Vincenzo Orsomarso
Educazione e trasformazione in Antonio Labriola1
Il motivo da cui è indispensabile prendere le mosse, per comprendere la direzione pedagogica e
didattica dell’impegno e dell’opera di Labriola, è quel «suggerire più che dire», è quell’«aver
suscitato idee piuttosto che sistemato dottrine», l’«aver insegnato a pensare piuttosto che [...]
inculcato pensieri»2. Un'idea di insegnamento che trae esempio dal Socrate che pone allo stesso
Labriola, nel corso dell'elaborazione del saggio del 1871, una considerevole quantità di problemi di
ordine storico-metodologico e con cui continua a misurarsi, soprattutto nei Saggi, dove la
riflessione, tra l'altro, si svolge intorno ai termini e alle procedure dell’ «intendere integralmente la
storia».
È Socrate, che fa della rilevazione dell'«aporia» il motivo di ulteriore ricerca3, a suggerire al
Labriola di affidare agli intellettuali la funzione di sollecitatori e critici sul piano teorico, rigorosi
censori morali sul piano pratico.
In più del Socrate il Labriola ha «il senso quasi religioso di una missione educatrice»4, maturata
fin da giovane nella lunga frequentazione di Bertrando e Silvio Spaventa. Per quest’ultimo,
soprattutto, si trattava di strappare gli strati inferiori all’analfabetismo quasi universale.
Educazione e modernizzazione liberale
Ma la questione di maggior rilievo era quella di creare una nuova classe dirigente, su questo
insiste Labriola fin dai primi anni’70 quando chiede una «cultura più moderna e più pratica»,una
riforma, in primo luogo, dell’istruzione superiore e solo successivamente bisognava occuparsi
dell’istruzione elementare5. Sebbene poi alla «borghesia colta» vada affidando «l’educazione degli
operai»6 per fronteggiare l'Internazionale e per favorire quel cambiamento organizzativo ed
economico che avrebbe dovuto garantire, sul terreno della produttività economica, «il minimo vitale
necessario» per tutti.
Ed a proposito dell’Internazionale Labriola, nei primi anni Settanta, è convinto del fatto «che fra
noi», in Italia, non se ne «abbia [...] da combattere l'influenza», né ci si trova «innanzi ad operai
pervertiti da massime sovversive e che abbiano dato prova di sé in una brutale rivolta»7, anzi
l'abitudine di scegliere uomini politici e non veri lavoratori a rappresentanti delle società operaie
produce l'effetto pessimo d’introdurre negli organismi operai «molti [...] i quali possono volgere
l'ufficio loro a tutt'altro fine». È necessario quindi per il Labriola «lasciar loro il più che si possa
tutta la responsabilità delle lor sorti; nel conferire alle loro associazioni tutti i diritti necessari a
difendere le medesime e gli interessi degli associati; nel rendere, per questa via, le più uguali che sia
possibile le condizioni di chi chiede il prodotto, con quelle di chi offre il lavoro, liberando così
quest'ultimo dai pericoli terribili [...] de' rinvilimenti troppo grandi del prezzo della mano d'opera
sui mercati»8.
1
In N. Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e la sua Università. Mostra documentaria per i settecento anni della
“Sapienza” (1384 – 2004) a cento anni dalla morte di Labriola (1984-2004), Roma, Aracne, 2005, pp. 271-289. Il testo
ha subito alcune modifiche per dare organicità e coerenza al materiale presentato.
2
N. Siciliani de Cumis, Introduzione, in Id., Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, Torino, Utet, 1981, p.
71.
3
Cfr. A. Labriola, Il Socrate e altri scritti, in ivi, p. 110.
4
Ivi, p. 77.
5
A. Labriola, Scritti pedagogici, cit., pp. 155-156.
6
Ivi, pp. 157-158
7
A. Labriola, L'educazione degli operai, in Id., , Scritti pedagogici, cit., p. 157.
8
A. Labriola, Il congresso operaio in Roma, in Id., Scritti liberali, a cura di N. Siciliani de Cumis, Bari, De Donato,
Labriola, tra l'altro, sembra preoccuparsi dell'influenza negativa che sulle società operaie poteva
esercitare quella stessa «jeunesse bourgeoise déclassée», di cui Bakunin nel 1872 si era compiaciuto
come della migliore garanzia per la rivoluzione italiana9.
Ma il «cattivo giudizio» che il Labriola ha dell'Internazionale non deriva solo dalla critica pratica
e teorica che l’Associazione Internazionale dei Lavoratori muove all’apparato statale e
all’organizzazione sociale vigente, ma anche dall’incapacità dell’Associazione di conseguire quei
fini medesimi che essa proclama. Scrive nel 1871:
L'internazionale si propone di migliorare la condizione economica dell’operaio. Ma questo fine ch’essa non ha mai
cessato di predicare ad alta voce in tutte le sue adunanze [...] non l'ha conseguito sinora: né pare che stesse sulla via di
conseguirlo mai. La sua costituzione e i mezzi ch’essi maggiormente predilige, ve la rendono disadatta e priva di ogni
utile effetto. Perché come si può fare la condizione dell'operaio più grata, stringendo in un vincolo comune artigiani di
nazioni, di costumi, di cultura diversi? gli operai della città e delle campagne? le donne e gli uomini? [...]. La larghezza
sterminata dell'associazione, che pare la sua potenza, è in fondo la sua debolezza, il suo difetto; giacché le crea un
ostacolo a promuovere un vero e costante miglioramento economico nella classe operaia10.
Eppure è vero, però, che l'Internazionale ha dimostrato di essere in grado di ottenere
miglioramenti salariali e questo grazie al riconosciuto ed esteso radicamento operaio, ma il limite
dell'Associazione è quello di non aver mai favorito la creazione di «quelle istituzioni le quali di
grado in grado guidano gli operai in una più larga sfera d’operosità industriale».
L’emancipazione politica poi è l’altra meta a cui tende l’Internazionale, l’organizzazione del
proletariato in partito politico dovrebbe «assicurare il trionfo della rivoluzione sociale, e farla
giungere al suo fine supremo, l'abolizione delle classi»; ma trasformare tutta quanta la base sulla
quale poggia l'edificio sociale è per il Labriola moderato una risoluzione cosi stravagante che non
può che essere il prodotto di «menti nude di ogni sana cultura».
Gli operai - scrive su «L'Unità Nazionale» del 26 dicembre 1871 - hanno torto di rivolgersi contro le classi superiori e
domandare a queste ragione della dipendenza nella quale vivono tuttora; ma hanno da cercare in loro stessi il motivo
della loro condizione politica e il modo di migliorarla. Vedano quanto è scarsa e imperfetta la loro educazione, quanto è
infelice il credito che hanno nell’opinione generale, quanta è grande l’inesperienza della vita e dei negozi pubblici, e si
persuaderanno che non è colla violenza e colle agitazioni che possono innalzarsi; ma con l'acquistare con animo paziente
e perseverante, e dopo una lunga preparazione, quel valore morale, quella pienezza e maturità d’istruzione, di che ora
difettano11.
È alla borghesia colta - come dicevamo - spetta il compito di farsi tramite, presso i lavoratori,
della diffusione dell'«utile consiglio», della «savia ammonizione» del «concetto esatto e corretto»,
di proporsi «seriamente l'educazione degli operai», prima che altri non la precedano per questa
via12.
Labriola, allo stesso tempo, si dimostra ben consapevole di come non sia sufficiente diffondere
l’istruzione «per trionfare [...] dell’Internazionale». L’iniziativa didattica ed educativa deve essere
accompagnata da cambiamenti sociali, «l’immegliamento [...] delle nostre province» non può che
essere «morale e materiale»13. Una convinzione, quest’ultima, ben diffusa tra alcuni degli stessi
1981, p. 124.
9
«II popolo nelle campagne e nelle città si trova in una situazione veramente rivoluzionaria, vale a dire
economicamente disperata, e le masse cominciano a organizzarsi molto seriamente, i loro interessi si stanno
trasformando in idee. Sino a ora in Italia non erano mancati gli istinti, ma proprio l'organizzazione e le idee. L’una e le
altre stanno prendendo forma, sicché l’Italia dopo la Spagna e con la Spagna, è forse in questo momento il paese più
rivoluzionario del mondo. In Italia esiste ciò che manca agli altri paesi: una gioventù ardente, energica, senza
un’occupazione, senza carriera, senza via d’uscita e che malgrado la sua origine borghese, non è ancora moralmente e
intellettualmente sfinita come la gioventù borghese degli altri paesi. Oggi essa si butta a corpo morto nel socialismo
rivoluzionario» (K. Marx-F. Engels, Critica dell'anarchismo, a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1973, p. 252.).
10
A. Labriola, L'Internazionale, in Id., Scritti liberali, cit., p. 77.
11
Ivi, p. 79-80.
12
Cfr. A. Labriola, L'educazione degli operai, in Id., Scritti pedagogici, cit., pp. 157-158.
13
A. Labriola, L'Associazione Unitaria Meridionale, in Id., , Scritti liberali, cit., p. 91.
esponenti moderati meridionali, consapevoli dei pericoli rappresentati dai drammi di una questione
sociale che è questione prevalentemente contadina; con cui poteva misurarsi solo uno Stato capace
di sollevarsi al di sopra degli interessi delle singole classi, un’aspirazione neohegeliana passata, per
alcuni tra i primi meridionalisti, «in un bagno positivistico»14.
Se la questione è quella di favorire attraverso la formazione un più elevato livello di civiltà, i
problemi scolastici non potevano non continuare ad essere al centro dell’attenzione dello studioso e
docente che va organizzando i suoi pensieri intorno alle questioni di politica scolastica e alle sue
emergenze, su solidi principi e su ricerche statistiche di prima mano. Indagini conoscitive sullo stato
dell'istruzione e battaglie di politica economica, statistiche scientifiche nazionali e internazionali,
discussioni di principio antiche e recenti, riforme fatte e auspicate, definizione dei compiti di
ciascun operatore scolastico, progettazione educativa, organizzazione della cultura a tutti i livelli. È
questo il campo d’azione che vede il Labriola attento protagonista della storia dell’Italia del
secondo Ottocento15. Un impegno sostenuto per l’appunto dalla rilevazione scientifica dei fatti, un
modo di procedere proprio di una formazione filosofica non affetta da scolasticismo, ma intesa nel
senso della verifica concreta degli enunciati, aperta ad ulteriori accertamenti, indagini e sviluppi.
Era la messa in pratica di una filosofia che rifiuta di chiudersi in un sistema e cerca di misurarsi
con il nuovo che va emergendo nella realtà, il tutto da tradurre, con le dovute accortezze,
pedagogicamente e politicamente. Operando quindi nella direzione della trasformazione delle
istituzione scolastiche e universitarie, come testimoniato dalla sua tesi sulla laurea in filosofia16.
Lo stesso «insegnamento della storia» per Labriola andava costruito sull’antiscolasticismo.
«Attività ordinata, rivolta a produrre attività, ecco il preciso assunto del compito educativo»17; in
questi «principalissimi concetti è tutto il compito didattico; cioè dire che si debba per mezzo della
istruzione suscitare l'interesse immediato, multiforme e concentrato per le cose del mondo interiore
ed esteriore»18.
Così la didattica nei Saggi come in Dell’insegnamento della storia (1876) «non è attività che
produca nudo effetto di cosa fissa (come nudo prodotto); ma è quella attività che generi altra attività. Insegnando noi riconosciamo, come il nocciolo primo di ogni filosofare sia sempre il
Socratismo; ossia la virtuosità generativa dei concetti»19. Qui il Labriola ritorna allo scritto sulla
dottrina di Socrate, con la chiara intenzione «di indicare una continuità ed una coerenza profonda
14
M.L. Salvatori, II mito del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi 1963, p.
117. Scrive il Villari: «ma si dice - Noi abbiamo aperto le scuole elementari, tecniche, di disegno, gli asili infantili! Questa è una vera ironia. Che volete che faccia dell’alfabeto colui a cui mancano l’aria e la luce, che vive nell’umido e
nel fetore, che deve tenere, la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Non otterrete mai nulla. E se un
giorno vi riuscisse di insegnare a leggere ed a scrivere a quella moltitudine, lasciandola nelle condizioni in cui si trova,
voi apparecchiereste una delle più tremende rivoluzioni sociali. Non è possibile che, comprendendo il loro stato, restino
tranquilli» (P. Villari, La scuola e la questione sociale in Italia, in Lettere meridionali e altri scritti sulla questione
sociale in Italia, Firenze, Le Monnier, 1878, p. 18). Per Villari l'istruzione non può non essere preceduta da un
miglioramento delle condizioni materiali delle masse contadine, deve in ogni caso accompagnare la creazione di un
forte strato contadino con dignità di ceto sociale consolidato e autonomo, direttamente proprietario oppure reso capace
da opportune misure economiche e fiscali di reggere il confronto in maniera non impari con la classe dei
«galantuomini». Dietro le formulazioni del Villari si intravede la grande e recente paura della Comune, da una parte, e
dall’altra il timore che la predicazione anarchica facesse breccia anche fra le masse contadine italiane che con il
brigantaggio avevano espresso una radicale opposizione ad una «rivoluzione [...] fatta dalla sola borghesia» (P. Villari,
op. cit., p. 300) e successivamente con il e in sostegno dei ceti agrari meridionali.
15
Cfr. A. Labriola, Statistiche di pedagogia e politica scolastica, in Id., Scritti pedagogici, cit., pp. 349 - 462.
16
La tesi viene esposta per grandi linee nella lettera del 12 luglio 1887 al Direttore della «Tribuna»; nel testo Labriola
critica il concetto espresso dalla legge allora vigente, secondo cui «non c’è che una sola via per diventare filosofi; quella
cioè degli studi filologici», quando invece la filosofia non deve essere «un completamento obbligatorio della storia e della
filologia, ma un complemento, invece, facoltativo di qualunque cultura speciale: storica, giuridica, matematica, fisica o
che altro siasi. Alla filosofia ci si deve potere arrivare didatticamente per qualunque via, come per qualunque via ci
arrivaron sempre i veri pensatori» (N. Siciliani de Cumis, Filosofia e Università. Da Labriola a Vailati 1882-1902,
Torino, Utet, 2005, p. 20-21)
17
A. Labriola, Dell'insegnamento della storia, in Id., Scritti pedagogici, cit., p. 259.
18
Ivi, p. 262.
19
Ivi, p. 280.
nello sviluppo del proprio pensiero»20.
Anche in ragione del suo socratismo i «socialisti teorici» non sono che «i modesti ostetrici di un
faticoso parto [...] non [...] i condottieri, ma i maestri del partito dei lavoratori. Noi ci confondiamo
con la folla non appena appaia educata dalla propaganda e scaltrita dalla propria esperienza»21.
I socialisti non debbono «turbare il movimento operaio con proposte anticipate, premature,
astratte, non si deve mai rinunciare alla discussione di nessun provvedimento politico che implichi
un interesse sociale »22.
A ragione quindi va posta l'attenzione sullo spessore educativo dell'opera labrioliana: sul
particolare «socratismo» del maestro perpetuo, sulla sua «missione educativa», strettamente
connessa al rigore morale, alla tensione critica del suo antiscolasticismo. Ed è la funzione
pedagogica che l’autore attribuisce alla sua opera che più di ogni altro tema sembra caratterizzare in
termini di continuità la produzione del Labriola moderato e quella del Labriola marxista. Così nella
storia del movimento operaio italiano l'autore dei Saggi vi entra come protagonista proprio per la
forza della sua «maieutica», di un pensiero che tenta di strutturarsi su un antidogmatismo e che
prova a fare del «comunismo critico» una «filosofia della storia» da mettere alla «dura prova di una
costante osservazione»23, poiché non può accontentarsi di apriorismi economicistici.
Ebbene proprio a proposito del rapporto tra sovrastrutture e sottostante struttura economica, su cui
è utile soffermarsi brevemente ai fini del nostro intervento, Labriola va chiarendo, contro ogni
impostazione scolastica, che il problema è quello di precisare le concrete relazioni multilaterali di
un complesso sociale articolato in manifestazioni interdipendenti intrecciate attorno al nucleo
unitario che tutte le sorregge. «Riuscire a capire la funzione specifica e il rapporto in cui vengono a
porsi tra loro queste diverse manifestazioni, nel comune collegamento con la base economica è lo
sforzo conoscitivo della concezione materialistica della storia»24.
Ed è tale consapevolezza che fa del marxismo del Labriola «un filo conduttore», «un metodo»,
«un orientamento» per «affrontare razionalmente la realtà, per misurare la validità degli strumenti
concettuali nel confronto con le cose». Il marxismo «non è una chiave che apre tutte le porte, buona
per tutte le scienze». «La nostra concezione - insiste Labriola - non pretende di essere la visione
intellettuale di un gran piano o disegno, ma è soltanto un metodo di ricerca e di concezione», una
interpretazione della storia che «per arrivare a maturità» ha bisogno «di un più largo studio, di
analisi particolari»25.
Da qui l'invito che viene da Labriola ai socialisti a immergersi in province determinate della
realtà, per rilevare i ritmi della generazione attraverso «la ricerca specificata, critica e circostanziata
dei fatti storici» che è «la sola fonte [del] sapere concreto e positivo»26.
Ma è l’immergersi del Labriola nel conflitto sociale e i termini con cui sostiene il suo impegno,
che è soprattutto pedagogico, nella formazione del partito socialista a far dubitare, come vedremo
meglio successivamente, della capacità di stabilire una connessione reciproca ed un'interazione tra
«libertà» e «necessità».
Labriola, Turati e l'educazione dei lavoratori
Con la lettera aperta a Socci, Proletari e radicali, datata 5 maggio 1890, Labriola chiudeva
consapevolmente una fase della sua attività politica, di socialista all’interno del più generale
movimento democratico; in più nella stessa lettera esprimeva la coscienza del fatto che la
20
E. Garin, A scuola con Socrate. Una ricerca di Nicola Siciliani de Cumis, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 73.
A. Labriola, Scritti politici 1886-1904, a cura di V. Gerratana, Bari, Laterza, 1970, p. 263.
22
A. Schiavi (a cura di), Filippo Turati attraverso le lettere di con spandenti (1880-1925), Bari, Laterza, 1974, p. 74.
23
E. Garin, Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico, in A. Labriola, La concezione materialistica della
storia, con Introduzione di E. Garin, Bari, Laterza, 1965, p.LV.
24
V. Gerratana, Ricerche di storia del marxismo, Roma, Editori Riuniti 1972, p. 167.
25
A. Labriola, Carteggio III 1890- 1895, a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2003, p. 269
26
E. Garin, A scuola con Socrate, cit., pp. 78 -79.
21
rivoluzione sociale era tutt’altro della borghese, nei fini, nei mezzi e nella tattica, che era un grave
errore vedere nel moto proletario se non la continuazione semplice del moto liberale27.
Il socialismo non poteva che svilupparsi se non come movimento autonomo da ogni tutela
borghese. La separazione quindi dai radicali era una condizione necessaria ma non ancora
sufficiente; l'autonomia del movimento operaio sarebbe stata assicurata solo dalla formazione di un
partito socialista, politicamente indipendente e cosciente nei suoi scopi, sull'esempio della
socialdemocrazia tedesca28.
Era in questa convinzione la radice della polemica con il Turati, per il quale l'obiettivo principale
e più immediato era quello di dare al frammentato e sparso movimento operaio italiano «un minimo
di unità organizzativa e ideologica»29. A quest'ultimo scopo doveva servire la «Critica sociale», una
rivista non esplicitamente socialista ma di carattere «largo e un pò eclettico». In questo modo Turati
intendeva creare intorno alla sua rivista un’atmosfera di simpatia, accaparrandosi la collaborazione
di quanti mostrassero propensione verso la democrazia in genere e per le riforme anche se
nebulose30.
Di fatto la «Critica sociale» era, soprattutto nei suoi primi 11-12 anni di vita, non tanto una vera e
propria rivista socialista dedita ad un approfondimento teorico del pensiero marxista e ad affrontare
in tale direzione i problemi sociali, ma una rivista genericamente democratica che si occupava di
tutte le varie questioni sociali, politiche, culturali e letterarie31. La rivista di Turati rispecchiava il
carattere di gran parte del socialismo italiano a cavallo tra i due secoli, tra ‘800 e ‘900, privo di basi
marxiste, fatto di umanitarismo più che di preparazione teorica e culturale, opera di intellettuali
borghesi, votati alla causa popolare, ma non svincolati dalla cultura della classe di provenienza.
Forse, nelle date condizioni del paese, non poteva essere diversamente. Ed era il compito
eminentemente educativo e pedagogico che il socialismo era chiamato a svolgere, perché il
messaggio di cui era portatore potesse diffondersi, a spiegare la linea della rivista turatiana, tesa per
l'appunto a conquistare l’intellettualità borghese ad un socialismo generico che prevedeva in primo
luogo l’affermazione di una democrazia rappresentativa guidata dalla borghesia e la crescita di una
moderna struttura industriale, «il massimo potenziamento dell’organizzazione sociale della
produzione destinata ad essere ereditata dalla futura società socialista»32.
Un passaggio automatico, per evoluzione che non richiedeva rotture traumatiche e accelerazioni
per l’intensificarsi del conflitto di classe, che invece, secondo il Sorel delle Réflexions, si rendeva
necessario in una fase di decadenza e per riportare la borghesia «alla sua funzione», cioè di creatrice
di «nuove forme di lavoro», quelle proprie dell’«opificio senza padroni».
Ritornando alla questione del ruolo che Turati attribuisce agli intellettuali, l’11 novembre 1883
scrive a Ghisleri:
Purtroppo mi vo sempre persuadendo (ed anche il “Fascio Operaio” di Milano me lo ribadisce in testa) che la nostra
fisima di mandare avanti gli operai a parlare, a scrivere etc, è - per ora in Italia almeno - una fisima sciocca, malgrado la
legge dell'esercizio, la necessità del progresso graduale etc etc. Prima convien proprio che i più colti, gli elementi men
borghesi della borghesia, combattano per il povero operaio minorenne33.
Una scelta che risultò strategica e non certo ininfluente sulla composizione sociale dei gruppi
27
Cfr. A. Labriola, Proletari e radicali, in Id., Scritti politici 1886-1904,, cit., pp. 218-224.
Cfr. A. Labriola, Alla Democrazia sociale di Germania nel congresso di Halle, in E. Ragionieri, Socialdemocrazia
tedesca e socialisti italiani, cit. pp. 241-242.
29
R. Monteleone, Filippo Turati, Torino, Utet, 1987, p. 242.
30
Ivi, p. 257.
31
Cfr. G. Genovesi, "Critica sociale" e questione universitaria, in T. Tomasi et al., Scuola e società nel socialismo
riformista (1891-1926), Firenze, Sansoni, 1982, p. 161.
32
C.G. Lacaita, Socialismo, istruzione e cultura popolare tra l'800 e il '900: i riformisti, in C.G. Lacaita et al., Il
socialismo riformista a Milano agli inizi del secolo, Milano, Angeli, 1981, p. 384.
33
P.C. Masini (a cura di), Scapigliatura democratica. Carteggi di Arcangelo Ghisleri: 1875-1890, Milano, Feltrinelli,
1961, pp. 98-99.
28
dirigenti del partito socialista34; ma soprattutto in questo modo Turati si faceva fautore di un moto
educativo che doveva coinvolgere e corresponsabilizzare strati intellettuali a cui affidare
principalmente il compito di sostenere la battaglia socialista, finché la classe operaia non fosse
uscita dallo stato di minorità culturale e politica. Inoltre Turati si opponeva così alle tendenze
«operaiste» che, pur avvertendo l'esigenza di uno sviluppo intellettuale del proletariato, ricercavano
un percorso educativo autonomo da ogni influenza culturale borghese, richiamandosi a forme di
mutuo insegnamento35.
L’educazione e l’istruzione, in tutta l'economia del discorso turatiano e riformista, svolgevano un
ruolo fondamentale36 e gli intenti riformatori furono favoriti dalla congiuntura economica e sociale
dei primi anni del Novecento. Infatti la rivoluzione industriale sollecitava nel nostro paese una
gigantesca domanda di istruzione che proveniva dalle forze produttive più avanzate e dai processi di
urbanizzazione. La crisi dell’artigianato e la formazione di un proletariato urbano moderno non solo
rendevano necessaria un’espansione dell'istruzione elementare, ma anche la sua organizzazione
omogenea da parte dello stato. Inoltre la spinta della prima generazione di emigranti suscitava un
nuovo interesse verso l'istruzione elementare, anche nelle regioni che per lungo tempo avevano
sostanzialmente respinto la stessa scuola primaria37.
In ogni caso, considerando tra l'altro il disinteresse se non l'ostilità che l'estensione dell'obbligo
incontrava tra cospicui settori delle classi dominanti, soprattutto nel Mezzogiorno, lo sviluppo della
lotta contro l'analfabetismo, l'incremento degli asili infantili, delle scuole popolari, della istruzione
tecnica e professionale, insomma tutto il pacchetto di interventi varati a favore della scuola nel
primo decennio del '90038 è legato direttamente o indirettamente all'attività delle organizzazioni
socialiste, in cui i «riformisti [...] restano pur sempre coloro che danno il là al programma
educativo»39.
Ma i socialisti oltre ad essere poco attenti all'istruzione media e superiore40, anzi a proposito del
dibattito sulla scuola media unica prevale l'opinione contraria all'unicità anche per le scelte del
Salvemini, rinunciano a chiedere, fino al termine della prima guerra mondiale, anche a livello di
istruzione di base, radicali trasformazioni organizzative e culturali41.
In breve, i riformisti non si discostano molto dalla linea liberale, progressista e democratica; si
può affermare che la cultura socialista, per ciò che concerne la scuola e l'educazione, ma non solo,
rappresenta uno sviluppo, moderatamente avanzato, della cultura borghese precedente. Soltanto
negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale, nell’ambito dei settori più
34
«Altra caratteristica dell'organizzazione socialista», fino al primo conflitto mondiale, «è la sua stratificazione sociale
piuttosto rigida. Da una base largamente proletaria [...] si passa a una dirigenza che è di estrazione borghese in misura
sensibilmente più alta di ogni altro partito socialista europeo» (G. Sivini, Socialisti e cattolici in Italia dalla società allo
Stato, in E. Gentile (a cura di), L'Italia giolittiana. La storia e la critica, Bari, Laterza, 1977, p. 154).
35
Cfr. D. Bertoni Jovine, La pedagogia dei socialisti utopisti, in D. Bertoni Jovine, Principi di pedagogia socialista,
Roma, Editori Riuniti 1977, pp. 149-169.
36
Per i socialisti si trattava di conseguire, incoraggiati tra l'altro dalla nuova stagione politica liberale che succede ai
tentativi autoritari di fine secolo, la dotazione, per l'intero territorio nazionale, di scuole elementari e la possibilità di
accesso di tutti all'istruzione, rimuovendo le cause d’inadempienza scolastica, a cominciare da quelle di ordine
economico e sociale. Innanzitutto impedendo il precoce sfruttamento dei minori nei luoghi di lavoro, realizzando un’efficace assistenza scolastica, che per i socialisti doveva diventare un servizio pubblico generalizzato. Bisognava inoltre
elevare l'obbligo scolastico ben oltre il primo triennio, puntando a «un'istruzione obbligatoria, laica, gratuita fino alla 5°
elementare», cui associare sia l'istruzione complementare «parimente obbligatoria e gratuita, per almeno altri quattro
anni» sia «l'istruzione professionale tecnica ed agraria» coordinata alle attività produttive delle diverse regioni (Cfr. E
Turati, C. Treves, C. Sambuco, II programma minimo socialista, in “Critica Sociale” a. X., n. 17, 1 settembre 1900, ora
in F. Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici 1878-1932, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 109).
37
Cfr. G. Canestri-G. Recuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Torino, Loescher, 1976, pp. 26-28.
38
C.G. Lacaita, Istruzione e società nella politica scolastica socialista, in E. Catarsi e G. Genovesi (a cura di),
Educazione e socialismo in cento anni di storia d'Italia (1892-1992), Ferrara, Corso Editore, 1993, p. 18.
39
G. Genovesi, Socialismo e educazione. Alcune considerazioni a partire dal caso ferrarese, in E. Catarsi e G.
Genovesi, op.cit., p. 32.
40
Cfr. L. Borghi, Educazione e autorità nell'Italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951, p. 96.
41
Cfr. T. Tomasi, Istruzione popolare e scuola laica nel socialismo riformista, cit., p. 15.
radicali del movimento socialista, si avverte l'esigenza di profonde trasformazioni nella
organizzazione e nei contenuti del processo di insegnamento/apprendimento.
All'affermazione del diritto all'istruzione elementare delle classi subalterne, i socialisti
affiancarono, fin dalla fondazione del partito, l'impegno, anche attraverso riviste ed opuscoli, per
l'alfabetizzazione politica e culturale dei lavoratori.
Turati affermava che un opuscolo propagandistico, «per raggiungere lo scopo, doveva essere
popolare, anzi elementare, nel senso di saper sbriciolare le prime verità del socialismo alle menti
meno educate, con lo stesso metodo di quando si ha a che fare coi bambini». Il procedimento
dialogico gli andava benissimo. Bastava che non cadesse nell'ingenuo artificio di anticipare nella
domanda la risposta medesima42.
Ed è attraverso la «Critica sociale» che Turati si fece promotore di una intensa attività pedagogica
e culturale. La Biblioteca di propaganda della rivista fu il più autorevole centro di diffusione di un
genere di pubblicistica i cui connotati retorici-stilistici e formali sono riconducibili alla tradizione
popolare della «letteratura a un soldo» o a una certa letteratura educativa del periodo
risorgimentale43. Si tratta di opuscoli chiaramente finalizzati alla «volgarizzazione» dei principi del
socialismo scientifico, alla formazione dei militanti di base e più in generale alla diffusione
dell'ideologia socialista fra le classi subalterne.
Turati fin da quando assunse la direzione di «Cuore e critica», nel 1890, diede particolare impulso
a questo genere letterario, infatti nella lettera aperta, con la quale accettò ufficialmente l'incarico
offertogli da Arcangelo Ghisleri, di dirigere la rivista che successivamente trasformò in «Critica
sociale», si legge che è «fra i sogni più fervidamente vagheggiati di chi scrive queste linee di
coadiuvare l'opera del giornale mercé il sussidio di pubblicazioni popolari accessorie che trovando
nel periodico la base di partenza [...] spargansi, fin dov’essa non può giungere, messaggeri ed
interpreti del suo spirito, del suo stesso ideale»44.
Circa dieci anni dopo, nel corso della svolta liberale della borghesia italiana e con la sconfitta
della reazione di fine secolo, l'elenco degli opuscoli popolari finalizzati alla formazione di una
ideologia socialista di massa, si assottiglia fin quasi a scomparire del tutto. I nuovi titoli proposti da
«Critica sociale» (Sul lavoro delle donne e dei minorenni, Riforme tributarie ecc.) esprimono l’esigenza di promuovere la formazione di una cultura tecnica, amministrativa e politica nel partito.
Emerge però un limite di fondo nelle argomentazioni politiche e pedagogiche riformiste e
turatiane, il persistere di un’idea di popolo ridotto ad «amorfo elemento di massa», di conseguenza
una perdurante vocazione pedagogica di segno tradizionale. Inoltre Turati evidenzia una persistente
fiducia nella guida pedagogica e politica degli intellettuali borghesi45 che si accompagna ad una
idea di «stato minorile del popolo» che, seppure storicamente non infondata, finisce per affidare alla
borghesia democratica non solo la missione educativa46 ma anche la direzione politica e culturale.
Il riformismo turatiano non sembra porsi la questione della formazione di un gruppo dirigente
operaio47, un'esigenza che emerge invece dalle preoccupazioni del Labriola sul ruolo degli
intellettuali socialisti («maestri» e non «capi») e che in parte chiarisce il rifiuto del giacobinismo e
l'esigenza imprescindibile di un'azione di propaganda e di educazione tesa alla conquista
42
Cfr. R. Monteleone, op. cit., p. 171.
Cfr. D. Bertoni Jovine, La stampa popolare educativa nel primo Risorgimento, in “Belfagor”, n. 3, 1950, pp. 318330. Inoltre, per ciò che riguarda la propaganda socialista in Italia alla fine dell'Ottocento attraverso gli opuscoli di
«Critica sociale», cfr. R. Pisano, II paradiso socialista, Milano, Franco Angeli 1981.
44
F. Turati, Lettera aperta del nuovo direttore agli amici di questo giornale, in «Cuore e critica», a. IV, n. 18, p. 273.
(Una lettera del 21 dicembre 1890).
45
Cfr. R. Monteleone, op. cit., p. 130.
46
Ivi, p. 148.
47
Ancora nel 1912 ad Alessandro Schiavi, che rimproverava il partito e le sue organizzazioni di non impegnarsi
abbastanza per fondare una scuola per la formazione di dirigenti della classe operaia, Turati rispondeva che un'iniziativa
del genere, buona sul piano teorico, risultava prematura; inoltre «la cultura può essere anche operaia e socialista, ma
non è tutta soltanto operaia e socialista, né il proletariato è la sola classe che ha bisogno di rinforzare la propria cultura»
(F. Turati, Per una cultura socialista, in “Critica sociale”, 1 maggio 1912, p. 149).
43
dell'autonomia culturale e politica del movimento operaio e socialista. A questo proposito non è una
forzatura asserire che l’autonomia culturale del movimento operaio per il Labriola si esprime nell’
«intendere il socialismo in modo integrale. A intendere, cioè, che ad una cosa sola essi (i lavoratori)
devono soprattutto mirare: all’abolizione, cioè, del salariato: che una sola forma di società è quella
che rende possibile, anzi necessaria, la eliminazione delle classi: e cioè l'associazione che non
produce merci; che tal forma di società non è più lo stato, anzi è il suo opposto, ossia il reggimento
tecnico e pedagogico della convivenza umana, il selfgovernment del lavoro»48.
Il movimento socialista non educa soltanto, contro ogni giacobinismo, alla comprensione della
necessità delle premesse materiali e alla necessità, implicita nella storia, della realizzazione della
trasformazione dei rapporti sociali di produzione, ma anche ad aspirare ad un'idea di civiltà
superiore; di cui non può essere descritta la specifica organizzazione, ma il cui fondamento per
Labriola è da rintracciare nell'autogoverno e nell'abolizione del lavoro salariato49.
Labriola non può credere a quella che definisce la «filantropica impresa» di «rendere simpatico il
socialismo» ai borghesi e ritiene insopportabile il persistente opportunismo eclettico turatiano,
mentre al partito socialista spetta rappresentare nettamente la dottrina socialista, creare la coscienza
teorica del socialismo.
Vede inoltre il pericolo di piccoli borghesi scontenti e camuffati da socialisti e ne ammonisce
Turati definendo, tra l’altro, il compito degli intellettuali nella formazione del partito: illustrare,
chiarire, discutere, aiutare «la formazione di una coscienza critica della classe operaia», questa la
funzione che spetta agli intellettuali socialisti50. Un modo socratico di intendere il ruolo
dell'intellettuale; come dicevamo, sollecitatore e critico sul piano teorico, rigoroso censore morale
sul piano pratico.
Di questa missione Labriola fu ben consapevole e ne venne chiarendo sempre meglio, anche a se
stesso, i metodi e gli scopi, dal saggio su Socrate del 1871 alle ultime lettere al Sorel di trent'anni
dopo, dove si fa l’elogio del dialogo. Il suo socialismo era nel concepire la conquista del sapere
come uno sforzo comune, come un colloquio continuo, intendeva la cultura come il momento della
socialità, della collaborazione51 e Socrate era il tipo umano espressione di una più elevata umanità52
Ma tanto Turati quanto Labriola convengono sulla certezza della continuità «rivoluzionaria» del
capitalismo e del socialismo contro le vecchie classi reazionarie feudali, sulla sostanziale
impossibilità di una trasformazione socialista in Italia, e sulla necessità di mettersi
disciplinatamente al passo con i tempi, con la «modernizzazione» ma anche con le sue ineluttabili
conseguenze; compresa, per Labriola, la gara per la difesa e l’accaparramento di zone di influenza
coloniale.
48
A. Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti, in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, cit., p.
37. Il testo è significativo perché mostra come il Labriola abbia abbandonato l'idea della funzione della formazione
statale, intorno a cui aveva così a lungo meditato tanto da considerare la «nuova dottrina [...] la critica implicita di ogni
forma di socialismo di stato» ( ivi, p. 23).
49
Il «salariato è forma di schiavitù; il salariato deve finire; il salariato finirà» (A. Labriola, Scritti politici 1886-1904,
cit., p. 264). Nello stesso articolo, riguardo all’oggi, si chiede: «perché combattere per il diritto al lavoro, se la
manifestazione del Primo maggio ha per insegna il diritto all’ozio, [...]?». Aggiunge poco dopo che la «riduzione delle
ore, se universale e sistematica, limita i tristi effetti della concorrenza, diminuisce i disoccupati, restringe lo
sfruttamento e segna un piccolo passo sulla lunga e faticosa via della socializzazione del capitale» (ibidem, pp. 260261).
50
Cfr. E. Garin, Antonio Labriola e i saggi sul materialismo storico, in, A.Labriola, La concezione materialistica della
storia, cit., p. XLIII.
51
E. Garin, Antonio Labriola nella storia della cultura del movimento operaio, in “Critica marxista”, 1979, n. 2, pp. 7279; ora anche in E. Garin, A scuola con Sacrate, cit., pp. 75-79.
52
Labriola scrive a Sorel che «Nella società dell'avvenire, nella quale l'ozio, ragionevolmente cresciuto per tutti, darà a
tutti, con le condizioni della libertà, i mezzi per civilizzarsi, le droit à la paresse - la felicissima trovata del nostro
Lafargue - farà spuntare ad ogni angolo di strada dei perditempo di genio, che, come il nostro maestro Socrate, saranno
operosissimi di operosità non messa a mercede» ( A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, in Id., La
concezione materialistica della storia, cit., p. 179).
La politica come pedagogia
Su quest'ultimo tema torneremo, quello che ora ci pare utile sottolineare è come, sulla base di
quanto asserito finora, venga confermata la valenza pedagogica dell'impegno politico del Labriola,
il concepire la politica come una grande opera pedagogica53; senza per questo dimenticare i
problemi specifici della scuola, dell'università come della scuola popolare. Infatti tra i diritti fondamentali, in primo luogo vi è quello «alla coltura» che
si concepisce ed esplica in termini brevi e precisi: fornire tutti delle più elementari conoscenze e delle più generali
attitudini mediante la scuola schiettamente popolare. Due gl’intenti umani e sociali. Fare che tutti entrino nella vita
consapevoli delle proprie forze, e capaci di scegliersi il lavoro: sopprimere il più gran numero che mai si possa di
artificiali differenze, perché rimanga posto e campo a quelle sole che provengono da dono d’intelligenza e da vocazione
di attitudini. Questo l’ideale della scuola popolare dello avvenire, che metta tutti indistintamente in contatto dei
primissimi elementi del sapere, e faccia lecito a ciascuno di salire tanto quanto porti la capacità sua54.
Ritornando alla questione dell'educazione dei lavoratori, scrive Labriola nel 1891:
Questi operai fanno ora per la prima volta la loro educazione di proletariato moderno militante e impareranno poi
dall'esperienza e dall’attrito a sceverare il possibile dall’impossibile, e ad intendere come l’impossibile di oggi sia il
possibile di domani.
Sorreggerli in questo penoso lavoro di educazione è opera degna di repubblicani e di socialisti che sian meritevoli di
cotesti nomi.
Ma né gli uni né gli altri devono abbandonarsi alla illusione, che sia loro lecito di far le parti di novelli girondini e
giacobini [...]. I più eletti d’ingegno e di cultura fra i democratici e i socialisti non han diritto, ragione e modo d’influire
sulla faticosa educazione rivoluzionaria del proletariato, se non a patto di confondersi con esso fin da ora, affermandosi
semplicemente e schiettamente membri vivi e vigili del partito dei lavoratori55.
Così nella lettera a Pasquale Villari del 13 novembre 1900 precisa che intese il socialismo
italiano, tra l'altro, come un mezzo «per sviluppare il senso politico delle moltitudini» e «per
educare quella parte degli operai che sono educabili alla organizzazione di classe»56.
L'impegno di educatore, soprattutto politico, del Labriola marxista si spiega anche alla luce della
più generale considerazione della situazione italiana e dei conseguenti compiti attribuiti al nascente
movimento socialista, va cioè inquadrato in quel primo tentativo, avviato dalle forze politiche e
culturali italiane più dinamiche, di porsi i problemi aperti dalla costituzione dello Stato nazionale e
lasciati insoluti dalle classi dirigenti.
L'educazione, quindi, tra i compiti del movimento socialista, che per la classe operaia andava
praticata all'interno delle «nuove istituzioni spontanee»57; sono infatti le camere del lavoro a
preparare il «Comune dei lavoratori»58. Il partito, le leghe, le camere del lavoro come spazi per
l'educazione politica delle masse, nel senso della conquista collettiva del sapere.
Ovviamente non siamo al Sorel che fa dell'associazionismo operaio il momento di formazione e
trasmissione dì una nuova morale, ciò sulla base dell'interesse, sempre prioritario nell'autore delle
Réflexions, per «l'educazione e [...] il rinnovamento dell'individuo»59, ma alla richiesta di una
accentuazione dei compiti educativi degli istituti della classe operaia e ciò anche a fronte di una più
generale difficoltà di progettazione politico-sociale.
Perché il socialismo nasca e si sviluppi in Italia, sono necessarie molte e concrete condizioni che
«ora mancano». In primo luogo il pieno dispiegarsi del capitalismo, al cui sviluppo è necessario
affidarsi.
53
Cfr. L. Dal Pane, op. cit., p. 327.
A. Labriola, Del socialismo, in A. Labriola, Scritti politici 1886-1904, cit., p. 180.
55
Id., Scritti politici 1886-1904, cit., pp. 256-257.
56
Id., Carteggio V 1988-1904, a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2006, p. 178.
57
Id., Scritti politici, cit., p. 482.
58
Ivi., p. 486.
59
G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, cit., p. 85.
54
Sempre per quanto riguarda la specifica situazione italiana, Labriola sottolinea come lo «sviluppo
del proletariato» sia soltanto «agli inizi» e come il suo destino sia strettamente legato a quello di
una borghesia che «deve ancora ascendere». Pertanto «s’ingannano quelli» che credono
lo agitarsi delle moltitudini sia sempre indizio o prodromo da noi, com’è di fatto alcune volte e in alcuni punti d’Italia, di
quel moto proletario che, come lotta economica su base concreta o aspirazione politica, volge più o meno esplicitamente
al socialismo in altri paesi. Qui il più delle volte questo agitarsi è come la ribellione delle forze elementari contro di uno
stato di cose in cui esse forze non trovano la necessaria coercizione, quella coercizione, dico, che è propria di un sistema
borghese atto ad inreggimentare i proletari60.
«L'Italia» sia dei borghesi e sia dei proletari «ha bisogno di progredire materialmente»; di
superare «l’atavico assetto della coltura dei campi» con l'introduzione delle macchine e con le
«applicazioni della chimica». Di vedere «strappata ai corsi superiori dei fiumi e […] alle onde del
mare ed ai venti, la forza generatrice della elettricità che sola può compensarci del carbon fossile
che ci manca». Il Labriola si augura l'eliminazione dell’analfabetismo e con esso delle «plebi che
non son popolo», infine spera nello affermarsi di «una politica, la cui orientazione sarà determinata
dalla coscienza della cresciuta coltura, e dalla moltiplicata potenza economica e non più dalle
pitoccate alleanze, e dalle imprese fantasticamente avventurose che terminano poi in atti di prudenza che paiono viltà»61.
L'insufficienza del socialismo italiano è prodotto della debolezza del capitalismo nostrano, solo il
pieno sviluppo della premessa capitalistica può dare ragione della trasformazione dei rapporti
sociali di produzione.
Da qui, per quanto riguarda sempre il presente, il mettere l'accento sui problemi dell'educazione e
della formazione ideologica e politica delle masse, che deve chiarire, agli stessi lavoratori, la
situazione e favorirne quindi la partecipazione al moto storico, «al fare delle cose»62.
Il Labriola parla della «necessità di premere sul governo liberale su l’opinione pubblica, sul
parlamento [...] per arrivare a ciò che in altri paesi chiamasi politica sociale, [...], ad ottenere delle
leggi che diano stabilità di diritto di riunione, di sciopero, di resistenza, e carattere di permanenza a
quelle nuove istituzioni spontanee che sono le Leghe, le Camere del lavoro, ecc.»63.
Ampliare la sfera delle garanzie sociali, rafforzare e rendere duraturi i luoghi di
autodeterminazione e quindi di formazione e autoformazione politica dei lavoratori è quanto
Labriola va affermando; ma allo stesso tempo, e la lettera al Villari del 13 novembre del 1900 lo
testimonia, manca l’indicazione di una prospettiva politica in grado di assumere la soluzione dei
problemi vitali e decisivi del paese, da quelli di una nuova politica internazionale a quelli del
Mezzogiorno, di una riforma agraria, e così via.
Ritorna il rapporto tra Turati e Labriola, in quanto pur movendo da diversi punti di partenza
giungono allo stesso punto di arrivo; infatti il riformismo turatiano non si misura, così come non lo
fa Labriola, con i grandi problemi nazionali. Rinunciando di fatto ad un’azione autonoma e di
ampio respiro.
In questo quadro l'educazione, è essenzialmente «accomodazione sociale»64, adeguazione e
adattamento degli uomini alle date condizioni di esistenza. Si presenta «come qualcosa di
condizionato e limitato» ed è «corrispettivo», al pari della morale, «alle condizioni sociali»65. La
pedagogia appare strettamente legata e, in un certo senso, sottoposta alla realtà storica; era questo
un progresso su quella «pedagogica [...] individualistica e soggettiva» che concepiva il fatto
educativo come avulso dalla più vasta realtà sociale66. Ma allo stesso tempo (nel pensiero del
Labriola) è scarsamente evidenziato il possibile rapporto di reciprocità tra società ed educazione e il
60
Ivi, pp. 283-284.
A. Labriola, L'Università e la libertà della scienza, in Id., Scritti pedagogici, cit., pp. 616-617.
62
Id., Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p. 233.
63
Id., Scritti politici 1886- 1904, cit., p. 482.
64
Id., Del materialismo storico, in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, cit., p. 136.
65
Ivi, p. 129.
66
Ivi, , p. 128.
61
carattere sociale di questa è costituito dall’accomodazione alla situazione esistente.
Un modo di pensare non «dialettico e progressivo» che pone un fondato dubbio sulla riduzione
dell’educazione del «papuano» (che conviene intanto fare schiavo, «e questa sarebbe la pedagogia
del caso, salvo a vedere se ai nipoti e ai pronipoti si potrà cominciare ad applicare qualcosa della
pedagogia nostra»)67 ad una semplice uscita ad effetto; al contrario, avvicinata all’intervista,
raccolta e firmata da Andrea Torre e pubblicata in «Il Giornale d’Italia», 13 aprile 1902, sulla
politica coloniale dell’Italia68, rende un punto di vista secondo cui le modificazioni che è possibile
produrre, attraverso «l'educazione, nel lato senso della parola», e la politica, hanno margini ben
ristretti e non possono forzare in alcun modo il movimento storico, di cui gli uomini sono solo
parte.
67
B. Croce, Conversazioni critiche, Serie I e II, 4 edizione, Bari, Laterza, vol. II, 1950, pp. 60-61.
«Gli interessi dei socialisti non possono essere opposti agli interessi nazionali, anzi li debbono promuovere sotto tutte
le forme. Gli Stati di Europa – vi ripeto concetti e frasi che ho altre volte espressi – son in continuo e complicato
divenire, in ciò che ambiscono, conquistano, assoggettano e sfruttano in tutto il resto del mondo. L’Italia non può
sottrarsi a questo svolgimento degli Stati che porta con sé uno svolgimento dei popoli. Se lo facesse, o potesse farlo, in
realtà si sottrarrebbe alla circolazione universale della vita moderna; e rimarrebbe arretrata in Europa» (A. Labriola,
Scritti politici 1886 – 1904, cit., p. 492)
68
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