un percorso, per diventare numero e concretezza molecolare. Viene meno così la relazione tra sofferenza e storia, tra eventi e significati, tra soggetto e mondo; si perdono i legami vitali che dando significato, posizione e appartenenza identificano e specificano l’umano. Perdere la relazionalità vuol dire perdere il proprio posto nel mondo, il luogo delle relazioni e degli affetti, dell’incontro con l’altro e della scoperta di sé, del senso costruito insieme e dell’appartenenza. Confinare la malattia mentale all’individuo, dimenticando il ruolo dell’ambiente nelle sue diverse e sempre più complesse articolazioni, rischia di essere un errore preoccupante. Avrà posto in questa prospettiva teorica la concezione secondo cui esistono mali sociali, sofferenze indotte dalla cultura e dall’ambiente e non solo disfunzioni cerebrali? Certamente è più comodo e immediato somministrare un farmaco piuttosto che interrogarsi su cosa significhi essere bambino ai nostri giorni e sui contesti educativi, famigliari e scolastici in cui si manifesta il disagio. Una psicopatologia ridotta alla distinzione tra normalità e patologia, tra carenza ricerca creativa insieme? In questa chiarificazione biologica c’è forse il rischio di perdere l’“oltre”, che proprio perché territorio umano è anche territorio Nel trionfalistico dominio dell’oggettività scientifica sarà ancora possibile considerare che la salute e la malattia rappresentano sempre oggetti culturali, inscritti in uno scenario storico in continuo divenire? ed eccesso, assenza e presenza porterà a logiche binarie di esclusione dell’alterità, di segregazione, di emarginazione. E potrebbe ritornare, mascherata di futuro e di neurotecnica, la logica manicomiale. Ridurre l’uomo alla nuda materialità, alla concretezza, come se solo in questo consistesse la sua natura, è un’azione di spoliazione e di incarceramento al tempo stesso. Lo spaesamento perturbante I luoghi e le poetiche della cura A una concezione della mente appiattita sul cervello corrisponde una cura l’obiettivo Se si cede alla logica che spiega e ordina tutto, quale spazio di espressione resta per ciò che è al di fuori dell’ordine stabilito, per la follia, per l’esilio nel non senso, per la perdita di significato che è erranza e della follia: all’annullamento dell’orizzonte di senso corrisponde anche la rimozione dell’insensatezza. Questo spaesamento perturbante è proprio il problema fondamentale della psichiatria, come aveva già intuito Freud quando parlava di Unheimlichkeit. Forse non è azzardato affermare che proprio nell’incontro con il perturbante si declina la vicenda psicopatologica e si articola la sofferenza mentale. Espressione per eccellenza dell’estraneità familiare, sinonimo di inconscio o espressione dell’alterità, il perturbante rappresenta il luogo dell’irriducibilità ad unum. Il “malato mentale” è solo la sua sofferenza, il suo disturbo, la sua follia? È solo la malattia a conferire identità? Forse la follia non rappresenta tanto uno stato fattuale, quanto un modo di esistere, di abitare il linguaggio e il mondo secondo una radicalità irriducibile. Per non parlare di quelle situazioni che non sono proprio malattia, ma qualcosa che ci si avvicina: una zona di disagio abitata da fantasmi, da vita perduta, non vissuta, da attese saturate dall’assenza. Le grammatiche di superficie non parlano della complessità. Luci abbaglianti di saperi certi polverizzano la sofferenza. I territori della psichiatria sono terre desolate di senso e di speranza, abissi impenetrabili, strade accidentate che si perdono, sentieri improvvisi ritrovati, stanze anguste dei pensieri ossessivi, tunnel senza fine del panico, leggerezze pesantissime dell’anoressia, allucinati paesaggi della schizofrenia, sabbie mobili della paranoia, esistenze smarrite, vite in bilico, storie sbagliate. Ma anche attimi luminosi, sorrisi inattesi, speranze che aprono, affetti che curano. 53 per saperne di più J.P. Changeux, L’uomo di verità. Feltrinelli, Milano, 2003. J. Le Doux J, Il Sé sinaptico. Raffaello Cortina, Milano, 2002. S. Freud, “Il perturbante”. In: Oper. Vol. IX. Boringhieri, Torino, 1977. U. Galimberti, Psiche e Techne. Feltrinelli, Milano, 1999. M. Heidegger, Sentieri interrotti. La Nuova Italia, Firenze, 1968. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Masson, Milano, 1995. V.E. Pettorossi, Atti del congresso “Dal cervello alla mente, VIII incontro”, Perugina, 3 Febbraio 2007. R. Rorty, “In Defense of Eliminative Materialism”. In: D.M. Rosenthal (a cura di), Materialism and the Mind-Body Problem. Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1970. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche. Einaudi, Torino, 1974. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-16. Einaudi, Torino, 1983. 54 finalizzata a recuperare la funzione perduta, sorda alla complessità, incurante della voce della sofferenza. Il mito di una salute originaria e perfetta da recuperare e riattivare si traduce in una cura che consiste nel riparare il corpo macchina, eliminare l’eccesso, colmare il difetto con shock elettrici, stimolazioni magnetiche, droghe intelligenti: sono nuove forme di controllo e di omologazione volte a tacitare, nascondere, normalizzare. Una cura fondata su un’antropologia neuroscientifica diffida dell’umano e lo disprezza, non tollerandone i limiti, odiando e temendo in massimo grado l’errore. Errore, devianza, disturbo, limite, male: ecco le voci da cancellare nel vocabolario della neuroscienza. Così la cura psichiatrica rischia di trasformarsi in una zona muta in cui il disagio è segregato per garantirne il controllo. Felicità e sofferenza chimicamente dominate e programmi genetici volti a preservare il modello esatto suggeriscono scenari inquietanti ed evocano fantasmi di controllo: una cura intesa come ammaestramento e addomesticamento, che ripara il danno e compensa la carenza, che Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente non riesce a vedere nel limite una risorsa, per quanto modesta. Ma la cura in psichiatria, più che un sistema di pratiche giustificate sul piano dottrinale, è una certa presenza, un certo modo di accompagnare l’altro, di percorrere con lui i territori scoscesi della sofferenza, di sostare nelle radure dell’infelicità, di respirare nei chiari di bosco della speranza. Per chi è smarrito nella sofferenza, la cura è presenza che accompagna; per chi è isolato, è comunità che accoglie; per chi è chiuso nel silenzio, è parola che apre; per chi è stanco, è luogo dove sostare. La cura è farmaco e parola, lavoro e gioco, impegno e leggerezza, presenza e assenza insieme. Si tratta cioè di pensare a una cura declinata al plurale, a pratiche diverse costruite da soggetti differenti: singoli, comunità, istituzioni. I luoghi e le poetiche della cura sono tanti quanti quelli della malattia, quanti quelli della vita. Stare al mondo diversa-mente Forse abitare territori della sofferenza psichica, per chi cura e per chi è curato, vuol dire abituarsi a vivere sul confine: vivere la contingenza del qui e ora ma al tempo stesso non perdere lo slancio di trascendersi; vuol dire cercare nuove rappresentazioni e formazioni di senso, al di là delle psicopatologie ridotte a logiche binarie di presenza e assenza di sintomi. Forse c’è bisogno di praticare quella «coscienza disabituale in cui ogni cosa si colloca al di là del numerabile e del calcolabile» di cui L’autrice Rosa Bruni, specializzata in psichiatria, è psicoterapeuta a indirizzo psicoanalitico [email protected] parla Heidegger, in cui la conoscenza non aspira al dominio ma a stabilire una prossimità. Bisogna abituarsi a vocabolari differenti, muoversi lungo sentieri incerti, praticare le strade di un pensiero capace di pensare la differenza e di lasciarla libera di essere. Forse allora nei modi di stare al mondo disturbati, diversa-mente, si può rintracciare qualcosa che ha a che fare con ciò che è più propriamente umano, e che ricorda da vicino l’idea dell’irriducibile singolarità per cui ogni volto è unico. Forse proprio nell’errore, nell’incompletezza, nella mancanza, si trova lo spazio dell’incontro, del nostro accedere al mondo, agli altri, alla vita. Imbonitori scaltri esaltano le tante, straordinarie possibilità della nuova scienza della mente; ingenui servitori della tecnica suggeriscono integrazioni improbabili. Una voce suadente si leva nell’aria: la dolcezza, il fascino della teoria unica che spiega e risolve tutto, che tacita lo sconforto e la paura, che parla di un mondo perfetto dove tutto è bellezza, ordine, luce, dove regna sovrana la normalità statistica, dove tutto è fermo nella sua compiuta perfezione. Ma un poeta cieco illumina la nostra oscurità, e ci ricorda, quando nell’aria si leva il canto di sirena della semplificazione e della rassicurazione, di restare legati all’albero maestro. Rosa Bruni l’obiettivo 55 La solitudine dello specializzando Gli specializzandi in psichiatria sono esposti a situazioni molto complesse senza avere, data la giovane età, né un’adeguata competenza professionale né una maturità sufficiente. Per giunta, spesso, sono lasciati soli, senza avere accanto una persona esperta che possa dare consigli. Questa solitudine, oltre a ostacolare il processo di cura del paziente, provoca un malessere negli stessi specializzandi. Corrado Pontalti U na scuola di specializzazione raccoglie giovani professionisti che appartengono a una coorte generazionale ben precisa. I laureati in medicina proseguono automaticamente in una specializzazione e quindi iniziano con età che oscillano al massimo tra i 26 e i 28 anni. Escono da sei anni di studi medici con minime infarinature di psicologia generale e clinica e di psichiatria. I laureati in psicologia iniziano con una dispersione maggiore di età, dai 26 ai 35 anni. Escono da cinque anni, 56 sicuramente intensi, ma con una confusione terrificante tra epistemologie e modellistiche che i docenti trasmettono non come addestramento a pensare ma come apodittiche affermazioni totalizzanti. I giovani medici entrano quindi nel nuovo territorio vocazionale con la consapevolezza, esplicita ma non dichiarabile, di muoversi in situazioni semanticamente vuote, senza la minima competenza esplorativa: l’horror vacui è il significante che organizza le tappe della loro formazio- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente ne specialistica. I giovani psicologi non possono che cercare di collocare “i pazienti” entro il coacervo delle migliaia di pagine studiate con il sentimento di un troppo pieno soffocante. Pur con fenomenologia antitetica, entrambi i percorsi universitari depositano, sui territori della specializzazione, persone sanamente paralizzate, con la lucida coscienza di una radicale inadeguatezza. Fin qui niente di male: le specializzazioni servono a questo. Che succede, in realtà, nella trama com- plessiva dei percorsi di formazione? Un campo esperienziale totale logia clinica) i luoghi dell’apprendimento durante la specializzazione sono i più variegati: servizi ambulatoriali, reparti ospedalieri, day hospital, centri diurni, comunità terapeutiche di vario livello, cliniche psichiatriche private. Ognuna di queste organizzazioni ha la sua popolazione di Le specializzazioni sanitarie dell’area “psi” sono ontologicamente discontinue rispetto alle altre, nelle quali si può partire dalle operazioni cliniche più semplici e via via affrontare operazioni più complesse iscritto al rispettivo ordine professionale: lo Stato lo ritiene comunque responsabile anche se in formazione. Ci sono diverse sentenze, in medicina, che chiariscono come non sia motivo di non colpevolezza la giustificazione «Mi è stato detto di fare questa o quella operazione sanitaria da un responsabile». Nessun docente darebbe in mano allo specializzando nemmeno un ago da sutura se non in sua stretta presenza, fino a che abbia verificato che quest’operazione sia stata correttamente appresa. In psichiatria (intesa in senso lato e quindi comprendendo anche il campo della psico- pazienti, presenta situazioni che vanno dalle acuzie psicopatologiche fino alle cronicità più disperanti. Come fa un giovane a calibrare il suo assetto mentale in questa caotica varietà di situazioni? Chi è con lui quando incontra l’adolescente che si sta ritirando dalla vita o il paziente definito schizofrenico cronico di trent’anni (o anche, come capita, di venti), o quando incontra una signora depressa e nessuno gli ha insegnato a parlare anche con il marito o con i figli o con i genitori? Come fa un giovane specializzando a condurre un gruppo di pazienti in una comunità terapeutica o a condurre l’obiettivo L’oggetto della professione psichiatrica (che è per legge una professione sanitaria e non una disputatio filosofica) non appartiene al mondo sensibile (non è un cuore e non è un test neuropsicologico per la demenza) ma è l’esistere umano nel suo essere con se stesso e nel suo essere comunità (familiare o sociale che sia). Lo specializzando (e a volte anche il laureando) si trova confrontato inevitabilmente con un campo esperienziale totale, perché “totale” è la persona con la quale deve confrontarsi. In questo le specializzazioni sanitarie dell’area “psi” sono ontologicamente discontinue rispetto alle altre specializzazioni, nelle quali si può partire dalle operazioni cliniche più semplici e via via affrontare operazioni più complesse che richiedono maggiore competenza professionale. Inoltre, e questo è un topos deontologico ed etico essenziale, ognuna di queste operazioni è strettamente monitorata in tempo reale dal docente o da chi comunque ha la responsabilità legale della situazione. Anche se nessuno specializzando si rende conto delle implicazioni medico legali del suo operare. Eppure è ben chiaro il senso della normativa che richiede che ogni specializzando sia 57 un gruppo di genitori di pazienti psicotici? E come ci si può aspettare che queste attività siano terapeutiche verso la meta che sarebbe doveroso aspettarsi, cioè la guarigione, l’uscita dal circuito psichiatrico, per saperne di più A. Ballerini, Caduto da una stella. Figure dell’identità nella psicosi. Fioriti, Roma, 2005. F. Fasolo, Psichiatria senza rete. Cleup, Padova, 2007. G. Lanteri-Laura, Sapere, fare e saper-fare in psichiatria: psicopatologia, clinica ed epistemologia. Fioriti, Roma, 2007. C. Pontalti, “Etica e psicoterapia. Paradosso o vincolo? Un percorso per la clinica”. In: Terapia Familiare, numero speciale su Principi etici dell’intervento terapeutico 83. M. Tartari, “Precari, isolati e stressati: i dolori dei giovani psichiatri”. In: Il Sole 24 Ore Sanità, 17-23 luglio 2007. C. Vecchiato, M. Prelati, “Criticità in psichiatria o crisi dello psichiatra?”. In: Psichiatria di Comunità, VI, 2. 58 il ritorno del paziente alla sua vita, faticosa come tutte le vite umane? «Il modello che seguiamo è questo…» C’è un dato sociologico molto interessante che nulla ha a che vedere con il rigoroso metodo epistemologico che una scienza “umana” come la psichiatria richiederebbe come condizione fondante la pretesa di essere una professione sanitaria. È un dato presentato come scientifico pur essendo in realtà dell’ordine mitologico (per non dire puramente ideologico): viene autorevolmente affermato che esistono molte psichiatrie, e anche che esistono molte psicoterapie (cioè molte associazioni, molte scuole, molte economie e molti poteri), tanto che nemmeno ci si accorge più della paradossalità del tutto. Queste convinzioni fondano un capovolgimento logico impensabile in qualunque epistemologia scientifica. I saperi non servono come guida al comprendere e gestire le situazioni cliniche nella loro irriducibile singolarità, ma le situazioni cliniche (cioè la vita umana) vengo- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente no assorbite in vari e contraddittori paradigmi di queste molteplicità. Diagnosi, progetti di cura, costruzione dei campi terapeutici sono di fatto posti come a priori invarianti e non come il risultato di un’accurata valutazione delle caratteristiche psicopatologiche, familiari e ambientali di quella situazione. Il codice semantico ripetuto dovunque in modo stereotipato è infatti «Qui lavoriamo così… il modello che seguiamo è questo… il nostro protocollo procedurale è…». L’apprendista stregone Per fare un esempio banale: arriva a un consultorio una quindicenne accompagnata dalla madre. La posizione automatica, ancor prima di sapere come si chiamano le due persone, è: «Signora, vada a farsi un giro e ritorni fra un’ora». La signora ritorna ma la psicologa ha il divieto di comunicare con lei. Sarebbe più naturale chiedere: «Siete qui assieme, volete entrare tutte e due? Volete che parlo prima con la ragazza e poi con lei, o un pezzo del colloquio lo facciamo assieme?». Come si può esplorare il loro pro- getto, il loro desiderio, se invece di interpellarle le si definiscono automaticamente? La giovane psicologa in formazione ritiene che la procedura imposta sia quella corretta e sempre efficace, e la ripeterà in ogni situazione e verosimil- proporre la sospensione della patria potestà. In un paio di incontri si pietrifica l’ontologia di un essere umano; tutto quello che ne conseguirà è già scritto, in un percorso di cronicizzazione di una vita personale e familiare. Lo specializ- Se le strutture formative ritengono che si possa essere efficaci senza aver acquisito la competenza necessaria, significa che nessuno crede che la psichiatria sia una professione sanitaria intenzionata alla cura e alla guarigione zando si accorge solo dopo di ciò che ha messo in movimento, come l’apprendista stregone di Fantasia, ma nessun mago esperto interviene; anzi, il commento è: «Hai fatto bene il tuo mestiere!». Lo specializzando è solo, solo con la sua consapevolezza di aver causato tragedie alle quali non sa porre rimedio. Il problema è elegantemente aggirato Gli specializzandi sono esposti da soli a situazioni molto complesse senza avere, data la giovane età, né una competenza professionale né una maturità l’obiettivo mente per molti anni. Un altro esempio: in un servizio ambulatoriale si presenta un signore di 30 anni con impulsi violenti contro la moglie. La procedura è di applicare subito una scala per la diagnosi dei disturbi di personalità secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Ovviamente risulta un disturbo borderline, e tale diventa il paziente per lo specializzando in psichiatria e per il servizio. Il signor X è un borderline. Cosa prevede il protocollo? In un’ora il paziente esce con una buona dose di farmaci, ma quello che è terribile è che questa diagnosi motiva i servizi sociali a personologica sufficienti. Ma se le strutture formative ritengono che si possa essere efficaci senza aver acquisito la lenta, progressiva competenza che ogni professione richiede, questo significa ineluttabilmente che nessuno crede che la psichiatria e la psicoterapia siano professioni sanitarie intenzionate alla cura e alla guarigione. È ovvio per tutti che un intervento è efficace se può far bene ma anche se può far male (come per ogni farmaco in medicina: farmaco e veleno); ma questo problema in psichiatria è elegantemente aggirato tramite convinzioni non modificabili: la malattia è in sé cronicizzante; il paziente ha troppe resistenze o non è motivato, la madre simbiotica non tollera l’evoluzione del figlio, e così via. Questa psichiatria e questa psicologia clinica vengono insegnate e apprese, e quindi diventano cronicamente circolari nelle generazioni. Questa situazione configura il vero significato del costrutto “riduzionismo”. Non attiene, come spesso ci piace pensare, all’affermazione che la sofferenza mentale è genetica, è dovuta ad alterazione dei mediatori encefalici o a 59 destrutturazioni nell’architettura dell’ippocampo: attiene alla drastica riduzione a priori delle variabili strutturali presenti in quella configurazione esistenziale che è il proprium della professione “psi”. Questo riduzionismo ne mina alla radice la credibilità come scienza, ma ha un enorme vantaggio nell’economia psichica del professionista: àncora a certezze che riducono al minimo la fatica intellettuale ed emotiva di costruire progetti terapeutici com- L’autore Corrado Pontalti è professore di psicoterapia presso la Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma [email protected] 60 plessi a gestione complessa. Agli specializzandi offre appigli fasulli ma socialmente accettabili per l’insicurezza e l’incompetenza della giovane età. Si configura quindi una collusione strutturale, anche se con finalità diverse, tra docente e allievo. Qui sarebbe il nocciolo di un profondo ripensamento etico della professione psichiatrica e psicoterapeutica. Obbligherebbe a scavare nella formula cortocircuitante e onnipresente che si sente sempre ripetere: «Non abbiamo tempo per fare quello che andrebbe fatto!». Sarebbe come sentire un chirurgo che dice: «Ho operato un’appendicite in dieci minuti; ne sarebbero occorsi almeno quaranta, ma non avevo tempo». Certamente quel chirurgo sarebbe convocato in procura; gli psichiatri possono dirlo e farlo senza Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente che nessuno li cancelli dagli ordini professionali. Questa è la trama di significazione con la quale è confrontato lo specializzando, con una differenza importante: lo specializzando sente con dolore la consapevolezza di queste assurdità, ma non ha le parole per esprimerle e piano piano, senza accorgersene, si rassegna e capisce che sarà piccolo il territorio dove lui riuscirà a far guarire i pazienti; il resto è cronicità inevitabile. Parafrasando Ludwig Binswanger (che parla della psicosi), «bassa è la base etica nel nostro lavoro rispetto all’altezza dell’esperienza con cui i pazienti ci confrontano». Allargare questa base sarebbe il compito precipuo di una scuola di specializzazione. Corrado Pontalti Orizzonti europei e realtà locali La salute mentale della popolazione è una risorsa che deve essere migliorata, vista l’importanza epidemiologica del problema. Ancora oggi, le persone affette da patologie mentali subiscono atteggiamenti di discriminazione e stigmatizzazione. All’interno dell’ampio scenario europeo, l’Italia si è distinta per aver superato, prima di altri Paesi, la realtà degli ospedali psichiatrici e per aver cercato un modello di psichiatria di comunità. Gaddomaria Grassi C Questa premessa è necessaria perché le riflessioni e i pur necessari confronti fra modelli, pratiche, stili di lavoro, devono inevitabilmente tenere presente questa grande differenza di fondo. Prendendo spunto dai contenuti del Libro Verde della Commissione europea, intitolato Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l’Unione Europea, si può riflettere brevemente sulle specificità del modello italiano di psichiatria di comunità o meglio, date le notevoli differenze regionali e locali, sulla concreta esperienza del Dipartimento di salute mentale di Reggio Emilia. L’evoluzione del contesto culturale La Legge 180 ha sancito la chiusura degli ospedali psichiatrici in tutto il territorio nazionale e l’avvio di esperienze alternative, fondate sul ruolo centrale dei Centri di salute mentale dislocati nel territorio, sede l’obiettivo ome è noto, le legislazioni e le politiche sulla salute mentale e di conseguenza i modelli organizzativi sono profondamente diversi nei Paesi della Comunità Europea. In questi ultimi trent’anni cambiamenti profondi hanno caratterizzato le politiche psichiatriche di tutti i Paesi europei e in Italia, a differenza degli altre nazioni, l’applicazione della Legge 180 del 1978 ha portato al totale superamento degli ospedali psichiatrici e alla costruzione di un modello di psichiatria di comunità. 61 di progettazione e di interventi ambulatoriali, domiciliari e di rete, che si avvalgono di presidi semiresidenziali, residenziali e ospedalieri. L’applicazione di questa legge, come confermato dalle ricerche epidemiologiche anche recenti, è stata a pelle di leopardo, con notevoli differenze regionali e anche intraregionali. Dalla fine degli anni Settanta, quando la Legge Basaglia è stata promulgata, il contesto culturale e soli), dall’aumento dell’aspettativa di vita e dal progressivo incremento delle fasce di popolazione anziana, dal rapido mutamento della composizione sociale, dalla rottura delle reti sociali tradizionali, dalla precarietà crescente del mondo del lavoro. Questi elementi, e in generale la complessità delle problematiche sociali, hanno giocato e giocano un ruolo nel percorso, mai concluso, di lotta al pregiudizio e di inclusione sociale delle È mutato il contesto gestionale delle Unità sanitarie locali e degli ospedali, oggi aziendalizzati, favorendo lo sviluppo di una cultura improntata alla valutazione e la saldatura fra logiche di governo clinico ed economico socio-demografico è sensibilmente cambiato e con questi mutamenti i servizi sanitari, impegnati nel cercare di dare la migliore applicazione alla legge, hanno fatto e stanno facendo i conti. Sinteticamente, si può dire che negli ultimi anni il contesto sociale è stato caratterizzato dall’accorciamento della “catena familiare” (con l’aumento, per esempio, delle famiglie mononucleari e degli anziani 62 persone affette da disturbi psichici. Contestualmente a questi cambiamenti è mutato il contesto gestionale e organizzativo delle Unità sanitarie locali e degli ospedali, oggi aziendalizzati: questo ha favorito lo sviluppo di una cultura più improntata alla valutazione e la saldatura fra logiche di governo clinico ed economico. Infine, c’è stato il radicale mutamento del ruolo di utenti e familiari e delle Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente loro associazioni, nel senso del maggiore protagonismo, con il riconoscimento del pieno titolo delle associazioni di rappresentare non solo interessi e bisogni ma anche competenze. Con il risultato di un avvicinamento fra servizi, utenti e familiari, che comporta scambi e dialettiche intense ma anche proficue collaborazioni. Salute mentale come risorsa Con il Libro Verde della Commissione europea si è voluto sottolineare che la salute mentale della popolazione costituisce una risorsa per il conseguimento degli obiettivi strategici dell’Unione Europea e che, a sua volta, può e deve essere migliorata in considerazione della rilevanza epidemiologica del problema (un cittadino su quattro è afflitto nel corso della vita da disturbi di natura psichica) e del fatto che nei confronti delle persone affette da patologie mentali si verificano ancora oggi atteggiamenti di stigmatizzazione e discriminazione. Oltre a ciò, le patologie mentali comportano oneri significativi per il sistema economico, sociale, educa- tivo e giudiziario. È anche significativo che questo segnale arrivi nel momento in cui c’è chi in Europa, dopo gli anni in cui hanno prevalso i processi di deistituzionalizzazione (riduzione di posti letto, sviluppo di esperienze territoriali e di attenzione alla tutela dei diritti delle persone affette da disturbi psichici), paventa il rischio di una “reistituzionalizzazione”. Promozione della salute mentale l personale non medico gioca un ruolo chiave nell’assistenza ai pazienti con disagio mentale. A dimostrarne l’importanza è la pubblicazione del primo atlante mondiale sugli infermieri che si occupano di salute mentale, realizzato dall’Oms insieme al Consiglio internazionale degli infermieri. L’atlante fotografa a livello globale la situazione del personale infermieristico coinvolto in queste delicate attività di cui, fino a oggi, non esistevano dati ufficiali. 16 dei 39 milioni di lavoratori della sanità nel mondo sono infermieri e, nei 177 Paesi rappresentativi del 98,5% della popolazione mondiale in cui è stata condotta l’indagine, se ne stima una carenza di almeno un milione. Gli operatori non medici in campo psichiatrico soffrono particolarmente di questa mancanza. Nel mondo ci sono in media 2,23 infermieri psichiatrici ogni centomila abitanti: si va dai 28,78 in Europa agli 0,32 in Africa e 0,26 nel Sudest asiatico. In Italia ce ne sono tra i 10 e i 50 negli istituti di cura dei disturbi mentali, molti di meno lavorano nelle unità psichiatriche degli ospedali generici. Le ragioni di questa carenza sono lo scarso interesse per la salute mentale, i bassi salari per gli infermieri, l’emigrazione del personale specializzato, la mancanza di sicurezza fisica e psicologica nell’ambiente lavorativo e lo stigma sociale del disagio psichico. In molti Paesi la diagnosi dei disturbi mentali, la prescrizione e la somministrazione dei farmaci ai pazienti vengono effettuate dagli infermieri psichiatrici (spesso le uniche figure di assistenza per i pazienti) ma nonostante ciò non vengono coinvolti nelle politiche di pianificazione delle legislazioni sanitarie nazionali. Lo studio raccomanda un maggior riconoscimento del ruolo sociale degli operatori psichiatrici, la presenza di un loro numero adeguato nelle strutture sanitarie e l’inserimento di corsi sul disagio mentale nei percorsi formativi di base degli infermieri. I Fabrizio Soddu Sul sito dell’Oms è possibile consultare e scaricare l’atlante: “Atlas. Nurses in mental health. 2007” www.who.int/mental_health/evidence/atlas/en/index.html l’obiettivo Alcuni punti trattati dal Libro Verde sono utili stimoli per una riflessione sulla pratica dei nostri servizi: promuovere la salute mentale della popolazione, combattere le malattie psichiche mediante interventi preventivi, tutelare i diritti fondamentali e la dignità delle persone affette da malattie psichiche e promuoverne l’inclusione sociale. Il Libro Verde sottolinea l’importanza di politiche per la salute mentale in grado non solo di combattere le patologie ma anche di promuovere attivamente la salute con interventi che devono riguardare gli individui, le famiglie, la scuola, i luoghi di lavoro e la AAA infermieri cercansi per la salute mentale 63 comunità nel suo insieme con lo scopo di potenziare i fattori protettivi e di ridur- per saperne di più G. De Girolamo et al, “The characteristics and activities of acute inpatient facilities: a national survey in Italy”. In: British Journal of Psychiatry. G. Grassi, “Priorità, confini e limiti del Dsm”. In: Psichiatria di Comunità, 2007. A. Lasalvia et al, “Eterogeneità dei Dsm veneti a dieci anni dal Progetto Obiettivo ‘Tutela della Salute mentale 1994-96’. Quali implicazioni per la pratica clinica? Indagine sui servizi partecipanti al Progetto PICOS-Veneto”. In: Epidemiologia e Psichiatria Sociale, 2007. Libro Verde Migliorare la Salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l’Unione Europea. Bruxelles, 2005. S. Priebe, T. Turner, “Reinstitionalisation in mental health care”. In: British Journal of Psychiatry, 2003. 64 re i fattori di rischio. Vengono anche individuate alcune categorie particolarmente meritevoli di attenzione e di interventi, come i bambini e gli adolescenti, i lavoratori, le persone anziane e quelle appartenenti a gruppi sociali più vulnerabili. Da questo punto di vista, parlando della situazione italiana, è in atto una trasformazione che vede la mission dei Dipartimenti di salute mentale spostarsi dalla cura della patologia psichiatrica alla salute mentale intesa nella sua accezione più ampia. Obiettivo certamente ambizioso, e da alcuni ritenuto irraggiungibile. Di fatto non è più possibile oggi ragionare in termini di semplice risposta alla patologia: la stessa trasformazione dei contesti in cui si sviluppa il disagio e delle forme attraverso le quali questo si manifesta spinge verso questa direzione. Si pensi per esempio al consumo di sostanze, oppure alle risposte al fenomeno, in grande aumento, dei disturbi del comportamento alimentare: è evidente che non si può disgiungere l’attenzione a questi problemi (patologie) dall’attenzione alle problematiche più ampie della salute Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente mentale della popolazione giovanile. Questo comporta una definizione della mission e degli obiettivi dei servizi di salute mentale sostanzialmente diversa rispetto al passato, orientata a progetti di cui la componente sanitaria non è che una e probabilmente neppure la più importante. In altre parole, ha senso parlare di obiettivi di salute anziché solamente di obiettivi di cura, a patto che a questi concorrono servizi sanitari, sociali, istituzioni, cittadini e associazioni, la comunità nel suo insieme. Parallelamente al mutare dei bisogni è cambiato anche il ruolo degli utenti, dei famigliari e delle loro associazioni: se in passato, in particolare fra famigliari e operatori psichiatrici, non sono mancate le incomprensioni, oggi è da tutti riconosciuto il ruolo di utenti e famigliari, fondamentale non solo in quanto portatori di bisogni, ma anche di competenze e di risorse. Da qui l’esigenza del coinvolgimento reciproco, della condivisione e della coprogettazione. A proposito di promozione della salute e di integrazione delle risorse è utile fare un cenno all’organizzazione dei Dipartimenti di salute mentale, la cornice nella quale si collocano le azioni dei singoli servizi e operatori ed entro la quale effettuare la verifica di attuazione degli obiettivi. Nella Regione Emilia Romagna questo Dipartimento è costituito di integrazione, che sappiamo dipende in larga parte dalla volontà dei singoli e dalla loro capacità di sentire proprie appartenenze più ampie di quelle rappresentate dal proprio gruppo di lavoro o, peggio, dalla propria categoria pro- Se si pensa alla depressione e a ciò che significa ridurne i fattori di rischio e prevenirne le complicanze, non c’è dubbio che il ruolo dei medici di medicina generale sia determinante e lo sarà sempre di più fessionale. Tuttavia, se si vuole parlare di obiettivi di salute, anziché della somma di obiettivi di cura specialistici, l’assetto organizzativo rappresenta una condizione necessaria per orientare e facilitare gli sforzi verso l’integrazione. Prevenzione e promozione della salute mentale Il discorso sulla prevenzione, che si intreccia fortemente con quello sulle iniziative di promozione della salute e di stili di vita salutari, rimanda nuovamente al tema dell’integrazione fra le diverse agenzie e al ruolo che devono avere i servizi di salute mentale. l’obiettivo non solo dalle unità operative di salute mentale adulti ma anche da unità operative di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (per garantire coerenza fra i trattamenti per i minori e gli adulti), da unità operative o programmi di psicologia clinica e, nel prossimo futuro, anche dai Servizi per le tossicodipendenze. L’obiettivo è quello di promuovere la salute mentale in tutte le fasce d’età e di garantire cure integrate alle diverse condizioni patologiche, dalle sindromi malformative ai disturbi psichiatrici dell’età senile. Le scelte organizzative sono ben lungi dal costituire tout court una garanzia A questo proposito merita qualche parola il tema del rapporto fra cure primarie e salute mentale. In particolare è oggi giustamente enfatizzata l’importanza della figura del medico di medicina generale. Questo per vari motivi: in primo luogo, non è detto che lo psichiatra sia sempre e necessariamente la persona più adatta a gestire tutte le situazioni di interesse psichiatrico (con un paziente difficile per esempio il “medico di famiglia” può stabilire una relazione in modo più spontaneo); come pure, a volte, la complessità delle situazioni e dei casi non permette di scindere i sintomi strettamente psichiatrici dal contesto sociale e familiare in cui questo si genera a prende forma, e a volte anche dallo stesso quadro clinico somatico. E ancora perché il medico di medicina generale rappresenta la prima porta d’accesso e il primo punto di ascolto e di domanda per tante situazioni anche gravi di tipo psichiatrico. A proposito di prevenzione di disturbi psichiatrici, nel Libro Verde sono individuate alcune aree di intervento che più di altre sono ritenute strategiche per una buona politica in 65 ambito preventivo: la depressione, i disturbi connessi con l’uso di sostanze, il suicidio (paradigmatico esempio di indicatore non solo e non tanto di efficacia dei servizi di salute mentale quanto dello stato di salute di una comunità). Se si pensa a una patologia come la depressione, che giustamente l’Oms considera fra le più importanti in termini epidemiologici e di costi umani e sociali, e a ciò che significa ridurne i fattori di rischio e prevenirne le complicanze, non c’è dubbio che il ruolo dei medici di medicina generale sia determinante e lo sarà sempre di più nel prossimo futuro. Dall’ospedale psichiatrico al territorio In tema di inclusione sociale e di “territorializzazione dei servizi” il Libro Verde raccoglie numerosi contenuti che hanno ispirato il processo di deistituzionalizzazione che in Italia ha portato al superamento degli ospedali psichiatrici e rappresenta uno stimolo importante in questa direzione per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Basti pensare all’enfasi data alla necessità di superare i grandi ospedali psichiatrici fonte di stigmatizzazione e alla raccomandazione di dislocare i servizi psichiatrici in centri medici di base locali e negli ospedali generali. Da questo punto di vista non c’è dubbio che la storia dei servizi psichiatrici italiani, pur con diversi percorsi e disomogenee modalità di applicazione della Legge 180, sia stata caratterizzata fin dall’inizio dallo spostamento del baricentro progettuale e operativo dall’ospedale psichiatrico al territorio. I Centri di salute mentale, vera alternativa territoriale all’istituzione manicomiale, non sono solo una sede ambulatoriale o un punto di partenza per visite domiciliari ma anche e soprattutto il cuore dei ser- L’autore Gaddomaria Grassi è direttore del Dipartimento di salute mentale Ausl di Reggio Emilia [email protected] 66 Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente vizi di salute mentale, luogo di formulazione di progetti personalizzati e di coordinamento delle diverse fasi dei processi di prevenzione, cura, assistenza e riabilitazione. Per questo motivo è necessario che siano dislocati nel territorio in modo capillare. Nel bacino d’utenza del Distretto di salute mentale di Reggio Emilia, per esempio, sono presenti sette Centri ognuno, dei quali si avvale anche di altri punti ambulatoriali. Contestualmente all’apertura dei Centri di salute mentale, si è trasferito il servizio di ricovero di emergenza-breve degenza, utilizzato anche per trattamenti obbligatori, all’interno degli ospedali generali. Va detto che, nel Dipartimento di salute mentale di Reggio Emilia, le dimensioni del reparto (15 posti letto per un bacino d’utenza di mezzo milione d’abitanti) e la degenza media (10 giorni) sono già indicative dell’eccezionalità del ricovero, della sua temporaneità e della distanza dai tempi e modi dei ricoveri in ospedale psichiatrico. Nel corso degli anni poi i servizi psichiatrici hanno incrementato le opportunità residenziali nella tive per il superamento di questo tipo di ospedali, anche se va detto che nel corso di questi trent’anni, anche in altre occasioni, il dibattito è stato avviato senza tuttavia giungere a risultati concreti. Quali muri e quali confini per la salute mentale? In conclusione, possiamo affermare che le politiche per la salute mentale nel nostro Paese sono certamente coerenti con i contenuti del Libro Verde della Commissione europea. Non c’è dubbio che, in modo più spedito che altrove, si sia proceduto sulla strada della territorializzazione dei servizi e del riconoscimento dei pieni diritti di cittadinanza delle persone sofferenti per disturbi di natura psichica. I muri sono stati abbattuti e la psichiatria italiana ha rinunciato a strutture di segregazione e di esclusione sociale come gli ospedali psichiatrici. Oggi tuttavia occorre essere consapevoli del fatto che le sfide attuali e future, a fronte dell’emergenza di nuove forme di espressione del disagio e della malattia e in particolare se parliamo di promozione della salute e di prevenzione anziché solamente di cura delle patologie psichiatriche, possono esser vinte solo se si esce dai limiti angusti dei servizi specialistici e si pensa, come risorsa, all’intera comunità. La salute mentale di una popolazione non riguarda solo i professionisti della mente ma chiama in causa l’intero patrimonio culturale e civile di una comunità e il suo capitale sociale. Potremmo dire che per mettere in atto politiche per la salute mentale coerenti ed efficaci non ci si può accontentare solamente di avere abbattuto i muri dell’ospedale psichiatrico ma è necessario anche, oggi come in passato, saper guardare oltre i propri confini culturali e professionali. Gaddomaria Grassi l’obiettivo nostra realtà, distinte a seconda dei trattamenti, intensivi, protratti e socioriabilitativi. Analogamente, si sono sviluppate esperienze di tipo semiresidenziale caratterizzate dalla personalizzazione dei progetti, maggiormente orientati in senso terapeutico o riabilitativo. Ma ogni politica di psichiatria di comunità non è tale se, accanto a queste risorse di tipo sanitario, non è in grado di muoversi, di concerto e in collaborazione con le risorse del territorio, per garantire a chi è affetto da disturbi psichici opportunità di socializzazione, abitative e lavorative. Infine, il tema della psichiatria giudiziaria, apparentemente molto specifico e meno rilevante sul piano epidemiologico ma che a pieno titolo concorre a definire le politiche psichiatriche di un Paese. Come è noto, questo ambito non è stato interessato dai fenomeni trasformativi conseguenti alla Legge 180 e per gli autori di reato ritenuti pericolosi socialmente è tuttora previsto il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, luogo di confine e di inevitabili contraddizioni fra sanità e giustizia. Sono di grande attualità nuove iniziative legisla- 67 Anziani e badanti: un crocevia di solitudini Sempre più numerose sono le famiglie che, in Italia, si rivolgono al di fuori della cerchia dei parenti per la cura degli anziani. E sempre più spesso assumono badanti di altre nazioni. La precarietà delle condizioni di lavoro di queste persone, il loro background culturale e di esperienze vissute (come la difficoltà della migrazione) vanno affrontate sia dal punto di vista istituzionale sia, soprattutto, da quello psicologico. Alessandra Orsi S econdo un recente rapporto dell’Istituto per la ricerca sociale, in Italia sono presenti oltre 693 mila assistenti familiari. Di questi 619 mila sono stranieri. Secondo i ricercatori: «L’esternalizzazione dell’onere della cura è uno dei cambiamenti “dal basso” più rilevanti che ha conosciuto il welfare italiano negli ultimi anni». Il “fai da te” in materia di assistenza sta producendo un fenomeno ormai rilevante sul piano sociale che, oltre tutto, si è incrociato in maniera spesso collusiva 68 con le carenze legislative sul terreno della migrazione così da incrementare il lavoro nero. Le istituzioni stanno finalmente prendendone atto e cercano di predisporre nuove misure per facilitare l’emersione del lavoro clandestino, come le recenti proposte della ministro per la famiglia Rosy Bindi, che prevedono anche contributi per le famiglie, o quelle del ministro dell’interno Giuliano Amato per facilitare i permessi di soggiorno. Misure che dovrebbero favorire inoltre una Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente maggior qualifica professionale che tuteli entrambe le parti: gli anziani e le lavoratrici straniere, perché quasi esclusivamente di donne si tratta. Quello che manca a tutt’oggi è una riflessione approfondita su quale cultura sia alla base di un lavoro di cura di questo genere. Se guardiamo, per esempio, le linee guida stilate dal comune di Roma per la creazione di un registro unico per l’assistenza familiare, c’è una parte dedicata alla formazione in cui emerge un profilo pro- fessionale assai articolato: si va dalla conoscenza di materie medico-infermieristiche fino a quelle burocratico-amministrative, ma ben poco si prevede sul piano del sostegno psicologico a chi si propone per un simile lavoro. Chi ha sofferto traumi legati alla migrazione, chi vive sulla propria pelle la complessità del distacco del proprio Paese e dei cambiamenti che questo comporta, può trovarsi in serie condizioni di disagio psicosociale. In particolare, nel caso di chi svolge un lavoro basato sulle relazioni interpersonali come quello delle badanti, c’è il rischio che il malessere si rifletta anche sulle persone circostanti. Diventa dunque fondamentale che ci siano organizzazioni in grado di fornire questo tipo di assistenza a coloro che ne hanno bisogno. Un mondo a cui attingere molta solitudine, non aiuta. Un esempio tra i tanti è quello di Maria una ragazza moldava ventenne che per tre anni ha assistito una signora anziana, malata e lasciata a se stessa dai due figli che erano in lite tra Pensando all’incontro tra badanti e anziani, ciascuno di noi ha in mente storie diverse, talvolta incontri straordinari dal punto di vista umano, ma spesso crocevia di due solitudini, diverse e in alcuni casi inconciliabili vista umano, ma più spesso assistiamo al crocevia di due solitudini, diverse e in alcuni casi inconciliabili. Storie che il più delle volte hanno un inizio analogo: arrivi clandestini, titolo di studio non riconosciuto, la ricerca di una casa, il tramite di un parente e l’arrivo in casa altrui. E questa è già considerata una fortuna, se solo si paragona questo approdo con altri ben più drammatici, innanzitutto la strada, dove troppo sovente finiscono le più giovani, in una spirale di sfruttamento che spesso non concede ritorno. Ma anche nel caso delle badanti, la giovane età, che implica inesperienza, spaesamento, e comunque loro e con la madre vedova, chiudendole gli occhi sul letto di morte. Per giorni non ha più parlato, poi finalmente è riuscita a esprimere l’angoscia che la attanagliava: «Quella donna non è morta tranquilla. Da noi gli occhi di chi muore devono essere chiusi da chi più gli ha voluto bene ma come è possibile che fossi io? Quella donna di certo non è morta tranquilla e ora il suo spirito mi perseguiterà». Diversa ma con molte analogie la storia di Helen, una giovane donna nigeriana, che ha dovuto licenziarsi dal lavoro di badante dopo la morte di sua madre che non aveva potuto assistere né andare a salutare al l’obiettivo Siamo di fronte a “nuove” professioni che nascono da un bisogno effettivo, ed è dunque importante far tesoro di quanto finora avvenuto in regime “clandestino”, ascoltando cioè le voci e le storie di chi ha già vissuto questa esperienza per identificare un arco di bisogni assai variegato e complesso. Pensando all’incontro tra badanti e anziani, ciascuno di noi ha in mente storie diverse, talvolta incontri straordinari dal punto di 69 Ogni psichiatria è un’etnopsichiatria etnopsichiatra è quel campo della scienza che si prefigge di curare le malattie psichiche all’interno del contesto culturale di appartenenza. La forma che assumono i disturbi psichici, infatti, è funzione del mondo culturale in cui si sviluppano, del senso che viene loro attribuito sempre all’interno del sistema socio-culturale di riferimento. Dunque, si può legittimamente affermare che ogni forma di psichiatria è, o almeno dovrebbe essere, un’etnopsichiatria. Il problema sorge quando un sistema culturale si autolegittima come dominante, e assume che la sua etnopsichiatria sia la “vera” psichiatria, che la sua nosografia sia quella “giusta”, e che l’unico modo di curare le persone sia il proprio. È quanto, secondo alcuni, è avvenuto nel mondo occidentale, e non solo riguardo alle tecniche di cura: l’etnocentrismo è la tendenza di una cultura a considerarsi il paradigma a cui tutte le altre debbono attenersi. L’approccio etnocentrico, gravido di problemi in ogni ambito della vita, manifesta la propria inefficacia quando cerca di curare chi segue sistemi di riferimento differenti. Il primo a usare il termine “etnopsichiatria” è stato lo psicoanalista George Devereux, che ha coniato anche l’espressione “psichiatria transculturale”. Secondo alcuni i due termini sono sinonimi, secondo altri, la psichiatria transculturale è più appropriata per definire un aspetto specifico dell’etnopsichiatria: quello che si occupa in particolare di immigrati, cioè di persone che si trovano in un contesto culturale dove elementi della nuova realtà migratoria coesistono con quella di origine. Per chi assiste pazienti immigrati è infatti indispensabile avere un approccio culturalmente sensibile pur con la necessità di rinunciare a parametri culturali precodificati. Lo specifico culturale di ogni singolo paziente, la sua interpretazione della sintomatologia e i significati che vi attribuisce devono, al contrario, essere ricostruiti con l’aiuto del paziente stesso, insieme oggetto e soggetto del percorso diagnostico e terapeutico, e integrati con gli specifici vissuti legati all’esperienza migratoria, fenomeno di trasformazione non solo culturale ma anche identitaria. L’ Marco Mazzetti 70 Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente funerale in Nigeria perché il suo permesso di soggiorno non era ancora pronto. Quando ricevette la cassetta con la registrazione della cerimonia funebre si chiuse in casa per un mese a guardarla e riguardarla, piangendo ogni giorno disperata e limitando al minimo anche le cure verso il figlio che cresceva da solo. Non medicalizzare ma ascoltare In tutte queste storie oltre al rischio di depressione profonda ce n’è anche un altro, non meno grave, ed è che il malessere venga interpretato alla “nostra” maniera, il che molto spesso significa etichettato, medicalizzato, in ultima analisi patologizzato. E invece, in questi casi come in altri, ci può essere un ascolto diverso, rassicurante, volto a ritrovare un senso e a ricomporre lacerazioni intime e delicate. Oltre a questo intervento, che potremmo anche definire etno-psicologico, quel che va innanzitutto ripensata è una “formazione” finalizzata a una prevenzione di quella che è a tutti gli effetti una forma di burn out di questo lavoro di cura. Forse uno dei motivi per cui finora sono poche le esperienze in questo senso è che nel nostro Paese non si è ancora compreso quanto la prevenzione sia una risorsa per tutti, e sia anche economicamente rilevante per impedire nuovi disagi. Ed è infatti prevalentemente da enti con agganci internazionali che arrivano alcune offerte formative che considerano la prevenzione come una priorità, come i corsi organizzati dall’Unità psicosociale dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni o il Master universitario transculturale-multietnico nel campo della salute del sociale e del welfare del Policlinico di Modena. Come ha raccontato Gioia, un’infermiera di una casa di cura per anziani che pur alle soglie della pensione ha deciso di frequentare il master modenese, «è stato proprio dall’incontro con L’autrice Un affidamento reciproco Una nuova carta dei lavoratori nel campo dell’assistenza dovrebbe comprendere la garanzia che nessuno debba trascorrere troppe ore con il proprio datore di lavoro. A qualsiasi infermiera che assiste un anziano viene garantito il cambio turno. E del resto, proprio contrattando sul terreno della libertà è cresciuta la forza dei lavoratori dei Paesi sviluppati. Non c’è stipendio che possa compensare la perdita dell’autonomia, perché tale è la condizione in cui vivono migliaia di colf e badanti. Nella parola affidamento c’è una componente di biunivocità che è ineludibile. Se noi ci affidiamo a loro per le persone a cui teniamo di più, cerchiamo di fare in modo che anche loro possano affidarsi a noi. Altrimenti il rischio è quello di creare nuove forme di schiavitù come ha segnalato la giornalista Barbara Ehrenreich nel bel libro Donne globali. Tate, colf e badanti. C’è un’altra via che va probabilmente sotto il nome di “reciprocità”. La condivisione di esperienze può funzionare anche quando le radici identitarie sono diverse. Altrimenti non solo avremo rinunciato al nostro passato ma anche al futuro: quale idea di società vogliamo trasmettere nelle nostre case, ovvero ai nostri figli e figlie, se eludiamo il tema delle relazioni umane? Alessandra Orsi l’obiettivo Alessandra Orsi è counselor per l’età evolutiva. Socio di Scirocco, associazione per il benessere psicosociale dei migranti [email protected] alcune infermiere straniere che ho sentito che volevo capire qualcosa di più delle altre culture, che verso la vecchiaia e la morte hanno di certo qualcosa da insegnarci». Se facciamo ricorso alla nostra memoria storica non è difficile trovare una strada per raccogliere dalle vicende dei migranti qualcosa che è radicato anche nella nostra tradizione, sia che guardiamo all’emancipazione sul piano dei diritti, sia che si tratti di una attenzione agli aspetti umani delle relazioni, lavorative e non. Che le badanti dichiarino di volersi al più presto rendere indipendenti, anche a costo di guadagnare di meno, ma con un’occupazione che presenti minori vincoli psicologici, non deve dunque stupirci. 71 Ma la scienza è davvero dogmatica e oscurantista? LETTURA CRITICA Nel suo ultimo libro, Next, il medico e scrittore Crichton prosegue la deriva antiscientifica su cui si era già incamminato con Stato di paura. I messaggi sono due; uno, esplicito, è contenuto in appendice, ed è ragionevole: non si dovrebbero brevettare i geni. L’altro, che percorre il romanzo, è molto meno sensato: gli scienziati sono rappresentati senza eccezioni come avidi, rancorosi, bugiardi e disonesti, come se la scienza fosse il nuovo oscurantismo, e fermarla l’unico modo per mettere fine agli abusi. Fermare le biotecnologie per correggere gli abusi? Lucio Luzzatto D a Jurassic Park in poi, un libro di Michael Crichton è evidentemente un best seller assicurato: Garzanti ha fatto uscire la traduzione italiana di Next nel giugno 2007, appena sei mesi dopo l’originale americano. Si tratta di fantascienza biotech: un genere ad alto potenziale sia di buona divulgazione, sia di buon divertimento. Questo potenziale è stato realizzato, assai più che in 72 questo, in alcuni romanzi di Robin Cook; ma saranno comunque i critici di professione a giudicare il valore letterario di Next. Sono però altre le questioni interessanti, soprattutto ideologiche: il volume si conclude, dopo la fine del romanzo, con un breve manifesto politico sulle carenze e sugli eccessi legislativi negli Stati Uniti nel settore dei geni e della biotecnologia. Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente Lo spirito di questo manifesto, e buona parte della lettera, sono ampiamente condivisibili; è il romanzo che invece suscita numerose perplessità. Le vicende, che si accavallano in molti brevi capitoli, costituiscono una trama Next Michael Crichton Garzanti, Milano, 2007 pp. 488, euro 19,60 fumettistica variamente intrecciata, ma il filo conduttore è abbastanza semplice: una ditta biotech sta facendo, o spera di fare, tanti soldi sfruttando una cultura di cellule ottenuta tempo fa da un paziente affetto da un raro tipo di leucemia. Il paziente è poi guarito, a quanto pare grazie alla capacità eccezionale delle sue cellule di pro- ottenere le cellule forzosamente dalla figlia o addirittura dal nipotino. Il romanzo è poi “arricchito” dalla comparsa di un bambino mezzo scimmia e mezzo umano, dal trafugamento di parti di cadavere per usi commerciali e dal traffico tra ditte rivali di embrioni transgenici congelati di topo. Non c’è da stupirsi se un Emerge un messaggio non subliminale: la biotecnologia è un’industria trainata da imprenditori e speculatori più o meno lungimiranti e resa possibile dall’attiva collaborazione connivente di scienziati e medici corrotti romanzo di fantascienza non è preciso nei dettagli; ma perché sia educativo occorre che sia verosimile nei concetti, come ci ha insegnato Jules Verne, un precursore del genere. Secondo questo criterio, se la verosimiglianza di Next nel settore legale è estrapolabile dalla verosimiglianza nel settore biologico, il libro non è educativo per nulla. Naturalmente si potrebbe obiettare che l’intento dell’autore non è di educare ma divertire (se ci riesca, lo deve dire il singolo lettore). Resta il fatto che dal libro Le leggi sbagliate e reati comuni Bisogna ammettere che ci sono, tra scienziati e medici, alcuni che potrebbero comportarsi come dice Crichton, e non c’è motivo di difenderli. Non sarebbe difficile confutare sul piano scientifico le molte “imprecisioni” (per usare un eufemismo!) che abbondano in Next, ma non è questo il punto. È importante invece confutare il messaggio negativo contro la biologia contemporanea che emerge da questo libro, mettendo un po’ d’ordine nella grande confusione che, volutamente o no, è stata fatta da Michael Crichton. Nel manifesto scritto alla fine del libro Crichton condanna la brevettabilità dei geni, e fa benissimo: il buonsenso ci dice che posso brevettare quello che invento, ma non quello che osservo. Posso brevettare uno strumento che mi per- a più voci durre proteine particolari appartenenti alla famiglia delle citochine. L’ex paziente, di nome Frank, arrabbiato perché la ditta biotech sta sfruttando le cellule che aveva donato in buona fede, ricorre a vie legali per ottenere una parte dei profitti, ma invano. Riesce allora a penetrare nei laboratori e a distruggere tutte le culture. Ma gli avvocati della ditta ottengono un’ingiunzione giudiziaria per il recupero delle cellule “di loro proprietà”; e siccome Frank, prevedendo la cosa, si era reso latitante, cercano di emerge un messaggio non subliminale: la biotecnologia è un’industria trainata da imprenditori e speculatori più o meno lungimiranti e resa possibile dall’attiva collaborazione connivente di scienziati e medici corrotti. 73 metta di analizzare più rapidamente un segmento di Dna umano, ma non il Dna stesso, che è il prodotto di milioni di anni di evoluzione. È grave poi, e ha fatto storia, la pretesa di una ditta nello Utah, la Myriad, di avere l’esclusiva sull’analisi di due geni che, quando mutati, predispongono al cancro del seno e dell’ovaio. Ma che cosa c’entra questo con un oncologo che, dopo che il suo paziente è guarito, lo tiene deliberatamente nell’incertezza per continuare a fargli prelievi e biopsie, per poi passare proditoriamente il materiale a una ditta commerciale, presumibilmente dietro compenso? Anche con le norme esistenti quell’ipotetico oncologo dovrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare e, se i fatti stanno così, radiato dall’albo professionale. Per la brevettazione dei geni, invece, occorre che il Parlamento (statale o federale) cambi la legge. Etica della sperimentazione clinica È difficile dire quando la medicina sia diventata scienza (per molti scienzia- 74 ti di base non lo sarà mai!). Molti storici ne vedono gli albori negli anfiteatri anatomici italiani del Cinquecento, nella scoperta della circolazione del sangue da parte del fisiologo inglese William Harvey e nell’introduzione della microscopia in Olanda nel Seicento. Ma purtroppo a quell’epoca, e anche più tardi, molte donne che avevano disturbi in gravidanza venivano per prima cosa salassate, mentre molte malattie febbrili erano curate con purganti potenti: non sapremo mai quante morti erano iatrogene. Insomma, c’è voluto molto tempo perché maturasse il concetto che, prima di somministrare una medicina, occorre provare con ragionevole certezza che è efficace o che, come minimo, fa più bene che male. Ciò nonostante, gli abusi non sono mancati anche in epoca recente. Senza voler arrivare alle “ricerche” criminali su cavie umane fatte nei campi di sterminio nazisti, basti ricordare che negli anni Trenta, in Germania e in Italia, si iniettavano parassiti malarici per curare la sifilide; e negli anni Cinquanta negli Stati Uniti era accettata la sperimentazione di farmaci su carcerati, anche su quel- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente li che prevedibilmente erano ipersensibili. È proprio per questo che da circa trenta anni sono stati istituiti i comitati etici, ai quali ogni sperimentazione clinica deve venire obbligatoriamente sottoposta in anticipo con un protocollo dettagliato e una circostanziata documentazione giustificativa. I comitati etici, presenti ormai in tutti gli ospedali nei quali si fa sperimentazione clinica, e la cui composizione comprende membri esterni all’ospedale e alla professione medica, hanno tre principi fondamentali: qualunque cura sperimentale non dev’essere da meno della miglior cura sinora disponibile i rischi, che non sono mai nulli, per quanto ragionevolmente prevedibili (e spesso la valutazione non è facile) devono essere giustificati dai possibili vantaggi i pazienti devono essere informati di tutto; in primis, che viene loro offerto di partecipare a un esperimento, e sono liberi di farlo oppure no. Come tutte le operazioni umane, i comitati etici non sono perfetti, ma hanno costituito un progresso enorme nella serietà della ricerca clinica e nella protezione dei pazienti. Questo significa che le norme per prevenire o reprimere il comportamento dell’oncologo di Frank ci sono; altra cosa è che quell’oncologo le abbia violate. Qualcosa di ancora peggio sembra aver fatto un altro personaggio di Next: una specie di incrocio tra scimpanzè e umano. È evidente che né il comitato etico dell’ospedale né il comitato per la sperimentazione animale l’avrebbe autorizzato. Luci e ombre della terapia genica a un protocollo sperimentale di terapia genica regolarmente approvato da un comitato etico. L’antefatto saliente di questo episodio Non c’è nessun esempio di terapia genica in Next, eppure in almeno due occasioni l’autore fa dire a qualche suo personaggio che «esperimenti umani nel campo della terapia genica hanno causato centinaia di morti» immunodeficienza, realizzate rispettivamente a Parigi e a Milano. In effetti la terapia non è stata scevra di complicazioni: 3 pazienti su 11 sono stati colpiti da una forma di leucemia, che in un caso ha avuto esito letale. Ma Crichton non sembra voler fare riferimento a questo: non è certo un fatto inusuale che una terapia nuova per una malattia altamente invalidante (e alla fine mortale) possa comportare rischi anche gravi (lo stesso vale, per esempio, per molte procedure di trapianto d’organo). Probabilmente l’autore ha in mente invece un episodio assai grave avvenuto nel 1999 a Philadelphia, in cui ha perso la vita un giovane di 19 anni sottoposto, per un’altra malattia ereditaria, è stato che Jim Wilson, il principal investigator, era anche uno dei principali azionisti della ditta che preparava il vettore (l’equivalente di un farmaco) per il protocollo stesso. Trasportato dall’ardore, e violando il protocollo approvato, Wilson ha somministrato una dose troppo alta del vettore, malgrado il fatto che dosi più basse avessero già causato complicazioni: sembrava insomma un grossolano conflitto di interesse. Si dà il caso che il Comitato etico dell’American Society of Gene Therapy avesse già stilato un documento che vietava a chiunque fosse coinvolto in una sperimentazione clinica di avere interessi economici nella stessa. Purtroppo il documento fu adottato dall’American Society of a più voci La terapia genica corrisponde al concetto che il trasferimento di un gene nelle cellule di un paziente possa essere usato a scopo terapeutico. Non c’è nessun esempio di terapia genica nella narrazione di Next, eppure in almeno due occasioni l’autore fa dire a qualche suo personaggio che «esperimenti umani nel campo della terapia genica hanno causato centinaia di morti». In realtà, la terapia genica è stata per un ventennio solo un sogno, malgrado sforzi enormi di molti valorosi gruppi di ricercatori; final- mente, negli ultimi anni, è divenuta realtà, con le effettive guarigioni durature di due malattie ereditarie caratterizzate da grave 75 Gene Therapy solo dopo il fattaccio. Il giovane di Philadelphia resta però l’unico paziente morto probabilmente a causa di un abuso della terapia genica: le centinaia di cui parla Crichton sono semplicemente un’affermazione falsa. Protezione del pubblico e oscurantismo Si dice che il movente di Alfred Nobel a istituire nel 1895 il premio al quale da allora tutti gli scienziati ambiscono fosse di farsi perdonare per avere inventato la dinamite; ma nessuno ha proposto per questo di abolire la chimica. Mezzo secolo dopo, i progressi della fisica hanno permesso di fabbricare le bombe atomiche e termonucleari, ma nessuno ha proposto di abolire la fisica. Oggi, all’inizio del Ventunesimo secolo, è innegabile che i progressi della biologia fanno paura, ma sarebbe vano, oltre che assurdo, pretendere di abolire la biotecnologia. I suoi portati pratici sono ormai tali e tanti che non ce ne rendiamo neppure conto. Tanto per fare qualche esempio eclatante: l’eritropoietina ricombinante, che 76 ha cambiato la vita di decine di migliaia di pazienti con insufficienza renale cronica; il fattore VIII ricombinante, che ha cambiato la vita degli emofilici evitando il rischio di Hiv; i fattori di crescita dei granulociti, che hanno diminuito di un ordine di grandezza i rischi mortali del trapianto di midollo osseo e di molti protocolli chemioterapici; gli anticorpi monoclonali “umanizzati”, che hanno già sostanzialmente migliorato la prognosi di pazienti con carcinoma del seno o del colon a stadi avanzati. Meno noto al pubblico è il fatto che ormai una quota notevole di procedure diagnostiche cruciali per la cura di molti malati sono state rese possibili dalla biotecnologia. Queste conquiste sono di tale entità che nessuno le metterebbe in questione; Michael Crichton sembra invece mettere sotto tiro proprio la scienza. In effetti, i farmaci finora generati dalla biotecnologia sono solo le cime emergenti di tanti iceberg: sotto, c’è un’incredibile dovizia di nuove conoscenze che hanno rivoluzionato la biologia. La sequenza del genoma umano, che solo 10 anni fa era un miraggio, ora è uno Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente strumento disponibile pubblicamente sulla rete, alla portata di tutti; la funzione di ogni gene può essere studiata in dettaglio; le tecnologie transgeniche e l’inattivazione mirata dei geni permettono di costruire modelli murini di ogni malattia umana; l’uso della reazione polimerasica a catena permette di analizzare i tumori addirittura a livello di una singola cellula. Insomma, questa è la biologia contemporanea, e non è certo colpa dei suoi progressi se qualcuno vuole approfittarne esageratamente o indebitamente. In conclusione, si potrebbe pensare che Next sia un commento romanzesco al manifesto delle ultime pagine. Ma non è così. La brevettabilità dei geni è secondo molti un’aberrazione della legislazione americana, e il titolo Next vuole suggerire che prossimamente ne seguiranno altre simili. È invece plausibile che questa degenerazione verrà corretta, anche se naturalmente non è detto. Quello che è certo, invece, è che la ricerca di terapie nuove deve continuare, con la più consapevole attenzione a prevenire gli abusi e i conflitti di interesse. La terapia genica, e il possibile uso di vari tipi di cellule staminali, sono buoni esempi. Paradossalmente, i gruppi migliori che lavorano in questi settori lo fanno controcorrente: le grosse industrie farmaceutiche non sono, almeno per ora, favorevoli a questi approcci, perché puntano invece su farmaci confezionabili in flaconi. C’è però il timore che il messaggio che troppi lettori riceveranno da Next è che l’unico modo di mettere fine agli abusi è fermare la scienza. Fare di tutta l’erba un fascio non è nell’interesse né dei ricercatori né del pubblico. In Italia, più che in altri Paesi, uno dei maggiori fattori limitanti per la ricerca scientifica è il finanziamento; non lasciamo che il secondo fattore sia, qui e altrove, l’oscurantismo. Lucio Luzzatto Il cardinale Bellarmino della scienza Silvia Bencivelli C’ l’ossessione per il potere o, nella migliore delle ipotesi, dall’ingenuo desiderio di compiacere la mamma. Tutto questo, a differenza del precedente Jurassic Park, non viene proposto in veste di fiction, ma ha la pretesa di descrivere una realtà già esistente, o almeno poco lontana dal presente. Lo dice il titolo stesso: Next, cioè prossimo. Lo ribadisce il risvolto di copertina: «Next ci pone di fronte alle scelte difficili che dovremo prendere in ambiti nei quali non ce lo aspetteremmo: nella nostra vita quotidiana, nei nostri affetti, nel nostro rapporto con la natura e con gli animali domestici». E lo insinua l’epigrafe: «Questo romanzo è opera di fantasia, tranne per le parti che non lo sono». Finzione narrativa o descrizione del reale? L’ambiguità tra finzione narrativa e descrizione del reale conduce il lettore fino alle ultime pagine, quando Crichton, nel congedarsi, propone una lunga nota in cui descrive le conclusioni che ha personalmente tratto dalla preparazione e dalla stesura del romanzo: a più voci è di tutto: medici trafugatori di ossa di cadavere, giovani scienziati delusi che rubano embrioni transgenici per rivenderli a vecchi scienziati rampanti, oncologi che sottraggono cellule preziose ai loro pazienti, biologi pasticcioni che fanno inalare virus per topi a gente capitata per caso, e persino una scimmia parlante. La sensazione è che stavolta Michael Crichton abbia davvero esagerato. Nel suo ultimo libro, Next, appena uscito in Italia, la scienza torna a fare la parte della cattiva: è un mondo in cui non c’è un camice bianco che lavori per scopi diversi dall’arricchimento personale, dalla vendetta, dal- 77 conclusioni sensate e sicuramente più che degne di un dibattito serio (smettere di brevettare i geni, stabilire linee guida per l’utilizzo di tessuti umani, promulgare leggi che assicurino che i dati sui geni testati vengano resi pubblici…), ma di certo capaci di confondere le acque. Stiamo parlando della resurrezione di un dinosauro, o di quello che davvero accade oggi nei laboratori di tutto il mondo? È vero, Next, in fondo, è solo un libro: cerchiamo di ricordarcelo noi, se anche se ne dimentica il suo autore. E poi la sua tesi (non si dovrebbe permettere la brevettazione dei geni) è più che ragionevole. Ma il vero problema della ricerca biomedica attuale non è il rischio di creare scimmie parlanti: è piuttosto la commistione con certi poteri economici che fino a pochi anni fa non avevano nessun interesse in provette e microscopi. Raccontare un mondo in cui gli scienziati, tutti senza scrupoli né dubbi, creano scimmie parlanti e, in più, vendono cellule di pazienti ignari non è perfettamente onesto, se non è altrettanto perfettamente chiaro che di finzione si tratta. Del resto, la deriva anti- 78 scientifica del medico scrittore che faceva vibrare il cuore a tanti appassionati di scienza non è cominciata oggi. Next fa seguito a Preda, in cui un ammasso di nanoparticelle autoorganizzate minacciava l’umanità, e a Stato di paura, in cui si sosteneva che il riscaldamento globale è un’invenzione di una cricca di climatologi truffatori. Stavolta, nella carrellata infinita di personaggi e situazioni che popolano il romanzo (e che, tra l’altro, rendono la lettura decisamente faticosa), la ciliegina sulla torta è un personaggio che risponde al nome di Robert Bellarmino, come il cardinale Roberto Bellarmino che processò Galileo. Il Bellarmino di Crichton è l’orrendo responsabile del settore di ricerche genetiche dei Nih (National Institute of Health) americani, un cristiano evangelico con pochissimi scrupoli morali: «Politicamente impegnato, era il prototipo dello scienziato al passo coi tempi, che abbinava un modesto talento scientifico a una spiccata astuzia mediatica» (si noti, en passant, come l’impegno politico e la capacità di parlare con i media siano considerati vizi per uno scienziato, Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente contrapposte a un generico talento scientifico). Bellarmino era stato il primo ad affidarsi a un’agenzia pubblicitaria, riuscendo così a guadagnarsi diverse copertine di riviste scientifiche e una certa fama di ricercatore di punta, che, tra l’altro, aveva attirato i ricercatori più brillanti e ambiziosi nel suo laboratorio: «Nel caso del D4DR, Bellarmino fu in grado di adattare le sue dichiarazioni alle convinzioni del pubblico: parlava entusiasticamente del nuovo gene ai gruppi progressisti, e di fronte ai conservatori ne sminuiva l’importanza. Nelle sue previsioni era fantasioso, proiettato verso il futuro e disinibito. Arrivò al punto di asserire che un giorno sarebbe stato scoperto un vaccino in grado di prevenire l’infedeltà». Una scienza prossima all’autodistruzione I suoi assistenti, ovviamente solo ed esclusivamente per desiderio di vendetta, vorrebbero denunciarne le violazioni dell’etica scientifica, ma sanno che sarebbe del tutto inutile: «Se lo accusiamo formalmente di comportamento indegno perdiamo solo un mucchio di tempo e di energie. Le nostre sovvenzioni potrebbero scadere. E alla fine lamentarsi non porta da nessuna parte. Rob è una personalità di spicco dei Nih. Dispone di fondi enormi e dispensa sovvenzioni per milioni di dollari. È uno scienziato e un credente. Al Congresso lo amano. Non verrebbe mai incriminato per comportamento indegno. Non verrebbe incriminato nemmeno se lo sorprendessero mentre sodomizza un assistente di laboratorio». Ma il Bellarmino di Crichton è soprattutto un bugiardo, che mente sui rapporti tra biologia e industria a volte perfino appellandosi alla volontà di Dio, come fa di fronte alla Commissione parlamentare sulla genetica e sulla salute: «Bellarmino non accennò al fatto che la differenza tra il mondo accademico e quello industriale era svanita da tempo. […] “Tuttavia”, proseguì Bellarmino, “posso assicurare questo comitato che in generale la brevettazione dei geni è un sistema finalizzato al bene comune”. […] Non disse loro che ogni anno venivano rilasciati più di quattromila brevetti sul Dna – due all’ora di ogni giorno lavorativo. Siccome nel genoma umano c’erano soltanto trentacinquemila geni, la maggior parte degli esperti stimava che più del venti per cento fosse proprietà dei privati». Bellarmino, insomma, è il cardinale di una nuova Chiesa chiusa su se stessa e disinteressata al resto del mondo, dogmatica e oscurantista. È il cardinale della scienza del ventunesimo secolo, come il suo omonimo di quattro secoli fa era l’inquisitore che metteva a tacere Galileo. E la scienza del Ventunesimo secolo, per l’ultimo Crichton, è qualcosa di prossimo all’autodistruzione e alla perdita di senso. Con buona pace di tutti i fan del vecchio Crichton, di ER e dei suoi medici in prima linea. Silvia Bencivelli Biotecnologie e nuove disuguaglianze Gavino Maciocco C genetica riprendono a vivere i dinosauri). Con il suo ultimo lavoro, Next, Crichton torna a interessarsi delle nuove frontiere della biotecnologia. E lo fa con un libro tanto noioso quanto superficiale, composto da un insieme di brevi storie, assemblate alla rinfusa senza un inizio e una fine, senza la parvenza di un filo logico. L’unica cosa chiara è il messaggio che l’autore a più voci richton è un autore noto per la sua abilità nel tradurre in romanzi e fiction argomenti di carattere biomedico, da Casi di emergenza (che ha ispirato le fortunata serie televisiva ER, Medici in prima linea) a Jurassic Park (dove grazie ai miracoli dell’ingegneria 79 intende recapitare ai lettori: la loro esistenza sarà sempre più condizionata dai progressi delle biotecnologie (soprattutto nel campo della genetica), con scenari da incubo se la gestione di questi processi sarà dominata dalla pura Gli autori Lucio Luzzatto, ematologo, è direttore scientifico dell’istituto Toscano Tumori lucio.luzzatto@ regione.toscana.it Silvia Bencivelli è medico e giornalista scientifica [email protected] Gavino Maciocco è medico di sanità pubblica e professore a contratto di Medicina di comunità presso il corso di laurea di Medicina e Chirurgia, Università di Firenze [email protected] 80 logica del mercato e del profitto. Su Repubblica del 10 luglio è comparso un articolo di Aldo Schiamone dedicato all’emergere di nuove disuguaglianze. «Le nuove disuguaglianze», scrive Schiamone, «non hanno origine, come quelle di una volta, sul terreno della produzione in senso stretto, del conflitto tra capitale e lavoro, insomma dell’economia classicamente intesa, anche se continueranno ad apparire alla fine come enormi disparità di ricchezza e di status. Le nuove disuguaglianze saranno tutte, molto prima che disuguaglianze proprietarie o distributive, disparità “di accesso”: generate non direttamente dall’economia, ma dal rapporto problematico e ancora oscuro fra l’avanzamento tecnologico e il suo uso sociale. […] E riguarderanno per prima cosa il rapporto tra destino individuale e possibilità di disporre in maniera ade- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente guata delle tecnologie da cui dipenderanno sempre di più la costruzione e la conservazione della nostra identità». La relazione tra l’avanzata delle biotecnologie e il dilatarsi delle disuguaglianze è spiegata nel recente saggio “Globalization and social determinants of health”, di Ronald Labonte e Ted Schrecker, pubblicato sulla rivista online Globalization and Health. Il motivo sta, secondo i due autori canadesi, nella progressiva privatizzazione del bene pubblico per eccellenza: la conoscenza scientifica. Basta vedere cosa succede nel campo dei farmaci, tra la questione dei brevetti e la scelta delle priorità negli investimenti sui nuovi farmaci: delle 1223 formule chimiche sviluppate tra il 1975 e il 1996, solo 11 hanno riguardato il trattamento delle malattie tropicali. Gavino Maciocco Uno Schopenhauer al giorno toglie il medico di torno DA LEGGERE Il counselling filosofico è sempre più spesso presentato come un nuovo modello di aiuto nella sofferenza. Irvin Yalom, nel libro La cura Schopenhauer, mostra come la filosofia può curare, magari affiancata da una psicoterapia. È leggendo Schopenhauer che il protagonista guarisce, e finalmente si riconcilia anche con il suo vecchio terapeuta. E sullo sfondo, la figura del filosofo tedesco, che a sua volta era “disturbato”. Guido Miccinesi L ria, cambia chi la attraversa più profondamente dei confronti astratti, più definitivamente della ripetizione di tecniche, pratiche o teoriche. I grandi pensatori Questo avviene in misura modesta leggendo La cura Schopenhauer di Irvin Yalom; prevale invece la comunicazione di un saper fare, quello della psicoterapia di gruppo. A parte qualche domanda nuova, il tutto è poco vivido: a volte sembra di essere in un’aula universitaria ad ascoltare un resoconto di attività clinica, per quanto appassionante e ambigua come quella psichiatrica (Yalom è professore di psichiatria alla Stanford University). Tanto che quando uno dei protagonisti desidera la donna che ha ferito e perso La cura Schopenhauer Irvin Yalom Neri Pozza, Milano, 2005 pp. 448, euro 18,00 a più voci a forza di una storia non si può ridurre a niente di meno che a tutta la storia stessa, cioè al susseguirsi di eventi, personaggi, svelamenti dell’animo dei personaggi. È questo che porta continuamente a rileggere quanto già letto o ascoltato, e a mutare la propria posizione emotiva verso quella realtà così intimamente incontrata, di cui ormai ci si è appropriati: quello che, per semplicità e convenzione, ancora chiamiamo storia. La storia genera sto- 81 quando era meno in contatto con se stesso e più impaurito dagli altri, quando quindi questo protagonista (uno dei due della storia) si esprime con immagini intense sul desiderio per questa donna fortuitamente incontrata di nuovo in un gruppo di terapia, l’effetto sul lettore è un po’ (nel senso di: modestamente) pornografico, per niente coinvolgente, quasi che il professore (Yalom) si fosse lasciato andare a una battuta fuori luogo. Non una grande scrittura, insomma. A maggior ragione risalta lo schema su cui è costruita, il plot, la trama, da cui si possono comprendere le opinioni dell’autore. Il tema è in Italia ancora di nicchia, ma già manifesta una qualche propulsività, una capacità di innescare dibattiti, una tendenza a far parlare di sé, e pone qualche domanda nuova. È il tema della filosofia che vuole curare. Infatti, in questa storia ma non solo, è la filosofia che adesso si propone, che si fa avanti. È la filosofia che si riconosce nella risposta possibile a una domanda non espressa, a una domanda che solo alcuni hanno saputo rivolgere a se stessi e a quei personaggi 82 ideali che Yalom chiama i grandi pensatori. La trama della Cura Schopenhauer dice appunto questo. Dobbiamo sperare o temere qualcosa da questo tipo di counselling filosofico, presentato come nuovo modello di aiuto nella sofferenza? La filosofia per la cura del disagio esistenziale, la filosofia al posto della no di una redditizia professione di chimico. Da allora vive di rendita, in attesa di poter vivere di filosofia. E guarisce. Ma come si fa a vivere di filosofia, se non si è o non si è riconosciuti in vita come grandi pensatori? È evidente il parallelo con Schopenhauer, che pure visse per un lungo periodo grazie a una rendi- Ma come si fa a vivere di filosofia, se non si è o non si è riconosciuti in vita come grandi pensatori? È evidente il parallelo con Schopenhauer, che pure visse per un lungo periodo grazie a una rendita lasciatagli dal padre psicoterapia ma anche la filosofia insieme alla psicoterapia, il prefigurarsi di qualcosa di nuovo e di ibrido su cui cominciare a discutere. Vivere di filosofia Per uno dei protagonisti (quello già introdotto) la storia comincia con l’inutile sforzo della psicoterapia, sforzo senza resa, solo buona volontà e impotenza. Tre anni. Poi il drop out dalla relazione terapeutica, lo studio della filosofia, il conseguimento di una seconda laurea, l’abbando- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente ta lasciatagli dal padre e non ottenne riconoscimento per la sua opera filosofica. Più modestamente, se l’insegnamento dà poca soddisfazione, gli studenti sono sciatti e gli stipendi bassi, perché non proporre anche agli altri la cura della filosofia, perché non trarne in qualche modo (già: in quale modo?) un lavoro, con tanto di training e debito di supervisione? Questo paziente, refrattario alla psicoterapia, è guarito con la filosofia. Sono scomparsi i sintomi odiosi, come la coazione a fare sesso e poi cambiare partner (o meglio “soggetto”) Cercare il caso andato male, contro le attese, quello che indica i limiti del proprio metodo di intervento: quindi il più vitale, quello dal quale passare per continuare a evolvere, perché ormai tutti sappiamo che evolvere (compiere ogni sforzo conscio e inconscio per lasciarsi selezionare dalla vita) vuol dire vivere. I due battiti della storia Sono i due battiti di tutto il libro di Yalom, il ritmo che gli dà un po’ di unità estetica: i lampi della filosofia e il lento lavoro su se stessi. Il terapeuta alle prese con la morte e il caso fallito si incontrano molti anni dopo il termine di quella terapia. Hanno avuto tutto il tempo di cambiare, anche se subito, come dolorosamente avviene anche nella nostra vita, entrambi cercano di ripartire dagli schemi acquisiti, dalle prese dell’uno sull’altro che già avevano funzionato. Il terapeuta ha consapevolezza di questo, l’altro no. Si incontrano, si studiano, si gettano l’uno sull’altro e si combattono. Prima in privato, poi di fronte ad altri e attraverso di loro, in un gruppo di psicoterapia. Alla fine si aprono e si corrispondono (quando mai uno psicoterapeuta sosterrà che un determinato incontro umano è impossibile?). Lo scontro diventa una danza e il più giovane, il filosofo, accompagna danzando alla porta, all’uscita di scena, il più anziano, lo psicoterapeuta. Non c’è più tragedia. Tutto è compiuto, ma non c’è mistero. Solo la consolazione, la nuova consolazione per i nuovi gruppi che si faranno. La nuova guida, il filosofo, sarà diversa, affiancata (messa sotto tutela?) da un socio, un ex paziente che rappresenta la capacità di stare nelle relazioni, di attraversare le emozioni e i momenti topici dei processi di gruppo: non direttamente uno psicoterapeuta, ma senz’altro la cultura della psicoterapia, nello specifico della psicoterapia di gruppo. «La malattia è la medicina» Al posto del mistero della morte di un uomo amato (il terapeuta ha quasi solo la caratteristica che chi lo incontra impara ad amarlo per l’attenzione e l’intelligenza emotiva che ne riceve), la storia si congeda con a più voci per sedare un’ossessione che già rinasce al consumarsi di ogni incontro, proprio là dove molti altri si scoprono finalmente soddisfatti. La lettura assidua di Schopenhauer e l’interiorizzazione della sua vita sono state il passaggio per lui decisivo. Se sia stata vera cura lo giudicherà però chi già è riconosciuto essere in grado di curare, l’altro protagonista della storia di Yalom: un terapeuta, forse Yalom stesso. Per questo secondo protagonista la storia comincia con una diagnosi di cancro metastatico. Messo di fronte al limite, immerso nella situazione estrema della propria morte, sceglie per due mosse (il famoso coping). Prima viene la decisione di seguire Nietzsche nel ritenere che la buona vita sia quella che in ogni momento vorrebbe essere infinitamente ripetuta esattamente così come è stata. Sceglie dunque quale debba essere l’ultimo tratto del proprio cammino: continuare a vivere come prima. Curare ancora, fare ancora gruppi di psicoterapia, fino a quando la malattia lo lascerà libero dal dolore. Poi viene la seconda mossa: cercare di falsificare qualcosa della propria opera scientifica. 83 la promessa di una consolazione nuova, che è solo prefigurata e di cui invece sono chiari i pericoli: la mancanza di training e competenza sui processi relazionali. C’è di che preoccuparsi? Pier Aldo Rovati, nel libro La filosofia può curare?, mette in guardia la filosofia che vuole curare dal proporsi come terapia, fosse anche specifica per il disagio esistenziale. La mette cioè in guardia dal cadere irriflessivamente nella ragnatela “psy” fatta di aiuti, consiglieri, consulenze, letta come Per saperne di più H.M. Chochinov, W. Breitbart, Handbook of Psychiatry in Palliative Medicine. Oxford University Press, New York, 2007. P.A. Rovati, La filosofia può curare? Raffaello Cortina, Milano, 2006. A. Schopenhauer, L’arte di conoscere se stessi. Adelphi, Milano, 2003. S. Toulmin, Ragione ed etica. Un esame del posto della ragione nell’etica. Astrolabio, Roma, 1987. 84 espressione del potere disciplinare, del potere fattosi autosorveglianza. «La malattia è la medicina. La cura è il persuadersi della propria impotenza». Questa impressione riguardo alla terapia “psy” è in effetti l’unica davvero vivida che si trae dalla storia di Yalom: il potere normalizzante del gruppo, la medietà nell’assegnazione di senso alle storie personali incessantemente riportandole al qui e ora delle relazioni gruppo, all’imparare a vivere senza generare sofferenza inutile. Rovati è per una filosofia che sappia bene tutto questo, che si smarchi e giochi piuttosto la resistenza al potere anche disciplinare, che miri a soggettivare, a rimettere in piedi incessantemente il soggetto schiacciato dall’organizzazione sempre più totale. Una filosofia che anche nelle aziende, il luogo naturale dal quale cominciare questa nuova pratica filosofica, comporti «respirazione contro, non semplici spazi per riflettere meglio». Bisogna quindi prima intendersi sulla parola filosofia e su cosa sia una «pratica filosofica, terreno di base di ogni consulenza filosofica che voglia essere davvero tale». La sua pro- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente posta è che «la filosofia è una particolare cura, è un prendersi cura di se stessi che implica un prendersi cura degli altri. È una pratica di pensiero ma, appunto, è essenzialmente una pratica, un esercizio da applicare costantemente alla propria esistenza. Come tale è anche un governo, un modo di governare se stessi. È una politica della soggettività». Se accolta con un simile livello di riflessività e di distanziamento dalla ragnatela “psy”, la filosofia che cura può essere di nuovo (torna in mente la bioetica per Stephen Toulmin) una cura della filosofia per se stessa, un modo per riattivare il legame tra filosofia e vita. Il filosofo negli hospice? Avremo il filosofo, per esempio, negli hospice? Su quest’ultimo punto una risposta si sta già delineando. A New York, in Canada, in Giappone qualcuno (Harvey Max Chochinov, William Breitbart, Tatsuya Morita), insoddisfatto di tante affermazioni generali sulla dignità del morire, e forse preoccupato della superficialità con cui potremmo imparare a rispondere al desiderio di morire, ha pensato e sperimentato forme di accompagnamento al morente centrate sul significato della vita per lui. Il riferimento è, tra gli altri, alla logoterapia di Viktor Frankl. È presto per dare un giudizio, probabilmente presto anche per ripetere l’esperienza in Italia. L’unico dubbio è che anche questo, di fronte alla fine della vita, sia troppo, sia invasivo, sia normalizzante e pensato per ora in modo non sufficientemente critico, quasi come una prevenzione delle decisioni di fine vita. Ma la strada è tracciata: la tradizione ormai consolidata delle cure di fine vita indica i modi per trattare il disagio esistenziale. Perché Schopenhauer? La scelta di Yalom è probabilmente solo narrativa, un modo per introdurre la filosofia nei processi terapeutici descritti, drammatizzandola attraverso la bio- L’autore Tra Scilla, la povertà, e Cariddi, la ricchezza Al di fuori della giustificazione narrativa, il focus su Schopenhauer ha poco seguito per la discussione attuale sulla filosofia come cura che certo, come sostiene Rovati, non è da intendersi come una produzione di metodi e canoni atti a dirigere il pensiero, ma come pratica ed esercizio essa stessa. La lettura di Yalom, lo psichiatra, porta un po’ fuori strada riguardo alla filosofia che cura. Ma la figura di Schopenhauer, presente in quest’opera anche con la sua biografia oltre che con un certo numero di aforismi, non cessa di agire al termine della lettura; anzi, è la parte più riuscita in senso narrativo. Non si dimentica lo Schopenhauer che tutta la vita lotta per il tempo libero, preso tra la Scilla della «povertà, che ci toglie tutto il tempo libero», e la Cariddi della «ricchezza che tende in ogni modo a guastarcelo e sottrarcelo». Infatti «la Natura determina la sorte dell’uomo – di giorno il lavoro, di notte il riposo, e ben poco tempo libero». Qui non c’è consolazione, non c’è autosorveglianza, ma piuttosto il respiro contro che ci si aspetta dalla filosofia, l’invito a una pratica che, come dice Rovati, ha i caratteri del gioco e permette di imparare a mettersi in gioco. Guido Miccinesi a più voci Guido Miccinesi si interessa dei temi della qualità della vita, delle cure palliative e delle decisioni di fine vita [email protected] grafia di un filosofo controverso. Forse la preferenza è andata a Schopenhauer perché era chiaramente, come dice Yalom, «disturbato», e la sua biografia così esplicativa di questo disturbo. Era sia più vicino a certe angosce, e quindi più facilmente identificabile come modello di guarigione attraverso la filosofia, sia più esemplare dei limiti di competenza di chi si presenta con la sola pratica filosofica, per cui questa dovrebbe lasciarsi affiancare (sembra questa l’opinione esperta di Yalom) dalle competenze sulle relazioni, le emozioni e i processi di gruppo che da decenni sono confluite nella psicoterapia. 85 La “soluzione finale” per i malati psichiatrici DA LEGGERE Nel 1955, con il suo primo romanzo che si può definire fantascientifico, Stanislaw Lem sfrutta la sua formazione medica e descrive un ospedale dove la condizione di malato psichiatrico è terminale, e la guarigione un evento accidentale e imprevisto. Il finale, tragico e addirittura catastrofico, lascia però una porta aperta alla speranza. Per noi, oggi, la speranza è che le intuizioni di Lem non restino pura fantascienza. Franco Fasolo S tanislaw Lem, polacco, morto nel 2006 a ottantacinque anni, era laureato in medicina ma, come anche il suo più giovane collega americano Michael Crichton, aveva abbandonato presto la professione per dedicarsi all’esclusivo impegno di scrittore di fantascienza. Ed è stato, all’interno della categoria, uno dei pochi capaci di uno stile ironico, spesso surreale, tendenzialmente filosofeggiante ma sempre argutamente paradossale. Questa doppia caratteriz- 86 zazione può far immaginare un parallelismo fra Lem, medico e scrittore di fantascienza, e la figura dello psichiatra, dedito (o forse dannato) alla più fantascientifica delle specialità mediche. La sua produzione letteraria infatti è stata considerata dai critici come particolarmente impegnata a esplorare i meandri e i misteri celati nella profondità della psiche umana, come ha fatto il suo collega statunitense più noto (forse indebitamente) Philip Dick. Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente Nelle intenzioni dell’autore L’ospedale dei dannati sembra che non fosse un romanzo di fantascienza, anche se la centratura sulle problematiche filosofiche dell’esistenza e una tendenza alla valorizzazione del grottesco nello stile narrativo, caratteristiche del grande Lem fantascien- L’ospedale dei dannati Stanislaw Lem Bollati Boringhieri, Torino, 2006 pp. 203, euro 18,00 tifico, sono già visibili in questo romanzo. Ma la fantascienza ha la singolare capacità di tradurre in una narrazione coinvolgente anche le intuizioni scientifiche più difficili da formulare, più o meno come i mandala induisti e le cattedrali medioevali erano studiati per comunicare a livello emotivo i loro rispettivi modelli del cosmo. In questo senso nel libro sono trasposte, in pura forma narrativa, alcune intuizioni sulla realtà profonda della psichiatria che proprio oggi, a più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, andrebbero considerate con attenzione. Oggi troppi pazienti psichiatrici sono trattati nello stesso modo descritto da Lem (anche se in Italia forse un po’ meno che negli altri Paesi globalizzati). L’ospedale dei dannati, che si può considerare il suo primo vero libro di fantascienza, è dunque anche in un certo senso profetico. Il protagonista, un giovane medico, va con notevole disagio personale al funerale di un parente e si trova In particolare Lem, in una delle scene più forti del libro, stigmatizza la neurochirurgia con la descrizione di un crudissimo intervento intracranico. L’operazione è certamente più sanguinolenta, ma solo apparentemente più indifferente alla persona del malato rispetto agli sviluppi sofisticatissimi del vecchio elettroshock, come la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva, decantata come un intervento a bassa invasività che non richiede nessun dispositivo da impiantare in situ. Obbedienza religiosa e compliance Un altro aspetto da segnalare riguarda la posizione etica e deontologica della suora nella scena dell’intervento neurochirurgico: l’obbedienza al medico. Per lunghi anni e fino a poco tempo fa si è spettegolato sul fatto che le strutture psichiatriche venivano troppo spesso collocate in contesti religiosi, anche dopo che la riduzione delle vocazioni aveva costretto molti Ordini a ritirare da questo particolare tipo di servizio le poche suore rimaste operative. L’attenzione letteraria dello a più voci Diagnosi dettate dalle lobby coinvolto per caso a lavorare in un vicino piccolo ospedale psichiatrico. Qui scopre rapidamente che le competenze professionali richieste per occuparsi dei ricoverati sono scarse e generiche. Tutto quello che gli psichiatri di Lem sanno fare, e soprattutto vengono richiesti di fare, sono le diagnosi. Da un lato, le diagnosi ratificano situazioni fissate o meglio ancora congelate dalle stesse situazioni di cura in cui i pazienti vengono incastrati dalle linee guida e dai protocolli terapeutici. Dall’altro lato, sono sempre più dettate dagli psicofarmaci che le lobby transnazionali e le grandi case farmaceutiche individuano come i più indicati per curare miratamente quelle patologie altrettanto miratamente specificate dalla ricerca scientifica sovvenzionata dalle stesse case farmaceutiche, in una circolarità che la claustrofobia sottilmente pervasiva del libro illustra con sconvolgente aderenza. Oggi questa situazione è esasperata dal peso istituzionale ed economico di tante correnti dottrinarie e di tante pratiche cliniche improntate di volta in volta al più deciso e semplicistico riduzionismo di turno. 87 scrittore di fantascienza all’incrollabile obbedienza della suora agli ordini del medico e scienziato suo superiore fa pensare a qualche tipo di isomorfismo profondo fra le istanze originali dell’obbedienza religiosa e l’estenuante vede quando il protagonista fa il primo giro per i reparti dell’ospedale; questa sopravvivenza però resta garantita solo fintanto che motivi di ordine superiore non orientino le scelte istituzionali verso opzioni alternative. Quando diventa “psichiatrica” una persona entra in un regime che le nega qualsiasi altra capacità o competenza diversa da quella a cui viene in questo modo veramente con-dannata: la condizione di paziente ricerca della compliance da parte dei pazienti in psichiatria. Quando diventa “psichiatrica”, infatti, una persona entra in un regime che, a priori e sistematicamente, le nega qualsiasi altra capacità o competenza diversa da quella a cui viene in questo modo veramente con-dannata: la condizione di paziente. Dunque, la scelta di mettere la psichiatria in contesti architettonici religiosi risulterebbe una decisione intimamente coerente, aziendalmente pensando. All’interno di questo regime, al paziente psichiatrico viene senz’altro offerta l’estenuante possibilità di una sopravvivenza fisica fin troppo stilizzata, come si 88 È questa la “fidelizzazione” dei malati psichiatrici praticata negli attuali stabilimenti di cura, pubblici e privati: malati cosiddetti “cronici” ma, appunto, semplicemente ben fidelizzati. I pazienti in riabilitazione avanzata invece vengono ormai accompagnati da operatori dedicati a fare gite in barca e a passare la serata in locali di lap dance. Si potrà senz’altro, al bisogno (aziendale), passare all’uso sistematico dei malati come cavie, neppure tanto ben informate, per la ricerca scientifica: un uso che a sua volta potrà lasciare adito alle proposte di prevenzione sistematica delle malattie mentali con la somministrazione a tutti Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente i cittadini, tramite l’acqua degli acquedotti pubblici, di farmaci tranquillanti, antidepressivi, regolatori dell’umore. Infine, la condizione di malato psichiatrico potrà lasciare la strada alla soluzione definitiva: Lem descrive il completo sterminio dei ricoverati da parte dei nazisti, comandati da un ufficiale medico e psichiatra alto e bello, convinto dell’assoluta necessità di questo “intervento ospedaliero”. Come gli antichi schiavi Diventare “psichiatrico” può fare entrare, come racconta Lem, in un livello di realtà in cui non si è più “persone”, ma come gli schiavi del mondo antico si resta a disposizione di chiunque voglia approfittarne in piena indipendenza d’animo. E la posizione etica (o almeno deontologi- per saperne di più Per approfondire il tema della “fidelizzazione”: F. Fasolo, Psichiatria senza rete. Cleup, Padova, 2007. L’autore Franco Fasolo è presidente dell’Associazione Veneta per la ricerca e la formazione in terapia analitica di gruppo e analisi istituzionale [email protected] Colpo di scena finale Oggi, anche se non ancora ufficialmente, si incomincia invece a praticare sempre più una clinica fondata su una chiara organizzazione di servizio apertamente “orientata alla guarigione”, sulla base sia di sviluppi metodologici consistenti (tecniche di lavoro con i gruppi terapeutici e con le reti sociali), sia di orientamenti scientifici complessi. Fra questi ultimi, un esempio è la nozione di salute mentale intesa come concetto sopravveniente rispetto al livello inferiore della psiche individuale e a quello, certamente a sua volta altrettanto indispensabile ma ancora più insufficiente, del cervello. Sarebbe però un peccato se il libro finisse così, con poche piccole prove della capacità anticipatoria di Lem riguardo ad alcuni degli sviluppi più fantascientifici della psichiatria. Ecco allora un colpo di scena finale: muoiono quasi tutti tranne i nazisti, come si sarebbe potuto prevedere per un vero romanzo, ma il protagonista si salva insieme a una psichiatra bellissima: un happy end caratteristico della fantascienza, non solo nordamericana. La storia iniziata in un cimitero finisce con un trepido atto d’amore e può aprirsi verso la speranza di una rinascita. Gli sviluppi più avveniristici della psichiatria riguardano infatti la centralità della relazione di cura in quanto incontro personale, declinato metodicamente ed empaticamente in un’attenta elaborazione sul senso e sull’intenzionalità della stessa malattia mentale. Ma riguardano anche la necessità di una matura capacità di trepidazione e di speranza, nei tempi mai lineari ma spesso sequenziali della guarigione, cioè della vita stessa. La speranza è che l’ardita anticipazione da parte di Lem di alcuni possibili sviluppi tecnici della psichiatria, cruciali nel bene e nel male, non resti pura fantascienza. Franco Fasolo a più voci ca) degli psichiatri di Lem è chiara: sostanzialmente, lasciano fare ai nazisti. Il problema che si pone è sottile: questi psichiatri erano semplicemente degli accidiosi più o meno pavidi, oppure la loro stessa professionalità “psichiatrica” li poneva nella condizione di lasciar fare, come la suora, alle decisioni del Potere superiore rispetto alla categoria dei matti? Il fatto che Lem abbia scritto pagine sulla guarigione dimostra che non aveva studiato tanto la psichiatria, né lavorato in ambienti specialistici: in psichiatria si è iniziato a parlare di guarigione solo da tre o quattro decenni, e perciò Lem non poteva avere neppure sentito parlare di guarigione dei malati mentali fino al 1955, anno di pubblicazione del testo. La guarigione viene discussa fra pubblico imbarazzo e segreta derisione nei suoi esiti per il paziente, oscil- lante fra la nostalgia dell’eroica malattia e il pesante rammarico per la perdita delle sinecure garantite dalla condizione di malato psichiatrico. Alla fine però risulterà che quella guarigione era solo il fallito tentativo di fare carriera scientifica da parte di uno psichiatra troppo ambizioso. 89 Sperimentazione clinica e comunicazione DA LEGGERE Può la sperimentazione clinica non essere un rischio, ma un’opportunità per riconsiderare diritti e doveri di chi, a vario titolo, vi si trovi coinvolto? La sperimentazione umana, di Gaia Marsico, non solo offre un’introduzione al mondo della sperimentazione e agli aspetti etici che solleva, ma amplia lo sguardo al rapporto tra sanità e società. Con l’invito a diventare non solo più “esperti”, ma più capaci di partecipazione. Massimiliano Marinelli L a sperimentazione clinica farmacologica ha consegnato ai medici farmaci innovativi in grado di colpire bersagli sempre più specifici. In campo diagnostico, le biotecnologie hanno aumentato in modo straordinario la capacità di risoluzione e hanno messo a disposizione una serie di presidi medicali di grande valore terapeutico. Al di là dei risultati ottenuti, inoltre, la sperimentazione clinica è salita al rango di modalità conoscitiva privilegiata e si è con- 90 cretizzata nell’evidence based medicine (Ebm), la medicina basata sulle prove di efficacia, che oggi rappresenta la modalità operativa migliore per fare delle scelte terapeutiche fondate su dati significativi e trasparenti. In quest’ottica, l’Ebm rappresenta per la medicina ciò che la filosofia della scienza è per la filosofia stessa. Come la filosofia della scienza cerca di chiarire le nozioni strutturali del discorso scientifico e di indagare sul processo di sviluppo della cono- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente scenza, così l’Ebm rappresenta la modalità scientifica con cui la medicina produce se stessa, giorno per giorno, trial dopo trial, costruendo un sapere che diviene patrimonio di tutti. Tuttavia, nel suo recente libro La sperimentazione umana, Gaia Marsico ricorda opportunamente che «la La sperimentazione umana. Diritti violati/diritti condivisi Gaia Marsico FrancoAngeli, Milano, 2007 pp. 272, Euro 23,00 sperimentazione non avviene in laboratori ipertecnologici, ma nelle corsie degli ospedali, laddove si nasce, si soffre, si muore, si suscitano aspettative e si creano illusioni, laddove spesso l’universo dei valori, dei bisogni, delle attese, delle paure si scontra con l’arroganza, la non comunicazione, la violazioni dei diritti fondamentali». Inoltre, la sperimentazione umana si inserisce in un contesto più ampio dove la salute è intesa come bene comune e diritto inalienabile dell’individuo. In virtù del diritto alla salute, «ogni persona che si trovi in una situazione dove non ci sono certezze o risposte soddisfacenti ha il diritto di entrare in una sperimentazione». Ma che cosa significa entrare in una sperimentazione? Qual è il ruolo della persona arruolata e quali sono le condizioni che autorizzano a parlare di partecipazione? Una terra da esplorare ruolo nei confronti della propria salute e del contributo possibile al progresso della ricerca scientifica. L’autrice ci invita quindi a non interpretare mai la partecipazione a una ricerca clinica «come il modo più efficace per essere seguiti con competenza e attenzione». Ma coinvolgimento e partecipazione dei soggetti chiamati a entrare in una sperimentazione non possono prescindere da una comunicazione chiara sui valori in gioco. A questo proposito Gaia Marsico affronta con competenza, sensibilità e passione il difficile tema dell’informazione e del consenso informato. «La comunicazione è ancora un territorio che la medicina non riesce a gestire» e, talvolta, manca proprio nelle situazioni dove maggiore è il diritto di condivisione delle incertezze e di trasparenza. Nell’ambito del consenso informato l’autrice richiama i comitati etici alle loro responsabilità: troppo spesso, infatti, il modulo di informazione è «semplicemente e banalmente una liturgia con poco a che fare con i diritti dei pazienti e con molto a che fare con la correttezza di procedure formali». I fogli informativi a più voci Il significato profondo del termine “partecipazione” richiama alla necessità di una pari dignità tra i protagonisti della sperimentazione. Solo in una relazione tra pari, infatti, sarà possi- bile sperimentare con l’uomo e utilizzare la ricchezza informativa derivata dal coinvolgimento attivo del malato in una ricerca. In una logica di condivisione e collaborazione, le persone coinvolte potrebbero «portare un contributo essenziale, aiutare a capire quali bisogni sono più urgenti, quali informazioni sono più importanti e come meglio possono essere comunicate, quali effetti collaterali sono più pesanti». Inoltre, i pazienti arruolati nelle sperimentazioni potrebbero svolgere un ruolo essenziale nell’individuare e nel fornire un messaggio di feed back, rispetto alle procedure della medicina più a rischio di disumanizzazione. Nella medicina ad alta tecnologia, come spesso accade nei protocolli sperimentali di frontiera, esiste un rischio che le procedure mediche, nella loro rigorosa ma rigida applicazione, privino il cittadino della sua soggettività. Si crea cioè un altro mondo, con linguaggi, spazi e tempi differenti, che non rispetta sino in fondo la dignità di chi diviene oggetto di sperimentazione. Partecipare, quindi, significa essere sempre soggetti consapevoli del proprio 91 dovrebbero essere brevi e leggibili, ma nella maggior parte dei casi sono lunghi e complessi. Tuttavia, i comitati etici continuano ad approvare moduli che i pazienti molto probabilmente non leggeranno o capiranno. Gaia Marsico propone quindi una griglia di lettura di un modulo informativo che, per la chiarezza e la praticità molti fattori: da una parte il diritto a non sapere, dall’altra le capacità dell’individuo, vincolate dalla sofferenza indotta dalla patologia di cui soffre. E ancora, la peculiarità della patologia, che può prestarsi o meno a una comunicazione autentica della realtà, per arrivare al personale rapporto del medico con la malattia e con la morte. Il termine “partecipazione” richiede una pari dignità tra i protagonisti della sperimentazione: solo in una relazione tra pari si può usare la ricchezza informativa derivata dal coinvolgimento attivo del paziente d’uso, dovrebbe essere adottata da ogni comitato etico chiamato a esprimere un parere sul processo informativo all’interno di un progetto sperimentale. Domande per il comitato Al di là della valutazione della proposta informativa cartacea consegnata al paziente, il comitato etico dovrebbe interrogarsi sul grado di libertà che il paziente possiede per decidere consapevolmente se entrare o meno nella sperimentazione. Si tratta di una libertà condizionata da 92 Eppure, la possibilità che il paziente possa esercitare il suo diritto all’autodeterminazione è essenziale, soprattutto in condizioni di forte incertezza come avviene spesso negli studi sperimentali di frontiera. Quando un disegno sperimentale evidenzia un reale interesse del paziente a partecipare allo studio, sia per il bilancio favorevole tra rischi e benefici, sia per la mancanza di una terapia standard, il comitato etico non ha molti problemi nel valutare il percorso di informazione e comunicazione: si può presumere, infatti, che una persona normal- Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente mente capace possa comprendere l’oggettiva opportunità della sperimentazione per la sua salute. Ci sono però delle sperimentazioni, soprattutto in ambito oncologico, caratterizzate da forte incertezza, in cui questa presunzione cade; e così la tranquillità del comitato etico. Di fronte a un trattamento sperimentale, un malato di cancro in fase avanzata ha essenzialmente tre possibilità: sottoporsi al trattamento standard disponibile in quel momento, entrare nella sperimentazione o fare soltanto una terapia palliativa. In condizioni di incertezza, questa scelta non può essere decisa su basi scientifiche, ma dipende essenzialmente dall’individuo, dalla sua storia e dalla sua carta di valori di riferimento. È proprio in questi casi che il foglio di informazione e il modulo del consenso informato rivelano tutta la loro fragilità. Questa particolare persona ha compreso (o vuole comprendere) la precarietà della sua condizione e può scegliere in uno dei momenti più significativi della propria vita? Il comitato etico non può rispondere a una domanda come questa, che si gioca nel rapporto di relazione e L’autore Massimiliano Marinelli è bioeticista presso il Comitato etico degli Ospedali Riuniti di Ancona [email protected] di fiducia con lo sperimentatore e nel suo rapporto personale con il paziente. Si apre così il capitolo della responsabilità del comitato di tessere una fitta rete relazionale con i medici e gli sperimentatori, condividendo i temi etici rilevanti in un dialogo incessante e proponendo occasioni di riflessione comune. Allargare lo sguardo Massimiliano Marinelli a più voci Per quanto culturalmente avanzato e illuminato, un comitato etico tradirebbe il suo compito se lavorasse isolato e non contagiasse il personale sanitario della struttura di riferimento con la propria passione. Questo ci riporta alla prospettiva globale di partenza che ha aperto il libro di Gaia Marsico e alla realtà profonda della sperimentazione come osservatorio sulle possibilità e sulle contraddizioni della medicina. Si tratta di una visione più ampia che ci richiama alla necessità di «ridare finalmente voce ad alcuni diritti negati: da una parte quello di essere medicalizzati il meno possibile, e dunque più indipendenti dalla medicina e dalle sue tante forme di potere; dall’altra il diritto alle cure necessarie, laddove esistono, ovunque si trovino i pazienti». Non è possibile, quindi, considerare il progresso scientifico e la ricerca solo dal suo interno, attraverso i meccanismi scientifici, tecnologici ed economici prodotti dalla medicina dell’evidence. La ricerca clinica va inserita in una dimensione sociale globale, che tenga conto delle grandi diseguaglianze socioeconomiche e della responsabilità collettiva a «un’equa distribuzione delle risorse e perciò anche dei risultati che si ottengono attraverso la ricerca». Serve inoltre una riflessione critica anche sulla stessa Ebm, ritenuta spesso l’unica modalità per produrre conoscenze e risultati, e sui rapporti di questo modello scientifico con gli interessi economici e commerciali. «La pressione del mercato e l’induzio- ne al consumo di farmaci, l’occultamento di dati, l’immissione in commercio di farmaci me-too che non introducono novità terapeutiche»: sono tutti fatti che si riflettono sulla vita di un comitato etico e ritagliano, tra tutti i mondi possibili, un particolare tipo di società dove «più del 90 per cento della ricerca è concentrata sui problemi che interessano il 10 per cento della popolazione mondiale che può permettersi di consumare farmaci e servizi». La conclusione dell’autrice, offerta come un protocollo da condividere, è questa: «è possibile che la sperimentazione possa essere sul serio scuola e laboratorio di una medicina che promuove diritto attraverso la ricerca di risposte ai bisogni inevasi?». La risposta dipende dal grado di ottimismo o, se si vuole, di sana utopia, del singolo lettore. In ogni caso, questo libro invita chiunque lavori nell’ambito sperimentale, e soprattutto i componenti dei comitati etici, ad allargare la visione dei propri compiti e delle responsabilità di fronte alla società di appartenenza. 93 Le prove di efficacia della pediatria narrativa DA LEGGERE Nell’approccio alla medicina evidence based spesso si dimentica un punto importante: le prove di efficacia della medicina narrativa, in particolare in ambito pediatrico. Il nuovo libro di Gangemi, Zanetto ed Elli riprende il tema scegliendo un punto di vista ben preciso: nessun discorso troppo astratto o complesso, ma un riferimento costante alla pratica quotidiana e ai casi reali di bambini, genitori e pediatri che sanno ascoltare. Alfredo Pisacane C hi si occupa di evidence based medicine concentra spesso la sua attenzione su come ricercare le prove scientifiche e come valutarle in modo critico. Negli ultimi anni medici e studenti hanno inserito nel proprio patrimonio culturale la capacità di fare domande appropriate a partire da una determinata situazione clinica, interrogare la letteratura con le parole chiave giuste, sapersi muovere bene tra le pubblicazioni secondarie, leggere un lavoro scientifico 94 originale o una revisione sistematica comprendendone i limiti e le possibili applicazioni nel proprio contesto. C’è però un punto, pure appartenente all’approccio evidence based, più complesso e quindi meno “battuto”. È il punto che costringe il professionista della salute a rallentare il suo ritmo, a mettere per un momento da parte il suo messaggio educativo o la prescrizione che gli sembra indispensabile, a sedersi, a guardare negli occhi il suo Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente interlocutore e, finalmente, ad ascoltarlo per confrontare le prove scientifiche con le opinioni, i desideri, le convinzioni e i valori della persona che ha di fronte. La narrazione, scrive Narrazione e prove di efficacia in pediatria Michele Gangemi, Federica Zanetto, Patrizia Elli Il pensiero scientifico, Roma, 2006 116 pagine, 12,00 euro Giorgio Bert nell’introduzione del bel libro di Gangemi, Zanetto ed Elli, «è il ponte che permette di valicare il fossato esistente tra i modelli esplicativi della malattia del medico e quelli del malato». Senza la narrazione del bambino o dei genitori, la malattia resterà la disease dei trattati medici e il pro- per crearsi competenze di counselling e convincersi che per la buona riuscita di una relazione di cura è fondamentale saper ascoltare, per capire cosa sta veramente dicendo un’altra persona, cosa la preoccupa, cosa teme, cosa le interessa conoscere. Molto è stato scritto in questi anni sull’importanza I professionisti che si muovono in questo libro, pur non rinunciando alla ricerca delle prove scientifiche e alle proprie convinzioni, ascoltano, cercano soluzioni possibili e condivise, mostrano disponibilità al confronto della medicina narrativa; in diverse occasioni commenti in proposito sono già apparsi su Janus (si vedano per esempio gli articoli “Una storia per due, la narrazione tra malattia e cura” di Cinzia Colombo in Janus 14, “Vivace ma non troppo: la buona comunicazione empatica”, di Elena Mancini in Janus 24 e il più recente “Ecm e medicina narrativa: assolti… con vendetta” di Silvana Quadrino in Janus 26). Inoltre l’integrazione possibile tra medicina basata sulle prove scientifiche e medicina narrativa, in un’ottica di miglioramento Spettatore invisibile di una negoziazione L’agile manuale di Gangemi e colleghi ha però un pregio ulteriore per il professionista della salute: l’esemplificazione di scenari della pratica quotidiana. Decidendo di non trattare aspetti teorici complessi, come per esempio il modello esplicativo ed ermeneutico culturale della medicina, il libro propone piuttosto una serie di tematiche quasi come capitoli virtuali: l’informazione corretta come strumento di cambiamento, la risposta a richieste incon- L’autore Alfredo Pisacane è professore di pediatria e direttore dell’Ufficio formazione continua all’Università Federico II di Napoli [email protected] a più voci fessionista della salute perderà la ricchezza del significato dell’illness per quel bambino e per la sua famiglia, ricchezza che non è solo teorica o mero vantaggio culturale, ma principalmente una risorsa di aderenza terapeutica, di alleanza, di opportunità di interventi efficaci. Tra gli insegnamenti delle professioni sanitarie non ce n’è uno che si chiami “Saper ascoltare”, né “Prendersi cura”, né forse uno che intenda creare negli studenti competenze di comunicazione efficace e consapevole. Spesso bisogna uscire dall’università della qualità dell’assistenza, è stata oggetto di trattazioni rilevanti da parte di vari autori, fra cui Giulio Giarelli, Byron Good, Arthur Kleinman, Trisha Greenhalgh e Brian Hurwitz. 95 grue, la comunicazione dell’incertezza, la comunicazione del rischio, l’alleanza terapeutica, i messaggi che ottimizzano le cure. Ognuna di queste tematiche è esemplificata da uno o più scenari clinici, nei quali sono riportati da una parte il racconto dei genitori o dei ragazzi, le Per saperne di più G. Giarelli et al., Storie di cura. Medicina narrativa e medicina delle evidenze: l’integrazione possibile. FrancoAngeli, Milano, 2005. B.J. Good, Narrare la malattia. Edizioni di Comunità, Milano, 1999. T. Greenhalgh, B. Hurtwitz, Narrative based medicine. Bmj Books, Londra, 1998. A. Kleinman, The illness narrative. Basic Books, New York, 1988. J. Launer, Narrative-based primary care. A practical guide. Radcliffe Medical Press, Oxford, 2002. V. Masini, Medicina narrativa, comunicazione empatica e interazione dinamica nella relazione medicopaziente. FrancoAngeli, Milano, 2005. 96 domande, i dubbi, i timori, le convinzioni; dall’altra il lavoro del pediatra nel tenere conto non solo di quanto la letteratura suggerisce, ma anche di questi dubbi, timori e convinzioni. In questo modo il libro dà al lettore un po’ la sensazione di trovarsi in ambulatorio, come uno spettatore invisibile di una negoziazione. Rispetto alle visite tipo che siamo abituati a vedere, i professionisti che si muovono in questo libro, pur non rinunciando alla ricerca delle prove scientifiche e alle proprie convinzioni, ascoltano, accolgono le preoccupazioni dei genitori, non banalizzano né svalutano alcune loro convinzioni (anche quando non le condividono). Cercano inoltre soluzioni possibili e condivise, mostrano disponibilità al confronto e a soluzioni alternative, fanno proposte concrete, danno le informazioni con un linguaggio semplice e, infine, riconoscono la difficoltà di situazioni di incertezza; anche in questi casi, comunque, tentano di individuare obiettivi di azione con (e modalità di sostegno per) le famiglie con cui lavorano. Sono pediatri che si pongono domande del tipo: Janus 27 • Autunno 2007 • il futuro del presente «Cosa mi stanno veramente chiedendo questi genitori? Cosa è importante sapere per loro? Cosa sono in grado di rispondere? Cosa posso fare per aiutare questa famiglia ad avere un ruolo attivo nella gestione della malattia del bambino e a tirare fuori in questo momento di difficoltà le risorse possibili?». Così il libro scorre piacevolmente, pieno di domande e dubbi di grande interesse, in un contesto in cui non si rivisita il capitolo dell’insonnia, ma ci si occupa di Matilde, una piccolina di 9 mesi che dorme pochissimo e della speranza nei rimedi omeopatici e nella niaprazina dei suoi genitori. Non si rileggono la classificazione e la terapia delle cefalee, ma si accolgono i dubbi dei genitori di Valentina sulla lunga durata di una terapia profilattica o i timori sui possibili effetti collaterali. In ciascuno di questi scenari le soluzioni possibili e praticabili sono suggerite non dalle sole prove scientifiche dell’Ebm, ma da quanto la narrazione e un attento ascolto riescono a far capire al professionista le aspettative e i valori della persona che ha di fronte. Alfredo Pisacane Il profitto della memoria 98 Il polso letterario 103 La settima arte 109 Grammatiche mediche 114 Il ginnasio filosofico 121 Vi racconto la mia professione 126 Ultim’ora L’etica medica al tempo della “Paranoia” Gli attentati terroristici di matrice islamica che la scorsa estate hanno avuto come esecutori alcuni medici fanno riflettere su come sia possibile che in uno stesso uomo possano convivere due aspetti così contrapposti. Una chiave di lettura viene dalla letteratura sulla realtà dei gulag sovietici, in cui i medici si trovavano allo stesso tempo a svolgere la loro professione e a servire un’ideologia basata sul disprezzo delle vite umane. Sandro Spinsanti U Il polso letterario Secondo il critico letterario George Steiner, «i libri sono la password per diventare migliori di quelli che siamo». Soprattutto quelli che la memoria collettiva ha selezionato come classici letterari. Le medical humanities non si stancano di rivisitarli, nella convinzione che la pratica medica possa trarre beneficio da un costante contatto con il polso della letteratura, oltre che con quello del malato. 98 n medico terrorista? Ma com’è possibile conciliare due identità, due mondi così opposti: dedicarsi a salvare vite umane e contemporaneamente tramare per distruggerle? Domande di questo genere hanno accolto la notizia che a Londra tra i principali artefici della preparazione degli attentati dello scorso luglio, andati solo parzialmente in porto, ci fossero dei medici di religione islamica. Non riusciamo a trovare una risposta. Il mondo in cui vive il terrorista è un mondo pa- Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria rallelo al nostro: le condizioni di vita e soprattutto il suo orizzonte mentale (ciò che vede e ciò che sente, le sue speranze, i suoi obiettivi) sono impenetrabili per chi vive una vita “normale”. È un mondo paranoico: non nel senso clinico del termine, ma in quello colloquiale. La mente del terrorista, il nous dei Greci, ampliato fino a includere tutto il suo universo interiore, non ha interferenze o momenti di comunicazione con altre menti. Vive, appunto, in un mondo “para-noico”. come forza-lavoro, era ridotta alla lotta per la sopravvivenza: una lotta condotta non insieme, ma gli uni contro gli altri. L’ingranaggio paranoico del lager alamov, dopo diciotto anni di deportazione nella Kolyma, è uno dei rari così alla morte sicura dei lavori in miniera. Dal suo osservatorio fu in grado di analizzare i comportamenti di medici e infermieri, presi anche loro nell’ingranaggio paranoico del lager; i Racconti riportano una quantità di ritratti di personaggi del mondo concentrazionario e di osservazioni sulla logica che teneva insieme l’atti- Quello che colpisce è anzitutto la permanenza formale dell’etica medica anche in quel mondo parallelo, dove sono revocati i diritti umani e i valori abitualmente presenti nella nostra convivenza sociale sopravissuti. La testimonianza letteraria di quel mondo ha preso forma nei Racconti della Kolyma. Può essere utile ripercorrere la sua esperienza tenendo presente la nostra domanda iniziale: come si può conciliare medicina e indifferenza per la vita umana? Dentro l’inferno della Kolyma, infatti, erano previsti servizi medici. Lo stesso alamov deve la sua vita al fatto che un medico detenuto nel 1946 lo destinò ai corsi di addestramento per infermieri che si tenevano nell’ospedale centrale, scampando vità professionale rivolta a salvare la vita con una concezione ideologica centrata sull’assoluto disprezzo per la vita dei prigionieri. Colpisce anzitutto la permanenza formale dell’etica medica anche in quel mondo parallelo, dove sono revocati i diritti umani e i valori abitualmente presenti nella nostra convivenza sociale. Nell’addestramento dei futuri infermieri viene inculcato «come deve essere la vera medicina nel lager»: infatti, «la mostruosità della vita nel lager non deve distogliere il medico il polso letterario Alcuni approdano nel paese di Paranoia spinti dalla malattia: sono l’oggetto di studio e, quando possibile, di cura degli psichiatri. Altri vi entrano per libera scelta, perché abbracciano un’ideologia totalitaria. È quanto avviene, immaginiamo, per chi aderisce al terrorismo. Una terza categoria di abitanti di Paranoia sono le vittime degli universi concentrazionari. Per estensione nel tempo e nello spazio e per numero di persone coinvolte, i lager nati come gulag staliniani meritano un infame primato. La testimonianza letteraria più incisiva è quella di Varlam alamov, deportato nell’immenso territorio della Siberia nordorientale al di sopra del circolo polare artico, nella regione della Kolyma. Milioni di persone vi sono state inviate, soprattutto nel periodo del maggior terrore staliniano, negli anni 19371938, in base al famigerato art. 58 della Costituzione sovietica, con l’accusa di essere “spie”, “sabotatori”, “controrivoluzionari”. Il freddo, la fame, il lavoro bestiale nelle miniere hanno falciato un numero incalcolabile di vite umane. L’esistenza dei deportati, considerati esclusivamente 99 dalla retta via». alamov spiega: «Tutti i nostri insegnanti cercavano di coltivare in noi l’onestà morale e con digressioni liriche ci descrivevano quel loro ideale di purezza, cercavano di coltivare il senso di responsabilità verso il grande compito di aiutare i malati, malati che erano per di più detenuti, e per di più detenuti della Kolyma – ripetendo, come potevano, le stesse cose che erano state loro inculcate negli anni della giovinezza dagli istituti, dalle facoltà di medicina, dal giuramento di Ippocrate». L’inversione dei valori Anche in pratica, per alcuni Per saperne di più G. Knopp, Complici ed esecutori di Hitler. Corbaccio, Milano, 2000. V. alamov, I racconti della Kolyma. Adelphi, Milano, 1999. A. Solenicyn, Arcipelago Gulag. Mondadori, Milano, 2001. A. Solenicyn, Una giornata di Ivan Denisovi. Einaudi, Torino, 2006. gli ideali dell’etica medica erano una cosa viva, in un mondo in cui gli esseri umani assomigliano alla natura congelata dal freddo e riescono ancora a pensare e agire solo al livello più infimo, al di sotto della stessa animalità. «Si era creato un gruppo di medici e infermieri che cercavano di fare ogni cosa nel migliore dei modi. Per moltissimi di loro si trattava di un dovere sacro: rendere un servizio per la preparazione medica ricevuta, aiutare la gente». Ma a proprio rischio: nell’inversione di valori e significati dell’universo concentrazionario, la comprensione può comportare la morte e la bontà può essere interpretata come ribellione. alamov non condivide la convinzione di Aleksandr Solenicyn (che in Una giornata di Ivan Denisovi descrive lo stesso ambiente del gulag e le strategie per la sopravvivenza al grado più elementare) secondo cui la sofferenza può condurre alla salvezza e perciò la vita nel lager può avere anche aspetti positivi: per alamov la sofferenza estrema può solo portare alla brutalizzazione dell’uomo. Tuttavia nell’universo del lager da lui 100 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria descritto non mancano figure positive a tutto tondo. Accanto al dottor Doktor, descritto come «una vera canaglia... odiava i detenuti. Non li trattava semplicemente male o con diffidenza. Li tiranneggiava, li umiliava ogni giorno e ogni momento, cercava pretesti, li offendeva e si valeva ampiamente del suo potere, illimitato nell’ambito dell’ospedale, per riempire le celle d’isolamento, le unità di correzione. Non considerava gli ex detenuti degli essere umani», si staglia la figura eroica del dottor Loskutov: «Uomo di alte qualità morali, subordinò tutta la sua vita di medico del lager, a un unico compito: aiutare attivamente e costantemente gli altri, in primo luogo i detenuti. Un aiuto che non era assolutamente solo medico. Trovava sempre il modo di sistemare qualcuno, di raccomandarlo per un lavoro dopo che era stato dimesso dall’ospedale». Essere ancora capaci, nonostante tutto Più utili a capire il mondo parallelo in cui vivono gli abitanti del lager non sono i ritratti a due colori, il “DOTTOR MORTE” SULLO SCHERMO Anche nel cinema si possono trovare esempi di storie, vere o fittizie, che hanno come protagonisti medici che vengono meno alla loro missione per seguire un’ideologia. Gregory Peck è il dottor Josef Mengele in I ragazzi venuti dal Brasile I ragazzi venuti dal Brasile, di Franklin Schaffner (1978) Anni ‘70: Josef Mengele, il cosiddetto angelo della morte di Auschwitz che usava i prigioneri per esperimenti genetici, è ancora vivo e si trova in Paraguay. Sta portando avanti un progetto scientifico cominciato alla fine della Seconda guerra mondiale: clonare Adolf Hitler. Un anziano ebreo cacciatore di nazisti (Laurence Olivier) si mette sulle sue tracce e cerca di impedire la nascita di una nuova razza hitleriana fondata su manipolazioni genetiche. Il maratoneta, di John Schlesinger (1976) L’ex criminale nazista Szell (Laurence Olivier) ha il problema di recuperare il suo bottino di guerra: i diamanti frutto dell’internamento degli ebrei nei campi di sterminio. Ispirato alla figura di Josef Mengele, questo personaggio è ancora una volta l’esempio di un medico asservito a un regime, che utilizza le sue conoscenze di dentista per torturare il suo avversario (Dustin Hoffman). L’ultimo Re di Scozia, di Kevin Macdonald (2006) Agli inizi degli anni ‘70, un giovane medico scozzese, partito alla volta dell’Uganda per scopi umanitari, finisce per diventare il medico personale e il principale confidente del dittatore del Paese: Amin (Forest Whitaker, Oscar miglior attore 2007). Inizialmente affascinato dalla personalità e dal carisma del tiranno africano, in un secondo momento il protagonista prenderà coscienza di tutta la sua ferocia e crudeltà. Basato su una storia vera. il polso letterario bianco o il nero, ma quelli che danno conto delle sfumature, anzi delle contraddizioni. Come, per esempio, il profilo del dottor Pëtr Ivanovi Merzljakov, che dà conto di un atteggiamento complesso; Merzljakov può essere, contemporaneamente, “salvatore” e “persecutore” dei suoi pazienti. L’essere medico non lo mette, univocamente, dalla loro parte: proprio dalla scienza medica mutua le conoscenze necessarie a smascherare i detenuti che simulano una malattia per salvarsi dal lavoro forzato che li porta alla morte. «Più della metà del suo tempo lavorativo Pëtr Ivanovi la passava a smascherare i simulatori. Naturalmente capiva bene le cause che spingevano i detenuti alla simulazione. Lui stesso fino a poco tempo prima era stato un detenuto, e non lo stupivano né l’infantile ostinazione dei simulatori, né la sconsiderata ingenuità delle loro finzioni. Ex docente in uno degli istituti siberiani, Pëtr Ivanovi aveva fatto la sua carriera scientifica su quelle stesse nevi dove certi pazienti cercavano di salvarsi la vita ingannandolo. Non si può dire che non provasse pena 101 per quelle persone. Ma era più medico che uomo, era prima di tutto uno specialista. Era fiero che un anno ai lavori comuni non avesse avuto la meglio sul medico specialista. Non guardava al compito di smascherare i simulatori dal punto di vista di un qualche superiore interesse dello Stato, né da posizioni morali. Ci vedeva una giusta applicazione delle proprie conoscenze, della propria capacità psicologica di tendere trappole – trappole in cui, per maggior gloria della scienza, dovevano cadere uomini affamati, disgraziati, sull’orlo della follia. In questa lotta tra il medico e il simulatore tutto stava dalla parte del medico: migliaia di astute medicine, centinaia di manuali, una ricca attrezzatura, l’aiuto della scorta, l’enorme esperienza dello specialista, mentre dalla parte del malato c’era soltanto l’orrore del mondo che aveva lasciato per venire all’ospedale e nel quale aveva paura di ritornare. Era proprio questo orrore a dargli la forza di lottare. Smascherando l’ennesimo simulatore, Pëtr Ivanovi provava un piacere profondo: ancora una volta la vita gli dimostrava che era un bravo medico, che non aveva perduto la sua professionalità, ma che al contrario l’aveva affinata, limata – in una parola che era “ancora capace?». Gli sguardi che alamov ci ha permesso di gettare nel mondo della Kolyma non ci danno elementi per poter rispondere alla domanda su come si possa essere, contemporaneamente, medici e terroristi. Ci 102 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria fanno, però, almeno balenare la complessità che nasce quando il totalitarismo ideologico e la violenza sistematica annettono la medicina, per farla aderire ai propri fini. La realtà “paranoica” ha singolari somiglianze con il mondo “normale”: vi transitano esseri umani (pochi) che hanno fatto della diffusione del Bene l’obiettivo della loro vita; altri (molti) che si sono messi a servizio del Male, cancellando ogni riferimento all’umanità, propria e degli altri; altri ancora (la maggioranza) che oscillano tra l’uno e l’altro polo, con molte contraddizioni e compromessi. I medici non fanno eccezione: sono parte di questa umanità distribuiti nelle stesse categorie. Sandro Spinsanti Dallo psichiatra criminale al vissuto del paziente Nella storia del cinema la psichiatria è presente fin dagli inizi, ma il modo in cui è rappresentata sullo schermo è cambiato notevolmente nel tempo: è stata vista di volta in volta come criminale, consolatrice e oppressiva. Solo negli ultimi decenni però si è osservato un vero cambiamento: l’attenzione non è più concentrata solo sulla psichiatria o sullo psichiatra, ma piuttosto sul mondo interiore del paziente. Giovanni Maio La settima arte gnuno ha in mente una sua immagine della psichiatria, con la quale però la maggior parte delle persone non hanno mai avuto a che fare, neanche indirettamente: la loro idea è quindi evidentemente filtrata dai media, che giocano in generale un ruolo importante nella formazione di immagini e rappresentazioni e che, in qualità di cantastorie del nostro tempo, raccontano alle persone storie che sono espressione di una cultura comune. Fra tutti i media, il cinema ha una posizione particolare perché aprendo nuovi orizzonti soddisfa un dato bisogno degli uomini, e li affascina con la sua immediatezza e la sua capacità di suggestione. Per la psichiatria si pone quindi la domanda di come viene interpretata e valutata in queste storie. Le immagini che si formano in questo modo appartengono alla base culturale sulla quale si costruisce la realtà. L’importanza di questa domanda diventa più chiara se si pensa che in un la settima arte Al cinema per divertirsi? Sì, certo. Al cinema per emozionarsi? Anche. Al cinema per riflettere? Perché no! Il cinema ci rimanda volentieri i vissuti di malattia, guarigione, nascita e morte, che costituiscono la trama essenziale della nostra esistenza corporea. Questo rispecchiamento offre grandi opportunità per riflettere, in quanto attività di pensiero. Per le medical humanities il cinema è una manna. Con una sola difficoltà: scegliere tra le tante offerte che la settima arte ci propone a ritmo incalzante. O 103 film su dieci vengono rappresentate, direttamente o indirettamente, malattie psichiche, e così ogni spettatore riceve involontariamente rappresentazioni mediate della psichiatria. Attraverso i film vengono trasmessi molti stereotipi, di cui alcuni particolarmente significativi. Scenario della commedia Il primo psichiatra è apparso sullo schermo nel 1906, in un cortometraggio muto americano di 20 minuti, intitolato Dr. Dippy’s sanitarium. In questa commedia i residenti di un reparto psichiatrico riescono a sopraffare il nuovo guardiano e in varie scene slapstick lo usano come trastullo, finché compare l’“eroe”, il dottor Dippy, con un cestino da picnic e riconduce alla calma i rivoltosi distribuendo il cibo. Il dottor Dippy non è assolutamente un’invenzione del film, ma un’elaborazione cinematografica di un personaggio dei fumetti all’epoca molto popolare. Si potrebbe pensare che questo sia un film sulla psichiatria, e in effetti nella maggior parte dei film la clinica psichiatrica è immersa in una luce altrettanto insolita. Però in questo modo si ignorerebbe la condizione drammaturgica basilare: qui il reparto psichiatrico non è che lo sfondo sul quale si sviluppa la commedia. L’azione si sarebbe potuta svolgere altrettanto bene in una scuola o in un campo di calcio: è importante solo la piattaforma sulla quale è possibile la slapstick comedy. Se agli inizi della storia del cinema si ricorre spesso al reparto psichiatrico, è perché la commedia è stata uno dei primi generi del film muto, e il reparto psichiatrico si offriva bene come scenario. Lo psichiatra come personaggio comico rimane comunque un tema popolare anche in epoche successive; una rielaborazione più L’autore Giovanni Maio è professore di bioetica, direttore dell’Istituto di bioetica e storia della medicina, Università di Friburgo, Germania [email protected] 104 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria recente dello stesso tema è rappresentata nel film americano Tutte le manie di Bob (1991). Scenario del thriller Per il cinema la psichiatria non è solo lo scenario per le commedie: è altrettanto appropriato per i thriller. Alla rappresentazione dello psichiatra come personaggio comico è seguita presto la contestualizzazione della psichiatria nell’orizzonte del pericolo. Uno dei più famosi thriller della storia del cinema, e il più famoso film muto tedesco, è Il gabinetto del dottor Caligari (1919), di Robert Wiene, in cui l’ipnotizzatore Caligari fa uccidere diverse persone dal suo sonnambulo Cesare. Dopo che uno studente lo smaschera, si scopre che Cesare è in realtà un paziente del manicomio, il cui direttore è proprio Caligari. Il tema quindi è quello dello psichiatra come criminale. Secondo lo storico dei media Siegfried Kracauer, la psichiatria, nello spirito originale della sceneggiatura di Wiene, è un simbolo dell’onnipotente autorità statale. Nel famoso libro Da Caligari a Hitler, Kracauer interpreta Cesare come l’uomo della strada, che sotto la pressione del servizio militare è addestrato a uccidere e a essere ucciso a sua volta. La scoperta che lo psichiatra è Caligari significa che il potere assoluto dev’essere stigmatizzato e l’autorità stessa è costretta ad abdicare: il messaggio è quindi fortemente politico. indirettamente; si potrebbe anche sostenere che il messaggio originale è stato ribaltato dalla trama. Se dunque nel Gabinetto del dottor Caligari lo psichiatra viene rappresentato come un criminale, è significativo che nel film di Douglas Fairbanks Quando le nuvole volano via, dello stesso anno, si trovi il tema dello psichiatra che si sco- Gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta sono stati l’epoca d’oro della psicoanalisi, soprattutto in America. Analogamente, gli anni dal 1957 al 1963 sono considerati «l’epoca d’oro della psichiatria al cinema» pre essere un paziente fuggito dalla psichiatria. La psichiatria è quindi rappresentata spesso come scenario per i thriller, e non è raro che il ruolo del cattivo venga attribuito allo psichiatra, come nei primi film della serie del Dottor Mabuse, in particolare nel Testamento del dottor Mabuse (1932) di Fritz Lang. Un esempio rappresentativo è anche il film La morte dietro il cancello (1972), in cui lo psichiatra alla fine viene smascherato come il vero assassino. Più recentemente, anche Il silenzio degli innocenti Rifugio e consolazione Spesso la clinica psichiatrica appare in una luce negativa, ma non sempre. Oltre al personaggio comico (dottor Dippy) e al cattivo (dottor Evil), c’è anche l’eroe, il dottor Wonderful. Un esempio è il film La tela del ragno (1955), di Vincente Minnelli, in cui Richard Widmark è lo psichiatra di una clinica privata ed elegante, amministrata in buona parte dagli stessi pazienti. Questo film mostra molti segni caratteristici della psichiatria, e soprattutto una certa demedicalizzazione: i pazienti sono a malapena distinguibili dai non pazienti e la terapia si attua primariamente in forma di colloqui personali che arrivano sempre a una catarsi. Il film suggerisce che i pazienti hanno solo bisogno di affetto e comprensione, e l’eroe-psichiatra, dal momento in cui si mostra empatico, li può guarire. Bisogna osservare che gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta sono stati l’epoca d’oro della psicoanalisi, soprattutto in America. Analogamente, gli anni dal la settima arte Ma l’aspetto interessante è che il regista ha cambiato la sceneggiatura originale in un punto cruciale: nella scena finale tutta la storia è raccontata da un degente del manicomio, e solo nella sua immaginazione il direttore era il “cattivo”. Questa scena finale, in cui tutta l’azione è rappresentata solo come vaneggiamento di un malato di mente, distorce il messaggio del film: mentre la sceneggiatura originale svelava la follia che si nasconde dietro l’autorità, la versione definitiva contiene questa critica (se la contiene) solo ricade in questa categoria. 105 1957 al 1963 sono considerati «l’epoca d’oro della psichiatria al cinema», come li hanno descritti Krin e Glen Gabbard. A loro avviso, in quel periodo è stata rappresentata un’immagine idealizzata della psichiatria e soprattutto dello psichiatra: in sette anni lo psichiatra amabile e sempre premuroso si trova in non meno di 22 film americani, fra cui il più emblematico è sicuramente Freud, passioni segrete (1962) di John Huston. La psichiatria come potere repressivo Già negli anni Sessanta, tuttavia, la psichiatria era diventata una delle istituzioni sottoposte a feroci critiche, soprattutto dagli stessi psichiatri “impegnati”. Da qui si è sviluppato per saperne di più G. Gabbard, K. Gabbard, Cinema e psichiatria. Cortina, Milano, 1995. S. Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco. Lindau, Torino, 2001. un vero e proprio movimento antipsichiatrico, culminato a metà degli anni Sessanta e basato sulla tesi che la definizione della malattia psichica è una costruzione esclusivamente sociale, che serve solo a disciplinare chi è diverso o pensa in modo diverso. Il movimento accusava in particolare il trattamento psichiatrico dei pazienti e chiedeva alla psichiatria di rinunciare a ogni mezzo di costrizione. Il romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo (1962) di Ben Kesey conteneva già questa tesi, ed è servito come modello per l’omonimo film, girato significativamente solo 13 anni dopo, quindi in un’epoca in cui nel mondo scientifico l’utilità del trattamento psichiatrico era tornata gradualmente in auge. Eppure la psichiatria come potere repressivo è un tratto distintivo del film di Forman, che come regista di origine ceca voleva criticare la psichiatria nel blocco orientale. Comunque il film ha invertito il messaggio originario del libro: nel romanzo il protagonista riesce a liberare dall’angoscia gli altri pazienti, che tornano a sentirsi persone sane. Il messaggio che i pazienti 106 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria psichiatrici in certe condizioni sono più sani dei pazienti “sani” nel film viene sovvertito nel messaggio opposto: di base, tutti i pazienti psichiatrici hanno bisogno dell’istituzione. Solo il protagonista McMurphy è, come l’uovo del cuculo, approdato all’istituzione sbagliata. Rispetto al libro, balza agli occhi la concentrazione del film su una lotta di potere individuale. Tutto il film si costruisce di più sulla lotta fra McMurphy e l’infermiera Miss Ratched che sul messaggio politico. Il personaggio di McMurphy, che nel romanzo si sacrifica per la liberà degli altri, nel film diventa un banale eroe americano. Il messaggio del film resta così ambivalente: da un lato i pazienti sono effettivamente dei malati e appartengono alla psichiatria; dall’altro la lotta di potere (personale) contro una rappresentante della psichiatria inevitabilmente mette la psichiatria stessa in una luce negativa e la mostra come repressiva. La psichiatria come repressione non entra nella storia del cinema con Forman: molto prima c’erano altri film dello stesso tipo, fra cui il più famoso è sicuramente La fossa dei serpenti Il ruolo della famiglia e degli amici Oggi non si potrebbe girare un film come Qualcuno volò sul nido del cuculo: è cambiata la percezione sociale della psichiatria, ma è cambiata anche la psichiatria stessa. Guardando i nuovi film si nota che il tenore è completamente diverso: è evidente la depoliticizzazione del tema, e al centro dei nuovi film non c’è più la beautiful mind (Oscar come miglior film) del 2001, che racconta la storia di John Nash, premio Nobel per l’economia nel 1994, malato di schizofrenia per 25 anni. Nel film il giovane Nash è ricoverato forzatamente in una clinica psichiatrica, dove vive il trattamento «I sanatori hanno due compiti: la guarigione dei malati e la difesa della società. Soprattutto la seconda ci interessa tutti, ed è facile da realizzare. Me l’hanno insegnato 30 anni di esperienza professionale» psichiatria come istituzione, né la lotta di potere, bensì la vita interiore dei malati. La psichiatria (con l’eccezione di alcuni film dell’Europa orientale) non è più oppressione, né carcerazione, né custodia; non è più il luogo della consolazione né del ritrovarsi. Un buon esempio di questo nuovo approccio cinematografico alla psichiatria è Shine (1996), di Scott Hicks, in cui è descritto l’isolamento interiore di un pianista schizofrenico. Nel film spicca la rappresentazione notevolmente ottimistica della trattabilità della schizofrenia. Lo stesso tema caratterizza anche A con shock insulinico come una tortura e la terapia farmacologia come «confondente». Il protagonista rifiuta ogni altro trattamento clinico, perde il suo posto di lavoro e vaga per il mondo, per poi tornare alla sua università, dove viene accettato. Alla fine riesce a trovare un modo di convivere con la sua malattia. È particolare in questo film il ruolo dei colleghi, della famiglia e degli amici, che con la comprensione, vedendo la persona dietro la malattia, lo proteggono dall’isolamento e permettono il suo ritorno a una relativa normalità. la settima arte (1948) di Anatole Litvak. La psichiatria come istituzione dell’oppressione era anche stata il tema del film Una splendida canaglia (1966) di Irvin Kershner, in cui Sean Connery guida la resistenza contro la psichiatria oppressiva. Un altro esempio molto indicativo è La fossa dei disperati (1958) di Georges Franju, tratto da un romanzo di Hervé Bazin, che con il suo libro voleva denunciare la psichiatria francese: un uomo, che il padre non ama e fa ricoverare, sano, in psichiatria, è un tema che torna sempre rielaborato nella storia del cinema. Il film di Franju è dichiaratamente critico verso la psichiatria; lo si vede per esempio dalla definizione di psichiatria messa in bocca al responsabile della clinica psichiatrica: «I sanatori hanno due compiti: la guarigione dei malati e la difesa della società. Soprattutto la seconda ci interessa tutti, ed è facile da realizzare. Me l’hanno insegnato 30 anni di esperienza professionale». 107 Questo film è tipico dell’approccio moderno, che si dedica soprattutto al mondo interiore dei malati. Anche qui si tratta in particolare dello sviluppo della capacità di sconfiggere la malattia. I lati meno piacevoli del carattere di Nash, descritti nel libro, non trovano spazio nel film. Il messaggio significativo è che i malati, con l’aiuto del loro ambiente, possono riuscire a trovare un modo di convivere con la schizofrenia e quindi a ottenere un riconoscimento sociale. Un altro esempio della moderna concentrazione sul mondo interiore dei pazienti è il pluripremiato Un angelo alla mia tavola (1990), di Jane Campion: la versione cinematografica del ciclo di romanzi della scrittrice australiana Janet Frame, che supera la schizofrenia per mezzo della scrittura. Certo, non tutti i film moderni sono ottimistici: nella recente storia del cinema sono numerosi i film in cui il tema principale è la distruzione progressiva della mente dei malati di Alzheimer. Uno dei più famosi è Iris (2001) di Richard Eyre, tratto dal libro Elegy for Iris di John Bayley, in cui lo scrittore racconta la malattia di sua moglie. Dal punto di vista 108 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria dell’etica della medicina è particolarmente interessante il film tv americano Mercy or murder? (1987), di Steven Gethers, in cui un marito aiuta a morire la moglie, malata di Alzheimer e incapace di intendere. Un film tv tedesco che affronta questo tema è Reise in die Dunkelheit (letteralmente “Viaggio nell’oscurità”) di Berthold Mittermayr, del 1997. È probabile che il tema dell’Alzheimer in futuro sarà ripreso da molti film. Sarà molto interessante vedere quale ruolo giocherà la psichiatria. Giovanni Maio L’insostenibile leggerezza della futility Le discussioni etiche e linguistiche sull’accanimento terapeutico non sono un’esclusiva italiana: la parola inglese futility dà luogo ad altrettanti dibattiti. In Francia all’espressione acharnement si sta preferendo obstination. Seguendo quest’esempio, in Italia si potrebbe adottare il termine “ostinazione”, preferibile anche a “futilità”. Ma il vero problema è che non si può definire oggettivamente quello che è soggettivo. Daniela Tarquini Grammatiche mediche espressione “accanimento terapeutico” è usata solo nelle lingue romanze: l’equivalente per gli anglosassoni è il termine futility. Secondo il Webster Unabridged Dictionary, la definizione di futility è: «The quality of being useless or ineffectual», dal latino futilis (ciò che non può tenere o contenere, e per traslato vano, leggero, frivolo). Nel luglio del 2000 sul New England Journal of Medicine è comparsa sull’argomento una breve review: “The rise and fall of the futility movement”. Secondo gli autori (Paul Helft, Mark Siegler e John Lantos), il concetto di futilità medica si è sviluppato negli Stati Uniti dal 1987 al 1996. Il fatto che gli articoli sul tema nel 1999 erano solo 31 li ha portati a concludere che il movimento si è praticamente estinto. Il movimento avrebbe avuto un intento preciso: convincere la società che i medici possono usare il loro giudizio clinico e il loro sapere epidemiologico per valutare l’inutilità di un grammatiche mediche Che lingua si parla in medicina? La questione non può esulare dagli interessi di Janus. Perché chi non parla bene non pensa bene; e chi non pensa bene non può operare bene. Ma anche perché l’esperienza umana non è completa se, oltre al vero e al buono, non facciamo spazio al bello. A cominciare dalla bellezza che prende corpo nel linguaggio. In questa rubrica ospitiamo riflessioni che riconducono alla medicina parlata, ossia alla medicina come momento essenziale di una comunicazione tra esseri umani. L’ 109 particolare trattamento in una determinata situazione e che, di conseguenza, sarebbero autorizzati a non iniziare o a sospendere un trattamento anche senza il consenso di un paziente competente. Nella review gli autori riassumono i vari tentativi fatti per chiarire cosa si intende quando si usa il termine “futile”; nessuna delle solu- limita a conservare uno stato di permanente incoscienza o non in grado di modificare la dipendenza totale dalle terapie intensive. Quando un trattamento viene definito futile i medici non hanno alcun dovere etico di effettuarlo (si sottintende che l’efficacia di un trattamento non equivale necessariamente a un beneficio). Si potrebbe sostituire ad “accanimento terapeutico” la dizione anglosassone futility? Questo termine ha in italiano (e in genere anche in inglese) un’insostenibile leggerezza che mal si coniuga con la sua sostanza zioni ha avuto un consenso molto ampio. La valutazione empirica della futilità Lawrence Schneiderman, Nancy Jecker e Albert Jonsen hanno distinto la futilità in quantitativa e qualitativa: da un punto di vista quantitativo, quando i medici concludono che negli ultimi 100 casi un trattamento medico è stato inutile, dovrebbero considerarlo futile. Da un punto di vista qualitativo, un trattamento è futile quando si Alcuni autori hanno sostenuto nell’articolo “The illusion of futility in medical practice” che nessuno meglio del paziente sa cosa sia meglio per lui, e che quindi la futilità non può essere stabilita oggettivamente, ma deve essere determinata in base alle opinioni e agli scopi del paziente. La valorizzazione dell’autonomia del paziente è stata affermata anche da Alan Brett, Lawrence McCullough e Robert Veatch. Altri però, fra cui John Paris e Frank Reardon, hanno obiettato che il medico non 110 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria può essere considerato solo il braccio dei voleri del paziente: ci sono limiti ai suoi obblighi di cura quando, secondo la sua opinione, questa cura è futile. Delese Wear e David Doukas hanno suggerito il cosiddetto approccio etico preventivo: il medico di base dovrebbe discutere le decisioni sulla futilità della cura prima che si verifichino situazioni cliniche particolari. Se però da una parte il contesto della relazione medico-paziente sembra quello più appropriato, dall’altra il dover decidere in assenza di malattia rende le decisioni opinabili (il paziente potrebbe cambiare idea quando si ammala). Nella pratica comunque questo approccio è poco usato. Altri ancora, fra cui Bruce Zawacki e Robert Truog, hanno sostenuto la proposta dell’approccio passo dopo passo: quando le circostanze lo richiedono, si cerca di spiegare la situazione, si prospettano le varie opzioni, si apre una negoziazione arrivando a dei compromessi (con la consulenza dei comitati etici o dei legislatori). Vari singoli ospedali o Stati inoltre hanno elaborato linee guida sull’argomento (esempi importanti sono le stante il termine “futile” renda pienamente la sensazione del medico rispetto a determinate cure, non si è ancora arrivati a descrivere criteri univoci. La conclusione degli autori della review è che non ci sono regole che ci consentano di evitare il dialogo e la discussione con i pazienti e i loro familiari; anzi, la discussione esposta non fa che sottolineare come parlare con i pazienti e le loro famiglie deve rimanere al centro degli sforzi dei medici. La pesantezza dell’accanimento In Italia gli studiosi di etica hanno cercato di individuare a livello teorico criteri moralmente validi che consentano al medico di non ricorrere a provvedimenti che, anziché migliorare la qualità e la durata della vita del paziente, rischiano solo di prolungare il processo del morire e di accrescere la sofferenza del paziente. Un primo orientamento, proposto durante il magistero di Pio XII nell’ambito della morale medica di ispirazione cattolica, è stato quello di differenziare i mezzi a cui si fa ricorso per contrastare la morte in mezzi ordinari e mezzi straordinari: quando gli sforzi hanno carattere di straordinarietà è meglio tralasciarli, mentre è moralmente obbligatorio fare tutto quanto ha carattere di ordinarietà. Questo criterio è stato adottato anche dalla morale laica: la maggior parte degli studiosi di vario orientamento concorda nel sostenere che non è sempre doveroso impiegare ogni mezzo disponibile per salvare la vita umana, qualora i mezzi da impiegare comportino per il paziente un onere troppo gravoso. La differenziazione fra mezzi ordinari e mezzi straordinari ha avuto una sua utilità negli anni Cinquanta per sviluppare un pensiero etico più sfumato rispetto al tutto o nulla, ma ben presto ci si è resi conto che nella pratica sanitaria il principio di straordinarietà dei mezzi è difficile da utilizzare. Per essere operativo deve essere abbinato a qualche altro criterio: per esempio, stabilire se l’intervento terapeutico previsto prolunghi la vita o soltanto il processo del morire. Inoltre la straordinarietà non è insita nei mezzi stessi: gli antibiotici, per esem- grammatiche mediche Guidelines for the use of intensive care in Denver e la Houston Citywide policy on Medical Futility). Anche in questo caso emerge la difficoltà di arrivare a un consenso; vengono riaffermati il divieto di una decisione unilaterale da parte dei medici e l’invito a utilizzare comitati multidisciplinari prima di ricorrere alla legge; viene inoltre lasciata aperta la possibilità di trasferire a un altro medico o a un’altra istituzione la cura del paziente, nel caso non si arrivi a una risoluzione condivisa. La review conclude: «Nonostante il dibattito sulla futilità sembra essersi esaurito, il problema di cosa fare nel caso di trattamenti che abbiano un beneficio minimo rimane aperto. Che la discussione sia stata così animata è comprensibile per vari motivi: la speranza di arrivare a conclusioni condivise, come nel caso della morte cerebrale; la preoccupazione delle conseguenze dell’illusione di controllare la vita e la morte che i progressi della tecnologia hanno creato; non ultimo il problema del contenimento dei costi in sanità». Il problema di prendere decisioni sulla futilità continua a esistere, ma nono- 111 pio, sono una risorsa farmaceutica standard e del tutto ordinaria per curare una polmonite, ma potrebbero non essere considerati una procedura ordinaria se somministrati a un paziente in coma irreversibile con una polmonite. È stata quindi preferita a Per saperne di più C.A. Defanti, Vivo o morto? Zadig, Milano, 1999. C.A. Defanti “In memoria di Piergiorgio Welby”. http://bioetiche. blogspot.com/2006/12/ in-memoria-di-piergiorgiowelby-di.html P. Helft, M. Siegler, J. Lantos, “The rise and fall of the futility movement”. In: N Engl J Med 2000; 343(4). J.D. Lantos et al., “The illusion of futility in medical practice”. In: Am J Med 1989;87. L.J. Schneiderman et al., “The rise and fall of the futility movement”. In: N Engl J Med 2000; 343. S. Spinsanti, “Il tempo giusto, il luogo appropriato”. In: AA.VV., Un tempo, un luogo per morire. Zadigroma, Roma, 2003. questa distinzione quella fra mezzi proporzionati e sproporzionati; la transizione da una terminologia all’altra è stata sottoscritta dalla dichiarazione sull’eutanasia emanata dalla Sacra Congregazione per la fede nel maggio del 1980. Secondo quest’ottica, l’accanimento terapeutico va quindi inteso come la moltiplicazione ostinata degli sforzi terapeutici nelle fasi terminali della vita, spesso attuata tramite un imponente uso di presidi e tecnologie sproporzionati in relazione ai benefici ragionevolmente sperabili. Accanimento, futilità, ostinazione Nel 1995 il Comitato nazionale per la bioetica, nel documento Questioni relative alla fine della vita umana, ha definito l’accanimento terapeutico come «trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica». 112 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria Questa definizione, tutt’altro che risolutiva, presta il fianco a varie critiche sulla sua utilizzabilità in situazioni concrete, come hanno sottolineato Carlo Alberto Defanti e Sandro Spinsanti. La parola “accanimento” è probabilmente ingiusta e colpevolizzante; “accanirsi”, per il Devoto-Oli, è «scagliarsi ferocemente su qualcuno per infierire» o «dar prova di rabbiosa ostinazione», mentre per “accanimento terapeutico” lo stesso dizionario dà una definizione più morbida: «cura protratta di malati terminali». Alcuni quindi preferiscono il termine “ostinazione”. Anche nella lingua francese, che utilizza come in italiano il termine accanimento (acharnement), si sta preferendo il termine obstination. Nella nuova parte legislativa relativa ai diritti dei malati e alla fine della vita, aggiunta il 22 aprile 2005 al Code de la Santé Publique, si legge «Ces actes [riferendosi a quelli di prevenzione, diagnosi e terapia] ne doivent pas être poursuivis par une obstination déraisonnable». Il Codice deontologico medico, sia nella stesura del 1995 sia in quella del 1998, con minime varianti L’autrice Daniela Tarquini, medico neurologo ospedaliero, è direttore Uoc di neurologia dell’Ospedale San Giacomo a Roma [email protected] clinico al malato o di alleviarne le sofferenze». Si potrebbe sostituire ad “accanimento terapeutico” la dizione anglosassone futility? Questo termine ha in italiano (e in genere anche nella lingua inglese) un’insostenibile leggerezza che mal si coniuga con la sua sostanza. Diritto alla cura, non condanna alla cura Dall’esperienza anglosassone si vede comunque che l’uso di un termine diverso dal nostro “accanimento” non ha portato una chiarezza maggiore nella sua definizione. Il problema è che non si può definire oggettivamente quello che è di fatto soggettivo. Ed è per questo che l’accanimento terapeutico o l’ostinazione nel trattamento, che dir si voglia, non si può definire con una legge: solo il paziente stesso può stabilire quando fermarsi. Nessun atto medico, va ricordato, può essere Daniela Tarquini grammatiche mediche utilizza entrambi i termini, dando comunque una definizione più esaustiva che non parla di fasi terminali della vita e introduce il criterio di qualità della vita. L’articolo 14 (Accanimento diagnostico terapeutico) recita infatti: «Il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita». Nella versione del 2006, nell’articolo (diventato il numero 16) viene aggiunto «anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse» (aprendo così al testamento biologico). Rimane invece invariato l’articolo 15 (Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica), ora articolo 18: «I trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica del malato possono essere attuati, previo accertamento della necessità terapeutica, e solo al fine di procurare un concreto beneficio praticato senza il consenso del paziente, e questo consenso può essere ritirato in ogni momento. L’articolo 32 della Costituzione recita: «Nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizioni di legge». Il rifiuto delle cure non parla di limiti, e si fonda sull’autonomia: posso rifiutare di farmi togliere un dente, di assumere antibiotici e morire di setticemia. A quanto pare la differenza fondamentale è nei muscoli: se sono in grado di muovere gambe o mani (o di alzare la voce) posso scegliere, altrimenti saranno gli altri a decidere per me. Forse poteva non esserci bisogno di una legge ad hoc per chiarire che il diritto alla cura non significa la condanna alla cura: poteva essere sufficiente la nostra Costituzione. I fatti però dimostrano che non è così e che, a parte la legge sulle direttive anticipate, per quando non saremo in grado di esprimere la nostra volontà, dovremo fare delle aggiunte alle nostre leggi, magari introducendo alcuni articoli del Codice di deontologia medica. 113 Il problema del corpo, tra umanismo e postumanismo Per un umanista come Pico della Mirandola il corpo dell’uomo, a metà strada tra la bestia e l’angelo, è immaturo, non specificato, scarsamente correlativo e perciò carente. Nella visione postumanistica la carenza assomiglia di più alla mancanza della persona cara che segue l’innamoramento: non presente prima dell’evento, non inerente alla biografia della persona, non diretta verso il superamento di questa sensazione. Roberto Marchesini I Il ginnasio filosofico Quod optimus medicus sit quoque philosophus: «È chiaro che il miglior medico è sempre anche filosofo». L’opinione di Galeno si scontra con la costruzione dei saperi che è propria del nostro tempo: medicina e filosofia hanno preso due strade diverse. Eppure i punti di raccordo esistono. In questa rubrica andiamo a cercarli, per valorizzare l’apporto del pensiero filosofico alle medical humanities. l corpo rappresenta nell’età contemporanea uno dei fulcri di discussione sia per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e scientifico delle prassi sempre più invasive sviluppate nel Novecento, sia nella sfera dei diritti umani e delle coordinate di interpretazione antropologica e sociale, come già aveva intuito Michel Foucault quando parlava di biopolitica. Nell’ermeneutica del corpo esistono, tra il pensiero umanista e quello postumanista, differenze significative che stanno caratte- 114 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria rizzando il dibattito odierno e sempre più daranno luogo a progetti antropopoietici divergenti. Nell’Umanismo, già a partire dagli autori del XV secolo, il corpo si propone come fulcro di rinascita ma in una scansione ben precisa, vale a dire nella cifra concettuale di un corpo evolutivo e virtuale. Giovanni Pico della Mirandola interpreta la corporeità dell’uomo in modo tensionale, non completamente immersa nel tellurico né capace di una totale levitazione: l’uo- Il corpo virtuale Ci sono diversi aspetti che meritano attenzione rispetto a questo corpo virtuale che si attribuisce all’essere umano. Innanzitutto la non definizione declinativa lo rende plasmabile e quindi funzionale alla progettualità umanistica. Inoltre la non dedicazione crea uno iato tra l’uomo e la natura e un operatore di disgiunzione identitaria rispetto agli altri viventi. Infine l’essere proteiforme lo rende capace di coestensione, perché cifra di ogni possibile declinazione. Il corpo virtuale pertanto diventa fondamento stesso del progetto umanistico di elevazione e disgiunzione dell’umano. Il corpo è la malta con cui l’umanismo costruisce il suo progetto, da cui l’inevitabile urgenza di sentire il corpo come proprietà, di approcciarlo come rivendicazione di titolarità, di liberarlo dagli impedimenti esterni, di fluidificarlo allontanandolo dai secoli bui della cristallizzazione. Per gli umanisti il corpo deve diventare magma attivo, aperto al divenire e libero da ogni specificazione imposta dall’esterno. È un corpo che deve sancire la possibilità dell’uomo di tenere saldamente in mano i fili del proprio destino. In questa visione l’umano si caratterizza per un non equilibrio creativo a cui né la bestia né l’angelo possono anelare: l’uomo misura del mondo, l’uomo creatore di mondi. Il fascino indubbio che ancora oggi esercita l’Uomo di Vitruvio di Leonardo sta proprio in questa duplice scansione di “corpo compasso” che lo porta a circoscrivere il mondo e ad aprirsi al mondo, vale a dire a riassumere con un solo gesto le due dimensioni. Di questa tradizione siamo tutti un po’ figli: il corpo è per noi un territorio di conoscenza e di conquista, un apparato di dotazioni attraverso le quali il sé pretende soddisfazione, ma anche un fardello da rendere sempre più evanescente. L’età moderna è caratterizzata, dopo i secoli bui della negazione, proprio da questo modo di sentire il corpo come una proprietà che il sé riassume prepotentemente per inserirlo in una dinamicità progettuale e renderlo al di sopra di un rango naturale. Il corpo dell’uomo che ci riporta la tradizione umanistica è diafano, teso naturalmente all’elevazione perché non ancorato alla funzione. Lo zoccolo del cavallo è un tutt’uno con il terreno su cui esercita il suo dinamismo; le zanne e gli artigli del leone diventano consustanziali con la cute spessa dei grandi erbivori della savana; la tromba di una farfalla è il corri- il ginnasio filosofico mo diventa così un cantiere aperto proprio perché a metà strada tra la bestia, priva di libertà, e l’angelo, privo di tensionalità. Nel teromorfo il corpo è la sede della cattività, è la ragione stessa della mancanza di libertà, perché totalmente funzionale alla prestazione e quindi schiavo della dedicazione naturale. L’angelo disincarnato non può essere tensionale e quindi progettuale. Nel corpo virtuale dell’uomo, e solo nel suo incarnato indefinito, l’esistere è diacronico; al contrario, tanto la bestia quanto l’angelo sono immersi in un eterno presente, sono cioè entità sincroniche. L’umanismo si propone fin dalle prime battute come un progetto per l’uomo, e in questo senso si potrebbe dire che questa cornice si fonda proprio sul diacronico. Come giustamente fa osservare Eugenio Garin, il farsi umano, è un tutt’uno con la storia e viceversa. 115 spettivo della cavità del fiore. L’uomo al contrario non ha rango, il suo corpo è immaturo, non specificato, scarsamente correlativo e perciò carente. La dichiarazione di un corpo carente è solo apparentemente un atto di umiltà (l’uomo come il punto negletto della creazione), perché rivela immediatamente il suo punto di forza: la piena disarticolazione dalla natura che gli permette la tensionalità, ossia il pieno possesso del proprio destino. È ancora possibile oggi interpretare l’uomo come entità carenziale? In altre parole, il “senso di carenza” dev’essere tuttora letto come un’incompletezza ab origine, nel senso pichiano di uomo «plasmato quando i modelli della creazione erano tutti esauriti» (o in quello gehleniano di entità portatrice di oneri)? Oppure c’è un altro modo più coerente e produttivo di considerare la carenza come percezione di una mancanza? Su questo aspetto si gioca la differenza più significativa tra il pensiero umanistico e quello postumanistico. Infatti la carenza può nascere dalla vacuità di un ente ma anche dalla ridondanza dello stesso; può sortire da un effettivo cari- co di oneri quanto da una tensionalità produttrice di oneri. Si può sentire la carenza come uno stato primigenio da superare oppure, come nel caso dell’innamoramento, come un bisogno dell’altro non a priori ma a posteriori, non da esonerare ma da rafforzare. Ci sono allora tre aspetti da considerare: la percezione della carenza, cioè su quali coordinate si strutturi l’idea di una carenza e attraverso quali processi di confronto la natura della carenza, cioè quali tratti vengano considerati carenti e perché l’emergenza della carenza, se come processo esonerativo o come processo integrativo. La magmaticità della natura umana Secondo il paradigma umanistico, da Pico della Mirandola ad Arnold Gehlen, la carenza viene estrapolata attraverso un confronto preconcetto tra l’uomo e non una singola specie animale bensì un’entità categoriale, l’animalità, costruita apposta per fare da sfondo all’uo- 116 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria mo. L’entità categoriale contiene caratteri presenti in altre specie (per esempio il carattere predatorio e la pulsione sessuale), ma non attraverso un comune denominatore (tutte le specie non umane presentano quel carattere) bensì attraverso una sorta di rete di condivisioni sfumate o parzialmente sovrapposte. È quello che Wittgenstein chiama categoria per famiglia, chiaramente per riferirsi a un’entità concettuale. È tuttavia evidente la natura attributiva o arbitraria di questo procedimento. Il profilo di questa categoria per famiglia non corrisponde infatti a nessuna specie, ma dà luogo a un’idea di animalità funzionale al progetto umanistico di creare due poli contrapposti, cioè due modalità antinomiche di incarnato: da una parte l’animale con la sua corporeità correlata alla funzione, ossia pienamente inserita nella natura; dall’altra l’uomo con la sua corporeità diafana, di tensionalità verso la virtualità disincarnata, cantiere aperto alla storia. La completezza dell’animale gli nega un divenire storico, un farsi, mentre è proprio la carenza a dare magmaticità all’umano, a partire dalla sua stessa corporeità. La carenza invocata dagli umanisti per spiegare l’incarnato umano parte già da una precisa visione dell’uomo, la cui tendenza a esternalizzare le funzioni, vale a dire a utilizzare gli strumenti, viene ritenuta come esonerativa ed esplicativa di una nudità a prio- nell’impostare le coordinate evolutive del corpo. Perciò lo strumento non è al di fuori di noi ma in noi, cosicché non ci si può spogliare di uno strumento con la pretesa di ritrovare la condizione di partenza. Lo strumento ha trasformato il corpo: togliendolo Non ci si può spogliare di uno strumento con la pretesa di ritrovare la condizione di partenza. Lo strumento ha trasformato il corpo: togliendolo non si ritrova un’essenza primigenia, ma un corpo modificato non si ritrova un’essenza primigenia, ma un corpo modificato. La nudità del nostro corpo non indica lo stato originale dell’uomo, la sua carenza ab origine, bensì testimonia della collezione di partnership esterne che l’uomo ha affardellato sul suo cammino. La carenza pertanto non nasce dall’onere originale ma dall’effetto della partnership integrata. Rispetto alla percezione di ottimalità è evidente che non si può parlare di ottimalità o di deficit sul piano performativo senza avere un piano di confronto: prima della diffusione dei personal computer e dei cellulari, nessuno si sentiva Un corpo estremamente raffinato Per quanto riguarda la natura della carenza, ancora una volta occorre riferirsi al teromorfo come rivelatore del pregiudizio. Il volo di un falco è considerato un carattere biologico e così pure il nuoto di un delfino, l’abilità predatoria di un gatto, l’agilità di un roditore, la percezione olfattiva di un cane, la capacità di tessere di un ragno, la complessità architettonica delle termiti e via dicendo. Al contrario, le proprietà esternalizzanti dell’uomo, vale a dire la capacità di usare supporti (uno strumento o un insieme di segni) come qualità caratterizzante (anche se non in modo esclusivo) della nostra specie viene ritenuta metabiologica, attinente cioè a un altro dominio. Questo pregiudizio ci fa credere che, mentre gli altri animali sono degli specialisti, l’uomo sia un non specialista, cioè un essere vivente caratterizzato da incompletezza e non declinazione. A dire il vero il ginnasio filosofico ri. La percezione è in pratica questa: se l’uomo si privasse dei suoi strumenti, se denudassimo l’uomo, avremmo un’idea ben precisa dello stato originale e degli oneri che i nostri lontani progenitori hanno dovuto sopportare possedendo un corpo tanto carente. Ma questa idea è doppiamente errata, perché implica da un lato che lo strumento non abbia avuto alcun feedback sull’uomo, e dall’altro che la percezione di subottimalità venga prima dello strumento. Rispetto al rapporto corpo-strumento, è provato che qualunque strumento interviene sia a livello filogenetico sia ontogenetico carente di qualcosa; ora non potremmo liberarcene senza avvertire un senso di carenza. 117 Per saperne di più M. Fimiani, V. Gessa Kurotschka, E. Pulcini, Umano Post-umano. Editori Riuniti, Roma, 2004. E. Garin, L’umanesimo italiano. Laterza, Roma-Bari, 1993. A. Gehlen, “Rückblick auf die Anthropologie Max Schelers”. In: P. Good (a cura di), Max Scheler in Gegenwartsgeschehen der Philosophie. Francke, Bern-München, 1975. G.O. Longo, Homo technologicus. Meltemi, Roma, 2001. R. Marchesini, Il concetto di soglia. Theoria, Roma-Napoli, 1996. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza. Bollati Boringhieri, Torino, 2002. R. Marchesini, S. Tonutti, Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma, 2007. A. Santosuosso, Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza. Raffaello Cortina, Milano, 2001. R. Terrosi, La filosofia del postumano. Costa & Nolan, Genova, 1997. l’esternalizzazione richiede una specializzazione biologica di notevole consistenza: capacità astrattiva, mnestica, prefigurativa, prattognosica, visione binoculare, apparato di fonazione ad hoc. L’uomo possiede un corpo estremamente raffinato nella capacità di precisione operativa e percettiva, ben lontano dall’incompletezza o dall’indeclinazione. Di certo possedere un sistema nervoso centrale così magnificato (12 miliardi di neuroni con un costo energetico di quasi il 50% delle risorse alimentari) rispetto al corpo che lo deve contenere e mantenere non ci permette certo di assurgere al ruolo di non specialisti! La magnificazione che quest’organo ha avuto nel corso filogenetico dell’ominizzazione non solo ha costretto la nostra specie a un maggiore dispendio di risorse, e pertanto a un maggior carico di procacciamento alimentare, ma ha anche modificato profondamente il profilo dell’età evolutiva. Per evitare la distocia (un neurocranio tanto capiente rende difficile il passaggio nel canale del parto) la nostra specie ha dovuto imboccare la strada del differimento dello sviluppo 118 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria fetale: il cucciolo d’uomo è molto immaturo alla nascita. La conseguenza è un estremo bisogno di specializzarsi nelle cure parentali. Specializzazione è anche complessità delle coordinate filogenetiche comportamentali che nell’uomo non sono affatto evanescenti, come giustamente l’etologia umana ha fatto notare. L’ibridazione, una nuova dimensione umana Per quanto riguarda infine l’emergenza della carenza, l’inconsistenza del presupposto umanistico, che ancora sopravvive nel pensiero di Arnold Gehlen, è ancora più evidente se si paragona il concetto di carenza esonerativa con quello di carenza integrativa. Nella visione esonerativa la cultura diventa una sorta di stampella all’onere ab origine dell’uomo; da questo derivano due conseguenze: la carenza è un deficit che l’uomo cerca di superare per raggiungere uno stato di equilibrio performativo; la cultura può essere estratta per calco negativo dalla carenza, cioè è in qualche modo un evento necessitato. Questi due aspetti sono i luogo a una dimensione nuova dell’esistere. In questo senso l’esternalizzazione non va intesa come non autarchica, della condizione umana. Ma è proprio la ricchezza dei contenuti, la ridondanza del «Secondo la filosofia postumanista l’uomo non è in grado da solo di spiegare l’umano. Il non umano si affaccia alla soglia dell’uomo e trova un sistema aperto all’accoglienza» compensazione di una mancanza, ma nemmeno in senso macluhaniano di estensione e amputazione dei caratteri inerenti dell’uomo. L’esternalizzazione, per esempio l’invenzione di uno strumento, va considerata come un processo di ibridazione che dà vita a una nuova dimensione della condizione umana. L’emergenza culturale è quindi un atto creativo e contingente, capace di aprire la strada a una dimensione dell’umano che non era prevista prima che l’atto di partnership arrivasse a compimento. Ora è chiaro che privarsi del partner con cui quella dimensione è stata costruita significa sentirsi di colpo carenti; ma questo non può essere usato come rivelatore della condizione originale, bensì come indicatore della natura integrativa, sistema uomo, che gli permette di costruire eventi ibridativi, ossia di allargare il dominio della propria interfaccia con il mondo. Attraverso le esternalizzazioni l’uomo costruisce le sue carenze, non tanto perché amputa il proprio corredo, il cosiddetto effetto reversivo prospettato da Darwin, ma perché inaugura nuove dimensioni esistenziali che possono essere raggiunte solo in una condizione di partnership. C’è un progetto per l’uomo? Secondo la filosofia postumanista l’uomo non è in grado da solo di spiegare l’umano: non è cioè autosufficiente nella definizione antropopoietica. Il non umano si affaccia alla soglia dell’uomo e trova un il ginnasio filosofico più critici perché implicano degli assunti chiaramente contraddittori, per esempio che il dimensionamento antropopoietico vada nella direzione di un maggiore equilibrio e che le diverse culture non abbiano la possibilità di svilupparsi in modo plurale e contingente. La cultura è un evento creativo, tutt’altro che necessitato e uniforme: per questo non sono soddisfacenti né l’approccio emanativo della sociobiologia né quello compensativo tipico della tradizione dell’antropologia filosofica. Per la visione postumanistica la carenza assomiglia di più alla mancanza della persona cara che segue all’evento dell’innamoramento: non presente prima dell’evento, non inerente alla biografia della persona, non diretta verso il superamento di questa sensazione. Nella visione esonerativa l’atto si giustifica nel peso dell’onere; viceversa nella visione integrativa si spiega nell’emergenza della partnership. Si può considerare la cultura come un processo di apertura del sistema uomo alla partnership con un ente esterno, in altre parole di accoglienza e integrazione dell’alterità per dar 119 L’autore Roberto Marchesini insegna psicologia del linguaggio e della comunicazione presso l’Università degli studi di Udine www.robertomarchesini.com sistema aperto all’accoglienza, disponibile a lasciarsi ibridare dando luogo a eventi emergenziali, cioè alla creazione di mondi non preesistenti. Rispetto a questo punto è evidente la vicinanza tra umanismo e postumanismo nel sottolineare l’importanza della focale diacronica. Il farsi umano è un evento storico che non può essere approcciato in mo- do riduzionistico, facendo a meno delle discipline storiche: su questo vi è un sostanziale accordo. La differenza sta nella rinuncia, propria del postumanismo, alla definizione di un destino per l’uomo: il farsi umano è un cantiere aperto senza progetto, è una totale apertura verso innumerevoli possibilità ibridative, ovviamente nei limiti delle possibilità di accoglienza della casa uomo. Siamo destinati ad accrescere il nostro senso di carenza, non a diminuirlo, quanto più intraprenderemo questo percorso di esternalizzazione. Se veramente la technè avesse sul corpo un compito esonerativo, ci dovremmo aspettare che quanto più la tecno- 120 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria scienza progredisce, tanto più l’uomo dovrebbe sentirsi in uno stato di equilibrio di interfaccia con il mondo esterno. Le cose stanno esattamente al contrario: l’evoluzione tecnosferica permette sì di raggiungere nuove dimensioni dell’esistere, ma questo si accompagna a un’accelerazione dello stato di non equilibrio del sistema uomo e parallelamente del senso di carenza. Il corpo dell’uomo è pertanto un luogo di accoglienza, un palcoscenico capace di ospitare all’interno di una cornice precisa attori esterni per rappresentazioni sempre nuove. Roberto Marchesini Sorveglianza e controllo: assistere il paziente in modo diverso Per un’infermiera, lavorare all’Ufficio epidemiologico di un ospedale è un modo diverso di assistere i pazienti: non con un contatto diretto, ma in un’ottica di sorveglianza e controllo delle infezioni ospedaliere. I principali settori sono la sorveglianza attiva sulle malattie infettive sottoposte a obbligo di denuncia, la prevenzione e la sorveglianza delle infezioni ospedaliere, la sorveglianza igienica e il controllo sui servizi alberghieri. Marinella Piscedda Un tempo il personale sanitario era composto da pochi attori: medico, infermiere, farmacista e pochi altri. La tecnologizzazione della medicina, il processo di empowerment del paziente e i cambiamenti sociali e normativi hanno fatto sì che oggi il panorama sia composto da numerose figure professionali, che in questa rubrica possono far sentire la loro voce e raccontare le loro esperienze: è nella natura più profonda delle medical humanities considerare l’interdisciplinarità della medicina come una ricchezza culturale e professionale. S ono infermiera dal 1987; ho lavorato 4 anni in Unità spinale e 7 in Rianimazione cardiochirurgica presso l’Azienda ospedaliera Niguarda Cà Granda, a Milano. Queste esperienze lavorative mi hanno permesso di acquisire conoscenze cliniche e tecnico assistenziali importanti anche per l’attività che svolgo attualmente: infermiera addetta alla sorveglianza e controllo delle infezioni ospedaliere. Nel 1998 mi è stato proposto dalla Direzione infermieristica di far parte del team iniziale dell’Ufficio epidemiologico, parte integrante dell’organico della Direzione medica di presidio e organo operativo del Comitato infezioni ospedaliere. Era per me un campo completamente nuovo: avrei dovuto rinunciare all’assistenza diretta al paziente ed entrare in una dimensione diversa dell’essere infermiera. Bisognava riprendere in mano i libri e studiare nuove materie e le normative correlate. Ho trovato la proposta stimolante e ho accettato. Il dirigente medico igieni- vi racconto la mia professione Vi racconto la mia professione 121 sta si è occupato della nostra formazione sommergendoci di libri, linee guida, leggi e capitolati degli appalti da studiare, abbiamo partecipato a corsi di aggiornamento e INFEZIONI altro ancora. Agli inizi è stato difficile capire quali fossero le nostre competenze specifiche, perché ci veniva chiesto di occuparci di tutto un po’; ma col tempo sono stati definiti OSPEDALIERE: GESTIRE L’EMERGENZA LE INFEZIONI OSPEDALIERE sono da sempre al centro dell’attenzione di tutte le direzioni sanitarie e infermieristiche, e lo sono sempre di più per l’effettivo aumento costante dei casi epidemiologici. L’Ipasvi ha dedicato un numero (luglio 2002) dei “Quaderni de L’infermiere” a un’ampia panoramica su cosa sono le infezione ospedaliere e su come si potrebbero evitare. Già ai tempi di Ippocrate era stata compresa e studiata la possibilità di infezione e trasmissione di malattie tra i pazienti ospitati in una struttura; negli ultimi anni il rischio è aumentato, essenzialmente perché sono cambiate le strutture sanitarie e le caratteristiche dei pazienti. Inoltre, accanto agli ospedali tradizionali sono sorte case di cura o forme di assistenza domiciliari: un fenomeno che oltre ai vantaggi in termine di salute comporta il rischio di diffusione all’esterno delle infezioni ospedaliere. Il ruolo degli infermieri nella prevenzione delle è cruciale, tanto che sono loro a risponderne giuridicamente. Nell’opuscolo vengono quindi riportati i principali strumenti di prevenzione e i consigli pratici che possono ridurre del 35 per cento la frequenza di queste complicanze. Da un punto di vista generale, si sottolinea che quando si mettono in atto strategie per arginare o evitare i casi di infezione è importante tener conto dell’età avanzata e del maggior numero di pazienti assistiti rispetto al passato. In particolare, alcune delle misure sicuramente efficaci, spiegate in dettaglio nella rivista, sono il lavaggio delle mani e la sterilizzazione accurata degli strumenti da effettuare prima di ogni procedura medica. Chiara Badia 122 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria degli ambiti più precisi. In generale le attività dell’Ufficio epidemiologico riguardano tutto ciò che presuppone una sorveglianza igienico sanitaria. I principali settori di cui ci occupiamo sono la sorveglianza attiva sulle malattie infettive sottoposte a obbligo di denuncia agli uffici competenti, la prevenzione e la sorveglianza delle infezioni ospedaliere, la sorveglianza igienica e il controllo sui servizi alberghieri. Gestire l’allarmismo La segnalazione da parte del medico di reparto di una malattia infettiva (per esempio la tubercolosi polmonare, la meningite meningococcica, una malattia esantematica o parassitaria) richiede spesso un nostro intervento immediato. Ci rechiamo personalmente nelle unità operative e avviamo un’indagine volta alla ricerca dei contatti tra i ricoverati e gli operatori per iniziare quanto prima la sorveglianza sanitaria prevista per le diverse tipologie di trasmissione dei microrganismi. Sono fondamentali la collaborazione e lo scambio continuo di informazioni L’autrice Marinella Piscedda è infermiera professionale presso l’azienda ospedaliera Niguarda Ca’ Granda di Milano. Lavora presso l’Ufficio epidemiologico come infermiera addetta al controllo delle infezioni ospedaliere [email protected] del microrganismo nei condotti di distribuzione e di erogazione. Nell’Azienda ospedaliera Niguarda Ca’ Granda abbiamo optato per la disinfezione continua con biossido di cloro, che all’azione distruttiva nei confronti del microrganismo unisce anche quella di impedire o sciogliere la formazione di biofilm e di depositi di calcare e materiali ferrosi che favoriscono appunto l’annidamento della legionella. Gli impianti sono stati installati nelle centrali termiche di tutti i padiglioni. Questo sistema presuppone un controllo continuo, da parte degli addetti alla manutenzione, sul buon funzionamento degli impianti di erogazione di biossido di cloro e il relativo invio al nostro ufficio della registrazione delle concentrazioni erogate. Il sistema di sorveglianza prevede inoltre il controllo periodico dell’acqua calda erogata sia a monte, e quindi dalla centrale termica, sia nei singoli reparti, scegliendo come punti acqua quelli più a rischio per il paziente, come per esempio il soffione della doccia o del lavabo. Coinvolgere, non colpevolizzare Per la sorveglianza e la prevenzione delle infezioni ospedaliere ci muoviamo sulle segnalazioni in tempo reale da parte del laboratorio di microbiologia di eventi sentinella, vale a dire l’isolamento dai campioni biologici dei ricoverati di microrganismi ad alta diffusibilità che potrebbero dare origine a cluster epidemici o a vere e proprie epidemie. Eventi di questo tipo, quando si verificano, possono compromettere il normale decorso clinico dei pazienti in termini di durata e aggravamento vi racconto la mia professione con l’Ufficio di malattie infettive dell’Asl territoriale di competenza, al quale inviamo le segnalazioni. In alcuni casi ci troviamo a gestire l’allarmismo che irrazionalmente o a ragione si diffonde tra il personale. Emerge la rabbia per non aver potuto o saputo evitare l‘evento, la paura di ammalarsi o di far ammalare i propri familiari, il fastidio di dover comunque sottoporsi a una profilassi che in questi casi è obbligatoria, perché si tratta di un problema di salute pubblica. Diventa quindi imperativo da parte nostra dare disposizioni chiare, indiscutibili, supportate da basi scientifiche, senza lasciare spazio alla fantasia. Nel 2006 abbiamo ricevuto complessivamente 555 denunce di malattie infettive, fra cui 57 casi di Tbc polmonare, 235 di malattie esantematiche e 4 di polmonite da Legionella pneumophila. Per la prevenzione della diffusione della legionella nell’acqua di rete, la normativa impone all’Azienda ospedaliera di attuare un sistema di disinfezione sulla rete di distribuzione dell’acqua calda, cioè un sistema preventivo che non consenta l’annidamento 123 della malattia. In questo caso la nostra indagine ci porta a verificare se in quella unità operativa si è verificato un errore nel processo assistenziale e a quale livello, e, dopo aver fatto emergere le criticità, a trovare la soluzione per far fronte al problema. Naturalmente gli operatori devono essere coinvolti; non colpevolizzati, ma messi nelle condizioni di poter mettere in discussione con serenità i propri metodi lavorativi e, nel caso venisse individuato il punto debole, riconoscerlo e da lì ricominciare. Nel 2006 gli eventi sentinella segnalati dal laboratorio di microbiologia sono stati 870, ognuno dei quali è stato registrato nel nostro archivio informatico e valutato per verificare se il microrganismo ha rappresentato un evento isolato o un “caso”. Negli alberghi e nei ristoranti La sorveglianza e il controllo sui servizi alberghieri riguarda azioni specifiche su diversi appalti. Per l’igiene e la sanificazione ambientale, la sorveglianza viene attuata sia tramite sopralluoghi perio- dici in tutte le aree appaltate, sia per mezzo di ispezioni in risposta ai disservizi segnalati dai coordinatori di reparti, servizi, uffici. Normalmente questo genere di verifica viene effettuata alla presenza dell’infermiera epidemiologa, di un responsabile dell’impresa, effettuate alla presenza del direttore della mensa; il verbale viene quindi redatto, controfirmato dai presenti e, in seconda battuta, inoltrato al responsabile dell’ufficio economale che procederà ai provvedimenti del caso. Anche le cucine di reparto sono soggette a Gli strumenti, per sofisticati che siano, non sostituiscono le necessarie conoscenze tecniche, la curiosità e l’analisi di dati e informazioni. Ma sono necessarie anche buone capacità relazionali del coordinatore del reparto e del referente economale. Al termine dell’ispezione viene redatto un verbale controfirmato dai presenti, inviato ufficialmente al responsabile economale che provvederà di conseguenza in caso di eventuali inadempienze contrattuali. Anche per la ristorazione svolgiamo un’attività di tipo ispettivo, rivolta alla verifica dell’applicazione delle procedure igieniche e di buona pratica lavorativa dichiarata nel manuale di Hazard Analysis Critical Control Point (Haccp) redatto dalla ditta appaltatrice. Le ispezioni, analogamente a quelle svolte per il servizio di pulizia, vengono 124 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria sopralluoghi, in quanto ultimi utilizzatori e distributori del cibo. In questo caso il manuale Haccp è stato redatto dall’azienda ospedaliera, che diventa responsabile, davanti agli organi competenti, della corretta applicazione delle prassi dichiarate nel manuale. Interazione con altre strutture Per quanto riguarda gli strumenti di lavoro, ci si avvale in modo importante degli strumenti informatici e della rete aziendale per la consultazione di dati clinici e dati di laboratorio. Questo viene inviato il risultato delle nostre indagini sui casi di malattie infettive, nel caso in cui siano stati individuati contatti a rischio infettivo tra gli operatori. È importante anche la collaborazione con la Direzione infermieristica per le opportune interazioni con i colleghi nei reparti, con l’ufficio tecnico per i necessari interventi sugli impianti, con il servizio economale per gli appalti e gli accordi necessari all’acquisizione di nuove molecole, se riguardano la nostra attività. La collaborazione si estende però anche ad altre strutture che di volta in volta vengono coinvolte per le competenze specifiche. Un esempio è il Centro antiveleni, al quale ci rivolgiamo ogni volta che abbiamo bisogno di informazioni per l’autorizzazione interna all’introduzione di nuovi prodotti per l’igiene ambientale o per la disinfestazione. L’attività peraltro genera relazioni e documentazioni per la Direzione aziendale e il Comitato infezioni ospedaliere, che si concretizzano in linee guida e procedure che rientrano nel Sistema di qualità aziendale. In buona sostanza sono soddisfatta della scelta lavorativa effettuata, pur sempre orientata all’assistenza al paziente anche se non più in un rapporto diretto, ma in una diversa dimensione. Marinella Piscedda vi racconto la mia professione ci permette di rendere più tempestive le decisioni di merito. Per gli aspetti formali la documentazione cartacea rimane però quasi insostituibile. Gli strumenti, comunque, per sofisticati che siano, non sostituiscono le necessarie conoscenze tecniche, la curiosità e l’analisi di dati e informazioni. Sono necessarie anche buone capacità relazionali, in quanto gli interlocutori e i destinatari delle nostre attività hanno ruoli, professionalità e competenze diverse. L’attività infatti dà origine a interazioni: per esempio, nel caso della sorveglianza si integra con quella di altre strutture, come il servizio di medicina preventiva, al cui responsabile 125 Seduzioni americane Pietro Greco he New York Times lo ha trovato un tantino esagerato. Dunque, anche agli occhi del più autorevole quotidiano degli Stati Uniti, Sicko, il film inchiesta che Michael Moore ha presentato a fine agosto a Roma, racconta e denuncia, in buona sostanza, una verità. E la verità è piuttosto secca: il sistema sanitario del più ricco e scientificamente avanzato paese del mondo non funziona perché è inefficiente, caro e ingiusto. Ne consegue che anche l’ammonimento del regista – europei, non lasciatevi accecare dall’ideologia e difendete a denti stretti il vostro welfare sanitario – ha un qualche fondamento. D’altra parte la denuncia di Michael Moore non si basa solo su una percezione soggettiva, ma sui numeri proposti da una vasta letteratura scientifica internazionale. Gli Stati Unti, come si sa, non hanno un sistema sanitario nazionale. Hanno un sistema misto, fondato essenzialmente sull’assistenza pubblica ai più bisognosi e sull’assistenza privata mediante polizze assicurative che coprono (che dovrebbero coprire) le spese sanitarie della gran parte della popolazione. L’idea di fondo è che la salute non è un diritto universale, ma un bene che va conquistato; che i pazienti non sono, appunto, pazienti, ma agenti in un mercato. Nella speranza, tipica del liberismo, che la mano invisibile del mercato trovi il migliore equilibrio tra costi (tra gli enormi costi della sanità) e benefici (la salute dei cittadini). Ebbene, ha ragione Michael Moore: questo sistema, semplicemente, non funziona. Perché è molto più inefficiente, molto più costoso e molto più ingiusto dei sistemi sanitari europei, fondati sull’idea che la salute sia un diritto universale e non un bene da conquistare. T Il sistema è inefficiente. Facciamo, a esempio, un’analisi comparata tra i paesi che si autoriconoscono i più ricchi del mondo: quelli del G7 (escludiamo la Russia, che ha una storia diversa). Ebbene, tra i cittadini di questi paesi, l’età media degli statunitensi è la più bassa in assoluto. Un maschio negli Usa vive, in media, 75 anni: 3 anni in meno di un italiano. Una donna negli Usa vive, in media, 80 anni: 6 in meno di una giapponese. Gli Stati Uniti sono ultimi nel G7 per mortalità da malattie non comunicabili, penultimi per morti da incidenti, ancora ultimi per incidenza del contagio da Aids tra persone adulte. Né va meglio sul fronte delle strutture. I posti letto in ospedale, per esempio, sono solo 33 126 Janus 27 • Autunno 2007 • il profitto della memoria ogni mille abitanti, contro i 40 dell’Italia, i 75 della Francia, gli 84 della Germania e i 129 del Giappone. Il sistema è costoso. Gli Usa spendono in sanità più di ogni altro paese al mondo: il 15,4% della ricchezza che producono ogni anno, contro il 10,6% della Germania, il 10,5% della Francia, il 9,8% del Canada, l’8,7% dell’Italia, l’8,1% del Regno Unito e addirittura il 7,8% del Giappone. La spesa procapite di un americano è di 6096 dollari l’anno, contro i 3171 di un tedesco, i 2414 di un italiano o i 2293 di un giapponese. Si dirà: non importa. Perché la spesa è soprattutto privata e non incide sui conti pubblici. Falso. Il sistema americano è oneroso anche per lo stato. Se pure tenessimo conto dei soli investimenti pubblici, la sanità Usa risulterebbe comunque la più cara tra i paesi del G7. Il contribuente americano spende infatti per la sanità 2725 dollari l’anno a persona, contro i 2440 in Germania, i 2382 in Francia, i 2215 in Canada, i 2209 nel Regno Unito, i 1864 del Giappone. Lo stato italiano, contrariamente a quanto si crede, con 1812 dollari per cittadino l’anno è quello che spende di meno nel G7. Non è un caso, come ha rilevato Michael Moore, che nelle classifiche dell’Organizzazione mondiale di sanità la Francia e l’Italia (malgrado i casi, reali, di malasanità) possono vantare i sistemi più efficienti del mondo, mentre gli Usa si ritrovano al 37° posto. I l sistema è ingiusto. Malgrado questa spesa enorme, sia privata, che pubblica, sono sostanzialmente privi di assistenza negli Usa oltre 45 milioni di cittadini. Il che significa che il 15% dell’intera popolazione deve mettere direttamente mano alla tasca quando ha bisogno di cure. E poiché si tratta della componente più povera della popolazione, se ne può fare a meno evita di curarsi per non spendere troppo. In definitiva la salute negli Usa ha una fortissima stratificazione di classe. Accessibile ai ricchi (anche troppo, le classi agiate tendono a medicalizzare troppo la propria vita). Di difficile accesso per i meno ricchi e i meno protetti. ultim’ora La denuncia di Michael Moore è dunque fondata. E, con la capacità che ha il cinema di rompere il muro dell’attenzione e mobilitare l’opinione pubblica, potrà contribuire a proporre quello del welfare sanitario come uno dei temi della prossima campagna per l’elezione presidenziali Usa. Ma cosa dire dell’ammonimento di Moore agli europei? Non è fuori luogo? In fondo da noi, qui in Europa (ma anche in Canada e in Giappone) ci sono sistemi sanitari nazionali che, pur nella loro diversità, funzionano. Eh, no. Anche in questo caso il regista americano ha sostanzialmente ragione. Perché, per quanto ingiusto, costoso e inefficiente, il sistema americano ha una forte capacità di seduzione. Piace a molti. Prendete il caso della Svezia, dove in mezzo secolo e oltre di governo socialdemocratico senza quasi interruzioni si è costruito uno dei sistemi di welfare sanitario più giusti, efficaci e civili del mondo. Ebbene, la seduzione americana ha colpito e il nuovo governo conservatore che si è insediato a Stoccolma vuole cancellare tutto e “fare come negli Usa”. Proponiamo ai membri del governo svedese (e a chiunque altro in Europa si senta attratto dal modo americano di interpretare la sanità) di pensarci un attimo. E, prima di varare la riforma, di dare un’occhiata al nuovo appassionato film di Michael Moore. E, magari, alle più fredde statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità. 127