1 INTRODUZIONE GENERALE: ricerche di linguistica pedagogica 1.1 L'ambito: il linguaggio della pedagogia La ragione di questo lavoro sta nell'esaminare alcuni fondamenti teorici usati dal linguaggio nel parlare pedagogico. Già la pretesa di affrontare il tema della parola è in certo senso sconcertante anche in un'epoca in cui sembra normale ritenere che tutto sia riconducibile al linguaggio (quando non si pretenda di trasformare addirittura tutto in quella sua sottospecie ch'è 'immagine). Se si pensa all'immenso balzo che l'umanità compie con 'introduzione della Parola come fondazione delle grandi Religioni lo stupore diventa ancora maggiore. Ebraismo, Islamismo e Cristianesimo sono religioni Rivelate, cioè fondate sulla presenza di una Parola che aiuta la ricerca razionale dell'uomo,(quella che fondava le religioni naturali), per concedergli di entrare nella intimità della Divinità. E' con stupefatto senso di pudore e di modestia che ci si potrebbe accingere a ritornare a quel testo immortale che dice: "In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, e Dio era la Parola. Tutto fu fatto attraverso di essa.." Da allora, invece che verificare la Parola attraverso l'esperienza, si è instaurato il metodo di verificare l'esperienza attraverso la Parola. Dopo l'era delle scoperte degli oggetti e quella degli accumuli dei pensieri arriva il momento della confusione delle parole.Già Gorgia, in Platone, aveva riunito le tre istanze: non esiste nulla, ma se esistesse non lo conoscerei, e se lo conoscessi non ne potrei parlare. Se la linea della storia dice: Dall'indagine sulla realtà (Aristotele-Tommaso d'Aquino) a quella sui pensieri (i Rinascimentali, Cartesio-Bacone) ed a quella sulle parole (Carnap-Wittgenstein), ora la linea della ricerca percorre un tragitto rovesciato: dalle parole si ritorna ai pensieri per trovare le realtà corrispondenti. E' probabile che attualmente tutta la civiltà si trovi in una fase di revisione linguistica. La dichiarazione di voler assumere un quadro di studio non vuol implicare dichiarazioni sull'attuale dimostrabilità dei contenuti del Gorgia o di altri. Si vogliono semplicemente assumere delle proposizioni che, nella fattispecie, sono la conclusione cui di fatto si ritiene che giunga ogni ragionamento compiuto all'interno di tutto lo svolgimento storico della filosofia, ma che soprattutto si ritiene necessario come fondante la prosecuzione del discorso che qui è in atto. Permangono le osservazioni di G.B.Vico sui ricorsi. E' facile ritenere che nello svolgimento della cultura bisogni fare i conti con le presenze cicliche. La Babele linguistica, nutrita dall'incremento della ricerca in ogni settore dei linguaggi disciplinari, richiede una meditazione che metta un po' d'ordine tra il tanto materiale posseduto. Così che vengano ad emergenza le linee principali, quelle che consentiranno la continuità. Ci sono precedenti illustri di massicce avvertenze centrate sull'uso delle parole: i Sofisti prima di Socrate (Cfr. G.Kerferd, il Mulino) ed i Nominalisti della tarda Scolastica, quelli che hanno provocato la nascita dei razionalisti-empiristi del Rinascimento, per non parlare che dei massimi. Anche la pedagogia, quando comincia a ripensarsi con parole, deve fare i conti con le parole. Chi studia ora la pedagogia deve probabilmente passare attraverso la mediazione di una purificazione del linguaggio. Solitamente si ritiene che ogni parlare abbia diritto di esistenza: parlare purchessia è sempre bene. Ma alla fine del XII secolo si studiava la "verbositas" delle parole come una forma di inciviltà. Il linguaggio pedagogico di fatto si trova in un territorio in cui confluiscono non solo i pensieri dei pedagogisti ma deve saper ospitare, per poter poi ipoteticamente individuarne le definizioni, realtà educative provenienti da regioni le più disparate. Ciò che però conta, come assunto, è il ritenere i tre piani, dell'essere, del pensare e del parlare, come i tre lati inscindibili di un unico triangolo. Questo esiste se non manca nessuno dei tre lati. Il parlare del lato del linguaggio in pedagogia non vuol in nessuna maniera dimenticare gli altri due: è anzi un modo per riportarli ad emergenza, nella trasparenza di un linguaggio adeguato. Ci si rende conto che si parla di spostare da un livello (quello dell'essere dell'educazione o quello delle modalità con cui l'educazione viene pensata) ad un altro piano tutto il discorso della pedagogia, e questo può sembrare un'operazione immensa. Ci si accontenta di presentarla come un'ipotesi, e cioè come una tesi debole, che attende di esser dimostrata, anche se i ragionamenti che seguono vogliono esserne una prima elaborazione empirica. Tanto più complessa in quanto l'empirico di cui si tratta è un simbolico, cioè la parola intesa in quanto Già elaborazione concettuale e culturale. Non si tratta perciò di ripetere una grammatica di base della pedagogia (lavoro Già compiuto altrove) ma di ripensarla totalmente a livello di linguaggio. Naturalmente lo studio del linguaggio non serve per conoscerne primariamente la grammatica ma le modalità di interpretazione, del modo di significare. L'oggetto della ricerca inoltre è il parlare pedagogico, cioè quello che viene impiegato per parlare "della" educazione, non quello usato per parlare "in " educazione, cioè all'interno del rapporto educativo (come fa, ad esempio, I.Scheffler) (cfr. mio articolo) Tutta questa fatica, il ripensare cioè ad una sorta di grammatica linguistica, consente allora una possibilità di discorsi applicativi che altrimenti rimarrebbero privi di copertura teoretica. E, tenendo conto della quantità enorme di discorsi che si fanno sull'educazione, non è chi non veda la necessità di tornare sempre più frequentemente e copiosamente alle radici teoretiche (ed, in questo caso, teoreticolinguistiche) del discorso pedagogico. 1.2 Errori possibili Lo studioso di pedagogia dovrebbe accuratamente evitare due errori che invece si riscontrano con grande facilità negli studi pur lodevoli di molti pedagogisti. Il primo riguarda la parzialità facilmente trascurata ed invece spesso inerente alla ricerca analitica. Questo non avviene in altri campi. Il critico letterario che volesse compiere uno studio corretto sull'Infinito di Leopardi non potrebbe fermarsi ad un esame filologico accurato del testo. Dovrebbe collocare quella poesia nel contesto di uno sviluppo spirituale del poeta, ed inoltre avrebbe cura di collocare il poeta stesso all'interno di un grande movimento culturale italiano. Allora, e soltanto allora, il testo potrebbe apparire in tutto il suo fulgore, ben al di là di una pur necessaria ma chiaramente insufficiente analisi filologica. Similmente chi volesse studiare la figura di Mazzini non potrebbe analizzarne il valore politico desumendolo soltanto dall'analisi dei testi, e neppure dalla loro collocazione all'interno di un movimento patriottico italiano, ma dovrebbe preoccuparsi di osservare tutto questo materiale attraverso la lente dei movimenti spirituali e politici dell'Europa. Si osserva invece che chi studia problemi educativi, se pur si fa carico di un'analisi corretta del singolo episodio, o caso, o situazione, o questione da risolvere, spesso dimentica di collocare questa sua ricerca all'interno di un contesto nel quale, soltanto, esso potrebbe trovare, se non una soluzione, ben più valida giustificazione e spiegazione. E' difficile individuare un unico metro sul quale misurare l'attuale civiltà, ma è difficile sostenere che normalmente quello usato sia quello dell' educazione. La si tratta come una questione di settore, un"problema specifico" mentre è la base stessa della convivenza che da' origine alla storia ed alla sua dinamica. Certo, il sistema educativo è vecchio in tutti i sensi: nella sua legislazione e nei suoi strumenti, nei suoi edifici e nella sua esplicitazione pubblica. Deve misurarsi con forze enormemente cresciute, dalla giustizia all'economia, dai trasporti al costume, dalla pubblicità alla vischiosità sociale. Si deve confrontare con forze negative sempre più imponenti: dal malcostume organizzato alle interferenze sciocche ma non meno debilitanti, dalle mancanze che ingenerano squilibri a quel tipo di sindacalizzazione che crea mestieranti. Soprattutto c'è un generale disinteresse verso la vita altrui. I valori collettivi vengono sistematicamente emarginati, senza che si sia capaci di sostituire ad essi altri elementi coagulanti il corpo sociale. C'è pure il crescente bisogno di educazione, generale e specializzata, che mette sempre in maggior rilievo i vuoti delle centrali educative della comunità. Anche in pedagogia le microricerche non hanno in sé‚ la forza di dare una reale inquadratura del problema. I problemi del villaggio si risolvono nel villaggio ma tenendo conto della patria, altrimenti mancano le soluzioni del villaggio connesse con i problemi della sua collocazione nella patria, che pure esistono. Perché‚ per sua natura la patria è l'insieme dei problemi di tutti i villaggi. Non esiste una soluzione settoriale dei problemi che non sono soltanto settoriali. Viene alla mente quell'insieme di versi: "Come nave che esce dal porto, cavalcando con passo scozzese, è lo stesso che prendere un morto e pagarlo alla fine del mese." Certamente sembra che ogni verso in s‚ abbia un suo significato: Ciò che manca non è il significato soltanto della quartina ma anche di ogni verso in quanto tale allorché‚ lo si consideri collocato nella quartina. Ci si chiede, così, se la interpretazione di un evento educativo di una certa portata, qualificante, sia possibile senza tener conto dei grandi quadri storici, dell'influenza generale di una certa cultura civile. Ogni Paese ha delle grandi epopee. Solo per fare qualche nome l'Italia ha il "Mulino del Po" di Bacchelli, i tedeschi hanno "I Buddenbrook" di T. Mann, gli austriaci hanno la carrellata di volumi di J. Roth, la Cecoslovacchia e l'Impero asburgico hanno "L'uomo senza qualità" di Musil, l'America del Sud ha "Cent'anni di solitudine" di G. Marquez. Sono quadri che rappresentano ben più che non semplici avventure personali: sono i Giudizi Universali di un'epoca storica e civile. E' possibile che un discorso sull'educazione possa risolversi nel valutare gli apprendimenti della geografia in una scuola di Abbiategrasso senza nessun riferimento al modo in cui il popolo italiano usa, e sa usare o non vuol usare, della conoscenza geografica per farsi un'idea di come stare al mondo? Che tutti pensino soltanto alle liti rinascimentali tra Pisa e Firenze senza mai supporre che al di là delle colonne d'Ercole ci sia un'America, che poi in definitiva finisce per condizionare tutta la vita di Firenze e di Pisa? Un secondo errore, che però rimane sempre all'interno del rapporto tra analisi ampia e analisi ristretta (quello che volgarmente si potrebbe dire il "volare basso") riguarda il modo con cui si manovrano gli strumenti della ricerca. Già una eccessiva ricerca può esser vincolante. Si ricordi che cosa dice De Unamuno a proposito di Don Quichotte: per il troppo ragionare gli si seccò il cervello. Si potrebbe temere che, a furia di studiare pedagogia, lo studioso finisca per dimenticare l'educazione che sta avvenendo. Più prossimamente, però si nota che gli "strumenti della ricerca" vengono confusi con "i metodi della ricerca" e con la ricerca tout court. Così anche il metodo di indagare eccessivamente nella storia si rivela troppo deterministico, anche perché‚ tale uso viene inteso come metodo invece che limitarlo alla regione degli strumenti. Le analisi sociologiche o psicologiche, fondate sulle statistiche, sulle medie, sull'osservazione controllata e così via, dovrebbero spesso esser considerate come degli strumenti troppo deterministici peraiutarci a capire ciò che non può esser capito se non attraverso la singolarità dell'evento. E' appunto questa la prima accusa che Husserl faceva alla psicologia nella terza parte della Crisi delle scienze europee (l'altra, conseguente, era di "usare" l'ipostatizzazione dei concetti, la loro oggettivazione, come se questo uso fosse possibile). Viene così da chiedersi con quali altri strumenti concettuali si può completare la rilevazione osservativa, empirica, e sembra doveroso rispondere che esiste, oltre il linguaggio numerico, anche quello analogico. Che, a riguardo del vissuto umano, consente un alone di ampiezza immaginativa superiore. Vien da chiedersi, cioè, se il metodo della metafora-analogia non sia, oltre che necessario, anche più utile per capire la metodologia all'interno delle scienze umane. Esso consente un accostamento che, mentre da un lato fornisce un paradigma, uno schema che può in qualche maniera, essendo conosciuto, dare informazioni sulla struttura interna dell'oggetto sconosciuto (ed è la parte "similis" dell'analogia, definita appunto come "similitudo dissimilis") dall'altro lascia spazio adeguato alla assoluta novità della storia (ed è la parte "dissimilis"). Con estrema probabilità il futuro della pedagogia si giocherà a livello linguistico, cioè nella sua capacità di non accettare la riduzione linguistica, quella che sostituisce le dizioni "vita interiore", "vita spirituale" con i corrispettivi controllabili scientificamente (schema logico, struttura comportamentale, sistemi di condizionamento, vissuto specifico, ecc.) In definitiva, nell'accettare assiomaticamente la capacità o meno della scienza rilevativa di esaurire la descrivibilità dell'esperienza umana. 1.3 Ragioni di una nuova riflessione 1.3.1 la peculiarità del linguaggio pedagogico E' facile ammirare la natura del discorso che fa lo studioso di algebra, od anche di botanica o di biologia, apprezzandone le qualità di oggettività, semplicità e funzionalità. E' altrettanto facile ritenere che il discorso del pedagogista, od anche soltanto del sociologo o dell'economista, possa invece apparire contorto e soggettivo, tessuto con innumerevoli variabili. Ci si trova dinanzi non soltanto a diversi generi letterari ma alla difficoltà di comprimere all'interno di un discorso, composto con un numero diverso di semantemi di qualità diversa (rilevazioni,variabili, parametri, assunti, ecc.) realtà oggettivamente molto differenti. Parlare di algebra, di medicina, di psicologia, di storia di pedagogia non è un'attività omogenea, ed usare l'unica espressione "parlare di...." diventa un'operazione equivoca. Però anche all'interno dello steso ambito della pedagogia si possono notare differenti modi di esprimersi. Una semplice analisi letteraria metterebbe facilmente in luce la differenza tra chi scrive in modo anglosassone, con frasi prevalentemente coordinate e poche subordinate, e chi scrive in modo latino, magari ciceroniano, con un discorso molto articolato e complesso,nel tentativo di non lasciarsi sfuggire le probabili sfumature di cui si compone la complessa realtà considerata. Si hanno allora Autori che sembrano dire freddamente una loro constatazione, nella convinzione d'esser scientifici, ed Autori che abbondano nell'uso dell'aggettivo, ritenendo con ciò di poter trascinare non soltanto razionalmente ma anche emotivamente il lettore all'adesione ad una determinata tesi. Si constata perciò che non c'è soltanto un dato oggettivo che qualifica differentemente la pedagogia dall'algebra, ad esempio, ma anche il tipo di approccio diventa una scelta dello studioso. Non soltanto sulla base dei contenuti ma anche delle scelte di linguaggio si ha così una manifestazione dell'essere la pedagogia una disciplina fondata sull'opinione (il che non significa, assolutamente, che sia opinabile). 1.3.2 difficoltà del confronto e del dialogo La pedagogia si qualifica, così, per una caratteristica: essa si fonda sull'opinione. Per quanto essa possa esser oggettivata (e si cerchi con grande serietà di render le sue proposizioni intersoggettive) rimane pur sempre un enunciato di opinione, costruito su opinioni. Si consideri ad esempio la differente lettura di un avvenimento educativo (la storia dell'educazione dei professori nell'Italia di fine secolo) fatta da due Autori di differente estrazione ideologica. Poiché‚ talora tra le opinioni non è però possibile un confronto, occorre considerare la difficoltà di un discorso che si configuri come un dialogo (e questo avviene, ad esempio, dinanzi ad un progetto cui concorrono studiosi di differente estrazione, anche disciplinare e non soltanto ideologica: cfr: le‚ équipe psico-medico-pedagogiche). La difficoltà del dialogo non sempre può dipendere, allora, dal volume delle informazioni che circolano ma dalla loro qualità, ed in particolare dalla loro diversa provenienza ideologica. Più spesso però la mancanza di confronto avviene (più che per differente informazione di base) per l'inevitabile complessità dell'argomentare, per cui ad ogni discorso non è sufficiente rispondere con un'osservazione conclusiva, finale, ma è da ridiscutere il tutto sulla base di diversi quadri di valori assunti. Per cui si tratta di riesaminare sia l'impianto generale sia le singole proposizioni. Questo conduce inevitabilmente ad una massa improponibile di lavoro, per cui si ricorre ad una stenografia del colloquio che ai non addetti al lavoro può apparire addirittura sconcertante, senza che per loro sia possibile rendersi conto delle ragioni derivanti dalla natura del discorso stesso. Senza contare poi le difficili peculiarità dovute alla peculiarità dei discorsi compiuti sui nomi propri. Potrebbe esser considerato, a titolo di esempio un po' più elaborato di difficoltà di dialogo (e perciò a puro titolo di esempio formale, non contenutistico), un unico caso: il Convegno organizzato alla Casa della Cultura a Milano nell'inverno 1987-88. Tale convegno è avvenuto quattro anni dopo la pubblicazione di un volume di L. Corradini (Educare nella scuola, La Scuola, Brescia, 1983) in cui molti di quei temi erano stati affrontati e trattati, con argomentazioni che probabilmente non soltanto meritavano di esser prese in considerazione ma addirittura potevano costituirsi come discriminanti nel procedere della teoria (basterebbe rilevare la teoria del rapporto o quella dei valori scolastici svolti nell'Introduzione del testo di Corradini, da confrontarsi con le tesi del Granese sulla natura dell'educazione non come rapporto ma come apprendimento o quella di R. Massa a riguardo delle contaminazioni derivanti da influenze affettivo-religiose sull'impianto della pedagogia). Forse il fatto non sarebbe rilevante se il Corradini non lavorasse nella stessa città ove tale convegno fu fatto, e ad alcuni incontri di tale convegno egli non avesse preso parte. Si pongono così alcune domande metodologiche. La pedagogia è troppo verbale perché‚ la si possa leggere tutta? Gli studiosi riescono adeguatamente a confrontare le differenti opinioni su un dato argomento oppure, stante l'immensità della produzione (magari puramente verbale) si trovano nell'impossibilità di stabilire dei punti di minima convergenza dottrinaria? E' possibile giustificarne adeguatamente le proposizioni? Ma la pedagogia non è di qualcuno: così come non possiamo distruggere un monumento non possiamo ritenere di averne il monopolio. Neppure la si può ritenere inavvicinabile e perciò estinta. Se l'oggetto della pedagogia (l'educazione) è ineludibile, e ineludibile è il parlarne, la pedagogia avrà cambiato nome? O avrà cambiato punti di vista? Che senso ha dichiararla finita se non la stanchezza di alcuni operatori concettuali? Come si chiama il parlare di educazione? Il volume del Corradini era conosciuto? O lo si è ritenuto improponibile per un confronto? O forse le sue argomentazioni sono state semplicemente disconfermate? In particolare, nel Convegno, si viene a porre il problema dei valori. Corradini propone una tesi che nel convegno si proclama come insufficiente ma non la si controbatte argomentativamente ma solo assertivamente. Forse anche nel testo di Corradini i valori sono declamati? Forse occorrerebbe vedere se si può costruire una pedagogia senza valori, quando in ogni epoca della storia essi sono stati presentati come una peculiarità dell'uomo in ogni filosofia, o come sostituti della filosofia. 1.3.3 necessità di nuove prospettive Non basta deplorare la perdita delle vecchie impostazioni quanto invece è significativo lavorare sui nuovi valori concettuali e linguistici impliciti nelle nuove ottiche. La necessità di una revisione dei metodi di ricerca e dello statuto epistemologico della pedagogia non è che la dichiarazione di un riconoscimento dell' implicanza dell'osservatore (e perciò del suo modo di costruirsi il linguaggio scientifico) nella determinazione dell'osservato. (Un esempio di costruttivismo: B.Vertecchi, Le parole della nuova scuola, FI, 1988). La grammatica pedagogica non ha un raccordo con la storia soltanto per la sua capacità di attingere in essa il materiale contenutistico, il quale già le suggerisce una contemporaneità ed una dinamicità grammmaticali. C'è un raccordo anche perché‚ la stessa grammatica, pur essendo formale e perciò in certo senso soprastorica, ricerca nelle ipotesi educative del futuro, sempre altamente creative, non solo una verifica di se stessa ma anche la forza progettuale di nuove intuizioni strutturali. Ripensando e gettando con ciò le basi stesse di una nuova pedagogia formale dinamica, mai esausta. Da un punto di vista tecnico nasce la necessità di riflettere sul concetto di rapporto (nell'oggetto educativo) e di "cibernetica 2" (nell'ottica di studio). Occorre cominciare a riflettere sulla scienza dei sistemi autoregolati, quelli che, una volta stabiliti dei parametri, raggiungono da s‚ i propri obiettivi. Anche se questa impostazione potrebbe esser ritenuta propria dei sistemi inanimati. Quando scatta la presenza di un soggetto esterno al sistema, non vincolabile nella previsione (come potrebbe esser la libertà umana) è difficile stabilire materialmente i limiti del meccanico e dell'organico. Da un punto di vista molto più profondo occorre ripensare alla funzione ed all'importanza delle discipline umane e verificare se questa non sia diventata prevaricante. (Scrivere il problema di Calvino). 2 RAGIONI DELL'EQUIVOCITA' DEL SIMBOLO EDUCAZIONE 2.1 improprio uso del semantema Per il solo fatto che una persona enuncia un termine, di fatto lo esprime in termini inconsciamente metafisici. Ch'è un modo di dire "astorico". Chi parla non si accorge di appartenere ad un determinato momento storico e ad un contesto sociale che entrano cospicuamente nella determinazione del significato del termine impiegato. In realtà il linguaggio è più simile ad un fiume che scorre, e la cui acqua è avvolta da un paesaggio continuamente differente, piuttosto che ad una catena immobile di montagne. Si veda ad esempio quali nuovi significati venga ad assumere il concetto di "educazione ambientale". Scrive E.Bardulla: "Il dato di fondo è che l'umanità è entrata ormai in una fase totalmente nuova della sua storia millenaria di presenza sul pianeta; una fase che succede a quella iniziatasi all'incirca dodicimila anni fa, all'inizio del neolitico, e che segna, come quella, una autentica rivoluzione nei rapporti con la natura. Il ricorso all'agricoltura e all'allevamento come mezzo per soddisfare i propri bisogni alimentari aveva posto la specie umana in una posizione del tutto diversa rispetto alle altre. In certo senso la sua sopravvivenza non dipendeva più dalla natura. Si era scoperto il modo per far si che questa lavorasse per l'uomo. Questa fase dura sostanzialmente fino al nostro secolo....Ora l'uomo è in grado di intervenire sull'ambiente con ritmi e capacità di trasformazione tali che la natura non sembra più riuscire, in molti casi, a ristabilire l'equilibrio, almeno in un arco di tempo ragionevole. Si trova così a dover far fronte ad una responsabilità totalmente nuova: garantire le condizioni della sopravvivenza, non solo propria, ma anche delle generazioni future e delle altre specie.." E per questo occorre una nuova cultura, ed una nuova capacità di trasmissione della cultura stessa, e cioè di educazione (Educare nell'ambiente, all'ambiente, con l'ambiente, in: Scuola Materna, a. LXXV (1988), n.10, p.55 ss.). In queste poche parole è presente la drammatica dimensione di un cambiamento epocale del significato delle parole. La parola educazione viene usata in contesti differenti, che debbono venir esaminati con strutture grammaticali e disciplinari diverse. Occorre soffermarsi su questo punto. Si possono individuare alcune domande che sembrano genericamente rientrare nel territori dello studio dell'educazione: a- Come crescerà mio figlio? b- Come mi piacerebbe che crescesse mio figlio? c- Che cosa pensa mio figlio del suo futuro? d- Come mi trovo con mio figlio? e- Perché‚ non mi trovo bene con mio figlio? f- Sarà capace mio figlio di esser un uomo morale? g- Sarà capace mio figlio di vincere le avversità? h- Sono capace di rispettare gli scopi di mio figlio? i- Mio figlio sa distinguere gli uomini di vero successo? l- Sono sereno nello stare con mio figlio? m- Mi rendo conto che mi è nato un figlio? n- Con mia moglie parlo abbastanza dell'educazione di nostro figlio? Già ad una prima rilettura di queste domane, volutamente disposte in modo disordinato, si nota che esse si distribuiscono in due grandi gruppi: quelle che riguardano l'educazione come rapporto (d,e,h,l,) e le domande che pongono sotto esame i comportamenti delle persone. Queste ultime possono esser ulteriormente distinte: alcune riguardano l'alunno(a,c,f,g,i) e altre che riguardano l'educatore (b,m,n). Queste ultime mettono in discussione non la persona del genitore ma il genitore in quanto ruolo. Cioè la persona in quanto rapportata ad un' altra persona, e non in una relazione genericamente sociale ma specificamente educativa. Il solo fatto di aver distinto le domande, che a prima vista appartengono tutte all'area educativa, fa supporre che bisogna accostare ciascun gruppo con modalità teoretiche differenti. Queste differenti teorie si esprimono con linguaggi differenti: a volte rilevativi, altre argomentativi, altre normativi, altre ottativi, altre semplicemente interrogativi. Così, in altri casi, si ritiene di poter usare il termine "educazione" senza dover in alcun modo aggettivarlo, in modo da circoscriverne il senso e senza così attribuirgli significati più precisi. Esso in tal modo può diventare un contenitore incredibilmente vasto. Questo assunto rappresenta un modo scorrettamente metafisico di procedere. Il termine educazione ha avuto un suo naturale sviluppo. Sarebbe sommamente impreciso pretendere di parlare di un termine teorico senza accettarne la qualificazione storica. Quasi che esso, nel corso della storia, non avesse assunto significati differenti, dovuti al naturale incremento della civiltà. Ogni popolo, al semplice contatto con altre culture ha avuto uno scambio osmotico: Grecia capta, ferum coepit victorem. Ogni popolo ha risposto a domande che si è posto con successione di interessi. Sarebbe scorretto studiare la storia dell'educazione e della pedagogia come gruppi di notizie che facessero parte a s‚, che non venissero raggiunti con una disponibilità di rilevazione differente ed eventualmente progressiva, quasi si trattasse di nuclei di pensiero estraniati dalla storia concreta, e non permeassero con questa loro qualificazione le operazioni storiche in cui sono inseriti. Oltre che, naturalmente la totalità della riflessione pedagogica. 2.2 dovuto alle quattro fasi storiche 2.2.1 introduzione allo svolgimento storico La storia dell'educazione e della pedagogia naturalmente rientrano nelle regole della storiografia in generale. Ma in questa sede non si tratta di fare della storia bensì di rilevarne alcune osservazioni per poter collocare in essa il discorso di teoria, specialmente linguistica. Quello stesso contenuto che la storia insegna allo studioso di storia della pedagogia ha pure un versante teoretico che viene assunto dallo studioso di teoria, e viene espresso in particolari forme linguistiche (concettuali e non solo grammaticali). La lettura storica della realtà (rerum naturalium historia), ed in particolare del divenire umano (rerum gestarum historia), comporta non soltanto un determinato atteggiamento nei confronti della realtà (natura e cultura) ma anche l'impiego di uno specifico linguaggio. L'uomo ha la necessità, per formulare la propria identità, per riconoscere il mondo esterno e per poter scambiare informazioni, di disporre di un sistema di costruzione del pensiero e di mediazione sociale che sia riconoscibile a s‚ ed agli altri. Sicché‚ egli si trova dinanzi ad una duplice ed apparentemente contraddittoria difficoltà: avere uno strumento che sia mutevole (perché‚ l'uomo è unico e mutevole e deve fare storia originale), ed averlo sufficientemente stabile perché‚ sia riconoscibile e fruibile, almeno in un determinato percorso temporale. Le tensioni dunque che investono la parola (anche pedagogica) sono quelle storiche e quelle teoretiche. Il vedere come nel procedere del tempo si è parlato di educazione consente di osservare le variazioni di significato del semantema fondamentale. La storia della pedagogia è la sequenza delle variazioni del semantema stesso. Il cogliere le possibilità di variazioni di tale linguaggio diventa interessante ai fini della presente ricerca. La possibilità perciò di definire meglio certi semantemi aiuta a compiere ambedue le operazioni: a ricollocarli storicamente ed a precisarli definitoriamente. La distinzione, ad esempio, del termine "Memoria" in memoria storica, bioindividuale e quotidiana (definizioni storiche, in quanto precisano temporalmente il campo coperto dal termine) non soltanto ne rende più attuale la possibilità d'uso, aiutando appunto a delimitarne il campo (la storia fondata sul gruppo, sull'esperienza individuale e su quella prossima, della giornata) ma anche a precisarne la capacità e la intensità di penetrazione negli eventi da un lato e la forza di sintesi che si richiede per dominarli dall'altro (definizioni teoretiche). Il generico studio pedagogico del concetto di "evento educativo" ha messo lo studioso dinanzi ad una sequenza di rilevazioni. C'è la dizione elementare, e serve a definire in modo immediato il territorio. Indica semplicemente un evento (e non una sequenza educativa, oppure una regione puramente teoretica) che è educativo (e non sociale, giuridico, economico, ecc.). E' il primo riconoscimento, quello di esistere, e perciò di essere un evento collocato nella storia. Già scattano dei meccanismi ausiliari di comprensione, seppure non esplicitati (si scartano altri codici o teorie, come la sociale e la giuridica, e si individuano altri obblighi concettuali, quelli di operare con strumenti pedagogici, più o meno elaborati). L' esplicitazione di tali meccanismi ha tutta una sequenza che rappresenta appunto la ricerca scientifica: occorre saper radunare gli eventi in classi omogenee (ed occorre la statistica), non dimenticare di darne un significato umano (elaborazione filosofica di tipo antropologico) e valoriale (riflessioni di filosofia morale), collocarli in un contesto sociale (ed occorre la sociologia), rilevare quali comportamenti e quali vissuti vengano espressi (ed occorre la psicologia, nelle sue varie sottoclassi, dalla generale all'evolutiva, dalla sociale alla clinica), confrontarli con le esperienze del gruppo sociale suo proprio e dei gruppi simili e difformi (ed occorre l'antropologia culturale), rilevarne i costi d'insorgenza e di gestione (ed occorre la scienza economica), e così via. Il concetto di evento educativo si trova così a dover sopportare una quantità di aggressioni culturali che lo analizzano, lo scompongono in sottostrutture per poterlo elaborare con sistemi settoriali di ricerca e collocarlo provvisoriamente all'interno di determinate sequenze logiche che, benché‚ lo settorializzino, lo arricchiscono di senso, così che si possa ritornare al quadro generale di comprensione con un ben più arricchito insieme di collegamenti razionali. A mano a mano che la ricerca prosegue, l'ambito di "evento educativo" si infoltisce di significati e di precisazioni aggiuntivi, così che il primitivo e grezzo valore del semantema venga a mutare profondamente. Così tutto il dizionario della pedagogia (per quanto riguarda il caso presente) viene ad essere in situazione instabile e dinamica. Basti pensare alle variazioni di significato di termini quali promozione, od autonomia, o scolarità, o apprendimento, o ricerca (pedagogici). E quanto queste modificazioni abbiano influito sulla natura di intendimenti fondamentali, che si ritenevano ormai definitivamente posseduti in modo indiscutibile: ad esempio la necessità di riconsiderare differenti modi di studiare l'interdisciplinarità nelle scienze naturali ed in quelle umane, L'arricchimento storico non ha coinvolto soltanto la persona umana ma anche le sue parole E' necessario perciò rifarsi ad una individuazione del valore assunto dal termine educazione nel corso della storia, perché così possono venire ad emergenza anche gli apparati teorici che hanno sovrainteso alle mutazioni di significato. Ogni epoca esprime un pensiero congruente, omogeneo su principi generali comuni a tutto il sapere proprio di quel tempo (arte, religione, diritto, educazione, ecc.). Tale pensiero viene formulato sugli oggetti con strumenti concettuali che noi definiamo regioni del pensare (filosofico, scientifico, storico, linguistico, artistico, ecc.). In realtà si preleva soltanto quella parte dell'oggetto che gli strumenti di quel momento storico, nella loro particolare sensibilità, consentono. Allora si deve specificamente osservare come questo pensiero generale si configura come grammatica con cui si enuclea dal reale la struttura già organizzata (sull'essere, sul pensiero, sul linguaggio) dell'educazione. L'educazione risulta così studiata da varie discipline (o regioni del pensare), e può utilmente esser considerata in quattro fasi storiche. Tenendo naturalmente conto che proprio nell'assunto metodologico iniziale ("l'educazione avviene nel tempo") la storia si pone come territorio primario, elementare, per cui il reperimento fatto dalla storiografia (pure essa suscettibile di capacità di variazioni nel corso del tempo) è comune a tutte le fasi. 2.2.2 la fase prelogica Ciò che nel periodo prelogico, che va dall'incerta apparizione dell'uomo sul Pianeta al momento dell'insorgere della curiosità greca logicamente formulata, val la pena di cogliere è l'estrema naturalità degli avvenimenti educativi. Che si ricerchino nei comportamenti degli Egizi o degli Assiro Babilonesi, nei poemi Omerici o nella grande visione biblica, ciò che si rileva è la presenza di un rapporto educativo che consente di trasmettere il patrimonio come patris-munus. Anche i documenti scritti che si conservano di quel lungo periodo sono improntati ad una generica descrizione della storia e delle avventure, senza particolari avvertenze a questo od a quello specifico valore, sia esso religioso, giuridico, artistico o educativo. Nell'educazione spartana ad esempio (e siamo già ai confini tra due epoche) è evidente la forte presenza dei valori di gruppo. Come in tutte le civiltà assediate, ciò che conta è la possibilità di rifornimento di giovani leve per il mantenimento dei valori primari: la sopravvivenza, la difesa e la primitiva creatività e la espansione civile del gruppo. Per quanti secoli siamo stati abbandonati a questi strumenti irrazionalmente espressi? Ciò che conta rilevare però è che le manifestazioni prelogiche non sono peculiari di tempi precedenti al mondo greco ma si ritrovano in tutte quelle situazioni di civiltà in cui la riflessione non è adeguatamente penetrata fino al punto di poter dire che si tratti di una civiltà razionale. In certe periferie di megalopoli, oggi, si è in presenza di un tipo di trasmissione di valori legata ancora prossimamente all'istinto, e perciò a forme prevalentemente affettivo-emotive. La stratificazione culturale, perciò non è legata al tempo ma alla qualità di vita. Anche la stessa dizione di pedagogia "prelogica" ha un che di scorretto, perché potrebbe far sembrare che la vera pedagogia sorge quando si ha l'ingresso nel gruppo civile di una teorizzazione e di una riflessione filosofiche, fondate sulla logica. Come se ciò che caratterizza l'umanità non sia l'essere umana ma soltanto l'avere una sua razionalità. Sarebbe come dire che il bambino non è un bambino ma un anticipo dell'uomo. D'altro lato si è voluto conservare questa dizione proprio per poter approfondirne le quantificazioni, che non sono soltanto indicative di ciò che non c'è ma anche precisanti ciò che fondamentalmente c'è ed è presente come caratteristico: l'equilibrio tra le parti con cui opera l'essere umano. Ciò che conta è l'osservare se già nella primitiva produzione di educazione si avevano tutti gli ingredienti capaci di qualificare la realtà educativa nella sua caratterizzazione più vera, e perciò primordiale. E' ovvio che in tale assunzione la primordialità comporta fondamentalmente una presenza di elementi organicamente correlati tra loro fino al punto di poter costituire l'oggetto in questione, e cioè l'educazione. Doveva perciò esserci sia la trasmissione dei valori del gruppo sia l'apprendimento da parte delle giovani generazioni sia il sistema di trasmissione fondato primariamente su approcci intelligenti ma non strutturati razionalmente, affettivi ma non elaborati e spinti fino a diventar settoriali e parziali. (Cfr. Marrou e Jaeger, Paideia). Mentre il ragionare fa parte della vita umana, la situazione (e l'abilità della sua esplicitazione) diventa sempre una condizione artificiale, intesa, voluta. Gli antichi Egizi o gli Assiri forse non erano meno intelligenti dei Greci. Non è che sapessero usare meno bene la loro intelligenza: non erano ancora giunti al punto storico di impiegarla per esaminare l'intelligenza stessa. I Greci, in più dei loro predecessori, hanno ragionato sull'intelligenza, reduplicando il mondo conosciuto. La situazione della pedagogia è una situazione storica, da non decifrare soltanto con il filone della sua struttura razionale ma anche per quella razionalità che era investita nel fatto e non ancora nella reduplicazione razionale. Dalla teoria della comunicazione sappiamo che questa può avvenire sia in termini numerici che analogici. Ma dal confronto tra i due sistemi risulta che il discorso primario è sempre analogico, e quello numerico non rappresenta che una specie di stenografia, di agevolazione, di percorso più controllato e difendibile rispetto a quello immediato dell'analogicità. Ma l'humus in cui esso opera rimane sempre quello analogico, quello carico di aperture, di sfumature, di appigli per le differenti personalità che possono così esprimere le innumerevoli variazioni che sono caratteristiche delle individualità. Che altrimenti rimarrebbero prigioniere degli schemi ed incapaci di ogni creatività. Si potrebbe affermare genericamente che in questa fase tribale (antica o moderna che sia) non si capisce l'educazione che con un sistema globale ed affettivamente pronunciato. Perciò sarebbe inutile, oggi, creder di capire l'amore del Piccolo Principe per poi accantonarlo: occorre che rimanga sempre presente anche quando vengono portati ad emergenza altri aspetti del rapporto educativo. Li si ritrova nei bambini delle periferie, autentici mendicanti d'amore, nei tentativi di suicidio dei fanciulli per un'insopportabile disgregazione familiare nelle fughe disperate verso luoghi di riferimento affettivo, ecc. 2.2.3 la fase logico-filosofica A. Granese sottolinea molto il fatto che si è pensato l'educazione prima che sorgesse una pedagogia esplicitamente formulata. "Il pensare l'educazione è un elemento positivamente individuabile della storia e della pratica culturale. Un'analisi improntata a un minimo di accuratezza rivelerebbe che c'è molto pensiero educativo (pedagogico) là dove manca una pedagogia <canonica> e che, per converso, molti pensatori a cui si riconosce formalmente il titolo di pedagogisti (autori che trovano collocazione di pieno diritto nei manuali di storia della pedagogia) sono stati in realtà qualcosa di diverso e di più comprensivo. E ciò non riguarda la possibilità di rileggere la storia della filosofia, della scienza e della pedagogia per scoprire che i pensatori più vigorosi hanno avuto in dote un ingegno multiforme e hanno coltivato una grande varietà di interessi, quanto l'opportunità (forse la necessità) di rivisitare i luoghi della produzione culturale più importante, di richiamarne i momenti e di ripercorrere gli aspetti più significativi per cercar di capire che cosa abbia significato e significhi in realtà pensare l'educazione (già prima che una disciplina come la pedagogia si affacciasse alla ribalta e che si ponesse il problema dei suoi rapporti con la filosofia da una parte e con la scienza dall'altra) operando scambi categoriali più o meno consapevoli, la cui logica illumina più che sulle intenzioni dei soggetti sulle possibilità oggettive di passaggi, intersezioni e transazioni culturali (La fine ecc., p.74)." La filosofia greca non nasce soltanto in Grecia nel VI-V secolo a. C. ma ovunque la civiltà passa da una fase prelogica ad una logicamente fondata. Si ha, per esempio, nel passaggio dall'astrologia, come universo governato dal Sole e dalla Luna (e più tardi dalle Costellazioni) perché‚ gli astri governano il ritmo delle stagioni, su cui si basano le alimentazioni e le possibilità di vita nutrizionale degli abitanti. Il Cristianesimo rompe questa sudditanza dell'uomo dal sistema naturale, facendo l'uomo figlio di Dio e perciò necessariamente libero rispetto ai condizionamenti. E' questa già una forma di ragionamento, anche se non investe esplicitamente i sommi problemi che erano stati trattati dalla metafisica e dalla fisica greche: la cosmologia, il senso etico della vita, il problema dell'essere, quello della conoscenza, ecc. In questo lungo periodo (che va dai Greci al Rinascimento), dal punto di vista che qui interessa, si hanno almeno tre grandi affermazioni: la natura razionale dell'uomo (con il distacco dal determinismo astrologico), la proposta che gli viene fatta di diventare figlio di Dio (con il Cristianesimo) e la nascita dei due De Magistro (di Agostino e di Tommaso). In particolare Agostino afferma come la verità si accenda nell'animo dell'educando, per cui nessuno può insegnare alcunché‚ se l'educazione non avviene nell'alunno, mentre Tommaso spiega come il maestro deve comportarsi per far rifare la propria esperienza, il proprio itinerario da parte dell'alunno. Di questa fase rimane la presenza necessaria della lettura filosofica dell'uomo. Ogni teoria pedagogica che espunga l'ottica filosofica rimane incompleta. Ma in particolare è il caso di sottolineare l'aspetto morale. Il progetto della perfezione della persona umana diventa un progetto etico. E'operato dalla persona nella sua libertà e si sostanzia di responsabilità. Se queste categorie vengono a mancare si cancella un aspetto della civiltà che era stato trovato e dalla filosofia e dalle religioni che l'avevano preceduta, sia naturali che storiche. Sono questi i pilastri che l'educazione, come trasmissione di valori, deve riconoscere come fondamento della propria autenticità. Se non trasmette questo l'educazione potrà esser trasmissione ma non di valori riconosciuti dall'umanesimo culturale. Una annotazione merita la discussione in atto sulla presenza della filosofia dell'educazione nei dibattiti dei pedagogisti. Un'analisi critica della situazione attuale della pedagogia, mancando di una solida base filosofica ancorata a valori stabili, rende scomposta l'interpretazione dell'educazione nell'attuale civiltà, creando stati di ribellione tra i migliori ed un grande smarrimento tra i più deboli. Sono sempre più numerose le inchieste (Doxa, Yard, ecc.) che mettono in luce le difficoltà degli adolescenti nei confronti della loro maturazione. Sarebbe facile dimostrare che questa ha bisogno della presenza non soltanto di una solida situazione culturale di fondo ma anche di persone che costituiscano seri punti di riferimento. E' evidente che cultura e persone non hanno identità senza un patrimonio filosofico ormai esplicitato, perché‚ la storia è irreversibile, e non si può fare a meno di pensare agli ancoraggi essenziali. Il solipsismo diffuso (che diventa la nuova matrice di base), l'egocentrismo radicale(che comporta la solitudine esasperata, malgrado gli sforzi di socializzazione) la mancanza di quadri concettuali oggettivamente fondati (perché‚ poi ognuno attende che l'umanità si adegui ai propri) la presenza prevaricante dell'attenzione alla scienza ed alla tecnologia (come fonti messianicamente attese di soluzione dei problemi), il bisogno di aver tutto e subito, senza saper posticipare gratificazioni in vista di un piano di lunga gittata e perciò di ampio respiro (togliendo alla persona il senso della storia e dei progetti proporzionati alla grandezza della persona), tutto questo ed altro ancora rende l'adolescente sradicato da una tradizione culturale, privo perciò di un patrimonio, bisognoso di ricominciare la storia dell'umanità. L'adolescente, cui tutto è stato dato fuorché‚ il senso delle dimensioni non raggiunge quella maturità che l'Erikson definisce "generativa". Non si tratta soltanto di una generatività sessuale o familiare bensì più generica: l'adolescente, che non si educa a "generare", copia, si intruppa, teme il freddo della solitudine geniale, dell'unicità della produzione differente. E' incapace di soffrire, e perciò cresce (si fa per dire) senza una fondamentale categoria dello spirito umano che, si voglia o no, è condizione inevitabile per ogni grandioso frutto spirituale. Tutto questo rientra nel grande ambito delle elaborazioni filosofiche, della definizione di una antropologia difendibile, della fondazione di un'etica chiaramente prescrittiva, di un sistema valoriale che spinge verso la qualità. La polverizzazione degli spiriti non consente certamente la creazione dei patrimoni, dei grandi sistemi, delle visioni cariche di ambizione. Non sembra corretto chiamare questo atteggiamento "libertà", o "democrazia", o "autonomia", specialmente quando questo stato di cose si riflette diffusamente nella patologia giovanile, che si dimostrerebbe invece sì esigente di rispetto per la propria originalità ma anche affamata di patrimonio ben consolidato (cioè di storia) a riguardo dei postulati primari dello spirito. La prima e più evidente necessità della presenza di una lettura filosofica del reale la si ritrova nella sofferenza umana violentemente emergente quando quella non c'è. E non bastano certamente alcuni tentativi di modesti spiriti che si proclamano profeti(la cui miope proposta, spesso fatta di ovvietà omiletiche, si ripiega nella caducità del tempo e delle cose) ad alleviare le vere e radicali sofferenze delle nuove generazioni. Che esprimono giudizi molto pesanti sulla serietà dei loro educatori (cfr. Ajar, od il romanzo della diciassettenne francese, ecc.). Del resto anche le fondazioni di una disciplina necessariamente empirico-rilevativa come la giurisprudenza, o l'economia, quando deve discutere i canoni fondamentali della propria ragionevolezza si rifanno alla Costituzione, ed in particolare a quell'art.2 ove viene presentata la persona umana, definita nelle sue caratteristiche fondamentali e perciò filosofiche, come base razionale per ogni ulteriore determinazione comportamentale all'interno della vita sociale. 2.2.4 la fase logico -empirica Alla fine della tarda Scolastica , in concomitanza con le nuove spinte filosofiche del razionalismo francese e dell'empirismo inglese, si ha il trasferimento delle caratteristiche del pensiero che fu già filosofico anche in pedagogia. In particolare, durante la fase albeggiante dell'empiria in pedagogia (Comenio-Rousseau) si cerca di individuare concretamente le strade della comunicazione educativa. Lentamente scivolano i significati dei termini, che cambiano perché‚ tutto il mondo sta cambiando. I termini linguistici (cioè gli arrivi finali dei gesti umani, ma nel contempo anche i primi ad esser usati) si ritrovano in un mondo che cambia: e basterebbe ricordare la scoperta dell'America o l'invenzione della stampa per dire come il mondo si sia raddoppiato. Se tutto s'è fatto prossimo, immediato, controllabile, si ha uno spostamento dell'equilibrio dell'attenzione dalla filosofia morale alla sociologia e dall'antropologia naturale alla psicologia. C'è così una fase dell'elaborazione dell'educazione umana che accompagna lo sviluppo delle scienze umane (psicologia e sociologia), di cui un esempio insigne si ritrova nel periodo di Dewey e Claparède (e nella pedagogia funzionale). Non è il caso di soffermarsi sul fatto che queste scienze empiriche dell'uomo, partendo dall'osservazione esterna e non assumendo le unità fondamentali di persona e di gruppo come presupposti inalienabili, hanno condotto all'incomprensibilità ed in certo modo alla babele dei linguaggi. Per cui oggi, prima di parlare scientificamente, occorre sempre far premettere una serie di definizioni dei termini che saranno impiegati, pena l'incomunicabilità popolare o la mancanza di comunicazione scientifica. Ciò che fa duramente pensare alla validità del metodo scientifico impiegato sta appunto nella difficoltà linguistica della coerenza di ogni discorso. Perché‚ sembra che ci si intenda, ma troppo spesso risulta che quel "sembra" tiene soltanto per un certo periodo di tempo: giunti a certi confronti diventa palese che si è continuato a lavorare su una situazione linguisticamente scorretta. 2.2.5 la fase linguistica Non per nulla allora si è sbarcati sul continente linguistico, con la speranza che esplorando questa ragione si possa riuscire a controllare i pensieri, quelli che a lor volta controllano la realtà. C'è dunque l'attuale fase critico-linguistica, in cui si cerca di capire l'interna costituzione della pedagogia. Specialmente dopo la vicenda gentiliana si è chiarito che la pedagogia era diventata una sorta di dipendenza concettuale da una qualche altra matrice razionale. Poteva esser una pedagogia filosofica se i suoi assunti erano filosofici, ma così poteva dipendere anche dalla psicologia (Piaget) o dalla sociologia (Durkheim). In ogni caso si poteva pensare alla presenza di un meccanismo disciplinare esterno che forniva alla (cosiddetta) pedagogia gli strumenti su cui fondare le ragioni della comunicazione educativa. Il personalismo e lo spiritualismo od il marxismo o l'idealismo dicevano come doveva esser la persona umana, e la pedagogia non aveva che da procurare strumenti di soccorso per realizzare ciò che altri avevano statuito. Si comprese che si faceva blocco su una competenza esterna ad un pensiero autonomo riguardante l'educazione. Naturalmente, poiché‚ non si potevano scotomizzare gli altri linguaggi, la pedagogia divenne un fatto interdisciplinare, non meglio chiarito in quanto tale, e comunque luogo di tacito accordo sul non parlarne fino a quando si dovevano risolvere i problemi, che nel frattempo erano diventati talmente complessi da non consentire spazi per una riflessone sui metodi. Si può così pensare che il momento attuale sia favorevole ad un ripensamento sulla natura interna della pedagogia, specialmente perché‚ si possono individuare alcune domande-problemi che diventano particolarmente illuminanti. L'analisi linguistica parte dal fatto che oggi simbolicamente ricostruiamo la definizione di educazione in un certo modo: per noi essa è così. Ma di che cosa si sono interessati nel passato, quali significati transitavano nel semantema educazione? Quali aspetti hanno attratto i nostri progenitori? Come hanno inteso di usare lo strumento "educazione": come gli Spartani o come Agostino? Per fare un tipo di socializzazione come Rousseau, come Dewey o come Durkheim? Si possono fare alcune osservazioni: 1- Storicamente la sequenza delle successioni di pensiero indica il tragitto dall'ieri all'oggi, ma teoreticamente indica la presenza, nella formazione della pedagogia, di meccanismi logici costanti, duraturi. La sequenza delle quattro fasi indica la necessità di un progressivo arricchimento per cui ciascun significato viene ad aggiungersi senza distruggere i precedenti. L'esperienza storica esprime l'individuazione della necessità di impiegare degli strumenti concettuali particolari, che diventano chiavi, canoni interpretativi ineludibili, e perciò presenti nelle ricerche teoretiche che oggi si compiono. Ciascuna di esse ha una funzione che esprime una necessità, e conseguentemente offre il vantaggio di portare ad emergenza ciò che altrimenti non sarebbe stato possibile conoscere. 2-C'è il problema della permanenza e della novità, cioè di una contemporanea presenza di passato e di nuovo che si incontrano nella costruzione della dottrina pedagogica. Senza il passato non si avrebbero le radici teoretiche, senza il nuovo saremmo in presenza di una pianta morta. Il problema perciò è di avere un tipo di interdisciplinarità sistematico, coerente nella sua capacità nei confronti del problema, e perciò che parta dalla necessità di una soluzione del problema, e non soltanto sintagmatico, con reperimento casuale di informazioni, ma sistemico. Perciò è necessario aver riferimento a: a-l'aspetto globale, intuitivo, iniziale. Ove si ha la sintesi aurorale di tutti gli elementi che poi verranno a precisarsi nell'analisi seguente. Essi sono tenuti insieme da sicurezze non ancora esplicitamente definite in sede razionale ma che si possono ora così catalogare: certezza che l'educazione esiste, è un fatto umano, è una trasmissione di apprendimenti selezionati, che aiuta il soggetto a svolgersi ed a svilupparsi, che questa operazione avviene non soltanto per una presenza fredda, ma per una costante attenzione calda, affettuosa dell'educatore, il quale in questa e per questa comunicazione modifica se stesso. b-l'aspetto filosofico. E' il momento in cui i semantemi fondamentali costituiscono il quadro razionale per un'educazione umana. Le parole che entrano a costituire l'educazione vengono discusse, come tutti i termini che entrano a giustificare i fondamenti del vivere. L'educazione attraversa la fase storica in cui ciò che avviene viene setacciato, elaborato razionalmente per essere più umano. Non basta vivere una vita umana: essa è umana se la si reduplica razionalmente. I termini che erano descrittivi della vita diventano oggetto di elaborazione dottrinale, passano attraverso il vaglio della discussione (Sofisti). Su di essi si forma un vocabolario esplicativo di relazioni causali: la scienza è appunto "scire res per causas". Per l'educazione c'è una teoria della persona umana, dei fini, dei valori, delle virtù, della qualità, dell'eccellenza: "propter vitam vivendi amittere causas" è il pericolo che sovrasta questa educazione. c-l'aspetto empirico. E' vero che le cose sono come sono (aspetto filosofico) ma è pure vero che sono così come noi le controlliamo, e le conosciamo osservativamente e sperimentalmente. Da una conoscenza argomentativa si passa ad una conoscenza per osservazione controllata. Le ragioni vengono filtrate attraverso i fatti, i controlli empirici, quelli che (stanti certe condizioni) si possono ripetere. L'uomo non è più un sinolo di potenza ed atto ma ciò che di lui si può dire descrivendone e controllandone il comportamento. Il semantema uomo (come quello di natura, del resto) cambia significato. Ma tutto l'universo di discorso (oggetto) cambia, cambiando il concetto di conoscenza (soggetto). Ed in esso anche il termine educazione deve esser sottoposto a verifiche, controlli, analisi empiriche. d-l'aspetto linguistico. In questo si riassumono gli aspetti precedenti, perché‚ attraverso l'analisi formale del discorso pedagogico vengono ad emergenza i valori dei termini e del loro impiego nei quadri teorici di riferimento. Le cose sono (filosofia) perché‚ le controlliamo (scienza) però attraverso un linguaggio corretto e controllato (aspetto linguistico). Noi diamo loro un tipo di vita storica che altrimenti quei semantemi pedagogici non avrebbero. 3-C'è un pericolo di pensare la pedagogia come un fatto d'oggi, con grande miopia, mentre la disciplina pedagogica è in sé un'entità oggettiva che ha un suo svolgimento peculiare. L'avanzare della ricerca, infatti, costringe a riformulare continuamente gli assunti. La necessità di stabilire il valore semantico di un termine impiegato, e perciò di collocarlo sintatticamente all'interno di una disciplina, nel cui contesto acquista significato, costringe a riflettere sul valore di un contributo disciplinare all'interno del discorso pedagogico, ed in definitiva a formulare un quadro generale dell'interdisciplinarità della pedagogia. Il concetto di scuola ha un futuro quanto maggiore è la conoscenza che abbiamo del suo passato. Il concetto di alunno diventa duttile psicologicamente e sociologicamente quanto più riusciamo a vedere che esso ha funzionato con quelle categorie anche nell'antica Grecia. Perciò la ricerca non soltanto procede in avanti, individuando nuove posizioni concettuali, ma anche all'indietro, ristabilendo le proprie basi e controllando le proprie radici. Si viene così riorganizzando continuamente tutto l'insieme, cioè il quadro generale della ricerca stessa. Nessun albero cresce (si muove verso il futuro) soltanto dalla terra (presente) in su, ma fa crescere anche le proprie radici (incremento del passato). Si ha così a disposizione un tipo di pedagogia che è tanto più vivente quanto maggiore è la capacità dello studioso di avvertirla come un'entità storicamente e teoreticamente (e perciò anche linguisticamente) palpitante. 2.3 dovuto alla formazione della teoria 2.3.1 le scienze dell'educazione Una lettura anche superficiale della storia del termine "educazione" mette in luce ch'esso è stato sottoposto, in epoche differenti, ad esami diversi, assumendo differenti significati. Sembra questo il principale punto di partenza per l'affermazione teoretica che non ci si può accontentare di un unico significato, e che invece ci sono differenti definizioni del termine. Una volta però che si accetta che il termine non abbia significato costante è necessario porre sotto controllo razionale questa nuova situazione, ed esaminare che cosa significhi, dal punto di vista teoretico, il fatto che il termine "educazione" possa avere una pluralità di significati in dipendenza dalla sua interna, variabile composizione. 1-Il primo impatto con l'evento educativo si ha quando si incontra un fatto storico. Esso è unico ed irripetibile, e come tale deve esser primariamente conosciuto. L'elaborazione teoretica si ha quando tale fatto viene collocato in una classe di eventi a lui omogenei: dal nome proprio si passa al nome comune. Ma appunto l'omogeneità degli eventi appartenenti ad una classe è fondata sulla elaborazione teoretica, e cioè sull'impiego di molte osservazioni settoriali, che provengono da altre discipline: per questo si dice che la pedagogia è un materia interdisciplinare. E' necessario allora fissare con esattezza come queste osservazioni di altre discipline confluiscano nell'osservazione dell'evento educativo (perché‚ elaborano la classe cui esso appartiene). Come si vedrà quando si rifletterà sulla formazione di una disciplina, è fondamentale la distinzione tra oggetto di studio ed unità di indagine. Quello è l'oggetto genericamente e globalmente considerato. Questa è quell'aspetto dell'oggetto che viene ritagliato dalle capacità linguistica proprie di una disciplina. Così dell'oggetto di studio "educazione" la psicologia studia i comportamenti che in essa vengono impiegati dagli operatori in educazione, la sociologia ha capacità di elaborare quegli aspetti dell'educazione che dipendono dalla presenza dei soggetti nel gruppo sociale, e così via. Perciò si hanno discipline globali e discipline settoriali: la medicina incorpora l'anatomia e la fisiologia, l'ingegneria incorpora l'algebra e la meccanica razionale. La medicina studia l'oggetto (il corpo umano dal punto di vista della salute) e così l'ingegneria ha per oggetto la casa. L'anatomia elabora un'unità di indagine (la struttura del corpo umano) e così la meccanica razionale (il comportamento delle parti fisiche della casa). Ciò che in una disciplina di base è unità di indagine per la disciplina globale rientra nell'oggetto di studio. Naturalmente, poiché‚ ogni disciplina a sua volta impiega altre elaborazioni teoretiche settoriali, ciò che è stato chiamato unità di indagine diventa a sua volta oggetto di studio se considerato in riferimento ad altre sottospecificazioni. Così per l'educazione (oggetto di studio della pedagogia) la sociologia studia l'unità di indagine dell'appartenenza al gruppo. Ma questa unità diventa oggetto di studio quando si elaborano le opinioni di gruppo statisticamente: allora la sociologia ha per oggetto di studio le opinioni di gruppo e la loro elaborazione statistica diventa un'unità di indagine. In generale: si può definire perciò oggetto di studio ciò che una disciplina elabora direttamente, mentre si chiama unità di indagine ciò che è considerato un settore rispetto ad un complesso che ad esso è superiore. Una disciplina elabora direttamente il proprio oggetto di studio ed obliquamente i molti settori, le molte unità di indagine in esso contenuti. Ciò che in anatomia è oggetto di studio diventa unità di indagine per la medicina, ciò che è oggetto di studio in meccanica razionale od in teoria dei tensori diventa unità di indagine per l'ingegneria, ciò che in sociologia è oggetto di studio diventa unità di indagine per la pedagogia. 2-Tutto ciò ha grande rilevanza linguistica, perché‚ sia gli oggetti che le unità vengono chiamate spesso con gli stessi termini. Apprendimento in psicologia ed in pedagogia viene chiamato con lo stesso termine, eppure ha due significati completamente differenti: nell'un caso è un processo (psicologico) dell'individuo-alunno, nel secondo caso è il frutto di una collaborazione (non solo psicologicamente considerata) tra due operatori, educatore ed educando. Così si può dire che la psicologia non studia l'educazione, che in realtà è l'oggetto di studio della pedagogia: occorre precisare che la psicologia non studia l'educazione ma alcuni settori psicologicamente rilevanti dell'educazione, cioè i processi psichici che sono contenuti nell'educazione. La pedagogia, in quanto disciplina globale (pratica) necessita di discipline che ne elaborino i settori fondamentali: essi sono indicati dallo sviluppo storico. E' proprio lo svolgimento del pensiero nel tempo che indica attraverso quali particolar elaborazioni il grande e complesso fatto dell'educazione è stato preso in considerazione dalla speculazione umana, man mano che essa si è svolta nel tempo ed ha ritenuto di dover riflettere su particolari aspetti dell'educazione stessa. Naturalmente, durante lo svolgimento, ogni disciplina di base ha ritenuto di elaborare tutta la conoscibilità dell'educazione, poteva ritenere di studiare completamente tutta l'educazione, mentre i tempi successivi si sono incaricati di dimostrare che se ne aprivano alla conoscenza umana anche altri aspetti . Oggi si può pensare che le discipline di base (come metodiche del pensiero) cui si deve far riferimento per la costruzione di un pensiero pedagogico sono le discipline storiche, le filosofiche, le empiriche e le linguistiche. 3-Sulla base dell'appoggio e del riferimento che la globalità del pensiero pedagogico si costruisce, operando sulla composizione delle discipline di base, si possono rilevare differenti tipi di pedagogia. Una pedagogia può preferire l'impiego di ritrovati filosofici piuttosto che psicologici, o viceversa. Questa è la considerazione più elementare che vien fatta oggi, parlando di una pedagogia filosofica, o psicologica e così via. Naturalmente risulta evidente come queste dizioni siano del tutto approssimative ed imprecise. Se ne riparlerà trattando della differenza tra pedagogie dedotte e descriventi (parte 2.3.1.1.). 4-Se la pedagogia si fonda sulle discipline di base, e queste non sono studio monocorde e fondato su monoverità ma si articolano in correnti di pensiero che esprimono opinioni differenti tra loro, ne consegue che la pedagogia non può non incorporare le correnti delle discipline di base. Se in psicologia si hanno behaviorismo, gestaltismo e psicoanalisi, ne consegue che pure in pedagogia si avranno delle correnti pedagogiche che a quelle opinioni faranno riferimento. 2.3.2 la pedagogia La pedagogia durante il percorso storico ha cambiato il suo contenuto. Da semplice pensiero sull'educazione è arrivata alla sua fase linguistica accumulando capacità di letture successive. Queste letture danno luogo all'interdisciplinarità. Attualmente il termine è sotto processo per una sua presunta incapacità a reggere l'insieme delle ricerche (dall'analisi degli apprendimenti scolastici alle conseguenze di educazione di gruppo, dall'educazione degli svantaggiati alla cultura musicale). Si è perciò pensato di far riferimento alle singole scienze in cui l'antico termine "pedagogia" si articola, nella convinzione che questo sia un approccio più prossimo ai singoli oggetti di indagine. 2.4 dovuto allo spessore teoretico Si vogliono indicare i tre momenti in cui appare il pensiero pedagogico: quello applicato, contenutistico e formale. 2.5 dovuto alla collocazione nel tempo Si parla di pedagogia diagnostica e prognostica. 2.6 dovuto alla complessità del rapporto:proprietà emergenti L'imporsi della teoria del rapporto sulla teoria personalistica in pedagogia si deve alla constatazione che c'è mai cambiamento in un educando cui non corrisponda un cambiamento di un educatore. Ma ancora più che questi due cambiamenti avvengono in un'unità operativa che ha non solo una sua dimensione ma anche un suo divenire, un progettarsi, una finalizzazione ch'e diversa da quella di ciascuno dei due. In realtà c'è una obiezione che sembra evidente: il concetto di autoeducazione, cioè il fatto di un soggetto che diventa educatore di se stesso. E' semplice rispondere che non si tratta di educazione in termini strettamente specifici. Non c'è trasmissione del patrimonio di cultura. Vale il discorso di Tommaso d'Aquino, per cui uno non può esser maestro di se stesso, altrimenti dovrebbe contemporaneamente sapere per potersi insegnare e non sapere per poter apprendere. L' autoeducazione è una forma di inventio, non di disciplina-doctrina. 2.7 dovuto allo scopo prefisso: teorico e pratico 2.7.1 dominanza dell'educatore Una delle consuetudini più diffuse e meno criticamente vagliate sta nel ritenere che il pedagogista faccia educazione. Il pedagogista non fa educazione, semplicemente la studia. Sono gli operatori educativi che operano all'interno dell'evento educativo, e questa situazione li rende primariamente responsabili della riuscita o dello scacco dell'evento. Questa considerazione potrebbe esser intesa come una limitazione dell'opera del pedagogista, come una sua riduzione di potere nel settore: ma le cose non stanno diversamente. E' facile dover distinguere tra una educazione pensata ed una storicamente operata, con un cambiamento di livello interpretativo che rende sommamente equivoco il termine educazione. Se questa posizione del pedagogista fa stupire quando si leggono testi perentori, in certo modo consente al teorico dell'educazione di non colpevolizzarsi eccessivamente, come dovrebbe avvenire se veramente l'educazione dipendesse da lui. Ne consegue che, se questa è la vera situazione, il pedagogista non ha alcun "diretto" elemento per individuare la relazione tra il suo progetto concettuale e l'effettiva operazione educativa. Tutte le sue ricerche di verifica sono rintracciabili in una corretta impostazione logica, in una fiducia negli operatori educativi ed in una capacità di rilevazione degli esiti che sia molto equilibrata. Si fonda qui tutta la difficoltà di parlare di pedagogia sperimentale. Il punto è talmente grave che si è pensato alla ricerca-azione come allo strumento che potesse in qualche modo individuare la correttezza della pedagogia: sarebbe buona pedagogia quella ottenuta attraverso la riflessione su un evento educativo che sta avvenendo (cfr. opuscolo del Dirigenti Scuola, aprile 1988). 2.7.2 pedagogista o educatore L'enorme incremento delle pubblicazioni a riguardo dell'educazione (e non sempre appartenenti al territorio della pedagogia) potrebbe far pensare che poche istituzioni sociali devono funzionare meglio dell'educazione. Questa aspettativa implica il convincimento che basti l'incremento conoscitivo per aversi anche il corrispettivo risultato nella pratica. In sostanza: basta che il pedagogista ricerchi e formuli progetti, li presenti all'educatore ed a questi non resta che la semplice operazione dell'applicazione. In realtà non è così. Per usare un'immagine di A. Salvini, il pedagogista è simile al geografo e l'educatore simile al marinaio. L'uno traccia le mappe, l'altro percorre i mari. L'uno non può esistere senza l'altro. Oppure: il pedagogista è simile all'allenatore di una squadra o di un atleta. Egli ne può indicare e persino prescrivere il comportamento ma è poi l'atleta che deve operare per la vittoria. Od ancora, per utilizzare un'immagine di S. Manghi:si può ricordare Alice nel Paese delle meraviglie: si gioca al golf con una mazza ch'è il collo d'uno struzzo e la palla è fatta da un riccio. Si crede di dominare il gioco ma in realtà si usano strumenti che hanno una loro autonomia. Il linguaggio del pedagogista non coincide, anche nella stessa persona, con il linguaggio dell'educatore. Rousseau non aveva un linguaggio educativo adeguato con i suoi figli, e sembra che Dewey fosse d'una noia terribile quando teneva lezione. Così le stesse formule educative, individuate con proposizioni pedagogiche, possono esser messe in mano a differenti educatori. L'uno può esser assolutamente insufficiente mentre un altro può rasentare la genialità: dipende appunto dalla capacità di rapportare la teoria alla storia, nella trasfigurazione storica della teoria. La difficoltà non superabile sta nel pretendere di trattare la storia con le stesse modalità grammaticali della teoria, e questo pericolo fa inciampare molti teorici ma anche molti pratici, che ritengono di poter soltanto "incarnare", "dedurre" la pratica educativa dalla teoria, senza una sua trasfigurazione unica e geniale. Come è difficile saper astrarre i principi razionali dalla concretezza e dalla unicità degli eventi storici, così diventa molto difficile saper ricreare originalmente delle situazioni storiche che interpretino le astrattezze della teoria. In questi casi si rileva che non si è sufficientemente meditato che cosa significhi il termine "strumento" quando si afferma che la pedagogia offre all'educatore strumenti ma non regole. Le regole sono catene oggettive di proposizioni, con valore logico autonomo, valide appunto per tutti gli operatori, gli strumenti invece sono prolungamenti degli apparati operativi di un soggetto umano, e ciascuno se li appropria a suo modo e non al modo della logica della proposizione. Agli effetti della costruzione dei rispettivi linguaggi, si può considerare l'evento educativo come un'entità composita, teorico-pratica, distribuita lungo un arco. Ai due estremi esso è misurabile sotto due profili: -quello della possibile comprensibiltà teoretica -quello della efficacia globale educativa pratica. Il pedagogista ritiene di dover dare delle indicazione all'educatore in quanto ha filtrato l'evento storico con la ragione. (Probabilmente è bene osservare che mancano al pedagogista le zone di operazione prelogica e postlogica). In questo versante la pedagogia precede l'educazione. Perciò si crea un tipo di movimento culturale dal pedagogista all'educatore, con il quale il primo fornisce al secondo notizie da impiegare. E ciò che, conseguentemente, egli propone all'educatore non può che diventare strumento, anche se vorrebbe che fosse regola. Peculiarità: il linguaggio dell'educazione: strumento, non regola. La generica razionalità dell'educatore trova collocazione in contenitori e scomparti disciplinari elaborati dallo studioso. Quando la pedagogia ricostruisce situazioni educative modellistiche (classi scolastiche, discipline di studio, formazione sul lavoro, educazione al tempo libero, educazione degli anziani, ecc.) lo fa riutilizzando quegli scomparti razionali ormai istituzionalizzati e costituiti in strutture disciplinari coerenti, con i quali ritiene di aver interpellato (e forse esaustivamente) l'evento educativo. Come avviene che ciò che dice il pedagogista diventi strumento e non regola per l'educatore? C'è una sorta di circolarità nel meccanismo apprenditivo che prepara l'educatore all'opera di educazione, e riguarda certamente prima il proprio inserimento nel rapporto e poi gli strumenti del rapporto stesso. Egli apprende notizie, le impiega, e con ciò le verifica, ritorna a confrontarsi in base al successo con l'apparato logico esterno cui precedentemente ha fatto riferimento. Come si ha una sequenza circolare teoria-induzione, che opera nella conoscenza scientifica, così si ha alcunché‚ di similmente circolare nell'educatore. Se c'è un luogo ove le sequenze logiche si inseriscono nelle operazioni storiche per diventare operative, questo non è soltanto l'apparato razionale dell'educatore ma in definitiva è quel punto ove anche quell'apparato ha riferimento, e cioè sul momento artistico-operativo dell'educatore stesso. Così, ciò che il pedagogista non potrà mai catturare, con le sue analisi, sarà il momento di unicità, di solitudine e di irripetibilità, e perciò anche di artisticità, che l'educatore inevitabilmente ha incluso nella sua operazione, ch'è di sua natura unitaria, e che si scompone soltanto sotto l'intervento della speculazione razionale del pedagogista. Non è escluso che proprio nella dichiarazione di morte della pedagogia ci sia un'inconscio linguistico: "poiché‚ la pedagogia non è rappresentabile con il tipo di linguaggio che io inconsciamente desidero che ci sia essa non esiste, oppure è morta." A sua volta questo discorso può essere analogicamente riportato per il problema della morte di Dio. Questo può dipendere da un mio inconscio linguistico. E' opportuno osservare i pedagogisti che si trasformano in educatori ed educatori, viceversa, che raccontano se stessi diventando (più o meno) pedagogisti: Rousseau, Pestalozzi, Tolstoi, Makarenko, Sorelle Agazzi, don Milani, Mario Lodi, ecc. (cfr. Dolch p.37,87,93,108). Esiste la possibilità di una ricerca di una logica del linguaggio pedagogico, Questo è molteplice perché‚ esistono tanti tipi di ricerca, ciascuno dei quali ha una sua presentazione linguistica. Il linguaggio della pedagogia perciò non è conchiuso in una formulabilità ma è aperto alle varie presentazioni delle ricerche compiute dalla pedagogia. 1- Solitamente si ritiene che quanto più l'evento educativo è razionalmente comprensibile e tanto più è efficace. Per questo si giustificano gli studi che su di esso vengono compiuti. In realtà occorre distinguere i due momenti, quello della conoscibilità teoretica e quello dell'operazione concreto-storica (e si hanno due definizioni di pedagogia: contenutistica per il teoretico e applicata per il pratico). Il genio culinario o militare ottengono risultati che possono sembrare sproporzionati alla comprensione razionale, analitica dei rispettivi eventi. 2- Al limite si può ritenere che si possa avere un forte (o fortissimo) interesse per la comprensione razionale, esaurendo in essa le aspettative per il risultato educativo. In questo caso quanto più si capisce e tanto meno si ottiene. 3- Da quanto detto si dovrebbe dedurre che una comprensione pedagogica non è vera conoscenza utile se non si traduce in efficacia operativa. L'aspetto teoretico-conoscitivo è strettamente funzionale a quello storico-operativo, altrimenti diventa distorcente in quanto illusorio per l'operatore. La moltiplicazione della produzione verbale non sempre coincide con il vantaggio educativo ed invece, quando oltrepassa una sorta di soglia, diventa ingombro illusorio. Le persone riescono a pascersi di parole che le illudono sulla loro aderenza ai fatti. 4- In questa situazione la forte presunzione di totale comprensibilità dell'educazione si pone come distorcente rispetto alla infinita oscurità dell'oggetto educativo. Voler ricostruire, per operare, l'evento educativo soltanto sulla base di alcune variabili semplicemente perché‚ queste (e soltanto queste) noi conosciamo, diventa anche scientificamente scorretto. 5- Una previa, eccessiva conoscenza si pone come strumento rigido per poter afferrare l'insorgenza di nuove strutture concettuali proposte, e diventa fonte inconscia di ripudio scientifico per una più esauriente conoscenza dell'evento come oggetto teorico-pratico. A questo riguardo diventa utile (se non necessaria) una conoscenza della conoscenza, una critica della critica. 6- La conoscenza può esser diversificante a livello teoretico ed unificante a livello pratico. E' il caso del cosiddetto (e spesso vituperato) concetto di compromesso, che diventa invece la necessaria formula del verificarsi storico in cui ciascuno dei partecipanti implicitamente ammette di non esser dogmatico. 2.7.3 dinamica dell'educatore Quando il termine "educatore" viene impiegato senza alcuna sua interna variazione rimane del tutto insufficiente ad esprimere ciò che si vorrebbe intendere. Perché ‚ in realtà il termine "educatore" esprime una funzione che è relativa ad un'altra, e cioè a quella dell'educando. Quando questi è infante, l'educatore decide le sintesi operative che regolano il comportamento dell'educando: egli stabilisce quando il bambino deve mangiare, esser pulito, riposare e così via. A mano a mano che le capacità del soggetto aumentano, non soltanto aumentano le capacità stesse ma anche lo strumento generale che sta alla loro base e che serve per gestirle, fino al punto in cui l'educando può decidere sulla sintesi globale del proprio comportamento. Si dice (Durkheim) che l'individuo è passato dall'anomia all'eteronomia e finalmente all'autonomia. Ci si chiede allora se il compito dell'educatore nei confronti dell'educando è del tutto finito. Non dovendo più operare sintesi che siano di pronto impiego per l'educando sembrerebbe che appunto l'educatore non c'entrasse più. Invece l'educatore rimane sempre presente, ma sotto una nuova forma. Egli rimane in termini esemplari, come chi propone dei modelli di capacità di sintesi che possono risultare illuminanti per l'alunno. L'educatore, nella sua configurazione di base, ha due momenti: capire come devono andare le cose e collocare questa comprensione nell'alunno. Il primo aspetto è primariamente teoretico ed il secondo è a fini operativi. Il primo aspetto l'educando se lo appropria attraverso lo sviluppo, ma non è detto che l'educatore gli consenta di fare ciò che egli (educando) ha già capito. Non è difficile trovare che l'educatore pretende di entrare anche nella effettuazione pratica dell'evento pure quando l'alunno potrebbe fare da solo, perché‚ ha già appreso a far da solo. Ora, mentre se l'adulto pretende di imboccare il bimbo (quando questi vuole già manovrare il cucchiaio da solo) viene respinto, spesso nell'adolescenza il conflitto che si genera tra educatore ed educando sorge proprio perché‚ l'educatore vuole imporre le proprie sintesi (che riguardano l'educando) all'educando stesso. L'adulto vuole vivere due volte: la propria vita e quella dell'alunno. Questa spiegazione dovrebbe servire per comprendere ciò che avviene quando sembra che il rapporto sia terminato: in realtà serve anche (e fondamentalmente) per capire la dinamica del rapporto nel mentre questo sta avviandosi alla soluzione. Cioè: l'interno meccanismo del rapporto è dinamico, cominciando con una presenza dell'educatore che è operativa delle sintesi all'interno dell'alunno, per finire lentamente attraverso l'assunzione da parte dell'alunno della capacità di organizzare responsabilmente (autonomamente) quelle attività che prima invece avvenivano per l'interiorizzazione che l'educando operava nei confronti dell'educatore. In sostanza: la vera funzione dell'educatore consiste nel mostrare delle sintesi vitali all'educando, e questi deve imparare non soltanto una ripetizione delle altrui abilità ma deve apprendere delle capacità autonome di organizzare la propria personalità, ch'è nuova ed originale, e perciò non può esser dettata da nessun esterno, per quanto amorevole esso sia. Per questo occorre che fin dall'inizio l'educatore continui a credere alla irripetibilità della propria sintesi umana, sia per non rimaner deluso quando altri non vorranno recepirla per loro sia per poter continuare a proseguire quando il suo ruolo di educatore è venuto a cessare. L'educatore è un progetto che si realizza, ma si realizza sia come persona e sia come ruolo. Mentre la prima realizzazione non finisce mai la seconda termina con la fine del ruolo. L'educatore continua ad esser per l'alunno una persona che sa stare al mondo, come già gli aveva fatto implicitamente capire quando aveva cominciato il rapporto educativo. Ed era questa la giustificazione e la fondazione reale dell'aiuto che aveva cominciato a prestare. 2.7.4 riflessioni d'attualità storica E' di comune constatazione che attualmente si è in una fase storica in cui si ha una dominanza della ragione strumentale rispetto a quella argomentativa. Lo studio dei mezzi di produzione non è adeguatamente accompagnato da uno studio dei fini della produzione stessa. "Propter vitam, vivendi amittere causas" dicevano gli antichi:a causa delle cure del vivere ci si dimentica di chiedersi le ragioni profonde. La moltiplicazione degli studi di informatica, di biogenetica, ma in genere di tutte quelle ricerche che in qualche modo reduplicano l'attuale situazione culturale, cioè che spingono la crescita in tempo reale delle attività del pianeta Terra, attirano talmente l'attenzione e l'attività del genere umano da non consentirgli la fase contemplativa. Ciò che per gli antichi era l'attività primaria, l'otium, negato appunto dal negotium, oggi non solo sembra diventata a livello pubblico secondaria, ma addirittura trascurata. Sarebbe facile osservare che, se è vero che pubblicamente la ricerca sui fini della vita sembra negletta, questo non avviene per il singolo, che nasce ad ogni generazione con una sua esigenza di completezza mezzi-fini. Ma è pur vero che l'impiego delle risorse è incredibilmente sbilanciato, per cui il singolo individuo si trova sottoposto ad una suggestione sproporzionata di offerte. Si potrebbe osservare a quali dimensioni sia ridotto il problema del lavoro. Questo ormai è appiattito sul profitto, e viene a mancare di quella composizione tra teoria e pratica, tra creatività e normatività, tra logica e manualità che un tempo costituiva il lavoro com'era inteso, ad esempio, dal Pestalozzi. Se il lavoro è ridotto ad essere un'occupazione di ore di una vita venduta ad altri per ottenere una merce di scambio che si chiama moneta per ricostruire una sopravvivenza è difficile attribuirgli un grande significato umano. In pedagogia la prevalente (e talora prevaricante) offerta strumentale diventa palese nel rapporto tra pedagogista ed educatore. L'educatore tende a richiedere ricette di pronto impiego e possibilmente di sicuro successo. Ma se il successo dipende dalla ricetta e non dall'impiego che l'educatore ne fa significa che l'educatore stesso viene svuotato della sua responsabilità e con ciò anche della sua creatività. Di fronte all'incoerenza di questo sistema l'educatore tende a comportarsi come meglio può, il che, tradotto in termini teoretici, significa negare la pedagogia, affermare la propria responsabilità anche nell'acquisizione delle fonti interdisciplinari, rompendo quell'equilibrio epistemico che dovrebbe essere la prerogativa fondamentale dell'offerta teoretica della pedagogia. Il pedagogista, per conto suo, si vede scotomizzato ed inutilizzato nel processo di formazione della teoria educativa, e con ciò vede negata la fondazione della propria identità, con perdita secca del proprio ruolo.