60 Panorama
Panorama Impos - Prima - Ultima.indd 2-3
Anno LVI - N. 15- 15 agosto 2009 - Rivista quindicinale - kn 14,00 - EUR 1,89 - Spedizione in abbonamento postale a tariffa intera - Tassa pagata ISSN-0475-6401
Panorama finale
Panorama
Panorama testi
www.edit.hr/panorama
La mappa
di Capodistria
ha 390 anni
Panorama 1
12.8.2009 12:07:08
Panorama testi
Roberto Kusterle
Fabio Bolinelli
Roy Leutri
Silvio De Blasio
La galleria all’aperto
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Panorama Impos - Prima - Ultima.indd 4-5
«Vedere oltre»
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con “Pieces of the All“ (R
Roy è cresciuto e si è formato neglii USA, specializzando grafica e comun
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pubblicitaria e maturando esperienzee di gr
grafico
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varie compagnie pubblicitarie), nonché Sillvio De Blasio
(nato nel 1967 ad Aviano) co
on “Wives“,, che
h è anche il titolo del suo primo libro fotografico. Inoltr
t e ci sono stati incontri con Elio Ciol e Alessio Alessandrini (Un Libro, un
Fotografo), Ma
M rio Vidor, Silvio De Blasio e Sergio Scabar,
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in Italia, dalle origini ai nostri giorni, con
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da Gianfranco Arciero.
Roy LaGrone
Panorama 59
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In primo piano
Vecchia e ingiusta ma di facile applicazione la ricetta del Governo
Gente, siamo in crisi, aiutateci
di Mario Simonovich
Q
uella parte dell’opinione pubblica che considerava il Governo croato un carrozzone
lento, obsoleto e tardo, ha in questi
giorni parecchi motivi per ricredersi.
Complice forse anche la volontà della premier di fresco conio di mostrare di essere intrinsecamente diversa dal precedessore al quale, in tutti
questi anni, pareva spasmodicamente tesa ad uniformarsi, ora, si direbbe,
l’azione anticrisi si dispiega a sirene
spiegate, di giorno in giorno, anzi di
ora in ora.
Fra gli elementi che emergono in
quest’azione, il più evidente, si direbbe, è l’assioma sulla consistenza
del problema. Con una disinvoltura
più unica che rara, dal paternalistico
“non preoccuparti popolo, ci siamo
noi”, siamo passati al confidenziale “ragazzi, la cosa è seria, ce la dareste una mano?”. Non manca, come
da tempo succede da queste parti, il
grottesco: a propinarci l’esatto contrario di quel che ci ha fatto trangugiare a forza fino a qualche settimana
è - escluso l’egocentrico comandante e qualche componente, a conti fatti, assolutamente secondario - la stessa squadra. Quella che ci assicurava
all’unisono che chiunque vedesse le
cose da una prospettiva non si dirà
nera, ma anche solo grigia, era un uccellaccio del malaugurio da ridurre
subito al silenzio. E poco importa che
nella categoria s’inserisse una delle
personalità più serie e qualificate che
la Croazia può vantare, Željko Rohatinski, governatore della Banca nazionale. Chi rilegga le cronache di quel
suo circostanziato intervento, noterà subito che il trattamento nei suoi
confronti fu essenzialmente diverso
da quello riservato agli altri “critici”: nessun segmento del potere si azzardò a prenderlo di petto, segno che
“gli addetti ai lavori” sapevano bene
quanto “il cantiere” fosse pericolante e i puntelli esili. L’intervento ebbe
anche un altro effetto: fece conoscere
ad un pubblico molto più vasto che i
problemi erano di una dimensione e
profondità molto maggiori di quanto
sostenevano i maggiorenti, insomma
che si profilava quella crisi che allora
essi negavano con lo stesso vigore di
cui danno prova oggi nel mettercela
sotto il naso.
Finalmente tutti d’accordo allora,
la crisi è qui. Chi pagherà? Con particolare “senso d’equità”, il Governo si
è mosso facendoci capire subito che
essa si limiterà a sfiorare quella parte
della popolazione che, se numericamente esigua, è in compenso la più
ricca e, in parallelo, potente. In senso lato, si tratta della categoria a cui
fanno capo quelle famose duecento
famiglie a cui il defunto presidente
amava riferirsi non solo a parole ma
anche inserirsi a tutti gli effetti, come
testimoniato dal patrimonio di tutto
rispetto che era riuscito a raggranellare in un decennio scarso.
Sarà che un domani potranno essere chiamati a contribuire anche costoro, ma di certo per ora possono starsene tranquilli. Se ci avete fatto caso,
le prime “misure anticendio”, varate con invidiabile rapidità in un paese in cui, ad esempio, anche solo per
avere giustizia da un tribunale in una
causa di lavoro, servono tempi biblici, puntano tutte sulla “solidarietà”,
deliberata - siamo in un poese civile
che aspira a entrare in Europa, no? su ineccepibili paragrafi di legge. In
altri termini, basta dare un’occhiata
alle aliquote di prelievo dalle paghe
per capire che saranno gli strati meno
abbienti a pagare ancora una volta
per le “finanze allegre” perseguite finora dalla compagine governativa,
spalleggiata dai capitalisti d’assalto,
divenuti tali in quegli “anni di fuoco”
in cui migliaia di uomini, allontanati dai posti di lavoro, erano tenuti in
stato d’allerta per fronteggiare quella
minoranza che, a sua volta aizzata da
caporioni violenti non meno che protesi all’utile personale, si era impantanata in un sogno di irrazionalità e
sopraffazione, le cui conseguenze si
faranno sentire molto più a lungo di
quanto uno possa pensare.
Nel frattempo prepariamoci a stare peggio. ●
Costume
e scostume
Turisti,
a lezione
di croato!
Tutto è cominciato con la
pioggia torrenziale che, in barba
ai progettisti, a Pola ha ampiamente superato le capacità dei
bacini di trattamento di Valsaline, con la conseguente trasformazione del mare in una cloaca,
proprio di fronte a spiagge più
frequentate. L’azienda comunale preposta ha informato tutti i
soggetti competenti (i giornali
ne elencano sette) ed anche i bagnanti, fra l’altro con dettagliati avvisi nei siti balneari. Dettagliati sì, ma di dimensioni risibili, e in parte affissi agli accessi
che, notoriamente, sono, almeno di giorno, aperti, per cui solo
un bagnante particolarmente
curioso sarebbe tornato sui propri passi per leggere quel che
scriveva “dall’altra parte”. E se
poi lo avesse fatto, per intenderlo avrebbe dovuto essere in possesso di un altro requisito essenziale: conoscere il croato, unica
lingua usata per l’avviso. Ora,
passi che a Pola vigono norme
che parlano anche di una certa
cosa chiamata bilinguismo, che
sono state violate ancora una
volta, ci si chiede come soggetti
investiti di pubbliche responsabilità possono anche solo pensare di non fornire un’informazione adeguata a tutti i fruitori
dei loro servizi? Come non vergognarsi di fronte alla giovane
mamma straniera che ha detto
d’averlo saputo per caso dalla
vicina d’ombrellone? Altro che
la nostra calda ospitalità di cui
tanto ci vantiamo, qui è venuto meno anche il più elementare
comportamento civile.
Panorama 3
Panorama
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Panorama
44Panorama
Panorama testi
N. 15 - 15 agosto 2009
Sommario
IN PRIMO PIANO
Vecchia e ingiusta ma di facile applicazione la ricetta del Governo
GENTE, SIAMO IN CRISI, AIUTATECI .. 3
di Mario Simonovich
ATTUALITÀ
Il presidente Stjepan Mesić ancora una
volta fa valere il diritto di portare il
Governo alla Corte costituzionale
TASSA ANTICRISI, NUOVO
SCONTRO ISTITUZIONALE ........ 6
CON I CANTIERI CROATI IN VENDITA
UNA PARTE DELLA COSTA? .............. 6
Il padre spirituale dei veggenti, fra Tomislav Vlašić, messo sotto accusa dal Papa
CROLLA IL “MITO” DI MEĐUGORJE .. 8
a cura di Bruno Bontempo
ETNIA
Mauro Horvat, presidente di turno del
Consiglio d’Amministrazione dell’AINI
CRISI: DATI CONFUSI
PREVISIONI AZZARDATE ......... 10
Antonella Degrassi, funzionario dell’AINI, illustra meccanismi e difficoltà
ECONOMIA E CULTURA
HANNO TEMPI DIVERSI ........... 12
di Bruno Bontempo
SOCIETÀ
L’UOMO MARCIA VERSO
L’AUTODISTRUZIONE
COME FERMARLO? ................... 18
di Marino Vocci
CINEMA E DINTORNI
MONDO DELLA FANTASIA QUANDO
IL NERO UCCIDE IL ROSA ................... 16
di Gianfranco Sodomaco
ARCHITETTURA
Poco confortante il bilancio delle scelte costruttive che hanno caratterizzato
gli ultimi tempi
ISTRIA: QUALCOSA DI VALIDO
FRA TANTA DETURPAZIONE ... 18
di Maurizio Franolli
ARTE
CRALI, IL FUTURISTA STREGATO
DALL’EBBREZZA DEL VOLO... 22
di Erna Toncinich
ITALIANI NEL MONDO
Come è cambiata, con l’andar degli
anni,la psicologia dei 60 mila che vivono a New York e nel Connecticut
ORIGINI: TANTO DI CAPPELLO
MA NOI SIAMO AMERICANI ... 24
a cura di Ardea Velikonja
MADE IN ITALY
SEASTEMA, NUOVA
JOINT VENTURE ......................... 26
a cura di Ardea Velikonja
REPORTAGE
LA MAPPA DI CAPODISTRIA
HA 390 ANNI.................................. 28
di Ardea Velikonja
LETTURE ISTRIA NOBILISSIMA
“TERRA B” .................................... 34
di Roberta Dubac
LIBRI
Gian Luigi Falabrino: “Kugluf, Cronache
di una marca di confine e altre poesie”
UMANITÀ DOLENTE
IN VERSIONE GIULIANA .......... 38
di Mario Simonovich
TEATRO
Stravolgimento delle goldoniane “Barauffe” ad opera di Vinko e Ivo Brešan
MANIPOLAZIONE INDEBITA
SIA PURE A FIN DI BENE .......... 40
di Sandro Damiani
MUSICA
Woodstock, a 40 anni di distanza
IL SECOLO FINÌ
NELL’ESTATE DEL ‘69... ............ 42
a cura di Bruno Bontempo
SPORT
TOUR 500 SERIES UMAGO
ASPETTA TEMPI MIGLIORI ...... 44
RECORD E SUPERCOSTUMI
ROMA CHIUDE UN’EPOCA ...... 46
CROAZIA DI PALLANUOTO:
UN BRONZO CHE VALE ORO.... 46
a cura di Bruno Bontempo
ARBOREA
LE PIANTE ASCOLTANO,
PARLANO E A VOLTE...
SANNO FAR DI CONTO ..............48
di Daniela Mosena
MULTIMEDIA
NAVIGARE SENZA PAURA (3)... 50
di Igor Kramarsich
RUBRICHE .................................. 52
a cura di Nerea Bulva
PASSATEMPI ............................... 57
IL CANTO DEL DISINCANTO
IL TEVERE, L’ARNO, IL PO, LE ALPI... 58
di Silvio Forza
IN COPERTINA: L’ex Fontico di Capodistria, (foto Ardea Velikonja)
Agenda
Un passo nell’accelerazione delle procedure legate all’attuazione delle leggi in favore della CNI
Firmate le convenzioni MAE-UI e MAE-UPT
C
on tre mesi di anticipo rispetto allo scorso anno sono state
di recente firmate alla Farnesina le
Convenzioni per il 2009 tra l’Unione Italiana e il Ministero degli Esteri, rispettivamente fra l’Università Popolare di Trieste e il MAE. La
Convenzione MAE-UI pesa finanziariamente 950.765 euro, quella
MAE-UPT 2.136.505 euro che verranno erogati per le varie iniziative a
favore della CNI dagli asili alle sedi,
ai libri di testo. Soddisfatto quindi il
presidente del Giunta UI, Maurizio
Tremul, che ha ribadito che “questo
è il primo passo nel processo di accelerazione e la semplificazione delle
procedure legate all’attuazione della
legge 193/04 in favore della CNI”.
Dello stesso parere Silvio Delbello,
presidente dell’UPT, il quale ha ribadito che “questa firma crea delle
ottime basi per la realizzazione dei
progetti programmati a favore della
Comunità nazionale italiana”. Questa è stata pure l’occasione per i vertici dell’UI e dell’UPT per conoscere il nuovo direttore della direzione
generale Europa del MAE, l’ambasciatore Mario Bova, che è stato ambasciatore italiano in Giappone. ●
L’eurodeputato italiano Antonio Cancian ha incontrato i vertici dell’etnia
Favorire l’unitarietà della Comunità nazionale italiana
Q
uanto più gli italiani della Croazia e della Slovenia faranno
parte delle stesse istituzioni sovra-
nazionali tanto più potranno considerarsi uniti. Lo ha detto il presidente dell’UI, Furio Radin, nel corso del recente incontro avuto a Pola
con l’eurodeputato italiano Antonio
Canciani parlando dei problemi legati alla comunicazione e ai rapporti tra le istituzioni della CNI, quelle
italiane e dell’Unione Europea, rapporti che miglioreranno certamente
quando la Croazia entrerà a far parte della famiglia dell’UE. Tra gli altri
temi all’ordine del giorno dell’incon-
tro, tenutosi a porte chiuse, è stato
toccato pure quello dell’Euroregione
Adriatica attraverso la quale la CNI
può presentare i propri progetti per
l’ottenimento dei fondi di preadesione. Maurizio Tremul, presidente della Giunta UI, ha ribadito, in merito
al riconoscimento della cittadinanza
italiana agli studenti della CNI, che
è necessario accelerare le procedure.
L’on. Cancian è stato quindi ricevuto
dal presidente della Regione Istriana,
Ivan Jakovčić. ●
Palazzo Gopcevich ospita l’esposizione fino al 15 settembre prossimo
A Trieste una mostra su Fulvio Tomizza
È
stata inaugurata il 30 luglio
scorso e sarà allestita sino al
15 settembre presso la Sala Attilio Selva di Palazzo Gopcevich a
Trieste la mostra “Fulvio Tomizza. Destino di Frontiera”, promossa dall’assessorato alla Cultura
del Comune di Trieste, nel decimo anniversario della scomparsa
dello scrittore. La mostra, ideata
e realizzata dalla Direzione Area
Cultura - Civici Musei di Storia
ed Arte, intende rendere omaggio
alla vicenda artistica e biografica
dello scrittore istriano vissuto a
Trieste.
L’esposizione ricostruisce la vita
e l’opera di Tomizza attraverso varie tipologie di materiali, dai manoscritti ai libri, dagli oggetti di scrittura e di svago alle fotografie, quasi
tutti di proprietà della famiglia.
Alla mostra sono affiancati un
calendario di visite guidate con i curatori e, nella prima metà del mese
di settembre, un ciclo di sette conferenze su molteplici aspetti dell’opera tomizziana, che, a cura di docenti
delle Università di Trieste e Venezia
e di esperti di più settori disciplinari, si terranno nella sala Bobi Bazlen
di Palazzo Gopcevich. ●
Panorama 5
Attualità
Il presidente Stjepan Mesić ancora una volta fa valere il diritto di portare il Gove
Tassa anticrisi, nuovo scontro ist
a cura di Bruno Bontempo
D
opo che il Sabor ha dato il via libera alla tassa anticrisi, che prevede un prelievo tra il 2 e il 4 per
cento sulle pensioni e gli stipendi superiori alle 3 mila kune, ed ha deciso l’aumento dell’aliquota dell’imposta Iva,
passata dal 22 al 23 p.c., il presidente
Stipe Mesić si è rivolto alla Corte costituzionale per far valutare la costituzionalità della legge, dopo che si era rivolto alla stessa istanza per la verifica della
legge sulla fecondazione assistita.
Questa legge è stata varata come
misura provvisoria: l’imposta anticrisi, come l’ha chiamata il Governo della
neopremier accadizetiana Jadranka Kosor, verrà applicata a partire dal primo
agosto e resterà in vigore fino alla fine
del 2010, mentre l’Iva al 23 p.c. potrebbe durare molto più a lungo. Sono state introdotte anche nuove tasse sul lusso
e sui dividendi delle azioni. Il Governo
ha deciso pure di rallentare il ritmo della
costruzione di alcune infrastrutture stradali. Nonostante ciò, in un budget di circa 17 miliardi rimarrà un buco di quasi
due miliardi di euro: le contrazioni nelle spese pubbliche sono minime, ma si
punta all’aumento degli introiti grazie
in primo luogo all’aumento dell’Iva e
l’imposizione della tassa anticrisi.
La serie di misure intraprese dal
Governo parallelamente alla terza revisione del bilancio, dovrebbe consentire alle fiaccate casse statali di rastrellare circa tre miliardi di kune, ridare una certa stabilità alle finanze
pubbliche e migliorare il rating creditizio della Croazia. Due settimane prima erano stati rivisti per la seconda
volta i conti, ma quella revisione era
stata bocciata dall’agenzia di rating
Standard&Poor’s, che l’aveva giudicata insufficiente. Stando alle previsioni dell’agenzia, il Pil croato quest’anno farà registrare una contrazione pari
al 5 per cento. Preoccupante poi è la
stima del trend del rapporto deficit-Pil:
nel 2009 si dovrebbe attestare al 4 p.c.
per passare quindi al 4,5 p.c. nel 2010.
Gli analisti ritengono inefficace l’azione del Governo nel contenimento del
debito pubblico. Negli ultimi tempi,
diversi economisti hanno suggerito a
Zagabria di rivolgersi al Fondo monetario internazionale per far fronte
alla crisi, ma il ministro delle Finanze,
Ivan Šuker, sinora si è trincerato dietro
il no comment su una possibile richiesta di aiuto.
La proposta governativa, ovviamente, non è stata ben accolta dalle organizzazioni sindacali, che hanno annunciato una serie di manifestazioni di
I premier Pahor e Kosor
protesta per il prossimo autunno, ma
alcune sono previste già per le prossime settimane. L’Associazione sindacale croata ha bocciato qualsiasi ritenuta ai danni dei lavoratori e dei pensionati, invitando il Governo ad essere
più razionale nelle spese e a rinunciare
a mastodontici progetti infrastrutturali,
come ad esempio il ponte di Sabbioncello (Pelješac), in Dalmazia, del costo di oltre 300 milioni di euro, inve-
Con i cantieri croati, in vendita una parte della costa?
I
l potenziale acquirente preferito del Governo croato nella privatizzazione dei cinque cantieri navali statali è l’imprenditore Danko Končar, che sembra aver venduto le sue
miniere di cromo in Sud Africa e una quota significativa
nella sua filiale di Londra Samacom, allo scopo di aumentare i fondi per il loro acquisto, e probabilmente per tutti e
cinque. La sua adesione protrebbe vedere la consegna di
un’offerta al primo turno, acquisendo così l’intera partecipazione. Al contrario per acquisire l’Uljanik di Pola, che è
il sesto cantiere, potrebbe offrire delle condizioni speciali
entrando nel consorzio. Končar sembra possa contare sul
sostegno del premier Kosor e del ministro dell’economia
Damir Polančec, che potrebbe dare una consulenza per la
creazione di un consorzio di armatori croati e banche. La
Atlantska plovida di Ragusa (Dubrovnik) ha smentito, per
il momento, ma i negoziati sono in corso, considerando che
6 Panorama
è stato lo stesso Polančec a trovare un accordo sul modello
di privatizzazione con l’Unione europea.
Per quanto riguarda le condizione di mercato, Brodosplit
(BSO) sarà venduto al prezzo di 18,16 milioni di euro, Brodotrogir, Kraljevica, 3. maj di Fiume e il cantiere navale di
Spalato saranno sottoposti invece a condizioni speciali, ossia per il valore di 1 kuna con l’obbligo di massicci investimenti e la conservazione dei lavoratori. Il cantiere Uljanik
di Pola, invece, sarà privatizzato per il 59,25 per cento di
azioni al valore nominale di 300 kune per azione, e il 25 per
cento sarà riservato alla vendita a favore dei dipendenti.
“C’è la possibilità che vendendo i cantieri vendiamo
anche una parte della costa” ha dichiarato il Segretario di
Stato presso il Ministero dell’economia, Leo Begović, aggiungendo però che “dopo intavoleremo delle trattative con
l’acquirente per riprenderci la costa”. ●
Attualità
erno alla Corte costituzionale
tituzionale
stimento che è stato sospeso soltanto in
un secondo momento.
Particolarmente critici nei confronti del Governo sono stati i rappresentanti dei pensionati, il cui unico parlamentare, Silvano Hrelja, è uscito dalla
coalizione di Governo per manifestare
il suo malcontento. Va rilevato che il
balzello anticrisi del 3 p.c. risparmierà
853 mila ex lavoratori, con mensilità
inferiori alle 3 mila kune, ma dovrà invece essere pagato da almeno 225 mila
pensionati, i cui rappresentanti hanno
chiesto alla Kosor, tra le altre cose, di
eliminare le cosiddette pensioni privilegiate, che concernono ex parlamentari e funzionari statali.
Dal fronte interno a quello di politica estera. Secondo indiscrezioni
(smentite dalla Kosor), il Governo potrebbe abbandonare l’attuale atteggiamento sui negoziati di adesione all’Ue,
ritirando i documenti che pregiudicano
la questione del confine con la Slovenia. Che, a sua volta, rinuncerebbe al
blocco dei negoziati senza porre limiti alla metodologia di risoluzione finale. La Croazia potrebbe così abbandonare la sua posizione secondo cui solo
l’Unione europea è in grado di determinare quali sono i documenti che pregiudicano la linea di frontiera, concedendo un compromesso sulla possibilità che anche la Slovenia partecipi alla
sua documentazione. Allo stesso tempo, potrebbero proseguire i negoziati
con l’Unione europea e, infine, risolvere il caso dinanzi ad una Corte di arbitrato, il cui giudizio dovrebbe basarsi sul principio di giustizia o del diritto
internazionale.
Tale accordo sarebbe stato raggiunto, secondo alcune indiscrezioni,
nel corso del primo incontro tra Jadranka Kosor e il premier sloveno Borut Pahor, a Trakošćan, al termine del
quale è stato annunciato ufficialmente
solo che si è aperto uno spiraglio sul
prosieguo dei negoziati, senza fornire alcun dettaglio sulla strategia che le
parti intendono intraprendere. Benché
il ritiro dei documenti controversi rappresenti una concessione della Croazia, anche la Slovenia ha mostrato una
certa apertura a concludere un accor-
È scomparsa Savka Dabčevic-Kučar
L
a crisi del modello federale e la fine dell’unità iugoslava ebbero i loro
germi in un’iniziativa apparentemente marginale. Intorno al 1967
un’antica accademia letteraria croata, la Matica Hrvatska, iniziò a pubblicare il periodico “Kritika”, dalle cui pagine emergeva una serrata critica revisionista. Al centro di questa critica stava, come è facile immaginare, la
condizione delle minoranze croate nella Repubblica Federale e la specificità del carattere croato. Inoltre, le forze produttive in Croazia lamentavano
una limitata autonomia e auspicavano un sistema bancario decentrato, oltre
alla possibilità di mantenere entro i confini il capitale prodotto dal turismo.
Sull’onda di alcune forze nazionaliste, prese il via una crisi essenzialmente
culturale. I fermenti nazionalisti, cosa abbastanza singolare, trovarono una
certa complicità non solo nella società civile, ma anche nelle istituzioni locali del regime. In Croazia i responsabili del partito e del Governo, Savka
Dabčevic-Kučar e Mirko Tripalo, non furono estranei a questo fenomeno.
Ovviamente, Tito non stette a guardare e calò la scure. Gli “anti-marxisti”
e “filo-occidentali” croati vennero epurati dal partito, gli arresti scoccarono, la ribellione fu silenziata in breve tempo e la nuova leva dirigenziale
più liberale fu esautorata. Savka Dabčević-Kučar, che era stata partigiana e
“quadro fidato”, fu espulsa dal partito e dall’università e, da grande esperto di economia, costretta a un lavoro umile fino al pensionamento avvenuto
nel 1973. Tornò in politica nel 1990, sia pure dopo parecchi tentennamenti
(“Non è ancora il momento...”), per fondare poi il Partito Popolare Croato
(HNS). Battuta da Tuđman alle presidenziali (1992), lasciò definitivamente
la politica nel 1995. Si è spenta a 86 anni, molto amata e considerata ancora
la più importante donna dell’universo politico croato. ●
do, forse in seguito alle presunte pressioni degli Stati Uniti. Tuttavia Pahor
ha detto che, dopo il ritiro del premier
Sanader, sarà più facile lavorare con la
Kosor, anche se non ha alcuna esperienza nei rapporti diplomatici, e che
dopo questa riunione la Slovenia sarà
presto in grado di sbloccare i negoziati di adesione della Croazia. Il Ministero degli Affari Esteri sloveno ha definito queste tesi “congetture giorna-
listiche”, ma i media sloveni hanno
scritto di un accordo di gestione congiunta del Golfo di Pirano, che sarebbe posto sotto la giurisdizione di due o
più Paesi. La “gestione condominiale”
sarebbe una soluzione per porre fine al
conflitto: la Croazia non avrebbe perso il territorio, la Slovenia avrebbe ottenuto il libero passaggio per le acque
internazionali e avrebbe esteso il territorio per la pesca. ●
Panorama 7
Attualità
Il padre spirituale dei vegg
Crolla il «
E
Centomila spettatori e indotto record per i concerti degli U2
Zagabria tra rock e business
T
he Claw si rifà alla forma del Theme Building dell’Aeroporto internazionale di Los Angeles, ma prende spunto pure dalla Sagrada Familia
di Barcellona. Come tale chiesa, progettata da Gaudì, vuole essere un simbolo per la venerazione, così anche questa struttura vuole essere, come la
musica, un inno verso Dio e le persone a cui teniamo. Lo ha spiegato Bono
Vox, nome d’arte di Paul David Hewson, cantante irlandese e frontman della leggendaria band rock degli U2, che nell’ambito delle 44 date dell’U2
360° Tour mondiale ha dato spettacolo a Zagabria. Facendo il pieno per due
serate, per un totale di oltre centomila spettatori al Maksimir, gli U2 hanno
prodotto un autentico boom di presenze straniere, per la gioia di alberghi,
negozi, ristoranti della capitale croata e un giro d’affari tra i 5 e gli 8 milioni
di euro. A differenza delle due precedenti tournée, l’Elevation e il Vertigo
Tour, che erano partite dalle arene indoor, questa volta gli U2 hanno scelto
gli stadi all’aperto delle principali città europee e nordamericane. Il nome
del tour prende spunto dal design a 360° della struttura del palco, ribattezzato The Claw, cioè l’artiglio, sistemato più verso il centro dei campi da gioco
rispetto alla consueta posizione. Il palco ha una base larga 56 metri e il pennacchio centrale si estende in altezza fino a 50 metri. La struttura non ha un
fronte e un retro ben definiti ed è completamente circondato dagli spettatori.
Il piano comprende inoltre un maxi schermo cilindrico che all’occasione è
anche possibile allungare. ●
Paul David Hewson, in arte Bono. In alto: Maksimir esaurito per gli U2
8 Panorama
sce di scena, portandosi dietro
la minaccia di scomunica da
parte del Papa e le accuse infamanti di eresia, manipolazione delle
coscienze, misticismo sospetto e persino sesso con una suora, il francescano Tomislav Vlašić che nel 1981 pubblicò il fenomeno Međugorje in qualità di padre spirituale dei sei ragazzini
che improvvisamente cominciarono a
riferire di vedere ogni giorno la Madonna. Fra Vlašić non ha aspettato
di essere scomunicato ed ha giocato d’anticipo: ha dato formalmente le
dimissioni nel marzo scorso, anche
se la notizia è trapelata solo di recente. Un brutto colpo per l’immagine di
Međugorje, paesino dimenticato sulle
colline dell’Erzegovina, divenuto agli
inizi degli anni ottanta uno dei santuari mariani più frequentati del mondo,
una calamita per milioni di devoti che
vi si recano nonostante la Chiesa non
l’abbia mai riconosciuto come sede di
eventi soprannaturali. Anzi, il Vaticano ha guardato con l’usuale diffidenza a quelle apparizioni mariane così
puntuali, ogni giorno alle 17, che continuano tuttora, almeno a sentire i racconti dei veggenti, diventati adulti e
sparpagliati in tutto il mondo: più di
40 mila visioni e non sembrano avere fine, come osservò, in una visita ad
Limina in Vaticano nel 2006, l’attuale vescovo della diocesi di Mostar,
mons. Ratko Perić. Le accuse mosse
da Benedetto XVI, attraverso la Congregazione per la Dottrina della Fede,
contro il “padre spirituale” del grande
fenomeno mistico sono molto gravi:
“diffusione di dubbia dottrina (Hose
Rodriges Karbalo, priore dei francescani, avrebbe accennato alla sua iniziativa di creare presso Parma una sua
propria comunità religiosa), manipolazione delle coscienze, sospetto misticismo, disobbedienza verso gli ordini legittimamente costituiti e atti
contro il sextum (contro il Sesto comandamento, che si riferisce all’adulterio)”.
A renderle ancora più fosche vi è
una frase dell’ex dicastero di Ratzinger che ha il sapore di una sentenza: i
peccati di cui è imputato il frate sono
Attualità
genti, fra Tomislav Vlašić, messo sotto accusa dal Papa
mito» di Međugorje
stati commessi “nel contesto del fenomeno di Međugorje”. Per il quotidiano di Sarajevo ‘Dnevni Avaz’ (musulmano) il frate è stato espulso dall’ordine, ma da Roma i francescani negano che il decreto sia mai diventato
esecutivo, in quanto Vlašić (di fronte
alla minaccia di scomunica?) ha chiesto la riduzione allo stato laicale.
Con l’uscita di Vlašić, il santuario mariano chiude un capitolo di storia scandito dai successi e dal fascino
esercitato sui credenti e dai sospetti
suscitati nell’apparato della Chiesa.
Già agli inizi, l’allora vescovo locale mons. Pavao Žanić accusò Vlašić
e gli altri francescani di essere impostori: la Madonna, nelle sue apparizioni ai bambini, non mancava mai di
criticare i comportamenti delle autorità ecclesiastiche del posto e di esaltare invece le gesta dei frati che dal
convento gestivano i pellegrinaggi.
Nel 1984, mentre a Međugorje fioriva il turismo religioso, fra Vlašić
prese carta e penna per autocelebrarsi con papa Giovanni Paolo II come
colui che “attraverso la divina provvidenza guida i veggenti”. La Chiesa
inviò in quegli anni tre commissioni
in loco, che non riuscirono a trovare
nessun supporto alle affermazioni sugli incontri giornalieri con la Madonna; nel 1991 i vescovi dell’allora Jugoslavia sancirono che non si poteva
parlare di “apparizioni soprannaturali
o rivelazioni” e a tutt’oggi il santuario è “sotto giudizio”. Nel 1985, Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede,
aveva proibito ogni pellegrinaggio
ufficiale, diocesano o parrocchiale, al
sito lasciando tuttavia la libertà ai singoli cattolici di recarsi a Međugorje
anche in compagnia di religiosi. Divenuto Papa, Raztinger ha proseguito
le indagini fino al verdetto finale contro il grande regista dell’ultima epopea mistica balcanica.
Negli anni, molti a Međugorje dicono di aver trovato la pace nell’anima, molti di aver trovato consolazione, altri dicono di aver visto migliorare la loro salute, altri ancora affermano di non aver trovato che un
semplice posto come ce ne sono altri.
Ora per la prima volta dalle apparizioni, la Chiesa cattolica ha preso una
posizione drastica che segna un netto
distacco da tutta la faccenda. A fra Tomislav Vlašić è stato vietato di parlare oltre di tali miracoli e fare qualsiasi
dichiarazione pubblica in proposito.
Comunque dagli anni ottanta a
Međugorje ogni anno i fedeli arrivano a milioni. Il credere o non credere all’autenticità dei fatti non cambia questo dato. Il piccolo e povero
paese erzegovese di allora è andato
trasformandosi in un’oasi con ville e
alberghi con ogni comfort, il reddito
medio è salito molto rispetto al resto
Međugorje continua ad essere meta quotidiana di migliaia di pellegrini
Fra Tomislav Vlašić
della Bosnia, ed anche i piccoli veggenti, ormai adulti, pare vivano in
condizioni economiche decisamente
migliori di allora, dopo aver continuato ad essere soggetti alle visioni
ed averne ricevute in numero assolutamente inedito e spropositato rispetto ad ogni evento simile registrato finora. Quelle di Fatima, a titolo
d’esempio, furono ben più esigue di
numero e cessarono in breve tempo.
I piccoli di allora dicevano che
nelle apparizioni gli veniva detto che
la Madonna avrebbe portato la pace.
Purtroppo però furono tristemente
smentiti in capo a pochi anni: la guerra fratricida portò in Bosnia ed Erzegovina, nel cuore dell’Europa, odio
e sete di vendetta. Negli anni anche
i rapporti che il religioso aveva con i
piccoli veggenti erano andati deteriorandosi, pare anche che avesse avuto una relazione stabile con una suora che avrebbe portato addirittura alla
nascita di un bambino: per questo ed
altro ha portato a termine un periodo
di clausura in un monastero presso
L’Aquila, sotto osservazione delle gerarchie, per verificare che le dottrine
che professava fossero o meno in linea con la catechesi ufficiale.
Molti libri sono stati scritti in questi anni da giornalisti ed esperti, tra
cui quelli di Michael Jones, “Inganno
di Međugorje” e “Međugorje: la storia
non raccontata”, pubblicati in America. nei quali si parla di forti collegamenti fra il francescano Vlašić ed un
altro prelato, Jozo Zovko, altro uomo
simbolo di Međugorje, che recentemente si è ritirato sull’isola di Badija,
presso Curzola (Korčula). ●
Panorama 9
Etnia
L’
Associazione Imprenditoriale della Nazionalità Italiana - AINI, attiva dal 2005, ha come obiettivo
la nascita di un network relazionale tra gli operatori economici
italiani, che operano nel Paese e
all’estero, e gli imprenditori della nostra Comunità nazionale in
Istria, Fiume e Dalmazia. Le sue
finalità sono orientate a favorire
lo sviluppo delle piccole imprese e l’aumento della loro presenza sul mercato locale e nazionale, incoraggiando e sostenendo
iniziative di carattere informativo, formativo, promozionale e di
assistenza. Tra le più importanti, l’appuntamento tra gli operatori del settore agricolo con associazioni di agricoltori italiani di provata esperienza svoltosi
a Verteneglio. A Pola si è tenuto
un incontro tra imprenditori connazionali e i rappresentanti delle corporazioni italiane Assindustria, Confcommercio e Confartigianato, con visite conoscitive
dei rappresentanti presenti presso le realtà produttive dei nostri
connazionali, ripetuto poi a Buie
e a Fiume. Presso la Camera di
Commercio I.A.A. di Trieste si è
svolta una presentazione dell’associazione e del potenziale imprenditoriale dei nostri connazionali; un workshop si è svolto a
Umago tra imprese del Nord-est
italiano e aziende delle Regioni
Istriana e Litoraneo-montana ed
è stato raggiunto un accordo con
la Casa di assicurazioni Allianz
per prodotti a quote agevolate
per i soci. L’AINI è stata accolta
nel Comitato consultivo dell’imprenditoria italiana in Croazia,
operante in seno all’Ambasciata d’Italia a Zagabria. Gran parte dei meriti per questi successi vanno attribuiti a Mauro Jurman, presidente dell’Assemblea
dei Soci, uno dei fondatori e il
più attivo in seno all’Associazione, che rappresenta ad ogni evento importante: mantiene i contatti con le Camere di Commercio
e l’UI, nel cui ambito riveste la
carica di responsabile del settore
economia della Giunta esecutiva.
10 Panorama
Mauro Hrovat, presidente di turno del Consiglio d’Am
Crisi: dati confusi, previsi
di Bruno Bontempo - foto di Goran Žiković
Se un malato entra in sala di rianimazione, è in coma, combatte tra
la vita e la morte, i medici in quella
situazione non si preoccupano della
dieta del paziente, di farlo dimagrire se è sovrappeso, di convincerlo a
smettere di fumare: prima di tutto devono evitare nell’immediato di farlo
morire. Ebbene, l’ipotesi che una recessione si trasformi in depressione
e un’economia che rischia di morire, spinge governi e governatori delle banche centrali di concentrarsi sulle misure da intraprendere subito ora,
a volte anche senza avere il tempo di
pensare a quella che potranno essere
la conseguenze, definibili anche come
“danni collaterali”. Un tanto a livello
mondiale, generale, globale. Ma come
stanno le cose nel nostro piccolo universo minoritario, che opera sul territorio e che a fatica cerca di ritagliarsi un suo piccolo spazio? Lo abbiamo
chiesto al cittanovese Mauro Hrobat,
che recentemente ha assunto la carica di presidente (a rotazione) del Consiglio d’amministrazione dell’AINI.
Hrobat da trent’anni si occupa di impiantistica elettrica, oggi nell’ambito
di un’azienda a gestione familiare che
impiega una quindicina di persone e
che si è allargata al settore commerciale, con alcuni negozi di materiale
elettrico.
La crisi economica e finanziaria
sta mettendo in ginocchio il mondo,
non di meno la Croazia e le nostre
regioni. Quante e quali le lesioni e le
alterazioni che ha causato finora al
settore dell’imprenditoria, specie a
quella istriana?
”Sappiamo bene quali momenti stiamo passando, siamo tutti sulla
stessa barca, si combatte giornalmente per sopravvivere... Dagli scambi
d’opinione avuti con i colleghi e dalle considerazioni formulate dai diretti interessati, finora la flessione dei risultati finanziari, nei vari settori, si aggira sul 20 p.c., che è tanto”.
Anche i vertici della Croazia
sembrano essersi accorti, finalmente, della gravità della situazione che
sta investendo il Paese. Che cosa si
aspetta dalle misure antirecessione
intraprese finora dal governo?
”In momenti di crisi fare previsioni economiche diventa alquanto aleatorio. Inoltre, non sappiamo quanto siano reali e attendibili i dati di cui
disponiamo, differenziati per settori,
territorio e dimensioni... Per cui an-
La sede della CI di Cittanova che ospita l’Ufficio operativo dell’AINI
Etnia
mministrazione dell’AINI
ioni azzardate
che qualsiasi anticipazione è resa decisamente azzardata dalla complessità
della situazione. Regna ancora molta
confusione, c’è parecchia disinformazione, i risultati sull’andamento economico sono alquanto vaghi, approssimativi e spesso anche distorti, cambiano di giorno in giorno, per cui è anche difficile fare delle proiezioni che
siano credibili. I problemi si trascinano da tempo, la crisi è manifesta da almeno sei mesi, la mancanza di liquidità da oltre un anno. Ora ci attende un
periodo molto duro ed estremamente
incerto, una contingenza di fronte alla
quale non sappiamo come difenderci, ci coinvolge tutti, non si può dire
che qualche settore stia molto meglio
di altri. Generalmente la depressione provoca abulia e apatia, ma d’altro
canto chi affronta un lavoro in proprio
per natura è pronto a mettersi in gioco,
crede in se stesso ed è ragionevolmente fiducioso...”.
Per gli imprenditori connazionali, fare sistema di questi tempi dovrebbe essere fondamentale per poter affrontare la crisi e creare un
mercato particolare di grande interesse.
”Certo. Questa dovrebbe essere una
ragione in più per fare quadrato, e credo che l’Aini, in questo senso, possa
offrire delle buone possibilità. La professionalità, il potenziale delle imprese dei nostri connazionali costituisce
una straordinaria risorsa, che all’interno della CNI purtroppo non usiamo
abbastanza nei vari progetti di investimento, di ristrutturazione delle nostre
istituzioni scolastiche, asili, sedi delle
Comunità degli Italiani. Sono convinto che se venissero coinvolti in questi
progetti, i professionisti e gli esperti
connazionali sarebbero in grado di offrire - al di là della presupposta competenza - una dose di sensibilità, serietà
e impegno, requisiti che spesso non si
riscontrano nelle ditte appaltatrici che
si aggiudicano i lavori. E noi a Cittanova ne siamo stati testimoni durante
la lunga ed elaborata ristrutturazione
della sede della Comunità degli Italiani, che finalmente, si spera tra pochissimo, dovrebbe aprire i battenti”.
Mauro Hrobat: “C’è crisi, ma l’AINI può dare una mano ai nostri imprenditori”
Gli obiettivi dell’AINI sono favorire la collaborazione, facilitare i contatti tra soggetti, realtà ed
esperienze diverse ma complementari, fornendo occasioni di scambio economico, di trasferimento di
know how tecnologico, di incontro
tra domanda ed offerta di lavoro.
Come giudica le iniziative realizzate
in questi primi anni di attività?
”Dobbiamo ammettere che forse
siamo partiti con un piano un po’ troppo ambizioso, tuttavia è stato fatto e si
sta facendo un buon lavoro. Di grande
pregio il lavoro portato a termine dal
funzionario Antonella Degrassi, che
con l’aiuto delle varie Comunità ha
rintracciato e contattato un certo numero di connazionali che operano nel
campo dell’imprenditoria. Però un
po’ per le difficoltà di comunicazione, un po’ per il diffuso disinteresse,
ma soprattutto perché non si è riusciti
ancora a capire bene la potenzialità di
questa associazione, gli iscritti in questo momento sono appena una quarantina. Sarebbe importante far capire
ai connazionali che un qualsiasi socio
AINI non viene conosciuto soltanto
dagli altri operatori economici connazionali del territorio, ma il suo nominativo va inserito pure tra i potenziali partner delle Camere di Commercio d’Italia che hanno aderito a questa
rete di informazione, ed è importante per creare una futura possibilità di
inserimento sul mercato del lavoro in
tutti i settori, e preciso in tutti i settori. Quelli che hanno avuto maggior riscontro finora, grazie alle presentazioni organizzate anche a Trieste, sono i
produttori di vino e di olio d’oliva.
Questo è un momento tormentato per
tutti, ma avendo una banca dati il più
possibile completa e aggiornata, in alcuni frangenti possiamo intervenire,
se non finanziariamente con degli incentivi, almeno offrendo assistenza,
consulenza. In Italia per gli imprenditori è consuetudine seguire le offerte delle Camere di commercio, che
presentano opportunità di nuovi contatti per la creazione dei presupposti
di nuove aree di business. Personalmente, ho vissuto un’esperienza molto positiva proprio grazie all’AINI:
ho avuto la fortuna di instaurare una
collaborazione di partenariato con un
connazionale di Rovigno nel settore
dell’impiantistica e abbiamo fatto dei
bellissimi lavori insieme. Poi è nata
anche un’amicizia....”.
A livello di Unione Italiana, è stato constatato più volte, la dimensione economica finora non è riuscita
a decollare, anzi, ha visto fallire anche le poche iniziative imprenditoriali che sono state promosse, come
la Cantina vinicola di Verteneglio.
Quali sono, a suo giudizio, i maggiori ostacoli su questo percorso e che
cosa sarebbe possibile o necessario
fare da parte dell’UI per arrivare ad
un’inversione di tendenza?
”È molto semplice: la complessità
del mondo del lavoro e il suo carattere composito e sfaccettato ha esigenze specifiche, richiede professionalità
e competenza, flessibilità e iniziativa,
che sono incompatibili con la politica.
Gli affari e la politica dovrebbero andare ognuno per la loro strada...”. ●
Panorama 11
Etnia
Antonella Degrassi, funzionario dell’AINI, illustra meccanismi e difficoltà
Economia e cultura hanno tempi diversi
«I
tempi della cultura e i tempi
dell’economia non sono gli
stessi, questi due settori di
attività sono immaginati per funzionare con ritmi completamente diversi». L’umaghese Antonella Degrassi,
loquace, disinvolta, agile funzionaria dell’Ufficio operativo dell’AINI
con sede a Cittanova, si riallaccia al
discorso sulle difficoltà che la dimensione economica incontra nel quadro delle diverse iniziative promosse dall’Unione Italiana. “Per un settore economico è impensabile dover
aspettare otto mesi un finanziamento
- aggiunge Antonella -. In questo lasso di tempo passa la fiera, passa il santo, passa la festa. Non sempre è possibile avere un preavviso di due anni
per qualche iniziativa economica e
questi lunghi intervalli giocano notevolmente a sfavore del settore economico. Mettiamo che uno abbia un
progetto, vorrebbe avere una risposta, positiva o negativa che sia, entro
un termine ragionevolmente breve.
L’ambito economico si evolve rapidamente. Due anni fa una crisi del genere sicuramente non se l’aspettava nessuno. E se chi voleva fare un grosso
investimento, si vede approvare soltanto adesso lo stanziamento, ormai
è tardi, le circostanze sono cambiate,
non sono più momenti in cui si può
intraprendere qualcosa di importante. I tempi scanditi dall’orologio non
possono essere gli stessi per far fronte
alle attività amatoriali delle Comunità
e per soddisfare le esigenze del sistema economico e produttivo. È su questo che come AINI dobbiamo insistere
nei rapporti con l’UI, anche se sappiamo che l’Unione è costretta a muoversi lungo un tortuoso iter burocratico
sul percorso Fiume-Trieste-Roma, e
ritorno. Però se si vuole promuovere
l’economia, dobbiamo battere su questo tasto per arrivare ad una semplificazione della procedura e ad una riduzione dei tempi di realizzazione. Senza una base economica e le risorse che
ne possono derivare, è impensabile la
piena autonomia della Comunità nazionale italiana. Gli sloveni di Trieste
ed i tedeschi altoatesini dovrebbero
essere due esempi da seguire. Credo
che i nostri imprenditori siano in grado di rispondere anche alle esigenze
più complesse e diversificate del mercato del lavoro, però dobbiamo metterli nella condizione di poterlo dimostrare. Ci sono persone che lavorano
seriamente, con ottimi risultati, e che
potrebbero fare da traino all’economia della CNI...”.
”Forse è necessario ribadire che
l’AINI è una forma di associazionismo basato ancora su aggregazione e
promozione sociale, che si differenzia
da quello della società capitalista occidentale, dove questi sodalizi vengono
usati a scopo di lucro - prosegue Antonella Degrassi -. L’interessamento dei
singoli per le nostre attività, dipende in buona misura dalla disponibilità, che è stata molto diversificata, del-
I connazionali sono più presenti nei settori agricoltura, ristorazione e pesca
12 Panorama
le varie CI nella diffusione del nostro
messaggio. Ciò che sta rallentando il
processo di creazione della banca dati
AINI sono le carenze degli elenchi dei
soci delle Comunità, le quali spesso
non dispongono degli elementi necessari per poter risalire ai potenziali fruitori dei nostri servizi. Alcuni sodalizi
hanno registrato solo i dati anagrafici
essenziali degli iscritti, nome, cognome e data di nascita, altre aggiungono anche i numeri di telefono e la professione. Anche l’UI dovrebbe essere
interessata alla creazione di una banca dati che, pur tutelando la privacy,
consentisse l’acquisizione dei presupposti essenziali, non solo per noi ma
anche per le stesse Comunità, per conoscere la struttura dei soci, il numero
di laureati, di lavoratori in proprio, di
connazionali impiegati nella pubblica amministrazione e in quali settori.
In questo modo sarebbe possibile risalire più facilmente, quando necessario, agli esperti provenienti dalle file
dei connazionali. Su nostra insistenza,
alcune CI si sono preoccupate di arricchire gli elenchi, agevolando notevolmente la nostra stesura della banca dati”.
Quali istituzioni hanno dimostrato maggiore disponibilità in
questo senso?
”La prima che si è aperta è stata
Cittanova, che poi, beh, mi sembra logico, essendo quella che ospita la nostra sede, per cui anche i contatti sono
intensissimi, giornalieri. La CI di Verteneglio è stata la prima con la quale
abbiamo collaborato nell’organizzazione di conferenze e incontri. Stiamo lavorando bene con Rovigno, Dignano e negli ultimi mesi con Valle la cui sede era stata a lungo inagibile
per i lavori di restauro dopo l’incendio
che l’aveva distrutta -. I dati più carenti sono quelli delle grandi CI, Pola
e Fiume. Una delle ragioni potrebbe
essere il fatto che c’è più dispersione
e che gli imprenditori di queste città
hanno a disposizione tutte le istituzioni in sede, Camere d’economia, associazioni di categoria, per cui hanno
meno interesse e meno necessità di
un’associazione come la nostra. Per
un imprenditore di Umago dover an-
Etnia
Antonella Degrassi, funzionario, e Mauro Jurman, presidente dell’Assemblea dei Soci AINI (foto Sodomaco)
dare a Pola per rivolgersi alla Camera d’economia è certamente meno comodo che non per il suo omologo che
vive dietro l’Arena. Io comunque resto dell’avviso che una maggiore collaborazione tra noi e le Comunità degli Italiani è non solo auspicabile, ma
doverosa, anche per Pola e Fiume,
dove il numero degli iscritti all’AINI
non rispecchia le rispettive potenzialità. Il bacino di utenza va dai 400 ai
600 connazionali, ma i soci sono una
quarantina appena. Che poi dare la
propria disponibilità ad essere inseriti
nella banca dati non comporta l’obbligo di diventare nostri soci. Nel primo
anno di operatività dell’Ufficio l’interesse è stato scarso, ma tra il 2007 e il
2008 ha subito una significativa accelerazione. Si dice che in economia un
progetto può dare i suoi frutti tra il terzo e quinto anno, dunque...”.
Era prevista l’apertura di un
ufficio dell’AINI a Fiume, facente
capo alla rispettiva area...
”Abbiamo avuto un serio problema
con l’erogazione dei fondi, ritardi cospicui nei pagamenti dei progetti, eccetera. Questa è stata l’unica ragione
che ha bloccato l’apertura di questa
sede. La fondazione dell’Associazione è stata favorita dall’Unione Italiana, sulla base di un progetto europeo
tra la Camera di Commercio di Trieste, Unione Italiana e altri Enti. Erano previsti 4-5 anni di attività per realizzare il sito internet, mettere in piedi
la struttura, creare la banca dati. Ora
che l’UI è in una profonda crisi, per
la riduzione dei finanziamenti da parte dell’Italia, anche i mezzi a noi destinati sono stati ridotti. Per alcuni dei
progetti iniziali che avevamo in calendario, questo è stato un grave handicap. Ora cerchiamo di puntare sulla
parte informativa. Il Governo croato
offre delle possibilità di accesso a finanziamenti, ma spesso i nostri connazionali non sono a conoscenza della
pubblicazione dei bandi di concorso,
che hanno delle scadenze molto ridotte, per cui in 15 giorni devi procurati la necessaria documentazione per
metterti in regola con le richieste del
bando. Cerchiamo di comunicare queste opportunità ai potenziali interessati
in maniera capillare. Per noi è importante poter entrare in contatto con un
numero quanto maggiore di operatori economici, per eventuali rapporti di
collaborazione”.
In quali campi sono maggiormente presenti i connazionali?
”Agricoltura, ristorazione e pesca
sono i comparti su cui gravitano gli
imprenditori istriani. Un grosso aiuto lo abbiamo avuto dal nostro socio
Glauco Bevilacqua, che ci ha permesso di conoscere e avvicinare molte
persone presenti in questi campi”.
Come procede la collaborazione
con gli enti camerali del territorio?
”Lavoriamo bene con la Camera d’economia di Pola, che opera a livello regionale, dove ho già accompagnato alcuni imprenditori connazio-
nali. Abbiamo contattato più volte la
IDA (Istrian Development Agency),
l’Agenzia Istriana per la nascita e lo
sviluppo di realtà imprenditoriali, assieme alla Camera di Commercio di
Trieste abbiamo realizzato delle iniziative, tra cui la presentazione di tre
produttori di vino, tre ristoratori e due
produttori d’olio nel capoluogo giuliano, per i Sapori dell’Istria a Trieste, che ha avuto un ottimo successo.
Poi siamo stati invitati dalla Camera di
Commercio di Vercelli, che in occasione della promozione del loro riso, ha
fatto arrivare una trentina di ristoratori
italiani, tra cui cinque dell’Istria. L’ultima iniziativa in ordine di tempo, lo
scorso giugno, si è svolta a Cittanova,
nella sede della Comunità. Organizzata dall’Ente per il turismo, il Comune
e Slow Food-Condotta dell’Istria, è
stata allestita una manifestazione molto carina, Art, wine&jazz, che ha visto
tra i protagonisti anche stranieri, artisti e complessi delle nostre CI nonché una ventina di produttori di vino,
olio e miele, che hanno avuto occasione di promuovere i loro prodotti. Ora
si cercherà di fare qualcosa del genere a Umago. Abbiamo fatto da tramite
per ditte italiane che cercano informazioni sul territorio, alcune banche croate, tra cui la Hypo Alpe-Adria Bank,
ci hanno offerto pacchetti, e con Euroherz assicurazioni abbiamo firmato
un accordo per un pacchetto di servizi
a condizioni agevolate per tutti i soci
effettivi”. ●
Panorama 13
Società
Riflessioni indotte dai maggiori mali di cui soffre al giorno d’oggi l’a
L’uomo marcia verso l’autodistruzione, c
di Marino Vocci
A
l rientro da un breve periodo
di ferie passate in Sudtirol,
nella sempre splendida Val di
Funes, ho trovato e letto con preoccupazione la lettera di un caro e intelligente amico triestino dal titolo: ”No
hope: ovvero alcuni dei problemi irrisolvibili che causeranno l’estinzione
dell’umanità”.
Voglio dimenticarne solo per un
attimo i contenuti forse anche un po’
troppo pessimisti e catastrofici, anche
perché devo confessare che sono stato
sempre e rimango ancora un inguaribile ottimista e soprattutto un “portatore di speranza”, per fare ancora
una breve sosta nelle mie amatissime
montagne, le Dolomiti, che in questi
mesi sono ritornate prepotentemente sotto i riflettori dei maggiori mezzi d’informazione nazionali e internazionali. A questi luoghi straordinari
che sono stati riconosciuti dall’UNESCO nella riunione di Siviglia del 27
giugno, come patrimonio naturale,
ma purtroppo non anche culturale,
dell’umanità. Nove gruppi dolomitici
per un’estensione complessiva di 142
mila ettari, cui si aggiungono altri 85
mila ettari di “aree cuscinetto”, per un
totale di 231 mila ettari, suddivisi tra
le province di Trento, Bolzano, Belluno, Pordenone e Udine. Montagne
bellissime che ho conosciuto la prima
volta nel lontano 1964 quando sono
stato per alcune settimane ospite della “Casa san Giusto” a Borca di Cadore e che poi negli anni seguenti, tutti
gli anni d’estate e alcune volte anche
d’inverno in località diverse appartenenti alle cinque province, non ho più
smesso di incontrare e amare. Perché
la montagna il mondo alpino, è silenzio, fatica, lentezza, tranquillità,
amicizia, sogni, emozioni e soprattutto bellezza. Questo certamente per lo
straordinario paesaggio naturale, ma
soprattutto per quello culturale. Luoghi da vivere nel silenzio e nel buio
delle notti stellate e lungo i sentieri e
le vette poco frequentate, nei momenti
conviviali delle piccole e tradizionali
feste di paese e delle offerte gastro-
14 Panorama
Val di Funes (Dolomiti)
nomiche fortemente legate al territorio e delle ciacolade con il malgaro, il
contadino e con il gestore dei rifugi.
Una bellezza che non è fatta di balconi fioriti a pagamento, né di seconde
case, oppure alberghi o di parcheggi
in alta quota e neppure di scelte dettate dall’industria pesante dello sci. Invece, ripeto, una bellezza fatta di un
ambiente naturale e culturale che dobbiamo contribuire tutti a conservare
come un patrimonio davvero unico.
Anche per questo ho letto con grande interesse e mi è particolarmente
piaciuta la lettera dell’amico triestino. Perché vi si ricordano le piccole e
grandi minacce che rischiano di mettere in grave pericolo il futuro dell’intera umanità e quindi anche di queste
nostre terre e delle nostre montagne.
Vediamone in dettaglio i contenuti:
1) La deforestazione: è stata con
ogni probabilità la causa delle maggior parte delle catastrofi ambientali del passato, da quella dell’isola di
Pasqua, a quella degli asanazi (Mesa
Verde, Chaco Canyon: una civiltà durata 500 anni, ma poi scomparsa nel
nulla, lasciando dietro di sè solo edifici abbandonati - e che edifici!: a Pueblo Bonito c’è un palazzo di 600 stanze) e dei Maya, con scomparsa totale delle relative civiltà: l’abbattimento
degli alberi, sia per utilizzare il legname sia per fare spazio ai terreni agri-
coli, provoca de-umidificazione del
terreno, il che accelera l’erosione del
suolo, e comporta mutamento totale
dell’habitat delle specie viventi.
Posto che più di metà delle foreste
vergini del mondo oramai sono state
abbattute, che il consumo di legno è in
aumento, e che la ri-crescita di eventuali nuove foreste è lentissima, la deforestazione è uno dei principali problemi ambientali della terra.
2) L’erosione del suolo: nei terreni
destinati all’agricoltura, l’azione erosiva dell’acqua e del vento è 40 volte
più veloce rispetto al ritmo con cui il
suolo si riforma. Dove per suolo s’intende il terreno vivo, quello caratterizzato dall’humus (che non si forma
dall’oggi al domani), dalla presenza
di sostanze nutrienti e di organismi viventi; si tratta di uno strato di circa 15
cm. che impiega anni ed anni a formarsi; ed è cosa ben diversa dalle zolle di polvere delle pianure coltivate,
che sono del tutto prive di nutrienti,
per farvi crescere qualcosa, è necessario immettervi massicce dosi di concimanti. Dall’erosione deriva una perdita spesso perenne ed irrimediabile
di suolo. Per queste ragioni sembrano proprio irragionevoli i progetti per
i cosiddetti carburanti biologici, il cui
reale costo ambientale è elevatissimo:
perché comportano l’aumento dei terreni destinati all’agricoltura, con ulte-
Società
ambiente terrestre
come fermarlo?
riore deforestazione ed ulteriore perdita di suolo. Per inciso, per fare un
singolo pieno di bio-carburante ad un
SUV serve una quantità di cereali che
potrebbe nutrire una persona per un
intero anno.
Si tenga presente che interi continenti sono oramai del tutto privi, o
quasi, di terreno fertile, talchè l’agricoltura è possibile solo grazie ai fertilizzanti, che costituiscono il 100% dei
nutrienti; in altri termini, quella che a
noi sembra terra è null’altro che sterile
polvere. È la situazione del Midwest
americano, dell’intera Australia (decine e decine di fattorie sono state abbandonate perché del tutto improduttive), ma anche della parte centrale della pianura padana
3) L’esaurimento delle risorse (fonti energetiche e altro): una
semplice ed incontrovertibile verità:
l’umanità vive di rendita, perché consuma un capitale che non rimpiazza. Ciò vale per petrolio-gas-carbone
(cioè, per le fonti energetiche), ma anche per il ferro, per il legno (dato che il
consumo è molto più intenso di quanto sia veloce la ricrescita), per molte
specie marine, etc.
Si può discutere quanto si vuole su
quanto a lungo dureranno il petrolio e
il carbone, ma una cosa è certa , non
per sempre e purtroppo siamo lontanissimi dalla loro sostituzione con
Più di metà delle foreste vergini del
mondo oramai sono state abbattute mentre il consumo di legno è
sempre in aumento
Risorse energetiche: si continua allegramente
a sfruttarle pur sapendo che non sono infinite
altro. Dopo anni ed anni di ricerca ad
esempio, le energie rinnovabili coprono una percentuale poco più che risibile dei consumi (soprattutto di quelli industriali). Quanto poi all’energia
nucleare, per tacere di altre questioni,
non è mai stato risolto il problema delle scorie. Il “caso Italia” è particolarmente istruttivo: dopo più di 20 anni
dalla dismissione delle centrali nucleari, ci sono ancora centinaia di tonnellate di scorie radioattive, e pare che
nessuno sappia cosa farne.
4) L’esaurimento dell’acqua dolce: l’acqua non è un bene inesauribile
ed è problema a più facce, ché comprende:
a) il costante aumento del consumo
di acqua è di per sè insostenibile;
b) se le previsioni sul c.d. riscaldamento globale si riveleranno esatte, la
scomparsa locale delle nevi perenni
e di una parte cospicua dei ghiacciai
comporterà la mancanza di acqua in
determinate zone, per esempio in California (50 milioni di abitanti!).
c) parte dell’acqua disponibile è inquinata in maniera grave.
5) La sovrappopolazione: è il problema dei problemi, dove il vero problema non è tanto l’aumento delle popolazione, bensì l’impatto della popolazione sull’ambiente.
Per queste ragioni mi sembra importante ricordare quanto ha scritto Jared Diamond, scienziato ed ambientalista dell’UCLA (University of California, Los Angeles):
”…Ogni cittadino del Primo Mondo consuma una quantità di risorse e
produce una quantità di rifiuti trentadue volte maggiori rispetto ad un afri-
cano; che accadrà se si innalzerà lo
standard di vita dei Paesi del Terzo
mondo?…”
Per questo, quanto fin qui detto si
può riassumere in nove parole: il percorso intrapreso dalla società occidentale non è sostenibile.
Così, con questo severo e autorevole monito, termina la lettera che
mi ha inviato l’amico triestino. Io più
semplicemente mi sono ricordato che
dopo le emozionanti notti stellate e di
festa in Val di Funes, siamo nel pieno
del “Ramadan” (quest’anno va dal 21
agosto al 19 settembre). Un mese che
potremmo considerare di penitenza
e soprattutto di purificazione, perché
sono i trenta giorni nei quali tradizionalmente i musulmani praticanti debbono astenersi - dall’alba al tramonto dal bere, mangiare, fumare e dal praticare attività sessuali, mentre nelle moschee si prega e si medita. In occasione
del Ramadan è poi anche richiesto di
evitare di abbandonarsi all’ira (anche
se cristianamente non solo dobbiamo
temere, ma anche condividere… l’ira
dei giusti e dei poveri, proprio perché
a volte sanno essere implacabili!) e
dopo il tramonto si mangia, si festeggia si canta...
Noi stiamo vivendo dei momenti proprio bui, purtroppo però non è
tempo per cantare e festeggiare, ma
è tempo di purificazione e di nuove
speranze. Per questo oggi dobbiamo
cambiare, migliorare le nostre politiche. Un mondo diverso e migliore sarà
possibile, solo se faremo tutti scelte
diverse e soprattutto più responsabili
verso questo nostro pianeta e le generazioni che verranno.●
Panorama 15
Cinema e dintorni
Coraline e la porta magica, pellicola d’animazione in tre dimensioni firm
Mondo della fantasia: quando il nero
di Gianfranco Sodomaco
A
llora, torniamo a parlare di
Coraline e la porta magica,
film di animazione di Henry Selick, girato in 3D (dunque con
uso di occhialini per rendere la terza dimensione, quella della profondità, per cui ti sembra che le cose ti
vengano incontro, qualche volta addosso per cui i bambini, potenziali
fruitori di questo tipo di film, molto si divertono ma alle volte gridano di paura!). Ripeto che questi film
non mi piacciono perché, ormai pensati e fatti anche e soprattutto per gli
adulti, contribuiscono a “virtualizzare” ancor di più la realtà (già ne basta e avanza), da una parte, e dall’altra contribuiscono (non ne abbiamo
proprio bisogno) a quel processo di
infantilizzazione del pubblico che lo
porta a scegliere, poi, di conseguenza, film “normali” di serie b, impoveriti dal punto di vista strutturale e culturale. Ma “Coraline” ha una particolarità, che sta soprattutto nella storia
e nella possibile lettura metaforica
che se ne può fare. Vediamola.
Appena trasferitasi con i genitori in una curiosa casa rosa (ricorda
quella “mitica” di “Psycho”), l’undicenne Coraline (un errore che l’autore del libro da cui è tratto il film,
Neil Gaiman, non ha voluto modificare - si doveva chiamare Carolyne) cerca di passare le giornate come
può, infastidendo uno strano gatto
Coraline trova la porta magica
16 Panorama
nero, litigando (cioè facendo amicizia, come è tipico a quell’età) con il
coetaneo Wybie, spiando i comportamenti dei vicini (le sfiorite ex attrici
Spink e Forcible, l’eccentrico signor
Bobinsky), ma soprattutto soffrendo
per le disattenzioni dei genitori, troppo presi entrambi con il lavoro (sono
sempre al computer per scrivere cataloghi di giardinaggio). A liberarla
da questa grigia routine ci pensa una
Henry Selick, regista del film in
3D “Coraline e la porta magica”
porticina nascosta nella casa, che permette a Coraline di entrare in un “altro mondo”. Il mondo fantastico in
cui si addentra Coraline non è quello misterioso e divertente di Alice
(“Alice nel paese delle meraviglie”,
a cui il film, rovesciandolo, in qualche modo si ispira) ma è praticamente identico a quello reale, con un’”altra” mamma e un “altro” papà, un altro Wybie, un’altra signorina Spink
e così via. Una copia speculare dove
tutto sembra più bello e accogliente,
a cominciare dall’erba naturalmente
sempre più verde (e la gente pronuncia correttamente il suo nome, il cibo
è migliore ma soprattutto due “cloni” di mamma e papà la circondano di attenzioni, ecc.) ma dove tutti
hanno una caratteristica inquietante:
al posto degli occhi hanno due bottoni, come nelle bambole di pezza.
E mentre all’inizio l’andirivieni tra
i due mondi è semplice e quasi piacevole (basta addormentarsi nell’”altro” letto per svegliarsi in quello reale), a un certo punto l’”altra” mamma comincerà a pretendere sempre di
più, fino a chiedere a Coraline di farsi
sostituire gli occhi reali con due bottoni. Coraline, dopo varie peripezie,
dopo aver incontrato dei morti viventi “infantili”, scopre il trucco: quello
non è il migliore dei mondi possibili
ma solo una rappresentazione, inscenata da una strega cattiva che se ne
serve per rapire le anime ai bambini.
Coraline, se vorrà restare, ma a quale
prezzo?, dovrà cedere i propri occhi,
se invece vorrà salvarsi potrà contare
solo sul proprio coraggio e sull’aiuto
dell’ imprevedibile gatto nero. Dopo
altrettante avventure Coraline si salverà, distruggerà la “trasformista”
strega cattiva e farà ritorno alla realtà
vera, se vogliamo un po’ noiosa ma
mai desiderata così tanto.
Ora, pochi dubbi che il film è importante, che esso, anziché lisciare e
rassicurare il pubblico, ci parla del
divario tra fantasia e realtà, degli universi taroccati dell’edonismo e della
quantità d’illusione che ciascuno di
noi - bambino o adulto - è disposto a
tollerare pur di non guardare il mondo “a occhi aperti”. Paolo Mereghetti (“Il Corriere della Sera”, 18 giugno 2009) scrive: “Il film è una favola morale capace di affrontare alcuni
dei temi centrali della nostra cultura:
l’apparire come categoria dominante del reale, il mito della forma fisica
(la mamma vera ha un commovente rigonfiamento adiposo intorno ai
fianchi; l’’altra’, quando rivela la sua
vera anima, si mostra in tutta la sua
Cinema e dintorni
mata da Henry Selick
uccide il rosa
‘funerea’ magrezza), il disprezzo per
la routine e la fatica quotidiana, l’attività artistica come sola realizzazione degna di un uomo (il padre vero
fatica davanti ad un computer mentre l’’altro’ si esibisce in meccaniche
performance alla tastiera di un pianoforte) e, più in generale, la voglia che
molti sembrano avere di ‘chiuderci’ gli occhi per mostrarci un mondo
fintamente colorato e allegro, fatto a
loro immagine e somiglianza”.
Sono d’accordissimo, ma il problema è proprio questo: ammesso e
non concesso che il messaggio arrivi ad un pubblico adulto, arriva ad un
pubblico infantile, per cui è stato in
prima istanza concepito? Io non ne
sono affatto sicuro, la tecnica usata,
un’animazione sempre più sofisticata,
finisce con l’”oscurare” il significato
morale dell’opera. Qui non siamo in
una situazione educativa, oserei dire
“fisica”, dove un genitore, o un insegnante, dopo essere stati al cinema,
spiegano il senso profondo di una fiaba/favola al proprio bambino/allievo.
Qui, bambini e adulti “infantilizzati”,
vivono assieme una esperienza (ad
esempio i continui passaggi dalla bidimensionalità alla tridimensionalità)
dove, da spettatori passivi, per usare
le stesse di Mereghetti, “entrano davvero in un mondo magico e non pre-
vedibile” e dove “ogni tipo di ‘difesa’
razionale finisce per perdere valore”.
Il critico conclude: “E lo scontro finale tra Coraline e l’’altra’ madre, dove
ogni logica si dissolve di fronte alle
invenzioni della regia, diventa l’incubo di un mondo in cui davvero l’apparenza è capace di nascondere ogni
tipo di trappola”.
E allora la domanda è: la metafora, perché di metafora si tratta, se così
stanno le cose, riesce ad essere colta o
no? Non mi pare proprio. Tanto per
continuare a “farci del male” (ma c’è
chi da tempo sostiene che questo è il
futuro del cinema, gente come Steven
Spielberg, ad esempio) il 18 dicembre, né un giorno prima né un giorno dopo, uscirà l’ultimo film di James Cameron (quello di “Titanic” ma
anche dei vari “Aliens” e “Terminator”) intitolato, in modo assai inquietante, Avatar. Ora, dal dizionario Zingarelli 2008, “avatar” sta a significare: “da avatara, nel brahmanesimo e
nell’induismo ciascuna delle dieci incarnazioni del dio Visnù, personaggio virtuale che in un programma di
intelligenza artificiale si adegua alle
esigenze dell’interlocutore”. E sappiamo che già milioni di persone nel
mondo giocano, tramite programmi
specifici computer, con i loro avatar,
doppi, “alter ego virtuali”, e gli fanno fare “cose” che loro, nella vita,
non potrebbero o non vorrebbero mai
fare. Insomma siamo già in una fase
avanzata, sia pure attraverso il gioco elettronico (ma i giochi, nel bambino come nell’adulto, a volte sono
maledettamente pericolosi), di sdoppiamento della personalità... E infatti l’eroe del film, tale Jake Sully, è un
invalido che ha perso l’uso delle gambe in battaglia ma suo fratello, prima
di morire tragicamente, ha messo a
punto un sistema in grado di trasferire la coscienza di una persona in un
corpo creato in laboratorio: un “avatar” appunto. Sicché il nostro eroe
può di nuovo camminare e riprendere a vivere e a combinarne delle belle
sul pianeta Pandora, ecc. ecc. (risparmio al lettore la storiella, così magari, per il prossimo Natale, si divertirà
un mondo!). Il film, girato in 3D, digitale, computer grafica, ecc., per chi
ha già visto in anteprima uno spezzone di venti minuti, “pare così impressionante dal punto di vista tecnico da
far sembrare gli altri film in computer
grafica vecchi di anni”. E ti credo!, io
preferirei aggiungere “impressionante dal punto di vista psicologico”.
Perché è vero che la scienza, da tempo (e il cinema da tempo si è buttato
a pesce sul tema, da “Frankenstein” a
“Matrix”) lavora sul cervello umano
e sulla possibilità di creare intelligenze artificiali, robot sempre più sofisticati, ecc., ma altra cosa è parlare di
“trasferimento di coscienza”.
Per chiudere: il cinema, i registi,
gli sceneggiatori, i produttori, ecc.,
sono liberi di fare quello che vogliono (ci mancherebbe altro, quindi anche immaginare “trasferimenti coscienziali”) ma è un fatto che il processo di “digitalizzazione” del mezzo
sta comportando sempre più, in una
specie di delirio di onnipotenza creativa, un allontanamento dalla “realtà
fisica”. E per me, lo ripeto per l’ennesima volta, il cinema è nato innanzi
tutto come riproduzione, immagini in
movimento, della realtà, poi... Coraline, quando scopre che l’”altra” mamma è la solita strega cattiva, scappa
e torna dai genitori normali, pesanti
quanto si vuole ma reali...●
Panorama 17
Architettura
Poco confortante il bilancio delle scelte costruttive che hanno caratterizz
Istria: qualcosa di valido fra tanta d
testo e foto di Maurizio Franolli
Ponte sul Canal Morto, Fiume (3LHD)
S
e da qualche mese la frenetica
attività edilizia in Istria sta subendo un lento ma costante rallentamento, essenzialmente provocato dalla crisi economica globale, i
mutamenti a cui è stata soggetta inevitabilmente inducono a riflessioni.
L’Istria, grazie alla sua posizione
geografica, le bellezze naturali, l’architettura delle sue città, risulta essere una delle regioni europee più interessanti ed appetibili. In questi ultimi anni le scelte e le azioni di vari
soggetti, dalle multinazionali poco
interessate allo spazio pubblico ai
singoli cittadini restii ai disegni unitari, stanno devastando il territorio e
modificando gli equilibri delle coste,
delle campagne, delle periferie, delle città, dei piccoli paesi, con risultati
che sono sotto gli occhi di tutti: centri commerciali che sorgono ovunque e senza la necessaria infrastruttura, brutti condomini figli di progetti
omologati spuntati come erbacce da
estirpare e oggi vuoti in attesa di improbabili acquirenti, nanetti da giardino che accolgono i nuovi ricchi,
frustrati proprietari di assurde villone pacchiane, interi paesi restaura-
Edificio residenziale Rovigno (Dinko Kovačić)
18 Panorama
Palasport, dettaglio,
Valle (3LHD)
ti secondo strani criteri. Stravolgendo l’assetto dei luoghi, si costruiscono pure case nuove che sembrano più
vecchie di quelle esistenti.
Si tratta di un fenomeno che
si può definire la toscanizzazione
dell’Istria, processo ormai difficile da controllare ed arginare, che fa
pensare allo slogan con il quale viene
pubblicizzata la Croazia all’estero:
“Il Mediterraneo com’era una volta”.
Slogan forse da rivedere, da ripensare... Una considerazione da fare è che
forse bisognerebbe offrire ai turisti, e
non solo, una vita vera, autentica, e
non un’imitazione, restaurare e non
scimmiottare il patrimonio esistente
in questo campo. Sempre più spesso
ci si imbatte in costruzioni all’insegna del banale, come lo è la società
che vi si rispecchia, in quanto creazione inscindibile dalla vita civile e
dalla società in cui si manifesta. Più
volte è stato detto che alcune società
incoraggiano l’architettura “buona”,
come ad esempio la Spagna, il Portogallo, la Finlandia, la Svizzera, ben
sapendo che essa è da tempo un ottimo mezzo di promozione e di visibilità per le piccole nazioni.
Le domande che gli addetti ai lavori si pongono da parecchio tempo sono sempre le stesse: la distanza dall’Unione Europea, da anni in-
Architettura
zzato gli ultimi tempi
deturpazione
variata, è veramente uno svantaggio
per lo sviluppo urbanistico della Croazia, oppure dovrebbe trasformarsi in
un’interessante opportunità? Questo
paese, in eterna transizione ed arretratezza, potrebbe imparare dagli errori degli altri? L’Istria in particolare
potrebbe diventare un campo di studio e sperimentazione per un’architettura di qualità che si riflette sempre
ed inevitabilmente sulla società, ma
anche sull’economia del territorio?
Queste e altre domande continuano
a rimanere senza risposte. La corsa insensata e senza vincitori verso
il profitto, verso il tutto e subito, non
ha permesso riflessioni più serie. La
crisi del capitalismo globale selvaggio che sta investendo la Croazia ed
il mondo intero, è politica e culturale prima che economica. Come tutte
le crisi però, può e deve essere l’occasione di un grande cambiamento
verso un mondo nuovo; l’occasione
per riforme coraggiose tanto più necessarie in un Paese come il nostro,
da troppo tempo incapace di crescere
e sprigionare le sue potenzialità e le
sue energie.
La sfida per aprire una stagione
nuova è di puntare sull’innovazione,
partendo magari dal settore immobiliare, sempre decisivo. Una sfida
che progettisti, committenti, aziende,
amministratori e politici dovrebbero
raccogliere, riportando all’attenzione
pubblica la centralità e il valore dei
progetti, promuovendo una campagna per il bello, investendo in cultura,
analizzando la realtà croata e mettendola in relazione a quanto avviene nel
mondo per cercare di stare al passo
con i paesi più progrediti. Nel nostro
paese l’architettura con la A maiuscola è solitamente ignorata o snobbata
anche dalle persone più colte per cui
diminuire la distanza che la separa
dai suoi utenti è una priorità. C’è infatti ancora un forte bisogno di sensibilizzazione e informazione dell’opinione pubblica, specialmente dei giovani, di una spinta dinamica verso il
contemporaneo, di una nuova “classe
creativa” che riesca a fiutare il futuro
prima di perdere l’ultimo treno.
Fabbrica tabacchi, Canfanaro (Branko Kincl)
Se prima tutti andavano di fretta, questa crisi li farà forse rallentare concedendo il tempo per pensare
e riflettere, scoprire, osservare e studiare quanto di buono è stato fatto,
perché tra tantissimi sbagli e brutture c’è qualche eccellenza. Analizzando lo stato di salute dell’architettura
in Istria e a Fiume, ci si imbatte in alcuni progetti, e fortunatamente pure
realizzazioni, degni di nota, da prendere come esempio. Progetti come il
ponte/memoriale dei difensori croati e il nuovo terminal degli autobus a
Fiume, il palazzetto dello sport a Valle, l’albergo Lone e un edificio residenziale a Rovigno portano la firma
dell’ormai famoso studio zagabrese 3LHD, la cui fama ha oltrepassato i confini nazionali. Vincitore di innumerevoli concorsi e premiato con
una serie di riconoscimenti internazionali importanti, lo studio è frutto
della collaborazione di quattro giovani, Tatjana Grozdanić-Begović, Marko Dabrović, Silvije Novak e Saša
Begović.
Il ponte sul Canal Morto a Fiume,
eretto nel 2001 in onore di difensori
croati, è diventato uno dei marchi di
fabbrica dell’architettura croata. Ampiamente pubblicato sulle riviste specializzate nazionali ed estere, ha una
duplice funzione: è un’infrastruttura
utile ai pedoni che aspira a diventare
monumento, un monumento che ha
il pregio di avere una funzione pubblica. Una struttura lineare, semplice,
pulita, senza inutili orpelli, che grazie
ad uno specifico gioco di luci, sembra
sospesa in aria.
Nei rari casi nei quali un progetto
riesce a riunire felicemente estetica e
funzione, possiamo dire che abbiamo
a che fare con un’opera di qualità; è
questo il caso della palestra di Valle.
Concepita come un edificio moderno
dalle forme essenziali, all’inizio ha
suscitato non poco scetticismo da parte degli abitanti del luogo, divenendo poi parte integrante della comunità; oltre alle manifestazioni sportive,
la struttura ospita pure eventi culturali di vario genere. La pietra istriana, caratteristica delle casite e dei
muri a secco della zona, è l’elemento unitario del progetto: è stata usata
per realizzare i pannelli prefabbricati
che compongono il perimetro esterno
della struttura, come pure il tetto. Un
materiale antico usato in maniera moderna. Con questo lo studio 3LHD ha
vinto il premio per il miglior progetto
nella categoria complessi sportivi al
primo Festival mondiale di architettura 2008 a Barcellona, sconfiggendo un’agguerrita concorrenza, come
la piscina olimpica Watercube a Pechino e lo stadio Wembley di Londra.
Un premio importante, non solo per
la categoria, ma per per l’Istria, per
Valle, per il paese in generale.
Inoltre, è notizia di questi giorni,
il palasport di Valle e la piscina olimpica di Fiume progettata dall’italiano
Pino Zoppini, hanno ricevuto un alto
numero di voti dall’unica istituzione
che giudica e premia esclusivamente gli edifici adibiti allo sport, l’IOC/
IAKS Award, in una concorrenza di
117 realizzazioni di 26 paesi.
Una delle aziende in Istria che
investe e crede nella qualità in questo campo e collabora con i migliori
progettisti croati, è il gruppo Adris.
Manufatti come la nuova fabbri-
Panorama 19
Architettura
ca tabacchi a Canfanaro progettata dallo zagabrese Branko Kincl, la
galleria a Rovigno di Marijan Hržić,
che firma pure uno degli edifici del
complesso residenziale San Vito assieme a Nenad Fabijanić, Luka Kincl, Nikša Ninić, Dinko Kovačić e ai
3LHD, esprimono soluzioni moderne con un’attenzione per i dettagli
costruttivi inusuale per i nostri standard.
La zagabrese Helena Paver Njirić
ha invece firmato il progetto di edilizia pubblica abitativa (POS) per la
città di Rovigno; complesso di residenze nelle vicinanze del centro, circondate da interventi edilizi di bassa
qualità. Si tratta di blocchi caratterizzati dalla presenza di stretti passaggi
che ricordano le calli, gallerie esterne,
vuoti e terrazze. Sulle facciate campiture di diverso colore inquadrano le
aperture, dilatando il gioco dell’alternarsi dei pieni e dei vuoti.
Fanno parte del programma di
edilizia sovvenzionata dal Ministero
delle opere pubbliche pure gli edifici
progettati da Tea Horvat e Radovan
Šobat, situati a Pola; tre corpi di fabbrica posizionati in modo da permettere alla maggior parte degli appartamenti una vista privilegiata, a differenza della maggior parte dei condomini di nuova edificazione dove
l’unico fattore che conta e quello
del massimo sfruttamento dello spazio. Particolare inoltre la particolare
attenzione per i materiali usati: griglie frangisole di legno scorrevoli, un
Edilizia pubblica abitativa, Rovigno (Helena Paver Njirić)
vano scala con una grande vetrata, il
basamento rivestito in pietra.
Sempre a Pola, nel rione Veruda,
un altro edificio degno di nota è certamente Casa Lumenart, sede dell’omonima azienda, progettata da Andrija
Rusan, pure di Zagabria. Il design degli interni, di ispirazione minimalista,
è stato curato da Dean Skira, designer
della luce per professione e passione, e titolare dell’azienda. L’edificio
è un volume bianchissimo dalle forme irregolari, con aperture una diversa dall’altra, che sembrano disposte
casualmente e che creano un effetto
dinamico. La facciata, rivestita con
pannelli di vetro riciclato, non è pura
decorazione fine a se stessa, ma un
eccellente isolante termico. L’edificio, essendo la sede di un’azienda che
si occupa di illuminazione, di notte è
caratterizzato da un’illuminazione ad
effetto, con colori che variano in continuazione, passando dal blu al giallo,
al viola...
A Pola cresce pure il patrimonio
immobiliare ecclesiastico; la chiesa
Edilizia pubblica abitativa, Pola (Tea Horvat e Radovan Šobat)
20 Panorama
di San Giovanni e quella a Valsabbion intestata a San Nicolò, protettore dei naviganti, sono entrambe progettate dal parentino Eligio Legović.
Quest’ultima predilige forme morbide, curve, di chiara ispirazione marina; riprende le forme di una barca, il
campanile ricorda i fari dell’Adriatico, il tetto è stato verniciato con l’azzurro strappato al cielo e al mare.
Altro progetto interessante è la sistemazione di piazza Venezia a Umago, firmata da Nenad Fabijanić. Lo
zagabrese si è occupato spesso della
progettazione di spazi pubblici, privilegiando le caratteristiche elementari
dei luoghi, registrandone luce e ombre, potenziando i reperti archeologici e costruttivi, definendo la circolazione, esaltando le prospettive. Qui
la facciata principale della chiesa e il
mare racchiudono uno spazio urbano
“polifunzionale”, dove la pavimentazione studiata con cura è l’elemento
di continuità del progetto mentre il
portico rappresenta una reminiscenza
della loggia cittadina.
Nella zona sorgono pure numerosi
edifici interessanti come villa Haj, la
casa per vacanze Jež a S. Lorenzo di
Daila, la sede della Luxottica a Vidal
(Cittanova), progettati dal connazionale Mario Perossa, docente all’Università lubianese e vincitore di numerosi premi, fra cui Istria Nobilissima-.
Altri studi locali che credono e si
impegnano quotidianamente per produrre un’architettura degna di questo
nome, che conoscono la differenza tra
edilizia speculativa e costruzioni di
qualità, sono ad esempio lo studio Tissa di Parenzo, lo studio AD dei Matticchio e lo studio Urbis 72 di Pola, i
rovignesi Berislav Iskra e Aleksandar
Paris, lo studio 92 di Albona, recente
vincitore del Wellness Design Award
a Rimini nella categoria Resort/Hotel Spa con il progetto Wellness Isola
Architettura
Edificio dell’ex Mladost a Fiume (Randić e Turato)
nell’Hotel Istra sull’isola di Sant’Andrea (Rovigno)...
Per concludere, vale la pena soffermarsi su alcuni progetti di quello che,
assieme ai 3LHD, è sicuramente uno
tra i migliori studi in Croazia; lo studio Randić-Turato di Fiume: fra i tanti concorsi vinti, uno degli ultimi è la
scuola elementare Monte Grande a
Pola, dove hanno saputo capire la configurazione ambientale oltre che comprendere ed integrare le necessità pubbliche proponendo una tipologia di
scuola distribuita in più edifici connessi e sparpagliati nell’area boschiva.
Il Museo Lapidarium a Cittanova
è pure frutto di un concorso ad inviti
vinto dai fiumani citati. L’edificio è
collocato all’interno di un parco che
confina a sud con la chiesa; un felice
inserimento contemporaneo nel tessuto del centro storico e al contempo un’adeguata cornice per i preziosi monumenti da collocarvi, accolti
dalle due scatole nere che penetrano
l’edificio.
Per il Centro pastorale di Fiume
Saša Randić e Idis Turato hanno scelto di usare materiali classici, come il
mattone per il tetto e il rivestimento dei muri delle sale e un particolare impasto di cemento per il portico
e per le colonne. Volendo mantenere
la sacralità e la solennità dello spazio,
hanno optato per la semplicità, quale
principio dell’ordine francescano.
Un altro progetto situato a Fiume è l’intervento di soprelevazione
dell’edificio della ex “Mladost”. Al
pianoterra e al primo piano sono state riprese le aperture originali, mentre
nei piani più alti si vede un progressivo alleggerimento che termina con
Casa Lumenart, Pola (Andrija Rusan e Dean Skira)
una facciata di vetro al quinto e ultimo piano. L’intero edificio è stato rivestito con una rete di alluminio.
A Rovigno paradossale
contestazione
Infine, vale la pena ricordare ancora una volta la paradossale vicenda del concorso per l’albergo Rovinj
in centro storico a Rovigno, vinto dai
giovani architetti fiumani. Un progetto sobrio, elegante, contemporaneo,
che sfrutta e segue la morfologia del
terreno; una serie di terrazzamenti e
tetti pensili che esaltano la presenza
della chiesa di Santa Eufemia. Randić
e Turato con questo progetto sono riusciti nell’intento di progettare nel
costruito, di rapportarsi con le preesistenze, trovando un perfetto equilibrio tra memoria e modernità.
Incredibilmente però, il progetto è
balzato agli onori della cronaca non in
quanto esempio da seguire, ma per l’
acceso dibattito pubblico innescato da
un gruppo di giovani intellettuali rovignesi (il che è ancora peggio) che hanno contestato con forza la proposta, ritenendola troppo moderna e quindi in
netto contrasto con le caratteristiche
storico-morfologiche dell’antico centro urbano di Rovigno. Troppe volte si
sente ripetere il ritornello “troppo moderno”; viene da chiedersi cosa si intenda per “troppo moderno”? Non
esiste un’architettura troppo moderna: esiste semmai una contemporanea, che è un bene comune, un valore eterno, simbolo dell’esistenza di
una civiltà, di un popolo, degli uomini
appartenenti ad un luogo ed un tempo. Spazio, tempo e architettura sono
sempre stati e devono continuare ad
essere un tutt’uno, facendo attenzione
a non smarrire l’anima dei luoghi, che
non per forza significa scimmiottare il
passato costruendo falsi storici (ritorna nuovamente ossessivo lo slogan “Il
Mediterraneo com’era una volta”).
Spesso e volentieri chi preferisce
una reinterpretazione creativa ad un
mero facsimile, come Randić e Turato, deve affrontare aspre reazioni
dell’opinione pubblica. Sembra perlomeno curioso che le critiche si rivolgano con tanta veemenza all’architettura contemporanea dimenticando allo
stesso tempo tutta la pessima edilizia
che ci circonda. Forse ci stiamo abituando al peggio, lo stiamo assorbendo, finendo per contestare la contemporaneità e l’eccellenza.
Al solito siamo in ritardo; mentre
l’estero discute sull’opportunità delle
architetture spettacolari, qua stiamo
ancora indecisi tra progetti contemporanei di qualità e la casetta con il
tetto a due falde di una volta. Non siamo in ritardo: stiamo ingranando la
retromarcia. Magari a qualcuno potrà
sembrare inopportuno parlare di questo tema quando oggi vi sono innumerevoli problemi sono innumerevoli che riguardano l’esistenza di tutti.
Però l’architettura è spesso lo specchio di una società, illustra il passato, può rendere meno doloroso il presente è migliore il futuro. Sfruttare la
crisi come momento di riflessione e
di trampolino di lancio, è un’occasione forse irripetibile, per ritrovare tutta
l’emozione, lo spirito vibrante di un
manufatto, così come i costruttori migliori hanno sempre saputo fare sempre, dall’alba dei tempi.●
Panorama 21
Arte
Nato un secolo fa nella montenegrina Igalo, è considerato uno dei maggiori e
Crali, il futurista stregato dall’ebbre
di Erna Toncinich
S
e la borsetta, accessorio autenticamente femminile, conta una
vita piuttosto lunga, il borsello,
molto più giovane, di anni ne compie
esattamente sessanta. L’invenzione di
questo oggetto, ancora pallido concorrente della borsetta, la si deve ad un
artista dalmata,Tullio Crali, tra i maggiori rappresentanti, se non il maggiore, dell’Aeropittura, vale a dire un futurista. Futurista che rimarrà fedele ai
principi del movimento artistico anche
quando questo, nel 1944, con la scomparsa del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti, cesserà di esistere.
L’idrovolante che plana sulla distesa d’acqua dinanzi alla casa in cui
vive da bambino, a Zara, dove la sua
famiglia si è trasferita dalla montenegrina Igalo dove egli era venuto alla
luce nel 1910, lo affascina, e sarà proprio l’aereo il motivo principe di tutta
la sua futura opera pittorica.
“Il monoplano Jonathan” (1988)
22 Panorama
“Incuneandosi” (1939)
Con il successivo trasferimento
della famiglia, questa volta a Gorizia,
si realizzano i suoi sogni: poter vedere da vicino gli aerei, i mostri del cielo
di ogni genere. E Marna, l’aeroporto
militare, lo vede frequente ospite curioso, munito di carta e matita, che disegna carlinghe e ali e cabine e motori e tutto ciò che fa un aereo. Perché,
per lui, “quando l’elica dell’aereo comincia a girare è come sentirsi tra le
braccia della donna amata”. Ma anche l’ebbrezza del volo lo affascina, e la prova, tante tante volte, anche
a bordo dei velocissimi caccia, ed un
idrovolante, come quello che da bambino vedeva planare sullo specchio
d’acqua dinanzi la casa della sua infanzia, a Zara, lo pilota lui stesso, sebbene privo di brevetto, per raggiunge
la vicina penisola istriana.
Propagato da Sofronio Pocarini, negli anni Venti, in Friuli Venezia Giulia
il movimento futurista è già una realtà. Crali entra a far parte di un numeroso gruppo e prende parte alle serate futuriste organizzate a Trieste, Gorizia e Udine. Alla Seconda Esposizione goriziana di Belle Arti, presentata
Arte
esponenti dell’aeropittura
ezza del volo
“Autoritratto” (1935)
nel 1929, anno della pubblicazione del
“Manifesto dell’Aeropittura”, vengono notati i suoi lavori, astratto-figurativi. Ha solo diciannove anni e opera
da autodidatta.
Per il promettente artista dalmata il Futurismo è la via idealmente
scelta da sempre, sin da quando, giovanissimo, si studiava le immagini
delle opere futuriste attraverso varie
pubblicazioni; la dinamicità, la modernità, il progresso sono i principi sui quali intende operare, già da
tempo trova entusiasmo per le opere dei due massimi futuristi, Boccioni e Balla - con quest’ultimo stringerà
duratura e sincera amicizia -. Ammira oltremodo Marinetti, il padre del
primo movimento artistico italia-
“Le frecce tricolori” (1986)
no di carattere universale, ma anche
Marinetti stima il giovane curioso e
loquace dalmata conosciuto a Trieste nel 1929, che definisce “una delle
splendide vittoriose sicurezze dell’aeropittura”. Ammirazione corrisposta,
nel mondo dell’arte del tempo si va
dicendo che due sono le cose amate
da Crali: l’aereo e Marinetti. E Marinetti vuole Crali presente alla grande Prima Esposizione di Aeropittura
futurista italiana di Parigi, evento da
lui organizzato nel 1932. A questa
importante partecipazione seguiranno ben cinque presenze consecutive
alla Biennale di Venezia; all’edizione
1940 avrà una sala tutta per sé.
Scomparso Marinetti e sciolto
il Movimento futurista, Crali, dopo
“Rombi d’aereo” (1927)
qualche anno di insegnamento a Torino, lascia l’Italia, per otto anni vive
a Parigi dove insegna ed ha contatti
con alcuni tra i più rilevanti nomi del
mondo artistico, lo scultore Zadkine,
il pittore Villon, ma anche i connazionali Severini e Campigli. È allora
che, ispirato dalle pietre della Bretagna, inizia la sua fase dei Sassintesi,
lo studio delle pietre e la trasposizione
sintetica di queste in pittura. Fedele
alla prassi futurista, firma, nel 1958,
il “Manifesto della sassintesi”. Dopo
altri quattro anni d’insegnamento in
una scuola d’arte nella capitale egizia, rientra in Italia per continuare la
sua vita dinamica, “futurista”: agli
aerei, quale motivo conduttore della
sua pittura, si aggiunge quello della
città, la città futurista, avveniristica,
ideata dall’architetto Sant’Elia, con
gli altissimi grattacieli che si intersecano, le prospettive impossibili, tiene
conferenze, partecipa a dibattiti, allestisce mostre. Una vita dinamica (che
si concluderà a Milano nel 2000),
come la sua pittura.
Il MART, Museo d’arte di Trento e Rovereto, conserva un centinaio
di opere (donazione dell’artista stesso)
che fanno conoscere l’opera del pittore
Tullio Crali nella sua interezza e coerenza pittorica. Maurizio Calvesi, noto
critico d’arte italiano, lamenta la mancanza di un giudizio storico sull’artista, che per lui è “... il rappresentante
più felice (e più inquieto ) di quel capitolo in verità non sempre felice del
tardo futurismo che va sotto il nome di
aeropittura”. Per la cronaca ●
Panorama 23
Reportage
Fu disegnata nell’agosto 1619 dall’ingegnere italiano Giacomo Fino
La mappa di Capodistria ha 390 anni
testo e foto di Ardea Velikonja
U
na passeggiata nella storia,
Si potrebbe definire così la
visita organizzata il primo
agosto scorso dalla società umanistica “Histria” di Capodistria grazie all’apporto dei professori di storia Salvator Žitko e Darko Liker
dell’Università del Litorale, rispettivamente di Lubiana. Il giro storicoturistico è stato organizzato per ricordare i 390 anni della prima mappa di Capodistria, stesa dall’ingegner
Giacomo Fino nel 1619 su ordine
del podestà Bernardo Malipiero che
la presentò quindi al Senato Veneto.
L’originale è custodita nell’Archivio
di Stato di Venezia che gentilmente ha concesso all’Histria di farne riproduzioni da mostrare e vendere al
pubblico.
L’adesione ha sorpreso gli organizzatori. Infatti, nonostante la canicola (35 gradi già al mattino), un
centinaio di persone tra capodistriani, connazionali, ma anche giunte
dall’Italia hanno voluto fare il giro
di quella che un tempo fu Capodistria. L’appuntamento era davanti
alla bancarella allestita di fronte ai
Mercati cittadini, dove si poteva acquistare l’opuscolo e la riproduzione
della mappa che sono andati a ruba.
“Sono piacevolmente sorpreso della
presenza di tanta gente - ha detto il
Un’immagine estiva del capoluogo del litorale sloveno
prof. Žitko -, evidentemente gli stessi capodistriani vogliono conoscere la storia della propria città. Tante
volte sono passati davanti a muri diroccati, hanno messo i piedi su pietre vecchie sulla strada chiedendosi
‘ma perché tutto il pavimento è stato
rifatto e questo pezzo no, perché non
sapevano che in quel punto sorgeva
la cinta muraria?’. E questo centinaio di persone oggi presenti sono la
dimostrazione che, anche se nel corso dei secoli tantissimi ‘pezzi di storia’ sono spariti, gli abitanti di Capodistria vogliono valorizzare e salva-
Alle origini era un’isola
C
apodistria era un’isola e tale rimase fino al 1825 quando vennero bonificati i terreni circostanti, eliminate le saline e il nucleo storico sulla collina collegato alla terraferma. Originariamente l’isola si presentava
come un luogo disabitato su cui venivano fatte pascolare le capre, da cui
il nome che le diedero i romani: Capris o Capraria Insula. Durante il periodo bizantino, in onore dell’imperatore Giustiniano II, fu ribattezzata
Justinopolis ma nel XIII secolo, dopo che i Patriarchi di Aquileia la promossero a capoluogo dei loro domini istriani, il suo nome cambiò ancora
in Caput Histriae che diventò ben presto Capodistria quando nel 1279 la
cittadina si unì alla Serenissima seguendone per oltre 500 anni la storia.
L’aspetto dunque è rimasto quello di un centro storico veneziano caratterizzato da un gran numero di chiese, fontane e palazzi, ora in gran parte in
via di recupero dopo decenni di abbandono. ●
28 Panorama
guardare la storia della propria città.
Un pubblico che ho visto molto attento e molto interessato alle nostre
spiegazioni nonostante il sole cocente. E quindi voglio ringraziare tutti
per l’attenzione prestataci e credo
che questa iniziativa potrà venir ripetuta anche senza aspettare un altro giubileo della Mappa di Capodistria” ha concluso il docente.
Il giro è iniziato dall’ex magazzino del sale, ai nostri tempi meglio
noto come la Taverna, poi ci si è arrampicati fino al Belvedere mentre
gli esperti ci indicavano i resti dei
baluardi che ormai si sono fusi con
gli edifici successivi, e quindi ci si è
addentrati nel cuore delle mura cittadine. Azzeccata la pausa presso la
Comunità degli Italiani “Santorio
Santorio” il cui presidente Lino Cernaz ha offerto un rinfresco proprio
al momento giusto (particolarmente benvenuta l’acqua ghiacciata).
Mezz’ora dopo si è continuato lungo
le calli e le piazzette fino a ritornare
al punto di partenza. Stanchi, sudati
ma soddisfatti, i due docenti hanno
ringraziato i partecipanti che hanno
espresso il loro grazie con un significativo applauso.
La società di studi umanistici Histria è nata nel 2008 con l’intento di
salvaguardare la storia e le tradizio-
Panorama testi
I prof. Liker (a sinistra) e Žitko mostrano
l’itinerario del giro storico
Piazza della Muda con l’unica porta rimasta, delle dodici
cittadine, in cui c’è la Fontana da Ponte
La mappa disegnata nel 1619 da Giacomo Fino
La porta della Muda è stata ed è rimasta la porta principale dalla terraferma di Capodistria
Una delle colonne
Qui iniziava la cinta muraria interna
Qui sorgeva la cinta muraria e subito c’era
32 Panorama
il mare, oggi è un parcheggio
Panorama Impos - Prima - Ultima.indd 8-9
La piastra in bronzo in mezzo alla piazza ricorda
la ricostruzione fatta nel 1994
L’itinerario si è snodato a partire dall’attuale Taverna,
all’origine sede dei magazzini Panorama
di sale 29
12.8.2009 12:07:20
Panorama testi
La passeggiata dal centro al Belvedere dura cinque minuti
La Piazza Brolo con Palazzo Bruti
I resti delle mura del Baluardo terrapienato Belvedere, punto strategico per la difesa della città
Calli e calette tipiche dei borghi di pescatori
I resti di una delle porte della città
La parte meglio conservata delle mura riportate nella mappa di Fino
30 Panorama
Panorama Impos - Prima - Ultima.indd 6-7
Panorama 31
12.8.2009 12:07:13
Panorama testi
I prof. Liker (a sinistra) e Žitko mostrano
l’itinerario del giro storico
Piazza della Muda con l’unica porta rimasta, delle dodici
cittadine, in cui c’è la Fontana da Ponte
La mappa disegnata nel 1619 da Giacomo Fino
La porta della Muda è stata ed è rimasta la porta principale dalla terraferma di Capodistria
Una delle colonne
Qui iniziava la cinta muraria interna
Qui sorgeva la cinta muraria e subito c’era
32 Panorama
il mare, oggi è un parcheggio
Panorama Impos - Prima - Ultima.indd 8-9
La piastra in bronzo in mezzo alla piazza ricorda
la ricostruzione fatta nel 1994
L’itinerario si è snodato a partire dall’attuale Taverna,
all’origine sede dei magazzini Panorama
di sale 29
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Reportage
Una fonte storica
L
Il professor Salvator Žitko
ni del Capodistriano grazie all’entusiasmo di Dean Kermac, attuale segretario, che ha raccolto un gruppo
di storici e intellettuali amanti della storia pratia. Come in quasi tutti
i centri, anche qui dopo la II guerra
mondiale sono stati fatti grossi errori
che hanno devastato il nucleo storico. Oggi per fortuna l’atteggiamento
vers il patrimonio storico è cambiato e la gente apprezza e si adopera a
a cartina di Capodistria di Giacomo Fino del 1619 rappresenta la più
antica pianta della città trasmessa sino a noi. Pur disponendo di svariate fonti scritte che testimoniano dell’impianto urbanistico e del lungo
passato della cinta muraria, non si è infatti conservato alcun documento
iconografico o mappa del perimetro cittadino anteriore agli inizi del XVII
secolo. Quindi possiamo sostenere che la mappa del Fino, nonostante la
semplicità dello schema adottato, sia il più importante documento urbanistico del periodo veneto in quanto oltre alla cinta muraria propone l’intero reticolato cittadino che si è conservato in modo quasi integrale fino alla
caduta della Serenissima nel 1797. In questo documento la base urbana
compare già con la funzione centrale dell’odierna Piazza Tito (la vecchia
Platea Communis) e della Piazza Brolo (il vecchio Caprile). La seconda
caratteristica concerne le otto piazze perimetrali che si sviluppano appena
entro le mura, di cui sei con un proprio mandracchio o comunque con posti di attracco. Di regola tutte queste piazze erano murate su tre lati, mentre la parte che dava sul mare era delimitata dalla cinta muraria con rispettiva porta. La maggior parte di esse era modellata in modo molto semplice
con una o più chiese, una cisterna e la porta d’accesso. Buona parte dello
spazio cittadino era occupato oltre che dalle piazze e dalle vie, anche dai
complessi monasteriali e dagli edifici sacrali. Fino ha segnato queste costruzioni in modo alquanto schematico anche se in maniera piuttosto coerente. Sulla sua pianta vengono rappresentate 24 chiese nonché 7 monasteri a testimonianza che Capodistria, oltre che sede vescovile, rappresentava un importante centro ecclesiastico e monastico dell’Istria. ●
Il presidente della CI di Capodistria, Lino Cernaz, ha ringraziato
il pubblico per l’alto interesse dimostrato
Dean Kermac della società Histria
salvaguardare quel che ne è rimasto.
Il consistente esodo nel dopoguerra
ha portato anche a Capodistria radicali cambiamenti del quadro etnico,
a un nuovo rapporto fra “vecchi” e
“nuovi” cittadini. La città, tradizionalmente molto vivace, ha avuto un
significativo sviluppo economico soprattutto grazie al porto ed alle rev-
lative infrastrutture, mentre il boom
culturale si è avuto con l’istituzione
dell’Università del Litorale. Capodistria si è qualificata così come un
polo politico e culturale d’importanza primaria in Slovenia, attestato dal
fatto che vengono a studiare giovani
da tutte le parti del Paese ma anche
dall’estero. ●
Panorama 33
Letture
L
o scorso giugno sono stati attribuiti i Premi della XLI edizione
del concorso Istria Nobilissima, che hanno dato una nuova conferma dei potenziali creativi del gruppo nazionale italiano nei campi dell’arte e della cultura. Ritenendo che di tali potenziali debba
fruire il maggior numero di lettori nelle pagine riservate alle letture, “Panorama” propone le opere a cui siano stati attribuiti premi
o menzioni. Nella sezione “prosa in lingua italiana” la giuria ha assegnato la menzione onorevole a ROBERTA DUBAC di Castelvenere. Il titolo della raccolta di racconti è “Terra B”.
«Terra B»
Stivai grossi, zervel fin
Al tramonto di un lunedì di fine Quaresima del millenovecentotrentasei, nel piazzale dell’abitato di Iucchi apparve una
bambina. Era magra, vestita di scuro, con le mani immerse dentro le tasche di un grembiule, la testolina alta sul collo, capelli
scuri intrecciati sulla nuca e un paio di occhi che sembravano
due grosse olive mature. Ai piedi calzava stivali grossi, logori
e malconci, che stonavano sull’esile figura, e che lei trascinava
nella polvere, scalciando pietre e trotterellando nell’aria tiepida della sera.
Si fermò davanti al capitello, ricavato nel muro di un fienile, e contemplò a lungo la figura nel quadro, dietro al vetro
di protezione, Gesù Cristo in croce, con il viso sofferente, gli
occhi chiusi e l’espressione della bocca rilassata. Le piaceva
quel quadro. La gente non aveva un viso così. La gente rideva e piangeva in modo diverso e non assomigliava mai al volto di Gesù.
Pronunciò a voce basa un’Ave Maria, poi chiuse gli occhi
e chiese perdono. Ci pensò un po’ e pronunciò anche un Padre
Nostro. Estrasse dal grembiule una pagliuzza d’avena, che era
più grossa di quelle di frumento e meglio si prestava all’intento.
Con entrambe le mani infilò la paglia in un piccolo alveare nascosto dentro a un buco sotto al capitello. Si mise in bocca l’altra estremità e cominciò a succhiare con forza. Sentì in bocca
un sottile filo di sapore. Un dolce filo di miele.
“Pinuccia che stai facendo?” chiese una voce dietro alle sue
spalle.
Pinuccia sobbalzò per lo spavento e si scostò dal muro, voltandosi.
Mino, il minore dei fratelli Bortolin, la guardava con il mento appiccicato al petto.
“Niente” rispose Pinuccia, nascondendo la pagliuzza dietro
la schiena.
“Guarda che ti ho vista. Ho visto che facevi, ma non lo devi
fare!”
“E perché no?”
“Perché quel buco è nostro. Lo abbiamo trovato prima noi.
E poi il fienile non appartiene ai tuoi!”
“Nemmeno ai tuoi, se è per questo!” rispose Pinuccia che
conosceva tutti e quattro i pestiferi fratelli Bortolin. Ogni
domenica tiravano sassi al carro del povero Oreste, che era
muto. Lo prendevano in giro sapendo che lui non poteva gridargli contro. Si spaventava ogni volta, il povero Oreste. Era
un uomo mite, uno che lasciava scorrere; forse l’unica persona veramente gentile del paese. Venuto al mondo sprovvisto
di permalosità e incapace di farsi valere nemmeno con quei
34 Panorama
marmocchi briganti dei Bortolin, che non avevano una madre a badare alle fondamenta della loro educazione e possedevano invece un padre, che li faceva rigare dritti con l’aratro e il bestiame, a forza di colpi di cinghia se c’è n’era bisogno.
“Non importa. Il buco è nostro e solo noi possiamo succhiarci fuori il miele”.
“Si chiama alveare.”
“Che cosa?”
“Il buco.”
“Il buco delle api?”
“Sì.”
Mino non era un fenomeno in quanto ad arguzia. Ma almeno non era cattivo come i suoi fratelli. A scuola non faceva che
addormentarsi sul banco e la maestra lo aveva messo vicino a
Pinuccia perché lei lo potesse aiutare negli esercizi. La maestra
le aveva detto che lei era l’unica della classe capace di aiutare
i meno dotati.
“Allora?” chiese Mino.
“Allora cosa?”
“Ti sposti?”
“No, non mi sposto. Oggi è il mio turno e…” Pinuccia sorrise al ragazzino che era alto quanto lei, ma chiaro di capelli “se
prometti di non dirlo a nessuno, faccio succhiare pure te!” Gli
porse la cannuccia di paglia.
“Guarda che io non ho bisogno del tuo permesso! E poi, io
ho il miiio pezzo di paglia!”
“Va bene, senti” disse Pinuccia con gli occhi spalancati che
faceva, quando cercava di spiegare una grande verità “lo sai che
ci sono due alveari?”
“Come?”
“Ci sono due buchi dai quali si può succhiare il miele, vieni
qua, ti faccio vedere”.
I bambini si accucciarono sotto al capitello e Pinuccia indicò un altro nido di api selvatiche. Con le pagliuzze d’avena ne
aspirarono fuori il nettare. Non ci volle molto. Infine rimasero accucciati sotto all’immagine del Santo Signore, giocando
con alcuni fili d’erba. Poi Mino chiese:
“Ma tu credi che il Signore ci punirà?”
“Credo di no.”
“Sicuro?”
“Be’, insomma. Credo di no, però io ho chiesto perdono e
ho detto un’Ave Maria e un Padre Nostro”.
“Davvero? Pensi che dovrei farlo anch’io?”
“Certo che devi farlo” disse Pinuccia alzandosi e stirandosi
la gonna “siamo in Quaresima Mino! Come minimo devi dire
due preghiere se rubi il miele alle api in Quaresima!”
Letture
“Ah!” fece Mino, “Ma tu hai chiesto perdono al Signore o
alle api?”
“Al Signore! Poi alle api glielo spiega Lui.”
“Sei sicura?”
“Certo. Il Signore parla con tutte le sue creature”
Mino congiunse i palmi delle mani e chiuse gli occhi.
Pinuccia lo guardò per un po’. Mino non pregava. Stava solo
facendo finta.
“Guarda che il Signore lo sa se fai finta, e si arrabbia ancor di
più” disse Pinuccia e si allontanò.
“Non è vero che facevo finta!”
“Sì che è vero!” gridò Pinuccia che ero corsa verso casa.
“Ma ora dove vai?” gridò ancora Mino.
“Vado a dar da mangiare alle capre! Tocca a me!” rispose Pinuccia da lontano, lasciando il ragazzino solo, sotto al capitello,
a meditare. Mino non ricordava una sola preghiera per intero.
Pinuccia era orfana di padre. Aveva due sorelle maggiori e
una madre dall’umore tedioso, l’ossatura grossa e la salute massiccia.
Iucchi era una minuscola frazione, un po’ barbara, abbarbicata su di pendio carsico. Era uno dei mille casolari popolati da
contadini e qualche artigiano nell’ampio e triangolare comune
di Pirano, dove la vita stentava a trascorrere, cadenzata dai lavori agresti, la raccolta di tutto il selvatico commestibile e la
paziente attesa della bella stagione. Il lento trascorrere del tempo, centellinato rispetto al resto del mondo, si misurava nei rintocchi del vociare, cantare e bisticciare in dialetti che continuamente sfumavano l’uno dentro l’altro, accomunati da latinismi
e germanismi e parole della cui origine nessuno avrebbe saputo
dar spiegazione.
La famiglia di Pinuccia era per metà italiana e per l’altra
metà di origini austriache. Ciò che possedeva di italiano erano il nome Antonini e un portamento fiero. Dalla madre, invece, ereditava quotidianamente una giusta dose di severità
e disciplina. La nonna paterna, con la quale Pinuccia condivideva una maggior confidenza, era anche l’unica persona di
famiglia a trasmetterle affetto tangibile, ed era da lei che la
bimba si rifugiava ogniqualvolta la madre, oppure le sorelle
maggiori, se la prendevano per qualche pasticcio compiuto
dalla piccola.
“Le tue sorelle hanno sangue rigido in corpo, mentre tu sei
più nostra” le diceva la nonna, pronunciando quel “nostra” con
gli occhi rivolti al soffitto e un’aria sognante.
Pinuccia non sapeva cosa rispondere, però le piaceva che la
nonna la chiamasse “nostra”, come se volesse accentuare una
provenienza di stirpe nobile. Suo padre Giacomo, che era stato
operaio alla fabbrica di tabacchi di Zaule, era morto di polmonite fulminante poco prima che lei avesse avuto il tempo di compiere i primi tre mesi di vita.
“Gli somigli tanto” le diceva la nonna “hai i suoi stessi occhi
scuri e la stessa camminata lenta”. E ogni volta che glielo diceva, Pinuccia correva nella macchia dietro casa della nonna, si
fermava, chiudeva gli occhi, prendeva una boccata di aria e poi,
lenta, si muoveva tra gli alberi bassi, cogliendo frasche e immaginando che così lo avesse fatto anche il suo papà.
La casa di Pinuccia era un luogo dove quattro donne condividevano umori, malumori e pensieri solenni sulla vita miserevole e malvista - com’era al tempo - quella di una famiglia della
provincia senza una voce, una mano e un timbro maschile.
Tilia e Norma sembravano gemelle, nate a distanza di soli
sedici mesi, di spalle e mani grosse, taciturne, occhi color
della foschia e lunghi capelli cenerini raccolti in trecce che
mai osavano lisciare. Pinuccia, al contrario, i suoi capelli, di
una calda tinta castana, se li toccava spesso, soprapensiero,
sognando di diventare maestra. Adorava la scuola ed era brava in aritmetica, molto di più delle sorelle, le quali non avevano amato particolarmente la scuola e, come tutti i giovani
della loro età, ne erano già state esonerate. Loro di sogni non
osavano farne. Soffocavano nell’animo ogni singolo barlume di spensieratezza che la natura accendeva in corpo agli
esseri della loro età. I dolori mensili, gli sguardi dei maschi
adulti, i gesti e le occhiate dei ragazzi davanti all’emporio
giù in paese, i commenti a voce non troppo bassa delle donne vestite di nero alla messa della domenica, tutto ciò era
fonte di imbarazzo per le due ragazze che fra loro non usavano chiamarsi per nome, ma usando l’appellativo “sorella”
e rafforzando in tal modo una complicità alla quale Pinuccia
non era ammessa, perché troppo piccola, troppo sorridente,
troppo diversa.
Matilde, vedova prematura, madre di tre femmine e nemmeno un figlio maschio, aveva ereditato un po’ di terra, due capre e
una casa stretta e buia, concessale da alcuni zii acquistati in matrimonio, italiani ma comprensivi.
”Siamo le più povere in paese” diceva Matilde alle figlie
“perciò ficcatevi bene in testa ciò che vi insegno, tenetevi pulite
e non date mai a nessuno ragione di pensar vergogna di voi”.
Tillia, Norma e Pinuccia si ficcavano in testa i mestieri e, con
l’osservanza silenziosa come unico punto in comune, tenevano
pulite le loro vesti, i vasi da notte, la stalla delle capre e la cucina, senza mai dare ragione alcuna a chiunque di pensar vergogna di loro.
Ciò che le tre sorelle ignoravano era che la gente non aveva
bisogno di venir motivata per pensare il male e ciò che avrebbero avuto modo di scoprire in un tempo imminente nel loro mondo pacifico era che la malignità nasceva come atto volontario e
sempre ingiustificato.
Le tre ragazzine avanzavano pudiche su e giù per la strada
che separava la loro casa dal nucleo del paese, che quasi nessuno si accorgeva del loro passaggio. Solo Pinuccia, la minore,
camminava con gli occhi puntati diritti davanti a sé e, qualche
volta, si permetteva pure di sbirciare a destra e a sinistra.
“Le tue ragazze sono ottime fanciulle” diceva la moglie del
brigadiere, presso la qual caserma Matilde prestava servizio
come lavandaia e governante.
Donna Elisabetta Cheli osservava la strada dal suo appartamento, nell’edificio più alto di Castelvenere, e chiamava Matilde a porgersi anche lei sul davanzale ogniqualvolta una delle sue
figlie transitava davanti alla caserma.
“Pinuccia è così graziosa” diceva la brigadiera “assomiglia
al tuo scomparso consorte?”
Matilde raccoglieva l’osservazione senza rancore, conscia
che l’aspetto docile e mingherlino della sua ultimogenita era in
contrasto con la sua figura alta e possente. Nessuno in famiglia
aveva caviglie sottili come quelle di Pinuccia, né un collo così
elegante, e neppure un paio di occhi così aperti e grandi. “Occhi
pieni”, aveva notato il suo Giacomo - poco prima di ammalarsi
della polmonite che lo avrebbe fulminato - tenendo in braccio
quel fagottino bruno e sorridente che era stata la sua terza figlia nei primi due mesi di vita. “Occhi pieni” ripeteva Matilde,
guardando la figlia e pensando che quei suoi occhi scuri erano
colmi di curiosità, del tipo che non sarebbe stato facile riuscire
a soddisfare.
“Mia figlia vorrebbe conoscere le cose del mondo; vorrebbe
diventare maestra”.
Panorama 35
Letture
“Ma fa bene, Matilde! E tu dovresti incoraggiarla! L’ambizione è segno dei forti. Ti prego, promettimi che farai studiare
almeno lei. Pinuccia dimostra un’intelligenza vivissima”.
Se lo so, pensava Matilde. Ho una figlia che a soli otto anni
aiuta me a far di conto e non ha mai mancato un compito, mai
avuta una nota, mai avuto bisogno di aiuto per studiare. Santo
cielo! Cosa doveva promettere alla siora brigadiera, capitata lì
dalla sua elegante Toscana, che si ostinava a passeggiare per lo
stradone polveroso del paese indossando cappellini colorati?
“Cercherò, siora” le rispondeva, tenendo per sé la certezza
che la sua povertà sarebbe rimasta tale e che pure nel destino di
sua figlia Pinuccia, quella bambina lodata dal Cielo, ma capitata su di un pezzo di terra poco lodevole, ricca di inventiva e di
buon umore, era segnato e firmato in bella grafia divina di dover
diventare serva di signori pure lei. Magari lo avrebbe potuto fare
a Pirano o Capodistria, dato il suo bel parlare e quel portamento affatto contadino, ma sempre di far la serva si sarebbe trattato. Sua figlia spiccava come una nota stonata tra gli altri pargoli
del paese, tutti piuttosto biondicci e tozzi, già quasi rassegnati ad
una vita di stenti e pochissima immaginazione. Guardando Pinuccia, la sua compostezza serena ed il suo viso che trasmetteva
decisione a audacia, era difficile pensarla come serva di qualcuno. Pareva piuttosto padrona del suo mondo.
“Proprio tanto graziosa…” ripeteva la brigadiera dalla sua
postazione di vedetta. “Con il tuo permesso, Matilde, voglio
confezionarle un vestitino per la Pasqua, che ne dici?”
Dico che quest’offerta generosa non è mai arrivata per le altre mie due figlie, avrebbe voluto rispondere Matilde. “Se la cosa
la aggrada, siora, ma io non potrei permettermi di pagarlo”.
“L’abito? Non essere sciocca, Matilde. L’abito sarà il mio
dono a Pinuccia per la festività e poi, non compie gli anni, la
bambina, fra poco?”
“Sissignora. Il cinque del mese prossimo.”
La notizia del regalo aveva messo l’euforia in corpo a Pinuccia, portata alla caserma a prendere le misure il giorno dopo.
La brigadiera le aveva offerto biscotti alle mandorle e mostrato un pezzo di crepelle rosso vivo che avrebbe usato per cucire
l’abito.
Alla sera della domenica delle Palme, dopo che i ramoscelli di ulivo benedetto erano stati sistemati sopra ogni armadio di
casa, Matilde sedette sul pagliericcio della sua ultimogenita, già
coricata. Le accarezzò il viso dall’incarnato dorato. Pinuccia aprì
gli occhi, che brillarono nell’oscurità, e guardò la madre, senza
sbattere ciglia, sveglia e in ascolto. Quando apre gli occhi così,
pare le debba uscire l’anima, pensò Matilde, che non poche volte si era sorpresa, dopo il decesso del consorte, a rimpiangere
che quella figlia di spirito così forte non fosse nata maschio.
Ma quel rimpianto era un’assurdità. Pinuccia non aveva colpe se era nata femmina e se doveva affrontare quel duro mondo, dove ci si svegliava prima dell’alba per far pascolare i dindi;
dove estirpare erbacce e sassi dai campi era un’opera perpetua e
per recarsi da un medico specialista (come per Norma che aveva avuto bisogno di un intervento oculistico dopo che una spiga
di grano le aveva bucato l’occhio), bisognava macinare miglia e
miglia di strada bianca fino a Pirano o Trieste, molto meglio per
lei ritrovarsi in corpo quell’indole gagliarda.
Pinuccia la guardava senza aprir bocca. Bastavano quegli occhi belli, grandi e lucidi ad interrogare la madre sulla sua visita.
“Pinuccia…” disse piano la donna “ho pensato molto ultimamente”.
Pinuccia sorrise, dentro al suo letto, con i capelli scuri sciolti
sul candido cuscino.
36 Panorama
“Ho pensato che la brigadiera è molto generosa a farci questo presente. Lei… prova una grande simpatia per te, sai?”
Pinuccia annuì. Lei sapeva sempre a chi stava simpatica.
Leggeva le menti altrui, Pinuccia, o le altrui anime impaurite
quando vi percepiva disprezzo o invidia, o entrambi in alcuni
compaesani.
“Tra una settimana è Pasqua. Tu avrai il vestitino nuovo. Sei
brava a scuola pure quest’anno. La signora Olivia, la tua insegnante, è fiera di te, lo sai e io… “.
Matilde si bloccò, senza sapere come proseguire, non essendo avvezza alle parole di sentimento, non riuscendo a tirarle fuori, da quello scrigno in fondo al petto, dove stanno custodite in
ogni essere umano, ma in taluni paiono chiuse a chiave.
Pinuccia levò per un attimo il lenzuolo, tirando fuori le sue
piccole mani affusolate e prendendo quelle della madre nelle
sue.
“Dimmi madre” disse con voce dolce, appena percettibile.
Matilde allora si schiarì gola e mente e proseguì.
“Ecco, ho pensato Pinuccia. Prendo ventiquattro lire per carabiniere ogni mese. Loro sono in tre e…”
“Fanno settantadue lire al mese!” dichiarò rapida Pinuccia,
convinta che la madre volesse farle degli indovinelli e in tal
modo, giocare un po’ con lei.
“Come? Ah… sì, Pinuccia, lo so. Non volevo farti fare di
conto. Ascoltami, figlia.”
“Ti ascolto, mamma” I suoi occhi sempre aperti e lucidi, il
sorriso fissato sulle piccole labbra rosee.
“Ho messo via qualche lira in più negli ultimi due mesi e
credo sia ora di acquistare per te un paio di scarpe nuove. Non
posso portarti in chiesa domenica prossima, con l’abito nuovo e
quegli stivali in sfascio, figlia”.
“Davvero mamma? Ci possiamo permettere un paio di scarpe nuove?”
“La brigadiera non mi perdonerebbe mai se ti vedesse indossare il suo abito con scarpe vecchie. E poi… te lo meriti, Pinuccia. Te lo meriti proprio”.
“Grazie mamma!” urlò Pinuccia balzando dal suo giaciglio e
abbracciando la madre “E grazie alla brigadiera!”
Il mattino seguente Matilde aveva portato la figlia a Buie, al
negozio di calzature, e per venticinque lire aveva acquistato per
lei un paio di scarpe di pelle nera, coi lacci e una stringa diagonale.
Pinuccia si era rimirata a lungo, nello specchio del negozio, non riuscendo a credere che quelle meraviglie che aveva ai
piedi fossero davvero roba sua. Le aveva tenute strette al petto
lungo il sentiero che dalla Stazione di Buie portava, attraverso
il bosco, fino a Iucchi. Le aveva portate di sopra, nella camera che divideva con le sorelle, appoggiandole con delicatezza
sopra il letto, e si era seduta accanto a loro, guardandole sognante.
Sua madre si era raccomandata molto. Le scarpe dovevano rimanere riguardate fino il giorno di Pasqua. Pinuccia non
avrebbe dovuto indossarle prima.
Ma Pinuccia non mantenne la promessa.
Ovvero la mantenne in un modo bizzarro, segreto ed infinitamente innocente.
Ogni sera, quando si spogliava per indossare la camicia da
notte, tirava fuori da sotto il letto le scarpe nuove, avvolte in un
panno. Le calzava, le allacciava e si sistemava sotto le coperte.
La voglia di averle ai piedi era così grande che la bambina, per
un’intera settimana calzò le sue lucide scarpette durante il sonno.
Letture
Il Giovedì Santo Pinuccia si recò una seconda volta, assieme alla madre e alle sorelle, alla caserma di Castelvenere dove,
dopo l’ultima prova, donna Elisabetta Cheli aveva applicato al
vestito un colletto di cotone bianco, a ricamo traforato.
Pinuccia aveva indossato l’abito e le donne intorno a lei erano ammutolite.
Siora Cheli chiese il permesso alla sua governante e sciolse
i capelli di Pinuccia. Le parve di ritrovarsi davanti l’immagine di un dipinto dei maestri del Cinquecento. Si commosse per
come quella stoffa raffinata desse alla bambina una luminosa
aurea di genuinità, e di come si distinguesse quella ragazzina
dal resto del borgo provinciale, da quella realtà ai confini con
altri mondi, dove lei intuiva un mescolio di razze che poco le
piaceva, mentre in Pinuccia ammirava una totale e pura italianità.
“Iddio non m’ha concesso la benedizione di diventare madre, Matilde” disse la brigadiera “ma se lo volesse fare, desidererei l’esatta copia di… Giuseppina, vero?”
“Sì, siora Cheli” disse Pinuccia, fermando i suoi volteggi e
rivolgendo un lieve inchino “Giuseppina Rosalia Antonini, nata
a Iucchi, il cinque di maggio del millenovecentoventotto”.
Il giorno di Pasqua si rivelò splendido. L’aria salubre che saliva dal mare e dalle valli era satura del profumo balsamico dei
pini. Nelle campagne i vigneti erano rigogliosi e brillanti. Matilde e le sue figlie erano uscite dalla chiesetta di San Saba alle
otto di mattina, con la pinza e tre uova cotte, cibo benedetto dal
Signore per tramite del loro parroco. Nel cimitero adiacente la
chiesa, la tomba di Giacomo Antonini era adornata con fiori di
prato, posati dentro a un vaso. Pinuccia aveva infilato una piccola margherita sulla croce di ferro che fungeva da lapide al padre scomparso. Aveva pregato e ringraziato Gesù di tutti i doni
di quella primavera, chiedendo al Signore di proteggere in salute
le sorelle, la madre, la nonna e tutto il paese. Aveva chiesto salute pure per la brigadiera, ignorando che un giorno ancora lontano, lei ci avrebbe abitato nella caserma dei carabinieri di Castelvenere; in un altro tempo e un’altra nazione e un altro tipo
di povertà.
La famiglia si era congedata dai compaesani che amavano
fermarsi a chiacchierare dopo la messa. Le donne e le ragazze
più grandi avevano tempestato Pinuccia di occhiate e rivolto a
Matilde parole di compiacimento dicendo “oh che bel vestito” e
“oh che fanciulla bella si sta facendo”.
Matilde era stata gentile con tutti, come sempre faceva, ringraziando dei complimenti e stringendo il canovaccio con il
quale erano avvolti il dolce pasquale e le uova che fra poco
avrebbe diviso con le figlie su di un prato poco distante da casa
loro, all’ombra di un olmo, come facevano ogni anno, nel grande giorno di festa, a cuor leggero, senza permettere a nulla di
maligno di guastare la celebrazione cristiana della Risurrezione
e quella loro più intima; la rinascita della speranza per una nuova stagione con più cibo e meno stenti.
Pinuccia non la smetteva di lisciarsi il vestito e toccarsi il
colletto. Sedeva con cura su un ciocco abbandonato, a piedi uniti, osservando le sue scarpe come avrebbe guardato un’eclissi di
sole e non un paio di calzature nuove.
Pinuccia era contenta. Era grata per quei raggi luminosi che
le riscaldavano il capo attraverso le fronde dell’albero. Per l’aria
limpida che le donava appetito nel gustare la sublime pinza preparata dalla mamma. Per il sentimento di ricchezza che provava
per la prima e forse unica volta in vita sua. Pinuccia sentiva il
cuore gonfio di amore per tutto ciò che viveva intorno a lei, per
la sua stessa esistenza. Era felice, e a loro modo, umile, riservato
e silenzioso, un accenno di felicità lo provavano in quel momento pure Tilia e Norma, e Matilde, la loro madre.
Tornando a casa e pregustando il pranzo a base di agnello
che nel paese di Cremegne avrebbe loro offerto nonna Antonini,
le quattro donne marciavano fra le case, salutando i vicini e chi
non avevano incontrato, quel mattino, alla santa messa.
Giunte che furono nei pressi della loro casa, transitarono davanti all’abitato del vecchio Enrico, che a messa non ci andava
mai, né mai augurava nulla di buono a nessun essere vivente.
Enrico se ne stava torvo, seduto davanti a casa su una panca,
assieme al suo compagno di briscola e bevute, Jure: un ammasso
di ossa e malumore che sputava per terra con la stessa frequenza
con la quale le rondini cambiavano rota nel cielo.
Matilde conosceva quei due abbastanza da tenersi lontana
dai loro paraggi, ma per andare a casa doveva per forza passarci
davanti a quelle guardie del diavolo, che parevano appostate lì
a controllare tutto e tutti per poi brontolare un costante disprezzo, senza possederne un valido motivo e senza farsene troppo
scrupolo. La vedova aveva insegnato alle figlie a salutare tutte
le persone, anche quelle che per mancanza di educazione non
ricambiavano l’umano gesto di cortesia, nel quale gruppo si ritrovavano pure il vecchio Enrico ed il suo compare Jure. A lei
non importava cosa facevano gli altri; le premeva solo di avere
un cuore misericordioso a batterle in petto, e altrettanto desiderava per le sue figlie.
Pinuccia camminava in testa alla famiglia, come una sentinella davanti al suo piccolo esercito, trotterellando con le sue scarpette nuove sulla ghiaia, a testa alta, come sempre aveva fatto fin
dal giorno in cui si era erta in piedi per muovere i primi passi davanti alla stalla delle capre. La bambina camminava fiera, come
sempre aveva camminato, fino al giorno prima con l’abito vecchio, il grembiule grigio ed i stivaletti logori che erano stati delle
sue sorelle e di chissà chi altri ancora prima di loro.
Quando si trovò dinnanzi al vecchio Enrico, Pinuccia si fermò e si rivolse ai due anziani.
“Buongiorno signori e Buona Pasqua a voi!”
Sbigottito e sorpreso dell’insolente saluto con il quale la piccola Antonini aveva voluto offenderlo, chiamando “signore” lui,
che tutti sapevano non avere una lira in tasca, troppo vecchio e
malato, invalido di guerra, eternamente misero, Enrico cominciò a scrutare la bambina, senza rispondere al suo saluto, ancor
più arcigno e ingobbito sulla sua panca.
Sembra uno spavalier, pensò Pinuccia, immobile di fronte a
quell’essere sinistro.
Matilde s’era fermata pure lei, e le figlie maggiori dietro alla
madre. Non le piaceva vedere la sua bambina vicino a quei due.
Lei conosceva da tempo la malvagità di alcune persone, ma per
Pinuccia era troppo presto. Vederla lì, davanti a quei due corvi le
metteva addosso un forte senso di ansia.
Enrico rideva con la sua voce sgraziata. Jure sputava sulla
ghiaia davanti alla bambina, bestemmiando in slavo e mandando agli inferi tutti i santi e le feste religiose.
Matilde avrebbe voluto trascinare via sua figlia di lì, per impedirle di ascoltare altri scongiuri o qualcosa di peggio. Ma neppure lei si aspettava ciò che stava per uscire dalla bocca sacrilega. Matilde rimase immobile, senza riuscire ad impedire alla
figlia di testimoniare per la prima volta ad una grossa, spietata,
gratuita cattiveria.
“Guarda Jure!” disse il vecchio Enrico, con voce stridente,
compiacendosi della propria osservazione. “Le orfane Antonini non hanno di che mangiare e se ne vanno in giro con scarpe
di lusso!”
Panorama 37
Libri
Gian Luigi Falabrino: Kugluf, Cronache di una marca di confine e altre poesie
Umanità dolente in versione giuliana
A
tipico il titolo, atipico il
riferimento, ma universale il messaggio di questo
dolente Kugluf, sottotitolo Cronache di una marca di confine
e altre poesie (Edizioni Comedit 2000, anno 2008) in cui Gian
Luigi Falabrino ha condensato le
esperienze degli anni in cui, ragazzo di nove anni (è nato a Genova nel 1930), era giunto con la
famiglia a Trieste, per rimanervi
fino al 1950. Un’esperienza che,
seppur giovane, egli interiorizza e
si porta dietro per decenni travasandola in poesia quando ha ormai
superato i cinquanta. Kùgluf, surrogato di nome per un surrogato
di torta, che, immiserita dalla penuria, nell’ultimo anno di guerra
definirà non più che una spartana
torta di riso che Giovanna Zontar,
la domestica slovena al servizio
dei Falabrino, si industria a preparare. Del dolce primitivo, di quel
kugelhupf da tempo diffuso in diverse parti dell’ormai più che defunto impero, Trieste compresa,
non resta nulla, neppure il nome,
in quanto abbondantemente storpiato. Paradossalmente, in questo quadro di afflizione, Giovanna, si direbbe, ora sta meglio, perché il tempo in cui vive è sì volto
al peggio in parecchi aspetti, ma
non proprio in tutti. L’occupante
tedesco ad esempio, teso a un tardivo recupero degli sloveni, la lascia libera di usare la sua lingua
per due decenni tanto invisa agli
italiani, ed è lei a consolare la padrona: “No la stia bazilar, chi bazila mori. Gli uomini xe tuti uguali. Cambia le bandiere e niente
cambia”.
Non ha torto. Che cosa è cambiato da quando Francesco Giuseppe, per un pensiero in meno, inviò
l’ultimatum alla Serbia mandando
così alla Cripta l’Impero, l’Europa
e milioni di uomini vivi? Che cosa
ha imparato l’uomo da quel macello? Nulla, se si considera che, passati poco più di due decenni, sua
madre, napoletana e Danila, un’al-
38 Panorama
tra domestica slovena, a sentire
Mussolini dichiarare la guerra (...)
piangevano insieme per la stessa ragione. Un pianto premonitore, come ricorderà in un’altra poesia la ragazza reduce da Buchenwald dov’era finita su denuncia del
fidanzato, il cui amore aveva ceduto alle torture. Ma lei ora si oppone
ai compagni che vogliono punire
il traditore. In nome della vecchia
passione, pensano. Molto più prosaica la vera spiegazione, nota a lei
sola: Mai avevano visto qualcuno
scannarsi per un pezzo di patata.
E non finisce qui. Quel male a
cui gli uomini sono assurdamente protesi continua ad affliggere la
mente e a indirizzare i passi degli
umani, a Trieste come altrove. Qui
però assume sembianze specifiche,
come quella del signor Petronio,
italiano, visto, per l’ultima volta
per via Campo Marzio, a piedi, fra
le guardie jugoslave allontanarsi. Non serve altro, bastano queste pennellate in apparenza liscie
e discorsive, ma incentrate di fatto
su una partecipazione di rara profondità, per capire quanto il tema è
stato interiorizzato ed esplorato in
tutti i suoi meandri e in quale misura l’autore sia riuscito a penetrare nell’essenza dei fatti che hanno lacerato queste terre nella prima metà del secolo scorso creando
postumi che tuttora fanno sentire il
loro doloroso effetto lasciando trasparire una sorta di naturale ineluttabilità, una sorta di ineludibile
pessimismo cosmico di stampo leopardiano.
Da una poesia all’altra Falabrino intesse una rete in cui ingabbia
sia il dolore il dolore, per il tanto
male che è stato fatto sia la sconsola consapevolezza che il presente non è per nulla migliore. Si può
quindi dare per scontato che anche
il futuro proporrà orrori e nefandezze in dosi massicce, come quelle di cui è rimasto vittima l’ingegnere triestino dal nome turco fucilato dagli jugoslavi a Villa Decani
o la zia Catiza, sposata a un croato,
che dalla Dalmazia si era messa in
viaggio per vedere nipoti e sorelle in Italia. Arrivata a Fiume, anziché salire sul treno per Trieste, era
scomparsa nel nulla. Spiegazione:
in quel dopoguerra era così facile
far credere che una spia / italiana
fosse in viaggio, soprattutto / per
un marito ansioso di risposarsi subito, / con una qualunque Dànica
più giovane…
Un libro da leggere dunque e su
cui meditare, per tanti motivi. A decorrere dalla precisione dei “sondaggi giuliani” alla pietas che traspare dai versi ed anche, elemento per noi pure denso di significati
più familiari: per la prefazione stesa da Adriano Sansa, nome che per
noi non necessita di presentazioni.
Gian Luigi Falabrino ha fondato e diretto con Adriano Guerrini la rivista culturale “Diogene”, la rivista politica “Il Mondo
nuovo”, ha fatto parte del comitato di redazione di “Critica sociale”
e redattore e collaboratore di vari
quotidiani e riviste. Ha pubblicato libri sul teatro, una storia della
pubblicità della propaganda poltica, e saggi su Gaetano Salvemini
e sul socialismo italiano dall’Ottocento al fascismo. ●
M. S.
Teatro
Estate spalatina: stravolgimento delle goldoniane Baruffe ad opera di
Manipolazione indebita, sia pure
di Sandro Damiani
I
n che misura è lecito far proprio un
testo teatrale altrui al punto da modificarne lo spirito e, addirittura, il
pensiero dell’Autore, pensiero - in questo caso, un modo di procedere e precise
scelte, se vogliamo, anche di ordine morale - che ne contraddistingue l’opera?
Sto parlando di alterazione del pensiero dell’autore, non di adattamento
spaziotemporale. In questo caso la liceità non c’entra. Ogni autore del passato, dal più debole al più grande, può risultare interessante anche a secoli di distanza, qualora affronti temi legati alla
natura umana, alle relazioni interpersonali, al rapporto tra l’essere umano e la
natura, l’uomo e il potere, ecc. Non per
mera battuta, infatti, si dice che i classici greci sono nostri “contemporanei”;
e ciò vale pure per Shakespeare e per
Moliere, per Ruzante e per Machiavelli,
per Držić e per Goldoni.
Penso invece allo stravolgimento
vero e proprio. Secondo Bertolt Brecht,
la licenza può essere massima se solo si
ha il coraggio di farlo “mostrando” la
propria faccia. In che senso, ovvero in
che maniera?
Prendere un testo e utilizzarlo anche fino alla quasi totalità inserendoci,
attraverso dialoghi, situazioni, scene e
personaggi, il proprio punto di vista, si
può, a patto che vi si apponga la firma.
Esempio: “Amleto” di Pinco Pallino da
Shakespeare. Oltre tutto, il potenziale
40 Panorama
spettatore sa che non lo aspetta il capolavoro scespiriano, ma un qualcosa che
con la tragedia del principe danese ha
solo qualche addentellato.
Mi si potrebbe obiettare: apporre la
firma, e che ci vuole? Già, che ci vuole?
Ci vuole, ci vuole. Innanzi tutto molto
coraggio. Perché mettere la propria firma a una commedia che (anche) quasi nella sua totalità, come dicevo dianzi, appartiene a un monumento della
storia del teatro significa confrontarcisi, giocare a carte scoperte, (di)mostrare la propria preparazione culturale. È
vero che tanti, molti, troppi commediografi, scrittori, poeti, registi, attori,
si comportano come se fossero superiori, rispettivamente, a Brecht, Sartre,
Leopardi, Strehler, Volontè, ma quan-
ti in effetti sanno più che bene che non
ne sono neppure l’ombra? Per non dire
che il medesimo coraggio lo deve dimostrare il produttore dello spettacolo e
il responsabile del teatro in cui il lavoro
viene rappresentato. Una cosa è offrire
l’”Amleto” di Shakespeare, altra cosa è
offrire l’”Amleto” di Pinco Pallino...
Questa riflessione nasce spontanea
dopo avere assistito ad uno spettacolo,
altrimenti perfetto: Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni, ad opera del Teatro Nazionale di Spalato.
Ebbene, il regista e il dramaturg
della piece, cioè il binomio Vinko e
Ivo Brešan, non osservando il precetto brechtiano, il quale notoriamente ha
fatto suoi numerosi drammi in origine
di altri commediografi e d’altri tempi,
hanno manomesso un’opera che era testimone di poesia e di amore (dell’Autore) verso i più umili, fino a trasformarla nella fotografia di una comunità, anche in questo caso di pescatori e
di popolani sebbene del Novecento, ma
lontani anni luce da quelli creati dalla
penna del Grande veneziano.
Va da sé che i Brešan non si sono
mossi coll’intento di “offendere” Goldoni, ma per lanciare un “messaggio”;
messaggio tutt’altro che ignobile, anzi.
La civiltà dei consumi, della globalizzazione, dei principi che sanciscono il
furto e il malaffare e glorificano il ladro - affermano Ivo e Vinko Brešan ha stravolto anche il modo di essere di
gente per secoli pacifica, bonacciona,
Teatro
Vinko e Ivo Brešan
a fin di bene
magari un tantino baruffona e pettegola
in non improbabili carogne e, addirittura, assassini.
Ed ecco dunque che l’originaria lite
dei pescatori chioggiotti, in cui non ci
scappano né mazzate, né pugni, né tanto
meno coltellate, ma al massimo spintoni e offese a base di epiteti e nomignoli
buffi, nella versione spalatina (la traduzione è quella del Tjardović di mezzo
secolo fa), ambientata in un’isola della
Dalmazia, non solo dopo una prima pacificazione riprende corpo, ma ci scappa
anche il morto.
E che c’entra Goldoni con la morte il morto - in scena? Quando mai?!
Per carità, i Brešan avrebbero benissimo potuto aggiungere anche altro, di
tutto di più e di peggio, ma, ripeto, se-
guendo la suddetta lezione brechtiana,
altrimenti... altrimenti succede che anche un’ottima idea (lo spettacolo in sé
non fa una grinza; l’ho detto, è una perfetta macchina a orologeria e una grande prova teatrale) si presti a critiche di
qualunque sorta, comprese le più in malafede. Perché in malafede? Perché il finale brešano fa torcere il naso (e le budella) per ragioni che nulla hanno a che
fare con Goldoni, i suoi pescatori e il
teatro, ma c’entrano, viceversa, con la
società umana. Anche la nostra. Anche
qui. Infatti, quando la seconda lite viene
smorzata di colpo dalla caduta, di uno
dei litiganti colpito a morte, tra l’altro
il più giovane e indifeso - e il più caro
alla platea - il paciere non solo manda al
diavolo i baruffanti, ma rivolgendosi al
pubblico lo apostrofa urlandogli in faccia: “E voi? Non vi vergognate? Tutto il
tempo state a guardare senza fare nulla!”, con ovvia allusione alla mattenza
inter(ex)jugoslava degli anni Novanta
quando da dentro e da fuori più o meno
imperterrito v’era chi (intere nazioni)
assisteva a ogni sorta di crimine, magari senza ridere (ma ne ho conosciuto parecchi che si fregavano le mani, parlando di “nemesi”), certamente senza muovere un dito.
Parafrasando una massima del principe della politica, “il fine giustica i
mezzi”? No, quando di mezzi a disposizione ve ne sono altri e altrettanto efficaci. Ma visto che l’operazione di Vinko
e Ivo Brešan non è isolata, né in Croazia
né altrove, a loro discolpa possiamo perlomeno dire che ci troviamo di fronte a
un atto - ripeto, discutibile sotto il profilo drammaturgico - di denuncia civile. Che è il contrario in tutto e per tutto
a pagliacciate tipo, per esempio, a quella condotta in porto dal Dramma Croato
alcuni anni fa quando propinò per “Filumena Marturano” di Eduardo la versione caricaturale del film di Vittorio De
Sica, tratto dall’omonimo dramma, ma
non per caso avendo un proprio titolo
nemmeno lontanamente riconducibile
al dramma del De Filippo: “Matrimonio
all’italiana”. Il fatto che lo spettacolo ottenne un enorme successo sul palcoscenico dello Zajc e dei teatri di Zagabria e
Spalato - dovuto unicamente alla straordinaria bravura della protagonista (Ksenija Prohaska) e dei suoi colleghi, non
certo per il ridicolo apporto (?) drammaturgico della Gotovac o la furba regia del Marković - non ha alcun significato, se non che i venditori di fumo
sono sempre in agguato e solo raramente nell’immediato pagano dazio...
Da aggiungere: il debutto è avvenuto
il 9 agosto alla “Lučica Spinut” di Spalato, nell’ambito della 55.ma Estate spalatina. “Tutto esaurito” per le cinque repliche previste.●
Panorama 41
JKL Il canto del disincanto
di Silvio Forza
Il Tevere, l’Arno, il Po, le Alpi...
«Q
uanto bisogna spendere
per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia?
Credo zero”. Lo ha detto senza batter ciglio un ministro dell’attuale governo italiano e, anche se di ministro
delle riforme si tratta, l’eccesso di
“riformismo” è lampante. Fosse una
presa di posizione dovuta alla crisi
economica, alla necessità di risparmiare, si potrebbe anche ragionarci
su, ibastendo un discorso sulle priorità di spesa nei tempi di magra. Tuttavia, le motivazioni del Ministro – e
del leghista Umberto Bossi si tratta
– vanno a pescare altrove e pretendono di fare i conti con la politica e
la storia. Dalle colonne del quotidiano leghista “La Padiana” Bossi lancia anatemi e afferma che “la nascita dello Stato italiano fu un atto contro natura, contro la storia ed è perciò
che, osservato dal nostro presente,
appare ormai come un relitto storico
da superare e da rifondare attraverso
il federalismo”.
Ovvio che l’esternazione del leader leghista è soltanto una provocazione lanciata allo scopo di accelerare i tempi dell’attuazione del federalismo fiscale e magari dell’istituzione
delle verifiche di conoscenza del dialetto locale ai professori che vogliono insegnare in loco. Purtroppo i suoi
proseliti, per lo più poco santi e molto commercianti, queste cose le prendono sul serio e credono davvero che
“fu proprio l’Unità a creare la frattura territoriale Nord-Sud, cioè a disvelare una radicale diversità culturale e
sociale, economica e produttiva, davvero inconciliabile, che divenne sorgente di divisione, non già di unione”. Lo credono candidamente, scordandosi che senza l’unità nazionale
ora le loro regioni padane sarebbero
nulla più che il sud dell’Austria e il
sud della Francia (ce lo immaginiamo un bel federalismo francese?). Un
colpo da novanta, con il danno collaterale che il “novanta” non esisterebbe più, sostituito dal più semplice
quatre-vingt-dix (quattro per venti più
dieci), che appare ‘si digeribilissimo
58 Panorama
dai linguisticamente talentuosi abitanti dell’ÜberPo.
È sconsolante costatare che dopo
tanta esperienza politica, dopo tanti
saggi di sociologia, psicologia, economia, antropologia culturale al giorno d’oggi s’insista ancora in sede
istituzionale a dividere gli uomini in
base ad appartenenze legate a categorie che nulla hanno di definitivamente elettivo: razza, religione, nord, sud.
Le differenze sono altre e sono quelle tra onestà e intrallazzo, tra missione pubblica e tornaconto privato, tra
chi è dedito al crimine e chi rispetta
le leggi, tra chi i libri li legge e tra chi
crede che servano come decoro nei
salotti di casa. La differenza sta tra
chi vuole capire e chi crede di sapere
già tutto, tra chi è disposto ad ascoltare e chi è capace unicamente di sentenziare, tra chi sa che oltre al rispetto
di se stessi esiste anche quello per gli
altri e chi invece questa regola non la
conosce, tra chi ricorre al buon senso
e chi preferisce irreversibili soluzioni
estreme. Sono virtù e guasti comportamentali che si trovano sia tra i bianchi sia tra i neri, sia tra i maschi sia tra
le femmine, ma anche sia al Nord sia
al Sud dello stivale appenninico.
L’Italia ha tanti problemi: dalla disoccupazione (dovuta non soltanto
alla crisi ma anche alla delocalizzazione eseguita senza scrupoli in nome
del profitto) all’immigrazione incon-
trollata, dal (quasi) monopolio dei
media, alla rappresentatività politica
a livello internazionale. Per non dire
che oltre ai problemi locali è investita
anche da quelli globali quali la spettacolarizzazione dell’informazione,
la superficialità dei valori, il trionfo
dell’immagine e il conseguente tonfo
della sostanza, la riduzione della cultura a serva della pubblicità. Ma le risposte a queste emergenze che spesso
vengono (di)n(i)egate, devono essere articolate, fondate sul buon senso
e non improvvisate a suon di battute demagogiche. Così come l’italianità non deve essere percepita come un
sentimento esclusivo rivolto contro
qualcuno (magari contro le identità
regionali) non si deve neppure scordare che senza l’unità del paese ora
gli italiani sarebbero un popolo angustiato da un senso di ingiustizia storica, dalla presa d’atto dell’incapacità
di non aver saputo dar vita ad un ambiente e disegno territoriale unitario
(l’Italia) che già nel XIV secolo era
chiaro a Petrarca che voleva superare le “piaghe mortali” che vedeva nel
corpo italiano dolendosene perché
Non è questo il mio nido /ove nudrito fui sí dolcemente? / Non è questa
la patria in ch’io mi fido, /madre benigna et pia, /che copre l’un et l’altro mio parente? E nella sua patria
c’erano il Tevere, l’Arno, ma anche il
Po e le Alpi. ●
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