La “Testa di Medusa” Storia e attualità degli usi civici Atti del Convegno di Martina Franca 5 ottobre del 2009 a cura di Francesco Mastroberti CACUCCI EDITORE 2012 STEFANO VINCI Università degli Studi di Bari Aldo Moro – II Facoltà di Giurisprudenza I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli in età napoleonica Municipalities and the end of feudalism. The allotments of domains in the Kingdom of Naples during the napoleonic age [Le difficoltà incontrate nel Regno di Napoli nella esecuzione della legge eversiva della feudalità spinsero il neo governo ad istituire nel 1807 una commissione speciale – nota con il nome di commissione feudale – con l’incarico di risolvere tutte le questioni fra comuni ed ex baroni. Lo spirito di questa legge richiedeva che gli organi municipali si rendessero parte diligente nel portare innanzi alla commissione tutte le questioni connesse alle usurpazioni degli ex baroni. Molti furono però i casi in cui i Comuni non ebbero la forza o i mezzi per reagire contro gli ex baroni, molto spesso trasformatisi in nuovi proprietari, e comunque ben arroccati all’interno delle stesse municipalità nelle cui amministrazioni continuavano a dimostrare forte ingerenza. Parole chiave: usi civici, feudalità, Terra d’Otranto The difficulties experienced in the Kingdom of Naples in the execution of the law subversive of the feudal system led the new Government to establish in 1807 a special commission – known as the feudal commission – charged with resolving all issues between municipalities and former barons. The spirit of this law required that municipal authorities might prove due diligence in bringing to the feudal commission all questions related to the usurpations of the former barons. Many were, however, the cases in which the municipalities didn’t have the strength or the means to react against the former barons, often turned into new owners, and well entrenched within the same municipality in whose administration continued to demonstrate strong interference. Keywords: right of common, feudalism, Terra d’Otranto]. Sommario: 1. Ex baroni e nuovi proprietari: la trasformazione economica nelle province; 2. L’azione propositiva dei comuni nella lotta contro l’«appestato»; 3. Gli usi civici nella Terra dei Titani. 3.1. Avetrana; 3.2. Calimera; 3.3. Castellaneta; 3.4. Faggiano; 3.5. Fragagnano; 3.6. Francavilla; 3.7. Ginosa; 3.8. Grottaglie; 3.9. Laterza; 3.10. Leporano; 3.11. Lizzanello; 3.12. Lizzano; 3.13. Martina; 3.14. Massafra; 3.15. Montemesola; 3.16. Motola; 3.17. Palaggiano; 3.18. Palaggianello; 3.19. 117 STEFANO VINCI Racale; 3.20. San Marzano; 3.21. San Pancrazio; 3.22. San Vito; 3.23. Sava; 3.24. Torricella; 4. Conclusioni. 1. Ex baroni e nuovi proprietari: la trasformazione economica nelle province Dopo la conquista francese dell’Italia meridionale, il nuovo legislatore intese attuare un fitto programma riformistico nell’obiettivo di demolire le strutture di antico regime, prime fra tutte la feudalità1. Sull’esempio della Francia, Giuseppe Bonaparte, salito al trono di Napoli, ispirò le riforme ai principi della Costituzione dell’anno VIII e agli istituti amministrativi previsti dalla legge 28 piovoso (17 febbraio 1800)2: furono così attuate nel Regno la liquidazione della feudalità e di tutti i privilegi baronali da essa derivanti ufficialmente sancita dalla legge del 2 agosto 18063 e la riforma del sistema ammi1 Sull’eversione della feudalità nel regno di Napoli cfr. D. WINSPEARE, Storia degli abusi feudali, Napoli 1811; P. LIBERATORE, Della feudalità, suoi diritti ed abusi nel regno delle Due Sicilie, della sua abolizione e delle conseguenze da essa prodotte nella nostra legislazione, Napoli 1834; A. PERRELLA, L’eversione della feudalità nel Napoletano: dottrine che vi preclusero, storia legislazione e giurisprudenza, Campobasso 1910; A. MASSAFRA, Fisco e Baroni nel regno di Napoli alla fine del secolo XVIII, in AA.VV., Studi storici in onore di G. Pepe, Bari 1969; P. VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari 1968; A. M. RAO, L’amaro della feudalità. La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 1984; G. ALIBERTI, Potere e società locale nel Mezzogiorno dell’800, Bari 1987; AA.VV., Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna [cur. M.A VISCEGLIA], Roma-Bari 1992; A. SPAGNOLETTI, Storia del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1997; A. MUSI, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Napoli 2007. 2 J. RAMBAUD, Naples sous Joseph Bonaparte, Paris 1911; J. GODECHOT, Les institutions de la France sous la révolution et l’empire, Paris 1968; S. MANNONI, Une et indivisible, I, Milano 1994; R. FEOLA, Accentramento e giurisdizione. Il progetto amministrativo nel primo ottocento napoletano, in «Storia e diritto», II, Napoli 1989; E. DI RIENZO, Neogiacobinismo e movimento democratico nelle rivoluzioni d’Italia (1796-1815), in Studi storici, XLI, 2000; F. BARRA, Il decennio francese nel Regno di Napoli (1806-1815). Studi e ricerche, Salerno 2007; A. DE FRANCESCO, Da Brumaio ai Cento giorni. Cultura di governo e dissenso politico nell’Europa di Bonaparte, Milano 2007. 3 Legge 2 agosto 1806 abolitiva della feudalità (in Bollettino ufficiale delle leggi e decreti del regno di Napoli (=BLD), Napoli Stamperia Simoniana 1806, II, legge n. 130). Art. 1: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte 118 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... nistrativo e finanziario4 – attraverso la promulgazione delle leggi 8 agosto 18065, 18 ottobre 18066 e 20 maggio 18087. L’eversione della feudalità attuata nel Regno lasciava ai baroni il diritto di proprietà civile, depurato da ogni potestà pubblica, sui loro fondi dei quali – contrariamente a quanto avvenne in Francia8 – non furono espropriati9. Scrive Winspeare: «A differenza delle francesi, le leggi eversive della feudalità nel regno di Napoli […] hanno serbato agli ex-baroni tutto quello che essi possedevano per domile giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque, che vi sieno stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili». 4 Sulla recezione del sistema amministrativo napoleonico a Napoli cfr. A. LUCARELLI, La Puglia nel Risorgimento, dalla rivoluzione del 1799 alla restaurazione del 1815, v. III, Trani 1951; G. LIBERATI, L’organizzazione amministrativa, in Atti del III Convegno sul Risorgimento in Puglia, Bari 1983, pp. 89-182; A. DE MARTINO, La nascita delle intendenze. Problemi dell’amministrazione periferica nel Regno di Napoli. 1806-1815, Napoli 1984; F. MASTROBERTI, Pierre Joseph Briot. Un giacobino tra amministrazione e politica (1771-1827), Napoli 1998; A. MUSI, Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli 2000; F.E. D’IPPOLITO, Comunicare e governare. Considerazioni sulla «geografia amministrativa» del regno di Napoli tra antico e nuovo regime, in «Archivio Storico per le Province Napoletane» (ASPN), CXXII, 2004, pp. 409-40; C. CIANCIO, Riforme istituzionali, regole e compromessi. Il governo della capitale nel Regno di Napoli durante il decennio napoleonico, in «Archivio Storico del Sannio», a. XII (2007), n.s., n. 3; AA.VV., Il governo della città. Il governo nella città. Le città meridionali nel decennio francese [cur. A. SPAGNOLETTI], Atti del convegno di studi (Bari 22-23 maggio 2008), Bari 2009. 5 Archivio di Stato di Napoli (=ASNA), Decreti originali, vol. II, nn. 266 e 267. 6 ASNA, Decreti originali, III, n. 426. 7 ASNA, Decreti originali, XV, n. 877. 8 J. PH. LÉVY, Histoire de la propriété, Paris 1972; F. MONNIER, Propriété in Dictionnaire Napoléon, sous la direction de J. Tulard, Paris 1989; J. SOLÉ, Storia critica della Rivoluzione francese, ed. it., Firenze 1989; F. BUCHE – S. RIALS – J. TULARD, La Rivoluzione francese, Roma 1994; A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, II, Milano 2005, p. 462 SS; A. COBBAN, La Rivoluzione francese, Roma 1994; A. FORREST, La Rivoluzione francese, ed. it., Bologna 1999; G. WESENBERG – G. WESENER, Storia del diritto privato in Europa [cur. P. CAPPELLINI e M.C. DALBOSCO], PADOVA 1999; D.M.G. SUTHERLAND, Rivoluzione e controrivoluzione: la Francia dal 1789 al 1815, ed. it., Bologna 2000. 9 Legge 2 agosto 1806, cit., art. 15: «I demani che appartenevano agli aboliti feudi resteranno agli attuali possessori. Le popolazioni egualmente conserveranno gli usi civici, e tutti i diritti che attualmente posseggono su de’ medesimi, fino a quando di detti demani non ne sarà con altra nostra legge determinata e regolata la divisione, proporzionata al dominio e diritti rispettivi. Intanto espressamente rimane proibita qualunque novità di fatto». 119 STEFANO VINCI nio fondiario, anche feudale, ed hanno soltanto abolito tutto ciò che aveva origine da personalità e da giurisdizione»10. L’obiettivo da realizzare a Napoli non voleva essere, infatti, quello di spogliare i baroni, ma di affermare i diritti della sovranità ed il nuovo concetto di proprietà individuale, attraverso – scrive Villani – «il riconoscimento e il consolidamento dei suoi diritti preminenti e assoluti contro i vincoli feudali che l’involvevano, la legavano al regime comunitario, ne ostacolavano la libera circolazione»11. Per raggiungere queste finalità, sarebbe stato necessario abolire il regime di giurisdizione speciale e privilegiata che caratterizzava il possesso feudale: questa operazione era la premessa di ogni altra riforma, della perequazione tributaria, del riordinamento amministrativo, dell’uguaglianza formale dinanzi alle leggi. La breve relazione che accompagnava la legge eversiva esponeva chiaramente questi scopi fondamentali: «per stabilire un sistema uniforme, giusto e ben regolato per la percezione dei tributi, conviene abolire la feudalità e togliere la differenza di beni di diversa natura e tanti rapporti vincolanti che affliggono lo Stato, assicurando ai baroni la piena proprietà di ciò che posseggono ed indennizzandoli de’ dritti che perdono»12. Nell’ottica del legislatore, l’estirpazione della feudalità avrebbe dovuto portare ad un grande incremento della proprietà privata con notevoli ripercussioni nella società meridionale: essa avrebbe determinato innanzi tutto la divisione dei demani feudali tra gli ex baroni, trasformatisi in proprietari di una quota dei vecchi demani non più soggetti agli usi civici13, e i comuni, ai quali era affidato il possesso della quota destinata ad essere quotizzata per essere assegnata in 10 Conclusione del signor Winspeare, Regio Procuratore Generale nella causa tra il comune di Cassano e il Signor Marchese Giuseppe Serra, in Bollettino delle sentenze emanate dalla Suprema commissione per le liti fra i già Baroni ed i comuni, Napoli tip. Trani 1810, n. 3, p. 555. 11 P. VILLANI, Mezzogiorno fra riforme e rivoluzione, Bari 1973, p. 203. 12 ASNA, Consiglio di Stato, 1806-1815, vol. 70, fasc. 1. 13 Decreto 8 giugno 1807, cit., art. 4: «Coloro che diverranno possessori delle porzioni derivanti dalla ripartizione resteranno pieni, liberi, ed assoluti padroni delle proprietà loro toccate, dimodochè, ad eccezione dell’annua prestazione, secondo ché verrà detto in appresso, goderanno dell’intera facoltà di disporne come meglio loro aggrada, o coll’alienarle, o darle in affitto, o con coltivarle, e riservarle al solo uso proprio, chiudendole, senza che alcuno possa impedirglielo, e senza che altri possa vantarsi, o esercitarvi, sotto qualunque pretesto, niuno dei pretesi 120 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... enfiteusi ai comunisti, ossia ai titolari dell’esercizio degli usi civici non più consentiti sui vecchi demani feudali perché costituenti un ostacolo all’incremento dell’agricoltura. Inoltre la nuova legge, assoggettando al diritto comune i feudi, non solo li avrebbe colpiti con l’imposta fondiaria, ma avrebbe reso possibile e probabile il loro spezzettamento attraverso le vicende successorie. Stabilito che il titolo nobiliare fosse trasmissibile in perpetuo ai discendenti con ordine di primogenitura e nella linea collaterale sino al quarto grado14 e riconosciuta la piena proprietà del territorio costituente il feudo non più gravato dall’adoa e dal relevio15, questo era destinato a divenire bene allodiale dell’ultimo barone e, come tale, soggetto senza alcuna distinzione, a tutti i tributi gravanti sulla proprietà immobiliare16. Aboliti, inoltre, senza alcuna indennizzazione tutti gli oneri di lavoro e prestazioni coattive aventi carattere vessatorio ed oppressivo che, intesi come angarie17 e perangarie18, i possessori dei feudi per qualsivoglia titolo solevano riscuotere dalle popolazioni o dai particolari cittadini, abolite ancora tutte le prestazioni personali19 e non più riconosciuti i diritti proibitivi di cui i baroni hanno sempre abusato20, la legge 2 agosto 1806 prevedeva che diritti o usi civici di pascere, acquare, legnare, pernottare o altri simili, sia in tempo che i terreni si trovano seminati o che non vi penda frutto, sia dopo la raccolta». 14 Legge 2 agosto 1806, cit., art. 3: «La nobiltà ereditaria è conservata. I titoli di principe, di duca, di conte, e di marchese legittimamente conceduti, rimangono agli attuali possessori, trasmissibili a’ discendenti in perpetuo, con ordine di primogenitura, e nella linea collaterale sino al quarto grado». 15 Ivi, art. 4: «Il diritto di devoluzione a favore del fisco rimane estinto, come il peso dell’adoa, del relevio, del jus tapeti, e del quindennio. I creditori delle partite di adoe alienate, saranno creditori del pubblico Tesoro». 16 Ivi, art. 5: «I fondi e rendite finora feudali saranno, senza alcuna distinzione, soggetti a tutti i tributi». 17 Scrive G. SAVOIA, Raccolta delle leggi decreti rescritti e ministeriali sull’abolizione della feudalità e sulla divisione de’ demani, Foggia 1881, p. 19 n. 1: «Tra gli altri diritti che esercitavansi dai Baroni, vie erano le angarie e perangarie. Le angarie consistevano nell’obbligo di prestare servizi personali vivi a spese del padrone». 18 La perangaria era la prestazione eseguita senza alcun compenso. AA.VV., La questione demaniale in Terra d’Otranto nel XIX secolo, Lecce 1984, p. 180. 19 Ivi, art. 6: «Restano abolite, senza alcuna indennizzazione, tutte le angarie, le parangarie, ed ogni altra opera o prestazione personale, sotto qualunque nome venisse appellata, che i possessori dei feudi per qualsivoglia titolo soleano riscuotere dalle popolazioni, e da’ particolari cittadini». 20 Ivi, art. 7: «Tutti i diritti proibitivi restano egualmente aboliti senza indenni- 121 STEFANO VINCI gli usi civici restavano in vita – pur essendo destinati ad essere soppressi – così come tutti i diritti che le popolazioni o i privati cittadini possedevano sui territori costituenti il feudo in attesa di regolarne la divisione proporzionata al dominio ed ai rispettivi diritti21. Fu altresì disposto che al possessore del feudo fossero sottratti i diritti giurisdizionali, in quanto riconosciuti di prerogativa dello Stato cui spettavano i proventi derivanti dall’esercizio di tali diritti: in attesa di regolare meglio la materia, le università furono delegate ad esercitare i diritti di bagliva, portolania, di zecca dei pesi e delle misure, di scannaggio, di piazza e di tutte le giurisdizioni già esercitate dai baroni22. Rimanendo salvi i diritti acquisiti dagli enfiteuti, da chi godeva di colonia perpetua a cui erano equiparati coloro che avevano in affitto il terreno da oltre dieci anni23 e dai naturali che vi tà. A’ soli possessori, che esibiranno o un’espressa concessione per titolo oneroso, o una compra fatta dal fisco, o un giudicato definitivo a loro favore, sarà data una indennizzazione corrispondente, salve le ragioni a’ possessori di diritto proibitivo convenzionale per una indennizzazione contro le Comuni, da esperimentarsi nel Tribunale competente. Sono per ora conservati quei diritti proibitivi, che le università del regno hanno imposti volontariamente a se stesse, e loro cittadini, per contribuir colla loro rendita a’ pubblici pesi; e ciò fino a che non siasi stabilito altro modo di soddisfarli». 21 Ivi, art. 15. 22 Ivi, art. 14: «Di tutte le giurisdizioni e diritti di portolania, bagliva, zecca di pesi e misure, scannaggio e simili, possedute sinora da molte università del regno, ne sarà fino al nostro sovrano ordine conservato da esse l’esercizio. Quelle possedute sin da ora dai possessori dei feudi saranno anche date alle rispettive università, che ne terranno l’esercizio nel modo medesimo, e ne pagheranno a titolo di annualità quella somma, che i possessori attualmente ne percepiscono. Il capitale potrà essere affrancato alla ragione del cinque per cento. Le università che crederanno di avere ragione su tali corpi potranno sperimentarle nei tribunali competenti, senza impedirsi il pagamento». 23 Partendo dal presupposto che «il diritto de’ coloni perpetui è un diritto sacro e inviolabile acquistato sulle terre per averle – da oltre dieci anni – fecondate col sudore delle loro fronti» (Supplemento del Bollettino delle Sentenze emanate dalla Suprema commissione per le liti fra i già Baroni ed i Comuni, vol. 14, Napoli tip. Trani 1841, p. 435. Nota 2 aprile 1811 del Procuratore Generale della Commissione feudale al ministro dell’Interno) e che «non è utile per l’agricoltura il distruggere tutte le migliorie che i cittadini particulari avessero potuto fare nel territorio comune» (Bollettino Sentenze, 1809, XI, p. 34. Sentenza n. 12 del 2 novembre 1809), il legislatore riconobbe al colono «a lungo termine o perpetuo», ma non a quello temporaneo, il diritto di «essere mantenuto nel possesso della terra» affidatagli con contratto di affitto o colonia per almeno dieci anni con l’obbligo di 122 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... esercitavano gli usi civici, la legge 1 settembre 180624 fissò i principi generali per la ripartizione dei demani feudali o ecclesiastici, promiscui e comunali25: in particolare fu stabilito che i demani assegnati agli ex baroni sarebbero rimasti «proprietà libera di coloro a’ quali toccheranno»26 mentre i terreni assegnati alle università sarebbero stati «ripartiti tra’ cittadini col peso della corresponsione di un annuo canone proporzionato al giusto valore delle terre»27. Tra gli aventi diritto alle quote dei demani universali erano compresi tutti coloro i quali erano titolari di usi civici e, quindi, anche «quelli che come baroni vi avevano l’uso civico»28. La materia fu disciplinata successivamente dai decreti promulgati l’8 giugno 180729 e il 3 dicembre 180830: ribadito il principio «corrispondere al padrone del fondo un canone fisso e determinato». Supplemento Bollettino, cit., vol. 7, 1837, p. 42 ss. Rescritto 21 ottobre 1807 di spiegazione agli articoli 10 e 13 del decreto degli 8 giugno 1807 del ministro di Giustizia agli Intendenti delle singole province. 24 Legge 1 settembre 1806 sulla ripartizione de’ demani (BLD, 1806, II, legge n. 185). 25 Dalla prevista ripartizione erano esclusi i «fondi burgensatici degli ex baroni, i patrimoniali delle chiese e delle università e gli allodj de’ particolari che, per non essere chiusi trovansi soggetti in certo tempo dell’anno agli usi civici. Questi – precisa il legislatore – debbono assolutamente restare esclusi perché proprietà libere di coloro cui appartengono e di natura diversa affatto dalle demaniali». Escluse dalla prevista ripartizione erano anche le proprietà che le «università, gli ex baroni e particolari tengono difese per un certo tempo ad uso di pascolo o di semina» seppure in altri tempi soggette al pascolo comune oltre, naturalmente, le difese propriamente dette, ossia «quei territori chiusi in tutto l’anno in cui niuno in niun tempo può esercitare diritti di usi civici». Rescritto del 14 settembre 1807 del ministro di Giustizia Miot agli Intendenti delle Province di spiegazione agli articoli 1 e 3 del decreto 8 giugno 1807 per la ripartizione dei demani. Supplemento Bollettino, cit., vol. 7, 1837, p. 33 ss. 26 Legge 1 settembre 1806, cit., art. 1. 27 Ivi, art. 4. 28 Ivi, art. 5. 29 Decreto n. 150 del 8 giugno 1807 sulla ripartizione dei Demani (BLD, 1807, I). L’art. 1 del decreto chiariva che «sotto il nome di demani o territori demaniali s’intendono compresi tutti i territori aperti culti, o inculti, qualunque ne sia il proprietario, su’ quali abbiano luogo gli usi civici, o la promiscuità». Il rescritto del 14 settembre 1807, cit., chiarì che con l’espressione «qualunque ne sia il proprietario» doveva intendersi che «i demani appartenenti agli ex baroni, o a chiese, i promiscui ed i comunali dovrebbero ripartirsi». 30 Decreto 3 dicembre 1808. Istruzioni per l’adempimento della Legge 1 settembre 1806 e del Decreto n. 223 del 8 giugno 1807 sulla divisione dei Demani. (BLD, 1808, II). 123 STEFANO VINCI secondo cui «le persone tra le quali dovrà effettuarsi la ripartizione de’ terreni che non si trovano attualmente posseduti da’ cittadini, saranno quei naturali de’ Comuni rispettivi che rappresentavano ed esercitavano sul demanio i diritti degli usi civici», che nel decreto 8 giugno 1807 venivano indicati come «comunisti», il legislatore tenne a precisare che tra gli aventi diritto alle quote dei demani universali dovessero essere sempre preferiti i «non possidenti» ed i «possidenti minori»31. Al fine di rendere concreta e rapida la divisione dei demani, il decreto 3 dicembre 1808 stabilì che gli Intendenti dovevano destinare in ciascun circondario o distretto, uno o più soggetti istruiti dell’economia agraria della propria provincia, «probi e scevri da qualsivoglia interesse o rapporto, che potesse collidere coll’operazione delle divisioni»32. Questi agenti di circondario o distrettuali avrebbero avuto il compito di promuovere l’esecuzione della legge in tutti i luoghi del circondario loro assegnati, eccetto che nella propria patria: destinatari della loro funzione promotrice sarebbero stati i decurionati, incaricati di «rappresentare l’università nella divisione de’ demani ex-feudali ed ecclesiastici», i quali si sarebbero dovuti riunire ad ogni richiesta dell’agente distrettuale a partire dal mese di dicembre del 1808 e lavorare «senza alcuna interruzione» fino a che non avessero reso conto all’Intendente della provincia di quanto gli fosse stato commesso33. Di fatto, però, le operazioni di divisione non trovarono così celere esecuzione come il legislatore avrebbe voluto e ciò a causa dell’ingerenza da parte dei ricchi borghesi ed ex feudatari che avevano interesse a che queste terre salde fossero ancora mantenute indivise34. 31 Decreto 8 giugno 1807, cit., art. 12. Decreto 3 dicembre 1808, cit., art. 4. 33 Ivi, art. 6. In ordine alla procedura da seguire, l’art. 7 del decreto 3 dicembre 1808 previde che «La divisione delle terre si farà per arbitramenti pronunziati dai periti, o da altre persone, nelle quali le parti ripongano la loro fiducia, salvo le eccezioni qui appresso soggiunte. L’arbitro per parte de’ Comuni sarà scelto da’ rispettivi decurionati. L’agente distrettuale metterà in mora gli altri interessati a nominare ciascuno il suo, ed a nominare di consenso un terzo arbitro, che dirima la parità che mai potesse farsi dai primi due. Dove essi non facciano la nomina e non convengano nel terzo arbitro, il diritto di nominare si devolverà al Sottintendente del distretto». 34 Cfr. T. PEDIO, Baroni, galantuomini e contadini nell’età moderna, Bari 1982, p. 210. 32 124 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... Infatti, poiché su queste terre tutti i naturali – ricchi proprietari o impossidenti, galantuomini o contadini – potevano ancora esercitare gli usi civici sino alla quotizzazione ed alla assegnazione delle singole quote agli aventi diritto, a queste operazioni si opponevano coloro i quali avevano interesse a sfruttare queste terre incolte per il pascolo dei propri animali. Il ritardo delle quotizzazioni delle terre demaniali non poté che favorire le usurpazioni da parte dei ricchi proprietari terrieri a danno dei braccianti e dei contadini poveri. I ricchi proprietari, che disponevano di pascoli demaniali, fecero in modo di divenire assegnatari degli stessi terreni in fida, escludendo chiunque altro avesse chiesto di usufruire di queste terre o anche, il più delle volte, usurpando le terre migliori sulle quali avanzavano pretesi diritti di proprietà. Gran parte di questi demani, nell’uno o nell’altro caso, furono quindi sottratti alla disponibilità dei comuni grazie anche alla complicità degli amministratori municipali che avevano consentito di usurpare buona parte dei demani destinati ai meno abbienti. Il favore ottenuto dai decurionati derivava dal fatto che i suoi membri erano ora costituiti soltanto dai cittadini più facoltosi, come previsto dalle novelle leggi dell’8 agosto 180635 e del 18 ottobre 180636 che avevano riformato le modalità di accesso alle municipalità37. Infatti, l’amministrazione dei comuni non veniva più affidata ad uomini eletti nei parlamenti cittadini, bensì ad amministratori nominati dai rappresentanti del potere centrale nelle province (intendenti e sotto intendenti) e scelti tra quei cittadini aventi un determinato censo38: maggiore era il numero degli abitanti dell’uni35 ASNA, Decreti originali, vol. II, n. 266. Legge 8 agosto 1806. ASNA, Decreti originali, vol. III, n. 426. Decreto 18 ottobre 1806. 37 Sull’argomento rinvio a S. VINCI, Dal parlamento al decurionato. L’amministrazione dei comuni del Regno di Napoli nel decennio francese, in «Archivio Storico del Sannio», a. XIII (2008) n. 2, N.S., p. 189-218. Cfr. anche R. DE LORENZO, L’amministrazione centrale e periferica del Regno di Napoli durante il decennio francese, in Un Regno in bilico. Uomini, eventi e luoghi del Mezzogiorno preunitario, Roma 2001; A. MUSI, L’amministrazione locale dalla «Università» di antico regime alla «comune» del decennio, in AA.VV. Il Principato Citeriore tra Ancien Régime e conquista francese: il mutamento di una realtà periferica nel Regno di Napoli [cur. E. GRANITO, M. SCHIAVINO, G. FOSCARI], Salerno 1993. 38 Scrive DE MARTINO, La nascita, cit., p. 108: «I comuni retti da amministratori eletti dagli antichi parlamenti cittadini furono sottoposti a controlli rigorosi del governo. Mentre infatti la legge 8 agosto riconobbe nei parlamenti gli organi legit36 125 STEFANO VINCI versità, maggiore sarebbe stata la rendita richiesta al proprietario per poter aspirare a tale carica39. Ciò spiega perché non si poneva nessun limite alle pretese possessorie dei ricchi che ottenevano facilmente il benestare delle autorità costituite, in quanto essi stessi o persone a loro legate da forti interessi economici, erano divenuti ufficialmente arbitri della vita amministrativa locale. I comuni, infatti, amministratori di questi beni, anziché provvedere alla quotizzazione ed alla loro assegnazione agli aventi diritto, concedevano in locazione ai grossi proprietari terrieri parte e, a volte, gran parte dei demani in loro possesso, consentendo che i locatori li chiudessero all’uso civico attraverso un utilizzo distorto della legge40. Le chiusure delle terre di privato dominio erano state consentite con il decreto 3 dicembre timati all’elezione degli amministratori comunali, questo orientamento iniziale fu modificato siostanzialmente dopo poco tempo. Col decreto 18 ottobre, soppressi i parlamenti, le amministrazioni municipali furono assoggettate ai controlli del Ministero dell’Interno in tutte le materie riguardanti le nomine degli amministratori e la gestione delle finanze». VINCI, Dal parlamento al decurionato, cit. 39 La legge, infatti, stabiliva che per i comuni con popolazione fino a 3000 anime, i decurioni dovevano essere estratti a sorte tra i proprietari con una rendita attuale non minore di 24 ducati; il doppio era richiesto per un numero di abitanti da 3000 a 6000 ed il quadruplo per le popolazioni più numerose di 6000 abitanti. Decreto 18 ottobre 1806, cit., art. 2, tit. I. Secondo DE LORENZO, Proprietà fondiaria, cit., p. 289-320, la riforma comunale non comportò un cambiamento del ceto sociale fino ad allora protagonista della vita amministrativa, anche perché la norma sulla composizione del decurionato, sono alcune modifiche alla legislazione tra il 1806 e il 1808 fissò come presupposto per l’iscrizione nelle liste degli eleggibili alla carica di decurione e conseguentemente a quella di sindaco, un alto livello di censo, più tardi attenuato. Abolito il sedile della nobiltà, la parte delle famiglie patrizie che aveva aderito alla repubblica del ’99, assieme a personalità del ceto civile, venne a ricoprire ruoli di primo piano durante tutto il governo francese. Sull’argomento cfr. anche SICILIA, Cosenza: governo della città e governo nella città, cit., p. 55. 40 Dal possesso all’usurpazione il passo fu breve: nel giro di pochi decenni i contadini meridionali si videro negare l’esercizio degli usi civici anche su queste terre che i possessori usurpavano trasformando il possesso in proprietà. Cfr. L. BIANCHINI, Storia delle finanze del regno di Napoli, Napoli 1859, p. 473 ss; R. TRIFONE, Feudi e demani. Eversione della feudalità nelle provincie napoletane, Milano 1909, p. 173ss; V. RICCHIONI, Le leggi eversive della feudalità e la storia delle quotizzazioni demaniali nel Mezzogiorno in AA.VV., Problemi dell’agricoltura meridionale, Bari 1953, p. 223ss; G. LANDI, Istituzioni di diritto pubblico del regno delle Due Sicilie. 1815-1861, Milano 1977, p. 1059 ss; T. PEDIO, I moti contadini del 1848 nelle province napoletane, in «Classi e popolo nel Mezzogiorno d’Italia alla vigilia del 15 maggio 1848», Bari 1979, p. 125s; 126 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... 1808, che aveva previsto la possibilità di esentare in tutto o in parte dalla servitù del compascuo i propri fondi, purché questi fossero chiusi con pareti, con fossate, con siepi, con altri argini continui, che proibissero l’ingresso agli animali per tutto l’estensione del fondo, o per quella parte che si sarebbe voluta chiudere41. Questa norma non si sarebbe però dovuta applicare ai demani feudali, ecclesiastici e comunali non ancora divisi. La conseguenza di queste concessioni contra legem fu l’immiserimento delle già povere popolazioni rurali: l’eversione della feudalità introdotta dal legislatore francese non riuscì, quindi, a creare nel Mezzogiorno la piccola proprietà contadina e a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori della terra che rimasero esclusi dalla quotizzazione dei demani a beneficio dei ceti più abbienti che avevano la possibilità di disporre di danaro da investire nella terra42. Arricchitisi con l’amministrazione delle grosse proprietà allodiali e con l’accorto collocamento usurario del danaro, i gentiluomini43 – che già da tempo avevano cominciato ad investire i propri capitali nei fondi che gli antichi baroni si erano affrettati a cedere (spesso nemmeno al miglior offerente) perché spaventati dal repentino mutare degli eventi – entrarono finalmente in possesso di vaste estensioni di terreno loro offerte a seguito dell’eversione della feudalità e della soppressione degli enti religiosi. E nella assegnazione delle terre espropriate intervennero anche gli antichi capi rivoluzionari con disponibilità finanziarie derivanti dalle professioni liberali e dai remu- 41 Decreto 3 dicembre 1808, cit., art. 47. La norma disciplinava le affrancazioni della reciproca servitù del pascolo, che, secondo la consuetudine generale del regno, avevano tutti i fondi aperti fra loro. 42 Scrive T. PEDIO, L’eversione della feudalità, in Il decennio francese in Puglia (1806-1815), Bari 1981, p. 80: «Dall’eversione della feudalità i contadini non hanno certo tratto alcun vantaggio, né alcun utile. Erano poveri, oggi sono ancora più poveri. Preoccupato soltanto di non irritare la nobiltà e la ricca borghesia provinciale, il legislatore ha ignorato i bisogni e le necessità dei contadini. Acuito dalla incomprensione della nuova classe dirigente che difende egoisticamente i propri interessi, ha inizio per i contadini meridionali un periodo di fame e di miseria». Cfr. U. CALDORA, Calabria napoleonica, Roma 1960. 43 L’espressione “gentiluomini” è utilizzata da A. GENOVESI, Ragionamento intorno all’agricoltura in Opuscoli e Lettere familiari, Venezia tip. Alvisopoli 1827, p. 113; G. SAVARESE, Autobiografia, lettere ed altri scritti di A. Genovesi, Milano 1962, p. 174. 127 STEFANO VINCI nerativi impieghi ottenuti dal nuovo governo44. Allo stesso modo, le terre degli enti religiosi soppressi incamerate dallo Stato non furono destinate ai contadini45: il governo centrale, per far fronte alle spese che gravavano sul bilancio dello Stato, mise in vendita queste terre e soltanto per quelle sulle quali veniva esercitato l’uso civico riservò una quota da assegnare ai contadini meno abbienti46. Ben afferma la 44 Scrive T. PEDIO, La Basilicata durante la dominazione borbonica, Matera 1961, p. 37: «In tal modo i nuovi governanti erano riusciti a legare alla terra anche coloro i quali, nel 1799, avevano militato nella corrente radicale del movimento repubblicano, trasformando così in conservatori proprio quelli che durante la Repubblica Partenopea avevano organizzato le forze popolari contro l’avanzata sanfedista per l’attuazione di un radicale programma economico». Sull’argomento cfr. A. SIMIONI, Le origini del risorgimento politico dell’Italia meridionale, Messina 1925; P. PIERI, Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, in ASPN, n.s., a. XII (1926); N. CORTESE, Stato e ideali politici nell’Italia meridionale e l’esperienza di una rivoluzione, Bari 1927; L. BLANCH, Il regno di Napoli dal 1801 al 1806, Bari 1945; B. CROCE, Storia del regno di Napoli, V ed., Bari 1958; ID, La rivoluzione napoletana del 1799, VIII ed., Bari 1961; P. VILLANI, Mezzogiorno tra Riforme e Rivoluzione, Bari 1962; ID., Feudalità, riforme e capitalismo agrario, Bari 1968; A. M. RAO, L’ordinamento e l’attività giudiziaria della Repubblica napoletana del 1799, in ASPN, XII-XCI (1974), P. 73-145; ID. – P. VILLANI, Napoli 1799-1815. Dalla Repubblica alla Monarchia Amministrativa, Napoli 1995; AA. VV., L’albero della libertà a Taranto [cur. C. PETRONE] Taranto 1999; AA. VV., Siam liberi infine [cur. O. SAPIO], Taranto 1999; C. ALBANESE, Cronache di una rivoluzione: Napoli 1799, Milano 1999; AA.VV., Napoli 1799 fra storia e storiografia: atti del convegno internazionale tenutosi a Napoli il 21-24 gennaio 1999, Napoli 2002; A. COSCIA, La provincia di Lucera nella repubblica partenopea: il 1799 tra cronaca e storia nel meridione d’Italia, Ripalimosani 2005; W. HAMILTON, Dispacci da Napoli (1797-1799), Napoli 2006. 45 Sul mutamento delle stratificazioni sociali in relazione al possesso della terra cfr. A.M. RAO, Temi e tendenze della recente storiografia sul Mezzogiorno nell’età rivoluzionaria e napoleonica, in AA.VV., Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l’età giacobina e il Decennio francese, Atti del Convegno di studi (Maratea, 8-10 giugno 1990), Venosa 1992, p. 67-8. 46 P. VILLANI, La vendita dei beni dello Stato nel regno di Napoli (1806-1815), Milano 1964. Ha osservato R. SICILIA: Cosenza: governo della città e governo nella città in AA.VV., Il governo della città. Il governo nella città. Le città meridionali nel decennio francese [cur. A. SPAGNOLETTI], Atti del convegno di studi (Bari 2223 maggio 2008), Bari 2009, p. 55-6, che a seguito della soppressione degli enti ecclesiastici, «le famiglie che se ne accaparrarono una quantità consistente furono naturalmente quelle appartenenti al patriziato cittadino […] ma non mancarono famiglie borghesi. […] Più diffusi furono gli acquisti tra i cittadini che poterono usufruire della prerogativa di acquisire le case di loro abitazione nel centro urbano, in quanto, alla vigilia della soppressione, per arginare i danni economici alla pro- 128 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... Assante: «Scomparso il feudatario e venduta gran parte della proprietà ecclesiastica i vantaggi erano stati avvertiti soltanto da pochi, quelli cioè già ricchi abbastanza per comprare i beni messi in vendita. In pratica non si era creato un ceto di contadini indipendenti e proprietari, lasciando pressoché immutata la situazione precedente: pochi possidenti e stuoli di coloni e salariati»47. Anche coloro i quali fossero riusciti, a seguito delle prime quotizzazioni, ad ottenere un appezzamento di terreno in enfiteusi non avevano visto comunque mutate le proprie condizioni economiche. Non disponendo di capitali necessari per affrontare le spese di produzione, il contadino assegnatario si era trovato nella impossibilità di conservare la quota a lui assegnata. Quando non era stato costretto ad abbandonarla perché improduttiva o a cederla ad un prezzo irrisorio al ricco proprietario, dovette ricorrere all’usuraio per l’acquisto delle sementi per tirare avanti fino al raccolto, il cui prodotto non era mai sufficiente per liberarlo dai debiti. Per coltivare la terra e per difenderla dai propri creditori, i contadini erano costretti ad emigrare nei periodi estivi per prestare la propria opera nei lavori di mietitura e di trebbiatura il cui corrispettivo, aggirantesi intorno ai due carlini giornalieri, pari al prezzo di circa quindici chilogrammi di grano, permetteva loro di far fronte, sia pure soltanto in parte, ai propri debiti che aumentavano a causa di esosi interessi e che, alla fine non gli consentivano più di conservare la terra. Nelle stesse condizioni del contadino assegnatario che non era riuscito a mantenere la terra ottenuta48, si trovavano anche tutti i contadini delle province continentali del Mezzogiorno d’Italia: non usufruendo più, come un tempo, degli usi civici che fornivano loro parte dei mezzi di sussistenza e ridotto tale esercizio soltanto sulla quota assegnata ai Comuni per essere quotizzata; non essendo più consentito vendere censi agli enti ecclesiastici ed essendo gestiti i Monti Frumentari da individui che spesso aspiravano alle prietà ecclesiastica, molti enbti religiosi avevano preferito cedere a censo i propri immobili ai loro inquilini». 47 F. ASSANTE, Città e campagne nella Puglia del secolo XIX. L’evoluzione demografica, Genéve 1974, p. 198. 48 CALDORA, op. cit., p. 171, scrive, con riferimento alla situazione della Calabria Ultra, che quasi tutti gli assegnatari avevano finito per alienare le quote demaniali per pochi carlini, o addirittura per scarse vettovaglie, in quanto, a causa della mancanza di mezzi di coltivarla, di nessuna utilità risultava essere per loro la terra. 129 STEFANO VINCI cariche per farne commercio49, i contadini erano ora costretti a ricorrere ai ‘galantuomini’ i quali prestavano volentieri piccole somme ad alto interesse con la conseguenza che i beni del contadino, il quale aveva difficilmente la possibilità di estinguere il suo debito alla scadenza, finivano presto col cadere nel possesso del creditore50. In tal modo, nel giro di pochi anni, la piccola proprietà, e in particolare quella contadina, scomparve assorbita nelle grandi proprietà. La distribuzione delle terre demaniali ai contadini poveri, il grande disegno della formazione di una piccola proprietà coltivatrice avrebbe richiesto, per avere successo, un profondo impegno non solo politico, ma anche finanziario del governo, che era in quel momento assolutamente impossibile. E di tali difficoltà il governo ne ebbe piena consapevolezza, tanto vero che, nell’ottobre del 1811, il ministro Zurlo51 decise di interpellare intendenti e commissari ripartitori per ottenere chiarimenti sulla lentezza e sulla scarsa domanda di quotizzazioni: «Io veggo bene che questa operazione ha bisogno di qualche tempo ma io credo pure che vi siano altri ostacoli. I canoni fissati in favore dei comuni, la contribuzione fondiaria e la mancanza di 49 PEDIO, La Basilicata, cit., pp. 76ss. Sul funzionamento dei Monti frumentari nelle province napoletane nella prima metà dell’Ottocento, quando «il capitale di que’ monti s’avventurò per altre vie» cfr. G. FORTUNATO, I Monti Frumentari nelle Province napoletane, in «Rassegna Settimanale», 21 marzo 1880, ed. def. in Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, Bari 1911; G. MASI, I Monti Frumentari e pecuniari in Provincia di Bari in AA.VV., Studi in onore di Amintore Fanfani, V, Milano 1962, p. 341 ss. 50 PEDIO, L’eversione della feudalità, cit., p. 84; ID., Classi e popolo nel Mezzogiorno d’Italia alla Vigilia del 15 maggio 1848, Bari 1979, p. 314. All’avidità dei galantuomini riuscivano a sfuggire soltanto i ricchi coltivatori diretti proprietari di vaste estensioni di terra. Non essendo costretti a ricorrere all’usuraio per affrontare le spese di produzione, questi ricchi massari accrebbero con l’usura il proprio patrimonio e, avviando i propri figliuoli verso il sacerdozio e verso le professioni liberali, si inserivano gradatamente nel ceto dei galantuomini. ID., La Basilicata, cit., p. 36. 51 Su Giuseppe Zurlo cfr. L. BLANCH, Il regno di Napoli dal 1801 al 1806, Bari 1945; G. CAPONE, Elogio del conte G. Zurlo, Napoli 1832; L. GAROFALO, Giuseppe Zurlo, Napoli 1932; P. PIERI, Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, in ASPN, ns, a. XII (1926); G. SAVARESE, Ricordi su Giuseppe Zurlo, in «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea», II-III, Bologna 1938; P. VILLANI, Giuseppe Zurlo e la crisi dell’antico regime nel regno di Napoli, ibid., VII, Bologna 1955; F. E. D’IPPOLITO, L’amministrazione produttiva: crisi della mediazione togata e nuovi compiti dello Stato nell’opera di Giuseppe Zurlo (1759-1828), Napoli 2004. 130 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... mezzi per fare valere la terra, se non sono le sole, non saranno certamente le ultime cause della ripugnanza ad acquistare de’ fondi»52. Le risposte provenienti dalle varie province offrirono un quadro generale delle cause del problema: alla opposizione dei ricchi allevatori e proprietari, si aggiungeva la miseria in cui versavano i contadini che non consentiva di affrontare le spese della coltura, del canone, della fondiaria. In tal senso si era espresso l’intendente della provincia di Capitanata Joseph Charron53: Vi sono delle comuni dove il ceto degli indigeni trovasi nello stato così misero che non ha il coraggio di divenire proprietario col peso di pagare la fondiaria, il canone, ed altre spese comunitative, ed assumere tanti altri obblighi annessi alla proprietà. Non mancano delle altre il di cui demanio non è molto atto alla coltura, e piuttosto adatto al pascolo degli animali. Esistono ancora delle altre ove i cittadini, inclinati per abitudine alla pastorizia ed alla industria degli armenti non curano la semina e l’agricoltura. Finalmente si trovano delle comuni ove dei cittadini influenti, possedendo delle industrie armentizie, mettono degli ostacoli alla suddivisione e scoraggiscono gli aspiranti ad occupare le quote […]. Un solo ostacolo potrebbe essere generale per tutti ed è il seguente. Dovendosi dare la terra ai non possidenti, questi senza i mezzi necessari non potranno mai ridurle a coltivo. I terreni dei demani comunali per lo più sono saldi, incoltivi da anni e secoli, e perciò ingombri di piante, spineti ed erbe nocive alla semina. Quindi ogni assegnatario, 52 ASNA, Carte Winspeare, fasc. 81, inc. 19. Circolare del 5 ottobre 1811. Notizie biografie su Joseph Charron in G. CIVILE, Appunti per una ricerca sulla amministrazione civile nelle province napoletane, in «Quaderni storici», 1 (1978), p. 240; T. NARDELLA, Lo sviluppo economico e industriale della Capitanata dal 1815 al 1852 in una relazione di Francesco della Martora, Lucera 1978, p. 34; A. VITULLI, Varietà di Storia della Capitanata, in «Rassegna di studi dauni», aa. VII-VIII (1980-81), p. 20 e soprattutto DE MARTINO, La nascita, cit., p. 125: «Joseph Charron aveva ricoperto in Francia le cariche di presidente del dipartimento della Marne e di prefetto della Sarre. Trasferito a Napoli per ordine di Napoleone e nominato preside della provincia di Principato citra in sostituzione del vecchio Antonelli, che secondo Giuseppe Bonaparte non godeva, a causa dell’età, di condizioni di salute tali da consentirgli “l’exercise actif” che la carica comportava, ne diventò intendente. Trasferito all’intendenza di Abruzzo ultra non fu sempre all’altezza del compito. La scarsa conoscenza del paese, le difficoltà di ogni sorta incontrate e le continue lamentele rivolte al governo furono poi all’origine del suo trasferimento ad altra carica». Charron fu autore di un’ode intitolate Le roi de Naples scritta in onore di Murat, tradotta dal Gatti. 53 131 STEFANO VINCI nell’entrare in possesso della propria quota, richiama sopra di sé l’obbligo di pagare il canone e gli altri pesi pubblici, e al tempo stesso gli sopraggiunge il bisogno di dissodare il terreno con grande spesa, senza potere nel primo anno riportare alcun frutto, e questa difficoltà cresce maggiormente quando si rifletta la scarsezza di numerario che si offre ne’ tempi correnti54. Quali erano gli espedienti adottati dai ricchi per accaparrarsi le terre da assegnare, in costanza dell’espressa proibizione di alienazione delle quote? Valga l’esempio del generale Montigny, comandante militare nella provincia di Calabria Ultra, che aveva trovato il modo di eludere il divieto, prendendo in fitto le terre dei quotisti anziché comprarle. Lo Zurlo, informato del fatto nell’ottobre del 1813, presentò nel dicembre dello stesso anno un progetto di decreto per estendere le disposizioni proibitive anche agli affitti, colmando quella che riteneva una evidente lacuna normativa55. Il caso del generale Montigny non era il solo. Lo stesso Zurlo, nella relazione che accompagnava il decreto, ricordava quanto avvenuto ad Ariano, dove 112 quote erano venute nelle mani di soli tre proprietari. Ma il Consiglio di Stato, nella seduta del 15 aprile 1814, respinse il progetto con la seguente motivazione: Considerando che l’oggetto principale della divisione dei demani è stato quello di creare nel regno un numero di proprietari che prima non esisteva […] considerando che gl’individui suddetti, nell’affittare tali quote, sia qualunque la durata dell’affitto, ne conservano sempre la proprietà, e che ciò posto con tali atti non si oppongono né all’oggetto della divisione, né allo spirito del decreto del 21 dicembre 1808; è d’avviso non essere luogo al progetto suddetto56. In tal modo – scrive Villani – era stata ufficialmente sancita la rinuncia «al paternalistico progetto di ripartizione fondiaria o meglio se ne riconosceva abbastanza trasparentemente il solo fine di favorire il tra- 54 ASNA, Carte Winspeare, fasc. 82, inc. 12. L’intendente di Capitanata a S.E. il ministro dell’Interno, Foggia, 4 aprile 1812. Il documento si trova pubblicato in VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, cit., p. 106. 55 Ivi, fasc. 86, inc. 9. 56 Ibidem. 132 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... sferimento dei demani nella mani dei ricchi proprietari»57. In ogni caso l’eversione della feudalità rappresentò il tramonto del vecchio assetto fondiario grazie alla liberalizzazione sul mercato non solo delle terre ex feudali, ma anche di quelle di appartenenza ai patrimoni degli ordini religiosi58. Tali proprietà, seppur caddero principalmente nelle mani di coloro che già possedevano cospicue fortune59, erano ambite con pari intensità da tutte le classi sociali: «l’antica aristocrazia per ricostruire una fortuna che i secoli, le spese di rappresentanza e i matrimoni avevano assottigliato, la più recente nobiltà per ingrandire il suo patrimonio, i borghesi per nobilitarsi, le classi popolari per imborghesirsi»60. Era nata una nuova classe sociale: diventare «proprietario» significava, infatti, acquistare un prestigio socialmente rilevante, non solo nei rapporti interpersonali, ma soprattutto di fronte alle autorità statali. Tant’è che lo Stato preferì i «proprietari» ai nobili, nell’affidare la custodia ed il funzionamento delle sue istituzioni: secondo Zaghi «Nobile era una distinzione puramente aristocratica legata al passato; proprietario uno stato sociale puramente economico legato soprattutto al presente, cioè al grande processo di trasformazione politica e civile»61. In tale ottica il Code Napoléon62 tutelava la pienezza del possesso dei proprietari, i quali erano tenuti a collaborare, prestando la loro 57 VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, cit., p. 108. Circa 1300 ordini vennero soppressi con una serie di decreti a partire dal marzo del 1807 fino all’agosto del 1809. Si trattava di beni per più di 4 milioni di ducati, dei quali soltanto 900.000 saranno restituiti alla chiesa dopo il concordato del 1818. Cfr. M. S. CORCIULO, Dall’amministrazione alla costituzione. I consigli generali e distrettuali di Terra d’Otranto nel decennio francese, Napoli 1992, p. 18. 59 Ben il 65% del patrimonio degli ordini religiosi venne acquistato da sole 154 persone. Circa 844 «medi proprietari» acquistarono terre per un importo compreso – ai fini della rendita – tra i 100 e i 1000 ducati. Al di sotto dei 100 ducati restò generalmente la media e piccola borghesia delle province per la quale risultava estremamente difficoltoso recarsi a Napoli: costoro infatti effettuarono i loro acquisti soltanto dopo il 1810, allorché poterono farlo anche nei capoluoghi provinciali. Cfr. P. VILLANI, Le vendite dei beni dello stato nel regno di Napoli (1806-1815), Milano 1964, p. 50. 60 C. ZAGHI, Proprietà e classe dirigente nell’Italia giacobina e napoleonica, in Dagli stati preunitari di antico regime alla unificazione [cur. N. RAPONI], Bologna 1981, p. 257. 61 Ivi, p. 158. 62 Sul Code Napoléon cfr. Discours et fragments d’opinion de Portalis. Extrait du registre des délibérations du conseil d’E’tat, à la date et suivant l’ordre des séeances dans lesquelles ils ont été prononcés, in J. E. M. PORTALIS, Discours, rap58 133 STEFANO VINCI opera e le loro conoscenze, al funzionamento ed alla difesa delle nuove istituzioni che li garantivano nei loro nuovi diritti63: così nobili e borghesi ricambiavano la tutela posta dal legislatore alla loro res privata, con una sovente impegnata partecipazione alla gestione di quella pubblica. Indicare i ceti medi come i depositari della cultura moderna costituiva la via per individuare le basi sociali indispensabili alla costruzione del nuovo impianto costituzionale ed amministrativo64. D’altronde l’idea che la «mezzana classe» potesse rappresentare l’elemento unificante di una nuova formazione sociale, era stata fatta propria dalla tradizione riformatrice napoletana ed aveva trovato la sua sistemazione teorica nell’opera di Filangieri, Pagano e Galanti65. 2. L’azione propositiva dei comuni nella lotta contro l’«appestato» Le difficoltà incontrate nella esecuzione della legge eversiva della feudalità – affidata inizialmente alle magistrature ordinarie che si rivelarono presto incapaci a far fronte ai numerosi reclami dei cittadini e dei comuni contro gli ex feudatari – spinsero il governo ad istituire, nel novembre del 1807, una commissione speciale incaricata ports et travaux inédits sur le Code Civil [cur. F. PORTALIS], Paris 1844; P. SAGNAC, Le Code Civil 1804-1904, Livre du Centenaire, Paris 1904; A. J. ARNAUD, Essai d’analyse du code civil français. La règle du jeu dans la paix bourgeoise, Paris 1973; J. L. HALPÉRIN, L’impossible Code civil, Paris 1992; P. CARONI, Saggi sulla storia della codificazione, Milano 1998. 63 Scrive D. CORRADINI, Garantismo e statualismo, Milano 1971, p. 45: «È così la codificazione francese presenta in fondo una duplice faccia: vista con lo sguardo al passato, alle lotte che furono necessarie per affermare l’urgenza e agli ostacoli che a essa si opponevano, è il prodotto di un’autentica rivoluzione compiuta in nome del liberalesimo e dell’illuminismo; vista con l’attenzione affissa sul presente, ossia sulle prospettive emerse tra gli esegeti, assume il valore di uno strumento di conservazione per una società che indubbiamente era nuova rispetto al periodo e che però non appariva bisognosa di ulteriori rinnovamenti». Cfr. M. SBRICCOLI, Strutturalismo e storia del diritto privato. La regola del gioco nel gioco delle regole, in «Politica del Diritto», n. 45, a. IV (1973). 64 Scrive E. LEFEBVRE, Mémoire sur Naples, in A.N.P., 381, AP 6, s.d.: «dans l’ordre moyen que se conserve le dépôt des lumières». 65 Cfr. AJELLO, Arcana juris, cit., p. 391ss; P. VILLANI, Il dibattito sulla feudalità nel regno di Napoli dal Genovesi al Canosa, in AA.VV., Studi sul settecento italiano, Napoli 1967; ID., Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari 1968, pp. 55-110. 134 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... di valutare l’attendibilità dei titoli in possesso degli ex baroni66. L’attività posta in essere da questa commissione non fu però sufficiente a risolvere la situazione di emergenza che la legge sull’eversione della feudalità aveva innescato: sorse pertanto il bisogno di istituire un’altra commissione speciale – nota con il nome di commissione feudale – con l’incarico di risolvere tutte le questioni fra comuni ed ex baroni, introdotte presso le magistrature ordinarie prima della pubblicazione della legge del 2 agosto 1806, e di esaurire le liti pendenti, non oltre l’anno 180867. «Insomma – scrive Trifone – pareva che si fosse in contatto d’un appestato e che si volesse cacciarlo nella tomba nel più breve termine possibile»68. La determinazione del governo nel voler quanto prima liquidare le liti che «ardevano fra gli ex-baroni ed i Comuni» trovava ragione nel convincimento che dalla loro estinzione dipendesse «l’abolizione di tutte le servitù, che sotto il pretesto, e sotto il nome di diritti territoriali si esercitavano su quasi tutte le proprietà dei Comuni e dei cittadini, site fra recinti degli ex feudi e che formavano un ostacolo insormontabile a tutti i miglioramenti necessari all’agricoltura ed all’industria dei proprietari»69. Le istruzioni fornite con decreto 27 febbraio 1809 alla commissione per facilitare ed affrettare il disbrigo delle cause, affidarono agli intendenti delle province l’incarico di rilevare da ogni comune l’esistenza di tutti i diritti di matrice feudale ancora esistenti e vietare quelli per i quali non vi era controversia: «se controversia si proponga di venire qualche diritto compreso o escluso dall’abolizione, gl’intendenti la rimetteranno alla decisione della commissione delle cause feudali»70. Lo spirito della legge su cui si innestava il funzionamento della magistratura straordinaria creata appositamente per 66 Scrive TRIFONE, op. cit., p. 181: «un’infinità di titoli e diplomi esibiti in sostegno delle esposte ragioni e un personale deficiente e sproporzionato, chiamato ad esaminarli ed a vagliarli, fece senz’altro sorgere il bisogno di qualche provvedimento straordinario». Il tempo concesso alla commissione dal decreto del 9 novembre 1807 (in BLD, 1807, II) fu limitato a soli due mesi, oltre dei quali ogni pretesa fondata o infondata sarebbe rimasta priva di effetto. 67 Decreto 11 novembre 1807 (BLD, 1807, II). Furono nominati membri della commissione feudale i sigg. Dragonetti, Winspeare, Raffaelli, Franchini e Cuoco. Ivi, art. 1. 68 TRIFONE, op. cit., p. 183. 69 Decreto 11 novembre 1807, cit., art. 4. 70 Decreto 27 febbraio 1809 (BLD, 1809, I), art. 1. 135 STEFANO VINCI dirimere le cause di «qualunque natura tra i comuni e gli ex baroni e specialmente le controversie nascenti dai diritti, redditi e prestazioni territoriali così in danaro, come in derrate, che siano stati conservati dalla legge 2 agosto 1806»71, richiedeva che gli organi municipali si rendessero parte diligente nel portare innanzi alla commissione tutte le questioni connesse alle usurpazioni degli ex baroni. Il legislatore francese, sulla base del presupposto di aver affidato ai «proprietari» la gestione della res publica, riformando i criteri di accesso e di scelta nelle fila degli organi amministrativi locali, aveva ritenuto che alle amministrazioni cittadine dovesse spettare l’arduo compito di rendere effettiva l’eversione della feudalità, portando a conoscenza del governo centrale le infinite situazioni di abusi feudali che di fatto impedivano l’attuazione della legge 2 agosto 1806. Tale intuizione si rilevò non priva di contraddizioni: infatti, in molti casi i Comuni non ebbero la forza o i mezzi per reagire contro gli ex baroni, molto spesso trasformatisi in nuovi proprietari, e comunque ben arroccati all’interno delle stesse municipalità per quanto già detto72. Numerosi sono gli esempi in cui gli ex feudatari continuarono a ingerirsi nell’amministrazione cittadina anche dopo le leggi eversive della feudalità: ad esempio nel comune di Casacanditella, in provincia di Chieti, il duca di Vacri pretendeva di far «regger giustizia dal governatore nel suo palazzo ove gli dà pure abitazione ed ove tiene il carcere comune ad uomini e donne» e di ricevere la terna degli amministratori municipali che venivano eletti ogni anno73. Ed ancora il duca di Caragnano, ex barone del 71 Ivi, art. 2. Scrive F. MASTROBERTI, La «testa di medusa»: il problema degli usi civici tra storia e attualità, in Atti del convegno su La protezione ambientale tra tecnologia e legislazione [cur. G. ANGIULLI], Martina Franca 2007, p. 220: «Fin dall’agosto del 1806 i rapporti degli intendenti al ministro dell’interno – in particolare degli intendenti calabresi – sottolineavano la debolezza dei comuni di fronte alle pretese dei baroni, sia perché questi ultimi riuscivano a governare i comuni grazie ad uomini di loro fiducia inseriti nei decurionati, sia perché gli stessi comuni avevano una sorta dio timore di fronte agli antichi padroni». Su questi aspetti cfr. ID., Pierre-joseph Briot., cit.; DE MARTINO, La nascita, cit. 73 Bollettino n. 4/1809, p. 41. Sentenza n. 1 del 10 aprile 1809. I capi di gravezze sottoposti all’esame della commissione feudale comprendevano anche problematiche connesse agli usi civici. L’ex barone infatti pretendeva di introdurre nel demanio comunale i suoi animali e di impedire il pascolo agli animali dei 72 136 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... comune di Novoli in provincia di Otranto, imponeva la scelta del sindaco «a suo piacere» ed eleggeva il governatore senza averne diritto74. Nel comune di San Marzano in Terra d’Otranto l’ex barone pretendeva l’esercizio di surrogare uno degli eletti amministratori in luogo del sindaco e questo in luogo dell’eletto75. Esempi che dimostrano il permanere di «una consolidata pratica di esercizio del locale potere amministrativo – scrive Antonio Lerra – concentrato nel ristretto numero di locali famiglie nobili, in utile raccordo con il locale feudatario, oltre che con i componenti i locali capitoli clericali, che, per la loro natura ricettizia, concorrevano, di fatto, anche per i diffusi intrecci familiari con le rappresentanze amministrative nell’Università, al vicendevole interesse per il mantenimento dello status quo»76. La commissione feudale rilevò come tali pretese riguardassero angarie, perangarie e altri diritti dipendenti dalla feudalità e di conseguenza tutti aboliti. Tutte queste difficoltà a livello locale nel cittadini, di esigere annui ducati 12 e grana 60 «per lo permesso che dà a’ cittadini di acquare, erbare e legnare non ostante esiga la fida di grani 75 per ogni somaro; di impedire ai cittadini il legnare sui terreni feudali dove aveva fatto recidere gli alberi, venduti in danno della popolazione». La commissione ritenne abusive tali pretese e stabilì che al barone fosse riconosciuto l’uso civico di pascolare nei demani comunali al pari di qualunque cittadino; che i cittadini fossero liberi di esercitare gli usi civici di legnare, acquare, pascere senza che il barone potesse pretendere alcun pagamento. 74 Bollettino n. 8/1809, p. 44. Sentenza n. 10 del 2 agosto 1809. La commissione statuì inoltre che il barone si astenesse da qualsivoglia diritto proibitivo e dal pretendere che gli abitanti di Novoli e di Nubilo portassero a macinare i loro grani nei suoi mulini; dal volersi appropriare dagli alberi agresti che nascevano nei territori particolari; dall’esigere la carnatica e l’erbatica; dall’obbligare i coloni ad andare a coltivare le sue possessioni; dall’esercitare il diritto di entratura da coloro che dopo la mietitura ed il ricolto delle ulive e delle uve immettevano gli animali al pascolo nei propri territori. Venne concesso al barone di poter esigere la fida nei fondi di suo pieno dominio e nei demani dell’ex feudatario dedotto l’uso dei cittadini anche per ragione di commercio tra loro. 75 Bollettino n. 7/1810, p. 454. Sentenza n. 62 del 13 luglio 1810. Vd. infra. 76 A. LERRA, La città di Potenza nel Decennio francese, in AA.VV., Il governo della città, cit., p. 61: «Allorquando, pur a fronte del progressivo emergere di una significativa entità di proprietà privata e di un primo nucleo di borghesia agraria, l’assetto e la direzione politico-amministrativa dell’Università erano ancora fortemente segnati da forte rigidità del sistema, caratterizzato dal peso del locale feudatario, conte Loffredo, e dal cero nobiliare, che nella compagine amministrativa continuava ad esprimere cinque dei sette eletti». 137 STEFANO VINCI denunciare gli abusi, vennero ravvisate dallo stesso Winspeare, procuratore generale presso la commissione feudale77, il quale il 13 maggio 1809 scriveva al ministro della Giustizia: Io ho intrapreso un esame dettagliato di vecchie liti rinnovate o introdotte nella commissione, ad oggetto di far decidere speditamente le picciole controversie, e di far passare all’ordine del giorno le più gravi. […] Ma quest’operazione incontra le seguenti difficoltà: Molti comuni per difetto di mezzi non hanno proseguite le vecchie liti, e i rispettivi procuratori si ricusano a qualunque atto. Molti comuni per negligenza dei loro amministratori non spingono i giudizi, e non rimettono le notizie e i documenti necessari all’istruzione del giudizio; Alcuni ricorsi sono stati dedotti da particolari cittadini, i quali subito che hanno messo in salvo il loro interesse, hanno rimaso anche in abbandono quello delle università. Impetro dunque da V.E. l’autorizzazione che renderò nota ai comuni, per mezzo degli intendenti, di sottoporre alla decisione della commissione i processi sullo stato in cui si trovano, e di destinare d’ufficio de’ difensori ai comuni, quando interpellati non sappiano o non vogliano presentare una migliore difesa di quella che si trovi già fatta78. Il Ministro rispose con nota del 22 maggio 1809, approvando la proposta79. La inefficacia del provvedimento che aveva permesso la creazione di una sorta di patrocinio statale a favore dei comuni del regno comportò l’emanazione di un nuovo decreto per incentivare gli organi municipali ad adire la commissione feudale: il de77 Winspeare venne chiamato a tale ufficio, in sostituzione di Suarez, con decreto del 23 dicembre 1808. ASNA, Affari demaniali, fasc. 70, n. 6. Il decreto 27 febbraio 1809, cit., art. 11, indicava le funzioni che gli competevano: «Il procuratore regio presso la commissione è incaricato di vegliare alla esecuzione delle leggi e dei decreti abolitivi della feudalità, a difendere le ragioni dei comuni, o supplendo al difetto dei difensori dei comuni stessi, o promuovendole anche direttamente, dove così sia necessario. Egli è inoltre tenuto in tutti i casi nei quali non trovi eseguite le leggi e i decreti eversivi della feudalità, di cerziorarne i nostri ministri della giustizia e dell’interno, e gl’intendenti delle rispettive provincie. Dovrà procurare l’esecuzione di tutte le sentenze della commissione e corrisponderà perciò coi rispettivi intendenti, e con tutte le altre autorità inferiori delle province, alle quali giudicherà di dovere delegare». Winspeare venne chiamato a tale ufficio, in sostituzione di Suarez, con decreto del 23 dicembre 1808. ASNA, Affari demaniali, fasc. 70, n. 6. 78 ASNA, C. Conti, 4. Rip., Not. Suppl. Fasc. 22, n. 15. 79 Ibidem. 138 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... creto 16 ottobre 1809, proposto dallo stesso Ministro di giustizia, concesse infatti un ulteriore termine, con decorrenza fino al 31 dicembre del 1809, ai comuni e agli ex baroni «per dedurre innanzi alla suddetta commissione tutte le azioni nascenti dalla estinta feudalità»80. La “rimessione in termini” valse naturalmente anche per la commissione feudale, a cui venne donato un altro anno di vita fino al 1 settembre 181081. Un freno agli abusi feudali ancora in vigore nelle periferie del Regno poteva essere messo dagli intendenti, ai quali il legislatore francese aveva affidato il controllo sulle municipalità: ad essi spettava, infatti, il compito di impedire «la continuazione ed il rinnovamento» di ogni diritto e prestazione abolita. L’eventuale illegittima esazione da parte degli antichi possessori o degli aventi causa sarebbe stata «perpetuamente ripetibile» dagli intendenti, anche ad istanza del pubblico ministero e senza l’intervento delle parti private, a profitto degli ospizi82. Da parte loro le autorità governative locali fecero quel che poterono per cercare di sollecitare l’azione propositiva dei comuni nei confronti della commissione feudale. Scriveva il conte Milano, intendente di Terra d’Otranto, ai sindaci dei comuni della provincia: Essendo pervenuti al Real Trono varj rapporti sugli sconci, che han luogo in quei Decurionati, de’ quali sono membri gli Agenti, ed Erarj degli ex Baroni, che posponendo il pubblico vantaggio agl’interessi privati, attraversano tutte le operazioni Decurionali negli affari, che vertono tra le rispettive università e gli antichi loro feudatari, la Maestà del Sovrano si è compiaciuta a tale oggetto di prorogare le disposizioni del Decreto de’ 14 Settembre 1807 fino a che durerà la commissione delle gravezze feudali, da eseguirsi però in quei Comuni soltanto, ne’ quali esistono tuttavia delle liti con gli ex Baroni. Nel parteciparvi, Sig. Sindaci, questa Sovrana risoluzione, v’incarico a dovermi far noto se tra i Decurioni delle vostre rispettive Comuni siavi alcuno che abbia aderenza cogli ex Baroni per le ulteriori disposizioni83. 80 BLD, 1809, II, decreto 16 ottobre 1809, art. 1. Ivi, art. 2. 82 Ivi, art. 5. 83 Giornale d’intendenza di Terra d’Otranto, n. 30/1809, p. 9. L’intendente ai sig. Sindaci della medesima. Lecce 22 luglio 1809. 81 139 STEFANO VINCI 3. Gli usi civici nella Terra dei Titani La mole delle liti portate all’esame della Commissione feudale, le cui decisioni sono conservate nel Bollettino delle sentenze, consente di comprendere la difficile situazione in cui i comuni delle province si vennero a trovare all’indomani dell’entrata in vigore delle leggi eversive della feudalità. Dovunque gli ex baroni custodivano avidamente e difendevano tutto ciò che era in loro possesso. In molte parti del Regno erano rimaste intatte le differenti specie di angarie e perangarie, come le opere dei rustici nei fondi baronali, la somministrazione degli animali per la coltura, il peso della riscossione delle rendite baronali, il peso di alcuni servizi domestici, l’uffizio dei corrieri e delle messaggerie necessarie al barone84. A loro volta i coloni cercavano di rimanere attaccati a quel suolo cui erano da tempo legati per abitudine di vita e che avevano fatto rifiorire col sudore della fronte. Ed ancora le popolazioni dei comuni reclamavano gli usi civici su quei territori circostanti alle città sui quali ritenevano non vi fosse nessun diritto da parte dell’ex feudatario, che invece continuava a pretendere terraggi, decime, quinte ed ad altre prestazioni. La lotta tra comune e barone veniva disputata dinanzi alla commissione a suon di documenti: ai fini di far valere l’uno o l’altro diritto occorreva dimostrare la legittimità del titolo che si vantava, ricorrendo spesso a testimonianze di cittadini, ad apprezzi, a strumenti vari, a fogli catastali o a contratti: la commissione era infatti autorizzata dalla legge di sua costituzione a giudicare le contese feudali sola facti veritate inspecta85. Nel tentativo di concentrare l’indagine alle liti portate in decisione dalla Commissione feudale con riferimento ai soli comuni della provincia di Terra d’Otranto86 e alla materia degli usi civici, sono emerse numerose questioni concernenti la sopravvivenza di abusi degli ex 84 Scrive WINSPEARE, Storia degli abusi feudali, cit., p. 38: «Tutti gli altri diritti personali, niuno escluso, trovatasi commutati in prestazioni in denaro, le quali si sostennero ora col colore d’un titolo scambiato, ora per la forza della transazione ed ora col presidio della prescrizione». 85 Bollettino n. 4/1809, p. 3. Sentenza n. 1 del 6 aprile 1809. 86 Sull’argomento cfr. i saggi di G. Caramuscio, M. Mainardi, R. Quaranta, G. O. D’Urso, F. De Paola, A. Caputo, A. Chionna, E. Inguscio, M. Imperio, A. Brigante, D. Stefanizzi pubblicati nel n. 8 (2006) de «L’Idomeneo: rivista della 140 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... baroni sui territori ex feudali. Secondo il Winspeare, infatti, la Terra d’Otranto era soggetta a particolari prestazioni feudali, rispetto alle altre province del regno, che continuarono ad essere esercitate dopo le leggi eversive. Sopravviveva infatti il diritto del barone di pretendere un vettigale universale per tutti i prodotti naturali e d’industria87, i fondi erano gravati della decima88, della quinta o d’altra prestazione in genere sul prodotto principale, di un canone in denaro, del diritto esclusivo del pascolo o di una decima sull’erba o sugli animali, della decima della paglia e di tutti i più minuti prodotti: L’anarchia avea escogitato ed accumulato in questa provincia tutte le vessazioni capaci di cadere nella mente umana; e la giurisprudenza forense chiamata a sostenerle avea radicata l’opinione che le popolazioni di Lecce avevano tutto ricevuto dalle mani de’ baroni, e che i diritti di costoro non erano se non altrettante riserve del loro universal dominio, come se la provincia d’Otranto fosse stata la terra de’ titani, ed i baroni progenitori degli uomini89. 3.1 Avetrana Il comune di Avetrana adì la Commissione feudale per richiedere, contro l’ex feudatario, la reintegra dei suoi demani e specialmente di tomola 1554 presuntivamente usurpati dal conte Fili e dal marchese del Tito possessori del Motonaro in varie contrade denominate Falchini, Argentini ed altri riserbati dal principe di Francavilla Sezione di Lecce della Società di storia patria per la Puglia», dedicati all’eversione della feudalità in Terra d’Otranto. 87 «Fra i prodotti naturali tributari v’erano ancora le pietre delle proprie lapidicine, l’acqua piovana e lo sterco; fra gl’industriali, incominciando dall’opera e dall’industria grossolana de’ rustici e giungendo all’industria degli artegiani e dei mercatanti, tutto era soggetto a decima; decimabile era pure il prezzo de’ contratti. I diritti per la garantia e per la protezione delle persone erano nel loro vigore; quelli sulla pudicizia delle donne erano per lo più trasmutati in altrettante capitazioni». WINSPEARE, Storia degli abusi feudali, cit., p. 38. 88 La decima feudale era pari alla decima parte del reddito, imposta su beni e rendite. Essa derivava dallo jus decimandi che era l’esercizio di un diritto pubblico di natura tributaria che veniva delegato ad un beneficiato con distrazione dei redditi della Camera Regia a quella baronale. AA.VV., La questione demaniale, cit., p. 180. 89 Ivi, p. 39. 141 STEFANO VINCI per la caccia e poi censuati90. La Commissione passò ad esaminare i documenti prodotti e si soffermò sull’assenso, impartito nel 1587, alla vendita che Carlo Pagano intendeva fare del feudo di Avetrana: in esso venivano descritte nominativamente le proprietà territoriali del feudo e la decima in questione veniva annotata con l’inciso «Item lo jus di esigere la decima». Ed ancora, nell’apprezzo del feudo eseguito nel 1722, l’Università aveva dedotto di escludere i fondi demaniali del comune, descritti nell’estensione e nei confini. A tale deduzione il feudatario aveva risposto di voler provare «che gli altri territori boscosi (oltre i molti che egli aveva migliorato) che vi sono rimasti sono in buona parte demaniali dell’università»91. Da tali documenti emergeva con certezza l’esistenza delle proprietà territoriali del feudo; l’esistenza non contraddetta di un demanio universale; il fatto che le migliorie intraprese dal feudatario si estendevano sulla totalità del demanio feudale; la sussistenza dell’esercizio del diritto di decima sulla proprietà dei privati. Secondo i dati contenuti negli apprezzi, le proprietà di natura feudale dell’ex barone erano circoscritte alla masseria dello Riccio, masseria della Marina o Salina, difesa dell’Umbriaco, difesa detta Chirpo o Casanova, difesa detta Maramonte e Monte di Rena, difesa detta ‘la Voccola’, boschetto denominato S. Martino o Penino, bosco detto ‘li Cimini’ o Mondonuovo92. Tutti questi locali furono dichiarati, in sentenza, demani feudali aperti, soggetti ai pieni usi civici in favore degli abitanti di Avetrana, estimabili a vantaggio del comune nella divisione del demanio. Su questi demani aperti competevano al feudatario i diritti di decimare «sugli otto generi dichiarati legittimi col Real Decreto de’ 16 ottobre 1809»93. Furono invece riconosciute di proprietà assoluta 90 Bollettino n. 7/1810, p. 862. Sentenza n. 117 del 24 luglio 1810. Tra ‘l comune di Avetrana e l’ex feudatario conte Fili; il marchese del Tito e l’amministrazione dei demani. Sull’argomento cfr. M. MAINARDI – I. QUARANTA, Documenti per la storia del territorio di Avetrana, in «L’ Idomeneo», n. 4 (2002), p. 21-62. 91 Ivi, p. 867. 92 A tali considerazioni, la commissione aggiungeva che per Motonaro il comune non aveva alcun diritto contro il marchese del Tito e che l’amministrazione dei Demani non era obbligata per la successione nei feudali al pagamento della bonatenenza. Ibidem. 93 Ibidem. Il decreto del 16 ottobre 1809 dal titolo Diritto feudale di decima, (in BLD, 1809, II) prevedeva all’art. 1: «In tutti i casi ne’ quali la prestazione delle decime nella provincia di Lecce sarà riconosciuta legittima, l’esazione di essa non 142 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... del feudatario le 5 piantate degli ulivi descritte nello stesso apprezzo e conosciute sotto il nome di San Martino, Spina di San Martino Ferracanale, ‘li Granieri’ e San Giorgio, il terreno detto ‘il Passaturo’, il porcile e i terreni adiacenti, il terreno detto Cimini, il terreno accanto al trappeto, il terreno detto ‘le Paludi’ e tutti gli altri beni «di suo particolare acquisto in burgensatico, portati da pubblici strumenti». Il rimanente territorio di Avetrana fu dichiarato di proprietà del comune o dei particolari, libero ed esente da qualunque peso di decima, canoni o qualsiasi altra prestazione. Prima di procedere all’esecuzione della sentenza, il comune di Avetrana avanzò istanza al commissario ripartitore di valutazione degli usi civici nei demani ex feudali, a cui il possessore Conte Filo si oppose sostenendo la segregazione di tutti i fondi burgensatici acquistati con pubblici strumenti o apparenti da professioni catastali fatte dagli ex feudatari di Avetrana in tempo non sospetto94. Dai documenti esibiti risultava che la Masseria dello Riccio – riportata nell’apprezzo del 1804 per la estensione di 193 tomola di terre seminatorie o macchinose, alla misura locale di 2.500 passi il tomolo – era stata acquistata in burgensatico per tomola 128 a passi 104295: sulla base di tali rilievi, Domenico Acclavio96 ritenne che il territorio da dividere come potrà estendersi se non al grano, all’orzo, all’avena, alla bambagia, al lino, alle fave, al vino mosto, e alle olive. È vietata in conseguenza l’esazione sopra tutti gli altri generi non nominati, quantunque sia il titolo della esazione ed il contratto in forza del quale siesi fatta finora». 94 Bullettino delle Ordinanze dei Commissari ripartitori dei demani ex feudali e comunali nelle province napoletane, Napoli, tip. Trani, 1861-1867, n. 3, p. 291. Il Regio Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Altamura, commissario del Re per la divisione dei demani, Altamura, 5 dicembre 1811. L’ex barone produsse, a sostegno della pretesa qualità di burgensatico dei fondi, l’apprezzo eseguito nell’anno 1804 in occasione della vendita fatta su ordine del Governo della c.d. Deputazione degli Apodissorj al conte Filo, nel quale è precisata la estensione e confinazione degli stessi fondi. 95 Di cui tomola 120 erano state vendute all’ex feudatario di Avetrana da Pietro, Francesco e Carlo de Mauro con istrumento del 10 novembre 1679, stipulato per notar Giuseppe Zoto di Latiano, e tomola 8 e passi 1042 ottenute per atto di vendita fatta da Costanza de Mauro allo stesso ex feudatario con altro strumento del 19 gennaio 1962 per mano del notaio Zoto. Ibidem. 96 Domenico Acclavio (1762-1828), esperto giureconsulto e famoso avvocato, dopo la rivoluzione del 1799 fu inviato come visitatore economico nelle province. Con decreto del 13 novembre 1808 fu nominato membro del Tribunale di Appello di Altamura, presso il quale assunse nel 1810 la carica di procuratore generale. Nel 143 STEFANO VINCI demanio ex feudale era pari a circa 65 tomola, «salva la misura a farsi dell’intiero fondo». Rilevò inoltre il Commissario che per quanto concerneva l’acquisto della difesa dell’Ubbriaco era stato esibito lo strumento stipulato per notar Donato Madaro di Latiano in data 24 dicembre 1704, con cui il barone Tommaso Alfonso Sambiase di Copertino aveva venduto a Nicola Massaro, procuratore del principe Michele Imperiale due masserie con fondi indivisi (una chiamata Canale Monaco e l’altra dell’Imbriaco) dell’estensione di tomola 132 in terre «fattezze e macchinose». La descrizione dei confini ivi riportata indicava che queste componevano un sol corpo corrispondente alla confinazione segnata nel citato apprezzo del 1804 in circa tomola 140 sotto il nome di difesa dell’Ubbriaco o Imbriaco. Anche per la masseria Maramonte e Monte di Rena era stato esibito pubblico strumento stipulato il 9 gennaio 1692 per notar Zoto, con il quale il canonico Natale Schiavone di Casalnuovo o Manduria rilasciò – per ragione di congrua – alla principessa Brigida Grimaldi Imperiale, tutrice e balia di suo nipote il principe Michele Imperiale, una masseria denominata Maramonte, che era stata comperata da Domenico Maramonte, della 1809 tenne anche l’incarico di commissario ripartitore in Terra d’Otranto nella risoluzione delle controversie relative al contenzioso ex feudale. Nel 1811 fu nominato intendente della provincia di Terra d’Otranto. Le motivazione che probabilmente spinsero il ministro dell’Interno Zurlo ad inviare in Terra d’Otranto uno dei più validi funzionari del Regno, andavano individuate nella necessità di affidare la provincia ad un uomo di saldi principi e di ferma volontà, e per di più nativo del luogo (aveva avuto i natali a Taranto), tale che fosse in grado di porre un freno allo strapotere di cui avevano goduto negli anni precedenti i funzionari dell’Intendenza. Nel 1819 fu restituito alla magistratura e destinato nalla Gran Corte Civile di Trani. Il 10 dicembre 1820 fu chiamato a succedere a Giuseppe Zurlo quale ministro dell’Interno, ma non accettò. Terminò la sua carriera con l’incarico di vicepresidente dell’Alta Corte di Giustizia di Napoli. Morì a Portici il 1 luglio 1828. Cfr. D. L. DE VINCENTIIS, Storia di Taranto, Taranto 1878, p. 103; A. CRISCUOLO, Don Domenico Acclavio, in «Rass. pugliese», VI (1889), p. 22-3; C. DE NICOLA, Diario Napoletano, 1798-1825 [cur. G. DE BLASIIS], Napoli Società Napoletana di Storia Patria 1906, vol. II, p. 435; N. CORTESE, Memorie di un generale della Repubblica e dell’Impero, Francesco Pignatelli principe di Strongoli, I, Bari 1927, p. XXVIII; W. MATURI, Il concordato del 1818 tra la S. Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929, p. 123-6; G. CERVIGNI, voce «Acclavio, Domenico», in Diz. biogr. it., vol. I, Roma 1973, p. 99; CORCIULO, op. cit., p. 141ss; S. VINCI, La Gran Corte Civile residente in Trani, in AA.VV., Tribunali e giurisprudenza nel Mezzogiorno, I, Le Gran Corti Civili (1817-1865). Napoli e Trani, Napoli 2010, pp. 165-95. 144 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... estensione di tomola 150 di terre tutte macchiose97. Gli acquisti in allodio dei tre fondi dello Riccio, dell’Ubbriaco e di Maramonte risultavano dimostrati con pubblici strumenti negli stessi termini di cui al giudicato della Commissione feudale, per cui – nelle corrispondenti quantità – dovevano essere messi fuori dal calcolo per la divisone dei demani. I fondi denominati la Saliera o Marina, difesa della Voccola, boschetto di San Martino, o sia Pennino, e bosco de’ Cimini o Mondonuovo – descritti nell’apprezzo del 1804 rispettivamente in tomola 235, tomola 30, tomola 24 e tomola 70 – non risultavano garantiti da nessun titolo di acquisto in allodio, non essendo applicabili a queste proprietà gli altri strumenti esibiti dal possessore, per cui dovevano assoggettarsi per intero alla divisione come demani feudali98. Per la difesa detta Chiepo o Casanova – riportata nell’apprezzo del 1804 per tomola 553 seminativo e macchinoso – non era stato presentato nessuno strumento dimostrativo del suo acquisto in allodio: perciò, non essendosi soddisfatto alla disposizione del giudicato, non doveva aversi riguardo alla partita catastale esibita per supplire alla prova della qualità burgensatica che la decisione esigeva esclusivamente per mezzo di pubblici strumenti. Sulla base di queste puntuali considerazioni, l’Acclavio statuì che per la esecuzione del giudicato sarebbero state sottoposte a divisione per la quota equivalente agli usi civici dovuti al comune di Avetrana la masseria della Marina o Saliera; la difesa di Chiedo e Casanova; la difesa della Voccola; il boschetto di San Martino o Pennino. Mentre il bosco di Cimini o Mondonuovo, la masseria dello Riccio, la difesa dell’Ubbriaco e la difesa di Maramonte o Monte di Rena sarebbero rimasti esenti nelle quantità burgensatiche sopra riportate. Quello che sarebbe avanzato a tali porzioni doveva essere ripartito in qualità di demanio. Dopo aver rimesso la valutazione degli usi civici ad un collegio di arbitri nominati dalle parti99, l’Acclavio con successiva ordinanza 97 L’estensione e i confini corrispondevano a quelli riportati nell’apprezzo del 1804. Ivi, p. 293. 98 Ivi, p. 294. 99 Gli arbitri sigg. Francesco Mello di Salice e Paolo Paganisi di Manduria, nominati dalle parti, ed il terzo arbitro aggiunto d’ufficio sig. Gianlorenzo Forleo di Francavilla, insieme con l’esperto eventualmente presentato dal Ricevitore del Demanio e l’arbitro del Conte Filo, avrebbero dovuto procedere nell’arco di 6 giorni alla valutazione degli usi civici ai termini del giudicato della commissione feudale. 145 STEFANO VINCI del 22 maggio 1812 stabilì che la divisione de’ demani ex feudali di Avetrana doveva avvenire nella misura di 1/3 del demanio in virtù del fatto che non concorrevano – ai sensi dell’art. 16 delle istruzioni del 10 marzo 1810100 – nel caso di specie le circostanze per fissare la quota al maximum della valutazione degli usi essenziali, considerati anche i bisogni di una popolazione non minore di 1000 abitanti, per il pascolo dei suoi animali da coltura ed industria e per le legna, che rendevano assai moderato nella gradazione del quarto alla metà il piccolo aumento fatto nel minimum dei compensi101. Al comune, quindi, doveva essere assegnata, in compenso di tutti i suoi diritti, la terza parte dei c.d. locali masseria Lo Riccio, masseria della Marina o Saliera, difesa dell’Ubbriaco, difesa di Chiepo e Casanova, difesa di Maramonte e Monte di Rena, difesa della Voccola, boschetto di San Martino, o sia Pennino, bosco li Cimini o sia Mondonuovo, dedotte le quantità dichiarate burgensatiche con ordinanza del 5 dicembre 1811102. Il sig. Nicola del Giudice di Taranto, agente della divisione, veniva incaricato di unire gli arbitri, di raccogliere i loro pareri e di trasmetterli all’Acclavio. Ibidem. La nomina degli arbitri era prevista dall’art. 10 del decreto n. 223 del 3 dicembre 1808 Istruzioni per l’adempimento della Legge 1 settembre 1806 e del Decreto 8 giugno 1807 sulla divisione dei Demani (in BLD, 1808, II) secondo cui «Gli arbitri eletti dalle parti interessate nella divisione stabiliranno per primo dato l’estensione del fondo e procedendone alla misura, passeranno in secondo luogo a liquidare la rendita che ne ritrae l’ex Barone, o il luogo pio, a cui se ne appartiene il dominio». 100 Decreto 10 marzo 1810, cit., art. 16: «Acciocché l’applicazione ai casi particolari delle basi contenute nell’art. 9 e 10 del Tit. II del real decreto dei 3 dicembre 1808 non sia soggetta ad arbitri e ad incertezze, ed acciò una regola inflessibile tronchi tutte le dispute sarà fissata una scala che determini per ciascuna delle indicate classi la porzione da separarsi, nel modo seguente: Il minimum del compenso degli usi essenziali, o che si esercitino tutti, o che se ne eserciti una parte qualunque, sarà il quarto di tutto il demanio. Secondo la varietà dei casi e delle circostanze da tenersi presenti da’ Commissari, potrà essere di un terzo, e sino della metà del demanio stesso. Il minimum del compenso degli usi appartenenti alla seconda e terza classe, o che siano esercitati tutti o che se ne eserciti una parte qualunque, sarà la metà del demanio; e secondo le circostanze dei casi da vedersi da’ Commissari, potrà crescere a due terzi e sino a tre quarti del medesimo, in beneficio del comune. Questo compenso abbraccerà ancora il compenso degli usi essenziali, qualora in tutto o in parte esistano nel demanio medesimo. 101 Secondo il giudizio degli arbitri, l’assegnazione del terzo del demanio doveva corrispondere ad un giusto compenso dei diritti del comune. Ivi, p. 295. Ordinanza del commissario D. Acclavio, Lecce, 22 maggio 1812. 102 Nell’arco di 3 giorni le parti avrebbero dovuto nominare 3 periti, uno dei quali agrimensore, altrimenti sarebbero stati nominati d’ufficio, i quali dovevano 146 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... 3.2 Calimera Il piccolo comune di Calimera ritenne di adire la Commissione feudale al fine di chiedere la rivendica del bosco denominato “Bosconetto” e “Boscomacchioso” su cui il feudatario vantava la sua proprietà103. La Commissione osservò che il bosco de quo fosse una proprietà evidentemente feudale, ma che la sua qualità di difesa non risultava dai documenti prodotti a sostegno della domanda. Tra questi, risultò rilevante, ai fini della decisione, un atto contenente una proposta di transazione fra il barone e il comune, risalente al 1468, relativa alla erezione del predetto corpo feudale in difesa, rimasta priva di assenso. Tale dato era altresì confortato dal relevio del 1594, in cui il bosco veniva riportato senza la qualificazione di difesa104. Sulla base di tali considerazioni la commissione rigettò la domanda di revindica e dichiarò il bosco demanio feudale aperto ai pieni usi civici in favore degli abitanti di Martano e Calimera, usi estimabili in divisione. 3.3. Castellaneta Il comune di Castellaneta adì la commissione feudale con la specifica richiesta di ottenere il riconoscimento quale demanio comuprocedere alla ricognizione dei confini, misura ed apprezzo dei suddetti locali, escludendo dall’apprezzo e dalla divisione le tomola 128 e passi 1042 di burgensatico nella masseria dello Riccio, le tomola 132 di burgensatico della difesa dell’Ubbriaco e le tomola 150 di burgensatico nella masseria Maramonte e Monte di Rena. All’esito delle operazioni, i periti dovevano accantonare in favore del comune di Avetrana dalle parti più comode e più vicine all’abitato, il terzo dei suddetti demani, evitando quanto più possibile la «dimembrazione» dei corpi e il pregiudizio del possessore Conte Filo. Eseguita la ripartizione, il rimanente territorio sarebbe stato posseduto dall’ex feudatario in piena proprietà e libero da qualsiasi servitù civica. Ivi, p. 298. All’esito della perizia, il Commissario dichiarò con ordinanza del 25 giugno 1812 che la quota de’ demani ex feudali spettante al comune di Avetrana consisteva nella c.d. difesa di Chiepo e Casanova della estensione di tomola 429 e stoppelli 5 del valore di cuati 8510,33 1/3, pari a lire 36926,20 compresevi le due casette e l’acquaro in essa esistenti. Ivi, p. 299. Ordinanza del 25 giugno 1812. 103 Bollettino n. 7/1810, p. 430. Sentenza n. 54 del 11 luglio 1810. Tra ‘l comune di Calimera in provincia di Lecce e il dianzi feudatario marchese di Martano. 104 Dal relevio del 1594 emergeva altresì che la transazione del 1468 fu comune a Martano e Calimera, e che quest’ultima era sotto la baronia di Martano. Ibidem. 147 STEFANO VINCI nale dei terreni posseduti dal principe. Presupposto alla risoluzione della questione fu la constatazione della circostanza che ai tempi dei Re Angioini la bagliva di Castellaneta, spettante al feudatario, comprendeva tra le altre cose anche la fida degli animali dei forestieri, che non si sarebbe potuta esercitare da parte del feudatario se questi non avesse avuto il demanio proprio105. Dalla disamina della copiosa documentazione prodotta dalle parti, emersero dati rilevanti che andavano a suffragare la tesi della natura feudale dei territori considerati: dall’incartamento processuale relativo ad un giudizio insorto nel 1551 tra la Regia Corte che chiedeva in Castellaneta una difesa per uso de’ locati e il feudatario che si opponeva, fu posto in risalto il fatto che la Dogana di Foggia riconobbe giusto il pagamento di annui ducati 70 al feudatario (che risultò soccombente) per il compenso dell’erba106. Nello stesso senso, la commissione ritenne importante il documento da cui risultava che nel 1675 la Regia Dogana chiese l’erezione nel demanio di Castellaneta di una nuova difesa di carra 72 ed il fisco doganale convenne con il feudatario – e non con l’università – la corresponsione di annui ducati 430. Ed ancora, il fatto che nel 1719 il presidente della dogana di Foggia con il suo fiscale si recarono in Castellaneta per dirimere una questione relativa al fatto che i locati del posto pretendevano di impedire al feudatario di fidare nel demanio, «giacchè questo si trovava assegnato per due locazioni, cioè per quella dell’Orsanese e per l’altra delle 7200 pecore». Tale accesso fu ripetuto nel 1742 al fine di disporre l’assegnazione in demanio delle suddette 7200 pecore: su Marzagaglia furono assegnati carri 29 1/6, nelle Rene di S. Matteo carri 24 ½ e nelle Murge di Fra Gennaro carri 18. Elargizioni che non furono nemmeno opposte dall’Università. Sulla base di tali prove documen- 105 Tale deduzione derivava dall’acquisizione dell’informazione fiscale del 1519, in cui la fida risultava compresa nella bagliva. Bollettino n. 7/1810, p. 256. Sentenza n. 28 del 7 luglio 1810. Tra il comune di Castellaneta in provincia d’Otranto e ‘l suoi d’anzi feudatario. Sull’argomento cfr. E. INGUSCIO, La questione demaniale a Castellaneta nel periodo francese, in «L’Idomeneo», n. 8 (2006), p. 291-316. 106 Nel 1556 fu finalmente eretta la difesa richiesta in località Orsanese, su cui il Comune aveva ottenuto il diritto di prelazione, ma in questa occasione «non ardì d’impugnare il diritto del feudatario sul demanio assegnato». Sentenza 28/1810, cit., p. 260. 148 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... tali la Commissione dichiarò demani ex feudali i locali denominati Orsanese e Rene di San Matteo. Il territorio cosiddetto Murge di Fra Gennaro fu dichiarato di natura comunale in considerazione del fatto che il prolungamento dello stesso terreno, ugualmente denominato, fu dichiarato ‘comunale’ a seguito di due sentenze della stessa commissione rispettivamente sulle domande proposte dalle università di Laterza del 15 settembre 1809 e di Gioia del 3 marzo 1810, per cui «si debbono supporre della stessa natura». Fu riconosciuto invece di natura feudale il fondo denominato Coste della Gravina, in quanto risultava dal contratto di compravendita del 1735 che esso fu acquistato dal principe di Acquaviva da alcuni naturali di Castellaneta107. Risolta tale questione, la Commissione feudale passò ad esaminare, nella stessa sessione, un’altra domanda proposta dal comune di Castellaneta e rivolta ad ottenere la cessazione dell’esazione della decima delle vettovaglie da parte della mensa vescovile di Castellaneta. Tra la documentazione prodotta spiccava una convenzione risalente al 1636 stipulata tra l’Università e la Mensa anzidetta in cui era stabilito che «chiudendosi ai cittadini il fondo Sterpine, ove la mensa decimava, non dovesse pagarle annui ducati 120 a patto però che la difesa della Gualella piccola della mensa passasse in dominio dell’università»108. In tale «istromento» il fondo Sterpine viene qualificato «demanio della città», per cui il diritto di decima esercitato dalla mensa era «per diritto di servitù o per diritto di sagramentalità». Le Gualelle, invece, risultava essere un demanio ecclesiastico, 107 In tale «istromento» venivano indicati i confini del fondo c.d. Coste della Gravina: «Principiando dal luogo, seu pezzele chiamato volgarmente Cozzariello che tirano per la parte di detta Gravina dalla parte di sotto di detta città coste coste sino alla via, che scende vicino alla nocchiera del rev. P. Gregorio Maldarizzi della predetta città, vai pubblica che in Motola, confina la via che va da Castellaneta alla chiesa di S. Cosmo e Damiano, dalla parte di sopra, confina lo corrente dell’acqua, che scorre e divide il territorio di Castellaneta da quello di Motola, ed in dette coste anche vi si comprende un gran lago, che continuamente si stagna, e contiene acqua, chiamato il lago di S. Elia, come pure vi si comprende un’altezza similmente circondata di coste, sopra la quale vi si trova un edifizio di chiesa fatta anticamente, chiamata di S. Elia, e presentemente buona parte è diruta, apparendo il solo edificio, ed altri confini». Ibidem. 108 Bollettino n. 7/1810, p. 264. Sentenza n. 29 del 7 luglio 1810. Tra il comune di Castellaneta in provincia d’Otranto e la mensa vescovile di Castellaneta, e per essa l’amministrazione dei demani. 149 STEFANO VINCI sul quale l’Università esercitava il diritto di pascere limitatamente al periodo compreso tra il 31 dicembre al 5 aprile. Pertanto solo su questo terreno sarebbe potuto considerarsi legittimo l’esercizio del diritto di terraggio, mentre in tutti gli altri (Sterpine, Menasciola, La Marina, Orsanese e Rene di S. Matteo109) questo doveva ritenersi abusivo: la Commissione pertanto dichiarò tali locali liberi ed esenti da qualunque prestazione in favore della mensa di Castellaneta e riconobbe il pieno esercizio degli usi civici con riferimento al territorio c.d. Le Gualelle110. Nel maggio del 1810 il principe di Acquaviva e il sindaco di Castellaneta presentarono a S.M. due esposti relativi alla censuazione e alla divisione di alcune difese111. In particolare il sindaco di Castellaneta chiese che si procedesse alla divisione delle tre difese dette Bulsanello, Terzi dell’Orsanese o Termitosa, con riferimento alle quali la commissione feudale nel pronunciarsi nella lite intercorsa tra il comune e l’ex barone aveva riservato al primo il godimento degli usi civici. L’Acclavio – nel suo rapporto di riscontro al Ministro – fece notare di non aver ancora dato esecuzione alla sentenza della Commissione feudale (e quindi alla divisione del territorio): Se lo stato del Brigantaggio in questa e nella limitrofa provincia di Lecce non mi vietasse assolutamente di uscire da questa residenza. Io non ho potuto neppure spedire un agente a Castellaneta per le operazioni preliminari, per essere quel territorio oltremodo infestato da’ briganti. Egli è perciò, che le operazioni della divisione de’ demani intraprese in varj punti dell’una e dell’altra Provincia sono paralizzate, non potendo né gli agenti proseguire il loro travaglio, né io condurmi in quei luoghi ove la mia presenza sarebbe più necessaria. Lo stesso avviene nella Provincia di Basilicata, nella quale le comunicazioni sono eziandio più difficili. Io ne sono profondamente afflitto, e nella impotenza di spiegare tutta l’attività che l’importanza della commissione esige, ho dovuto limitarmi ad una corrispondenza cogli agenti della ripartizione, e co’ Sindaci per apparecchio della materia che non può altrimenti svi- 109 Per questi ultimi due locali, la Commissione feudale si era già espressa con precedente provvedimento n. 28/1810 dichiarandone la natura feudale. 110 Sentenza n. 29 del 7 luglio 1810, cit., p. 267. 111 Supplemento Bollettino n. 29, p. 7. Ministeriale del Commissario. Il ministro dell’Interno al commissario Acclavio, 26 maggio 1810. 150 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... lupparsi. Prego V.E. ad essere in questa intelligenza, per non ascrivere a difetto di energia la non piena attività della commissione112. A seguito di tale chiarimento il ministro dell’Interno – in data 1 agosto 1810 – inviò al commissario ripartitore una nuova richiesta di delucidazioni in ordine a quanto dedotto dal principe di Acquaviva con riferimento alla censuazione delle due difese dette Le Ferre e Montecamplo113. Tale domanda si fondava sul preteso diritto secondo cui le difese – distaccate dal patrimonio comunale di Castellaneta fin dall’anno 1593 – avessero subito notevoli miglioramenti per mano del principe114: perciò il ricorrente reclamava l’applicazione dell’art. 22 delle Reali Istruzioni sulla divisione de’ demani115. L’Acclavio – nella sua risposta del 9 agosto 1810 – riferì di essersi recato personalmente sul posto nel precedente mese di luglio e di aver rilevato che la difesa di Montecamplo fosse incolta e non suscettibile di coltura per essere tutta montuosa e boscosa o ricoperta da macchie. Ne conseguiva che nessuna miglioria potesse ritenersi essere stata effettuata, tranne che aver costruito un piccolo muro a secco attorno alla stessa. La difesa Le Ferre era invece in gran parte coltivata, abbondava di alberi di ulivo in parte trapiantati a cura del possessore116 ed su di essa insisteva un pozzo ed «una casetta per comodo del colono». Sottoposti a perizia per ordine del Commissario, la spesa per tali miglioramenti era stata stimata in ducati 3642.42, a cui andava aggiunta la spesa per la realizzazione del muro esistente nella difesa di Montecamplo: il credito vantato dal principe 112 Ivi, p. 8. Rapporto di riscontro al Ministro, Altamura, 14 giugno 1810. Ivi, p. 13. Il ministro dell’Interno Zurlo al commissario Acclavio. 114 La commissione feudale con sentenza del 6 aprile 1810 aveva condannato il principe di Acquaviva a rilasciare in favore del comune di Castellaneta le due difese. La stessa sentenza da atto degli intervenuti miglioramenti «che per lo speso solamente tali migliorazioni si fossero dedotte nell’atto dell’esecuzione». Bollettino n. 4/1810. 115 Decreto 10 marzo 1810, n. 588, cit., art. 22: «Se il possessore abbia fatto delle migliorie nella difesa, effetto della mano d’uomo, e non della natura, ed offra al comune un compenso equivalente in terre, ed in difetto di queste, in un canone, il Commessario ammetterà tale offerta». 116 Gli alberi di ulivo si estendevano per tomoli 94, pari a circa 3 carra e ½ di terreno nella misura di Puglia. Supplemento Bollettino n. 29, p. 14. Rapporto dell’Acclavio al Ministro. Gioia del Colle, 22 agosto 1810. 113 151 STEFANO VINCI di Acquaviva ammontava quindi a ducati 396537 che – secondo un provvedimento emesso dall’Acclavio – sarebbero dovuti essere pagati dal Comune in favore del feudatario entro quattro mesi117. Per quanto concerne la pretesa censuazione in virtù del richiamato art. 22 delle istruzioni per la divisione dei demani, il Commissario rilevò come essa non potesse trovare applicazione nel caso concreto in virtù del fatto che il principe di Acquaviva l’aveva invocata per tutti i fondi118: «La legge che intende sempre al favor dell’agricoltura, ed avendo un giusto riguardo all’industria dell’uomo promotrice dell’aumento della ricchezza nazionale, offre saggiamente un mezzo onde far rimanere al possessore il fondo migliorato per le di lui cure senza pregiudicare l’interesse altrui». Sulla base di tale precisazione, l’Acclavio rilevò come ad eccezione dell’oliveto, le difese non avevano ricevuto nessun miglioramento119. Inoltre mancava il presupposto della qualità di demanio ex feudale necessario per l’applicazione della norma: nel caso di specie le difese – lungi dall’essere state feudali – erano nel patrimonio dell’università di Castellaneta, quando nel 1593 passarono «per titolo di compera al barone di quel tempo, che non ne sborsò l’intero prezzo, né le acquisto colle solennità della legge». La Commissione feudale ne ordinò infatti la reintegra a favore del comune, compensando la quota di prezzo con la totalità 117 Ivi, p. 16. Fino a che non fosse stato eseguito il pagamento, l’Acclavio aveva accordato «la ritenzione del solo oliveto col peso di dar conto del frutto pendente, e ricevendo in escambio per suo credito l’interesse del 5 per 100 a contare dal di I di gennaio del presente anno, quando per la general consuetudine della Provincia i frutti degli oliveti incominciano a decorrere». Dispose pertanto la immissione nel possesso da parte del comune del rimanente della difesa Le Ferre e dell’intera difesa Montecamplo giusta i confini riconosciuti dai periti. 118 Rilevava l’Acclavio che l’applicazione della citata norma richiedeva due condizioni: che il fondo fosse stato notabilmente migliorato per mano dell’uomo e che si trattasse di un demanio ex feudale, illegittimamente chiuso a difesa, «il quale perciò cadendo in divisione per la quota equivalente agli usi spettanti ai cittadini, dovrebbe rilasciarsi in parte». Ivi, p. 16. 119 Spiegava l’Acclavio che non potesse considerarsi miglioramento la coltivazione di una parte del terreno erboso de Le Ferre, «il quale senza alcun dispendio del feudatario, ed appiccandosi da’ coloni il fuoco alle poche macchie ivi esistenti, è stato messo a semina. Egli è perciò, che i periti niuna spesa han valutato in questo dissodamento, che per la costumanza del luogo cadendo tutta a carico del fittuario, è abbastanza compensata dalle abbondanti ricolte, che la terra fresca e piena di sali suol dare ne’ primi anni». Ivi, p. 17. 152 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... dei frutti fino ad allora percepiti120. Poste tali premesse, l’Acclavio rigettò la domanda avanzata dal principe di Acquaviva diretta alla censuazione delle difese. Ritenne però che – in considerazione della maggiorazione di valore (pari forse al triplo della spesa erogata) dell’oliveto impiantato su la difesa Le Ferre «formato per l’industria del possessore» – sarebbe tornato utile al comune avere per l’equivalente prezzo terreni coltivabili da dividere tra i cittadini: poiché infatti il detto oliveto era di rendita incerta e richiedeva «somma cura per la manutenzione», il Commissario prescrisse un termine per l’ex barone entro il quale avrebbe dovuto dichiarare se intendeva offrire un compenso in terre, ai sensi del citato art. 22. Per quanto riguarda invece la difesa di Montecamplo, «selvosa e ricoperta di pini utili alla Marina»121, vicina all’abitato e di una rendita cospicua per fida di animali, l’Acclavio ritenne che essa doveva considerarsi di grande vantaggio per il comune122. Il 6 febbraio del 1811 il ministro dell’Interno tornò a scrivere all’Acclavio e a richiedergli parere in ordine ad un nuovo esposto presentato dal principe di Acquaviva con riferimento alle difese site nel territorio di Castellaneta – denominate Orsanese, Termitosa e Bulsanello – cedute nel 1631 dal comune all’ex feudatario a soddisfazione dei suoi debiti123. In particolare il principe lamentava che sulla difesa di Bulsanello – «tutta censita nel diritto di pascolare e di fida su’ fondi appadronati ancorché sieno arbusti, essendo soltanto lecito al possessore di pascere co’ suoi animali nel proprio fondo» e su cui era stato esercitato il diritto di fida e di pascolo da parte dell’ex barone fino al 1809 – a seguito della pubblicazione del real 120 Sentenza del 6 aprile 1810, cit. Scriveva Acclavio di aver visitato per due volte questa difesa: «ella per 2/3 almeno è ricoperta da sole macchie, e non ha che pochi alberi, e quasi niuno in costruzione. I pini che e per la pece e per legname sarebbero utilissimi alla Marina, sono in altra parte del territorio di Castelleneta, la quale come demanio ex feudale, o comunale, richiamerà a stagione più propria la mia attenzione». Rapporto dell’Acclavio al Ministro, 22 agosto 1810, cit., p. 20. 122 Riteneva il principe di Acquaviva che i corpi morali erano incapaci della manutenzione dei boschi. Se tale assunto fosse vero – secondo l’Acclavio – «niun comune del regno dovrebbe partecipare a’ terreni boscosi nell’attual divisione de’ demani». Ivi, p. 23. 123 Ivi, p. 31. Ministeriale del Commissario. 6 febbraio 1811. 121 153 STEFANO VINCI decreto del 16 ottobre 1809124, i possessori avevano ritenuto che i loro poderi non dovessero più soggiacere a questo servaggio, ma essere «in loro balia di chiuderli e di servirsi esclusivamente dell’erba che vi nasce»125. Di conseguenza il principe di Acquaviva – di fatto privato dell’esercizio dei suoi diritti – aveva presentato a S.M. un esposto nel quale chiedeva fosse riconosciuta la legittimità del suo titolo peraltro già confermata dalla stessa commissione feudale con arresto del 6 aprile 1810126. L’Acclavio – nel suo rapporto al Ministro – ritenne non esservi dubbio in ordine al fatto che il comune di Castellaneta, «servendo nel 1631 alla urgenza de’ suoi bisogni», chiuse in difesa ed alienò il diritto di pascolo sui fondi appadronati, che secondo la consuetudine della regione veniva esercitato promiscuamente da tutti i cittadini. Questa «privativa» – stabilita in parecchie contrade che «per avventura» erano limitrofe all’abitato e che, per la ‘vetustà’ degli alberi di ulivo ivi esistenti, erano le più «anticamente appadronate» – prese il nome di difesa di Bulsanello a cui furono aggiunti altri terreni patrimoniali del comune. Tanto bastò al Commissario per ritenere che i possessori fossero in diritto di vendicare la piena libertà dei loro fondi, chiudendoli e disponendo dell’erba che era stata dichiarata di piena proprietà dal decreto del 16 ottobre 1809. Anche se fosse stato vero quanto sostenuto dall’ex barone, secondo cui non poteva trovare applicazione nel suo caso il citato decreto che aboliva i diritti di pascolo e di fida esercitati per titolo di feudalità nei fondi così chiusi come aperti posseduti dai privati, lo stesso non avrebbe comunque potuto conservare un diritto che il comune aveva perduto in conseguenza della facoltà accordata ad ogni proprietario di chiu- 124 Il decreto 16 ottobre 1809, cit., prevedeva all’art. 3 il divieto di esigere la decima dell’erba, ogni diritto di fida, ogni esazione di erbatica, carnatica, giornate di latte, e di ogni prestazione sugli animali e sui loro prodotti. 125 Altro. Il Regio Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Altamura Regio commissario incaricato della divisione de’ demani a S.E. il Ministro dell’Interno, 18 maggio 1811, p. 32. 126 La commissione feudale lo aveva infatti assolto dall’azione di reintegra delle difese avanzata dal comune. L’ex barone chiedeva che gli fosse garantito l’esercizio del suo diritto «fino a che non piaccia allo stesso comune di ricomprare i suoi fondi per lo prezzo di ducati 26000 nel corso del quinquennio, siccome a’ termini del codice civile la commissione glie ne ha dichiarato il fatto». Ibidem. 154 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... dere senza compenso il proprio fondo per liberarlo, ai sensi dell’art. 47 del real decreto 3 dicembre 1808127, dalla servitù di compascuo. Quindi se per effetto della legge, il diritto del Comune si era estinto e non poteva più ulteriormente gravitare sui fondi dei privati, doveva ritenersi anche risolto ed estinto il diritto dell’ex barone. Sulla base di tali considerazioni l’Acclavio concluse che si dovesse negare al principe di Acquaviva l’esercizio del pascolo sui fondi privati della difesa di Bulsanello e poiché la perdita del suo diritto nasceva da disposizioni di legge – e non per fatto del venditore – non doveva competergli nessun diritto di regresso nei confronti del comune. Il ministro dell’Interno Zurlo con ministeriale di riscontro del 27 giugno 1811 ritenne «giusti i principi» adottati dal Commissario ed approvò le disposizioni date128. Un’ulteriore supplica era stata presentata nel luglio del 1810 al S.E. il ministro dell’Interno dal signor Antonio Tafuri, il quale domandava che in conformità degli artt. 17, 22 e 30 delle istruzioni del 10 marzo 1810129 fosse mantenuto – con la corresponsione di un canone annuo – nel possesso di 8 carra di terreno della difesa denominata Le Ferre, a lui pervenuti «per compra fattane dalla casa baronale di Castellaneta». Il ministro Zurlo rimise la supplica all’attenzione del commissario ripartitore Acclavio, affinché riscontrasse se il ricorrente potesse essere compreso nella classe dei coloni perpetui e prendesse le provvidenze corrispondenti130. Rispose l’Acclavio che 127 Decreto 3 dicembre 1808 n. 223, cit., art. 47: «Essendosi sperimentati infruttuosi i provvedimenti contenuti nell’editto del 1792 per le affrancazioni della reciproca servitù del pascolo, che, secondo la consuetudine generale del regno, hanno tutti i fondi aperti fra loro, e trattandosi d’una operazione che riguarda l’utile scambievole di tutti i fondi, dichiariamo che resta nella libertà di tutti l’esentare in tutto o in parte dalla servitù del compascuo i propri fondi, purché li chiudano con pareti, con fossate, con siepi, con altri argini continui, che proibiscano l’ingresso agli animali per tutto l’estensione del fondo, o per quella parte che vuol chiudersi. La disposizione di questo articolo non comprende i demani, siano feudali ed ecclesiastici, siano comunali non ancora divisi». 128 Supplemento Bollettino n. 29, p. 35. Ministeriale di riscontro. Il ministro G. Zurlo al commissario ripartitore D. Acclavio, 27 giugno 1812. 129 Decreto 10 marzo 1810 n. 588, cit. 130 Supplemento Bollettino n. 36 (appendice ai nn. 22 e 23), p. 291. Ministeriale del Commissario. Il ministro dell’Interno al Sig. commissario Acclavio, 7 luglio 1810. 155 STEFANO VINCI il fondo oggetto della richiesta del Tafuri apparteneva al comune di Castellaneta, il quale – in virtù di sentenza della commissione feudale del 6 aprile 1810 era stato reintegrato nel possesso della difesa Le Ferre illegalmente distratta fin dall’anno 1593 a favore del barone di quel tempo – aveva il diritto di riunire nella medesima l’indicato terreno che l’ex feudatario Giambattista Mari con due strumenti del 13 dicembre 1793 e 11 dicembre 1766 aveva distaccato a titolo di vendita a favore dell’allora tesoriere della cattedrale Girolamo Plagese, da cui il signor Tafuri ebbe causa. Questo terreno fu descritto nell’atto di vendita come sterpinoso e macchioso, ma per le cure del compratore e dei suoi eredi si trovava adesso in gran parte ridotto a coltura, e su di esso erano state costruite una masseria con varie fabbriche e comodi rurali. Portata a conoscenza del sindaco del comune di Castellaneta la supplica del sig. Tafuri, il decurionato deliberò che «sebbene non sembri potere in giustizia colui ritenere a censo la masseria illecitamente vendutagli», pure doveva considerarsi che vi esistevano in quella dei notabili miglioramenti, soprattutto in fabbriche, che sarebbe stato necessario pagare, «laddove il possessore non fosse reputato colono nella parte migliorata: che oltre a ciò, se non a titolo di giustizia la pretesa censuazione possa aver luogo, pare che gli si debba accordare a titolo di riconoscenza»131. Il sindaco, nel rimettere l’estratto della deliberazione decurionale al commissario Acclavio, manifestò che sarebbe stato di maggior profitto per il comune che il signor Tafuri avesse ritenuto a censo la masseria con un conveniente canone, facendo osservare che qualora l’avesse persa sarebbe stato necessario dividere tra i cittadini i terreni unitamente a quelli della difesa Le Ferre con tutte le fabbriche, il di cui valore ammontava a più di mille ducati. Sulla base delle considerazioni svol- 131 Ivi, p. 295. Riscontro al Ministro, 6 settembre 1810. Le ragioni della riconoscenza erano determinate dai seguenti rilievi: «1. perché quella città e la la classe più povera deve alla famiglia Tafuri la fondazione e il mantenimento di 3 monti pubblica beneficenza, l’uno chiamato pecuniario, l’altro frumentario, e ‘l terzo di montaggi; da’ quali e colla distribuzione de’ grani, e col mutuo grazioso del denaro, e colla dispensa di 6 o 7 dotary all’anno, i poveri ricevono grandissimo sollievo; 2. perché ne’ 2 passati anni il sig. Bernbardino Tafuri, fratello del ricorrente, in qualità di sindaco ha sostenuto con somma energia e zelo i dritti del comune contro del principe di Acquaviva, ad onta di compromettere il godimento di quelle terre nella sua famiglia». 156 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... te dal sindaco e dal decurionato di Castellaneta, l’Acclavio ritenne che gli articoli delle istruzioni per la divisione dei demani invocati dal Tafuri non potessero riconoscergli il diritto di ritenere a censo le terre rivendicate dall’università in quanto da lui non possedute a titolo di colonia132 e per non aver effettuato nessuna migliorazione ai sensi dell’art. 30 del citato decreto133. Nonostante ciò, il Commissario stimò poter accordare la domanda per due ordini di motivi. Prima di tutto perché la masseria in questione aveva fabbriche e comodi rurali tali da reggere una vasta industria e dar ricovero a tutti i coloni ed agli animali da coltura «necessari per far valere le terre che ne costituiscono la dote»134. In secondo luogo perché il comune di Castellaneta aveva un immenso territorio coltivabile con una debole popolazione, che non raggiungeva il numero di 5000 abitanti. Tra questi ¾ almeno erano proprietari e soltanto duecento famiglie avrebbero potuto concorrere alla ripartizione dei demani comunali e dei fondi patrimoniali della università soggetti alla divisione135. A 132 Infatti l’art. 17 del decreto n. 588/1810 prevedeva: «I demani relativamente alle colonie perpetue che possono trovarsi stabilite, debbono essere distinti in due classi: quelli dei quali l’intera superficie si trovi occupata da coloni perpetui; gli altri occupati per una parte sola, o che questa sia continua, o che sia interrotta per colonie disseminate nell’intera continenza del demanio. Nel primo caso, avendo il real decreto dei 16 di ottobre del caduto anno, dichiarata l’erba di proprietà dei rispettivi padroni anche superficiari, è cessato ad un tempo nell’ex-Barone il diritto alla fida, e nei cittadini la partecipazione agli usi. Dal terratico e dalla decima in fuori che questi così detti coloni debbono pagare all’ex-Barone, come riserva del di lui dominio, essi sono riputati come assoluti padroni delle loro rispettive porzioni, ed ogni servitù è rimasta estinta. Quindi questi demani trovandosi già legittimamente ripartiti, non possono cadere in altra divisione. Nel secondo caso, ciò che è stato spiegato per lo tutto, è applicabile anche alla parte. Cadrà in divisione la parte non occupata, ed i coloni perpetui che sono in possesso dell’altra, saranno riguardati come ogni altro possessore dei fondi propri allodiali». 133 Ivi, art. 30. L’Acclavio ritenne che nel caso di specie «la riduzione del terreno da macchioso a seminabile ottenendosi colla sola azione del fuoco, non apporta al proprietario alcuna spesa; ma questa è sostenuta dal colono, che nella feracità delle raccolte de’ primi anni vi si trova un sufficiente compenso». Riscontro al Ministro, 6 settembre 1810, cit., p. 297. 134 Osservava il Commissario che il rifacimento del prezzo di queste fabbriche sarebbe risultato molto gravoso per l’università e di nessun uso per i cittadini ai quali il terreno sarebbe dovuto essere diviso in poche tomola. Sarebbe inoltre risultato contrario ai principi di equità «che l’edifizio con piccolo spazio si lasciasse al possessore cui sarebbe ugualmente inutile che di carico». Ivi, p. 298. 135 «Per l’opposto la massa delle terre coltivabili eccede di gran lunga il biso- 157 STEFANO VINCI ciò si aggiungeva il rilievo secondo cui anche i comuni vicini di Laterza, Ginosa, Palaggianello e Gioja avevano terre soprabbondanti ai loro usi che per essere messe a coltura avrebbero necessitato del doppio delle braccia a loro disposizione. L’Acclavio ritenne – in applicazione dell’art. 22 n. 3 del real decreto 3 dicembre 1808136 – che le 8 carra di terre, appartenenti al comune di Castellaneta per effetto della ottenuta reintegrazione della difesa Le Ferre, dovessero essere rilasciate a censo al signor Antonio Tafuri con la corresponsione di un giusto canone da stabilirsi a giudizio dei periti avuto riguardo al valore attuale delle terre137. La divisione dei demani fu disposta con ordinanza del 29 marzo 1813 del commissario del Re per la divisione dei demani, il quale, considerò che gli usi civici – dichiarati dal giudicato della commissione feudale del 7 luglio 1810 – a favore del comune di Castellaneta nel demanio ecclesiastico delle Gualelle appartenevano alla classe degli essenziali, attesa la spiegazione data alla clausola degli usi pieni e comodi dalla circolare del ministro dell’Interno in data 11 luglio 1810 ed i successivi chiarimenti comunicati dal Procuratore Generale presso la suddetta commissione138. Nonostante gli arbitri avessero ritenuto che gli indicati usi dovessero essere classificati come utili «per la circostanza del legnare, indistintamente e del mercimonio della calce» ritenne il Commissario che «pur tal mercimonio deve intendersi tra’ cittadini, e quindi non altera nè la gno della popolazione, ed i mezzi in farle valere, quando anche tutti i cittadini vi concorressero, o le porzioni di coloro che le rinunciassero venissero domandate dagli altri». Ibidem. 136 Decreto 3 dicembre 1808, n. 223, cit. Art. 22 c. 3: «Dove le terre demaniali fossero tanto estese, che sorpassassero il bisogno della popolazione ed i mezzi che in essa si possono trovare per la cultura, l’Intendente dovrà sospendere la divisione, esporre le circostanze del comune a cui il territorio appartiene, e de’ Comuni vicini, ed attendere la nostra determinazione, che prenderemo sul rapporto del nostro Ministro dell’Interno, udito il nostro Consiglio di Stato». 137 Poiché il richiamato art. 22 prevedeva che l’ammissione della domanda di censuazione dovesse essere accordata dal Re, il Commissario rimetteva la proposta al ministro dell’Interno. Il 15 settembre 1810 il ministro Zurlo rispondeva all’Acclavio di approvare la sua decisione. 138 Bollettino delle ordinanze dei commissari ripartitori dei demani ex feudali e comuinali delle province napoletane, cit., n. 9. Ordinanza del 29 marzo 1813, p. 180. 158 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... natura di essi, né il giudicato della Commessione». Tali circostanze non concorrevano ad aumentare il minimum stabilito dall’art. 16 delle istruzioni del 10 marzo 1810139, visto che il comune di Castellaneta non era sprovveduto di territorio e la sua popolazione non eccedeva il numero di 5000 abitanti: di conseguenza l’Acclavio ritenne regolare ed equo stabilirsi il compenso al quarto del demanio, dedotte le colonie, che con la coltivazione di un decennio erano diventate perpetue140. L’ordinanza prevedeva che entro 3 giorni le parti avrebbero dovuto scegliere 3 periti141, uno dei quali necessariamente agrimensore, i quali avrebbero avuto il compito di riconoscere i confini del demanio e – fatta la segregazione delle terre coloniche – effettuare la misura e l’apprezzo di quello rimanente, il di cui valore sarebbe stato accantonato in favore del comune dalla parte più comoda e più vicina all’abitato, da «controsegnarsi con termini lapidei». Eseguita la divisione, il rimanente territorio sarebbe stato posseduto dal Real Demanio in piena proprietà e scevro da qualsiasi uso o servitù civica142. 3.4. Faggiano Numerosi erano i diritti feudali ancora esercitati nel comune di Faggiano dalla principessa Maria Francesca Alberini, nei cui confronti la Commissione dispose che si astenesse dall’impedire all’Università ed ai suoi cittadini di poter costruire forni, molini, centimoli, tappeti e palmenti di qualsivoglia sorte; di poter tenere ed esercitare osterie, taverne, stalle, botteghe lorde e macelli; di poter vendere commestibili e carne tanto all’ingrosso che al minuto; di esigere il c.d. testatico, o vassallaggio, o bocca, per i quali pretende139 Decreto 10 marzo 1810, art. 16, cit. Si legge nell’ordinanza: «sono esenti dalla divisione tutti i terreni che saranno riconosciuti soggetti a colonie perpetue, le di cui prestazioni, a’ termini del giudicato della commessione, verranno esclusivamente corrisposte al Real Demanio, salvo a’ coloni il diritto di chiudere i loro fondi. Ordinanza 29 marzo 1813, cit., p. 185. 141 Se le parti non li avessero scelti entro tale termini, sarebbero stati nominati d’ufficio. Ibidem. 142 Ibidem. Il consigliere aggiunto dell’Intendenza di Lecce signor Astore era incaricato della esecuzione dell’ordinanza. A lui spettava il compito di far redigere i corrispondenti processi verbali e rimetterli per l’approvazione. 140 159 STEFANO VINCI va annui carlini 8 per ogni naturale capo di famiglia ed altre annue grana 5 anche dai loro figli di anni 7; di esigere grana 35 da ogni naturale capo si famiglia e grani 17 e ½ da ciascuna vedova sotto il nome di portolania, zecca, o vassallaggio; di impedire ai cittadini di Faggiano l’uso civico per causa di commercio anche fra i concittadini sul demanio ex-feudale della stessa terra di Faggiano e il loro dominio e i loro diritti sul demanio universale, come anche sui loro territori appadronati; di immettere bestiami, o cagionare danno nei territori dove si trovavano biade, prati, giardini, vigne ed altri alberi fruttiferi appartenenti all’università143. Seguirono ulteriori questioni sollevate dall’università di Faggiano e portate al giudizio della Commissione feudale. In particolare il comune chiese che fosse accertato quali diritti competevano alla universalità degli abitanti di Faggiano sul luogo detto La Serra, ossia Monte. La Commissione prese in esame le capitolazioni reali concesse all’ex feudataria in data 1556, 1647 e 1648: da tali documenti emergeva come la popolazione di Faggiano si fosse insediata nel territorio soltanto a seguito dell’infeudazione. Pertanto gli abitanti non avrebbero potuto rappresentare sul suolo «nuovamente abitato nessun diritto diverso da quanto loro concesso. «Riflettendo però d’altra parte che gli usi non possono essere loro denegati a’ termini delle stesse capitolazioni, e che l’uso nel senso della legge abbraccia tutto ciò ch’è relativo a’ comodi reali della popolazione: ciocchè importa pienezza di diritto nell’esercizio degli usi civici sulla totalità del territorio chiamato Monte o Serra»144. Al fine di dare esecuzione al giudicato, furono nominati gli arbitri per la estimazione degli usi civici145 i quali ritennero di accordare al comune 143 Bollettino n. 5/1809, p. 72. Sentenza n. 9 del 16 maggio 1809. Bollettino n. 9/1809, p. 7. Sentenza n. 2 del 1 settembre 1809. La commissione statuì inoltre che il barone fosse autorizzato ad esigere le decime sui soli prodotti di grano, fave, orzo, avena, vino mosto ed ulive, riscuotibili i primi 4 generi triturati sulle aje dei particolari, il vino mosto nei palmenti dei proprietari e le ulive in natura sui luoghi dove esse si raccoglievano. Concesse altresì ai reddenti la facoltà di commutare il peso territoriale in canone fisso e redimibile ai termini della legge. 145 Fu nominato il sig. Ciro Scarmiglia da parte del Comune e il sig. Francesco Minerola da parte dell’ex feudataria. Bollettino delle Ordinanze dei Commissari ripartitori, cit., n. 15, p. 5. Ordinanza del commissario Acclavio del 20 marzo 1811. 144 160 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... di Faggiano 15 moggia di terreno vicino all’abitato, unicamente riducibile a coltura, valutato in ducati 414, sulla rendita attribuitagli di ducati 20 e grana 70 ed altre moggia 160 di terreno macchioso e sassoso in contatto del coltivabile, valutato in ducati 3 il moggio, sulla rendita di grana 15: in questo modo la quota del comune si faceva ammontare a ducati 894, risultante dal prezzo delle indicate 175 moggia, lasciando all’ex feudatario il rimanente territorio sassoso, della estensione di moggia 505 stimato in ducati 1515. Tale parere degli arbitri fu contestato dal comune di Faggiano nel consiglio decurionale del 5 febbraio 1811, in seno al quale fu deliberato di avanzare richiesta di riforma del giudizio degli arbitri, i quali avevano dato una «forte valutazione» ai terreni del comune, la cui quota era da considerarsi scarsa. La questione fu portata dinanzi al commissario ripartitore, il quale – come risulta dal processo verbale del 18 marzo 1811 – riuscì a conciliare le parti146, che acconsentirono a riconoscere la quota nel comune nel demanio del Monte pari a 2/5 del suo valore da accantonarsi dal sito più vicino all’abitato147. L’Acclavio – considerato che l’assegnazione di 2/5 del demanio tornava utile agli interessi del comune – ritenne necessario si dovesse procedere a nuova misura ed apprezzo del Monte demaniale, affinché fosse dato l’equivalente quota al comune in proporzione del suo giusto valore148. Dalla perizia risultò che la estensione dell’intero demanio fosse di 593 moggia e 401 passi quadrati di cui 150 moggia e 650 passi di prima classe del valore di ducati 7 e grana 7 e ¼ il moggio; 188 moggia e 716 passi di seconda classe del valore di ducati 2 e grana 35 e ¾ il moggio: 254 moggia e 35 passi di terza classe pari a ducati 1 e grana 41 e 1\/3 il moggio. Poiché quindi il prezzo dell’intero territorio corrispondeva alla somma di ducati 146 Ai sensi dell’art. 4 del decreto n. 495 del 23 ottobre 1809, cit., «Il primo dovere de’ Commissari sarà quello d’impiegare le loro cure per terminare col mezzo della conciliazione tutte le contese che potessero sorgere sull’oggetto delle divisioni». 147 Il valore sarebbe dovuto essere soggetto ad estimazione da parte di periti. Ibidem. 148 L’Acclavio ordinò che le parti entro 3 giorni avrebbero dovuto convenire nella scelta di 3 periti, tra cui un agrimensore, affinché procedessero alla misurazione e valutazione del terreno e quindi, in risultato del prezzo, ‘risecarne’ 2/5 a favore del comune dalla parte più vicina all’abitato, includendo le terre coltivabili. Ibidem. 161 STEFANO VINCI 1862 e grana 85 ½, la quota di 2/5 spettante al comune risultò pari a ducati 722 e grana 20, compensabili con 173 moggia e 804 passi quadrati di territorio, composti cioè di 69 moggia e 833 passi di prima classe; di 84 moggia e 788 passi di seconda classe; di 19 moggia e 83 passi di terza classe149. Rilevò l’Acclavio che i periti erano incorsi in errore, perché – invece di fissare i 2/5 in ducati 745 e grana 10, avuto riguardo della totalità del prezzo in ducati 1862 e grana 75 – lo avevano fissato in ducati 722 e grana 20, pregiudicando il detto comune nella somma di ducati 22 e grana 20: tale errore doveva essere corretto, aggregandosi alla quota del demanio assegnato al comune «tanto terreno che compia la indicata somma»150. L’anno successivo la principessa di S. Angelo Imperiale presentò al ministro dell’Interno un ricorso avente ad oggetto la domanda di conservare un edificio formato nel demanio ex feudale per ricovero dei suoi animali, richiamando l’art. 30 delle istruzioni del 10 marzo 1810151. In data 25 ottobre 1812 lo Zurlo rimetteva a Domenico Acclavio, commissario ripartitore del Re per la divisione dei demani in Terra d’Otranto, il ricorso «per l’uso conveniente»152. L’Acclavio, nel suo dettagliato riscontro al Ministro del 3 ottobre 1812, rilevava preliminarmente come a seguito della sentenza della commissione feudale del 1 settembre 1809 – con cui erano stati riconosciuti gli usi civici nel territorio detto il Monte dichiarato demanio ex feudale – si era proceduto alla divisione del territorio e che con ordinanza del commissario ripartitore del 20 marzo 1811 erano stati assegnati 149 Ivi, p. 9. Minuta di ordinanza del Regio Procuratore generale presso la Corte di Appello di Altamura e commissario del Re per la divisione dei demani, Taranto, 23 aprile 1811. 150 A tal fine l’Acclaviò stabilì che il decurionato dovesse intervenire con il sindaco all’assegnazione e compimento della quota, confinazione e apposizione dei termini lapidei. Ivi, p. 13. 151 L’art. 30 del Decreto 10 marzo 1810, n. 588 (in BLD, 1810, I) dal titolo Istruzione ai Commissari per la divisione dei demani, prevedeva che: «Saranno eccettuate le porzioni di demanio nelle quali il colono abbia immutato la superficie in meglio e le migliorie sieno tali che possano dirsi fixe vinctae. In questo caso tutto il migliorato resterà in porzione del colono, ancorché il contingente sia maggiore. Dove siavi stata fatta una fabbrica solamente, questa s’includerà nel contingente del coloni». 152 Supplemento Bollettino n. 13, p. 3. Il ministro dell’Interno al Signor Acclavio, 25 ottobre 1812. 162 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... al comune di Faggiano 2/5 nella estensione di moggia 188 stimati per ducati 745.10153. Nel porre in esecuzione l’ordinanza l’Acclavio aveva riscontrato come, nel territorio assegnato al comune, «venivano di necessità a cadere alcuni edifizi ad uso di capanne di pecore e capre, e di abitazione di pastori», poste in vicinanza dell’abitato. Laddove per la conservazione di tali costruzioni si fosse voluto assegnare al comune altro territorio, ciò non sarebbe stato possibile, perché – essendo il demanio diviso in due parti per intersecazione del territorio di Roccaforzata, che si estendeva sino a pochi passi dalle mura di Faggiano – sarebbe stato necessario prendere una ulteriore quota a 4 miglia di distanza presso «la terza di S. Giorgio, se in grazia delle indicate fabbriche non gli si fosse lasciato l’arbitrio di scegliere il terreno più vicino»154. Per risolvere la questione, l’Acclavio ordinò di immettere comunque il comune nel possesso del territorio assegnato «con rimanere in balia dell’ex feudataria principessa di S. Angelo, di togliere le fabbriche annessevi». Fu questa la ragione delle doglianze lamentate dalla principessa dinanzi al ministro dell’Interno a cui chiese la conservazione di un ricovero per animali, offrendo in compenso un terreno che desse l’annua rendita di ducati 70, o un canone nella stessa somma franco da qualunque ritenzione per causa di fondiaria. Nel ricorso la principessa acconsentiva altresì che i cittadini continuassero «ad esercitare gli usi di pascolare co’ loro animali, menoché con capre, pecore e porci, di legnare e tagliar pietre nell’intero demanio e di pagare al comune in compenso de’ frutti non interamente goduti a tutto il corrente anno la summa di ducati 64, oltre a ducati 20 a titolo di spese. La questione fu portata dinanzi al decurionato di Faggiano, il quale rilevò che i terreni offerti in compenso – «essendo in alto valore» – non avrebbero potuto soddisfare il bisogno dei cittadini e che non sarebbe stato possibile provvedere alla suddivisione della quota del demanio, attesa la qualità montuosa e incoltivabile del medesimo. Inoltre ritenne il consiglio cittadino che era più confacente agli interessi del comune assicurare l’annua prestazione di ducati 70 più che sottostare alla eventualità della rendita o del censo di pochi tomoli di terreno che si proponeva 153 Riscontro dell’intendente di Terra d’Otranto a S.E. il ministro dell’Interno. 31 ottobre 1812. Ivi, p. 5. 154 Ivi, p. 6. 163 STEFANO VINCI assegnarsi in compenso155. Con riferimento poi all’invocato art. 30 del decreto 10 marzo 1810, l’Acclavio ritenne che esso non poteva trovare applicazione nel caso di specie, in virtù del fatto che la norma prevedeva espressamente solo l’ipotesi dei demani comunali migliorati con fabbriche dai cittadini e non anche il caso di miglioramenti posti in essere dall’ex barone nei demani feudali. Nonostante l’impossibilità di applicare tale norma, l’Acclavio volle comunque aderire alle conclusioni formulate in seno al decurionato in virtù delle buone condizioni del compenso offerto dalla principessa e rilevò che «non essendo sperabile che per la qualità sassosa e sterile del demanio la porzione destinata al comune possa ripartirsi a’ cittadini, e coltivarsi essa rimarrebbe nella comunione di tutti per gli usi di legnare, pascere e scavar pietre»156. Tale vantaggio sarebbe stato assicurato ai cittadini in virtù della rendita di annui ducati 70 (o lire 308): sebbene il diritto di pascere avrebbe sofferto una limitazione nella specie degli animali, tale restrizione sarebbe stata compensata dall’esercizio di far pascolare indistintamente gli animali «vaccini e somarini, legnare e tagliar pietre nell’intero territorio, usi più essenziali a’ cittadini, che quei di pascere con pecore, capre e porci, di cui il paese è sprovveduto»157. Sulla base di tali indicazioni, l’Acclavio sollecitò il Ministro – nel caso in cui avesse condiviso la soluzione prospettata – di richiedere l’approvazione del Re in virtù della quale il commissario ripartitore avrebbe potuto emettere la corrispondente ordinanza «per la futura cautela delle parti». Il ministro Zurlo rispose all’Acclavio che «trovandosi con sovrana autorizzazione in voi prorogate le facoltà accordate agl’Intendenti col decreto 27 dicembre ultimo relativamente alla divisione dei demani, e credendo poi espediente ed utile la convezione progettata tra il comune di Faggiano e l’ex feudataria […] potete razionarlo con una vostra ordinanza»158. Stabilì quindi 155 Il verbale consiglio decurionale di Faggiano del 2 ottobre 1812 si trova allegato alla lettera di riscontro dell’Acclavio al Ministro. Ivi, p. 15. 156 Ivi, p. 11. 157 Ibidem: «Sembrami inoltre che non potendosi coll’assegnazione di poche moggia di terre coltivabili soddisfare al voto della legge, sia plausibile il progetto di ottenersi in vece di una rendita sicura, che ridonderà a benefizio di tutta la popolazione mercè la soppressione di qualche dazio». 158 Ministeriale all’Intendente di Terra d’Otranto. Ivi, p. 17. 164 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... l’Acclavio di approvare la convenzione tra il Comune e l’ex feudataria, ordinando che in luogo e della quota del demanio aggiudicata al comune in virtù dell’ordinanza del 23 aprile 1811 sarebbe stata corrisposta allo stesso il canone annuo di ducati 70 (pari a lire 308), franco della ritenzione del quinto, per la contribuzione fondiaria da pagarsi semestralmente in due rate uguali, a far data dal gennaio 1813. Quindi la principessa sarebbe stata mantenuta nel possesso della suddetta quota di territorio e dell’intero demanio, salvo però ai cittadini gli usi di legnare, tagliare pietre e pascolare i loro animali «vaccini e somarini». La stessa feudataria avrebbe dovuto pagare entro 8 giorni al comune la somma di ducati 84 (= 369.60 lire) in compenso dei frutti da esso non percepito a tutto dicembre 1812 e della rata delle spese della divisione159. 3.5. Fragagnano Questioni della stessa natura riguardarono anche il comune di Fragagnano, in cui l’ex barone continuava a vietare ai cittadini l’uso civico di legnare nei roveti detti volgarmente le Macchie, esistenti nel territorio demaniale, nonostante il Tribunale della Sommaria avesse in passato sancito «esser lecito a’ cittadini legnare ne’ roveti detti le Macchie soltanto per uso proprio»160; ad impedire ai cittadini «il menare a pascolo i loro animali» anche nei propri territori a meno che non gli fosse stata corrisposta una prestazione161; a vietare il diritto di proibire il pascolo degli erbaggi persino nei luoghi che «in ciascun anno sogliono rimanere incolti». La Commissione, riservata la decisione in ordine alla pertinenza dei roveti, richiamò le disposizioni emesse dal Tribunale della Regia Camera della Sommaria in data 21 marzo 1803 ad effetto delle quali era stato riconosciuto 159 Bollettino delle Ordinanze dei Commissari ripartitori, cit., n. 15, p. 14. Ordinanza del commissario Acclavio del 14 dicembre 1812. 160 Nell’atto introduttivo del giudizio promosso dall’università neri confronti dell’ex barone si legge che l’uso civico su tali locali sarebbe spettato anche nell’ipotesi in cui tali terreni fossero stati ex feudali. Bollettino n. 2/1810, p. 943. Sentenza n. 81 del 22 marzo 1810. 161 In virtù di tale abuso il barone vietava ai cittadini anche di irrigare i loro fondi e di abbeverare gli animali, mentre pretendeva di immettere il suo bestiame e dei suoi dipendenti ed affidati nelle terre appadronate. Ibidem. 165 STEFANO VINCI lecito ai naturali di quella terra l’uso civico di legnare nei detti roveti denominati le Macchie. Dichiarò altresì il divieto per l’ex barone di fidare nelle terre dei privati, chiuse o aperte, anche se redditizie di decima, di canone o di altra prestazione così come nei demani universali. Mentre riconobbe la possibilità di esercitare il suo diritto nei fondi propri e nei demani ex feudali, dedotto per questi ultimi l’uso dei cittadini anche per ragione di commercio tra loro162. Nel luglio del 1810 la Commissione feudale si trovò nuovamente a decidere su una richiesta presentata dal comune di Fragagnano, rivolta ad ottenere il riconoscimento degli usi civici nei locali denominati Mosellaci e Cazzato163. Al fine di definire la questione, i giudici presero in esame il catasto del 1741 da cui si evinceva che il feudatario possedeva in feudale la masseria detta Mosellaci e la difesa del Cazzato164. Pertanto fu riconosciuto competere agli abitanti del feudo i pieni usi civici anche per ragion di commercio tra loro nei locali c.d. difesa di Cazzato e Mosellaci e su tutti gli altri demaniali del feudo, fatta eccezione per gli orti, i vigneti, i frutteti, gli oliveti e tutte le altre terre di estensione non maggiore ai 12 moggi di piena proprietà del feudatario. Per dare esecuzione al giudicato della Commissione feudale, si procedette alla nomina degli arbitri per la valutazione degli usi civici, i quali furono di uniforme opinione di accordare al comune di Fragagnano 2/3 degli indicati fondi demaniali in compenso degli usi civici165. La perizia fu oggetto di reclamo da parte dell’ex barone Lelio dell’Antoglietta, in merito al quale il commissario Acclavio – udito il parere del cavalier Cataldo Galeota, Sottintendente di distretto di Taranto e di Giuseppe La Gioia, Giudice di pace del circondario di Taranto ai sensi dell’art. 4 del decreto 23 ottobre 1810 i quali ritennero di assegnare al comune il terzo del 162 Ibidem. Bollettino n. 7/1810, p. 496. Sentenza n. 68 del 14 luglio 1810. Tra ‘l comune di Fragagnano in provincia di Otranto e ‘l suo ex feudatario sig. Lelio dell’Antoglietta. 164 Con riferimento a quest’ultima, la Commissione rilevava che non vi erano elementi che permettevano di riconoscere l’esistenza della difesa in data precedente alla prammatica del 1536. 165 Bollettino delle ordinanze, cit., n. 16, p. 292. Minuta di ordinanza del Regio Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Altamura e commissario del Re per la divisione dei demani del 18 settembre 1811. 163 166 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... valore dell’intero demanio166 – osservò che i pieni usi civici per causa di commercio, spettanti in virtù della sentenza della Commissione feudale ai cittadini di Fragagnano nei demani feudali, dovevano considerarsi annoverati nella classe degli usi essenziali, in quanto consistenti nel diritto di pascere, acquare, pernottare e legnare a secco167. Rilevava altresì che, ai sensi dell’art. 16 delle istruzioni di cui al decreto 10 marzo 1810168, gli usi civici risultavano compensabili con una quota di territorio non minore del quarto né maggiore della metà di demanio: se da una parte il numero degli abitanti di Fragagnano pari a circa 1200, quasi tutti agricoltori, e il loro bisogno di legna da bruciare consigliava un aumento del minimum della quota, anche in considerazione della «strettezza del territorio», dall’altra la qualità del demanio, poco atto a fornire legna da fuoco, e lo scarso numero degli animali da pascolo non avrebbero indotto a ritenere possibile un aumento fino al maximum del compenso. Su tali basi, l’Acclavio ordinò di adottare il parere dei pubblici funzionari aditi, secondo cui la quota del comune per valutazione e compensi di tutti 166 Decreto 23 ottobre 1809, n. 495, Istituzioni di speciali Commissari per la divisione dei Demani in BLD, 1809, II. Art. 4: «Il primo dovere de’ Commissari sarà quello d’impiegare le loro cure per terminare col mezzo della conciliazione tutte le contese che potessero sorgere sull’oggetto delle divisioni. Allorché non avran potuto riuscirvi nei dieci giorni consecutivi a quello della presentazione de’ richiami, essi pronunzieranno sulle quistioni, dopo aver inteso in iscritto il parere dei due funzionari della Provincia nella quale l’operazione avrà luogo, ed ordineranno che le divisioni si eseguano in conformità delle decisioni che avran proferite. Le loro decisioni indicheranno il nome e il parere de’ due funzionarii consultati, e saranno motivate». 167 L’art. 11 del decreto 10 marzo 1810, cit., stabiliva una tripartizione degli usi civici: «Gli usi civici dei Comuni su i demani degli ex-Baroni e delle chiese, o che vogliano su i principi generali riguardarsi come riserve più o meno estese del dominio, che le popolazioni rappresentavano sulle terre, o come riserve apposte dal concedente per conservare alle popolazioni stesse il mezzo di sussistere, possono ridursi a tre classi; 1) di usi civici essenziali che riguardano lo stretto uso personale necessario al mantenimento dei cittadini; 2) di usi civici utili, che comprendono, oltre l’uso necessario personale, una parte eziandio d’industria; 3) di usi civici dominicali, che contengono partecipazione a’ frutti ed al dominio del fondo». L’art. 12 definiva appartenere agli usi della prima classe: «il pascere, l’acquare, il pernottare, coltivare con una corrisposta al padrone, legnare per lo stretto uso del fuoco, per gli istrumenti rurali e per gli edifizi; cave di pietre o fossili di prima necessità; occupare suoli per abitazioni». 168 loc. cit. 167 STEFANO VINCI i suoi usi doveva essere fissata nella misura del terzo del valore di tutti i fondi demaniali consistenti nella intera difesa di Cazzato, nella masseria Mosellaci esclusa la parte burgensatica di tomola 46, denominata la pezza de’ Calaprici, in tomola 150 della masseria detta di Acquacandita ed in tomola 42 di terre macchiose nel luogo chiamato Torrenuova169. Stabilì altresì che le parti entro tre giorni avrebbero dovuto provvedere alla nomina dei periti per la misura ed apprezzo dei fondi, e poi procedere alla divisione in tre parti uguali, una delle quali da accantonarsi a favore del comune dalla parte più comoda e vicina all’abitato170. I dati emersi dalla perizia consentirono all’Acclavio di disporre con successiva ordinanza del 27 maggio 1812 che la terza parte del valore dei demani ex feudali di Fragagnano, spettante al comune, veniva fissata nella quantità di tomola 40 di terreno semensabile (metà di prima e metà di seconda classe) della masseria Mosellaci, stimate per ducati 3000; tomola 26 semensabili di II classe e tomola 54 macchiose della difesa del Cazzato, estimate per ducati 1287; e di tanto terreno semensabile e macchioso della stessa difesa del Cazzato che giusta l’apprezzo eseguito aveva un valore di ducati 459,66 2/3 (pari a lire 2022,53) che mancavano a compiere l’intera quota del comune in ducati 5607,66 2/3 (pari a lire 24673,73 1/3)171. Al comune sarebbe spettata soltanto la metà del territorio delle Tagliate, pari a tomola 3 ¼, in confine di Torre Nuova. Eseguita la divisione, il rimanente territorio sarebbe stato posseduto dall’ex feudatario in piena proprietà, ed esente da qualsiasi uso o servitù civica ai termini del giudicato della Commissione feudale e della ordinanza del 18 settembre 1811. 169 Si legge ancora nell’ordinanza del 18 settembre 1811, cit., p. 295, che: «I vigneti esistenti nella parte feudale della masseria di Mossellacci saranno messi fuori della divisione, ma gli altri terreni censiti e non ridotti né a vigne né ad arbusti così della stessa masseria formeranno parte della divisione e rimarranno aggiudicati nella quota dell’ex feudatario». 170 Ibidem. Furono nominati periti Leonardo Forleo, Biagio Costanzo e Oronzo de Pascale. 171 Ivi, p. 314. Ordinanza del Commissario del 27 maggio 1812. Tale aumento di terreno in favore del comune nella difesa del Cazzato doveva aver luogo «dalla parte limitrofa e laterale, formante una stessa linea ed in ispezialità dove dicesi cisterna del Cazzato in guisa che il supplemento venga a formare una sola continenza colla prima ripartizione». 168 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... 3.6. Francavilla Con sentenza del 20 luglio 1810 la Commissione feudale, nel decidere la causa tra il comune di Francavilla in provincia di Lecce e l’amministrazione del Regio Demanio, dichiarò demani comunali i locali denominati Atelio, Casalino, la Scivola e Sciamani – erroneamente riportati come feudali nel catasto del 1753, ma non menzionati nello strumento di vendita dei corpi feudali di quel feudo del 1575 – salvi gli acquisti particolari che a titolo di allodio per pubblici strumenti gli ex feudatari avessero fatto172. L’Intendenza degli allodiali aveva venduto questi fondi fin dal 1792 ad alcuni cittadini di Ceglie e di Francavilla, i quali avevano provveduto a migliorarli notabilmente. Sta di fatto però che questi possessori non comparirono in giudizio dinanzi alla Commissione feudale, in quanto non furono chiamati in causa dall’amministrazione del Regio Demanio: quando ricevettero notizia della decisione della Commissione feudale, i proprietari del fondo Casalino (domiciliati «per avventura» in Francavilla) presentarono dinanzi alla Commissione le loro querele, in cui sostennero di aver pagato al Fisco allodiale delle ‘quantità’ in conto del prezzo convenuto e di aver effettuato delle considerevoli migliorazioni in quel fondo. La commissione con successivo arresto del 23 agosto 1810 ordinò che l’amministrazione del demanio restituisse loro il prezzo ricevuto; che essi rimanessero disobbligati dal pagamento della restante somma; che il comune di Francavilla fosse tenuto al rifacimento delle migliorie già effettuate da liquidarsi – intese le parti – innanzi al commissario regio della provincia incaricato della ripartizione dei demani, prima della esecuzione della precedente pronuncia del 20 luglio173. All’atto dell’esecuzione delle sentenze, si presentarono dinanzi al commissario ripartitore Domenico Acclavio i possessori dei quattro fondi dichiarati demani comunali174, i quali domandarono «che dove 172 Bollettino n. 7/1810, p. 474. Sentenza 20 luglio 1810. Tra ‘l comune di Francavilla in provincia di Lecce e l’amministrazione del Regio Demanio. 173 Bollettino n. 8/1810, p. 234. Sentenza 23 agosto 1810. 174 I possessori dei fondi Atilio, Scivola, Sciaiani e Casalino erano i sigg. Pietro La marina, l’arciprete Vincenzo Nucci, Eugenio Epifani, Oreste Carlucci, Manco Nacci, Tommaso Tagliavanti, Stefano Cantore, Pietro Gaetano Allegretti (domici- 169 STEFANO VINCI il giudicato avesse dovuto eseguirsi anche contro di loro che non erano stati intesi nella Commissione, era giusto che siffatti terreni per lo più sterili, dissodati a grandi spese, e migliorati con piantagioni e con officine e comodi rurali, fossero rilasciati a censo»175. La domanda dei possessori era suffragata dalla considerazione che la Intendenza degli allodiali aveva venduto loro con unico contratto i fondi feudali e i fondi burgensatici: ne conseguiva che laddove fossero stati costretti a restituire i fondi feudali per la dichiarata qualità di demani comunali, a loro sarebbe riuscito gravoso ritenere i fondi burgensatici «per la condizione del prezzo ragguagliato al 3% della rendita oltre agli aumenti fatti nelle subaste, che per la indivisibilità de’ comodi rurali, i quali proporzionati sempre al territorio, o sarebbero divenuti superflui, o sarebbero mancati del tutto, secondo che sarebbonsi trovati o nella parte burgensatica, o nella demaniale»176. Secondo l’Acclavio, l’esecuzione del giudicato della Commissione doveva riguardare due oggetti: la reintegrazione dei fondi demaniali in favore del comune di Francavilla, e quindi la liquidazione e rifacimento delle migliorie dedotte dai possessori; la separazione dei fondi burgensatici che, confusi con i pretesi fondi feudali nella vendita effettuata dalla Intendenza allodiale, dovevano rimanere salvi ai compratori con il corrispondente prezzo in gran parte non ancora pagato in beneficio del Regio Demanio. Prima di dare esecuzione ai giudicati, il commissario ripartitore dispose che fosse eseguita una perizia sulla ricognizione e separazione dei fondi già feudali da quelli burgensatici e sulla loro misura; sulla segregazione del prezzo di questi fondi burgensatici da quelli feudali, divenuti di proprietà del comune di Francavilla in virtù del giudicato, avuto riguardo al tempo dei rispettivi contratti; sulla valutazione dei miglioramenti eseguiti nei fondi guadagnati dal comune, come la installazione di arbusti, liato in Ceglie), Giuseppe e Pasquale Scazzari, Vincenzo Montanari, Giovanni e Vincenzo Margarito, Giorgio Caroli, Francesco Barbaro, Francesco di Paola Sarli, Perna Danese e Giuseppe di Bartolomeo. 175 Supplemento Bollettino n. 30 (appendice ai nn. 12,13 e 14 anni 1809-1815), p. 230. Rapporto del Commissario, Altamura, 21 novembre 1811. 176 Ibidem. In ogni caso i possessori chiedevano che fossero liquidate le migliorazioni – a somiglianza di quanto la Commissione aveva deciso nel territorio di Casalino – e che «non si fosse il giudicato altrimenti eseguito, che pagato dal comune l’importo delle spese». 170 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... vigneti, giardini e coltivazioni permanenti, fabbriche rurali, pozzi, muri ed altri comodi necessari o utili. Dalla perizia risultò che il fondo Casalino aveva un’estensione pari a tomola 77 ½177 di cui 22 tomola burgensatici. Rilevarono i periti che non erano più distinguibili i confini tra i terreni feudali e burgensatici per cui procedettero al calcolo sottraendo dalla totalità del prezzo dell’intero fondo il valore di questi ultimi: risultò che dei 16000 ducati promessi «collo strumento di compra del 1792», ducati 4541,93 2/3 appartenevano al burgensatico e il rimanente al feudale178. Il fondo Atilio risultò invece della estensione di tomola 292 ½ di cui 80 tomola di burgensatico. Anche in questo caso, essendo incerti i confini, i periti ritennero utile liquidare il prezzo sulla totalità di quello stabilito nello strumento di vendita: poiché il prezzo convenuto fu di ducati 12770, compreso il valore degli animali e delle semenze estimati in ducati 1403, rimanevano ducati 11367 per i terreni179. L’estensione del fondo Scivola era di tomola 528 2/3 nel feudale e di tomola 336 5/8 nel burgensatico: il prezzo totale era di ducati 37076,66, dei quali ducati 14161,33 andavano attribuiti al burgensatico e il «dippiù» al feudale180. L’ultimo fondo, Sciamani, era invece tutto feudale con un’estensione pari a tomola 387 3/8: il suo prezzo fu di ducati 17000, «il quale è interamente perduto pel Regio Demanio». Da tali dati emergeva che dei quattro fondi venduti dalla già Intendenza degli allodiali nel 1792 per il prezzo di ducati 81443,66, il Regio Demanio conservava per la parte burgensatica soltanto ducati 21812,22; e poiché i possessori avevano pagato in conto la somma di ducati 8112,67 2/3, il loro debito verso il demanio rimaneva di ducati 13699,54 1/3181. Per ciò che attiene l’interesse dei possessori con il comune di Francavilla 177 Calcolati alla misura locale di 2500 passi il tomolo e ciascun passo di palmi 7. Rilevavano altresì i periti che «da’ possessori essendosi pagata in varie rate la somma di ducati 3315,67 2/3, l’amministrazione del demanio rimane a conseguire ducati 1226,26». Ivi, p. 232. 179 «La rata del burgensatico conservato al Regio Demanio di ducati 3108,93 1/3 in conto dei quali essendosi oltre del prezzo degli animali e delle semenze pagati ducati 1767, risulta il credito del detto demanio in ducati 1341,93 1/3». Ibidem. 180 «Quindi è che avendone l’amministrazione ricevuto in conto ducati 3030, il suo eredito sul burgensatoico rimane in ducati 11131,35». Ibidem. 181 Il rimanente in ducati 59631,44 era il valore dei fondi già feudali, che dichiarati demani universali appartenevano al comune di Francavilla. 178 171 STEFANO VINCI in ordine ai fondi da restituirsi, i periti riconoscevano che le spese di miglioramento nel territorio Casalino erano pari a ducati 3554,14 ½; in ducati 1935 quelle del territorio di Atilio; ducati 6410 nella Scivola; ducati 2793,90 nel territorio di Sciajani182. Alla luce di tali chiarimenti forniti dalla perizia, l’Acclavio rilevò che laddove la reintegrazione dei fondi demaniali si fosse effettuata in favore del comune di Francavilla secondo quanto disposto nel giudicato della Commissione feudale, sarebbe stato indispensabile pagare ai possessori le indicate migliorazioni che ammontavano a circa 13.000 ducati. Il comune non aveva la disponibilità di tale somma di denaro, senza il pagamento della quale non sarebbe però stato né giusto né equo per i possessori soffrire la espropriazione dei fondi migliorati in buona fede, ed acquistati «co’ titoli più solenni». D’altro canto lo stato e la situazione dei fondi non avrebbe permesso al comune di trarre un «vantaggioso partito» in considerazione del fatto che i fondi Atilio, Scivola e Sciajani si trovavano a sei miglia di distanza dall’abitato183; che la qualità sassosa e «poco ferace» di quei terreni non era suscettibile né di una ripartizione alle piccole quote stabilite dalla legge, né poteva allettare i braccianti francavillesi ad un genere di coltura del tutto diversa da quella che essi conoscono nel ‘feracissimo’ e vasto loro agro in cui insistevano le coltivazioni di derrate, bambagia, ortaggi e piantagioni di vigneti ed oliveti. Queste sono le ragione per le quali i predetti fondi non trovarono altri compratori se non i cegliesi, in quanto abituati alla coltivazione di terreni «ingrati e montuosi» come quelli del loro paese e perché la distanza dai terreni era minore rispetto al loro comune184. Il comune di Francavilla ritenne non avere nessun interesse a concorrere alla riparazione di 182 Il loro totale ammontava a ducati 14697,04 ½, «salvo a dedurre pe’ burgensatici annessi a feudali di Casalino ed Atilio le rate di tali spese proporzionate alla loro estensione, non potendosi altrimenti fissare la confusione de’ confini la identità di questi terreni». 183 A quella distanza – riteneva Acclavio – «non è sperabile che gli agricoltori di Francavilla possano stendere la loro industria». Ivi, p. 236. 184 Il fondo Casalino non offriva questi vantaggi, ma la feracità della terra e la somma coltura cui era stata portata era un ostacolo per la ripartizione. «Qual miglioramento possono mai fare i bracciali nei giardini, ne’ vigneti, negli oliveti, nelle paludi? Il canone che dovrebbe loro imporsi sarebbe tanto alto che non potrebbero pagarlo al I anno, né avrebbero la speranza di renderlo tollerabile con una maggiore coltivazione. Oltre a ciò il fondo verrebbe a degradarsi colla divisione a 172 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... questi fondi, per cui con delibera del decurionato del 12 novembre 1811 stabilì essere di maggior profitto per il comune rilasciare i fondi agli attuali possessori sotto il peso di un canone, piuttosto che di amministrarli o affittarli185. Il sindaco di Francavilla rimise all’Acclavio il processo verbale del decurionato insieme con le domande dei possessori «per ritenere a titolo di enfiteusi i fondi che dovrebbero restituite in virtù del giudicato della commissione feudale». Il Commissario ritenne utile per il comune e corrispondente ai principi di equità e giustizia che tale offerta fosse ammessa, purché il canone fosse stabilito secondo la rendita attuale dei fondi, dedotto il capitale delle migliorazioni. Il ministro Zurlo approvò la proposta avanzata dal comune di Francavilla di rilasciare agli attuali possessori i fondi Atilio, Casalino, la Scivola e Sciamani che la Commissione feudale aveva dichiarato demani comunali, con l’indicazione per il commissario Acclavio di fissare un canone secondo la rendita attuale dei fondi, come era stato suggerito dallo stesso186. 3.7. Ginosa La Regia Commissione dei demani con ordinanza del 6 dicembre 1811 aveva stabilito che la quota del comune di Ginosa per valutazione e compenso di tutti i suoi usi nei c.d. demani ex feudali di Tufarello, Marinella, Orsanese, Lama di pozzo, La Rita, S. Maria Datcausa delle strade e degli spazi che dovrebbonsi stabilire per comodo de’ censuari. Finalmente i casini e le officine rurali diverrebbero inutili». Ivi, p. 238. 185 Tale decisione si basava anche sul dato imprescindibile costituito dalla impossibilità di pagare le considerevoli spese dei miglioramenti, che si sarebbero potute soddisfare unicamente cedendo ad altri per vendita o per censuazione gli stessi fondi. 186 Rescritto di approvazione, Il ministro dell’Interno al commissario del Re per la divisione dei demani, 30 novembre 1811. Ivi, p. 245. Al fine di stabilire il canone, l’Acclavio dispose una nuova perizia a seguito della quale ordinò ai possessori di adempiere a favore del comune di Francavilla al pagamento del canone annuo per essi rispettivamente dovuto (secondo quanto risultante dalla perizia) «nel dì I di settembre di ciascun anno», e di soddisfare gli arretrati decorsi dal 20 luglio 1810, epoca della decisione della Commissione feudale, alla stessa ragione del canone stabilito, «salvo la ritenzione del quinto per la contribuzione fondiaria ai termini del decreto 10 giugno 1808 e salvo il diritto di redimerlo a tenor del regio decreto del 17 gennaio 1810». Bullettino delle ordinanze, n. 17, p. 104. Minuta di ordinanza dell’Intendente di Terra d’Otranto del 30 giugno 1812. 173 STEFANO VINCI toli, Gaudello, Follerati, Dogana e «quant’altro vi era di terreno di tal natura», escluse le colonie perpetue, doveva corrispondere alla metà degli indicati demani187. Al fine di rendere esecutivo tale provvedimento, le parti provvidero alla nomina di tre periti con il compito di effettuare la «misura ed apprezzo di tutti gli indicati fondi per distaccarsi in favor del comune le corrispondenti quantità di territorio» e la liquidazione delle estensione di tutte le colonie perpetue188. I periti ritennero che la quota del comune doveva essere pari alla estensione di carra 81 e tomola 35 2/3 e del valore di ducati 19089,75 ¼ (pari a lire 83994 e centesimi 37) di cui di carra 32 e tomola 22 della difesa di S. Maria Dattoli (del valore di ducati 70826 e grana 76 2/3, pari a lire 34437 33/100); carra 17 e tomola 6 della difesa di Gaudiello (del valore di ducati 3948,33 1/3 pari a lire 17372 67/100); di un carro del demanio Gaudello valutato per ducati 230 pari a lire 1012; di carra 26 e tomola 24 della difesa di Terzo di Mezzo (del valore di ducati 6133,33 1/3 pari a lire 26986 67/100) di carra 4 e tomola 19 2/3 della mezzana di Lamalocci e Pilella (del valore di dicati 651,31 e cavalli 11 pari a lire 4185 80/100). L’Acclavio ritenne che la misura ed apprezzo del demanio divisibile era stata eseguita con la dovuta regolarità e che i corpi assegnati al comune di Ginosa, in compenso della sua quota, fossero i più vicini all’abitato ed i più comodi alla popolazione per essere riducibili a coltura e riuniti nello stesso luogo189. Pertanto dispose immettere il comune di Ginosa nel possesso 187 Secondo tale provvedimento al comune spettava la quarta parte delle ‘mezzane erbose o coltivate’ – purché non fossero occupate da colonie perpetue – e la metà delle ‘mezzane boscose o macchiose’; la metà del territorio delle difese conosciute sotto il nome di Galaso, Portaro, Girifalco, Lama di Pozzo, La Rita, S. Maria Dattoli, Follerato, Gaudello, Terzo di mezzo, Dogana e ‘l quarto delle a difesa di Tufarello. Bollettino delle ordinanze, cit., n. 19, p. 71. Minuta di ordinanza dell’Intendente di Terra d’Otranto nella causa tra ‘l comune di Ginosa, rappresentato dal sindaco Leonardo Tria e ‘l signor Giambattista Ferretti avente causa in qualità di enfiteuta dall’ex feudatario Marchese Alcarices, 20 aprile 1812. 188 Furono nominati periti i sigg. Campanella, Caramia e Costanzo. 189 Rilevava altresì che «a’ termini dell’art. 3 della suddetta ordinanza tutte quelle parti considerabili di terreno delle difese, che siensi meramente erbose, o ridotte a coltura, sono esenti dalla ripartizione; e che perciò essendo di tal natura la difesa di Galaso, il rimanente di Girifalco, il sementabile di Pantano, di Lama di Pozzo, di Tufarello e l’erboso di Follerati, è giusto che tutti questi fondi non sieno annoverati nella massa divisibile del territorio». Ibidem. 174 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... dei sopradetti locali affidando all’agente della divisione, signor Carlo Fasano, il compito di far circoscrivere i fondi da termini lapidei190. 3.8. Grottaglie La questione portata all’esame della Commissione feudale dal comune di Grottaglie riguardava i diritti vantati contro la mensa arcivescovile di Taranto. In particolare il comune chiedeva che il collegio adito si pronunciasse sulla vigesima che la mensa esigeva sui frutti del territorio, sulla revindica o prelazione della foresta censuata dalla mensa al principe di Cursi. Sulla prima questione, la mensa arcivescovile sosteneva di avere un possesso secolare immemorabile acclarato da una sentenza pronunciata dalla Curia del Cappellano Maggiore in data 29 novembre 1787 «in contraddizione del clero e dei vari luoghi pii e religiosi di Grottaglie»191. A tale giudicato si aggiungevano ulteriori documenti ed atti giudiziari: la «platea» del 1 luglio 1487, nella quale era annoverata fra le rendite della mensa la vigesima di tutte le vettovaglie e frutti del territorio di Grottaglie; 190 Il sig. Giambattista Ferretti, in qualità di enfiteuta dall’ex feudatario Marchese Alcarices, avrebbe invece posseduto in piena proprietà il rimanente territorio dei demani, difese e mezzane ex feudali compresa la difesa di Galaso, la porzione ridotta a coltura di Girifalco, il sementabile del Pantano, di Lama di pozzo, di Tufarello e l’erboso di Follerato che venivano dichiarati esenti dalla divisione. Tutte le colonie perpetue nella estensione di carra 115 e tomola 10 e stoppelli 2 sarebbero rimaste in favore del sig, Ferretti, redditizie di terraggio in ragione non più forte della decima sui generi di principia coltura esclusi i piccoli legumi, ed in modo che nello stesso anno rurale non si percepisca doppia prestazione. Ivi, p. 88. 191 «E benché revocata si fosse dal Marchese Dragonetti qual giudice delegato dal governo in grado di appello nel dì 9 gennaio 1789, venne tuttalvolta confermata nel dì 11 marzo 1793 in grado di nuovo appello dal novello delegato marchese Bisogni». Il giudizio era stato promosso dall’arcivescovo di Taranto su varie convenzioni stipulate dai suoi predecessori con il clero ed altri luoghi pii e corporazioni religiose, a cui la mensa aveva «minorata» la servitù della vigesima. «Ma avendo consentito costoro allo scioglimento delle convenzioni, fu definito dalla Curia che, tolte di mezzo le particolari convenzioni, anche di consenso delle parti dovessero il clero e gli accennati luoghi pii e corporazioni religiose pagar la vigesima di qualunque prodotto e del prezzo benanche nella vendita de’ fondi dal dì della lite contestata». Bollettino n. 8/1810, p. 104. Sentenza n. 14 del 6 agosto 1810. Tra ‘l comune di Grottaglie e l’ex barone principe di Cursi, e la mensa arcivescovile di Taranto. Cfr. R. QUARANTA, Abolizione della feudalità a Grottaglie. Cronaca di una transizione difficile, in «L’Idomeneo», n. 8/2006, p. 99-142. 175 STEFANO VINCI il giudizio fra la regina Bona di Polonia e l’arcivescovo di Taranto nell’anno 1550 presso il Sacro Concilio, avente come oggetto la pertinenza delle vigesime, che si esigevano da tempo immemorabile; un secondo giudizio promosso nel 1568 dinanzi alla Regia Camera contro la mensa arcivescovile da un tal Giovanni Girolamo Casignano per «esimere i suoi fondi dalla vigesima» e la successiva convenzione stipulata, in virtù della quale il Casignano si obbligava a quella stessa prestazione da lui contraddetta in giudizio, le posizioni e gli articoli dell’università di Grottaglie nell’annoso giudizio intercorso con la città di Taranto, in cui provò «il centenario possesso delle vigesime dovute alla mensa»192; il giudizio agitato in Roma con le corporazioni ecclesiastiche e luoghi pii nel XVII secolo, in cui fu riconosciuto l’antico possesso delle vigesime; la relazione rilasciata dal razionale nel 1780 per la liquidazione dei quindemni e della bonatenenza, che furono caricati sulla rendita vigesimale di tutti i prodotti del territorio di Grottaglie. Tutti questi argomenti furono confutati dall’università di Grottaglie: per quanto concerne il giudicato, riteneva che il possesso immemorabile vantato dalla mensa era di natura esclusivamente giurisdizionale e spirituale «appoggiato eziandio sulla feudalità dell’intero territorio di Grottaglie». La negazione del giudicato derivava dal fatto che nel corso di quel giudizio – fondato sulle particolari convenzioni impugnate dalla mensa – non furono «intesi i laici e l’università». Con riferimento al possesso l’università faceva osservare che «quando la platea del 1487 fosse vera e solenne, anziché giovare alla mensa, proverebbe in contrario esigere in quel tempo le vigesime ex jurisdictione ed de mensa Archiepiscopali»; che nel giudizio intercorso con la regina Bona, l’università sostenne costantemente l’appartenenza della vigesima in forza della giurisdizione baronale193; che tanto nel giudizio promosso dal Casignano, quanto nella lite fra le due università di Grottaglie e Taranto, e nella stessa causa celebrata dinanzi ai Tribunali di Roma 192 Ibidem. «Officiales serenissimae Reginae variis modis tractaverunt et tractant impedire exactionem introitum, qui ad dominum rev. Ejus principalem spectaverunt et spectant uti Archipiscopum, in quibus et in exactione tam baronalium quam episcopalium introitum nullo modo debent se intromittere pluribus de causis dicendis ad aures». Ivi, p. 106. 193 176 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... è sempre emersa la natura dell’esazione della vigesima quale «giurisdizionale ecclesiastica»; che nel giudizio promosso dinanzi alla R.C. per la bonatenenza chiesta dall’università, nel quale la mensa aveva sostenuto che tutto il territorio fosse feudale, il Tribunale «non tenendo alcun conto dell’assunta feudalità universale, l’obbligò pagar le attrassate bonatenenza»194. Oltre a tali eccezioni dirette a contestare le prove portate in giudizio dalla mensa, l’università faceva rilevare come avesse sempre impugnato – insieme con i cittadini di Grottaglie – l’esazione della vigesima, e che in tutti i precedenti giudizi menzionati la stessa università ed i privati possessori avevano sostenuto l’immunità dei fondi e l’abuso dell’esazione. Inoltre negli antichi catasti del 1567 e 1578 le vigesime non si trovavano descritte fra i pesi prediali; nel 1578 l’arcivescovo di Taranto in un ricorso dato a Filippo III si dolse «segnatamente de’ possessori de’ fondi che ricusavano di pagar la vigesima»195. A tali elementi si aggiungeva un atto prodotto dalla mensa nel corso di un giudizio promosso dinanzi alla Regia Camera da Giuseppe Fasano, in cui si leggeva «di non aver altro titolo che l’immemorabile possesso ed un giudicato della Curia del Cappellano Maggiore». Tali unici elementi furono ritenuti insufficienti dalla Commissione feudale, in quanto contraddetti dagli argomenti portati dall’università di Grottaglie. In particolare la Commissione rilevò che «per la feudalità universale non concorre alcuna concessione e legittima origine e che la giurisdizione baronale dimostra l’abuso ed ingiustizia dell’esazione». Pertanto dichiarò «personali e giurisdizionali le vigesime ed altre prestazioni finora esatte dalla mensa Arcivescovile di Taranto sul territorio delle Grottaglie. Quindi si astenga la stessa mensa di esigerla sopra tutti i fondi 194 Ivi, p. 107. L’assunto della mensa in questo giudizio era stato espresso nei seguenti termini: «Tutto il territorio è sottoposto al peso della vigesima su beneficio della stessa mensa per tutti e qualsivoglia sorte di frutti che in esso si raccolgono, per cui non può negarsi essere interamente di natura feudale, e per tale deve giudicarsi. Cresce la forza di tale pruova (spiegò meglio nell’altra) dalla particolare circostanza, che tutto il territorio delle Grottaglie sia feudale. In Fatti è questa Terra sita nella Provincia di Otranto, su cui tutto il territorio è feudale; onde i baroni ne riscuotono una quota di frutti, che regolarmente suole essere la decima, e nella terza suaccennata è la vigesima. Né si dubita che si esiga per ragion di dominio, per cui si riscuote eziandio dagli agnellini che pascolano l’erba». 195 Ivi, p. 111. 177 STEFANO VINCI comunali dell’università, e sopra tutti i fondi così chiusi come aperti posseduti non meno da’ privati laici, che dà luoghi pii e dalle corporazioni ecclesiastiche e religiose»196. In ordine poi alla domanda di revindica avanzata dall’università con riferimento alla foresta censurata al principe di Cursi, la Commissione rilevò come non fosse stato portato in giudizio nessun elemento di prova. Sulla base del giudizio di bonatenenza deciso dal Tribunale della Sommaria, il collegio «non dubitò di esser feudale, così non presenta veruna marca di difesa onde possa sottrarsi dall’esercizio degli usi civici». Considerando quindi che la prelazione domandata dall’università non risultava «appoggiata ad alcuna disposizione di legge» e che anzi «rappresentandoci il principe di Cursi, come ex feudatario del luogo, de’ diritti giurisdizionali ed altre pretensioni, furono queste convenute e terminate col contratto medesimo delle censuazioni»197. In virtù di tali considerazioni la Commissione ritenne di assolvere la mensa arcivescovile dall’azione di revindica e prelazione promossa dall’università sulla foresta, riconoscendo a quest’ultima ed ai suoi cittadini i pieni e comodi usi civici, eccezion fatta per il periodo «delle ghiande nella parte tuttavia boscosa»198. Tale decisione si dimostrò lacunosa in fase di esecuzione nella parte in cui prevedeva che l’abolizione della vigesima dovesse estendersi anche ai fondi coltivati nella continenza della foresta. Le difficoltà nascevano dal rilievo che il bosco era quasi interamente ridotto a coltura e che il terreno risultava occupato dai coloni perpetui, i quali avevano sempre corrisposto la vigesima dei frutti a favore della mensa così come avveniva nel rimanente territorio dell’ex feudo. La decisione della Commissione feudale sembrava non aver abolito completamente la vigesima su tale territorio, attesa la sua qualità feudale «la quale fa sì, che non da altri, che dal possessore della Foresta abbia potuto ottenersi il permesso di coltivarlo sotto la indicata prestazione»199. 196 Ivi, p. 115. Ivi, p. 113. 198 Ivi, p. 115. La commissione si pronunciò anche sulla domanda di revindica del canone dei mulini versata dall’università al Principe di Cursi. Il Collegio ordinò che il principe restituisse all’università il canone «ove sono siti i mulini. Ma l’università paghi al principe il prezzo degli stessi mulini». 199 Supplemento Bollettino n. 14, p. 343. Dubbi sorti nell’esecuzione delle 197 178 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... Queste perplessità furono esplicitate al Winspeare, Procuratore generale sostituto presso la Gran Corte di Cassazione in una nota di chiarimenti – datata 23 dicembre 1810 – redatta da Domenico Acclavio, Regio Procuratore generale presso la Corte di Appello di Altamura e commissario del Re per la divisione dei demani200: in essa veniva sottolineato come l’abolizione della vigesima nei territori coltivati del bosco, avrebbe reso il dominio «inutile a colui che lo rappresenta, e si trasfonderebbe a chi non può averlo pienamente acquistato, anche per la proprietà degli alberi ritenuta dal diretto padrone»201. Tale arresto contraddiceva l’orientamento costante della stessa Commissione feudale che «non ha omesso di ordinare nelle molteplici sue decisioni che ne’ demani dichiarati ex feudali l’ex barone continui ad esigere il terratico, o la decima su generi di principal coltura, ancorché sul resto del territorio, reputato demanio comunale, o de’ particolari possessori, questa prestazione gli fosse stata interdetta»202. Il Winspeare rispose all’Acclavio che la richiamata decisione della Commissione feudale conteneva due opposte disposizioni, le quali dovevano produrre due diversi effetti: Pel generale delle vigesime, la commissione le ha riconosciute come giurisdizionali vale a dire come non nascenti da causa di dominio. Pel bosco detto la Foresta ne ha riconosciuto il dominio nell’ex feudatario, e per conseguenza tutti gli effetti del dominio stesso. Quindi le vigesime della sola foresta sono dalla sentenza conservate, e non abolite203. decisioni. comune di Grottaglie. Il Regio Procuratore generale presso la Corte di appello in Altamura Commissario del Re per la divisione de’ Demanj al signor Winspeare Procurator Generale sostituto presso la G. C. di Cassazione. 200 Scriveva l’Acclavio al Winspeare: «Nulla però dimeno nel disporre gli per la esecuzione della sentenza io ho sospeso di dichiarare questo articolo. Avendo negli aboliti tribunali patrocinata la mensa nella stessa causa, ho temuto della imparzialità del mio giudizio ed ho pure dubitato che qualunque esso fosse, le parti non mi opponessero più le antiche idee di avvocato, che la indifferenza di regio commissario. Costretto nondimento da’ miei doveri io ho l’onore di proporvi il dubbio, e vi prego d’istruirmi dal vero senso della decisione, e di ciocchè abbia a fare, onde la mia intervensione in questo affare sia meramente passiva». Ivi, p. 346. 201 Ibidem. 202 Ivi, p. 345. 203 Risposta di Winspeare all’Acclavio. 5 gennaio 1811. Ivi, p. 347. 179 STEFANO VINCI Nominati gli arbitri affinché procedessero alla valutazione degli usi civici204, questi stabilirono di assegnarsi al comune la quarta parte del demanio solamente boscoso, da essi valutato nel capitale di ducati 2735 e grana 75, avuto riguardo non già del valore del territorio, ma del capitale dell’importo annuale della legna consumata dai cittadini. Il giudizio degli arbitri fu soggetto a reclamo da parte del sindaco del comune di Grottaglie, il quale contestò il fatto che fosse fondato sulla bassa estimazione degli usi civici, sulla loro classificazione e sul metodo di valutarli. A questa si aggiungeva la doglianza relativa alle usurpazioni avvenute nel tenimento del demanio, come era già stato precedentemente dedotto dalla mensa con riferimento alla masseria di Ogliovitolo che aveva sofferto delle considerevoli occupazioni nel suo territorio. Fallito il tentativo di conciliazione, l’Acclavio fu costretto – ex art. 4 del decreto 23 ottobre 1809 – a richiedere il parere di due pubblici funzionari della Provincia, che individuò nei consiglieri aggiunti d’Intendenza Cardamone e Astore205. L’Acclavio osservò che il demanio ex feudale della Foresta era di tre specie: appadronato cioè boscoso e redditizio della vigesima dei frutti in favore della mensa206; appadronato coltivabile non boscoso; o boscoso e seminatoriale posseduto in proprietà dalla stessa mensa. Rilevava altresì l’Intendente che nei fondi appadronati boscosi «l’erba spettando al possessore» per effetto del R.D. 16 ottobre 1809 doveva considerarsi cessato «ad un tempo nell’ex feudatario il diritto di pascolo e di fida, e ne’ cittadini la partecipazione agli usi»207; cosicché tranne la prestazione della vigesima e del frutto degli alberi, il colono – dovendo reputarsi come padrone del fondo – aveva il diritto di redimere queste servitù ai termini dei decreti 20 giungo 1808 e 17 gennaio 1810. Il comune, conservando sugli alberi l’uso di legnare a secco, aveva quindi diritto ad un compenso, in conformità con l’art. 18 delle istruzioni del 10 marzo 1810208, che 204 Furono nominati arbitri Giuseppe Cataldo Stasi di Monteiasi e G. Campanella di Locorotondo. 205 Bollettino delle ordinanze, cit., n. 21 p. 134. Minuta di ordinanza dell’Intendente di Terra d’Otranto del 5 giugno 1812. 206 Ibidem. 207 Decreto 16 ottobre 1809, cit. 208 Decreto 10 marzo 1810, cit., art. 18. «In tutt’i casi nei quali o per una delle eccezioni ammesse nel real decreto dei 16 di ottobre del caduto anno, o per altro 180 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... doveva cadere sul frutto degli stessi alberi e sul reddito territoriale, in quanto sia l’uno che l’altro dovevano considerarsi una rendita della mensa. Quindi nel caso di specie, non avendo luogo che il semplice diritto di legnare a secco – circoscritto a 9 mesi dell’anno e «sopra un bosco sommamente devastato» – e considerato il numero degli abitanti di Grottaglie pari a 5500 abitanti, ritenne l’Acclavio che dovesse considerarsi un giusto compenso per il comune per valutazione e compenso degli usi di legnare «nella parte della Foresta tuttavia alberata e posseduta dai particolari, ancorché luoghi pii» la quarta parte del territorio «per la sola utilità del reddito della vigesima dei frutti, cui i fondi sono soggetti e della proprietà degli alberi»209. Quindi sarebbe stata assegnata al comune la sua «tangente» avuto riguardo della estensione del bosco, già verificato dall’architetto Fasano, della qualità del territorio e dello stato più o meno folto dello stesso bosco. Poiché il comune non aveva comprovato la esposta occupazione dei terreni da parte dei particolari, e la mensa non aveva dimostrato l’usurpazione dei terreni annessi alla masseria di Ogliovitolo, la divisione del demanio avrebbe dovuto aver luogo secondo lo stato possessoriale, salvo però ai termini del decreto 3 dicembre 1808 di «sperimentare le rispettive ragioni innanzi ai giudici ordinari». Ordinò quindi di assegnare al comune in piena proprietà la terza parte dei terreni boscosi, erbosi e seminatoriali delle masserie di Ogliovitolo e Mutata poste nella continenza della Foresta, avuto riguardo alla estensione di esse ed al loro valore. Al fine di rendere effettive tali disposizioni, si sarebbero dovuti nominare, d’accordo fra le parti o d’ufficio, i periti per l’apprezzo dei territori, «effettuato qualunque dritto riconosciuto legittimo, gli ex-Baroni conservassero diritto di fida o diritto sugli alberi, e i Comuni vi rappresentino gli usi, vi sarà luogo alla divisione in favore degli usuari o per la terza parte o per altra maggiore, secondo la classificazione degli usi fissata nelle presenti istruzioni. Questa divisione cadrà sempre sul territorio soggetto alla servitù; ed i redditi dei coloni perpetui si divideranno fra il proprietario e l’usuario in proporzione della parte assegnata». 209 Aggiungeva l’Acclavio che «ne’ fondi posseduti dalla mensa il compenso reclamato dal comune dee cadere sulla piena proprietà del demanio, o che questo sia boscoso o pur seminatoriale e che concorrendo col diritto di legnare anche quello di pascere, vi sia luogo ad un aumento di quota fino al terzo del territorio» e «che quanto vi ha di fondi appadronati sgombri di alberi, dee riguardarsi fuor del caso della divisione per deficienza di materia all’esercizio degli usi civili». Ordinanza del 5 giugno 1812, cit., p. 138. 181 STEFANO VINCI il quale risecheranno le quote a favore del comune dal sito più vicino all’abitato per quanto il permetteranno le circostanze locali, e specialmente la esistenza delle fabbriche delle masserie, che sempre dovranno rimanere nelle porzioni della mensa»210. Una volta eseguita la divisione, il comune si sarebbe dovuto astenere dall’esercitare gli usi civici sul territorio di qualunque natura, che sarebbe rimasto in beneficio della mensa. Questa, a sua volta, avrebbe dovuto cessare la esazione della vigesima e la percezione di qualsiasi frutto sui fondi aggiudicati al comune. 3.9. Laterza Il comune di Laterza, uno dei maggiori centri urbani della Terra d’Otranto, era in lite con il suo ex feudatario Nicola Perez in ordine al riconoscimento del dominio feudale dell’intero territorio di Laterza. L’ex barone ritenne di giustificare la domanda sulla base di un diploma di Caterina Imperatrice di Costantinopoli e Principessa di Taranto del 1346, da cui si sarebbe evinto che il territorio di Laterza era stato invaso con mano armata dai cittadini della convicina terra di Castellaneta. A seguito di tale invasione i cittadini di Laterza si dolsero con la Principessa di Taranto e questa «rescrisse al suo camerario che stava in Matera di far ridurre al pristino tutto il territorio occupato»: in esso si diceva che i cittadini di Castellaneta scorrendo pel territorio di Laterza «vaxallos nostros de dicta terra Latertiae de prefato territorio espellere violenter, ipsosque, seu ipsorum animalia in eodem territorio affidare, et ab eis exigere jus herbagii, jus ponderis, jus terragii, et jornalium, et jura alia nostrae curiae competentia». Dal testo del rescritto il barone riteneva potesse arguirsi che la principessa Caterina fosse padrona dell’immenso territorio. A riprova di tale deduzione il barone aveva prodotto anche un inventario risalente 210 Il demanio non alberato redditizio della vigesima dei frutti sarebbe rimasto conservato per intero alla mensa nella utilità di questa prestazione. Veniva lasciato all’arbitrio dei possessori dei fondi soggetti al peso della vigesima ed alla riserva del frutto pendente della ghianda – sia che appartenessero alla quota del comune o a quella della mensa – di commutare e redimere tale prestazione e le servitù degli alberi ai termini dei decreti 20 giugno 1808 e 17 gennaio 1810. Avrebbero potuto usare dello stesso diritto i possessori dei fondi solamente redditizi della vigesima. Ibidem. 182 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... ai tempi dei principi di Taranto, «da cui ha egli creduto che apparisse lo stesso universale dominio feudale del territorio di Laterza»; un laudo promulgato nel 1514 da tre arbitri eletti di consenso dal barone e dall’università di Laterza, e dal Conte e dall’università di Matera per la contesa relativa alla confinazione dei territori di Laterza e Matera e circa l’esazione della fida e del terratico211; le articolazioni prodotte nel 1522 dal barone di Laterza contro il barone e l’università di Castellaneta per un giudizio di confini che allora si agitava, in cui si sosteneva che il barone e suoi predecessori erano stati sempre possessori di tutto «et integro territorio di Laterza» esercitandovi la giurisdizione, esigendo la fida e la diffida ed anche i terraggi da coloro che seminavano; le deposizioni testimoniali rese nel giudizio di confini con Matera, Ginosa e Castellaneta da cui risultava che il barone esercitava la giurisdizione su tutto il territorio di Laterza, fidava ed esigeva il terratico; l’apprezzo del feudo del 1676, dove risultava riportata la rendita della bagliva in annui ducati 230 ed i terraggi in grano, orzo ed altro; gli strumenti delle contrattazioni fatte dai cittadini dei fondi, «spiegando sempre il peso del terraggio»; le rivele eseguite dai cittadini al tempo della formazione del general catasto dei fondi da essi posseduti da cui risultava il peso del terratico al barone; i rilevi pagati dagli ex feudatari di tempo in tempo. La Commissione non trovò i documenti prodotti sufficienti a dimostrare l’asserita feudalità del territorio di Laterza in quanto il diploma di Caterina ordinava di far restituire il territorio occupato dai cittadini di Castellaneta, i quali avevano espulso i cittadini di Laterza, «ma con queste parole non si sognò di dire che tutto il territorio di Laterza fosse suo; nell’inventario c’era scritto non «universale dominium» ma «utile dominium»212; il laudo del 1514 non affrontava il problema della feudalità generale, ma soltanto la questione relativa 211 Gli arbitri decisero, con una provvidenza però interina, che il barone di Laterza fosse conservato nel possesso di varj diritti, e specialmente juris aratici, et terratici in praedicto territorio ab hominibus seminantibus. Sottoposero però a sequestro l’esazione della fida e diffida, ma il Collaterale poi riformando il giudizio degli arbitri, tolse il sequestro. Bollettino n. 5/1809, p. 171. Sentenza n. 22 del 15 settembre 1809. 212 Inoltre in uno dei capitoli dell’inventario, e propriamente do ve si parlava dei terraggi, si diceva che questi si esigevano de omnibus satis in territorio curiae dictae terrae. Dunque l’ex feudatario poteva aver diritto di esigere il terratico da 183 STEFANO VINCI ai confini tra Laterza e Matera; le articolazioni del barone nel 1522 erano scritte dal barone stesso e quindi non valevano a pregiudicare i diritti del territorio; le deposizioni testimoniali riguardavano un giudizio di confini e non il dominio tra università e barone213; i terraggi si riferivano solo ai territori feudali e non all’intero territorio; le contrattazioni si riferivano solo ai terreni sottoposti a terraggio214; il fatto che tanti fondi «si veggono denunciati in catasto col peso del terraggio, ciò neppure prova che al barone appartenesse il dominio dell’intero territorio, sapendo che i cittadini per diminuire il peso catastale volentieri dicono, che sono sottoposti a pesi in favore degli altri»; nei relevi non si ravvisava alcun riscontro della pretesa feudalità generale. A tali valutazioni si aggiungeva un altro elemento: le difese Murgia e Gaudiello, situate «indubitamente» nel detto territorio, erano state cedute alla Regia Corte dall’università, che in cambio ne ebbe l’esenzione dai pesi fiscali. Se invece il territorio di Laterza fosse stato di natura feudale sarebbe toccato al marchese effettuare la donazione alla Corte. Sulla base di queste considerazioni la Commissione dichiarò la non esistenza della generale feudalità del territorio di Laterza e prescrisse all’ex feudatario di astenersi dal diritto di terraggio, come pure dal fidare e dall’esercitare qualunque altro diritto sui territori demaniali dell’università e dei particolari possessori, salvo che nei territori ex feudali e burgensatici di suo dominio. La sentenza fu eseguita nel gennaio del 1810, ma ciò nonostante, sopravvenuta la raccolta, il sindaco di Laterza Giovanni Perrone, pretese di esigere i terraggi che in virtù del giudicato erano rimasti aboliti a favore dei possessori. Informato di questa situazione, il regio commissario incaricato della divisione dei demani Domenico Acclavio ordinò la restituzione dei terraggi indebitamente riscossi dal Sindaco e richiese al Giudice di Pace del circondario di emanare quei fondi particolari che erano di suo dominio ma non mai sull’intero territorio. Ibidem. 213 I testimoni peraltro – rilevava la Commissione – non dissero mai di essere il territorio di assoluto dominio del barone, bensì che tanto esso, quanto i «cittadini ed abitanti lo possedevano da veri signori e padroni»: il dominio quindi era del barone, dei cittadini e di tutti i possessori. Ibidem. 214 Tali documenti erano controbilanciati da contrari strumenti prodotti dall’università dai quali risultavano tante altre vendite di fondi franche di ogni peso. Ibidem. 184 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... «un bando sopra luogo onde questa prestazione non si fosse riprodotta per l’avvenire»215. Il Giudice di Pace, dopo aver proceduto alla pubblicazione del bando, comunicò al Commissario che taluni cittadini, patrocinati da tal Giovanni Gallo, sostenevano che i fondi una volta soggetti a questo peso in favore del barone dovevano continuare ad esserlo in favore del comune. In realtà – scriveva l’Acclavio al Ministro – l’autore di queste trame era lo stesso Giudice di Pace signor Francesco Gallo, cittadino di Laterza e genero del sindaco Perrone, il quale si era pronunciato contro la regolarità degli ordini del Commissario. Per far luce sulla questione, l’Acclavio si recò a Castellaneta e sentito il sindaco Perrone e il procuratore dei possessori che reclamavano la restituzione dei terraggi, rilevò dal libro della esazione che il terraggio in grano pari a più di 400 tomola era inesistente e si trovava assegnato al consumo della pubblica annona e che il terraggio in orzo, avena e fave nella quantità di 520 tomola era stato quasi interamente venduto – a detta dei possessori – «a vil prezzo» allo stesso Giudice di Pace216: Or non potendo avere alcuna fiducia in questo uomo, e d’altronde sembrandomi giusto di far rimanere il grano al bisogno dell’annona, stimai disporre per mezzo del Giudice di Pace del vicino circondario di Castellaneta, che assicurato il genere presso una persona facoltosa, si fosse sull’avviso de’ deputati annonarj distribuito per la pubblica panizzazione, con pagarsene a’ possessori il prezzo che alla ragion corrente se ne sarebbe ritratto. Quanto poi a’ terraggi di orzo, avena e fave incaricai lo stesso Giudice di Castellaneta a verificare l’uso fattone per quindi regolare le mie provvidenze. Il sindaco Perrone fece sembiante 215 Supplemento Bollettino nn. 38 e 39 (appendice ai nn. 15-20; 20-23; 31-35; 34-36), p. 3. Rapporto del Commissario al Ministro, Taranto, 18 aprile 1811. Il commissario osservava che la sentenza della Commissione feudale del 15 settembre 1809 aveva abolito il terraggio della mezza semenza, della fida e di ogni altra corresponsione nei demani comunali e nei territori dei particolari così chiusi come aperti. Pertanto il comune non avrebbe potuto continuare ad esigere queste prestazioni a suo favore quale padrone del demanio, in virtù del principio – proclamato dalla stessa Commissione feudale – secondo cui le prestazioni dichiarate abusive nei demani comunali, riscosse dagli ex baroni per la pretesa feudalità del territorio, dovevano considerarsi estinte in favore dei possessori particolari. Sarebbe stato, infatti, un «perpetuar l’abuso» se i comuni avessero preso il posto degli ex baroni. 216 Ivi, p. 5. 185 STEFANO VINCI di applaudire a queste misure, e di eseguirle di buon grado; ma spedito in Laterza il Cancelliere della giustizia di pace di Castellaneta per far depositare il grano, il Sindaco ed insieme con lui il Giudice di Pace Gallo le hanno criminosamente violate217. Il Giudice di Pace di Castellaneta stimò ‘con prudenza’ di soprassedere all’operazione, temendo che il Giudice Gallo «che per la sua prepotenza agita al suo modo il paese, non avesse portato più innanzi l’obblio de’ suoi doveri». Gli ordini dell’Acclavio rimasero quindi ineseguiti ed avrebbero ottenuto il loro effetto soltanto a seguito di intervento da parte del ministro dell’Interno al quale il Commissario chiedeva esplicitamente di prendere severe misure nei confronti del Sindaco e del Giudice di Pace di Laterza, quali perturbatori dell’ordine pubblico218. Tale deprecabile condotta rispecchiava quegli abusi – già denunciati dal Winspeare – perpetrati da taluni sindaci che «mettendosi in luogo degli ex baroni» avevano cercato di tradire le benefiche intenzioni del governo219. La notizia non poté che sconvolgere lo Zurlo che a stretto giro inviò una comunicazione all’Intendente di Lecce a cui scrisse che «un eccesso di simil natura, se è punibile in tutti, lo è maggiormente in un funzionario che la legge chiama a proteggere i suoi amministrati»220. Ordinò pertanto all’Intendente di sospendere il sindaco dalle sue funzioni e di far istruire contro di lui un processo verbale da rimettere al Ministro con un rapporto, affinché potesse richiedere a S.M. l’autorizzazione per tradurlo in giudizio. Per quanto 217 Ivi, p. 7: «Dalla copia del processo verbale che ho l’onore di compiegarle, l’E.V. si degnerà rilevare, che appena incominciata nel dì 12 del corrente la misura del genere, il Sindaco Perrone con grida eccitanti al tumulto e con parole insolenti pretese di sospenderla: che accorso il Giudice Gallo in abbigliamento poco degno al suo carattere, e provocando semprepiù il tumulto, intimò al Cancelliere di andar via: che tanto egli quanto il Sindaco han pubblicamente dichiarato la mia incompetenza in questo affare; e che richiesta di uffizio mano forte al Comandante della civica, che è per avventura quel Giovanni Gallo principale oppositore della restituzione de’ terraggi, e congiunto col Giudice di Pace, vi siè per iscritto negato». 218 Il Giudice Gallo oltre ad aver paralizzato la divisione dei demani, coprendo con i suoi animali gli erbaggi, per «leggerezza di carattere» aveva privato i cittadini del beneficio del giudicato della Commissione feudale non intendendo sostituire il comune all’ex barone nella esazione delle indebite prestazioni, ma dichiarando di estinguerle a favore dei possessori. Ibidem. 219 Ivi, p. 9. 220 Ivi, p. 15. Ministeriale all’Intendente di Lecce, 24 aprile 1811. Ivi, p. 15. 186 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... invece il Giudice di Pace, lo Zurlo comunicava che avrebbe trasmesso «i corrispondenti uffizi» al “Gran Giudice Ministro della Giustizia”221. In ogni caso il Ministro stimò conveniente che le determinazioni prese dal Commissario non restassero ineseguite per cui invitò l’Intendente ad adoperare tutta la sua autorità per quest’oggetto222. Posta mano all’esecuzione del giudicato, l’Acclavio si trovò di fronte a nuove rimostranze presentate dall’ex barone, il quale lamentava che, possedendo due parchi ex feudali denominati Lucente ed Asciutto, gli veniva impedito l’esercizio dei suoi diritti ai termini dell’art. 1 della decisione del 15 settembre 1809, per essersi il comune e taluni cittadini impadroniti dell’estaglio di tali fondi. Osservò il Commissario che dagli atti del possesso dato al comune per i fondi reintegrati in virtù della citata sentenza risultava che parco Lucente era posto fuori dal demanio comunale. I periti – «adoperati nell’atto di possesso» – ritennero che questo fosse stato ampliato a danno del demanio, nonostante che l’ex barone avesse sostenuto essere quello 221 Lo Zurlo scriveva nella stessa data 24 aprile 1811 al “Gran Giudice Ministro della Giustizia”: «È del suo ministero di adottare le misure di rigore contro il Giudice di Pace, che dopo di avere paralizzato, secondo costa dal rapporto del commissario, la divisione de’ demani in tutt’i sensi, i di cui erbaggi ha coperto co’ suoi animali, si è portato a degli eccessi colpevoli per privare i cittadini di quei diritti che egli è il primo chiamato a proteggere». Ivi, p. 19. Dopo soli due giorni, il 27 aprile 1811, il Ministro della Giustizia F. Ricciardi rispondeva allo Zurlo: «Ho l’onore di assicurarla di aver dato le debite disposizioni onde il detto Giudice venga sospeso dalle sue funzioni, e punito con tutti il rigore delle leggi, qualora si trovino vere le oppostegli imputazioni». Ivi, p. 25. Il 3 luglio 1811 Ricciardi tornava a scrivere allo Zurlo evidenziando che – secondo quanto risultava dal rapporto effettuato dal Regio Procuratore presso il Tribunale Civile di Lecce sul conto del Giudice di Pace di Ginosa signor Gallo, imputato di aver attraversato l’esecuzione di alcuni ordini del commissario del Re nel comunee di Laterza – «nulla di riprensibile n’è risultato a carico di esso giudice. Io Quindi ho creduto giusto restituirlo alle sue funzioni». 222 Nella stessa data 24 aprile 1811 il ministro Zurlo scriveva all’Acclavio: «Ho veduto con dispiacere dal Vs rapporto de’ 18 del corrente a quali colpevoli eccessi siensi portati il Sindaco ed il Giudice di Pace di Laterza. È veramente rincrescevole di osservare che i primi magistrati del popolo, quelli cioè che ne dovrebbero difensere e proteggere i dritti, sono i primi a conculcarli. Persuaso che in simili casi il rigore è necessario, perché l’esempio non divenga contagioso, ho scritto all’Intendente di sospendere il Sindaco dalle sue funzioni […]. Intanto conviene che le Vs determinazioni sieno subito eseguite. Voi darete perciò le disposizioni necessarie, e bisognando chiedere il braccio all’Intendente, a cui ho anche scritto a questo riguardo». Ivi, p. 23. 187 STEFANO VINCI arbustato di ulivi e tutto murato e che il parco di Asciutto non appariva essere compreso tra i fondi reintegrati al comune. L’Acclavio ravvisò la necessità di una perizia per conoscere la situazione dei fondi – che chiarisse se fossero nella continenza dei territori del comune o fuori di essi (il che non sembrava dubitarsi per una parte almeno del parco di Lucente) e riservò la decisione provvedendo a cautelare i frutti con un deposito. Ad ogni buon conto il Commissario si manifestò persuaso del fatto che l’ex feudatario potesse pretendere – fra i fondi siti nel territori dichiarati di pertinenza del comune – soltanto i piccoli poderi riconosciutigli dalla Commissione feudale, mentre riteneva che i parchi siti tra i fondi del comune incontrassero «l’ostacolo del giudicato»223. Tali perplessità trovavano ragione nel fatto che l’arresto del 15 settembre 1809 aveva dichiarato esistere la feudalità universale del territorio di Laterza, pur riconoscendo all’ex barone il diritto di servirsi dei fondi ex feudali e burgensatici di suo dominio. Con tale ultima previsione la Commissione aveva disposto che qualora tali fondi fossero esistiti, sarebbero dovuti rimanere all’ex feudatario, purché non si fossero trovati in collisione con quelli espressamente dichiarati appartenenti al comune. La stessa sentenza aveva inoltre dichiarato che dovessero essere considerati dell’ex barone, come ex feudali, dodici carra di terreno poste nella difesa di Fragennaro: tale disposizione non escludeva tassativamente la esistenza di altri terreni feudali, nei quali – come detto – l’ex feudatario avrebbe potuto «usare del suo diritto»224. La Commissione feudale, inoltre, non aveva dichiarato demanio comunale tutto il territorio di Laterza, ma aveva stabilito essere del comune soltanto quei fondi venuti in contestazione, i quali – sebbene costituissero la maggior parte del territorio – tuttavia non lo comprendevano tutto. Concluse l’Acclavio che «non essendo quindi il giudicato caduto sull’intero territorio, non pare che ciocchè l’ex barone mostra di posseder con titolo fuori le contrade disputate, gli si possa togliere». 223 Ivi, p. 29. Rapporto del Commissario al Ministro. Continuava Acclavio che «la ragione allegata di dovere il medesimo (ex feudatario) ritenere le 12 carra descritte come feudali nell’apprezzo del feudo del 1676, induce che gli altri fondi della stessa natura, contenuti nel medesimo apprezzo, non sieno un soggetto di disputa, dove, secondochè si è avvertito, sieno fuori de’ demani comunali». Ibidem. 224 188 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... Con ordinanza del 18 maggio 1812 l’Acclavio cercò di risolvere definitivamente le questioni ancora irrisolte della causa tra il comune di Laterza e il suo ex feudatario, duca di Bernalda. Al fine di provvedere su tutte le questioni, considerò preliminarmente che la decisione del 15 settembre 1809 aveva conservato all’ex feudatario di Laterza carra 12 di terre come feudali nella difesa dei Fragennaro, le quali dovevano perciò essere accantonate il più lontano possibile dal sito; che il parco di Asciutto non poteva essere lasciato al barone se fosse risultato fuori della difesa di Fragennaro; che il parco Lucente fosse fuori dalla continenza di questa difesa per la quantità di tomola 50 portata nell’apprezzo del 1676; che i fondi burgensatici dichiarati in piena proprietà dell’ex feudatario in virtù della sentenza del 31 agosto 1810 gli dovevano essere conservati nella quantità. Alla luce di tali premesse, il Commissario ordinò che si sarebbero dovuti nominare dalle parti o d’ufficio tre periti con il compito di accantonare in favore dell’ex feudatario carra 12 terreno della difesa di Fragennaro dal sito più lontano di Laterza225; di riconoscere i cinque fondi dichiarati di particolare proprietà dell’ex feudatario con la decisione del 31 agosto 1810, come altresì il parco sito nella Guardiola; della ricognizione del parco Asciutto al fine di stabilire se posto tra i confini della difesa di Fragennaro o degli altri corpi già reintegrati, ovvero fuori dal loro tenimento226; di misurare il parco Lucente che sarebbe stato conservato al barone per la estensione di tomola 50 feudali; della ricognizione dell’oliveto e vigneto e della liquidazione della spesa delle migliorazioni per quanto utile al comune, avuto riguardo della estensione, qualità e stato delle piantagioni; di descrivere le fabbriche della masseria Le Rene dividendo il territorio come demanio tra i cittadini227. Ordinò altresì che l’ex feudatario dovesse restituire al comune tomola 228 e 7/12 di grano, tomola 198 e stop225 Il duca avrebbe posseduto in piena proprietà questi terreni e avrebbe potuto chiuderli ai sensi dell’art. 47 del decreto 3 dicembre 1808. Bollettino delle ordinanze, cit., n. 22, p. 177. Ordinanza del 18 maggio 1812. 226 Nell’effettuare la ricognizioni i periti avrebbero dovuto tenere presente la confinazione segnata nell’atto di possesso degli stessi fondi dato al comune dal Giudice di Pace di Montescaglioso. 227 L’Acclavio dichiarò non ammissibile la domanda dell’ex feudatario per la colonia della masseria Le Rene la di cui piena proprietà e possesso doveva essere conservata al comune. 189 STEFANO VINCI pelli 3 di avena, tomola 8 e stoppelli 7 di orzo e tomola 33 di fave ai prezzi corsi in Laterza e nei mercati vicini a tutto dicembre 1809. 3.10. Leporano Nella causa del comune di Leporano e il principe Giovanni Muscettola, in cui la materia del contendere era costituita dall’esercizio del diritto di fida da parte del barone, la decisione fu imbastita sulla scorta del relevio dell’anno 1602 e del 1675, delle fide dell’università del 1680, degli atti della compera fatta da Francesco Muscettola dal patrimonio de’ fratelli Raho, del conto erariale esibito dall’università nell’anno 1571. Sulla base di tali documenti la Commissione decise che competesse all’ex barone il diritto di esigere la fida dai possessori degli animali che pascolavano l’erba dei propri fondi, la fida dell’erba agreste solo nei fondi nei quali esigeva la decima dei frutti con divieto di poterla esigere negli altri fondi non decimali, né dai possessori i quali pagassero altra prestazione di erbatica o di carnatica228. 3.11. Lizzanello Il comune di Lizzanello ottenne con sentenza il riconoscimento che l’ex barone si astenesse «dall’esigere la decima del lino che si matura negli acquari e stagni de’ privati possessori, la decima del prezzo nella vendita de’ fondi siti nello stesso territorio del comune, dall’esigere qualunque prestazione a titolo di testatico o pur di galline, pollastri, o piccioni, e qualunque gabella sopra i macelli, e le botteghe lorde». Fu però riconosciuto al barone il diritto di continuare ad esigere i generi nel territorio di Lizzanello, la decima sulle derrate del grano, orzo, fave, avena, lino, vino e olio sulla base del 228 Bollettino n. 12/1808, p. 74. Sentenza n. 11 del 10 dicembre 1808. Di contenuto analogo con riferimento all’oggetto è la sentenza n. 17 del 21 marzo 1809 (Bollettino n. 3/1809, p. 189) tra il comune di Latiano e il principe di Francavilla con cui si chiedeva che l’ex barone si astenesse dall’esigere la fida degli animali propri dai cittadini e la fida degli animali dei forestieri che pascolavano nei terreni appadronati addetti ad erbaggi. La Commissione accolse la richiesta avanzata dal comune di Latiano specificando che fosse vietato al barone di «fidar gli animali dei forestieri sui territori redditizi, ma che sia lecito al medesimo esiger la fida sui propri territori». Fu altresì stabilito che fosse lecito ai cittadini di esercitare gli usi civici nei demani aperti ex feudali, anche per causa di commercio fra concittadini. 190 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... primo relevio del 1478; esigere secondo il solito «sopra le descritte derrate la quinta, o per la sesta, la settima, l’ottava, o la nona in tutti que’ fondi che mostrerà di averla esatta a tenore degli strumenti di concessione e delle contrattazioni seguite tra possessori degli stessi fondi, o delle rivele catastali fatte da’ possessori medesimi; esigere il diritto della carnatica, ed erbatica con divieto di esigerla per gli animali che pascolavano nei fondi dei rispettivi possessori»229. 3.12. Lizzano Lizzano rientra nel novero di quei comuni che non adirono la Commissione feudale «tuttoché esso avrebbe avuto degl’importanti diritti a sperimentare si per revindica de’ suoi demani, che per l’abolizione delle decime de’ frutti esatti sopra tutto il territorio»230. Tali doglianze – concernenti il pregiudizio arrecato ai cittadini dai passati sindaci colludenti con l’agente ex baronale – furono portate dinanzi al commissario ripartitore Domenico Acclavio, il quale stabilì che tutto il territorio dovesse essere considerato di qualità feudale – stante il possesso dell’ex barone da lungo tempo – e pertanto soggetto ai pieni usi civici di pascere e legnare a favore dei cittadini, come risultava dal general catasto del 1749 e da un pubblico strumento del 8 novembre 1755 stipulato tra l’ex feudatario e gli amministratori del comune231. Poiché, in virtù di queste scritture, non vi era ragione di 229 Bollettino n. 11/1808, p. 18. Sentenza n. 4 del 12 novembre 1808. Con sentenza n. 99 del 9 gennaio 1810 (Bollettino n. 1/1810, p. 334) la Commissione stabilì altresì che il marchese di Lizzano dovesse pagare all’università 3200 ducati per la bonatenenza dal dì del catasto e per gli altri pesi straordinari delle suddette rispettive imposizioni sino allo stabilimento dell’imposizione fondiaria. Circa il modo del pagamento, la suddetta somma si sarebbe dovuta pagare per ducati 2200 col prezzo di tre tappeti da cedersi al comune e di altrettanti beni stabili da apprezzarsi da tre periti. Dei rimanenti 1000 ducati il marchese sarebbe rimasto debitore con l’obbligo di pagare l’interesse alla ragione del 5%, esente da qualunque ritenzione, e «di farne la soddisfazione fra sei anni decorrendi dal dì della presente decisione». 230 Supplemento Bollettino n. 31 (appendice ai nr. 14 e 15), p. 46. Rapporto del commissario Acclavio al ministro dell’Interno, Altamura, 16 giugno 1811. 231 Tale pubblico strumento era stato stipulato in data 8 novembre 1755 tra lo stesso ex feudatario e gli amministratori del comune, i quali essendosi opposti alla pubblicazione dei c.d. bandi protorj contenenti delle clausole gravose per i diritti comunali, furono querelati di attentato nella già Regia Udienza di Lecce, dove 191 STEFANO VINCI dubitare della feudalità del territorio e della esistenza degli usi civici – «comprovati eziandio da un debole possesso, non contraddetto, anzi riconosciuto […] per parte dell’ex barone»232 – le parti nominarono gli arbitri affinché procedessero alla «estimazione del compenso da darsi al comune». Non vi fu nessuna questione sul demanio boscoso e macchioso, mentre ve ne furono con riferimento al terreno semenzale «si per l’allegata qualità burgensatica del territorio, che pel non uso di pascere»233. Or avendo gli arbitri proferito il loro giudizio sul compenso da darsi al comune, io ho dovuto posteriormente occuparmi a conoscere e della qualità del territorio coltivato, e della esistenza degli usi. Non ho potuto negarmi di metter fuori della divisione tutti quei fondi che si è mostrato essersi acquistati in allodio; ed ho avuto per feudali quelli di cui non eravi prova in contrario, e che per feudali furono rivelati nel general catasto234. Per quanto concerne l’uso di pascere, l’Acclavio riconobbe essere «indubitato» che i cittadini di Lizzano non avevano all’epoca tale uso e non vi era prova che lo avessero mai esercitato: anzi nello strumento del 1755 l’ex barone aveva fatto riconoscere agli amministratori del comune esservi nell’ex feudo delle difese chiuse in tutto l’anno. Per definire la questione, l’Acclavio ritenne «regolare» riservare la decisione sul punto in attesa di ricevere dall’ex barone (al quale concesse il termine di un mese) giustificazione della legittima costituzione delle difese, o la prova del possesso anteriore all’epoca della nota prammatica de baronibus235. Dopo aver inteso il parere di tradotti non poterono altrimenti recuperare la loro libertà che cedendo alla lite e confessando essere tutto il territorio di proprietà dell’ex barone, soggetto nondimeno agli usi civici nella parte macchinosa e boscosa. 232 Ibidem. 233 Ivi, p. 50. 234 Ibidem. 235 La prammatica n. 11 de baronibus del 1536 di Carlo V prevedeva che «i Baroni, ed altri utili Signori, non possino fare nelle terre culte, o inculte, o ne’ boschi delle università, o ne’ comunali, difense, foreste, o chiuse, senza espresso consenso de’ vassalii, e de’ vicini, e permesso del Re: o dove avranno comunione, o alcun diritto ne’ territori, o selve delle medesime per i loro greggi, armenti, pascoli, spica, e ghianda, non si servino smoderatamente, cosicché i poveri vassalli vengan proibiti dalla cultura, dal pascolo, e dall’uso delle proprie selve, o 192 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... due funzionari della Provincia – ex art. 4 decreto 23 ottobre 1809236 – l’Acclavio accordò al comune di Lizzano per compenso dei suoi usi civici nei demani ritenuti ex feudali, secondo lo stato dell’allora ‘attuale possesso’, il terzo del territorio macchioso e il quarto del boscoso: tali quote avrebbero apportato al comune il beneficio di circa 700 tomola di terra, giusta la misura locale di 2000 passi il tomolo. Con espressa riserva al comune del diritto di agire presso i tribunali competenti per la revindica dei suoi demani e per l’esperimento di ogni altra azione237. Il sindaco di Lizzano Dioniso Magno nel 1813 presentò una supplica in cui lamentava che l’ex barone usasse ancora della sua antica prepotenza: in particolare questi aveva strappato un ‘coscritto’ dalle mani dei legionari238 e godeva delle usurpazioni fatte al co- comunali, in danno de’ vassalli medesimi, e de’ vicini. Se per caso le faranno, Gli Officiali Regj provvederanno sommariamente di giustizia, intese le parti». A. DE SARIIS, Codice delle leggi del regno di Napoli, Napoli (presso V. Orsini) 1795, lib. VI, p. 7. 236 Decreto n. 495 del 23 ottobre 1809, cit. 237 Concluse l’Acclavio: «Ho nello stesso tempo disposto la misura e l’apprezzo del demanio da dividersi per assegnare in giusta proporzione le sue quote al comune. Ho eziandio invitato il Sindaco ad esibirvi i documenti giustificativi della qualità comunale de’ demani, e della non legittima esazione delle decime. Egli mi ha rimesso alcune carte, e ne promette delle altre. Io l’esaminerò, e trovandole adatte a far valere i diritti de comune in un giudizio ordinario, ne provocherò l’autorizzazione presso l’Intendente della Provincia, e mi metterò d’accordo col Regio Procuratore presso il Tribunale di prima istanza per promuoverne l’azione. Mi ha intanto il dovere di mettere tutto sotto gli occhi di V.E., acciocché si degni essere in questa intelligenza, ed approvare, se così le piaccia, siffatte disposizioni». Rapporto del commissario Acclavio al ministro dell’Interno del 16 giugno 1811, cit., p. 51. Il ministro Zurlo rispose: «Signore, resto inteso di quanto mi avete riferito col rapporto de’ 16 relativo al comune di Lizzano, che non ha dedotto alcun capo di gravezze nella commissione feudale comechè molti ne avesse a produrre. Preventivi intanto l’Intendente, acciò dia le disposizioni per l’introduzione del giudizio che voi avrete cura di sollecitare». Supplemento Bollettino n. 31 (appendice ai nr. 14 e 15), p. 52. Ministeriale di riscontro del 22 giugno 1811. 238 Dalle notizie acquisite presso il Regio Procuratore Generale della Gran Corte Criminale della Provincia, l’Acclavio apprese che «nell’atto si trasportava in Taranto de’ Legionari, il coscritto Pasquale Borgia, domestico del marchese Chiurlia, costui si fece loro avanti, assicurando che era ordine del sotto-tenente Ponticelli di ritirarsi col Borgia, come eseguirono; che il Ponticelli, il quale non aveva mai dato quest’ordine, ne ebbe notizia, ed appena entrati nell’abitato i Legionari, si attaccò in parole col marchese, ed avendo preteso che il coscritto fosse 193 STEFANO VINCI mune, il quale non fu nella possibilità di adire la Commissione feudale perché l’ex feudatario aveva sottratto «ad ogni ricerca le carte necessarie»239. Per quanto concerne la prima questione, l’Acclavio appurò che il Regio Procuratore presso la Gran Corte Criminale della Provincia aveva provveduto ad incaricare il Giudice di Pace di Castellaneta di prendere «stretto conto dei fatti, e rimettergli le carte corrispondenti». Poiché però dopo alcuni mesi il Giudice di Pace spedì atti incompleti, dai quali non si poteva ricavare niente di positivo, della questione se ne stava occupando direttamente il Giudice commissario signor Desiati, il quale aveva in atto la verifica dei fatti. Circa la seconda doglianza, l’Acclavio ritenne essere purtroppo vero che il comune «per l’involamento delle sue carte» non aveva potuto adire la Commissione feudale per rivendicare i suoi demani e domandare l’abolizione delle decime. Sul punto – considerato lo stato degli usi civici – il Commissario ricordò di aver già aggiudicato al comune una parte di territorio, «riservandogli lo sperimento delle ragioni sulla proprietà presso a’ giudici ordinari»240. Infatti il Consiglio di intendenza aveva già provveduto ad autorizzare il comune a stare in giudizio per la reintegra dei demani e per l’abolizione delle decime241. andato al suo destino, il Chiurlia gl’impugnò un’arma da fuoco, ed il coscritto mostrò di voler cavar fuori una pistola, ma che accorsi i legionari, il marchese fi costretto a ritirarsi, e ‘l coscritto fu messo in carcere». Ivi, p. 90. Il ministro dell’Interno all’intendente di Terra d’Otranto, 28 aprile 1813. 239 Ibidem. 240 La Commissione feudale, completati i suoi lavori, venne sciolta il 31 agosto del 1810 ed in carica rimase soltanto il procuratore generale della commissione per l’esecuzione delle sentenze affidata ai commissari ripartitori. Le eventuali nuove controversie della stessa natura di quelle trattate dalla Commissione feudale, sarebbero state giudicate dai tribunali ordinari. Il decreto 20 agosto 1810, recante il titolo Scioglimento della commissione feudale (BLD, 1810, II) dispose all’art. 1: «La commissione feudale eretta con decreto del nostro augusto predecessore degli 11 novembre 1807, avendo terminato il travaglio affidatale, sarà disciolta e cesserà dalle sue funzioni nel dì 31 di questo mese di agosto 1810. Tutte le di lei decisioni sono dichiarate irretrattabili. L’esecuzione di essa sarà fatta nel modo ordinato col nostro decreto 3 luglio di quest’anno». Art. 2: «Se si producano altre controversie della natura di quelle delle quali la commissione feudale ha finora deciso, queste saranno giudicate dai nostri tribunali ordinari, secondo le leggi alle quali le parti avranno acquistato diritto». 241 Ivi, p. 97. 194 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... 3.13. Martina Numerosi furono i capi di gravezze presentati innanzi alla Commissione dal comune di Martina: l’università chiedeva di essere reintegrata nel dominio delle fossate; di essere reintegrata nel diritto di pascere e ghiandaie nel territorio di Motola e propriamente delle contrade di S. Antonio ossia Gualella e Poltri anche in tempo di parata. A sua volta il duca di Martina chiedeva di essere reintegrato nel possesso del bosco detto le Chianelle con condannarsi l’università alla restituzione dei frutti percepiti; che si dovessero demolire i parchi fatti dai cittadini di Martina nel territorio ex-feudale verso Taranto, di cui faceva parte il bosco delle Chianelle. La Commissione prese in esame i documenti prodotti dalle parti e rilevò che né il privilegio di Filippo d’Angiò principe di Taranto, né la grazia del re Ferdinando I d’Aragona dimostravano il dominio di dette fossate in favore dell’università. Per l’opposto, avendo il duca dimostrato l’antico possesso dei giardini e degli orti del castello attraverso «rilevj ed altre carte», la Commissione decise di assolverlo dalla domandata reintegra. Per quanto concerne invece gli usi di pascere e ghiandare nel territorio tra Motola e Martina, non potendo negarsi la promiscuità nascente da privilegio accordato a Martina dal principe di Taranto Filippo d’Angiò, dispose che i cittadini di Martina fossero reintegrati degli usi civici nei menzionati due fondi feudali, nonostante essi fossero situati nel territorio di Motola, nel modo medesimo in cui venivano goduti dai cittadini dell’università di Motola. Sulle pretese vantate dal duca invece, la Commissione ritenne di assolvere l’Università dalla richiesta rivendica del bosco detto le Chianelle, in quanto non risultò dimostrato né il titolo né il possesso a favore dell’ex barone: «quantunque avess’egli per titolo esibito un Diploma del principe di Taranto Roberto d’Angiò del 1353 spedito in favore di Pietro Tocco, allora possessore di Martina, nondimeno si è veduto che nel medesimo non si parla di detto Bosco, ma di un certo territorio posto tra i territori di Taranto, Monopoli, Ostini, Motola e Ceglie, che fu conceduto non già al solo Pietro Tocco, ma a tutti gli abitanti di Martina». Altrettanto insufficiente a sostenere le ragioni del duca risultò una liquidazione delle rendite del feudo fatta da Pietr’Angelo protonobilissimo d’ordine della regina Giovanna vedova di Ferdinando II d’Aragona, da cui neppure risultava solamente che il diritto 195 STEFANO VINCI di fida poteva essere esercitato «da li munti della città di Taranto infra». Sulla base poi della perizia risalente al 1445, eseguita su ordine di Federico d’Aragona, allora principe di Altamura, fu riconosciuto all’università di Martina ed ai suoi cittadini il diritto di poter chiudere a loro piacere i propri territori242. Nell’ottobre del 1813 fu portata all’attenzione del commissario ripartitore Domenico Acclavio un’ulteriore questione derivante dal fatto che il comune di Martina, possessore del bosco demaniale detto “Le Pianelle” (Le Chianelle), aveva cercato di censirlo a particolari cittadini ritraendone così un vantaggio «non indifferente». A proporre la relativa istanza furono i fratelli Gennaro, Felice ed altri de Casavola, possessori di una masseria detta Piovacqua sita nella pertinenza del bosco che era stata conceduta in enfiteusi al di loro padre Donato Maria dal titolare della Badia di S. Maria in Crispiano sotto l’annuo canone di ducati 15 e con la facoltà di ridurre a coltura quelle terre e di esigere le decime delle vettovaglie sui terreni da altri coltivati con il peso di questo reddito in favore della stessa Badia243. Tale concessione aveva dato luogo ad una lunga lite tra il comune e i Casavola in quanto nello strumento stipulato in data 27 gennaio 1765 non furono indicati con precisione i confini della masseria e non fu dichiarata l’estensione del fondo da cui si sarebbe potuta arguire la vera posizione di essi. La questione era stata portata dinanzi all’abolito Sacro Consiglio che nel tentativo di frenare l’arbitrio di Casavola «in dissodar delle nuove terre» non lo proibì ma appose una clausola che vietava di mutare la natura del fondo. La causa non fu mai decisa dal Sacro Consiglio e sopravvenuto l’editto del 1792 sulla censuazione dei demani, il comune deliberò di censire il bosco delle Pianelle. La controversia relativa alla confinazione della masseria fu portata anche dinanzi alla Camera della Sommaria: «il delegato marchese Vivenzio ad un tempo che propose al governatore l’autorizzazione del progetto di censuazione, ordinò che non vi fosse compresa la detta masseria, la quale si dovesse confinare e terminare da periti, inteso il possessore, e tenendosi presente lo strumento di acquisto, il catasto e gli altri do242 Bollettino n. 4/1809, p. 103. Sentenza n. 11 del 12 aprile 1809. Supplemento Bollettino n. 32 (appendice ai numeri 16 e 17), p. 74. L’intendente della Provincia a S.E. il sig. Consigliere di Stato Ministro dell’Interno, Lecce, 29 ottobre 1813. 243 196 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... cumenti». Sta di fatto che la censuazione non ebbe mai luogo e neppure fu mai effettuata la perizia per la confinazione della masseria. Il comune di Martina quindi lamentava il fatto che la coltivazione delle terre era stata portata ad una maggiore estensione per opera di quei particolari di Martina che vantavano anche una licenza sulla Badia ed avevano, nella confusione dei confini, dissodato dei terreni nel bosco: queste innovazioni avevano causato il danno che l’erbaggio delle Pianelle «scommesso dagli animali di tali coloni e di Casavola, rivestiti colla qualità di cittadini» era del tutto perduto per la fida degli animali stranieri244. A loro volta i f.lli Casavola avevano presentato apposita istanza relativa a tale questione già nel 1808 al Ministro dell’Interno, il quale chiese all’Intendente della Provincia di esprimere il proprio parere, evitando qualunque novità di fatto. Con ministeriale del 14 gennaio 1809 l’Intendente spiegò che il decurionato di Martina si era attivato per un progetto di transazione che prevedeva la rinuncia da parte dei f.lli Casavola di tutti i loro diritti in cambio della cessione di tomola 120 di territorio in piena proprietà, compresi anche gli alberi, «con accantonarsi nel circondario della loro masseria, ancorché il terreno non fosse tutto coltivato». Secondo tale proposta di accordo, il rimanente delle terre semenzabili e il diritto di decima sui fondi coltivabili dagli altri coloni nelle pertinenze del bosco sarebbero dovute spettare al comune. Questo progetto, contenuto nel processo verbale della seduta decurionale del 30 luglio 1809, fu rimesso al Consiglio di Intendenza che procedette alla verifica delle terre ridotte a coltura (che risultarono pari a 150 tomola) ed ordinò una perizia per calcolare «quanto di queste terre entrava nell’accantonamento delle 120 tomola intavolate dal decurionato e quanto fosse il valore delle terre coltivate ed incolte»245. Dalla perizia risultò che le terre destinate ai Casavola avevano una estensione pari a tomola 58 semensabili «sparse raramente di alberi»; tomola 3 di terreno incolto e sassoso senza alberi su cui era situata la masseria e su cui esistevano gli ovili ed altri comodi rurali; tomola 59 di terreni boscosi e sassosi non coltivabili246. Sulla 244 Ivi, p. 76. Ivi, p. 78. 246 I terreni sementabili con bosco valevano lire 184,80 al tomola nella misura locale di 2500 passo il tomolo e ciascun passo di palmi 7 lineari, I terreni puramente boscosi valevano la metà di tale somma. Ibidem. 245 197 STEFANO VINCI base di tali delucidazioni il Consiglio di Intendenza approvò in data 30 dicembre 1810 la proposta avanzata dal decurionato di Martina. Domenico Acclavio ritenne di non condividere la decisione del Consiglio, che invece – a suo avviso – sarebbe dovuta entrare nel merito della controversia non solo per ciò che concerneva il dubbio sulla confinazione della masseria Piovacqua (per cui sarebbe stata necessaria una perizia), ma anche per ciò che atteneva il diritto della Badia sul detto fondo sito nella continenza del bosco comunale delle Pianelle. Infatti la masseria Piovacqua avrebbe potuto per lo più essere considerata come un demanio ecclesiastico sul quale il comune esercitava diritti dominicali, facendo propri i frutti agresti e l’erba. L’Intendente di Terra d’Otranto ipotizzò quindi che «in linea di divisione la porzione del comune compensata di tali diritti» sarebbe potuta ammontare a ¾ del demanio atteso che la popolazione di Martina era di circa 14.000 abitanti247. La proposta trovò il consenso del Ministro che diede incarico all’Acclavio di procedere a definire la questione248. L’Intendente procedette a nominare periti che conoscessero i confini e l’estensione del fondo ed arbitri che valutassero i rispettivi diritti delle parti: ne venne fuori un giudizio poco favorevole per il comune249, tanto che l’Acclavio ritenne più opportuno per gli interessi di quest’ultimo dar luogo ad un’equa transazione. Ragion per cui venne approvata dalle parti la convenzione nei termini già discussi dal Consiglio d’Intendenza250. 247 Ivi, p. 80. Ministeriale del 6 novembre 1813. Ivi, p. 80. 249 Scriveva Acclavio: «Questo giudizio portando a risultati poco favorevoli per il comune, dove rimanesse stabilito sulla confinazione riconosciuta da’ periti, e d’altronde la natura alpestre e boscosa del demanio facendo nascere de dubbi sull’esercizio del dritto di semina competente agli aventi causa dalla Badia, io ho stimato più conducente agli interessi del comune di dar luogo ad un’equa transazione che di decidere di giustizia siffatta pendenza». L’intendente di Terra d’Otranto a S.E il Ministro dell’Interno, Lecce, 24 novembre 1813. 250 La convenzione veniva resa esecutiva dall’Acclavio con propria ordinanza, successivamente approvata dal Ministro dell’Interno. Ministeriale dell’Intendente con cui si approvano le disposizioni date, 30 novembre 1813. Ivi, p. 87. 248 198 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... 3.14. Massafra Il comune di Massafra portò innanzi alla Commissione feudale ben quattro azioni di revindica nei confronti di quattro diversi possessori: la prima relativa alla difesa di Albanello di circa tomoli 200 posseduta dagli eredi Di Donato Maria di Carlo; la seconda sul rimanente territorio di detta difesa di Albarello e sulla difesa di Adogha di circa tomoli 100 possedute dal sig. Michelangelo Zuccarelli; la terza sui parchi boscosi e macchiosi, denominati Cernera, S. Martino, Collamesola, S. Miele, Ginestra, Parconuovo e Parchitello di Piescorovolo di circa 1600 tomoli posseduti dal Duca di Martina; la quarta sulla difesa di Serra del Fragno di circa 700 tomoli posseduta dal sig. Ferdinando Notaristefano. I documenti posti a sostegno delle domande avanzate erano costituiti da due antiche capitolazioni, stipulate una nel 1561 fra l’università e il barone Francesco Pappacoda e l’altra nel 1591 fra la stessa università e la baronessa Isabella Montorio. Con la prima convenzione Pappacoda aveva lasciato all’università due difese denominate Serra dello Fragno e Chiusura delle Olive e aveva accordato ai cittadini di «raccogliere ghiande nei parchi, parcochi e difese baronali»251. L’università a sua volta aveva 251 Gli usi civici concessi sono ben specificati nella capitolazione del 1561: «Item detto Eccellentissimo Signore si contenta rilassare a detta università la Defensa detta la Serra del Fragno secondo anticamente li tenea, e si trova designata per lo pascolo per li bovi domiti ed indomiti di detta Terra per tutto l’anno, ad arbitrio d’essa università, e che su quella non possano entrare animali forestieri, et maxime de’ fidati, con condizione che quando accaderanno passare li bovi di detto Eccellentissimo Signore domiti, che per tramite sia lecito pascolare. Item detto Eccellente Signore si contenta lasciare a detta università la difesa, seu erbaggio nominato la defesa delle Chiusure dell’Olive, secondo si trovano le colonne e confini, che ogni tempo sia leciuto a detta università ed uomini di quella farci pascolare loro animali domiti, ed indomiti per tutto l’anno, ad arbitrio di detta università, senza pascolarci animali de’ fidati, né di altri forestieri; con condizione che accadendo che detto eccellente Signore faccia coltivare le olive, e l’altre possessioni sono dentro dette chiusure sarà lecito pascolarci per quello tempo coltiverà dette possessioni di sua Signoria. Item detto Eccellente Signore si contenta che ogni persona di detta Terra possa raccogliere ghiande, fragne e lezze alli Parchi di sua Signoria Eccellente, dummodo non li battono colli bastoni, senza pagamento ed impedimento alcuno. Item si contenta detto Eccellente Signore concedere a detta università ed Uomini di quella, che li cittadini ed uomini predetti possono andare a tagliare legna, e cogliere fragne, lezze e ghiande da dentro li Percori, e difese di detto Eccellente Signore senza impedimento e pagamento alcuno, e portando 199 STEFANO VINCI ceduto al barone la facoltà «di tener difese e custodire, come già le teneva e possedeva lo parco della Ginestra, lo Parconuovo, lo Parco di Cernera, lo parco di S. Martino, Collamesola e tutto lo suo distretto e lo Parchitello di Piescorovolo; come pure si obbligò di non dar molestia al barone nella difesa chiamata Albanello, che cedette e rilasciò allo stesso barone e che potesse egli possedere tanto detta difesa, quanto de Doga e quella di Alvaniello»252. Con la seconda convenzione furono rinnovate dalla baronessa Montorio le precedenti concessioni rilasciate al comune di Massafra dal barone Pappacoda ed, in particolare, fu riconosciuto a«tutti l’animali de’ cittadini» l’uso civico di pascere sulla Serra dello Fragno, fatta eccezione per gli «animali forastieri»253. In tale ultima convenzione le parti ebbero cura di specificare che le statuizioni ivi contenute «si debbano osservare durante il dominio che essa Signora averà di detta Terra, e quello finito, le ragioni tanto di detta università quanto delli successori di detta Signora, restano intatte ed illese e che per la presente non s’intenda essere fatto pregiudizio alcuno a nessuna delle parti, per lo qual tempo ambe le parti promettono osservare detta transazione, convenzione, e concordia, e così s’obbligano e giurano»254. Questo principio posto a tutela della sopravvivenza degli usi civici concessi, garantì – come ebbe modo di rilevare la Commissione feudale – l’esecuzione delle statuizioni contenute nelle convenzioni per ben due secoli e mezzo. Nel 1789, allorché il feudo di Massafra «possedeasi dal Fisco allodiale», l’università chiese ed ottenne di essere mantenuta nel possesso degli usi civici accordati in forza delle antiche capitolazioni. Con decreto del 9 dicembre 1789 emesso per Supraemam Cameram Regalium Allodialum in causa Regii Fisci Albestie di barda per condurre dette legna, e fragne, seu lezze, che sia lecito a detti cittadini pascere in detti parchi e defensa dette loro bestie fintantoché coglieranno, e caricheranno dette legna, frasche, e lezze, senza impedimento e pagamento alcuno: dummodo che al cogliere di dette ghiande e lezze da detti Percori non li battono colli bastoni, come è detto sopra». Bollettino n. 5/1810, p. 198. Sentenza n. 35 del 10 maggio 1810. Nella causa tra ‘l comune di Massafra e i Sigg. Michelangelo Zuccarelli, gli eredi di Donato Maria di Carlo, il Duca di Martina e ‘l Signor Ferdinando Notaristefano. Questa convenzione fu approvata con expedit del Sacro Consiglio. 252 Ibidem. 253 Ivi, p. 202. 254 Ibidem. 200 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... lodialis cum Universitate Civitatis Massafrae, fu statuito «quod Cives Massafrae manuteantur in possessione legnandi arbores siccas et infructiferas in parcoribus ut ex actis, et respectu arborum viridium et fructiferarum pro eorum usibus»255. Sulla base di tali elementi la Commissione riconobbe ai cittadini di Massafra «i pieni usi civici, anche per commercio fra loro sopra i locali di Albarello, Adogha, lo Parco di Cernera, lo Parco della Ginestra, lo Parco Nuovo, lo Parco di S. Martino colla Mesola e il suo distretto, ed il Parchitello di Piescorovolo, dinotati nelle antiche capitolazioni del 1561 e del 1591». A tale provvedimento faceva seguito l’ordine rivolto all’amministrazione dei Reali Demani di indennizzare i possessori dei rispettivi poderi «per la evizione dei medesimi sofferta sopra io fondi ad essoloro venduti dalla Regia Corte Allodiale»256. 3.15. Montemesola L’università di Montemesola chiese alla Commissione feudale di pronunciarsi sulla legittimità delle pretese, vantate ed esercitate dal suo ex barone marchese Andrea Saraceno, relative all’esazione su tutti i fondi dei cittadini di due decime di ogni genere di vettovaglie di frutti; all’esercizio dei diritto di pascolo nei fondi comunali e cittadini; sull’esazione della carnatica, del casalinaggio e della bagliva. A tanto si aggiungeva l’abuso che per alcuni fondi posseduti dai cittadini nel territorio di Taranto, non solo l’ex barone esigeva le due decime delle vettovaglie, dei frutti ed altre prestazioni in danaro, ma aveva fatto iscrivere, nel ruolo fondiario, questi stessi fondi a suo nome. Di contro il marchese chiedeva gli fosse riconosciuto il diritto di proprietà sull’intero territorio di Montemesola, in virtù del fatto che fu acquistato dai suoi predecessori come feudo disabitato e che – dovendosi considerare gli attuali coloni tutti censuari ed enfiteuti – gli si dovessero corrispondere non solo il quinto dei prodotti, ma l’annuo censo di carlini 5 per ogni fondo di casa ed il laudemio (ossia decima del prezzo) nell’alienazione dei fondi redditizi. Dai documenti esibiti dall’ex barone e dalle carte fiscali estratte dall’archivio generale, emergeva che il feudo di Montemesola «uscì dalle 255 256 Ivi, p. 205. Ivi, p. 208. 201 STEFANO VINCI mani della Regia Corte come luogo disabitato»257. Nel repertorio del 1320 si trovava registrata la facoltà concessa al possessore Berengario Mandolino «quod possit rehabitare quemdam locum in civitate Tarenti, qui dicitur Montismesula ex habitatum». Nel 1423 fu venduta la metà del feudo consistente in soli beni fondi «senza veruna marca di feudalità». Essendo passato il feudo alla famiglia Noya, si evinceva da uno strumento del 1471 che erano state impiegate le doti di Luisa Muscettola, moglie di Giovanni di Noya, «per abitarsi il casale di Montemesola»258. Inoltre dall’esame dei documenti fiscali risultava che nella tassa provinciale e nei conti erariali fiscali dai tempi angioini sino al 1485 Montemesola non era mai stato sottoposta a tassazione. Inoltre esistevano capitolazioni stipulate nel 1588 tra i cittadini di Montemesola ed il barone, in cui venivano indicate non solo le decime dei frutti e di prezzo, ma anche altre gravissime prestazioni baronali. Dall’esame dei documenti, la Commissione ritenne non esservi dubbio sulla feudalità universale del territorio di Montemesola. Considerò altresì che qualunque fosse la qualità redditizia del territorio, sulla base dei principi adottati dalla Commissione per la Provincia di Terra d’Otranto259, non dovesse estendersi la prestazione prediale oltre la decima da limitarsi ai soli generi riportati «ne’ primi rilevj» in cui si faceva riferimento all’esazione decimale soltanto del grano, dell’orzo, della vena e delle fave». La Commissione feudale statuì quindi che il marchese potesse esigere una sola decima sul grano, orzo, avena e fave, mentre si sarebbe dovuto astenere dall’esercitare qualunque diritto di pascolo sui territori demaniali dell’università – sia chiusi che aperti, ancorchè redditizi – 257 Bollettino n. 8/1810, p. 183. Sentenza n. 29 del 8 agosto 1810. Uno strumento del 1507 conteneva la divisione dell’intero territorio di Montemesola, seguito ad una lite intercorsa fra i membri della famiglia Noya. Ivi, p. 186. 259 Cfr. il decreto del 16 ottobre 1809, cit., art. 2: «La limitazione al diritto di decimare, quando il medesimo sia legittimo sui generi espressi nell’articolo precedente, non pregiudica all’esenzione della decima su di alcuni dei generi stessi, delle quali i possessori de’ fondi decimatisi trovino in possesso. Queste esazioni sono confermate. Per l’opposto restano vietate tutte le prestazioni maggiorati della decima parte, le quali non abbiano in loro favore una decisione della commissione feudale che le dichiari legittime. Restano confermate in favore de’ possessori tutte le eccezioni, in forza delle quali le prestazioni si trovano fissate ad una quantità minore della decima». 258 202 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... posseduti dai privati. Osservò inoltre che i diritti della carnatica, del casalinaggio e della bagliva erano stati aboliti dalla legge e dai decreti eversivi della feudalità e che pertanto l’ex barone si sarebbe dovuto astenere dall’esigere qualunque prestazione sui suoli delle case, così come dall’esazione della carnatica e della bagliva. Per quanto concerne la questione relativa all’intestazione dei fondi siti nel territorio di Taranto, la Commissione ritenne che la decisione dipendeva dalla risoluzione della controversia «del dominio de’ fondi medesimi»260, la cui cognizione veniva demandata ai giudici ordinari. 3.16. Motola L’università di Motola, il cui territorio confinava con Martina, aveva sollecitato la Commissione feudale affinché fossero risolte alcune questioni in ordine al godimento degli usi civici di legnare e pascere di fatto impediti dall’ex feudatario duca di Martina. In particolare l’università chiedeva che fosse riconosciuta l’appartenenza delle due parate dette volgarmente del frutto pendente; che i cittadini fossero restituiti nei diritti illimitati di legnare in tutto il territorio e che l’università fosse risarcita del danno derivante dal fatto che il duca aveva tagliato un numero immenso di alberi per lavoro; che il duca aprisse i fondi denominati Montanaro, Caldarulo, Simonetti, Greco, Lama di Rose, Chiancarello, Confrataria, Sorrosso e la Pentima, togliendo i muri a secco che vi ha fatti; che i cittadini fossero integrati nel diritto di pascere coi bovi d’aratronella difesa di Selvapiana come corpo feudale, così rivelato nel catasto del 1755; che fosse vietato al duca di fidare e diffidare in tutte le difese e parchi; che i cittadini dovessero godere degli usi nei parchi detti del conte, i quali per esecuzione del decreto del consiglier Ferrante furono venduti dal conte di Conversano ed acquistati dal duca di Martina; che fosse vietato al duca d’introdurre nel demanio comunale tanto gli animali propri che dei suoi fidatari, con aprire a tutti i luoghi 260 Ivi, p. 188. La Commissione sul punto osservò come agli enfiteuti e ai coloni perpetui competevano tutti gli effetti dello stesso dominio, fatti salvi i redditi dichiarati legittimi a favore degli ex feudatari. Pertanto ritenne lecito agli enfiteuti ed ai coloni perpetui di far iscrivere i fondi rispettivamente posseduti nelle matrici della fondiaria, «ritenendosi soltanto il quinto a tenore del decreto de’ 20 giugno 1808». 203 STEFANO VINCI usurpati. Per quanto riguarda le due parate del frutto pendente, la Commissione osservò che esse non erano di proprietà dell’ex feudatario, il quale però si arrogava il diritto di chiudere tutti i fondi, suoi o dei particolari siti nei locali denominati S. Antuono, Poltri, Murgia e Pentime, creando così – dove il frutto delle ghiande fosse maggiore – una sua difesa privativa con il nome di parata del frutto pendente, a differenza dell’altra chiamata cumulativa nella quale promiscuamente esercitavano i diritti il duca e i cittadini. Questo diritto era stato garantito dall’abolita Regia Camera al tempo in cui era ancora in vigore la feudalità: «oggi che per le novelle leggi è stata quella abolita, e che si vogliono conservate le proprietà di ciascuno libere da siffatte servitù e che ognuno possa chiudere i propri fondi, non sia più sostenibile». La Commissione rilevava preliminarmente che dall’informazione fiscale del 1554, dai relevi presentati nel 1564 per morte di Raimaldo d’Alagna e nel 1590 per morte di Nicola Maria Sepandi e dall’apprezzo del feudo fatto nel 1652 risultava che Selva dritta e Selva piana grande fossero entrambe difese ex feudali del 1546; che i due parchi denominati Dolce morso e S. Basile fossero due corpi ex feudali di piena proprietà dell’ex feudatario; che dall’apprezzo del 1652 risultavano essere descritti come corpi burgensatici i fondi denominati Lama Vallina, terzo del parco di Pizzo ferro, la selva dritta piccola, parco di Terracena, la difesa o sia territorio burgensatico di S. Basile colla vigna, col parchitello, col giardino e col territorio seminatorio di tomoli 15, la difesa di Forzaniello e Colaproco, la difesa della Marinata, il Parco chiuso di Acquagnara e S. Maria della Serra, difesa di Cazaruto, diversi parchi piccoli col parco di Tamburello, della Lama, del Mele, di Cavoto, Pietrapercuto, Passasepe, Berardino, Sciavone, di Specchio, di Cola Braya, del Tesoro e Grottaglie e di Giovanni Maria Ricci, il giardino della Fontana, l’orto del giardino di Matera, orto e giardino delle Fontanelle ed orto della Pietra. Per quanto riguarda la difesa della Pentima Commissione osservò sulla base dei documenti esaminati che essa non fosse da ritenersi come difesa, per cui doveva essere soggetta agli usi civici261. Inoltre risultava dal «decreto profferito dal 261 Rilevava la Commissione che la c.d. difesa della Pentima o sia nuovo titolato non era menzionata come difesa nelle antiche carte, né tantomeno risultava essere stata eretta legittimamente in difesa, mentre invece era indicata come difesa nell’ap- 204 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... Consiglier Ferrante nel 1726 quando si portò sulla faccia del luogo» per terminare tutte le controversie tra «la casa» del Duca di Martina e quella del Conte di Conversano che il duca fu obbligato a comprare tutti quei fondi che tanto il conte che i cittadini sottoposti alla sua giurisdizione possedevano nel territorio di Motola: per cui tali fondi dovevano reputarsi di piena proprietà del duca, così come tutti quegli altri che avesse acquistato con particolari strumenti. Ne derivava che il taglio e la vendita dei legnami avvenuta nei fondi di dominio del duca fosse il legittimo esercizio «del suo diritto», anche in considerazione del fatto che l’università non aveva fornito alcuna prova che fossero stati tagliati anche alberi nei fondi del demanio comunale. Il duca quindi avrebbe potuto esercitare i suoi diritti soltanto nei «demani ex feudali», fatti salvi gli usi civici dei cittadini anche per il commercio tra loro. Il duca avrebbe invece dovuto astenersi dall’esercitare qualunque diritto di fida tanto sulle erbe che sulle ghiande dei territori comunali e dei particolari «così chiusi che aperti» siti nelle stesse contrade, mentre ai particolari possessori era riconosciuto il diritto di chiudere i rispettivi fondi nei termini della legge. Veniva altresì fatto divieto all’ex feudatario d’introdurre animali propri o dei suoi fidatari nei demani comunali262. L’esecuzione dell’ordinanza rivelò difficoltà sul piano pratico. Nel 1811 il sindaco e i decurioni del comune di Motola presentarono ricorso al Ministro dell’Interno con il quale si dolsero di essere stati spogliati di tutto il demanio, e particolarmente dei boschi di querce ivi situati, da cui traevano la maggior parte delle loro rendite. La questione fu portata dallo Zurlo all’attenzione del Winspeare, sostituto procuratore generale presso la Gran Corte di Cassazione263, e da questi all’Acclavio, con la richiesta di informazioni sulla fondatezza della domanda264. L’Intendente di Terra d’Otranto – nella sua dettagliata risposta inoltrata in data 22 giugno 1811 – rilevò come la questione era stata oggetto di arresto della Commissione prezzo del 1652, successivo alla prammatica dell’imperatore Carlo V che proibì le nuove difese. Bollettino n. 2/1810, p. 803. Sentenza n. 78 del 23 febbraio 1810. 262 Ibidem. 263 Supplemento Bollettino n. 18, p. 49. Ministeriale per parere. Il Ministro dell’Interno al sig. cav. Winspeare sostituto procuratore presso la G. C. di Cassazione. 20 aprile 1811. 264 Lettera al Commissario. Winspeare all’Acclavio. 8 maggio 1811. Ibidem. 205 STEFANO VINCI feudale del 23 febbraio 1810 che, all’atto della sua esecuzione, fu contrastata dal comune di Motola che rinnovò davanti allo stesso Acclavio le questioni già oggetto del giudicato ed ora nuovamente riproposte sottoforma di supplica a Sua Maestà265. Nell’ultimo ricorso, il decurionato di Motola lamentava la perdita dei diritti di pascere, ghiandare e legnare nei territori aperti, e soprattutto in quelli posseduti dai particolari, «dove costoro non hanno rappresentato che un diritto precario di semina, comechè esente da corrisposta, o l’uso promiscuo dell’erba senza proprietà sugli alberi»266. In virtù di tali considerazioni, domandava quindi che il territorio, in qualità di demanio comunale, fosse ripartito tra i cittadini, o che quantomeno fosse conservata la proprietà sugli alberi e che ciò fosse applicabile a tutti i fondi del duca di Martina, feudali e burgensatici. Domandavano altresì i ricorrenti che «tanto costui, quanto i particolari avessero esibito i loro titoli per conoscersi della estensione dei rispettivi fondi e delle servitù cui soggiacevano, e che non solo ne’ demani ex feudali si fossero valutati gli usi civici a tenore della decisione, ma che eziandio si fosse dato compenso all’illimitato uso di legnare nelle così dette Selvapiana e Selva dritta grande, dichiarate difese feudali secondo lo stato dell’attuale possesso»267. Le questioni oggetto del ricorso apparvero all’Acclavio in aperta contraddizione con il giudicato della Commissione, che aveva dichiarato la piena proprietà dei fondi dell’ex barone e dei particolari possessori, e l’esclusione di qualunque «idea di condominio, o di servitù per parte del comune e de’ suoi cittadini». Osservò altresì che – estinto il diritto di fida nell’ex barone – la Commissione aveva ugualmente abolito la partecipazione agli usi, dichiarando perciò i fondi di piena proprietà dei possessori268. Alla luce di tali considerazioni, concluse col ritenere che «a’ termini del giudicato ognuno ripigliava il suo, l’ex feudatario 265 Riscontro del Commissario, 6 dicembre 1811. Ivi, p. 54. Ivi, p. 55. 267 Ibidem. 268 Rilevava ancora l’Acclavio che: «malgrado la particolar domanda fatta dal comune, di doversi dichiarare appartenere ad esso le due parate dette volgarmente del frutto pendente, niuna dichiarazione erasi fatta della universalità del demanio, e che d’altronde avendo il detto comune i suoi particolari demani, e l’ex barone i demani ex feudali, la partecipazione al beneficio della parata cumulativa era più il risultato della comunione de’ demani comunali e dell’uso civico su’ feudali, che 266 206 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... cioè i suoi territori feudali e burgensatici, il comune i demani di sua ragione; ed i particolati sciolti dalle catene delle parate, venivano pe’ principi liberali della presente legislazione ad acquistare il libero uso de’ loro fondi». In ordine alle pretese avanzate, l’Acclavio osservò come le perdite del comune di Motola derivassero soprattutto da «quello che esso non ha guadagnato immaginando di essere suo l’intero territorio, che a ciò che gli mancava per l’emolumento finora percepitone». Infatti dalle ‘parate’ il comune non percepiva più che il quarto del frutto della ghianda che si raccoglieva da circa 6000 tomola di bosco269, mentre l’esecuzione della sentenza della Commissione feudale270 gli avrebbe reso l’intero frutto del demanio comunale boscoso della capacità di 500 in 600 tomola, ed avrebbe avuto sul demanio ex feudale – di oltre 1000 tomola – la sua quota di territorio equivalente ai pieni usi civici271. L’Acclavio concluse la sua nota riferendo di non aver riscontrato nessun dubbio «sulla intelligenza» del giudicato della commissione, per cui aveva ritenuto equo darne esecuzione «giusta il suo tenore»272. Nella sua risposta, il la ragion di proprietà su fondi appadronati, su’ quali, anziché il comune, gravitava l’ex barone co’ suoi diritti di fida». Ivi, p. 57. 269 Spiegava l’Acclavio che per ciascun tomolo dovessero considerarsi 2500 passi. 270 Le operazioni di divisione del demanio si sarebbero compiute all’esito di una perizia – ordinata dall’Acclavio – al fine di determinare «la verificazione e segregazione» dei territori dichiarati di piena proprietà del duca di Martina. 271 Ivi, p. 58. Evidenziava ancora l’Acclavio come il comune di Motola avesse «in virtù di antica convenzione il terzo della ghianda sul demanio detto di Pizziferri nella estensione di 800 tomola posseduto dalla vacante mensa vescovile di Motola; e sonovi oltre a ciò delle vaste tenute boscose del capitolo e della stessa mensa di Motola già soggette alle parate, che parrebbe doversi eziandio riputare demani ecclesiastici, anche per mancare a questi luoghi pii i titoli di particolare acquisto. Sonovi infine altri demani comunali erbosi e macchiosi di circa 600 tomoli di terreno. Quanto poi a’ diritti di pascere e legnare nelle difese una volta comunali, ed acquistate dall’ex barone per vendita fattagliene dallo stesso comune, la commissione ha pur detto, che sieno possedute in piena proprietà del medesimo, assolvendolo dall’azione di reintegra contro di lui dedotta. Sembra nondimeno che in rapporto a questi territori non essendo stata questione dell’esercizio degli usi, ma sì bene della proprietà, il giudicato avendo per legittimo il titolo di compera fattone dal possessore, non abbia inteso alterare i patti in esso contenuti, tra’ quali il comune dice esservi la riserva degl’indicati diritti di pascere e legnare. Io ignoro però se questa riserva veramente esista non essendomi stato esibito lo strumento di vendita». 272 Ivi, p. 60. Riteneva però l’Acclavio che la domanda avanzata dal comune di Motola potesse trovare accoglimento in ordine a due punti: sulle cinque difese 207 STEFANO VINCI Winspeare si dimostrò d’accordo in ordine all’interpretazione della sentenza: «I vantaggi della decisione de’ 23 febbrajo sono tutti de’ particolari possessori, e l’università non dovrebbe credere separato il suo utile da quella della massa de’ suoi componenti»273. Il duca di Martina, sig. Placido Caracciolo, non condivise le decisioni prese dall’Acclavio in ordine alla esecuzione della sentenza all’atto della divisione dei demani e inoltrò reclamo al Consiglio di Stato274 – trattato nella seduta del 16 novembre 1813 – ritenendo che i tenimenti di Selvapiana e Selva dritta grande fossero stati mal divisi dal Commissario fra l’ex barone e i cittadini di Motola, in quanto essendo stati dichiarati difese ex feudali dalla Commissione feudale non erano suscettibili di nessuna divisione. Inoltre – rilevava il duca di Martina – era stata riservata ai cittadini la servitù di pascolo, di legnare e di raccogliere le ghiande nelle difese di Selva dritta piccola, Forzaniello, Marinara e nelle contrade di Felice e Casarutto «con egual torto e con contraddizione evidente» in quanto anche queste erano state dichiarate di piena e particolare proprietà dell’ex barone dalla Commissione feudale275. Con riferimento alla prima questione, il Consiglio di Stato ritenne – udito il voto consultivo della sua Commissione del contenzioso – che la Commissione nel dichiarare difese ex feudali i tenimenti di Selvapiana e Selva dritta grande aveva aggiunto la condizione «secondo lo stato dell’attual possesso», che consisteva nel legnare a secco ed infruttifero nelle citate difese, vendute dal comune, in quanto – poiché la decisione della Commissione era caduta sull’azione di reintegra – non era stato in alcun modo pregiudicato il diritto del comune per gli usi che furono una riserva fatta dal venditore e perciò dovuti in forza del titolo stesso che ha conservato la proprietà del duca; sui fondi denominati Selvapiana e Selva dritta grande non sono rimasti pregiudicati gli usi che avevano i cittadini, se è vero che il loro possesso risulta così chiaramente dai documenti richiamati nella memoria presentata dall’avvocato del comune 273 Risposta al Commissario. Winspeare all’Acclavio. Ivi, p. 61. 274 L’art. 5 del Decreto 23 ottobre 1809, n. 495, cit., prevedeva che «Le determinazioni dei Commissari saranno eseguite, non ostante qualunque opposizione. Coloro che avessero diritto di querelarsene, potranno intentar l’azione presso il Consiglio di Stato; ma non potranno ciò fare se non che dopo terminata l’operazione. Essi non saranno ammessi a domandar alcun cambiamento nella citata operazione; ma potranno ripetere un indennità pecuniaria contro coloro, che avessero mai ottenuto ciò che ad essi apparteneva». 275 Supplemento Bollettino nn. 38 e 39, cit., p. 205. Avviso del Consigliere di Stato, 25 novembre 1813. 208 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... in forza di antichi giudicati e per fatto non controverso dello stesso ricorrente. Sul punto la legge relativa alla divisione dei demani stabiliva che la distinzione tra demanio e difese nelle quali i comuni esercitavano qualche diritto derivava dalla qualità degli stessi: talché ove si trovino esse nello stato di permetterne ancora l’esercizio non può dubitarsi, che debbano i comuni ricevere un corrispondente compenso; e che ciò posto anziché aver violato il commissario ripartitore, come il ricorrente pretende, il disposto della commissione feudale, ne ha seguito esattamente la norma, conformemente a’ principi riconosciuti di dritto nella soggetta materia276. Per quanto concerne la seconda parte del reclamo, il Consiglio di Stato osservò che il commissario ripartitore «senza ingiustizia e senza contraddizione» aveva stabilito che le difese c.d. Selva dritta piccola, Forzaniello e La Marinara con le contrade aggiunte di Felice e Casarutto dovevano essere soggette alle servitù attive citate: «senza ingiustizia» perché i comunisti di Motola, nell’atto di vendita delle citate difese stipulato il 6 maggio 1608 con l’ex barone dell’epoca, avevano riservato a loro favore la servitù attiva di pascolare i loro greggi in una parte dell’anno, di legnare e raccogliere la ghianda in ogni tempo; «senza contraddizione» perché le citate servitù non aveva una origine feudale e potevano perciò esistere sui fondi di cui era stato riconosciuto dalla Commissione il dominio del ricorrente. Concluse pertanto il Consiglio di Stato che il reclamo non poteva trovare accoglimento e che dovevano confermarsi le ordinanze emesse dal commissario Acclavio. 3.17. Palaggiano Di notevole complessità a causa di insufficienza della documentazione prodotta dalle parti, fu la questione sollevata dal comune di Palaggiano contro il Principe di Cursi: il comune aveva chiesto che l’ex barone restituisse: la metà della difesa denominata Calzo; la decima esatta dal 1713 al 1809 sui prodotti della di lui difesa comunale denominata San Felice; la chiusa demaniale di Lama di Lenne con i frutti percepiti dal 1713 in poi; le quantità esatte dall’univer276 Ibidem. 209 STEFANO VINCI sità dal 1624 al 1647 a titolo di camera riservata e «per provisione dell’erario»; la Vasca ossia conserva di acqua piovana e la strada pubblica aggregata al palazzo baronale. La Commissione rilevò che i documenti prodotti dall’Università per dimostrare la natura comunale della difesa Calzo fossero «equivoci ed oscuri». L’ex barone all’opposto aveva sostenuto di rilevarsi nettamente la natura feudale di tale difesa sulla scorta degli apprezzi fatti dal Tavolario Fusco nel 1605. La decisione sul punto fu riservata all’esito della causa di altra vasta difesa sullo stesso territorio denominata S. Marco de’ Lupini. Per quanto riguarda gli altri capi di gravezze, la Commissione assolse l’università dalla azione di revindica proposta dal principe ex barone della difesa di San Felice, stabilendo che questa restasse in proprietà del comune di Palaggiano, senza che potesse sulla stessa esercitarvi alcun diritto di decima. Assolse il barone dalla restituzione pretesa dall’università della chiusa Lama di Lenne; dalla restituzione dell’indebito esatto dei diritti proibitivi dei molini e dei forni e dall’indebito esatto a titolo di camera riservata e di provisione dell’erario. Respinse la domanda della revindica della Vasca e della pubblica strada poiché l’università non aveva dato alcuna prova del suo dominio ed antico possesso277. Le questioni riservate furono affrontate dalla Commissione nel luglio del 1809. In quella sede fu esaminata la questione della natura e pertinenza della difesa di Calzo: poiché nessun altro elemento era emerso dagli atti relativi ai fabbricati per S. Marco de’ Lupini, la Commissione considerò prevalenti le dichiarazioni rese «da tempo in tempo» dagli antichi possessori di Palaggiano278: da esse emergeva che Calzo fosse l’antico demanio dell’Università e che gli stessi baroni, pentiti di averlo ridotto in difesa, ne disposero prima l’apertura e poi la restituzione della metà al 277 Sentenza n. 1 del 6 aprile 1809, cit. «Ferrante Carmignano dichiarò con testamento del 1623 di aversi chiuse in pregiudizio dell’università la difesa nuova, e le difese dette Mezzanella, e S. Felice; ed ingiunse al suo erede di restituirle nello stato primario, ed indennizzar l’università degl’interessi sofferti. L’erede Alessandro Carmignano non concordate le sue pretensioni con istrumento stipulato fra essa, e lo stesso acquirente del feudo, ch’era il Duca di Martina, il più antico, e maggior creditore, ed autore insieme dell’attuale ex barone. Ed in quello strumento si dichiarò che la difesa del Calzo era l’antico demanio aperto, e che questo divider si dovesse fra l’università e il barone». Bollettino n. 6/1809, p. 507. Sentenza n. 95 del 31 luglio 1809. 278 210 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... comune. Poiché non è possibile che sul territorio demaniale dell’università il barone potesse allo stesso tempo esercitare gli usi civici ed appropriarsi del terraggio, la Commissione giudicò che la difesa del Calzo dovesse restituirsi interamente all’università. Per quanto concerne la natura del territorio denominato Lama di Lenne, o Conocchiella, non avendo riscontrato alcun «rischiaramento» dagli atti di S. Marco de’ Lupini, la soluzione della questione fu ricercata negli apprezzi e nelle confessioni baronali. Dall’esame di tali documenti emerse come questa difesa fosse stata descritta come feudale sia nell’apprezzo del tavolario Cafaro del 1711 che in quello redatto un secolo prima dal tavolario Fusco. Negli apprezzi venivano riportati come burgensatici vari beni siti negli stessi locali di Conocchiella ed in particolare la chiusa di tomola 50, già dichiarata di pertinenza dell’ex barone con la precedente sentenza, ed altre carra 3 che Cafaro asseriva costare da un antico rilevio279: l’esistenza dei fondi burgensatici mal si conciliava con la natura feudale di Conocchiella, nella quale essi si trovavano. Gli stessi tavolati, non distinguendo i demani feudali dai comunali, attribuirono quindi erroneamente agli usi civici del barone anche quello di terraggiare nei demani dell’università. Sulla base di tali considerazioni, la Commissione ritenne che Lama di Lenne dovesse reputarsi un demanio dell’università e che dovesse essere separata da essa e rimanere a beneficio dell’ex barone come bene burgensatico, compresa la chiusa definita nella precedente sentenza, le carra 8 cedute dal barone di Palaggianello, le carra 3 rapportate nell’antico relevio ed apprezzo di Cafaro e la vigna descritta nell’apprezzo di Fusco280. Dalla definizione delle parti 279 Dall’apprezzo del 1711 risultava la convenzione secondo cui «la Mezzana, e Lama di Lenne, restino continuamente in ogni tempo di està, e d’inverno per demanio aperto, cioè come sono state ab immemorabili, eccetto però un pezzo di territorio di tomolate 50 nominato la Chiusa, sito circa detto demanio aperto di Lenne, consistente in un giardino, palude, ed una vigna incolta acquistata dal barone a titolo particolare, ed in virtù d’instrumento di compera». Ibidem. 280 Per quanto concerne le ulteriori richieste di rivendica delle difese di Lama d’Erchia, di Castiglione e della metà di Padula fetida, poiché l’università non ha prodotto nessun atto da cui risultasse il dominio o il possesso atto a dimostrare la pertinenza, l’ex barone risultava garantito da un possesso di più secoli, e dagli antichi rilevi ed apprezzi. La Commissione si era posto il dubbio soltanto in ordine alla natura della metà della Padula fetida, in quanto nello stato della locazione di Otranto, formato nel 1604 dal credenziere Corcione, risultava essere metà del 211 STEFANO VINCI ex feudali e comunali di Palaggiano era possibile risolvere la questione relativa al terraggio sull’intero territorio. Trovando assurdo infatti il «sentimento» del Tavolario Cafaro secondo cui l’ex barone potesse esercitare il diritto di terraggio anche sui demani dell’università, la Commissione stabilì che il principe di Cursi potesse esigere il terraggio soltanto nelle difese e nei demani ex feudali, ad eccezione dei territori appadronati e demaniali dell’università. Tali decisioni del 6 aprile e 31 luglio del 1809 furono oggetto di doglianza da parte del principe di Cursi, il quale adì nuovamente la Commissione feudale lamentando di non aver ottenuto l’assegnazione della Vigna di Lenne – oltre alla Chiusa – e che le carra 11 e versure 16 in Conocchiella non gli erano state assegnate «nel luogo ove si dovea»281. Il comune di Palaggiano ed i particolari cittadini con due libelli replicarono che “essendo la Chiusa di Lenne e la Vigna di Lenne un solo e medesimo fondo, e possedendo l’ex barone la Chiusa, non dovesse altro pretendere”. Dedussero altresì che dovessero essere conservate le censuazioni fatte nella Chiusa, approvato l’assegnamento fatto in Conocchiella e «di doversi conservare le colonie tanto nelle mentovate carra 11 e versure 16, che ne’ territorj denominati Lama d’Erchie e Castiglione dichiarati colla II decisione demaniali ex feudali, nella parte che all’ex barone spetterà nella divisione de’ demani, e di non aver costui alcun diritto sulle erbe de’ fondi coltivati»282. La Commissione con sentenza del 27 marzo 1810 statuì che le carra 11 e versure 10 dovessero rimanere a beneficio dell’ex barone nella contrada di Conocchiella e pertanto dovessero essere distaccate secondo i confini descritti nell’apprezzo del 1705 del tavolario Fusco «ed in modo che la porzione da accantonarsi attacchi a’ confini medesimi». Stabilì inoltre che in tale contrada – come nelle difese di Lama D’Erchie e Castiglione – fossero mantenuti barone di Palaggiano. Dai documenti prodotti dal principe di Cursi risultava però essergli stata ceduta l’altra metà dal barone di Palaggianello, insieme con le citate carra 8 di Conocchiella. Quindi fu deciso che non avesse luogo la revindica di tali fondi e che a tenore della convenzione del 1771 Padula Moliterna restasse chiusa e difesa in qualunque tempo a beneficio dell’ex barone. Nelle difese di Lama d’Erchia e di Castiglione dal 25 marzo al 29 settembre di ciascun anno venne concesso ai cittadini di potersi valere dell’erba statonica. Ibidem. 281 Bollettino n. 3/1810, p. 1067. Sentenza n. 101 del 27 marzo 1810. 282 Ibidem. 212 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... nel possesso dei rispettivi fondi tutti i coloni che li avessero coltivati «da 10 anni in qua»: laddove invece non fosse stata stabilita la colonia decennale, l’ex barone sarebbe stato libero di «sperimentare le sue ragioni, senza intanto turbarsi i coloni dall’attual possesso. Ed a ciascun colono sia lecito di chiudere i fondi colonici, pagando soltanto la decima de’ generi al Principe di Cursi ex barione, a tenore della decisione della commissione feudale». Per quanto poi concerne la Vigna, fu disposto che al barone fossero date tomola 15 di territorio adiacente alla Chiusa, da distaccarsi secondo i confini descritti nell’apprezzo del 1605. 3.18. Palaggianello Gli abusi del barone si facevano sentire soprattutto nei territori più ristretti, dove le piccole municipalità erano spesso schiacciate dal dilagante potere baronale. Nel piccolo comune di Palagianello – la cui condizione rifletteva le questioni già affrontate in seno alla Commissione feudale con riferimento al comune di Palagiano, a causa della collocazione limitrofa dei rispettivi territori demaniali – era stato riconosciuto, per antica concessione, ai cittadini il «diritto del pascolo in tutto il territorio, ad eccezione del locale chiamato la Difesella, che facevasi credere essere una difesa baronale»283. Tali primigenio riconoscimento era «mano mano» stato violato attraverso l’imposizione del pagamento della «fida» da parte del barone in tutto il territorio, che veniva esatta anche quando «l’animale non pascoli», il che lasciava intendere – scriveva l’amministrazione municipale nella richiesta di dirimere la lite rivolta alla Commissione feudale – «che impropriamente si chiami fida, ma è bensì il testatico sopra ciascun animale»284. Tale situazione conteneva in se – secondo 283 Bollettino n. 6/1810, p. 1043. Sentenza n. 143 del 20 giugno 1810. Tra ‘l comune di Palagianello in provincia di Otranto, patrocinato dal Sig. Giuseppe Olivieri e il Marchese di S’ Eramo, patrocinato dal cav. Vincenzo Volpicelli. Sull’argomento cfr. V. V. DI TURI, Delle terre civiche e de demani comunali in un piccolo comune meridionale (Vicende e Faccende), Palagianello 1998. 284 Sentenza n. 143/1810, cit. «Sulle prime tale prestazione tacevasi per alcune specie di animali solamente, ed era meno gravosa; al presente è di carlini 10 per ogni animale bovino e cavallino, di 6 per ogni somaro, e di grana 10 per ogni pecora o capra». 213 STEFANO VINCI il ricorrente – una contraddizione in termini: «Se anche per ipotesi non ammessa fossero i territori di demanio feudale, non può negarsi ai cittadini l’uso proprio senza alcun pagamento». Da ciò la richiesta che la Commissione riconoscesse, prima ancora di definire la pertinenza e qualità del territorio, il diritto dei cittadini a godere del pascolo senza nessun pagamento per gli animali di proprio uso, con conseguente abolizione di qualunque prestazione per gli animali che non pascolavano. A tale abuso si aggiungeva anche il fatto che «i poveri naturali vengono astretti a pagar la fida nella maniera divisata, quando gli animali d’industria comprano i pascoli dall’istesso ex barone, il che conferma che quella che chiamasi fida sia un vero testatico ed un’angaria»: il collegio adito – secondo le richieste avanzate dal comune – avrebbe dovuto invece vietare all’ex barone di esigere nessuna somma a prescindere dal numero degli animali portato a pascere nell’erba comprata ed appadronata. Sulla prima questione la Commissione accolse a pieno le richieste del ricorrente, facendo divieto all’ex barone di esigere qualunque prestazione sugli animali e riservando la decisione sulla natura dei territori nei quali era esercitata la fida285. Nel merito, la questione relativa alla natura demaniale dei terreni fu affrontata attraverso la disamina di due carte fiscali del 1421 e del 1523 prodotte dall’ex barone con cui mirava a dimostrare la disabitazione del feudo. A contrario il comune produsse alcune memorie desunte da un antico processo conservato in Archivio risalente al 1541. Dal confronto dei documenti presentati, la Commissione osservò che non risultava evidente la «spopolazione assoluta dell’antico casale di Palagianello». In particolare la tesi sostenuta dal barone, secondo cui Palagianello era un casale sorto nell’antico territorio di Palagiano era infondata, poiché gli estratti del «processo dell’Archivio» dimostravano che tutte le contese tra i due feudatari erano relative all’esercizio de’ diritti giurisdizionali e territoriali sulla continenza del Casale di Palagianello, e che i diritti del feudatario di Palagiano preponderando sempre 285 Stabiliva inoltre che l’ex barone poteva valersi del suo diritto di «fidare nei demani dell’ex feudo, dedotto l’uso de’ cittadini anche per ragione di commercio fra loro» e che si dovesse astenere «da ogni diritto di fida ne’ demani dell’università e ne’ territori de’ particolari così chiusi come aperti anche redditizi». Ivi, p. 1048. 214 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... lasciarono agli abitanti del feudo di Palagiano, sino a che il feudalismo non ebbe tutto invaso, la pienezza degli usi civici sul territorio intero di Palagianello. Ciocchè fa che le disposizioni contenute nella decisione resa per Palagiano sono comuni per le qualità del territorio di Palagianello, e che esse formano stato in materia286 Sulla base di tale assunto, in considerazione del fatto che il comune di Palagianello si trovava nella continenza del parco cosiddetto del Casale (della estensione di carra 14) e che il nome di questo parco, preso dalla sua località, indicava il distretto del paese dove per legge non poteva esigersi casalinaggio e per diritto non poteva riscuotersi nessuna prestazione sugli orti e vigne, essendo il distretto di un paese libero ed esente da qualunque peso, la Commissione ritenne dovesse riconoscersi il parco del Casale demanio universale con conseguente cessazione di tutte le prestazioni a qualunque titolo esatte fino a quel momento. Tale decisione investì anche il problema relativo alla natura della difesa denominata la Conocchiella, divisa in passato da parte dei feudatari di Palagiano e Palagianello e quindi rientrante nel territorio di entrambi i comuni287: sul punto furono richiamate le disposizioni contenute nella sentenza emessa nei confronti del comune di Palagiano. Per quanto riguarda le difese di Nuovapiantata e Conche, la Commissione riconobbe la validità di un laudo del 1507, ricompreso tra i documenti prodotti dalle parti, che accordava al feudatario di Palagianello la facoltà di «ergere una difesa sulla continenza del territorio» del Comune stesso. La formazione di questa difesa precedeva pertanto l’epoca della prammatica del 1536288, dopo la pubblicazione della quale il divieto di «parcorare» i demani divenne irrevocabile289. La stessa motivazione fu estesa anche con riferimento alla erezione della difesa c.d «del Giardino della Lama». Pur non essendo documentalmente provata la sua preesistenza alla citata prammatica, sostenne la Commissione che «non si ha memoria che la sua erezione sia posteriore alla prammatica del 1536», ragion per cui queste difese vennero dichiarata legittima286 Ivi, p. 1053. Sostenne la Commissione che tale territorio sia stato abusivamente defensato dai feudatari a danno dei Comuni di appartenenza. Ibidem. 288 Prammatica n. 11 de baronibus del 1536 di Carlo V, cit. 289 Sentenza n. 143 del 20 giugno 1810, cit., p. 1061. 287 215 STEFANO VINCI mente costituite in favore del feudatario. Sullo stesso ragionamento la Commissione ritenne che anche le difese denominate Nuovo Titolato, Defensella, Cugno di S. Colomba, Terso o parco della Stalla e Serrapizzuza fossero di innegabile «qualità feudale», ma che nessuna di esse aveva la qualificazione di difesa «legittimamente eretta avanti la prammatica del 1536»: per questo motivo esse dovevano essere considerate demani feudali e quindi riaperte ai pieni usi civici in favore degli abitanti, anche per ragione di commercio, fatto salvo il diritto del feudatario di fidare «per l’oltruso dei pascoli, in guisachè non diminuisca il franco e libero esercizio degli usi civici di sopra dichiarati» e di «terraggiare a ragione non più forte della decima sulle terre coltivate»290. Nel dicembre dello stesso anno 1810 il marchese di Santeramo presentò un esposto al Re in cui faceva rilevare come nell’esecuzione della sentenza della Commissione feudale sin qui richiamata si fossero incontrate «delle novità, e tali contraddizioni di fatto»291 consistenti in questo, che mentre ne’ motivi della decisione è osservato che le c.d. difese del giardino della Lama e della nuova Piantata e Conche debbono aversi come legittimamente costituite, costando da un laudo del 1507 la facoltà data al feudatario di Palaggianello di ergere una difesa nella continenza del territorio di quell’ex feudo, ch’ella vi fu realmente eretta innanzi l’epoca della nota prammatica dell’Imperatore Carlo V, e che per l’altra non vi sia memoria di esserne seguita la erezione dopo il divieto portato da tale legge, e quindi nella dispositiva è dichiarato esser le dette difese feudali, nulla però di meno si verifica nel fatto che il locale delle difese, di cui intese parlare il citato laudo del 1507 sia affatto diverso da quello in cui giacciono le difese enunciate nella decisione; conciosiachè nel laudo si disse che fosse lecito al barone di Palaggianello di chiudere con mura quei terreni che egli avrebbe portati ad olivi tra’ confini delle due gravine di Castellaneta e di Palaggianello laddove le difese dichiarate dalla commissione trovasi fuori dell’indicato territorio, e propriamente tra la Gravina di Palaggianello e l’agro di Palaggiano292. 290 Ibidem. Il diritto di terraggio poteva essere esercitato solo sulle colture principali dell’anno, esclusi i legumi ed in maniera che non percepisca doppia prestazione nell’anno. 291 Supplemento Bollettino n. 18, p. 238. Il Ministro dell’Interno a Winspeare, 15 dicembre 1810. 292 Ivi, p. 239. Resoconto del commissario Acclavio al sig. Winspeare sulla 216 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... Il commissario Acclavio stimò privo di fondamento il ricorso presentato dal marchese di Santeramo in quanto se dal laudo del 1507 risultava che il barone di Palaggiano accordò a quello di Palaggianello la facoltà di chiudere il territorio giacente tra le due gravine, dove fossero piantati gli alberi ed esistenti le mura ne conseguiva che le difese dichiarate dalla Commissione feudale dovevano trovarsi in questo sito293. Inoltre nel laudo non è detto che tutto il territorio rimanesse esente dalla servitù della fida, ma soltanto quello arbustato e chiuso da pareti: «Or qual è la prova, che tutto allora fu ridotto ad arbusti?». Al contrario si rileva da una transazione stipulata nel 1568 tra i due baroni che le piantagioni e le chiusure insistevano nei locali detti Giardino e Piantata – che sono senza dubbio le difese avute presenti dalla Commissione – e con questo strumento fu proibito al barone di Palaggianello di estendere tali piantagioni. Il Winspeare – nel suo rapporto di riscontro al Ministro – sottolineò come «le doglianze del marchese di Santeramo sono insussistenti come potrà rilevare dalla copia del rapporto del commissario del Re Acclavio alle di cui osservazioni sono uniformi le mie»294. 3.19. Racale La lite tra il comune di Racale ed il suo feudatario aveva ad oggetto le questioni delle decime e dei censi, delle muraglie e fossate del paese e la revindica del demanio. Il feudatario, al fine di dimostrare il legittimo possesso delle decime, produsse il relevio del 1526 da cui risultava che tra le rendite feudali del comune vi erano le decime del grano, orzo, fave, aveva, lino, vino mosto ed ulivi. Su tale elemento, la Commissione osservò che le censuazioni del demanio feudale avevano appesantito, a danno dei reddenti, la sola prestazione della decima cui dovevano essere ragionevolmente soggetti e che «non era in potere del feudatario assoggettare a pesi più forti i diritti originari richiesta di parere in ordine all’esposto inoltrato dal marchese di Santeramo, 22 febbraio 1811. 293 Scrive Acclavio: «se non che poste nella parte inferiore, dove sono i valloni si abbassano, lasciano fuori del loro perimetro la parte superiore del territorio, anche sita nelle Gravine». Ivi, p. 240. 294 Ivi, p. 241. 217 STEFANO VINCI di coltura appartenenti agli abitatori del feudo»295. Da tale assunto derivava la convinzione che fosse giusto sopprimere i censi aggiunti alle decime stipulate nei contratti e di ridurre le decime stesse ai generi indicati nel relevio del 1526. Pertanto, in considerazione del fatto che il comune non aveva documentato l’esistenza di alcun demanio comunale, la Commissione, in esecuzione del Real Decreto del 16 ottobre 1806 dichiarò legittime nel territorio di Racale in favore del feudatario le sole decime di grano, orzo fave, avena, lino, vino mosto ed ulivi, escluso il cotone e qualunque altra produzione (con conseguente abolizione dei censi ivi costituiti), ordinando che sulle terre decimabili non fosse esatta che una sola prestazione all’anno a scelta del feudatario. Per quanto invece concerne le muraglie ed i fossati del paese, ritenne la Commissione che questi fossero per legge reputati luoghi pubblici. Assolse infine il feudatario dalla revindica del demanio domandata e riconobbe competere al comune sul territorio feudale i pieni usi civici anche per ragione di commercio fra gli abitanti. 3.20. San Marzano È di particolare interesse, per le questioni affrontate, la disamina del carteggio che fu oggetto del giudizio instaurato dinanzi alla Commissione feudale da parte della piccola università di San Marzano, che nella sua domanda presentò un forbito elenco di prestazioni, angarie e per angarie che dovevano «per necessità» essere cancellate. Prima della lista era la richiesta di abolizione del diritto proibitivo di palmenti, trappeti, forno, molini e bottega lorda, come corpi non conceduti al barone nella originaria concessione del feudo e restrittivi di libertà, anzi proibiti espressamente dalle leggi del regno e dalla Prammatica 42 de feudis. A tanto si aggiungeva anche la richiesta di abolizione della «prepotente» pretesa «senza alcun titolo» da parte della ex-baronessa nei confronti dei cittadini di San Marzano di una «strena» in occasione della «festività di Nostro Signore» consistente in 30 galline o capponi; della esazione del camerlengo per la guardia notturna, «quando questo diritto è di mera ispezione della comparente e da risolversi nei parlamenti, sebbene oggi colle provvide leggi 295 Bollettino n. 7/1810, p. 419. Sentenza n. 51 del 11 luglio 1810. Tra ‘l comune di Racale in provincia di Lecce e ‘l suo ex feudatario. 218 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... dell’attual governo questo diritto da se se l’è tolto mercé l’abolita feudalità ma si è creduto esporlo per far conoscere le oppressioni alle quali la comparente è soggettata»296. Ancor più grave era l’esercizio del diritto di surrogare uno degli eletti amministratori in luogo del sindaco, e questo in luogo dell’eletto. Erano altresì pretese angarie e perangarie, in virtù delle quali i cittadini erano obbligati forzosamente a «travagliare» sui territori feudali e burgensatici colla paga di grana 15 al giorno, salvo il caso in cui questi avessero locato la loro opera ad altri a maggior mercede297. L’ex baronessa esigeva altresì dal comune 5 ducati l’anno «sotto il titolo di carceri civili»: Quanta angusta sia questa esazione, eccone la ragione: se le carceri sono del barone, le leggi del regno proibiscono esigere un obolo, per cui dee abolirsi; se poi fossero della comparente, come sono, vieppiù ingiusta si rende detta esazione, per cui tutto effetto di prepotenza, cui è dovuto finora la comparente soggiacere298. A titolo di vassallaggio l’ex feudatario continuava a pretendere il pagamento di grana 72 «da ciascun cittadino che fuma, il che fa orrore a sentirsi, mentre il solo fisco è quello che può tale diritto esercitare». Così come faceva «orrore il sentirsi voler forzosa da ogni cittadino una vettura di giumenti o bovi, volgarmente detto parecchio sotto il titolo di ricolta senza mercede»: tale prestazione richiesta era una mera perangaria e pertanto meritava di essere cancellata. Della stessa natura era l’obbligo per i cittadini a «far forzosamente l’erariato senza nemmeno pagarglisi il salario di annui ducati 72, qual diritto in oggi per la tolta feudalità non sarebbe più da menzionarsi». L’ex baronessa vantava inoltre la preferenza nella «compra dei commestibili ed altri generi, come nella vendita de’ propri di ogni sorte», proibita espressamente dalla prammatica I de baronibus299. Di fronte 296 Bollettino n. 7/1810, p. 454. Sentenza n. 62 del 13 luglio 1810. Tra ‘l comune di San Marzano in provincia di Otranto e ‘l suo ex barone. 297 Sosteneva il ricorrente che non vi era dubbio che l’opera prestata meritava il doppio. Ibidem. 298 Ivi, p. 460. 299 La prammatica I de baronibus di Ferdinando I del del 23 luglio 1466 sanciva la libera facoltà per «ognuno» di vendere vettovaglie, animali, ed altri «generi leciti», con espresso divieto rivolto ai padroni del feudo di proibire o impedire la vendita o imporre una tassazione sul prezzo. DE SARIIS, op. cit., lib. VI, p. 3. 219 STEFANO VINCI a tale sconcertante elenco, ed in virtù della presa d’atto di una grave situazione da risolvere, la Commissione feudale pose mano ad un forte intervento che avrebbe dovuto chiarire ogni incertezza senza lasciar spazio ad equivoci di sorta. Infatti nell’incipit della sentenza si legge «sono abolite dalle leggi eversive della feudalità le prestazioni ed i c.d. diritti dedotti ne’ divisati capi». Seguiva la risoluzione della questione preliminare relativa alla individuazione dei fondi di natura feudale, da sciogliersi attraverso la disamina della documentazione prodotta. In particolare, dall’apprezzo del feudo del 8 luglio 1633 redatto dal tavolario Scipione paterno, la Commissione riconobbe la piena pertinenza ex feudale dell’ex barone dei seguenti corpi, di cui continuava a mantenere il possesso: il giardino baronale di tomola 3 ½, il giardino della giusta di tomola 2 in circa, la vigna di tomola 9 di territorio e gli oliveti detti le Sierre, delle giumente, delle Sieschie e Forgole. Furono invece dichiarati demani feudali ‘aperti’, con il conseguente riconoscimento dei «pieni e comodi diritti civici anco per causa di commercio fra i cittadini»: la massaria detta di Casarossa di tomola 110 circa confinante col feudo di Sava e Fragagnano ed il Serro baronale, la masseria detta la pezza gagliarda di tomola 55 confinante col feudo di Fragagnano, con Angelo Papiri e col collegio de’ Gesuiti di Lecce e la vigna di San Marzano. Rimasero di piena proprietà burgensatica dell’ex feudatario: il territorio di tomola 30 che fu di Carlo Cuomo, confinante con la masseria feudale di Casarossa, col feudo di Sava e quello di Fragagnano; tomola 55 corrispondenti alla metà del territorio detto di Pezza gagliarda (l’altra metà era infatti stata dichiarata demanio feudale aperto); tomola 7 di vigna vicina allo stesso luogo300. Con riferimento a tali fondi, riconosciuti burgensatici, la Commissione stabilì l’obbligo per l’ex feudatario di corrispondere al comune di San Marzano la bonatenenza da liquidarsi dal giorno dell’ultimo general catasto dal razionale Caropreso. Per quanto riguarda il pagamento della decima, i giudici presero in esame «l’informazione dell’entrade feudali del casale di San Marzano, di Schiavoni ed Albanesi, presa nel 1546, ove si porta la decima di 300 Venivano ancora dichiarati di piena proprietà burgensatica dell’ex feudatario «tutti gli acquisti di fondi che trovan fatti a titolo burgensatico con pubblici strumenti posteriormente al divisato apprezzo del 1633 si da esso ex feudatario, che da altri onde esso ha causa». Ivi, p. 462. 220 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... quanto si semina e raccoglie, videlicet di grano, orzo, fave, avena, ed ogni altra cosa». Sulla base di tale riscontro fu ritenuto che sui fondi posseduti dai particolari nell’agro di San Marzano, questi dovessero versare all’ex feudatario soltanto la decima del grano, orzo, fave ed avena, escluso ogni altro genere, in modo che, per ciascun anno rurale, sullo stesso fondo fosse esatto soltanto uno dei predetti generi301. Ogni altro censo, canone o prestazione di qualsivoglia natura pretesa sulle case site nell’agro di San Marzano fu dichiarato abolito. 3.21. San Pancrazio La ragione di doglianza dei comuni di San Pangrazio e di Santa Susanna ebbe come oggetto il pagamento delle decime di vettovaglie imposte ai laici dalla mensa arcivescovile di Brindisi. La mensa arcivescovile presentò in giudizio, a suo discarico, la carta di conferma delle grazie risalente al 1221 da cui si evinceva però che le servitù delle decime di vettovaglie imposta ai laici di San Pangrazio avevano tutti i caratteri di decime sacramentali, non esigendosi la stessa per nessuna concessione speciale di terre302. La natura sacramentale emergeva altresì dall’inventario eseguito nel 1260 per ordine di Manfredi, in cui si legge: «In praedicto casali San Pancratii sunt quidam habitatoris, et in casali praedicto S. Donachii sunt quidam qui laborant in terris ipsius casalis, et serviunt eidem ecclesiae decimam victualium». Tanto a significare – si legge in sentenza – «che gli abitanti coltivavano le terre proprie del casale e servivano le decime alla chiesa». Posta tale premessa, la Commissione osservò che le decime sacramentali erano state abolite da per tutto ovunque esse si trovavano costituite e che quindi dovevano essere dichiarate estinte303. Furono dichiarate salve, a favore della mensa, 301 Furono riconosciuti dovuti all’ex feudatario da parte dei possessori dei fondi soltanto quei censi fondiari risultanti «dagl’istrumenti di primitiva e non ricognitiva concessione fatta dall’ex feudatario, o da quei onde esso ex feudatario ha causa a’ divisati possessori, od a quei onde costoro hanno causa». Non erano pertanto dovute le decime sui fondi soggetti a censi e non dovuti i censi sui fondi soggetti a decime. Ibidem. 302 Bollettino n. 7/1810, p. 703. Sentenza n. 94 del 20 luglio 1810. Tra ‘l comune di San Pancrazio e S. Susanna e la mensa arcivescovile di Brindisi. 303 La decisione veniva estesa «per la totalità dei suoi effetti» anche al comune 221 STEFANO VINCI tutte le terre non occupate dai particolari sulle quali però, come demani feudali ecclesiastici, compete agli abitanti di Pancrazio e di San Donaci l’esercizio dei pieni usi civici. E dichiarati estinti tutti i diritti giurisdizionali e di fida sui territori appadronati. A seguito dell’esecuzione di tale giudicato da parte del commissario ripartitore Domenico Acclavio – il quale procedette alla verificazione della qualità ed estensione delle terre possedute dalla mensa per quindi valutarne gli usi civici in linea con la divisione di demanio – in data 14 febbraio del 1811 pervenne presso l’Intendenza di Lecce una rimostranza da parte dell’arcivescovo di Brindisi, il quale «dolendosi che la rendita della sua chiesa dalla somma di annui ducati 3600, quando trovatasi affittata, siasi per effetto del giudicato della Commissione ridotta a soli ducati 360, domanda che la congrua dote della medesima gli si continui la prestazione delle decime in qualità di sacramentali, secondochè la commissione le ha dichiarate»304. A sostegno della sua domanda l’arcivescovo invocò l’applicazione di un real decreto del 22 dicembre 1810, in virtù del quale le decime sagramentali avrebbero dovuto continuare ad aver corso come in precedenza, sino a che S.M. non avesse provveduto alle rendite necessarie per le Chiese e per le persone «consegrate al culto». L’Acclavio ritenne infondata la rimostranza dell’arcivescovo perché come esecutore del giudicato, ai sensi dei Real Decreti del 3 luglio e 20 agosto 1810, avrebbe dovuto necessariamente ordinare la cessazione del pagamento delle decime che la Commissione feudale non aveva riconosciuto legittime in favore della Mensa. L’Acclavio respinse altresì anche la domanda tesa ad affermare il preteso diritto vantato dall’arcivescovo di ritenere le decime come prelato a causa della povertà in cui era caduta la sua chiesa – non potendo esigere come ex barone il pagamento delle decime – in virtù del fatto che non era lui competente a decidere in merito a tale questione «per non aver nulla di comune con la mia commissione»305. Il ministro di San Donaci, in favore del quale le stesse decime dovevano considerarsi abolite. Ibidem. 304 Supplemento Bollettino n. 35 (appendice nn. 20 e 21), p. 109. Rapporto del Commissario al Ministro, Taranto, 10 marzo 1811. Tale rimostranza venne comunicata dall’Intendente di Terra d’Otranto al commissario Acclavio. Ivi, p. 113. Rimostranza dell’arcivescovo di Brindisi del 14 febbraio 1811. 305 Ivi, p. 112. 222 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... dell’Interno confermò le disposizioni date dall’Acclavio, ritenendo «mal fondati» i reclami dell’arcivescovo306. 3.22. San Vito Nella causa tra il comune di San Vito e il principe Gerardo Dentice di Frasso, suo ex barone, la decisione sulla sussistenza degli usi civici di pascere e di acquare era connessa alla definizione della natura feudale e redditizia dell’intero territorio. Le ragioni poste a fondamento della domanda del barone erano costituite dal dato fattuale secondo cui il territorio fosse disabitato prima dell’infeudazione: ciò si sarebbe dovuto evincere da alcune carte angioine pervenute dall’Archivio della Regia Zecca del 1277, 1278, 1306, 1340 e 1415. In particolare siccome in un mandato di assicurazione e nella distribuzione della nuova moneta ordinata dal Re Carlo I d’Angiò non risultava essere menzionata la terra di San Vito: ritenne la Commissione che da tali documenti emergevano soltanto «pruove negative», dalle quali non emergeva la disabitazione del feudo. Ulteriore documentazione fornita dal barone, da cui si sarebbe dovuta riscontrare la natura servile e redditizia del territorio di S. Vito, era costituita da due antichi inventari, uno del 1440 ordinato dalla regina Maria, contessa di Lecce, e l’altro del 1489 ordinato dal principe Federico secondogenito di Ferdinando I. Il primo documento – secondo i commissari esaminatori – non poteva considerarsi un vero e proprio inventario, poiché conteneva un ristretto notamento delle rendite di San Vito e Carovigno. Da esso si evinceva però che i due territori fossero decimabili (foll. 891 – 922 vol. 2). Il secondo inventario invece, «formato con tutta distinzione e solennità», rivelava le decime e le altre prestazioni prediali e personali esistenti sull’intero territorio. Al contrario i documenti forniti dall’università per dimostrare la sua natura demaniale furono ritenuti «deboli e claudicanti» in quanto da essi non si evinceva nessuna prova di dominio ed antico possesso. La Commissione quindi riconobbe all’ex barone il diritto di esigere la decima sulle vettovaglie, sul vino e sulle olive, con eccezione della decima sul prezzo degli erbaggi, sul ciavarro e sulla munta dei latticini, stabilendo il divieto di deviazione delle acque 306 Ivi, p. 120. Il ministro dell’Interno al sig. Acclavio. 223 STEFANO VINCI delle pubbliche fogge pur potendo servirsi del suo diritto sulla foggia di sua proprietà307. 3.23. Sava Il comune di Sava lamentò dinanzi alla Commissione feudale numerosi abusi ancora esercitati dal suo ex barone sig. Giuseppe de Sinno: chiedeva infatti che fosse dichiarata l’abolizione della decima di prezzo; della decima dei frutti e di tutte le vettovaglie per mancanza di titolo; del diritto angarico di pascere e legnare nei territori appadronati; della mungitura transatta per carlini 6 per ogni cento pecore o capre; della fida di carlini 2 a bove; del vassallaggio di carlini 2 a famiglia308. Per dirimere la questione, la Commissione prese in esame «l’assento interposto alla vendita di Sava, Agliano e Pasano del 1454, ov’è parlato di decima di vettovaglie e vino mosto»; il relevio del 1550 in cui risultavano «notati» esclusivamente i generi del grano, orzo e fave. Dall’esame di tali documenti rilevò che gli unici generi decimabili a Sava Agliano e Pasano fossero soltanto il grano, l’orzo, le fave e il vino mosto e quindi solo su tali generi sarebbe stata consentita l’esazione della decima da parte dell’ex feudatario. Considerò poi che all’ex feudatario de Sinno non potesse competere alcun diritto di pascolare o di legnare nei territori tanto aperti che chiusi dei particolari dopo la pubblicazione delle leggi eversive della feudalità, così come gli era vietata la decima del prezzo, la mungitura, la fida e il vassallaggio espressamente aboliti dal Real Decreto 16 ottobre 1809309. Inoltre la Commissione – sulla base del fatto che 307 Bollettino n. 5/1809, p. 190. Sentenza n. 24 del 26 maggio 1809. Sull’argomento cfr. A. CHIONNA, Le controversie tra l’università di San Vito dei Normanni e l’ex feudatario, in «L’Idomeneo» n. 8/2006, pp. 277-290. 308 Bollettino n. 8/1810, p. 413. Sentenza n. 65 del 16 agosto 1810. Tra ‘l comune di Sava e suoi aggregati di Agliano e Pasano e l’ex barone sig. Giuseppe Sinno. Nella lite intervenne anche la sig.ra Marianna lo Monaco che prendeva dall’ex feudatario sig. de Sinno la restituzione di ducati 369 esatti per decima di prezzo oltre alle spese della lite; e dal duca Majo la restituzione di ducati 335 di deposito liberato per lo stesso oggetto. La Commissione ritenne che avendo la sig.ra lo Monaco ritenuto sul prezzo di ducati 14.000 la somma di ducati 1500 per cauzione della decima del prezzo – somma che avrebbe dovuto pagare a Giuseppe de Sinno – non si poteva ritenere nessun danno per fatto del venditore per cui la sua azione non poteva aver luogo. 309 Decreto 16 ottobre 1809, cit., art. 3: «Resta vietato insieme colla decima 224 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... l’art. 6 dello stesso Real Decreto non riconosceva nella provincia di Lecce che i soli censi costituiti con pubblici strumenti310 – ritenne legittimi i soli censi costituiti con pubblici strumenti di concessioni, purché non fossero esatte decime e canoni allo stesso tempo, altrimenti sarebbe stato conservato un solo peso a scelta del feudatario311. 3.24. Torricella La domanda avanzata dal comune di Torricella era diretta al riconoscimento del diritto, vantato nei confronti del duca di Canosa, di essere mantenuta nel possesso di legnare e pascere negli ex feudi denominati Montemoresco, Pescorutico e S. Giusta a titolo di antico affitto per l’annua prestazione di ducati 200: copiosa fu la documentazione prodotta dinanzi alla Commissione che si trovò a valutare una questione assai controversia in virtù del fatto che preesisteva tra le parti una convenzione risalente al 1698, secondo cui l’università veniva mantenuta nell’esercizio di detti usi a titolo di fida per la stessa prestazione annua. Con decreto del S.C. del 1704 fu ordinato però che non si tenesse più conto di detta convenzione e che al barone fosse riconosciuto il diritto di esigere dall’università ducati 200 per i suddetti usi. Ancora l’università produsse un documento successivo al 1704 con cui rinunciava all’antico affitto, cui fece seguito il decreto del S.C. col quale fu ordinato di non molestarsi l’università per la denotata prestazione. La Commissione decise di assolvere il duca di Canosa dalla domanda dell’università e cittadini di Torricella di esercitare gli usi civici nell’ex feudo di Montemoresco, “o dell’erba ogni diritto di fida, ogni esazione di erbatica, carnatica, giornate di latte, e di ogni prestazione sugli animali e su’ loro prodotti, sotto qualunque titolo esse siesi finora esatte». Art. 5: «Resta vietata l’esazione delle decime e di ogni rata di prezzo nell’alienazione di tutti i fondi anche decimati. Le contrattazioni saranno da oggi innanzi libere da ogni diritto, qualunque sia il titolo sotto il quale sia stato esatto o anche convenuto». 310 Ivi, art. 6: «Restano abolite tutte le esazioni finora fatte sotto il nome di stagli, di affida di ragioni. Resta anche abolita ogni esazione di censi, così in generi come in danaro, che non nasca da concessioni contenute in pubblici strumenti, o che non sia autorizzata da un giudicato della commissione feudale». 311 Sul punto la Commissione feudale stabilì che per le decime e per i censi dovessero eseguirsi in favore dei reddenti le leggi della commutazione e del riscatto. Ivi, p. 416. 225 STEFANO VINCI pur di legnare e pascerci a titolo di pretesa fida”. Venne riconosciuto all’università il diritto di esercitare i pieni usi civici negli ex feudi di S. Giusta e Pescorutico, mentre la fida degli animali dei forestieri si sarebbe dovuta dividere fra l’università e il barone312. Ad adire la Commissione feudale vi erano stati anche privati cittadini: il sig. Pietro Mezio lamentava che la duchessa di S. Pietro in Galatina si astenesse dal chiedere l’erbatica e la carnatica per l’erba, che gli animali dei fratelli Giuseppe e Francesco Mezio pascolavano nei propri fondi, «contro di ogni ragione civile e naturale». La Commissione provvide enunciando un principio di carattere generale: dichiarò che tutti i fondi posseduti dai particolari nel territorio del menzionato ex feudo di Galatina, benché decimabili, dovessero essere esenti dalla prestazione dell’erbatica e della carnatica e che fosse consentito all’ex feudataria esigerla solamente dalle greggi che pascolavano nei fondi di suo pieno dominio e nei demani feudali addetti a pascolo dai forestieri, salvo l’uso civico in beneficio dei cittadini anche per causa di commercio tra loro313. 4. Conclusioni Dal quadro fin qui delineato emerge con chiarezza quanto la feudalità fosse ben radicata nei comuni della Terra d’Otranto e quanto fosse difficile eliminare in via giudiziaria gli abusi e le usurpazioni da parte degli ex baroni che continuavano a pretendere dalle popolazioni quei diritti ormai a loro non più riconosciuti. Nonostante le numerose sentenze emanate dalla Commissione feudale – quantomeno con riferimento a quelle liti che i Comuni ebbero il coraggio di sollevare – la posa in opera delle decisioni di questo Tribunale non 312 Bollettino n. 12/1808, p. 92. Sentenza n. 14 del 15 dicembre 1808. Sugli altri capi di gravezze la sentenza stabilì che i coloni di Torricella fossero mantenuti nel possesso in cui si trovavano dei fondi colonici, e che fossero reintegrati nel possesso tutti coloro che avessero provato di essere stati espulsi senza giusta causa, salvo il pagamento all’ex barone le prestazioni medesime che avevano fin ad ora corrisposto a tenore del solito. Il barone doveva altresì astenersi di esigere la fioda per gli animali dei coloni, che s’intromettevano nel fondo di Montemoresco per il trasporto dei generi nel tempo della semina e della raccolta. 313 Bollettino n. 1/1809, p. 67. Sentenza n. 6 del 11 febbraio 1809. 226 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... fu certamente automatica, come si è evinto dalle difficoltà incontrate dal Commissario ripartitore per la Terra d’Otranto, Domenico Acclavio, a cui si deve il merito di aver cercato di rimuovere con mano ferma i molti ostacoli che si frapponevano a livello locale all’attuazione dell’eversione della feudalità. A testimonianza della difficile realtà feudale incontrata in questa provincia, lo stesso Acclavio redasse una analitica relazione inviata il 22 ottobre del 1809 al ministro della Giustizia Giuseppe Zurlo, in cui raccolse le osservazioni maturate durante la sua attività nella Provincia314. Si legge nell’incipit della Nota dei feudi decimali della provincia di Lecce: La provincia di Lecce consiste di 178 Terre abitate che racchiudono una popolazione di circa 300 mila abitanti. Varie cause sono finora concorse al suo depauperimento, e la principale senza dubbio l’esosa feudalità del territorio e la viziosa ripartizione delle contribuzioni fiscali per ragioni di fuochi, il che faceva si che non soggiacendo le vendite feudali al peso del Catasto il carico focolare si rovesciasse sopra i bracciali. Dietro l’emanazione della legge abolitiva della feudalità e del vecchio sistema daziario coteste cause sono totalmente sparite ed ora la tanto sospirata pace venisse a coronare i generosi sforzi del governo, la Provincia discaricandosi del suo superfluo, specialmente in olio, potrebbe in pochi anni elevarsi a quel grado di prosperità che è propria della ricchezza dei suoi prodotti delle opportunità della sua situazione e della industria dei suoi abitanti315. Alla descrizione delle decime feudali della Terra d’Otranto – che ripercorreva i dati raccolti nella relazione scritta dallo stesso Acclavio nel 1801, epoca in cui era stato incaricato della visita economica della Provincia – seguiva il giudizio sull’attuazione della legge eversiva della feudalità a seguito della istituzione della Commissione feudale, di cui la provincia di Lecce non risultava aver «gran fatto profittato di questo beneficio, poiché sino al presente ben poche so- 314 D. ACCLAVIO, Nota dei feudi decimali della provincia di Lecce, 22 ottobre 1809 in Biblioteca Nazionale di Napoli, sez. MSS, X-AA 30, fol. 12. Il documento si trova pubblicato in P. COCO, Le decime già feudali in Terra d’Otranto 1809, in «Rivista storica salentina», a. X (1915), pp. 24-33. 315 Ibidem. 227 STEFANO VINCI no le cause decise relativamente a prestazioni decimali»316. Osservava Acclavio che la legge feudale e la legge fondiaria avevano comportato un grave avvilimento nel prezzo dei generi determinato dalla mancanza del commercio, con la conseguenza dell’abbandono totale dell’agricoltura. Tale triste resoconto dava atto di una grave situazione di fatto – ben evidenziata da Tommaso Pedio – in cui versava la Provincia, che nonostante le leggi eversive non aveva granché beneficiato degli effetti della liberalizzazione dei beni fondiari soprattutto a causa della opposizioni dei grandi proprietari, spesso ex nobili, i quali avevano avversato con ogni mezzo la quotizzazione dei demani317. Ed anche dove la quotizzazione si era verificata, essa era andata a favorire i cittadini più facoltosi, spesso per esplicita rinuncia degli stessi contadini che – ove assegnatari di un appezzamento di terreno – non avrebbe avuto mezzi per vivere sino a quando la quota toccatagli in sorte non avesse dato il primo frutto, anche in considerazione del fatto che essi avrebbero dovuto corrispondere un canone enfiteutico e provvedere al pagamento della fondiaria. Non si era quindi verificata l’auspicata moltiplicazione della proprietà terriera e i contadini – ora privati anche degli usi civici, che spesso costituivano un importante mezzo di sostentamento – si trovavano ulteriormente gravati dalla forte crisi economica determinata dal blocco continentale e dalla crisi del commercio dell’olio che aveva reso ancora più asfittico il mercato della Terra d’Otranto. Tali elementi sfavorevoli impedirono di fatto l’espansione delle attività di quei ceti e di quelle forze che erano apparse in dinamica ascesa nella seconda metà del Settecento, che avrebbero potuto avere interesse a trasformazioni e miglioramenti agrari e che avrebbero potuto costituire i nuclei di una vera «borghesia» imprenditrice. Dati obiettivi che evidenziano le ragioni dell’irrigidimento della questione relativa al monopolio della terra che costituirà la radice del malcontento della popolazione contadina fino al Novecento. Scrive Piero Bevilacqua: «La quotizzazione delle terre, che non trasformò in modo profondo e non diede un vasto impulso capitalistico alle 316 Ibidem. T. PEDIO, Le Province Pugliesi alla fine del XVIII secolo nelle relazioni del Galanti, Soveria Mannelli. 317 228 I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli... campagne del Sud, lasciò però insoluta la questione demaniale: una vera e propria guerra sociale e giudiziaria che dissipò inutilmente grandi energie nella lotta per il monopolio della terra da parte degli agrari, e per il possesso di una quota, più o meno grande, da parte dei contadini»318. Infatti, le origini storiche della borghesia meridionale, l’essere nata e cresciuta all’ombra del feudo, l’aver avuto in retaggio senza lotte drammatiche l’eredità feudale, ne limitarono lo slancio, non le consentirono di diventare una classe pienamente egemone che sapesse offrire ed anche imporre prospettive di rapido e sicuro sviluppo. Il brigantaggio del Decennio francese, le agitazioni contadine del 1820-21, le occupazioni di terra e i larghi movimenti rurali del 1848 ricordavano e sottolineavano la precarietà di una situazione, l’instabilità di un equilibrio minacciato ad ogni crisi. Il brigantaggio post-unitario fu l’esito finale di questo corso storico. Non a caso la repressione si accompagnò ai primi effetti di una più rapida espansione capitalistica nelle campagne, in conseguenza di quella complessa serie di fatti che Villani esprime nella formula di «formazione del mercato unico nazionale»319. Se non cessarono occupazioni di terre e rivendicazioni di demani, il brigantaggio cessò per sempre, e il mercato nazionale ed internazionale del lavoro aprì la non meno penosa, ma almeno meno violenta, via dell’emigrazione. 318 319 P. BEVILACQUA, Storia della questione meridionale, Roma 1974, p. 7. VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, cit., p. 142. 229