La “Testa di Medusa”
Storia e attualità degli usi civici
Atti del Convegno di Martina Franca
5 ottobre del 2009
a cura di Francesco Mastroberti
CACUCCI
EDITORE
2012
STEFANO VINCI
Università degli Studi di Bari Aldo Moro – II Facoltà di Giurisprudenza
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione
dei demani nel regno di Napoli in età napoleonica
Municipalities and the end of feudalism. The allotments of domains
in the Kingdom of Naples during the napoleonic age
[Le difficoltà incontrate nel Regno di Napoli nella esecuzione della legge eversiva della feudalità spinsero il neo governo ad istituire nel 1807
una commissione speciale – nota con il nome di commissione feudale
– con l’incarico di risolvere tutte le questioni fra comuni ed ex baroni.
Lo spirito di questa legge richiedeva che gli organi municipali si rendessero parte diligente nel portare innanzi alla commissione tutte le
questioni connesse alle usurpazioni degli ex baroni. Molti furono però i
casi in cui i Comuni non ebbero la forza o i mezzi per reagire contro gli
ex baroni, molto spesso trasformatisi in nuovi proprietari, e comunque
ben arroccati all’interno delle stesse municipalità nelle cui amministrazioni continuavano a dimostrare forte ingerenza.
Parole chiave: usi civici, feudalità, Terra d’Otranto
The difficulties experienced in the Kingdom of Naples in the execution
of the law subversive of the feudal system led the new Government to
establish in 1807 a special commission – known as the feudal commission – charged with resolving all issues between municipalities and
former barons. The spirit of this law required that municipal authorities might prove due diligence in bringing to the feudal commission all
questions related to the usurpations of the former barons. Many were,
however, the cases in which the municipalities didn’t have the strength
or the means to react against the former barons, often turned into new
owners, and well entrenched within the same municipality in whose
administration continued to demonstrate strong interference.
Keywords: right of common, feudalism, Terra d’Otranto].
Sommario: 1. Ex baroni e nuovi proprietari: la trasformazione economica
nelle province; 2. L’azione propositiva dei comuni nella lotta contro
l’«appestato»; 3. Gli usi civici nella Terra dei Titani. 3.1. Avetrana; 3.2.
Calimera; 3.3. Castellaneta; 3.4. Faggiano; 3.5. Fragagnano; 3.6. Francavilla; 3.7. Ginosa; 3.8. Grottaglie; 3.9. Laterza; 3.10. Leporano; 3.11.
Lizzanello; 3.12. Lizzano; 3.13. Martina; 3.14. Massafra; 3.15. Montemesola; 3.16. Motola; 3.17. Palaggiano; 3.18. Palaggianello; 3.19.
117
STEFANO VINCI
Racale; 3.20. San Marzano; 3.21. San Pancrazio; 3.22. San Vito; 3.23.
Sava; 3.24. Torricella; 4. Conclusioni.
1. Ex baroni e nuovi proprietari: la trasformazione economica nelle
province
Dopo la conquista francese dell’Italia meridionale, il nuovo legislatore intese attuare un fitto programma riformistico nell’obiettivo
di demolire le strutture di antico regime, prime fra tutte la feudalità1. Sull’esempio della Francia, Giuseppe Bonaparte, salito al trono
di Napoli, ispirò le riforme ai principi della Costituzione dell’anno
VIII e agli istituti amministrativi previsti dalla legge 28 piovoso (17
febbraio 1800)2: furono così attuate nel Regno la liquidazione della
feudalità e di tutti i privilegi baronali da essa derivanti ufficialmente
sancita dalla legge del 2 agosto 18063 e la riforma del sistema ammi1
Sull’eversione della feudalità nel regno di Napoli cfr. D. WINSPEARE, Storia
degli abusi feudali, Napoli 1811; P. LIBERATORE, Della feudalità, suoi diritti ed
abusi nel regno delle Due Sicilie, della sua abolizione e delle conseguenze da
essa prodotte nella nostra legislazione, Napoli 1834; A. PERRELLA, L’eversione
della feudalità nel Napoletano: dottrine che vi preclusero, storia legislazione
e giurisprudenza, Campobasso 1910; A. MASSAFRA, Fisco e Baroni nel regno
di Napoli alla fine del secolo XVIII, in AA.VV., Studi storici in onore di G. Pepe, Bari 1969; P. VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari 1968;
A. M. RAO, L’amaro della feudalità. La devoluzione di Arnone e la questione
feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 1984; G. ALIBERTI, Potere e società
locale nel Mezzogiorno dell’800, Bari 1987; AA.VV., Signori, patrizi, cavalieri
nell’età moderna [cur. M.A VISCEGLIA], Roma-Bari 1992; A. SPAGNOLETTI, Storia
del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1997; A. MUSI, Il feudalesimo nell’Europa
moderna, Napoli 2007.
2
J. RAMBAUD, Naples sous Joseph Bonaparte, Paris 1911; J. GODECHOT, Les
institutions de la France sous la révolution et l’empire, Paris 1968; S. MANNONI,
Une et indivisible, I, Milano 1994; R. FEOLA, Accentramento e giurisdizione. Il
progetto amministrativo nel primo ottocento napoletano, in «Storia e diritto», II,
Napoli 1989; E. DI RIENZO, Neogiacobinismo e movimento democratico nelle rivoluzioni d’Italia (1796-1815), in Studi storici, XLI, 2000; F. BARRA, Il decennio
francese nel Regno di Napoli (1806-1815). Studi e ricerche, Salerno 2007; A. DE
FRANCESCO, Da Brumaio ai Cento giorni. Cultura di governo e dissenso politico
nell’Europa di Bonaparte, Milano 2007.
3
Legge 2 agosto 1806 abolitiva della feudalità (in Bollettino ufficiale delle
leggi e decreti del regno di Napoli (=BLD), Napoli Stamperia Simoniana 1806, II,
legge n. 130). Art. 1: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte
118
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
nistrativo e finanziario4 – attraverso la promulgazione delle leggi 8
agosto 18065, 18 ottobre 18066 e 20 maggio 18087.
L’eversione della feudalità attuata nel Regno lasciava ai baroni il
diritto di proprietà civile, depurato da ogni potestà pubblica, sui loro
fondi dei quali – contrariamente a quanto avvenne in Francia8 – non
furono espropriati9. Scrive Winspeare: «A differenza delle francesi, le leggi eversive della feudalità nel regno di Napoli […] hanno
serbato agli ex-baroni tutto quello che essi possedevano per domile giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque, che vi sieno stati annessi,
sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili».
4
Sulla recezione del sistema amministrativo napoleonico a Napoli cfr. A. LUCARELLI, La Puglia nel Risorgimento, dalla rivoluzione del 1799 alla restaurazione
del 1815, v. III, Trani 1951; G. LIBERATI, L’organizzazione amministrativa, in Atti
del III Convegno sul Risorgimento in Puglia, Bari 1983, pp. 89-182; A. DE MARTINO, La nascita delle intendenze. Problemi dell’amministrazione periferica nel Regno di Napoli. 1806-1815, Napoli 1984; F. MASTROBERTI, Pierre Joseph Briot. Un
giacobino tra amministrazione e politica (1771-1827), Napoli 1998; A. MUSI, Le
città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli 2000; F.E. D’IPPOLITO, Comunicare
e governare. Considerazioni sulla «geografia amministrativa» del regno di Napoli tra antico e nuovo regime, in «Archivio Storico per le Province Napoletane»
(ASPN), CXXII, 2004, pp. 409-40; C. CIANCIO, Riforme istituzionali, regole e compromessi. Il governo della capitale nel Regno di Napoli durante il decennio napoleonico, in «Archivio Storico del Sannio», a. XII (2007), n.s., n. 3; AA.VV., Il governo
della città. Il governo nella città. Le città meridionali nel decennio francese [cur.
A. SPAGNOLETTI], Atti del convegno di studi (Bari 22-23 maggio 2008), Bari 2009.
5
Archivio di Stato di Napoli (=ASNA), Decreti originali, vol. II, nn. 266 e 267.
6
ASNA, Decreti originali, III, n. 426.
7
ASNA, Decreti originali, XV, n. 877.
8
J. PH. LÉVY, Histoire de la propriété, Paris 1972; F. MONNIER, Propriété in
Dictionnaire Napoléon, sous la direction de J. Tulard, Paris 1989; J. SOLÉ, Storia
critica della Rivoluzione francese, ed. it., Firenze 1989; F. BUCHE – S. RIALS – J.
TULARD, La Rivoluzione francese, Roma 1994; A. CAVANNA, Storia del diritto
moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, II, Milano 2005, p. 462 SS;
A. COBBAN, La Rivoluzione francese, Roma 1994; A. FORREST, La Rivoluzione
francese, ed. it., Bologna 1999; G. WESENBERG – G. WESENER, Storia del diritto
privato in Europa [cur. P. CAPPELLINI e M.C. DALBOSCO], PADOVA 1999; D.M.G.
SUTHERLAND, Rivoluzione e controrivoluzione: la Francia dal 1789 al 1815, ed.
it., Bologna 2000.
9
Legge 2 agosto 1806, cit., art. 15: «I demani che appartenevano agli aboliti
feudi resteranno agli attuali possessori. Le popolazioni egualmente conserveranno
gli usi civici, e tutti i diritti che attualmente posseggono su de’ medesimi, fino a
quando di detti demani non ne sarà con altra nostra legge determinata e regolata
la divisione, proporzionata al dominio e diritti rispettivi. Intanto espressamente
rimane proibita qualunque novità di fatto».
119
STEFANO VINCI
nio fondiario, anche feudale, ed hanno soltanto abolito tutto ciò che
aveva origine da personalità e da giurisdizione»10. L’obiettivo da realizzare a Napoli non voleva essere, infatti, quello di spogliare i baroni, ma di affermare i diritti della sovranità ed il nuovo concetto di
proprietà individuale, attraverso – scrive Villani – «il riconoscimento e il consolidamento dei suoi diritti preminenti e assoluti contro i
vincoli feudali che l’involvevano, la legavano al regime comunitario, ne ostacolavano la libera circolazione»11. Per raggiungere queste
finalità, sarebbe stato necessario abolire il regime di giurisdizione
speciale e privilegiata che caratterizzava il possesso feudale: questa
operazione era la premessa di ogni altra riforma, della perequazione
tributaria, del riordinamento amministrativo, dell’uguaglianza formale dinanzi alle leggi. La breve relazione che accompagnava la legge eversiva esponeva chiaramente questi scopi fondamentali: «per
stabilire un sistema uniforme, giusto e ben regolato per la percezione
dei tributi, conviene abolire la feudalità e togliere la differenza di
beni di diversa natura e tanti rapporti vincolanti che affliggono lo
Stato, assicurando ai baroni la piena proprietà di ciò che posseggono
ed indennizzandoli de’ dritti che perdono»12.
Nell’ottica del legislatore, l’estirpazione della feudalità avrebbe
dovuto portare ad un grande incremento della proprietà privata con
notevoli ripercussioni nella società meridionale: essa avrebbe determinato innanzi tutto la divisione dei demani feudali tra gli ex baroni,
trasformatisi in proprietari di una quota dei vecchi demani non più
soggetti agli usi civici13, e i comuni, ai quali era affidato il possesso della quota destinata ad essere quotizzata per essere assegnata in
10
Conclusione del signor Winspeare, Regio Procuratore Generale nella causa
tra il comune di Cassano e il Signor Marchese Giuseppe Serra, in Bollettino delle
sentenze emanate dalla Suprema commissione per le liti fra i già Baroni ed i comuni, Napoli tip. Trani 1810, n. 3, p. 555.
11
P. VILLANI, Mezzogiorno fra riforme e rivoluzione, Bari 1973, p. 203.
12
ASNA, Consiglio di Stato, 1806-1815, vol. 70, fasc. 1.
13
Decreto 8 giugno 1807, cit., art. 4: «Coloro che diverranno possessori delle
porzioni derivanti dalla ripartizione resteranno pieni, liberi, ed assoluti padroni
delle proprietà loro toccate, dimodochè, ad eccezione dell’annua prestazione, secondo ché verrà detto in appresso, goderanno dell’intera facoltà di disporne come
meglio loro aggrada, o coll’alienarle, o darle in affitto, o con coltivarle, e riservarle
al solo uso proprio, chiudendole, senza che alcuno possa impedirglielo, e senza
che altri possa vantarsi, o esercitarvi, sotto qualunque pretesto, niuno dei pretesi
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I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
enfiteusi ai comunisti, ossia ai titolari dell’esercizio degli usi civici
non più consentiti sui vecchi demani feudali perché costituenti un
ostacolo all’incremento dell’agricoltura. Inoltre la nuova legge, assoggettando al diritto comune i feudi, non solo li avrebbe colpiti con
l’imposta fondiaria, ma avrebbe reso possibile e probabile il loro
spezzettamento attraverso le vicende successorie.
Stabilito che il titolo nobiliare fosse trasmissibile in perpetuo ai
discendenti con ordine di primogenitura e nella linea collaterale sino al quarto grado14 e riconosciuta la piena proprietà del territorio
costituente il feudo non più gravato dall’adoa e dal relevio15, questo
era destinato a divenire bene allodiale dell’ultimo barone e, come
tale, soggetto senza alcuna distinzione, a tutti i tributi gravanti sulla
proprietà immobiliare16. Aboliti, inoltre, senza alcuna indennizzazione tutti gli oneri di lavoro e prestazioni coattive aventi carattere
vessatorio ed oppressivo che, intesi come angarie17 e perangarie18, i
possessori dei feudi per qualsivoglia titolo solevano riscuotere dalle
popolazioni o dai particolari cittadini, abolite ancora tutte le prestazioni personali19 e non più riconosciuti i diritti proibitivi di cui i baroni hanno sempre abusato20, la legge 2 agosto 1806 prevedeva che
diritti o usi civici di pascere, acquare, legnare, pernottare o altri simili, sia in tempo
che i terreni si trovano seminati o che non vi penda frutto, sia dopo la raccolta».
14
Legge 2 agosto 1806, cit., art. 3: «La nobiltà ereditaria è conservata. I titoli
di principe, di duca, di conte, e di marchese legittimamente conceduti, rimangono
agli attuali possessori, trasmissibili a’ discendenti in perpetuo, con ordine di primogenitura, e nella linea collaterale sino al quarto grado».
15
Ivi, art. 4: «Il diritto di devoluzione a favore del fisco rimane estinto, come
il peso dell’adoa, del relevio, del jus tapeti, e del quindennio. I creditori delle partite di adoe alienate, saranno creditori del pubblico Tesoro».
16
Ivi, art. 5: «I fondi e rendite finora feudali saranno, senza alcuna distinzione, soggetti a tutti i tributi».
17
Scrive G. SAVOIA, Raccolta delle leggi decreti rescritti e ministeriali sull’abolizione della feudalità e sulla divisione de’ demani, Foggia 1881, p. 19 n. 1: «Tra gli
altri diritti che esercitavansi dai Baroni, vie erano le angarie e perangarie. Le angarie
consistevano nell’obbligo di prestare servizi personali vivi a spese del padrone».
18
La perangaria era la prestazione eseguita senza alcun compenso. AA.VV.,
La questione demaniale in Terra d’Otranto nel XIX secolo, Lecce 1984, p. 180.
19
Ivi, art. 6: «Restano abolite, senza alcuna indennizzazione, tutte le angarie,
le parangarie, ed ogni altra opera o prestazione personale, sotto qualunque nome
venisse appellata, che i possessori dei feudi per qualsivoglia titolo soleano riscuotere dalle popolazioni, e da’ particolari cittadini».
20
Ivi, art. 7: «Tutti i diritti proibitivi restano egualmente aboliti senza indenni-
121
STEFANO VINCI
gli usi civici restavano in vita – pur essendo destinati ad essere soppressi – così come tutti i diritti che le popolazioni o i privati cittadini
possedevano sui territori costituenti il feudo in attesa di regolarne la
divisione proporzionata al dominio ed ai rispettivi diritti21.
Fu altresì disposto che al possessore del feudo fossero sottratti
i diritti giurisdizionali, in quanto riconosciuti di prerogativa dello
Stato cui spettavano i proventi derivanti dall’esercizio di tali diritti:
in attesa di regolare meglio la materia, le università furono delegate
ad esercitare i diritti di bagliva, portolania, di zecca dei pesi e delle
misure, di scannaggio, di piazza e di tutte le giurisdizioni già esercitate dai baroni22. Rimanendo salvi i diritti acquisiti dagli enfiteuti,
da chi godeva di colonia perpetua a cui erano equiparati coloro che
avevano in affitto il terreno da oltre dieci anni23 e dai naturali che vi
tà. A’ soli possessori, che esibiranno o un’espressa concessione per titolo oneroso,
o una compra fatta dal fisco, o un giudicato definitivo a loro favore, sarà data una
indennizzazione corrispondente, salve le ragioni a’ possessori di diritto proibitivo
convenzionale per una indennizzazione contro le Comuni, da esperimentarsi nel
Tribunale competente. Sono per ora conservati quei diritti proibitivi, che le università del regno hanno imposti volontariamente a se stesse, e loro cittadini, per
contribuir colla loro rendita a’ pubblici pesi; e ciò fino a che non siasi stabilito altro
modo di soddisfarli».
21
Ivi, art. 15.
22
Ivi, art. 14: «Di tutte le giurisdizioni e diritti di portolania, bagliva, zecca
di pesi e misure, scannaggio e simili, possedute sinora da molte università del
regno, ne sarà fino al nostro sovrano ordine conservato da esse l’esercizio. Quelle
possedute sin da ora dai possessori dei feudi saranno anche date alle rispettive
università, che ne terranno l’esercizio nel modo medesimo, e ne pagheranno a
titolo di annualità quella somma, che i possessori attualmente ne percepiscono.
Il capitale potrà essere affrancato alla ragione del cinque per cento. Le università
che crederanno di avere ragione su tali corpi potranno sperimentarle nei tribunali
competenti, senza impedirsi il pagamento».
23
Partendo dal presupposto che «il diritto de’ coloni perpetui è un diritto sacro e inviolabile acquistato sulle terre per averle – da oltre dieci anni – fecondate
col sudore delle loro fronti» (Supplemento del Bollettino delle Sentenze emanate
dalla Suprema commissione per le liti fra i già Baroni ed i Comuni, vol. 14, Napoli tip. Trani 1841, p. 435. Nota 2 aprile 1811 del Procuratore Generale della
Commissione feudale al ministro dell’Interno) e che «non è utile per l’agricoltura
il distruggere tutte le migliorie che i cittadini particulari avessero potuto fare nel
territorio comune» (Bollettino Sentenze, 1809, XI, p. 34. Sentenza n. 12 del 2 novembre 1809), il legislatore riconobbe al colono «a lungo termine o perpetuo», ma
non a quello temporaneo, il diritto di «essere mantenuto nel possesso della terra»
affidatagli con contratto di affitto o colonia per almeno dieci anni con l’obbligo di
122
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
esercitavano gli usi civici, la legge 1 settembre 180624 fissò i principi
generali per la ripartizione dei demani feudali o ecclesiastici, promiscui e comunali25: in particolare fu stabilito che i demani assegnati
agli ex baroni sarebbero rimasti «proprietà libera di coloro a’ quali
toccheranno»26 mentre i terreni assegnati alle università sarebbero
stati «ripartiti tra’ cittadini col peso della corresponsione di un annuo
canone proporzionato al giusto valore delle terre»27. Tra gli aventi
diritto alle quote dei demani universali erano compresi tutti coloro
i quali erano titolari di usi civici e, quindi, anche «quelli che come
baroni vi avevano l’uso civico»28.
La materia fu disciplinata successivamente dai decreti promulgati l’8 giugno 180729 e il 3 dicembre 180830: ribadito il principio
«corrispondere al padrone del fondo un canone fisso e determinato». Supplemento
Bollettino, cit., vol. 7, 1837, p. 42 ss. Rescritto 21 ottobre 1807 di spiegazione
agli articoli 10 e 13 del decreto degli 8 giugno 1807 del ministro di Giustizia agli
Intendenti delle singole province.
24
Legge 1 settembre 1806 sulla ripartizione de’ demani (BLD, 1806, II, legge
n. 185).
25
Dalla prevista ripartizione erano esclusi i «fondi burgensatici degli ex baroni, i
patrimoniali delle chiese e delle università e gli allodj de’ particolari che, per non essere chiusi trovansi soggetti in certo tempo dell’anno agli usi civici. Questi – precisa
il legislatore – debbono assolutamente restare esclusi perché proprietà libere di coloro
cui appartengono e di natura diversa affatto dalle demaniali». Escluse dalla prevista
ripartizione erano anche le proprietà che le «università, gli ex baroni e particolari tengono difese per un certo tempo ad uso di pascolo o di semina» seppure in altri tempi
soggette al pascolo comune oltre, naturalmente, le difese propriamente dette, ossia
«quei territori chiusi in tutto l’anno in cui niuno in niun tempo può esercitare diritti di
usi civici». Rescritto del 14 settembre 1807 del ministro di Giustizia Miot agli Intendenti delle Province di spiegazione agli articoli 1 e 3 del decreto 8 giugno 1807 per la
ripartizione dei demani. Supplemento Bollettino, cit., vol. 7, 1837, p. 33 ss.
26
Legge 1 settembre 1806, cit., art. 1.
27
Ivi, art. 4.
28
Ivi, art. 5.
29
Decreto n. 150 del 8 giugno 1807 sulla ripartizione dei Demani (BLD,
1807, I). L’art. 1 del decreto chiariva che «sotto il nome di demani o territori demaniali s’intendono compresi tutti i territori aperti culti, o inculti, qualunque ne sia
il proprietario, su’ quali abbiano luogo gli usi civici, o la promiscuità». Il rescritto
del 14 settembre 1807, cit., chiarì che con l’espressione «qualunque ne sia il proprietario» doveva intendersi che «i demani appartenenti agli ex baroni, o a chiese,
i promiscui ed i comunali dovrebbero ripartirsi».
30
Decreto 3 dicembre 1808. Istruzioni per l’adempimento della Legge 1 settembre 1806 e del Decreto n. 223 del 8 giugno 1807 sulla divisione dei Demani.
(BLD, 1808, II).
123
STEFANO VINCI
secondo cui «le persone tra le quali dovrà effettuarsi la ripartizione
de’ terreni che non si trovano attualmente posseduti da’ cittadini,
saranno quei naturali de’ Comuni rispettivi che rappresentavano ed
esercitavano sul demanio i diritti degli usi civici», che nel decreto 8
giugno 1807 venivano indicati come «comunisti», il legislatore tenne a precisare che tra gli aventi diritto alle quote dei demani universali dovessero essere sempre preferiti i «non possidenti» ed i «possidenti minori»31. Al fine di rendere concreta e rapida la divisione dei
demani, il decreto 3 dicembre 1808 stabilì che gli Intendenti dovevano destinare in ciascun circondario o distretto, uno o più soggetti
istruiti dell’economia agraria della propria provincia, «probi e scevri
da qualsivoglia interesse o rapporto, che potesse collidere coll’operazione delle divisioni»32. Questi agenti di circondario o distrettuali
avrebbero avuto il compito di promuovere l’esecuzione della legge
in tutti i luoghi del circondario loro assegnati, eccetto che nella propria patria: destinatari della loro funzione promotrice sarebbero stati
i decurionati, incaricati di «rappresentare l’università nella divisione
de’ demani ex-feudali ed ecclesiastici», i quali si sarebbero dovuti
riunire ad ogni richiesta dell’agente distrettuale a partire dal mese di
dicembre del 1808 e lavorare «senza alcuna interruzione» fino a che
non avessero reso conto all’Intendente della provincia di quanto gli
fosse stato commesso33.
Di fatto, però, le operazioni di divisione non trovarono così celere
esecuzione come il legislatore avrebbe voluto e ciò a causa dell’ingerenza da parte dei ricchi borghesi ed ex feudatari che avevano interesse a che queste terre salde fossero ancora mantenute indivise34.
31
Decreto 8 giugno 1807, cit., art. 12.
Decreto 3 dicembre 1808, cit., art. 4.
33
Ivi, art. 6. In ordine alla procedura da seguire, l’art. 7 del decreto 3 dicembre
1808 previde che «La divisione delle terre si farà per arbitramenti pronunziati dai
periti, o da altre persone, nelle quali le parti ripongano la loro fiducia, salvo le
eccezioni qui appresso soggiunte. L’arbitro per parte de’ Comuni sarà scelto da’
rispettivi decurionati. L’agente distrettuale metterà in mora gli altri interessati a
nominare ciascuno il suo, ed a nominare di consenso un terzo arbitro, che dirima la
parità che mai potesse farsi dai primi due. Dove essi non facciano la nomina e non
convengano nel terzo arbitro, il diritto di nominare si devolverà al Sottintendente
del distretto».
34
Cfr. T. PEDIO, Baroni, galantuomini e contadini nell’età moderna, Bari
1982, p. 210.
32
124
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
Infatti, poiché su queste terre tutti i naturali – ricchi proprietari o
impossidenti, galantuomini o contadini – potevano ancora esercitare gli usi civici sino alla quotizzazione ed alla assegnazione delle
singole quote agli aventi diritto, a queste operazioni si opponevano
coloro i quali avevano interesse a sfruttare queste terre incolte per il
pascolo dei propri animali. Il ritardo delle quotizzazioni delle terre
demaniali non poté che favorire le usurpazioni da parte dei ricchi
proprietari terrieri a danno dei braccianti e dei contadini poveri. I
ricchi proprietari, che disponevano di pascoli demaniali, fecero in
modo di divenire assegnatari degli stessi terreni in fida, escludendo
chiunque altro avesse chiesto di usufruire di queste terre o anche, il
più delle volte, usurpando le terre migliori sulle quali avanzavano
pretesi diritti di proprietà. Gran parte di questi demani, nell’uno o
nell’altro caso, furono quindi sottratti alla disponibilità dei comuni grazie anche alla complicità degli amministratori municipali che
avevano consentito di usurpare buona parte dei demani destinati ai
meno abbienti. Il favore ottenuto dai decurionati derivava dal fatto
che i suoi membri erano ora costituiti soltanto dai cittadini più facoltosi, come previsto dalle novelle leggi dell’8 agosto 180635 e del
18 ottobre 180636 che avevano riformato le modalità di accesso alle
municipalità37. Infatti, l’amministrazione dei comuni non veniva più
affidata ad uomini eletti nei parlamenti cittadini, bensì ad amministratori nominati dai rappresentanti del potere centrale nelle province (intendenti e sotto intendenti) e scelti tra quei cittadini aventi un
determinato censo38: maggiore era il numero degli abitanti dell’uni35
ASNA, Decreti originali, vol. II, n. 266. Legge 8 agosto 1806.
ASNA, Decreti originali, vol. III, n. 426. Decreto 18 ottobre 1806.
37
Sull’argomento rinvio a S. VINCI, Dal parlamento al decurionato. L’amministrazione dei comuni del Regno di Napoli nel decennio francese, in «Archivio
Storico del Sannio», a. XIII (2008) n. 2, N.S., p. 189-218. Cfr. anche R. DE LORENZO, L’amministrazione centrale e periferica del Regno di Napoli durante il
decennio francese, in Un Regno in bilico. Uomini, eventi e luoghi del Mezzogiorno
preunitario, Roma 2001; A. MUSI, L’amministrazione locale dalla «Università»
di antico regime alla «comune» del decennio, in AA.VV. Il Principato Citeriore
tra Ancien Régime e conquista francese: il mutamento di una realtà periferica nel
Regno di Napoli [cur. E. GRANITO, M. SCHIAVINO, G. FOSCARI], Salerno 1993.
38
Scrive DE MARTINO, La nascita, cit., p. 108: «I comuni retti da amministratori eletti dagli antichi parlamenti cittadini furono sottoposti a controlli rigorosi del
governo. Mentre infatti la legge 8 agosto riconobbe nei parlamenti gli organi legit36
125
STEFANO VINCI
versità, maggiore sarebbe stata la rendita richiesta al proprietario per
poter aspirare a tale carica39. Ciò spiega perché non si poneva nessun
limite alle pretese possessorie dei ricchi che ottenevano facilmente
il benestare delle autorità costituite, in quanto essi stessi o persone a
loro legate da forti interessi economici, erano divenuti ufficialmente
arbitri della vita amministrativa locale. I comuni, infatti, amministratori di questi beni, anziché provvedere alla quotizzazione ed alla
loro assegnazione agli aventi diritto, concedevano in locazione ai
grossi proprietari terrieri parte e, a volte, gran parte dei demani in loro possesso, consentendo che i locatori li chiudessero all’uso civico
attraverso un utilizzo distorto della legge40. Le chiusure delle terre
di privato dominio erano state consentite con il decreto 3 dicembre
timati all’elezione degli amministratori comunali, questo orientamento iniziale fu
modificato siostanzialmente dopo poco tempo. Col decreto 18 ottobre, soppressi i
parlamenti, le amministrazioni municipali furono assoggettate ai controlli del Ministero dell’Interno in tutte le materie riguardanti le nomine degli amministratori e
la gestione delle finanze». VINCI, Dal parlamento al decurionato, cit.
39
La legge, infatti, stabiliva che per i comuni con popolazione fino a 3000
anime, i decurioni dovevano essere estratti a sorte tra i proprietari con una rendita
attuale non minore di 24 ducati; il doppio era richiesto per un numero di abitanti da
3000 a 6000 ed il quadruplo per le popolazioni più numerose di 6000 abitanti. Decreto 18 ottobre 1806, cit., art. 2, tit. I. Secondo DE LORENZO, Proprietà fondiaria,
cit., p. 289-320, la riforma comunale non comportò un cambiamento del ceto sociale fino ad allora protagonista della vita amministrativa, anche perché la norma
sulla composizione del decurionato, sono alcune modifiche alla legislazione tra il
1806 e il 1808 fissò come presupposto per l’iscrizione nelle liste degli eleggibili
alla carica di decurione e conseguentemente a quella di sindaco, un alto livello di
censo, più tardi attenuato. Abolito il sedile della nobiltà, la parte delle famiglie
patrizie che aveva aderito alla repubblica del ’99, assieme a personalità del ceto
civile, venne a ricoprire ruoli di primo piano durante tutto il governo francese.
Sull’argomento cfr. anche SICILIA, Cosenza: governo della città e governo nella
città, cit., p. 55.
40
Dal possesso all’usurpazione il passo fu breve: nel giro di pochi decenni i
contadini meridionali si videro negare l’esercizio degli usi civici anche su queste
terre che i possessori usurpavano trasformando il possesso in proprietà. Cfr. L.
BIANCHINI, Storia delle finanze del regno di Napoli, Napoli 1859, p. 473 ss; R.
TRIFONE, Feudi e demani. Eversione della feudalità nelle provincie napoletane,
Milano 1909, p. 173ss; V. RICCHIONI, Le leggi eversive della feudalità e la storia
delle quotizzazioni demaniali nel Mezzogiorno in AA.VV., Problemi dell’agricoltura meridionale, Bari 1953, p. 223ss; G. LANDI, Istituzioni di diritto pubblico del
regno delle Due Sicilie. 1815-1861, Milano 1977, p. 1059 ss; T. PEDIO, I moti contadini del 1848 nelle province napoletane, in «Classi e popolo nel Mezzogiorno
d’Italia alla vigilia del 15 maggio 1848», Bari 1979, p. 125s;
126
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
1808, che aveva previsto la possibilità di esentare in tutto o in parte dalla servitù del compascuo i propri fondi, purché questi fossero
chiusi con pareti, con fossate, con siepi, con altri argini continui, che
proibissero l’ingresso agli animali per tutto l’estensione del fondo, o
per quella parte che si sarebbe voluta chiudere41. Questa norma non
si sarebbe però dovuta applicare ai demani feudali, ecclesiastici e
comunali non ancora divisi.
La conseguenza di queste concessioni contra legem fu l’immiserimento delle già povere popolazioni rurali: l’eversione della feudalità introdotta dal legislatore francese non riuscì, quindi, a creare nel
Mezzogiorno la piccola proprietà contadina e a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori della terra che rimasero esclusi dalla quotizzazione dei demani a beneficio dei ceti più abbienti che avevano
la possibilità di disporre di danaro da investire nella terra42. Arricchitisi con l’amministrazione delle grosse proprietà allodiali e con
l’accorto collocamento usurario del danaro, i gentiluomini43 – che
già da tempo avevano cominciato ad investire i propri capitali nei
fondi che gli antichi baroni si erano affrettati a cedere (spesso nemmeno al miglior offerente) perché spaventati dal repentino mutare
degli eventi – entrarono finalmente in possesso di vaste estensioni
di terreno loro offerte a seguito dell’eversione della feudalità e della soppressione degli enti religiosi. E nella assegnazione delle terre
espropriate intervennero anche gli antichi capi rivoluzionari con disponibilità finanziarie derivanti dalle professioni liberali e dai remu-
41
Decreto 3 dicembre 1808, cit., art. 47. La norma disciplinava le affrancazioni della reciproca servitù del pascolo, che, secondo la consuetudine generale
del regno, avevano tutti i fondi aperti fra loro.
42
Scrive T. PEDIO, L’eversione della feudalità, in Il decennio francese in Puglia (1806-1815), Bari 1981, p. 80: «Dall’eversione della feudalità i contadini non
hanno certo tratto alcun vantaggio, né alcun utile. Erano poveri, oggi sono ancora
più poveri. Preoccupato soltanto di non irritare la nobiltà e la ricca borghesia provinciale, il legislatore ha ignorato i bisogni e le necessità dei contadini. Acuito dalla incomprensione della nuova classe dirigente che difende egoisticamente i propri
interessi, ha inizio per i contadini meridionali un periodo di fame e di miseria».
Cfr. U. CALDORA, Calabria napoleonica, Roma 1960.
43
L’espressione “gentiluomini” è utilizzata da A. GENOVESI, Ragionamento
intorno all’agricoltura in Opuscoli e Lettere familiari, Venezia tip. Alvisopoli
1827, p. 113; G. SAVARESE, Autobiografia, lettere ed altri scritti di A. Genovesi,
Milano 1962, p. 174.
127
STEFANO VINCI
nerativi impieghi ottenuti dal nuovo governo44. Allo stesso modo, le
terre degli enti religiosi soppressi incamerate dallo Stato non furono
destinate ai contadini45: il governo centrale, per far fronte alle spese
che gravavano sul bilancio dello Stato, mise in vendita queste terre
e soltanto per quelle sulle quali veniva esercitato l’uso civico riservò
una quota da assegnare ai contadini meno abbienti46. Ben afferma la
44
Scrive T. PEDIO, La Basilicata durante la dominazione borbonica, Matera
1961, p. 37: «In tal modo i nuovi governanti erano riusciti a legare alla terra anche
coloro i quali, nel 1799, avevano militato nella corrente radicale del movimento repubblicano, trasformando così in conservatori proprio quelli che durante la
Repubblica Partenopea avevano organizzato le forze popolari contro l’avanzata
sanfedista per l’attuazione di un radicale programma economico». Sull’argomento
cfr. A. SIMIONI, Le origini del risorgimento politico dell’Italia meridionale, Messina 1925; P. PIERI, Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, in ASPN,
n.s., a. XII (1926); N. CORTESE, Stato e ideali politici nell’Italia meridionale e
l’esperienza di una rivoluzione, Bari 1927; L. BLANCH, Il regno di Napoli dal 1801
al 1806, Bari 1945; B. CROCE, Storia del regno di Napoli, V ed., Bari 1958; ID, La
rivoluzione napoletana del 1799, VIII ed., Bari 1961; P. VILLANI, Mezzogiorno tra
Riforme e Rivoluzione, Bari 1962; ID., Feudalità, riforme e capitalismo agrario,
Bari 1968; A. M. RAO, L’ordinamento e l’attività giudiziaria della Repubblica
napoletana del 1799, in ASPN, XII-XCI (1974), P. 73-145; ID. – P. VILLANI, Napoli
1799-1815. Dalla Repubblica alla Monarchia Amministrativa, Napoli 1995; AA.
VV., L’albero della libertà a Taranto [cur. C. PETRONE] Taranto 1999; AA. VV.,
Siam liberi infine [cur. O. SAPIO], Taranto 1999; C. ALBANESE, Cronache di una
rivoluzione: Napoli 1799, Milano 1999; AA.VV., Napoli 1799 fra storia e storiografia: atti del convegno internazionale tenutosi a Napoli il 21-24 gennaio 1999,
Napoli 2002; A. COSCIA, La provincia di Lucera nella repubblica partenopea: il
1799 tra cronaca e storia nel meridione d’Italia, Ripalimosani 2005; W. HAMILTON, Dispacci da Napoli (1797-1799), Napoli 2006.
45
Sul mutamento delle stratificazioni sociali in relazione al possesso della
terra cfr. A.M. RAO, Temi e tendenze della recente storiografia sul Mezzogiorno
nell’età rivoluzionaria e napoleonica, in AA.VV., Il Mezzogiorno e la Basilicata
fra l’età giacobina e il Decennio francese, Atti del Convegno di studi (Maratea,
8-10 giugno 1990), Venosa 1992, p. 67-8.
46
P. VILLANI, La vendita dei beni dello Stato nel regno di Napoli (1806-1815),
Milano 1964. Ha osservato R. SICILIA: Cosenza: governo della città e governo nella città in AA.VV., Il governo della città. Il governo nella città. Le città meridionali
nel decennio francese [cur. A. SPAGNOLETTI], Atti del convegno di studi (Bari 2223 maggio 2008), Bari 2009, p. 55-6, che a seguito della soppressione degli enti
ecclesiastici, «le famiglie che se ne accaparrarono una quantità consistente furono
naturalmente quelle appartenenti al patriziato cittadino […] ma non mancarono
famiglie borghesi. […] Più diffusi furono gli acquisti tra i cittadini che poterono
usufruire della prerogativa di acquisire le case di loro abitazione nel centro urbano,
in quanto, alla vigilia della soppressione, per arginare i danni economici alla pro-
128
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
Assante: «Scomparso il feudatario e venduta gran parte della proprietà ecclesiastica i vantaggi erano stati avvertiti soltanto da pochi,
quelli cioè già ricchi abbastanza per comprare i beni messi in vendita. In pratica non si era creato un ceto di contadini indipendenti e
proprietari, lasciando pressoché immutata la situazione precedente:
pochi possidenti e stuoli di coloni e salariati»47. Anche coloro i quali
fossero riusciti, a seguito delle prime quotizzazioni, ad ottenere un
appezzamento di terreno in enfiteusi non avevano visto comunque
mutate le proprie condizioni economiche. Non disponendo di capitali necessari per affrontare le spese di produzione, il contadino assegnatario si era trovato nella impossibilità di conservare la quota a
lui assegnata. Quando non era stato costretto ad abbandonarla perché
improduttiva o a cederla ad un prezzo irrisorio al ricco proprietario,
dovette ricorrere all’usuraio per l’acquisto delle sementi per tirare
avanti fino al raccolto, il cui prodotto non era mai sufficiente per
liberarlo dai debiti. Per coltivare la terra e per difenderla dai propri
creditori, i contadini erano costretti ad emigrare nei periodi estivi
per prestare la propria opera nei lavori di mietitura e di trebbiatura il
cui corrispettivo, aggirantesi intorno ai due carlini giornalieri, pari al
prezzo di circa quindici chilogrammi di grano, permetteva loro di far
fronte, sia pure soltanto in parte, ai propri debiti che aumentavano
a causa di esosi interessi e che, alla fine non gli consentivano più di
conservare la terra. Nelle stesse condizioni del contadino assegnatario che non era riuscito a mantenere la terra ottenuta48, si trovavano
anche tutti i contadini delle province continentali del Mezzogiorno
d’Italia: non usufruendo più, come un tempo, degli usi civici che
fornivano loro parte dei mezzi di sussistenza e ridotto tale esercizio
soltanto sulla quota assegnata ai Comuni per essere quotizzata; non
essendo più consentito vendere censi agli enti ecclesiastici ed essendo gestiti i Monti Frumentari da individui che spesso aspiravano alle
prietà ecclesiastica, molti enbti religiosi avevano preferito cedere a censo i propri
immobili ai loro inquilini».
47
F. ASSANTE, Città e campagne nella Puglia del secolo XIX. L’evoluzione
demografica, Genéve 1974, p. 198.
48
CALDORA, op. cit., p. 171, scrive, con riferimento alla situazione della Calabria Ultra, che quasi tutti gli assegnatari avevano finito per alienare le quote demaniali per pochi carlini, o addirittura per scarse vettovaglie, in quanto, a causa della
mancanza di mezzi di coltivarla, di nessuna utilità risultava essere per loro la terra.
129
STEFANO VINCI
cariche per farne commercio49, i contadini erano ora costretti a ricorrere ai ‘galantuomini’ i quali prestavano volentieri piccole somme ad
alto interesse con la conseguenza che i beni del contadino, il quale
aveva difficilmente la possibilità di estinguere il suo debito alla scadenza, finivano presto col cadere nel possesso del creditore50. In tal
modo, nel giro di pochi anni, la piccola proprietà, e in particolare
quella contadina, scomparve assorbita nelle grandi proprietà.
La distribuzione delle terre demaniali ai contadini poveri, il grande disegno della formazione di una piccola proprietà coltivatrice
avrebbe richiesto, per avere successo, un profondo impegno non solo
politico, ma anche finanziario del governo, che era in quel momento
assolutamente impossibile. E di tali difficoltà il governo ne ebbe piena consapevolezza, tanto vero che, nell’ottobre del 1811, il ministro
Zurlo51 decise di interpellare intendenti e commissari ripartitori per
ottenere chiarimenti sulla lentezza e sulla scarsa domanda di quotizzazioni: «Io veggo bene che questa operazione ha bisogno di qualche
tempo ma io credo pure che vi siano altri ostacoli. I canoni fissati
in favore dei comuni, la contribuzione fondiaria e la mancanza di
49
PEDIO, La Basilicata, cit., pp. 76ss. Sul funzionamento dei Monti frumentari nelle province napoletane nella prima metà dell’Ottocento, quando «il capitale
di que’ monti s’avventurò per altre vie» cfr. G. FORTUNATO, I Monti Frumentari
nelle Province napoletane, in «Rassegna Settimanale», 21 marzo 1880, ed. def.
in Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, Bari 1911; G. MASI, I Monti Frumentari e
pecuniari in Provincia di Bari in AA.VV., Studi in onore di Amintore Fanfani, V,
Milano 1962, p. 341 ss.
50
PEDIO, L’eversione della feudalità, cit., p. 84; ID., Classi e popolo nel Mezzogiorno d’Italia alla Vigilia del 15 maggio 1848, Bari 1979, p. 314. All’avidità dei
galantuomini riuscivano a sfuggire soltanto i ricchi coltivatori diretti proprietari di
vaste estensioni di terra. Non essendo costretti a ricorrere all’usuraio per affrontare
le spese di produzione, questi ricchi massari accrebbero con l’usura il proprio patrimonio e, avviando i propri figliuoli verso il sacerdozio e verso le professioni liberali,
si inserivano gradatamente nel ceto dei galantuomini. ID., La Basilicata, cit., p. 36.
51
Su Giuseppe Zurlo cfr. L. BLANCH, Il regno di Napoli dal 1801 al 1806, Bari
1945; G. CAPONE, Elogio del conte G. Zurlo, Napoli 1832; L. GAROFALO, Giuseppe
Zurlo, Napoli 1932; P. PIERI, Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, in
ASPN, ns, a. XII (1926); G. SAVARESE, Ricordi su Giuseppe Zurlo, in «Annuario
dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea», II-III, Bologna
1938; P. VILLANI, Giuseppe Zurlo e la crisi dell’antico regime nel regno di Napoli, ibid., VII, Bologna 1955; F. E. D’IPPOLITO, L’amministrazione produttiva: crisi
della mediazione togata e nuovi compiti dello Stato nell’opera di Giuseppe Zurlo
(1759-1828), Napoli 2004.
130
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
mezzi per fare valere la terra, se non sono le sole, non saranno certamente le ultime cause della ripugnanza ad acquistare de’ fondi»52. Le
risposte provenienti dalle varie province offrirono un quadro generale delle cause del problema: alla opposizione dei ricchi allevatori e
proprietari, si aggiungeva la miseria in cui versavano i contadini che
non consentiva di affrontare le spese della coltura, del canone, della
fondiaria. In tal senso si era espresso l’intendente della provincia di
Capitanata Joseph Charron53:
Vi sono delle comuni dove il ceto degli indigeni trovasi nello stato
così misero che non ha il coraggio di divenire proprietario col peso di
pagare la fondiaria, il canone, ed altre spese comunitative, ed assumere
tanti altri obblighi annessi alla proprietà. Non mancano delle altre il di
cui demanio non è molto atto alla coltura, e piuttosto adatto al pascolo
degli animali. Esistono ancora delle altre ove i cittadini, inclinati per
abitudine alla pastorizia ed alla industria degli armenti non curano la
semina e l’agricoltura. Finalmente si trovano delle comuni ove dei cittadini influenti, possedendo delle industrie armentizie, mettono degli
ostacoli alla suddivisione e scoraggiscono gli aspiranti ad occupare le
quote […]. Un solo ostacolo potrebbe essere generale per tutti ed è il seguente. Dovendosi dare la terra ai non possidenti, questi senza i mezzi
necessari non potranno mai ridurle a coltivo. I terreni dei demani comunali per lo più sono saldi, incoltivi da anni e secoli, e perciò ingombri
di piante, spineti ed erbe nocive alla semina. Quindi ogni assegnatario,
52
ASNA, Carte Winspeare, fasc. 81, inc. 19. Circolare del 5 ottobre 1811.
Notizie biografie su Joseph Charron in G. CIVILE, Appunti per una ricerca
sulla amministrazione civile nelle province napoletane, in «Quaderni storici», 1
(1978), p. 240; T. NARDELLA, Lo sviluppo economico e industriale della Capitanata dal 1815 al 1852 in una relazione di Francesco della Martora, Lucera
1978, p. 34; A. VITULLI, Varietà di Storia della Capitanata, in «Rassegna di studi
dauni», aa. VII-VIII (1980-81), p. 20 e soprattutto DE MARTINO, La nascita, cit.,
p. 125: «Joseph Charron aveva ricoperto in Francia le cariche di presidente del
dipartimento della Marne e di prefetto della Sarre. Trasferito a Napoli per ordine
di Napoleone e nominato preside della provincia di Principato citra in sostituzione del vecchio Antonelli, che secondo Giuseppe Bonaparte non godeva, a causa
dell’età, di condizioni di salute tali da consentirgli “l’exercise actif” che la carica
comportava, ne diventò intendente. Trasferito all’intendenza di Abruzzo ultra non
fu sempre all’altezza del compito. La scarsa conoscenza del paese, le difficoltà di
ogni sorta incontrate e le continue lamentele rivolte al governo furono poi all’origine del suo trasferimento ad altra carica». Charron fu autore di un’ode intitolate
Le roi de Naples scritta in onore di Murat, tradotta dal Gatti.
53
131
STEFANO VINCI
nell’entrare in possesso della propria quota, richiama sopra di sé l’obbligo di pagare il canone e gli altri pesi pubblici, e al tempo stesso gli
sopraggiunge il bisogno di dissodare il terreno con grande spesa, senza
potere nel primo anno riportare alcun frutto, e questa difficoltà cresce
maggiormente quando si rifletta la scarsezza di numerario che si offre
ne’ tempi correnti54.
Quali erano gli espedienti adottati dai ricchi per accaparrarsi le
terre da assegnare, in costanza dell’espressa proibizione di alienazione delle quote? Valga l’esempio del generale Montigny, comandante militare nella provincia di Calabria Ultra, che aveva trovato
il modo di eludere il divieto, prendendo in fitto le terre dei quotisti
anziché comprarle. Lo Zurlo, informato del fatto nell’ottobre del
1813, presentò nel dicembre dello stesso anno un progetto di decreto
per estendere le disposizioni proibitive anche agli affitti, colmando quella che riteneva una evidente lacuna normativa55. Il caso del
generale Montigny non era il solo. Lo stesso Zurlo, nella relazione
che accompagnava il decreto, ricordava quanto avvenuto ad Ariano,
dove 112 quote erano venute nelle mani di soli tre proprietari. Ma il
Consiglio di Stato, nella seduta del 15 aprile 1814, respinse il progetto con la seguente motivazione:
Considerando che l’oggetto principale della divisione dei demani è
stato quello di creare nel regno un numero di proprietari che prima non
esisteva […] considerando che gl’individui suddetti, nell’affittare tali
quote, sia qualunque la durata dell’affitto, ne conservano sempre la proprietà, e che ciò posto con tali atti non si oppongono né all’oggetto della
divisione, né allo spirito del decreto del 21 dicembre 1808; è d’avviso
non essere luogo al progetto suddetto56.
In tal modo – scrive Villani – era stata ufficialmente sancita la rinuncia «al paternalistico progetto di ripartizione fondiaria o meglio se ne
riconosceva abbastanza trasparentemente il solo fine di favorire il tra-
54
ASNA, Carte Winspeare, fasc. 82, inc. 12. L’intendente di Capitanata a
S.E. il ministro dell’Interno, Foggia, 4 aprile 1812. Il documento si trova pubblicato in VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, cit., p. 106.
55
Ivi, fasc. 86, inc. 9.
56
Ibidem.
132
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
sferimento dei demani nella mani dei ricchi proprietari»57. In ogni caso
l’eversione della feudalità rappresentò il tramonto del vecchio assetto
fondiario grazie alla liberalizzazione sul mercato non solo delle terre
ex feudali, ma anche di quelle di appartenenza ai patrimoni degli ordini
religiosi58. Tali proprietà, seppur caddero principalmente nelle mani di
coloro che già possedevano cospicue fortune59, erano ambite con pari
intensità da tutte le classi sociali: «l’antica aristocrazia per ricostruire
una fortuna che i secoli, le spese di rappresentanza e i matrimoni avevano assottigliato, la più recente nobiltà per ingrandire il suo patrimonio, i borghesi per nobilitarsi, le classi popolari per imborghesirsi»60.
Era nata una nuova classe sociale: diventare «proprietario» significava,
infatti, acquistare un prestigio socialmente rilevante, non solo nei rapporti interpersonali, ma soprattutto di fronte alle autorità statali. Tant’è
che lo Stato preferì i «proprietari» ai nobili, nell’affidare la custodia ed
il funzionamento delle sue istituzioni: secondo Zaghi «Nobile era una
distinzione puramente aristocratica legata al passato; proprietario uno
stato sociale puramente economico legato soprattutto al presente, cioè
al grande processo di trasformazione politica e civile»61.
In tale ottica il Code Napoléon62 tutelava la pienezza del possesso
dei proprietari, i quali erano tenuti a collaborare, prestando la loro
57
VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, cit., p. 108.
Circa 1300 ordini vennero soppressi con una serie di decreti a partire dal marzo del 1807 fino all’agosto del 1809. Si trattava di beni per più di 4 milioni di ducati,
dei quali soltanto 900.000 saranno restituiti alla chiesa dopo il concordato del 1818.
Cfr. M. S. CORCIULO, Dall’amministrazione alla costituzione. I consigli generali e
distrettuali di Terra d’Otranto nel decennio francese, Napoli 1992, p. 18.
59
Ben il 65% del patrimonio degli ordini religiosi venne acquistato da sole 154 persone. Circa 844 «medi proprietari» acquistarono terre per un importo
compreso – ai fini della rendita – tra i 100 e i 1000 ducati. Al di sotto dei 100
ducati restò generalmente la media e piccola borghesia delle province per la quale
risultava estremamente difficoltoso recarsi a Napoli: costoro infatti effettuarono i
loro acquisti soltanto dopo il 1810, allorché poterono farlo anche nei capoluoghi
provinciali. Cfr. P. VILLANI, Le vendite dei beni dello stato nel regno di Napoli
(1806-1815), Milano 1964, p. 50.
60
C. ZAGHI, Proprietà e classe dirigente nell’Italia giacobina e napoleonica,
in Dagli stati preunitari di antico regime alla unificazione [cur. N. RAPONI], Bologna 1981, p. 257.
61
Ivi, p. 158.
62
Sul Code Napoléon cfr. Discours et fragments d’opinion de Portalis. Extrait
du registre des délibérations du conseil d’E’tat, à la date et suivant l’ordre des
séeances dans lesquelles ils ont été prononcés, in J. E. M. PORTALIS, Discours, rap58
133
STEFANO VINCI
opera e le loro conoscenze, al funzionamento ed alla difesa delle nuove istituzioni che li garantivano nei loro nuovi diritti63: così nobili
e borghesi ricambiavano la tutela posta dal legislatore alla loro res
privata, con una sovente impegnata partecipazione alla gestione di
quella pubblica. Indicare i ceti medi come i depositari della cultura
moderna costituiva la via per individuare le basi sociali indispensabili
alla costruzione del nuovo impianto costituzionale ed amministrativo64. D’altronde l’idea che la «mezzana classe» potesse rappresentare
l’elemento unificante di una nuova formazione sociale, era stata fatta
propria dalla tradizione riformatrice napoletana ed aveva trovato la
sua sistemazione teorica nell’opera di Filangieri, Pagano e Galanti65.
2. L’azione propositiva dei comuni nella lotta contro l’«appestato»
Le difficoltà incontrate nella esecuzione della legge eversiva della feudalità – affidata inizialmente alle magistrature ordinarie che si
rivelarono presto incapaci a far fronte ai numerosi reclami dei cittadini e dei comuni contro gli ex feudatari – spinsero il governo ad istituire, nel novembre del 1807, una commissione speciale incaricata
ports et travaux inédits sur le Code Civil [cur. F. PORTALIS], Paris 1844; P. SAGNAC,
Le Code Civil 1804-1904, Livre du Centenaire, Paris 1904; A. J. ARNAUD, Essai
d’analyse du code civil français. La règle du jeu dans la paix bourgeoise, Paris
1973; J. L. HALPÉRIN, L’impossible Code civil, Paris 1992; P. CARONI, Saggi sulla
storia della codificazione, Milano 1998.
63
Scrive D. CORRADINI, Garantismo e statualismo, Milano 1971, p. 45: «È
così la codificazione francese presenta in fondo una duplice faccia: vista con lo
sguardo al passato, alle lotte che furono necessarie per affermare l’urgenza e agli
ostacoli che a essa si opponevano, è il prodotto di un’autentica rivoluzione compiuta in nome del liberalesimo e dell’illuminismo; vista con l’attenzione affissa
sul presente, ossia sulle prospettive emerse tra gli esegeti, assume il valore di uno
strumento di conservazione per una società che indubbiamente era nuova rispetto
al periodo e che però non appariva bisognosa di ulteriori rinnovamenti». Cfr. M.
SBRICCOLI, Strutturalismo e storia del diritto privato. La regola del gioco nel gioco
delle regole, in «Politica del Diritto», n. 45, a. IV (1973).
64
Scrive E. LEFEBVRE, Mémoire sur Naples, in A.N.P., 381, AP 6, s.d.: «dans
l’ordre moyen que se conserve le dépôt des lumières».
65
Cfr. AJELLO, Arcana juris, cit., p. 391ss; P. VILLANI, Il dibattito sulla feudalità nel regno di Napoli dal Genovesi al Canosa, in AA.VV., Studi sul settecento
italiano, Napoli 1967; ID., Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari 1968, pp.
55-110.
134
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
di valutare l’attendibilità dei titoli in possesso degli ex baroni66. L’attività posta in essere da questa commissione non fu però sufficiente
a risolvere la situazione di emergenza che la legge sull’eversione
della feudalità aveva innescato: sorse pertanto il bisogno di istituire
un’altra commissione speciale – nota con il nome di commissione
feudale – con l’incarico di risolvere tutte le questioni fra comuni
ed ex baroni, introdotte presso le magistrature ordinarie prima della
pubblicazione della legge del 2 agosto 1806, e di esaurire le liti pendenti, non oltre l’anno 180867. «Insomma – scrive Trifone – pareva
che si fosse in contatto d’un appestato e che si volesse cacciarlo nella
tomba nel più breve termine possibile»68. La determinazione del governo nel voler quanto prima liquidare le liti che «ardevano fra gli
ex-baroni ed i Comuni» trovava ragione nel convincimento che dalla
loro estinzione dipendesse «l’abolizione di tutte le servitù, che sotto
il pretesto, e sotto il nome di diritti territoriali si esercitavano su quasi tutte le proprietà dei Comuni e dei cittadini, site fra recinti degli
ex feudi e che formavano un ostacolo insormontabile a tutti i miglioramenti necessari all’agricoltura ed all’industria dei proprietari»69.
Le istruzioni fornite con decreto 27 febbraio 1809 alla commissione per facilitare ed affrettare il disbrigo delle cause, affidarono
agli intendenti delle province l’incarico di rilevare da ogni comune
l’esistenza di tutti i diritti di matrice feudale ancora esistenti e vietare
quelli per i quali non vi era controversia: «se controversia si proponga di venire qualche diritto compreso o escluso dall’abolizione,
gl’intendenti la rimetteranno alla decisione della commissione delle
cause feudali»70. Lo spirito della legge su cui si innestava il funzionamento della magistratura straordinaria creata appositamente per
66
Scrive TRIFONE, op. cit., p. 181: «un’infinità di titoli e diplomi esibiti in sostegno delle esposte ragioni e un personale deficiente e sproporzionato, chiamato
ad esaminarli ed a vagliarli, fece senz’altro sorgere il bisogno di qualche provvedimento straordinario». Il tempo concesso alla commissione dal decreto del 9
novembre 1807 (in BLD, 1807, II) fu limitato a soli due mesi, oltre dei quali ogni
pretesa fondata o infondata sarebbe rimasta priva di effetto.
67
Decreto 11 novembre 1807 (BLD, 1807, II). Furono nominati membri della
commissione feudale i sigg. Dragonetti, Winspeare, Raffaelli, Franchini e Cuoco.
Ivi, art. 1.
68
TRIFONE, op. cit., p. 183.
69
Decreto 11 novembre 1807, cit., art. 4.
70
Decreto 27 febbraio 1809 (BLD, 1809, I), art. 1.
135
STEFANO VINCI
dirimere le cause di «qualunque natura tra i comuni e gli ex baroni e
specialmente le controversie nascenti dai diritti, redditi e prestazioni
territoriali così in danaro, come in derrate, che siano stati conservati
dalla legge 2 agosto 1806»71, richiedeva che gli organi municipali si
rendessero parte diligente nel portare innanzi alla commissione tutte
le questioni connesse alle usurpazioni degli ex baroni. Il legislatore
francese, sulla base del presupposto di aver affidato ai «proprietari» la gestione della res publica, riformando i criteri di accesso e di
scelta nelle fila degli organi amministrativi locali, aveva ritenuto che
alle amministrazioni cittadine dovesse spettare l’arduo compito di
rendere effettiva l’eversione della feudalità, portando a conoscenza
del governo centrale le infinite situazioni di abusi feudali che di fatto
impedivano l’attuazione della legge 2 agosto 1806.
Tale intuizione si rilevò non priva di contraddizioni: infatti, in
molti casi i Comuni non ebbero la forza o i mezzi per reagire contro gli ex baroni, molto spesso trasformatisi in nuovi proprietari,
e comunque ben arroccati all’interno delle stesse municipalità per
quanto già detto72. Numerosi sono gli esempi in cui gli ex feudatari continuarono a ingerirsi nell’amministrazione cittadina anche
dopo le leggi eversive della feudalità: ad esempio nel comune di
Casacanditella, in provincia di Chieti, il duca di Vacri pretendeva
di far «regger giustizia dal governatore nel suo palazzo ove gli dà
pure abitazione ed ove tiene il carcere comune ad uomini e donne»
e di ricevere la terna degli amministratori municipali che venivano
eletti ogni anno73. Ed ancora il duca di Caragnano, ex barone del
71
Ivi, art. 2.
Scrive F. MASTROBERTI, La «testa di medusa»: il problema degli usi civici tra
storia e attualità, in Atti del convegno su La protezione ambientale tra tecnologia
e legislazione [cur. G. ANGIULLI], Martina Franca 2007, p. 220: «Fin dall’agosto
del 1806 i rapporti degli intendenti al ministro dell’interno – in particolare degli
intendenti calabresi – sottolineavano la debolezza dei comuni di fronte alle pretese dei baroni, sia perché questi ultimi riuscivano a governare i comuni grazie ad
uomini di loro fiducia inseriti nei decurionati, sia perché gli stessi comuni avevano una sorta dio timore di fronte agli antichi padroni». Su questi aspetti cfr. ID.,
Pierre-joseph Briot., cit.; DE MARTINO, La nascita, cit.
73
Bollettino n. 4/1809, p. 41. Sentenza n. 1 del 10 aprile 1809. I capi di gravezze sottoposti all’esame della commissione feudale comprendevano anche problematiche connesse agli usi civici. L’ex barone infatti pretendeva di introdurre
nel demanio comunale i suoi animali e di impedire il pascolo agli animali dei
72
136
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
comune di Novoli in provincia di Otranto, imponeva la scelta del
sindaco «a suo piacere» ed eleggeva il governatore senza averne
diritto74. Nel comune di San Marzano in Terra d’Otranto l’ex barone pretendeva l’esercizio di surrogare uno degli eletti amministratori in luogo del sindaco e questo in luogo dell’eletto75. Esempi che
dimostrano il permanere di «una consolidata pratica di esercizio
del locale potere amministrativo – scrive Antonio Lerra – concentrato nel ristretto numero di locali famiglie nobili, in utile raccordo
con il locale feudatario, oltre che con i componenti i locali capitoli
clericali, che, per la loro natura ricettizia, concorrevano, di fatto,
anche per i diffusi intrecci familiari con le rappresentanze amministrative nell’Università, al vicendevole interesse per il mantenimento dello status quo»76.
La commissione feudale rilevò come tali pretese riguardassero angarie, perangarie e altri diritti dipendenti dalla feudalità e di
conseguenza tutti aboliti. Tutte queste difficoltà a livello locale nel
cittadini, di esigere annui ducati 12 e grana 60 «per lo permesso che dà a’ cittadini
di acquare, erbare e legnare non ostante esiga la fida di grani 75 per ogni somaro; di impedire ai cittadini il legnare sui terreni feudali dove aveva fatto recidere
gli alberi, venduti in danno della popolazione». La commissione ritenne abusive
tali pretese e stabilì che al barone fosse riconosciuto l’uso civico di pascolare nei
demani comunali al pari di qualunque cittadino; che i cittadini fossero liberi di
esercitare gli usi civici di legnare, acquare, pascere senza che il barone potesse
pretendere alcun pagamento.
74
Bollettino n. 8/1809, p. 44. Sentenza n. 10 del 2 agosto 1809. La commissione statuì inoltre che il barone si astenesse da qualsivoglia diritto proibitivo e
dal pretendere che gli abitanti di Novoli e di Nubilo portassero a macinare i loro
grani nei suoi mulini; dal volersi appropriare dagli alberi agresti che nascevano nei
territori particolari; dall’esigere la carnatica e l’erbatica; dall’obbligare i coloni ad
andare a coltivare le sue possessioni; dall’esercitare il diritto di entratura da coloro
che dopo la mietitura ed il ricolto delle ulive e delle uve immettevano gli animali
al pascolo nei propri territori. Venne concesso al barone di poter esigere la fida
nei fondi di suo pieno dominio e nei demani dell’ex feudatario dedotto l’uso dei
cittadini anche per ragione di commercio tra loro.
75
Bollettino n. 7/1810, p. 454. Sentenza n. 62 del 13 luglio 1810. Vd. infra.
76
A. LERRA, La città di Potenza nel Decennio francese, in AA.VV., Il governo
della città, cit., p. 61: «Allorquando, pur a fronte del progressivo emergere di una
significativa entità di proprietà privata e di un primo nucleo di borghesia agraria,
l’assetto e la direzione politico-amministrativa dell’Università erano ancora fortemente segnati da forte rigidità del sistema, caratterizzato dal peso del locale feudatario, conte Loffredo, e dal cero nobiliare, che nella compagine amministrativa
continuava ad esprimere cinque dei sette eletti».
137
STEFANO VINCI
denunciare gli abusi, vennero ravvisate dallo stesso Winspeare, procuratore generale presso la commissione feudale77, il quale il 13
maggio 1809 scriveva al ministro della Giustizia:
Io ho intrapreso un esame dettagliato di vecchie liti rinnovate o
introdotte nella commissione, ad oggetto di far decidere speditamente
le picciole controversie, e di far passare all’ordine del giorno le più
gravi. […] Ma quest’operazione incontra le seguenti difficoltà: Molti
comuni per difetto di mezzi non hanno proseguite le vecchie liti, e i
rispettivi procuratori si ricusano a qualunque atto. Molti comuni per
negligenza dei loro amministratori non spingono i giudizi, e non rimettono le notizie e i documenti necessari all’istruzione del giudizio;
Alcuni ricorsi sono stati dedotti da particolari cittadini, i quali subito
che hanno messo in salvo il loro interesse, hanno rimaso anche in
abbandono quello delle università. Impetro dunque da V.E. l’autorizzazione che renderò nota ai comuni, per mezzo degli intendenti, di
sottoporre alla decisione della commissione i processi sullo stato in
cui si trovano, e di destinare d’ufficio de’ difensori ai comuni, quando
interpellati non sappiano o non vogliano presentare una migliore difesa di quella che si trovi già fatta78.
Il Ministro rispose con nota del 22 maggio 1809, approvando la
proposta79. La inefficacia del provvedimento che aveva permesso
la creazione di una sorta di patrocinio statale a favore dei comuni
del regno comportò l’emanazione di un nuovo decreto per incentivare gli organi municipali ad adire la commissione feudale: il de77
Winspeare venne chiamato a tale ufficio, in sostituzione di Suarez, con decreto del 23 dicembre 1808. ASNA, Affari demaniali, fasc. 70, n. 6. Il decreto 27
febbraio 1809, cit., art. 11, indicava le funzioni che gli competevano: «Il procuratore
regio presso la commissione è incaricato di vegliare alla esecuzione delle leggi e dei
decreti abolitivi della feudalità, a difendere le ragioni dei comuni, o supplendo al difetto dei difensori dei comuni stessi, o promuovendole anche direttamente, dove così
sia necessario. Egli è inoltre tenuto in tutti i casi nei quali non trovi eseguite le leggi
e i decreti eversivi della feudalità, di cerziorarne i nostri ministri della giustizia e
dell’interno, e gl’intendenti delle rispettive provincie. Dovrà procurare l’esecuzione
di tutte le sentenze della commissione e corrisponderà perciò coi rispettivi intendenti, e con tutte le altre autorità inferiori delle province, alle quali giudicherà di dovere
delegare». Winspeare venne chiamato a tale ufficio, in sostituzione di Suarez, con
decreto del 23 dicembre 1808. ASNA, Affari demaniali, fasc. 70, n. 6.
78
ASNA, C. Conti, 4. Rip., Not. Suppl. Fasc. 22, n. 15.
79
Ibidem.
138
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
creto 16 ottobre 1809, proposto dallo stesso Ministro di giustizia,
concesse infatti un ulteriore termine, con decorrenza fino al 31 dicembre del 1809, ai comuni e agli ex baroni «per dedurre innanzi alla suddetta commissione tutte le azioni nascenti dalla estinta
feudalità»80. La “rimessione in termini” valse naturalmente anche
per la commissione feudale, a cui venne donato un altro anno di
vita fino al 1 settembre 181081.
Un freno agli abusi feudali ancora in vigore nelle periferie del Regno poteva essere messo dagli intendenti, ai quali il legislatore francese aveva affidato il controllo sulle municipalità: ad essi spettava,
infatti, il compito di impedire «la continuazione ed il rinnovamento»
di ogni diritto e prestazione abolita. L’eventuale illegittima esazione
da parte degli antichi possessori o degli aventi causa sarebbe stata «perpetuamente ripetibile» dagli intendenti, anche ad istanza del
pubblico ministero e senza l’intervento delle parti private, a profitto degli ospizi82. Da parte loro le autorità governative locali fecero
quel che poterono per cercare di sollecitare l’azione propositiva dei
comuni nei confronti della commissione feudale. Scriveva il conte
Milano, intendente di Terra d’Otranto, ai sindaci dei comuni della
provincia:
Essendo pervenuti al Real Trono varj rapporti sugli sconci, che han
luogo in quei Decurionati, de’ quali sono membri gli Agenti, ed Erarj
degli ex Baroni, che posponendo il pubblico vantaggio agl’interessi privati, attraversano tutte le operazioni Decurionali negli affari, che vertono tra le rispettive università e gli antichi loro feudatari, la Maestà
del Sovrano si è compiaciuta a tale oggetto di prorogare le disposizioni
del Decreto de’ 14 Settembre 1807 fino a che durerà la commissione
delle gravezze feudali, da eseguirsi però in quei Comuni soltanto, ne’
quali esistono tuttavia delle liti con gli ex Baroni. Nel parteciparvi, Sig.
Sindaci, questa Sovrana risoluzione, v’incarico a dovermi far noto se
tra i Decurioni delle vostre rispettive Comuni siavi alcuno che abbia
aderenza cogli ex Baroni per le ulteriori disposizioni83.
80
BLD, 1809, II, decreto 16 ottobre 1809, art. 1.
Ivi, art. 2.
82
Ivi, art. 5.
83
Giornale d’intendenza di Terra d’Otranto, n. 30/1809, p. 9. L’intendente ai
sig. Sindaci della medesima. Lecce 22 luglio 1809.
81
139
STEFANO VINCI
3. Gli usi civici nella Terra dei Titani
La mole delle liti portate all’esame della Commissione feudale, le
cui decisioni sono conservate nel Bollettino delle sentenze, consente
di comprendere la difficile situazione in cui i comuni delle province
si vennero a trovare all’indomani dell’entrata in vigore delle leggi
eversive della feudalità. Dovunque gli ex baroni custodivano avidamente e difendevano tutto ciò che era in loro possesso. In molte
parti del Regno erano rimaste intatte le differenti specie di angarie
e perangarie, come le opere dei rustici nei fondi baronali, la somministrazione degli animali per la coltura, il peso della riscossione
delle rendite baronali, il peso di alcuni servizi domestici, l’uffizio
dei corrieri e delle messaggerie necessarie al barone84. A loro volta
i coloni cercavano di rimanere attaccati a quel suolo cui erano da
tempo legati per abitudine di vita e che avevano fatto rifiorire col
sudore della fronte. Ed ancora le popolazioni dei comuni reclamavano gli usi civici su quei territori circostanti alle città sui quali ritenevano non vi fosse nessun diritto da parte dell’ex feudatario, che
invece continuava a pretendere terraggi, decime, quinte ed ad altre
prestazioni. La lotta tra comune e barone veniva disputata dinanzi
alla commissione a suon di documenti: ai fini di far valere l’uno
o l’altro diritto occorreva dimostrare la legittimità del titolo che si
vantava, ricorrendo spesso a testimonianze di cittadini, ad apprezzi,
a strumenti vari, a fogli catastali o a contratti: la commissione era infatti autorizzata dalla legge di sua costituzione a giudicare le contese
feudali sola facti veritate inspecta85.
Nel tentativo di concentrare l’indagine alle liti portate in decisione
dalla Commissione feudale con riferimento ai soli comuni della provincia di Terra d’Otranto86 e alla materia degli usi civici, sono emerse
numerose questioni concernenti la sopravvivenza di abusi degli ex
84
Scrive WINSPEARE, Storia degli abusi feudali, cit., p. 38: «Tutti gli altri diritti personali, niuno escluso, trovatasi commutati in prestazioni in denaro, le quali si
sostennero ora col colore d’un titolo scambiato, ora per la forza della transazione
ed ora col presidio della prescrizione».
85
Bollettino n. 4/1809, p. 3. Sentenza n. 1 del 6 aprile 1809.
86
Sull’argomento cfr. i saggi di G. Caramuscio, M. Mainardi, R. Quaranta,
G. O. D’Urso, F. De Paola, A. Caputo, A. Chionna, E. Inguscio, M. Imperio, A.
Brigante, D. Stefanizzi pubblicati nel n. 8 (2006) de «L’Idomeneo: rivista della
140
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
baroni sui territori ex feudali. Secondo il Winspeare, infatti, la Terra
d’Otranto era soggetta a particolari prestazioni feudali, rispetto alle
altre province del regno, che continuarono ad essere esercitate dopo
le leggi eversive. Sopravviveva infatti il diritto del barone di pretendere un vettigale universale per tutti i prodotti naturali e d’industria87,
i fondi erano gravati della decima88, della quinta o d’altra prestazione
in genere sul prodotto principale, di un canone in denaro, del diritto
esclusivo del pascolo o di una decima sull’erba o sugli animali, della
decima della paglia e di tutti i più minuti prodotti:
L’anarchia avea escogitato ed accumulato in questa provincia tutte
le vessazioni capaci di cadere nella mente umana; e la giurisprudenza
forense chiamata a sostenerle avea radicata l’opinione che le popolazioni di Lecce avevano tutto ricevuto dalle mani de’ baroni, e che i diritti di
costoro non erano se non altrettante riserve del loro universal dominio,
come se la provincia d’Otranto fosse stata la terra de’ titani, ed i baroni
progenitori degli uomini89.
3.1 Avetrana
Il comune di Avetrana adì la Commissione feudale per richiedere,
contro l’ex feudatario, la reintegra dei suoi demani e specialmente
di tomola 1554 presuntivamente usurpati dal conte Fili e dal marchese del Tito possessori del Motonaro in varie contrade denominate Falchini, Argentini ed altri riserbati dal principe di Francavilla
Sezione di Lecce della Società di storia patria per la Puglia», dedicati all’eversione
della feudalità in Terra d’Otranto.
87
«Fra i prodotti naturali tributari v’erano ancora le pietre delle proprie lapidicine, l’acqua piovana e lo sterco; fra gl’industriali, incominciando dall’opera e
dall’industria grossolana de’ rustici e giungendo all’industria degli artegiani e dei
mercatanti, tutto era soggetto a decima; decimabile era pure il prezzo de’ contratti.
I diritti per la garantia e per la protezione delle persone erano nel loro vigore; quelli sulla pudicizia delle donne erano per lo più trasmutati in altrettante capitazioni».
WINSPEARE, Storia degli abusi feudali, cit., p. 38.
88
La decima feudale era pari alla decima parte del reddito, imposta su beni e
rendite. Essa derivava dallo jus decimandi che era l’esercizio di un diritto pubblico di natura tributaria che veniva delegato ad un beneficiato con distrazione dei
redditi della Camera Regia a quella baronale. AA.VV., La questione demaniale,
cit., p. 180.
89
Ivi, p. 39.
141
STEFANO VINCI
per la caccia e poi censuati90. La Commissione passò ad esaminare
i documenti prodotti e si soffermò sull’assenso, impartito nel 1587,
alla vendita che Carlo Pagano intendeva fare del feudo di Avetrana:
in esso venivano descritte nominativamente le proprietà territoriali del feudo e la decima in questione veniva annotata con l’inciso
«Item lo jus di esigere la decima». Ed ancora, nell’apprezzo del feudo eseguito nel 1722, l’Università aveva dedotto di escludere i fondi
demaniali del comune, descritti nell’estensione e nei confini. A tale
deduzione il feudatario aveva risposto di voler provare «che gli altri
territori boscosi (oltre i molti che egli aveva migliorato) che vi sono
rimasti sono in buona parte demaniali dell’università»91. Da tali documenti emergeva con certezza l’esistenza delle proprietà territoriali
del feudo; l’esistenza non contraddetta di un demanio universale; il
fatto che le migliorie intraprese dal feudatario si estendevano sulla
totalità del demanio feudale; la sussistenza dell’esercizio del diritto
di decima sulla proprietà dei privati. Secondo i dati contenuti negli
apprezzi, le proprietà di natura feudale dell’ex barone erano circoscritte alla masseria dello Riccio, masseria della Marina o Salina,
difesa dell’Umbriaco, difesa detta Chirpo o Casanova, difesa detta
Maramonte e Monte di Rena, difesa detta ‘la Voccola’, boschetto
denominato S. Martino o Penino, bosco detto ‘li Cimini’ o Mondonuovo92. Tutti questi locali furono dichiarati, in sentenza, demani
feudali aperti, soggetti ai pieni usi civici in favore degli abitanti di
Avetrana, estimabili a vantaggio del comune nella divisione del demanio. Su questi demani aperti competevano al feudatario i diritti di
decimare «sugli otto generi dichiarati legittimi col Real Decreto de’
16 ottobre 1809»93. Furono invece riconosciute di proprietà assoluta
90
Bollettino n. 7/1810, p. 862. Sentenza n. 117 del 24 luglio 1810. Tra ‘l
comune di Avetrana e l’ex feudatario conte Fili; il marchese del Tito e l’amministrazione dei demani. Sull’argomento cfr. M. MAINARDI – I. QUARANTA, Documenti
per la storia del territorio di Avetrana, in «L’ Idomeneo», n. 4 (2002), p. 21-62.
91
Ivi, p. 867.
92
A tali considerazioni, la commissione aggiungeva che per Motonaro il comune non aveva alcun diritto contro il marchese del Tito e che l’amministrazione
dei Demani non era obbligata per la successione nei feudali al pagamento della
bonatenenza. Ibidem.
93
Ibidem. Il decreto del 16 ottobre 1809 dal titolo Diritto feudale di decima,
(in BLD, 1809, II) prevedeva all’art. 1: «In tutti i casi ne’ quali la prestazione delle
decime nella provincia di Lecce sarà riconosciuta legittima, l’esazione di essa non
142
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
del feudatario le 5 piantate degli ulivi descritte nello stesso apprezzo
e conosciute sotto il nome di San Martino, Spina di San Martino Ferracanale, ‘li Granieri’ e San Giorgio, il terreno detto ‘il Passaturo’, il
porcile e i terreni adiacenti, il terreno detto Cimini, il terreno accanto
al trappeto, il terreno detto ‘le Paludi’ e tutti gli altri beni «di suo
particolare acquisto in burgensatico, portati da pubblici strumenti».
Il rimanente territorio di Avetrana fu dichiarato di proprietà del comune o dei particolari, libero ed esente da qualunque peso di decima,
canoni o qualsiasi altra prestazione.
Prima di procedere all’esecuzione della sentenza, il comune di
Avetrana avanzò istanza al commissario ripartitore di valutazione degli usi civici nei demani ex feudali, a cui il possessore Conte Filo si
oppose sostenendo la segregazione di tutti i fondi burgensatici acquistati con pubblici strumenti o apparenti da professioni catastali fatte
dagli ex feudatari di Avetrana in tempo non sospetto94. Dai documenti
esibiti risultava che la Masseria dello Riccio – riportata nell’apprezzo
del 1804 per la estensione di 193 tomola di terre seminatorie o macchinose, alla misura locale di 2.500 passi il tomolo – era stata acquistata in burgensatico per tomola 128 a passi 104295: sulla base di tali
rilievi, Domenico Acclavio96 ritenne che il territorio da dividere come
potrà estendersi se non al grano, all’orzo, all’avena, alla bambagia, al lino, alle
fave, al vino mosto, e alle olive. È vietata in conseguenza l’esazione sopra tutti gli
altri generi non nominati, quantunque sia il titolo della esazione ed il contratto in
forza del quale siesi fatta finora».
94
Bullettino delle Ordinanze dei Commissari ripartitori dei demani ex feudali e comunali nelle province napoletane, Napoli, tip. Trani, 1861-1867, n. 3,
p. 291. Il Regio Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Altamura,
commissario del Re per la divisione dei demani, Altamura, 5 dicembre 1811. L’ex
barone produsse, a sostegno della pretesa qualità di burgensatico dei fondi, l’apprezzo eseguito nell’anno 1804 in occasione della vendita fatta su ordine del Governo della c.d. Deputazione degli Apodissorj al conte Filo, nel quale è precisata
la estensione e confinazione degli stessi fondi.
95
Di cui tomola 120 erano state vendute all’ex feudatario di Avetrana da Pietro, Francesco e Carlo de Mauro con istrumento del 10 novembre 1679, stipulato
per notar Giuseppe Zoto di Latiano, e tomola 8 e passi 1042 ottenute per atto di
vendita fatta da Costanza de Mauro allo stesso ex feudatario con altro strumento
del 19 gennaio 1962 per mano del notaio Zoto. Ibidem.
96
Domenico Acclavio (1762-1828), esperto giureconsulto e famoso avvocato,
dopo la rivoluzione del 1799 fu inviato come visitatore economico nelle province.
Con decreto del 13 novembre 1808 fu nominato membro del Tribunale di Appello
di Altamura, presso il quale assunse nel 1810 la carica di procuratore generale. Nel
143
STEFANO VINCI
demanio ex feudale era pari a circa 65 tomola, «salva la misura a
farsi dell’intiero fondo». Rilevò inoltre il Commissario che per quanto concerneva l’acquisto della difesa dell’Ubbriaco era stato esibito
lo strumento stipulato per notar Donato Madaro di Latiano in data
24 dicembre 1704, con cui il barone Tommaso Alfonso Sambiase di
Copertino aveva venduto a Nicola Massaro, procuratore del principe
Michele Imperiale due masserie con fondi indivisi (una chiamata Canale Monaco e l’altra dell’Imbriaco) dell’estensione di tomola 132 in
terre «fattezze e macchinose». La descrizione dei confini ivi riportata
indicava che queste componevano un sol corpo corrispondente alla
confinazione segnata nel citato apprezzo del 1804 in circa tomola 140
sotto il nome di difesa dell’Ubbriaco o Imbriaco. Anche per la masseria Maramonte e Monte di Rena era stato esibito pubblico strumento
stipulato il 9 gennaio 1692 per notar Zoto, con il quale il canonico
Natale Schiavone di Casalnuovo o Manduria rilasciò – per ragione di
congrua – alla principessa Brigida Grimaldi Imperiale, tutrice e balia
di suo nipote il principe Michele Imperiale, una masseria denominata
Maramonte, che era stata comperata da Domenico Maramonte, della
1809 tenne anche l’incarico di commissario ripartitore in Terra d’Otranto nella risoluzione delle controversie relative al contenzioso ex feudale. Nel 1811 fu nominato intendente della provincia di Terra d’Otranto. Le motivazione che probabilmente spinsero il ministro dell’Interno Zurlo ad inviare in Terra d’Otranto uno dei
più validi funzionari del Regno, andavano individuate nella necessità di affidare la
provincia ad un uomo di saldi principi e di ferma volontà, e per di più nativo del
luogo (aveva avuto i natali a Taranto), tale che fosse in grado di porre un freno allo
strapotere di cui avevano goduto negli anni precedenti i funzionari dell’Intendenza. Nel 1819 fu restituito alla magistratura e destinato nalla Gran Corte Civile di
Trani. Il 10 dicembre 1820 fu chiamato a succedere a Giuseppe Zurlo quale ministro dell’Interno, ma non accettò. Terminò la sua carriera con l’incarico di vicepresidente dell’Alta Corte di Giustizia di Napoli. Morì a Portici il 1 luglio 1828. Cfr.
D. L. DE VINCENTIIS, Storia di Taranto, Taranto 1878, p. 103; A. CRISCUOLO, Don
Domenico Acclavio, in «Rass. pugliese», VI (1889), p. 22-3; C. DE NICOLA, Diario
Napoletano, 1798-1825 [cur. G. DE BLASIIS], Napoli Società Napoletana di Storia
Patria 1906, vol. II, p. 435; N. CORTESE, Memorie di un generale della Repubblica
e dell’Impero, Francesco Pignatelli principe di Strongoli, I, Bari 1927, p. XXVIII;
W. MATURI, Il concordato del 1818 tra la S. Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929,
p. 123-6; G. CERVIGNI, voce «Acclavio, Domenico», in Diz. biogr. it., vol. I, Roma
1973, p. 99; CORCIULO, op. cit., p. 141ss; S. VINCI, La Gran Corte Civile residente
in Trani, in AA.VV., Tribunali e giurisprudenza nel Mezzogiorno, I, Le Gran Corti
Civili (1817-1865). Napoli e Trani, Napoli 2010, pp. 165-95.
144
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
estensione di tomola 150 di terre tutte macchiose97. Gli acquisti in allodio dei tre fondi dello Riccio, dell’Ubbriaco e di Maramonte risultavano dimostrati con pubblici strumenti negli stessi termini di cui al
giudicato della Commissione feudale, per cui – nelle corrispondenti
quantità – dovevano essere messi fuori dal calcolo per la divisone dei
demani. I fondi denominati la Saliera o Marina, difesa della Voccola,
boschetto di San Martino, o sia Pennino, e bosco de’ Cimini o Mondonuovo – descritti nell’apprezzo del 1804 rispettivamente in tomola
235, tomola 30, tomola 24 e tomola 70 – non risultavano garantiti da
nessun titolo di acquisto in allodio, non essendo applicabili a queste
proprietà gli altri strumenti esibiti dal possessore, per cui dovevano
assoggettarsi per intero alla divisione come demani feudali98. Per la
difesa detta Chiepo o Casanova – riportata nell’apprezzo del 1804
per tomola 553 seminativo e macchinoso – non era stato presentato nessuno strumento dimostrativo del suo acquisto in allodio: perciò, non essendosi soddisfatto alla disposizione del giudicato, non
doveva aversi riguardo alla partita catastale esibita per supplire alla
prova della qualità burgensatica che la decisione esigeva esclusivamente per mezzo di pubblici strumenti. Sulla base di queste puntuali
considerazioni, l’Acclavio statuì che per la esecuzione del giudicato
sarebbero state sottoposte a divisione per la quota equivalente agli
usi civici dovuti al comune di Avetrana la masseria della Marina o
Saliera; la difesa di Chiedo e Casanova; la difesa della Voccola; il
boschetto di San Martino o Pennino. Mentre il bosco di Cimini o
Mondonuovo, la masseria dello Riccio, la difesa dell’Ubbriaco e la
difesa di Maramonte o Monte di Rena sarebbero rimasti esenti nelle
quantità burgensatiche sopra riportate. Quello che sarebbe avanzato a
tali porzioni doveva essere ripartito in qualità di demanio.
Dopo aver rimesso la valutazione degli usi civici ad un collegio
di arbitri nominati dalle parti99, l’Acclavio con successiva ordinanza
97
L’estensione e i confini corrispondevano a quelli riportati nell’apprezzo del
1804. Ivi, p. 293.
98
Ivi, p. 294.
99
Gli arbitri sigg. Francesco Mello di Salice e Paolo Paganisi di Manduria,
nominati dalle parti, ed il terzo arbitro aggiunto d’ufficio sig. Gianlorenzo Forleo di
Francavilla, insieme con l’esperto eventualmente presentato dal Ricevitore del Demanio e l’arbitro del Conte Filo, avrebbero dovuto procedere nell’arco di 6 giorni
alla valutazione degli usi civici ai termini del giudicato della commissione feudale.
145
STEFANO VINCI
del 22 maggio 1812 stabilì che la divisione de’ demani ex feudali di
Avetrana doveva avvenire nella misura di 1/3 del demanio in virtù del
fatto che non concorrevano – ai sensi dell’art. 16 delle istruzioni del
10 marzo 1810100 – nel caso di specie le circostanze per fissare la quota
al maximum della valutazione degli usi essenziali, considerati anche i
bisogni di una popolazione non minore di 1000 abitanti, per il pascolo
dei suoi animali da coltura ed industria e per le legna, che rendevano
assai moderato nella gradazione del quarto alla metà il piccolo aumento fatto nel minimum dei compensi101. Al comune, quindi, doveva
essere assegnata, in compenso di tutti i suoi diritti, la terza parte dei
c.d. locali masseria Lo Riccio, masseria della Marina o Saliera, difesa
dell’Ubbriaco, difesa di Chiepo e Casanova, difesa di Maramonte e
Monte di Rena, difesa della Voccola, boschetto di San Martino, o sia
Pennino, bosco li Cimini o sia Mondonuovo, dedotte le quantità dichiarate burgensatiche con ordinanza del 5 dicembre 1811102.
Il sig. Nicola del Giudice di Taranto, agente della divisione, veniva incaricato di
unire gli arbitri, di raccogliere i loro pareri e di trasmetterli all’Acclavio. Ibidem.
La nomina degli arbitri era prevista dall’art. 10 del decreto n. 223 del 3 dicembre
1808 Istruzioni per l’adempimento della Legge 1 settembre 1806 e del Decreto 8
giugno 1807 sulla divisione dei Demani (in BLD, 1808, II) secondo cui «Gli arbitri
eletti dalle parti interessate nella divisione stabiliranno per primo dato l’estensione
del fondo e procedendone alla misura, passeranno in secondo luogo a liquidare la
rendita che ne ritrae l’ex Barone, o il luogo pio, a cui se ne appartiene il dominio».
100
Decreto 10 marzo 1810, cit., art. 16: «Acciocché l’applicazione ai casi
particolari delle basi contenute nell’art. 9 e 10 del Tit. II del real decreto dei 3
dicembre 1808 non sia soggetta ad arbitri e ad incertezze, ed acciò una regola inflessibile tronchi tutte le dispute sarà fissata una scala che determini per ciascuna
delle indicate classi la porzione da separarsi, nel modo seguente: Il minimum del
compenso degli usi essenziali, o che si esercitino tutti, o che se ne eserciti una parte qualunque, sarà il quarto di tutto il demanio. Secondo la varietà dei casi e delle
circostanze da tenersi presenti da’ Commissari, potrà essere di un terzo, e sino
della metà del demanio stesso. Il minimum del compenso degli usi appartenenti
alla seconda e terza classe, o che siano esercitati tutti o che se ne eserciti una parte
qualunque, sarà la metà del demanio; e secondo le circostanze dei casi da vedersi
da’ Commissari, potrà crescere a due terzi e sino a tre quarti del medesimo, in
beneficio del comune. Questo compenso abbraccerà ancora il compenso degli usi
essenziali, qualora in tutto o in parte esistano nel demanio medesimo.
101
Secondo il giudizio degli arbitri, l’assegnazione del terzo del demanio doveva corrispondere ad un giusto compenso dei diritti del comune. Ivi, p. 295. Ordinanza del commissario D. Acclavio, Lecce, 22 maggio 1812.
102
Nell’arco di 3 giorni le parti avrebbero dovuto nominare 3 periti, uno dei
quali agrimensore, altrimenti sarebbero stati nominati d’ufficio, i quali dovevano
146
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
3.2 Calimera
Il piccolo comune di Calimera ritenne di adire la Commissione
feudale al fine di chiedere la rivendica del bosco denominato “Bosconetto” e “Boscomacchioso” su cui il feudatario vantava la sua
proprietà103. La Commissione osservò che il bosco de quo fosse una
proprietà evidentemente feudale, ma che la sua qualità di difesa non
risultava dai documenti prodotti a sostegno della domanda. Tra questi, risultò rilevante, ai fini della decisione, un atto contenente una
proposta di transazione fra il barone e il comune, risalente al 1468,
relativa alla erezione del predetto corpo feudale in difesa, rimasta
priva di assenso. Tale dato era altresì confortato dal relevio del 1594,
in cui il bosco veniva riportato senza la qualificazione di difesa104.
Sulla base di tali considerazioni la commissione rigettò la domanda
di revindica e dichiarò il bosco demanio feudale aperto ai pieni usi
civici in favore degli abitanti di Martano e Calimera, usi estimabili
in divisione.
3.3. Castellaneta
Il comune di Castellaneta adì la commissione feudale con la specifica richiesta di ottenere il riconoscimento quale demanio comuprocedere alla ricognizione dei confini, misura ed apprezzo dei suddetti locali, escludendo dall’apprezzo e dalla divisione le tomola 128 e passi 1042 di burgensatico
nella masseria dello Riccio, le tomola 132 di burgensatico della difesa dell’Ubbriaco
e le tomola 150 di burgensatico nella masseria Maramonte e Monte di Rena. All’esito delle operazioni, i periti dovevano accantonare in favore del comune di Avetrana
dalle parti più comode e più vicine all’abitato, il terzo dei suddetti demani, evitando
quanto più possibile la «dimembrazione» dei corpi e il pregiudizio del possessore
Conte Filo. Eseguita la ripartizione, il rimanente territorio sarebbe stato posseduto
dall’ex feudatario in piena proprietà e libero da qualsiasi servitù civica. Ivi, p. 298.
All’esito della perizia, il Commissario dichiarò con ordinanza del 25 giugno 1812
che la quota de’ demani ex feudali spettante al comune di Avetrana consisteva nella
c.d. difesa di Chiepo e Casanova della estensione di tomola 429 e stoppelli 5 del valore di cuati 8510,33 1/3, pari a lire 36926,20 compresevi le due casette e l’acquaro
in essa esistenti. Ivi, p. 299. Ordinanza del 25 giugno 1812.
103
Bollettino n. 7/1810, p. 430. Sentenza n. 54 del 11 luglio 1810. Tra ‘l comune di Calimera in provincia di Lecce e il dianzi feudatario marchese di Martano.
104
Dal relevio del 1594 emergeva altresì che la transazione del 1468 fu comune a Martano e Calimera, e che quest’ultima era sotto la baronia di Martano.
Ibidem.
147
STEFANO VINCI
nale dei terreni posseduti dal principe. Presupposto alla risoluzione
della questione fu la constatazione della circostanza che ai tempi
dei Re Angioini la bagliva di Castellaneta, spettante al feudatario,
comprendeva tra le altre cose anche la fida degli animali dei forestieri, che non si sarebbe potuta esercitare da parte del feudatario se
questi non avesse avuto il demanio proprio105. Dalla disamina della
copiosa documentazione prodotta dalle parti, emersero dati rilevanti
che andavano a suffragare la tesi della natura feudale dei territori
considerati: dall’incartamento processuale relativo ad un giudizio
insorto nel 1551 tra la Regia Corte che chiedeva in Castellaneta una
difesa per uso de’ locati e il feudatario che si opponeva, fu posto
in risalto il fatto che la Dogana di Foggia riconobbe giusto il pagamento di annui ducati 70 al feudatario (che risultò soccombente) per
il compenso dell’erba106. Nello stesso senso, la commissione ritenne importante il documento da cui risultava che nel 1675 la Regia
Dogana chiese l’erezione nel demanio di Castellaneta di una nuova
difesa di carra 72 ed il fisco doganale convenne con il feudatario –
e non con l’università – la corresponsione di annui ducati 430. Ed
ancora, il fatto che nel 1719 il presidente della dogana di Foggia con
il suo fiscale si recarono in Castellaneta per dirimere una questione
relativa al fatto che i locati del posto pretendevano di impedire al
feudatario di fidare nel demanio, «giacchè questo si trovava assegnato per due locazioni, cioè per quella dell’Orsanese e per l’altra delle
7200 pecore». Tale accesso fu ripetuto nel 1742 al fine di disporre
l’assegnazione in demanio delle suddette 7200 pecore: su Marzagaglia furono assegnati carri 29 1/6, nelle Rene di S. Matteo carri 24
½ e nelle Murge di Fra Gennaro carri 18. Elargizioni che non furono
nemmeno opposte dall’Università. Sulla base di tali prove documen-
105
Tale deduzione derivava dall’acquisizione dell’informazione fiscale del
1519, in cui la fida risultava compresa nella bagliva. Bollettino n. 7/1810, p. 256.
Sentenza n. 28 del 7 luglio 1810. Tra il comune di Castellaneta in provincia d’Otranto e ‘l suoi d’anzi feudatario. Sull’argomento cfr. E. INGUSCIO, La questione
demaniale a Castellaneta nel periodo francese, in «L’Idomeneo», n. 8 (2006), p.
291-316.
106
Nel 1556 fu finalmente eretta la difesa richiesta in località Orsanese, su cui
il Comune aveva ottenuto il diritto di prelazione, ma in questa occasione «non ardì
d’impugnare il diritto del feudatario sul demanio assegnato». Sentenza 28/1810,
cit., p. 260.
148
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
tali la Commissione dichiarò demani ex feudali i locali denominati
Orsanese e Rene di San Matteo. Il territorio cosiddetto Murge di Fra
Gennaro fu dichiarato di natura comunale in considerazione del fatto
che il prolungamento dello stesso terreno, ugualmente denominato,
fu dichiarato ‘comunale’ a seguito di due sentenze della stessa commissione rispettivamente sulle domande proposte dalle università di
Laterza del 15 settembre 1809 e di Gioia del 3 marzo 1810, per cui
«si debbono supporre della stessa natura». Fu riconosciuto invece di
natura feudale il fondo denominato Coste della Gravina, in quanto
risultava dal contratto di compravendita del 1735 che esso fu acquistato dal principe di Acquaviva da alcuni naturali di Castellaneta107.
Risolta tale questione, la Commissione feudale passò ad esaminare, nella stessa sessione, un’altra domanda proposta dal comune
di Castellaneta e rivolta ad ottenere la cessazione dell’esazione della
decima delle vettovaglie da parte della mensa vescovile di Castellaneta. Tra la documentazione prodotta spiccava una convenzione
risalente al 1636 stipulata tra l’Università e la Mensa anzidetta in cui
era stabilito che «chiudendosi ai cittadini il fondo Sterpine, ove la
mensa decimava, non dovesse pagarle annui ducati 120 a patto però
che la difesa della Gualella piccola della mensa passasse in dominio
dell’università»108. In tale «istromento» il fondo Sterpine viene qualificato «demanio della città», per cui il diritto di decima esercitato
dalla mensa era «per diritto di servitù o per diritto di sagramentalità». Le Gualelle, invece, risultava essere un demanio ecclesiastico,
107
In tale «istromento» venivano indicati i confini del fondo c.d. Coste della
Gravina: «Principiando dal luogo, seu pezzele chiamato volgarmente Cozzariello
che tirano per la parte di detta Gravina dalla parte di sotto di detta città coste coste sino alla via, che scende vicino alla nocchiera del rev. P. Gregorio Maldarizzi
della predetta città, vai pubblica che in Motola, confina la via che va da Castellaneta alla chiesa di S. Cosmo e Damiano, dalla parte di sopra, confina lo corrente
dell’acqua, che scorre e divide il territorio di Castellaneta da quello di Motola, ed
in dette coste anche vi si comprende un gran lago, che continuamente si stagna, e
contiene acqua, chiamato il lago di S. Elia, come pure vi si comprende un’altezza
similmente circondata di coste, sopra la quale vi si trova un edifizio di chiesa fatta
anticamente, chiamata di S. Elia, e presentemente buona parte è diruta, apparendo
il solo edificio, ed altri confini». Ibidem.
108
Bollettino n. 7/1810, p. 264. Sentenza n. 29 del 7 luglio 1810. Tra il comune
di Castellaneta in provincia d’Otranto e la mensa vescovile di Castellaneta, e per
essa l’amministrazione dei demani.
149
STEFANO VINCI
sul quale l’Università esercitava il diritto di pascere limitatamente
al periodo compreso tra il 31 dicembre al 5 aprile. Pertanto solo su
questo terreno sarebbe potuto considerarsi legittimo l’esercizio del
diritto di terraggio, mentre in tutti gli altri (Sterpine, Menasciola, La
Marina, Orsanese e Rene di S. Matteo109) questo doveva ritenersi
abusivo: la Commissione pertanto dichiarò tali locali liberi ed esenti
da qualunque prestazione in favore della mensa di Castellaneta e
riconobbe il pieno esercizio degli usi civici con riferimento al territorio c.d. Le Gualelle110.
Nel maggio del 1810 il principe di Acquaviva e il sindaco di Castellaneta presentarono a S.M. due esposti relativi alla censuazione e
alla divisione di alcune difese111. In particolare il sindaco di Castellaneta chiese che si procedesse alla divisione delle tre difese dette Bulsanello, Terzi dell’Orsanese o Termitosa, con riferimento alle quali
la commissione feudale nel pronunciarsi nella lite intercorsa tra il
comune e l’ex barone aveva riservato al primo il godimento degli usi
civici. L’Acclavio – nel suo rapporto di riscontro al Ministro – fece
notare di non aver ancora dato esecuzione alla sentenza della Commissione feudale (e quindi alla divisione del territorio):
Se lo stato del Brigantaggio in questa e nella limitrofa provincia di
Lecce non mi vietasse assolutamente di uscire da questa residenza. Io
non ho potuto neppure spedire un agente a Castellaneta per le operazioni preliminari, per essere quel territorio oltremodo infestato da’ briganti. Egli è perciò, che le operazioni della divisione de’ demani intraprese
in varj punti dell’una e dell’altra Provincia sono paralizzate, non potendo né gli agenti proseguire il loro travaglio, né io condurmi in quei
luoghi ove la mia presenza sarebbe più necessaria. Lo stesso avviene
nella Provincia di Basilicata, nella quale le comunicazioni sono eziandio più difficili. Io ne sono profondamente afflitto, e nella impotenza di
spiegare tutta l’attività che l’importanza della commissione esige, ho
dovuto limitarmi ad una corrispondenza cogli agenti della ripartizione,
e co’ Sindaci per apparecchio della materia che non può altrimenti svi-
109
Per questi ultimi due locali, la Commissione feudale si era già espressa con
precedente provvedimento n. 28/1810 dichiarandone la natura feudale.
110
Sentenza n. 29 del 7 luglio 1810, cit., p. 267.
111
Supplemento Bollettino n. 29, p. 7. Ministeriale del Commissario. Il ministro dell’Interno al commissario Acclavio, 26 maggio 1810.
150
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
lupparsi. Prego V.E. ad essere in questa intelligenza, per non ascrivere a
difetto di energia la non piena attività della commissione112.
A seguito di tale chiarimento il ministro dell’Interno – in data 1
agosto 1810 – inviò al commissario ripartitore una nuova richiesta di
delucidazioni in ordine a quanto dedotto dal principe di Acquaviva
con riferimento alla censuazione delle due difese dette Le Ferre e
Montecamplo113. Tale domanda si fondava sul preteso diritto secondo cui le difese – distaccate dal patrimonio comunale di Castellaneta fin dall’anno 1593 – avessero subito notevoli miglioramenti per
mano del principe114: perciò il ricorrente reclamava l’applicazione
dell’art. 22 delle Reali Istruzioni sulla divisione de’ demani115.
L’Acclavio – nella sua risposta del 9 agosto 1810 – riferì di essersi recato personalmente sul posto nel precedente mese di luglio
e di aver rilevato che la difesa di Montecamplo fosse incolta e non
suscettibile di coltura per essere tutta montuosa e boscosa o ricoperta
da macchie. Ne conseguiva che nessuna miglioria potesse ritenersi
essere stata effettuata, tranne che aver costruito un piccolo muro a
secco attorno alla stessa. La difesa Le Ferre era invece in gran parte
coltivata, abbondava di alberi di ulivo in parte trapiantati a cura del
possessore116 ed su di essa insisteva un pozzo ed «una casetta per comodo del colono». Sottoposti a perizia per ordine del Commissario,
la spesa per tali miglioramenti era stata stimata in ducati 3642.42,
a cui andava aggiunta la spesa per la realizzazione del muro esistente nella difesa di Montecamplo: il credito vantato dal principe
112
Ivi, p. 8. Rapporto di riscontro al Ministro, Altamura, 14 giugno 1810.
Ivi, p. 13. Il ministro dell’Interno Zurlo al commissario Acclavio.
114
La commissione feudale con sentenza del 6 aprile 1810 aveva condannato
il principe di Acquaviva a rilasciare in favore del comune di Castellaneta le due
difese. La stessa sentenza da atto degli intervenuti miglioramenti «che per lo speso
solamente tali migliorazioni si fossero dedotte nell’atto dell’esecuzione». Bollettino n. 4/1810.
115
Decreto 10 marzo 1810, n. 588, cit., art. 22: «Se il possessore abbia fatto
delle migliorie nella difesa, effetto della mano d’uomo, e non della natura, ed offra
al comune un compenso equivalente in terre, ed in difetto di queste, in un canone,
il Commessario ammetterà tale offerta».
116
Gli alberi di ulivo si estendevano per tomoli 94, pari a circa 3 carra e ½
di terreno nella misura di Puglia. Supplemento Bollettino n. 29, p. 14. Rapporto
dell’Acclavio al Ministro. Gioia del Colle, 22 agosto 1810.
113
151
STEFANO VINCI
di Acquaviva ammontava quindi a ducati 396537 che – secondo un
provvedimento emesso dall’Acclavio – sarebbero dovuti essere pagati dal Comune in favore del feudatario entro quattro mesi117. Per
quanto concerne la pretesa censuazione in virtù del richiamato art.
22 delle istruzioni per la divisione dei demani, il Commissario rilevò come essa non potesse trovare applicazione nel caso concreto
in virtù del fatto che il principe di Acquaviva l’aveva invocata per
tutti i fondi118: «La legge che intende sempre al favor dell’agricoltura, ed avendo un giusto riguardo all’industria dell’uomo promotrice
dell’aumento della ricchezza nazionale, offre saggiamente un mezzo
onde far rimanere al possessore il fondo migliorato per le di lui cure
senza pregiudicare l’interesse altrui». Sulla base di tale precisazione,
l’Acclavio rilevò come ad eccezione dell’oliveto, le difese non avevano ricevuto nessun miglioramento119. Inoltre mancava il presupposto della qualità di demanio ex feudale necessario per l’applicazione
della norma: nel caso di specie le difese – lungi dall’essere state feudali – erano nel patrimonio dell’università di Castellaneta, quando
nel 1593 passarono «per titolo di compera al barone di quel tempo,
che non ne sborsò l’intero prezzo, né le acquisto colle solennità della legge». La Commissione feudale ne ordinò infatti la reintegra a
favore del comune, compensando la quota di prezzo con la totalità
117
Ivi, p. 16. Fino a che non fosse stato eseguito il pagamento, l’Acclavio aveva accordato «la ritenzione del solo oliveto col peso di dar conto del frutto pendente, e ricevendo in escambio per suo credito l’interesse del 5 per 100 a contare dal di
I di gennaio del presente anno, quando per la general consuetudine della Provincia
i frutti degli oliveti incominciano a decorrere». Dispose pertanto la immissione
nel possesso da parte del comune del rimanente della difesa Le Ferre e dell’intera
difesa Montecamplo giusta i confini riconosciuti dai periti.
118
Rilevava l’Acclavio che l’applicazione della citata norma richiedeva due
condizioni: che il fondo fosse stato notabilmente migliorato per mano dell’uomo
e che si trattasse di un demanio ex feudale, illegittimamente chiuso a difesa, «il
quale perciò cadendo in divisione per la quota equivalente agli usi spettanti ai
cittadini, dovrebbe rilasciarsi in parte». Ivi, p. 16.
119
Spiegava l’Acclavio che non potesse considerarsi miglioramento la coltivazione di una parte del terreno erboso de Le Ferre, «il quale senza alcun dispendio
del feudatario, ed appiccandosi da’ coloni il fuoco alle poche macchie ivi esistenti, è stato messo a semina. Egli è perciò, che i periti niuna spesa han valutato in
questo dissodamento, che per la costumanza del luogo cadendo tutta a carico del
fittuario, è abbastanza compensata dalle abbondanti ricolte, che la terra fresca e
piena di sali suol dare ne’ primi anni». Ivi, p. 17.
152
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
dei frutti fino ad allora percepiti120. Poste tali premesse, l’Acclavio
rigettò la domanda avanzata dal principe di Acquaviva diretta alla
censuazione delle difese. Ritenne però che – in considerazione della maggiorazione di valore (pari forse al triplo della spesa erogata)
dell’oliveto impiantato su la difesa Le Ferre «formato per l’industria
del possessore» – sarebbe tornato utile al comune avere per l’equivalente prezzo terreni coltivabili da dividere tra i cittadini: poiché
infatti il detto oliveto era di rendita incerta e richiedeva «somma cura
per la manutenzione», il Commissario prescrisse un termine per l’ex
barone entro il quale avrebbe dovuto dichiarare se intendeva offrire
un compenso in terre, ai sensi del citato art. 22. Per quanto riguarda
invece la difesa di Montecamplo, «selvosa e ricoperta di pini utili
alla Marina»121, vicina all’abitato e di una rendita cospicua per fida
di animali, l’Acclavio ritenne che essa doveva considerarsi di grande
vantaggio per il comune122.
Il 6 febbraio del 1811 il ministro dell’Interno tornò a scrivere
all’Acclavio e a richiedergli parere in ordine ad un nuovo esposto
presentato dal principe di Acquaviva con riferimento alle difese site nel territorio di Castellaneta – denominate Orsanese, Termitosa e
Bulsanello – cedute nel 1631 dal comune all’ex feudatario a soddisfazione dei suoi debiti123. In particolare il principe lamentava che
sulla difesa di Bulsanello – «tutta censita nel diritto di pascolare e di
fida su’ fondi appadronati ancorché sieno arbusti, essendo soltanto
lecito al possessore di pascere co’ suoi animali nel proprio fondo»
e su cui era stato esercitato il diritto di fida e di pascolo da parte
dell’ex barone fino al 1809 – a seguito della pubblicazione del real
120
Sentenza del 6 aprile 1810, cit.
Scriveva Acclavio di aver visitato per due volte questa difesa: «ella per 2/3
almeno è ricoperta da sole macchie, e non ha che pochi alberi, e quasi niuno in
costruzione. I pini che e per la pece e per legname sarebbero utilissimi alla Marina,
sono in altra parte del territorio di Castelleneta, la quale come demanio ex feudale, o comunale, richiamerà a stagione più propria la mia attenzione». Rapporto
dell’Acclavio al Ministro, 22 agosto 1810, cit., p. 20.
122
Riteneva il principe di Acquaviva che i corpi morali erano incapaci della
manutenzione dei boschi. Se tale assunto fosse vero – secondo l’Acclavio – «niun
comune del regno dovrebbe partecipare a’ terreni boscosi nell’attual divisione de’
demani». Ivi, p. 23.
123
Ivi, p. 31. Ministeriale del Commissario. 6 febbraio 1811.
121
153
STEFANO VINCI
decreto del 16 ottobre 1809124, i possessori avevano ritenuto che i
loro poderi non dovessero più soggiacere a questo servaggio, ma essere «in loro balia di chiuderli e di servirsi esclusivamente dell’erba
che vi nasce»125. Di conseguenza il principe di Acquaviva – di fatto
privato dell’esercizio dei suoi diritti – aveva presentato a S.M. un
esposto nel quale chiedeva fosse riconosciuta la legittimità del suo
titolo peraltro già confermata dalla stessa commissione feudale con
arresto del 6 aprile 1810126.
L’Acclavio – nel suo rapporto al Ministro – ritenne non esservi
dubbio in ordine al fatto che il comune di Castellaneta, «servendo
nel 1631 alla urgenza de’ suoi bisogni», chiuse in difesa ed alienò il
diritto di pascolo sui fondi appadronati, che secondo la consuetudine
della regione veniva esercitato promiscuamente da tutti i cittadini.
Questa «privativa» – stabilita in parecchie contrade che «per avventura» erano limitrofe all’abitato e che, per la ‘vetustà’ degli alberi di
ulivo ivi esistenti, erano le più «anticamente appadronate» – prese
il nome di difesa di Bulsanello a cui furono aggiunti altri terreni patrimoniali del comune. Tanto bastò al Commissario per ritenere che
i possessori fossero in diritto di vendicare la piena libertà dei loro
fondi, chiudendoli e disponendo dell’erba che era stata dichiarata
di piena proprietà dal decreto del 16 ottobre 1809. Anche se fosse
stato vero quanto sostenuto dall’ex barone, secondo cui non poteva trovare applicazione nel suo caso il citato decreto che aboliva i
diritti di pascolo e di fida esercitati per titolo di feudalità nei fondi
così chiusi come aperti posseduti dai privati, lo stesso non avrebbe
comunque potuto conservare un diritto che il comune aveva perduto
in conseguenza della facoltà accordata ad ogni proprietario di chiu-
124
Il decreto 16 ottobre 1809, cit., prevedeva all’art. 3 il divieto di esigere la
decima dell’erba, ogni diritto di fida, ogni esazione di erbatica, carnatica, giornate
di latte, e di ogni prestazione sugli animali e sui loro prodotti.
125
Altro. Il Regio Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Altamura Regio commissario incaricato della divisione de’ demani a S.E. il Ministro
dell’Interno, 18 maggio 1811, p. 32.
126
La commissione feudale lo aveva infatti assolto dall’azione di reintegra
delle difese avanzata dal comune. L’ex barone chiedeva che gli fosse garantito
l’esercizio del suo diritto «fino a che non piaccia allo stesso comune di ricomprare
i suoi fondi per lo prezzo di ducati 26000 nel corso del quinquennio, siccome a’
termini del codice civile la commissione glie ne ha dichiarato il fatto». Ibidem.
154
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
dere senza compenso il proprio fondo per liberarlo, ai sensi dell’art.
47 del real decreto 3 dicembre 1808127, dalla servitù di compascuo.
Quindi se per effetto della legge, il diritto del Comune si era estinto
e non poteva più ulteriormente gravitare sui fondi dei privati, doveva
ritenersi anche risolto ed estinto il diritto dell’ex barone. Sulla base
di tali considerazioni l’Acclavio concluse che si dovesse negare al
principe di Acquaviva l’esercizio del pascolo sui fondi privati della
difesa di Bulsanello e poiché la perdita del suo diritto nasceva da
disposizioni di legge – e non per fatto del venditore – non doveva competergli nessun diritto di regresso nei confronti del comune.
Il ministro dell’Interno Zurlo con ministeriale di riscontro del 27
giugno 1811 ritenne «giusti i principi» adottati dal Commissario ed
approvò le disposizioni date128.
Un’ulteriore supplica era stata presentata nel luglio del 1810 al
S.E. il ministro dell’Interno dal signor Antonio Tafuri, il quale domandava che in conformità degli artt. 17, 22 e 30 delle istruzioni del
10 marzo 1810129 fosse mantenuto – con la corresponsione di un canone annuo – nel possesso di 8 carra di terreno della difesa denominata Le Ferre, a lui pervenuti «per compra fattane dalla casa baronale
di Castellaneta». Il ministro Zurlo rimise la supplica all’attenzione
del commissario ripartitore Acclavio, affinché riscontrasse se il ricorrente potesse essere compreso nella classe dei coloni perpetui e
prendesse le provvidenze corrispondenti130. Rispose l’Acclavio che
127
Decreto 3 dicembre 1808 n. 223, cit., art. 47: «Essendosi sperimentati infruttuosi i provvedimenti contenuti nell’editto del 1792 per le affrancazioni della
reciproca servitù del pascolo, che, secondo la consuetudine generale del regno,
hanno tutti i fondi aperti fra loro, e trattandosi d’una operazione che riguarda l’utile scambievole di tutti i fondi, dichiariamo che resta nella libertà di tutti l’esentare
in tutto o in parte dalla servitù del compascuo i propri fondi, purché li chiudano
con pareti, con fossate, con siepi, con altri argini continui, che proibiscano l’ingresso agli animali per tutto l’estensione del fondo, o per quella parte che vuol
chiudersi. La disposizione di questo articolo non comprende i demani, siano feudali ed ecclesiastici, siano comunali non ancora divisi».
128
Supplemento Bollettino n. 29, p. 35. Ministeriale di riscontro. Il ministro
G. Zurlo al commissario ripartitore D. Acclavio, 27 giugno 1812.
129
Decreto 10 marzo 1810 n. 588, cit.
130
Supplemento Bollettino n. 36 (appendice ai nn. 22 e 23), p. 291. Ministeriale del Commissario. Il ministro dell’Interno al Sig. commissario Acclavio, 7
luglio 1810.
155
STEFANO VINCI
il fondo oggetto della richiesta del Tafuri apparteneva al comune di
Castellaneta, il quale – in virtù di sentenza della commissione feudale del 6 aprile 1810 era stato reintegrato nel possesso della difesa
Le Ferre illegalmente distratta fin dall’anno 1593 a favore del barone
di quel tempo – aveva il diritto di riunire nella medesima l’indicato
terreno che l’ex feudatario Giambattista Mari con due strumenti del
13 dicembre 1793 e 11 dicembre 1766 aveva distaccato a titolo di
vendita a favore dell’allora tesoriere della cattedrale Girolamo Plagese, da cui il signor Tafuri ebbe causa. Questo terreno fu descritto
nell’atto di vendita come sterpinoso e macchioso, ma per le cure del
compratore e dei suoi eredi si trovava adesso in gran parte ridotto a
coltura, e su di esso erano state costruite una masseria con varie fabbriche e comodi rurali. Portata a conoscenza del sindaco del comune di Castellaneta la supplica del sig. Tafuri, il decurionato deliberò
che «sebbene non sembri potere in giustizia colui ritenere a censo la
masseria illecitamente vendutagli», pure doveva considerarsi che vi
esistevano in quella dei notabili miglioramenti, soprattutto in fabbriche, che sarebbe stato necessario pagare, «laddove il possessore non
fosse reputato colono nella parte migliorata: che oltre a ciò, se non a
titolo di giustizia la pretesa censuazione possa aver luogo, pare che
gli si debba accordare a titolo di riconoscenza»131. Il sindaco, nel
rimettere l’estratto della deliberazione decurionale al commissario
Acclavio, manifestò che sarebbe stato di maggior profitto per il comune che il signor Tafuri avesse ritenuto a censo la masseria con un
conveniente canone, facendo osservare che qualora l’avesse persa
sarebbe stato necessario dividere tra i cittadini i terreni unitamente a
quelli della difesa Le Ferre con tutte le fabbriche, il di cui valore ammontava a più di mille ducati. Sulla base delle considerazioni svol-
131
Ivi, p. 295. Riscontro al Ministro, 6 settembre 1810. Le ragioni della riconoscenza erano determinate dai seguenti rilievi: «1. perché quella città e la la
classe più povera deve alla famiglia Tafuri la fondazione e il mantenimento di 3
monti pubblica beneficenza, l’uno chiamato pecuniario, l’altro frumentario, e ‘l
terzo di montaggi; da’ quali e colla distribuzione de’ grani, e col mutuo grazioso
del denaro, e colla dispensa di 6 o 7 dotary all’anno, i poveri ricevono grandissimo sollievo; 2. perché ne’ 2 passati anni il sig. Bernbardino Tafuri, fratello del
ricorrente, in qualità di sindaco ha sostenuto con somma energia e zelo i dritti del
comune contro del principe di Acquaviva, ad onta di compromettere il godimento
di quelle terre nella sua famiglia».
156
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
te dal sindaco e dal decurionato di Castellaneta, l’Acclavio ritenne
che gli articoli delle istruzioni per la divisione dei demani invocati
dal Tafuri non potessero riconoscergli il diritto di ritenere a censo
le terre rivendicate dall’università in quanto da lui non possedute a
titolo di colonia132 e per non aver effettuato nessuna migliorazione
ai sensi dell’art. 30 del citato decreto133. Nonostante ciò, il Commissario stimò poter accordare la domanda per due ordini di motivi.
Prima di tutto perché la masseria in questione aveva fabbriche e comodi rurali tali da reggere una vasta industria e dar ricovero a tutti
i coloni ed agli animali da coltura «necessari per far valere le terre
che ne costituiscono la dote»134. In secondo luogo perché il comune
di Castellaneta aveva un immenso territorio coltivabile con una debole popolazione, che non raggiungeva il numero di 5000 abitanti.
Tra questi ¾ almeno erano proprietari e soltanto duecento famiglie
avrebbero potuto concorrere alla ripartizione dei demani comunali
e dei fondi patrimoniali della università soggetti alla divisione135. A
132
Infatti l’art. 17 del decreto n. 588/1810 prevedeva: «I demani relativamente
alle colonie perpetue che possono trovarsi stabilite, debbono essere distinti in due
classi: quelli dei quali l’intera superficie si trovi occupata da coloni perpetui; gli
altri occupati per una parte sola, o che questa sia continua, o che sia interrotta per
colonie disseminate nell’intera continenza del demanio. Nel primo caso, avendo
il real decreto dei 16 di ottobre del caduto anno, dichiarata l’erba di proprietà dei
rispettivi padroni anche superficiari, è cessato ad un tempo nell’ex-Barone il diritto alla fida, e nei cittadini la partecipazione agli usi. Dal terratico e dalla decima
in fuori che questi così detti coloni debbono pagare all’ex-Barone, come riserva
del di lui dominio, essi sono riputati come assoluti padroni delle loro rispettive
porzioni, ed ogni servitù è rimasta estinta. Quindi questi demani trovandosi già legittimamente ripartiti, non possono cadere in altra divisione. Nel secondo caso, ciò
che è stato spiegato per lo tutto, è applicabile anche alla parte. Cadrà in divisione
la parte non occupata, ed i coloni perpetui che sono in possesso dell’altra, saranno
riguardati come ogni altro possessore dei fondi propri allodiali».
133
Ivi, art. 30. L’Acclavio ritenne che nel caso di specie «la riduzione del terreno da macchioso a seminabile ottenendosi colla sola azione del fuoco, non apporta
al proprietario alcuna spesa; ma questa è sostenuta dal colono, che nella feracità
delle raccolte de’ primi anni vi si trova un sufficiente compenso». Riscontro al
Ministro, 6 settembre 1810, cit., p. 297.
134
Osservava il Commissario che il rifacimento del prezzo di queste fabbriche
sarebbe risultato molto gravoso per l’università e di nessun uso per i cittadini ai
quali il terreno sarebbe dovuto essere diviso in poche tomola. Sarebbe inoltre risultato contrario ai principi di equità «che l’edifizio con piccolo spazio si lasciasse
al possessore cui sarebbe ugualmente inutile che di carico». Ivi, p. 298.
135
«Per l’opposto la massa delle terre coltivabili eccede di gran lunga il biso-
157
STEFANO VINCI
ciò si aggiungeva il rilievo secondo cui anche i comuni vicini di Laterza, Ginosa, Palaggianello e Gioja avevano terre soprabbondanti
ai loro usi che per essere messe a coltura avrebbero necessitato del
doppio delle braccia a loro disposizione. L’Acclavio ritenne – in applicazione dell’art. 22 n. 3 del real decreto 3 dicembre 1808136 – che
le 8 carra di terre, appartenenti al comune di Castellaneta per effetto
della ottenuta reintegrazione della difesa Le Ferre, dovessero essere
rilasciate a censo al signor Antonio Tafuri con la corresponsione di
un giusto canone da stabilirsi a giudizio dei periti avuto riguardo al
valore attuale delle terre137.
La divisione dei demani fu disposta con ordinanza del 29 marzo
1813 del commissario del Re per la divisione dei demani, il quale,
considerò che gli usi civici – dichiarati dal giudicato della commissione feudale del 7 luglio 1810 – a favore del comune di Castellaneta nel demanio ecclesiastico delle Gualelle appartenevano alla
classe degli essenziali, attesa la spiegazione data alla clausola degli
usi pieni e comodi dalla circolare del ministro dell’Interno in data
11 luglio 1810 ed i successivi chiarimenti comunicati dal Procuratore Generale presso la suddetta commissione138. Nonostante gli
arbitri avessero ritenuto che gli indicati usi dovessero essere classificati come utili «per la circostanza del legnare, indistintamente
e del mercimonio della calce» ritenne il Commissario che «pur tal
mercimonio deve intendersi tra’ cittadini, e quindi non altera nè la
gno della popolazione, ed i mezzi in farle valere, quando anche tutti i cittadini vi
concorressero, o le porzioni di coloro che le rinunciassero venissero domandate
dagli altri». Ibidem.
136
Decreto 3 dicembre 1808, n. 223, cit. Art. 22 c. 3: «Dove le terre demaniali
fossero tanto estese, che sorpassassero il bisogno della popolazione ed i mezzi che
in essa si possono trovare per la cultura, l’Intendente dovrà sospendere la divisione, esporre le circostanze del comune a cui il territorio appartiene, e de’ Comuni
vicini, ed attendere la nostra determinazione, che prenderemo sul rapporto del
nostro Ministro dell’Interno, udito il nostro Consiglio di Stato».
137
Poiché il richiamato art. 22 prevedeva che l’ammissione della domanda di
censuazione dovesse essere accordata dal Re, il Commissario rimetteva la proposta al ministro dell’Interno. Il 15 settembre 1810 il ministro Zurlo rispondeva
all’Acclavio di approvare la sua decisione.
138
Bollettino delle ordinanze dei commissari ripartitori dei demani ex feudali
e comuinali delle province napoletane, cit., n. 9. Ordinanza del 29 marzo 1813,
p. 180.
158
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
natura di essi, né il giudicato della Commessione». Tali circostanze
non concorrevano ad aumentare il minimum stabilito dall’art. 16
delle istruzioni del 10 marzo 1810139, visto che il comune di Castellaneta non era sprovveduto di territorio e la sua popolazione non
eccedeva il numero di 5000 abitanti: di conseguenza l’Acclavio ritenne regolare ed equo stabilirsi il compenso al quarto del demanio,
dedotte le colonie, che con la coltivazione di un decennio erano
diventate perpetue140. L’ordinanza prevedeva che entro 3 giorni le
parti avrebbero dovuto scegliere 3 periti141, uno dei quali necessariamente agrimensore, i quali avrebbero avuto il compito di riconoscere i confini del demanio e – fatta la segregazione delle terre
coloniche – effettuare la misura e l’apprezzo di quello rimanente, il
di cui valore sarebbe stato accantonato in favore del comune dalla
parte più comoda e più vicina all’abitato, da «controsegnarsi con
termini lapidei». Eseguita la divisione, il rimanente territorio sarebbe stato posseduto dal Real Demanio in piena proprietà e scevro da
qualsiasi uso o servitù civica142.
3.4. Faggiano
Numerosi erano i diritti feudali ancora esercitati nel comune di
Faggiano dalla principessa Maria Francesca Alberini, nei cui confronti la Commissione dispose che si astenesse dall’impedire all’Università ed ai suoi cittadini di poter costruire forni, molini, centimoli, tappeti e palmenti di qualsivoglia sorte; di poter tenere ed
esercitare osterie, taverne, stalle, botteghe lorde e macelli; di poter
vendere commestibili e carne tanto all’ingrosso che al minuto; di
esigere il c.d. testatico, o vassallaggio, o bocca, per i quali pretende139
Decreto 10 marzo 1810, art. 16, cit.
Si legge nell’ordinanza: «sono esenti dalla divisione tutti i terreni che saranno riconosciuti soggetti a colonie perpetue, le di cui prestazioni, a’ termini del
giudicato della commessione, verranno esclusivamente corrisposte al Real Demanio, salvo a’ coloni il diritto di chiudere i loro fondi. Ordinanza 29 marzo 1813,
cit., p. 185.
141
Se le parti non li avessero scelti entro tale termini, sarebbero stati nominati
d’ufficio. Ibidem.
142
Ibidem. Il consigliere aggiunto dell’Intendenza di Lecce signor Astore era
incaricato della esecuzione dell’ordinanza. A lui spettava il compito di far redigere
i corrispondenti processi verbali e rimetterli per l’approvazione.
140
159
STEFANO VINCI
va annui carlini 8 per ogni naturale capo di famiglia ed altre annue
grana 5 anche dai loro figli di anni 7; di esigere grana 35 da ogni
naturale capo si famiglia e grani 17 e ½ da ciascuna vedova sotto il
nome di portolania, zecca, o vassallaggio; di impedire ai cittadini di
Faggiano l’uso civico per causa di commercio anche fra i concittadini sul demanio ex-feudale della stessa terra di Faggiano e il loro
dominio e i loro diritti sul demanio universale, come anche sui loro
territori appadronati; di immettere bestiami, o cagionare danno nei
territori dove si trovavano biade, prati, giardini, vigne ed altri alberi
fruttiferi appartenenti all’università143.
Seguirono ulteriori questioni sollevate dall’università di Faggiano e portate al giudizio della Commissione feudale. In particolare
il comune chiese che fosse accertato quali diritti competevano alla
universalità degli abitanti di Faggiano sul luogo detto La Serra, ossia Monte. La Commissione prese in esame le capitolazioni reali
concesse all’ex feudataria in data 1556, 1647 e 1648: da tali documenti emergeva come la popolazione di Faggiano si fosse insediata nel territorio soltanto a seguito dell’infeudazione. Pertanto gli
abitanti non avrebbero potuto rappresentare sul suolo «nuovamente
abitato nessun diritto diverso da quanto loro concesso. «Riflettendo
però d’altra parte che gli usi non possono essere loro denegati a’
termini delle stesse capitolazioni, e che l’uso nel senso della legge
abbraccia tutto ciò ch’è relativo a’ comodi reali della popolazione:
ciocchè importa pienezza di diritto nell’esercizio degli usi civici
sulla totalità del territorio chiamato Monte o Serra»144. Al fine di
dare esecuzione al giudicato, furono nominati gli arbitri per la estimazione degli usi civici145 i quali ritennero di accordare al comune
143
Bollettino n. 5/1809, p. 72. Sentenza n. 9 del 16 maggio 1809.
Bollettino n. 9/1809, p. 7. Sentenza n. 2 del 1 settembre 1809. La commissione statuì inoltre che il barone fosse autorizzato ad esigere le decime sui soli
prodotti di grano, fave, orzo, avena, vino mosto ed ulive, riscuotibili i primi 4 generi triturati sulle aje dei particolari, il vino mosto nei palmenti dei proprietari e le
ulive in natura sui luoghi dove esse si raccoglievano. Concesse altresì ai reddenti
la facoltà di commutare il peso territoriale in canone fisso e redimibile ai termini
della legge.
145
Fu nominato il sig. Ciro Scarmiglia da parte del Comune e il sig. Francesco
Minerola da parte dell’ex feudataria. Bollettino delle Ordinanze dei Commissari ripartitori, cit., n. 15, p. 5. Ordinanza del commissario Acclavio del 20 marzo 1811.
144
160
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
di Faggiano 15 moggia di terreno vicino all’abitato, unicamente riducibile a coltura, valutato in ducati 414, sulla rendita attribuitagli
di ducati 20 e grana 70 ed altre moggia 160 di terreno macchioso e
sassoso in contatto del coltivabile, valutato in ducati 3 il moggio,
sulla rendita di grana 15: in questo modo la quota del comune si
faceva ammontare a ducati 894, risultante dal prezzo delle indicate
175 moggia, lasciando all’ex feudatario il rimanente territorio sassoso, della estensione di moggia 505 stimato in ducati 1515. Tale
parere degli arbitri fu contestato dal comune di Faggiano nel consiglio decurionale del 5 febbraio 1811, in seno al quale fu deliberato
di avanzare richiesta di riforma del giudizio degli arbitri, i quali
avevano dato una «forte valutazione» ai terreni del comune, la cui
quota era da considerarsi scarsa. La questione fu portata dinanzi al
commissario ripartitore, il quale – come risulta dal processo verbale
del 18 marzo 1811 – riuscì a conciliare le parti146, che acconsentirono a riconoscere la quota nel comune nel demanio del Monte pari a
2/5 del suo valore da accantonarsi dal sito più vicino all’abitato147.
L’Acclavio – considerato che l’assegnazione di 2/5 del demanio tornava utile agli interessi del comune – ritenne necessario si dovesse
procedere a nuova misura ed apprezzo del Monte demaniale, affinché fosse dato l’equivalente quota al comune in proporzione del suo
giusto valore148. Dalla perizia risultò che la estensione dell’intero
demanio fosse di 593 moggia e 401 passi quadrati di cui 150 moggia e 650 passi di prima classe del valore di ducati 7 e grana 7 e ¼
il moggio; 188 moggia e 716 passi di seconda classe del valore di
ducati 2 e grana 35 e ¾ il moggio: 254 moggia e 35 passi di terza
classe pari a ducati 1 e grana 41 e 1\/3 il moggio. Poiché quindi
il prezzo dell’intero territorio corrispondeva alla somma di ducati
146
Ai sensi dell’art. 4 del decreto n. 495 del 23 ottobre 1809, cit., «Il primo dovere de’ Commissari sarà quello d’impiegare le loro cure per terminare col mezzo della
conciliazione tutte le contese che potessero sorgere sull’oggetto delle divisioni».
147
Il valore sarebbe dovuto essere soggetto ad estimazione da parte di periti.
Ibidem.
148
L’Acclavio ordinò che le parti entro 3 giorni avrebbero dovuto convenire
nella scelta di 3 periti, tra cui un agrimensore, affinché procedessero alla misurazione e valutazione del terreno e quindi, in risultato del prezzo, ‘risecarne’ 2/5 a
favore del comune dalla parte più vicina all’abitato, includendo le terre coltivabili.
Ibidem.
161
STEFANO VINCI
1862 e grana 85 ½, la quota di 2/5 spettante al comune risultò pari
a ducati 722 e grana 20, compensabili con 173 moggia e 804 passi
quadrati di territorio, composti cioè di 69 moggia e 833 passi di prima classe; di 84 moggia e 788 passi di seconda classe; di 19 moggia
e 83 passi di terza classe149. Rilevò l’Acclavio che i periti erano incorsi in errore, perché – invece di fissare i 2/5 in ducati 745 e grana
10, avuto riguardo della totalità del prezzo in ducati 1862 e grana
75 – lo avevano fissato in ducati 722 e grana 20, pregiudicando il
detto comune nella somma di ducati 22 e grana 20: tale errore doveva essere corretto, aggregandosi alla quota del demanio assegnato al
comune «tanto terreno che compia la indicata somma»150.
L’anno successivo la principessa di S. Angelo Imperiale presentò
al ministro dell’Interno un ricorso avente ad oggetto la domanda di
conservare un edificio formato nel demanio ex feudale per ricovero
dei suoi animali, richiamando l’art. 30 delle istruzioni del 10 marzo
1810151. In data 25 ottobre 1812 lo Zurlo rimetteva a Domenico Acclavio, commissario ripartitore del Re per la divisione dei demani in
Terra d’Otranto, il ricorso «per l’uso conveniente»152. L’Acclavio,
nel suo dettagliato riscontro al Ministro del 3 ottobre 1812, rilevava
preliminarmente come a seguito della sentenza della commissione
feudale del 1 settembre 1809 – con cui erano stati riconosciuti gli
usi civici nel territorio detto il Monte dichiarato demanio ex feudale
– si era proceduto alla divisione del territorio e che con ordinanza
del commissario ripartitore del 20 marzo 1811 erano stati assegnati
149
Ivi, p. 9. Minuta di ordinanza del Regio Procuratore generale presso la
Corte di Appello di Altamura e commissario del Re per la divisione dei demani,
Taranto, 23 aprile 1811.
150
A tal fine l’Acclaviò stabilì che il decurionato dovesse intervenire con il
sindaco all’assegnazione e compimento della quota, confinazione e apposizione
dei termini lapidei. Ivi, p. 13.
151
L’art. 30 del Decreto 10 marzo 1810, n. 588 (in BLD, 1810, I) dal titolo
Istruzione ai Commissari per la divisione dei demani, prevedeva che: «Saranno
eccettuate le porzioni di demanio nelle quali il colono abbia immutato la superficie in meglio e le migliorie sieno tali che possano dirsi fixe vinctae. In questo
caso tutto il migliorato resterà in porzione del colono, ancorché il contingente sia
maggiore. Dove siavi stata fatta una fabbrica solamente, questa s’includerà nel
contingente del coloni».
152
Supplemento Bollettino n. 13, p. 3. Il ministro dell’Interno al Signor Acclavio, 25 ottobre 1812.
162
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
al comune di Faggiano 2/5 nella estensione di moggia 188 stimati
per ducati 745.10153. Nel porre in esecuzione l’ordinanza l’Acclavio
aveva riscontrato come, nel territorio assegnato al comune, «venivano di necessità a cadere alcuni edifizi ad uso di capanne di pecore
e capre, e di abitazione di pastori», poste in vicinanza dell’abitato.
Laddove per la conservazione di tali costruzioni si fosse voluto assegnare al comune altro territorio, ciò non sarebbe stato possibile, perché – essendo il demanio diviso in due parti per intersecazione del
territorio di Roccaforzata, che si estendeva sino a pochi passi dalle
mura di Faggiano – sarebbe stato necessario prendere una ulteriore
quota a 4 miglia di distanza presso «la terza di S. Giorgio, se in grazia delle indicate fabbriche non gli si fosse lasciato l’arbitrio di scegliere il terreno più vicino»154. Per risolvere la questione, l’Acclavio
ordinò di immettere comunque il comune nel possesso del territorio
assegnato «con rimanere in balia dell’ex feudataria principessa di
S. Angelo, di togliere le fabbriche annessevi». Fu questa la ragione delle doglianze lamentate dalla principessa dinanzi al ministro
dell’Interno a cui chiese la conservazione di un ricovero per animali,
offrendo in compenso un terreno che desse l’annua rendita di ducati
70, o un canone nella stessa somma franco da qualunque ritenzione
per causa di fondiaria. Nel ricorso la principessa acconsentiva altresì
che i cittadini continuassero «ad esercitare gli usi di pascolare co’
loro animali, menoché con capre, pecore e porci, di legnare e tagliar
pietre nell’intero demanio e di pagare al comune in compenso de’
frutti non interamente goduti a tutto il corrente anno la summa di
ducati 64, oltre a ducati 20 a titolo di spese. La questione fu portata
dinanzi al decurionato di Faggiano, il quale rilevò che i terreni offerti
in compenso – «essendo in alto valore» – non avrebbero potuto soddisfare il bisogno dei cittadini e che non sarebbe stato possibile provvedere alla suddivisione della quota del demanio, attesa la qualità
montuosa e incoltivabile del medesimo. Inoltre ritenne il consiglio
cittadino che era più confacente agli interessi del comune assicurare
l’annua prestazione di ducati 70 più che sottostare alla eventualità
della rendita o del censo di pochi tomoli di terreno che si proponeva
153
Riscontro dell’intendente di Terra d’Otranto a S.E. il ministro dell’Interno.
31 ottobre 1812. Ivi, p. 5.
154
Ivi, p. 6.
163
STEFANO VINCI
assegnarsi in compenso155. Con riferimento poi all’invocato art. 30
del decreto 10 marzo 1810, l’Acclavio ritenne che esso non poteva trovare applicazione nel caso di specie, in virtù del fatto che la
norma prevedeva espressamente solo l’ipotesi dei demani comunali
migliorati con fabbriche dai cittadini e non anche il caso di miglioramenti posti in essere dall’ex barone nei demani feudali. Nonostante
l’impossibilità di applicare tale norma, l’Acclavio volle comunque
aderire alle conclusioni formulate in seno al decurionato in virtù delle buone condizioni del compenso offerto dalla principessa e rilevò
che «non essendo sperabile che per la qualità sassosa e sterile del
demanio la porzione destinata al comune possa ripartirsi a’ cittadini, e coltivarsi essa rimarrebbe nella comunione di tutti per gli usi
di legnare, pascere e scavar pietre»156. Tale vantaggio sarebbe stato
assicurato ai cittadini in virtù della rendita di annui ducati 70 (o lire
308): sebbene il diritto di pascere avrebbe sofferto una limitazione
nella specie degli animali, tale restrizione sarebbe stata compensata
dall’esercizio di far pascolare indistintamente gli animali «vaccini e
somarini, legnare e tagliar pietre nell’intero territorio, usi più essenziali a’ cittadini, che quei di pascere con pecore, capre e porci, di cui
il paese è sprovveduto»157.
Sulla base di tali indicazioni, l’Acclavio sollecitò il Ministro – nel
caso in cui avesse condiviso la soluzione prospettata – di richiedere
l’approvazione del Re in virtù della quale il commissario ripartitore avrebbe potuto emettere la corrispondente ordinanza «per la futura cautela delle parti». Il ministro Zurlo rispose all’Acclavio che
«trovandosi con sovrana autorizzazione in voi prorogate le facoltà
accordate agl’Intendenti col decreto 27 dicembre ultimo relativamente alla divisione dei demani, e credendo poi espediente ed utile
la convezione progettata tra il comune di Faggiano e l’ex feudataria
[…] potete razionarlo con una vostra ordinanza»158. Stabilì quindi
155
Il verbale consiglio decurionale di Faggiano del 2 ottobre 1812 si trova
allegato alla lettera di riscontro dell’Acclavio al Ministro. Ivi, p. 15.
156
Ivi, p. 11.
157
Ibidem: «Sembrami inoltre che non potendosi coll’assegnazione di poche
moggia di terre coltivabili soddisfare al voto della legge, sia plausibile il progetto
di ottenersi in vece di una rendita sicura, che ridonderà a benefizio di tutta la popolazione mercè la soppressione di qualche dazio».
158
Ministeriale all’Intendente di Terra d’Otranto. Ivi, p. 17.
164
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
l’Acclavio di approvare la convenzione tra il Comune e l’ex feudataria, ordinando che in luogo e della quota del demanio aggiudicata
al comune in virtù dell’ordinanza del 23 aprile 1811 sarebbe stata
corrisposta allo stesso il canone annuo di ducati 70 (pari a lire 308),
franco della ritenzione del quinto, per la contribuzione fondiaria da
pagarsi semestralmente in due rate uguali, a far data dal gennaio
1813. Quindi la principessa sarebbe stata mantenuta nel possesso
della suddetta quota di territorio e dell’intero demanio, salvo però ai
cittadini gli usi di legnare, tagliare pietre e pascolare i loro animali
«vaccini e somarini». La stessa feudataria avrebbe dovuto pagare
entro 8 giorni al comune la somma di ducati 84 (= 369.60 lire) in
compenso dei frutti da esso non percepito a tutto dicembre 1812 e
della rata delle spese della divisione159.
3.5. Fragagnano
Questioni della stessa natura riguardarono anche il comune di
Fragagnano, in cui l’ex barone continuava a vietare ai cittadini l’uso
civico di legnare nei roveti detti volgarmente le Macchie, esistenti nel territorio demaniale, nonostante il Tribunale della Sommaria
avesse in passato sancito «esser lecito a’ cittadini legnare ne’ roveti
detti le Macchie soltanto per uso proprio»160; ad impedire ai cittadini
«il menare a pascolo i loro animali» anche nei propri territori a meno che non gli fosse stata corrisposta una prestazione161; a vietare il
diritto di proibire il pascolo degli erbaggi persino nei luoghi che «in
ciascun anno sogliono rimanere incolti». La Commissione, riservata
la decisione in ordine alla pertinenza dei roveti, richiamò le disposizioni emesse dal Tribunale della Regia Camera della Sommaria
in data 21 marzo 1803 ad effetto delle quali era stato riconosciuto
159
Bollettino delle Ordinanze dei Commissari ripartitori, cit., n. 15, p. 14.
Ordinanza del commissario Acclavio del 14 dicembre 1812.
160
Nell’atto introduttivo del giudizio promosso dall’università neri confronti dell’ex barone si legge che l’uso civico su tali locali sarebbe spettato anche
nell’ipotesi in cui tali terreni fossero stati ex feudali. Bollettino n. 2/1810, p. 943.
Sentenza n. 81 del 22 marzo 1810.
161
In virtù di tale abuso il barone vietava ai cittadini anche di irrigare i loro
fondi e di abbeverare gli animali, mentre pretendeva di immettere il suo bestiame
e dei suoi dipendenti ed affidati nelle terre appadronate. Ibidem.
165
STEFANO VINCI
lecito ai naturali di quella terra l’uso civico di legnare nei detti roveti
denominati le Macchie. Dichiarò altresì il divieto per l’ex barone
di fidare nelle terre dei privati, chiuse o aperte, anche se redditizie
di decima, di canone o di altra prestazione così come nei demani
universali. Mentre riconobbe la possibilità di esercitare il suo diritto
nei fondi propri e nei demani ex feudali, dedotto per questi ultimi
l’uso dei cittadini anche per ragione di commercio tra loro162. Nel
luglio del 1810 la Commissione feudale si trovò nuovamente a decidere su una richiesta presentata dal comune di Fragagnano, rivolta
ad ottenere il riconoscimento degli usi civici nei locali denominati Mosellaci e Cazzato163. Al fine di definire la questione, i giudici
presero in esame il catasto del 1741 da cui si evinceva che il feudatario possedeva in feudale la masseria detta Mosellaci e la difesa
del Cazzato164. Pertanto fu riconosciuto competere agli abitanti del
feudo i pieni usi civici anche per ragion di commercio tra loro nei
locali c.d. difesa di Cazzato e Mosellaci e su tutti gli altri demaniali
del feudo, fatta eccezione per gli orti, i vigneti, i frutteti, gli oliveti
e tutte le altre terre di estensione non maggiore ai 12 moggi di piena proprietà del feudatario. Per dare esecuzione al giudicato della
Commissione feudale, si procedette alla nomina degli arbitri per la
valutazione degli usi civici, i quali furono di uniforme opinione di
accordare al comune di Fragagnano 2/3 degli indicati fondi demaniali in compenso degli usi civici165. La perizia fu oggetto di reclamo
da parte dell’ex barone Lelio dell’Antoglietta, in merito al quale il
commissario Acclavio – udito il parere del cavalier Cataldo Galeota,
Sottintendente di distretto di Taranto e di Giuseppe La Gioia, Giudice di pace del circondario di Taranto ai sensi dell’art. 4 del decreto
23 ottobre 1810 i quali ritennero di assegnare al comune il terzo del
162
Ibidem.
Bollettino n. 7/1810, p. 496. Sentenza n. 68 del 14 luglio 1810. Tra ‘l comune di Fragagnano in provincia di Otranto e ‘l suo ex feudatario sig. Lelio
dell’Antoglietta.
164
Con riferimento a quest’ultima, la Commissione rilevava che non vi erano
elementi che permettevano di riconoscere l’esistenza della difesa in data precedente alla prammatica del 1536.
165
Bollettino delle ordinanze, cit., n. 16, p. 292. Minuta di ordinanza del Regio
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Altamura e commissario del Re
per la divisione dei demani del 18 settembre 1811.
163
166
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
valore dell’intero demanio166 – osservò che i pieni usi civici per causa di commercio, spettanti in virtù della sentenza della Commissione feudale ai cittadini di Fragagnano nei demani feudali, dovevano
considerarsi annoverati nella classe degli usi essenziali, in quanto
consistenti nel diritto di pascere, acquare, pernottare e legnare a secco167. Rilevava altresì che, ai sensi dell’art. 16 delle istruzioni di cui
al decreto 10 marzo 1810168, gli usi civici risultavano compensabili
con una quota di territorio non minore del quarto né maggiore della
metà di demanio: se da una parte il numero degli abitanti di Fragagnano pari a circa 1200, quasi tutti agricoltori, e il loro bisogno di
legna da bruciare consigliava un aumento del minimum della quota,
anche in considerazione della «strettezza del territorio», dall’altra la
qualità del demanio, poco atto a fornire legna da fuoco, e lo scarso
numero degli animali da pascolo non avrebbero indotto a ritenere
possibile un aumento fino al maximum del compenso. Su tali basi,
l’Acclavio ordinò di adottare il parere dei pubblici funzionari aditi,
secondo cui la quota del comune per valutazione e compensi di tutti
166
Decreto 23 ottobre 1809, n. 495, Istituzioni di speciali Commissari per la
divisione dei Demani in BLD, 1809, II. Art. 4: «Il primo dovere de’ Commissari
sarà quello d’impiegare le loro cure per terminare col mezzo della conciliazione
tutte le contese che potessero sorgere sull’oggetto delle divisioni. Allorché non
avran potuto riuscirvi nei dieci giorni consecutivi a quello della presentazione
de’ richiami, essi pronunzieranno sulle quistioni, dopo aver inteso in iscritto il
parere dei due funzionari della Provincia nella quale l’operazione avrà luogo, ed
ordineranno che le divisioni si eseguano in conformità delle decisioni che avran
proferite. Le loro decisioni indicheranno il nome e il parere de’ due funzionarii
consultati, e saranno motivate».
167
L’art. 11 del decreto 10 marzo 1810, cit., stabiliva una tripartizione degli
usi civici: «Gli usi civici dei Comuni su i demani degli ex-Baroni e delle chiese,
o che vogliano su i principi generali riguardarsi come riserve più o meno estese
del dominio, che le popolazioni rappresentavano sulle terre, o come riserve apposte dal concedente per conservare alle popolazioni stesse il mezzo di sussistere,
possono ridursi a tre classi; 1) di usi civici essenziali che riguardano lo stretto
uso personale necessario al mantenimento dei cittadini; 2) di usi civici utili, che
comprendono, oltre l’uso necessario personale, una parte eziandio d’industria; 3)
di usi civici dominicali, che contengono partecipazione a’ frutti ed al dominio del
fondo». L’art. 12 definiva appartenere agli usi della prima classe: «il pascere, l’acquare, il pernottare, coltivare con una corrisposta al padrone, legnare per lo stretto
uso del fuoco, per gli istrumenti rurali e per gli edifizi; cave di pietre o fossili di
prima necessità; occupare suoli per abitazioni».
168
loc. cit.
167
STEFANO VINCI
i suoi usi doveva essere fissata nella misura del terzo del valore di
tutti i fondi demaniali consistenti nella intera difesa di Cazzato, nella
masseria Mosellaci esclusa la parte burgensatica di tomola 46, denominata la pezza de’ Calaprici, in tomola 150 della masseria detta di
Acquacandita ed in tomola 42 di terre macchiose nel luogo chiamato
Torrenuova169. Stabilì altresì che le parti entro tre giorni avrebbero
dovuto provvedere alla nomina dei periti per la misura ed apprezzo
dei fondi, e poi procedere alla divisione in tre parti uguali, una delle
quali da accantonarsi a favore del comune dalla parte più comoda e
vicina all’abitato170.
I dati emersi dalla perizia consentirono all’Acclavio di disporre
con successiva ordinanza del 27 maggio 1812 che la terza parte del
valore dei demani ex feudali di Fragagnano, spettante al comune, veniva fissata nella quantità di tomola 40 di terreno semensabile (metà
di prima e metà di seconda classe) della masseria Mosellaci, stimate
per ducati 3000; tomola 26 semensabili di II classe e tomola 54 macchiose della difesa del Cazzato, estimate per ducati 1287; e di tanto
terreno semensabile e macchioso della stessa difesa del Cazzato che
giusta l’apprezzo eseguito aveva un valore di ducati 459,66 2/3 (pari
a lire 2022,53) che mancavano a compiere l’intera quota del comune
in ducati 5607,66 2/3 (pari a lire 24673,73 1/3)171. Al comune sarebbe spettata soltanto la metà del territorio delle Tagliate, pari a tomola
3 ¼, in confine di Torre Nuova. Eseguita la divisione, il rimanente
territorio sarebbe stato posseduto dall’ex feudatario in piena proprietà, ed esente da qualsiasi uso o servitù civica ai termini del giudicato
della Commissione feudale e della ordinanza del 18 settembre 1811.
169
Si legge ancora nell’ordinanza del 18 settembre 1811, cit., p. 295, che: «I
vigneti esistenti nella parte feudale della masseria di Mossellacci saranno messi
fuori della divisione, ma gli altri terreni censiti e non ridotti né a vigne né ad
arbusti così della stessa masseria formeranno parte della divisione e rimarranno
aggiudicati nella quota dell’ex feudatario».
170
Ibidem. Furono nominati periti Leonardo Forleo, Biagio Costanzo e Oronzo de Pascale.
171
Ivi, p. 314. Ordinanza del Commissario del 27 maggio 1812. Tale aumento
di terreno in favore del comune nella difesa del Cazzato doveva aver luogo «dalla
parte limitrofa e laterale, formante una stessa linea ed in ispezialità dove dicesi
cisterna del Cazzato in guisa che il supplemento venga a formare una sola continenza colla prima ripartizione».
168
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
3.6. Francavilla
Con sentenza del 20 luglio 1810 la Commissione feudale, nel decidere la causa tra il comune di Francavilla in provincia di Lecce e
l’amministrazione del Regio Demanio, dichiarò demani comunali i
locali denominati Atelio, Casalino, la Scivola e Sciamani – erroneamente riportati come feudali nel catasto del 1753, ma non menzionati nello strumento di vendita dei corpi feudali di quel feudo del
1575 – salvi gli acquisti particolari che a titolo di allodio per pubblici strumenti gli ex feudatari avessero fatto172. L’Intendenza degli
allodiali aveva venduto questi fondi fin dal 1792 ad alcuni cittadini
di Ceglie e di Francavilla, i quali avevano provveduto a migliorarli
notabilmente. Sta di fatto però che questi possessori non comparirono in giudizio dinanzi alla Commissione feudale, in quanto non
furono chiamati in causa dall’amministrazione del Regio Demanio:
quando ricevettero notizia della decisione della Commissione feudale, i proprietari del fondo Casalino (domiciliati «per avventura» in
Francavilla) presentarono dinanzi alla Commissione le loro querele,
in cui sostennero di aver pagato al Fisco allodiale delle ‘quantità’ in
conto del prezzo convenuto e di aver effettuato delle considerevoli
migliorazioni in quel fondo.
La commissione con successivo arresto del 23 agosto 1810 ordinò che l’amministrazione del demanio restituisse loro il prezzo ricevuto; che essi rimanessero disobbligati dal pagamento della restante somma; che il comune di Francavilla fosse tenuto al rifacimento
delle migliorie già effettuate da liquidarsi – intese le parti – innanzi
al commissario regio della provincia incaricato della ripartizione dei
demani, prima della esecuzione della precedente pronuncia del 20
luglio173.
All’atto dell’esecuzione delle sentenze, si presentarono dinanzi al
commissario ripartitore Domenico Acclavio i possessori dei quattro
fondi dichiarati demani comunali174, i quali domandarono «che dove
172
Bollettino n. 7/1810, p. 474. Sentenza 20 luglio 1810. Tra ‘l comune di
Francavilla in provincia di Lecce e l’amministrazione del Regio Demanio.
173
Bollettino n. 8/1810, p. 234. Sentenza 23 agosto 1810.
174
I possessori dei fondi Atilio, Scivola, Sciaiani e Casalino erano i sigg. Pietro
La marina, l’arciprete Vincenzo Nucci, Eugenio Epifani, Oreste Carlucci, Manco
Nacci, Tommaso Tagliavanti, Stefano Cantore, Pietro Gaetano Allegretti (domici-
169
STEFANO VINCI
il giudicato avesse dovuto eseguirsi anche contro di loro che non
erano stati intesi nella Commissione, era giusto che siffatti terreni
per lo più sterili, dissodati a grandi spese, e migliorati con piantagioni e con officine e comodi rurali, fossero rilasciati a censo»175. La
domanda dei possessori era suffragata dalla considerazione che la
Intendenza degli allodiali aveva venduto loro con unico contratto i
fondi feudali e i fondi burgensatici: ne conseguiva che laddove fossero stati costretti a restituire i fondi feudali per la dichiarata qualità
di demani comunali, a loro sarebbe riuscito gravoso ritenere i fondi
burgensatici «per la condizione del prezzo ragguagliato al 3% della
rendita oltre agli aumenti fatti nelle subaste, che per la indivisibilità
de’ comodi rurali, i quali proporzionati sempre al territorio, o sarebbero divenuti superflui, o sarebbero mancati del tutto, secondo che
sarebbonsi trovati o nella parte burgensatica, o nella demaniale»176.
Secondo l’Acclavio, l’esecuzione del giudicato della Commissione
doveva riguardare due oggetti: la reintegrazione dei fondi demaniali
in favore del comune di Francavilla, e quindi la liquidazione e rifacimento delle migliorie dedotte dai possessori; la separazione dei
fondi burgensatici che, confusi con i pretesi fondi feudali nella vendita effettuata dalla Intendenza allodiale, dovevano rimanere salvi
ai compratori con il corrispondente prezzo in gran parte non ancora
pagato in beneficio del Regio Demanio. Prima di dare esecuzione ai
giudicati, il commissario ripartitore dispose che fosse eseguita una
perizia sulla ricognizione e separazione dei fondi già feudali da quelli burgensatici e sulla loro misura; sulla segregazione del prezzo di
questi fondi burgensatici da quelli feudali, divenuti di proprietà del
comune di Francavilla in virtù del giudicato, avuto riguardo al tempo
dei rispettivi contratti; sulla valutazione dei miglioramenti eseguiti
nei fondi guadagnati dal comune, come la installazione di arbusti,
liato in Ceglie), Giuseppe e Pasquale Scazzari, Vincenzo Montanari, Giovanni e
Vincenzo Margarito, Giorgio Caroli, Francesco Barbaro, Francesco di Paola Sarli,
Perna Danese e Giuseppe di Bartolomeo.
175
Supplemento Bollettino n. 30 (appendice ai nn. 12,13 e 14 anni 1809-1815),
p. 230. Rapporto del Commissario, Altamura, 21 novembre 1811.
176
Ibidem. In ogni caso i possessori chiedevano che fossero liquidate le migliorazioni – a somiglianza di quanto la Commissione aveva deciso nel territorio
di Casalino – e che «non si fosse il giudicato altrimenti eseguito, che pagato dal
comune l’importo delle spese».
170
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
vigneti, giardini e coltivazioni permanenti, fabbriche rurali, pozzi,
muri ed altri comodi necessari o utili. Dalla perizia risultò che il
fondo Casalino aveva un’estensione pari a tomola 77 ½177 di cui 22
tomola burgensatici. Rilevarono i periti che non erano più distinguibili i confini tra i terreni feudali e burgensatici per cui procedettero
al calcolo sottraendo dalla totalità del prezzo dell’intero fondo il valore di questi ultimi: risultò che dei 16000 ducati promessi «collo
strumento di compra del 1792», ducati 4541,93 2/3 appartenevano al
burgensatico e il rimanente al feudale178. Il fondo Atilio risultò invece della estensione di tomola 292 ½ di cui 80 tomola di burgensatico.
Anche in questo caso, essendo incerti i confini, i periti ritennero utile
liquidare il prezzo sulla totalità di quello stabilito nello strumento di
vendita: poiché il prezzo convenuto fu di ducati 12770, compreso il
valore degli animali e delle semenze estimati in ducati 1403, rimanevano ducati 11367 per i terreni179. L’estensione del fondo Scivola era
di tomola 528 2/3 nel feudale e di tomola 336 5/8 nel burgensatico:
il prezzo totale era di ducati 37076,66, dei quali ducati 14161,33 andavano attribuiti al burgensatico e il «dippiù» al feudale180. L’ultimo
fondo, Sciamani, era invece tutto feudale con un’estensione pari a
tomola 387 3/8: il suo prezzo fu di ducati 17000, «il quale è interamente perduto pel Regio Demanio». Da tali dati emergeva che dei
quattro fondi venduti dalla già Intendenza degli allodiali nel 1792
per il prezzo di ducati 81443,66, il Regio Demanio conservava per
la parte burgensatica soltanto ducati 21812,22; e poiché i possessori avevano pagato in conto la somma di ducati 8112,67 2/3, il loro
debito verso il demanio rimaneva di ducati 13699,54 1/3181. Per ciò
che attiene l’interesse dei possessori con il comune di Francavilla
177
Calcolati alla misura locale di 2500 passi il tomolo e ciascun passo di palmi 7.
Rilevavano altresì i periti che «da’ possessori essendosi pagata in varie rate
la somma di ducati 3315,67 2/3, l’amministrazione del demanio rimane a conseguire ducati 1226,26». Ivi, p. 232.
179
«La rata del burgensatico conservato al Regio Demanio di ducati 3108,93
1/3 in conto dei quali essendosi oltre del prezzo degli animali e delle semenze
pagati ducati 1767, risulta il credito del detto demanio in ducati 1341,93 1/3».
Ibidem.
180
«Quindi è che avendone l’amministrazione ricevuto in conto ducati 3030, il
suo eredito sul burgensatoico rimane in ducati 11131,35». Ibidem.
181
Il rimanente in ducati 59631,44 era il valore dei fondi già feudali, che dichiarati demani universali appartenevano al comune di Francavilla.
178
171
STEFANO VINCI
in ordine ai fondi da restituirsi, i periti riconoscevano che le spese
di miglioramento nel territorio Casalino erano pari a ducati 3554,14
½; in ducati 1935 quelle del territorio di Atilio; ducati 6410 nella
Scivola; ducati 2793,90 nel territorio di Sciajani182. Alla luce di tali chiarimenti forniti dalla perizia, l’Acclavio rilevò che laddove la
reintegrazione dei fondi demaniali si fosse effettuata in favore del
comune di Francavilla secondo quanto disposto nel giudicato della
Commissione feudale, sarebbe stato indispensabile pagare ai possessori le indicate migliorazioni che ammontavano a circa 13.000
ducati. Il comune non aveva la disponibilità di tale somma di denaro,
senza il pagamento della quale non sarebbe però stato né giusto né
equo per i possessori soffrire la espropriazione dei fondi migliorati
in buona fede, ed acquistati «co’ titoli più solenni». D’altro canto
lo stato e la situazione dei fondi non avrebbe permesso al comune
di trarre un «vantaggioso partito» in considerazione del fatto che i
fondi Atilio, Scivola e Sciajani si trovavano a sei miglia di distanza
dall’abitato183; che la qualità sassosa e «poco ferace» di quei terreni
non era suscettibile né di una ripartizione alle piccole quote stabilite
dalla legge, né poteva allettare i braccianti francavillesi ad un genere
di coltura del tutto diversa da quella che essi conoscono nel ‘feracissimo’ e vasto loro agro in cui insistevano le coltivazioni di derrate,
bambagia, ortaggi e piantagioni di vigneti ed oliveti. Queste sono le
ragione per le quali i predetti fondi non trovarono altri compratori se
non i cegliesi, in quanto abituati alla coltivazione di terreni «ingrati
e montuosi» come quelli del loro paese e perché la distanza dai terreni era minore rispetto al loro comune184. Il comune di Francavilla
ritenne non avere nessun interesse a concorrere alla riparazione di
182
Il loro totale ammontava a ducati 14697,04 ½, «salvo a dedurre pe’ burgensatici annessi a feudali di Casalino ed Atilio le rate di tali spese proporzionate
alla loro estensione, non potendosi altrimenti fissare la confusione de’ confini la
identità di questi terreni».
183
A quella distanza – riteneva Acclavio – «non è sperabile che gli agricoltori
di Francavilla possano stendere la loro industria». Ivi, p. 236.
184
Il fondo Casalino non offriva questi vantaggi, ma la feracità della terra e
la somma coltura cui era stata portata era un ostacolo per la ripartizione. «Qual
miglioramento possono mai fare i bracciali nei giardini, ne’ vigneti, negli oliveti,
nelle paludi? Il canone che dovrebbe loro imporsi sarebbe tanto alto che non potrebbero pagarlo al I anno, né avrebbero la speranza di renderlo tollerabile con una
maggiore coltivazione. Oltre a ciò il fondo verrebbe a degradarsi colla divisione a
172
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
questi fondi, per cui con delibera del decurionato del 12 novembre
1811 stabilì essere di maggior profitto per il comune rilasciare i fondi agli attuali possessori sotto il peso di un canone, piuttosto che di
amministrarli o affittarli185. Il sindaco di Francavilla rimise all’Acclavio il processo verbale del decurionato insieme con le domande
dei possessori «per ritenere a titolo di enfiteusi i fondi che dovrebbero restituite in virtù del giudicato della commissione feudale». Il
Commissario ritenne utile per il comune e corrispondente ai principi
di equità e giustizia che tale offerta fosse ammessa, purché il canone
fosse stabilito secondo la rendita attuale dei fondi, dedotto il capitale
delle migliorazioni. Il ministro Zurlo approvò la proposta avanzata
dal comune di Francavilla di rilasciare agli attuali possessori i fondi
Atilio, Casalino, la Scivola e Sciamani che la Commissione feudale
aveva dichiarato demani comunali, con l’indicazione per il commissario Acclavio di fissare un canone secondo la rendita attuale dei
fondi, come era stato suggerito dallo stesso186.
3.7. Ginosa
La Regia Commissione dei demani con ordinanza del 6 dicembre
1811 aveva stabilito che la quota del comune di Ginosa per valutazione e compenso di tutti i suoi usi nei c.d. demani ex feudali di Tufarello, Marinella, Orsanese, Lama di pozzo, La Rita, S. Maria Datcausa delle strade e degli spazi che dovrebbonsi stabilire per comodo de’ censuari.
Finalmente i casini e le officine rurali diverrebbero inutili». Ivi, p. 238.
185
Tale decisione si basava anche sul dato imprescindibile costituito dalla impossibilità di pagare le considerevoli spese dei miglioramenti, che si sarebbero
potute soddisfare unicamente cedendo ad altri per vendita o per censuazione gli
stessi fondi.
186
Rescritto di approvazione, Il ministro dell’Interno al commissario del Re
per la divisione dei demani, 30 novembre 1811. Ivi, p. 245. Al fine di stabilire il
canone, l’Acclavio dispose una nuova perizia a seguito della quale ordinò ai possessori di adempiere a favore del comune di Francavilla al pagamento del canone
annuo per essi rispettivamente dovuto (secondo quanto risultante dalla perizia)
«nel dì I di settembre di ciascun anno», e di soddisfare gli arretrati decorsi dal 20
luglio 1810, epoca della decisione della Commissione feudale, alla stessa ragione
del canone stabilito, «salvo la ritenzione del quinto per la contribuzione fondiaria
ai termini del decreto 10 giugno 1808 e salvo il diritto di redimerlo a tenor del regio decreto del 17 gennaio 1810». Bullettino delle ordinanze, n. 17, p. 104. Minuta
di ordinanza dell’Intendente di Terra d’Otranto del 30 giugno 1812.
173
STEFANO VINCI
toli, Gaudello, Follerati, Dogana e «quant’altro vi era di terreno di tal
natura», escluse le colonie perpetue, doveva corrispondere alla metà
degli indicati demani187. Al fine di rendere esecutivo tale provvedimento, le parti provvidero alla nomina di tre periti con il compito di
effettuare la «misura ed apprezzo di tutti gli indicati fondi per distaccarsi in favor del comune le corrispondenti quantità di territorio» e
la liquidazione delle estensione di tutte le colonie perpetue188. I periti
ritennero che la quota del comune doveva essere pari alla estensione
di carra 81 e tomola 35 2/3 e del valore di ducati 19089,75 ¼ (pari a
lire 83994 e centesimi 37) di cui di carra 32 e tomola 22 della difesa
di S. Maria Dattoli (del valore di ducati 70826 e grana 76 2/3, pari a
lire 34437 33/100); carra 17 e tomola 6 della difesa di Gaudiello (del
valore di ducati 3948,33 1/3 pari a lire 17372 67/100); di un carro del
demanio Gaudello valutato per ducati 230 pari a lire 1012; di carra
26 e tomola 24 della difesa di Terzo di Mezzo (del valore di ducati
6133,33 1/3 pari a lire 26986 67/100) di carra 4 e tomola 19 2/3
della mezzana di Lamalocci e Pilella (del valore di dicati 651,31 e
cavalli 11 pari a lire 4185 80/100). L’Acclavio ritenne che la misura
ed apprezzo del demanio divisibile era stata eseguita con la dovuta
regolarità e che i corpi assegnati al comune di Ginosa, in compenso
della sua quota, fossero i più vicini all’abitato ed i più comodi alla
popolazione per essere riducibili a coltura e riuniti nello stesso luogo189. Pertanto dispose immettere il comune di Ginosa nel possesso
187
Secondo tale provvedimento al comune spettava la quarta parte delle ‘mezzane erbose o coltivate’ – purché non fossero occupate da colonie perpetue – e
la metà delle ‘mezzane boscose o macchiose’; la metà del territorio delle difese
conosciute sotto il nome di Galaso, Portaro, Girifalco, Lama di Pozzo, La Rita, S.
Maria Dattoli, Follerato, Gaudello, Terzo di mezzo, Dogana e ‘l quarto delle a difesa di Tufarello. Bollettino delle ordinanze, cit., n. 19, p. 71. Minuta di ordinanza
dell’Intendente di Terra d’Otranto nella causa tra ‘l comune di Ginosa, rappresentato dal sindaco Leonardo Tria e ‘l signor Giambattista Ferretti avente causa
in qualità di enfiteuta dall’ex feudatario Marchese Alcarices, 20 aprile 1812.
188
Furono nominati periti i sigg. Campanella, Caramia e Costanzo.
189
Rilevava altresì che «a’ termini dell’art. 3 della suddetta ordinanza tutte
quelle parti considerabili di terreno delle difese, che siensi meramente erbose, o
ridotte a coltura, sono esenti dalla ripartizione; e che perciò essendo di tal natura
la difesa di Galaso, il rimanente di Girifalco, il sementabile di Pantano, di Lama di
Pozzo, di Tufarello e l’erboso di Follerati, è giusto che tutti questi fondi non sieno
annoverati nella massa divisibile del territorio». Ibidem.
174
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
dei sopradetti locali affidando all’agente della divisione, signor Carlo Fasano, il compito di far circoscrivere i fondi da termini lapidei190.
3.8. Grottaglie
La questione portata all’esame della Commissione feudale dal comune di Grottaglie riguardava i diritti vantati contro la mensa arcivescovile di Taranto. In particolare il comune chiedeva che il collegio
adito si pronunciasse sulla vigesima che la mensa esigeva sui frutti del territorio, sulla revindica o prelazione della foresta censuata
dalla mensa al principe di Cursi. Sulla prima questione, la mensa
arcivescovile sosteneva di avere un possesso secolare immemorabile
acclarato da una sentenza pronunciata dalla Curia del Cappellano
Maggiore in data 29 novembre 1787 «in contraddizione del clero
e dei vari luoghi pii e religiosi di Grottaglie»191. A tale giudicato si
aggiungevano ulteriori documenti ed atti giudiziari: la «platea» del
1 luglio 1487, nella quale era annoverata fra le rendite della mensa
la vigesima di tutte le vettovaglie e frutti del territorio di Grottaglie;
190
Il sig. Giambattista Ferretti, in qualità di enfiteuta dall’ex feudatario Marchese Alcarices, avrebbe invece posseduto in piena proprietà il rimanente territorio dei demani, difese e mezzane ex feudali compresa la difesa di Galaso, la porzione ridotta a coltura di Girifalco, il sementabile del Pantano, di Lama di pozzo,
di Tufarello e l’erboso di Follerato che venivano dichiarati esenti dalla divisione.
Tutte le colonie perpetue nella estensione di carra 115 e tomola 10 e stoppelli 2
sarebbero rimaste in favore del sig, Ferretti, redditizie di terraggio in ragione non
più forte della decima sui generi di principia coltura esclusi i piccoli legumi, ed in
modo che nello stesso anno rurale non si percepisca doppia prestazione. Ivi, p. 88.
191
«E benché revocata si fosse dal Marchese Dragonetti qual giudice delegato
dal governo in grado di appello nel dì 9 gennaio 1789, venne tuttalvolta confermata nel dì 11 marzo 1793 in grado di nuovo appello dal novello delegato
marchese Bisogni». Il giudizio era stato promosso dall’arcivescovo di Taranto su
varie convenzioni stipulate dai suoi predecessori con il clero ed altri luoghi pii e
corporazioni religiose, a cui la mensa aveva «minorata» la servitù della vigesima.
«Ma avendo consentito costoro allo scioglimento delle convenzioni, fu definito
dalla Curia che, tolte di mezzo le particolari convenzioni, anche di consenso delle
parti dovessero il clero e gli accennati luoghi pii e corporazioni religiose pagar la
vigesima di qualunque prodotto e del prezzo benanche nella vendita de’ fondi dal
dì della lite contestata». Bollettino n. 8/1810, p. 104. Sentenza n. 14 del 6 agosto
1810. Tra ‘l comune di Grottaglie e l’ex barone principe di Cursi, e la mensa arcivescovile di Taranto. Cfr. R. QUARANTA, Abolizione della feudalità a Grottaglie.
Cronaca di una transizione difficile, in «L’Idomeneo», n. 8/2006, p. 99-142.
175
STEFANO VINCI
il giudizio fra la regina Bona di Polonia e l’arcivescovo di Taranto
nell’anno 1550 presso il Sacro Concilio, avente come oggetto la pertinenza delle vigesime, che si esigevano da tempo immemorabile;
un secondo giudizio promosso nel 1568 dinanzi alla Regia Camera
contro la mensa arcivescovile da un tal Giovanni Girolamo Casignano per «esimere i suoi fondi dalla vigesima» e la successiva convenzione stipulata, in virtù della quale il Casignano si obbligava a quella
stessa prestazione da lui contraddetta in giudizio, le posizioni e gli
articoli dell’università di Grottaglie nell’annoso giudizio intercorso
con la città di Taranto, in cui provò «il centenario possesso delle
vigesime dovute alla mensa»192; il giudizio agitato in Roma con le
corporazioni ecclesiastiche e luoghi pii nel XVII secolo, in cui fu
riconosciuto l’antico possesso delle vigesime; la relazione rilasciata dal razionale nel 1780 per la liquidazione dei quindemni e della
bonatenenza, che furono caricati sulla rendita vigesimale di tutti i
prodotti del territorio di Grottaglie. Tutti questi argomenti furono
confutati dall’università di Grottaglie: per quanto concerne il giudicato, riteneva che il possesso immemorabile vantato dalla mensa
era di natura esclusivamente giurisdizionale e spirituale «appoggiato
eziandio sulla feudalità dell’intero territorio di Grottaglie». La negazione del giudicato derivava dal fatto che nel corso di quel giudizio
– fondato sulle particolari convenzioni impugnate dalla mensa – non
furono «intesi i laici e l’università». Con riferimento al possesso
l’università faceva osservare che «quando la platea del 1487 fosse
vera e solenne, anziché giovare alla mensa, proverebbe in contrario esigere in quel tempo le vigesime ex jurisdictione ed de mensa
Archiepiscopali»; che nel giudizio intercorso con la regina Bona,
l’università sostenne costantemente l’appartenenza della vigesima in
forza della giurisdizione baronale193; che tanto nel giudizio promosso dal Casignano, quanto nella lite fra le due università di Grottaglie
e Taranto, e nella stessa causa celebrata dinanzi ai Tribunali di Roma
192
Ibidem.
«Officiales serenissimae Reginae variis modis tractaverunt et tractant impedire exactionem introitum, qui ad dominum rev. Ejus principalem spectaverunt
et spectant uti Archipiscopum, in quibus et in exactione tam baronalium quam episcopalium introitum nullo modo debent se intromittere pluribus de causis dicendis
ad aures». Ivi, p. 106.
193
176
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
è sempre emersa la natura dell’esazione della vigesima quale «giurisdizionale ecclesiastica»; che nel giudizio promosso dinanzi alla
R.C. per la bonatenenza chiesta dall’università, nel quale la mensa
aveva sostenuto che tutto il territorio fosse feudale, il Tribunale «non
tenendo alcun conto dell’assunta feudalità universale, l’obbligò pagar le attrassate bonatenenza»194. Oltre a tali eccezioni dirette a contestare le prove portate in giudizio dalla mensa, l’università faceva
rilevare come avesse sempre impugnato – insieme con i cittadini di
Grottaglie – l’esazione della vigesima, e che in tutti i precedenti giudizi menzionati la stessa università ed i privati possessori avevano
sostenuto l’immunità dei fondi e l’abuso dell’esazione. Inoltre negli
antichi catasti del 1567 e 1578 le vigesime non si trovavano descritte
fra i pesi prediali; nel 1578 l’arcivescovo di Taranto in un ricorso
dato a Filippo III si dolse «segnatamente de’ possessori de’ fondi che
ricusavano di pagar la vigesima»195. A tali elementi si aggiungeva un
atto prodotto dalla mensa nel corso di un giudizio promosso dinanzi
alla Regia Camera da Giuseppe Fasano, in cui si leggeva «di non
aver altro titolo che l’immemorabile possesso ed un giudicato della
Curia del Cappellano Maggiore». Tali unici elementi furono ritenuti
insufficienti dalla Commissione feudale, in quanto contraddetti dagli argomenti portati dall’università di Grottaglie. In particolare la
Commissione rilevò che «per la feudalità universale non concorre
alcuna concessione e legittima origine e che la giurisdizione baronale dimostra l’abuso ed ingiustizia dell’esazione». Pertanto dichiarò
«personali e giurisdizionali le vigesime ed altre prestazioni finora
esatte dalla mensa Arcivescovile di Taranto sul territorio delle Grottaglie. Quindi si astenga la stessa mensa di esigerla sopra tutti i fondi
194
Ivi, p. 107. L’assunto della mensa in questo giudizio era stato espresso nei
seguenti termini: «Tutto il territorio è sottoposto al peso della vigesima su beneficio della stessa mensa per tutti e qualsivoglia sorte di frutti che in esso si
raccolgono, per cui non può negarsi essere interamente di natura feudale, e per
tale deve giudicarsi. Cresce la forza di tale pruova (spiegò meglio nell’altra) dalla
particolare circostanza, che tutto il territorio delle Grottaglie sia feudale. In Fatti è
questa Terra sita nella Provincia di Otranto, su cui tutto il territorio è feudale; onde
i baroni ne riscuotono una quota di frutti, che regolarmente suole essere la decima,
e nella terza suaccennata è la vigesima. Né si dubita che si esiga per ragion di dominio, per cui si riscuote eziandio dagli agnellini che pascolano l’erba».
195
Ivi, p. 111.
177
STEFANO VINCI
comunali dell’università, e sopra tutti i fondi così chiusi come aperti
posseduti non meno da’ privati laici, che dà luoghi pii e dalle corporazioni ecclesiastiche e religiose»196.
In ordine poi alla domanda di revindica avanzata dall’università
con riferimento alla foresta censurata al principe di Cursi, la Commissione rilevò come non fosse stato portato in giudizio nessun elemento
di prova. Sulla base del giudizio di bonatenenza deciso dal Tribunale
della Sommaria, il collegio «non dubitò di esser feudale, così non
presenta veruna marca di difesa onde possa sottrarsi dall’esercizio
degli usi civici». Considerando quindi che la prelazione domandata
dall’università non risultava «appoggiata ad alcuna disposizione di
legge» e che anzi «rappresentandoci il principe di Cursi, come ex
feudatario del luogo, de’ diritti giurisdizionali ed altre pretensioni,
furono queste convenute e terminate col contratto medesimo delle
censuazioni»197. In virtù di tali considerazioni la Commissione ritenne di assolvere la mensa arcivescovile dall’azione di revindica
e prelazione promossa dall’università sulla foresta, riconoscendo a
quest’ultima ed ai suoi cittadini i pieni e comodi usi civici, eccezion
fatta per il periodo «delle ghiande nella parte tuttavia boscosa»198.
Tale decisione si dimostrò lacunosa in fase di esecuzione nella parte in cui prevedeva che l’abolizione della vigesima dovesse
estendersi anche ai fondi coltivati nella continenza della foresta. Le
difficoltà nascevano dal rilievo che il bosco era quasi interamente
ridotto a coltura e che il terreno risultava occupato dai coloni perpetui, i quali avevano sempre corrisposto la vigesima dei frutti a favore della mensa così come avveniva nel rimanente territorio dell’ex
feudo. La decisione della Commissione feudale sembrava non aver
abolito completamente la vigesima su tale territorio, attesa la sua
qualità feudale «la quale fa sì, che non da altri, che dal possessore
della Foresta abbia potuto ottenersi il permesso di coltivarlo sotto la
indicata prestazione»199.
196
Ivi, p. 115.
Ivi, p. 113.
198
Ivi, p. 115. La commissione si pronunciò anche sulla domanda di revindica
del canone dei mulini versata dall’università al Principe di Cursi. Il Collegio ordinò che il principe restituisse all’università il canone «ove sono siti i mulini. Ma
l’università paghi al principe il prezzo degli stessi mulini».
199
Supplemento Bollettino n. 14, p. 343. Dubbi sorti nell’esecuzione delle
197
178
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
Queste perplessità furono esplicitate al Winspeare, Procuratore
generale sostituto presso la Gran Corte di Cassazione in una nota
di chiarimenti – datata 23 dicembre 1810 – redatta da Domenico
Acclavio, Regio Procuratore generale presso la Corte di Appello di
Altamura e commissario del Re per la divisione dei demani200: in
essa veniva sottolineato come l’abolizione della vigesima nei territori coltivati del bosco, avrebbe reso il dominio «inutile a colui che
lo rappresenta, e si trasfonderebbe a chi non può averlo pienamente acquistato, anche per la proprietà degli alberi ritenuta dal diretto padrone»201. Tale arresto contraddiceva l’orientamento costante
della stessa Commissione feudale che «non ha omesso di ordinare
nelle molteplici sue decisioni che ne’ demani dichiarati ex feudali
l’ex barone continui ad esigere il terratico, o la decima su generi di
principal coltura, ancorché sul resto del territorio, reputato demanio
comunale, o de’ particolari possessori, questa prestazione gli fosse
stata interdetta»202. Il Winspeare rispose all’Acclavio che la richiamata decisione della Commissione feudale conteneva due opposte
disposizioni, le quali dovevano produrre due diversi effetti:
Pel generale delle vigesime, la commissione le ha riconosciute come
giurisdizionali vale a dire come non nascenti da causa di dominio. Pel
bosco detto la Foresta ne ha riconosciuto il dominio nell’ex feudatario,
e per conseguenza tutti gli effetti del dominio stesso. Quindi le vigesime della sola foresta sono dalla sentenza conservate, e non abolite203.
decisioni. comune di Grottaglie. Il Regio Procuratore generale presso la Corte di
appello in Altamura Commissario del Re per la divisione de’ Demanj al signor
Winspeare Procurator Generale sostituto presso la G. C. di Cassazione.
200
Scriveva l’Acclavio al Winspeare: «Nulla però dimeno nel disporre gli
per la esecuzione della sentenza io ho sospeso di dichiarare questo articolo.
Avendo negli aboliti tribunali patrocinata la mensa nella stessa causa, ho temuto
della imparzialità del mio giudizio ed ho pure dubitato che qualunque esso fosse,
le parti non mi opponessero più le antiche idee di avvocato, che la indifferenza
di regio commissario. Costretto nondimento da’ miei doveri io ho l’onore di
proporvi il dubbio, e vi prego d’istruirmi dal vero senso della decisione, e di
ciocchè abbia a fare, onde la mia intervensione in questo affare sia meramente
passiva». Ivi, p. 346.
201
Ibidem.
202
Ivi, p. 345.
203
Risposta di Winspeare all’Acclavio. 5 gennaio 1811. Ivi, p. 347.
179
STEFANO VINCI
Nominati gli arbitri affinché procedessero alla valutazione degli
usi civici204, questi stabilirono di assegnarsi al comune la quarta parte del demanio solamente boscoso, da essi valutato nel capitale di
ducati 2735 e grana 75, avuto riguardo non già del valore del territorio, ma del capitale dell’importo annuale della legna consumata dai
cittadini. Il giudizio degli arbitri fu soggetto a reclamo da parte del
sindaco del comune di Grottaglie, il quale contestò il fatto che fosse
fondato sulla bassa estimazione degli usi civici, sulla loro classificazione e sul metodo di valutarli. A questa si aggiungeva la doglianza
relativa alle usurpazioni avvenute nel tenimento del demanio, come
era già stato precedentemente dedotto dalla mensa con riferimento
alla masseria di Ogliovitolo che aveva sofferto delle considerevoli
occupazioni nel suo territorio. Fallito il tentativo di conciliazione,
l’Acclavio fu costretto – ex art. 4 del decreto 23 ottobre 1809 – a
richiedere il parere di due pubblici funzionari della Provincia, che
individuò nei consiglieri aggiunti d’Intendenza Cardamone e Astore205. L’Acclavio osservò che il demanio ex feudale della Foresta era
di tre specie: appadronato cioè boscoso e redditizio della vigesima
dei frutti in favore della mensa206; appadronato coltivabile non boscoso; o boscoso e seminatoriale posseduto in proprietà dalla stessa
mensa. Rilevava altresì l’Intendente che nei fondi appadronati boscosi «l’erba spettando al possessore» per effetto del R.D. 16 ottobre
1809 doveva considerarsi cessato «ad un tempo nell’ex feudatario
il diritto di pascolo e di fida, e ne’ cittadini la partecipazione agli
usi»207; cosicché tranne la prestazione della vigesima e del frutto degli alberi, il colono – dovendo reputarsi come padrone del fondo
– aveva il diritto di redimere queste servitù ai termini dei decreti
20 giungo 1808 e 17 gennaio 1810. Il comune, conservando sugli
alberi l’uso di legnare a secco, aveva quindi diritto ad un compenso,
in conformità con l’art. 18 delle istruzioni del 10 marzo 1810208, che
204
Furono nominati arbitri Giuseppe Cataldo Stasi di Monteiasi e G. Campanella di Locorotondo.
205
Bollettino delle ordinanze, cit., n. 21 p. 134. Minuta di ordinanza dell’Intendente di Terra d’Otranto del 5 giugno 1812.
206
Ibidem.
207
Decreto 16 ottobre 1809, cit.
208
Decreto 10 marzo 1810, cit., art. 18. «In tutt’i casi nei quali o per una delle
eccezioni ammesse nel real decreto dei 16 di ottobre del caduto anno, o per altro
180
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
doveva cadere sul frutto degli stessi alberi e sul reddito territoriale, in quanto sia l’uno che l’altro dovevano considerarsi una rendita della mensa. Quindi nel caso di specie, non avendo luogo che il
semplice diritto di legnare a secco – circoscritto a 9 mesi dell’anno
e «sopra un bosco sommamente devastato» – e considerato il numero degli abitanti di Grottaglie pari a 5500 abitanti, ritenne l’Acclavio che dovesse considerarsi un giusto compenso per il comune
per valutazione e compenso degli usi di legnare «nella parte della
Foresta tuttavia alberata e posseduta dai particolari, ancorché luoghi
pii» la quarta parte del territorio «per la sola utilità del reddito della
vigesima dei frutti, cui i fondi sono soggetti e della proprietà degli
alberi»209. Quindi sarebbe stata assegnata al comune la sua «tangente» avuto riguardo della estensione del bosco, già verificato dall’architetto Fasano, della qualità del territorio e dello stato più o meno
folto dello stesso bosco. Poiché il comune non aveva comprovato la
esposta occupazione dei terreni da parte dei particolari, e la mensa
non aveva dimostrato l’usurpazione dei terreni annessi alla masseria
di Ogliovitolo, la divisione del demanio avrebbe dovuto aver luogo
secondo lo stato possessoriale, salvo però ai termini del decreto 3 dicembre 1808 di «sperimentare le rispettive ragioni innanzi ai giudici
ordinari». Ordinò quindi di assegnare al comune in piena proprietà la
terza parte dei terreni boscosi, erbosi e seminatoriali delle masserie
di Ogliovitolo e Mutata poste nella continenza della Foresta, avuto
riguardo alla estensione di esse ed al loro valore. Al fine di rendere
effettive tali disposizioni, si sarebbero dovuti nominare, d’accordo
fra le parti o d’ufficio, i periti per l’apprezzo dei territori, «effettuato
qualunque dritto riconosciuto legittimo, gli ex-Baroni conservassero diritto di fida
o diritto sugli alberi, e i Comuni vi rappresentino gli usi, vi sarà luogo alla divisione in favore degli usuari o per la terza parte o per altra maggiore, secondo la classificazione degli usi fissata nelle presenti istruzioni. Questa divisione cadrà sempre
sul territorio soggetto alla servitù; ed i redditi dei coloni perpetui si divideranno fra
il proprietario e l’usuario in proporzione della parte assegnata».
209
Aggiungeva l’Acclavio che «ne’ fondi posseduti dalla mensa il compenso
reclamato dal comune dee cadere sulla piena proprietà del demanio, o che questo
sia boscoso o pur seminatoriale e che concorrendo col diritto di legnare anche
quello di pascere, vi sia luogo ad un aumento di quota fino al terzo del territorio»
e «che quanto vi ha di fondi appadronati sgombri di alberi, dee riguardarsi fuor
del caso della divisione per deficienza di materia all’esercizio degli usi civili».
Ordinanza del 5 giugno 1812, cit., p. 138.
181
STEFANO VINCI
il quale risecheranno le quote a favore del comune dal sito più vicino
all’abitato per quanto il permetteranno le circostanze locali, e specialmente la esistenza delle fabbriche delle masserie, che sempre dovranno rimanere nelle porzioni della mensa»210. Una volta eseguita
la divisione, il comune si sarebbe dovuto astenere dall’esercitare gli
usi civici sul territorio di qualunque natura, che sarebbe rimasto in
beneficio della mensa. Questa, a sua volta, avrebbe dovuto cessare la
esazione della vigesima e la percezione di qualsiasi frutto sui fondi
aggiudicati al comune.
3.9. Laterza
Il comune di Laterza, uno dei maggiori centri urbani della Terra
d’Otranto, era in lite con il suo ex feudatario Nicola Perez in ordine
al riconoscimento del dominio feudale dell’intero territorio di Laterza. L’ex barone ritenne di giustificare la domanda sulla base di un
diploma di Caterina Imperatrice di Costantinopoli e Principessa di
Taranto del 1346, da cui si sarebbe evinto che il territorio di Laterza
era stato invaso con mano armata dai cittadini della convicina terra
di Castellaneta. A seguito di tale invasione i cittadini di Laterza si
dolsero con la Principessa di Taranto e questa «rescrisse al suo camerario che stava in Matera di far ridurre al pristino tutto il territorio
occupato»: in esso si diceva che i cittadini di Castellaneta scorrendo
pel territorio di Laterza «vaxallos nostros de dicta terra Latertiae de
prefato territorio espellere violenter, ipsosque, seu ipsorum animalia
in eodem territorio affidare, et ab eis exigere jus herbagii, jus ponderis, jus terragii, et jornalium, et jura alia nostrae curiae competentia».
Dal testo del rescritto il barone riteneva potesse arguirsi che la principessa Caterina fosse padrona dell’immenso territorio. A riprova di
tale deduzione il barone aveva prodotto anche un inventario risalente
210
Il demanio non alberato redditizio della vigesima dei frutti sarebbe rimasto
conservato per intero alla mensa nella utilità di questa prestazione. Veniva lasciato
all’arbitrio dei possessori dei fondi soggetti al peso della vigesima ed alla riserva
del frutto pendente della ghianda – sia che appartenessero alla quota del comune o
a quella della mensa – di commutare e redimere tale prestazione e le servitù degli
alberi ai termini dei decreti 20 giugno 1808 e 17 gennaio 1810. Avrebbero potuto
usare dello stesso diritto i possessori dei fondi solamente redditizi della vigesima.
Ibidem.
182
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
ai tempi dei principi di Taranto, «da cui ha egli creduto che apparisse
lo stesso universale dominio feudale del territorio di Laterza»; un
laudo promulgato nel 1514 da tre arbitri eletti di consenso dal barone
e dall’università di Laterza, e dal Conte e dall’università di Matera per la contesa relativa alla confinazione dei territori di Laterza e
Matera e circa l’esazione della fida e del terratico211; le articolazioni
prodotte nel 1522 dal barone di Laterza contro il barone e l’università di Castellaneta per un giudizio di confini che allora si agitava, in
cui si sosteneva che il barone e suoi predecessori erano stati sempre
possessori di tutto «et integro territorio di Laterza» esercitandovi la
giurisdizione, esigendo la fida e la diffida ed anche i terraggi da coloro che seminavano; le deposizioni testimoniali rese nel giudizio
di confini con Matera, Ginosa e Castellaneta da cui risultava che
il barone esercitava la giurisdizione su tutto il territorio di Laterza,
fidava ed esigeva il terratico; l’apprezzo del feudo del 1676, dove
risultava riportata la rendita della bagliva in annui ducati 230 ed i
terraggi in grano, orzo ed altro; gli strumenti delle contrattazioni fatte dai cittadini dei fondi, «spiegando sempre il peso del terraggio»;
le rivele eseguite dai cittadini al tempo della formazione del general
catasto dei fondi da essi posseduti da cui risultava il peso del terratico al barone; i rilevi pagati dagli ex feudatari di tempo in tempo. La
Commissione non trovò i documenti prodotti sufficienti a dimostrare
l’asserita feudalità del territorio di Laterza in quanto il diploma di
Caterina ordinava di far restituire il territorio occupato dai cittadini
di Castellaneta, i quali avevano espulso i cittadini di Laterza, «ma
con queste parole non si sognò di dire che tutto il territorio di Laterza fosse suo; nell’inventario c’era scritto non «universale dominium» ma «utile dominium»212; il laudo del 1514 non affrontava il
problema della feudalità generale, ma soltanto la questione relativa
211
Gli arbitri decisero, con una provvidenza però interina, che il barone di
Laterza fosse conservato nel possesso di varj diritti, e specialmente juris aratici, et
terratici in praedicto territorio ab hominibus seminantibus. Sottoposero però a sequestro l’esazione della fida e diffida, ma il Collaterale poi riformando il giudizio
degli arbitri, tolse il sequestro. Bollettino n. 5/1809, p. 171. Sentenza n. 22 del 15
settembre 1809.
212
Inoltre in uno dei capitoli dell’inventario, e propriamente do ve si parlava
dei terraggi, si diceva che questi si esigevano de omnibus satis in territorio curiae
dictae terrae. Dunque l’ex feudatario poteva aver diritto di esigere il terratico da
183
STEFANO VINCI
ai confini tra Laterza e Matera; le articolazioni del barone nel 1522
erano scritte dal barone stesso e quindi non valevano a pregiudicare i diritti del territorio; le deposizioni testimoniali riguardavano un
giudizio di confini e non il dominio tra università e barone213; i terraggi si riferivano solo ai territori feudali e non all’intero territorio;
le contrattazioni si riferivano solo ai terreni sottoposti a terraggio214;
il fatto che tanti fondi «si veggono denunciati in catasto col peso del
terraggio, ciò neppure prova che al barone appartenesse il dominio
dell’intero territorio, sapendo che i cittadini per diminuire il peso
catastale volentieri dicono, che sono sottoposti a pesi in favore degli
altri»; nei relevi non si ravvisava alcun riscontro della pretesa feudalità generale. A tali valutazioni si aggiungeva un altro elemento: le
difese Murgia e Gaudiello, situate «indubitamente» nel detto territorio, erano state cedute alla Regia Corte dall’università, che in cambio
ne ebbe l’esenzione dai pesi fiscali. Se invece il territorio di Laterza
fosse stato di natura feudale sarebbe toccato al marchese effettuare
la donazione alla Corte. Sulla base di queste considerazioni la Commissione dichiarò la non esistenza della generale feudalità del territorio di Laterza e prescrisse all’ex feudatario di astenersi dal diritto
di terraggio, come pure dal fidare e dall’esercitare qualunque altro
diritto sui territori demaniali dell’università e dei particolari possessori, salvo che nei territori ex feudali e burgensatici di suo dominio.
La sentenza fu eseguita nel gennaio del 1810, ma ciò nonostante, sopravvenuta la raccolta, il sindaco di Laterza Giovanni Perrone,
pretese di esigere i terraggi che in virtù del giudicato erano rimasti aboliti a favore dei possessori. Informato di questa situazione, il
regio commissario incaricato della divisione dei demani Domenico
Acclavio ordinò la restituzione dei terraggi indebitamente riscossi
dal Sindaco e richiese al Giudice di Pace del circondario di emanare
quei fondi particolari che erano di suo dominio ma non mai sull’intero territorio.
Ibidem.
213
I testimoni peraltro – rilevava la Commissione – non dissero mai di essere
il territorio di assoluto dominio del barone, bensì che tanto esso, quanto i «cittadini
ed abitanti lo possedevano da veri signori e padroni»: il dominio quindi era del
barone, dei cittadini e di tutti i possessori. Ibidem.
214
Tali documenti erano controbilanciati da contrari strumenti prodotti dall’università dai quali risultavano tante altre vendite di fondi franche di ogni peso.
Ibidem.
184
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
«un bando sopra luogo onde questa prestazione non si fosse riprodotta per l’avvenire»215. Il Giudice di Pace, dopo aver proceduto alla
pubblicazione del bando, comunicò al Commissario che taluni cittadini, patrocinati da tal Giovanni Gallo, sostenevano che i fondi una
volta soggetti a questo peso in favore del barone dovevano continuare ad esserlo in favore del comune. In realtà – scriveva l’Acclavio
al Ministro – l’autore di queste trame era lo stesso Giudice di Pace
signor Francesco Gallo, cittadino di Laterza e genero del sindaco
Perrone, il quale si era pronunciato contro la regolarità degli ordini
del Commissario. Per far luce sulla questione, l’Acclavio si recò a
Castellaneta e sentito il sindaco Perrone e il procuratore dei possessori che reclamavano la restituzione dei terraggi, rilevò dal libro
della esazione che il terraggio in grano pari a più di 400 tomola era
inesistente e si trovava assegnato al consumo della pubblica annona
e che il terraggio in orzo, avena e fave nella quantità di 520 tomola
era stato quasi interamente venduto – a detta dei possessori – «a vil
prezzo» allo stesso Giudice di Pace216:
Or non potendo avere alcuna fiducia in questo uomo, e d’altronde
sembrandomi giusto di far rimanere il grano al bisogno dell’annona,
stimai disporre per mezzo del Giudice di Pace del vicino circondario di
Castellaneta, che assicurato il genere presso una persona facoltosa, si
fosse sull’avviso de’ deputati annonarj distribuito per la pubblica panizzazione, con pagarsene a’ possessori il prezzo che alla ragion corrente
se ne sarebbe ritratto. Quanto poi a’ terraggi di orzo, avena e fave incaricai lo stesso Giudice di Castellaneta a verificare l’uso fattone per
quindi regolare le mie provvidenze. Il sindaco Perrone fece sembiante
215
Supplemento Bollettino nn. 38 e 39 (appendice ai nn. 15-20; 20-23; 31-35;
34-36), p. 3. Rapporto del Commissario al Ministro, Taranto, 18 aprile 1811. Il
commissario osservava che la sentenza della Commissione feudale del 15 settembre 1809 aveva abolito il terraggio della mezza semenza, della fida e di ogni altra
corresponsione nei demani comunali e nei territori dei particolari così chiusi come
aperti. Pertanto il comune non avrebbe potuto continuare ad esigere queste prestazioni a suo favore quale padrone del demanio, in virtù del principio – proclamato
dalla stessa Commissione feudale – secondo cui le prestazioni dichiarate abusive
nei demani comunali, riscosse dagli ex baroni per la pretesa feudalità del territorio,
dovevano considerarsi estinte in favore dei possessori particolari. Sarebbe stato,
infatti, un «perpetuar l’abuso» se i comuni avessero preso il posto degli ex baroni.
216
Ivi, p. 5.
185
STEFANO VINCI
di applaudire a queste misure, e di eseguirle di buon grado; ma spedito
in Laterza il Cancelliere della giustizia di pace di Castellaneta per far
depositare il grano, il Sindaco ed insieme con lui il Giudice di Pace
Gallo le hanno criminosamente violate217.
Il Giudice di Pace di Castellaneta stimò ‘con prudenza’ di soprassedere all’operazione, temendo che il Giudice Gallo «che per la sua
prepotenza agita al suo modo il paese, non avesse portato più innanzi l’obblio de’ suoi doveri». Gli ordini dell’Acclavio rimasero quindi
ineseguiti ed avrebbero ottenuto il loro effetto soltanto a seguito di
intervento da parte del ministro dell’Interno al quale il Commissario
chiedeva esplicitamente di prendere severe misure nei confronti del
Sindaco e del Giudice di Pace di Laterza, quali perturbatori dell’ordine
pubblico218. Tale deprecabile condotta rispecchiava quegli abusi – già
denunciati dal Winspeare – perpetrati da taluni sindaci che «mettendosi in luogo degli ex baroni» avevano cercato di tradire le benefiche
intenzioni del governo219. La notizia non poté che sconvolgere lo Zurlo
che a stretto giro inviò una comunicazione all’Intendente di Lecce a
cui scrisse che «un eccesso di simil natura, se è punibile in tutti, lo
è maggiormente in un funzionario che la legge chiama a proteggere
i suoi amministrati»220. Ordinò pertanto all’Intendente di sospendere
il sindaco dalle sue funzioni e di far istruire contro di lui un processo
verbale da rimettere al Ministro con un rapporto, affinché potesse richiedere a S.M. l’autorizzazione per tradurlo in giudizio. Per quanto
217
Ivi, p. 7: «Dalla copia del processo verbale che ho l’onore di compiegarle,
l’E.V. si degnerà rilevare, che appena incominciata nel dì 12 del corrente la misura
del genere, il Sindaco Perrone con grida eccitanti al tumulto e con parole insolenti
pretese di sospenderla: che accorso il Giudice Gallo in abbigliamento poco degno
al suo carattere, e provocando semprepiù il tumulto, intimò al Cancelliere di andar
via: che tanto egli quanto il Sindaco han pubblicamente dichiarato la mia incompetenza in questo affare; e che richiesta di uffizio mano forte al Comandante della
civica, che è per avventura quel Giovanni Gallo principale oppositore della restituzione de’ terraggi, e congiunto col Giudice di Pace, vi siè per iscritto negato».
218
Il Giudice Gallo oltre ad aver paralizzato la divisione dei demani, coprendo con i suoi animali gli erbaggi, per «leggerezza di carattere» aveva privato i
cittadini del beneficio del giudicato della Commissione feudale non intendendo
sostituire il comune all’ex barone nella esazione delle indebite prestazioni, ma
dichiarando di estinguerle a favore dei possessori. Ibidem.
219
Ivi, p. 9.
220
Ivi, p. 15. Ministeriale all’Intendente di Lecce, 24 aprile 1811. Ivi, p. 15.
186
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
invece il Giudice di Pace, lo Zurlo comunicava che avrebbe trasmesso
«i corrispondenti uffizi» al “Gran Giudice Ministro della Giustizia”221.
In ogni caso il Ministro stimò conveniente che le determinazioni prese
dal Commissario non restassero ineseguite per cui invitò l’Intendente
ad adoperare tutta la sua autorità per quest’oggetto222.
Posta mano all’esecuzione del giudicato, l’Acclavio si trovò di
fronte a nuove rimostranze presentate dall’ex barone, il quale lamentava che, possedendo due parchi ex feudali denominati Lucente
ed Asciutto, gli veniva impedito l’esercizio dei suoi diritti ai termini
dell’art. 1 della decisione del 15 settembre 1809, per essersi il comune e taluni cittadini impadroniti dell’estaglio di tali fondi. Osservò il
Commissario che dagli atti del possesso dato al comune per i fondi
reintegrati in virtù della citata sentenza risultava che parco Lucente
era posto fuori dal demanio comunale. I periti – «adoperati nell’atto
di possesso» – ritennero che questo fosse stato ampliato a danno del
demanio, nonostante che l’ex barone avesse sostenuto essere quello
221
Lo Zurlo scriveva nella stessa data 24 aprile 1811 al “Gran Giudice Ministro della Giustizia”: «È del suo ministero di adottare le misure di rigore contro
il Giudice di Pace, che dopo di avere paralizzato, secondo costa dal rapporto del
commissario, la divisione de’ demani in tutt’i sensi, i di cui erbaggi ha coperto co’
suoi animali, si è portato a degli eccessi colpevoli per privare i cittadini di quei
diritti che egli è il primo chiamato a proteggere». Ivi, p. 19. Dopo soli due giorni,
il 27 aprile 1811, il Ministro della Giustizia F. Ricciardi rispondeva allo Zurlo:
«Ho l’onore di assicurarla di aver dato le debite disposizioni onde il detto Giudice
venga sospeso dalle sue funzioni, e punito con tutti il rigore delle leggi, qualora si
trovino vere le oppostegli imputazioni». Ivi, p. 25. Il 3 luglio 1811 Ricciardi tornava a scrivere allo Zurlo evidenziando che – secondo quanto risultava dal rapporto
effettuato dal Regio Procuratore presso il Tribunale Civile di Lecce sul conto del
Giudice di Pace di Ginosa signor Gallo, imputato di aver attraversato l’esecuzione
di alcuni ordini del commissario del Re nel comunee di Laterza – «nulla di riprensibile n’è risultato a carico di esso giudice. Io Quindi ho creduto giusto restituirlo
alle sue funzioni».
222
Nella stessa data 24 aprile 1811 il ministro Zurlo scriveva all’Acclavio:
«Ho veduto con dispiacere dal Vs rapporto de’ 18 del corrente a quali colpevoli
eccessi siensi portati il Sindaco ed il Giudice di Pace di Laterza. È veramente
rincrescevole di osservare che i primi magistrati del popolo, quelli cioè che ne
dovrebbero difensere e proteggere i dritti, sono i primi a conculcarli. Persuaso
che in simili casi il rigore è necessario, perché l’esempio non divenga contagioso,
ho scritto all’Intendente di sospendere il Sindaco dalle sue funzioni […]. Intanto conviene che le Vs determinazioni sieno subito eseguite. Voi darete perciò le
disposizioni necessarie, e bisognando chiedere il braccio all’Intendente, a cui ho
anche scritto a questo riguardo». Ivi, p. 23.
187
STEFANO VINCI
arbustato di ulivi e tutto murato e che il parco di Asciutto non appariva essere compreso tra i fondi reintegrati al comune. L’Acclavio ravvisò la necessità di una perizia per conoscere la situazione dei fondi
– che chiarisse se fossero nella continenza dei territori del comune
o fuori di essi (il che non sembrava dubitarsi per una parte almeno
del parco di Lucente) e riservò la decisione provvedendo a cautelare i frutti con un deposito. Ad ogni buon conto il Commissario si
manifestò persuaso del fatto che l’ex feudatario potesse pretendere
– fra i fondi siti nel territori dichiarati di pertinenza del comune –
soltanto i piccoli poderi riconosciutigli dalla Commissione feudale,
mentre riteneva che i parchi siti tra i fondi del comune incontrassero
«l’ostacolo del giudicato»223. Tali perplessità trovavano ragione nel
fatto che l’arresto del 15 settembre 1809 aveva dichiarato esistere la
feudalità universale del territorio di Laterza, pur riconoscendo all’ex
barone il diritto di servirsi dei fondi ex feudali e burgensatici di suo
dominio. Con tale ultima previsione la Commissione aveva disposto che qualora tali fondi fossero esistiti, sarebbero dovuti rimanere
all’ex feudatario, purché non si fossero trovati in collisione con quelli espressamente dichiarati appartenenti al comune. La stessa sentenza aveva inoltre dichiarato che dovessero essere considerati dell’ex
barone, come ex feudali, dodici carra di terreno poste nella difesa di
Fragennaro: tale disposizione non escludeva tassativamente la esistenza di altri terreni feudali, nei quali – come detto – l’ex feudatario
avrebbe potuto «usare del suo diritto»224. La Commissione feudale,
inoltre, non aveva dichiarato demanio comunale tutto il territorio di
Laterza, ma aveva stabilito essere del comune soltanto quei fondi
venuti in contestazione, i quali – sebbene costituissero la maggior
parte del territorio – tuttavia non lo comprendevano tutto. Concluse
l’Acclavio che «non essendo quindi il giudicato caduto sull’intero
territorio, non pare che ciocchè l’ex barone mostra di posseder con
titolo fuori le contrade disputate, gli si possa togliere».
223
Ivi, p. 29. Rapporto del Commissario al Ministro.
Continuava Acclavio che «la ragione allegata di dovere il medesimo (ex
feudatario) ritenere le 12 carra descritte come feudali nell’apprezzo del feudo del
1676, induce che gli altri fondi della stessa natura, contenuti nel medesimo apprezzo, non sieno un soggetto di disputa, dove, secondochè si è avvertito, sieno fuori
de’ demani comunali». Ibidem.
224
188
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
Con ordinanza del 18 maggio 1812 l’Acclavio cercò di risolvere
definitivamente le questioni ancora irrisolte della causa tra il comune di Laterza e il suo ex feudatario, duca di Bernalda. Al fine di
provvedere su tutte le questioni, considerò preliminarmente che la
decisione del 15 settembre 1809 aveva conservato all’ex feudatario
di Laterza carra 12 di terre come feudali nella difesa dei Fragennaro,
le quali dovevano perciò essere accantonate il più lontano possibile
dal sito; che il parco di Asciutto non poteva essere lasciato al barone
se fosse risultato fuori della difesa di Fragennaro; che il parco Lucente fosse fuori dalla continenza di questa difesa per la quantità di
tomola 50 portata nell’apprezzo del 1676; che i fondi burgensatici
dichiarati in piena proprietà dell’ex feudatario in virtù della sentenza
del 31 agosto 1810 gli dovevano essere conservati nella quantità.
Alla luce di tali premesse, il Commissario ordinò che si sarebbero
dovuti nominare dalle parti o d’ufficio tre periti con il compito di accantonare in favore dell’ex feudatario carra 12 terreno della difesa di
Fragennaro dal sito più lontano di Laterza225; di riconoscere i cinque
fondi dichiarati di particolare proprietà dell’ex feudatario con la decisione del 31 agosto 1810, come altresì il parco sito nella Guardiola;
della ricognizione del parco Asciutto al fine di stabilire se posto tra
i confini della difesa di Fragennaro o degli altri corpi già reintegrati,
ovvero fuori dal loro tenimento226; di misurare il parco Lucente che
sarebbe stato conservato al barone per la estensione di tomola 50
feudali; della ricognizione dell’oliveto e vigneto e della liquidazione
della spesa delle migliorazioni per quanto utile al comune, avuto
riguardo della estensione, qualità e stato delle piantagioni; di descrivere le fabbriche della masseria Le Rene dividendo il territorio come
demanio tra i cittadini227. Ordinò altresì che l’ex feudatario dovesse
restituire al comune tomola 228 e 7/12 di grano, tomola 198 e stop225
Il duca avrebbe posseduto in piena proprietà questi terreni e avrebbe potuto
chiuderli ai sensi dell’art. 47 del decreto 3 dicembre 1808. Bollettino delle ordinanze, cit., n. 22, p. 177. Ordinanza del 18 maggio 1812.
226
Nell’effettuare la ricognizioni i periti avrebbero dovuto tenere presente la
confinazione segnata nell’atto di possesso degli stessi fondi dato al comune dal
Giudice di Pace di Montescaglioso.
227
L’Acclavio dichiarò non ammissibile la domanda dell’ex feudatario per la
colonia della masseria Le Rene la di cui piena proprietà e possesso doveva essere
conservata al comune.
189
STEFANO VINCI
pelli 3 di avena, tomola 8 e stoppelli 7 di orzo e tomola 33 di fave
ai prezzi corsi in Laterza e nei mercati vicini a tutto dicembre 1809.
3.10. Leporano
Nella causa del comune di Leporano e il principe Giovanni Muscettola, in cui la materia del contendere era costituita dall’esercizio
del diritto di fida da parte del barone, la decisione fu imbastita sulla
scorta del relevio dell’anno 1602 e del 1675, delle fide dell’università
del 1680, degli atti della compera fatta da Francesco Muscettola dal
patrimonio de’ fratelli Raho, del conto erariale esibito dall’università
nell’anno 1571. Sulla base di tali documenti la Commissione decise
che competesse all’ex barone il diritto di esigere la fida dai possessori
degli animali che pascolavano l’erba dei propri fondi, la fida dell’erba
agreste solo nei fondi nei quali esigeva la decima dei frutti con divieto
di poterla esigere negli altri fondi non decimali, né dai possessori i
quali pagassero altra prestazione di erbatica o di carnatica228.
3.11. Lizzanello
Il comune di Lizzanello ottenne con sentenza il riconoscimento
che l’ex barone si astenesse «dall’esigere la decima del lino che si
matura negli acquari e stagni de’ privati possessori, la decima del
prezzo nella vendita de’ fondi siti nello stesso territorio del comune, dall’esigere qualunque prestazione a titolo di testatico o pur di
galline, pollastri, o piccioni, e qualunque gabella sopra i macelli, e
le botteghe lorde». Fu però riconosciuto al barone il diritto di continuare ad esigere i generi nel territorio di Lizzanello, la decima sulle
derrate del grano, orzo, fave, avena, lino, vino e olio sulla base del
228
Bollettino n. 12/1808, p. 74. Sentenza n. 11 del 10 dicembre 1808. Di contenuto analogo con riferimento all’oggetto è la sentenza n. 17 del 21 marzo 1809
(Bollettino n. 3/1809, p. 189) tra il comune di Latiano e il principe di Francavilla
con cui si chiedeva che l’ex barone si astenesse dall’esigere la fida degli animali
propri dai cittadini e la fida degli animali dei forestieri che pascolavano nei terreni
appadronati addetti ad erbaggi. La Commissione accolse la richiesta avanzata dal
comune di Latiano specificando che fosse vietato al barone di «fidar gli animali
dei forestieri sui territori redditizi, ma che sia lecito al medesimo esiger la fida sui
propri territori». Fu altresì stabilito che fosse lecito ai cittadini di esercitare gli usi
civici nei demani aperti ex feudali, anche per causa di commercio fra concittadini.
190
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
primo relevio del 1478; esigere secondo il solito «sopra le descritte
derrate la quinta, o per la sesta, la settima, l’ottava, o la nona in tutti
que’ fondi che mostrerà di averla esatta a tenore degli strumenti di
concessione e delle contrattazioni seguite tra possessori degli stessi
fondi, o delle rivele catastali fatte da’ possessori medesimi; esigere
il diritto della carnatica, ed erbatica con divieto di esigerla per gli
animali che pascolavano nei fondi dei rispettivi possessori»229.
3.12. Lizzano
Lizzano rientra nel novero di quei comuni che non adirono la
Commissione feudale «tuttoché esso avrebbe avuto degl’importanti
diritti a sperimentare si per revindica de’ suoi demani, che per l’abolizione delle decime de’ frutti esatti sopra tutto il territorio»230. Tali
doglianze – concernenti il pregiudizio arrecato ai cittadini dai passati
sindaci colludenti con l’agente ex baronale – furono portate dinanzi
al commissario ripartitore Domenico Acclavio, il quale stabilì che
tutto il territorio dovesse essere considerato di qualità feudale – stante il possesso dell’ex barone da lungo tempo – e pertanto soggetto ai
pieni usi civici di pascere e legnare a favore dei cittadini, come risultava dal general catasto del 1749 e da un pubblico strumento del 8
novembre 1755 stipulato tra l’ex feudatario e gli amministratori del
comune231. Poiché, in virtù di queste scritture, non vi era ragione di
229
Bollettino n. 11/1808, p. 18. Sentenza n. 4 del 12 novembre 1808. Con
sentenza n. 99 del 9 gennaio 1810 (Bollettino n. 1/1810, p. 334) la Commissione
stabilì altresì che il marchese di Lizzano dovesse pagare all’università 3200 ducati
per la bonatenenza dal dì del catasto e per gli altri pesi straordinari delle suddette rispettive imposizioni sino allo stabilimento dell’imposizione fondiaria. Circa
il modo del pagamento, la suddetta somma si sarebbe dovuta pagare per ducati
2200 col prezzo di tre tappeti da cedersi al comune e di altrettanti beni stabili da
apprezzarsi da tre periti. Dei rimanenti 1000 ducati il marchese sarebbe rimasto
debitore con l’obbligo di pagare l’interesse alla ragione del 5%, esente da qualunque ritenzione, e «di farne la soddisfazione fra sei anni decorrendi dal dì della
presente decisione».
230
Supplemento Bollettino n. 31 (appendice ai nr. 14 e 15), p. 46. Rapporto del
commissario Acclavio al ministro dell’Interno, Altamura, 16 giugno 1811.
231
Tale pubblico strumento era stato stipulato in data 8 novembre 1755 tra lo
stesso ex feudatario e gli amministratori del comune, i quali essendosi opposti alla
pubblicazione dei c.d. bandi protorj contenenti delle clausole gravose per i diritti
comunali, furono querelati di attentato nella già Regia Udienza di Lecce, dove
191
STEFANO VINCI
dubitare della feudalità del territorio e della esistenza degli usi civici – «comprovati eziandio da un debole possesso, non contraddetto,
anzi riconosciuto […] per parte dell’ex barone»232 – le parti nominarono gli arbitri affinché procedessero alla «estimazione del compenso da darsi al comune». Non vi fu nessuna questione sul demanio
boscoso e macchioso, mentre ve ne furono con riferimento al terreno
semenzale «si per l’allegata qualità burgensatica del territorio, che
pel non uso di pascere»233.
Or avendo gli arbitri proferito il loro giudizio sul compenso da darsi
al comune, io ho dovuto posteriormente occuparmi a conoscere e della
qualità del territorio coltivato, e della esistenza degli usi. Non ho potuto
negarmi di metter fuori della divisione tutti quei fondi che si è mostrato
essersi acquistati in allodio; ed ho avuto per feudali quelli di cui non
eravi prova in contrario, e che per feudali furono rivelati nel general
catasto234.
Per quanto concerne l’uso di pascere, l’Acclavio riconobbe essere «indubitato» che i cittadini di Lizzano non avevano all’epoca
tale uso e non vi era prova che lo avessero mai esercitato: anzi nello
strumento del 1755 l’ex barone aveva fatto riconoscere agli amministratori del comune esservi nell’ex feudo delle difese chiuse in tutto
l’anno. Per definire la questione, l’Acclavio ritenne «regolare» riservare la decisione sul punto in attesa di ricevere dall’ex barone (al
quale concesse il termine di un mese) giustificazione della legittima
costituzione delle difese, o la prova del possesso anteriore all’epoca
della nota prammatica de baronibus235. Dopo aver inteso il parere di
tradotti non poterono altrimenti recuperare la loro libertà che cedendo alla lite e
confessando essere tutto il territorio di proprietà dell’ex barone, soggetto nondimeno agli usi civici nella parte macchinosa e boscosa.
232
Ibidem.
233
Ivi, p. 50.
234
Ibidem.
235
La prammatica n. 11 de baronibus del 1536 di Carlo V prevedeva che «i
Baroni, ed altri utili Signori, non possino fare nelle terre culte, o inculte, o ne’
boschi delle università, o ne’ comunali, difense, foreste, o chiuse, senza espresso
consenso de’ vassalii, e de’ vicini, e permesso del Re: o dove avranno comunione, o alcun diritto ne’ territori, o selve delle medesime per i loro greggi, armenti,
pascoli, spica, e ghianda, non si servino smoderatamente, cosicché i poveri vassalli vengan proibiti dalla cultura, dal pascolo, e dall’uso delle proprie selve, o
192
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
due funzionari della Provincia – ex art. 4 decreto 23 ottobre 1809236
– l’Acclavio accordò al comune di Lizzano per compenso dei suoi
usi civici nei demani ritenuti ex feudali, secondo lo stato dell’allora
‘attuale possesso’, il terzo del territorio macchioso e il quarto del boscoso: tali quote avrebbero apportato al comune il beneficio di circa
700 tomola di terra, giusta la misura locale di 2000 passi il tomolo.
Con espressa riserva al comune del diritto di agire presso i tribunali
competenti per la revindica dei suoi demani e per l’esperimento di
ogni altra azione237.
Il sindaco di Lizzano Dioniso Magno nel 1813 presentò una supplica in cui lamentava che l’ex barone usasse ancora della sua antica prepotenza: in particolare questi aveva strappato un ‘coscritto’
dalle mani dei legionari238 e godeva delle usurpazioni fatte al co-
comunali, in danno de’ vassalli medesimi, e de’ vicini. Se per caso le faranno, Gli
Officiali Regj provvederanno sommariamente di giustizia, intese le parti». A. DE
SARIIS, Codice delle leggi del regno di Napoli, Napoli (presso V. Orsini) 1795, lib.
VI, p. 7.
236
Decreto n. 495 del 23 ottobre 1809, cit.
237
Concluse l’Acclavio: «Ho nello stesso tempo disposto la misura e l’apprezzo del demanio da dividersi per assegnare in giusta proporzione le sue quote al
comune. Ho eziandio invitato il Sindaco ad esibirvi i documenti giustificativi della
qualità comunale de’ demani, e della non legittima esazione delle decime. Egli mi
ha rimesso alcune carte, e ne promette delle altre. Io l’esaminerò, e trovandole
adatte a far valere i diritti de comune in un giudizio ordinario, ne provocherò l’autorizzazione presso l’Intendente della Provincia, e mi metterò d’accordo col Regio
Procuratore presso il Tribunale di prima istanza per promuoverne l’azione. Mi ha
intanto il dovere di mettere tutto sotto gli occhi di V.E., acciocché si degni essere in
questa intelligenza, ed approvare, se così le piaccia, siffatte disposizioni». Rapporto del commissario Acclavio al ministro dell’Interno del 16 giugno 1811, cit., p.
51. Il ministro Zurlo rispose: «Signore, resto inteso di quanto mi avete riferito col
rapporto de’ 16 relativo al comune di Lizzano, che non ha dedotto alcun capo di
gravezze nella commissione feudale comechè molti ne avesse a produrre. Preventivi intanto l’Intendente, acciò dia le disposizioni per l’introduzione del giudizio
che voi avrete cura di sollecitare». Supplemento Bollettino n. 31 (appendice ai nr.
14 e 15), p. 52. Ministeriale di riscontro del 22 giugno 1811.
238
Dalle notizie acquisite presso il Regio Procuratore Generale della Gran
Corte Criminale della Provincia, l’Acclavio apprese che «nell’atto si trasportava
in Taranto de’ Legionari, il coscritto Pasquale Borgia, domestico del marchese
Chiurlia, costui si fece loro avanti, assicurando che era ordine del sotto-tenente
Ponticelli di ritirarsi col Borgia, come eseguirono; che il Ponticelli, il quale non
aveva mai dato quest’ordine, ne ebbe notizia, ed appena entrati nell’abitato i Legionari, si attaccò in parole col marchese, ed avendo preteso che il coscritto fosse
193
STEFANO VINCI
mune, il quale non fu nella possibilità di adire la Commissione feudale perché l’ex feudatario aveva sottratto «ad ogni ricerca le carte
necessarie»239. Per quanto concerne la prima questione, l’Acclavio
appurò che il Regio Procuratore presso la Gran Corte Criminale della Provincia aveva provveduto ad incaricare il Giudice di Pace di
Castellaneta di prendere «stretto conto dei fatti, e rimettergli le carte
corrispondenti». Poiché però dopo alcuni mesi il Giudice di Pace
spedì atti incompleti, dai quali non si poteva ricavare niente di positivo, della questione se ne stava occupando direttamente il Giudice
commissario signor Desiati, il quale aveva in atto la verifica dei fatti. Circa la seconda doglianza, l’Acclavio ritenne essere purtroppo
vero che il comune «per l’involamento delle sue carte» non aveva
potuto adire la Commissione feudale per rivendicare i suoi demani
e domandare l’abolizione delle decime. Sul punto – considerato lo
stato degli usi civici – il Commissario ricordò di aver già aggiudicato
al comune una parte di territorio, «riservandogli lo sperimento delle
ragioni sulla proprietà presso a’ giudici ordinari»240. Infatti il Consiglio di intendenza aveva già provveduto ad autorizzare il comune a
stare in giudizio per la reintegra dei demani e per l’abolizione delle
decime241.
andato al suo destino, il Chiurlia gl’impugnò un’arma da fuoco, ed il coscritto
mostrò di voler cavar fuori una pistola, ma che accorsi i legionari, il marchese
fi costretto a ritirarsi, e ‘l coscritto fu messo in carcere». Ivi, p. 90. Il ministro
dell’Interno all’intendente di Terra d’Otranto, 28 aprile 1813.
239
Ibidem.
240
La Commissione feudale, completati i suoi lavori, venne sciolta il 31 agosto del 1810 ed in carica rimase soltanto il procuratore generale della commissione
per l’esecuzione delle sentenze affidata ai commissari ripartitori. Le eventuali nuove controversie della stessa natura di quelle trattate dalla Commissione feudale,
sarebbero state giudicate dai tribunali ordinari. Il decreto 20 agosto 1810, recante
il titolo Scioglimento della commissione feudale (BLD, 1810, II) dispose all’art. 1:
«La commissione feudale eretta con decreto del nostro augusto predecessore degli
11 novembre 1807, avendo terminato il travaglio affidatale, sarà disciolta e cesserà
dalle sue funzioni nel dì 31 di questo mese di agosto 1810. Tutte le di lei decisioni
sono dichiarate irretrattabili. L’esecuzione di essa sarà fatta nel modo ordinato col
nostro decreto 3 luglio di quest’anno». Art. 2: «Se si producano altre controversie
della natura di quelle delle quali la commissione feudale ha finora deciso, queste
saranno giudicate dai nostri tribunali ordinari, secondo le leggi alle quali le parti
avranno acquistato diritto».
241
Ivi, p. 97.
194
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
3.13. Martina
Numerosi furono i capi di gravezze presentati innanzi alla Commissione dal comune di Martina: l’università chiedeva di essere
reintegrata nel dominio delle fossate; di essere reintegrata nel diritto
di pascere e ghiandaie nel territorio di Motola e propriamente delle contrade di S. Antonio ossia Gualella e Poltri anche in tempo di
parata. A sua volta il duca di Martina chiedeva di essere reintegrato
nel possesso del bosco detto le Chianelle con condannarsi l’università alla restituzione dei frutti percepiti; che si dovessero demolire
i parchi fatti dai cittadini di Martina nel territorio ex-feudale verso
Taranto, di cui faceva parte il bosco delle Chianelle. La Commissione prese in esame i documenti prodotti dalle parti e rilevò che né il
privilegio di Filippo d’Angiò principe di Taranto, né la grazia del re
Ferdinando I d’Aragona dimostravano il dominio di dette fossate in
favore dell’università. Per l’opposto, avendo il duca dimostrato l’antico possesso dei giardini e degli orti del castello attraverso «rilevj
ed altre carte», la Commissione decise di assolverlo dalla domandata
reintegra. Per quanto concerne invece gli usi di pascere e ghiandare
nel territorio tra Motola e Martina, non potendo negarsi la promiscuità nascente da privilegio accordato a Martina dal principe di Taranto
Filippo d’Angiò, dispose che i cittadini di Martina fossero reintegrati degli usi civici nei menzionati due fondi feudali, nonostante essi
fossero situati nel territorio di Motola, nel modo medesimo in cui
venivano goduti dai cittadini dell’università di Motola. Sulle pretese vantate dal duca invece, la Commissione ritenne di assolvere
l’Università dalla richiesta rivendica del bosco detto le Chianelle,
in quanto non risultò dimostrato né il titolo né il possesso a favore
dell’ex barone: «quantunque avess’egli per titolo esibito un Diploma
del principe di Taranto Roberto d’Angiò del 1353 spedito in favore
di Pietro Tocco, allora possessore di Martina, nondimeno si è veduto
che nel medesimo non si parla di detto Bosco, ma di un certo territorio posto tra i territori di Taranto, Monopoli, Ostini, Motola e Ceglie,
che fu conceduto non già al solo Pietro Tocco, ma a tutti gli abitanti
di Martina». Altrettanto insufficiente a sostenere le ragioni del duca
risultò una liquidazione delle rendite del feudo fatta da Pietr’Angelo
protonobilissimo d’ordine della regina Giovanna vedova di Ferdinando II d’Aragona, da cui neppure risultava solamente che il diritto
195
STEFANO VINCI
di fida poteva essere esercitato «da li munti della città di Taranto infra». Sulla base poi della perizia risalente al 1445, eseguita su ordine
di Federico d’Aragona, allora principe di Altamura, fu riconosciuto
all’università di Martina ed ai suoi cittadini il diritto di poter chiudere a loro piacere i propri territori242.
Nell’ottobre del 1813 fu portata all’attenzione del commissario
ripartitore Domenico Acclavio un’ulteriore questione derivante dal
fatto che il comune di Martina, possessore del bosco demaniale detto
“Le Pianelle” (Le Chianelle), aveva cercato di censirlo a particolari
cittadini ritraendone così un vantaggio «non indifferente». A proporre
la relativa istanza furono i fratelli Gennaro, Felice ed altri de Casavola, possessori di una masseria detta Piovacqua sita nella pertinenza
del bosco che era stata conceduta in enfiteusi al di loro padre Donato
Maria dal titolare della Badia di S. Maria in Crispiano sotto l’annuo
canone di ducati 15 e con la facoltà di ridurre a coltura quelle terre e
di esigere le decime delle vettovaglie sui terreni da altri coltivati con
il peso di questo reddito in favore della stessa Badia243. Tale concessione aveva dato luogo ad una lunga lite tra il comune e i Casavola in
quanto nello strumento stipulato in data 27 gennaio 1765 non furono
indicati con precisione i confini della masseria e non fu dichiarata l’estensione del fondo da cui si sarebbe potuta arguire la vera posizione
di essi. La questione era stata portata dinanzi all’abolito Sacro Consiglio che nel tentativo di frenare l’arbitrio di Casavola «in dissodar
delle nuove terre» non lo proibì ma appose una clausola che vietava
di mutare la natura del fondo. La causa non fu mai decisa dal Sacro
Consiglio e sopravvenuto l’editto del 1792 sulla censuazione dei demani, il comune deliberò di censire il bosco delle Pianelle. La controversia relativa alla confinazione della masseria fu portata anche
dinanzi alla Camera della Sommaria: «il delegato marchese Vivenzio
ad un tempo che propose al governatore l’autorizzazione del progetto
di censuazione, ordinò che non vi fosse compresa la detta masseria, la
quale si dovesse confinare e terminare da periti, inteso il possessore,
e tenendosi presente lo strumento di acquisto, il catasto e gli altri do242
Bollettino n. 4/1809, p. 103. Sentenza n. 11 del 12 aprile 1809.
Supplemento Bollettino n. 32 (appendice ai numeri 16 e 17), p. 74. L’intendente della Provincia a S.E. il sig. Consigliere di Stato Ministro dell’Interno,
Lecce, 29 ottobre 1813.
243
196
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
cumenti». Sta di fatto che la censuazione non ebbe mai luogo e neppure fu mai effettuata la perizia per la confinazione della masseria. Il
comune di Martina quindi lamentava il fatto che la coltivazione delle
terre era stata portata ad una maggiore estensione per opera di quei
particolari di Martina che vantavano anche una licenza sulla Badia ed
avevano, nella confusione dei confini, dissodato dei terreni nel bosco:
queste innovazioni avevano causato il danno che l’erbaggio delle Pianelle «scommesso dagli animali di tali coloni e di Casavola, rivestiti
colla qualità di cittadini» era del tutto perduto per la fida degli animali
stranieri244. A loro volta i f.lli Casavola avevano presentato apposita
istanza relativa a tale questione già nel 1808 al Ministro dell’Interno,
il quale chiese all’Intendente della Provincia di esprimere il proprio
parere, evitando qualunque novità di fatto. Con ministeriale del 14
gennaio 1809 l’Intendente spiegò che il decurionato di Martina si era
attivato per un progetto di transazione che prevedeva la rinuncia da
parte dei f.lli Casavola di tutti i loro diritti in cambio della cessione di
tomola 120 di territorio in piena proprietà, compresi anche gli alberi, «con accantonarsi nel circondario della loro masseria, ancorché il
terreno non fosse tutto coltivato». Secondo tale proposta di accordo,
il rimanente delle terre semenzabili e il diritto di decima sui fondi coltivabili dagli altri coloni nelle pertinenze del bosco sarebbero dovute
spettare al comune. Questo progetto, contenuto nel processo verbale
della seduta decurionale del 30 luglio 1809, fu rimesso al Consiglio
di Intendenza che procedette alla verifica delle terre ridotte a coltura
(che risultarono pari a 150 tomola) ed ordinò una perizia per calcolare
«quanto di queste terre entrava nell’accantonamento delle 120 tomola
intavolate dal decurionato e quanto fosse il valore delle terre coltivate
ed incolte»245. Dalla perizia risultò che le terre destinate ai Casavola
avevano una estensione pari a tomola 58 semensabili «sparse raramente di alberi»; tomola 3 di terreno incolto e sassoso senza alberi su
cui era situata la masseria e su cui esistevano gli ovili ed altri comodi
rurali; tomola 59 di terreni boscosi e sassosi non coltivabili246. Sulla
244
Ivi, p. 76.
Ivi, p. 78.
246
I terreni sementabili con bosco valevano lire 184,80 al tomola nella misura
locale di 2500 passo il tomolo e ciascun passo di palmi 7 lineari, I terreni puramente boscosi valevano la metà di tale somma. Ibidem.
245
197
STEFANO VINCI
base di tali delucidazioni il Consiglio di Intendenza approvò in data
30 dicembre 1810 la proposta avanzata dal decurionato di Martina.
Domenico Acclavio ritenne di non condividere la decisione del
Consiglio, che invece – a suo avviso – sarebbe dovuta entrare nel
merito della controversia non solo per ciò che concerneva il dubbio
sulla confinazione della masseria Piovacqua (per cui sarebbe stata
necessaria una perizia), ma anche per ciò che atteneva il diritto della Badia sul detto fondo sito nella continenza del bosco comunale
delle Pianelle. Infatti la masseria Piovacqua avrebbe potuto per lo
più essere considerata come un demanio ecclesiastico sul quale il
comune esercitava diritti dominicali, facendo propri i frutti agresti e
l’erba. L’Intendente di Terra d’Otranto ipotizzò quindi che «in linea
di divisione la porzione del comune compensata di tali diritti» sarebbe potuta ammontare a ¾ del demanio atteso che la popolazione di
Martina era di circa 14.000 abitanti247. La proposta trovò il consenso
del Ministro che diede incarico all’Acclavio di procedere a definire
la questione248. L’Intendente procedette a nominare periti che conoscessero i confini e l’estensione del fondo ed arbitri che valutassero
i rispettivi diritti delle parti: ne venne fuori un giudizio poco favorevole per il comune249, tanto che l’Acclavio ritenne più opportuno per
gli interessi di quest’ultimo dar luogo ad un’equa transazione. Ragion per cui venne approvata dalle parti la convenzione nei termini
già discussi dal Consiglio d’Intendenza250.
247
Ivi, p. 80.
Ministeriale del 6 novembre 1813. Ivi, p. 80.
249
Scriveva Acclavio: «Questo giudizio portando a risultati poco favorevoli
per il comune, dove rimanesse stabilito sulla confinazione riconosciuta da’ periti,
e d’altronde la natura alpestre e boscosa del demanio facendo nascere de dubbi
sull’esercizio del dritto di semina competente agli aventi causa dalla Badia, io ho
stimato più conducente agli interessi del comune di dar luogo ad un’equa transazione che di decidere di giustizia siffatta pendenza». L’intendente di Terra d’Otranto a S.E il Ministro dell’Interno, Lecce, 24 novembre 1813.
250
La convenzione veniva resa esecutiva dall’Acclavio con propria ordinanza,
successivamente approvata dal Ministro dell’Interno. Ministeriale dell’Intendente
con cui si approvano le disposizioni date, 30 novembre 1813. Ivi, p. 87.
248
198
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
3.14. Massafra
Il comune di Massafra portò innanzi alla Commissione feudale
ben quattro azioni di revindica nei confronti di quattro diversi possessori: la prima relativa alla difesa di Albanello di circa tomoli 200
posseduta dagli eredi Di Donato Maria di Carlo; la seconda sul rimanente territorio di detta difesa di Albarello e sulla difesa di Adogha
di circa tomoli 100 possedute dal sig. Michelangelo Zuccarelli; la
terza sui parchi boscosi e macchiosi, denominati Cernera, S. Martino, Collamesola, S. Miele, Ginestra, Parconuovo e Parchitello di
Piescorovolo di circa 1600 tomoli posseduti dal Duca di Martina; la
quarta sulla difesa di Serra del Fragno di circa 700 tomoli posseduta
dal sig. Ferdinando Notaristefano. I documenti posti a sostegno delle domande avanzate erano costituiti da due antiche capitolazioni,
stipulate una nel 1561 fra l’università e il barone Francesco Pappacoda e l’altra nel 1591 fra la stessa università e la baronessa Isabella Montorio. Con la prima convenzione Pappacoda aveva lasciato
all’università due difese denominate Serra dello Fragno e Chiusura
delle Olive e aveva accordato ai cittadini di «raccogliere ghiande nei
parchi, parcochi e difese baronali»251. L’università a sua volta aveva
251
Gli usi civici concessi sono ben specificati nella capitolazione del 1561:
«Item detto Eccellentissimo Signore si contenta rilassare a detta università la Defensa detta la Serra del Fragno secondo anticamente li tenea, e si trova designata
per lo pascolo per li bovi domiti ed indomiti di detta Terra per tutto l’anno, ad
arbitrio d’essa università, e che su quella non possano entrare animali forestieri, et
maxime de’ fidati, con condizione che quando accaderanno passare li bovi di detto
Eccellentissimo Signore domiti, che per tramite sia lecito pascolare. Item detto
Eccellente Signore si contenta lasciare a detta università la difesa, seu erbaggio
nominato la defesa delle Chiusure dell’Olive, secondo si trovano le colonne e confini, che ogni tempo sia leciuto a detta università ed uomini di quella farci pascolare loro animali domiti, ed indomiti per tutto l’anno, ad arbitrio di detta università,
senza pascolarci animali de’ fidati, né di altri forestieri; con condizione che accadendo che detto eccellente Signore faccia coltivare le olive, e l’altre possessioni
sono dentro dette chiusure sarà lecito pascolarci per quello tempo coltiverà dette
possessioni di sua Signoria. Item detto Eccellente Signore si contenta che ogni
persona di detta Terra possa raccogliere ghiande, fragne e lezze alli Parchi di sua
Signoria Eccellente, dummodo non li battono colli bastoni, senza pagamento ed
impedimento alcuno. Item si contenta detto Eccellente Signore concedere a detta
università ed Uomini di quella, che li cittadini ed uomini predetti possono andare
a tagliare legna, e cogliere fragne, lezze e ghiande da dentro li Percori, e difese
di detto Eccellente Signore senza impedimento e pagamento alcuno, e portando
199
STEFANO VINCI
ceduto al barone la facoltà «di tener difese e custodire, come già le
teneva e possedeva lo parco della Ginestra, lo Parconuovo, lo Parco
di Cernera, lo parco di S. Martino, Collamesola e tutto lo suo distretto e lo Parchitello di Piescorovolo; come pure si obbligò di non
dar molestia al barone nella difesa chiamata Albanello, che cedette
e rilasciò allo stesso barone e che potesse egli possedere tanto detta
difesa, quanto de Doga e quella di Alvaniello»252. Con la seconda
convenzione furono rinnovate dalla baronessa Montorio le precedenti concessioni rilasciate al comune di Massafra dal barone Pappacoda ed, in particolare, fu riconosciuto a«tutti l’animali de’ cittadini»
l’uso civico di pascere sulla Serra dello Fragno, fatta eccezione per
gli «animali forastieri»253. In tale ultima convenzione le parti ebbero cura di specificare che le statuizioni ivi contenute «si debbano
osservare durante il dominio che essa Signora averà di detta Terra,
e quello finito, le ragioni tanto di detta università quanto delli successori di detta Signora, restano intatte ed illese e che per la presente
non s’intenda essere fatto pregiudizio alcuno a nessuna delle parti,
per lo qual tempo ambe le parti promettono osservare detta transazione, convenzione, e concordia, e così s’obbligano e giurano»254.
Questo principio posto a tutela della sopravvivenza degli usi civici concessi, garantì – come ebbe modo di rilevare la Commissione
feudale – l’esecuzione delle statuizioni contenute nelle convenzioni
per ben due secoli e mezzo. Nel 1789, allorché il feudo di Massafra
«possedeasi dal Fisco allodiale», l’università chiese ed ottenne di
essere mantenuta nel possesso degli usi civici accordati in forza delle
antiche capitolazioni. Con decreto del 9 dicembre 1789 emesso per
Supraemam Cameram Regalium Allodialum in causa Regii Fisci Albestie di barda per condurre dette legna, e fragne, seu lezze, che sia lecito a detti
cittadini pascere in detti parchi e defensa dette loro bestie fintantoché coglieranno, e caricheranno dette legna, frasche, e lezze, senza impedimento e pagamento
alcuno: dummodo che al cogliere di dette ghiande e lezze da detti Percori non li
battono colli bastoni, come è detto sopra». Bollettino n. 5/1810, p. 198. Sentenza
n. 35 del 10 maggio 1810. Nella causa tra ‘l comune di Massafra e i Sigg. Michelangelo Zuccarelli, gli eredi di Donato Maria di Carlo, il Duca di Martina e ‘l
Signor Ferdinando Notaristefano. Questa convenzione fu approvata con expedit
del Sacro Consiglio.
252
Ibidem.
253
Ivi, p. 202.
254
Ibidem.
200
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
lodialis cum Universitate Civitatis Massafrae, fu statuito «quod Cives Massafrae manuteantur in possessione legnandi arbores siccas et
infructiferas in parcoribus ut ex actis, et respectu arborum viridium
et fructiferarum pro eorum usibus»255. Sulla base di tali elementi la
Commissione riconobbe ai cittadini di Massafra «i pieni usi civici,
anche per commercio fra loro sopra i locali di Albarello, Adogha, lo
Parco di Cernera, lo Parco della Ginestra, lo Parco Nuovo, lo Parco
di S. Martino colla Mesola e il suo distretto, ed il Parchitello di Piescorovolo, dinotati nelle antiche capitolazioni del 1561 e del 1591».
A tale provvedimento faceva seguito l’ordine rivolto all’amministrazione dei Reali Demani di indennizzare i possessori dei rispettivi poderi «per la evizione dei medesimi sofferta sopra io fondi ad essoloro
venduti dalla Regia Corte Allodiale»256.
3.15. Montemesola
L’università di Montemesola chiese alla Commissione feudale di
pronunciarsi sulla legittimità delle pretese, vantate ed esercitate dal
suo ex barone marchese Andrea Saraceno, relative all’esazione su
tutti i fondi dei cittadini di due decime di ogni genere di vettovaglie di frutti; all’esercizio dei diritto di pascolo nei fondi comunali
e cittadini; sull’esazione della carnatica, del casalinaggio e della bagliva. A tanto si aggiungeva l’abuso che per alcuni fondi posseduti
dai cittadini nel territorio di Taranto, non solo l’ex barone esigeva le
due decime delle vettovaglie, dei frutti ed altre prestazioni in danaro,
ma aveva fatto iscrivere, nel ruolo fondiario, questi stessi fondi a
suo nome. Di contro il marchese chiedeva gli fosse riconosciuto il
diritto di proprietà sull’intero territorio di Montemesola, in virtù del
fatto che fu acquistato dai suoi predecessori come feudo disabitato e
che – dovendosi considerare gli attuali coloni tutti censuari ed enfiteuti – gli si dovessero corrispondere non solo il quinto dei prodotti,
ma l’annuo censo di carlini 5 per ogni fondo di casa ed il laudemio
(ossia decima del prezzo) nell’alienazione dei fondi redditizi. Dai
documenti esibiti dall’ex barone e dalle carte fiscali estratte dall’archivio generale, emergeva che il feudo di Montemesola «uscì dalle
255
256
Ivi, p. 205.
Ivi, p. 208.
201
STEFANO VINCI
mani della Regia Corte come luogo disabitato»257. Nel repertorio del
1320 si trovava registrata la facoltà concessa al possessore Berengario Mandolino «quod possit rehabitare quemdam locum in civitate
Tarenti, qui dicitur Montismesula ex habitatum». Nel 1423 fu venduta la metà del feudo consistente in soli beni fondi «senza veruna
marca di feudalità». Essendo passato il feudo alla famiglia Noya, si
evinceva da uno strumento del 1471 che erano state impiegate le doti
di Luisa Muscettola, moglie di Giovanni di Noya, «per abitarsi il
casale di Montemesola»258. Inoltre dall’esame dei documenti fiscali
risultava che nella tassa provinciale e nei conti erariali fiscali dai
tempi angioini sino al 1485 Montemesola non era mai stato sottoposta a tassazione. Inoltre esistevano capitolazioni stipulate nel 1588
tra i cittadini di Montemesola ed il barone, in cui venivano indicate
non solo le decime dei frutti e di prezzo, ma anche altre gravissime prestazioni baronali. Dall’esame dei documenti, la Commissione
ritenne non esservi dubbio sulla feudalità universale del territorio
di Montemesola. Considerò altresì che qualunque fosse la qualità
redditizia del territorio, sulla base dei principi adottati dalla Commissione per la Provincia di Terra d’Otranto259, non dovesse estendersi la prestazione prediale oltre la decima da limitarsi ai soli generi
riportati «ne’ primi rilevj» in cui si faceva riferimento all’esazione
decimale soltanto del grano, dell’orzo, della vena e delle fave». La
Commissione feudale statuì quindi che il marchese potesse esigere
una sola decima sul grano, orzo, avena e fave, mentre si sarebbe dovuto astenere dall’esercitare qualunque diritto di pascolo sui territori
demaniali dell’università – sia chiusi che aperti, ancorchè redditizi –
257
Bollettino n. 8/1810, p. 183. Sentenza n. 29 del 8 agosto 1810.
Uno strumento del 1507 conteneva la divisione dell’intero territorio di
Montemesola, seguito ad una lite intercorsa fra i membri della famiglia Noya. Ivi,
p. 186.
259
Cfr. il decreto del 16 ottobre 1809, cit., art. 2: «La limitazione al diritto di
decimare, quando il medesimo sia legittimo sui generi espressi nell’articolo precedente, non pregiudica all’esenzione della decima su di alcuni dei generi stessi,
delle quali i possessori de’ fondi decimatisi trovino in possesso. Queste esazioni
sono confermate. Per l’opposto restano vietate tutte le prestazioni maggiorati della
decima parte, le quali non abbiano in loro favore una decisione della commissione
feudale che le dichiari legittime. Restano confermate in favore de’ possessori tutte
le eccezioni, in forza delle quali le prestazioni si trovano fissate ad una quantità
minore della decima».
258
202
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
posseduti dai privati. Osservò inoltre che i diritti della carnatica, del
casalinaggio e della bagliva erano stati aboliti dalla legge e dai decreti
eversivi della feudalità e che pertanto l’ex barone si sarebbe dovuto
astenere dall’esigere qualunque prestazione sui suoli delle case, così
come dall’esazione della carnatica e della bagliva. Per quanto concerne la questione relativa all’intestazione dei fondi siti nel territorio
di Taranto, la Commissione ritenne che la decisione dipendeva dalla
risoluzione della controversia «del dominio de’ fondi medesimi»260,
la cui cognizione veniva demandata ai giudici ordinari.
3.16. Motola
L’università di Motola, il cui territorio confinava con Martina,
aveva sollecitato la Commissione feudale affinché fossero risolte alcune questioni in ordine al godimento degli usi civici di legnare e
pascere di fatto impediti dall’ex feudatario duca di Martina. In particolare l’università chiedeva che fosse riconosciuta l’appartenenza
delle due parate dette volgarmente del frutto pendente; che i cittadini
fossero restituiti nei diritti illimitati di legnare in tutto il territorio e
che l’università fosse risarcita del danno derivante dal fatto che il
duca aveva tagliato un numero immenso di alberi per lavoro; che il
duca aprisse i fondi denominati Montanaro, Caldarulo, Simonetti,
Greco, Lama di Rose, Chiancarello, Confrataria, Sorrosso e la Pentima, togliendo i muri a secco che vi ha fatti; che i cittadini fossero
integrati nel diritto di pascere coi bovi d’aratronella difesa di Selvapiana come corpo feudale, così rivelato nel catasto del 1755; che
fosse vietato al duca di fidare e diffidare in tutte le difese e parchi;
che i cittadini dovessero godere degli usi nei parchi detti del conte, i quali per esecuzione del decreto del consiglier Ferrante furono
venduti dal conte di Conversano ed acquistati dal duca di Martina;
che fosse vietato al duca d’introdurre nel demanio comunale tanto
gli animali propri che dei suoi fidatari, con aprire a tutti i luoghi
260
Ivi, p. 188. La Commissione sul punto osservò come agli enfiteuti e ai
coloni perpetui competevano tutti gli effetti dello stesso dominio, fatti salvi i
redditi dichiarati legittimi a favore degli ex feudatari. Pertanto ritenne lecito agli
enfiteuti ed ai coloni perpetui di far iscrivere i fondi rispettivamente posseduti
nelle matrici della fondiaria, «ritenendosi soltanto il quinto a tenore del decreto
de’ 20 giugno 1808».
203
STEFANO VINCI
usurpati. Per quanto riguarda le due parate del frutto pendente, la
Commissione osservò che esse non erano di proprietà dell’ex feudatario, il quale però si arrogava il diritto di chiudere tutti i fondi,
suoi o dei particolari siti nei locali denominati S. Antuono, Poltri,
Murgia e Pentime, creando così – dove il frutto delle ghiande fosse
maggiore – una sua difesa privativa con il nome di parata del frutto pendente, a differenza dell’altra chiamata cumulativa nella quale
promiscuamente esercitavano i diritti il duca e i cittadini. Questo
diritto era stato garantito dall’abolita Regia Camera al tempo in cui
era ancora in vigore la feudalità: «oggi che per le novelle leggi è
stata quella abolita, e che si vogliono conservate le proprietà di ciascuno libere da siffatte servitù e che ognuno possa chiudere i propri
fondi, non sia più sostenibile». La Commissione rilevava preliminarmente che dall’informazione fiscale del 1554, dai relevi presentati
nel 1564 per morte di Raimaldo d’Alagna e nel 1590 per morte di
Nicola Maria Sepandi e dall’apprezzo del feudo fatto nel 1652 risultava che Selva dritta e Selva piana grande fossero entrambe difese
ex feudali del 1546; che i due parchi denominati Dolce morso e S.
Basile fossero due corpi ex feudali di piena proprietà dell’ex feudatario; che dall’apprezzo del 1652 risultavano essere descritti come
corpi burgensatici i fondi denominati Lama Vallina, terzo del parco
di Pizzo ferro, la selva dritta piccola, parco di Terracena, la difesa o
sia territorio burgensatico di S. Basile colla vigna, col parchitello,
col giardino e col territorio seminatorio di tomoli 15, la difesa di
Forzaniello e Colaproco, la difesa della Marinata, il Parco chiuso di
Acquagnara e S. Maria della Serra, difesa di Cazaruto, diversi parchi
piccoli col parco di Tamburello, della Lama, del Mele, di Cavoto,
Pietrapercuto, Passasepe, Berardino, Sciavone, di Specchio, di Cola
Braya, del Tesoro e Grottaglie e di Giovanni Maria Ricci, il giardino
della Fontana, l’orto del giardino di Matera, orto e giardino delle
Fontanelle ed orto della Pietra. Per quanto riguarda la difesa della
Pentima Commissione osservò sulla base dei documenti esaminati
che essa non fosse da ritenersi come difesa, per cui doveva essere
soggetta agli usi civici261. Inoltre risultava dal «decreto profferito dal
261
Rilevava la Commissione che la c.d. difesa della Pentima o sia nuovo titolato
non era menzionata come difesa nelle antiche carte, né tantomeno risultava essere
stata eretta legittimamente in difesa, mentre invece era indicata come difesa nell’ap-
204
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
Consiglier Ferrante nel 1726 quando si portò sulla faccia del luogo»
per terminare tutte le controversie tra «la casa» del Duca di Martina
e quella del Conte di Conversano che il duca fu obbligato a comprare
tutti quei fondi che tanto il conte che i cittadini sottoposti alla sua
giurisdizione possedevano nel territorio di Motola: per cui tali fondi
dovevano reputarsi di piena proprietà del duca, così come tutti quegli altri che avesse acquistato con particolari strumenti. Ne derivava
che il taglio e la vendita dei legnami avvenuta nei fondi di dominio
del duca fosse il legittimo esercizio «del suo diritto», anche in considerazione del fatto che l’università non aveva fornito alcuna prova
che fossero stati tagliati anche alberi nei fondi del demanio comunale. Il duca quindi avrebbe potuto esercitare i suoi diritti soltanto nei
«demani ex feudali», fatti salvi gli usi civici dei cittadini anche per il
commercio tra loro. Il duca avrebbe invece dovuto astenersi dall’esercitare qualunque diritto di fida tanto sulle erbe che sulle ghiande
dei territori comunali e dei particolari «così chiusi che aperti» siti
nelle stesse contrade, mentre ai particolari possessori era riconosciuto il diritto di chiudere i rispettivi fondi nei termini della legge. Veniva altresì fatto divieto all’ex feudatario d’introdurre animali propri o
dei suoi fidatari nei demani comunali262.
L’esecuzione dell’ordinanza rivelò difficoltà sul piano pratico.
Nel 1811 il sindaco e i decurioni del comune di Motola presentarono
ricorso al Ministro dell’Interno con il quale si dolsero di essere stati
spogliati di tutto il demanio, e particolarmente dei boschi di querce
ivi situati, da cui traevano la maggior parte delle loro rendite. La
questione fu portata dallo Zurlo all’attenzione del Winspeare, sostituto procuratore generale presso la Gran Corte di Cassazione263,
e da questi all’Acclavio, con la richiesta di informazioni sulla fondatezza della domanda264. L’Intendente di Terra d’Otranto – nella
sua dettagliata risposta inoltrata in data 22 giugno 1811 – rilevò
come la questione era stata oggetto di arresto della Commissione
prezzo del 1652, successivo alla prammatica dell’imperatore Carlo V che proibì le
nuove difese. Bollettino n. 2/1810, p. 803. Sentenza n. 78 del 23 febbraio 1810.
262
Ibidem.
263
Supplemento Bollettino n. 18, p. 49. Ministeriale per parere. Il Ministro
dell’Interno al sig. cav. Winspeare sostituto procuratore presso la G. C. di Cassazione. 20 aprile 1811.
264
Lettera al Commissario. Winspeare all’Acclavio. 8 maggio 1811. Ibidem.
205
STEFANO VINCI
feudale del 23 febbraio 1810 che, all’atto della sua esecuzione, fu
contrastata dal comune di Motola che rinnovò davanti allo stesso
Acclavio le questioni già oggetto del giudicato ed ora nuovamente
riproposte sottoforma di supplica a Sua Maestà265. Nell’ultimo ricorso, il decurionato di Motola lamentava la perdita dei diritti di
pascere, ghiandare e legnare nei territori aperti, e soprattutto in quelli posseduti dai particolari, «dove costoro non hanno rappresentato
che un diritto precario di semina, comechè esente da corrisposta, o
l’uso promiscuo dell’erba senza proprietà sugli alberi»266. In virtù di
tali considerazioni, domandava quindi che il territorio, in qualità di
demanio comunale, fosse ripartito tra i cittadini, o che quantomeno
fosse conservata la proprietà sugli alberi e che ciò fosse applicabile a
tutti i fondi del duca di Martina, feudali e burgensatici. Domandavano altresì i ricorrenti che «tanto costui, quanto i particolari avessero
esibito i loro titoli per conoscersi della estensione dei rispettivi fondi
e delle servitù cui soggiacevano, e che non solo ne’ demani ex feudali si fossero valutati gli usi civici a tenore della decisione, ma che
eziandio si fosse dato compenso all’illimitato uso di legnare nelle
così dette Selvapiana e Selva dritta grande, dichiarate difese feudali
secondo lo stato dell’attuale possesso»267. Le questioni oggetto del
ricorso apparvero all’Acclavio in aperta contraddizione con il giudicato della Commissione, che aveva dichiarato la piena proprietà
dei fondi dell’ex barone e dei particolari possessori, e l’esclusione
di qualunque «idea di condominio, o di servitù per parte del comune
e de’ suoi cittadini». Osservò altresì che – estinto il diritto di fida
nell’ex barone – la Commissione aveva ugualmente abolito la partecipazione agli usi, dichiarando perciò i fondi di piena proprietà dei
possessori268. Alla luce di tali considerazioni, concluse col ritenere
che «a’ termini del giudicato ognuno ripigliava il suo, l’ex feudatario
265
Riscontro del Commissario, 6 dicembre 1811. Ivi, p. 54.
Ivi, p. 55.
267
Ibidem.
268
Rilevava ancora l’Acclavio che: «malgrado la particolar domanda fatta dal
comune, di doversi dichiarare appartenere ad esso le due parate dette volgarmente
del frutto pendente, niuna dichiarazione erasi fatta della universalità del demanio,
e che d’altronde avendo il detto comune i suoi particolari demani, e l’ex barone i
demani ex feudali, la partecipazione al beneficio della parata cumulativa era più
il risultato della comunione de’ demani comunali e dell’uso civico su’ feudali, che
266
206
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
cioè i suoi territori feudali e burgensatici, il comune i demani di sua
ragione; ed i particolati sciolti dalle catene delle parate, venivano
pe’ principi liberali della presente legislazione ad acquistare il libero uso de’ loro fondi». In ordine alle pretese avanzate, l’Acclavio
osservò come le perdite del comune di Motola derivassero soprattutto da «quello che esso non ha guadagnato immaginando di essere
suo l’intero territorio, che a ciò che gli mancava per l’emolumento
finora percepitone». Infatti dalle ‘parate’ il comune non percepiva
più che il quarto del frutto della ghianda che si raccoglieva da circa
6000 tomola di bosco269, mentre l’esecuzione della sentenza della
Commissione feudale270 gli avrebbe reso l’intero frutto del demanio
comunale boscoso della capacità di 500 in 600 tomola, ed avrebbe
avuto sul demanio ex feudale – di oltre 1000 tomola – la sua quota
di territorio equivalente ai pieni usi civici271. L’Acclavio concluse la
sua nota riferendo di non aver riscontrato nessun dubbio «sulla intelligenza» del giudicato della commissione, per cui aveva ritenuto
equo darne esecuzione «giusta il suo tenore»272. Nella sua risposta, il
la ragion di proprietà su fondi appadronati, su’ quali, anziché il comune, gravitava
l’ex barone co’ suoi diritti di fida». Ivi, p. 57.
269
Spiegava l’Acclavio che per ciascun tomolo dovessero considerarsi 2500 passi.
270
Le operazioni di divisione del demanio si sarebbero compiute all’esito di
una perizia – ordinata dall’Acclavio – al fine di determinare «la verificazione e
segregazione» dei territori dichiarati di piena proprietà del duca di Martina.
271
Ivi, p. 58. Evidenziava ancora l’Acclavio come il comune di Motola avesse
«in virtù di antica convenzione il terzo della ghianda sul demanio detto di Pizziferri
nella estensione di 800 tomola posseduto dalla vacante mensa vescovile di Motola; e sonovi oltre a ciò delle vaste tenute boscose del capitolo e della stessa mensa
di Motola già soggette alle parate, che parrebbe doversi eziandio riputare demani
ecclesiastici, anche per mancare a questi luoghi pii i titoli di particolare acquisto.
Sonovi infine altri demani comunali erbosi e macchiosi di circa 600 tomoli di terreno. Quanto poi a’ diritti di pascere e legnare nelle difese una volta comunali, ed
acquistate dall’ex barone per vendita fattagliene dallo stesso comune, la commissione ha pur detto, che sieno possedute in piena proprietà del medesimo, assolvendolo
dall’azione di reintegra contro di lui dedotta. Sembra nondimeno che in rapporto a
questi territori non essendo stata questione dell’esercizio degli usi, ma sì bene della
proprietà, il giudicato avendo per legittimo il titolo di compera fattone dal possessore, non abbia inteso alterare i patti in esso contenuti, tra’ quali il comune dice esservi
la riserva degl’indicati diritti di pascere e legnare. Io ignoro però se questa riserva
veramente esista non essendomi stato esibito lo strumento di vendita».
272
Ivi, p. 60. Riteneva però l’Acclavio che la domanda avanzata dal comune
di Motola potesse trovare accoglimento in ordine a due punti: sulle cinque difese
207
STEFANO VINCI
Winspeare si dimostrò d’accordo in ordine all’interpretazione della
sentenza: «I vantaggi della decisione de’ 23 febbrajo sono tutti de’
particolari possessori, e l’università non dovrebbe credere separato il
suo utile da quella della massa de’ suoi componenti»273.
Il duca di Martina, sig. Placido Caracciolo, non condivise le decisioni prese dall’Acclavio in ordine alla esecuzione della sentenza
all’atto della divisione dei demani e inoltrò reclamo al Consiglio di
Stato274 – trattato nella seduta del 16 novembre 1813 – ritenendo che
i tenimenti di Selvapiana e Selva dritta grande fossero stati mal divisi dal Commissario fra l’ex barone e i cittadini di Motola, in quanto
essendo stati dichiarati difese ex feudali dalla Commissione feudale
non erano suscettibili di nessuna divisione. Inoltre – rilevava il duca
di Martina – era stata riservata ai cittadini la servitù di pascolo, di
legnare e di raccogliere le ghiande nelle difese di Selva dritta piccola, Forzaniello, Marinara e nelle contrade di Felice e Casarutto «con
egual torto e con contraddizione evidente» in quanto anche queste
erano state dichiarate di piena e particolare proprietà dell’ex barone
dalla Commissione feudale275. Con riferimento alla prima questione, il Consiglio di Stato ritenne – udito il voto consultivo della sua
Commissione del contenzioso – che la Commissione nel dichiarare
difese ex feudali i tenimenti di Selvapiana e Selva dritta grande aveva aggiunto la condizione «secondo lo stato dell’attual possesso»,
che consisteva nel legnare a secco ed infruttifero nelle citate difese,
vendute dal comune, in quanto – poiché la decisione della Commissione era caduta sull’azione di reintegra – non era stato in alcun modo pregiudicato il diritto
del comune per gli usi che furono una riserva fatta dal venditore e perciò dovuti in
forza del titolo stesso che ha conservato la proprietà del duca; sui fondi denominati
Selvapiana e Selva dritta grande non sono rimasti pregiudicati gli usi che avevano
i cittadini, se è vero che il loro possesso risulta così chiaramente dai documenti
richiamati nella memoria presentata dall’avvocato del comune
273
Risposta al Commissario. Winspeare all’Acclavio. Ivi, p. 61.
274
L’art. 5 del Decreto 23 ottobre 1809, n. 495, cit., prevedeva che «Le determinazioni dei Commissari saranno eseguite, non ostante qualunque opposizione.
Coloro che avessero diritto di querelarsene, potranno intentar l’azione presso il
Consiglio di Stato; ma non potranno ciò fare se non che dopo terminata l’operazione. Essi non saranno ammessi a domandar alcun cambiamento nella citata operazione; ma potranno ripetere un indennità pecuniaria contro coloro, che avessero
mai ottenuto ciò che ad essi apparteneva».
275
Supplemento Bollettino nn. 38 e 39, cit., p. 205. Avviso del Consigliere di
Stato, 25 novembre 1813.
208
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
in forza di antichi giudicati e per fatto non controverso dello stesso
ricorrente. Sul punto la legge relativa alla divisione dei demani stabiliva che la distinzione tra demanio e difese nelle quali i comuni
esercitavano qualche diritto derivava dalla qualità degli stessi:
talché ove si trovino esse nello stato di permetterne ancora l’esercizio non può dubitarsi, che debbano i comuni ricevere un corrispondente compenso; e che ciò posto anziché aver violato il commissario
ripartitore, come il ricorrente pretende, il disposto della commissione
feudale, ne ha seguito esattamente la norma, conformemente a’ principi
riconosciuti di dritto nella soggetta materia276.
Per quanto concerne la seconda parte del reclamo, il Consiglio di
Stato osservò che il commissario ripartitore «senza ingiustizia e senza
contraddizione» aveva stabilito che le difese c.d. Selva dritta piccola,
Forzaniello e La Marinara con le contrade aggiunte di Felice e Casarutto dovevano essere soggette alle servitù attive citate: «senza ingiustizia» perché i comunisti di Motola, nell’atto di vendita delle citate
difese stipulato il 6 maggio 1608 con l’ex barone dell’epoca, avevano
riservato a loro favore la servitù attiva di pascolare i loro greggi in
una parte dell’anno, di legnare e raccogliere la ghianda in ogni tempo;
«senza contraddizione» perché le citate servitù non aveva una origine
feudale e potevano perciò esistere sui fondi di cui era stato riconosciuto
dalla Commissione il dominio del ricorrente. Concluse pertanto il Consiglio di Stato che il reclamo non poteva trovare accoglimento e che
dovevano confermarsi le ordinanze emesse dal commissario Acclavio.
3.17. Palaggiano
Di notevole complessità a causa di insufficienza della documentazione prodotta dalle parti, fu la questione sollevata dal comune
di Palaggiano contro il Principe di Cursi: il comune aveva chiesto
che l’ex barone restituisse: la metà della difesa denominata Calzo; la
decima esatta dal 1713 al 1809 sui prodotti della di lui difesa comunale denominata San Felice; la chiusa demaniale di Lama di Lenne
con i frutti percepiti dal 1713 in poi; le quantità esatte dall’univer276
Ibidem.
209
STEFANO VINCI
sità dal 1624 al 1647 a titolo di camera riservata e «per provisione
dell’erario»; la Vasca ossia conserva di acqua piovana e la strada
pubblica aggregata al palazzo baronale. La Commissione rilevò che
i documenti prodotti dall’Università per dimostrare la natura comunale della difesa Calzo fossero «equivoci ed oscuri». L’ex barone
all’opposto aveva sostenuto di rilevarsi nettamente la natura feudale
di tale difesa sulla scorta degli apprezzi fatti dal Tavolario Fusco
nel 1605. La decisione sul punto fu riservata all’esito della causa di
altra vasta difesa sullo stesso territorio denominata S. Marco de’ Lupini. Per quanto riguarda gli altri capi di gravezze, la Commissione
assolse l’università dalla azione di revindica proposta dal principe
ex barone della difesa di San Felice, stabilendo che questa restasse in proprietà del comune di Palaggiano, senza che potesse sulla
stessa esercitarvi alcun diritto di decima. Assolse il barone dalla restituzione pretesa dall’università della chiusa Lama di Lenne; dalla
restituzione dell’indebito esatto dei diritti proibitivi dei molini e dei
forni e dall’indebito esatto a titolo di camera riservata e di provisione
dell’erario. Respinse la domanda della revindica della Vasca e della pubblica strada poiché l’università non aveva dato alcuna prova
del suo dominio ed antico possesso277. Le questioni riservate furono
affrontate dalla Commissione nel luglio del 1809. In quella sede fu
esaminata la questione della natura e pertinenza della difesa di Calzo: poiché nessun altro elemento era emerso dagli atti relativi ai fabbricati per S. Marco de’ Lupini, la Commissione considerò prevalenti le dichiarazioni rese «da tempo in tempo» dagli antichi possessori
di Palaggiano278: da esse emergeva che Calzo fosse l’antico demanio
dell’Università e che gli stessi baroni, pentiti di averlo ridotto in difesa, ne disposero prima l’apertura e poi la restituzione della metà al
277
Sentenza n. 1 del 6 aprile 1809, cit.
«Ferrante Carmignano dichiarò con testamento del 1623 di aversi chiuse
in pregiudizio dell’università la difesa nuova, e le difese dette Mezzanella, e S.
Felice; ed ingiunse al suo erede di restituirle nello stato primario, ed indennizzar
l’università degl’interessi sofferti. L’erede Alessandro Carmignano non concordate le sue pretensioni con istrumento stipulato fra essa, e lo stesso acquirente
del feudo, ch’era il Duca di Martina, il più antico, e maggior creditore, ed autore
insieme dell’attuale ex barone. Ed in quello strumento si dichiarò che la difesa del
Calzo era l’antico demanio aperto, e che questo divider si dovesse fra l’università
e il barone». Bollettino n. 6/1809, p. 507. Sentenza n. 95 del 31 luglio 1809.
278
210
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
comune. Poiché non è possibile che sul territorio demaniale dell’università il barone potesse allo stesso tempo esercitare gli usi civici
ed appropriarsi del terraggio, la Commissione giudicò che la difesa
del Calzo dovesse restituirsi interamente all’università. Per quanto
concerne la natura del territorio denominato Lama di Lenne, o Conocchiella, non avendo riscontrato alcun «rischiaramento» dagli atti
di S. Marco de’ Lupini, la soluzione della questione fu ricercata negli
apprezzi e nelle confessioni baronali. Dall’esame di tali documenti emerse come questa difesa fosse stata descritta come feudale sia
nell’apprezzo del tavolario Cafaro del 1711 che in quello redatto un
secolo prima dal tavolario Fusco. Negli apprezzi venivano riportati
come burgensatici vari beni siti negli stessi locali di Conocchiella
ed in particolare la chiusa di tomola 50, già dichiarata di pertinenza dell’ex barone con la precedente sentenza, ed altre carra 3 che
Cafaro asseriva costare da un antico rilevio279: l’esistenza dei fondi
burgensatici mal si conciliava con la natura feudale di Conocchiella,
nella quale essi si trovavano. Gli stessi tavolati, non distinguendo i
demani feudali dai comunali, attribuirono quindi erroneamente agli
usi civici del barone anche quello di terraggiare nei demani dell’università. Sulla base di tali considerazioni, la Commissione ritenne
che Lama di Lenne dovesse reputarsi un demanio dell’università e
che dovesse essere separata da essa e rimanere a beneficio dell’ex
barone come bene burgensatico, compresa la chiusa definita nella
precedente sentenza, le carra 8 cedute dal barone di Palaggianello, le
carra 3 rapportate nell’antico relevio ed apprezzo di Cafaro e la vigna descritta nell’apprezzo di Fusco280. Dalla definizione delle parti
279
Dall’apprezzo del 1711 risultava la convenzione secondo cui «la Mezzana,
e Lama di Lenne, restino continuamente in ogni tempo di està, e d’inverno per
demanio aperto, cioè come sono state ab immemorabili, eccetto però un pezzo
di territorio di tomolate 50 nominato la Chiusa, sito circa detto demanio aperto
di Lenne, consistente in un giardino, palude, ed una vigna incolta acquistata dal
barone a titolo particolare, ed in virtù d’instrumento di compera». Ibidem.
280
Per quanto concerne le ulteriori richieste di rivendica delle difese di Lama
d’Erchia, di Castiglione e della metà di Padula fetida, poiché l’università non ha
prodotto nessun atto da cui risultasse il dominio o il possesso atto a dimostrare
la pertinenza, l’ex barone risultava garantito da un possesso di più secoli, e dagli
antichi rilevi ed apprezzi. La Commissione si era posto il dubbio soltanto in ordine alla natura della metà della Padula fetida, in quanto nello stato della locazione
di Otranto, formato nel 1604 dal credenziere Corcione, risultava essere metà del
211
STEFANO VINCI
ex feudali e comunali di Palaggiano era possibile risolvere la questione relativa al terraggio sull’intero territorio. Trovando assurdo
infatti il «sentimento» del Tavolario Cafaro secondo cui l’ex barone
potesse esercitare il diritto di terraggio anche sui demani dell’università, la Commissione stabilì che il principe di Cursi potesse esigere il
terraggio soltanto nelle difese e nei demani ex feudali, ad eccezione
dei territori appadronati e demaniali dell’università.
Tali decisioni del 6 aprile e 31 luglio del 1809 furono oggetto di
doglianza da parte del principe di Cursi, il quale adì nuovamente la
Commissione feudale lamentando di non aver ottenuto l’assegnazione della Vigna di Lenne – oltre alla Chiusa – e che le carra 11 e
versure 16 in Conocchiella non gli erano state assegnate «nel luogo
ove si dovea»281. Il comune di Palaggiano ed i particolari cittadini
con due libelli replicarono che “essendo la Chiusa di Lenne e la Vigna di Lenne un solo e medesimo fondo, e possedendo l’ex barone
la Chiusa, non dovesse altro pretendere”. Dedussero altresì che dovessero essere conservate le censuazioni fatte nella Chiusa, approvato l’assegnamento fatto in Conocchiella e «di doversi conservare le
colonie tanto nelle mentovate carra 11 e versure 16, che ne’ territorj
denominati Lama d’Erchie e Castiglione dichiarati colla II decisione demaniali ex feudali, nella parte che all’ex barone spetterà nella
divisione de’ demani, e di non aver costui alcun diritto sulle erbe de’
fondi coltivati»282. La Commissione con sentenza del 27 marzo 1810
statuì che le carra 11 e versure 10 dovessero rimanere a beneficio
dell’ex barone nella contrada di Conocchiella e pertanto dovessero
essere distaccate secondo i confini descritti nell’apprezzo del 1705
del tavolario Fusco «ed in modo che la porzione da accantonarsi attacchi a’ confini medesimi». Stabilì inoltre che in tale contrada – come nelle difese di Lama D’Erchie e Castiglione – fossero mantenuti
barone di Palaggiano. Dai documenti prodotti dal principe di Cursi risultava però
essergli stata ceduta l’altra metà dal barone di Palaggianello, insieme con le citate
carra 8 di Conocchiella. Quindi fu deciso che non avesse luogo la revindica di tali
fondi e che a tenore della convenzione del 1771 Padula Moliterna restasse chiusa
e difesa in qualunque tempo a beneficio dell’ex barone. Nelle difese di Lama d’Erchia e di Castiglione dal 25 marzo al 29 settembre di ciascun anno venne concesso
ai cittadini di potersi valere dell’erba statonica. Ibidem.
281
Bollettino n. 3/1810, p. 1067. Sentenza n. 101 del 27 marzo 1810.
282
Ibidem.
212
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
nel possesso dei rispettivi fondi tutti i coloni che li avessero coltivati
«da 10 anni in qua»: laddove invece non fosse stata stabilita la colonia decennale, l’ex barone sarebbe stato libero di «sperimentare
le sue ragioni, senza intanto turbarsi i coloni dall’attual possesso.
Ed a ciascun colono sia lecito di chiudere i fondi colonici, pagando soltanto la decima de’ generi al Principe di Cursi ex barione, a
tenore della decisione della commissione feudale». Per quanto poi
concerne la Vigna, fu disposto che al barone fossero date tomola 15
di territorio adiacente alla Chiusa, da distaccarsi secondo i confini
descritti nell’apprezzo del 1605.
3.18. Palaggianello
Gli abusi del barone si facevano sentire soprattutto nei territori
più ristretti, dove le piccole municipalità erano spesso schiacciate
dal dilagante potere baronale. Nel piccolo comune di Palagianello
– la cui condizione rifletteva le questioni già affrontate in seno alla Commissione feudale con riferimento al comune di Palagiano, a
causa della collocazione limitrofa dei rispettivi territori demaniali –
era stato riconosciuto, per antica concessione, ai cittadini il «diritto
del pascolo in tutto il territorio, ad eccezione del locale chiamato la
Difesella, che facevasi credere essere una difesa baronale»283. Tali
primigenio riconoscimento era «mano mano» stato violato attraverso l’imposizione del pagamento della «fida» da parte del barone in
tutto il territorio, che veniva esatta anche quando «l’animale non
pascoli», il che lasciava intendere – scriveva l’amministrazione municipale nella richiesta di dirimere la lite rivolta alla Commissione
feudale – «che impropriamente si chiami fida, ma è bensì il testatico
sopra ciascun animale»284. Tale situazione conteneva in se – secondo
283
Bollettino n. 6/1810, p. 1043. Sentenza n. 143 del 20 giugno 1810. Tra
‘l comune di Palagianello in provincia di Otranto, patrocinato dal Sig. Giuseppe Olivieri e il Marchese di S’ Eramo, patrocinato dal cav. Vincenzo Volpicelli.
Sull’argomento cfr. V. V. DI TURI, Delle terre civiche e de demani comunali in un
piccolo comune meridionale (Vicende e Faccende), Palagianello 1998.
284
Sentenza n. 143/1810, cit. «Sulle prime tale prestazione tacevasi per alcune
specie di animali solamente, ed era meno gravosa; al presente è di carlini 10 per
ogni animale bovino e cavallino, di 6 per ogni somaro, e di grana 10 per ogni
pecora o capra».
213
STEFANO VINCI
il ricorrente – una contraddizione in termini: «Se anche per ipotesi
non ammessa fossero i territori di demanio feudale, non può negarsi
ai cittadini l’uso proprio senza alcun pagamento». Da ciò la richiesta che la Commissione riconoscesse, prima ancora di definire la
pertinenza e qualità del territorio, il diritto dei cittadini a godere del
pascolo senza nessun pagamento per gli animali di proprio uso, con
conseguente abolizione di qualunque prestazione per gli animali che
non pascolavano. A tale abuso si aggiungeva anche il fatto che «i
poveri naturali vengono astretti a pagar la fida nella maniera divisata, quando gli animali d’industria comprano i pascoli dall’istesso
ex barone, il che conferma che quella che chiamasi fida sia un vero testatico ed un’angaria»: il collegio adito – secondo le richieste
avanzate dal comune – avrebbe dovuto invece vietare all’ex barone
di esigere nessuna somma a prescindere dal numero degli animali
portato a pascere nell’erba comprata ed appadronata. Sulla prima
questione la Commissione accolse a pieno le richieste del ricorrente,
facendo divieto all’ex barone di esigere qualunque prestazione sugli
animali e riservando la decisione sulla natura dei territori nei quali
era esercitata la fida285. Nel merito, la questione relativa alla natura
demaniale dei terreni fu affrontata attraverso la disamina di due carte
fiscali del 1421 e del 1523 prodotte dall’ex barone con cui mirava
a dimostrare la disabitazione del feudo. A contrario il comune produsse alcune memorie desunte da un antico processo conservato in
Archivio risalente al 1541. Dal confronto dei documenti presentati,
la Commissione osservò che non risultava evidente la «spopolazione assoluta dell’antico casale di Palagianello». In particolare la tesi
sostenuta dal barone, secondo cui Palagianello era un casale sorto
nell’antico territorio di Palagiano era infondata, poiché gli estratti
del «processo dell’Archivio» dimostravano che
tutte le contese tra i due feudatari erano relative all’esercizio de’ diritti giurisdizionali e territoriali sulla continenza del Casale di Palagianello, e che i diritti del feudatario di Palagiano preponderando sempre
285
Stabiliva inoltre che l’ex barone poteva valersi del suo diritto di «fidare nei
demani dell’ex feudo, dedotto l’uso de’ cittadini anche per ragione di commercio fra
loro» e che si dovesse astenere «da ogni diritto di fida ne’ demani dell’università e
ne’ territori de’ particolari così chiusi come aperti anche redditizi». Ivi, p. 1048.
214
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
lasciarono agli abitanti del feudo di Palagiano, sino a che il feudalismo
non ebbe tutto invaso, la pienezza degli usi civici sul territorio intero di
Palagianello. Ciocchè fa che le disposizioni contenute nella decisione
resa per Palagiano sono comuni per le qualità del territorio di Palagianello, e che esse formano stato in materia286
Sulla base di tale assunto, in considerazione del fatto che il comune di Palagianello si trovava nella continenza del parco cosiddetto
del Casale (della estensione di carra 14) e che il nome di questo
parco, preso dalla sua località, indicava il distretto del paese dove
per legge non poteva esigersi casalinaggio e per diritto non poteva
riscuotersi nessuna prestazione sugli orti e vigne, essendo il distretto
di un paese libero ed esente da qualunque peso, la Commissione
ritenne dovesse riconoscersi il parco del Casale demanio universale
con conseguente cessazione di tutte le prestazioni a qualunque titolo esatte fino a quel momento. Tale decisione investì anche il problema relativo alla natura della difesa denominata la Conocchiella,
divisa in passato da parte dei feudatari di Palagiano e Palagianello
e quindi rientrante nel territorio di entrambi i comuni287: sul punto
furono richiamate le disposizioni contenute nella sentenza emessa
nei confronti del comune di Palagiano. Per quanto riguarda le difese
di Nuovapiantata e Conche, la Commissione riconobbe la validità di
un laudo del 1507, ricompreso tra i documenti prodotti dalle parti,
che accordava al feudatario di Palagianello la facoltà di «ergere una
difesa sulla continenza del territorio» del Comune stesso. La formazione di questa difesa precedeva pertanto l’epoca della prammatica
del 1536288, dopo la pubblicazione della quale il divieto di «parcorare» i demani divenne irrevocabile289. La stessa motivazione fu estesa
anche con riferimento alla erezione della difesa c.d «del Giardino
della Lama». Pur non essendo documentalmente provata la sua preesistenza alla citata prammatica, sostenne la Commissione che «non
si ha memoria che la sua erezione sia posteriore alla prammatica
del 1536», ragion per cui queste difese vennero dichiarata legittima286
Ivi, p. 1053.
Sostenne la Commissione che tale territorio sia stato abusivamente defensato dai feudatari a danno dei Comuni di appartenenza. Ibidem.
288
Prammatica n. 11 de baronibus del 1536 di Carlo V, cit.
289
Sentenza n. 143 del 20 giugno 1810, cit., p. 1061.
287
215
STEFANO VINCI
mente costituite in favore del feudatario. Sullo stesso ragionamento
la Commissione ritenne che anche le difese denominate Nuovo Titolato, Defensella, Cugno di S. Colomba, Terso o parco della Stalla
e Serrapizzuza fossero di innegabile «qualità feudale», ma che nessuna di esse aveva la qualificazione di difesa «legittimamente eretta
avanti la prammatica del 1536»: per questo motivo esse dovevano
essere considerate demani feudali e quindi riaperte ai pieni usi civici in favore degli abitanti, anche per ragione di commercio, fatto
salvo il diritto del feudatario di fidare «per l’oltruso dei pascoli, in
guisachè non diminuisca il franco e libero esercizio degli usi civici
di sopra dichiarati» e di «terraggiare a ragione non più forte della
decima sulle terre coltivate»290.
Nel dicembre dello stesso anno 1810 il marchese di Santeramo presentò un esposto al Re in cui faceva rilevare come nell’esecuzione
della sentenza della Commissione feudale sin qui richiamata si fossero
incontrate «delle novità, e tali contraddizioni di fatto»291 consistenti
in questo, che mentre ne’ motivi della decisione è osservato che le c.d.
difese del giardino della Lama e della nuova Piantata e Conche debbono aversi come legittimamente costituite, costando da un laudo del 1507
la facoltà data al feudatario di Palaggianello di ergere una difesa nella
continenza del territorio di quell’ex feudo, ch’ella vi fu realmente eretta
innanzi l’epoca della nota prammatica dell’Imperatore Carlo V, e che per
l’altra non vi sia memoria di esserne seguita la erezione dopo il divieto
portato da tale legge, e quindi nella dispositiva è dichiarato esser le dette
difese feudali, nulla però di meno si verifica nel fatto che il locale delle
difese, di cui intese parlare il citato laudo del 1507 sia affatto diverso da
quello in cui giacciono le difese enunciate nella decisione; conciosiachè
nel laudo si disse che fosse lecito al barone di Palaggianello di chiudere
con mura quei terreni che egli avrebbe portati ad olivi tra’ confini delle
due gravine di Castellaneta e di Palaggianello laddove le difese dichiarate
dalla commissione trovasi fuori dell’indicato territorio, e propriamente
tra la Gravina di Palaggianello e l’agro di Palaggiano292.
290
Ibidem. Il diritto di terraggio poteva essere esercitato solo sulle colture
principali dell’anno, esclusi i legumi ed in maniera che non percepisca doppia
prestazione nell’anno.
291
Supplemento Bollettino n. 18, p. 238. Il Ministro dell’Interno a Winspeare,
15 dicembre 1810.
292
Ivi, p. 239. Resoconto del commissario Acclavio al sig. Winspeare sulla
216
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
Il commissario Acclavio stimò privo di fondamento il ricorso presentato dal marchese di Santeramo in quanto se dal laudo del 1507
risultava che il barone di Palaggiano accordò a quello di Palaggianello la facoltà di chiudere il territorio giacente tra le due gravine,
dove fossero piantati gli alberi ed esistenti le mura ne conseguiva
che le difese dichiarate dalla Commissione feudale dovevano trovarsi in questo sito293. Inoltre nel laudo non è detto che tutto il territorio
rimanesse esente dalla servitù della fida, ma soltanto quello arbustato e chiuso da pareti: «Or qual è la prova, che tutto allora fu ridotto
ad arbusti?». Al contrario si rileva da una transazione stipulata nel
1568 tra i due baroni che le piantagioni e le chiusure insistevano
nei locali detti Giardino e Piantata – che sono senza dubbio le difese avute presenti dalla Commissione – e con questo strumento fu
proibito al barone di Palaggianello di estendere tali piantagioni. Il
Winspeare – nel suo rapporto di riscontro al Ministro – sottolineò
come «le doglianze del marchese di Santeramo sono insussistenti
come potrà rilevare dalla copia del rapporto del commissario del Re
Acclavio alle di cui osservazioni sono uniformi le mie»294.
3.19. Racale
La lite tra il comune di Racale ed il suo feudatario aveva ad oggetto le questioni delle decime e dei censi, delle muraglie e fossate del
paese e la revindica del demanio. Il feudatario, al fine di dimostrare
il legittimo possesso delle decime, produsse il relevio del 1526 da cui
risultava che tra le rendite feudali del comune vi erano le decime del
grano, orzo, fave, aveva, lino, vino mosto ed ulivi. Su tale elemento, la Commissione osservò che le censuazioni del demanio feudale
avevano appesantito, a danno dei reddenti, la sola prestazione della
decima cui dovevano essere ragionevolmente soggetti e che «non era
in potere del feudatario assoggettare a pesi più forti i diritti originari
richiesta di parere in ordine all’esposto inoltrato dal marchese di Santeramo, 22
febbraio 1811.
293
Scrive Acclavio: «se non che poste nella parte inferiore, dove sono i valloni
si abbassano, lasciano fuori del loro perimetro la parte superiore del territorio,
anche sita nelle Gravine». Ivi, p. 240.
294
Ivi, p. 241.
217
STEFANO VINCI
di coltura appartenenti agli abitatori del feudo»295. Da tale assunto
derivava la convinzione che fosse giusto sopprimere i censi aggiunti
alle decime stipulate nei contratti e di ridurre le decime stesse ai generi indicati nel relevio del 1526. Pertanto, in considerazione del fatto
che il comune non aveva documentato l’esistenza di alcun demanio
comunale, la Commissione, in esecuzione del Real Decreto del 16
ottobre 1806 dichiarò legittime nel territorio di Racale in favore del
feudatario le sole decime di grano, orzo fave, avena, lino, vino mosto
ed ulivi, escluso il cotone e qualunque altra produzione (con conseguente abolizione dei censi ivi costituiti), ordinando che sulle terre
decimabili non fosse esatta che una sola prestazione all’anno a scelta
del feudatario. Per quanto invece concerne le muraglie ed i fossati del
paese, ritenne la Commissione che questi fossero per legge reputati
luoghi pubblici. Assolse infine il feudatario dalla revindica del demanio domandata e riconobbe competere al comune sul territorio feudale i pieni usi civici anche per ragione di commercio fra gli abitanti.
3.20. San Marzano
È di particolare interesse, per le questioni affrontate, la disamina del carteggio che fu oggetto del giudizio instaurato dinanzi alla
Commissione feudale da parte della piccola università di San Marzano, che nella sua domanda presentò un forbito elenco di prestazioni,
angarie e per angarie che dovevano «per necessità» essere cancellate. Prima della lista era la richiesta di abolizione del diritto proibitivo
di palmenti, trappeti, forno, molini e bottega lorda, come corpi non
conceduti al barone nella originaria concessione del feudo e restrittivi di libertà, anzi proibiti espressamente dalle leggi del regno e dalla
Prammatica 42 de feudis. A tanto si aggiungeva anche la richiesta di
abolizione della «prepotente» pretesa «senza alcun titolo» da parte
della ex-baronessa nei confronti dei cittadini di San Marzano di una
«strena» in occasione della «festività di Nostro Signore» consistente
in 30 galline o capponi; della esazione del camerlengo per la guardia
notturna, «quando questo diritto è di mera ispezione della comparente e da risolversi nei parlamenti, sebbene oggi colle provvide leggi
295
Bollettino n. 7/1810, p. 419. Sentenza n. 51 del 11 luglio 1810. Tra ‘l comune di Racale in provincia di Lecce e ‘l suo ex feudatario.
218
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
dell’attual governo questo diritto da se se l’è tolto mercé l’abolita
feudalità ma si è creduto esporlo per far conoscere le oppressioni alle
quali la comparente è soggettata»296. Ancor più grave era l’esercizio
del diritto di surrogare uno degli eletti amministratori in luogo del
sindaco, e questo in luogo dell’eletto. Erano altresì pretese angarie
e perangarie, in virtù delle quali i cittadini erano obbligati forzosamente a «travagliare» sui territori feudali e burgensatici colla paga di
grana 15 al giorno, salvo il caso in cui questi avessero locato la loro
opera ad altri a maggior mercede297. L’ex baronessa esigeva altresì
dal comune 5 ducati l’anno «sotto il titolo di carceri civili»:
Quanta angusta sia questa esazione, eccone la ragione: se le carceri
sono del barone, le leggi del regno proibiscono esigere un obolo, per
cui dee abolirsi; se poi fossero della comparente, come sono, vieppiù
ingiusta si rende detta esazione, per cui tutto effetto di prepotenza, cui è
dovuto finora la comparente soggiacere298.
A titolo di vassallaggio l’ex feudatario continuava a pretendere
il pagamento di grana 72 «da ciascun cittadino che fuma, il che fa
orrore a sentirsi, mentre il solo fisco è quello che può tale diritto
esercitare». Così come faceva «orrore il sentirsi voler forzosa da ogni
cittadino una vettura di giumenti o bovi, volgarmente detto parecchio
sotto il titolo di ricolta senza mercede»: tale prestazione richiesta era
una mera perangaria e pertanto meritava di essere cancellata. Della
stessa natura era l’obbligo per i cittadini a «far forzosamente l’erariato senza nemmeno pagarglisi il salario di annui ducati 72, qual
diritto in oggi per la tolta feudalità non sarebbe più da menzionarsi».
L’ex baronessa vantava inoltre la preferenza nella «compra dei commestibili ed altri generi, come nella vendita de’ propri di ogni sorte»,
proibita espressamente dalla prammatica I de baronibus299. Di fronte
296
Bollettino n. 7/1810, p. 454. Sentenza n. 62 del 13 luglio 1810. Tra ‘l comune di San Marzano in provincia di Otranto e ‘l suo ex barone.
297
Sosteneva il ricorrente che non vi era dubbio che l’opera prestata meritava
il doppio. Ibidem.
298
Ivi, p. 460.
299
La prammatica I de baronibus di Ferdinando I del del 23 luglio 1466 sanciva la libera facoltà per «ognuno» di vendere vettovaglie, animali, ed altri «generi
leciti», con espresso divieto rivolto ai padroni del feudo di proibire o impedire la
vendita o imporre una tassazione sul prezzo. DE SARIIS, op. cit., lib. VI, p. 3.
219
STEFANO VINCI
a tale sconcertante elenco, ed in virtù della presa d’atto di una grave
situazione da risolvere, la Commissione feudale pose mano ad un
forte intervento che avrebbe dovuto chiarire ogni incertezza senza lasciar spazio ad equivoci di sorta. Infatti nell’incipit della sentenza si
legge «sono abolite dalle leggi eversive della feudalità le prestazioni
ed i c.d. diritti dedotti ne’ divisati capi». Seguiva la risoluzione della
questione preliminare relativa alla individuazione dei fondi di natura
feudale, da sciogliersi attraverso la disamina della documentazione
prodotta. In particolare, dall’apprezzo del feudo del 8 luglio 1633
redatto dal tavolario Scipione paterno, la Commissione riconobbe la
piena pertinenza ex feudale dell’ex barone dei seguenti corpi, di cui
continuava a mantenere il possesso: il giardino baronale di tomola 3
½, il giardino della giusta di tomola 2 in circa, la vigna di tomola 9 di
territorio e gli oliveti detti le Sierre, delle giumente, delle Sieschie e
Forgole. Furono invece dichiarati demani feudali ‘aperti’, con il conseguente riconoscimento dei «pieni e comodi diritti civici anco per
causa di commercio fra i cittadini»: la massaria detta di Casarossa
di tomola 110 circa confinante col feudo di Sava e Fragagnano ed il
Serro baronale, la masseria detta la pezza gagliarda di tomola 55 confinante col feudo di Fragagnano, con Angelo Papiri e col collegio de’
Gesuiti di Lecce e la vigna di San Marzano. Rimasero di piena proprietà burgensatica dell’ex feudatario: il territorio di tomola 30 che
fu di Carlo Cuomo, confinante con la masseria feudale di Casarossa,
col feudo di Sava e quello di Fragagnano; tomola 55 corrispondenti alla metà del territorio detto di Pezza gagliarda (l’altra metà era
infatti stata dichiarata demanio feudale aperto); tomola 7 di vigna
vicina allo stesso luogo300. Con riferimento a tali fondi, riconosciuti
burgensatici, la Commissione stabilì l’obbligo per l’ex feudatario di
corrispondere al comune di San Marzano la bonatenenza da liquidarsi dal giorno dell’ultimo general catasto dal razionale Caropreso. Per
quanto riguarda il pagamento della decima, i giudici presero in esame «l’informazione dell’entrade feudali del casale di San Marzano,
di Schiavoni ed Albanesi, presa nel 1546, ove si porta la decima di
300
Venivano ancora dichiarati di piena proprietà burgensatica dell’ex feudatario «tutti gli acquisti di fondi che trovan fatti a titolo burgensatico con pubblici
strumenti posteriormente al divisato apprezzo del 1633 si da esso ex feudatario,
che da altri onde esso ha causa». Ivi, p. 462.
220
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
quanto si semina e raccoglie, videlicet di grano, orzo, fave, avena, ed
ogni altra cosa». Sulla base di tale riscontro fu ritenuto che sui fondi
posseduti dai particolari nell’agro di San Marzano, questi dovessero
versare all’ex feudatario soltanto la decima del grano, orzo, fave ed
avena, escluso ogni altro genere, in modo che, per ciascun anno rurale, sullo stesso fondo fosse esatto soltanto uno dei predetti generi301.
Ogni altro censo, canone o prestazione di qualsivoglia natura pretesa
sulle case site nell’agro di San Marzano fu dichiarato abolito.
3.21. San Pancrazio
La ragione di doglianza dei comuni di San Pangrazio e di Santa
Susanna ebbe come oggetto il pagamento delle decime di vettovaglie imposte ai laici dalla mensa arcivescovile di Brindisi. La mensa
arcivescovile presentò in giudizio, a suo discarico, la carta di conferma delle grazie risalente al 1221 da cui si evinceva però che le
servitù delle decime di vettovaglie imposta ai laici di San Pangrazio
avevano tutti i caratteri di decime sacramentali, non esigendosi la
stessa per nessuna concessione speciale di terre302. La natura sacramentale emergeva altresì dall’inventario eseguito nel 1260 per
ordine di Manfredi, in cui si legge: «In praedicto casali San Pancratii sunt quidam habitatoris, et in casali praedicto S. Donachii sunt
quidam qui laborant in terris ipsius casalis, et serviunt eidem ecclesiae decimam victualium». Tanto a significare – si legge in sentenza
– «che gli abitanti coltivavano le terre proprie del casale e servivano le decime alla chiesa». Posta tale premessa, la Commissione
osservò che le decime sacramentali erano state abolite da per tutto
ovunque esse si trovavano costituite e che quindi dovevano essere
dichiarate estinte303. Furono dichiarate salve, a favore della mensa,
301
Furono riconosciuti dovuti all’ex feudatario da parte dei possessori dei
fondi soltanto quei censi fondiari risultanti «dagl’istrumenti di primitiva e non
ricognitiva concessione fatta dall’ex feudatario, o da quei onde esso ex feudatario
ha causa a’ divisati possessori, od a quei onde costoro hanno causa». Non erano
pertanto dovute le decime sui fondi soggetti a censi e non dovuti i censi sui fondi
soggetti a decime. Ibidem.
302
Bollettino n. 7/1810, p. 703. Sentenza n. 94 del 20 luglio 1810. Tra ‘l comune di San Pancrazio e S. Susanna e la mensa arcivescovile di Brindisi.
303
La decisione veniva estesa «per la totalità dei suoi effetti» anche al comune
221
STEFANO VINCI
tutte le terre non occupate dai particolari sulle quali però, come demani feudali ecclesiastici, compete agli abitanti di Pancrazio e di
San Donaci l’esercizio dei pieni usi civici. E dichiarati estinti tutti
i diritti giurisdizionali e di fida sui territori appadronati. A seguito
dell’esecuzione di tale giudicato da parte del commissario ripartitore Domenico Acclavio – il quale procedette alla verificazione della
qualità ed estensione delle terre possedute dalla mensa per quindi
valutarne gli usi civici in linea con la divisione di demanio – in data
14 febbraio del 1811 pervenne presso l’Intendenza di Lecce una rimostranza da parte dell’arcivescovo di Brindisi, il quale «dolendosi
che la rendita della sua chiesa dalla somma di annui ducati 3600,
quando trovatasi affittata, siasi per effetto del giudicato della Commissione ridotta a soli ducati 360, domanda che la congrua dote
della medesima gli si continui la prestazione delle decime in qualità
di sacramentali, secondochè la commissione le ha dichiarate»304. A
sostegno della sua domanda l’arcivescovo invocò l’applicazione di
un real decreto del 22 dicembre 1810, in virtù del quale le decime
sagramentali avrebbero dovuto continuare ad aver corso come in
precedenza, sino a che S.M. non avesse provveduto alle rendite necessarie per le Chiese e per le persone «consegrate al culto». L’Acclavio ritenne infondata la rimostranza dell’arcivescovo perché come esecutore del giudicato, ai sensi dei Real Decreti del 3 luglio e
20 agosto 1810, avrebbe dovuto necessariamente ordinare la cessazione del pagamento delle decime che la Commissione feudale
non aveva riconosciuto legittime in favore della Mensa. L’Acclavio
respinse altresì anche la domanda tesa ad affermare il preteso diritto
vantato dall’arcivescovo di ritenere le decime come prelato a causa
della povertà in cui era caduta la sua chiesa – non potendo esigere
come ex barone il pagamento delle decime – in virtù del fatto che
non era lui competente a decidere in merito a tale questione «per
non aver nulla di comune con la mia commissione»305. Il ministro
di San Donaci, in favore del quale le stesse decime dovevano considerarsi abolite.
Ibidem.
304
Supplemento Bollettino n. 35 (appendice nn. 20 e 21), p. 109. Rapporto
del Commissario al Ministro, Taranto, 10 marzo 1811. Tale rimostranza venne comunicata dall’Intendente di Terra d’Otranto al commissario Acclavio. Ivi, p. 113.
Rimostranza dell’arcivescovo di Brindisi del 14 febbraio 1811.
305
Ivi, p. 112.
222
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
dell’Interno confermò le disposizioni date dall’Acclavio, ritenendo
«mal fondati» i reclami dell’arcivescovo306.
3.22. San Vito
Nella causa tra il comune di San Vito e il principe Gerardo Dentice di Frasso, suo ex barone, la decisione sulla sussistenza degli
usi civici di pascere e di acquare era connessa alla definizione della natura feudale e redditizia dell’intero territorio. Le ragioni poste
a fondamento della domanda del barone erano costituite dal dato
fattuale secondo cui il territorio fosse disabitato prima dell’infeudazione: ciò si sarebbe dovuto evincere da alcune carte angioine
pervenute dall’Archivio della Regia Zecca del 1277, 1278, 1306,
1340 e 1415. In particolare siccome in un mandato di assicurazione e nella distribuzione della nuova moneta ordinata dal Re Carlo I
d’Angiò non risultava essere menzionata la terra di San Vito: ritenne
la Commissione che da tali documenti emergevano soltanto «pruove
negative», dalle quali non emergeva la disabitazione del feudo. Ulteriore documentazione fornita dal barone, da cui si sarebbe dovuta
riscontrare la natura servile e redditizia del territorio di S. Vito, era
costituita da due antichi inventari, uno del 1440 ordinato dalla regina Maria, contessa di Lecce, e l’altro del 1489 ordinato dal principe
Federico secondogenito di Ferdinando I. Il primo documento – secondo i commissari esaminatori – non poteva considerarsi un vero
e proprio inventario, poiché conteneva un ristretto notamento delle
rendite di San Vito e Carovigno. Da esso si evinceva però che i due
territori fossero decimabili (foll. 891 – 922 vol. 2). Il secondo inventario invece, «formato con tutta distinzione e solennità», rivelava le
decime e le altre prestazioni prediali e personali esistenti sull’intero
territorio. Al contrario i documenti forniti dall’università per dimostrare la sua natura demaniale furono ritenuti «deboli e claudicanti»
in quanto da essi non si evinceva nessuna prova di dominio ed antico
possesso. La Commissione quindi riconobbe all’ex barone il diritto
di esigere la decima sulle vettovaglie, sul vino e sulle olive, con
eccezione della decima sul prezzo degli erbaggi, sul ciavarro e sulla
munta dei latticini, stabilendo il divieto di deviazione delle acque
306
Ivi, p. 120. Il ministro dell’Interno al sig. Acclavio.
223
STEFANO VINCI
delle pubbliche fogge pur potendo servirsi del suo diritto sulla foggia
di sua proprietà307.
3.23. Sava
Il comune di Sava lamentò dinanzi alla Commissione feudale numerosi abusi ancora esercitati dal suo ex barone sig. Giuseppe de
Sinno: chiedeva infatti che fosse dichiarata l’abolizione della decima
di prezzo; della decima dei frutti e di tutte le vettovaglie per mancanza di titolo; del diritto angarico di pascere e legnare nei territori
appadronati; della mungitura transatta per carlini 6 per ogni cento
pecore o capre; della fida di carlini 2 a bove; del vassallaggio di carlini 2 a famiglia308. Per dirimere la questione, la Commissione prese
in esame «l’assento interposto alla vendita di Sava, Agliano e Pasano
del 1454, ov’è parlato di decima di vettovaglie e vino mosto»; il relevio del 1550 in cui risultavano «notati» esclusivamente i generi del
grano, orzo e fave. Dall’esame di tali documenti rilevò che gli unici
generi decimabili a Sava Agliano e Pasano fossero soltanto il grano,
l’orzo, le fave e il vino mosto e quindi solo su tali generi sarebbe
stata consentita l’esazione della decima da parte dell’ex feudatario.
Considerò poi che all’ex feudatario de Sinno non potesse competere
alcun diritto di pascolare o di legnare nei territori tanto aperti che
chiusi dei particolari dopo la pubblicazione delle leggi eversive della
feudalità, così come gli era vietata la decima del prezzo, la mungitura, la fida e il vassallaggio espressamente aboliti dal Real Decreto
16 ottobre 1809309. Inoltre la Commissione – sulla base del fatto che
307
Bollettino n. 5/1809, p. 190. Sentenza n. 24 del 26 maggio 1809. Sull’argomento cfr. A. CHIONNA, Le controversie tra l’università di San Vito dei Normanni
e l’ex feudatario, in «L’Idomeneo» n. 8/2006, pp. 277-290.
308
Bollettino n. 8/1810, p. 413. Sentenza n. 65 del 16 agosto 1810. Tra ‘l comune
di Sava e suoi aggregati di Agliano e Pasano e l’ex barone sig. Giuseppe Sinno. Nella
lite intervenne anche la sig.ra Marianna lo Monaco che prendeva dall’ex feudatario
sig. de Sinno la restituzione di ducati 369 esatti per decima di prezzo oltre alle spese
della lite; e dal duca Majo la restituzione di ducati 335 di deposito liberato per lo
stesso oggetto. La Commissione ritenne che avendo la sig.ra lo Monaco ritenuto sul
prezzo di ducati 14.000 la somma di ducati 1500 per cauzione della decima del prezzo – somma che avrebbe dovuto pagare a Giuseppe de Sinno – non si poteva ritenere
nessun danno per fatto del venditore per cui la sua azione non poteva aver luogo.
309
Decreto 16 ottobre 1809, cit., art. 3: «Resta vietato insieme colla decima
224
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
l’art. 6 dello stesso Real Decreto non riconosceva nella provincia di
Lecce che i soli censi costituiti con pubblici strumenti310 – ritenne
legittimi i soli censi costituiti con pubblici strumenti di concessioni,
purché non fossero esatte decime e canoni allo stesso tempo, altrimenti sarebbe stato conservato un solo peso a scelta del feudatario311.
3.24. Torricella
La domanda avanzata dal comune di Torricella era diretta al riconoscimento del diritto, vantato nei confronti del duca di Canosa,
di essere mantenuta nel possesso di legnare e pascere negli ex feudi
denominati Montemoresco, Pescorutico e S. Giusta a titolo di antico
affitto per l’annua prestazione di ducati 200: copiosa fu la documentazione prodotta dinanzi alla Commissione che si trovò a valutare
una questione assai controversia in virtù del fatto che preesisteva tra
le parti una convenzione risalente al 1698, secondo cui l’università
veniva mantenuta nell’esercizio di detti usi a titolo di fida per la stessa prestazione annua. Con decreto del S.C. del 1704 fu ordinato però
che non si tenesse più conto di detta convenzione e che al barone
fosse riconosciuto il diritto di esigere dall’università ducati 200 per
i suddetti usi. Ancora l’università produsse un documento successivo al 1704 con cui rinunciava all’antico affitto, cui fece seguito il
decreto del S.C. col quale fu ordinato di non molestarsi l’università
per la denotata prestazione. La Commissione decise di assolvere il
duca di Canosa dalla domanda dell’università e cittadini di Torricella di esercitare gli usi civici nell’ex feudo di Montemoresco, “o
dell’erba ogni diritto di fida, ogni esazione di erbatica, carnatica, giornate di latte,
e di ogni prestazione sugli animali e su’ loro prodotti, sotto qualunque titolo esse
siesi finora esatte». Art. 5: «Resta vietata l’esazione delle decime e di ogni rata di
prezzo nell’alienazione di tutti i fondi anche decimati. Le contrattazioni saranno
da oggi innanzi libere da ogni diritto, qualunque sia il titolo sotto il quale sia stato
esatto o anche convenuto».
310
Ivi, art. 6: «Restano abolite tutte le esazioni finora fatte sotto il nome di stagli, di affida di ragioni. Resta anche abolita ogni esazione di censi, così in generi
come in danaro, che non nasca da concessioni contenute in pubblici strumenti, o
che non sia autorizzata da un giudicato della commissione feudale».
311
Sul punto la Commissione feudale stabilì che per le decime e per i censi
dovessero eseguirsi in favore dei reddenti le leggi della commutazione e del riscatto. Ivi, p. 416.
225
STEFANO VINCI
pur di legnare e pascerci a titolo di pretesa fida”. Venne riconosciuto
all’università il diritto di esercitare i pieni usi civici negli ex feudi
di S. Giusta e Pescorutico, mentre la fida degli animali dei forestieri
si sarebbe dovuta dividere fra l’università e il barone312. Ad adire la
Commissione feudale vi erano stati anche privati cittadini: il sig.
Pietro Mezio lamentava che la duchessa di S. Pietro in Galatina si
astenesse dal chiedere l’erbatica e la carnatica per l’erba, che gli animali dei fratelli Giuseppe e Francesco Mezio pascolavano nei propri
fondi, «contro di ogni ragione civile e naturale». La Commissione
provvide enunciando un principio di carattere generale: dichiarò che
tutti i fondi posseduti dai particolari nel territorio del menzionato ex
feudo di Galatina, benché decimabili, dovessero essere esenti dalla prestazione dell’erbatica e della carnatica e che fosse consentito
all’ex feudataria esigerla solamente dalle greggi che pascolavano nei
fondi di suo pieno dominio e nei demani feudali addetti a pascolo
dai forestieri, salvo l’uso civico in beneficio dei cittadini anche per
causa di commercio tra loro313.
4. Conclusioni
Dal quadro fin qui delineato emerge con chiarezza quanto la feudalità fosse ben radicata nei comuni della Terra d’Otranto e quanto
fosse difficile eliminare in via giudiziaria gli abusi e le usurpazioni
da parte degli ex baroni che continuavano a pretendere dalle popolazioni quei diritti ormai a loro non più riconosciuti. Nonostante le
numerose sentenze emanate dalla Commissione feudale – quantomeno con riferimento a quelle liti che i Comuni ebbero il coraggio di
sollevare – la posa in opera delle decisioni di questo Tribunale non
312
Bollettino n. 12/1808, p. 92. Sentenza n. 14 del 15 dicembre 1808. Sugli
altri capi di gravezze la sentenza stabilì che i coloni di Torricella fossero mantenuti nel possesso in cui si trovavano dei fondi colonici, e che fossero reintegrati
nel possesso tutti coloro che avessero provato di essere stati espulsi senza giusta
causa, salvo il pagamento all’ex barone le prestazioni medesime che avevano fin
ad ora corrisposto a tenore del solito. Il barone doveva altresì astenersi di esigere la
fioda per gli animali dei coloni, che s’intromettevano nel fondo di Montemoresco
per il trasporto dei generi nel tempo della semina e della raccolta.
313
Bollettino n. 1/1809, p. 67. Sentenza n. 6 del 11 febbraio 1809.
226
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
fu certamente automatica, come si è evinto dalle difficoltà incontrate
dal Commissario ripartitore per la Terra d’Otranto, Domenico Acclavio, a cui si deve il merito di aver cercato di rimuovere con mano
ferma i molti ostacoli che si frapponevano a livello locale all’attuazione dell’eversione della feudalità.
A testimonianza della difficile realtà feudale incontrata in questa
provincia, lo stesso Acclavio redasse una analitica relazione inviata
il 22 ottobre del 1809 al ministro della Giustizia Giuseppe Zurlo,
in cui raccolse le osservazioni maturate durante la sua attività nella
Provincia314. Si legge nell’incipit della Nota dei feudi decimali della
provincia di Lecce:
La provincia di Lecce consiste di 178 Terre abitate che racchiudono una popolazione di circa 300 mila abitanti. Varie cause sono finora
concorse al suo depauperimento, e la principale senza dubbio l’esosa
feudalità del territorio e la viziosa ripartizione delle contribuzioni fiscali per ragioni di fuochi, il che faceva si che non soggiacendo le vendite feudali al peso del Catasto il carico focolare si rovesciasse sopra i
bracciali. Dietro l’emanazione della legge abolitiva della feudalità e del
vecchio sistema daziario coteste cause sono totalmente sparite ed ora
la tanto sospirata pace venisse a coronare i generosi sforzi del governo, la Provincia discaricandosi del suo superfluo, specialmente in olio,
potrebbe in pochi anni elevarsi a quel grado di prosperità che è propria
della ricchezza dei suoi prodotti delle opportunità della sua situazione e
della industria dei suoi abitanti315.
Alla descrizione delle decime feudali della Terra d’Otranto – che
ripercorreva i dati raccolti nella relazione scritta dallo stesso Acclavio nel 1801, epoca in cui era stato incaricato della visita economica della Provincia – seguiva il giudizio sull’attuazione della legge
eversiva della feudalità a seguito della istituzione della Commissione feudale, di cui la provincia di Lecce non risultava aver «gran fatto
profittato di questo beneficio, poiché sino al presente ben poche so-
314
D. ACCLAVIO, Nota dei feudi decimali della provincia di Lecce, 22 ottobre
1809 in Biblioteca Nazionale di Napoli, sez. MSS, X-AA 30, fol. 12. Il documento
si trova pubblicato in P. COCO, Le decime già feudali in Terra d’Otranto 1809, in
«Rivista storica salentina», a. X (1915), pp. 24-33.
315
Ibidem.
227
STEFANO VINCI
no le cause decise relativamente a prestazioni decimali»316. Osservava
Acclavio che la legge feudale e la legge fondiaria avevano comportato un grave avvilimento nel prezzo dei generi determinato dalla
mancanza del commercio, con la conseguenza dell’abbandono totale
dell’agricoltura.
Tale triste resoconto dava atto di una grave situazione di fatto –
ben evidenziata da Tommaso Pedio – in cui versava la Provincia, che
nonostante le leggi eversive non aveva granché beneficiato degli effetti della liberalizzazione dei beni fondiari soprattutto a causa della
opposizioni dei grandi proprietari, spesso ex nobili, i quali avevano
avversato con ogni mezzo la quotizzazione dei demani317. Ed anche
dove la quotizzazione si era verificata, essa era andata a favorire i
cittadini più facoltosi, spesso per esplicita rinuncia degli stessi contadini che – ove assegnatari di un appezzamento di terreno – non
avrebbe avuto mezzi per vivere sino a quando la quota toccatagli in
sorte non avesse dato il primo frutto, anche in considerazione del
fatto che essi avrebbero dovuto corrispondere un canone enfiteutico
e provvedere al pagamento della fondiaria.
Non si era quindi verificata l’auspicata moltiplicazione della proprietà terriera e i contadini – ora privati anche degli usi civici, che
spesso costituivano un importante mezzo di sostentamento – si trovavano ulteriormente gravati dalla forte crisi economica determinata dal blocco continentale e dalla crisi del commercio dell’olio che
aveva reso ancora più asfittico il mercato della Terra d’Otranto. Tali
elementi sfavorevoli impedirono di fatto l’espansione delle attività
di quei ceti e di quelle forze che erano apparse in dinamica ascesa
nella seconda metà del Settecento, che avrebbero potuto avere interesse a trasformazioni e miglioramenti agrari e che avrebbero potuto
costituire i nuclei di una vera «borghesia» imprenditrice.
Dati obiettivi che evidenziano le ragioni dell’irrigidimento della
questione relativa al monopolio della terra che costituirà la radice del
malcontento della popolazione contadina fino al Novecento. Scrive
Piero Bevilacqua: «La quotizzazione delle terre, che non trasformò
in modo profondo e non diede un vasto impulso capitalistico alle
316
Ibidem.
T. PEDIO, Le Province Pugliesi alla fine del XVIII secolo nelle relazioni del
Galanti, Soveria Mannelli.
317
228
I comuni e l’eversione della feudalità. La quotizzazione dei demani nel regno di Napoli...
campagne del Sud, lasciò però insoluta la questione demaniale: una
vera e propria guerra sociale e giudiziaria che dissipò inutilmente
grandi energie nella lotta per il monopolio della terra da parte degli
agrari, e per il possesso di una quota, più o meno grande, da parte dei
contadini»318. Infatti, le origini storiche della borghesia meridionale,
l’essere nata e cresciuta all’ombra del feudo, l’aver avuto in retaggio
senza lotte drammatiche l’eredità feudale, ne limitarono lo slancio,
non le consentirono di diventare una classe pienamente egemone che
sapesse offrire ed anche imporre prospettive di rapido e sicuro sviluppo. Il brigantaggio del Decennio francese, le agitazioni contadine
del 1820-21, le occupazioni di terra e i larghi movimenti rurali del
1848 ricordavano e sottolineavano la precarietà di una situazione,
l’instabilità di un equilibrio minacciato ad ogni crisi. Il brigantaggio
post-unitario fu l’esito finale di questo corso storico. Non a caso la
repressione si accompagnò ai primi effetti di una più rapida espansione capitalistica nelle campagne, in conseguenza di quella complessa serie di fatti che Villani esprime nella formula di «formazione
del mercato unico nazionale»319. Se non cessarono occupazioni di
terre e rivendicazioni di demani, il brigantaggio cessò per sempre, e
il mercato nazionale ed internazionale del lavoro aprì la non meno
penosa, ma almeno meno violenta, via dell’emigrazione.
318
319
P. BEVILACQUA, Storia della questione meridionale, Roma 1974, p. 7.
VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, cit., p. 142.
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Testa di Medusa - Vinci - Società Italiana di Storia del Diritto