Qui comincia l'avventura... Elezioni politiche 2013 A cura di Corrado Bevilacqua I libri di Belfagor Corradobevilacqua.wordpress.com Premessa I nostri politici, infatti, sono usi a dare il peggio di se stessi proprio in campagna elettorale. Vediamoli all'ora all'opera. Chi non fosse interessato alla cosa, può saltare piè pari alla seconda e terza parte dove si parla dei problemi dei quali non si parlerà in campagna elettorale o se ne parlerà per slogan. Se il buon giorno di vede dal mattino... "Discussione con Lega ancora in corso. Alcune importanti questioni, però, non ci convincono e potrebbero indurci a separare nostro percorso", scrive il segretario del Pdl Angelino Alfano su Twitter. Le parole di Alfano arrivano al termine di un vertice fra Pdl e Lega nella residenza milanese di via Rovani di Silvio Berlusconi. Presente, per il Carroccio, il responsabile organizzativo Roberto Calderoli, che ha raggiunto Berlusconi, Alfano, Formigoni e Verdini che erano già presenti per il pranzo. Assente il segretario della Lega Roberto Maroni, che via Twitter ha fatto sapere di essere in via Bellerio al lavoro per la campagna elettorale. Calderoli ha lasciato dopo circa due ore la residenza milanese di Berlusconi. L'ex ministro, si legge in un lancio Ansa, unico esponente della Lega presente, non ha rilasciato dichiarazioni. La richiesta di un'alleanza in Lombardia prima di discutere di quella (eventuale) sul piano nazionale e anche il no, ribadito ancora, a una premiership di Silvio Berlusconi sarebbero i principali punti di divergenza fra la Lega e il Pdl. L'incontro di oggi a Milano, in via Rovani, ha rimandato ancora le decisioni di "qualche giorno": al Pdl non sarebbe nemmeno piaciuta l'impuntatura di Maroni su una condivisione totale del programma legato alla sua candidatura lombarda. Al termine dell'incontro Silvio Berlusconi, lasciando la residenza di via Rovani, ha affermato: l'alleanza con la Lega "spero si possa fare ma non è obbligatoria, perché pensiamo di avere la possibilità lo stesso di vincere anche se andassimo separati". Sul rapporto con la Lega in vista delle alleanze nazionali "siamo in discussione perché ha spiegato Berlusconi ai giornalisti - ci sono cose che non ci convincono. In questo momento è ancora tutto aperto, non possiamo accettare cose a scatola chiusa". Il leader del Pdl, interpellato dai giornalisti sull'assenza del segretario della Lega Roberto Maroni al vertice di oggi pomeriggio, ha sostenuto che "Maroni pensava fosse un incontro riservato" e non si è recato in via Rovani quando lo stesso cavaliere ne ha parlato alla stampa. "Ma con lui - ha assicurato Berlusconi - mi sono sentito a lungo telefonicamente" nel corso del pomeriggio. Non è sul candidato premier comune che ci sono problemi con la Lega: lo ha assicurato il leader Pdl. "Non abbiamo parlato di candidati premier", ha spiegato a chi gli chiedeva della possibilità di una candidatura di Alfano, "ma sui candidati non abbiamo un problema, non abbiamo posizioni inconciliabili con la Lega, è su altre cose che discutiamo". "Non è possibile procedere in una direzione come questa": Berlusconi replica al segretario della Lega Roberto Maroni che ieri ha chiesto al Pdl di trattare un'alleanza in Lombardia ma non nazionale. Quanto alla posizione di Gabriele Albertini in Lombardia, che ha detto che non ritirerà la sua candidatura, il cavaliere ha risposto: "ormai è così, non insisto più", comunque "non c'é un ostacolo Albertini dirimente sull'accordo fra noi e la Lega". Prima del vertice in via Rovani il Cavaliere si era detto "tranquillo", confidando di potere trovare un accordo con la Lega Nord che altrimenti, aveva notato, resterebbe "un partito piccolo. I francesi dicono 'quantite' negligeablé". "Se diventassimo in competizione cadrebbero in un tempo, e in un tempo non lungo, sia Piemonte che Veneto e quasi circa cento amministrazioni comunali. Quindi la Lega si troverebbe fuori da tutti i giochi, diventerebbe un partito ininfluente. Non credo che arriveremo a questo". "In quel momento c'é stata una vera e propria congiura e noi, vincendo, instaureremo subito una commissione per esaminare quei fatti", ha risposto Silvio Berlusconi ai giornalisti che alla stazione centrale di Milano gli hanno chiesto se si sia pentito di aver appoggiato Mario Monti. Secondo Silvio Berlusconi, Mario Monti non registrerà un successo elettorale, anzi di voti ne prenderà "pochi, secondo i sondaggi perché - ha spiegato - l'agire e le conseguenze dell'agire di questo governo tecnico sono lì da vedere. Gli italiani si stanno rendendo consapevoli della congiura che c'é stata per mettere una parentesi alla democrazia per porre fine al nostro governo". "Non penso - ha aggiunto - ci sia una persona che possa dare fiducia ai vari Fini, Casini e Monti". "Mario Monti ha contraddetto le garanzie che aveva dato all'inizio" della sua avventura come presidente del Consiglio al presidente della Repubblica, a me presidente uscente e agli italiani". Questro il commento, intervistato da 'Vista tv', di Silvio Berlusconi all'accordo fatto ieri dal professore con i centristi. Monti aveva garantito che non avrebbe "approfittato della pubblicità dello stare sul pulpito di questo governo tecnico per poi presentari come protagonista politico. E lo ha fatto con una caduta di credibilità rilevante. Essendo senatore a vita e senza iscriversi alle liste elettorali ma assumendo il ruolo di leader dei partitini di centro. E con un programma scritto dal giuslavorista del Pd Ichino, che ora ha lasciato i democrats: un programma in quasi totale sintonia con quello del partito democratico". Monti - conclude il Cavaliere - ha manifestato così "l'intenzione di fare la ruota di scorta al Pd e di continuare quella politica di austerità che ha portato l'Italia in queste condizioni e che purtroppo , secondo la loro sensibilità, dovrebbe essere continuata". Silvio Berlusconi deve rinunciare all'intervista al Tg1, registrata nel pomeriggio e saltata per la concomitanza della conferenza stampa di Mario Monti, e, nel frattempo, si dice pronto a ''un piccolo giro d'Italia'' se gli consentiranno poche apparizioni televisive. Pier Luigi Bersani vuole devolvere il tempo che gli spetta alla trattazione di argomenti come la Siria o la crisi economica per evitare ''una pantomima''. All'indomani della decisione della Rai di mettere un freno all'offensiva mediatica del Cavaliere e di offrire analoghi spazi agli altri leader, arrivano le repliche dei diretti interessati. In attesa di capire come e quando torneranno sul piccolo schermo, senza escludere il possibile faccia a faccia, l'Agcom ha dato il via libera all'unanimita' al regolamento sulla par condicio. Novita' rispetto allo schema iniziale e' l'estensione delle norme ai soggetti non candidati ma riconducibili alle forze politiche, come Mario Monti, Beppe Grillo o Luca Cordero di Montezemolo. Fino al voto del 24 e 25 febbraio le tv private dovranno quindi rispettare le regole decise dall'Autorita'. La Rai attende invece il regolamento della Commissione di Vigilanza che non arrivera' prima del 3 gennaio, quando riprenderanno i lavori delle bicamerale. A meno di sorprese legate agli emendamenti che saranno presentati il 2 gennaio, i due testi dovrebbero essere simili. Anche in relazione alle norme per i politici ''non direttamente partecipanti alla competizione'': oggi l'Agcom ha deciso che la loro presenza nei programmi di informazione e' equiparata a quella dei candidati e che tali soggetti non possono essere presenti, come tutti gli altri, nei programmi di intrattenimento. Il Pdl, dopo le proteste di ieri in Vigilanza, torna ad attaccare il premier uscente. ''La Rai e l'Agcom si piegano alla sua volonta''', e' l'accusa di Giorgio Lainati. Per Guido Crosetto di Fratelli d'Italia siamo alle ''prove di regime''. Critiche anche dall'Idv. ''E' una norma ad personam - sostiene Antonio Borghesi - E' uno scandalo''. Sul fronte opposto Roberto Zaccaria del Pd chiede all'Autorita' i tempi di presenza di Berlusconi in tv e attacca: ''Di sanzioni non se ne parla, anche quando gli abusi sono evidenti''. Il regolamento Agcom ricalca quelli messi a punto per le ultime elezioni. La campagna elettorale si divide in due parti: nella prima, dall'indizione dei comizi (il 24 dicembre) alla presentazione delle candidature (il 20 e 21 gennaio), gli spazi sono divisi tra le forze politiche presenti in Parlamento, nella seconda, fino al penultimo giorno prima del voto, il tempo e' ripartito tra coalizioni e liste in campo. Sono previste norme per le tribune politiche, ma anche per i programmi di informazione che devono rispettare ''con particolare rigore'' i principi del pluralismo e dell'imparzialita'. Un articolo e' dedicato al confronto tra i candidati premier, ai quali deve essere assicurata ''parita' di tempo, di parola e di trattamento'', anche in un ciclo di piu' trasmissioni. Le primarie del Pd entrano nel vivo. In quasi 1500, tra big e peones, puntano al voto degli elettori per entrare nelle liste del Pd in una sfida "ai limiti dell'impossibile", come lo stesso Pier Luigi Bersani ha ammesso per lo sforzo di volontari e aspiranti onorevoli. "Chi perde non sarà recuperato nel listino" assicura il Pd per smorzare tensioni e malumori della vigilia, in primis in Puglia dove tre consiglieri regionali, non ammessi alla gara, si sono autosospesi dal partito. Si è votato sabato in nove regioni (Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna). Domenica toccherà ad altre 11. In totale 6 mila seggi con 50 mila volontari a gestirli. In flessione i votanti a Torino e in Campania, secondo i primi dati sulle affluenze,rispetto alle primarie per la premiership del centrosinistra. Tiene invece la Lombardia con oltre 80 presenze ai seggi alle ore 17. 10 mila le presenze in Umbria alle 13 di oggi, 23 mila in Calabria. In Toscana le 1200 presenze di Firenze, alle 17, rappresentano il picco più significativo della regione. "Spero che molti nostri iscritti ed elettori partecipino alle primarie del prossimo 30 dicembre. Tra i candidati di Roma, che apprezzo e ringrazio tutti per aver accettato questa sfida, il mio sostegno particolare va a due persone che conosco da anni e con le quali ho percorso tratti di strada in comune: Lorenza Bonaccorsi e Roberto Giachetti". Lo afferma Matteo Renzi. "Roberto è tra i parlamentari più competenti e combattivi, uno dei pochi che ha cercato davvero di cancellare il Porcellum, mettendoci la faccia. Lorenza ha coordinato i comitati che mi hanno sostenuto alle primarie qui nel Lazio e porterebbe in Parlamento grinta e voglia di cambiare. Per chi crede nella buona politica Bonaccorsi e Giachetti sono due buoni investimenti", conclude. Anche Sel chiama al voto i suoi elettori per scegliere i parlamentari e, a differenza dei democrat che chiuderanno le liste l'8 gennaio, Nichi Vendola ha già annunciato i 23 nomi del listino, tra i quali la portavoce dell'Alto commissario Onu Laura Boldrini. Impegnarsi è un dovere di tutti e altrettanto doveroso è occuparsi di politica", ha detto Renzo Ulivieri, presidente dell'Associazione italiana allenatori di calcio ma anche segretario del circolo di Sel di San Miniato, in provincia di Pisa, oltre che candidato alle primarie del partito. Sono i trenta-quarantenni i vincitori delle primarie del Pd in Lombardia, secondo i primi dati. Oltre a Veronica Tentori, ventisettenne che ha vinto a Lecco, appaiono ai primi posti nelle rispettive province Pippo Civati, (37 anni) a Monza, Alan Ferrari (37) a Pavia e Chiara Braga (33) a Como. La quarantottenne Elena Carnevali risulta in vantaggio a Bergamo dove sembra lontana un'affermazione di Giorgio Gori. Si conferma bassa a Torino e in Provincia l'affluenza alle primarie del Pd. Manca ancora il dato ufficiale ma in via Masserano, sede torinese del partito dove stanno confluendo i primi dati dello spoglio, si parla di circa 20mila votanti contro gli oltre 100mila dello scorso 25 novembre. Ancora parzialissimi i dati relativi alle preferenze ottenute dai 20 candidati in lizza nel capoluogo piemontese. Ottengono preferenze quasi in tutti i seggi l'ex ministro Cesare Damiano, la segretaria provinciale del partito Paola Bragantini e il consigliere regionale Stefano Lepri. Bene, a sorpresa, anche Francesca Bonomo, 28 anni, la più giovane candidata alle primarie per la scelta dei candidati al Parlamento. Rosy Bindi supera lo scoglio delle primarie in provincia di Reggio Calabria. Lo spoglio non é stato ancora ultimato ed i risultati sono parziali, ma secondo quanto riferito da ambienti del Pd, la presidente del Partito supera le primarie insieme al consigliere regionale Demetrio Battaglia. In provincia di Cosenza, invece, tra i candidati uomini si delinea una battaglia a tre tra il deputato uscente Franco Laratta, il sindaco di Diamante, Ernesto Magorno e Bruno Villella. Non ce l'avrebbe fatta, invece, il consigliere regionale Mario Maiolo. Tra le donne, invece, si delinea la vittoria di Enza Bruno Bossio, componente la direzione nazionale, e Stefania Covello. Nel vibonese, infine, dovrebbe spuntarla il consigliere regionale Bruno Censore. Il commissario regionale del Pd della Calabria Alfredo D'Attorre è il candidato che, secondo i dati ufficiosi forniti dal partito, ha ottenuto il maggior numero di consensi nelle primarie in provincia di Catanzaro. D'Attorre ha avuto 6.310 voti sui 9.615 votanti complessivi. La deputata uscente Doris Lo Moro ne ha ottenuti 4.446. Gli altri candidati hanno ottenuto questi voti: Arturo Bova 2.743; Ciara Macrì 2.926; Fernanda Gigliotti 1.051; Vittoria Butera 809. Pier Ferdinando Casini pianta paletti rivendicando ruolo e identità dell'Udc; Corrado Passera, deluso dall'assenza di una lista unica alla Camera e dal mancato riconoscimento del suo ruolo, fa un passo indietro; Mario Monti affila le armi di una campagna elettorale che vuole combattere in Tv e su Internet, con l'obiettivo di fare della 'sua' lista elettorale civica la gamba più solida della coalizione in modo da dimostrare, anche ai partiti alleati, che non sarà solo la "guida" dello schieramento, ma anche leader politico con maggiori consensi. La lista unica sarebbe stato un elemento di innovazione politica molto chiaro verso gli elettori. E Corrado Passera, si sottolinea in ambienti del nuovo polo centrista, lo ha sottolineato ieri durante il vertice con Mario Monti. Il ministro dello Sviluppo, quando si è deciso che non ci sarebbe stata una lista unica ha quindi annunciato, davanti a tutti, il suo passo indietro, e cioè che non si sarebbe candidato. Un passaggio 'incorniciato', si rileva ancora, in un un dibattito di alto livello su come impostare il lavoro ma mai con toni di scontro. Tutto è stato chiarito in maniera lineare e trasparente. D'altra parte, si spiega ancora nei medesimi ambienti, è cosa nota che anche nei giorni scorsi Passera aveva lavorato con l'obiettivo di questa lista unica e ha confermato questa sua forte convinzione anche ieri sera. "Sono convinto che la situazione dell'Italia migliorerà, se tutti lavoriamo a questo scopo". Così il premier dimissionario Mario Monti, ha risposto brevemente ai cronisti a Venezia, dove è in visita privata. In compagnia dei familiari il professore ha visitato il campanile di San Marco. "Spero che il 2013 sia come questa stupenda giornata di Venezia" ha aggiunto Monti ai cronisti, riferendosi al sole che sta baciando la città. All'uscita dal campanile è iniziata per i turisti la caccia alle foto e ai video dell'ex premier e dei familiari. Vacanzieri e veneziani in Piazza San Marco erano tutti con i cellulari pronti allo scatto. Il professore ha stretto mani, ha salutato con il sorriso alcune delle persone più vicine a lui e quindi, accompagnato dalla scorta, ha attraversato la piazza per salire alle Procuratie Napoleoniche dove è in corso una mostra dedicata al Guardi. "I candidati dell'Udc li sceglierà l'Udc, così come Italia Futura e Fli sceglieranno i propri. " A Bondi spetterà un "vaglio" di quello che decideranno i partiti. Pier Ferdinando Casini lo spiega nel corso di una conferenza stampa a Roma. "Noi ci sottoporremo al vaglio di Bondi sulla base dei criteri che saranno stabiliti dal presidente del Consiglio e saremo ben lieti di farlo". "Sono contento che si sia realizzata questa iniziativa e che si stabiliscano dei criteri non solo di carattere giuridico e giudiziario, ma che si ponga anche il tema del rinnovamento, della selezione e del ricambio della classe dirigente", ha insistito. Rispetto alle voci di una possibile mancata ricandidatura di Lorenzo Cesa e Rocco Buttiglione, Casini ha chiarito: "Cesa e Buttiglione sono segretario e presidente del mio partito, bisognerà chiedere a loro se candidano me". ''La nostra iniziativa non nasce a supporto o come alleanza predeterminata con il Pd. Certo se fossi Berlusconi direi la stessa cosa ma da parte nostra c'e' una vocazione maggioritaria e la ricerca di questa'', aggiunge. Una grande delusione, prenderà pochi voti'. Berlusconi parla così di Mario Monti il giorno dopo l'annuncio dell'ingresso in politica alla testa delle liste centriste. Il Cavaliere, che torna a Milano in treno da Roma con la fidanzata Francesca Pascale, annuncia che, se vincerà le elezioni, proporrà una commissione d'inchiesta suglia atti del governo dei tecnici. Monti, intanto, è a Venezia con la famiglia per qualche giorno di vacanza in una pensione a tre stelle. 'Se tutti lavoriamo uniti, la situazione dell'Italia migliorerà', dice. Pensando a Mario Monti "mi viene in mente quel fumetto in cui c'é il mago cattivo Gargamella, che vuole prendere i puffi e trasformarli in oro: noi siamo i puffi, lui Gargamella che ha anche un'altra caratteristica, è sfigato" perché non li cattura mai. In questi termini il segretario della Lega Roberto Maroni ha parlato del presidente del Consiglio e del suo impegno in politica, alla 'Berghem Frecc'. Maroni ha detto che "chi è con Monti non potrà essere alleato della Lega". Il leader della Lega ha crticato di nuovo Monti: "Monti + Casini + Fini = il 'nuovo' che puzza di stravecchio. PRIMA IL NORD", ha scritto su Twitter. Le prossime elezioni? Una competizione fra programmi, interessi sociali, leader. Come sempre, del resto. Ma stavolta c'è una novità, scrive Aimi sul Corsera, anche se fin qui non ci abbiamo fatto caso. Perché nell'urna si misureranno non soltanto linee politiche, bensì modelli di democrazia. E i modelli in gara sono almeno cinque, quanti le dita d'una mano. Certo, la democrazia risponde pur sempre a un unico criterio: è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Però se il voto rappresenta lo strumento di legittimazione del potere, le tonalità di quest'appello al voto esprimono altrettante concezioni del potere legittimo. E adesso tali concezioni s'elidono a vicenda, come i cinque protagonisti sulla scena. Primo: Bersani. Vanta un'investitura iperdemocratica, perché è l'unico leader scelto attraverso le primarie. Anche le primarie, tuttavia, possono declinarsi in varia guisa. Se sono troppo chiuse s'espongono alla critica formulata nel 1953 da Duverger, dato che il loro esito verrà orientato giocoforza dalla burocrazia interna del partito. Nel caso di specie il Pd ha alzato gli steccati per evitare inquinamenti, e il timore non era campato per aria. Però al secondo turno è stato respinto il 92% delle richieste d'iscrizione. Dunque Bersani è portavoce d'un modello di democrazia innervata dai partiti, che in qualche modo fa coincidere i partiti con le stesse istituzioni. Secondo: Berlusconi. Quando ha aperto bocca, l'estenuante discussione sulle primarie del Pdl è subito caduta nel silenzio. Perché in lui s'incarna il potere carismatico, nel senso indicato da Max Weber. Quindi un rapporto diretto fra il leader e i suoi elettori, che scavalca il partito e offusca qualunque altro potere dello Stato. Da qui una lettura verticistica del principio di sovranità popolare. Da qui, in breve, la metamorfosi di ogni elezione in referendum: o con me o contro di me. Terzo: Monti. Un professore prestato alla politica, che fa politica senza dismettere la toga. Anzi: è proprio quell'abito a riassumerne l'offerta elettorale. Un'offerta che perciò riecheggia un modello di governo aristocratico: i re-filosofi di cui parlò Platone, gli ottimati dei comuni medievali. Però tale modello può anche convertirsi nel suo opposto. La legittimazione attraverso le competenze significa difatti il rifiuto della politica come professione, significa insomma che ciascun cittadino può ambire al governo della polis. Quarto: Grillo. Lui le primarie le ha convocate in Rete, e d'altronde per il suo movimento il web costituisce pressoché l'unico canale di mobilitazione, di comunicazione, di elaborazione. Si chiama democrazia digitale, definizione coniata fin dagli anni Ottanta, quando a Santa Monica fu battezzato il primo esperimento. Ora con Grillo approda anche in Italia; ma resta da vedere come si concili la vena anarchica del web con la vena autoritaria del suo apostolo. Quinto: Ingroia. E insieme a lui Di Pietro e De Magistris, ex magistrati entrambi. Più che un partito giustizialista, un partito giudiziario. La sua cifra democratica? Potremmo definirlo il governo dei custodi. D'altronde anche negli Usa i giudici sono eletti dal popolo. Siccome però siamo in Italia, applichiamo un criterio rovesciato: qui gli eletti sono giudici. Domenica scorsa, davanti ad un'affollata platea della Federazione della stampa, scrive Scalfari su Repubblica, Mario Monti aveva parlato da uomo di Stato tracciando le linee maestre d'un programma (o agenda che dir si voglia) per completare l'uscita dall'emergenza e proiettare il Paese verso il futuro dell'Italia e dell'Europa. Aveva ripetuto un punto di fondo che già conoscevo e avevo scritto riferendo una conversazione avuta con lui il giorno prima: "Dobbiamo riformare la pubblica amministrazione per adeguarla alla società globale e dobbiamo costruire lo Stato federale europeo. Si tratta di compiti estremamente impegnativi, pieni di futuro e di speranze e per condurli a termine è necessaria una grande alleanza di forze sociali e politiche che accettino questo programma". E poi l'agenda delle cose concrete da fare: completare la legge contro la corruzione, portare avanti le liberalizzazioni, ripristinare il reato di falso in bilancio, varare una legge che risolva il conflitto d'interesse. E soprattutto, mantenere gli impegni assunti con l'Europa, stabilizzare il rigore dei conti pubblici e avviare la seconda parte di quegli impegni, la crescita economica, il lavoro, l'equità, il taglio delle spese correnti, l'alleggerimento delle imposte sul lavoro e sulle imprese, la produttività e la competitività, l'abolizione delle Province, il ruolo delle donne, il tasso demografico. "Fate più bambini" aveva concluso. Quanto a lui, avrebbe atteso di vedere quali forze sociali e politiche avessero fatto propria la sua agenda. Se gli avessero chiesto di dare il suo contributo alla realizzazione di quel programma, era pronto ad assumerne la responsabilità. Un bellissimo discorso, di chi opera nel presente guardando al futuro, all'insegna di uno slogan che era molto più di uno spot: il cambiamento contro la conservazione. Ma appena due giorni dopo aveva già iniziato colloqui riservati con l'associazione di Montezemolo e con i centristi di Casini e di Fini, avendo come consiglieri i suoi ministri Riccardi e Passera; poi aveva incontrato il giuslavorista Ichino in rapido transito dal Pd alla montiana coalizione centrista; i dissidenti del Pdl guidati da Mauro, mentre cresceva il numero dei ministri del suo governo interessati a proseguire con lui l'esperienza iniziata un anno fa. Intanto fioccavano gli "endorsement" da quasi tutte le cancellerie europee e americane ed uno decisivo da ogni punto di vista del Vaticano, proveniente dai cardinali Bertone e Bagnasco e dall'"Osservatore Romano". La Chiesa, o almeno la sua gerarchia, lo vorrebbe alla guida dell'Italia per i prossimi cinque anni. Quindi centrismo e una spolverata cattolica. Era salito in politica domenica ma già da martedì stava scendendo per mettersi alla testa di una parte. Si era alzato dalla panchina dove, secondo l'opinione del Capo dello Stato, avrebbe dovuto restare fino a dopo le elezioni, pronto a dare soltanto allora, a chi glielo chiedesse avendone acquisito il titolo elettorale, il contributo della sua competenza e della sua autorevolezza. Invece non è stato così. Restano naturalmente da definire ancora parecchie questioni: "Per l'agenda Monti" oppure "Per Monti" o addirittura "Monti presidente"? Su questi punti si discute ancora ma si tratta di dettagli. Intanto il commissario Bondi che finora si era dedicato con efficacia alla revisione della "spending review" si sarebbe impegnato al controllo delle nuove candidature per quanto riguarda i redditi, il patrimonio e gli eventuali conflitti di interesse. Con il fronte berlusconiano la rottura politica è stata completa e definitiva. Questo è un fatto certamente positivo. Bersani è definito invece affidabile ma la Camusso e Vendola sono considerati più o meno bolscevichi. Casini e Fini sono appendici interessanti ma ovviamente subalterne, aderiscono ma è lui a dettare le condizioni. Benissimo il Vaticano purché senza ingerenze. Ovviamente. Del resto il Vaticano non ne ha mai fatte, neppure ai tempi di Fanfani, di Moro, di Andreotti. Ha sempre e soltanto suggerito su questioni concrete e specifiche. La prassi è sempre stata la buona accoglienza del suggerimento. Con Berlusconi poi non ci fu nemmeno bisogno di suggerire: lui giocava d'anticipo. Gli bastava un monosillabo o addirittura un mugolio, tradotto da Gianni Letta. Perciò adesso si sente tradito e forse tra poco si dichiarerà anticlericale. Da venerdì scorso comunque Mario Monti è a capo della coalizione centrista. La panchina è vuota, perfino i palazzi del governo sono semivuoti, eppure nei 60 giorni che mancano alle elezioni ce ne sarebbero di cose da fare, di provvedimenti già approvati ma privi di regolamentazione, di pratiche da portare avanti, per quanto mi risulta in ufficio c'è rimasto soltanto Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale. Lui ha idee di sinistra, quella buona per capirci, non quella di Ingroia dove si parla solo della rivoluzione guidata dalle Procure e dell'agenda di Marco Travaglio. Perfino il commissario Bondi ha smesso di occuparsi di "spending review" per il nuovo compito sulla formazione delle liste. Lo fa nel tempo libero o in quello d'ufficio? Ecco una domanda alla quale si vorrebbe una risposta. Sono andato a controllare l'agenda Bersani. Sì, c'è anche un'agenda Bersani che senza strepito è da tempo disponibile a chi vuole conoscere i programmi dei partiti. Ce ne sono pochi in giro di partiti che non siano proprietà d'una sola persona. Anzi non ce ne è nessuno tranne il Pd. Dispiace, ma questa è la pura realtà. L'agenda Bersani dice questo: 1. Mantenere gli impegni presi con l'Europa in tema di rigore dei conti pubblici e di pareggio del bilancio. 2. Tagliare la spesa corrente negli sprechi ma anche nelle destinazioni non prioritarie. 3. Destinare il denaro recuperato per diminuire il cuneo fiscale e le imposte sui lavoratori e sulle imprese. 4. Aumentare la lotta all'evasione e la tracciabilità necessaria. 5. Completare la legge sulla corruzione (il testo è già stato presentato in Parlamento). 6. Ripristinare il falso in bilancio. 7. Varare una legge sui conflitti di interesse e sull'ineleggibilità. 8. Adempiere agli obblighi assunti con l'Europa anche per quanto riguarda equità, occupazione, sviluppo, ancora fermi al palo. 9. Destinare le risorse disponibili alla scuola e alla ricerca, come proposto dal bolscevico Nichi Vendola e già realizzato in Francia da Hollande (che però bolscevico non è). 10. Cambiare il welfare esistente e non più idoneo con un welfare moderno e comprensivo di salario sociale minimo per i disoccupati. 11. Tagliare drasticamente i costi della politica, le Province, la burocrazia delle Regioni, privilegiando i Comuni e avviando i lavori pubblici territoriali finanziandoli con i fondi derivanti dal ricavato dell'Imu. 12. Diminuire il numero dei parlamentari come si doveva fare in questa legislatura e non si fece per l'opposizione del Pdl. 13. Rifare la legge elettorale basandola su collegi uninominali a doppio turno. **** Tra l'agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze, anzi non ne vedo quasi nessuna salvo forse alcune diverse priorità e un diverso approccio alla ridistribuzione del reddito e alle regole d'ingresso e di permanenza nel lavoro dei precari. E salvo che l'agenda Bersani è stata formulata prima di quella Monti e in alcune parti avrebbe potuto utilizzarla anche l'attuale governo se avesse posto la fiducia su quei provvedimenti. Conclusione: non esiste né un'agenda Bersani né un agenda Monti. Esiste un'agenda Italia che dovrebbe essere valida per tutte le forze responsabili e democratiche. Non è certo l'agenda di Berlusconi, né di Grillo, né della Lega, né di Ingroia. L'agenda Italia - è utile ricordarlo - è un tassello dell'agenda Europa ed è realizzabile soltanto nel quadro di un'Europa federata che tutti dobbiamo avere a cuore e costruire. Chi voterà l'agenda Italia può affidarne la guida a forze liberal-moderate o a forze liberal-socialiste. Vinca il migliore ma nomini vicepresidente del Consiglio Roberto Benigni con delega alla Costituzione. Scrivetelo nelle vostre agende, sarebbe una magnifica innovazione. Una nuova Democrazia cristiana no, per favore. Noi vecchi (parlo per la mia generazione) abbiamo già dato. Quanto ai giovani, non è più l'epoca delle Madonne pellegrine. Giusto. E' una delle poche volte che mi trovo d'accordo con Scalfari. *** Si delineano gli schieramenti. Monti? "Una delusione", ma nessuna "preoccupazione": da "capo dei tecnici si è trasformato in vice capo di Casini": così Silvio Berlusconi al Tg5. Per il Cavaliere Monti si è unito ad una "anomala armata Brancaleone che fa da ruota di scorta alla sinistra". "Un accordo con la Lega non può che essere globale, locale e nazionale, altrimenti non c'è nessuna ragione di sostenere un candidato leghista in Lombardia. Non è una ritorsione è una conseguenza politica", ha aggiunto Berlusconi. Il Cavaliere si è detto però "ottimista: la ragione prevarrà". Berlusconi conferma che il primo atto del suo governo, in caso di vittoria elettorale, sarà l'eliminazione dell'Imu sulla prima casa: "Abbiamo già predisposto il ddl - ha detto il cavaliere al Tg5 - è lo vareremo nella prima seduta del consiglio dei ministri". "Per noi la casa è sacra - ha sottolineato - è il pilastro su cui goni famiglia ha il diritto di costruire il suo futuro". "Sono molto ottimista - ha proseguito Berlusconi al Tg5 - l'accorso con la Lega è nei fatti: è un vantaggio per entrambi e la Lega lo sa. Gli elettori leghisti e i nostri vogliono le stesse cose: meno tasse, più sicurezza, una maggiore stretta sulla immigrazione". "Io mi presenterò come leader della coalizione di centrodestra, Monti come leader della coalizione di centro, Bersani per la sinistra e poi si vedrà. I partiti sceglieranno il presidente del Consiglio e della Repubblica. Io sono convinto che con la Lega si troverà l'accordo": così ha detto Berlusconi ai microfoni di Radio Lombardia Pier Luigi Bersani lancia la sua sfida a Mario Monti. "Io non faccio polemica, sono molto rispettoso, ho rapporti ottimi con Monti. Adesso ha scelto di essere una parte politica e quindi io pongo delle domande politiche: perché quando si va davanti agli elettori ci vuole chiarezza". E' il messaggio lanciato in mattinata al premier dal leader del centrosinistra, che ha così risposto ad una domanda dei giornalisti, al seggio delle primarie per la scelta dei parlamentari a Piacenza. In merito all'impegno politico di Mario Monti "ho obiettato anche attorno all'esigenza di essere molto rigorosi nella distinzione tra politica ed istituzioni. Poi arriveremo al merito, per sapere cosa pensa dei diritti civili, cosa pensa degli esodati". "Di Pietro ha fatto le sue scelte, ora tocca a noi indicare la strada". Così il leader del Pd risponde a chi gli chiede se l'impegno in prima persona di Monti possa essere preludio di un riavvicinamento con Di Pietro e l'Idv. "Pongo a Monti delle domande politiche: vuol mettersi in Europa nello stesso posto dove è Berlusconi o dove altro? Monti e il centro pensano che il bipolarismo non vada bene, vogliono smontarlo? E se non vogliono smontarlo da che parte si mettono?", afferma Bersani. "Io ho molta stima e rispetto di Bondi, ma sta facendo un altro mestiere, non può farne un altro". Così Bersani commenta il ruolo politico assunto nell'ambito della lista Monti dal commissario della 'spending review' Enrico Bondi. "Non mi aspettavo uno scenario simile, non possiamo di nuovo affidarci a leader solitari. Monti deve dirci con chi sta, quali scelte intende fare, cosa pensa sui diritti civili. Non bastano un'agenda e un simbolo", dice inoltre Bersani in un colloquio con Repubblica. La difficile situazione del Paese, aggiunge, "si può affrontare solo se le forze progressiste e di centro possono collaborare", perché in questa fase "non si governa con il 51%). "Questa cosa del centro - osserva Bersani - nasce nel chiuso di una stanza...é una cosa che parte già vecchia, superata. Ricorda riti superati". E "vedo il rischio - dice - che ci si affidi ancora a criteri che hanno già portato al fallimento". Invece è con le primarie, che il centrosinistra sta svolgendo in queste ore per la scelta delle liste, che "si combatte il degrado della politica". "Quando Piero Grasso, procuratore nazionale Antimafia, si candida con il Pd risponde a 'un imperativo morale'. Quando Enrico Bondi accetta di contribuire a un lavoro di accertamento sulla trasparenza delle candidature commette 'un vulnus istituzionale'. No, caro Pier Luigi, questa doppia morale non mi convince e mi induce a più amare riflessioni: il Pd non vuole un'area centrista competitiva e scomoda perché preferisce il vecchio ed eterno scontro con Berlusconi, diventato avversario di comodo". Lo afferma il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, rispondendo al segretario democratico. "In realtà le parole di Bersani confermano che siamo sulla strada giusta. Le persone e le situazioni non possono essere valutate diversamente, secondo le convenienze politiche", aggiunge Casini. Massimo Mucchetti editorialista del Corriere della Sera ha accettato la proposta del segretario Pier Luigi Bersani di candidarsi nelle liste del Partito democratico. "Sono contento e orgoglioso, commenta il leader del Pd, della risposta positiva di Mucchetti. La sua indipendenza e la sua competenza indiscutibili rafforzeranno la nostra iniziativa sui temi cruciali che riguardano l'economia reale. Lo ringrazio davvero per la disponibilità che ha avuto nel mettersi al servizio del paese". "Anche chi ci ha sempre creduto non può non rimanere ancora una volta colpito dalla partecipazione straordinaria alle primarie. In pieno periodo natalizio e in condizioni organizzative estreme, alle 18 di oggi si è già superato il milione di partecipanti", ha detto il segretario del Pd Pierluigi Bersani che parla di una "esperienza senza precedenti nella storia politica nazionale ed europea"."Anche chi ci ha sempre creduto - dice Bersani - non può non rimanere ancora una volta colpito dalla partecipazione straordinaria alle primarie. In pieno periodo natalizio e in condizioni organizzative estreme, alle 18.00 di oggi si è già superato il milione di partecipanti". "Si delinea dunque - aggiunge - un risultato definitivo di un'affluenza ai seggi largamente superiore alle nostre stesse aspettative. Questa esperienza del Pd, che non ha precedenti nella storia politica nazionale ed europea, dovrà far riflettere sugli enormi spazi che ci sono per una riforma della politica. Una riforma che parta dal basso e dalla partecipazione dei cittadini e degli elettori" Primi verdetti intanto per le primarie del Pd per la scelta dei candidati al Parlamento. Ce la fa la presidente del partito Rosy Bindi, che ha vinto la sfida a Reggio Calabria. Rischia invece di restare fuori Giorgio Gori, spin doctor della campagna di Matteo Renzi, che è solo quarto a Bergamo. In quasi 1500, tra big e peones, puntano al voto degli elettori per entrare nelle liste del Pd in una sfida "ai limiti dell'impossibile", come lo stesso Pier Luigi Bersani ha ammesso per lo sforzo di volontari e aspiranti onorevoli. "Chi perde non sarà recuperato nel listino" assicura il Pd per smorzare tensioni e malumori della vigilia. Si è votato ieri in nove regioni (Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna). Oggi tocca ad altre 11. In totale 6 mila seggi con 50 mila volontari a gestirli. In flessione i votanti, secondo i primi dati, rispetto alle primarie per la premiership del centrosinistra. Ma il segretario Pier Luigi Bersani, che vota in mattinata a Piacenza, si mostra ottimista. "Dai dati che stanno arrivando sulle primarie per la scelta dei parlamentari del Pd vedo delle cose francamente impressionanti: di questo passo arriveremo sicuramente a un milione di partecipanti e questo la dice lunga sulla volontà di militanti ed elettori di partecipare". "E' giusto che chi ha macinato lavoro abbia anche risultati: vedrete quanti giovani sbucano". Bersani commenta così i primi risultati delle primarie che hanno visto, fra gli altri, le affermazioni di alcuni veterani come Rosy Bindi, Cesare Damiano e Barbara Pollastrini. "Ma basta vedere una certa Angelica di Salerno - osserva - una ragazza di un piccolo comune che ha preso 9mila voti: la gente ha buon senso, non fa un fatto puramente anagrafico, ma se può incoraggiare una donna o un giovane lo fa sempre e i risultati diranno questo. Naturalmente chi ha lavorato ha avuto il suo premio, però se lo è andato a cercare". Glissa, invece, sulla probabile esclusione di Giorgio Gori, uno dei fedelissimi di Renzi, indietro nel suo collegio di Bergamo. "Non conosco - dice - le dinamiche ed il radicamento che ognuno ha sul territorio, bisognerebbe andarlo a chiedere a Bergamo: io voto il mio deputato a Piacenza". "Vado a votare alle primarie parlamentari del Pd e faccio un grande in bocca al lupo a tutti i candidati che si sono messi in gioco". Così il sindaco di Firenze Matteo Renzi conferma che sta recandosi al seggio per votare alle primarie del Partito Democratico. Anche Sel chiama al voto i suoi elettori per scegliere i parlamentari e, a differenza dei democrat che chiuderanno le liste l'8 gennaio, Nichi Vendola ha già annunciato i 23 nomi del listino, tra i quali la portavoce dell'Alto commissario Onu Laura Boldrini. Impegnarsi è un dovere di tutti e altrettanto doveroso è occuparsi di politica", ha detto Renzo Ulivieri, presidente dell'Associazione italiana allenatori di calcio ma anche segretario del circolo di Sel di San Miniato, in provincia di Pisa, oltre che candidato alle primarie del partito. E' una donna la più votata in assoluto nelle primarie del Pd in Lombardia per scegliere i candidati parlamentari: si tratta della trentunenne bresciana Miriam Cominelli che ha incassato nella sua provincia 6413 voti su 14.591 votanti, cioé il 43,9%. Solo quarto a Bergamo è arrivato invece il renziano Giorgio Gori. Su Twitter nella serata di sabato Gori ha scritto: "2500 voti. Sapremo più avanti se bastano per andare a Roma. Intanto però grazie, davvero, a chi mi ha dato fiducia e a chi si è speso per me". Se invece del numero dei voti, si guarda però la percentuale delle preferenze i vincitori assoluti sono il sindaco uscente di Lodi Lorenzo Guerini con il 66,4% (cioé 1.974 voti su 2.971) e il consigliere regionale Giuseppe Civati che a Monza su 8.678 votanti ha incassato 5.503 voti cioé la percentuale 'bulgara' del 63,4. Sono stati in tutto 107.155 i votanti nel 956 seggi della regione. Un numero che ha soddisfatto il partito considerando la data durante le vacanze e soprattutto il fatto che si tratta del quarto turno di primarie nel giro di un mese. Come a Brescia (dove secondo si è classificato l'ex sindaco Paolo Corsini) anche a Milano la più votata è una donna: l'ex ministro Barbara Pollastrini (4.527 preferenze su 33.815 votanti) seguita la trentenne Lia Quartapelle (4.344). E' al terzo posto il primo uomo, il capogruppo in provincia Matteo Mauri, seguito dal consigliere regionale Franco Mirabelli, dal deputato Emanuele Fiano e dal coordinatore milanese Francesco Laforgia. Testa a testa per il primo posto a Cremona: la senatrice Cinzia Fontana ha ottenuto 2151 voti, solo 20 più del deputato Luciano Pizzetti. A Lecco prima è stata la ventisettenne Veronica Tentori, a Como un'altra donna, la trentatreenne Chiara Braga. A Varese primo si è classificato invece il deputato uscente Franco Mirabelli, a Sondrio Mauro Del Barba, a Bergamo la capogruppo in Comune Elena Carnevali. Solo quarto Giorgio Gori. La presidente del Pd Rosi Bindi supera le primarie in provincia di Reggio Calabria e si conquista un posto tra i candidati alle prossime elezioni politiche. Già nel corso della notte, a scrutinio ancora in corso, il passaggio della Bindi era dato per certo è oggi è stato ufficializzato dal partito reggino. Rosi Bindi ha ottenuto 7.527 voti arrivando dietro al consigliere regionale Demetrio Battaglia che ne ha ottenuti 8.362. Seguono Consuelo Nava (1.928 voti), Cristina Commisso (1.780), Giuseppe Morabito (1.744). Elisabetta Cannizzaro (1.426), Domenico Ambrogio (193). Gli elettori sono stati 12.628. "Le primarie del Pd per la selezione dei candidati al Parlamento svoltesi nella provincia di Reggio Calabria - è scritto in una nota del partito - hanno fatto registrare, ancora una volta, una straordinaria partecipazione di cittadini, rilanciando, attraverso il confronto positivo e sereno realizzatosi tra i vari candidati, malgrado la ristrettezza dei tempi ed il periodo delle festività natalizie, un rapporto diretto con i diversi territori della provincia". E' l'ex ministro del lavoro Cesare Damiano il più votato a Torino e provincia alle primarie del Pd. Damiano ha raccolto 5.998 preferenze e si è collocato davanti al segretario provinciale del partito, Paola Bragantini, che ne ha totalizzate 4.226. Spicca l'affermazione della giovane Francesca Bonomo, 28 anni, candidata proposta dai Giovani Democratici, che con i suoi 3.829 voti ha superato figure di spicco come parlamentari uscenti e amministratori di lungo corso. Dal Pd osservano che "il risultato politicamente più rilevante è il posizionamento delle candidate, che ottengono 4 dei primi sei migliori risultati". Alle primarie hanno votato più di 23.600 elettori, pari al 26% dei votanti al ballottaggio del 2 dicembre. Nella città di Torino si sono presentate ai seggi 8.686 persone, pari al 22%. Un nuovo conteggio delle schede dei votanti alle 'parlamentarie' del Pd è in corso presso la sede provinciale del partito a Caserta. Le operazioni sono state sollecitate dai rappresentanti dei candidati visto l'esiguo numero di voti di scarto (nell'ordine di qualche centinaia) esistenti per l'ultimo posto utile, il quarto, e che vede in lotta Camilla Sgambati (quarta, ndr) ed il segretario provinciale Dario Abbate, che potrebbe però farcela per il criterio dell'alternanza di genere. Una decisione, quella del riconto, presa anche alla luce della presunta discrepanza lamentata in alcuni seggi (94 in totale quelli allestiti nel Casertano) tra il numero di votanti e il numero di schede rinvenute nelle urne; in particolare a Sant'Arpino sarebbero state trovate nell'urna appena aperta decine di schede già votate, scatenando la dura reazione dei rappresentanti dei candidati, tanto da costringere il presidente del seggio a portar via il registro dei votanti bloccando di fatto lo spoglio. Sul posto è intervenuta anche una volante della polizia di Aversa ma al momento, fanno sapere dal commissariato, la denuncia non è stata ancora formalizzata. Attualmente comunque, dovrebbe essere definita la griglia dei primi tre candidati all'elezioni politiche, ovvero il consigliere regionale Nicola Caputo, la deputata uscente Pina Picierno e l'ex consigliera Lucia Esposito mentre l'altro ex deputato Stefano Graziano è più lontano. Ingroia si candida. Grillo dice no a un'alleanza. Con il magistrato Di Pietro e De Magistris. Ma il leader dei 5 Stelle lo definisce una 'foglia di fico'dicembre, 19:47 salta direttamente al contenuto dell'articolo salta al contenuto correlato IndietroStampaInviaScrivi alla redazioneSuggerisci () Guarda le foto1 di 4 Antonio Ingroia durante la conferenza stampa di presentazione della sua lista 'Rivoluzione Civile' Antonio Ingroia scioglie la riserva. Si candida a premier alla testa della lista arancione per la 'rivoluzione civile' con il suo nome nel simbolo e al fianco di Antonio Di Pietro e del sindaco di Napoli Luigi De Magistris. "Conquisteremo Palazzo Chigi e avremo milioni di consensi - dice in una conferenza stampa - perché vogliamo fare una rivoluzione pacifica dei cittadini". Bersani, aggiunge, "ha smarrito la strada della lotta alla mafia" e "ha sbagliato" a candidare l'ex capo della Dna Pietro Grasso, il quale "voleva dare un premio a Berlusconi". Ingroia e Di Pietro aprono a un'intesa con il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ma il comico chiude subito la porta, con un intervento sul suo blog, in cui definisce il magistrato di Palermo una "foglia di fico" utile a riciclare i vecchi partiti. Grillo riserva una battuta pungente anche a De Magistris e agli 'arancioni': sono "in sostanza due sindaci più i loro congiunti, una famiglia Cesaroni allargata". Di qui, la netta chiusura a Ingroia. "Ha detto - scrive Grillo - che la sua porta per il MoVimento 5 Stelle è perta. Lo ringrazio, ma, per favore, la richiuda". Ingroia decide dunque di scendere in campo. In una conferenza stampa presenta il simbolo che è dominato dal colore arancione e con il suo nome in forte evidenza al centro. Nella parte sovrastante il simbolo c'è la scritta rivoluzione civile mentre in basso ci sono le sagome in rosso di cittadini e lavoratori. Nessun simbolo dei partiti che supportano Ingroia compare nel logo. Alla conferenza stampa non erano presenti i leader di Prc, Idv, Pdci che sostengono l'iniziativa politica. Tra i presenti c'erano invece Leoluca Orlando e Luigi De Magistris. "Conquisteremo Palazzo Chigi - ha detto Ingroia - e avremo milioni di consensi perché vogliamo fare una rivoluzione pacifica dei cittadini, una rivoluzione civile". "E' stato un errore da parte di Bersani candidare Piero Grasso". E' questa l'accusa rivolta da Ingroia al leader del Pd nel corso della conferenza stampa per la presentazione della sua lista elettorale. "Nel maggio del 2012 Grasso voleva dare un premio a Berlusconi per meriti nella lotta alla mafia. E' diventato procuratore antimafia grazie ad una legge approvata sempre da Berlusconi che ha escluso la candidatura di Giancarlo Caselli. Noi, invece, con più coerenza candideremo il figlio di Pio La Torre". "Caro Bersani, così non va. La questione morale e la lotta alla mafia debbono essere le priorità dell'impegno politico", dice Ingroia al segretario del Pd. "Ma così non è. Proveremo a mettere sulle nostre spalle l'eredità che il Pd ha abbandonato. A Bersani dico che siamo pronti al confronto purché il Pd non faccia una politica di conservazione come è accaduto quando ha sostenuto il governo Monti". Ingroia ringrazia Nichi Vendola: "Con responsabilità politica si era impegnato a tenere la porta aperta verso di noi, ma ha perso le primarie e Bersani ci ha chiuso quella porta". Nel suo lungo attacco al leader del Pd Ingroia e' incorso in un lapsus quando invece di citare Bersani ha citato il nome del leader del Pdl, Silvio Berlusconi. "Siamo noi il vero voto utile per cambiare il Paese, non il Pd", sottolinea il pm palermitano. "Dobbiamo dare una sterzata seria al governo Monti che ha fatto politiche identiche a quelle di Berlusconi. Il nostro sogno è cambiare l'Italia con gli ideali di giustizia e uguaglianza". Il candidato sottolinea che una volta eletto tornerà ad occuparsi della trattativa tra mafia e politica dei primi anni 90 visto che "è stata sbarrata in sede politica la strada per la verità in un momento buio della storia italiana". "La biblica foglia di fico serviva per coprire i genitali di Adamo ed Eva scacciati dal Paradiso Terrestre. Per nascondere le loro vergogne. L'utilità della foglia di fico in politica è evidente. Una verniciatura arancione o montiana e il vecchio torna come nuovo. E' un gioco di specchi, una vecchia tecnica di marketing. Cambio il fustino, ma il contenuto è sempre lo stesso: il partito". Lo scrive Beppe Grillo sul suo blog attaccando duramente il movimento di Antonio Ingroia definito una "foglia di fico" utile a riciclare i vecchi partiti. " Chi fa la foglia di fico non sempre ne è consapevole. E' di solito una brava persona, onesta, che nel suo ruolo ha operato per il bene della società. I motivi della discesa in campo o salita in politica dei fogliafichisti appartengono talvolta alla sfera del mistero, in altri casi al desiderio di visibilità. I partiti per riciclarsi hanno un disperato bisogno di foglie di fico, cosa c'é di meglio di campioni della società civile per nascondere fallimenti ventennali, perché tutto cambi per rimanere come prima? Gratta la foglia di fico e trovi il vecchio partito, le sue logiche, i suoi affari, la sua nomenclatura. Il cambiamento deve partire dai cittadini, non c'é bisogno di leader, di aspiranti premier, ma di una partecipazione diretta alla politica con dei portavoce per applicare i programmi. E' una rivoluzione dolce, partecipata,senza leader, né persone del destino. Ingroia ha detto che la sua porta per il MoVimento 5 Stelle è aperta. Lo ringrazio, ma, per favore, la richiuda", conclude Grillo. "Candidiamo Ingroia presidente del consiglio perché ha dimostrato di avere la schiena dritta davanti ai poteri forti collusi con la mafia". Così Antonio Di Pietro, leader dell'Idv ai microfoni di TgCom24. "Grasso è quello che voleva premiare Berlusconi per la lotta alla mafia, Ingroia è quello che la lotta alla mafia l'ha fatta sul serio". In ogni caso, ha proseguito l'ex pm, "sempre meglio Grasso che Dell'Utri in Parlamento. Tuttavia Grasso si sta candidando in un partito che ha appoggiato la falsa legge anticorruzione. Da noi ci sono persone che hanno la schiena dritta che hanno fatto vera opposizione a Berlusconi e Monti". Quanto al Pd, Di Pietro sostiene che "dopo il voto si metterà con Monti. Noi che ci riconosciamo nella lista Ingroia ci opponiamo alle proposte di Berlusconi, di Monti e del Pd che lo appoggia". C'è anche un consiglio al candidato: "Ingroia deve come me passare dall'impegno della giustizia a quello della giustizia sociale". Di Pietro rilancia l'intesa con Antonio Ingroia per una "alternativà alle politiche di Mario Monti e del Pd per combattere disuguaglianze e la disoccupazione. Il leader dell'Idv, parlando a Sky, spiega il senso di questo accordo che coinvolge Ingroia, la società civile, partiti come il suo e movimenti. E si augura di poter stringere sempre di più i rapporti con Beppe Grillo e la sua formazione con l'obiettivo di invertire la tendenza di certe politiche che - dice- guardano di più agli interessi delle banche e dei poteri forti. *** C'era una volta Quota 90. Era la valutazione della lira nei confronti della sterlina. Raggiungerla, era per Mussolini una questione di onore nazionale. Quota 90 venne raggiunta e fu un disastro economico. Non vorrei che accadesse la stessa cosa con Quota Monti. "Oggi lo spread tra Btp e Bund tedeschi ha finalmente toccato i 287 punti", ha scritto Monti su Twitter. Seduta ampiamente positiva per la Borsa di Milano: l'indice Ftse Mib ha chiuso in crescita del 3,81% a 16.893 punti Il forte rialzo anche la Borsa di Atene che registra +3,67%, con l'Indice Athex a 941,26 punti. In Borsa a Milano prima seduta dell'anno di forti acquisti per le banche grazie soprattutto all'allentamento della tensione sul mercato dei titoli di Stato. I marchi del credito hanno trainato tutto il listino milanese, il migliore di giornata in Europa, con la Banca popolare dell'Emilia Romagna salita del 6,31% e Intesa SanPaolo del 5,77%. Molto bene anche Ubi (+5,36%), Mediobanca (+4,16%), Unicredit (+3,89%) e Mps (+3,54%). Nel settore finanziario balzo inoltre per Generali (+4,2%). Chiusura in netto rialzo anche per Parigi dove l'indice Cac-40 guadagna il 2,6% a 3.733,93 punti; per Francoforte con l'indice Dax che guadagna il 2,19% a 7.778,78 punti e Londra con l'indice Ftse-100 che guadagna il 2,13% a 6.023,70 punti. Archivia la seduta in forte crescita la Borsa di Madrid. L'indice Ibex 35 avanza del 3,12% a 8.422,60 punti.Il fabbisogno del settore statale nel 2012 ammonta a circa 48,5 miliardi, 15,2 miliardi in meno rispetto all'anno precedente che aveva chiuso con un fabbisogno annuo di circa 63,8 miliardi. Lo comunica il ministero dell'Economia secondo cui sul risultato ottenuto incide soprattutto l'andamento piu' favorevole degli incassi fiscali. ''Il fabbisogno annuo del settore statale del 2012 registra un miglioramento significativo rispetto all'anno precedente''. E' quanto afferma il ministero dell'Economia a commento dei dati sul 2012 (48,5 miliardi, 15,2 miliardi in meno rispetto all'anno precedente). *** Il professore ci ha preso gusto. Il presidente della repubblica Giorgio Napolitano gli ha fatto annusare l'odore del potere e il Professore è andato in deliquio come accade ad un feticista davanti ad un tanga femminile. Lo si evince dal suo comportamento da burocrate, dal suo linguaggio violento ai limiti della querela, dalla banalità delle sue osservazioni politiche, dalla piattezza delle sue idee economiche. Stop alla presenza del premier e neo leader politico Mario Monti, nella puntata di domenica 6 gennaio dell'Arena di Massimo Giletti su Rai1. A quanto si apprende, l'indicazione è arrivata oggi dall'azienda, in linea con la raccomandazione, approvata lo scorso 19 dicembre dal cda, ad escludere le presenze di ospiti politici nei giorni festivi. Via libera dalla commissione di Vigilanza sulla Rai al regolamento sulla par condicio in vista delle elezioni del 24 e 25 febbraio. Le regole sulla par condicio approvate dalla Vigilanza "viene definito in modo più preciso rispetto al passato il ruolo del premier nel caso in cui abbia una funzione politica": "il premier deve sottostare a tutte le regole della comunicazione politica come tutti gli altri". Lo spiega Vincenzo Vita (Pd) a proposito del premier uscente Monti. "Quanto più tarderemo ad approvare la delibera, tanto più la Rai si sentirà messa in un angolo rispetto al rapporto con una parte dell'azienda che cade in totale ribalteria rispetto al cda": così il presidente della commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli durante la seduta convocata per approvare la delibera sul regolamento di attuazione della par condicio per il servizio pubblico. Riferendosi ai direttori di reti e testate Rai, Zavoli ha sottolineato: "va chiarito con la Rai come mai i direttori di reti e testate decidano come formulare gli inviti", sottolineando che "c'é un atteggiamento recidivo e inquietante" e che "lo sgarro è palese e grave". Il presidente dell'organismo bicamerale ha tra l'altro ricordato la lettera da lui inviata al dg Rai Gubitosi in cui raccomandava di applicare per intanto la delibera del 2008 sulla par condicio e l'atto di indirizzo del 2003. Le parole di Zavoli sono arrivate dopo un intervento di Paolo Bonaiuti del Pdl che, riferendosi alle polemiche pre-natalizie sulla presenza di Silvio Berlusconi in tv, e ribadendo le critiche sulle ripetute presenze di Mario Monti nei programmi di informazione Rai, aveva detto: "Se tanto allarme desta l'infrazione della par condicio da parte di un singolo membro, perché non ci chiediamo come mai il rappresentante di una lista ancora senza nome va in tv nello stesso programma due volte nell'arco di 23 giorni? - e qui il riferimento è a Unomattina di oggi e di qualche settimana fa -. Ci èandato come presidente del Consiglio o come candidato?". "Così - si è chiesto Bonaiuti - non si crea una posizione di privilegio?". Sempre Bonaiuti aveva chiesto "se per andare in tv bisogna passare per il dg Gubitosi oppure per i soliti canali", intendendo i direttori di reti e testate. - "Monti è apparso stamani ad 'UnoMattina' per la seconda volta in tre settimane, per l'esattezza dall'undici dicembre scorso. Quando Berlusconi osò presentarsi allo stesso programma per la prima volta il 27 dicembre, il direttore generale della Rai chiamò in causa dirigenti e direttori che avevano osato aprire le porte all'intruso e, tutto trafelato, promise rigore e severità alla commissione di Vigilanza Rai. Evidentemente il direttore Gubitosi non è ancora tornato dalle sue vacanze e nessuno lo ha avvertito, altrimenti si sarebbe fatto sentire lui". Lo dice l'esponente del Pdl Paolo Bonaiuti, componente della commissione di Vigilanza Rai. Il presidente della commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli precisa di non aver "mai fatto riferimento al presidente del Consiglio Mario Monti nel corso della lunga seduta odierna della commissione dedicata all'approvazione del regolamento per le prossime elezioni, come possono testimoniare i numerosi deputati e senatori presenti". Si fa aspro il dibattito politico dopo il nuovo intervento in tv di Monti. Il premier uscente, tra l'altro, critica la Cgil per aver impedito al governo la via delle riforme. Camusso replica: 'Non conosce il Paese'. Ma il presidente del Consiglio ne ha anche per il Pdl: 'La linea Brunetta estrema e settaria'. E a Bersani: 'Sia piu' coraggioso, zittisca i conservatori'. Vendola gli risponde: 'Respingeremo la sua arroganza'. "Ribadisco il rispetto ma chiedo rispetto per tutto il Pd. Noi siamo un partito liberale che non chiuderà mai la bocca a nessuno". Lo dice il leader del Pd, Pier Luigi Bersani. "Credo - ha aggiunto - che il coraggio che mi si chiede io l'ho già dimostrato, non è quello di chiudere la bocca alla gente ma di farla partecipare". E sul sito Democrat gioco del silenzio in risposta al prof "Le parole del Senatore a vita Mario Monti sulla presunta dipendenza del PD dalla CGIL che, a suo dire, limiterebbe l'azione riformista del futuro Governo Bersani, ricordano i tentativi maldestri dell'ex Ministro Sacconi di dividere le forze sociali e trasformarle in elementi di disarticolazione e destabilizzazione del quadro politico", ha affermato il deputato del PD Dario Ginefra che aggiunge: "vedo che Monti si sta 'Berlusconizzando' e tutto questo non fa bene al Paese e al clima di civile confronto auspicato per queste elezioni politiche dal Presidente Napolitano. VENDOLA, RESPINGEREMO ARROGANZA MONTI - "Monti è sceso pesantemente in campo con la presunzione di chi vuole partecipare ma vuole anche sentirsi arbitro della partita e decidere chi ha vinto questa partita: l'ha vinta lui. C'é un elemento di arroganza che va respinto". Lo dice Nichi Vendola a tgcom24. Vendola accusa Monti di aver occupato la tv "con abilità berlusconiana". "Chi ha deciso di candidarsi alle elezioni dovrebbe discutere dei suoi programmi". Così il leader della Cgil, Susanna Camusso, replica alle parole del premier uscente Monti che ha suggerito al segretario del Pd Bersani di tagliare le ali estreme e silenziare i conservatori: "Trovo abbia poche proposte e molte critiche". Il governo Monti "sul piano delle politiche realizzate ha sbagliato tutto" e il premier uscente "ce l'ha con il lavoro e non ha l'idea di com'é fatto il nostro paese". La leader della Cgil, Susanna Camusso, non le manda a dire e, in un'anticipazione di una intervista rilasciata all'Espresso in edicola domani, attacca l'operato del Professore ed esprime un giudizio molto critico sulla cosiddetta agenda Monti. "Il Signor Monti - persona stimabile, per carità, e cortese - ha avuto il merito di riportare un linguaggio istituzionale: lo ritengo un grande valore. Perché poi penso che il suo governo, sul piano delle politiche realizzate, ha sbagliato tutto. Io penso che ce l'abbia con il lavoro, che lui non abbia l'idea di com'é fatto il nostro paese; né della condizione dei lavoratori e della necessità di non fare ulteriori politiche che favoriscano chi già sta bene, mentre il mondo reale dei lavoratori sta sempre peggio", spiega la Camusso, sottolineando che è stato un errore alzare l'età lavorativa e che "il grande Monti è il rappresentante" di quel modello liberista "basato sulla disuguaglianza sociale e sull'arricchimento di pochi". "Monti è un professore e i professori parlando sempre ex cathedra e non accettano di essere contraddetti. Sono lontani dalla realtà che guardano dal buco della serratura mentre hanno lo stipendio sicuro e non conoscono le difficoltà che ha un'impresa".Lo afferma Silvio Berlusconi in collegamento con Radio Radio. "Appare inconciliabile il suo ruolo di presidente del Consiglio e candidato alle elezioni. Monti si sarebbe dovuto dimettere sia da senatore a vita sia presidente del Consiglio". Lo afferma Silvio Berlusconi in un'intervista a Radio Padova. "Il nome della lista? Qualcosa tipo 'Con Monti per l'Italia". Lo dice lo stesso Mario Monti a Uno Mattina parlando della lista - unica - che sarà presentata per il Senato, mentre sul numero e sui nomi delle liste per la Camera, spiega Monti, bisognerà attendere i prossimi giorni: "dipende dall'interpretazione della legge". "Dal punto di vista economico generale l'onorevole Brunetta sta portando, con l'autorevolezza del professore e di una certa statura accademica" il Pdl su "posizioni estreme e settarie". "Dentro il Pdl - sottolinea Mario Monti - c'é molta vicinanza agli ordini professionali, ad esempio alle farmacie" e alle "lobby". Una vicinanza che in questo anno di governo, afferma il premier uscente, "ha impedito di aumentare la concorrenza". Poi Monti replica così alla definizione affibbiatagli ieri da Silvio Berlusconi: Poco credibile? "Se lo dice lui...". E aggiunge, "é volatile sulle vicende umane e politiche negli ultimi tempi". "Se il presidente Berlusconi ritiene che io sia poco credibile - ha detto Monti - vuol dire che per lui sono poco credibile, ma ci sono anche altri giudizi. E questo è il giudizio di una persona che ha dimostrato una certa volatilità di giudizio sulle vicende umane e politiche degli ultimi tempi". "Bersani dovrebbe essere coraggioso e silenziare un po' la parte conservatrice del partito": afferma il premier uscente a Unomattina facendo riferimento alle critiche che arrivano dalla sinistra del Pd alle politiche che il Professore ha messo in atto e che vorrebbe proseguire. "Tagliare le ali è una buona cosa": risponde così Monti a chi gli chiede delle possibili alleanze post voto e in particolare dell'ipotesi di un ticket con il leader del Pd. "Coloro che hanno impedito in questo anno di governo di andare più avanti sul fronte delle riforme - afferma Monti replicando a chi gli chiede cosa farebbe in caso di vittoria del centrosinistra alla Camera ma non al Senato - sono stati da una parte Cgil e Fiom, e da un punto di vista politico, Vendola e il Sel e l'onorevole Fassina". "La vera sfida sottolinea Monti - è fra chi vuole conservare strutture esistenti e chi vuole innovare un po' di più". "Spero e credo che questo sia un fenomeno non effimero e che durerà ". Lo afferma il premier Mario Monti facendo presente che lo spread "é sceso per effetto dell' accordo sul fiscal cliff e sul rientro di fiducia sull'Italia da parte dei capitali all' estero e italiani". Al traguardo che Monti si era prefissato a inizio mandato "ci siamo varie volte avvicinati ma quasi mi ero pentito di averlo indicato perché ogni volta che ci avvicinavamo poi rimbalzava in alto", ha aggiunto il premier a UnoMattina. "Spero - ha quindi concluso Monti - che non sia un fenomeno effimero e che gioverà al Paese e a chiunque governi da questa primavera". "Vorrei che ci fosse qualcosa di simile a un governo 'Monti due' per far vedere che nel mio volto non c'é la cattiveria del tassatore". Monti ha sottolineato di aver invece fatto "delle cose per il bene degli italiani". "Il soffitto del tunnel, che era molto diroccato, non è crollato su di noi italiani che lo stavamo percorrendo e la luce si è molto avvicinata e persino la Germania si sta muovendo nella direzione da noi auspicata, seppure con la sua lentezza". Monti ritorna sulla famosa battuta di Woody Allen aggiornata a suo tempo da Romano Prodi secondo il quale la luce in fondo al tunnel erano in realtà i fari di un Tir tedesco. L'economista Carlo Dell'Aringa sarà candidato nelle liste del Partito Democratico alle prossime elezioni politiche. "Sono molto contento di accettare la candidatura del PD - ha dichiarato Dell'Aringa -Condivido in tutto l'idea del Segretario Bersani di costituire una solida maggioranza, dialogante con le forze moderate di centro, necessaria per coniugare il necessario rigore del bilancio pubblico con una politica che vada maggiormente incontro alle esigenze delle famiglie, del lavoro e delle imprese". ''La presenza del Professor Dell'Aringa renderà più forte il nostro impegno sui grandi temi sociali e del lavoro. Voglio ringraziarlo davvero per la sua disponibilità". Lo dichiara il Segretario del PD e candidato del centrosinistra alle prossime elezioni, Pier Luigi Bersani, commentando l'annuncio della candidatura di Carlo Dell'Aringa nelle liste del Partito Democratico. "Lo schema politico è chiaro: l'avversario da battere è il populismo di Grillo e Berlusconi. Con Monti sarà una competizione leale. Il nostro obiettivo principale è creare lavoro e assicurare la crescita. Anche per questo abbiamo candidato il professore Carlo Dell'Aringa che sarà la nostra punta di diamante su questi temi che saranno decisivi nella prossima legislatura". Lo ha affermato Enrico Letta, vice segretario del Pd, intervenendo a Rainews24. Buone notizie per il Lingotto arrivano anche dal Brasile, si legge in una nota Ansa: il gruppo torinese ha chiuso il 2012 al primo posto del maggior mercato sudamericano, con circa 838mila immatricolazioni Fiat-Chrysler aumenta le vendite negli Usa del 10% a dicembre e chiude il 2012 con un incremento del 21% a 1,65 milioni di veicoli venduti – miglior risultato dal 2007. Buone notizie per il Lingotto arrivano anche dal Brasile: il gruppo torinese ha chiuso il 2012 al primo posto del maggior mercato sudamericano, con circa 838mila immatricolazioni (compresi i veicoli commerciali leggeri), e ha aumentato la quota di mercato dal 22 al 23,1 per cento. Vediamo i dettagli del mercato americano: nel mese di dicembre Fiat-Chrysler ha venduto negli Stati Uniti 152.367 vetture; anche questo risultato è il migliore dal 2007, e rappresenta il 33esimo mese consecutivo di vendite in rialzo anno su anno. Prosegue l'ascesa della Fiat 500: +59% a dicembre a circa 3.700 unità, mentre su base annua il volume delle vendite è più che raddoppiato (+121%) a circa 43.700 unità. La quota di mercato del gruppo negli Usa è salita l'anno scorso all'11,2% dal 10,5% del 2011. FiatChrysler ha fatto meglio nel 2012 delle rivali americane General Motors e Ford: quest'ultima ha visto le vendite crescere del 2% a dicembre e del 5% su base annua, con un consuntivo annuale di 2,17 milioni di unità; Gm ha segnato un +5% a dicembre e un +3,7% a 2,595 milioni nei dodici mesi del 2012. Intanto Fiat ha annunciato che eserciterà la sua opzione di acquisto di una seconda tranche pari al 3,3% del capitale di Chrysler detenuto dal fondo pensioni Veba. Lo ha comunicato il Lingotto a Veba. L'importo netto della quota è pari a 198 milioni di dollari.Fiat salirà così al 65,17% del capitale di Chrysler. Si sperava che la salita in politica di Mario Monti fosse, a partire dalla scelta delle parole, l'esatto contrario della discesa in campo di vent'anni fa, scrive Curzio Maltese su Repubblica. Un'azione in grado di elevare il tasso di modernità, concretezza e stile europeo nella lotta politica italiana, avvinghiata a furori ideologici d'altri tempi. Spostare insomma il centro del dibattito dall'eterno "chi" all'attuale "che cosa". La speranza per ora è vana. Il Monti leader ha riscoperto il politichese e parla con il linguaggio di un vecchio democristiano. Con in aggiunta un po' di sussiego professorale. Monti non dice che cosa bisogna fare per uscire dalla crisi, ma chi lo deve fare, ovviamente lui, e chi deve stare fuori. L'elenco è piuttosto lungo, dall'esperto di economia del Pd, Stefano Fassina, alla Cgil di Susanna Camusso, passando per Sel di Nichi Vendola. Il compito assegnato a Bersani, in vista di un'alleanza del centro con il Pd, è di "tagliare le estreme". Dev'essere una versione aggiornata del preambolo di Donat Cattin, se non che i dorotei mai avrebbero usato il termine "silenziare". Quanto alla concretezza, Mario Monti si richiama all'agenda omonima, si definisce riformista e tanto basta. Peccato che non basti affatto. Riforme e ora anche "agenda Monti" sono parole che non significano nulla. Ormai anche gli amministratori di condominio, all'atto dell'insediamento, si dichiarano riformisti. Da un ventennio il riformismo è sulla bocca di tutti i leader politici italiani, nessuno escluso, e di riforme non se n'è vista l'ombra. Non si può neppure più ascoltare la retorica del "sinistra e destra ormai non esistono più". La destra esiste eccome, nessuno lo sa meglio degli italiani che l'hanno sperimentata al governo per molti anni, con i risultati noti. Ed esiste perfino la sinistra, anche se non sembra, tanto che Monti la vuole "silenziare". Chi sostiene che destra e sinistra non esistono più di solito è di destra, ma non lo vuole ammettere. Se la salita in campo di Monti doveva servire a riciclare tutti i luoghi comuni dell'ultimo ventennio politico, il professore poteva risparmiarsela. Soprattutto poteva risparmiarla a una nazione che di luoghi comuni sta morendo. Da due decenni l'Italia politica si accapiglia su nominalismi e personalismi ridicoli, mentre il resto del mondo marcia a una velocità pazzesca e le mappe del potere e della ricchezza sono cambiate più che nel secolo precedente. Da un premier che ha saputo risollevare e modernizzare l'immagine dell'Italia all'estero non ci aspettiamo un'altra lista con nome e cognome e l'ennesima raffica di slogan senza senso, ma finalmente una visione chiara del futuro del Paese. Che cosa fare con tasse, salari, pensioni, rendite, banche, politica industriale, istruzione e ricerca. Roba vera, concreta. È tempo di scelte che possono essere, quelle sì, di destra o di sinistra. Il professor Monti dovrebbe comunicare agli elettori quali sono le sue. Altrimenti poteva rimanere sereno nel suo seggio di senatore a vita a Palazzo Madama, aspettare un'investitura al Quirinale e lasciare il compito di guidare il centro a Casini, che è un democristiano doc e a non scegliere è bravissimo anche da solo. Come testimonia del resto una lista centrista che va politicamente da Fini agli ex comunisti, socialmente dal salotto di Montezemolo alla comunità di Sant'Egidio. *** A sostegno di Mario Monti "ci sarà una Lista unica per il Senato. Per la Camera in coalizione ci saranno tre distinte liste: una della società civile senza parlamentari, una dell'Udc immagino col nome Casini, una di Fli immagino col nome Fini": lo annuncia il premier uscente in una conferenza stampa. "Con Monti per l'Italia - Scelta civica". E' il testo contenuto nel simbolo della Lista Monti per la Camera mostrato alla stampa dal presidente del Consiglio. Al Senato, dove sarà presentata una lista unica, scomparirà dal simbolo la scritta 'Scelta civica'. Il Professore annuncia inoltre severi criteri di candidabilità. E anticipa che anche per Udc e Fli verrà applicato un tetto al numero dei mandati già svolti: ci saranno "limiti legati all'attività parlamentare pregressa con un massimo di due deroghe per ciascuna lista". "I criteri di candidabilità ai quali saranno tenuti coloro che intendono partecipare e senza distinzione di lista saranno più esigenti rispetto a quelli attuali sulla candidbilità", afferma il premier. "I criteri riguarderanno condanne e processi in corso, conflitto di interesse, il codice deontologico antimafia, limiti legati all'attività parlamentare pregressa con un massimo di due deroghe per ciascuna lista (per quelle liste cui sono ammesse persone che hanno già svolto attività parlamentare)". "Sono lieto di dare atto dell'entusiastico apporto manifestato da Italia Futura, Verso la Terza Repubblica, da altre associazioni, dall'avvocato Montezemolo, da Casini, Fini, Riccardi e da tantissime espressioni della società civile e della vita politica. Segnalo come interessante e meritevole di attenzione l'interesse dimostrato da parlamentari non solo di Udc e Fli ma anche del Pdl e del Pd", sottolinea Monti. Alla fine alla Camera ci sarà dunque una lista Monti, "accompagnata" da quelle dei partiti che sostengono il ritorno del professore a Palazzo Chigi. Il premier uscente ha presentato il simbolo in una conferenza stampa organizzata dopo averne parlato in un vertice blindatissimo con Casini e Fini. Gli incontri iniziati ieri tra Mario Monti ed i rappresentati dei partiti e delle associazioni della "società civile" sono proseguiti senza sosta. Anche oggi il professore ha proseguito nel suo tentativo di sintetizzare le proposte che arrivano da una parte e dall'altra e, soprattutto, di mettere d'accordo esigenze spesso contrapposte. Lunghi incontri sui quali c'è il diktat di mantenere il massimo riserbo. "Le riunioni sono convocate ad horas. Si lavora senza sosta perché ormai il tempo stringe", spiega chi sta lavorando alle liste. Monti è pressato dalle richieste dei rappresentanti dell'associazionismo, contrari all'ingresso dei 'politici' in una lista con il suo nome. Ma vuole tener conto anche dell'insofferenza dell'Udc che teme di rimanere penalizzata dalla concorrenza alla Camera di una lista Monti. Per questo forse, ma anche per il timore che la mancanza di chiarezza sulle liste possa creare disorientamento tra gli elettori, si è scelto di presentare velocemente il simbolo con la convocazione di una conferenza stampa all'ultimo momento, fortemente voluta da ItaliaFutura. I partiti, intanto, lavorano alle proprie liste. Alla Camera Gianfranco Fini ha riunito i suoi per fare il punto: i posti disponibili sono pochi. Per il Senato sarò capolista in Lombardia, scrive Pietro Ichino su Twitter parlando della lista Monti il cui simbolo tra poco sarà presentato ufficialmente nel corso di una conferenza stampa con il premier uscente. "La competizione è fra Bersani e Monti. Poi vinca il migliore". Lo afferma il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini a Uno mattina, sottolineando come il Pdl sia in "uno stato confusionale e come Berlusconi non abbia realizzato neanche l'unità intorno a sé."Per quanto riguarda la possibilità di presentarci con diversi simboli, diverse liste o una sola lista siamo in attesa di una decisione del presidente del Consiglio ma certo c'é un problema tecnico in base al quale con il riferimento a Monti non può essere contenuto alla Camera in più di una lista". Lo afferma il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini a Uno mattina. "E' una tesi discutibile - sottolinea Casini - e si potrebbe anche presentare il nome su diverse liste ma si rischierebbe un contenzioso in tutto il processo elettorale e chi ha la responsabilità di affiancare il presidente del Consiglio" non vuole questo esito. "Noi giochiamo per vincere e non abbiamo alcun complesso di inferiorità e le polemiche concentriche da sinistra e destra sono la certificazione della novità rappresentata da Monti". E' quanto sottolinea il leader centrista Pier Ferdinando Casini, in un'intervista a Unomattina. "Tutti i riformatori, di sinistra e di destra - aggiunge - scelgono il rinnovamento" e dunque l'Agenda Monti. ''E' un successo se si vince, altrimenti è magari un'ottima affermazione ma non è un successo. Dopodiché il giorno dopo, dell'intelligenza, del prestigio e della capacità di Mario Monti questo Paese avrà sempre bisogno" "Cade il governo e cala lo spread. Ma le dimissioni di Monti non dovevano impaurire i mercati? Ô successo il contrario". Lo scrive il segretario del Pdl, Angelino Alfano su Twitter hashtag "grande imbroglio" "Io ho grande rispetto per il M5S che non è solo Grillo. La differenza tra loro e noi è che noi vogliamo costruire una alternativa, non solo sfasciare la baracca. Il nostro candidato premier è Ingroia, un magistrato che ha messo a nudo un problema gravissimo, la trattativa Stato-mafia, e adesso si sta scoprendo che ad essere sotto controllo non erano i delinquenti ma i magistrati che facevano indagini sui delinquenti e che ora compie un atto di responsabilità. Sapete forse chi è il candidato premier del M5S?". Lo chiede il leader di Idv Antonio Di Pietro in una videochat su 'La Stampa'. "Io - rileva - non sono contro il Pd ma voglio capire che ci sta a fare con il centrodestra visto che Monti non ha fatto niente di diverso rispetto a Berlusconi. Una cosa è certa: non decidono i cittadini, faranno il grande inciucio il giorno dopo", conclude, aggiungendo: "Si sono mesi d'accordo perché il premier sia Bersani e Monti presidente della Repubblica. Con una spartizione basata su un accordo sulle spalle degli elettori". *** Cinguettii di un mezzo leader. "Una legge elettorale seria. Questa non è degna di un Paese come l'Italia". Così Mario Monti su Twitter, risponde ad un utente che gli chiede quale sarà il suo primo atto in caso di ritorno a palazzo Chigi. Il premier in mattinata ha dialogato con gli elettori sul social network. "Voglio alleare la società civileE e donne e uomini in politica scelti con rigore". Risponde così Monti a una utente che gli chiede perché, volendo rappresentare il nuovo in politica, abbia deciso di allearsi con Udc e Fli. "Dialogo? Sì, con tutti, anche se avessi la maggioranza. Sostegno a governi non riformisti: NO", risponde Monti, su Twitter, alla redazione online del Tg1 che gli chiede: "Se non dovesse avere la maggioranza, è pronto al dialogo con il vincitore". "In un tweet, solo la prima: valorizzare il ruolo delle donne. Senza questo, l'Italia non crescerà". Così Monti, su Twitter, risponde ad un 'follower' che gli chiede quali siano le cinque "priorità per l'Italia". "Lo dico con modestia, ma in questo momento mi sento io stesso un po' un pioniere. Venite anche voi!", scrive tra l'altro il Professore. ''In soli 13 mesi abbiamo dimostrato quanto si potrà fare nei prossimi 5 anni'', è la prima risposta, data a un quesito di Claudia Vago che gli chiede: ''Sei sicuro che quello che hai fatto (e farai) è ridurre gli sprechi?''. Cominceremo a "pensare" e "utilizzare" il digitale "come lo strumento principale per trasparenza ed efficienza della PA", annuncia inoltre il presidente del Consiglio uscente. Per il Mezzogiorno, su ''Agenda-Monti.it'' ci sono ''proposte concrete: lavoro, lotta alla criminalità, ruolo delle donne'', afferma il Professore su Twitter, rispondendo ad un utente che gli chiede cosa intenda fare per il Sud. Salvare Grecia e Spagna e' costato ''molto. Ma sicuramente meno di quanto sarebbe costato salvare l'euro!'', aggiunge. ''A brevissimo su www.Agenda-Monti.it troverete tutte le indicazioni per aiutarci. Ne avremo bisogno''. Cosi' Monti risponde a un utente che gli chiede come poter appoggiare la sua campagna elettorale. Alla domanda se si senta più italiano o più europeo, replica: "Orgogliosamente italiano, decisamente europeo". A sostegno di Mario Monti "ci sarà una Lista unica per il Senato. Per la Camera in coalizione ci saranno tre distinte liste: una della società civile senza parlamentari, una dell'Udc immagino col nome Casini, una di Fli immagino col nome Fini". "Con Monti per l'Italia - Scelta civica", è la scritta che compare nel simbolo. Al Senato, dove sarà presentata una lista unica, scomparirà dal simbolo la scritta 'Scelta civica'. Il Professore ha annunciato inoltre severi criteri di candidatura. E anticipato che anche per Udc e Fli verrà applicato un tetto al numero dei mandati già svolti. "Monti ha scelto come compagnia i personaggi politici che io ho avuto purtroppo il dispiacere di incontrare. Gira già il nome del 'trio sciagura'". Così Silvio Berlusconi, in un forum sul Corriere.it, sugli alleanti del Professore. "Il Professor Monti guarda alla realtà dal buco della serratura, ha sempre avuto la sicurezza dello stipendio e quindi non conosce la lotta di chi lavora per lo stipendio ed è abituato da professore a parlare ai discepoli senza una contrapposizione dialogica". "Io penso che sia del tutto insensato e suicida per la Lega andare sola. Andrebbe incontro a una sconfitta sicura, e anziché uscire con l'identità rafforzata finirebbe per essere irrilevante. Soltanto alleandosi con noi Maroni avrebbe forti percentuali di vittoria. Altrimenti, se consegnassero la Regione alla sinistra, cadrebbero anche le giunte regionali di Piemonte e Veneto, e altre 100 amministrazioni del Nord dove ora governiamo assieme". E' quanto affermato da Silvio Berlusconi, in un'intervista (registrata però ieri a Palazzo Grazioli), all'emittente lombarda Espansione Tv che la manderà in onda questa sera alle 20. "Siamo in contatto spero che domenica ci sia una soluzione positiva. Non c'é nessuno mio passo indietro, ho sempre fatto la cosa più opportuna nell'interesse del paese", afferma Berlusconi sull'intesa tra Pdl e Lega per le politiche. "Frattini non si presenta perché mira ad altro, con lui resta l'amicizia...Gli altri che sono andati con Monti non hanno seguito elettorale e avranno difficoltà a trovare posto nelle liste con Casini e Fini", dice Berlusconi sui fuoriusciti del Pdl che sono passati a sostegno di Mario Monti. "Ho parlato una sola volta con Micciché e non abbiamo affrontato i problemi della lista" e "non so se Micciché, che è amico di Dell'Utri lo candiderà e comunque "sarebbe un arricchimento", perché Dell'Utri è "un galantuomo, una vittima, un perseguitato dalla Procura di Palermo, del signor Ingroia", afferma Berlusconi. "Non so perché Monti non ha accettato la mia proposta, non mi ha detto nulla, non mi ha fatto una telefonata. Monti sarebbe stato federatore dei moderati ma non necessariamente il primo ministro. Non ho mai proposto Monti come premier dei moderati". Così Berlusconi sulla sua apertura al Professore. "Non so se accetterei in futuro una nuova grande coalizione, bisogna vedere se è l'unica soluzione possibile per il Paese, ma il programma deve essere liberale. Non credo però che Monti possa avere ancora un ruolo, la sua immagine è precipitata, io non potrei collaborare", afferma il leader Pdl sugli scenari post voto. "La lettera della Bce non comportava un aumento così forte della pressione fiscale ma il pareggio di bilancio - sottolinea Berlusconi - Monti invece ha proceduto solo con l'aumento delle tasse con in più interventi negativi per l'economia come il limite dei contanti creando un'atmosfera da stato di polizia tributaria e determinando rapporti tra Equitalia e contribuenti di una violenza inaccettabile". "Fini ha una rappresentanza ininfluente, ora, alla Camera e si avvia ad avere l'1%", afferma il Cavaliere. "Non si capisce cosa abbia spinto Fini ad andarsene - ribadisce il leader Pdl - Cacciato dal Pdl? Questo non lo può dire nessuno, non c'é mai stato da parte nostra un solo atto che andasse in questa direzione". "Monti è il nemico del Nord, impedirgli di tornare al governo è un imperativo categorico per noi. Chi è contro Monti è alleato della Lega". Lo scrive su Twitter il segretario federale della Lega, Roberto Maroni. I sondaggi danno il Pd come il probabile vincitore delle elezioni, scrive Panebianco,. Però la campagna elettorale è lunga e ciò che accadde nel 2006 quando Romano Prodi, il grande favorito, vinse alla fine solo per un soffio, consiglia prudenza. Al momento, comunque, è plausibile ritenere che possa essere Pier Luigi Bersani il prossimo presidente del Consiglio. Bersani sta annunciando, da giorni, ogni giorno, le candidature, nel suo partito, di personalità di prestigio. Sarebbe utile se cominciasse anche a dare qualche informazione agli elettori sulla composizione del suo possibile governo. È vero che in campagna elettorale i partiti cercano di non scoprire troppo le carte. Ma è per lo meno lecito chiedere al favorito dai sondaggi di fare un po' di chiarezza su questo decisivo aspetto. Facciamo un esempio. Molti danno per probabile che Massimo D'Alema diventi il nuovo ministro degli Esteri. Poniamo che sia vero. D'Alema ha già ricoperto quell'incarico ed è un politico preparato e autorevole. Nulla da eccepire su questo. Ma c'è un ma. In un ambito che è strategico per la politica estera italiana, il Medio Oriente, D'Alema non ha mai fatto mistero di certe sue radicate convinzioni. Soprattutto, non ha mai fatto mistero della sua (chiamiamola eufemisticamente così) scarsa simpatia per Israele, e di una adesione alla «causa» palestinese così spinta da renderlo bene accetto anche ai gruppi più estremisti, dai palestinesi di Hamas agli sciiti di Hezbollah. Dovremo aspettarci da un eventuale governo Bersani una politica mediorientale non equidistante nel conflitto, ossia attenta agli interessi di tutti, ma nettamente sbilanciata a favore di una delle parti in causa? Politica estera a parte, molto si giocherà sul piano dell'economia e delle riforme di struttura. È facile scommettere che Bersani, da politico accorto, sceglierà un ministro dell'Economia ben accetto all'Europa e ai mercati, un tecnico di prestigio con il giusto pedigree e i giusti contatti internazionali. Se non che, la politica che più inciderà sul nostro futuro la faranno soprattutto altri ministeri, quelli che si occupano di lavoro e welfare, di istruzione, di pubblica amministrazione, di sanità. Sarebbe utile avere qualche anticipazione sui nomi di coloro che andranno ad occupare quelle poltrone. Soprattutto per capire quanto peseranno sulla politica del governo Bersani gli interessi del principale «azionista» del Pd: la Cgil. In tutti quei campi, quella del governo Bersani sarà una politica in cui non si muoverà foglia che la Cgil non voglia? Non basta qualche virtuosismo verbale per nascondere la più vistosa contraddizione con cui il Pd è entrato in questa campagna elettorale. Il gioco delle parti, e la divisione dei ruoli, fra Bersani l'europeista e Fassina l'operaista, che ha contraddistinto tutto il periodo del governo Monti, non potrà reggere ancora a lungo. Il caso del welfare è esemplare. Sappiamo tutti che è stata la politica del ministro Fornero, la riforma delle pensioni soprattutto (e anche, in parte, quella del lavoro), ciò che ha più convinto l'Europa della bontà delle ricette Monti. Ma si dà anche il caso che la politica della Fornero sia stata avversatissima dalla Cgil e dai politici (quasi tutti membri dell'entourage di Bersani) che alla Cgil fanno riferimento. Quando non ci sarà più Giorgio Napolitano a trattenere per la giacca il Pd, che fine faranno le riforme Fornero? Basterà il reclutamento di un prestigioso giuslavorista come Carlo Dell'Aringa a compensare e a neutralizzare il conservatorismo in materia di welfare e lavoro che è proprio della Cgil e dei suoi (tanti) amici del Pd? Non è forse proprio perché non ha più creduto nella possibilità di neutralizzare quel conservatorismo, ad esempio, che Pietro Ichino se ne è andato? Il ragionamento vale anche per altri ministeri ove pesano gli interessi Cgil. Per esempio, nel campo della scuola, ove la Cgil è tradizionalmente la punta di diamante del fronte conservatore contrario a qualunque forma di riqualificazione in senso meritocratico del corpo insegnante. Né risulta che il Pd abbia mai formulato, in materia scolastica, proposte in conflitto con i desiderata della Cgil. L'unica eccezione fu, molto tempo fa, Luigi Berlinguer, quando stava alla Pubblica Istruzione, e mal gliene incolse. E vale per la pubblica amministrazione, un altro ambito nel quale qualunque eventuale proposito modernizzatore si scontrerebbe subito con i veti sindacali. Il problema è reso ancor più acuto dall'(auto)ridimensionamento politico di Matteo Renzi. Dopo aver fatto sfracelli, conquistando quasi il 40 per cento dei consensi nelle primarie contro Bersani, Renzi ha scelto, per troppo tempo, di rimanere in silenzio. La notizia dell'ultima ora è che ha appena fumato il calumet della pace con Bersani. Collaborerà alla campagna elettorale. Ma forse i suoi sostenitori si aspettavano altro, si aspettavano che fosse il contraltare politico, entro il Pd, della linea Cgil/Vendola. Il suo ridimensionamento sembra privare quella linea di un solido contraltare interno. Poniamo che, dopo le elezioni, mancando la maggioranza al Senato, Bersani sia costretto a negoziare con Monti e i suoi la composizione del governo. A questi ultimi converrebbe esigere proprio quei ministeri, a cominciare dal welfare, nei quali, per chi vuole innovare, lo scontro con la Cgil è garantito. Alla fin fine, ciò converrebbe anche a Bersani. Difficilmente potrebbe durare a lungo un governo appiattito sulle posizioni sindacali. Né l'eventuale presenza di un tecnico di prestigio all'Economia riuscirebbe a nascondere per molto tempo, di fronte agli altri governi europei, l'incapacità di innovazione di coloro che staranno nelle retrovie. Esistono varie "agende" sulle quali confrontarsi e varie personalità che le hanno formulate e che concentreranno su di esse - cioè sugli obiettivi programmatici - le rispettive campagne elettorali per ottenere il consenso dei cittadini, scrive Scalfari sssu Repubblica. Confrontai anche le due agende principali, quella di Mario Monti e quella di Bersani, cioè del Pd e dei suoi alleati. Monti ha detto venerdì scorso nella trasmissione "Otto e mezzo" che non accetterebbe mai di partecipare come ministro ad un governo del quale non condividesse il 98 per cento della linea politica. I due programmi, il suo e quello di Bersani, nelle parti principali coincidono. Entrambi si dichiarano pronti a mantenere gli impegni presi con l'Europa per quanto riguarda il rigore dei conti pubblici, l'equità, la crescita economica. Questi impegni Monti li ha indicati fin dall'inizio ma non è riuscito a realizzarli tutti dovendo dare la priorità al rigore in poche settimane per evitare il crollo dell'economia italiana e il default del debito pubblico che incombevano nel novembre del 2011 quando fu chiamato dal Capo dello Stato alla guida del governo. Perciò di equità se ne è vista pochissima, di crescita non si è visto nulla, ma nell'agenda ci sono, sia in quella di Monti sia in quella di Bersani. C'è anche in tutte e due una nuova e molto più incisiva legge sulla corruzione, l'estensione altrettanto incisiva delle liberalizzazioni, una radicale revisione delle strutture burocratiche dello Stato a cominciare dalle Province e dalle Regioni. E poi c'è - più importante di tutto - un'ulteriore diminuzione della spesa corrente e delle evasioni fiscali per realizzare nuove risorse da destinare alla riduzione della pressione fiscale in favore dei lavoratori, delle imprese e delle famiglie nonché di un sistema moderno dello Stato sociale. Infine entrambi i programmi, del centro e del centrosinistra, prevedono una migliore redistribuzione territoriale e sociale del reddito e un contributo efficace alla costruzione dello Stato federale europeo attraverso graduali cessioni di sovranità nazionale. Esaminati questi due programmi si direbbe trattarsi del medesimo documento nelle sue linee fondamentali, tanto che dal canto mio scrissi che essi ben potevano esser chiamati "agenda Italia" per l'attuazione della quale un'alleanza pre o post elettorale tra il centro e il centrosinistra risultava opportuna data l'importanza ed anche la difficoltà di realizzare le finalità condivise. Naturalmente permane una differenza tra i protagonisti, le forze politiche da essi guidate e i ceti sociali di riferimento. Prima di passare all'esame di questi aspetti tutt'altro che trascurabili voglio però ricordare il messaggio con il quale la sera del 31 dicembre Giorgio Napolitano ha salutato gli italiani. È stato soprattutto un messaggio sociale. L'equità, i giovani, l'occupazione, il Mezzogiorno, l'Europa, il senso di responsabilità di ciascuno e di tutti, il rispetto dei diritti, il costo della cattiva politica, il rinnovamento della struttura burocratica: questo è stato il senso del messaggio. Vogliamo dire che esiste anche un'agenda Napolitano? Sì, esiste. Non indica gli strumenti ma evoca un sentimento, un valore, un modo di pensare e di comportarsi. Costituisce la premessa essenziale dell'agenda Italia, lo spirito con il quale dovrà essere realizzata, la passione e la fedeltà alle due patrie delle quali siamo cittadini, la patria Italia e la patria Europa. Chi andrà al Quirinale nel prossimo maggio erediterà un lascito di altissimo livello. Auguriamoci che il nuovo Parlamento sappia scegliere un successore capace di far propria quell'eredità. Non sarà una facile scelta. *** Mario Monti, in appena un anno, ha salvato l'Italia dal peggio in cui stava precipitando ed ha recuperato al Paese la credibilità internazionale che da tanti anni aveva perduto. La nascita del suo governo fu dovuta a varie circostanze e a vari protagonisti che è opportuno ricordare. Anzitutto al voto con il quale la Camera dei deputati bocciando il rendiconto di bilancio mandò in minoranza il governo Berlusconi. Uscì da quel voto una nuova maggioranza formata dal Pd, dall'Udc e da Fini. Su questa svolta parlamentare, sull'aggravarsi della situazione economica, sulla totale caduta della credibilità del governo e sulla lettera di commissariamento indirizzata a Berlusconi dalla Banca centrale europea il Cavaliere dette le dimissioni e Napolitano, dopo averlo nominato senatore a vita, incaricò Monti di formare un nuovo governo. In quel frangente il Partito democratico avrebbe potuto chiedere lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. Il Pdl era allo stato comatoso, il Terzo polo valeva al massimo il 6 per cento, Grillo ancora non esisteva o quasi. Il Pd avrebbe stravinto ma sciogliere il Parlamento in quelle condizioni avrebbe spalancato le porte all'assalto dei mercati e il debito italiano sarebbe stato preda d'una vera e propria macelleria speculativa. Prevalse il senso di responsabilità di Bersani e del gruppo dirigente del Partito democratico. Mario Monti ha cominciato la sua campagna elettorale con molta aggressività. È normale per una forza politica nuova che si batte per vincere. Ma l'azione di governo di cui porta legittimamente il vanto fu resa possibile dal Pd e il ricordo di quest'antecedente rappresenta un'omissione ingenerosa da parte di chi, utilizzando quel disco verde, si mise e mise il Paese sulla giusta strada. *** Due domeniche fa pubblicammo su queste pagine una mia lunga conversazione con l'amico Mario Monti. Ci siamo conosciuti mezzo secolo fa, non era quindi un'intervista tra un giornalista e un capo di governo ma un incontro tra vecchi amici che resi pubblico senza preavvisarlo e me ne scusai a fatto compiuto. Del resto avevo riferito esattamente quanto ci eravamo detti e lui stesso lo riconobbe. Sennonché a pochi giorni anzi a poche ore di distanza le sue scelte cambiarono: da uomo "super partes", come lo stesso Presidente della Repubblica avrebbe gradito, è diventato uomo di parte inalberando un'agenda più che accettabile ma nelle parti qualificanti identica o analoga a quella del partito con il quale compete affermando quel suo programma come il solo capace di condurre l'emergenza al suo termine e prospettare nuovi orizzonti per il futuro. Purtroppo Monti ha cominciato la campagna elettorale con la promessa di diminuire le imposte personali sui redditi minimi. Non mi pare abbia indicato la copertura di questa promessa ma soprattutto ha dimenticato che nel prossimo luglio scatterà l'aumento di un punto dell'Iva, un'imposta regressiva quant'altre mai che colpirà soprattutto i redditi dei più deboli. Se ci sarà spazio per diminuire le tasse è proprio dall'Iva che bisognerebbe cominciare. Ma non è per questo "dettaglio" che il nuovo Monti mi ha deluso. Parlo in prima persona perché per un anno sono stato tra i suoi più motivati sostenitori. Mi ha deluso e mi preoccupa molto perché la sua azione avrà come risultato inevitabile quella di rendere ingovernabile il nuovo Parlamento gettando il Paese (e l'Europa) nel caos. Vi sembra un'affermazione azzardata? È facile spiegare che purtroppo non lo è affatto ed ecco la spiegazione. 1. Pensare che le liste di Monti superino tutte le altre è estremamente illusionistico. Nei sondaggi effettuati in questi giorni è all'ultimo posto. Se gli va bene supererà Grillo; se gli va benissimo supererà Berlusconi. Per superare il centrosinistra ci vorrebbe un miracolo. È vero che il Vaticano è con lui, ma non credo che basti. 2. È tuttavia possibile che al Senato nessun partito abbia la maggioranza. Gianluigi Pellegrino ha spiegato ieri la vergogna dell'attuale legge elettorale specialmente per il Senato. 3. Superare quest'eventualità in teoria non è difficile, basterebbe un'alleanza tra centrosinistra e centro, cioè tra uno schieramento che avrebbe la maggioranza assoluta alla Camera e un altro schieramento (il centro) che non ha la maggioranza al Senato ma può renderla possibile. 4. A quali condizioni? Monti e Casini l'hanno già detto: vogliono la presidenza del Consiglio, vogliono un governo che sia il loro governo anche nell'eventualità che il centrosinistra abbia raggiunto nel complesso un consenso doppio a quello da loro ottenuto. E gli elettori? E il popolo sovrano? 5. Risultato: o il Pd accetta di pagare il pedaggio ad un nuovo Ghino di Tacco o la legislatura diventerebbe ingovernabile con le conseguenze che ciò comporterebbe sui mercati e in Europa. Ho più volte indicato a Monti l'esempio di Carlo Azeglio Ciampi che, dopo aver risollevato il Paese da una gravissima crisi economica ed aver modificato la legge elettorale, si ritirò dopo un anno di governo a vita privata e ritornò poi a dare il suo contributo al bene pubblico come ministro del Tesoro di Romano Prodi con il quale fece la più grande delle riforme del secolo portando l'Italia nella moneta comune europea. Ma potrei aggiungere l'esempio di Giuliano Amato che da presidente del Consiglio cedette d'accordo con il Presidente della Repubblica la sua carica a Ciampi dopo essersi assunto la responsabilità d'una manovra economica di proporzioni inusitate nonché la svalutazione necessaria della lira e poi, quando ne fu richiesto, fu di nuovo ministro dell'Interno, delle Riforme o tornò alla sua vita di studi e di cultura. La classe politica ha i suoi gravi difetti ma anche qualche virtù. C'è un ultimo punto che mi preme chiarire. Cambiamento, riforme, conservazione: questi secondo Monti sono gli spartiacque tra le forze politiche in campo. Detto così è molto vago. Riforme? Quali? Quelle che propone Monti le propone anche Bersani. Alcune sono state fatte e il Pd le ha votate in Parlamento. Cambiamento. Quale? Robespierre cambiò la Costituzione ereditata dagli Stati generali dell'Ottantanove. Naturalmente cambiò a suo modo. Il Direttorio che venne dopo cambiò all'incontrario. Poi arrivò Napoleone e cambiò anche lui. Per dire: la storia cambia di continuo e procede a balzelloni, non c'è un disegno divino ma la forza dei fatti e delle idee. Renzi, tanto per fare un esempio, voleva un cambiamento nel suo partito e c'è riuscito anche se ha perso le primarie. Poi ha mantenuto la parola data, non come Ichino. A me, quando faceva il rottamatore, mi sembrò troppo semplicista e rozzo nel pensare e nel dire. Adesso m'è diventato simpatico perché anch'io cambio. Anche tu, caro Mario, sei cambiato. Mi piaci molto per quello che hai fatto e che eri, mi preoccupi per quello che sei ora e riesci perfino a spaventarmi per quello che potresti fare se, non vincendo il piatto, lo vorrai *** Monti Trilaterale. Fini Msi. Casini Dc. I tre volti nuovi della politica italiana. 'Habemus papam'. Una frase che Silvio Berlusconi non usa a caso e che riassume il lungo travaglio che ha portato nella tarda notte a chiudere l'accordo la Lega. L'intesa prevede l'appoggio del Pdl alla candidatura di Roberto Maroni alla guida della Lombardia 'in cambio' del rinnovato 'patto del Nord' per le elezioni politiche. Tra le condizioni poste dai Lumbard però la rinuncia del Cavaliere a correre per palazzo Chigi restando solo il leader della coalizione. Richiesta che sulla carta non crea problemi all'ex capo del governo, ma che evidenzia però la distanza con i leghisti. Se infatti Berlusconi si affretta a lanciare Angelino Alfano come possibile premier ritagliandosi per lui "il ruolo di ministro dell'Economia", Roberto Maroni la pensa diversamente. Il segretario della Lega mette in chiaro che nell'intesa raggiunta non c'é nessun nome per la presidenza del Consiglio. E comunque a differenza dell'ex capo del governo, per il titolare dell'Interno il candidato alla premiership deve essere Giulio Tremonti: "Alfano è una persona che stimo, con cui ho lavorato e che non mi dispiace", precisa il leader leghista optando però per l'ex ministro dell'Economia. Parole, quelle di Maroni, che Berlusconi non commenta anche perché - è il ragionamento dei fedelissimi dell'ex capo del governo - Quello che interessava al Cavaliere era chiudere l'accordo con Maroni per tentare il tutto per tutto per la conquista dei seggi al Senato. Il sì ufficiale dei Lumbard consente al Popolo della Libertà di aprire ufficialmente il dossier liste. Sorprese sui nomi non dovrebbero esserci, anzi il problema sarà semmai 'tagliare' il più possibile. Nelle intenzioni dell'ex capo del governo infatti solo "il 10% dei parlamentari uscenti, ed in particolare i più giovani, saranno ricandidati". "Credo che tra Lega e Pdl sia stata fatto un accordo in base al quale chi prenderà più voti indicherà il candidato premier". Lo ha detto Giulio Tremonti che ha poi chiosato: Manderei Silvio Berlusconi al dicastero delle Attività Produttive così potrebbe dimostrare la sua capacità di imprenditore". ''Credo che per l'Italia non sia stata una buona notizia''. Lo ha detto il leader del Pd, Pierluigi Bersani a 'Otto e mezzo' su La7 parlando della lista Monti. ''Abbiamo in testa due Monti - ha aggiunto - e cioe' quello di un anno fa e quello di ora''. La sua, ha concluso, e' ''una scelta legittima, si e' messo in mischia ora accettera' che con i dovuti modi gli si faccia qualche domanda'. A questo centro che si forma - agiunge - chiedo solo chiarezza. avversari non ne ho che non siano la destra, mi rivolgo in modo amichevole ma non accetto cose che per me non sono accettabili": "Sono sempre stati insieme, è un revival abbastanza scontato e abbastanza inquietante" ha dettoBersani parlando dell'alleanza Pdl-Lega. Bersani ha detto di "escludere" che possano vincere. "La vedo - ha aggiunto - come una mossa, anche un po' disperata, per dare l'assalto alla Lombardia". Ma attacca: "fanno un accordo e non dicono nemmeno chi proporranno al presidente della Repubblica per fare il presidente del consiglio". "Noi prenderemo la maggioranza al Senato e alla Camera. Io continuerò a rivolgermi anche a forze fuori" dall'alleanza di centrosinistra perché "non siamo settari". E' "assolutamente opinabile", che il Pd abbia frenato come il Pdl su alcune riforme. "Non accetto - ha affermato - l'accusa al Pd di conservatorismo". "Noi prenderemo la maggioranza al Senato e alla Camera. Io continuerò a rivolgermi anche a forze fuori" dall'alleanza di centrosinistra perché "non siamo settari". "Il mio avversario è Berlusconi, la Lega, le curvature populiste": così Pier Luigi Bersani ha risposto a Lilli Gruber su chi fosse per lui l'avversario più temibile. "Avversari, che non siano la destra, non ne ho", ha aggiunto. Non ci saranno 'impresentabili' nelle liste del Pd per le elezioni , garantisce Bersani. "Vanno certificate - ha evidenziato - le compatibilità delle candidature sia con il codice etico del Pd sia con le regole dell'anti-corruzione". I casi 'dubbi' "li guarderemo ad uno ad uno e laddove non corrispondono a questi due documenti non ci saranno". Per il Pd ha evidenziato anche il rinvio a giudizio "rende incandidabile per una serie di reati gravi, naturalmente bisogna darsi delle regole e applicarle". Un progetto degno di un massone. il leader di Sinistra Ecologia e Libertà Nichi Vendola va al contrattacco di Mario Monti e del suo progetto di tagliare le 'ali estreme', Cgil, Fiom e Sel in testa, derubricando il disegno a "democristianeria senza Dc". L'ipotesi di un ticket Monti-Bersani é "spaventosa", afferma Vendola, che commenta così lo scenario nel quale si dovesse arrivare a un'intesa fra le forze centriste e il Pd a causa dell'esito incerto del voto. "I progressisti - dice Vendola - si candidano per vincere" e comunque il dibattito sugli scenari post voto e il rischio che il Pd e gli alleati non abbiamo la maggioranza "é comico". L'obiettivo è "salvare l'Italia e Monti e Casini in realtà propongono alla sinistra una resa". Il movimento guidato da Antonio Ingroia "non nasce nel segno di una rissa a sinistra". Lo sostiene il leader di Sel. "Io non intendo vivere questa campagna elettorale - dice - come una resa dei conti nel ceto politico". I tempi stringono. Mario Monti rientra nel pomeriggio a Roma per lavorare sulla definizione delle liste e parlarne con Pier Ferdinando Casini e Gianfranco FIni. Il professore vorrebbe presentare le liste il prima possibile, proprio per mettere a tacere indiscrezioni e 'passi in avanti'. Chi lavora alle liste vorrebbe più tempo, magari fino a giovedì per completare gli elenchi. Poi il 'vaglio' di Monti e del commissario Enrico Bondi. Il premier, confida chi gli è vicino, vorrebbe anticipare a mercoledì. Nuovo incontro ai vertici dei leader della lista Monti. Il presidente del Consiglio, a quanto si apprende, incontra stasera i leader di Udc e Fli, Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. Mario Monti non ha nel pomeriggio presieduto la riunione del Consiglio dei Ministri che è stato invece presieduto da Piero Giarda. Oggetto del vertice la messa a punto delle liste elettorali. "I sondaggi non sono i voti degli italiani" e "noi vogliamo vincere". Lo dice il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini a 'La Telefonata' rispondendo anche alla domanda di Maurizio Belpietro sulle possibili alleanze future e in particolare su quella con il Pd. "Nessun governo che abbia dei populismi o degli estremismi o che sia impregnato delle vecchie ideologie del passato può avere il nostro voto. Noi siamo per una ricetta diversa, quella anticipata in questo anno", risponde Casini. "Noi vogliamo vincere. Se non vinceremo valuteremo le subordinate. Dato che i sondaggi non sono i voti" dice Casini che ricorda: "Chiunque partecipi a una competizione elettorale con la dignità, la forza morale e le aspirazioni nostre non può rispondere a questa domanda, noi vogliamo vincere". Anche "Berlusconi da un mese dice che vince ma lo sanno tutti gli italiani che non ha nessuna possibilità di vincere. Giustamente, però, dal suo punto di vista dice che vuol vincere e noi diciamo la stessa cosa" aggiunge. "Noi ci siamo rimessi nelle mani di Monti: è lui che deciderà le liste e, insieme a noi, le persone. E questo ha un senso, perché faremo gruppi parlamentari unici". Casini sottolinea che non c'e' alcuna rivendicazioni di quote: "i giornali sono attenti al gossip ma non alla novità. Noi abbiamo preso l'impegno di fare gruppi parlamentari unici". Casini commenta poi le dichiarazioni di Passera: "Non mi piace chi sale su un predellino e fonda un partito e non mi sarebbe piaciuto chi, sprezzante di ciò che esiste, imponesse una lista unitaria che si mangiasse storie, persone. Questo avrebbe significato una nuova versione dell' uomo solo al comando. In politica non c'é l'uomo solo al comando che impone: la politica è invece una paziente ricerca di una posizione comune. Dobbiamo riunire uomini e donne in una grande ricostruzione del Paese. Altre impostazioni fanno parte di una cultura che mi è lontana anni luce" dice ancora Casini secondo il quale "Monti ha invece capito che serve prendersi per mano e procedere anche tra esperienze e culture diverse". Ma Passera vi accusa anche di aver fatto una cosa vecchia. "Il meglio è nemico del bene e quello che è stato fatto è rispettoso delle cose e delle persone" risponde Casini. "I super-ricchi devono andare al diavolo, Putin ha le sembianze del diavolo e dunque Depardieu è sulla direzione giusta": ne è convinto il leader di Sel, Nichi Vendola, che così commenta, in un'intervista a Unomattina, la scelta dell'attore francese di cambiare cittadinanza in seguito alla tassazione elevata sui redditi più alti scelta dal governo francese. Anche il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, è sbarcato su Twitter. Con un profilo dal titolo "Italia start up", che ricorda il provvedimento uscito dal suo ministero al quale forse tiene di più, il ministro si presenta dicendo di sé: "Papà di Sofia, Luigi, Luce e Giovanni. Marito di Giovanna. Amante dell'Italia. Ministro della Repubblica". Il primo cinquettio è solo un saluto: "Da oggi ci sono anche io per ascoltare e dire la mia. Ringrazio i miei primi follower". Poi avvia il dialogo con chi gli scrive. "Benvenuto ministro, l'Italia ha bisogno di lei, continui con il suo impegno civico e politico. Buon lavoro" gli scrive Filippo T. a cui il ministro risponde ringraziando: "Io ci provo". Poi la richiesta di commenti sulla sua intervista sul Corriere della Sera. "Che ne pensate?" e "Ne discutiamo?" chiede il Ministro il calce al tweet in cui cita il titolo del quotidiano: "Lista Monti, occasione persa. Serviva un programma più coraggioso" e include le conversazioni all'hashtag #agendaperlitalia. Uno dei primi a rispondere è Luca T.: "penso che lei abbia ragione e che potrebbe più facilmente trovare un punto d'incontro con Giannino e Fermaredeclino". "L'iniziativa di Giannino e Fermaredeclino non possono non far parte del cambiamento che vogliamo" è quindi la replica del Ministro. Poi il dialogo con i 'followers' scende più nel dettaglio. C'é il tema della cultura, "motore di sviluppo, un capitolo di agendaperlitalia. Oggi trascurata - spiega- con la scusa dell'emergenza"; c'é il nodo Alitalia-Air France, la cancellazione del beautycontest sulle frequenze, la patrimoniale che non va introdotta perché, di fatto, " è stata introdotta, si chiama IMU e basta". Poi ancora sul fisco un'altra "questione importante: mai più tasse retroattive, un principio che andrebbe sancito in Costituzione" scrive il Ministro. Infine i tagli alla spesa pubblica per i quali, ammette Passera, "Nel breve spesso non c'è scelta. Con maggioranze ampie e più tempo, si dovrà fare molto di più". Le entrate tributarie nei primi undici mesi del 2012 si sono attestate a quota 378,189 miliardi di euro, in crescita di 13,8 miliardi (+3,8%) rispetto allo stesso periodo del 2011. Lo comunica il Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia. Le entrate a gennaio-novembre 2012 sono aumentate - spiega il Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia - per effetto dell'aumento sia delle imposte dirette (+4,8%) sia delle imposte indirette (+2,6%). Contribuiscono alla crescita delle imposte dirette l'imposta municipale propria (Imu) per la quota di spettanza erariale e l'imposta sostitutiva su ritenute, interessi e altri redditi di capitale "anche per effetto delle modifiche al regime di tassazione delle rendite finanziarie". "Nel complesso, a fronte del marcato deterioramento del ciclo economico, la dinamica delle entrate conferma la tendenza alla crescita a ritmi superiori rispetto all'analogo periodo dello scorso anno per effetto delle misure correttive varate a partire dalla seconda metà del 2011". Lo afferma il Ministero dell'Economia, citando espressamente l'Imu. La prima rata dell'Imu, pagata a giugno 2012, ha portato quasi 10 miliardi di euro (9,937 mld): 4,022 mld è l'importo riservato allo Stato e 5,915 mld ai Comuni. Le entrate tributarie derivanti dall'attività di accertamento e controllo risultano nel periodo gennaio-novembre 2012 pari a 6.433 milioni di euro (+9,3%, pari a +545 milioni di euro). Le entrate relative ai giochi nel periodo gennaio-novembre 2012 si riducono complessivamente del 6,3% (-798 milioni di euro). Tra queste si evidenzia l'andamento positivo delle lotterie istantanee (+0,5%, pari a +7 milioni di euro) e delle entrate derivanti dagli apparecchi e congegni di gioco (+2,0%, pari a +70 milioni), mentre risultano in calo le entrate relative ai proventi del lotto (-8,9%, pari a -554 milioni di euro). Nel periodo gennaio-novembre 2012 risulta pari a 259 milioni di euro il gettito del contributo di solidarietà, pari al 3% sulla parte di reddito complessivo eccedente i 300.000 euro. La congiuntura economica negativa e la conseguente debolezza della domanda interna ha determinato a gennaio-novembre 2012 un calo del gettito Iva dell'1,8%, rispetto all'analogo periodo del 2011. La diminuzione è di 1,818 miliardi di euro. Nella prossima settimana, scrivew Galli della Loggia, inizia per la radio e la televisione la par condicio. Inizia cioè quel periodo di stretta regolamentazione circa i tempi e i modi della presenza dei politici previsto dalla legge per le campagne elettorali. I candidati saranno ospiti delle tribune politiche della radio e della tv per dibattere tra di loro, ma soprattutto per rispondere alle domande dei giornalisti. Così come del resto stanno facendo con particolare intensità già da qualche settimana con decine di interviste sui giornali (e, ahimè, anche via twitter. Perfino il presidente Monti, il quale a mio modesto avviso avrebbe tutto da guadagnare invece se ne facesse a meno). L’occasione è buona, allora, per osservare che nel degrado così evidente che ha colpito la politica italiana negli ultimi vent’anni qualche colpa, forse, ce l’hanno pure l’informazione e chi ci lavora. Una soprattutto: quella di aver troppo tollerato la vacuità della chiacchiera politica. Cioè di aver troppe volte permesso ai politici di «parlare d’altro», di non dire nulla, di sottrarsi a ogni confronto con i fatti ricorrendo alle parole. Di aver troppe volte concesso ai propri interlocutori di indulgere al vizio, molto italiano, di intendere la politica non come cose da fare ma come discorso di puro posizionamento: «Se lei, egregio onorevole A, si sposta troppo a destra non teme che allora B occupi più spazio al centro?»; «Ma se il PP vuole perseguire una linea di destra come fa a tenere agganciato il DD che invece vuole da destra spostarsi al centro?», e così via interrogando e interrogandosi su tutti gli arabeschi geometrico-politici immaginabili. Ora, non intendo dare consigli o fare lezioni a nessuno ma esprimere solo un augurio, che forse è condiviso da qualche lettore. Mi piacerebbe che nei prossimi quarantacinque giorni si prendesse l’abitudine di sottoporre ai candidati al Parlamento questioni e problemi veri. Non solo, ma—cosa alla fin fine non così inaudita —anche pretendere da loro risposte altrettanto vere. Mi prendo la briga di fare degli esempi. a) Che cosa non ha funzionato nell’adozione dell’euro? E che cosa dovrà ottenere l’Italia dagli altri partner della moneta unica? b) La priorità è la crescita. Per aiutare la ripresa economica può indicare una misura a favore delle imprese e una a favore del lavoro? c) Il welfare in Italia ha bisogno di modifiche: le politiche di austerity e la riforma delle pensioni hanno dato i primi frutti, ma che cosa andrebbe fatto ora per le fasce più deboli? Come intervenire per sostenere l’occupazione dei giovani e delle donne? d) La pressione fiscale raggiunge ormai il 45%. C’è qualche tassa-imposta che abolirebbe o ridurrebbe? E con quali proventi sostituirebbe il mancato introito? Ritiene possibile la riduzione delle imposte sui redditi da lavoro? e) Quali misure concrete propone per ridurre la spesa pubblica? Può indicarne almeno una? f) Dei moltissimi contributi a fondo perduto che lo Stato eroga alle più varie attività produttive pensa che ne andrebbe abolito qualcuno? g) La semplificazione della macchina burocratica non è andata mai al di là degli annunci. Quale sarà il primo provvedimento in questa direzione? h) Una delle fragilità del sistema Italia è il calo dei consumi. L’aumento dell’Iva potrà essere cancellato? Come incentivare gli acquisti? i) Quale riforma per il sistema giudiziario: è favorevole alla separazione delle carriere tra giudice e pm e all’abolizione dell’appello in caso di assoluzione? l) Che cosa propone per risolvere il problema delle carceri: è favorevole all’amnistia e alle depenalizzazioni o servono nuovi istituti penitenziari? m) Che cosa pensa: della concessione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori non italiani; di matrimoni e adozioni per le persone omosessuali? n) Vanno sostenute la diffusione di termovalorizzatori per lo smaltimento dei rifiuti e grandi opere come la Tav? Sono troppe domande, forse. Forse sì, diciamo comunque che a un italiano medio basterebbe ascoltare la risposta a solo tre o quattro di esse per farsi un’idea di chi ha davanti. E per scegliere mi pare che basti e avanzi. "Non sapevo che a Monti piacesse la fantascienza. Perché pensare di innovare la politica con Casini e Fini è come circumnavigare Capo Horn con il pedalò. Fantascienza appunto". Matteo Renzi torna sulla scena sposando senza riserve la campagna elettorale di Pier Luigi Bersani. A partire dalla critica al premier uscente per continuare con la scomunica dei suoi seguaci che scelgono la lista civica del centro: "Rispetto il travaglio degli elettori e il Pd dovrà convincerli. Rispetto meno quello di quattro o cinque parlamentari che oggi agitano lo spauracchio di Vendola e Fassina ma non hanno esitato a votare la fiducia ai governi di Turigliatto e Diliberto". Si mette a disposizione del Partito democratico e del suo candidato. È la logica delle primarie, la sfida di un politico moderno: "La credibilità viene prima di tutto. Mantenere la parola data, questa è la strada". È deluso da Monti? "A lui va tutta la nostra riconoscenza. Ma la credibilità è il valore più importante di un politico. È come la reputazione di un brand: ci si mette anni a conquistarla, ci vuole un minuto a perderla". Vendola è un alleato affidabile? "Vendola ha una grande responsabilità. Non può far crollare il centrosinistra, l'ha già fatto una volta. Conto sulla sua intelligenza anche se è stato uno dei più duri con me sul piano personale. Ma le polemiche contro Vendola e Fassina lasceranno il tempo che trovano nel momento in cui Bersani sarà capace di attuare un programma riformista europeo, come tutti i grandi leader progressisti del continente. Se sarà così non vedo problemi. I cittadini devono scegliere tra Bersani e Berlusconi, non Vendola". Anche quest'anno il sondaggio di Ipr Marketing sul consenso ai sindaci e ai presidenti di regionesciove Stefano Folli insegna qualcosa. Forse più di altre volte perché la crisi economica ha colpito duro gli enti locali, ha messo in discussione antichi equilibri, ha obbligato a riconsiderare numerosi criteri amministrativi. Come se non bastasse, il vento degli scandali ha investito le regioni e ha scoperchiato parecchi tabernacoli. Due amministrazioni sono state travolte, nel Lazio e in Lombardia, una terza (il Molise) dovrà tornare alle urne. Una classe dirigente territoriale è sotto pressione, come se non più dei politici che agiscono a livello nazionale. E allora ecco le cifre che devono confermare o smentire giudizi e pregiudizi su come vengono ammministrate le nostre città e le nostre regioni. Al solito, la domanda del sondaggio è semplice e diretta: votereste di nuovo questo sindaco e/o questo presidente di regione? Il paragone è con il punteggio realizzato il giorno dell'elezione. Si può restare ai piani alti della graduatoria anche se si è perso qualche punto nel favore della popolazione, ma solo se si era stati eletti con una percentuale rilevante. Ebbene, cominciando dalle regioni, un'occhiata ai tabelloni ci dice che la crisi di credibilità successiva agli scandali non ha delegittimato né il personale politico né l'istituto in se stesso. È chiaro che la tempesta ha lasciato il segno e l'intero impianto del decentramento regionale andrà rivisto nella prossima legislatura: non già per annichilirlo e ritornare a un brutale centralismo, bensì per renderlo più vicino alcittadino e più in grado di erogare servizi a un costo contenuto, cancellando la vergogna degli sprechi palesi e occulti. E tuttavia l'istituto regge, così come la fiducia in una buona parte degli eletti. Il sondaggio dice che a metà circa della legislatura regionale otto presidenti godono ancora di una soglia di fiducia che garantirebbe loro la rielezione, se si votasse oggi. Sono i "governatori" di Toscana, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Liguria, Basilicata, Umbria, Campania e Puglia. Il consenso maggiore va al toscano Rossi, che mantiene (salvo una lieve limatura) il 59% di gradimento realizzato nel voto del 201o. Al secondo posto c'è un leghista pragmatico come il veneto Zaia, che ottiene il 58% e perde poco rispetto al 60,2 dell'elezione. Chiude questo ventaglio degli otto rieleggibili il pugliese Vendola, che agguanta un utile 50%, incrementando il 48,7 del 2010. Nel complesso sei presidenti di centrosinistra e due di centrodestra (oltre a Zaia, fra i primi otto c'è il campano Caldoro). Sotto la soglia critica del 50% ci sono Calabria, Friuli V.G., Piemonte, Abruzzo e Sardegna: tutte regioni amministrate dal centrodestra. Nel complesso possiamo dedurne che gli italiani vogliono che le regioni continuino a esistere, purchè sappiano innovarsi e anche correggere i propri gravi errori. Non è più tempo di un federalismo retorico e mal costruito, utile più a consolidare centri di potere antagonisti che a corrispondere alle esigenze dei cittadini. Speriamo che questo pro-memoria, ora che siamo alla vigilia delle elezioni politiche, giunga ad orecchie attente. Quanto agli amministratori comunali, i risultati sono ovviamente dettati da fatti, persone e circostanze che variano da luogo a luogo. In linea generale si può dire che chi, pur essendo al secondo mandato, riesce a mantenere un livello di consenso alto, merita una particolare menzione. È il caso del primo classificato, il salernitano De Luca, che realizza ben il 72 per cento. Ma non è da meno Flavio Tosi, sindaco di Verona, che al secondo mandato incrementa di un 8,7% (!) il dato del giorno in cui è stato rieletto nel 2012. Sono cifre rilevanti che testimoniano una verità: viene premiato chi è affezionato alla sua città, chi se ne occupa attraverso un duro lavoro sul territorio. Questa sembra anche la situazione di Giuliano Pisapia, peraltro al suo primo mandato, che a Milano risulta più popolare oggi del giorno in cui i suoi concittadini lo hanno eletto: più 4,9 per cento. Mentre Graziano Delrio, secondo mandato a Reggio Emilia, sale al 54,5 nonostante le fatiche del suo contemporaneo incarico come presidente dell'Anci, l'associazione dei Comuni. Ci sono anche esempi contrari che acquistano un valore politico che non si può non sottolineare. A Parma, ad esempio, impressiona la caduta di Pizzarotti, il sindaco eletto a sorpresa nel 2012 nella lista di Beppe Grillo. Tante attese, tante promesse di un nuovo modo di governare e oggi meno 7,2 nel consenso dei cittadini. Pizzarotti è ancora al 53%, ma l'impatto con la realtà è stato devastante. E poi c'è il caso di Palazzo Vecchio. Come è noto, uno dei nomi nuovi della politica italiana, il fiorentino Matteo Renzi, si è ritagliato un posto nel cuore dei "media" grazie ai brillanti risultati del duello con Bersani alle primarie del Pd: sconfitto con onore al secondo turno dopo un successo smagliante al primo. Eppure Renzi come sindaco di Firenze è stato retrocesso: dal 59,5% il giorno del voto all'attuale 52. Abbastanza per essere virtualmente rieletto, ma ben 7,5 punti persi per strada. Come mai? Molti sospettano che le ambizioni nazionali abbiano distratto - a dir poco Renzi dagli impegni come amministratore comunale. Per lui è un campanello d'allarme da non sottovalutare. Al contrario il romano Alemanno, da tanti considerato sconfitto in partenza se si presenterà di nuovo per il Campidoglio, riesce a conquistare un 50% (meno 3,7) che non è poi male dopo le tragicomiche vicende della nevicata, lo scorso inverno. *** Italia fuori dall'Unione europea Ansa STRASBURGO - L'Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato l'Italia per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. La Corte ha inoltre condannato l'Italia a pagare ai sette detenuti un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali. Nella sentenza la Corte invita l'Italia a porre rimedio immediatamente al sovraffollamento carcerario. Nella sentenza di condanna emessa oggi, i giudici della Corte europea dei diritti umani constatano che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia è di natura strutturale, e che il problema della mancanza di spazio nelle celle non riguarda solo i 7 ricorrenti: la Corte ha già ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che sostengono di essere tenuti in celle dove avrebbero non più di 3 metri quadrati a disposizione. I giudici chiamano quindi le autorità italiane a risolvere il problema del sovraffollamento, anche prevedendo pene alternative al carcere. I giudici domandano inoltre all'Italia di dotarsi, entro un anno, di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e avere un risarcimento per la violazione dei loro diritti. Con la sentenza emessa oggi l'Italia viene condannata una seconda volta per aver tenuto i detenuti in celle troppo piccole. La prima condanna risale al luglio del 2009 e riguardava un detenuto nel carcere di Rebibbia di Roma. Dopo questa prima condanna l'Italia ha messo a punto il "piano carceri" che prevede la costruzione di nuovi penitenziari e l'ampliamento di quelli esistenti oltre che il ricorso a pene alternative al carcere. NAPOLITANO, MORTIFICANTE CONFERMA - "La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo" per l'Italia ed è "una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena". Lo sottolinea il presidente Napolitano in una dichiarazione. PANNELLA, CONTINUO SCIOPERO DELLA FAME E NON SETE - "Mi fa piacere che Napolitano, massimo responsabile della flagranza di reato dell'Italia nei confronti dei diritti umani e della democrazia, ora sia mortificato, bene. Non so cosa accadrà dopo. La condanna ennesima arriverà, perché siamo il flagranza come Italia da delinquenti professionali, non solo contro il popolo italiano ma contro l'Europa e le sue istituzioni". Queste le parole di Marco Pannella (Radicali) a Tgcom24, che precisa che il suo sciopero continua ma "è solo della fame e non della sete". "Se i 400mila andassero a chiedere giustizia con avvocati e politici, l'Italia partitocratica, ladra di denaro e di verità, quanto dovrebbe sborsare? 100 euro per 400mila. L'Italia sarebbe colpevole anche di bancarotta fraudolenta. Monti sta mettendo le pezze a quello di cui siamo stati responsabili come popolo italiano. A noi avete dato il 2% e agli altri il 98%. Gli altri sono ladri di verità, di democrazia e di quattrini. Siamo solo noi che da trent'anni abbiamo individuato il problema. Il vero problema che ci rimproverano non è solo che siamo dei nazi-comunisti per come teniamo le nostre carceri ma siamo responsabili del fatto che ci sono 10 milioni di processi civili e penali e nelle carceri 20mila persone che quando avranno al sentenza saranno ritenuti innocenti. Il vero problema è che almeno 20 milioni di italiani hanno a che fare con processi che durano oltre la loro morte. Oggi si danno le colpe a Monti ma il popolo italiano se la prenda con se stesso. Prima di Monti chi cacchio ha votato?", conclude. SEVERINO: AVVILITA MA NON STUPITA - "Sono profondamente avvilita ma purtroppo l'odierna condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo non mi stupisce", "c'era da aspettarselo". Così il ministro della Giustizia Paola Severino sulla sentenza di Strasburgo sul sovraffollamento carcerario. Per le carceri italiane, aggiunge, sono urgenti "misure strutturali". SOVRAFFOLLAMENTO AL 142%, MAGLIA NERA UE - L'Italia è maglia nera in Europa per la condizione degli istituti. Il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane, secondo l'ultimo rapporto di Antigone, l'associazione che si batte per i diritti nelle carceri, è del 142,5%, dunque ci sono oltre 140 detenuti ogni 100 posti letto, mentre la media europea è del 99,6%. Rispetto a questi numeri record ci sono regioni che statisticamente stanno anche peggio: la Liguria è al 176,8%, la Puglia al 176,5%, il Veneto a 164,1. E ci sono casi limite, in cui il numero dei detenuti è più che doppio rispetto ai posti regolamentari, come nel carcere messinese di Mistretta (269%), a Brescia (255%) e Busto Arsizio (251%). In questi due istituti, come in altre del Nord la presenza di stranieri è superiore a quella degli italiani. A San Vittore (Milano) su 100 detenuti 62 sono stranieri, a Vicenza 65. Le percentuali più alte di stranieri tra i detenuti si registrano in Trentino Alto Adige (69,9%), Valle d'Aosta (68,9%) e Veneto (59,1%). Le più basse in Basilicata (12,3%), Campania (12,1%) e Molise (11,8%). BRUXELLES - In Italia, con il peggiorare della crisi, c'é un "rischio elevato" di cadere in una "enorme trappola della povertà": una volta che una persona entra in difficoltà, è molto difficile che riesca ad uscirne. E' quanto emerge dal Rapporto Ue 2012 su occupazione e sviluppi sociali. La protratta crisi economica che ha colpito l'Ue ha "drammaticamente aumentato i rischi di esclusione sociale di lungo periodo", e questi, si legge nel rapporto, "variano enormemente" tra i diversi stati membri. L'Italia, insieme a Grecia, Spagna, Malta e i paesi Baltici, fa parte del gruppo di paesi in cui "c'é un alto rischio di entrare nella povertà e basse possibilità di uscirne, con la creazione di una massiccia trappola della povertà". E, avverte Bruxelles, "la situazione sta peggiorando dato che le prospettive attuali sono cupe" per questo gruppo di paesi. "E' improbabile che l'Europa vedrà molti miglioramenti socioeconomici nel 2013 a meno che non faccia maggiori progressi anche nella risoluzione credibile della crisi, trovi risorse per gli investimenti necessari e faccia funzionare l'economia reale". E' l'allarme del commissario Ue agli affari sociali Lazslo Andor. Poi sull'Imu: per essere più equa ed avere un effetto redistributivo, deve essere modificata in senso più progressivo. Secondo il rapporto la vecchia Ici non aveva impatto sulle disuguaglianze e aumentava leggermente la povertà. L'Imu, ricorda il rapporto Ue, è stata introdotta nel 2012 "a seguito di raccomandazioni sulla riduzione di un trattamento fiscale favorevole per le abitazioni" e "basata sull'effetto distorsivo relativamente basso delle tasse sulla proprietà e il basso tasso di evasione". Nella sua architettura, l'Imu, riconosce Bruxelles, "include alcuni aspetti di equità", come la deduzione di 200 euro per la prima casa, le deduzioni supplementari in caso di figli a carico, e una marcata differenziazione del tasso di imposizione tra prima e seconda casa. Ma, avverte la Commissione, "altri aspetti potrebbero essere ulteriormente migliorati in modo da aumentarne la progressività". Per esempio, dovrebbero essere aggiornati i valori catastali degli immobili: nonostante sia già stato un passo in avanti l'aumento del 60% dei valori del reddito catastale, si tratta di un aumento proporzionale e non progressivo legato al reale valore di mercato degli immobili, e che quindi non riduce le disuguaglianze di reddito. Dovrebbero poi essere introdotte deduzioni non basate sul reddito e migliorata la definizione di residenza principale e secondaria. Sulla base di simulazioni effettuate con i dati relativi alla vecchia Ici, il rapporto Ue sottolinea che "le tasse sulla proprietà non hanno impatto sulla diseguaglianza in Estonia e in Italia, e sembrano aumentare leggermente la povertà in Italia". PROF, CRITICHE UE? NO, SUE RICHIESTE ESAUDITE - "La prima notizia è che la Ue ha preso atto che l'Italia ha fatto quello che la Ue chiedeva" sulle tasse per la casa. Lo ha detto il premier Mario Monti a Tgcom24 rispondendo ad una domanda sulle critiche della Ue all'Imu. ROMA - Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a novembre è pari al 37,1%, si tratta del record assoluto, ai massimi sia dalle serie mensili, ovvero da gennaio 2004, sia dalle trimestrali, cominciate nel quarto trimestre '92. Lo rileva l'Istat (dati destagionalizzati e provvisori). A novembre il tasso di disoccupazione giovanile, ai massimi da almeno venti anni, risulta così in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 5,0 punti nel confronto tendenziale. Invece il tasso di disoccupazione a novembre resta all'11,1%, lo stesso livello di ottobre e quindi ancora ai massimi da gennaio 2004, inizio serie mensili, e dal primo trimestre del '99, guardando alle serie trimestrali. Lo rileva l'Istat (dati destagionalizzati e provvisori). Su base annua il tasso è in aumento di 1,8 punti. A novembre 2012 tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro, ovvero disoccupate, sono 641 mila e rappresentano il 10,6% della popolazione nella stessa fascia d'età. E a novembre il numero di disoccupati resta vicino ai 2,9 milioni, precisamente pari a 2 milioni 870 mila, in lieve calo (-2 mila) rispetto a ottobre (la diminuzione riguarda la sola componente femminile). Su base annua, invece, la disoccupazione cresce del 21,4%, ovvero di 507 mila unità. Lo rileva l'Istat, in base a dati provvisori e destagionalizzati. Nel mese di novembre gli occupati sono 22 milioni 873 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto a ottobre, con un calo di 42 mila unità, sia su base annua, con una diminuzione di 37 mila unità. Il tasso d'occupazione maschile a novembre scende al 66,3%, si tratta del livello più basso sia dall'inizio delle serie storiche mensili, ovvero da gennaio 2004, sia dall'avvio delle trimestrali, cominciate nel quarto trimestre del 1992. ALTRO RECORD DISOCCUPAZIONE EUROZONA, 11,8% - Cresce ancora il record di disoccupazione nell'Eurozona. A novembre 2012, secondo i dati Eurostat depurati dalle variazioni stagionali, ha raggiunto l'11,8% (11,7% a ottobre), pari a 18,8 milioni di persone. Nello stesso mese del 2011 i senza lavoro erano il 10,6%. In 12 mesi la disoccupazione ha colpito 2,015 mln di persone in più. A novembre scorso il tasso di disoccupazione giovanile nell'Eurozona ha raggiunto il 24,4% (24,2% ad ottobre), pari a 3,788 milioni di persone. Rispetto ad un anno fa, quando era al 21,6%, ci sono 420mila giovani disoccupati in più. Lo registra Eurostat che per l'Ue a 27 indica un tasso di disoccupazione giovanile del 23,7%. Nell'insieme dell'Unione europea a 27, la disoccupazione a novembre scorso è stata registrata al 10,7%, stabile rispetto al mese precedente. A novembre 2011 era al 10,0%. Secondo l'ufficio europeo di statistica i senza lavoro nei 17 paesi della valuta comune in un mese i disoccupati sono cresciuti di 113.000 unità. In Italia la disoccupazione di novembre è all'11,1%, stabile rispetto a ottobre 2012. Dodici mesi prima era al 9,3%. In un anno i senza lavoro sono aumentati in 18 degli stati membri della Ue-27, si è ridotta in sette tra i quali la Germania (da 5,6% a 5,4%) e le repubbliche baltiche. Gli aumenti più forti su base annuale, in Grecia (dal 18,9% al 26,0% registrato da settembre 2011 a settembre 2012), Cipro (dal 9,5% al 14,0%), Spagna (dal 23,0% al 26,6%) e Portogallo (dal 14,1% al 16,3%). L'Italia, con il 37,1% di disoccupati tra i giovani fino a 25 anni registrato a novembre scorso, è quarta nell'Eurozona per i livelli di disoccupazione giovanile. A ottobre era al 36,5%, nel novembre 2011 al 32,2%. Peggio, soltanto la Grecia (57,6%, dati di settembre 2012), la Spagna (56,5%) ed il Portogallo (38,7%). Sono stato "costretto" ad aumentare le tasse "perché alcuni irresponsabili hanno portato a quella situazione" finanziaria, "ma adesso che il Paese è salvo c'é una prospettiva di "riduzione graduale delle tasse". Lo afferma Mario Monti, ospite di TgCom24. E' "finita l'emergenza finanziaria, ma siamo in emergenza economica e sociale", afferma il presidente del Consiglio uscente spiegando che per "superare queste gravissime emergenze occorre mobilitare i riformatori". Saranno candidati con noi Alberto Bombassei, presidente di Brembo, Valentina Vezzali, schermitrice e olimpionica, e Mario Sechi direttore de Il Tempo. Lo ha annunciato Mario Monti a Tgcom24. Il premier ha annunciato che anche la presidente del Fondo Ambiente Italiano, Ilaria Borletti Buitoni sarà della 'squadra'. Mario Monti attacca poi la sinistra. "Non dico tutta, ma una parte della sinistra - afferma - pone molta attenzione in teoria all'aspetto disuguaglianze, ma spesso soffoca i meccanismi per la crescita, che sono basati su efficienza produttitvità e competitività". "Per ridimensionare il settore pubblico occorre una spallata dei cittadini, ma non con la rabbia, la protesta o il non voto, ma scegliendo di votare chi non ha legami con organizzazioni che vogliono bloccare il Paese", dichiara. "Bisogna andare a toccare le retribuzioni senza però cadere nella demagogia che impedisce allo Stato di assumere competenze molto alte che vanno strappate al mercato". "Occorre mobilitare i riformatori: la mia offerta fa capo alla società civile, vuole mobilitarla" e vuole mobilitare i "riformatori" per cambiare il Paese "altrimenti i sacrifici fatti dagli italiani andrebbero dispersi con una nuova crisi finanziaria prima o poi", aggiunge. "E' vero, non sono più super partes. Sono sceso dal piedistallo" e ho deciso di "mettermi dalla parte della gente comune che ha molta diffidenza della politica", aggiunge il premier a Tgcom24 spiegando che per lui la "politica non sarà mai una professione". "Il Papa ha ragione: ha chiamato lo 'spread sociale' quello che è un differenziale sempre maggiore" tra ricchi e poveri. "Si è trascurato troppo l'aspetto uguaglianza e la distribuzione della ricchezza", sottolinea il premier uscente. "La mia intenzione è che gli italiani paghino meno tasse", afferma Monti. Il premier però stigmatizza il fatto che "ci sono stati anni in cui si riteneva quasi un furto che lo Stato chiedesse le tasse", mentre così ovviamente non è: "purché lo Stato non usi male questo denaro". *** Pd chiude le liste P "Più che i favoriti ci sentiamo vincenti". Lo ha detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, al termine della Direzione del partito, che ha approvato le liste all'unanimità. "Non capisco cosa significhi quando dice che la sinistra frena. Quando ero ministro ho fatto più riforme di quelle viste in quest'ultimo anno". Così il segretario Pier Luigi Bersani, al termine della Direzione del Pd, ha replicato alle affermazioni di Mario Monti. "Non temo il pareggio. Chiederemo agli elettori la maggioranza in modo non settario". Così il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al termine della Direzione del partito, ha risposto ad una domanda sul rischio del pareggio in Senato se il Pd non dovesse vincere in Lombardia e Campania. "La presenza femminile nelle liste è intorno al 40 per cento. Una rivoluzione femminile da valorizzare e segnalare". Così Pier Luigi Bersani, aprendo la direzione del Pd, mette l'accento sulle candidature femminili nelle liste. Poi afferma: "La lepre da inseguire siamo noi e tutti faranno la gara dietro di noi. Noi siamo pronti alla guida del paese". "Su Monti - aggiunge - non abbiamo niente di cui pentirci finora. Anzi, assoluta lealtà nell'ultimo anno da parte nostra, anche su scelte su cui avremmo fatto di più". Bersani, in direzione, ribadisce che "nessun esponente del governo sarà in lista perché un governo super partes non può essere diviso tra le parti". Dei 38 capilista 15 sono donne. E' il calcolo che fa il vicesegretario del Pd Enrico Letta, illustrando in direzione le liste e negando uno scontro tra Roma e il partito sul territorio. Ore febbrili fino all'ultimo nel Partito democratico. E' proseguito a lungo il braccio di ferro tra i territori e la segretaria nazionale che, di fatto, può contare su una quota di circa il 30% degli eletti. Candidati 'blindati' che vanno inseriti anche sopra chi si è misurato con le primarie. Di qui la richiesta da parte delle segreterie locali che siano in numero contenuto e, magari, non del tutto staccati dal territorio nel quale correranno. Il segretario regionale in Puglia del Pd, Sergio Blasi, annuncia di essersi dimesso dall'incarico "in pieno ed assoluto dissenso col gruppo dirigente nazionale del Partito Democratico per aver tradito lo spirito delle primarie ed aver invaso le liste pugliesi di 'immigrati dal nord'". La comunicazione, si legge in una nota della segreteria regionale, è stata consegnata la scorsa notte alle 2.45 da Blasi "a conclusione della riunione con i vertici nazionali del partito per la definizione delle postazioni nazionali da inserire nelle liste di Camera e Senato per la Puglia". Tre capilista, tra cui Bersani nella circoscrizione Sicilia Occidentale, e cinque 'esterni', tra cui il giornalista Corradino Mineo, che guiderà la pattuglia dei candidati al Senato. Passa dunque la linea del segretario siciliano del Pd, Giuseppe Lupo, che dopo una estenuante trattativa con i vertici nazionali del partito, conclusa in nottata, è riuscito a compiere in pieno la missione affidatagli per mandato dalla direzione regionale che era costraria alla candidatura in Sicilia di 11 esterni. Edo Patriarca, presidente del Centro Nazionale per il volontariato e coordinatore delle Settimane Sociali, Ernesto Preziosi, già vicepresidente dell'Azione Cattolica e direttore dell'Istituto Toniolo della Cattolica, sono due delle quattro personalità del mondo cattolico che hanno dato l'ok alla candidatura con il Pd. Pier Luigi Bersani aveva annunciato ieri la presenza di esponenti del cattolicesimo democratico nelle liste del Pd. E oggi, a quanto si apprende, i candidati hanno accettato di essere in lista. Oltre a Patriarca e Preziosi, saranno candidati con il Pd anche Emma Fattorini, docente di Storia Contemporanea alla Sapienza e storica dei movimenti religiosi e Flavia Nardelli, segretario generale dell'istituto Sturzo. L'ex leader della Cgil Guglielmo Epifani in Campania 1 ed Enrico Letta a Campania 2: dovrebbero essere loro due, secondo indiscrezioni dell'ultima ora, a guidare le liste del Pd in Campania. Per il Senato confermata la candidatura della giornalista Rosaria Capacchione; si registra il pressing nelle ultime ore su Sergio Zavoli, presidente della commissione vigilanza Rai. Valeria Fedeli sarà candidata con il Pd. Laureata in Scienze sociali, è vicepresidente del sindacato europeo dell'Industria, l'Industrial European Trade Union (Ietu), nato dalla fusione dei sindacati europei dei metalmeccanici, dei chimici e dei tessili. Roberto Reggi, coordinatore della campagna delle primarie per Matteo Renzi, non è candidato nelle liste del Pd. E' quanto si apprende dopo l'approvazione delle liste da parte del comitato elettorale e ora al vaglio della direzione del Pd. Un anno difficile e impegnativo ci aspetta, scrive V. Dovremo affrontare e vincere, lottando, sfide importanti per riprendere a crescere. La crisi deve trasformarsi nell'opportunità di fare dell'Italia un Paese diverso, con una visione chiara e condivisa di un futuro di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, soprattutto per i giovani. Serve uno scatto d'orgoglio che recuperi la tensione ideale, lo spirito costruttivo e le ragioni del fare che hanno segnato l'Italia del secondo dopoguerra. Una stagione nella quale una politica con la P maiuscola, cultura, iniziativa imprenditoriale e capacità esecutive si sommarono per liberare le energie vitali del Paese. In quella stagione la politica e gli uomini del fare portarono l'acqua dove non c'era, garantirono un sistema di infrastrutture, vollero che scuola, università e impresa dialogassero. Attraverso uno sviluppo manifatturiero senza eguali consentirono all'economia italiana di crescere a ritmi così elevati da generare reddito, occupazione e realizzare un vero e proprio miracolo, trasformando l'Italia, in pochi decenni, nella quinta potenza economica mondiale. Oggi la questione della crescita del nostro Paese tocca noi industriali direttamente e a questa sfida tanti di noi hanno risposto assumendosi fino in fondo tutte le responsabilità, investendo in ricerca e in capitale umano, cercando e conquistando nuovi mercati. Ma al tempo stesso quello che stiamo vivendo tocca le ragioni costitutive dell'azione politica, che deve essere capace di eliminare i fardelli di una burocrazia ossessiva e di una pressione fiscale ormai intollerabile. L'imminente tornata elettorale sarà un banco di prova decisivo. La prossima legislatura dovrà essere contraddistinta da una ritrovata dialettica costruttiva fra le forze politiche. È fondamentale non cedere alle tentazioni dell'antipolitica, che ha solo contribuito ad allontanare i cittadini dalle Istituzioni. La società deve tornare ad avere fiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti, partecipando direttamente e attivamente alla costruzione di un modello sociale condiviso. Per questo ci aspettiamo che chi andrà a ricoprire cariche pubbliche, svolga il proprio ruolo con impegno, dedizione e onestà. Dalle Istituzioni ci aspettiamo il buon esempio, ma anche le forze sociali sono chiamate a partecipare e contribuire al cambiamento e al rilancio dell'Italia. Al mondo produttivo, in particolare, spetterà il ruolo di protagonista propulsivo dello sviluppo economico, sociale e civile. In questo impegno generale, è cruciale la credibilità internazionale, mantenendo saldo il legame con l'Europa e proponendoci come esempio da emulare e non più malato da guarire. I sacrifici che tutti noi abbiamo sopportato negli ultimi tempi con grande senso di responsabilità hanno scongiurato rischi di default. L'emergenza però non è ancora finita. Il tasso di disoccupazione potrebbe essere destinato a salire ancora, il debito pubblico ha superato i 2mila miliardi di euro e le tasse su cittadini e imprese che fanno fino in fondo il proprio dovere di contribuenti hanno raggiunto livelli insostenibili. Chi governerà il nostro Paese avrà il dovere di affrontare questi nodi e porre le basi per consentirci di competere ad armi pari sui mercati globali. Senza questa capacità competitiva il destino è di un graduale impoverimento e la fuoriuscita dal novero delle grandi potenze economiche. Per questo è imprescindibile rimettere l'industria al centro dell'agenda del Paese. Le imprese sono il vero motore in grado di costruire lavoro, progresso e sviluppo. Dall'industria viene l'80% del nostro export, la maggior parte delle innovazioni e i posti di lavoro più qualificati e meglio remunerati. Sbaglia chi pensa che mettere l'impresa a fondamento delle politiche di crescita avvantaggi solo gli imprenditori. Quando parliamo di politica industriale noi non chiediamo aiuti. Vogliamo piuttosto sottolineare che l'interesse generale coincide con il superamento di quei vincoli e pregiudizi che alimentano nei fatti una cultura anti industriale che mortifica le nostre potenzialità di crescita, rendendo più incerto e amaro il futuro dei nostri giovani. Se vogliamo avere un futuro non possiamo più permetterci un Paese in cui noi imprenditori siamo guardati con sospetto e non con il rispetto che è dovuto a chi costruisce benessere e occupazione. Da questa crisi dovrà uscire un Paese nuovo, nel quale la pubblica amministrazione non dreni risorse ai cittadini e alle imprese per nutrire apparati abnormi e, spesso, irresponsabili e inefficienti. All'opposto, lo Stato e l'amministrazione devono essere rivolti dalla politica al servizio dei cittadini e deve predominare la cultura del rispetto delle regole e della responsabilità. Per questo sono essenziali profonde riforme strutturali, a partire da una seria revisione del Titolo V della Costituzione, che mettano in discussione gli assetti istituzionali e lo stesso perimetro dello Stato e ci conducano ad un decentramento finalmente responsabile. Per questa via sarà possibile un taglio deciso, ma non lineare, della spesa e, quindi, una graduale riduzione della pressione fiscale. Solo così le imprese disporranno di maggiori risorse da investire per innovare e generare nuova e maggiore occupazione e saranno rilanciati i consumi. È fondamentale rendere più semplice la vita alle imprese attraverso una burocrazia a supporto degli investimenti e non di ostacolo. Bisogna sfrondare e semplificare le migliaia di regole, spesso contraddittorie e incoerenti, e liberare le imprese dal costo e dagli oneri che la loro applicazione crea e che sono ignoti a chi opera in altri Paesi. Come possiamo pensare di tornare ad essere attrattivi per gli investimenti se i tempi di risposta della pubblica amministrazione sono biblici? O se le infrastrutture sono arretrate rispetto al fabbisogno, anche perché la loro realizzazione è molto lenta e costosa? Sono queste le future sfide della politica e, quindi, i temi di cui vogliamo sentire parlare durante la campagna elettorale. In questo quadro il mio impegno personale sarà di mantenere Confindustria il luogo in cui affrontare i temi cruciali per le imprese. La nostra Associazione sarà sempre una grande casa in cui tutti potranno formulare le proposte ed elaborare le azioni necessarie per essere, quanto e più di prima, parte attiva nella definizione delle priorità e delle linee di intervento dell'Italia. E lo faremo da subito, con un insieme di idee concrete e di obiettivi, che stiamo perfezionando, sui quali valuteremo sia i programmi elettorali, sia, soprattutto, l'operato del prossimo esecutivo. Con un monitoraggio costante e preciso, basato sui fatti e non sullo schieramento per l'una o l'altra parte. *** Monti frena sulle alleanze. Bersani, non aiuti Berlusconi. Il Pd tiene aperta la porta a Mario Monti per una "collaborazione" dopo le elezioni. Ma il Professore frena e risponde che parlare di alleanze è "prematuro". Intanto però Pier Luigi Bersani comincia ad insospettirsi per le mosse del Professore: la candidatura, ormai certa, di Gabriele Albertini al Senato rischia di togliere "le castagne dal fuoco di Berlusconi" e di rendere ancora più in salita l'impresa del Pd di ottenere il premio di maggioranza al Senato. Il sostegno di Monti e dei centristi a Gabriele Albertini in Lombardia "va bene se non aiutano a togliere le castagne dal fuoco a Berlusconi e alla Lega in Lombardia, se, invece, aiutassero non andrebbe bene e bisogna rispondere. Voglio capire da Monti e dal centro contro chi combattono". Così Pier Luigi Bersani a Sky Tg24. Al giornalista che gli fa notare che Monti probabilmente cerca di essere decisivo al Senato per dar fastidio al Pd, il segretario del Pd risponde: "Sono illazioni, ma questa domanda la faccia a Monti, sono curioso di saperlo anch'io". "Confermo che chiederemo dopo il voto la collaborazione con Monti, lo dico da tre anni: un governo dei progressisti aperto al dialogo con forze moderate e europeiste contrarie ad un revival di Berlusconi. Resto fermo su questo e non vedo il motivo per cui questa iniziativa sia alternativa ad una sinistra anche radicale", afferma il leader del Pd. ''Berlusconi e' un combattente'' ma ''pur non sottovalutandolo non gli darei molte chances. Dovessi scommettere non scommetterei su Berlusconi''. Se ne dice convinto Bersani, replicando a una domanda su un possibile recupero del Cavaliere in campagna elettorale. ''Ora ci sentiamo vincenti perché c'e' soddisfazione perché in due ore abbiamo chiuso le liste nonostante le primarie a Natale. Noi siamo in anticipo...quanto al governo ho in testa un mix di innovazione ed esperienze, una nuova generazione pero' già sperimentata perché l'improvvisazione non serve', sottolinea il candidato premier del Pd. ''Non lo so, non ho elementi. Quelle che so e' che il 2013, dal punto di vista sociale, occupazionale e della tenuta finanziaria sara' molto difficile''. Cosi' Bersani, a Sky Tg24, sulla possibilita' di una manovra correttiva in primavera. "Il governo è stato in carica fino ad un mese fa, si poteva fare in ultimi mesi. Ed invece se ne parla solo ora". Così Bersani sulle modifiche all'Imu ipotizzare da Monti. "Mi sembra prematuro questo discorso perché io credo che nella campagna elettorale dobbiamo tutti schierarci in modo pacato sui problemi e successivamente verranno le alleanze". Così Mario Monti, ai microfoni di Radio Monte Carlo, risponde all'invito dei vertici del Pd. "Spero di non essere" la stampella "né di Bersani, né di nessuno: spero di essere la scala di ingresso della società civile italiana". Più che cercare "di condizionare" il probabile vincitore delle elezioni, ritengo sia meglio "stimolare il dibattito sulle idee" allo scopo magari di "impedire che prevalgano le tendenze estreme", aggiunge in serata Monti durante un dibattito a Roma, rispondendo a Paolo Mieli che gli chiede se il suo tentativo sia quello di influenzare il centrosinistra che con tutta probabilità sarà primo nelle urne. "Io non combatto contro l'uno contro l'altro. In Lombardia abbiamo il tridente Ichino, Albertini e Mauro", afferma. Per Mario Monti la coalizione di Pier Luigi Bersani "é di sinistra, non di centrosinistra", così come quella di Berlusconi è di "destra, non di centrodestra", puntualizza poi. "Spero che non abbia speranze" di vincere. Così Monti risponde a chi gli chiede se condivida l'opinione di Pier Luigi Bersani secondo il quale Berlusconi non ha speranze di vittoria elettorale. "Bisogna che l'onorevole Berlusconi si stabilizzi un po'" perché due mesi fa mi ha chiesto di federare il centrodestra e ora parla di "governo tragico": insomma "che si fissasse un po' meglio le idee", aggiunge. "Certamente quello che ho deciso di fare è folle perché le politiche che abbiamo fatto al governo sembrano fatte apposta per ottenere zero voti", dice Monti durante un dibattito a Roma. "Ma se per caso ottenessimo anche un solo voto sarebbe un grande salto di maturità del paese perché vuol dire che c'é la comprensione dell'importanza delle riforme". Monti torna a rifiutare ipotetiche offerte di fare il ministro in un governo di altri: "Certo che non è vietato", dichiara, ma innanzitutto "nessuno mi sta chiedendo di far parte di nessun governo e francamente non è a quello a cui voglio candidarmi". Inoltre, prosegue, per accettare "credo che dovrei riconoscermi tantissimo, quasi completamente in un governo per farne parte". "No, mi sono semplicemente infilato scarpe della mia misura anziché scarpette da danza classica che sono stato costretto a indossare in questi 13 mesi". Così Monti, intervistato a Rmc, risponde a Beppe Severgnini che gli chiede se si stia finalmente levando diversi sassi dalle scarpe. "E' grottesco pensare che io volessi riferirmi ad altro che alla statura accademica di Brunetta a cui per altro lui fa spesso cenno", dice Monti tornando sulle sue parole sulla statura accademica dell'ex ministro della Funzione pubblica. "Chiedo scusa se è stato interpretato in modo offensivo ma mi riferivo al fatto che proprio Brunetta fa spesso paragoni tra economisti". Un nuovo probabile vertice per chiudere definitivamente le liste e domani l'annuncio, forse solo con una semplice comunicazione, senza conferenza stampa. E' alle battute finali il lavoro di Mario Monti, Enrico Bondi e degli alleati per chiudere le liste: un nuovo vertice si dovrebbe tenere oggi in serata, dopo che già stamane e ieri sera si sarebbero tornati ad incontrare i leader delle liste montiane che corrono per Monti Premier. 'In Lombardia abbiamo il tridente Ichino, Albertini e Mauro', annuncia Monti. L'ex sindaco di Milano correrà al Senato. Poi in serata il premier afferma che le liste sono "prontissime" "Dopo le elezioni, se vinceremo chiederemo ai montiani, al centro, di sostenere il governo Bersani". Lo dice il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, parlando alla sede del partito. "Se vinciamo avremo 400 parlamentari, 300 dei quali provenienti dalle primarie", afferma il vicesegretario del Pd dopo che ieri sono state chiuse le liste elettorali. "L'età media dei candidati - ha aggiunto - è di 46 anni. E' un'operazione complessa e sarà una rivoluzione al femminile: riusciremo a portare il 40% di donne in lista in Parlamento e sarà la più grande presenza di donne mai vista", alle Camere. ''Bisogna arrivare con qualcosa di eccezionale. Abbiamo 4 milioni di imprese in Italia, si potrebbe dire loro: 'Se assumete anche una sola persona in piu' con un contratto a tempo indeterminato non pagherete per 3-4-5 anni ne' contributi previdenziali ne' tasse'. E' come assumere qualcuno in nero''. Cosi Silvio Berlusconi a 'Porta a Porta'. "Il governo dei tecnici è lontanissimo dalla realtà e non ha saputo interpretare la disperazione delle persone, ha proceduto con le ingiunzioni di un'Europa a guida tedesca ed ha applicato un'austerità che può portare al fallimento dello stato", aggiunge. Rivedrebbe il fiscal compact? "Assolutamente sì, anche a costo di far fare un altro voto al Parlamento italiano". "Lo intenderei doversi interpretare sui fattori rilevanti" della riunione del Consiglio Europeo, ovvero "facendoci pagare 15 mld all'anno invece di 50 mld" per il rientro del debito. Così Silvio Berlusconi da Vespa. "A lavorare con Monti non ci penso proprio", dice l'ex premier. "Monti non è da solo ma con due compari che si chiamano Fini e Casini. Ho dovuto sopportarli ma non sarei più in grado sapendo che opportunisti sono", aggiunge. "Il Pd ha già ufficialmente dichiarato prima con Enrico Letta e poi con Bersani che ove avessero difficoltà ad operare collaboreranno con Monti. Quindi i voti dati a Casini, Fini e Monti sono voti al Pd: loro cercano di togliere voti alla coalizione dei moderati solo per salire sul carro del Pd e avere qualche poltrona", afferma il Cavaliere. ''Fini, Casini sono li' a spese nostre da 50 anni. Io ho messo nelle casse dello stato miliardi e miliardi. Lei si affiderebbe a Silvio Berlusconi per rimettere su una impresa o a questi chiacchieroni o a chi, mi riferisco alla sinistra, vuole imporre una patrimoniale e l'aumento dell'Iva''. "Sono stato condannato a 4 anni perché nel 2001 avrei messo in piedi un sistema diabolico per far pagare 3 milioni di tasse in meno, quell'anno con la mia società ne avevo pagati oltre 500. In appello sono sicuro che non potrò non essere non assolto", dichiara Berlusconi. 'E' abbastanza semplice l'dea di zero tasse su chi assume giovani. Pero' e' interessante capire perche', se e' cosi' semplice, chi ha governato 8 degli ultimi 15 anni non lo ha fatto''?, replica Mario Monti intervistato da Radio Monte Carlo. "Perche' non ho proposto prima 'zero tasse per chi assume giovani'? Perche' la situazione dei giovani e' stata aggravata fino a questo punto dal governo Monti'', è la controreplica del Cavaliere. Non deve stupire che perfino Matteo Renzi, scive Polito sul Corriere, un giorno dopo Stefano Fassina, abbia attaccato Mario Monti dandogli del demagogo. Quando si avvicinano le elezioni i politici cambiano pelle: anche chi voleva essere leone si fa volpe, e se necessario pure gazzella, pur di raggiungere l’obiettivo della conquista del potere, che in un partito è il fine ultimo dell’azione politica. E il partito di Bersani è ormai un partito disciplinato. Così come il New Labour di Blair «silenziò» la sua ala sinistra per vincere le elezioni dopo 18 anni di digiuno, nel Pd di Bersani si sta dunque «silenziando » l’ala destra, che a dire il vero spesso si autosilenzia da sola. Ma più del comportamento del ceto politico, ciò che è importante valutare è che cosa stia accadendo nell’elettorato del Pd, perché sarà di grande importanza anche dopo il voto. Il nocciolo duro, quello dei circoli e dei militanti, ha impresso con le primarie una netta svolta a sinistra che ha indotto anche molti «moderati» ad adeguarsi, soprattutto quelli ricandidati. Ma alle primarie ha votato un decimo dell’elettorato del Pd. I restanti nove decimi stanno ricevendo segnali contraddittori sul tema del rapporto, passato e futuro, con Mario Monti. Secondo autorevoli commentatori come Eugenio Scalfari, infatti, l’agenda di Monti è uguale all’agenda di Bersani: quindi il primo avrebbe dovuto evitare di fare la competizione al secondo, e anche per lui si sarebbe trovato un posto da «indipendente», al governo o al Quirinale. Secondo Bersani medesimo, però, la sua agenda differisce in maniera sostanziale, essendo identica per ciò che in quest’anno ha funzionato — il controllo dei conti e dello spread—ma diversa per ciò che è andato male: e dunque promette di trovare nei conti le risorse per metterci «un po’ di crescita e di equità ». Invece lungo l’asse Fassina- Vendola-Camusso l’agenda Monti è proprio da rottamare, perché è l’agenda della destra europea che sta portando al disastro il continente, anzi «thatcheriana e reaganiana» secondo il segretario della Cgil. Bisognerà vedere a chi crederanno di più gli elettori, tra queste tre posizioni. Perché man mano che si allontanano da quella di Scalfari e si avvicinano a quella di Camusso, le sorti di un ipotetico governo di sinistra possono cambiare. Si tratta di un antico problema, un vero e proprio circolo vizioso della sinistra. Funziona così: negli anni dell’opposizione si creano aspettative esagerate (per esempio di riaprire il discorso sulle pensioni di anzianità); una volta al governo si deludono necessariamente e rapidamente quelle aspettative; l’elettorato deluso ben presto si stacca (vedi sondaggi sulla presidenza Hollande); la componente interna di sinistra comincia ad inseguire l’elettorato deluso; nella rincorsa prima o poi la corda si spezza; il governo cade. Renzi è oggi sicuro che Vendola farà il bravo ragazzo, e che non si assumerà la stessa responsabilità che si prese insieme con Bertinotti nel 1998, facendo cadere il primo governo Prodi. È possibile. Ma pure Bertinotti era diventato un bravo ragazzo nel 2006, al secondo tentativo di Prodi, eppure il governo cadde lo stesso, anche quella volta in soli due anni. Più delle personalità e dei patti preelettorali, contano infatti le logiche politiche. Se si fa credere ai propri elettori che Monti è l’inferno e poi non li si porta in paradiso, si può star certi che prima o poi un Turigliatto salta fuori; e per mandare al diavolo i ricchi finisce per mandarci la sinistra, per la terza volta in vent’anni. L'indicatore dei consumi Confcommercio (Icc) registra a novembre ancora una diminuzione, risultando in flessione del 2,9% nel confronto annuo e dello 0,1% rispetto al mese precedente. Prosegue cosi' il trend in atto dalla fine del 2011 e si mostra ''con una certa evidenza come il 2012 si avvii ad essere ricordato come l'anno piu' difficile per i consumi del secondo dopoguerra'', sottolinea Confcommercio, con la riduzione piu' elevata dall'inizio delle serie storiche. Crolla il potere di acquisto delle famiglie: nei primi 9 mesi del 2012, rispetto allo stesso periodo del 2011, il potere di acquisto ha registrato una flessione del 4,1%. Lo comunica l'Istat aggiungendo che nel terzo trimestre 2012 si è ridotto del 4,4% rispetto al terzo trimestre 2011. Migliora il deficit pubblico: nei primi 9 mesi del 2012 si è registrato un rapporto tra indebitamento netto e Pil pari al 3,7%, in miglioramento di 0,5 punti rispetto al corrispondente periodo del 2011. Lo comunica l'Istat. E' l'Imu a determinare il miglioramento dei conti pubblici. "Al miglioramento dei saldi di finanza pubblica nei primi 9 mesi del 2012 ha contribuito soprattutto - riferisce l'Istat - l'andamento positivo delle entrate tributarie, trainato dall'Imu". Sale il peso delle entrate: nei primi 9 mesi del 2012 l'incidenza sul Pil delle entrate totali è stata del 44,8%, dal 43,2% del corrispondente periodo del 2011. Lo comunica l'Istat evidenziando soprattutto il "significativo aumento" dell'incidenza delle entrate totali sul Pil nel terzo trimestre: 45,7%, rispetto al 43,5% del terzo trimestre 2011. Attenzione: i cinesi approfittano della crisi finanziaria dei Comuni per fare speculazioni immobiliari, si legge su Repubblca. L'allarme, insolito, è degli 007 italiani, che, nei giorni scorsi, hanno spedito alla presidenza del Consiglio e al Copasir un report riservato con alcuni esempi di come i cinesi, appunto, si stiano infiltrando negli affari economici italiani. E con quali rischi e ripercussioni per il Paese. La preoccupazione è contenuta anche nella relazione semestrale sulla sicurezza italiana elaborata dai servizi segreti. L'intelligence ha inoltrato alle autorità politiche alcuni casi significativi. Il primo, riguarda il mega-affaire della riconversione delle aree ex Falck di Sesto San Giovanni (quelle delle tangenti del caso Penati). Si tratta di un intervento urbanistico enorme: un milione di metri quadrati da edificare, e quattro miliardi di euro di investimenti. Gli analisti del Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza) segnalano "l'interesse manifestato dagli operatori cinesi per il recupero e il restauro dell'ex area Falck, progetto definito di interesse dalla stessa Repubblica popolare cinese, il cui sviluppo è seguito dal consolato cinese a Milano". Il presidente dell’Antimafia Pisanu: «Vertici istituzionali non erano a conoscenza, Cosa nostra di certo non agì da sola». E su Capaci: «Forse tecnici esterni per uccidere Falcone» La mafia non agì da sola nella stagione delle stragi che fu un vero e proprio episodio di strategia della tensione: ci furono «convergenze di interessi» con altri soggetti, ma le cosche non presero ordini da nessuno. I vertici istituzionali dello Stato (Scalfaro, Ciampi, Amato) non furono coinvolti nella trattativa Stato-Mafia condotta tra il Ros dei carabinieri e Don Vito Ciancimino. La vicenda del 41 bis ha risvolti meno preoccupanti di quanto non fosse emerso in un primo momento, mentre emergono dubbi sulle capacità tecniche dispiegato dalla mafia a Capaci tanto da far ipotizzare a Beppe Pisanu, presidente dell’Antimafia, che ci possa essere stato un supporto tecnico esterno per la strage. L’Antimafia consegna il suo rapporto sulla lunga indagine su trattativa e stragi delineando sempre più un intrusione, un supporto, una «presenza» che non è propriamente mafiosa tanto che Pisanu, nelle 68 pagine delle sue comunicazioni che non saranno probabilmente votate a causa della fine della legislatura, scrive sempre «Cosa Nostra» con le virgolette quasi a prendere le distanze da una entità non del tutto assimilabile alle cosche tradizionali. Ecco i principali approdi del lavoro dell’antimafia nelle parole del Presidente dell’Antimafia. «I vertici istituzionali e politici del tempo, dal Presidente della Repubblica Scalfaro ai Presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa. Penso che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto». «I Carabinieri e Vito Ciancimino hanno cercato di imbastire una specie di trattativa; “cosa nostra” li ha incoraggiati, ma senza abbandonare la linea stragista; lo Stato, in quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito ed ha risposto energicamente all’offensiva terroristico-criminale». «La trattativa Mori-Ciancimino partì come ardita operazione investigativa ma cammin facendo uscì da suo alveo naturale». «Sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto. A Capaci fu necessaria una «speciale competenza tecnica per realizzare un innesco che evitasse l’uscita laterale dell’onda d’urto dell’esplosione e la concentrasse invece sotto la macchina di Falcone. Mi chiedo: Cosa nostra ebbe consulenze tecnologiche dall’esterno?». «Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni che spinsero “cosa nostra” a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola». La mafia per le stragi «di certo non prese ordini da nessuno, perché ha sempre badato al primato dei suoi interessi e all’autonomia delle sue decisioni. Tuttavia, quando le è convenuto, quando vi è stata convergenza di interessi, non ha esitato a collaborare con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali». «Se nel ’92-’93, similmente ad altre fasi di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, `cosa nostra´ ne fece parte. O meglio, fu parte, per istinto e per consapevole scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio. Indebolire lo Stato significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a patti». «Non si può ipotizzare l’esistenza di “mandanti esterni” mentre sono verosimili “input esterni”. Dunque non si possono neppure escludere temporanee “convergenze di interessi” tra settori deviati delle istituzioni,mafia ed altri soggetti per commettere delitti,per l’appunto,di comune interesse». «Tra rinnovi, mancati rinnovi e ripristini,l a drastica riduzione dell’applicazione del 41 bis nelle carceri ha avuto un impatto meno allarmante di quello che, a prima vista,poteva apparire. Dei 334 41 bis revocati dal ministro Conso tra il novembre del ’93 e il gennaio del ’94,solo 23 sono riferibili a detenuti siciliani di accertato spessore criminale» *** Sono stati depositati complessivamente 215 simboli al Viminale, scrive l'Ansa. L'ultimo simbolo depositato si chiama 'Unione popolare'. Il primo depositato la mattina di venerdì scorso era stato quello del Movimento associativo Italiani all'estero con Merlo (Maie). Col numero 214 la lista Moti democratici di Severino Antinori. Alle politiche del 2008 i simboli presentati erano stati 181, 153 quelli ammessi. Le operazioni si sono concluse alle 16. Ora spetta al Viminale valutarne la regolarità. Le decisioni saranno prese entro martedì prossimo. Gli eventuali ricorsi dovranno essere presentati all'Ufficio Centrale Nazionale presso la Cassazione. "Non mi candido a Roma ma solo in Regione Lombardia, senza paracadute": lo ha detto il segretario della Lega Roberto Maroni, che è candidato governatore e ha spiegato di voler procedere così "per coerenza e serietà". Il sondaggio di Renato Mannheimer per il Corriere che dà in vantaggio il centrodestra in Lombardia "é una buona notizia: siamo avanti in Lombardia e dobbiamo vincere perché questa sinistra è pericolosa". Lo ha detto il segretario della Lega Nord Roberto Maroni che è candidato presidente della Regione, a margine della presentazione del suo libro a Melegnano. "Bersani - ha spiegato - mi preoccupa molto quando dice di voler partire dagli immigrati, dando loro la cittadinanza il primo giorno di governo. Io invece voglio partire dai lombardi, garantire un posto di lavoro a chi non ce l'ha e soprattutto tenere qui il 75% delle tasse: per questo ho fatto l'accordo con il Pdl". Il Pdl va verso il via libera alla ricandidatura di Nicola Cosentino, imputato in due processi in Campania. Il commissario campano, Nitto Palma, darà a Roma le proposte per le liste tra due-tre giorni, ma intanto sottolinea di "aver letto le carte" e che contro Cosentino "vi è un impianto accusatorio non accettabile". Stamane il Pdl ha tenuto una manifestazione elettorale a Napoli, con Francesco Nitto Palma, Altero Matteoli e il governatore Stefano Caldoro. In prima fila, lo stesso Nicola Cosentino e un altro parlamentare uscente sotto processo, Alfonso Papa. Incalzato dai cronisti sulla ricandidatura di Cosentino, Nitto Palma - magistrato ed ex guardasigilli - ha spiegato: "Su Cosentino ripeto quanto ho detto, la stessa cosa dichiarata dal presidente Berlusconi a Porta a Porta e Servizio pubblico. Valuteremo caso per caso le singole posizioni degli inquisiti. Se leggendo le carte troveremo elementi di sostegno alla pubblica accusa, assumeremo le determinazioni conseguenti. Se non troveremo elementi di supporto assumeremo la relativa decisione assumendocene le responsabilità". "Per Cosentino prosegue - ho già detto più volte di aver avuto possibilità di leggere le carte. Dal mio personale punto di vista ritengo non ci sia un accettabile impianto accusatorio, che è la stessa identica cosa che ha affermato il presidente Berlusconi a Porta a Porta". "Mi permetto di ricordare - ha aggiunto Nitto Palma - che il processo a S. Maria Capua Vetere è pendente da circa due anni. Per la mia esperienza di magistrato un processo verso una sola persona non può durare tanto se vi è solido impianto accusatorio. Ricordo a tutti, per quello che vale, che chi sostenne la pubblica accusa in quel processo, se non ricordo male, ha poi ricoperto il ruolo di assessore nella giunta de Magistris". "La volata è aperta, siamo condannati a vincere. Noi sinceramente pensiamo di avere la possibilità di vincere. Nel 94 ci davano per sicuri sconfitti e riuscimmo ad arrivare primi superando la 'gioiosa macchina da guerra' di Occhetto". Lo afferma Silvio Berlusconi nel corso di Domenica Live su Canale 5. Il Cavaliere, parlando del confronto che fece con Occhetto aggiunge: "Lui mi trattò con molta condiscendenza disse che 'ero un bravo ragazzo, ma la vittoria andra' a noì, lo smentimmo. Nel 2006 eravamo sicuri sconfitti in partenza recuperammo 10 punti". "Il mio dovere era ritornare a dare un contributo al mio Paese e al mio movimento", aggiunge il Cavaliere. Intanto Maroni commenta la dicitura 'Berlusconi presidente' nel simbolo elettorale: "Lui è il presidente del Pdl". "Non temo" che ciò possa ingenerare equivoci, aggiunge, dopo che nel patto elettorale con il Pdl non è stato deciso il candidato premier comune. E' Silvio Berlusconi il capo della coalizione di centrodestra. Lo ha confermato Ignazio Abrignani, responsabile dell'ufficio elettorale del Pdl, che è arrivato ora al Viminale per depositare il simbolo del Popolo delle Libertà. Sono sette i partiti della coalizione. Come quella di centrosinistra, anche lo schieramento di centrodestra è composto da sette partiti. Lo ha detto sempre Ignazio Abrignani; i partiti sono il Pdl, la Lega Nord, il Grande sud insieme a Mpa, i Pensionati, Intesa popolare, Mir e La Destra di Storace. Abrignani si appresta ora a depositare il simbolo del Pdl. Nel frattempo anche Roberto Calderoli è tornato al Viminale perché dovrà cambiare uno dei due simboli già presentati, quello della Lega Nord e "Maroni presidenti", perché contengono ambedue il nome del leader del partito. "Tutti mi chiedono di andare in tv a incrociare la spada con altri leader politici che sono tanti. Non credo si possa andare in troppi, nostro avversario è Pd e quindi con Bersani sarei felicissimo di poter andare in tv per far conoscere i nostri programmi in modo che gli italiani possano scegliere".Così Berlusconi a Studio Aperto. "Berlusconi è il candidato premier del centrodestra? Bersani farà il confronto tv solo con i candidati premier". E' la domanda ironica che, dopo la sfida tv lanciata dal Cavaliere a Bersani, rivolgono dai vertici del Pd a Berlusconi alludendo al fatto che nel centrodestra non sia chiaro chi sarà il candidato a palazzo Chigi. Intanto Monti parlando all'Assemblea dei liberal del Pd in corso ad Orvieto ha detto: ''Auspico che qualunque sia l'esito delle prossime elezioni si faciliti la cooperazione tra i punti riformisti che esistono piu' o meno in tutti i partiti''. Il leader di Scelta Civica ha sottolineato come nei diversi partiti si trovino ''esplicite forme di conservatorismo''. E per far capire a chi si riferisca, il professore ha distinto Fassina e Vendola, da Casini e Bocchino. Udc e Fli, ha detto, ''sara' per ragioni tattiche, e' la componente che ha creato meno difficolta' alle riforme strutturali che abbiamo iniziato; molte delle quali - ha proseguito - hanno trovato dei limiti severi perche' conservatori presenti in una parte e nell'altra del Parlamento hanno ritenuto di porre quei limiti''. I partiti apparentati con il Pdl alla Camera sono: Lega Nord, La Destra di Storace, Mpa e Grande Sud, Pensionati, Intesa popolare, Fratelli d'Italia e Mir; al Senato oltre a questi partiti se ne aggiungono altri quattro "più radicati nel territorio": Basta tasse, Liberi da Equitalia, Lista del Popolo e Rinascimento italiano. Capo unico dell'intera coalizione di centrodestra, così come é stato indicato nel programma depositato al Viminale, Silvio Berlusconi. "La volata è aperta, siamo condannati a vincere. Noi sinceramente pensiamo di avere la possibilità di vincere. Nel 94 ci davano per sicuri sconfitti e riuscimmo ad arrivare primi superando la 'gioiosa macchina da guerra' di Occhetto". Lo afferma Silvio Berlusconi nel corso di Domenica Live su Canale 5. Il Cavaliere, parlando del confronto che fece con Occhetto aggiunge: "Lui mi trattò con molta condiscendenza disse che 'ero un bravo ragazzo, ma la vittoria andra' a noì, lo smentimmo. Nel 2006 eravamo sicuri sconfitti in partenza recuperammo 10 punti". "Il mio dovere era ritornare a dare un contributo al mio Paese e al mio movimento", aggiunge il Cavaliere. Intanto Maroni commenta la dicitura 'Berlusconi presidente' nel simbolo elettorale: "Lui è il presidente del Pdl". "Non temo" che ciò possa ingenerare equivoci, aggiunge, dopo che nel patto elettorale con il Pdl non è stato deciso il candidato premier comune. E' Silvio Berlusconi il capo della coalizione di centrodestra. Lo ha confermato Ignazio Abrignani, responsabile dell'ufficio elettorale del Pdl, che è arrivato ora al Viminale per depositare il simbolo del Popolo delle Libertà. Sono sette i partiti della coalizione. Come quella di centrosinistra, anche lo schieramento di centrodestra è composto da sette partiti. Lo ha detto sempre Ignazio Abrignani; i partiti sono il Pdl, la Lega Nord, il Grande sud insieme a Mpa, i Pensionati, Intesa popolare, Mir e La Destra di Storace. Abrignani si appresta ora a depositare il simbolo del Pdl. Nel frattempo anche Roberto Calderoli è tornato al Viminale perché dovrà cambiare uno dei due simboli già presentati, quello della Lega Nord e "Maroni presidenti", perché contengono ambedue il nome del leader del partito. "Tutti mi chiedono di andare in tv a incrociare la spada con altri leader politici che sono tanti. Non credo si possa andare in troppi, nostro avversario è Pd e quindi con Bersani sarei felicissimo di poter andare in tv per far conoscere i nostri programmi in modo che gli italiani possano scegliere".Così Berlusconi a Studio Aperto. "Berlusconi è il candidato premier del centrodestra? Bersani farà il confronto tv solo con i candidati premier". E' la domanda ironica che, dopo la sfida tv lanciata dal Cavaliere a Bersani, rivolgono dai vertici del Pd a Berlusconi alludendo al fatto che nel centrodestra non sia chiaro chi sarà il candidato a palazzo Chigi. Intanto Monti parlando all'Assemblea dei liberal del Pd in corso ad Orvieto ha detto: ''Auspico che qualunque sia l'esito delle prossime elezioni si faciliti la cooperazione tra i punti riformisti che esistono piu' o meno in tutti i partiti''. Il leader di Scelta Civica ha sottolineato come nei diversi partiti si trovino ''esplicite forme di conservatorismo''. E per far capire a chi si riferisca, il professore ha distinto Fassina e Vendola, da Casini e Bocchino. Udc e Fli, ha detto, ''sara' per ragioni tattiche, e' la componente che ha creato meno difficolta' alle riforme strutturali che abbiamo iniziato; molte delle quali - ha proseguito - hanno trovato dei limiti severi perche' conservatori presenti in una parte e nell'altra del Parlamento hanno ritenuto di porre quei limiti''. I partiti apparentati con il Pdl alla Camera sono: Lega Nord, La Destra di Storace, Mpa e Grande Sud, Pensionati, Intesa popolare, Fratelli d'Italia e Mir; al Senato oltre a questi partiti se ne aggiungono altri quattro "più radicati nel territorio": Basta tasse, Liberi da Equitalia, Lista del Popolo e Rinascimento italiano. Capo unico dell'intera coalizione di centrodestra, così come é stato indicato nel programma depositato al Viminale, Silvio Berlusconi. "Non mi inquieti troppo perché posso fare dichiarazioni che lo metterebbero a terra e lui sa di cosa sto parlando". E' l' "avvertimento" lanciato da Gabriele Albertini, in corsa per la presidenza della Regione Lombardia, al governatore Roberto Formigoni che lo ha accusato di puntare a poltrone che si aggiungerebbero a quella di euro. Albertini, lanciando l' "avvertimento" a Formigoni, ha sottolineato: "I colloqui che hanno riguardato alcuni argomenti molto vicini a lui sono avvenuti nel mio ufficio e sappiamo di cosa sto parlando. Non parliamo di poltrone perché non credo abbia argomenti apprezzabili da rappresentare". L'ex sindaco ha aggiunto che "per il resto non ho altri motivi di conflitto con lui. Ha fatto la scelta sbagliata di abbandonare il campo e di 'rientro' per ragioni, a mio avviso, di potere e non di obiettivi, valori e proiezione futura. E' un politico di professione, non so perché si è offeso quando ho detto la verità". All'ex sindaco replica Salvini della Lega: 'e' un linguiaggio che si usa altrove, con la coppola, per minacciare qualcuno'. Per Albertini il Pdl "é diventato una propaggine della Lega più che un partito europeista", ha detto Albertini. Albertini ha aggiunto che il suo schieramento si propone "con un orientamento moderato" in linea con il Partito Popolare Europeo. "Difficile considerare moderato - ha aggiunto riferendosi all'alleanza Pdl e Lega - un partito che propone l'uscita dall'euro con un referendum". L'ex sindaco ha detto che il suo schieramento "raccoglie la buona volontà di tutti i cittadini da qualsiasi parte provengano" e, riferendosi al sondaggio in base al quale la sua lista dovrebbe drenare più voti alla sinistra che alla destra, ha affermato di non credere "a questa distinzione ancestrale tra destra e sinistra. Non mi pongo il problema - ha concluso - perché non é la provenienza che conta ma lo scopo con cui si sta insieme". «Io sono alternativo a Monti. Il centrosinistra ha il diritto di governare senza ipoteche e badanti. Con Monti e Casini si collaborerà per la riforma dello Stato». Così Nichi Vendola intervistato da Maria Latella a Sky tg24. In ogni caso garantisce che non creerà problemi alla coalizione: «Non tirerò Bersani per la giacchetta, non voglio avere il ruolo per cui avendo sentito Bersani ogni volta io debba dire +1». Quanto ai rapporti con il centro risponde con un «vedremo» alla domanda se sia disposto a votare Pier Ferdinando Casini alla presidenza del Senato «ma non lo vorrei come ministro». PATRIMONIALE - Si dichiara favorevole ad una «patrimoniale sugli attivi finanziari per scoraggiare le rendite finanziarie» e chiarisce «la mia frase sui ricchi era evangelica» perchè «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco vada nel regno dei cieli». Un modo per chiarire la sua uscita sui ricchi che possono andare anche al «diavolo», riferita in particolare al caso dell'attore francese Depardieu. COPPIE GAY - Inoltre spiega che Sel proporrà una legge per le adozioni e i matrimoni gay anche se questo non è parte del programma di governo. Con il Pd invece «c'è un minimo comune denominatore» che punta a fare in modo che anche in Italia sia possibile il riconoscimento delle coppie di fatto. Quanto al tema del confronto in Tv afferma che «deve avvenire tra i candidati premier» condividendo così la posizione già espressa dai vertici del Pd. *** Tra tutte le risorse di cui dispone il Partito democratico in questa campagna elettorale, scrive Panebianco sul Corriere, la sua ritrovata coesione interna, garantita dal saldo controllo esercitato da Pier Luigi Bersani, è la più importante. È come in guerra: l'esercito più coeso, guidato con mano ferma da un condottiero, ha più probabilità di vincere. È anche per questo che, forse, la sfida principale sarà di nuovo fra il Pd e il Pdl, partiti che dispongono di condottieri saldamente al comando. Ma come non era scontato che Berlusconi riuscisse a ricompattare di nuovo le schiere del centrodestra, non era nemmeno scontato che Bersani riuscisse a dare coesione al proprio partito, un tempo diviso in gruppi in accanita concorrenza. La storia del Pd degli ultimi anni è la storia della (ri)costruzione di una forte leadership. Una forte leadership è tale se riesce a rimotivare, restituendo loro una identità, gli iscritti e i militanti e se colui che la incarna è stato capace di indebolire gli altri maggiorenti del partito. Sono stati almeno tre i momenti significativi di questo processo. Il primo è simbolicamente rappresentato dalla «foto di Vasto» (Bersani con Vendola e Di Pietro). Con quella mossa Bersani diede una risposta positiva alla richiesta che, evidentemente, saliva dal grosso dei militanti e degli iscritti: «Dicci qualcosa di sinistra». Fu la presa d'atto che le ragioni fondanti del Partito democratico erano venute meno, che il Pd (D'Alema dixit) era «un amalgama mal riuscito». Il Pd era nato per rinnovare la tradizione della sinistra (la rottura con Rifondazione comunista decisa dall'allora segretario Walter Veltroni rispondeva a questa esigenza). Bersani prese atto del fallimento e mandò un chiaro segnale: il Pd sarebbe ritornato nell'alveo della tradizione. Ridare una marcata connotazione di sinistra al partito, in presenza di un evidente sbandamento e di una diffusa crisi di identità di iscritti e militanti, fu una mossa vincente. La base aveva finalmente trovato un leader pronto a ricostituire una identità collettiva. Il secondo passaggio fu rappresentato da una intelligente politica di reclutamenti. Il segretario si circondò di collaboratori giovani e, per lo più, capaci. Giovani dirigenti che rispondono a lui e che solo da lui dipendono. Ciò ha rafforzato molto la posizione del segretario a svantaggio del potere di veto e del ruolo degli altri dirigenti storici. Il terzo passaggio è rappresentato dalle primarie. Col senno del poi si può dire che Matteo Renzi, sfidando Bersani, e trasformando così le primarie, da rito un po' truffaldino quali erano state in passato, in primarie vere, ha dato al segretario una grande opportunità. Perché Bersani, vincendole, ha potuto rovesciare a proprio favore i rapporti di forza con il resto del gruppo dirigente. Si aggiunga il fatto (ma questo nessuno poteva allora immaginarlo) che, a primarie avvenute, la sfida di Renzi è stata rapidamente riassorbita. Si noti che è la prima volta che un segretario conquista tanto potere nel maggior partito della sinistra dai tempi del Pci: con le sue diverse sigle (Pds, Ds) il partito postcomunista non era mai stato altrettanto compatto, data la divisione fra dalemiani e veltroniani. Niente segnala meglio l'avvenuta ricostituzione di una forte leadership della rinascita, sotto nuove spoglie, dell'indipendentismo di sinistra. Esso ebbe una certa importanza ai tempi del Partito comunista. Segnalava la capacità del partito di attirare personalità di spicco, dell'accademia o delle professioni. A quelle personalità il Partito comunista chiedeva vivacità culturale e dipendenza politica. La vivacità era assicurata dalle qualità professionali che molte di quelle personalità possedevano. La dipendenza era inscritta nel fatto che il seggio su cui sedevano non era stato da loro conquistato in campagna elettorale, o comunque attraverso la lotta politica, ma concesso dal partito. L'inserimento nel «listino», la cooptazione di diverse personalità di elevato valore professionale, e anche (con qualche eccezione) prive di legami formali con il Pd, da parte di Bersani, riflette la ricostituzione di una forte leadership. Anche da loro, ci si attenderà vivacità culturale (che ci sarà certamente date le competenze e le qualità professionali in campo) e stretta dipendenza dal segretario. Un leader forte è come un direttore d'orchestra: gli altri suonano, chi meglio chi peggio, i diversi strumenti, ma è lui, e solo lui, che governa l'insieme. Se Bersani vincesse le elezioni, come tuttora prevedono i sondaggi, e diventasse capo del governo, sommando premiership e guida del partito, si troverebbe in una posizione invidiabile, che non è mai stata in precedenza di alcun leader della sinistra. Ma si troverebbe anche a fronteggiare un delicato dilemma. Egli è diventato un leader forte perché ha saputo ridare una identità al suo partito. Questa identità ha una marcata connotazione di sinistra (le polemiche sulle posizioni di Stefano Fassina, sulla Cgil, su Vendola ne fanno fede). Ma la forza così conquistata sarebbe sufficiente per consentirgli, come capo di un governo pesantemente condizionato dall'Europa e dai mercati, di infliggere ai propri sostenitori tutte le inevitabili delusioni senza con questo compromettere la propria leadership? C'è da scommettere che in caso di sua vittoria sarà la prima domanda che molti, in Italia e fuori, si porranno. *** I commenti relativi alla politica e alla crisi in corso, scrivew Guido Rossi su Il solo, fino almeno all'elezione del presidente Hollande, erano prevalentemente orientati nel ritenere che in tutti i paesi occidentali la politica avesse una connotazione decisamente conservatrice e di destra. Si soleva mascherare il conservatorismo liberista con l'inesistenza di politiche cosiddette di sinistra o di crescita, poiché l'unico problema rilevante era considerato quello dell'austerity e del rigore di bilancio, che non era di nessuna connotazione politica, bensì una decisamente sbagliata ideologia economica. Che le politiche di austerità in periodi di crisi siano devastanti e comportino esclusivamente un ulteriore aggravamento della crisi, come è successo in Europa e in modo particolarmente doloroso negli ultimi anni anche in Italia, è ora finalmente, con incredibile onestà intellettuale, anche ammesso da chi fu tra i maggiori sostenitori, cioè il Fondo Monetario Internazionale. La risposta politica all'esasperante distruzione di ricchezza, disoccupazione e povertà è appena avvenuta in Europa da parte del Presidente dell'Eurogruppo, Jean Claude Juncker, con un'inaspettata citazione di Karl Marx di fronte all'Europarlamento, accompagnata con la proposta di un salario minimo garantito in Europa. Tuttavia, la vera spinta rivoluzionaria contro il liberismo monetarista e le varie agende di disastrosa austerità, è avvenuta ancora una volta, come ai tempi del "New Deal", dagli Stati Uniti. La sostituzione del Segretario del Tesoro Timothy Geithner con Jacob Lew, ha indicato un deciso cambiamento della politica economica americana da parte del Presidente Obama all'inizio del suo secondo mandato. Se è vero che Geithner, già presidente della New York Federal Reserve Bank, aveva infatti collegamenti continui con Wall Street e con la finanza internazionale, il nuovo nominato Lew, già Capo di gabinetto di Obama, a parte un breve periodo a Citigroup, è in quel mondo piuttosto un "diverso". Se approvata dal Senato la sua nomina, già dal prossimo mese il nuovo Segretario del Tesoro dovrà affrontare lo scontro con i rappresentanti repubblicani del Congresso, che si dichiarano contrari a qualunque stimolo all'economica attraverso un incremento del tetto fissato per il debito pubblico, a meno che non ci sia un corrispondente taglio delle spese, particolarmente nel settore della sanità e del welfare. Obama ha già dichiarato di non avere alcuna intenzione di giungere ad una negoziazione su questi temi. Nonostante le riforme dei mercati finanziari non siano per nulla completate dal Dodd Frank Act e dalle regolamentazioni internazionali, l'enfasi della nuova politica economica americana si è finalmente focalizzata su programmi antipovertà, di protezione della riforma sanitaria e di stimolo alla crescita e all'occupazione, che godono anche del plauso della Chiesa cattolica. Insomma, la difesa delle Banche e del capitalismo finanziario, lascia il passo e la priorità alla difesa dei fondamentali diritti del cittadino, a cominciare dal diritto al lavoro e alla salute. E questo, in un momento in cui ovunque le banche stanno aumentando utili e compensi, nell'incremento generale della povertà. Che finalmente la politica stia riprendendo il sopravvento sull'economia? *** Dopo Santoro, nota Diamanti su Repubblica, Berlusconi è alla caccia di Bersani. Lo vuole sfidare a duello. Davanti alle telecamere. Per sconfiggerlo. E, di conseguenza, vincere le elezioni. Perché dopo la performance a "Servizio Pubblico", si sta diffondendo la convinzione che la partita, fino a ieri considerata chiusa, si possa riaprire. Anzi: sia già riaperta. Il risultato più importante dell'avvio della campagna elettorale, in fondo, è proprio questo. Il ritorno del Cavaliere irriducibile e mai domo. Come il Barone di Münchhausen che si solleva dallo stagno tirandosi per il codino. Un vero miracolo (non fosse altro per i capelli...). A cui Berlusconi ci ha abituato in altre occasioni. Tuttavia, più che di un miracolo si tratta di una leggenda. Scritta da Berlusconi a proprio vantaggio. Perché la televisione contribuisce a orientare il gioco elettorale. Ma sono altri i fattori a determinare il risultato. Berlusconi ne è consapevole. E ha utilizzato la televisione, insieme ai sondaggi, per annunciare profezie che si auto-avverano. Puntando sulla propria presenza oppure assenza. A seconda dei casi e delle opportunità. A partire dal 1994, quando "scende in campo" e invade la televisione. In particolare, le proprie reti. Fino al "faccia a faccia" con Occhetto su Canale 5, da Mentana. Dove Berlusconi annuncia che i sondaggi lo danno nettamente vincitore. E Occhetto replica: "Ma siamo in ripresa...". Cioè: abbiamo perso. La sconfitta dei "progressisti", tuttavia, era già stata scritta. Dalla capacità di Berlusconi di interpretare la nuova legge elettorale maggioritaria. E di utilizzare il marketing elettorale per promuovere il proprio prodotto. Anzitutto: se stesso. Artefice del "nuovo" in politica. Un marchio di successo. Attraverso la tivù, inoltre, Berlusconi polarizza il confronto elettorale. Escludendo il "terzo polo", allora rappresentato dal Patto per l'Italia, composto dal Ppi e dal Patto Segni. Così la campagna elettorale si traduce nella sfida fra lui e Occhetto. Il Nuovo contro il Vetero(comunista). Nel 1996, invece, Berlusconi perde il confronto con Prodi. In televisione (di fronte a Lucia Annunziata). E alle elezioni. Più che per motivi mediatici, però, per ragioni politiche. Mentre Berlusconi si divide dalla Lega, infatti, Prodi "unisce" i Popolari e la sinistra. E allarga l'alleanza a Rifondazione, attraverso un patto di desistenza. Da lì in poi, il Cavaliere non accetterà più "faccia a faccia", per quasi 10 anni. Non per paura, ma perché non gli conviene. Nel 2001 evita il confronto con Rutelli - troppo giovane e brillante, per lui. Perché rischiare quando i sondaggi lo danno in largo vantaggio? Le tivù servono ad accreditare la convinzione della vittoria già scritta. Dai sondaggi. I leader di centrosinistra, per primi, ci credono. Evitano intese con Rifondazione e Di Pietro. Mentre Berlusconi aggrega tutti. Dalla Lega alla destra. Salvo scoprire, alla fine, che alla Camera, dove Rifondazione non si presenta, il distacco è minimo. Un punto percentuale: 45% a 44%. Berlusconi ritorna in tivù, ad affrontare terreno "ostile", solo nel 2005. A "Ballarò". Dopo la pesante sconfitta subita alle Regionali. Per contrastare, come sta facendo in questa fase, la convinzione che il suo ciclo sia concluso. Così, all'inizio del 2006, in campagna elettorale, invade di nuovo le tivù. E sfida ogni leader del centrosinistra. In particolare Prodi. Fino all'ultimo faccia a faccia. Concluso dalla promessa del Cavaliere: "Abolirò l'Ici". La disfatta annunciata si traduce in sconfitta di misura. Una quasi-vittoria. Determinata, però, da altri fattori. In primo luogo, la nuova legge elettorale, il Porcellum, che costringe tutti ad allearsi. E permette a Berlusconi di dividere, ancora, il mondo in due: pro o contro di lui. Il Cavaliere, inoltre, utilizza i sondaggi di un istituto americano, per comunicare che la partita non è chiusa. Per sconfiggere lo sconfittismo dei suoi uomini e dei suoi alleati. In occasione delle elezioni del 2008, simmetricamente, evita di nuovo ogni confronto in tivù. Per non turbare gli equilibri elettorali annunciati dai sondaggi, che lo danno largamente vincente. Per non legittimare un avversario, Walter Veltroni, abile nell'uso del mezzo televisivo. L'irruzione di Berlusconi in tivù, in questa fase, sfociata nella disfida di "Servizio Pubblico", dunque, non è una novità. Ripete un modello sperimentato, dal Cavaliere. Il quale rientra in campo e sceglie avversari e partner quando ne ha bisogno. Cioè, quando è in difficoltà. E deve recuperare. Quando deve, anzitutto, convincere i suoi che la partita non è ancora chiusa. Che è possibile farcela. Che lui non è finito. Va in televisione, Berlusconi, per ridurre il confronto politico in una sfida fra lui e Bersani. Il quale, oggi, appare il vincitore predestinato (dai sondaggi. Forse con troppo anticipo). Per questo, come nel 1994, cerca anzitutto di "scardinare" il Terzo Polo. Il Terzo candidato. Monti. Berlusconi, da Santoro, non ha quasi nominato Bersani, ma ha polemizzato ripetutamente con Monti. Per delegittimarlo. Ma anche per riprendersi gli elettori delusi del Pdl, che guardano con interesse proprio al Professore. Per questo, Berlusconi cerca ora il confronto diretto con Bersani. Per ripristinare, come nel 1994, il gioco bipolare e bipersonale che ha attraversato l'ultimo ventennio. La differenza, rispetto al passato, è che in questa campagna elettorale il ricorso alla tivù è stato praticato, per primo e in modo bulimico, da altri. Per primo, da Monti. Per far conoscere in fretta il proprio prodotto politico, cioè se stesso. Come Berlusconi nel 1994. Pur non disponendo, a differenza del Cavaliere, di mezzi economici e imprenditoriali adeguati. Né, a differenza di Bersani e del Pd, di struttura organizzativa e di militanti sul territorio. D'altra parte, l'80% degli italiani si informa prevalentemente attraverso la televisione. Così, quasi vent'anni dopo, ci troviamo ancora in piena video-politica. E mancano ancora 45 giorni dal voto. Non oso pensare cosa possa succedere da qui alle elezioni. Tuttavia, vent'anni dopo, qualcosa è cambiato. Dopo vent'anni di berlusconismo e di marketing politico, Berlusconi ha vent'anni di più. E si vedono tutti. Non è "nuovo". È invecchiato e si vede. Anzi: è vecchio, come egli stesso ammette (scherzandoci sopra). Più che vincere gli interessa resistere. Il timore è che insieme a lui non siano invecchiati tutti gli attori politici. Che non siamo invecchiati tutti (noi). Al punto da non riuscire a staccare gli occhi dalla televisione - incapaci di rivolgerli alla società e al territorio. La lezione delle primarie - e l'incombere della crisi - suggeriscono che il vento sia cambiato. Il prossimo voto è l'occasione per verificarlo. E per dimostrarlo. *** Come valutare la polemica che è sorta sui contrassegni elettorali e il rischio che corrono i loro presentatori di vedersi ammessi o esclusi, scrive Giuliano Amato su l'Unità, giudizio del Viminale? Scorrendo le cronache, già si percepisce che c’è chi vorrebbe impostarla come la solita polemica contro lo Stato e le sue regole ingiuste e pasticciate, che premiano una volta di più la vecchia politica e lasciano in mezzo alla strada i volonterosi cittadini che si provano a entrare per la prima volta nell’arena. Chi la mette così sbaglia e diffonde veleni in un Paese che, specie in fase elettorale, avrebbe bisogno di un clima il più possibile non inquinato. La realtà è un’altra, la realtà è che, quando il Viminale è chiamato a risolvere un problema di contrassegni confondibili fra loro, molto spesso un inquinatore c’è, ma non è lo Stato, è qualcuno che abita nella non sempre santa società civile. Del resto, in pochi altri casi le regole del gioco sono tanto chiare come lo sono qui. E chi le vuole leggere, le può trovare in un manualetto pubblicato dal Viminale nel 2006- “Istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature”che si scarica tranquillamente dalla rete. Sono regole in parte già contenute nel testo unico elettorale del 1957 e successivamente integrate, che non hanno mai perso (caso effettivamente raro) la semplicità e la chiarezza che avevano all’inizio. Le contiene l’art.14, che qui mi limiterò dunque a riassumere. In esso si dice che cosa sono i contrassegni, come vanno consegnati, in base a quali elementi vanno ritenuti “confondibili” e come deve decidere il Viminale nel caso che lo siano. Gli elementi della confondibilità sono – e possono valere sia congiuntamente che isolatamente- la rappresentazione grafica e cromatica generale, i simboli, i singoli dati grafici, le espressioni letterali, le parole e effigie che qualificano gli orientamenti e i fini, anche se in diversa composizione o rappresentazione grafica. Si potrebbero scrivere pagine per illustrare tutti questi elementi. Quel che è certo è che quando ci si trova davanti a due contrassegni che mettono il dubbio della confondibilità, si è instradati con il massimo di possibile chiarezza per arrivare a decidere. Chi mi legge e trova in rete o sui giornali un quadro dei contrassegni depositati in questi giorni, può verificarlo di persona. Che cosa succede, secondo l’art.14, quando due contrassegni risultano confondibili? Qui sono distinti nettamente due casi. Se uno dei due contrassegni è quello “tradizionalmente” usato da una forza politica già presente in Parlamento, è questo che prevale, anche se l’altro è stato depositato un minuto, un’ora o un giorno prima in occasione della tornata elettorale in corso. E, se ci pensiamo bene, è giusto che sia così. E’ infatti ovvio che la forza politica già in Parlamento continui ad usare il suo contrassegno ed è quindi il nuovo entrante, che sia o meno in malafede, la fonte della confusione. Se si tratta invece dei contrassegni di forze politiche che non erano già in Parlamento e che si presentano perciò come nuove, allora la regola è che “la priorità nella presentazione costituisce titolo”. E- si noti- così è sia per chi è interamente nuovo, come oggi è il Movimento a 5 stelle, sia per singoli o gruppi che sono già in Parlamento, ma si presentano sotto nuove bandiere. La domanda tuttavia che è sorta in questi giorni è se, in questo stesso caso, si è davvero ed esclusivamente alla mercé dell’orario di presentazione, con il rischio che sia così ammesso il burlone, o il perfido sabotatore, che ha fatto la fila per due notti al solo scopo di precludere la presentazione di una lista nuova. La risposta è no. Un apposito comma dell’art.14 dice esplicitamente che “neppure è ammessa la presentazione di contrassegni effettuata al solo scopo di precludere surrettiziamente l’uso del contrassegno di altri soggetti politici interessati a utilizzarlo”. La disposizione è chiara e mi auguro che nessuno pensi che allora, se non siamo nelle mani dell’orario, siamo in quelle dell’arbitrio del Viminale, che deve decidere sull’esservi o meno quel solo scopo. A parte il fatto che il Viminale ha serie, competenti e sperimentate persone per fare la verifica, distinguere un soggetto politico che è già organizzato o si sta organizzato da un signore o da una sigla che dietro di sé non hanno nulla o quasi, non è una verifica di particolare difficoltà. E la decisione del Viminale è comunque impugnabile. Insomma , non ci lamentiamo, per una volta, dello Stato. Se c’è giungla tra i contrassegni, lo Stato è solo quello che la disbosca. *** "Anche lui ha fatto illudere noi: è solo un bluff e ci siamo caduti tutti...anche come senatore a vita per il quale non ha nessun merito": così Silvio Berlusconi alla trasmissione Lo spoglio su Sky tg 24. ha replicato a Monti. "Probabilmente - ha aggiunto - vuole tassarmi anche il piffero...". "Una mascolzonata!", ha definito a Sky le dichiarazioni di oggi del premier Mario Monti che attribuivano al suo governo la colpa dell'aumento delle tasse. Se vinciamo come coalizione e sono sicuro che vinciamo - ha detto Berlusconi indicheremo come candidato premier Angelino Alfano". La Lega è d'accordo? "Sì", ha risposto il cavaliere. La Lega ha indicato Tremonti premier nel simbolo? "E' una birichinata... ma loro avendo il 5-6% non hanno nessuna possibilità di indicare il premier. è solo una indicazione pubblicitaria. Essendo Tremonti persona seria e capace si avvalgono di averlo con loro". Il Cavaliere ha quindi sottolineato come con Tremonti i rapporti non siamo mai stati di inimicizia ma semmai ci sono state "diversità di opinioni". "ci siamo sentiti 2-3 giorni fa", ha aggiunto. Non ci sarà nessun giocatore del Milan nelle liste del Pdl, neanche Gattuso, ha poi assicurato Silvio Berlusconi. "Il processo è tutto una comica, una farsa, una montatura diffamatoria. Non c'é nulla di vero, é solo un modo per diffamare una persona", ha aggiunto il Cavaliere. "Io ho una formazione iper-cattolica, vengo da una famiglia super-cattolica". "Ho servito messa per un mare di tempo, suonando l'organo e ho una cappella nella mia casa di Arcore dove tutte le domeniche si dice messa" e poi "c'é anche il sacramento della confessione". Così Silvio Berlusconi a Sky ha parlato delle sue convinzioni religiose. "Grasso è persona stimabile. Con Di Pietro e Ingroia vengono i brividi". "Secondo i sondaggi Euromedia che sono sempre risultati corretti, il centrodestra è al 34,2 %, il Pdl al 23,1, il centrosinistra al 38,3. Siamo sotto di soli 4,1 punti", ha spiegato Berlusconi alla trasmissione di Ilaria D'Amico. "Il centrino è all'11: Udc al 4, Fli ha raggiunto la vetta di 1, mentre la scelta cinica è al 7... Quello che è "importante" è "il trend": "per noi sono in risalita, per la sinistra sono in discesa e questo ci autorizza a pensare che riusciremo a recuperare". Cosi' il Cavaliere che ha ricordato che nel 2006 recuperò nove puntoi alla sinistra. "Prenda questi qua..i Casini, i Fini...sono lì da 30 anni a fare solo chiacchiere", ha detto Berlusconi. "Noi in 9 anni abbiamo fatto più cose di tutti e 50 i governi messi assieme", ha aggiunto ancora il Cavaliere. Monti dice che si può rivedere l'Imu? "Ha cambiato parere su tante cose - ha spiegato - ... raggiungendo zero credibilità". "Io sono contrario alla patrimoniale, bisogna ridurre le spese dello Stato". Scriverò un nuovo contratto con gli italiani quello precedente è stato rispettato all'80%, ha affermato Berlusconi ricordando che nel precedente contratto c'era l'impegno a far fronte almeno a 4 punti su 5. "Mi impegno a presentare in Parlamento, nel primo mese del mio Governo, una legge che abolisca il finanziamento pubblico dei partiti"- ha detto - e "il dimezzamento del numero dei parlamentari e dei consiglieri regionali". MARIO MONTI A PORTA A PORTA - "Adesso che gli italiani possano ancora credere alla serietà " di Berlusconi "mi ricorda la fiaba del pifferaio magico con i topini che vanno ad annegare in quel fiume". "E' uno che ha già illuso gli italiani tre volte. La prima vota mi sono fatto illudere anch'io". Lo afferma Mario Monti a 'Porta a Porta'. "Non è vero che l'Italia è un Paese debitore, noi bensì abbiamo aiutato gli altri e ci siamo salvati con le nostre mani", ha aggiunto il professore. Monti sottolinea che "quanto è stato dato alla Grecia ci è costato" e che "l'Italia non è vero che è un Paese debitore". "E' vero che la Bce ha lavorato per dare più respiro ai mercati ma questo è stato possibile anche grazie all'Italia". Poi Monti replicando al segretario del Pd in merito alla tenuta dei conti pubblici, ha detto: "Voglio rassicurare Bersani: non c'é polvere sotto i tappeti". "E' puerile che scarichi le colpe su chi ha governato nell'ultimo anno e perché nessuno dei partiti voleva governare: mi hanno dato un bel piedistallo di impopolarità ". "Ho chiesto agli italiani dei sacrifici che possono essere dissipati in 3-4 mesi se al governo arriva un nuovo illusionista o un vecchio illusionista ringalluzzito - ha detto Monti -. "Ci sono offerte politiche in giro che sono offerte di antipolitica, sono il partito della rabbia. Noi non lo siamo". Secondo Monti la sua proposta politica "é diversa da tutte le altre". La promessa di abbassare le tasse, ha spiegato Monti, "é illusionistica se fatta da Berlusconi, fatta dal principale responsabile dell'alto livello delle tasse di oggi". "La pressione fiscale deve diminuire, i governi succeduti in questi anni l'hanno aumentata troppo. Assolutamente non penso ad un'imposta patrimoniale", ha detto il professore secondo il quale è necessario ridurre la spesa pubblica. Monti replica quindi alle obiezioni di Vendola che lo critica per aver alzato la bandiera della riduzione delle tasse: "io - dice - non alzo bandiere se non quella dell'Italia. Ho la viva speranza che si possa ridurre la pressione fiscale se si lavora sulla struttura dello stato in modo più incisivo di quanto Pd e Pdl hanno consentito finora". Ad una domanda sull'ipotesi di alleanze post voto, ha aggiunto: 'Noi non ci schieriamo a favore di nessuno. Vedremo che cosa avrà da dire Bersani o altri, Bersani é il più verosimile in base ai sondaggi. Dipenderà, noi non siamo e non saremo mai la stampella di nessuno. Vogliamo essere il pungolo di tutti'. "Voglio che l'Imu venga ridotta, ma senza fare giravolte come quelle che ho visto nel 2008 che ho visto fare, se non sbaglio, qui da lei in questo studio da chi ha promesso di eliminarla e poi è stato costretto a reintrodurla". "Credibilità è la parola. Dipende da chi dice queste cose. Se le dice Berlusconi...", ha poi detto il professore citando una tabella del "sito pagellapolitica.it". "E' un bagno di verità utile a tutti noi che corriamo alle elezioni perché viene calcolato il tasso di veridicità di noi politici. E' uscito ieri ed è molto interessante, perché inchioda ognuno di noi a ciascuna informazione - aggiunge - Monti è all'89% di veridicità, Bersani al 73%, Berlusconi al 51%, Grillo al 44%". "Anche il punto in più di Iva potrebbe essere evitato ma dipende da quanto si riesce a ridurre della spesa pubblica e c'é moltissimo ancora da fare". "Mi hanno dato un piedistallo dove, su, c'era una croce. E quando" si è trattato di prendere decisioni impopolari "dal Pdl più che dal Pd sono state prese delle distanze. Per me è stata realmente una via crucis". Cosi' Monti a 'Porta a Porta' replicando a chi nel Pdl afferma che aveva promesso di non scendere in campo. La legge elettorale, ha ancora detto Monti, "penso non sia equa che vada oltre le esigenza di una governabilità politica. E' una delle eredità peggiori della legislatura che sta per chiudersi, della non capacità o non volontà di non cambiare una legge elettorale che merita il nome con il quale è stata battezzata". "La riduzione dei parlamentari, il governo non poteva farla perché ci voleva una riforma costituzionale. Questa sarà la cosa che io proporrei nel primo consiglio dei ministri", ha aggiunto il professore. ''Noi siamo aperti ad una collaborazione non per uno scambio di favori ma per firmare un patto per le riforme e per la ricostruzione del paese''. Cosi' Pier Luigi Bersani, in un'intervista al Washington Post, rilancia la proposta di un'intesa con Mario Monti e i centristi dopo il voto alla domanda se, in caso di necessita', dopo le elezioni, il Pd raggiungera' un accordo con il Professore per formare un governo stabile e che cosa offrira' in cambio del sostegno. "Dario Franceschini mi ha contattato questa mattina a nome del Pd e mi ha proposto un accordo di desistenza, cioé mi ha chiesto di non presentare le nostre liste in regioni chiave quali la Sicilia, la Campania e la Lombardia. Credo siano molto preoccupati per la continua crescita della nostra lista 'Rivoluzione civile' ". E' quanto afferma in una nota il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, firmatario del manifesto fondativo della lista 'Rivoluzione Civile-Ingroia', in rappresentanza della Rete 2018. "E' una proposta che fa seguito a mille rifiuti del Partito democratico - aggiunge Orlando - che, nei mesi scorsi e nelle ultime settimane, ha opposto un netto no a qualunque dialogo per costruire una vera alternativa intransigente al berlusconismo e al montismo. Se questa dovesse essere una proposta elettorale francamente ritengo che sia una cosa molto modesta. Non comprendiamo se sia o meno un segnale di un ravvedimento del Pd che intende troncare ogni rapporto con Monti e con il montismo per costruire finalmente un'alternativa credibile di governo. La riposta può darla solo il Pd". "Io non posso che portare questa richiesta nella cabina di regia di 'Rivoluzione civile'', conclude Orlando. "Nessuna proposta di patto e nessuna desistenza. Le cose che ho detto a Orlando sono le stesse che ho detto pubblicamente in due interviste questa mattina. Mi pare fin troppo evidente come non vi sia alcun spazio per una qualsiasi forma di accordo politico con la Lista Ingroia, anche per rispetto delle legittime ma profondamente diverse posizioni politiche tra noi e loro". Lo afferma Dario Franceschini, presidente deputati Pd. "Ho fatto una semplice constatazione aritmetica più che politica: per come è fatta la legge elettorale al Senato, nelle regioni in bilico, come Lombardia, Sicilia e Campania, la presenza della Lista Ingroia rischia di far vincere la destra, rendendo il Senato ingovernabile. Tutto qui. Nessuna proposta di patto o desistenze, parola peraltro sfortunata che evoca ambiguità inconciliabili con la linea di chiarezza voluta dal Pd. Ma soltanto la descrizione di un quadro oggettivo, rispetto al quale ognuno deve assumersi le proprie responsabilità", conclude. "Nessun negoziato in corso" con Rivoluzione civile, "nessuna ambiguità" di rapporto tra il Pd e Ingroia. Lo ha detto oggi ad Ancona il vice segretario del Pd Enrico Letta, capolista nelle Marche per la Camera. "Da parte del Pd - ha sottolineato - non sono mai venuti attacchi scomposti alla Corte Costituzionale o al Quirinale, che invece hanno caratterizzato l'azione del pm di Palermo. Faranno le loro scelte. Ma la distanza rimane abissale La campagna elettorale che si prefigura, scive Fabbrini su Il sole, sembra riportarci indietro piuttosto che avanti. Se è vero che le caratteristiche di una campagna elettorale condizioneranno la logica dello scenario post-elettorale, allora occorre davvero preoccuparsi per come il dibattito tra i partiti si sta configurando. Una proprietà inequivocabile della politica ideologica consiste nel chiedere agli elettori un voto prospettivo, basato su una fiducia slegata da specifici comportamenti pregressi. Al contrario, una proprietà inequivocabile della politica democratica consiste nell'usare le elezioni per giudicare ciò che è stato fatto e quindi valutare le alternative. L'Italia non acquisirà mai le caratteristiche di una moderna democrazia europea se non riuscirà ad ancorare la politica ai fatti e non già alle promesse. Per questo motivo, le elezioni del prossimo 24-25 febbraio dovrebbero essere l'occasione per fornire un giudizio retrospettivo sulle scelte del governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi tra il 2008 e il 2011. Se si smarrisce questo punto di partenza, allora è inevitabile ritornare al passato della politica fatta di chiacchere, dichiarazioni estemporanee, richiami della foresta. Se la posta in gioco è la valutazione del governo di centro-destra (che peraltro ha governato per 8 anni su 10 nel decennio 2001-2011), allora il dibattito elettorale dovrebbe fare emergere le critiche e le giustificazioni di quell'esperienza. Le elezioni non dovrebbero riguardare un giudizio del Governo Monti, che è stato un governo brevissimo, di emergenza e sostenuto da una maggioranza trans-partitica. Se il Governo Monti diventasse l'oggetto della campagna elettorale, sia per la destra che per la sinistra, allora la confusione tra gli elettori salirebbe alle stelle. Quel governo non è stato espressione di una lista maggioritaria chiamata "Scelta Civica" ma di una decisione del presidente della Repubblica accettata dal Parlamento. Allo stesso tempo, è singolare che il senatore Monti, così impegnato ad europeizzare le nostre politiche pubbliche, proponga un progetto politico centrista che ostacola l'europeizzazione del nostro sistema partitico. Impostare una campagna elettorale equidistante tra la destra e la sinistra è sbagliato due volte: in primo luogo, perché si dimentica che al governo, prima dell'emergenza, c'era la destra e non già la sinistra; in secondo luogo, perché si prefigura la formazione di un raggruppamento politico che non avrebbe una sua coerente collocazione nel sistema partitico europeo. Le principali democrazie europee a noi comparabili sono strutturate intorno a due grandi partiti di centro-destra e di centro-sinistra, a loro volta aggregati all'interno delle due grandi famiglie del partito popolare e del partito socialista. La scelta del senatore Monti di salire in politica ha un senso solamente se è finalizzata a ridefinire la rappresentanza dell'elettorato di centro-destra, non già per creare l'ennesimo partitino di centro. Per questo motivo, sarebbe necessario che la sua Lista proponesse un programma non solo alternativo a quello perseguito dal Governo Berlusconi, ma anche coerente con le prospettive perseguite dal Partito popolare europeo. Gli elettori dovrebbero decidere tra una coalizione di destra che si ripropone in continuità con l'esperienza del governo Berlusconi del 2008-2011 e due alternative di centro e di sinistra. Queste ultime non si sovrappongono, anche se hanno inevitabilmente molti punti in comune (come ve ne sono tra socialisti e popolari in Europa). La coalizione Pd-Sel ha acquisto un carattere marcatamente di sinistra, nonostante la scelta di candidare personalità provenienti dai mondi più diversi. Se questa è la sinistra dell'agenda redistributiva, sarebbe bene che venisse spiegato agli elettori come verrà realizzata. Allo stesso tempo, è vero che la cosiddetta agenda-Monti si rivolge ai consumatori, prima ancora che ai produttori, ed è impegnata alla liberalizzazione del paese, prima che alla redistribuzione delle sue ricchezze. Tuttavia, nella coalizione centrista vi sono non pochi rappresentanti di quelle corporazioni che occorrerebbe smantellare. Come si intenderà farlo? Se la campagna elettorale verrà rimessa sui suoi binari, allora gli elettori dovranno essere messi nella condizione di valutare, in primo luogo, l'esperienza del precedente governo di centro-destra e quindi, in secondo luogo, la credibilità dell'una o dell'altra alternativa a quest'ultimo. Se così sarà, allora più chiari saranno gli scenari post-elettorali che si potranno creare. La posta in gioco delle prossime elezioni non sarà solo stabilire chi governerà il paese, ma anche come il paese verrà governato. Pifferaio (non magico) e vecchio illusionista ringalluzzito, nota Maocchi su Repubblica.. Il senatore Monti ha passato il Rubicone dell’equidistanza. Da oggi, per lui, Berlusconi e Bersani pari non sono. E lo schema simmetrico delle prime prove tecno-centriste non esiste più . La svolta era attesa, ma colpisce il linguaggio. Quella parole, vecchio illusionista ringalluzzito, dovranno bruciare non poco ad un signore che si autoproclama “uomo del fare”, si dipinge i capelli e si circonda di (quasi) diciottenni in odor di Olgettina. Un new style ampiamente annunciato nei giorni scorsi, e che oggi si compie assieme al passo politico che segnerà le prossime settimane della campagna del professore. La partita, sembra voler dire il premier, è tra una classe dirigente seria e i populisti. Probabilmente ha ragione. Ma se aggiungesse che i partiti sono essenziali per il funzionamento di una democrazia, uscendo dall’ambiguità insita nel suo “salire” in politica, il concetto sarebbe più credibile. In fondo lo ha già fatto all’inizio del suo mandato, quando i partiti dovevano votargli la prima fiducia. Ma allora era tutto diverso. Adesso che si tratta di razzolare voti nell’Italia arrabbiata e antipolitica, meglio dire che i partiti sono “organizzazioni che costano e che comportano certe esigenze di mantenimento e di favori”. Tutto gli puoi far digerire agli italiani. L’Imu, la legge Fornero e la spending rewiew. Ma di questi tempi non ti azzardare a parlargli bene dei partiti. Una conventio ad excludendum dal consesso civile che verrebbe voglia di uscire di casa, andare in piazza Montecitorio e abbracciare il primo partito che capita a tiro, qualunque esso sia. *** E se domani... i cani agguantassero la lepre? Bersani sa che ciò è possibile e sa che deve scegliere. L'elettorato italiano è sempre stato un elettorato di destra. Ciò consentì alla Dc di governare ininterrottamente per tutto il dopoguerra, la guerra fredda e il dopo guerra fredda. Ciò venne reso possibile grazie alla strategia e due forni; cioè, grazie all'abilità dei politici dc di mantere buoni rapporti politici sia alla loro destra che alla oro sinisra. Fu così che la Dc governò con la destra e con la sinistra. Domanda:"Sarà quesa le strategia di Monti e dei suoi alleati?": Non lo so. Quello che so è che il Cavaliere è un gatto dalla sette vite e potrebbe rovvinare i sogni di Bersani e si Monti diventando il futuro ago della bilancia. "Il voto è segreto... ma nel '94 l'ho votato. Solo allora però perché credevo potesse portare avanti una rivoluzione liberale che poi non c'é stata". Così il premier uscente Mario Monti risponde a Ilaria D'Amico su Sky Tg24 in merito a Silvio Berlusconi. "Il mio pensiero è che la famiglia sia costituita da un uomo e da una donna, fondata sul matrimonio. I figli vanno cresciuti da un padre e da una madre. Il Parlamento può trovare altre forme per tutelare forme di convivenze". Lo afferma Mario Monti a 'Lo Spoglio' Su SkyTg24. Per quanto riguarda il matrimonio gay e le unioni di fatto, ha detto Monti, "il mio pensiero è che la famiglia sia costituita da un uomo e da una donna e credo che la famiglia sia fondata sul matrimonio e ritengo necessario che i figli crescano con un padre e una madre". Detto ciò, ha aggiunto, "il Parlamento può certamente trovare delle soluzioni convincenti per regolare altre forme di unioni e convivenze". "Nel nostro movimento politico - ha concluso - ci sono idee pluralistiche su questo tema così come nella società e negli altri partiti". "La sinistra ha fatto grandi passi avanti verso l'accettazione dell'economia di mercato, ma quando fa riforme verso l'apertura della concorrenza va un pochino contro la sua cultura storica" e infatti "é associata oggi a forze di estrema sinistra che sono a mio avviso conservatrici". Così Mario Monti, intervistato da Ilaria D'Amico su SkyTg24. "Spesso all'estero ci è stato detto: 'sono anni che non si vedeva un presidente del Consiglio, ma neanche un ministro italiano'". Mario Monti, durante il suo intervento all'Ice, torna a punzecchiare Silvio Berlusconi, che in mattinata in un'intervista radiofonica lo ha a sua volta attaccato: "C'è in giro un matto che pensa di essere Monti...". Escludo che gli italiani siano matti, ma sono pieni di buon senso. Non tocca a me stabilire di me stesso, sarei in conflitto di interessi". Lo afferma Mario Monti a 'Lo Spoglio' Su SkyTg24, replicando alle dichiarazioni di Silvio Berlusconi. Mario Monti farebbe parte di un governo in cui ci fosse anche Vendola? "Posso solo dire che per quanto mi riguarda non vorremo stare in nessun governo nel quale non sia dominante l'impostazione riformista". Lo ha detto lo stesso premier uscente rispondendo ad una domanda di Ilaria D'Amico su Sky Tg24. Alla successiva domanda se dunque non farebbe parte di un governo con Vendola risponde sorridendo: "Mi semplifica il compito perché lo ha già dichiarato lui...". A Grillo mi accomuna "la distanza dalla politica tradizionale", ma "io non sono affatto l'antipolitica: sono contro la struttura tradizionale ormai appesantita dei partiti che vorrebbero giocare per gli interessi futuri del Paese, ma son piombati dai loro interessi e dalle loro clientele". Lo afferma Mario Monti a 'Lo Spoglio' Su SkyTg24. Monti ha comunque ironizzato con il leader del M5S che oggi gli ha dato del "ritardato morale" dicendo di essere comunque onorato di "figurare nel suo raggio di attenzione. Forse voleva darmi del ritardato mentale, giudizio legittimo, oppure è un riferimento ad una cosa morale come la mia salita politica e vuol dire che l'ho fatta tardi", ha concluso. Rispetto al novembre 2011 "la reputazione" dell'Italia come Paese "attendibile, finanziariamente e più in generale, è stata ripristinata", ha affermato Monti, intervenendo alla presentazione del piano nazionale dell'Istituto del Commercio Estero. "Spesso all'estero ci è stato detto: 'sono anni che non si vedeva un presidente del Consiglio, ma neanche un ministro italiano'". Il riferimento al suo predecessore Berlusconi è chiaro quando il premier aggiunge: "Oppure ci dicono 'Non siamo riusciti perche' due anni fa la bilaterale è stata annullata all'ultimo minuto". Un chiaro riferimento alla visita in Giappone che Berlusconi cancellò alla vigilia della missione. "Sempre piu' l'attività di governo si gioca nelle sedi multilaterali" e "si comprende il disagio, avvertito più dalla classe politica italiana rispetto ad altri Paesi europei, che deriva dall'avere più familiarità e usualità di costume e di interlocuzione con ciò che è interno, qualche volta con ciò che è intimo, al sistema politico", aggiunge il premier. ''Qualcuno aveva pensato di aiutare l'export sopprimendo l'istituto del commercio estero, mentre si rendeva omaggio ad una visione forse innovativa dell'internazionalizzazione, creando un ufficio dei ministeri a Monza'', afferma il Professore, con un riferimento al decentramento di alcuni dicasteri voluto dalla Lega Nord. Le multinazionali "non offrono solo lavoro di bassa qualità" e "non credo siano portatrici di peggiori condizioni o pratiche di lavoro". Lo dice Mario Monti, all'Ice, forse richiamandosi alla polemica su McDonald's. "Se gli investimenti esteri si basano su piani industriali seri e creano nuovi insediamenti, essi creano opportunità per tutti". "Prima Monti ha messo l'Imu e ora dice di volerla togliere, poi ha fatto il redditometro e ora dice di non volerlo. O pensa che gli italiani siano matti o c'é in giro un matto che pensa di essere Monti". Lo dice Silvio Berlusconi a Radio Anch'io, attaccando ancora una volta il premier uscente e le sue politiche fiscali. "Come al solito i giornali stravolgono le cose pur di sottopormi a una brutta figura", dice Silvio Berlusconi rispondendo a una domanda in merito al no di Draghi alla candidatura al Quirinale. "Io non ho proposto - sottolinea - alcuna candidatura. Ho solo risposto a una domanda". Il Cavaliere ribadisce la propria "stima" a Draghi e ricorda di aver contribuito a portarlo alla Bce ingaggiando "un braccio di ferro con la Francia di Sarkozy. Draghi sta facendo bene e non vedo - afferma ancora - alcuna opportunità per noi e per lui nel lasciare il suo incarico. Io ho una candidatura in pectore ma resta lì" ma certamente, conclude, "Monti non ha alcuna possibilità" di salire al Colle. "Monti é diverso. Ci eravamo cascati tutti". "Una mia candidatura di Draghi non c'é mai stata. Io ho una candidatura in pectore ma resta lì perché altrimenti si brucia". "Il ceto medio teme fortemente che al governo possa andare la sinistra, che in Italia non è socialdemocratica", "Il centrino è la ruota di scorta, la spalla, del Pd", aggiunge Berlusconi. "Penso che al Senato vinceremo ampiamente", risponde poi a chi gli chiede se, in caso di pareggio a Palazzo Madama, il presidente del Consiglio dovrebbe essere una figura terza. "Stiamo ancora lavorando sulle liste soprattutto per quanto riguarda la concessione di alcune deroghe meritate", afferma il Cavaliere, che ricorda come nel Pdl sia stato fissato il limite di tre legislature e 65 anni ma aggiunge: "Ci sono personalità che per loro competenza ci farebbe ancora comodo avere. Dobbiamo riunirci per votare delle deroghe". E' possibile che la benzina costi un po' meno? "Penso di sì, abbiamo visto che è possibile avere i 1,7- 1,680 invece di 1,8". Lo ha detto a 'Italia Domanda' il leader del Pd Pierluigi Bersani prospettando un intervento sull'Iva e non sulle accise. Il redditometro "non credo sia uno strumento che abbia un'efficacia risolutiva". Lo ha detto a 'Italia Domanda' il leader del Pd Pierluigi Bersani. Il leader del Pd ha, tra l'altro ironizzato sottolineando: "vedo che non ha più né padre né madre: Berlusconi l'ha fatto lui, Tremonti l'aveva fatto così, poi Monti l'ha applicato". Bersani ha detto che su di esso vede "un allarmismo ingiustificato" ma ha evidenziato che così come concepito "becca i pesci piccoli, se funzionasse per beccare qualche pesce piccolo male non fa ma io non credo sia uno strumento che abbia efficacia risolutiva". Secondo il leader del Pd per come è concepito adesso non è efficace senza affiancare un sistema di "banche dati" per il controllo fiscale. "Non abbiamo paura di nessuno, il Pd regge la sfida alla destra in Lombardia, in Molise e ovunque. Questo è il punto politico di fondo: solo noi possiamo battere la destra e sono sicuro che la batteremo in tutto il Paese". Pier Luigi Bersani replica così a Casini che ieri aveva definito "debole" chi si appella al voto utile. "Non ho mai parlato di voto utile sostiene Bersani - tutti i voti sono voti ma il punto politico di fondo è che solo noi possiamo battere la destra". "Vedo che gli italiani non si aspettano che noi aumentiamo le tasse. Hanno ragione, se la spesa sarà sotto controllo ogni euro recuperato puo’ andare alla riduzione delle tasse. La differenza vera e’ alleggerire il peso sul lavoro che dà lavoro". Così Bersani ieri a Ballarò. "Cancelleremo le leggi ad personam, ce n'é un certo tot, la Cirielli va cancellata, la Gasparri da modificare...insomma ce ne è un po', finché c'è la persona". "Tutti i voti vanno bene ma poi c'é la matematica e noi siamo i soli in condizione di battere la destra. Indebolire noi è un gioco masochista", sottolinea il candidato premier del centrosinistra. "Parliamone", ha detto Antonio Ingroia, intervenuto a "Un giorno da Pecora" su Radio2, replica ad una domanda sulla proposta del Pd di una desistenza da parte di Rivoluzione civile nelle regioni chiave per il Senato. Ingroia ha però lamentato il fatto che nonostante lui abbia cercato varie volte Pierluigi Bersani per un confronto, il segretario del Pd non abbia mai risposto. Occorre ''evitare un uso disinvolto delle informazioni non verificate''. Lo dice il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, parlando del nuovo redditometro e auspicando che gli uffici abbiano ''massima attenzione e massima cautela'' nell'uso dei dati. L'analisi dell'infedeltà fiscali dei contribuenti "verrà potenziata nell'immediato con il nuovo redditometro", ha detto il direttore dell'Agenzia delle Entrate Attilio Befera spiegando che il nuovo strumento "abbandona il ricorso alla presunzione della disponibilità di pochi beni e si concentra sulla spesa effettuata dal contribuente" e al suo rapporto con il reddito dichiarato. Il redditometro ha l'obiettivo di "intercettare forme di evasione spudorata" e "i finti poveri", ha affermato il vicedirettore dell'Agenzia delle Entrate Marco di Capua sottolineando che "non è uno strumento di accertamento di massa". I controlli che verranno effettuati con il redditometro saranno "inferiori ai 40.000" l'anno e non prenderanno in considerazione "scostamenti tra spese e reddito dichiarato pari a 1.000 euro al mese, 12.000 euro l'anno", ha specificato Befera. "Con la platea di spesa ampliata, e non limitata da alcuni beni come in passato, non c'é criminalizzazione della ricchezza perché è giusto impiegare liberamente il proprio reddito", ha aggiunto Di Capua. ' previsto in serata un incontro tra il presidente del Consiglio, Mario Monti, ed il direttore dell'Agenzia delle Entrate, Attilio Befera. E' quanto riferiscono finti di Palazzo Chigi. Sul tavolo del colloquio probabilmente lo scottante tema del redditometro. "Il redditometro così com'é è una patrimoniale aggiuntiva" che penalizza più il nord che il sud, "così com'é va sicuramente cancellato come l'Imu". Lo ha detto il segretario della Lega Roberto Maroni parlando con i giornalisti al termine della mattinata di lavori per il programma regionale lombardo a Cernobbio. Ancora un battibecco tra Giulio Tremonti e Gianfranco Fini durante Ballarò su Rai Tre: dopo l'Imu è il redditometro a far discutere i due ex ministri del governo Berlusconi. "Fini dia un colpo di telefono al suo amico Monti, gli dica di ritirarlo. E' un provvedimento incostituzionale, bestiale. Ed é una curiosa persona il senatore a vita Monti, che fa attività di lotta e di governo, prima fa un decreto e dice che serve, poi che va tolto", affonda Tremonti provocando il leader di Fli. Fini Ribatte: "Monti ha detto fin da subito che il redditometro era una bomba ad orologeria, ma non è stato lui ad introdurre il criterio. Ora, siccome è giusto ragionare su cose che preoccupano drammaticamente gli italiani e visto che il provvedimento non è ancora in vigore, andrà verificato con paletti precisi come viene messo in opera, evitando la presunzione e l'inversione dell'ordine della prova". La Gdf di Milano, su ordine del pm Maurizio Ascione, ha perquisito le sedi di Milano e Torino della Lega Nord nell'ambito dell'inchiesta per bancarotta e corruzione con al centro presunte irregolarità sulle quote latte. Gli uomini della Guardia di finanza di Milano ieri sera sono entrati nella sede di via Bellerio e in quella di Torino del Carroccio con un decreto di perquisizione presso terzi per acquisire materiale informatico e cartaceo. L'inchiesta parte dal crack della cooperativa 'La Lombarda' fallita con un buco da 80 milioni di euro. Oltre alla bancarotta, gli inquirenti ipotizzano anche la corruzione perché, da quanto si è saputo, si sospetta di presunti versamenti di mazzette a funzionari pubblici e politici per interventi sia ministeriali che legislativi a favore degli agricoltori per ritardare i pagamenti sulle quote latte da versare all'Unione Europea. "La Lega non c'entra, l'inchiesta riguarda una società che non c'entra niente con la Lega". "Non hanno trovato nulla", noi "siamo terzi e quindi la questione è chiusa". Così il segretario della Lega Roberto Maroni sulle perquisizioni in via Bellerio per l'inchiesta sulle quote latte. "Siamo avanti nei sondaggi e arrivano schizzi di fango mediatico. Prevedibile, ma nessuna paura. Avanti tutta, PRIMA IL NORD", aggiunge poi su Twitter. Umberto Bossi e Roberto Maroni erano presenti, da quanto si è saputo, nella sede della lega di via Bellerio a Milano durante le perquisizioni della Gdf con al centro le quote latte. Presenti anche Roberto Calderoli e Roberto Cota. Su alcuni uffici i rappresentanti del Carroccio avrebbero sollevato la questione dell'immunità parlamentare e quindi la Gdf non ha potuto acquisire il materiale presente in quegli uffici. Ma il segretario della Lega seccamente smentisce: "La notizia riportata oggi da alcune agenzie di stampa e da alcuni siti web, ovvero che io e Bossi avremmo chiesto l'immunità per contrastare l'azione investigativa della Guardia Di Finanza avvenuta ieri presso la sede della Lega di via Bellerio, è totalmente falsa e priva di ogni fondamento. La Lega non c'entra nulla con questa indagine che riguarda una società cooperativa privata che non ha alcun rapporto con il movimento", afferma Maroni. L'inchiesta era partita dalla bancarotta della cooperativa di agricoltori milanesi 'La Lombarda' (in passato è stato condannato per il crack il legale rappresentante) e poi gli inquirenti hanno allargato le indagini su presunti episodi corruttivi, arrivando ad indagare anche in Piemonte. In passato sono stati sentiti a verbale dal pm anche gli ex ministri dell'Agricoltura Galan e Zaia, oltre all'ex presidente dell'Agenzia per le erogazioni per l'agricoltura, Dario Fruscio e all'ex capo di gabinetto del ministero delle Politiche Agricole, Ambrosio. Gli inquirenti stanno indagando in particolare sui rapporti commerciali tra 'La Lombarda' e altre società. Per il momento è stato notificato un decreto di perquisizione presso terzi, senza informazioni di garanzia per gli indagati. Anche Renzo Bossi, figlio di Umberto, è stato sentito a verbale, da quanto si è appreso, nelle scorse settimane nell'ambito dell'inchiesta. Nel maggio scorso, il pm milanese Maurizio Ascione aveva ascoltato come teste anche Gianna Gancia, presidente della Provincia di Cuneo e compagna dell'ex ministro leghista Roberto Calderoli, nell'ambito dell'inchiesta che ipotizza tangenti per 'appoggi politico-istituzionali' alla causa degli allevatori che negli anni non hanno pagato le multe dell'Ue sulle quote latte. Gli inquirenti nei mesi scorsi hanno sentito molte persone, secretando i verbali. Erano stati ascoltati anche l'ex ministro dell'Agricoltura, Luca Zaia, e Marco Paolo Mantile, che era vice comandante del Comando Carabinieri politiche agricole e alimentari (quando il Ministero era guidato da Zaia). Contestualmente alle perquisizioni nelle sedi della Lega Nord, il pm Maurizio Ascione ha ascoltato a verbale come persone informate sui fatti, ieri sera, la segretaria amministrativa di via Bellerio, Daniela Cantamessa, e la segretaria della sede torinese, Loredana Zola. Perquisite anche le abitazioni delle due donne. Nel Cuneese, da quanto si è saputo, sono 'radicati' la maggior parte degli allevatori che negli ultimi anni non hanno versato le multe sulle quote latte (che dovevano andare all'Agea, l'agenzia per le erogazioni per l'agricoltura, e da qui all'Ue), ossia i versamenti dovuti per il latte prodotto in eccesso. Per una decina di anni, tra la fine degli anni '90 e il 2009, come sancito dalle recenti condanne in due processi, uno milanese (con al centro le cooperative 'La Lombardà e 'La Latteria') e l'altro torinese (il filone di indagini partì proprio da Cuneo), non sarebbero state versate multe per un totale di circa 350 milioni di euro. Stando a quanto si è saputo, le indagini puntano ad accertare se siano state pagate mazzette in cambio di appoggi politico-istituzionali sulla vicenda quote latte. Sarebbero stati accertati, tra l'altro, forti 'contatti' tra diverse società e aziende di produttori di latte piemontesi e lombardi, aziende come 'La Lombarda' di Alessio Crippa (condannato a 5 anni e mezzo per una presunta truffa da 100 milioni di euro sulle quote latte) che poi, secondo l'accusa, sarebbero state 'svuotate' dei profitti anche illeciti, divisi tra i vari soci. La campagna politica-elettorale, per definizione, non è la stagione propizia per pacate e approfondite discussioni sul da farsi. Né possiamo immaginare che in questa fase il Governo (dimissionario) e il Parlamento (sciolto) possano andare molto oltre l'ordinaria amministrazione. Ma a questa fase di "sospensione", va detto con chiarezza, c'è un doppio limite. Un limite è dettato dal buon senso, e investe sia i dati di fatto che la memoria dei cittadinicontribuenti-elettori. L'altro è imposto dall'esigenza di realizzare, fino in fondo, ciò che è stato già preparato e approvato, rispettivamente, dal governo Monti e dalla maggioranza che lo ha sostenuto. Il caso del nuovo redditometro, la cui entrata in vigore è stampata sulla Gazzetta ufficiale del 4 gennaio, è esemplare. Abbiamo un provvedimento operativo (il Fisco, si sa, non riposa mai) ma sembra che sia caduto dal cielo al termine di un misterioso processo di auto-generazione. Non è così. Il direttore dell'agenzia delle Entrate, Attilio Befera, l'ha presentato con tanto di slides il 20 novembre scorso e il ministero dell'Economia del governo Monti ha varato il relativo decreto attuativo alla vigilia di Natale 2012. E non basta. Il redditometro affinato nella strumentazione altro non è che il frutto del decreto legge 78 del 2010 (articolo 22, aggiornamento dell'accertamento sintetico) voluto dall'allora governo Berlusconi su proposta del ministro Giulio Tremonti (e direttore-macchinista delle Entrate era sempre Befera). Tuttavia, oggi, né Monti né Berlusconi riconoscono l'oggetto smarrito. Se l'ex premier parla di «roba da stato di polizia» e afferma che il suo redditometro era «completamente diverso», il premier attuale ricorda che si tratta di una misura «doverosa di chi ci ha preceduto» ma che funziona come «una bomba ad orologeria sulla strada del governo». «Fosse per me - ha spiegato Monti che pure nel suo discorso programmatico aveva messo l'accento sulla necessità contro l'evasione di "potenziare e rendere operativi gli strumenti di misurazione induttiva del reddito" - non l'avrei messo, ed è da valutare seriamente l'ipotesi di toglierlo». Resta da capire perché, allora, il governo non abbia proposto strada facendo una modifica, disinnescando la bomba, o più semplicemente non l'abbia ritirato dalla circolazione. In ogni caso, tutto si può dire meno che il redditometro sia un asteroide precipitato sulla Gazzetta ufficiale delle leggi il 4 gennaio scorso. Certo, in una campagna elettorale per grandissima parte giocata sui temi fiscali, il redditometro è politicamente scomodo da maneggiare di fronte ai contribuenti già fiscalmente stressati ma che al contempo reclamano più durezza contro gli evasori. E meglio sarebbe, invece che rimpallarsi la sua paternità, spiegare chiaramente nel merito se e come questo strumento deve essere cambiato o rinviato. Quanto al secondo limite che deve essere posto a questa fase di "sospensione", esso riguarda la tendenziale inerzia nell'approvazione delle misure legislative, regolamentari e amministrative che impediscono la piena attuazione delle riforme già approvate dal governo Monti. La campagna elettorale in corso non può far dimenticare il senso dell'emergenza vera e propria che ha contraddistinto un anno di governo dei professori. Ora le strade della "strana" maggioranza si sono divise e lo stesso premier Monti è in campo con la sua proposta politica. Ma questo non dovrebbe bloccare la conclusione operativa del piano di governo che è stato condiviso fino a dicembre scorso. Come documentato da Rating 24, dopo che si sono perse riforme come la delega fiscale e sta per apririsi la nuova e incredibile lotteria telematica del "click day" per i rimborsi Irap, sono tanti i provvedimenti che attendono di giungere in porto. Lo stesso ministro Piero Giarda ha confermato che sono 94 le misure che scadono prima del voto del 24 febbraio (su 246 ancora da adottare) e che ai colleghi ministri è stato chiesto uno sforzo supplementare. Il tempo è poco ma un colpo d'ala su questo terreno, nel momento in cui la polemica politica si fa più aspra, dimostrerebbe due cose. La prima: il senso dell'emergenza non è stato perduto e si lavora con serietà fino all'ultimo minuto utile. La seconda: al partito dei frenatori che alberga nelle burocrazie ministeriali, parastatali e amministrative si dà una scrollata forte proprio nel momento in cui pensa di essere nella rilassante fase di passaggio da una legislatura all'altra. In attesa di conoscere i nuovi timonieri politici per poi accerchiarli come sempre. Sarebbe un bel, e soprattutto utile, contropiede. Non c'è bisogno di scomodare un principio antico, nessuna tassazione senza rappresentanza, scrivono Massimo Fracaro e Nicola Saldutti sul Corsera. Qui siamo addirittura sul fronte opposto: nessuno, ma proprio nessuno dei candidati alle elezioni, o dei loro schieramenti, finora, si è dichiarato padre di qualche imposta. Come dire: le tasse sono una categoria dell'arte di governo, ma con la particolarità unica, nel mondo, di non avere genitori. Prima c'è stato il capitolo Imu, l'imposta sulla casa tornata nel 2012 che il leader del Popolo della libertà, Silvio Berlusconi e il premier, Mario Monti, hanno attribuito l'uno all'altro. Poi è arrivato il redditometro, che nell'oscuro linguaggio delle tasse si chiama «accertamento sintetico di tipo induttivo». Il presidente del Consiglio lo ha definito, abbandonando la cautela delle parole, una specie di «bomba a orologeria» lasciata in eredità dal Cavaliere. E si è spinto fino ad affermare che, fosse per lui, non l'avrebbe mai varato. Berlusconi si è affrettato a spiegare che il suo redditometro era completamente diverso. Un malvezzo antico, quello dei politici, di parlare delle tasse come piovessero dal cielo. Quasi fossero una specie di epidemia tollerata, ma non voluta. E così tutti si stanno dichiarando pronti a tagliarle. Meno Imu, meno Irpef, meno Irap, niente aumenti Iva. Facendo finta di dimenticare un piccolo dettaglio, le tasse rappresentano le entrate dello Stato. Quindi c'è una sola strada per ridurle: ridurre la spesa pubblica. Non esistono altre scorciatoie sicure. Qui le parti si ribaltano: se per le imposte non ci sono padri, la spesa viene considerata (anche in tempi di spending review) virtuosa. Nessuno, ma proprio nessuno, ha indicato nei suoi slogan elettorali, o nelle apparizioni televisive, nei monologhi o nei dibattiti, dove intende tagliare. Dove si vuole risparmiare per trovare le risorse che consentano di ridurre l'Imu? Al massimo si sono ipotizzate ulteriori tasse. Equilibrio contabile complicato dal momento che l'imposta sugli immobili ha garantito circa 24 miliardi. Per non parlare dell'Irap che tutti dicono di voler rivedere, peccato che frutti ogni anno 34 miliardi. Dove li recuperiamo? Potrebbe allora rivelarsi un buon esercizio democratico che i candidati si impegnassero a stabilire, e a indicare, non tanto le tasse da tagliare, ma quale sarà la soglia massima di spesa pubblica che ritengono tollerabile. E rispettare, si spera, l'impegno preso con gli italiani. Visto che il redditometro è orfano, e tutti lo vogliono rivedere o sopprimere, basterebbe un decreto per sospendere questo marchingegno infernale che preoccupa soprattutto gli onesti e dal quale si prevede di recuperare solo 815 milioni. Un decreto che anche il governo in carica potrebbe varare, visto che tutte le forze in campo lo voterebbero. Il redditometro è ormai un'arma spuntata. Gli uffici del Fisco si stanno attrezzando per applicarlo. Ma non deve essere facile per un dipendente dello Stato applicare un provvedimento rimasto senza rappresentanza politica. Silvio Berlusconi, scrive Massimo Giannini su Repubblica continua la sua personale battaglia contro la verità. Non pago delle falsità profuse nelle prime due settimane di campagna elettorale, il Cavaliere in tv rilancia la sua strategia dell'inganno. Sistematica distruzione dei fatti (sempre sfavorevoli) e funambolica produzione di "fattoidi" (sempre favorevoli). Dopo quelle smerciate a "Porta a porta" e "Servizio Pubblico", ecco altre dieci bugie d'autore vendute a "Lo spoglio" e "Omnibus". 1) "MAI ALZATO LE TASSE" Il leader della destra populista piazza un doppio affondo sul fisco: "In tanti anni di governo non ho mai aumentato le tasse, non ho mai messo le mani nelle tasche degli italiani e ho sempre mantenuto i conti in ordine". Poi, per attaccare Monti, aggiunge: "Mentre Monti ha aumentato la tassazione, noi abbiamo ridotto la spesa ed eliminato gli sprechi". Nessuna di queste affermazioni regge al vaglio dei numeri ufficiali. Secondo i dati Istat e Banca d'Italia, durante il primo governo Berlusconi (1994-1996) la pressione fiscale è aumentata dal 40,6 al 41,4% del Pil. Con il secondo e terzo governo Berlusconi (20012006) la pressione fiscale è cresciuta dal 40,5 al 41,7%. Con l'ultimo governo Berlusconi (2008-2011) siamo passati dal 42,7 al 44,8%. La prima manovra del marzo 2011 ha introdotto l'Imu, sia pure sulle abitazioni secondarie. L'ultima manovra dell'agosto 2011 ha intrrodotto un taglio lineare da 20 miliardi di tutte le agevolazioni fiscali, a partire dall'esenzione Irpef sulla prima casa e le detrazioni per familiari a carico e lavoro dipendente. Quanto ai tagli di spesa, il governatore della Banca d'Italia, nelle sue "Considerazioni finali" del 2010, afferma testualmente: "L'incidenza della spesa primaria corrente nel 2008 ha toccato il valore massimo dal dopoguerra, e nel 2009 salirà di altri 3 punti percentuali". Questi sono "i conti in ordine" del demiurgo azzurro. 2) "IL NOSTRO REDDITOMETRO ERA DIVERSO" Ancora sul fisco, Berlusconi afferma: "Il nostro redditometro era totalmente diverso da quello portato avanti da Monti: ad esempio ora c'è l'onere della prova e ci sono tutte quelle voci che spaventano i cittadini". Anche in questo caso, la Vandea anti-tasse dell'ex premier si fonda sulla manipolazione della realtà. Lo spiegano i tecnici dell'Agenzia delle Entrate: "È vero, il redditometro è cambiato dall'anno scorso, ma in senso più favorevole al cittadino. Già con l'accertamento unilaterale, il contribuente può dimostrare che l'Amministrazione finanziaria ha commesso un errore. Ora, con il nuovo redditometro, questa possibilità viene anticipata, e il contribuente ne può usufruire prima del contraddittorio". 3) "HO RISPETTATO IL CONTRATTO" Il Cavaliere è sicuro: "Ho mantenuto tutte le promesse , nessuna esclusa, fatte agli italiani sia nel 2001 che nel 2008. Scriverò un nuovo contratto, quello precedente è stato rispettato all'80%". Non è così. L'Università di Siena ha calcolato che l'ex premier ha rispettato l'84% degli impegni, "ma "solo considerando i disegni di legge presentati, e mai approvati". Luca Ricolfi, economista liberale e non certo bolscevico, nel suo "Tempo scaduto, il contratto con gli italiani" (Il Mulino, 2006) ha stimato che la percentuale di "rispetto" del contratto è arrivata al 61%. I fallimenti più gravi si sono concentrati proprio sui temi più forti del berlusconismo: la riduzione delle tasse (la pressione è rimasta stabile o è salita), il dimezzamento della disoccupazione (scesa solo dal 9,9 al 7,1%), l'aumento dell'assegno per i pensionati al minimo (secondo la Uil aumentati da 5,9 a 8 milioni) e l'abbattimento della micro-criminalità grazie al "poliziotto di quartiere" (secondo l'Istat l'escalation dei reati è stata del 6,7% l'anno). Su queste basi, un "nuovo contratto con gli italiani" non è una promessa, ma semmai una minaccia. 4) "LO SPREAD NON C'ENTRA CON I GOVERNI" Per mantenere alta la tensione contro il Professore, il Cavaliere rilancia sullo spread: "Monti usa lo spread per accusarmi di non essere credibile? È una mascalzonata. Lo spread non c'entra nulla con i governi, è indipendente ed è frutto dei movimenti finanziari e della speculazione". La teoria è affascinante, ma del tutto inconsistente. Basta citare un altro economista liberale, e dunque non tacciabile di "comunismo". Mario Seminerio, per confermare quanto conti il fattore-governo sugli spread, fa un raffronto tra i differenziali dei tassi italiani e spagnoli e scrive: "Fino a inizio '98 lo spread tra i due Paesi era prossimo a 0. La tendenza si inverte da giugno 2011, quando l'Italia comincia ad esser messa nel mirino dei mercati a causa della paralisi del governo Berlusconi, lacerato da contrasti interni di varia natura oltre che da problemi personali del premier. Tra giugno e inizio novembre 2011 è una caduta quasi verticale. Il 9 novembre 2011, nel momento di massima incertezza politica ma di ormai avvenuto decesso dell'esecutivo, lo spread Italia-Spagna tocca i 140 punti base a svantaggio del nostro Paese: un catastrofico "swing" di 220 punti base in cinque mesi. Le dimissioni di Berlusconi e la nomina di Monti piacciono ai mercati, che in una sola settimana riportano lo spread a zero punti". Lo "spread politico", com'è evidente, pesa moltissimo su quello finanziario. 5) "LA CONGIURA E LA LETTERA DELLA BCE" Il Cavaliere non demorde sulle "trame oscure" che avrebbero portato alla caduta del suo governo: "La lettera della Bce faceva parte di una congiura per cacciare un governo che non piaceva all'Europa... Posso garantire che non ho scritto io la lettera della Bce, è la prima volta che sento questa cosa". La teoria della "congiura di palazzo", per di più europea, non regge alla verifica storica. Che Berlusconi fosse sgradito all'Europa è chiaro a tutti. Ma intanto, giova ripeterlo, il governo si dimette perché non ha più la maggioranza alla Camera, dove l'8 novembre 2011 il Rendiconto dello Stato passa con soli 308 voti. In secondo luogo: la lettera della Bce con le raccomandazioni sul rafforzamento della manovra arriva a Roma il 4 agosto 2011, e viene resa nota solo a settembre. Si scatena immediatamente una ridda di ipotesi su chi ne sia l'ispiratore in Italia. L'11 maggio 2012 Giulio Tremonti, a "Servizio Pubblico", dice: "Basta leggere quella lettera per capire che è stata scritta da Roma. Qualcuno l'ha chiesta, dentro il governo...". L'ex ministro del Tesoro, in quei giorni isolato dai falchi berlusconiani nel governo, allude a Renato Brunetta. Quest'ultimo non smentisce, ed anzi l'1 ottobre 2012 al "Foglio", quasi conferma: "Ora che la lettera è diventata pubblica posso smettere di nascondere la mia reazione quando la lessi: i signori della Bce hanno ragione...". Dunque, se "congiura" c'è stata, è partita da Roma, non dalle cancellerie europee. 6) "DRAGHI ALLA BCE L'HO IMPOSTO IO" Berlusconi è convinto del suo "standing" internazionale: "In Europa io ero temuto, non irriso. Draghi a capo della Bce l'ho imposto io, contro Tremonti che era contrario, e contro Sarkozy". È una favola che al Cavaliere piace raccontare, a ancor più raccontarsi. Ma è drammaticamente bugiarda. La contrarietà di Tremonti non risulta dalle cronache di allora. Draghi viene nominato all'Eurotower il 24 giugno 2011, ma già in inverno Tremonti, anche per togliersi di torno lo scomodo governatore della Banca d'Italia, lo candida: "Bce, Tremonti sponsorizza Draghi", titola "Repubblica" il 14 febbraio. Un sostegno che continua nei mesi successivi: "Tremonti candida Draghi", ribadisce il "Corriere della sera" il successivo 12 maggio. Quanto a Sarkozy, l'ex premier manomette la cronaca. Il no del capo dell'Eliseo, in quei mesi, non è a Draghi, ma è a Bini Smaghi che non vuole dimettersi dal board dell'Eurotower per lasciare spazio al neo-presidente italiano. Infatti il 26 aprile 2011, al termine del vertice italo-francese di Villa Madama, lo "statement" ufficiale di Sarkozy recita: "La Francia è felice di appoggiare Mario Draghi alla presidenza della Bce. È un uomo di qualità, ed è importante per noi che un italiano abbia un tale incarico". Se questo è un "veto". 7) "MAI LEGGI AD PERSONAM E SALVACONDOTTI" Sulla giustizia, il premier più inquisito del mondo ripete: "Io non ho mai chiesto nessun salvacondotto. E le leggi ad personam erano leggi di civiltà, tutte approvate dalla Corte costituzionale". Tra tutte, questa è la falsità più smaccata, e anche la più grave. I "salvacondotti", pretesi dall'allora capo del governo e imposti al Parlamento, sono due. Il primo è il Lodo Schifani, scattato con la legge 140 del 22 giugno 2003, pendente la sentenza sul processo Sme. Prevede che non possano essere "sottoposti a processo penale il presidente della Repubblica, il presidente del Senato, il presidente della Camera, il presidente del Consiglio e il presidente della Corte costituzionale". La consulta dichiara illegittima la legge il 13 gennaio 2004, con la sentenza numero 24. Il secondo salvacondotto è il Lodo Alfano. scattato con la legge 124 del 5 agosto 2008, mentre incombe il processo Mills. Prevede la "sospensione dei processi penali" per le quattro "alte cariche dello Stato". La Consulta dichiara incostituzionale anche questo, con la sentenza numero 262 del 7 ottobre 2009. Quanto alle leggi ad personam, dal '94 la sequela è infinita. Solo su giustizia e tv se ne contano almeno 17. se ne possono ricordare 5, le più devastanti: la legge sulle rogatorie (incide sul processo Sme-Ariosto), la depenalizzazione del falso in bilancio (salva Berlusconi su All Iberian 2 e Ariosto 2), la legge Cirami (serve al Cavaliere per spostare tutti i processi da Milano a Brescia), la legge ex Cirielli sulla prescrizione (utile per una parte dei processi diritti tv Mediaset e Mills) e la legge Pecorella sull'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (bocciata anche questa dalla Consulta con la pronuncia 262 del 2009). Possono bastare, come "leggi di civiltà". 8) "SIAMO LA LISTA PIÙ PULITA" La questione morale sta a cuore all'ex premier che afferma: "Io ricordo che siamo la lista più pulita del Parlamento". Purtroppo l'evidenza dimostra il contrario. "Se ci saranno candidati indagati non ci sarò io": il monito lanciato il 27 novembre scorso dal segretario Alfano cade miseramente nel vuoto. In lista gli indagati, inquisiti e processati abbondano. Da Marcello Dell'Utri (imputato per associazione mafiosa) a Denis Verdini (tre inchieste in corso). Da Nicola Cosentino (due processi per camorra e corruzione) a Luigi Cesaro (citato dai pentiti di mafia e inquisito per violazione della normativa bancaria). E poi, solo per ricordare i più noti, Aldo Brancher, Altero Matteoli, Salvatore Sciascia, Marco Milanese, Alfonso Papa. La "pulizia" non è mai troppa, nel Pdl. 9) "LE AUTORITÀ PREOCCUPATE PER ME" Il leader della destra affronta la sfida del voto con animo inquieto: "C'è una forte preoccupazione da parte di certe autorità: mi hanno pregato di non fare discorsi nelle piazze". Il "pericolo" che il Cavaliere paventa non trova riscontro. Il "clima d'odio" che evoca si nutre spesso delle sue stesse elucubrazioni. Il ministero degli Interni, unico responsabile della sicurezza della campagna elettorale, non si riconosce in quelle "certe autorità" citate da Berlusconi. "Non ci sono segnalazioni specifiche, nessun segnale di pericolo reale è giunto alle agenzie di intelligence e alle forze di polizia". La scelta di non fare comizi, dunque, viene considerata "esclusivamente personale". A influenzare il Cavaliere, forse, è la paura dei fischi. 10) "NEL 2006 LA SINISTRA VINSE CON I BROGLI" Quella dei brogli è un'altra ossessione: "La sinistra ci ha fatto perdere le elezioni del 2006 con i brogli: hanno truccate tutte le schede bianche e poi hanno vinto". La campagna sui brogli parte la notte stessa del voto, nell'aprile 2006. L'allora premier minaccia un decreto legge che non proclama il vincitore e riconta le schede. Dopo qualche giorno il Viminale chiude il caso: "C'è stato un errore materiale, le schede contestate si riducono da 43.028 a 2.131 allaCamera, e da 39.822 a 3.135 al Senato". La bolla si sgonfia. Nel dicembre 2006 la Giunta per le elezioni di Palazzo Madama avvia il riconteggio delle schede bianche, nulle e contestate nelle 7 regioni principali. La verifica si conclude il 18 settembre 2007, e il presidente della Giunta Domenico Nania (di An, dunque uomo della maggioranza) scrive nella relazione finale: "Gli scostamenti riscontrati sono assolutamente fisiologici, quindi risulta la legittimità delle operazioni di voto del 9 e 10 aprile 2006". Un buon viatico anche per le elezioni del prossimo *** Arsenico e vecchi merletti. "Tante volte le istanze etiche genuinamente sentite di certe organizzazioni politiche-sociali finiscono per non fare l'interesse" dei lavoratori "o delle categorie che vogliono tutelare, ma il loro danno". Così Mario Monti, in conferenza stampa a Milano per lanciare la candidatura di Gabriele Albertini alla presidenza della Regione Lombardia. "Davvero pensate che avrei messo in moto tutto questo per poter essere un'entità di minoranza, ma bloccante, per rendere più divertente la vita in Senato?". E' la replica che Mario Monti, in conferenza stampa a Milano, oppone alla domanda se il suo obiettivo sia quello di impedire la vittoria del Pd al Senato. "Oggi non è all'ordine del giorno dire con chi poi faremo alleanza o contro chi siamo: sono domande mal poste e fuori dalla nostra logica", ha detto Monti che a sorpresa ha partecipato a una conferenza stampa per presentare a Milano i tre nomi testa di lista per il Senato in Lombardia nella sua formazione: Pietro Ichino, Gabriele Albertini e Mario Mauro. "Tante volte le istanze etiche genuinamente sentite di certe organizzazioni politichesociali finiscono per non fare l'interesse" dei lavoratori "o delle categorie che vogliono tutelare, ma il loro danno", ha affermato Monti. A Monti è stato anche chiesto un commento sul progetto della Lega che, alleata con il Pdl, immagina di trattenere il 75% del gettito fiscale al Nord. Il premier si è limitato a rispondere: "mi sembra un principio che ha il pregio della semplicità e può fare una certa presa, ma al tempo stesso penso che ogni partito debba presentare non una sola cosa ma un insieme di progetti", che costituiscano una visione per il futuro. "Sono profondamente deluso e dall'impostazione della Lega per la quale avevo anche simpatia, e dal suo bilancio, di ciò che ha ottenuto per il nord e il Paese, che mi sembra pieno di negatività, anche per il contributo dato al governo che ci ha preceduto". Così Mario Monti sulle proposte della Lega. Il premier si è detto "sicuro che i cittadini valuteranno questo bilancio". "Sono profondamente deluso e dall'impostazione della Lega per la quale avevo anche simpatia, e dal suo bilancio, di ciò che ha ottenuto per il nord e il Paese, che mi sembra pieno di negatività, anche per il contributo dato al governo che ci ha preceduto", ha detto Monti sulle proposte della Lega. Il premier si è detto "sicuro che i cittadini valuteranno questo bilancio". "Penso che l'Italia debba andare verso un federalismo responsabile", ha aggiunto Monti in una conferenza stampa a Milano. Tra le sue considerazioni anche quella secondo la quale la riforma del "Titolo V per alcuni aspetti è stata devastante". ... e vecchi merletti "Eliminare l'Imu per chi sta pagando fino a 400-500 euro" questa imposta. Lo ha detto Pierluigi Bersani a Porta a Porta. La misura potrebbe essere coperta con una patrimoniale sugli immobili "fino a 1,5 e mezzo catastale che significa a mercato 3 milioni". ''Io ragiono pensando prima di tutto all'Italia visto che siano tutti transeunti, nessuno di noi è Mandrake. Per l'Italia non mi è sembrata l'operazione più felice perché pensavo che Monti potesse essere molto utile al paese in funzione di terzietà", ha detto Bersani rispetto alla 'salita' di Monti in politica. Bisogna "allentare la morsa delle politiche di austerità per gli investimenti, questa è una priorità assoluta". Una priorità anche per "le politiche economiche anche a livello europeo". "Mi spiace che Berlusconi non abbia notato che una delle nostre battaglie in parlamento, ai tempi della legge Fornero, era questa. Il lavoro stabile deve costare meno e quello precario deve costare di più. Se si intende un sistema di convenienza alle imprese se il giovane ha un contratto a tempo indeterminato sono più che d'accordo". Così il leader del Pd spiega di condividere la proposta fatta ieri da Silvio Berlusconi di eliminare le tasse per le imprese che assumono. "E' vero che va ridotta la spesa pubblica ma se togliamo le pensioni e gli interessi sul debito é la più bassa d'Europa. Attenzione perché sotto un certo livello di spesa pubblica un paese non può reggere". Una manovra correttiva "non la ritengo inevitabile", ha detto Bersani rispondendo a Porta a Porta a una domanda in questo senso sottolineando comunque che è necessario vedere i dati dell'economia. "L'equilibrio dei conti che dobbiamo rispettare - ha evidenziato - verrà messo alla prova dei fatti". Il 2013, "lo dirò agli italiani è un anno difficile". In ogni caso la manovra economia "non la indico, non dico nulla, a febbraiomarzo si capisce meglio", con i dati alla mano. "Il nostro progetto è quello della semplificazione dell'andamento delle aliquote con un abbassamento di quella più bassa e una relativa correzione di quella più alta". Lo ha detto Pierluigi Bersani delle aliquote fiscali. Il segretario del Pd ha anche evidenziato la necessità di "far emergere le ricchezze". "Credo che ci sia la possibilità - ha evidenziato solo decidendo di farlo" anche se "questo espone un governo a dei contraccolpi". "L'Italia ha problemi tali da aver diritto ad avere qualcuno che abbia il 51% in Parlamento e problemi tali per cui chi ha il 51% ragioni come se avesse il 49%", ha spiegato Bersani tornando su una possibile apertura dei progressisti ai moderati dopo il voto. "C'é la campagna elettorale e i pesi e le misure li decideranno anche gli elettori ma devono sapere tutti i voti verranno decisi con determinazione ma disponibilità verso i moderati". "Credo di conoscere il mio elettorato, sono giorni in cui vengono fuori aspetti polemici di Monti e quindi c'é un riflesso di ammaccatura su Monti da parte del nostro elettorato". Bersani commenta cosi' un sondaggio in base al quale il 38 per cento degli elettori del Pd sarebbe favorevole, in caso di mancata maggioranza al Senato, ad un accordo post-voto con il movimento di Ingroia rispetto ad un accordo con i centristi del Professore. "E' un giudizio un po' dall'alto, perché dire ai sindacati che cosa interessa ai lavoratori faccio un po' fatica a pensare a qualcuno che lo sappia meglio dei sindacati. A me non risulta che siano di intralcio per le riforme". Così Pier Luigi Bersani replica a Mario Monti sul ruolo dei sindacati. "Prendo atto della risposta che ha dato Monti a questa domanda, quindi lo vedo meno probabile", ha detto Bersani replicando a chi gli chiedeva se dopo la sua discesa in campo vedesse ancora possibile l'ipotesi di Monti a Quirinale. Rosso di sera... In questo anno tutti gli italiani hanno preso confidenza, si legge in una nota governativa, con una parola – spread – che prima ignoravano perché appartenente più al mondo dei mercati finanziari che alla vita comune, si legge in un documento governativo. . La scelta è tra spendere ogni anno un montante astronomico di circa 5% del PIL, circa 75 miliardi di euro, in tassi di interesse, oppure usare queste risorse per migliorare il nostro sistema educativo o a finanziare la ricerca e innovazione. Più l’Italia paga per finanziare il debito pubblico o rifinanziare l’indebitamento esistente e più questo colpisce negativamente anche l’erogazione del credito all’economia. Tredici mesi fa la mancanza di liquidità e gli alti tassi di interesse avrebbero costretto al fallimento molte famiglie e imprese italiane, già colpite duramente. Gli investitori internazionali infatti credevano sempre meno alla capacità dello Stato di ripagare il debito pubblico e quindi erano disposti a finanziare l’Italia solo a tassi di interesse sempre più elevati. Se il governo non fosse intervenuto, sarebbero state colpite, in primo luogo, le fasce più deboli: probabilmente non ci sarebbero stati fondi sufficienti per sostenere i lavoratori in cassa integrazione, per pagare le pensioni, per garantire l’assistenza sanitaria e gli altri servizi pubblici essenziali. I piccoli risparmiatori che avevano investito in titoli dello Stato avrebbero rischiato di perdere gran parte del loro patrimonio.la situazione è diversa, il clima che si respira intorno all’Italia è diverso. E grazie a questo, ad esempio, che con un’azione prudente e incisiva la Banca Centrale Europea ha messo in campo strumenti straordinari per stabilizzare i mercati finanziari. Un risultato possibile anche grazie all’opera di mediazione che il governo ha svolto in Europa nel Consiglio del 28-29 giugno quando la linea italiana è risultata vincente, frutto di un dialogo intenso ed equilibrato con la Germania e i paesi nordici. EUROPA Il Governo si è sforzato di ancorare saldamente l’agenda delle riforme interne agli obiettivi europei, e al tempo stesso di essere un protagonista autorevole, responsabile e attivo nel disegnare e orientare il percorso dell’integrazione europea in una fase delicata come quella attuale. Nel volgere di mesi sono maturate decisioni che in circostanze diverse avrebbero richiesto anni, o che mai sarebbero state proposte. Come paese fondatore e come grande protagonista storico del processo di costruzione della “casa europea”, l’Italia può e deve contribuire attivamente alla scrittura di queste pagine, ora più che mai. Anche in virtù di questo impegno, il Governo ha potuto svolgere nel corso di questi mesi un’importante azione propositiva e propulsiva, divenendo un interlocutore molto attivo per le istituzioni UE e per molti partner europei. Lo ha fatto con forza e autorevolezza derivanti dalla sua specifica e accurata preparazione. MIGLIORAMENTO ECONOMIA A poco più di un anno dal momento più drammatico della crisi, si può dire che le prospettive per il futuro sono migliorate in modo significativo. Gli investitori internazionali stanno tornando a comprare i titoli pubblici italiani, rendendo possibile una diminuzione del costo del denaro, non solo per lo Stato, ma anche per le imprese e le famiglie. Il miglioramento dello scenario economico italiano ha numerosi effetti concreti sulla vita delle famiglie e delle imprese italiane. In primo luogo, la stabilizzazione dei conti pubblici ed il calo dei tassi di interesse riduce fortemente il rischio di ulteriori manovre nel futuro. FISCO L’obiettivo è di ridurre di un punto e progressivamente la pressione fiscale, iniziando dalle aliquote più basse per dare respiro soprattutto alle fasce più deboli. Bisogna realizzare un nuovo patto tra fisco e contribuenti, solo così l’evasione potrà essere davvero debellata. I risultati sono confortanti: oltre 32 miliardi di maggiori entrate tributarie (erariali e non erariali) sono stati assicurati all’erario nel triennio 2009-2011 e ulteriori 13 miliardi si prevede saranno incassati nel 2012 nonostante il calo dell’attività economica. Siamo solamente all’inizio del percorso. Per estirpare l’evasione in modo efficace e restituire ai contribuenti un fisco più agile era necessario completare la delega fiscale e la riforma del catasto. La Camera aveva dato il via libera al testo, giunto sino all’aula del Senato, dove si è arenato. L’impossibilità di completare il percorso di approvazione lascia una lacuna che dovrà essere colmata al più presto. SPENDING REVIEW Anche la spesa pubblica deve essere aggredita e rimodellata. Il governo ha avviato un processo di spending review - una parola che oramai è entrata di diritto nel vocabolario comune - come mai era stato fatto prima. Questo primo esercizio di revisione della spesa relativa all’acquisto di beni e servizi delle amministrazioni pubbliche ha prodotto risparmio di circa 12 miliardi. Una ulteriore fase è stata lanciata con la legge di Stabilità per il 2013 con un risparmio di circa 3,7 miliardi a regime, concentrato nei settori della finanza locale e in quello sanitario. Il processo di spending review strutturale ha richiesto ai diversi dicasteri di effettuare una riconsiderazione delle attività svolte e delle spese sostenute (comprese quelle degli enti vigilati) per individuare inefficienze, eliminare sprechi e mettere in atto innovazione organizzativa. Alcune iniziative sono confluite nel decreto spending review approvato la scorsa estate, ma altre devono ancora essere messe in pratica e richiedono un tempo medio di attuazione. Ma anche qui non bisogna fare passi indietro e soprattutto non bisogna cedere alle sirene delle lobby e di chi non vuole rinunciare ai propri privilegi. L’azione di riduzione dei costi è appena iniziata, in parte perché non è ragionevole pretendere che un cambiamento epocale si completi in un tempo così ristretto come quello che abbiamo avuto a disposizione, in parte perché non tutte le nostre proposte sono andate in porto. Ci sono tre esempi. Il primo è la riduzione e il taglio di enti e organismi pubblici. Con il provvedimento della scorsa estate il Governo ha proposto una significativa riduzione del numero di enti e società pubbliche. Nel corso del passaggio parlamentare, tuttavia, molti enti sono stati fatti salvi dalla soppressione e la decorrenza del termine di messa in liquidazione di società è stato differito di un anno. Il secondo esempio riguarda i “costi della politica”. Anche qui le nostre proposte erano chiare: in prima battuta, abbiamo proposto di separare in modo netto la politica dall’amministrazione, per impedire alla logica del compromesso di avere la meglio sulla competenza e sull’efficacia. Si voleva introdurre anche un sistema più stringente di controlli, per evitare una volta, e per sempre, il malaffare e l’opacità. Il terzo esempio riguarda la revisione dello strumento militare. Anche in questo campo l’azione del governo è stata attenta alla razionalizzazione delle risorse disponibili, con l’obiettivo di ridurre gli sprechi e concentrare le risorse a disposizione per migliorare efficienza e produttività. Il decreto di ottobre sulla finanza e funzionamento degli enti territoriali è stato alleggerito nella parte in cui era stato previsto un sistema di controlli preventivi di legittimità della Corte dei conti. Si è preferito invece un ritorno al controllo successivo della gestione, che insiste sulla logica del recinto chiuso dopo che i buoi sono scappati. COMPETITIVITA DEL PAESE L’azione di governo non è stata impostata solo sul rigore ma anche sulla crescita economica. Si è cercato di eliminare i colli di bottiglia che frenano l’economia del paese, aprendo il mercato ad una maggiore concorrenza; si è cercato di creare un ambiente favorevole per le imprese, attraverso le liberalizzazioni e le semplificazioni (come per esempio nel segmento ambientale e nelle procedura di disinquinamento dei poli industriali contaminati); si è puntato sulle infrastrutture per favorire i collegamenti e la mobilità all’interno del paese e da e verso l’estero. La liberalizzazione nei settori chiave dei servizi, da quelli energetici alle infrastrutture agli ordini professionali, per esempio, ha offerto la possibilità di avviare un impresa in pochi giorni e con costi ed ostacoli burocratici inferiori rispetto al passato. Con la liberalizzazione delle tariffe è stata garantita più concorrenza ai professionisti e, allo stesso tempo, sono stati innalzati gli standard di trasparenza nei confronti dei consumatori. Nel provvedimento sulle liberalizzazioni è stato inserita una norma relativa alle relazioni commerciali tra agricoltura, industria e distribuzione, particolarmente importante per il settore agroalimentare La norma garantisce una maggiore trasparenza dei rapporti all’interno della filiera, tutelando i soggetti più deboli. Questa misura introduce infatti l’obbligo della forma scritta per i contratti di vendita dei prodotti agricoli e alimentari, vieta e sanziona i comportamenti sleali lungo la filiera e interviene sui termini di pagamento per le cessioni di prodotti agricoli e alimentari. Anche l’accordo sulla produttività siglato a novembre rappresenta un passo importante per rilanciare la competitività dell’Italia. Nel corso degli incontri con le parti sociali era stata sollecitata la necessità di migliorare il livello della produttività del lavoro in Italia, innalzare la competitività e l’attrattività degli investimenti. Per questo il Governo ha proposto nella legge di Stabilità uno stanziamento complessivo di 1,6 miliardi di euro per il periodo 2013/2014 per la detassazione del salario di produttività - stanziamento che si è poi ulteriormente esteso nel tempo e rafforzato a 2,1 miliardi per effetto degli emendamenti approvati in Parlamento. Attraverso la liberalizzazione del mercato del gas e dei carburanti sono state gettate le basi per ridurre il divario di prezzo con gli altri mercati europei e per consentire la nascita di un mercato dello stoccaggio dei prodotti petroliferi. La nascita di un mercato dello stoccaggio dei prodotti petroliferi, la separazione proprietaria fra Snam ed ENI, le nuove autorizzazioni ai rigassificatori, l’adozione di regole per l’incremento della capacità utilizzata sul gasdotto con l’Austria, la revisione degli incentivi alle rinnovabili elettriche sono i principali tasselli di una strategia volta alla riduzione dei costi dell’energia. Tuttavia per il settore della distribuzione dei carburanti la proposta del governo, che prevedeva la possibilità di aggregazioni dei gestori degli impianti di distribuzione, è stata cancellata durante la conversione in Parlamento. Per rimuovere ogni vincolo all’apertura di nuovi impianti di distribuzione dovranno essere vietati tutti gli obblighi asimmetrici (ad esempio la dotazione di impianti fotovoltaici e di videosorveglianza) e le limitazioni alla localizzazione degli impianti completamente automatizzati. Grazie ai tribunali per le imprese sono stati ridotti i tempi di definizione delle controversie che vedono coinvolte le società di medie e grandi dimensioni aumentando in questo modo la loro competitività sul mercato. Il Governo, inoltre, è intervenuto allentando i vincoli finanziari alla crescita, facilitando l’accesso al credito e favorendo la patrimonializzazione delle imprese. Bisogna ancora portare a compimento una riforma efficace del sistema giudiziario, per renderlo più snello e funzionale. Un altro settore in cui sui avverte la necessità di aprire alla concorrenza sono i servizi pubblici locali. Non scordiamoci che una parte significativa del mercato è ancora gestita con affidamenti diretti e in assenza di qualsiasi confronto concorrenziale. Il risultato è un servizio spesso scadente che pagano i cittadini e le stesse amministrazioni. Prendendo atto dell’esito del referendum occorre investire ancora, e molto, nel comparto delle risorse idriche e nei settori in cui ci sono maggiori spazi di apertura alla concorrenza: i trasporti pubblici e i rifiuti. Bisogna ricordare le banche e le assicurazioni. Anche qui sono i cittadini i primi a pagare le conseguenze della mancata attuazione delle riforme. Nel settore bancario bisogna pensare alla separazione tra BancoPosta da Poste Italiane per sottrarci alle preoccupazioni concorrenziali che riguardano l’abbinamento effettuato dagli intermediari finanziari delle polizze assicurative ai contratti di finanziamento. Nel settore assicurativo il governo è a buon punto. Ma la disciplina delle clausole anticoncorrenziali nella responsabilità civile auto deve essere integrata e completata. Dobbiamo impedire che si instaurino rapporti di esclusiva tra compagnie e agenti e rimuovere gli ostacoli alla collaborazione tra gli intermediari che appartengono a differenti reti distributive. Fondamentale per la competitività, infine, è stata l’azione per il recupero dei terreni agricoli. In Italia negli ultimi 40 anni sono stati “persi” 5 milioni di ettari di superficie agricola (su 18 complessivi), per una superficie pari a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna messe insieme. Per fermare la cementificazione e l’impermeabilizzazione dei suoli, utilizzando le aree industriali dimesse, il governo ha predisposto un disegno di legge apposito. Nel complesso, le cose fatte hanno permesso di aumentare la competitività del paese e stanno convincendo gli investitori esteri a ritornare in Italia come dimostrano i risultati ottenuti nel corso della missione del Golfo Persico e i recenti accordi con il governo cinese. Il risultato sarebbe stato molto più significativo se fosse stato possibile completare tutte le riforme. CORRUZIONE E LEGALITA In questo ambito bisogna sottolineare la legge contro la corruzione, che ha dato un importante ed apprezzato riscontro alle indicazioni provenienti dalle istituzioni internazionali, oltre che una risposta ad una diffusa domanda di intervento su un tema, quale quello dei reati contro la PA, molto avvertito e dal forte connotato simbolico. Tra gli interventi attuati dal governo per rilanciare la competitività del paese, bisogna sottolineare anche la riorganizzazione della attuale distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari, secondo criteri obiettivi ed omogenei, volti ad assicurare non solo maggiore efficacia nella fornitura dei servizi ma anche più elevata efficienza nell’utilizzo delle risorse; e l’impegno delle forze dell’ordine per contrastare la criminalità organizzata in tutto il territorio nazionale. COSTI DELLA POLITICA E SPESA PUBBLICA DEGLI ENTI LOCALI Molto importante è stata anche la risposta alla incontrollata lievitazione della spesa pubblica e dei costi della politica delle regioni e degli enti locali, articolata con un intervento strutturale e non episodico, attraverso il c.d. decreto legge sul taglio dei costi della politica. E’ stato, in primo luogo, rafforzato il ruolo di controllo della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria delle regioni attraverso un costante flusso di informazioni e dati tecnici di bilancio che l’ente deve periodicamente trasmettere, sia in via preventiva che a consuntivo, alla magistratura contabile; ciò ai fini della verifica del rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e, più in generale della regolarità della gestione, nonché per la parificazione del rendiconto generale delle regioni. In caso di perduranti violazioni, il sistema di controllo è garantito, all’esito di opportune interlocuzioni con l’ente locale, dal divieto di attuazione dei programmi di spesa non coperti ovvero finanziariamente non sostenibili. Allo stesso modo, la Corte dei Conti effettua specifici controlli sui rendiconti dei singoli gruppi consiliari delle regioni. In caso di mancato adeguamento ai rilevi della magistratura contabile, questi decadono dal diritto all’erogazione di risorse pubbliche con conseguente obbligo di restituzione di quanto già percepito. Si è pensato inoltre di ridurre i costi della politica regionale, condizionando l’erogazione dell’80% dei trasferimenti alle regioni al conseguimento di precisi obiettivi, tra i quali: la riduzione del numero di consiglieri e assessori regionali, il contenimento delle indennità di funzione, di carica e di fine mandato dei consiglieri attraverso l’adeguamento a quelli erogati dalla regione italiana più virtuosa, il divieto di cumulo di indennità o emolumenti, l’adozione di efficaci misure di trasparenza e pubblicità dello stato patrimoniale delle cariche pubbliche elettive, il contenimento dei contributi in favore dei gruppi consiliari, escludendo da ogni erogazione quelli composti da un solo consigliere, restringendo entro solidi limiti la possibilità per presidenti di regione, consiglieri e assessori di ottenere trattamenti pensionistici e vitalizi. Sono state infine dettate severe norme per garantire che tutti gli enti locali con popolazione superiore a 15.000 abitanti disciplinino opportune forme di pubblicità e trasparenza dello stato patrimoniale dei titolari di cariche pubbliche elettive e di governo, rafforzando altresì i sistemi di controllo interno ed esterno sulla finanza locale, estesi anche alle società partecipate. LAVORO E GIOVANI Tra le riforme strutturali rientra anche quella del mercato del lavoro, realizzata con l’intento di creare un vero e proprio patto generazionale. Il governo ha puntato sull’inclusione per tutelare i lavoratori appartenenti alla fasce deboli, come le donne e i giovani del Sud; e sulla dinamicità come principale strumento di contrasto alla precarietà. L’obiettivo è stato incentivare la mobilità per consentire ai giovani di ridurre i tempi delle fasi di passaggio dallo studio al lavoro e dalla disoccupazione all’occupazione. L’attenzione del governo nei confronti della giovani generazioni non si è manifestata solo con la riforma del mercato del lavoro ma ha caratterizzato gran parte dell’azione dell’esecutivo (per esempio nella promozione della green economy come leva economica). L’eliminazione di alcune barriere nel mercato dei servizi professionali ha consentito ai giovani professionisti di acquisire competitività sul mercato; la srl semplificata ha permesso ai giovani di accedere più facilmente all’attività imprenditoriale; sono state cre ate misure ad hoc per le start up innovative; sono stati rimodulati gli interventi del Fondo Kyoto vincolando i finanziamenti alla creazione di occupazione giovanile a tempo indeterminato nei segmenti dell’ambiente, delle fonti pulite d’energia ed efficienza energetica, delle nuove tecnologie verdi e del risparmio di risorse. Purtroppo Le pressioni opposte e contrarie al tentativo di aprire ai giovani e rendere il mercato dei professionisti più aperto, meritocratico e competitivo sono state poderose. Mancano all’appello una riforma completa dell’accesso alla professione forense e soprattutto le società tra professionisti. SCUOLA E UNIVERSITÀ A distanza di tredici anni è tornato il concorso per la scuola. A dicembre si è rimessa in moto una procedura di reclutamento per aspiranti docenti ferma dal 1999, seppur prevista dalla legge con cadenza triennale. Il percorso, che porterà alle prime nomine in ruolo già a partire dal prossimo anno scolastico, è iniziato con le prove preselettive che per la prima volta sono state tutte informatizzate, permettendo ai candidati di avere l’esito in tempo reale. I partecipanti sono stati oltre 300mila, per 11.542 cattedre nella scuola pubblica di ogni ordine e grado. La cospicua dose di informatizzazione della scuola era iniziata però già a giugno, con l’invio delle prove di maturità in tutti gli istituti d’Italia attraverso il plico telematico anziché, come sempre avvenuto, con buste sigillate consegnate dalle forze dell’ordine. Ciò ha consentito notevoli risparmi sia dal punto di vista finanziario (circa 400mila euro) che dal punto di vista di utilizzo delle risorse umane, tradizionalmente impegnate nel procedimento di trasmissione cartacea delle tracce d’esame. Parallelamente, si è operato per interconnettere al meglio la scuola con il mondo del lavoro. A questo proposito si sono attuate misure di semplificazione e promozione dell’istruzione tecnico-professionale, con l’aumento dei percorsi di alternanza studio/lavoro. L’obiettivo è quello di sostenere l’occupazione dei giovani, colmando progressivamente il divario esistente tra domanda e offerta di lavoro per le professioni tecniche, e di crescita delle filiere produttive nei settori strategici dell’economia nazionale. Su questa linea, in attuazione della riforma del mercato del lavoro e in linea con le indicazioni europee sull’apprendimento permanente, è stato adottato il Decreto legislativo per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali e informali, per il servizio di sistema nazionale di certificazione delle competenze. Sul fronte dell’Università, è stata avviata la procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale al ruolo di professore di prima e seconda fascia, nonché la definizione di una precisa programmazione temporale per le procedure, da avviare nel biennio 2013 – 2014. Rimane però aperto il nodo delle risorse: bisogna trovare più finanziamenti per consentire al nostro sistema accademico di produrre eccellenza e attirare le competenze dall’estero. RICERCA In questo settore l’attività si è concentrata su più fronti. A cominciare dalla necessità del Paese di essere più competitivo nell’accesso e nell’utilizzo dei fondi europei. Per raggiungere questo obiettivo si è voluto realizzare una stretta correlazione tra gli indirizzi dell’Europa (Horizon 2020 e Fondi Strutturali 2014-2020) e le azioni nazionali per il supporto alla ricerca e all’innovazione. A questo scopo sono state intraprese specifiche azioni attraverso bandi per l’importo di quasi un Mld di euro per le città e comunità intelligenti. Insieme a questa azione, è stata riscritta la geografia della ricerca italiana grazie alla nuova politica nazionale dei cluster innovativi, che attraverso la specializzazione intelligente dei territori mira a ricondurre le diverse iniziative di distretti tecnologici esistenti a una migliore efficacia nel rapporto tra sistema della ricerca, industria e nuova imprenditorialità. Per una maggiore coerenza su scala nazionale. L’obiettivo è la ricostruzione di grandi aggregati nazionali, su alcuni temi specifici di interesse strategico per l’industria nazionale: chimica verde, aerospazio, sistemi di trasporto, domotica, scienze della vita, agroalimentare, tecnologie per le Smart Communities, energie rinnovabili, fabbrica intelligente. Accanto a ciò, sono stati riattivati gli interventi emergenziali per centri di ricerca di imprese ad alta tecnologia in settori strategici e in stato di difficoltà. MEZZOGIORNO Altro tema centrale dell’azione di governo è stato il Mezzogiorno. L’obiettivo è stato ridurre il gap con il Nord del Paese, sia in termini economici che strutturali. Fin dai primi provvedimenti (Salva Italia e Cresci Italia) sono state predisposte misure ad hoc per il Sud come la fiscalità di favore per le imprese, i giovani imprenditori e i lavoratori svantaggiati, gli sgravi Irap e la deroga al patto di stabilità interno per il cofinanziamento nazionale dei fondi comunitari; senza dimenticare le misure per la riqualificazione della rete infrastrutturale e la promozione di un’economia verde per cui alcune regioni sono più vocate. A tutto questo bisogna aggiungere il Piano di Azione Coesione, che ha permesso la riprogrammazione di circa 5 miliardi di fondi comunitari, e l’accelerazione che è stata data alle delibere con cui il Cipe programma il Fondo Sviluppo e Coesione sbloccando circa 12 miliardi destinati agli investimenti pubblici nel Mezzogiorno. Parlando dell’azione di governo per il Mezzogiorno bisogna ricordare anzitutto quanto fatto per il polo industriale di Taranto, perché i cittadini abbiano un ambiente pulito, sano, sicuro e per la tutela dell’occupazione, la protezione della salute e dell’ambiente, il mantenimento di un settore strategico come quello dell’acciaio. Il polo produttivo di Taranto è un asset strategico per l’economia regionale e nazionale; il suo funzionamento, infatti, oltre al territorio della Regione Puglia, coinvolge direttamente anche gli stabilimenti in Liguria e Piemonte e fornisce acciaio a diverse realtà industriali e straniere. Bisogna anche ricordare l’azione portata avanti dal Ministero dei beni culturali su Pompei, per tornare a dare valorizzazione a questo importante sito culturale. LE POLITICHE ATTUATE Parallelamente il governo ha varato una serie di provvedimenti volti a semplificare il rapporto dei cittadini e delle imprese con la Pubblica amministrazione. Sono state semplificate e rese più snelle le procedure amministrative nel campo delle infrastrutture, dell’ambiente e dell’edilizia e per le aziende in crisi è stata resa più efficace la normativa per accedere alla protezioni della legge fallimentare. Grazie a questi interventi, relazionarsi con la macchina amministrativa è diventato più facile e i cittadini sono stati messi nelle condizioni di affrontare con maggiore responsabilità gli adempimenti verso lo Stato. Uno Stato che deve diventare più efficiente, più trasparente ed in grado di ascoltare e soddisfare i bisogni dei cittadini, eliminando in questo modo la diffidenza che ne ha caratterizzato il rapporto in questi anni. Le tante novità in materia di trasparenza e partecipazione, dalla pubblicazione dei redditi e dei patrimoni dei componenti del Governo, alle consultazioni pubbliche, senza dimenticare le misure introdotte dall’Agenda Digitale per realizzare la piena digitalizzazione dei rapporti tra cittadini e PA, hanno di fatto cambiato il volto dell’amministrazione e quindi delle istituzioni stesse. In quest’ottica rientrano anche le norme sui ritardi di pagamento della Pubblica amministrazione, che il Governo ha reso operative in anticipo di sei mesi rispetto ai tempi dettati dalla direttiva europea, con il quale abbiamo voluto dare un segnale di responsabilità e credibilità alle imprese e ai mercati. Il governo è poi intervenuto per garantire maggiore correttezza e rigore in politica e nelle istituzioni, snellendo gli apparati burocratici, rivedendo le retribuzioni percepite dai manager pubblici e tagliando benefit simbolici. E un esempio su tutti sono state le auto blu. In questi mesi il governo ha spinto molto anche sulla necessità di un ritorno all’etica della politica. Rispondendo alle richieste degli amministratori locali e soprattutto dei cittadini abbiamo affrontato il tema dei costi della politica, attraverso un decreto legge sulla trasparenza e la riduzione dei costi degli apparati politici regionali. Nulla dice il documento governativo sui costi economico-sociali della politica di risanamento del bilancio dello stato attuato dal professor Monti. *** L’economia è una scienza dura?, si chiede di Francesco Sylos Labini L’economia è una scienza falsificabile? Qualche anno fa durante un convegno in cui partecipavano sia fisici che economisti è stato fatto un sondaggio per capire come gli economisti intendono la loro disciplina, con il risultato che metà degli economisti hanno risposto affermativamente a questa domanda mentre l’altra metà negativamente. Situazione curiosa, che sicuramente riflette la spaccatura tra le diverse scuole di pensiero in economia, a cui ho già accennato. La questione non è di lana caprina, e non è puramente accademica. Come ha scritto il mio collega fisico Stefano Zapperi, in un commento ad un dibattito tra Andrea Ichino e il sottoscritto sulla questione dell’aumento delle tasse universitarie, “Affermare che l’economia sia una scienza dura al pari della fisica permette di far passare scelte politiche per risultati scientifici e quindi neutri… Io penso che l’economia tratti di temi che riguardano tutti direttamente, che sono influenzati dai nostri comportamenti e quindi riguardano la politica. La fisica si occupa invece di fenomeni naturali che nella maggior parte dei casi avvengono indipendentemente dalle nostre scelte. Porre l’economia e la fisica sullo stesso piano è sostanzialmente una truffa.” Quando gli economisti “si sporcano le mani con i dati” (come alcuni dichiarano di fare) siamo sicuri che il risultato alla fine non sia quello di “sporcare i dati con le ideologie”, con quelle ideologie (preconcetti considerati veri a prescindere dall’osservazione empirica) che invece guidano molte delle ricette che sono propinate come soluzioni scientifiche? Certo è che la falsificazione di una teoria scientifica è altra cosa dall’utilizzare alcuni dati opportunamente selezionati o accuratamente manipolati per portare acqua al proprio mulino. A me sembra che si voglia la botte piena e la moglie ubriaca: il prestigio di una scienza dura senza pagare il dazio della falsificabilità, che è la vera e unica chiave di volta d’ogni scienza dura. Queste sono questioni fondamentali che vanno poste perché se non si ammette che la crisi economica ha prodotto una chiara crisi nei modelli economici dominanti, e se sono sempre i soliti, indipendentemente dalla bontà delle loro previsioni, a suggerire scelte cruciali in campo economico (ovvero in qualsiasi campo della vita pubblica) avendo a disposizione l’intero universo mediatico come accade in Italia, con ogni probabilità si continueranno a fare scelte sbagliate che peggioreranno le cose, mascherandole però da scelte dettate da una scienza quantitativa. Questi sono i motivi, tra gli altri, per cui lo scorso 16 maggio a Londra è stata lanciata una nuova associazione di economisti, che è già diventata una tra le più grandi del mondo e senz’altro la più inclusiva geograficamente, che si propone di essere pluralista, inclusiva e democratica con lo scopo di diffondere il pensiero critico nella rete e introdurre un metodo aperto nella valutazione scientifica: la World Economics Association. Nelle parole di presentazione di Grazia Ietto troviamo di nuovo il tema del ruolo delle ideologie in questa disciplina: “Viviamo in tempi difficili per gli economisti: l’opinione pubblica e i media ci guardano con sospetto, mentre all’interno della professione si nota arroganza, disagio e rabbia. L’arroganza sta dalle parti di quelli che credono che avevano e hanno ragione a propagandare il modello neoclassico e neoliberista d’economia malgrado la crisi (tutt’altro che superata). Per loro è solo questione di tempo; il modello è valido e con il tempo le politiche di tagli, combinate con ritocchi dal lato dell’offerta, porteranno alla ripresa delle economie e il modello di capitalismo dominato dalla finanza (o a trazione finanziaria) continuerà a trionfare. Il disagio è quello di quanti, avendo appoggiato il modello neoclassico, si trovano ora a dover giustificare la loro posizione. C’è rabbia invece tra i molti che non hanno mai aderito al modello neoclassico e neoliberista, compresi i pochi che avevano previsto la crisi sulla base di teorie e modelli alternativi. La loro voce non è stata ascoltata né a livello politico né è stata ospitata sulle pagine delle riviste scientifiche considerate autorevoli e prestigiose.” . L’anno scorso, l’associazione Paolo Sylos Labini aveva promosso il Manifesto per la libertà del pensiero economico, firmato da centinaia di economisti e persone della cultura di tutto il mondo, con analoghe premesse: “Oggi dopo anni di atrofizzazione si affaccia un nuovo sentire al quale la scienza economica deve saper dare una risposta. La crisi globale in atto segna un punto di svolta epocale. Come in tanti hanno rilevato, oggi entrano in crisi le teorie economiche dominanti e il fondamentalismo liberista che da esse traeva legittimazione e vigore. Queste teorie non avevano colto la fragilità del regime di accumulazione neoliberista. Esse hanno anzi partecipato alla edificazione di quel regime, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento nella distribuzione dei redditi e l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno contribuito a determinare le condizioni della crisi. E’ necessario ricondurre l’economia ai fondamenti etici che avevano ispirato il pensiero dei classici.” Altre iniziative sono state intraprese in Francia e in Svizzera. Il dibattito nel campo è dunque molto più aperto ed infuocato di quello che sembra da una lettura dei maggiori quotidiani del nostro paese, che negli ultimi anni, a parte rare eccezioni, hanno subito un ruolo di colonizzazione da parte degli economisti di scuola liberista (qui da noi molti insegnano alla Bocconi). In conseguenza dell’affermarsi di questo pensiero unico, molte scelte cruciali politiche ed economiche sono state influenzate in maniera del tutto trasversale; dei danni causati all’università e alla ricerca abbiamo già ampiamente discusso in questo blog: chiaro esempio del fatto che non si sta parlando del sesso degli angeli, piuttosto di quesiti fondamentali che riguardano tutti e che non possono essere nelle mani di pochi guardiani dell’ideologia. *** Il professor Monti, Dio l'abbia in gloria, ha la fissa del pareggio di bilancio e per raggiungerlo è disposto a ridurre le famiglie italiane alla fame. In compenso, non bada a spese, quando si tratta di spese militari che impimguano i portafogli dei produttori di armi. Ecco cosa ci racconta Il fatto quotidiano. Dal welfare al warfare. In sordina, il più possibile lontano dai riflettori, ma con un’accelerazione recente l'Italia sta diventando uno Stato che si indebita per le armi (warfare). Lo smottamento avviene a colpi di sterzate decisioniste, con un sistema che tra il serio e il faceto nell’ambiente è chiamato il “depliant”, come quegli opuscoli consegnati nelle agenzie di viaggio per invogliare i clienti a prenotare le vacanze o i volantoni dei supermercati con le offerte di pelati e braciole. Con il depliant delle armi, l’Italia ha comprato costosissimi sistemi d’arma, aerei, elicotteri, sottomarini, la bellezza di 71 programmi di armamento, a colpi di 3 miliardi e mezzo di euro all’anno, a volte anche 4, senza contare gli investimenti di difficile quantificazione inseriti nel bilancio del ministero dello Sviluppo economico. L’elenco delle spese è impressionante. cacciabombardieri della Lockheed Martin, e la cosiddetta Forza Nec, cioè il soldato robotizzato del futuro. Per entrambi l’Italia ha già preso impegni e speso quattrini, anche se non c’è ancora una decisione definitiva. Entrambi implicano un impegno finanziario stratosferico, circa 13 miliardi di euro ciascuno di spese vive, cioè per l’acquisto puro e semplice, senza contare gli annessi e connessi che sono altrettanto impegnativi, dalla manutenzione alla sostituzione di componenti. Per gli F-35, per esempio, i tecnici calcolano che la fase post acquisto sia addirittura più costosa dell’acquisto stesso, nell’ordine di due volte e forse anche tre. In pratica con gli F35 nei prossimi 20 anni l’Italia dovrebbe mettere sul piatto una cifra che volendo stare bassi verosimilmente oscilla tra i 25 e i 40 miliardi di euro. Gli Stati maggiori sostengono, però, che una quota di queste spese avrebbe un ritorno positivo sull’industria e il lavoro italiani, ma è vero solo in minima parte. La Rivista italiana difesa, molto vicina agli ambienti militari, tempo fa arrivò addirittura ad annunciare il raddoppio dello stabilimento Faco di Cameri dell’Alenia (Finmeccanica) sostenendo che sarebbe stata assemblata lì parte dei velivoli destinati alle forze armate americane. Ma non è così e la stessa Lockheed Martin interrogata in proposito ha precisato ufficialmente che “tutti gli F-35 per gli Stati Uniti sono programmati per essere fabbricati a Fort Worth, Texas”. Punto. Con Forza Nec ci sono i prodromi perché si verifichi qualcosa di simile. Le pressioni della “lobby del fante” perché il programma proceda sono molto forti, anche nel rispetto di una specie di manuale Cencelli delle spese militari: un tot ad Aeronautica, un tot alla Marina, un tot all’esercito e ai programmi interforze. L’esercito, ovviamente, non vuol restare indietro e insegue un equilibrio per impedire che Marina ed Aeronautica facciano la parte del leone, necessitando entrambe di sistemi sofisticati e tecnologicamente avanzati e quindi più costosi. Aerei ed elicotteri, in particolare, costano un occhio della testa. Per esempio gli elicotteri Nh 90 prodotti in cooperazione con Francia, Germania e Olanda comportano una spesa complessiva fino al 2018 di quasi 4 miliardi di euro, gli elicotteri dell’Esercito Etm 1 miliardo e gli Eh 101 un altro miliardo ancora. Gli aerei da combattimento Eurofighter 2000, costruiti insieme a Germania, Inghilterra e Spagna, costano 18 miliardi fino al 2018, l’ammodernamento fino al 2015 dei Tornado 1,5 miliardi, 4 Boeing 767 rifornitori un altro miliardo. Per Forza Nec il soldato del futuro non c’è un punto fermo, ma si va avanti lo stesso, forse per precostituire le condizioni perché anche volendo non si possa tornare indietro. Sono stati impegnati oltre 600 milioni di euro ed è stato firmato un contratto del valore di 238 milioni con Selex sistemi integrati (ancora Finmeccanica) a cui sono interessate anche altre aziende italiane: Galileo, Elsag, Oto Melara, Agusta Westland, Mbda Italia, Iveco, Engineering, Impresa soldato futuro. Il criterio del fatto compiuto viene invocato anche per i costosissimi sottomarini U 212 Todaro (Fincantieri più il consorzio tedesco Arge). Due sono già in esercizio e sono stati pagati 1 miliardo di euro, uno è in costruzione e per il quarto che non è stato neanche abbozzato, dalla Difesa si affrettano a sottolineare che rimangono da pagare “solo” 300 milioni, come dire che non si può fare marcia indietro. Nel frattempo sono stati stanziati 90 milioni per armare quei sottomarini con “siluri pesanti”. Questa estate Il Fatto si è imbattuto per caso in un altro gigantesco affare di compravendita di armi comunicato ufficialmente con un ermetico testo di poche righe. Per sostituire un aereo pattugliatore in esercizio nella base di Pratica di Mare e preso in affitto, la Difesa sta spendendo più di mezzo miliardo di euro per l’acquisto da Israele di due Gulfstream 5, aerei americani considerati come Ferrari dei cieli. L’operazione prevede che Alenia-Aermacchi (sempre Finmeccanica) fornisca a Israele 30 jet M 346 per l’addestramento dei piloti israeliani. Israele, però, venderà all’Italia un satellite spia Ofek che costa oltre 800 milioni di euro. La cosa davvero sorprendente è che tutto questo mamentario sia stato acquistato usando il depliant militare, cioè una nota generica con qualche foto, qualche cifra, qualche cenno alle eventuali ricadute produttive e nessun riferimento al ruolo delle banche, spesso invece decisivo per il prezzo finale, con tassi di finanziamento salati, spesso sopra il 10 per cento. Il tutto presentato sempre con il codice rosso dell’urgenza e ammannito a opinione pubblica e parlamentari quasi con degnazione, come non si trattasse di roba su cui ragionare a fondo. In pratica il depliant lascia la stessa scelta concessa nella prima metà del Novecento da Ford agli americani: “I clienti possono prenotare l’auto del colore preferito, purché sia nero”. Il Parlamento italiano con le armi può pronunciarsi liberamente, a patto che dica sì, se dice no, l’aereo o il sottomarino si compra lo stesso, perché il voto ha valore solo consultivo. È sorprendente che le spese per la Difesa siano stabilite con questi criteri abbastanza disinvolti. Perché se è vero che qualsiasi paese non può fare a meno di spendere per difendersi, così come del resto è previsto anche dalla Costituzione italiana, è anche vero che ovunque quelle spese vengono passate ai raggi X. Qui, invece, sembra una prerogativa degli stati maggiori tutt’al più d’intesa con il ministro di turno. Se poi il ministro è un militare, come l’ex capo di Stato maggiore della Difesa Giampaolo Di Paola, cresce il rischio di una autorefenzialità in divisa. Forse in futuro le cose potrebbero cambiare grazie al cosiddetto lodo Scanu (da Giampiero Scanu, deputato Pd), un articolo della riforma della Difesa che introduce l’obbligo da parte degli stati maggiori e del ministero di presentare una documentazione un po’ più seria concedendo al Parlamento un voto vincolante. *** Il professor Monti, nominato inopinatamente senatore a vita dal presidente Napolitano, in vista del colpo di mano che aveva architettato per mettere fuori gioco Berlusconi e fare un dispetto a Bersani, continua a sostenere nei suoi incontri con la stampa e con i suoi possibili elettori che non ha senso parlare di destra e di sinistra. Per Monti esiste un solo pensiero politico, il suo che non è né di destra né di mistra. Semplicemente è, come l'essere dei filosofi. Monti sbaglia. Destra e sinistra non sono delle invenzioni, ma, come ebbe a notare Norberto Bobbio, rappresentano due visioni affatto diverse della società, dell'economia, della politica, del diritto, della cultura. Per renderci conto i questo fatto, possiamo dare una scorsa ai nostri giornali e leggere i commenti politici, economici, giuridici, sociologici che sono ivi pubblicati. D'accordo. Si tratta di commenti, ovvero, di opinioni, non di trattati scientifici. A livello di trattati scientifici, si tende a astrarre dalle particolarità, a stilizzare il fenomeno; in altre parole, si ragiona in termin di modello e il modello è la legge. E qui ti voglio. Prendiamo il caso dell'economia che è quello che interessa da vicino il professor Monti. Esistono, come spiegò John Stuart Mill, diversi tipi di leggi economiche. Esistono le leggi tecniche della produzione, quelle che sono rappresentate nelle matrici di Leontief, e su di esse non si discute. Esistono, poi, le leggi che riguardano la distribuzione del reddito, sule quali, invece, come spiegò lo stesso Stuart Mill, è possibile discutere. Ciò pone un problema che gli economisti del benessere conoscono bene. Si tratta del problema rappresentato dal cosiddetto ottimo paretiano, del quale, come scrisse il grande Paul Samuelson si può dire una sola cosa, che non è unico. Dunque, se l'ottimo paretiano non è unico, ciò significa che esistono diverse distribuzioni del reddito che sono compatibili con l'ottimo funzionamento dell'economia. Non vogliamo chiamarle di destra? Non vogliamo chiamarle di sinistra? Chiamiamole Giovanna e Maria. Poco conta. Quel che conta è che esistono, parola di Samuelson. Se Samuelson non bastasse, possiamo citare Koopmans, altro premio Nobel e inventore dell'analisi delle attività Cosa dice Koopmans? Dice che l'ottimo di Paretoè un vero otimo perché non garantisce che la distribuzione del reddito sia la miglior possibile e che, perciò, è palesemente errato chiamarlo ottimo. Ciò dette origine a differenti teorie della distribuzione del reddito che vennero illustrate a suo tempo in una famoso saggio di Nicholas Kaldor dal quale prese spunto il nostro Luigi Pasinetti nell'elaborazione della sua teoria sulla relazione fra distribuzione del reddito e sviluppo economico. Analoga osservazione può essere fatta per quello che riguarda la politica. Come dimostrò Giovanni Sartori, esistono molte concezioni della democrazia, allo stesso modo in cui esistono diverse concezioni dello stato, del diritto. Il grande politologo americano Robert Dahl, pubblicò anni fa un libro in cui si chiedeva quanto fosse democratica la costituzione americana. Questo per dire, a che punto possa arrivare il pensiero liberale di marca anglosassone. Il pensiero liberale italiano è invece costantemente rimasto di destra: una destra che è sempre stata in buoni rapporti con il fascismo. Non possiamo stupirci, perciò se u liberale come Monti se la fa con un fascista come Fini: e non possiamo neppure stupirci delle sue critiche al sindacato di classe. Il sindacato che piace a Monti è un sindacato senza spina dorsale, cinghia di trasmissione dei padroni del vapore: un sindacato che non mette becco nelle questioni politiche come se la politica non avesse nulla da vedere con l'economia. Non è così. Come Gunnar Myrdal dimostrò in un dimenticato saggio di settant'anni fa, in ogni teoria economica esiste un elemento politico che la condiziona. Ciò è evidente in modo particolare nella teoria neoclassica, cui fa riferimento il professor Monti; una teoria che trasforma il rapporto di lavoro da rapporto di classe in rapporto di puro scambio fra datore di lavoro e lavoratore, fra possessore di denaro e possessore di forza lavoro. Non è così. Mi dispiace per il professor Monti, ma non è così. Le classi sociali continuano a esistere e finché esisteranno le classi sociali esisterà anche la distinzione fra destra e sinistra, fra sfruttati a sfruttatori, tra produttori e tagliatori di cedole. Lo so. Mi si può accusare di usare un linguaggio vecchio. In verità, vecchio non è il linguaggio, Vecchia è la società. *** Come Arthur Rosenberg, autore di importanti opere sulle origini della repubblica di Weimar e sulla storia del bolscevismo, scrisse nel 1937 in Socialismo e democrazia, l'avvento al potere del nazifascismo venne favorito dall'incapacità del movimento operaio di coniugare le proprie istanze di uguaglianza politica e di giustizia sociale con le istanze della democrazia. E, in effetti, Marx e Engels avevano sempre dimostrato disprezzo nei confronti della democrazia borghese. Simile a quella di Marx e Engels era la posizione di Lenin. Per Lenin, infatti, come per Marx e Engels, la democrazia era lo stato e lo stato non era altro che l'organo della repressione di classe. Uno strumento di potere nelle mani della borghesia; in parole povere, lo stato era nient'altro che un suo comitato d'affari. Tali definizioni possono oggi sembrare inappropriate. Il nostro giudizio, però, cambia, se consideriamo il fatto che Marx e Engels scrivevano in un'epoca in cui lo stato dei rapporti fra istituzioni pubbliche e società civile era simile a quello descritto da Emile Zola in Trippa per gatti, dove la trippa era rappresentata dalle commesse pubbliche e i gatti erano impersonati dai voraci uomini d'affari che animavano la Parigi dell'epoca Affatto diversa era la posizione di Antonio Gramsci. Per Gramsci, secondo la famosa definizione contenuta nei Quaderni del carcere, lo stato era “egemonia corazzata di coercizione”. Il concetto di egemonia venne tradotto in francese da Louis Althusser che elaborò una teoria ad hoc per i cosiddetti apparati ideologici di stato, traduzione francese delle famose “casematte” di Gramsci. Il concetto di stato come apparato ideologico fu al centro dell'interesse del politologo francese Nicos Poulantzas, seppure in termini critici nei confronti della teoria di Althusser. Come egli scrise infatti in L'Etat, le pouvoir, le socialisme, “l'idéologie ne consiste pas seulement en un systéme d'idées; elle concerne aussi une série de pratiques matèrielles”. L'importanza della analisi gramsciana dello stato venne riconosciuta anche dal poltologo britannico, autore d'una famosa storia del laburismo, Ralph Miliband in Lo stato nella società capitalistica. A spadroneggiare rimase, però, nella letteratura politica comunista la definizione di origine leninista come si evince dalla lettura dei saggi di noti esponenti comunisti pubblicati in quegli anni su Stato operaio de oggi disponibili nella antologia curata da Giulio Sapelli. Tale visione meramente repressiva dello stato borghese abbinata a una visione classista della democrazia, continuò a dominare il pensiero politico comunista anche dopo la caduta del fascismo come hanno documentato gli studi di Marcello Flores, di Franco Sbarberi e di Valentino Gerratana. Si arrivò così alla stesura del testo della costituzione della repubblica italiana. Molto è stato scritto su di essa. Qualcuno, in vena di iperboli, l'ha definita la costituzione più bella del mondo. In realtà, essa è tutt'altro che la costituzione più bella del mondo. Essa, infatti, fu il prodotto di un compromesso fra i tre grandi partiti del tempo: Dc, Pci, Psi. Ciò è evidente in modo particolare negli articoli che parlano del diritto di proprietà e delle forme di controllo su di essa. Inoltre, non dimentichiamo che fu grazie alla confusione che regna in materia nel testo della Costituzione che si rese possibile la creazione di quell'obbrobrio economico che fu l'economia mista italiana Una certa perplessità nei confronti della democrazia di massa era presente anche in un grande contemporaneo di Marx e Engels, il liberale Alexis de Tocqueville, il quale in La democrazia in America. aveva messo per tempo in guardia, come ricordò putualmente Norberto Bobbio in Il futuro della democrazia, contro quello che egli aveva chiamato dispotismo della maggioranza. Max Weber guardava con estrema cautela, in piena crisi politica tedesca, al fenomeno della parlamentarizzazione. Come egli scrisse infatti in Parlamento e governo, “parlamentarizzazione e democratizzazione non sono affatto in correlazione”. Per Hans Kelsen, invece, “La democrazia moderna vivrà soltanto se il parlamentarismo si rivelerà uno strumento capace di risolvere le questioni sociali del nostro tempo”. Poi, dopo aver notato che democrazia e parlamentarismo non erano identici, scriveva che “poiché per uno stato moderno l'applicazione d'una democrazia diretta è praticamente impossibile, non si può dubitare che il parlamentarismo sia l'unica forma possibile dell'idea di democrazia.” Parere affatto opposto fu esposto da Giuseppe Rensi, in Democrazia diretta, scritto da Rensi mentre si trovava esule in Svizzera, dov'era riparato dopo le "fucilate" milanesi del genrale Bava Beccaris. Ciò ci porta alla mente un'acuta osservazione di Josè Ortega y Gasset. Come egli scrisse infatti in Mirabeau. il potere non è qualcosa che cala dall'alto, ma è qualcosa che sale basso. Così, la democrazia, in quanto governo del popolo, per il popolo, con il popolo, sul popolo, non è qualcosa di verticale, ma di orizzontale. Democrazia vuol dire circolarità di idee, rotazione degli incarichi pubblici. Democrazia è il regime politica dove , per dirla con Amartya Sen, si governa mediante il dialogo. Questo fatto è reso necessario dalla globalizzazione che impone il ritorno alle proprie radici, a quello che è stato chiamato lo sviluppo locale, espressione con la quale si definisce quel genere di sviluppo che, come ha scritto Carlo Trigilia, mira a usare le risorse provenienti dall'estero per sviluppare l'economia locale Nulla è, infatti, più nocivo allo sviluppo della democrazia che quello che Simone Weil chiamò lo “sradicamento”. Come Simone Weil scrisse in La prima radice, “Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell'anima umana. Esso è tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva, all'esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l'essere umano ha una sua radice”. Le parole di Simone Weil ci ripropongono il problema dello stato. Lo stato attuale è infatti lungi dall'essere uno stato comunità com'era negli auspici di Simone Weil. E il problema dello stato ci pone a sua volta il problema del potere, il quale non va inteso come qualcosa di monolitico, ma va inteso come qualcosa che, come spiegò Michel Foucault, solo dividendosi trova la propria unità. *** Se chiedete a un economista se la sua disciplina sia da considerarsi una scienza, egli vi guarderà come si guarda un povero ignorante. In realtà, a dubitare del carattere scientifico dell'economia politica fu fra gli altri Benedetto Croce il quale espose il suo punto di vista in un noto scambio epistolare con Vilfredo Pareto pubblicato in Materialismo storico e economia marxistica. Polemiche a parte, resta il fatto che nessun economista giocherebbe due euro sulle sue previsioni. il motivo risiede nel fatto che egli sa che le le sue previsioni si riferiscono a eventi che sono soggetti all'influenza di una quantità di fattori oggettivi e soggettivi. Se non fosse così non ci troveremmo oggi nelle condizioni in cui ci troviamo a causa d'una serie di crisi che stanno mettendo a dura prova le nostre economie. Nello stesso tempo, è anche vero che ogni produzione è effettuata in vista del consumo e se il governo causa con i suoi interventi una riduzione dei redditi delle famiglie, causa una riduzione dei consumi che disincentiva gli vestimenti e ostacola la creazione di nuovi posti di lavoro. Allo steso modo se il governo tramite i suoi interventi causa una stretta creditizia, essa avrà effetti negativi sulla produzione e quindi sull'occupazione. Ciò causerà una riduzione dei costumi che innesterà un processo recessivo. Ciò è quello è accaduto con il governo dei tecnici presieduto da Mario Monti il quale fra le sue fisse, ha quella per la quale per ridurre il debito pubblico occorre mandare l'economia in recessione; né, come abbiamo visto le cose potrebbero andare diversamente, dal momento che ogni produzione è effettuata in vista di un consumo. Se i consumi vengono tagliati a causa della politica economica del governo, caleranno anche gli investimenti. Nessun imprenditore investe con i magazzini pieni di merci invendute. Elementare Watson. Come scrisse Kalecki, i lavoratori consumano ciò che guadagnano, gli imprenditori guadagnato ciò che investono I/K = P/K Gli investimenti, quindi l'occupazione, sono condizionati dal tipo di mercato nel quale le imprese operano. In un'economia di perfetta concorrenza, con tante piccole imprese che ricevono i prezzi dal mercato - in gergo price takers - un aumento della domanda di beni di consumo induce le impresse ad aumentare l'offerta aumentando la produzione, quindi l'occupazione. Ciò aumenterà i salari che spingeranno in su i consumi delle famiglie. In un'economia caratterizzata da forme di mercato diverse da quella della concorrenza perfetta ciò può non accadere, dal momento che le imprese, in tali forme di mercato, lavorano già con un eccesso di capacità produttiva, per cui il loro punto di rottura - in gergo break even point - si colloca ben lontano dal punto che rappresenta il pieno utilizzo degli impianti. Inoltre, le imprese possono decidere di far fronte alla maggior domanda aumentando i prezzi invece di aumentare l'offerta. Analoghe considerazioni possono essere effettuate per quello che riguarda la politica monetaria. In gergo si dice che quando il cavallo ha sete occorre dargli da bere per farlo correre. Altrimenti quello stramazza al suolo. La moneta, infatti, svolge una funzione fondamentale in un processo di sviluppo economico. E' con moneta, nellaforma di credito, che gli imprenditori finanziano gli investimenti. Tale moneta dovrebbe essere fornita loro dalle banche. Poi dalla borsa dove le imprese quotate in borsa possono acquisire capitali vendendo titoli rappresentativi delle società che gestiscono le stesse imprese. Ora, se il governo, per un qualunque motivo, induce le banche a stringere i cordoni della borsa, ciò significa che esso ha deciso di mandare l'economia in recessione. Un effetto simile può essere ottenuto amentando il carico fiscale su imprese e famiglie. Un aumento del carico fiscale, come abbiamo visto, riduce il reddito disponibile per consumi e per investimenti. A questa riduzione, segue la riduzione dell'occupazione. In altre parole, si innesta un processo che potremmo chiamare di "demoltiplicazione", laddove la spesa governativa produce, attraverso il meccanismo del moltiplicatore, un aumento degli investimenti. Purché, va chiarito, si tratti di investimenti. Essi hanno sull'economia un effetto simile a quello che si avrebbe, per dirla con Kalecki, con un aumento delle esportazioni. Ora, l'errore i cui sono caduti i governi del dopoguerra è quello di aver trasformato una politica - quella keynesana - che era apolitica di breve periodo, in politica di lungo periodo con la conseguenza di far crescere a dismisura il debito pubblico e provocare quella che l'economista rosso verde americano Jim O'Connor chiamò "crisi fiscale dello stato! Grossi guai per l'economia possono essere provocati anche da interventi governativi sbagliati in materia di mercato del lavoro. Il mercato del lavoro, infatti, non è un mercato come gli altri. Chi opera in tale mercato, imprenditori e lavoratori sono esseri umani soggetti alle più svariate influenze. Facciamo il caso del lavoratore che preferisce guadagnare qualcosa in meno ma essere in grado di spendere qualcosa in più del proprio tempo di vita con la propria famiglia. Inoltre, se non è possibile tirare il collo a una macchina perché rischiamo di romperla, così non è possibile far lavorare un operaio per troppo tempo a ritmi eccessivamente sostenuti perché si rompe, come una qualsiasi macchina. Ciò provoca un costo vuoi a carico delle imprese, vuoi a carico della società. Crediamo, perciò, non sia un caso se le pagine più belle che si possono leggere sulla formazione di una coscienza di classe sono contenute nel vecchio Manuale critico di psichiatria di Jervis. Lo sfruttamento genera malessere. Tale malessere può ritorcersi contro l'operaio che subisce lo sfruttamento oppure può far scoppiare la rabbia. Ciò ricorderà a qualcuno la Vincenzina di cui Enzo Jannaccci parlava in una canzone di alcuni decenni fa. Ricordate? Vincenzina davanti alla fabbrica, Vincenzina guarda la fabbrica, il fazzoletto non si usa più. Zero a zero anche 'sto Milan qui. Già. Anche Vincenzina può incazzarsi. Ne deriva che per evitare che anche Vincenzina si incazzi, vennero inventati gli ammortizzatori sociali. Il governo dei tecnici presieduto a Mario Monti ha preteso fare una riforma del mercato del lavoro e annessa riforma delle pensioni lasciando a casa senza salario e senza pensione centinaia di migliaia di lavoratori. E dire che si trattava di tecnici. O forse fu proprio per quello. La politica economica, infatti, non è una scienza, come pretendono alcuni, ma un'arte che richiede, come insegnava il mio maestro Federico Caffè, approfondita conoscenza della realtà economica, apertura mentale, duttilità teorica. Insomma, non è una cosa da professori, ma da veri politici. Questa considerazione ci porta al nodo centrale della della questione della politica economica: il problema dello sviluppo economico. Non della crescita, come tante volte si sente dire anche dai tecnici, ma dello sviluppo economo. La crescita attiene alla produzione di beni, in una parola, attiene al PIL, prodotto interno lordo. Essa è un problema di quantità di merci prodotte: automobili, lavatrici, scarpe, latte, burro, spaghetti. Lo sviluppo attiene alla qualità della vita e può essere misurato ricorrendo a indici particolari di difficile uso, oltre che di difficile elaborazione. Ma andiamo con ordine; per farlo, Inprendiamo in considerazione un'economia in stato reintegrativo; un'economia cioè che anno dopo anno riproduce se stessa. In tale economia, le stesse merci che figurano fra gli input figurano anche fra gli output. Ciò fa si che le potenzialità di crescita dell'economia siano pressoché infinite. Le cose cambiano se, per usare le parole di Terenzio Cozzi, introduciamo il fattore tempo per dinamizzare il modello. Ciò vuol dire introdurre il progresso tecnico e, con esso, la cosiddetta disoccupazione tecnologica. In tal caso, abbiamo a che fare con saggi di variazione invece che con grandezze finite e, per realizzare un equilibrio dinamico, occorre che i saggi di variazione dei diversi settori siano compatibili. La regola è che il massimo saggio di crescita dell'economia è il massimo saggio di crescita del settore che cresce meno. Teniamo presente, però, che siamo ancora nel campo della crescita. Lo sviluppo, come abbiamo detto, è un'alta cosa. Lo sviluppo attiene alla qualità della vita, dell'ambiente, ed impossibile realizzarlo in un paese che, come ha scritto Amartya Sen, non sia democratico, libero, culturalmente avanzato. Lo stato - uno stato efficiente, democratico, dinamico - svolge un ruolo fondamentale nella realizzazione di tutto ciò. in conclusione, la questione morale è la questione fondamentale del nostro tempo. E' infatti solo attraverso una rifondazione morale della politica che sarà possibile risolvere i grandi problemi del nostro tempo e creare in questo modo una società che renda possibile una vita degna d'essere vissuta. Come scrisse, infatti, Revelli, “la politica riproduce ormai senza controllo il male da cui dovrebbe proteggerci: disordine, violenza, paura”. La paura, come notò Wolfgang Sofsky, genera una crescente domanda di sicurezza, mette i cittadini gli uni contro gli altri, induce l'introduzione di misure che, in nome della sicurezza, come scrisse Ulrich Bech, diminuiscono la nostra libertà. Che fare? Occorre creare una società giusta, cioè, una società nella quale tutti i cittadini godano, per dirla con Ralph Dahrendorf, delle medesime chances di vita. Una società nella quale non vi siano più ricchi e poveri, integrati e emarginati, in cui non vi siano più, come scrisse Bauman, vite di scarto. Lo stato, scrisse Aristotele, è una comunità e una comunità si costituisce in vista di un fine; tale fine, il cui mezzo era la politica, era la felicità. Ne derivava che solo persone virtuose potevano proporsi di governare lo stato, persone il cui animo era predisposto alla virtù. A tale visione della politica si ispirarono, come ricordò Robert Dahl, i grandi cancellieri fiorentini che vissero al tempo dell'Umanesimo. Oggi, riproporre una tale visione della politica sarebbe considerato astruso, poiché la stessa politica è diventata un'attività astrusa, senza capo né coda, senza un programma, senza una visione del mondo, senza un vero impegno civile, ma attività prettamente autoreferenziale svolta in televisione, sui giornali.... Occorre riprendere in mano le redini della politica. Occorre eliminare l'istituto della delega. Occorre azzerare l'attuale classe politica. Occorre rifondare la politica partendo dal basso, lavorando per linee orizzontali, attraverso un nuovo genere reticolare di organizzazione. In questo modo potranno essere superate le divisioni create in seno al corpo elettorale dalle oligarchie politiche per giustificare la propria esistenza e per perpetuare il proprio dominio sulla base e potremo occuparci delle cose che contano: lavoro, casa, salute, ambiente.... *** Una società giusta è una società nella quale ad oni cittadino vengono garantite le medesime chances di vita. In altre parole, non è sufficiente che ad ogni citaddino siano garantite le medesime condizioni di patenza, come sosteneva Einaudi in Lezioni di politica sociale; occorre che egli sia in grado in ogni momento di far valere i propri diritti. Prendiamo il caso del diritto allo studio. Non è sufficiente garantire a chi abbia la volontà e la capacità la possibilità di ottenere un titolo di studio. Occore garantire l'accessso al mercato del lavoro eliminando nei modi dovuti, ogni foma di privilegio, impedendo la creazone d mafie, clientele, paentele... per non parlare dei concorsi truccati. Una società giusta è una società fondata sul merito, sulle capacità individuali, sulla professionalità. Una società giusta non è una società egualitaria. L'egualitaismo è la negazione dell'uguaglianza. Un società giusta è una società nella quale vale il pincipio: "Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi meriti". Secondo i teorici liberali, ciò è quanto viene realizzato in una società capitalistica sviluppata. In pratica avviene l'esatto contrario. Nella società capitalistica opera infatti una sorta di doppio mulinello; mentre una spatola integra, l'altra emargina. L'emarginazione genera povertà, la povertà genera emarginazione. Il grande economista svdese Gunnar Myrdal la chiamò "legge della causazione circolare cumulativa". Egli la scoprì studiando il problemaa dei neri in America. Essa opera, però, in tutte le società capitalistiche ed è all'origine di quella che John Kenneth Galbraith chiamò povertà in mezzo all'abbondanza. Eliminare tale povertà significa creare le condizioni per bloccare il funzionamento della legge della causazione circolare cumulativa e questo può esssere realizzato creando una società che rende effettiva quella che Ralph Dahrendof chiamò ugualianza delle chances i vita. Ciò significa acquisire, una nuova nozione di sviluppo fondata sul pincipio messo in luce da Amartya Sen per cui sviluppo significa libertà: e libertà significa che ognuno di noi è in condizione di sviluppare liberamente la propria personlità. Come scrisse John Stuart Mill in On Liberty, l'uomo è paragonabile ad un albero e deve essere lasciato libero di crescere in tutte le direzioni. Questa considerazione ci porta al clou della questione. Società giusta significa, per dirla con Edoardo Berselli, economia giusta. L'economia capitalistica è tutto meno che giusta. La concorenza genera monopolio. Monopolio significa che il monopolista è in grado di condizionare a proprio vantaggio il funzionamento dell'economia. Creare un'economia giusta significa perciò uscire dal capitalismo. Capitalismo non significa infatti necessariamente economia di mercato. Un'economia di mercato esiste fntanto che esiste un'economia di libera concorrenza. La concorrenza in vigore al rgiono d'oggi è una concorrenza monopolistica, o, tutt'al più, imperfetta. La forma di mercato dominante è quella dell'oliogopolio. Ciò significa che un piccolo numero di grandi imprese controllo un inteo mercato, imponendo le proprie politiche dei prezzi, degli approvigionamenti, delle vendite messe in atto allo scopo o di impedire l'entrata sul mercato di nuove imprese; o allo sccopo di espellere dal mercato le imprese esistenti. Ciò condiziona sia il tipo di sviluppo delle nostre economie, che il loro stesso tasso di crescita. Il tasso di crescita di un'economia dipende dal tasso al quale crescono gli investimenti ed esso dipende, fra le altre cose, come spiegò il grande economista polacco Michal Kalecki, dal grado di monopolio delle imprese. Maggiore è il grado di monopolio delle imprese; minore è l'incentivo a investire, minore è il tasso di crescita dell'economia. Un minor tasso di crescita dell'economia significa, sic stantibus rebus, da un lato, una minore occupazione; dall'altro lato, significa aumento della capacità produttiva inutilizzata. Quest'ultimo è un fenomeno tipico di quello che un tempo veniva chiamato "capitale monopolistico". Come dimostrarono Paul Baran e Paul Sweezy, nel capitalismo monoplistico v'è una tendenza ad aumentare del surplus economico effettivo dovuta alle pratiche monopolistiche messe in atto dalle imprese monopolistiche. Tali imprese hanno generalmente la forma giuridica della "società per azioni gigante", la cui caratteristica principale è quella della irresponsabiltà nei ccnfronti delle collettività dei paesi in cui operano. Esse agiscono alla luce di un'ottica globale e sono indifferenti nei confronti delle critiche che vengono loro rivolte dalle colletività dei paesi in cui operano. Cos' facendo, esse condizionano a loro vantaggio il funzionamento della globalizzazione, creano le condizioni di una perenne emergenza economica e mettono in crisi quella che un tempo veniva chiamata sovranità nazionale. Secondo alcuni studiosi, ci troviamo di fonte ad un caso unico nella storia di imperialismo senza impero. In realtà, le più importanti teorie sull'mperialimso vennero elaborate al tempo degli imperi. Oggi non ci sono imperi. Ci sono grandi imprese multinazionali che operano a livello globale secondo una logica di impresa. Un caso esemplare è quello della FIAT. Il suo Ceo, Sergio Marchionne, non agisce nel modo in cui agisce pechè sia indifferente, da un lato, ai problemi che crea al nosto paese; dall'altro lato alle sue maestranze. Egli agisce nel modo in ccui agisce in veste di imprenditore globale. Ciò non può essere accettato dai sindacati dei lavoratori e dai politici di sinisttra. Le critiche però non sono sufficienti. Occorre creare un'alternativa. Essa si chiama "sviluppo locale". Appendice Prefazione. La vittima più illustre della crisi è certamente stata la ideologia neoliberista. Il crollo dell'ideologia neoliberista mette in crisi anche la teoria economica dominante che ha fatto per anni da supporto dell'ideologia neoliberista. Ne deriva che se vogliamo uscire dalla crisi, dobbiamo dotarci di una nuova teoria. La teoria dominante. [Fonte S. Staffolani Economia del lavoro, università di Ancona]. Secondo la teoria economica dominante, gli individui offrono lavoro alle imprese al fine di ricevere un reddito da spendere nel consumo dei beni. Nell’ambito dell’apparato teorico del capitolo 6, l’individuo disponeva di una dotazione iniziale di reddito in forma di dotazioni di due beni generici. Ora specifichiamo una natura particolare per tali beni. Nell’analisi grafica dell’offerta rappresentiamo il tempo libero sull’asse delle ascisse e la moneta su quello delle ordinate. Assumiamo che l’individuo disponga di una dotazione giornaliera di 24 ore di tempo libero e di un dato ammontare di moneta. Abbiamo rappresentato nella figura 1 le ore di tempo libero sull’asse delle ascisse e l’ammontare di moneta spesa nel consumo di altri beni sull’asse delle ordinate. Per ipotesi, l’utilità è crescente sia nelle ore di tempo libero che nella quantità di moneta. Inoltre, assumiamo che il costo unitario della moneta sia 1. All’aumentare delle ore di lavoro, il tempo libero diminuisce ma aumenta l’ammontare di moneta disponibile per il consumo in tutti gli altri beni. Come disegniamo il vincolo di bilancio? Se il salario orario è w, per ogni ora di lavoro addizionale l’individuo ha un’ora in meno di tempo libero e w in più di moneta. Di conseguenza, l’inclinazione del vincolo di bilancio è pari a –w e w rappresenta il costo opportunità di un’ora di tempo libero. Se chiamiamo l le ore di tempo libero e m la quantità di moneta, il vincolo di bilancio viene definito dalla seguente espressione: m = M + w(L –l) (26.1) dove L definisce la dotazione iniziale di tempo libero (24 ore) e M la dotazione iniziale di moneta (che in generale può essere anche nulla). Il vincolo di bilancio passa per il punto di dotazione iniziale (L, M) ed ha inclinazione negativa –w. Naturalmente, la scelta ottima dell’individuo dipende dalle preferenze sulle combinazioni (tempo libero, moneta). Assumiamo che tali preferenze siano quasi lineari e che l’individuo disponga inizialmente di 24 ore di tempo libero e di 10 unità di moneta. La dotazione iniziale (24,10) è stata indicata con X nella figura 26.1. Per ogni valore del salario orario, il vincolo di bilancio passa attraverso la dotazione iniziale X ed ha inclinazione –w. All’aumentare del salario orario, aumenta anche la grandezza dell’inclinazione del vincolo di bilancio; w è uguale a 0.4 nel nostro esempio grafico. Per tale valore del salario orario, se l’individuo impiega per intero le 24 ore di dotazione iniziale in tempo libero, può spendere solo le 10 unità di moneta inizialmente disponibili in altri beni. Se, viceverva, tutte le 24 ore di dotazione iniziale vengono impiegate in ore lavoro, l’individuo ha 0 di tempo libero (perche lavora tutto il giorno) e può spendere in altri beni le 10 unità di moneta di dotazione iniziale più un salario totale pari a 0.4 x 24 = 19.6. Date queste due situazioni estreme, l’individuo può scegliere ogni altra combinazione intermedia di tempo libero e moneta. Sebbene il vincolo di bilancio sia stato tracciato anche per combinazioni (tempo libero, moneta) con L>24, è chiaro che tali combinazioni non sono raggiungibili. Di conseguenza, anche se la condizione di tangenza tra il vincolo di bilancio e la curva di indifferenza è soddisfatta in un punto alla destra della dotazione iniziale X, tale punto non può essere raggiunto e la scelta ottima si identifica con la dotazione iniziale stessa. Concludiamo che all’individuo non conviene offrire nessuna ora lavoro al salario orario di 0.4, ma impiegare le 24 ore in tempo libero. In altri termini, il salario orario di 0.4 è troppo basso date le preferenze dell’individuo. Tuttavia, per valori maggiori del salario orario, la scelta ottima si sposta progressivamente a sinistra della dotazione iniziale. Ad esempio, per un salario orario di 2.0, la scelta ottima è (12.25, 33.4): l’individuo dedica 12.25 ore al tempo libero e offre (24 – 12.25) = 11.75 ore lavoro, le quali gli permettono di aggiungere 23.5 unità di moneta alla dotazione iniziale di 10, per un reddito totale di 33.5. L’offerta ottima di lavoro, ovvero, le ore di lavoro che l’individuo preferisce offrire ad un dato salario orario, è rappresentata dalla differenza orizzontale tra l’allocazione iniziale e il punto di scelta ottima. Se ripetiamo lo stesso esercizio per valori alternativi di salario orario, vediamo chje l’offerta di lavoro aumenta al crescere del salario orario. In generale, tuttavia, in seguito ad un aumento del salario orario, l’offerta di lavoro potrebbe anche diminuire. Ciò è dovuto al fatto che un aumento del salario orario provoca un miglioramento del benessere dell’individuo che potrebbe decidere di avvantaggiarsene nella forma di un numero maggiore di ore di tempo libero. Non dimentichiamo, infatti, che l’utilità dell’individuo aumenta sia all’aumentare del tempo libero che del reddito. Utilizzando i dati esposti nella prima e nell’ultima colonna della tabella, possiamo rappresentare graficamente la relazione esistente tra offerta di lavoro e salario reale. Tale relazione può essere espressa in forma diretta, figura 26.2, (rappresentando il salario orario sull’asse delle ascisse) o in forma inversa, figura 26.3, (rappresentando il salario orario sull’asse delle ordinate)1. Naturalmente, le due funzioni contengono le stesse informazioni, ma la seconda si rivelerà più utile all’analisi contenuta nel prosieguo del capitolo. E’ da notare che l’area compresa tra il salario orario e la curva di offerta di lavoro misura il surplus individuale. La prima viene definita offerta di lavoro “Walrasiana”, dal nome di Walras; la seconda è conosciuta con il nome di offerta di lavoro “Marshalliana”, dal nome di Marshall. La forma della curva di offerta di lavoro dipende dal tipo di preferenze individuali. Provate ad immaginare che tipo di preferenze bisognerebbe assumere per ottenere una curva di offerta di lavoro “backward-bending” tale da assumere un’inclinazione negativa per valori maggiori di un certo livello di salario orario. La domanda ottima di lavoro potrebbe essere calcolata semplicemente dalla considerazione congiunta di questi due concetti. Tuttavia, per semplicità di esposizione, seguiremo un approccio diverso. Riferiamo la nostra analisi al breve periodo, per cui le uniche variabili decisionali dell’impresa sono la domanda di lavoro e il livello di produzione. Essendo interessati alla domanda di lavoro, rappresentiamo questa variabile sull’asse delle ascisse. Il nostro obiettivo è discutere la relazione esistente tra domanda di lavoro da un lato e ricavi totali, costi totali, profitti totali, ricavi e costi marginali dell’impresa dall’altro. A tal fine, ripetiamo l’analisi grafica contenuta nel capitolo 13, con l’unica differenza che la variabile rappresentata sull’asse delle ascisse non è l’output, ma la domanda di lavoro dell'impresa. In primo luogo, definiamo i costi totali dell’impresa in funzione della domanda di lavoro. Nel breve periodo, se il lavoro è retribuito al salario orario w e l è la quantità totale domandata di lavoro, I costi totali vengono definiti come segue: Costi totali = wl + rK dove K rappresenta il fattore fisso impiegato dall’impresa al costo unitario r. Se K è il capitale, i costi fissi totali sono rK. In un grafico con l sull’asse delle ascisse, l’espressione (26.2) rappresenta l’equazione della retta con intercetta rK e inclinazione w. La definizione dei ricavi totali dell’impresa in funzione della domanda di lavoro e più complessa. Nel breve periodo, la funzione di produzione è data da: y = f(q, K) (26.3) dove y indica l’output. Se indichiamo con p il prezzo unitario del bene prodotto dall’impresa i ricavi totali sono uguali a: ricavi totali = py = p f(l,K) (26.4) K è fisso e, all’aumentare di l, l’output y aumenta e, di conseguenza, aumentano anche i ricavi totali dell’impresa. Il tasso al quale y aumenta all’aumentare di l è (per definizione) il prodotto marginale del lavoro, per cui il prodotto marginale del lavoro per p rappresenta il valore dell’inclinazione della curva dei ricavi totali in funzione di l. Data l’ipotesi di rendimenti decrescenti dell’input lavoro, la curva dei ricavi totali è crescente e concava in l. 26.6: La linea retta rappresentata nella figura 26.6 è la funzione dei costi totali. La curva concava disegnata nella stessa figura rappresenta la funzione dei ricavi totali. Confrontate questa figura con la figura 13.2 osservando differenze e somiglianze. Notiamo che per valori bassi di l, i costi totali sono maggiori dei ricavi totali e, di conseguenza, il profitto dell’impresa è negativo; per valori di l compresi tra 0.5 e 7.0, il profitto diventa positivo, mentre per valori di l maggiori di 7.0 torna ad essere negativo. La funzione dei profitti (ovvero, la differenza tra ricavi e costi) viene rappresentata nella figura 26.7. 26.7: La quantità di lavoro che massimizza i profitti è pari a circa 2.7. Per individuare con maggiore precisione la domanda ottima di lavoro, notiamo che i profitti sono massimi quando è massima la differenza tra ricavi e costi totali, ovvero, quando l’inclinazione della funzione dei ricavi totali è uguale all’inclinazione della funzione dei costi totali. L’inclinazione della funzione dei ricavi totali è pari al prezzo dell’output per il prodotto marginale del lavoro; l’inclinazione della funzione dei costi totali è data dal prezzo del lavoro, w. Di conseguenza, la condizione di profitto massimo2 è la seguente: prezzo dell’output per prodotto marginale del lavoro = prezzo del lavoro = salario orario Dividendo per p la condizione di massimo profitto, otteniamo: prodotto marginale del lavoro = w/p = salario reale orario Analogamente a quanto fatto nel capitolo 13, possiamo ricavare le curve di ricavo e costo marginale in funzione di l a partire dalle curve di ricavi, costi e profitti totali. Sappiamo che l’inclinazione della curva dei costi totali è costante e pari a w. Di conseguenza, la relazione tra costi marginali ed l è rappresentata da una retta orizzontale con intercetta w. L’inclinazione della curva dei ricavi totali decresce all’aumentare di l ed è uguale a p per il prodotto marginale del lavoro. Ne consegue che la relazione tra ricavi marginali ed l è rappresentata da una curva decrescente ed è definita dal prodotto tra p e il prodotto marginale del lavoro. Così facendo, abbiamo ottenuto la figura 26.8, nella quale w = 1 (lo stesso valore che abbiamo assunto nella figura precedente). 26.8: 2 La dimostrazione formale di questa proposizione è contenuta nell’appendice matematica di questo capitolo. Se definiamo il prodotto tra p e il prodotto marginale del lavoro come “prodotto marginale del lavoro in valore”, la domanda ottima di lavoro, ovvero, la quantità di lavoro che massimizza il profitto, si colloca nel punto di uguaglianza tra prodotto marginale del lavoro in valore e salario orario. Quando questa condizione è soddisfatta la domanda di lavoro è pari a circa 2.7 (lo stesso valore dell’esempio grafico precedente). A questo punto siamo in grado di caratterizzare in maggior dettaglio il concetto di profitto (o surplus) dell’impresa. Dalla figura 26.8, risulta che il costo totale del lavoro è pari semplicemente al prodotto tra salario orario e quantità totale di lavoro domandata dall’impresa. Dato il salario orario, il costo totale del lavoro viene misurato dall’area compresa tra il salario orario stesso e la domanda di lavoro. I ricavi totali sono rappresentati dall’area sottostante il prodotto marginale del lavoro fino al punto di domanda ottima di lavoro (2.7). Di conseguenza, la differenza tra queste due aree misura il profitto, ovvero l’area compresa tra il salario orario e la curva del prodotto marginale del lavoro in valore. Tra breve identificheremo quest’ultima con la curva di domanda del lavoro, per cui otteniamo il seguente risultato: il surplus dell’impresa (del produttore che domanda lavoro) è misurato dall’area compresa tra il prezzo pagato e la curva di domanda. Dall’analisi condotta finora risulta che l’impresa domanda la quantità di lavoro alla quale il prodotto marginale del lavoro in valore eguaglia il salario orario: al variare del salario orario, la domanda di lavoro varia lungo la curva del prodotto marginale del lavoro in valore. Di conseguenza, la curva del prodotto marginale del lavoro in valore è la curva di domanda di lavoro. 26.9: Nella figura 26.9, abbiamo rappresentato la curva di domanda di lavoro per un salario orario di 0.4. Per tale livello del salario, il profitto o surplus è dato dall’area compresa tra il salario stesso e la domanda di lavoro. Considerando congiuntamente offerta e domanda di lavoro siamo in grado di identificare l’equilibrio concorrenziale illustrato nella figura 26.10. 26.10: In equilibrio, il surplus totale (surplus del compratore più surplus del venditore) è massimizzato. In altri termini, l’equilibrio di concorrenza perfetta è efficiente nel senso che il surplus viene massimizzato in aggregato. D’altra parte, nulla si può concludere sull’equità della distribuzione del surplus (Notiamo che nel nostro esempio grafico l’impresa ottiene un surplus maggiore del surplus ottenuto dai lavoratori). Domandiamoci cosa accade se il governo decide di fissare per legge un salario minimo in un mercato del lavoro di concorrenza perfetta. Se il salario minimo viene fissato ad un livello inferiore al salario di equilibrio, non cambia nulla rispetto all’analisi precedente. Se, viceversa, il salario minimo viene fissato al di sopra del salario di equilibrio, l’occupazione si riduce, il salario degli occupati aumenta e la disoccupazione cresce. La curva dell’offerta di lavoro dipende dalle preferenze individuali su tempo libero e consumo. La curva dell’offerta di lavoro può essere “backward bending”. Abbiamo utilizzato la teoria dell’impresa per derivare la curva di domanda di lavoro. La curva della domanda di lavoro è la curva del prodotto marginale del lavoro in valore. Infine, abbiamo definito l’equilibrio di concorrenza perfetta nel mercato del lavoro, in corrispondenza del quale il salario di equilibrio consente alla domanda di lavoro di eguagliare l’offerta di lavoro. In un mercato del lavoro di concorrenza perfetta, il lavoro viene retribuito al proprio prodotto marginale. In un mercato del lavoro di concorrenza perfetta, la legislazione del salario minimo provoca una diminuzione del surplus e un aumento della disoccupazione. (1) Un aumento del salario provoca sempre un aumento dell’offerta di lavoro? (2) Utilizzando la teoria esposta nel Capitolo 11, verificate se la domanda di lavoro è sempre una funzione decrescente del salario. (3) Come viene influenzata l’occupazione da un provvedimento governativo che fissa il salario minimo al di sopra del salario di equilibrio in un mercato del lavoro di concorrenza perfetta? E se invece il salario minimo viene fissato al di sotto del salario di equilibrio? (4) Il livello ottimo di occupazione si raggiunge quando il prodotto marginale del lavoro è uguale al salario reale (il salario orario diviso il prezzo dell’output prodotto dall’impresa). Come vengono influenzati i profitti se l’impresa innalza l’occupazione al di sopra del livello di ottimo? E come vengono influenzati i profitti se l’impresa riduce l’occupazione al di sotto di tale livello? (Assumendo che il salario sia fissato e che non possa essere cambiato dall’impresa). (5) Che influenza hanno le ore di lavoro straordinario sull’offerta di lavoro? Dimostriamo la condizione di domanda ottima di lavoro per l’impresa. Sappiamo che il profitto dell’impresa è definito da: profitto = ricavi totali – costi totali = py – (wl + rK) (A26.1) e che la relazione tra l’output y e i fattori produttivi impiegati dall’impresa è definita dalla seguente funzione di produzione (A26.2): y = f(l,K) (A26.2) Sostituendo la definizione del profitto nella funzione di produzione, otteniamo: profitto = p f(l,K) – (wl + rK) (A26.3) Applicando la condizione di massimo del primo ordine (d profitto/ dl = 0), otteniamo la funzione (A26.4): p df(l,K)/l = w (A26.4) Ovvero, df(l,K)/dl = w/p (A26.5) Concludendo, l’impresa massimizza i propri profitti se il prodotto marginale del lavoro eguaglia il salario reale. Teoria della produzione. Secondo la teoria economica dominante, capitale e lavoro collaborano alla produzione su un piede di parità e vengono retribuiti sulla base delle rispettive produttività marginali. Tutto ciò viene sintetizzato nel concetto di funzione della produzione. La funzione di produzione assume caratteristiche molto differenti da impresa a impresa in dipendenza delle caratteristiche dell’impianto e del processo operativo. Questi sono generalmente più complessi nel caso di produzione di beni rispetto alla produzione di servizi che si fonda particolarmente sul lavoro umano e comporta un limitato livello di immobilizzazioni. Soprattutto nelle imprese industriali quindi i problemi della produzione assumono un ruolo prioritario sia per i riflessi esercitati sulle strategie adottate sia per le incidenze che hanno i costi di produzione nel conto economico aziendale. Per poter produrre dei beni è necessario allestire uno stabilimento, assumere e organizzare il personale, predisporre ed organizzare i cicli di produzione, creare servizi di supporto della fabbrica: tutto ciò comporta ovviamente cospicui investimenti. La funzione della produzione riguarda il processo di trasformazione dei beni, cioè l’insieme delle operazioni mediante il quale le risorse acquistate dall’impresa (i fattori produttivi) sono trasformati in prodotti finiti da collocare sul mercato. Il ciclo produttivo si pone quindi al centro del processo di gestione dovendo essere preceduto da una fase di approvvigionamento (input) ed essendo seguito da una fase di vendita (output). La funzione della produzione è strettamente legata quindi alle altre funzioni. Il rapporto con la funzione di approvvigionamento è necessario per la corretta alimentazione della produzione; quello con la funzione commerciale è fondamentale per orientare la produzione secondo le esigenze del mercato. La funzione produzione in linea generale è quindi legata a tutte le altre funzioni e si può affermare che essa si trova al contro delle strategie aziendali. Il risultato di tale collegamento è anzitutto quello di migliorare il time to market e poi quello di ridurre le scorte. Ancora, l’organizzazione della produzione porta sempre a relazioni e accordi interaziendali perché nessun azienda è in grado di compiere da sola tutto il ciclo di produzione. È da tempo infatti che si sta sviluppando un fenomeno di decentramento produttivo. In realtà, ai fini del processo produttivo pesano fortemente la ricerca, il capitale e il lavoro. Vi sono infatti le produzioni ad elevata tecnologia (high tech); quelle che sono attuate per grandi serie (produzioni di massa); quelle di maggiore contenuto artigianale o comunque quelle che richiedono un significativo apporto del lavoro umano (labour intesive). Recentemente, salvo che per le produzioni high tech, la geografia della produzione industriale si sta orientando verso i paesi meno sviluppati secondo una logica di decentramento internazionale. Le scelte che ricadono sulla funzione di produzione possono essere distinte in tre gruppo: - scelte strategiche: il cui obiettivo è quello di concorrere alla creazione del vantaggio competitivo; - scelte strutturali: il cui scopo è di costituire il sistema operativo coordinando le risorse disponibili; - scelte di gestione operativa: la cui finalità è quella di razionalizzare la programmazione. Le scelte del primo tipo sono quelle che si riflettono sulla strategia competitiva; quelle strutturale si riflettono sulla progettazione della tecnologia dell’impianto ed infine le scelte gestionali sono intese a disciplinare l’avanzamento del processo di lavorazione. La funzione della produzione è direttamente coinvolta nella strategia competitiva perché da un lato può consentire di perseguire l’obiettivo dei bassi costi e da un lato garantisce la qualità essenziale per una strategia competitiva di differenziazione. La strategia di produzione deve essere centrata sugli aspetti prioritari della strategia competitiva, ossia deve assicurare il miglior contributo all’aumento del vantaggio competitivo. È facilmente comprensibile che a seconda dei settori in cui opera l’impresa e delle competenza distintive possedute, la produzione può assumere un differente grado di rilevanza strategica nella conquista del vantaggio competitivo. Alla produzione si può infatti collegare un ruolo di neutralità rispetto alla concorrenza o un ruolo attivo nel senso che tramite essa l’impresa deve conseguire un vantaggio rispetto alle altre aziende. Quindi la tecnologia produttiva va vista in modo dinamico, ossia come attitudine ad organizzare secondo modalità innovative il processo di produzione. In altre parole, la tecnologia non può più essere considerata come il tradizionale know-how ma come l’abilità a rinnovare le caratteristiche della produzione. Sul piano strategico le principali scelte di produzione riguardano: - la determinazione del mix di produzione; - la progettazione dell’impianto; - la logistica. Per quanto riguarda la produzione va ancora detto che vi sono differenti tipologie del processo di lavorazione: - produzione di beni per unità distinte; - produzione di massa differenziata; - produzione di massa standardizzata; - produzione omogenea continua. Queste tipologie di produzione si ordinano secondo il grado di uniformità dei prodotti: si passa infatti da prodotti unici eseguiti su commessa a prodotti distinti per lotti oppure posti in essere in serie o secondo processi continui. Il primo caso è quello della produzione che si differenzia di volta in volta in rapporto alla specifiche indicazione del committente. La produzione su commessa comporta un’elevata capacità di adattamento alle richieste della clientela. Una commessa può essere singola (progetto) o ripetitiva (job): nel primo caso l’output del processo è unico e spesso caratterizzato da tempi lunghi di realizzazione; nel secondo caso invece l’output ha dimensioni inferiori ed è rappresentata dalla produzione di unità limitate (ad esempio le auto fuori serie). L’ultimo caso è quello della produzione continua che si caratterizza con la continuità e l’indifferenziazione dei prodotti posti in essere; è il modello tipico delle lavorazioni che svolgono processi continui e quasi automatizzati. In posizione intermedia si situa invece la produzione di massa che può assumere degli orientamenti diversi in funzione delle esigenze di mercato. L’organizzazione di una produzione di massa standardizzata è comune nelle situazioni in cui è possibile sfruttare il principio delle economie di scala, ossia quando l’omogeneità del mercato consente di fornire agli acquirenti lo stesso tipo di prodotto la cui forma di concorrenza riguarderà principalmente il prezzo. Nell’ipotesi invece di più strati di consumatori e pertanto di una diversificazione del mercato la produzione assume il carattere della lavorazione di massa differenziata, basata su un’elevata standardizzazione di alcune fasi del processo produttivo e sulla diversificazione di altre. Tale produzione richiede ovviamente una programmazione più flessibile del ciclo produttivo poiché necessita di volta in volta, di predisporre le operazione in funzione dei prodotti da allestire. Importante ai fini dell’organizzazione della produzione è anche la decisione circa la produzione in proprio o l’acquisto all’esterno di componenti del prodotto. Tale problema si collega al confine dell’organizzazione. In pratica va anzitutto effettuata una distinzione tra outsourcing e deintegrazione. La prima ha il carattere di opzione e pertanto revocabile di ricorso al mercato e alla seconda va dato il carattere della strategia irrevocabile per un certo periodo di tempo. Va osservato che ogni impresa tende a specializzarsi in un’attività che copre solo parte dell’interno ciclo produttivo; in qualsiasi prodotto sono infatti incorporate materie e accessori posti in essere da altre imprese secondo un principio di specializzazione tecnica. Spesso quindi i prodotti finiti di un’impresa rappresentano semilavorati per un’altra impresa, il cui processo produttivo può dar luogo ad ulteriori beni intermedi o a prodotti finali. Quindi un prodotto è finito quando esce dal ciclo di lavorazione di un’impresa ed è finale quando non necessita di altre trasformazioni per essere destinato all’uso per cui è sorto. Ancora c’è da osservare che le imprese e non solo quelle di grandi dimensioni, suddividono la loro produzione in più stabilimenti. In queste aziende multiplant l’organizzazione della produzione si amplia fino a comprendere una rete di impianti differentemente articolata da caso a caso. Quando infatti un’azienda possiede più unità produttive si trova dinnanzi all’esigenza di scegliere un determinato modello di suddivisione dei cicli di produzione. I modelli adottabili sono: - un modello di ripetizione degli impianti, quando ogni centro produttivo lavora sempre sugli stessi prodotti; - un modello di parcellizzazione del ciclo di produzione quando ciascun impianto svolge una parte del processo produttivo producendo parti da avviare ad altri stabilimenti; - un modello di specializzazione delle produzioni quando ogni impianto produce un particolare tipo di prodotto inserito nella gamma aziendale. Per produrre l’impresa industriale ha bisogno di strutture tecniche di impianto organizzate all’interno di uno stabilimento. Lo stabilimento è un’unità complessa che comprende più parti tra loro collegate. Esso solitamente include un capannone industriale, gli uffici, i centri tecnologici, i magazzini, gli spazi esterni, ecc… Intendendo per impianto la parte relativa alla sola fase di trasformazione si può quindi affermare che l’impianto è una parte del sistema complesso quale è lo stabilimento. La distribuzione fisica delle strutture tecniche che compongono lo stabilimento e più in particolare l’impianto costituisce il c.d. layout ossia la disposizione delle strutture edilizie, delle macchine, delle attrezzature e dei posti di lavoro all’interno della fabbrica. La progettazione del layout è un elemento fondamentale nell’allestimento di un impianto. La concezione del layout deve essere strettamente correlata con la programmazione del ciclo produttivo perché è questa che stabilisce dove, che quantità e quando le singole operazioni dovranno essere realizzate. La sistemazione delle immobilizzazioni all’interno dello stabilimento può seguire due differenti criteri principali: i macchinari possono essere posizionati in sequenza secondo le lavorazioni successive necessarie per giungere alla realizzazione di un dato prodotto finito (layout per prodotto) oppure essere uniti per tipo di operazioni/attività svolte (layout funzionale) in tal caso si avrà una divisione per tanti reparti quante saranno le differenti operazioni da svolgere. Se invece si va oltre la concezione di produzione di un bene di consumo e si pensa ai progetti (ad esempio navi, aerei) ingombranti e caratterizzati da grosse difficoltà di spostamento dei semilavorati nelle varie fasi della produzione, in tal caso si avrà il c.d. layout a postazioni fisse, nel senso che il prodotto resterà fermo in un cantiere e saranno tutte le risorse necessarie per la produzione a ruotargli intorno. Infine, un misto tra il layout per prodotto e il layout funzionale è il layout a celle o gruppi tecnologici. Si tratta del caso in cui i prodotti vengono uniti in gruppi caratterizzati da sequenze lavorative simili: i prodotti che necessitano di una stessa lavorazione verranno raggruppati in celle. In relazione alle modalità di svolgimento dei cicli produttivi bisogna dire che l’impresa a volte è libera di scegliere tra più alternative altre invece è costretta ad adottare una particolare forma di organizzazione. Si fa distinzione tra tre tipologie di cicli di lavorazione: continuo, intermittente e misto. Il ciclo continuo si caratterizza per il fatto che la lavorazione si svolge ininterrottamente dell’ingresso dei materiali fino all’ottenimento del prodotto finito. Il ciclo intermittente si ha suddividendo il processo produttivo in fasi ed assegnando ciascuna di queste ad un determinato reparto o centro operativo. In tal modo, per ogni fase vi sarà un accumulo di scorte in entrate ed in uscite e bisognerà risolvere dei problemi di coordinamento della produzione tra un reparto e l’altro. Il tipo misto si colloca tra i due precedenti; esso si adotta quando alcune fasi di lavorazione sono totalmente automatizzate e pertanto associabili ad un ciclo continuo, mentre altre richiedono l’assegnazione di un determinato reparto. Gli obiettivi di queste decisioni sono ovviamente diretta alla minimizzazione dei costi. Nell’organizzazione del sistema di produzione la riduzione dei costi si accompagna con la crescita della specializzazione e dell’automatizzazione dell’impianto; la riduzione dei rischi invece si collega all’aumento della flessibilità e della versatilità del sistema. La variabilità delle condizioni di mercato appare un fatto normale e la domanda varia in modo continuo ed in maniera difficilmente prevedibile nel tempo lungo. È evidente che strutture rigide di impianto possono portare gravi rischi per le imprese. In queste condizioni quindi deriva l’esigenza di assicurare flessibilità al sistema di produzione tuttavia senza rinunciare ai principi di economicità e di minimizzazione dei costi. In relazione alle caratteristiche dell’impianto bisogna distinguere: - il grado di flessibilità economica ossia la capacità dell’impianto di rimanere competitivo anche in condizioni di parziale utilizzazione; sotto questo aspetto un impianto è tanto più flessibile quanto minore è l’aumento dei costi di produzione al ridursi del grado di utilizzazione dell’impianto stesso; - il grado di flessibilità tecnica, ossia la capacità dell’impianto di adattarsi a produrre beni differenti senza incorrere in costi eccessivi sotto un profilo competitivo. Nel tempo c’è stata una evoluzione del sistema della fabbrica che oggi giorno è caratterizzata da grande tasso di automazione. L’automazione ha infatti raggiunto un punto ottimale mediante l’informatica e la robotica: l’informatica consente il governo dell’intero ciclo, la robotica ha permesso di sottrarre all’uomo i lavori più rischiosi e faticosi. Per quanto ancora concerne la flessibilità il governo informativo del processo ha reso possibile un aumento di flessibilità in quanto si possono avere variazioni di produzione in brevissimi tempi tramite la trasmissione dei dati. I vantaggi dell’automazione flessibile si trovano particolarmente nel fatto che ha consentito di ridurre gli spechi dovuti alla produzione di beni non richiesti dal mercato riducendo quindi le scorte e nella immediata risposta alle esigenze del mercato. Il problema del dimensionamento degli impianti presenta implicazioni soprattutto economiche in quanto si lega ai concetti di economicità e rischiosità dell’investimento. L’obiettivo, infatti è quello di individuare la dimensione ottimale ossia quella capace di minimizzare il osto unitario della produzione. Sotto il profilo dimensionale è opportuno fare la distinzione tra due tipologie di scelte: la determinazione della capacità produttiva massima dell’impresa e quella della potenzialità ottimale degli impianti. Per quanto riguarda la determinazione della capacità produttiva massima, essa deriva dalla considerazione di fattori di mercato cioè nella previsione delle vendite ottenibili sui mercati di sbocco in cui l’impresa opera. Si può quindi affermare che il dimensionamento della produzione deriva da un’esigenza di soddisfare in qualsiasi momento la domanda sul mercato. Pertanto l’utilizzazione degli impianti varia al variare della situazione sul mercato. Tuttavia ciò accade solo nella teoria dal momento che in pratica l’equilibrio tra produzione e vendita si realizza mediante la creazione di scorte di prodotti per rispondere alle variazioni del mercato. Nel caso in cui si segua tale politica il problema del dimensionamento della produzione di concretizza nel determinare una produzione atta a soddisfare una domanda media e quindi con una produzione di output sempre costante. In tal modo sarà possibile soddisfare le variazioni di mercato con le scorte accumulate. In altri termini nei periodi in cui la domanda sarà sotto il livello medio si accumuleranno scorte che saranno utilizzate per coprire la domanda nei periodi in cui essa arriverà oltre il livello medio (si parla di strategia di livellamento). Tuttavia potrebbe darsi che tale livellamento non sia raggiunto, in tal caso le conseguenze potrebbero essere due: si potrebbe avere una situazione di sottoscorta (e quindi incapacità di soddisfare tutta la domanda) o eccessivo immobilizzo di giacenze (qualora l’offerta superi la domanda). Per quanto poi concerne la dimensione dell’impianto, va detto che essa è strettamente collegata a quella della produzione. Esse sono esattamente uguali qualora l’impresa sia allestita in un unico stabilimento e produca un unico tipo di prodotti. Se invece l’impresa opera in più stabilimenti la dimensione di un singolo impianto sarà solo una parte di quella che è la dimensione globale di produzione. Un impianto di norma è un sistema complesso costituito da macchine, automatismi, ecc. Ciascuna macchina rappresenta quella che si definisce fattore quanto, ossia un bene il cui costo è funzione del tempo piuttosto che della sua effettiva utilizzazione. Una macchina è infatti capace di svolgere un numero massimo di operazione in un tempo e il costo è sempre lo stesso a prescindere dal numero di operazioni svolte. In ogni caso raramente l’impresa impegna la capacità produttiva massima installata. Ciò in particolar modo perché si preferisce sempre avere un margine di riserva di inutilizzato per far fronte ad eventuali variazioni improvvise. Per quanto riguarda di fattori quanti, si comprende quindi che dal momento che il costo è funzione del tempo, deriva che un aumento della produzione ridurrà i costi globali dal momento che essi dovranno essere ripartiti tra più unità. Si parla in tal caso di leva operativa, la cui scelta si inquadra all’interno di una strategia aziendale. Ancora, parlando di dimensionamento, va detto che è sempre necessario raggiungere un volume minimo di attività per recuperare integralmente i costi sostenuti. Tale volume è caratterizzato dal fatto che i costi uguagliano i ricavi ed è quello che costituisce il punto di pareggio o break even point (punto dove la retta dei costi incontra la retta dei ricavi) perché in quella condizione per l’impresa è indifferente produrre o rimanere inattiva. Al concetto del BEP si collega quello del margine di sicurezza rappresentato dalla differenza tra il previsto volume di utilizzo dell’impianto e quello cui corrisponde il punto di pareggio. Infatti se ad esempio l’impresa considera il BEP al 50% dell’utilizzazione dell’impianto e si prevede la produzione di una quantità pari al 70% della capacità produttiva massima, vi sarà un margine di sicurezza del 20%. Ciò significa che anche con una contrazione del volume della produzione sino ad un massimo del 20%, l’impresa non incorrerà nelle perdite. Per quanto riguarda poi la programmazione dei volumi di prodotti da porre in essere, occorre distinguere l’ottica del lungo termine e del breve termine. La programmazione di lungo termine si riferisce alla programmazione dell’impianto, quella di breve termine invece si riferisce alla programmazione della produzione durante l’esercizio. La programmazione di breve detta anche operativa riguarda quindi i volumi di prodotti da realizzare nell’esercizio annuale o in tempi ancora minori. Definire un programma di produzione significa ricercare la soluzione più economica di impegno delle risorse per raggiungere il livello e la composizione del mix produttivo fissato nel programma annuale di gestione. Quando si formula un piano di produzione si ipotizza di sfruttare appieno le ore lavorative, mentre le ore effettivamente lavorate saranno influenzate da fenomeni non prevedibili. Un’efficace programmazione della produzione deve articolarsi: - nel medio-lungo termine per definire la capacità produttiva necessaria in funzione degli obiettivi strategici; - nel breve termine per allocare le risorse disponibili in modo da raggiungere i traguardi di produzione posti dal programma annuale di vendita; - nel brevissimo termine per organizzare il lavoro dei centri di produzione. Per quanto riguarda questo aspetto, la programmazione comporta un processo che si sviluppo in quattro fasi: o preparazione del lavoro con la quale si stabilisce quale articoli mettere in produzione, con l’impiego di quali risorse e con quali modalità esecutive; o costruzione del programma di lavorazione, con il quale si distribuisce il lavoro tra i centri produttivi, si determina il carico macchine, l’allestimento,ecc..; o avvio della lavorazione; o controllo dell’esecuzione con il quale in base ai programmi di lavoro fissati si sorveglia l’avanzamento della produzione e si adottano interventi necessari un funzione degli scostamenti via via rilevati. Per quanto riguarda il controllo, occorre porre in evidenza la crescente importanza che esso ha acquistato nell’ottica dell’efficienza da un lato e della cunstomer staisfaction dall’altro. Il controllo della produzione riguarda sia il ciclo di svolgimento delle operazioni produttive sia i prodotti finiti da destinare al mercato. Il suo obiettivo è quello di trovare anomalie nel ciclo e nei prodotti allo scopo di evitare di sopportare costi vuoto e di garantire al qualità al consumatore. Un prodotto difettoso costa molto in termini sia economici che di immagine perché fa da un lato fa perdere tutti i costi sostenuti per realizzarlo e dall’altro indebolisce la fedeltà dei clienti verso l’impresa. In particolare, nell’area della produzione il controllo si articola in: - controllo dei risultati di produzione, calcolando ed analizzando determinati indici di produttività; - controllo della qualità dei prodotti, operato su campioni ed utilizzando tecniche di tipo statistiche; - controllo economico o di valore: consiste nell’individuare alternative e nell’effettuare una comparazione di convenienza. Al centro dell’economicità dei processi aziendali va assumendo sempre maggiore rilevanza il concetto di efficienza organizzativa. I fattori di efficienza si individuano nello sfruttamento ottimale dell’impianto, nella razionalizzazione dei consumi di materie prime mediante la riduzione di perdite, nella produttività del lavoro mediante la corretta organizzazione del personale, nell’idoneità dei servizi di supporto per la produzione stessa. All’interno di tali elementi si combinano fattori statici o strutturali di efficienza e fattori dinamici o operativi, con la conseguenza che l’ottimizzazione del processo deriva sempre dalla combinazione di una struttura tecnologica avanzata e di un’organizzazione ben coordinata. Si è detto che il controllo di efficienza della produzione può essere attuato sotto il duplice aspetto qualitativo e quantitativo. Un indice fondamentale per valutare il grado di sfruttamento delle risorse disponibili è dato dal rapporto tra le ore produttive impiegate e quelle teoricamente impiegabili. Altro obiettivo dell’organizzazione della produzione è dato dalla riduzione degli scarti dovuti ai difetti dei materiali, dei semilavorati e dei prodotti finiti. Nel caso di materie prime e di semilavorati il danno consiste nello spreco di materiali e di ore di lavoro con conseguente riduzione dell’output produttivo; nell’ipotesi di difetti ai prodotti finiti, se la difettosità si rileva prima che esso lasci l’impresa (in house) essa si associa ad un processo di rilavorazione per eliminare il difetto; se invece la difettosità viene rilevata dal cliente, oltre ai danni economici per i costi, vi saranno danni all’immagine molto più gravi. Da ciò deriva l’assoluta importanza del controllo di qualità che si pone come uno strumento essenziale dell’efficienza aziendale. Tuttavia va aggiunto che il concetto di qualità va inteso in senso ampio, esso deve riguardare la garanzia del servizio ottimale al cliente non solo per quanto concerne la validità del prodotto, m anche per le modalità e per i tempi di consegna. L’impresa deve quindi impiegare considerevoli sforzi e mezzi finanziari per curare la formazione del personale e per ricedere alla corretta progettazione di sistemi efficaci. A tale scopo assumono sempre maggiore rilevanza le certificazioni di qualità rilasciate da istituzioni riconosciute e qualificate. Analisi degli investimenti. [Fonte. M. Gorgoglione Analisi degli investimenti, Politecnico di Bari]. Sebbene il concetto di investimento risulti piuttosto familiare a chiunque, essendo trasversale a molte attività non solo quelle di interesse della gestione aziendale, è utile fornire alcune definizioni formali. Lo scopo è sia quello di delimitare i confini della trattazione, chiarendone inizialmente le connessioni con altre discipline manageriali, sia quello di condurre ad una prima riflessione sui molteplici aspetti che caratterizzano un investimento e gli approcci possibili all’analisi. Def. contabile di investimento: «Immobilizzo di parte del patrimonio aziendale in beni di capitale fisso» oppure «impiego di una somma di denaro per ricavarne un reddito» Gli investimenti che in questa trattazione saranno più frequentemente considerati sono quelli relativi all’immobilizzo di parte del patrimonio aziendale in beni cosiddetti di capitale fisso. Essi sono quindi da intendersi come incrementi dei beni capitali a fronte di una spesa e vanno quindi intesi come destinazioni permanenti di risorse per lunghi periodi di tempo, i cui benefici si prevede ritorneranno all’azienda in intervalli temporali altrettanto lunghi. Sono di questo tipo gli investimenti in macchinari e impianti produttivi, in impianti ausiliari alla produzione (per es. impianti di movimentazione e immagazzinamento di materiali, prodotti, impianti termici, ecc.), in fabbricati industriali, ecc. Gli investimenti di tipo finanziario, a causa della specificità dei processi aziendali che coinvolgono, occupano un posto a parte nelle discipline gestionali, e meriterebbero dunque una trattazione a parte. Tuttavia essi presentano notevoli analogie con gli investimenti operativi dal punto di vista dei modelli matematici utilizzati, e sebbene non verranno considerati oggetto tipico dell’analisi nella presente trattazione, potranno essere utilizzati come esempi. � Def. operativa di investimento: «trasformazione di mezzi finanziari in beni atti a costituire la struttura produttiva dell’azienda» Motivazioni. Di seguito sono indicate alcune fra le più tipiche motivazioni che spingono le imprese ad investire: • aumento della capacità produttiva (investimenti di espansione o di ampliamento); • sostituzione di impianti o attrezzature al termine della durata fisica (investimenti di sostituzione); • sostituzione di impianti con altri tecnologicamente più avanzati (investimenti di razionalizzazione o di produttività o di ammodernamento); • produzione di nuovi prodotti o modifica di quelli esistenti (investimenti di innovazione); • miglioramento dell’ambiente di lavoro (investimenti ergonomici). Le differenze fra gli investimenti elencati non vanno ricercate solo nella diversità degli oggetti dell’analisi, ma soprattutto nelle modalità dell’analisi stessa e nella affidabilità del modello matematico di supporto alla decisione. In particolare, la stima dei flussi economici e finanziari coinvolti nell’investimento può presentare caratteristiche molto diverse a seconda del tipo di investimento. Ad esempio, nel caso un investimento di sostituzione o di ampliamento, l’azienda è di solito in grado di valutare accuratamente i cambiamenti indotti nel sistema produttivo da modifiche negli impianti esistenti in termini di produttività, tempi di attraversamento, costi, ecc. Lo stesso non accade, ad esempio, per un investimento ergonomico o in innovazione: può essere molto difficile valutare in termini monetari i benefici derivanti da un ambiente di lavoro più confortevole o le ripercussioni dell’adozione di una tecnologia innovativa sulle performance aziendali. Problemi decisionali Il processo di analisi viene condotto, nella maggioranza dei casi, considerando un insieme di progetti di investimento. Le decisioni che ne scaturiscono sono in genere di due tipi: • selezione: scelta fra investimenti alternativi • preferenza: determinazione di una sequenza prioritaria tra investimenti. L’obiettivo del processo di analisi è dunque quello di valutare in termini matematici degli indicatori che rappresentino la convenienza economica o la redditività di ciascun progetto di investimento allo scopo di fornirne un ordinamento. Cenni alla metrica dei flussi di cassa Se si fanno due ipotesi semplificative: 1) contestualità fra fase di acquisizione dei mezzi e fase di gestione (ricavi e costi) 2) certezza nella valutazione di ricavi e costi la valutazione si riduce alla differenza fra flussi di denaro entranti e uscenti e nel confronto fra gli scarti. In realtà le due ipotesi non valgono. In particolare sorgono due problemi: 3) valutare l’effetto del costo del denaro 4) considerare l’effetto dell’incertezza Il modello matematico che più tipicamente viene utilizzato nell’analisi degli investimenti fa riferimento alla metrica dei flussi di cassa. Un investimento può essere descritto attraverso le uscite e le entrate di denaro che avvengono in periodi di tempo ripetuti, rispetto ad una ipotetica cassa. Tipicamente nella prima fase prevalgono le uscite, che comprendono l’esborso iniziale e costi aggiuntivi di attivazione. Nelle fasi successive le entrate sono costituite dai ricavi connessi con la gestione dell’investimento, le uscite con i costi d’esercizio. Flussi in uscita ed in ingresso possono essere dunque di tipo economico come pure di tipo finanziario. Poiché ogni investimento si protrae nel tempo, le uscite sono dovute anche al costo del capitale impiegato. Def. flusso di cassa: «flusso monetario generato dall’investimento in entrata o in uscita rispetto ad una ipotetica cassa» � Def. flusso di cassa netto: «somma algebrica delle entrate e delle uscite che si manifestano in un generico istante di tempo» � Def. flusso di cassa netto complessivo: «insieme dei flussi di cassa netti generati da un investimento nell’intero periodo di vita» Il flusso di cassa netto complessivo di un investimento valutato nell’intero periodo di vita può essere descritto attraverso un diagramma crono–finanziario: CF0CF1CF2CF3CFn...1023nt... Nel seguito viene omesso l’aggettivo netto, poiché si intenderà parlare sempre di flussi di cassa netti se non indicato diversamente, e dunque esso è da considerarsi sottinteso. Inoltre, il segno algebrico testimonia del carattere entrante o uscente del flusso. Nell’uso pratico, infine, viene spesso omesso anche l’aggettivo complessivo perché il contesto ne rende inequivocabile il significato: un “flusso di cassa che si manifesta all’istante t” è evidentemente un flusso di cassa netto, mentre un “flusso di cassa che rappresenta un investimento” è evidentemente un flusso di cassa netto complessivo. Def. matematica di investimento: «ogni evento economico che possa essere descritto attraverso un flusso di cassa» oppure «operazione di trasferimento di risorse nel tempo, caratterizzata dal prevalere di uscite monetarie nette in una prima fase e di entrate monetarie nette in una fase successiva, con l’aspettativa che le entrate remunerino adeguatamente le uscite» In base ad alcuni criteri di classificazione si può individuare la seguente tipologia di investimenti. Riconoscere diverse classi di investimenti è importante soprattutto perché alcune caratteristiche possono influenzare in modo rilevante le modalità con cui il modello matematico dell’investimento viene formalizzato. Criterio di obbligatorietà • investimento obbligatorio L’impresa può valutare la convenienza di alternative di investimento, ma non può fare a meno di effettuare l’investimento. Ad esempio, costruzione di un impianto di smaltimento di rifiuti speciali o affidamento della gestione dei rifiuti ad una impresa esterna per rispettare un vincolo legislativo. • investimento opzionale L’impresa può decidere di non investire, dunque fra le alternative di investimento prese in considerazione è presente anche l’alternativa “non investire”. Ad esempio, l’acquisto di attrezzature specifiche nel caso in cui l’impresa stia decidendo se stipulare o meno un contratto di fornitura. Criterio di marginalità • investimento marginale Si tratta di un investimento che non modifica in modo sostanziale la posizione di rischio dell’impresa o la sua posizione rispetto ai concorrenti nello stesso mercato. Si pensi, ad esempio, ad un investimento di sostituzione. In questo caso i modelli matematici e le tecniche formali di analisi sono estremamente utili e frequentemente utilizzate. • investimento strategico L’investimento fa parte di un piano a lungo termine che intende modificare la posizione dell’impresa rispetto ai propri concorrenti (ad esempio la quota di mercato detenuta). Ad esempio, un investimento in tecnologie avanzate o in attività di ricerca può rientrare in questa categoria. L’uso dei modelli matematici per l’analisi è limitata a causa della difficoltà di prevedere l’evoluzione dell’intero settore e di tradurre le previsioni in termini quantitativi. Criterio di indipendenza • progetti di investimento indipendenti Due investimenti sono indipendenti se l’effettuazione di uno non influenza quella dell’altro. In questo caso essi rappresentano alternative di investimento. Ad esempio, l’acquisto di attrezzature che presentano caratteristiche di costo e di performance diverse o la valutazione di programmi di investimento finanziari alternativi. • progetti di investimento dipendenti e condizionati Due investimenti sono dipendenti quando, in generale, effettuarne uno condiziona la valutazione dell’altro e dunque non possono essere considerati separatamente. In particolare due investimenti si dicono condizionati quando uno non può essere effettuato senza che prima sia effettuato l’altro. Ad esempio, investimenti condizionati possono essere quelli in hardware e software, oppure l’acquisto di tecnologia e la successiva formazione professionale. Criterio del flusso di cassa Gli investimenti possono essere distinti per l’andamento del loro flusso di cassa complessivo. • Point Input - Point Output (es. acquisto e rivendita di terreni o di BoT) • Point Input - Continuous Output (es. acquisto di obbligazioni, di impianti produttivi) • Continuous Input - Point Output (es. costruzione e vendita di fabbricati, assicurazione sulla vita) • Continuous Input - Continuous Output (es. gestione di impianti produttivi) P.I.P.OP.I.C.OC.I.P.OC.I.C.O Una transazione finanziaria è caratterizzata dalla presenza di soli flussi finanziari (si veda lo schema in figura). Essa può essere interpretata in modo analogo ad una transazione economica in cui il bene scambiato (venduto) è il denaro (capitale). A differenza di una transazione economica, che può prevedere anche uno scambio simultaneo, in una transazione finanziaria i due flussi non sono mai simultanei, dunque sono sempre presenti una posizione di credito ed una di debito. Il bene “venduto”, ovvero il capitale prestato dal creditore, può essere utilizzato dal debitore per un periodo di tempo negoziato all’atto della transazione. Alla fine del periodo, il debitore avrà restituito l’intero capitale ricevuto in prestito più una quantità di denaro aggiuntiva, definito “interesse”, che ne rappresenta il costo. Dunque ciò che determina il costo del denaro è la variabile “tempo”. impresafornitoreflusso finanziario:costo dei beni/serviziflusso economico:beni/serviziimpresabancheflusso finanziario:capitaleflusso finanziario:restituzione del capitaleflusso finanziario:costo del capitaleschema ditransazioneeconomicaschema ditransazionefinanziaria Detto C il capitale prestato dal debitore, I l’interesse pagato complessivamente alla fine del periodo previsto dalla transazione ed M il capitale complessivamente restituito (montante), è facile scrivere l’equazione fondamentale della matematica finanziaria: M=C+I Un dato regime di capitalizzazione corrisponde alla modalità con cui l’interesse viene calcolato. Esso dipende sostanzialmente dall’accordo esistente fra le parti. In generale, l’interesse viene calcolato come percentuale sul capitale misurato in un certo istante di tempo, introducendo il concetto di “tasso di interesse” che non è altro che l’interesse per unità di tempo. Dunque l’interesse guadagnato da un capitale C in una unità di tempo (periodo di capitalizzazione) vale: I=C×i Normalmente l’interesse viene calcolato alla fine di periodi di capitalizzazione prefissati all’atto della transazione, dunque si divide la durata dell’investimento in n periodi, per t = 0, ..., n. I quattro principali regimi di capitalizzazione sono: 1) capitalizzazione semplice 2) capitalizzazione composta 3) capitalizzazione frazionata 4) capitalizzazione continua. Si analizzano nel seguito i regimi di capitalizzazione semplice e composta. Capitalizzazione semplice � «Il calcolo degli interessi avviene sempre rispetto allo stesso capitale iniziale» Fissato il tasso di interesse i e un capitale iniziale C, l’interesse viene calcolato come I = C ⋅i, in ogni unità di tempo (o periodo), qualunque sia la durata del contratto. Il montante alla fine del periodo che va da t = 0 a t = 1 vale: M1 = C + I Sostituendo il valore di I, si ottiene: M1 = C ⋅(1+i) Nel secondo periodo l’interesse si calcola sempre come I = C ⋅i, dunque: M2 = M1 + I = C ⋅(1+i) + C ⋅i = C ⋅(1+2i) In generale dopo n periodi: Mn = C × (1 + n ⋅i) Capitalizzazione composta � «il capitale sul quale vengono calcolati gli interessi maturati nell’intervallo di tempo [t , t+1] è pari al montante all’istante t» È il regime che normalmente viene utilizzato nelle transazioni fra imprese e istituti di credito e finanziari, sebbene la tipologia di contratti sia molto vasta. Il montante alla fine del periodo che va da t = 0 a t = 1 vale: M1 = C + I Sostituendo il valore di I, si ottiene: M1 = C ⋅(1+i) Nel secondo periodo l’interesse non si calcola più, come in regime semplice, sul capitale iniziale C, ma sul montante alla fine del periodo attuale M1, dunque: M2 = M1 ⋅(1+i) = C ⋅(1+i) ⋅ (1+i) = C ⋅(1+i)2 In generale dopo n periodi: Mn = C ⋅(1+i)n È possibile calcolare i “fattori di capitalizzazione” ed i “fattori di attualizzazione” nel caso di flussi di cassa tipici ed esemplificativi: il primo è il fattore matematico che moltiplicato per un capitale iniziale P (capitale presente) fornisce il montante F (capitale futuro) dopo un certo numero di periodi; il secondo quello che consente l’operazione inversa. Il primo flusso di cassa è quello corrispondente ad un capitale P versato all’inizio del periodo 1 (cioè alla fine del periodo 0) ed un montante corrispondente dopo n periodi. Il secondo è il flusso di cassa relativo ad un particolare tipo di rendita. Singolo pagamento PF1023nt... � Fattore di capitalizzazione composta per un singolo pagamento: (1+i)n Infatti vale: F = P×(1+i)n � Fattore di attualizzazione in un singolo pagamento: (1+i) - n Infatti vale: P = F×[1/(1+i)n] Rendite e ammortamento � Def. rendita: «qualsiasi successione di pagamenti a scadenze diverse (in credito o debito)» Le rendite sono classificabili attraverso i seguenti criteri: • rispetto alla rata: costante, variabile in progressione aritmetica o geometrica, indicizzata; • rispetto alla periodicità: periodica, variabile; • rispetto alla durata: limitata, perpetua; • rispetto al momento del pagamento: anticipata (all’inizio di ogni periodo), posticipata (alla fine di ogni periodo). Nel seguito verranno considerate solo rendite limitate, posticipate, di rata e periodo costante. � Def. ammortamento di un debito: «versamento di più somme in istanti successivi al fine di estinguere un debito» FA1023nt...AAA � Fattore di capitalizzazione composta per una serie di pagamenti uguali “A”: i1-i)(1n+ È possibile calcolare il montante F applicando ad ogni rata A il fattore di capitalizzazione per un singolo pagamento. Risulta: F = A ⋅(1+i)n-1 + A ⋅(1+i)n-2 + ... + A ⋅(1+i) + A ⋅(1) moltiplicando l’espressione per (1+i) e sottraendo le due equazioni si ottiene: F ⋅(1+i) – F = A×(1+i)n – A da cui F = A×[(1+i)n – 1]/i � Fattore delle rate d’ammortamento per una serie di pagamenti uguali: 1 - i)(1in+ Permette di calcolare i pagamenti di fine periodo A necessari per formare una somma futura F. Dalla equazione precedente si ottiene: A = F× i / [(1+i)n - 1] Esempio Si consideri nuovamente l’esempio precedente e si supponga che la somma di 75.38 milioni di lire sia ritenuta uno troppo elevata. L’investitore può decidere di mettere da parte una somma di denaro ogni anno per costituire lo stesso capitale di 150 milioni fra dieci anni. Se il tasso è sempre del 8%, la rata da pagare vale: A = F ⋅i/[(1+i)n - 1] = 150 ⋅ 0.08 / [(1.08)10 - 1] = 10.35 milioni di lire. PA1023nt...AAA � Fattore di recupero del capitale per una serie di pagamenti uguali: 1i)(1inn−++⋅ Si ricava sostituendo nell’equazione precedente F = P⋅(1+i)n: A = P×(1+i)n ×i/[(1+i)n - 1] Esso consente di calcolare le rate uguale che si possono ottenere alla fine di ogni periodo investendo un capitale P. � Fattore di attualizzazione per una serie di pagamenti uguali: nni)(1i1-i)(1+⋅+ Infatti, ricavando P dall’equazione precedente: P = A× [(1+i)n - 1] / i×(1+i)n Per effettuare una qualsiasi valutazione economica riguardo ad una transazione finanziaria o più in generale ad una operazione di investimento è necessario operare sul cash flow rappresentativo dell’investimento: in generale è necessario calcolare uno o più indici sintetici che rappresentino la convenienza o la redditività dell’investimento. Il confronto fra investimenti si basa sul confronto fra questi indici. Tuttavia, per un principio generale dell’economia non si possono confrontare fra loro flussi finanziari che si manifestano in istanti di tempo diversi, se non si riportano ad una base temporale omogenea. Ciò è dovuto al fatto che il tempo modifica il valore del denaro. Per questo è necessario introdurre il concetto di equivalenza ed alcuni principi. Il principio della preferenza per il presente A chiunque venga rivolta la seguente domanda “è preferibile guadagnare 100 subito, oppure 100 fra un anno?”, la risposta sarà sempre “100 subito”, almeno nel nostro sistema economico. Sebbene, intuitivamente, una giustificazione ragionevole di tale risposta possa essere ritrovata nei comportamenti di consumo e nell’inflazione, nella prospettiva della matematica finanziaria la principale ragione per la preferenza per il presente non ha nulla a che fare con questi fattori. La risposta sarebbe valida anche in un sistema senza inflazione ed anche facendo a meno del consumo. La ragione risiede nella ipotesi di base della matematica finanziaria, e cioè il fatto che esista sempre una opportunità di investire il denaro ad un tasso di interesse non nullo: in questa ipotesi, possedere una quantità di moneta subito equivale a possederne di più in un istante futuro. � Def. principio della preferenza per il presente: «in un sistema economico che non ha raggiunto né la sazietà dei bisogni né l’esaurimento delle possibilità tecnologiche, una unità monetaria disponibile subito è generalmente preferita alla stessa unità monetaria disponibile ad una data futura» Il principio appena esposto, sulla cui generalità e validità non è necessario aggiungere altri commenti, ma che verrà ampiamente utilizzato nel seguito della trattazione, indica chiaramente che due flussi di cassa netti possono essere confrontati solo se si manifestano nello stesso istante di tempo. Ciò è dovuto al fatto che proprio il tempo (e la presenza di un tasso d’interesse non nullo) hanno effetto sul valore del denaro. Possono essere enunciati alcuni principi, derivati dal precedente. � «due flussi di cassa o due investimenti sono equivalenti quando producono lo stesso effetto» � «due flussi di cassa che si manifestano in periodi diversi sono equivalenti solo se il tasso d’interesse è nullo» � «due flussi di cassa sono equivalenti se hanno lo stesso valore quando riportati ad una base temporale omogenea» � «Se due flussi di cassa sono equivalenti in un certo istante di tempo, lo sono in qualunque altro istante» Dai principi esposti deriva che, se il tasso d’interesse è non nullo, dato un flusso di cassa netto CF1 in un istante generico t1 è possibile calcolare il flusso di cassa netto equivalente in un altro istante t2. Se l’istante t2 segue l’istante t1 allora è necessario capitalizzare il flusso CF1, cioè moltiplicare il flusso CF1 per il fattore di capitalizzazione per pagamenti singoli (1+i) n, dove n è il numero di periodi fra i due istanti di tempo (Fig. 2.6). Ciò corrisponde a calcolare il valore futuro del flusso di cassa, ovverosia quanto varrà il denaro rappresentato da CF1 fra n periodi (nell’istante futuro t2), nell’ipotesi che il tasso di interesse al quale il flusso di cassa può essere investito sia i. Da un punto di vista meramente matematico, la capitalizzazione corrisponde a spostare verso il futuro un flusso di cassa: poiché l’ipotesi di base della matematica finanziaria è che il soggetto di qualunque operazione sia un investitore, il valore del denaro cresce con il tempo. Il valore del denaro resterebbe immutato nel tempo solo se esso non venisse investito in alcun modo, ma ciò non è coerente con le ipotesi di base. Naturalmente, se un sistema economico è in fase di recessione, il valore del denaro può diminuire (è il caso in cui il tasso di interesse è negativo): ma questa eventualità non diminuisce in alcun modo la generalità del principio di equivalenza. 1 0 2 t 1 0 2 t CF1 CF2 eq. capitalizzazionen = 1: CF2 eq. = CF1⋅(1+i) 1 (1+i)n Capitalizzazione per il calcolo di un flusso di cassa equivalente L’operazione inversa può essere effettuata invece moltiplicando il flusso CF2 per il fattore di attualizzazione per pagamenti singoli (1+i)– n. Mentre il significato matematico di questa operazione è piuttosto evidente, è utile commentarne il significato economico. Attualizzare una somma di denaro significa calcolarne il valore in un istante precedente (spostare il flusso di cassa verso il passato). Tipicamente, attualizzare significa calcolare il valore del denaro nell’istante attuale (per convenzione t = 0), cioè calcolare quale sarebbe il valore se il flusso si manifestasse oggi. Tale valore è sempre più basso, nell’ipotesi di tassi di interesse positivi, proprio perché l’investitore ha sempre la possibilità di far crescere nel tempo il valore del denaro. Se si adotta un tasso d’interesse del 10%, possedere una somma di 250 € fra 5 anni è equivalente a possedere una somma di 155,23 € oggi. Infatti risulta: CF0eq. = CF5⋅1,1-5 = 250⋅1,1-5 = 155,23. L’equivalenza per valutare la convenienza di un investimento I principi sopra esposti danno la possibilità di risolvere qualunque problema di analisi di investimenti, in particolare la valutazione della convenienza di un investimento, la misura della redditività, il confronto fra alternative di investimento. Mentre nel prossimo capitolo verranno costruiti ed esposti tutti gli strumenti utili per tale analisi, in questa fase si vogliono anticipare i principi di base della analisi degli investimenti. Il primo caso riguarda il confronto fra flussi di cassa, il secondo quello della convenienza degli investimenti. Confronto fra flussi di cassa Si consideri il caso in cui un soggetto debba confrontare due flussi di cassa, ad esempio due incassi, che si manifestano in istanti di tempo futuri diversi. È il caso, ad esempio, di un ingegnere che si appresti a vendere un progetto, e si trovi di fronte a due alternative di pagamento: la prima, una somma pari a QA pagata subito, la seconda QB pagata dopo un anno, con QA > QB. Sebbene la seconda alternativa proponga una somma maggiore, i principi di equivalenza rendono evidente che tale confronto è fuorviante, perché non tiene conto dell’effetto del tempo. L’unico modo per effettuare il confronto è riportare i flussi ad una base temporale omogenea, passata o futura, confrontando, cioè, i flussi di cassa equivalenti. Ad esempio, si può calcolare l’equivalente capitalizzato della prima somma e confrontarla con la seconda. Ciò equivale a domandarsi quanto varrà nel futuro (dopo un anno) la somma QA. Per quanto detto precedentemente, tale somma è destinata ad aumentare (se il sistema economico non è in recessione), ed è dunque possibile che la prima alternativa eguagli o superi la seconda. Naturalmente, il modo con cui il valore del denaro aumenta nel tempo dipende dal tasso di interesse a cui la somma può essere investita. Se, al contrario, si vuole utilizzare il principio dell’attualizzazione, bisogna calcolare l’equivalente attuale della seconda somma di denaro e confrontarla con la prima. Ciò equivale a chiedersi “a quanto ammonterebbe la somma futura QB se fosse pagata subito”. Naturalmente, il flusso equivalente attuale risulterà più basso (se l’economia non è in recessione), perché investendo tale somma si potrà raggiungere un montante pari a QB. Esempio Un ingegnere si appresta a vendere un progetto, e si trova di fronte a due alternative di pagamento: la prima di 100.000 € pagati subito, la seconda di 110.000 € pagati dopo un anno. Si supponga che l’ingegnere possa investire il denaro al 12%. Seguendo il criterio della capitalizzazione, la somma pagata nella prima alternativa diventerà dopo un anno 100.000⋅1,121, cioè 112.000 €. La prima alternativa è più conveniente. Utilizzando il criterio della attualizzazione, il flusso di cassa pagato nella seconda alternativa equivale ad una somma attualizzata pari a 110.000⋅1,12-1, cioè 98.214 €. Poiché possedere oggi 100.000 € è preferibile a possederne poco più di 98.000, la prima alternativa rimane la migliore. Il procedimento più utilizzato nella pratica per confrontare economicamente flussi finanziari è quello della attualizzazione che consiste nel riportare tutti i flussi di cassa che si manifestano in istanti di tempo diversi ad una base temporale omogenea corrispondente all’istante attuale, e nel confrontare poi i flussi di cassa equivalenti così ottenuti. Il procedimento è giustificato dal fatto che cash flow equivalenti sono tali in ogni istante di tempo. Due flussi di cassa CF1 e CF2 che si manifestano in istanti diversi t1 e t2 possono essere confrontati riportandoli all’istante t0 e confrontando fra loro i due flussi di cassa equivalenti ottenuti. Alcuni autori definiscono “flussi di cassa scontati”, i flussi equivalenti attuali (Fig. 2.7): DCF1 = CF1⋅(1+i) -1 e DCF2 = CF2⋅(1+i) -2 (DCF, discounted cash flow). 102t102tCF1CF2DCF1DCF2 Attualizzazione di flussi di cassa: flussi di cassa scontati Convenienza di un investimento: il valore attuale netto Il procedimento esposto da potenzialmente la possibilità di confrontare investimenti alternativi comunque complessi. Tuttavia, si deve prima considerare il caso in cui un investimento preveda più di un flusso di cassa. In generale, un investimento prevede esborsi e incassi, e può essere modellizzato attraverso un diagramma crono-finanziario, come discusso precedentemente. In questo caso, è possibile valutarne la convenienza confrontando gli incassi con gli esborsi, sapendo, evidentemente, che solo se i primi superano i secondi, l’investimento è conveniente. Anche in questo caso, la soluzione consiste nel confrontare gli equivalenti degli incassi con gli equivalenti degli esborsi, capitalizzati in un istante futuro o attualizzati. Si supponga, ad esempio, che l’ingegnere del caso precedente decida, prima di vendere la propria invenzione, di registrare un brevetto. Ciò richiede di sostenere una spesa nell’istante attuale, e di posticipare la vendita, ma potrebbe consentire di fissare un prezzo più alto. Per capire se l’operazione è conveniente, non basta verificare che l’incasso sia maggiore dell’esborso, ma si devono confrontare gli equivalenti. In primo luogo, è possibile attualizzare l’incasso per confrontarlo con la spesa iniziale. Si supponga che la registrazione del brevetto costi 50.000 € e che la vendita, dopo un anno, faccia incassare 150.000 €. Attualizzare l’incasso di 150.000 significa calcolare il suo valore nell’istante presente, considerando che il denaro può essere investito al 12%. Ricavare 150.000 fra un anno equivale a ricavare 150.000⋅1,12-1, cioè 133.928 €: poiché questa somma supera l’esborso di 50.000, si può concludere che l’operazione è conveniente. Evidentemente, se il costo della registrazione fosse superiore a 133.928 €, l’operazione non sarebbe più conveniente. Analogamente, si può utilizzare il metodo della capitalizzazione. In questo caso, capitalizzare l’esborso significa calcolarne il suo valore fra un anno, cioè a quanto ammonterà l’esborso fra un anno. L’equivalente capitalizzato risulterà maggiore (in valore assoluto): il motivo è che privarsi di una somma di denaro nell’istante attuale implica il privarsi della opportunità di guadagnare altro denaro. Infatti, poiché che il soggetto della matematica finanziaria è sempre in grado di far crescere il valore del proprio denaro, ogni esborso rappresenta una perdita che cresce nel tempo, a seconda del tasso di interesse corrispondente alle opportunità di cui il soggetto si priva. Nel caso del brevetto, la spesa di 50.000 € priverà l’ingegnere di guadagnare il 12% su quel capitale: infatti, se non spendesse quel denaro, esso sarebbe, per ipotesi, comunque impiegato in qualche modo nel sistema economico, che gli garantisce un tasso del 12%. L’esborso capitalizzato vale 50.000⋅1,121, cioè 56.000 €. Perdere questa somma fra un anno, è più che compensato dall’incasso di 150.000 €. Il procedimento seguito fornisce una misura della convenienza di un investimento, definito come “valore attuale netto” (o Net Present Value, NPV, nella terminologia angloamericana): � Def. valore attuale netto: «la somma algebrica fra gli equivalenti attualizzati degli incassi e gli equivalenti attualizzati delle uscite rappresenta una misura della convenienza di un investimento» Se l’NPV è maggiore di zero, ciò significa che gli incassi superano gli esborsi e che l’investimento è conveniente. Al contrario, se è minore di zero, l’investimento non conviene. � Def. tasso interno di rendimento: «il tasso d’interesse guadagnato da un investimento è quello che eguaglia le entrate equivalenti alle uscite equivalenti» Il tasso interno di rendimento (o di redditività), spesso indicato con l’acronimo TIR, rappresenta una ulteriore misura della redditività di un investimento. Il rapporto fra TIR e NPV sarà chiarito più avanti. Il ruolo del soggetto dell’analisi: saggio minimo conveniente Come ormai dovrebbe risultare piuttosto evidente, la redditività di un investimento varia a seconda del tasso di interesse che si utilizza per l’analisi. Per convincersi di ciò basta sostituire valori diversi del tasso di interesse nelle formule che calcolano il valore attuale netto. Ad esempio, la seconda alternativa di investimento nel caso analizzato precedentemente risulta conveniente ad un tasso del 5% (il valore attuale netto è positivo, pari a 201,16), mentre risulta non conveniente ad un tasso del 10% (il valore attuale netto è negativo, pari a 774,47). Lo stesso destino è riservato alla prima alternativa, ma più in generale a qualunque investimento: la diminuzione della redditività all’aumentare del tasso di interesse al quale essa viene calcolata è una caratteristica strutturale di ogni investimento. La spiegazione di questo fenomeno sta nel significato del tasso di interesse al quale effettuare l’analisi. Esso rappresenta, infatti, il tasso di interesse al quale i flussi di cassa generati possono essere reinvestiti, ed al quale si deve capitalizzare l’esborso per quantificare la perdita delle opportunità di investimento dovute all’aver speso denaro. È dunque il tasso a cui tipicamente il denaro può essere investito, ovvero il rendimento tipico degli investimenti che il soggetto dell’analisi ha sempre la possibilità di effettuare. � Def. saggio minimo conveniente (MARR, Minimum Attractive Rate of Return): «rappresenta il tasso d’interesse che il soggetto dell’analisi dell’investimento guadagna attraverso l’impiego tipico del denaro, ovverosia il tasso che egli guadagnerebbe comunque anche se non effettuasse l’investimento da analizzare» Il saggio minimo conveniente non deve essere in alcun modo confuso con il tasso interno di rendimento: mentre quest’ultimo rappresenta una caratteristica dell’investimento che viene analizzato, e cioè la sua redditività, il primo rappresenta una caratteristica dell’investitore, e cioè le sue tipiche opportunità di investimento. È evidente, dunque, che uno stesso investimento, analizzato da due soggetti diversi, varia la propria redditività. Un investitore esperto, che ha a disposizione capitali ingenti, si muove sui mercati economici e finanziari con maggiori aspettative rispetto ad un investitore con minore competenza e capitale. Dunque il primo ha maggiori opportunità di aumentare il proprio capitale, si attende cioè dalle proprie attività rendimenti più elevati. Per questo motivo è ragionevole attendersi che il primo utilizzerà tassi di investimento più alti per studiare una nuova alternativa di investimento. Ad esempio, come è stato affermato nel caso precedente, per un investitore inesperto spendere 4.500 € significa rinunciare alla possibilità di guadagnare il 5% sul proprio deposito bancario. Diversamente, per un investitore molto più competente, tale spesa potrebbe significare rinunciare a guadagnare il 10% sul capitale impiegato nel patrimonio netto di una impresa. Per questo, i due soggetti analizzeranno lo stesso investimento utilizzando tassi diversi, rispettivamente il 5% ed il 10%, e pervenendo a conclusioni opposte: per il primo l’investimento è redditizio, per il secondo invece è meglio che il capitale rimanga impiegato nelle attività in cui è attualmente impiegato. In altri termini, il saggio minimo conveniente può essere considerato come il TIR medio delle alternative tipiche di investimento del soggetto dell’analisi. Poiché l’alternativa B garantisce un TIR del 5.92%, per il primo investitore, che se non effettuasse l’investimento guadagnerebbe il 5%, risulta conveniente, mentre il secondo investitore preferirà certamente guadagnare il 10% sulle proprie partecipazioni azionarie, e dunque non effettuerà l’investimento. Gli investimenti in beni di capitale fisso richiedono valutazioni e stime complesse. In particolare, fare valutazioni sulla convenienza economica di investimenti in beni capitali (impianti industriali) risulta complesso, oltre che per la difficoltà di prevedere l’entità del successo commerciale dell’idea ad esso collegata, anche a causa della difficoltà di definire l’orizzonte temporale entro cui considerare l’investimento, che corrisponderà alla vita dell’impianto stesso. Essa, infatti, dipende dalla vita fisica dell’impianto, ma anche dal modo di impiego, dalla possibilità che sul mercato compaia un impianto tecnologicamente più avanzato, dalla vita commerciale dei prodotti che con esso si realizzano, ecc. Di solito si effettuano delle stime prudenziali sulla vita dell’impianto, considerando il periodo di tempo più breve tra: • la vita fisica, ossia il periodo di tempo entro il quale il bene fornisce le originarie prestazioni qualitative e quantitative durante l’esercizio delle proprie funzioni; • la vita tecnologica (obsolescenza diretta), ossia il periodo entro il quale la tecnologia incorporata dal bene non viene superata, rendendo conveniente la sostituzione; • la vita commerciale (obsolescenza indiretta), ossia il periodo di tempo entro il quale il prodotto realizzato attraverso l’investimento è collocabile sul mercato (l’elevata specificità della produzione di un impianto può comportare l’obsolescenza del prodotto). Tipologia dei flussi di cassa Come è già stato visto in precedenza i movimenti di cassa, ingressi ed esborsi, generati da un investimento sono definiti Flussi di Cassa (rispettivamente in entrata e in uscita), mentre il Flusso di Cassa Netto, valutato in un generico istante di tempo t, è costituito dalla somma algebrica delle entrate (+) e delle uscite (–) che avvengono in quell’istante. Tipicamente vengono distinte tre fasi nella vita utile di un investimento: 1) la fase iniziale. Ad esempio, nel caso di investimento in impianti produttivi è costituita dall’acquisto e dalla installazione; 2) la fase di gestione. Nell’esempio precedente è costituita dalle attività di produzione e vendita, e dalle attività operative complementari; 3) la fase di disinvestimento. Può consistere nel riportare in forma liquida i fondi ancora immobilizzati nell’investimento. È utile elencare alcune fra le possibili cause di ricavi e costi in ciascuna delle tre fasi per un investimento operativo come, ad esempio, l’acquisto di un impianto per la produzione. 1) Nella fase iniziale dell’investimento le possibili economie o costi cessanti (ricavi) possono essere dovute a: • l’uso alternativo di risorse in eccesso (ad es. manodopera) liberate dal nuovo investimento; • la manutenzione straordinaria evitata su impianti preesistenti; • l’eventuale valore di recupero (alla fine della vita utile) dell’impianto sostituito. I costi sorgenti possono essere dovuti: • al costo di acquisto dell’impianto; • alla modifica e/o al potenziamento degli impianti ausiliari (ad es. per la generazione/distribuzione di energia elettrica, ecc.); • ad attività preliminari di studio/progettazione; • all’avviamento/addestramento del personale; • all’installazione dell’impianto; • alle perdite di produzione (costo implicito); • alla eventuale necessità di capitali aggiuntivi per l’esercizio (maggiori scorte di materiali, maggiori crediti ai clienti a seguito dell’incremento del volume di vendita, ecc.); • possono inoltre esservi altri costi, cosiddetti figurativi, quali l’uso di terreno o di fabbricati già di proprietà dell’azienda e, in generale, l’impiego di altre risorse aziendali, che saranno quindi inutilizzabili per latri impieghi redditizi. 2) Nella fase di gestione i ricavi possono derivare da: • incrementi dei volumi di produzione; • incrementi del prezzo dei prodotti. I costi sorgenti possono essere dovuti a: • aumento/diminuzione nell’impiego, sia in termini quantitativi che qualitativi, di risorse lavoro; • interventi di manutenzione; • scarti di produzione e/o le attività di controllo; • tempi di inattività e/o riattrezzaggio dell’impianto; • costi energetici; • costi di approvvigionamento (materiali e/o commesse a terzi). 3) Nella fase di disinvestimento è tipico che l’impresa realizzi ricavi derivanti dal valore di recupero di attività fisse o circolanti connesse con l’investimento. È importante, a questo punto, richiamare l’attenzione sulla presenza di eventuali “costi affondati” (sunk costs), cioè voci di costo riferite ad operazioni di gestione già impegnate dall’impresa (tipicamente prima di effettuare le analisi). Essi risultano costi irrilevanti rispetto alla decisione perché verranno sostenuti comunque, indipendentemente dalla decisione finale, e dunque non devono essere considerate nell’analisi, anche se si riferiscono in modo specifico ad attività connesse con l’investimento. È un costo affondato, ad esempio, il costo di progettazione di un nuovo prodotto che un’impresa desidera introdurre sul mercato, se la progettazione viene commissionata prima di effettuare l’analisi dell’investimento. Ciò può accadere perché solo attraverso la progettazione è possibile valutare i ricavi, i costi e gli esborsi necessari connessi con l’introduzione del nuovo prodotto: tuttavia, nonostante la progettazione sia evidentemente legata all’attività di investimento, il suo costo risulta irrilevante perché viene sostenuto comunque, sia nel caso in cui l’impresa decida di investire, sia nel caso in cui l’investimento venga rifiutato. Valutazione formale dei flussi di cassa La valutazione e l’analisi dei flussi di cassa è normalmente compito della funzione finanziaria. Essa procede tipicamente attraverso il confronto fra bilanci di esercizi consecutivi (o può prevedere l’esame analitico delle operazioni di gestione) e porta alla redazione di un rendiconto dei flussi finanziari. Per la trattazione approfondita di questa materia si rimanda ai testi ed alle dispense sulla Contabilità Generale. Nel caso dell’analisi degli investimenti, la valutazione dei flussi di cassa può seguire le stesse linee guida che portano alla redazione del rendiconto finanziario, prendendo in esame il comportamento dell’intera impresa, o alternativamente può limitarsi all’analisi dei movimenti di cassa generati dal solo investimento in esame. Nel primo caso il metodo di calcolo procede a ritroso, partendo dall’utile d’esercizio e sommando algebricamente le variazioni di attività e passività; nel secondo caso, invece, il metodo prevede la valutazione diretta dei movimenti di cassa dovuti all’investimento, sottraendo i costi dai ricavi. Il metodo seguito nell’analisi dipende essenzialmente da due fattori: il tipo di investimento, e la prospettiva che viene adottata. Il caso più tipico di investimento in cui è più corretto adottare il primo metodo è quello del business plan, in cui l’investimento coincide con una nuova attività imprenditoriale e dunque l’analisi della redditività coincide con l’analisi dei bilanci e dei rendiconti a preventivo. Al contrario, nel caso di un investimento in attrezzature per la produzione, è in genere più vantaggioso procedere attraverso una valutazione diretta di esborsi, ricavi e costi, mentre l’analisi dei bilanci potrebbe risultare costosa e complessa. In generale, tuttavia, il metodo seguito dagli analisti, dipende soprattutto dalla prospettiva utilizzata, cioè dal soggetto istituzionale che all’interno dell’impresa si pone il problema di valutare la convenienza di impiegare il capitale in investimenti alternativi. In genere, possono essere adottate almeno due diversi approcci o prospettive: (1) “l’approccio del capitale investito”, o “prospettiva dell’investimento”, in cui il soggetto organizzativo dell’analisi è identificabile con un manager di livello funzionale o operativo (ad esempio il direttore di produzione), e (2) “l’approccio del capitale netto”, o “prospettiva dell’azionista”, in cui il soggetto dell’analisi è colui che detiene la proprietà del capitale sociale dell’impresa. Le due prospettive si differenziano per la diversa trattazione, nel calcolo dei cash flow, delle componenti finanziarie connesse con l’investimento in esame e per il tasso d’interesse utilizzato nell’analisi. In particolare, le componenti finanziarie si riferiscono ad eventuali incrementi nelle fonti di finanziamento interne o esterne (il capitale sociale o i debiti presso terzi) necessari a raccogliere parte del capitale investito ed agli oneri finanziari generati da un eventuale indebitamento. Il tasso d’interesse, invece, riflette la diversa percezione da parte dell’analista delle modalità alternative con cui il denaro può essere impiegato (ad esempio, ampliamenti di stabilimento o investimenti in nuove tecnologie, nel caso del manager funzionale; investimenti finanziari o altre attività imprenditoriali, nel caso dell’azionista), e il diverso valore (utilità) assegnato dall’analista alla remunerazione del capitale. Non c’è, invece, alcuna differenza nelle due prospettive per ciò che riguarda la trattazione delle voci di costo fittizie, come le quote di accantonamento, e delle imposte. La presente trattazione si limiterà alla prospettiva dell’azionista, perché più generale ed applicabile sia agli investimenti effettuati da aziende, sia a quelli effettuati da persone fisiche. Trattamento di quote di accantonamento e imposte In generale, un cash flow che si manifesti finanziariamente al generico anno t può essere calcolato sottraendo dai ricavi i costi, ma da questi ultimi devono essere esclusi tutti i costi fittizi, come ad esempio le quote di ammortamento o per la costituzione del fondo di trattamento di fine rapporto. Esse, infatti, pur rappresentando voci di costo nel bilancio d’esercizio, non generano una corrispondente effettiva uscita di cassa. Ammortamenti e accantonamenti, tuttavia, influenzano indirettamente il valore del flusso di cassa netto, in quanto contribuiscono alla determinazione delle imposte sugli utili tassabili. Calcolando il cash flow netto all’anno t (indicato per brevità con CFt) sottraendo i costi dai ricavi, si ottiene: CF t = ricavi t – costi monetari t dove t indica l’istante di tempo considerato. Fra i costi monetari devono essere considerate anche le imposte, che costituiscono un esborso reale per l’impresa. Si osservi che le imposte vengono determinate tipicamente attraverso la aliquota di imposizione fiscale sull’utile lordo. Per determinare il valore delle imposte, dunque, risulta spesso necessario determinare prima il valore dell’utile lordo, sottraendo ai ricavi tutti i costi, compreso quelli fittizi (come le quote di accantonamento). A questo scopo, è utile ricordare che il valore del cash flow può essere alternativamente calcolato a ritroso, partendo dall’utile netto d’esercizio. Poiché i costi monetari sono tutti i costi legati alla gestione dell’investimento, compreso le imposte ma esclusi gli accantonamenti, si può dimostrare che: CF t = utile netto t + quote di accantonamento t dove le quote di accantonamento sono tutte quelle connesse con l’investimento. Infatti: utile netto = utile lordo – imposte = ricavi – costi – imposte = = ricavi – costi + accantonamenti – accantonamenti – imposte Si ottiene dunque: utile netto + accantonamenti = ricavi – costi + accantonamenti – imposte = = ricavi – (costi – accantonamenti) – imposte = ricavi – costi monetari Anche le quote per la costituzione del fondo di trattamento di fine rapporto (TFR) devono essere considerate come accantonamenti. Tali quote spesso vengono liquidate alla fine della vita utile dell’investimento, eventualmente rivalutate per disposizioni di legge (capitalizzate attraverso un certo tasso d’interesse): in questo caso esse contribuiscono negativamente al calcolo del cash flow nell’ultimo istante di tempo, essendo esborsi reali. Un’ultima osservazione merita la trattazione delle imposte in caso di perdita (utile negativo). In questi casi, l’investimento può condurre ad un risparmio nel pagamento delle imposte che dunque verranno trattate come un flusso positivo e non come un costo. � Def. alternativa di investimento: «progetto di investimento all’interno di un insieme di investimenti che risultino indipendenti e mutuamente esclusivi fra loro» È possibile valutare un insieme di alternative di investimento e selezionare la migliore attraverso i criteri definiti nel capitolo precedente. L’uso dei criteri e l’efficacia delle valutazioni possono variare a seconda del metodo seguito. I due principali metodi utilizzati per l’analisi e la selezione di una alternativa di investimento sono quello detto “degli investimenti totali” e quello detto “degli investimenti incrementali.” Questa trattazione è limitata al solo primo metodo. Metodo degli investimenti totali Consiste nel confrontare i cash flow netti complessivi di ciascuna delle alternative di investimento considerate. Poiché ogni flusso di cassa può essere rappresentato da una somma equivalente o da uno degli indici di rendimento definiti nel capitolo precedente, il confronto si riduce al confronto fra indicatori numerici. Valore attuale netto, equivalente annuo e valore futuro Dalla trattazione finora esposta dovrebbe risultare chiaro che fra due investimenti il più conveniente è quello che presenta il valore più alto del valore attuale netto. Lo stesso vale per gli altri due indici. Si osservi che l’uso di ciascuno di questi tre criteri risulta del tutto equivalente ai fini della selezione dell’investimento più conveniente. È facile dimostrare, infatti, che i rapporti fra i tre indici sono uguali ad un valore costante. Detti A e B due investimenti alternativi, risulta: NPVA(i,n)/NPVB(i,n) = AEA(i,n)/AEB(i,n) = FWA(i,n)/FWB(i,n) dove gli indici sono calcolati allo stesso tasso d’interesse i e considerando la stessa vita utile n. Lo stesso non vale per i criteri che verranno considerati nel seguito, il cui uso può condurre a selezionare un’alternativa diversa rispetto a quella indicata dal confronto dei valori attuali netti. Per poter calcolare gli indici ed effettuare il confronto deve essere utilizzato un tasso di interesse. Normalmente, in mancanza di altre indicazioni, gli indicatori possono essere calcolati ad un tasso pari al saggio minimo conveniente. Per due investimenti alternativi A e B, vale dunque la seguente proposizione: NPVA(MARR) > NPVB(MARR) ⇒A più conveniente di B Tasso interno di rendimento. Poiché il TIR rappresenta il tasso d’interesse guadagnato dall’investimento, cioè il suo rendimento espresso in termini percentuali, fra due investimenti il più conveniente è quello che presenta il valore più alto del tasso interno di rendimento. Per due investimenti alternativi A e B, vale dunque la seguente proposizione: TIRA > TIRB ⇒A più conveniente di B Il grande vantaggio di utilizzare il TIR come criterio di confronto consiste nel fatto che si evita il problema di stimare il MARR, o un tasso d’interesse al quale effettuare il calcolo degli indicatori precedenti. Tuttavia, l’applicabilità di questo criterio ha alcuni limiti. Il primo deriva dal significato finanziario dell’indice: poiché esso rappresenta il tasso d’interesse guadagnato sulla parte non recuperata di un investimento, la sua applicabilità è limitata dall’ipotesi che tutti i flussi di cassa futuri verranno reinvestiti allo stesso tasso d’interesse. Il secondo limite consiste nella possibile incoerenza fra il criterio del TIR e quello del NPV. In alcuni casi, infatti, l’uso del TIR può condurre a identificare come alternativa più conveniente un investimento che non presenta il valore più alto del NPV calcolato al MARR. In termini formali, può accadere che per A e B alternativi TIRA > TIRB & NPVA(MARR) < NPVB(MARR) dove il simbolo & rappresenta una condizione di and logico. In questo caso, è evidente che la fiducia del manager nel criterio del TIR sia destinata a vacillare, dato che il NPV rappresenta direttamente il profitto guadagnato dall’investimento espresso come somma di denaro. È immediato convincersi della ragione della possibilità di indicazioni incoerenti osservando l’andamento decrescente della funzione NPV(i). La figura seguente mostra come in un caso (caso 1) i criteri del NPV e del TIR conducano entrambi al selezionare l’investimento A, mentre in un altro (caso 2) i due criteri indichino alternative diverse, rispettivamente B ed A. NPViMARRABTIRBTIRANPVANPVBNPViMARRABTIRBTIRANPVANPVBcaso 1caso 2 La valutazione fornita dal criterio del TIR è in contrasto rispetto a quella fornita dai criteri precedenti. Durata del payback Poiché il PBP rappresenta il numero di periodi necessario a recuperare gli esborsi, risulta più conveniente un investimento con il pay back period più basso. Tuttavia, sebbene esso sia un criterio di confronto fra alternative lecito e molto diffuso, non può rappresentare un criterio di selezione perché la valutazione risulterebbe incompleta. Il PBP, infatti, fornisce indicazioni solo sull’intervallo di tempo che va dall’istante attuale all’istante di recupero del capitale; esso considera cioè solo l’intervallo [0 , n’], coerentemente alla notazione utilizzata precedentemente. L’importanza del criterio risiede nella criticità delle decisioni che riguardano il livello di liquidità dell’impresa e la sua capacità di fare fronte ai debiti di breve termine, sperimentata frequentemente dalle imprese orientate agli investimenti: un investimento, infatti, può influenzare in modo decisivo queste performance e la decisione di investire o non investire deve necessariamente tenere conto di questo fattore. Una valutazione più completa dell’investimento deriva invece dall’uso del profilo di cassa, attraverso il quale è possibile anche ricavare l’informazione relativa al PBP. La rappresentazione grafica dell’andamento del valore generato da un investimento nel tempo può essere utilizzato come valido supporto informativo nel processo decisionale. Da quanto è stato affermato nel capitolo precedente, fra due investimenti il più conveniente è quello che presenta il valore più alto del PI e/o del ROI. L’uso dei due criteri è equivalente dato che la differenza consiste solo in un fattore moltiplicativo. L’utilità dei due criteri deriva dal fatto che essi valorizzano l’investimento in senso “relativo” e non in senso “assoluto”, come invece avviene nel caso del NPV. Infatti, mentre quest’ultimo misura il profitto globale (effettuando una somma algebrica fra cash flow entranti ed uscenti), i criteri del PI e del ROI rapportano l’entità dei profitti (la somma dei cash flow entranti) ad una misura della dimensione dell’investimento (la somma degli esborsi). In questo modo si tiene conto dell’impegno finanziario richiesto dall’investimento e si evita il rischio di selezionare un’alternativa che, pur risultando in assoluto più conveniente, richiede una uscita di capitale eccessiva. Esempio: si valuti il più conveniente fra i due investimenti precedenti rispetto ai criteri del PI e del ROI. Capitale e lavoro. Non una parola viene spesa dalla teoria economica dominante per analizzare il rapporto tra capitale e lavoro. Capitale e lavoro sono due fattori della produzione. I loro possessori s muovono seguendo una logica di puro scambio [I. Musu Scambio, in Dizionario di economia Boringhieri]. Affatto diverso fu l'approccio di Marx. Per Marx il rapporto tra capitale e lavoro è un rapporto sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio Ciò fa sì che nello scambio con il capitalista, l'operaio non perde solo la sua libertà diventando uno “schiavo salariato”, ma diventa vittima del prodotto del suo stesso lavoro che ora si erge contro di lui come potenza autonoma. Marx introdusse per questa via il concetto di alienazione, fondamentale per comprendere la sua opera [G. Bedeschi Alienazione e feticism nel Capitale di Marx, Laterza. M. Bianchi La teoria del valore-lavoro, Laterza]. Come egli scrisse nei Manoscritti economico-filosofici, [XXII] Noi siamo partiti dai presupposti dell'economia politica. Abbiamo accettato la sua lingua e le sue leggi. Abbiamo preso in considerazione la proprietà privata, la separazione tra lavoro, capitale e terra, ed anche tra salario, profitto del capitale e rendita fondiaria, come pure la divisione del lavoro, la concorrenza, il concetto del valore di scambio, ecc. Partendo dalla stessa economia politica, e valendoci delle sue stesse parole, abbiamo mostrato che l'operaio decade a merce, alla più misera delle merci, che la miseria dell'operaio sta in rapporto inverso con la potenza e la quantità della,sua,produzione, che il risultato necessario della concorrenza è l'accumulazione del capitale in poche mani, e quindi la pili terribile ricostituzione del monopolio, che infine scompare la differenza tra capitalista e proprietario fondiario, cosi come scompare la differenza tra contadino e operaio di fabbrica, e tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà. L'economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Ma non ce la spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata quale si rivela nella realtà, ma lo coglie in formule generali, astratte, che hanno per essa il valore di leggi. Essa non comprende queste leggi, cioè non riflette in qual modo esse derivino dall'essenza della proprietà privata. L'economia politica non ci dà nessuna spiegazione sul fondamento della divisione di capitale e lavoro, di capitale e terra. Quando, per esempio, determina il rapporto del salario col profitto del capitale, l'interesse del capitalista vale per essa come la ragione suprema; cioè essa presuppone ciò che deve spiegare. Parimenti interviene dappertutto la concorrenza. Ma questa viene spiegata in base a circostanze esterne. L'economia politica non c'insegna nulla sul fatto che queste circostanze esterne, apparentemente accidentali, sono null'altro che l'espressione di uno svolgimento necessario. Abbiamo visto come lo stesso scambio le appaia come un fatto accidentale. Gli unici ingranaggi che l'economia politica mette in moto sono l'avidità di denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza. Proprio perché l'economia politica non comprende la connessione del movimento storico, si è potuto di nuovo contrapporre, ad esempio, la dottrina della concorrenza a quella del monopolio, la dottrina della libertà di lavoro a quella della corporazione, la dottrina della divisione del possesso fondiario a quella della grande proprietà fondiaria; e infatti concorrenza, libertà di lavoro, divisione del possesso fondiario sono state svolte e comprese soltanto come conseguenze casuali, volontarie, violente del monopolio, della corporazione e della proprietà feudale, e non come conseguenze necessarie, inevitabili, naturali. Quindi, ora noi dobbiamo comprendere la connessione essenziale che corre tra la proprietà privata, l'avidità di denaro, la separazione tra lavoro, capitale e proprietà fondiaria, tra scambio e concorrenza, tra valorizzazione e s valorizzazione dell'uomo, tra monopolio e concorrenza, ecc., la connessione di tutto questo processo di estraniazione col sistema monetario. Non trasferiamoci, come fa l'economista quando vuol dare una spiegazione, in uno stato originario fantastico. Un tale stato originario non spiega nulla. Non fa che rinviare il problema in una lontananza grigia e nebulosa. Presuppone in forma di fatto, di accadimento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due fatti, per esempio tra la divisione del lavoro e lo scambio. Allo stesso modo la teologia spiega l'origine del male col peccato originale, cioè presuppone come un fatto, in forma storica, ciò che deve spiegare. Noi partiamo da un fatto dell'economia politica, da un fatto presente. L'operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La valorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci. Questo fatto non esprime altro che questo: l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia privata come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione appare come perdita e asservimento dell'oggetto, l'appropriazione come estraniazione, come alienazione. La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l'operaio viene annullato sino a morire di fame. L'oggettivazione si presenta come perdita dell'oggetto in siffatta guisa che l'operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo per la vita, ma anche per il lavoro. Già, il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a impadronirsi soltanto col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni. L'appropriazione dell'oggetto si presenta come estraniazione in tale modo che quanti più oggetti l'operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale. Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a trovare rispetto riprodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l'operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone la sua vita nell'oggetto; ma d'ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all'oggetto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l'operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all' esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea. [XXIII] Ed ora consideriamo più da vicino l'oggettivazione, la produzione dell'operaio, e in essa l'estraniazione, là perdita dell'oggetto, del suo prodotto. L'operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce. Ma come la natura fornisce al lavoro i mezzi di sussistenza, nel senso che il lavoro non può sussistere senza oggetti su cui applicarsi; cosi essa, d'altra parte, fornisce pure i mezzi di sussistenza in senso più stretto, cioè i mezzi per il sostentamento fisico dello stesso operaio. Quindi quanto più l'operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della natura sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza nella seguente duplice direzione: prima di tutto, per il fatto che il mondo esterno cessa sempre più di essere un oggetto appartenente al suo lavoro, un mezzo di sussistenza del suo lavoro, e poi per il fatto che lo stesso mondo esterno cessa sempre più di essere un mezzo di sussistenza nel senso immediato, cioè un mezzo per il suo sostentamento fisico. In questa duplice direzione, dunque, l'operaio diventa uno schiavo del suo oggetto: in primo luogo, perché egli riceve un oggetto da lavorare, cioè riceve un lavoro; in secondo luogo, perché riceve dei mezzi di sostentamento. E quindi, in primo luogo perché può esistere come operaio, e in secondo luogo perché può esistere come soggetto fisico. Il colmo di questo asservimento si ha quando egli si può mantenere come soggetto fisico soltanto in quanto è operaio ed è operaio soltanto in quanto è soggetto fisico. (Secondo le leggi dell'economia politica, l'estraniazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime nel fatto che quanto più l'operaio produce, tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello è il suo prodotto, tanto più l'operaio diventa deforme; quanto più raffinato il suo oggetto, tanto più egli s'imbarbarisce; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente; quanto più il lavoro è spirituale, tanto più egli è diventato materiale e schiavo della natura). L'economia politica nasconde l'estraniazione insita nell'essenza stessa del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato esistente tra l'operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi, ma per l'operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l'operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l'altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per l'operaio idiotaggine e cretinismo. Il rapporto immediato esistente tra il lavoro e i suoi prodotti è il rapporto tra l'operaio e gli oggetti della sua produzione. Il rapporto che il ricco ha con gli oggetti della produzione e con la stessa produzione è soltanto una conseguenza di quel primo rapporto. E lo conferma. Considereremo quest'altro aspetto più oltre. Quando noi dunque ci domandiamo: qual è il rapporto essenziale del lavoro ? la domanda che ci poniamo verte intorno al rapporto dell'operaio con la produzione. Sinora abbiamo considerato l'estraniazione, l'alienazione dell'operaio da un solo lato, cioè abbiamo considerato il suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l'estraniazione si mostra non soltanto nel risultato, ma anche nell'io della produzione, entro la stessa attività produttiva. Come potrebbe l'operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non si estraniasse da se stesso nell'atto della produzione? Il prodotto non è altro che il «resumé» dell'attività, della produzione. Quindi, se prodotto del lavoro è l'alienazione, la produzione stessa deve essere alienazione attiva, alienazione dell'attività, l'attività della alienazione. Nell'estraniazione dell'oggetto del lavoro si riassume la estraniazione, l'alienazione che si opera nella stessa attività del lavoro. E ora, in che cosa consiste l'alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l'operaio solo fuori del lavoro sì sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione. Infine l'esteriorità del lavoro per l'operaio appare in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a se stesso, ma ad un altro. Come nella religione, l'attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull'individuo indipendentemente dall'individuo, come un'attività estranea, divina o diabolica, cosi l'attività dell'operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé. Ne viene quindi come conseguenza che l'uomo (l'operaio) si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt'al più ancora l'abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale. Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in quell'astrazione, che le separa dalla restante cerchia dell'attività umana e le fa diventare scopi ultimi ed unici, sono funzioni animali. Abbiamo considerato l'atto dell'estraniazione dell'attività pratica dell'uomo, cioè il lavoro, da due lati. 1) Il rapporto dell'operaio col prodotto del lavoro considerato come oggetto estraneo e oppressivo. Questo rapporto è ad un tempo il rapporto col mondo esterno sensibile, con gli oggetti della natura, inteso come un mondo estraneo che gli sta di fronte in modo ostile. 2) Il rapporto del lavoro con l'atto della produzione entro il lavoro. Questo rapporto è il rapporto dell'operaio con la sua propria attività come attività estranea che non gli appartiene, l'attività come passività, la forza come impotenza, la procreazione come svirilimento, l'energia fisica e spirituale propria dell'operaio, la sua vita personale - e infatti che [altro] è la vita se non attività? - come un'attività rivolta contro di lui, da lui indipendente, e che non gli appartiene. L'estraniazione di sé, come, prima, l'estraniazione della cosa. [XXIV] Ora dobbiamo ancora ricavare dalle due determinazioni sin qui descritte una terza determinazione del lavoro estraniato. L'uomo è un essere appartenente ad una specie non solo perché della specie, tanto della propria quanto di quella delle altre cose, fa teoricamente e praticamente il proprio oggetto, ma anche (e si tratta soltanto di una diversa espressione per la stessa cosa) perché si comporta verso se stesso come verso la specie presente e vivente, perché si comporta verso se stesso come verso un essere universale e perciò libero. La vita della specie, tanto nell'uomo quanto negli animali, consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l'uomo (come l'animale) vive della natura inorganica, e quanto più universale è l'uomo dell'animale, tanto più universale è il regno della natura inorganica di cui egli vive. Le piante, gli animali, le pietre, l'aria, la luce, ecc., come costituiscono teoricamente una parte della coscienza umana, in parte come oggetti della scienza naturale, in parte come oggetti dell'arte - si tratta della natura inorganica spirituale, dei mezzi spirituali di sussistenza, che egli non ha che da apprestare per goderne e assimilarli -, cosi costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e dell'umana attività. L'uomo vive fisicamente soltanto di questi prodotti naturali, si presentino essi nella forma di nutrimento o di riscaldamento o di abbigliamento o di abitazione, ecc. L'universalità dell'uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell'uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l'oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell'uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l'uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l'uomo è una parte della natura. Poiché il lavoro estraniato rende estranea all'uomo 1) la natura e 2) l'uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estranea all'uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale. In primo luogo il lavoro rende estranea la vita della specie e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest'ultima nella sua astrazione uno scopo della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata. Infatti il lavoro, l' attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all'uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l'esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. E la vita che produce la vita. In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una «species», sta il suo carattere specifico; e l'attività libera e cosciente è il carattere dell'uomo. La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita. L'animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. E quella stessa. L'uomo fa della sua attività vitale l'oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un'attività vitale cosciente. Non c'è una sfera determinata in cui l'uomo immediatamente si confonda. L'attività vitale cosciente dell'uomo distingue l'uomo immediatamente dall'attività vitale dell'animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie. O meglio egli è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere appartenente ad una specie. Soltanto perciò la sua attività è un'attività libera. Il lavoro estraniato rovescia il rapporto in quanto l'uomo, proprio perché è un essere cosciente, fa della sua attività vitale, della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza. La creazione pratica d'un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l'uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. Certamente anche l'animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l'animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l'uomo produce in modo universale; produce solo sotto l'impero del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l'animale riproduce soltanto se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L'animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l'uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l'uomo si mostra quindi realmente come un essere appartenente ad una specie. Questa produzione è la sua vita attiva come essere appartenente ad una specie. Mediante essa la natura appare come la sua opera e la sua realtà. L'oggetto del lavoro è quindi l'oggettivazione della vita dell'uomo come essere appartenente ad una specie, in quanto egli si raddoppia, non soltanto come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da esso creato. Perciò il lavoro estraniato strappando all'uomo l'oggetto della sua produzione, gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie, la sua oggettività reale specifica e muta il suo primato dinanzi agli animali nello svantaggio consistente nel fatto che il suo corpo inorganico, la natura, gli viene sottratta. Parimenti, il lavoro estraniato degradando a mezzo l'attività autonoma, l'attività libera, fa della vita dell'uomo come essere appartenente ad una specie un mezzo della sua esistenza fisica. Per opera dell'alienazione, la coscienza, che l'uomo ha della sua specie, si trasforma quindi in ciò che la sua vita di essere che appartiene ad una specie diventa per lui un mezzo. Il lavoro alienato fa dunque: 3) dell'essere dell'uomo, come essere appartenente ad una specie, tanto della natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un mezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all'uomo estraneo il suo proprio corpo, tanto la natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano. 4) Una conseguenza immediata del fatto che l'uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro, della sua attività vitale, al suo essere generico, è l' estraniazione dell'uomo dall'uomo. Se l'uomo si contrappone a se stesso, l'altro uomo si contrappone a lui. Quello che vale del rapporto dell'uomo col suo lavoro, col prodotto del suo lavoro e con se stesso, vale del rapporto dell'uomo con l'altro uomo, ed altresì col lavoro e con l'oggetto del lavoro dell'altro uomo. In generale, la proposizione che all'uomo è reso estraneo il suo essere in quanto appartenente a una specie, significa che un uomo è reso estraneo all'altro uomo, e altresì che ciascuno di essi è reso estraneo all'essere dell'uomo. L'estraniazione dell'uomo, in generale ogni rapporto in cui l'uomo è con se stesso, si attua e si esprime soltanto nel rapporto in cui l'uomo è con l'altro uomo. Dunque nel rapporto del lavoro estraniato ogni uomo considera gli altri secondo il criterio e il rapporto in cui egli stesso si trova come lavoratore. [XXV] Abbiamo preso le mosse da un fatto dell'economia politica, dall'estraniazione dell'operaio e della sua produzione. Abbiamo espresso il concetto di questo fatto: il lavoro estraniato, alienato. Abbiamo analizzato questo concetto e quindi abbiamo analizzato semplicemente un fatto dell'economia politica. Ora, proseguendo, vediamo come il concetto del lavoro estraniato, alienato, debba esprimersi e rappresentarsi nella realtà. Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene ? Se un'attività che è mia non appartiene a me, ed è un'attività altrui, un'attività coatta, a chi mai appartiene ? Ad un essere diverso da me. Ma chi è questo essere ? Son forse gli dèi? Certamente, in antico non soltanto la produzione principale, come quella dei tempi, ecc., in Egitto, in India, nel Messico, appare eseguita al servizio degli dèi, ma agli dèi appartiene anche lo stesso prodotto. Soltanto che gli dèi non furono mai essi stessi i soli padroni. E neppure la natura. Quale contraddizione mai sarebbe se, quanto più col proprio lavoro l'uomo si assoggetta la natura, quanto più i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell'industria, l'uomo dovesse per amore di queste forze rinunciare alla gioia della produzione e al godimento del prodotto. L'essere estraneo, a cui appartengono il lavoro e il prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del lavoro, non può essere che l'uomo. Se il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all'operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l'uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell'uomo. Si ripensi ancora alla tesi sopra esposta, che il rapporto dell'uomo con se stesso è per lui un rapporto oggettivo e reale soltanto attraverso il rapporto che egli ha con gli altri uomini. Se quindi egli sta in rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato come in rapporto ad un oggetto estraneo, ostile, potente, indipendente da lui, sta in rapporto ad esso in modo che padrone di questo oggetto è un altro uomo, a lui estraneo, ostile, potente e indipendente da lui. Se si riferisce alla sua propria attività come a una attività non libera, si riferisce a essa come a un'attività che è al servizio e sotto il dominio, la coercizione e il giogo di un altro uomo. Ogni auto-estraniazione dell'uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall'altro. Perciò l'auto-estraniazione religiosa appare necessariamente nel rapporto del laico col prete, oppure trattandosi qui del mondo intellettuale - con un mediatore, ecc. Nel mondo reale pratico l'auto-estraniazione può presentarsi soltanto nel rapporto reale pratico con gli altri uomini. Il mezzo, con cui avviene l'estraniazione, è esso stesso un mezzo pratico. Col lavoro estraniato l'uomo costituisce quindi non soltanto il suo rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione come rapporto, con forze estranee ed. ostili; ma costituisce, pure il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e col suo prodotto, e il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini. Come l'uomo fa della propria produzione il proprio annientamento, la propria punizione, come pure fa del proprio prodotto una perdita, cioè un prodotto che non gli appartiene, cosi pone in essere la signoria di colui che non produce, sulla produzione e sul prodotto. Come egli rende a sé estranea la propria attività, cosi rende propria all'estraneo l'attività che non gli è propria. Abbiamo sinora considerato il rapporto soltanto dal lato dell'operaio e lo considereremo più tardi anche dal lato del non-operaio. Dunque, col lavoro estraniato, alienato, l'operaio pone in essere il rapporto di un uomo che è estraneo e al di fuori del lavoro, con questo stesso lavoro. Il rapporto dell'operaio col lavoro pone in essere il rapporto del capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro - col lavoro. La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra l'operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall'altro. La proprietà privata si ricava quindi mediante l'analisi del concetto del lavoro alienato, cioè dell'uomo alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell'uomo estraniato. Certamente abbiamo acquisito il concetto di lavoro alienato (di vita alienata) traendolo dall'economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma con un'analisi di questo concetto si mostra che, anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza; allo stesso modo che originariamente gli dèi non sono la causa, ma l'effetto dell'umano vaneggiamento. Successivamente questo rapporto si converte in un'azione reciproca. Solo al vertice del suo svolgimento, la proprietà privata rivela il suo segreto, vale a dire, anzitutto che essa è il prodotto del lavoro alienato, in secondo luogo che è il mezzo con cui il lavoro si aliena, è la realizzazione di questa alienazione. Questo svolgimento getta immediatamente luce su diverse contraddizioni sinora non risolte: 1) l'economia politica prende le mosse dal lavoro inteso come l'anima propria della produzione, eppure non dà al lavoro nulla mentre dà alla proprietà privata tutto. Da questa contraddizione Proudhon ha concluso in favore del lavoro contro la proprietà privata. Ma noi invece ci rendiamo conto che questa apparente contraddizione è la contraddizione del lavoro estraniato con se stesso, e che l'economia politica non ha fatto altro che esporre le leggi del lavoro estraniato. Quindi riconosciamo pure che salario e proprietà privata sono la stessa cosa, poiché il salario, nella misura in cui il prodotto, l'oggetto del lavoro, retribuisce il lavoro stesso, non è che una conseguenza necessaria dell'estraniazione del lavoro; e infatti nel salario anche il lavoro non appare come fine a se stesso, ma è al servizio della retribuzione. Vedremo ciò minutamente più tardi; ora tiriamo ancora soltanto alcune conseguenze [XXVI]. Un forzato aumento del salario (prescindendo da tutte le altre difficoltà, prescindendo dal fatto che essendo un'anomalia si potrebbe anche mantenere soltanto con la forza) non sarebbe altro che una migliore rimunerazione degli schiavi e non eleverebbe né all'operaio né al lavoro la loro funzione umana e la loro dignità. Appunto l' uguaglianza dei salari, quale è richiesta da Proudhon, non fa che trasformare il rapporto dell'operaio d'oggi col suo lavoro in un rapporto di tutti gli uomini col lavoro. La società viene quindi concepita come un astratto capitalista. Il salario è una conseguenza immediata del lavoro. estraniato, e il lavoro estraniato è la causa immediata della proprietà privata. Con l'uno deve quindi cadere anche l'altra. 2) Dal rapporto del lavoro estraniato con la proprietà privata segue inoltre che l'emancipazione della società dalla proprietà privata, ecc., dalla schiavitù si esprime nella forma politica dell'emancipazione degli operai, non già come se si trattasse soltanto di questa emancipazione, ma perché in questa emancipazione è contenuta l'emancipazione universale dell'uomo; la quale è ivi contenuta perché nel rapporto dell'operaio con la produzione è incluso tutto intero l'asservimento dell'uomo, e tutti i rapporti di servaggio altro non sono che modificazioni e conseguenze del primo rapporto. Avendo trovato mediante l'analisi il concetto della proprietà privata partendo dal concetto del lavoro estraniato, alienato, ora possiamo col sussidio di questi due fattori sviluppare tutte le categorìe dell'economia politica, e ritroveremo in ogni categoria, come, ad esempio, lo scambio, la concorrenza, il capitale, il denaro, solo un'espressione determinata e sviluppata di questi primi concetti fondamentali. Ma prima di prendere in considerazione questa struttura, cerchiamo di svolgere due temi: 1) Determinare l'essenza universale della proprietà privata, quale si è venuta deducendo in quanto risultato del lavoro estraniato, nel suo rapporto con la proprietà veramente umana e sociale; 2) Abbiamo accolto come un fatto l'estraniazione del lavoro, la sua alienazione, e abbiamo analizzato questo fatto. Ora domandiamo: come attiva l'uomo ad alienare, ad estraniare il proprio lavoro ? Come questa estraniazione è fondata sull'essenza dello svolgimento dell'uomo? Per la risoluzione di questo tema abbiamo già ottenuto molto, avendo trasformato il problema dell'origine della proprietà privata nel problema del rapporto del lavoro alienato con lo sviluppo storico dell'umanità. E infatti, quando si parla della proprietà privata, si crede di aver a che fare con una cosa fuori dell'uomo. Quando si parla del lavoro, si ha a che fare immediatamente con l'uomo stesso. Questa nuova impostazione del problema contiene già la sua soluzione. 1) Essenza generale della proprietà privata e suo rapporto con la proprietà veramente umana. Il lavoro alienato si è risolto per noi in due elementi che si condizionano a vicenda, o meglio che sono soltanto due diverse espressioni di un identico rapporto. L'appropriazione si presenta come estraniazione, come alienazione, e l'alienazione come appropriazione, la condizione di straniero come la vera cittadinanza. Abbiamo considerato un aspetto, il lavoro alienato in rapporto con l'operaio stesso, cioè il rapporto del lavoro alienato con se stesso. Quale prodotto, quale risultato necessario di questo rapporto abbiamo trovato il rapporto di proprietà del non-operaio nei confronti dell'operaio e del lavoro. La proprietà privata, intesa come l'espressione materiale, riassuntiva del lavoro alienato, abbraccia entrambi i rapporti, tanto il rapporto dell' operaio col lavoro e col prodotto del suo lavoro e col non-operaio, quanto il rapporto del nonoperaio con l'operaio e col prodotto del suo lavoro. Avendo ormai visto che in relazione all'operaio, che si appropria della natura col lavoro, l'appropriazione si presenta come estraniazione, l'attività propria come attività per un altro e come attività di un altro, la vitalità come sacrificio della vita, la produzione dell'oggetto come perdita dell'oggetto in favore di un potere estraneo, di un uomo estraneo, prendiamo ora in considerazione il rapporto che corre tra questo uomo estraneo al lavoro e all'operaio e l'operaio, il lavoro e il suo oggetto. Primamente è da osservare che tutto ciò che nell'operaio appare come attività di alienazione, di estraniazione, appare nel non-operaio come stato di alienazione, di estraniazione. In secondo luogo, che il comportamento pratico reale dell'operaio nella produzione e nei confronti del prodotto (come stato d'animo) appare nel non-operaio che gli sta di fronte come comportamento teoretico. [XXVII] In terzo luogo, il non-operaio fa contro l'operaio, tutto ciò che l'operaio fa contro se stesso ma non fa contro se stesso quello che egli fa contro l'operaio. Per Marx, seguace della teoria classica del valore lavoro, v'è un solo fattore che produce valore, il lavoro; il capitale produce valore in quanto sussume lavoro al proprio servizio. Ma nel gioco di specchi creato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione a scambio, il valore creato dal lavoro appare come valore creato dal capitale. Ciò è spiegato con grande finezza da Marx in Teorie sul plusvalore. La produttività del capitale, scrisse Marx, consiste nel contrapporsi al lavoro come lavoro salariato e la produttività del lavoro consiste nel contrapporsi ai mezzi di produzione come come capitale. Alienazione e feticismo. Fondamentale, per Marx, per capire il modo di funzionamento del capitalismo è il concetto di alienazione. A prima vista, scrisse Marx in Il capitale, una merce sembra una cosa triviale, ovvia, scrisse nel Capitale. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d'uso, non c'è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E' chiaro come la luce del sole che l'uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare. Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d'uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica ch'essi sono funzioni dell'organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini lavorano in una qualsiasi maniera l'uno per l'altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale. Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L'eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra . Ci si ricorda che la Cina e i tavolini cominciarono a ballare quando tutto il resto del mondo sembrava fermo – pour encourager les autres. . Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l'oggetto esterno, su un'altra cosa, l'occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci. Come l'analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. Gli oggetti d'uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l'uno dall'altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all'interno di tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. Solo all'interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un'oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d'uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinchè cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sè come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall'altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L'eguaglianza di lavori differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla loro reale diseguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi posseggono, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale dell'eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro. Gli uomini dunque riferiscono l'uno all'altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l'un con l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello scambio, i prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto del lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l'arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d'uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto son valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell'umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l'uno dall'altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che la scomposizione scientifica dell'aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l'atmosfera come forma corporea.” Implicazioni teoriche. Come emerge dalle parole di Marx, ciò che distingue in modo radicale il pensiero di Marx da quello dei neoclassici, compreso il nostro attuale presidente del consiglio, è che mentre per gli economisti neoclassici il capitale è un insieme di mezzi di produzione oppure una somma di denaro, per Marx il capitale è prima di tutto un rapporto sociale. Ne deriva che non è possibile al cuna riforma dall'interno del capitalismo finché non sarà abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio Quanto detto fa apparire in na nuova luce anche il problema del calcolo economico. Il capitalismo. Non conviene intendere il capitalismo, ha scritto Sergio Ricossa, come un preciso sistema economico, con caratteri fissi e ben definibili una volta per tutte. Esso è piuttosto un'evoluzione storica dell'economia, che comincia verso l'anno Mille, o poco dopo, nell'Occidente europeo, e che è tuttora in corso. Durante questo percorso quasi millenario, il capitalismo ha mutato di frequente volto e veste, ma non tanto da impedirci di riconoscergli una qualche continuità 'esistenziale'. E a proposito di continuità, va detto subito che la nascita del sistema nuovo non venne dal nulla, e che quindi il vecchio sistema precapitalistico conteneva in sé i germi e le avvisaglie della trasformazione, la quale in principio fu lenta, quasi impercettibile. Oggi, col senno di poi, guardando retrospettivamente i fatti accumulatisi nei secoli, parliamo di trasformazione rivoluzionaria; ma fu pure una trasformazione inintenzionale, nel senso che nessuno dei suoi innumerevoli artefici ne ebbe un progetto d'insieme, né poteva averlo. Il capitalismo moderno non era soltanto non progettabile: era inimmaginabile. Ancora oggi non sa dove andrà, perché inventa la sua strada ogni giorno. È un sistema aperto, così aperto che c'è chi dubita che sia un sistema, un ordine, un organismo sociale, e non invece un caotico insieme di iniziative umane indipendenti e contraddittorie. Le contraddizioni del capitalismo o, se si vuole, dell'economia borghese, come Marx preferiva dire: nell'additarle e condannarle egli tuttavia non esitava a concedere che provenissero dalla "più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione" (v. Marx, 1859, Introduzione). Il socialismo stesso era per lui inconcepibile senza il passaggio attraverso la fase capitalistica, e bisognava che tale passaggio fosse completo, che profittasse fino in fondo di ognuno dei molti, eccellenti contributi del capitalismo al progresso economico. Per questo l'economia borghese avrebbe dovuto essere l'ultimo passo della storia progressiva prima del socialismo. Ma perché chiamarla economia borghese? Perché renderla sinonimo di capitalismo? Poco dopo l'anno Mille fu un nuovo ceto emergente, la borghesia, a introdurre sulla scena i cambiamenti che si chiamarono in seguito capitalismo. Furono i borghesi (in particolare i mercanti delle città medievali, le quali aspiravano a diventare comuni liberi dai vincoli feudali) ad avviare quella che possiamo pure denominare, con Carlo M. Cipolla, la rivoluzione comunal-cittadina, primo atto della rappresentazione capitalistica nei secoli XI-XIII: "Il grande mercante, che fu di solito anche imprenditore manifatturiero e se del caso anche banchiere, riuscì a installarsi ai più elevati gradini della scala sociale, e il 'popolo grasso' nelle città italiane e il 'patriziato' nelle città fiamminghe e tedesche assunsero il controllo della comunità identificando gli interessi dello Stato con quelli del proprio ceto. Nel quadro della storia dell'umanità il fenomeno aveva tutti i caratteri dell'eccezionalità, perché dai tempi del Neolitico, salvo poche eccezioni, nella stragrande maggioranza le società umane erano state (e fuori d'Europa tutt'ora erano) dominate dal ceto dei grossi proprietari fondiari" (v. Cipolla, 1988, pp. 465-466). Dunque: diffusione geografica a chiazze in espansione, cominciando principalmente dai comuni dell'Italia centrosettentrionale, dalle città delle Fiandre e della Germania renana e anseatica, per poi coprire le provincie olandesi e l'Inghilterra, e poi ancora quasi tutta l'Europa occidentale e centrale, prima di emigrare nell'America settentrionale e, nel nostro secolo, in Giappone. Ma che differenza tra la fase per così dire pionieristica - in cui il capitalismo è, sì, mercantile, industriale e finanziario nel medesimo tempo, ma l'aspetto industriale è secondario e si confonde con l'aspetto artigianale - e la fase evoluta: questa comincia in Inghilterra nel XVIII secolo col factory system che spiazza a poco a poco l'artigianato e pone l'industria al primo posto nella graduatoria dei settori produttivi, come fonte primaria del progresso tecnologico e merceologico, e come sede di imprese e di stabilimenti di dimensioni via via maggiori. E che differenza tra il capitalismo avanzato, dominante, originale, spontaneo e quello imitativo, artificioso e tardivo, in cui gli elementi della nuova economia, appena embrionali, sono mescolati e oppressi dai tenaci residui della vecchia economia, che né l'iniziativa privata né, talvolta, l'iniziativa pubblica riescono a demolire. Dunque anche: rivoluzione politica, oltre che economica, cui seguiranno nel Seicento la rivoluzione scientifica e nel tardo Settecento la rivoluzione industriale, secondo e terzo atto della grande rappresentazione capitalistica. Ma è sul primo atto che dobbiamo insistere, per ora, al fine di capirne la novità, capire perché risultasse tanto importante che qua e là, al vertice della gerarchia sociale, fossero saliti dei mercanti, anziché dei proprietari terrieri. Da sempre la storia registrava lotte per la conquista del potere, e da sempre le élites 'circolavano', uscivano dalle quinte, giungevano alla ribalta, recitavano la loro parte, se ne andavano spinte con buone o cattive maniere da altri attori protagonisti. La differenza stava negli argomenti dei nuovi attori: se forti soltanto di prepotenza o se forieri di qualche forma di progresso, comunque questo venga definito. Marx credeva nel progressismo borghese e non v'è dubbio che la prepotenza del ceto mercantile infine emergente non era tutto quanto esso aveva da offrire. Di prepotenza ne mostrò parecchia, anche perché aveva molti nemici vogliosi di soffocarlo e respingerlo in basso; ma inoltre mostrò inusitate qualità mentali costruttive, non meramente distruttive, uno spirito innovatore e vivificante, non effimero, che nel giro di qualche secolo avrebbe innalzato l'Europa occidentale al primato del mondo, da una posizione iniziale di grave inferiorità. Non dimentichiamo che l'Europa occidentale dell'anno Mille era una zona sottosviluppata, rispetto a quelle bizantine, islamiche e cinesi. Visti dall'esterno, gli europei erano popoli insignificanti, se non barbari, e quando la loro immagine cambiò, molto tardi, fu una sorpresa per gli increduli, cioè per tutti. Lo sviluppo europeo, come quasi sempre accade, ebbe nemici interni assai più che nemici esterni. Erano i nostri conservatori antiborghesi a osteggiare l'incipiente capitalismo di casa e insieme la forza propulsiva da cui dipendeva (oggi lo sappiamo) il nostro futuro. Era la nostra nobiltà feudale, laica ed ecclesiastica, a rintuzzare l'insolenza dei ceti borghesi, che pretendevano opporsi ai privilegi della nascita e del sangue, sostituire il valore economico a quello militare e religioso, riformare il diritto, cambiare il costume, liberare i servi della gleba e liberarsi dalle servitù, comprese quelle fiscali, verso i signori della terra. Gli interessi delle campagne non coincidevano con gli interessi delle città: c'era chi voleva vendere caro il proprio grano e chi voleva acquistare a buon mercato il proprio pane. C'era soprattutto un contrasto di mentalità: da un lato, l'antica e prestigiosa cultura signorile, che coincideva con la cultura classica, considerava ignobile e vile l'intera attività economica; dall'altro lato, la cultura o controcultura borghese contava invece proprio sull'attività economica per mettere il mondo sossopra. "L'Italia fu il paese del compromesso storico: buona parte della nobiltà feudale fiutò dove il mondo sarebbe andato a parare e mise piede nelle città" (ibid., p. 463). Anche qui, però, il capitalismo ebbe le sue traversie, tant'è vero che l'Italia centrosettentrionale, economicamente in testa alle nazioni europee nel Duecento, nel Seicento si era lasciata sorpassare e distaccare senza rimedio dall'Olanda e dall'Inghilterra. Ovunque, e fino ai nostri giorni, lo spirito capitalistico, perseguitato, non muore ma emigra dove, di volta in volta, incontra minori difficoltà ambientali e culturali a legittimarsi. Ovunque, tuttavia, le difficoltà ci sono, appunto perché il capitalismo, già nel nome, si annuncia come una 'scandalosa' pretesa di organizzare la società secondo criteri meramente economici. Pur vittorioso sul feudalesimo, il capitalismo non si è mai definitivamente imposto sul piano etico e politico, né in Occidente né tanto meno altrove, e continua a sollevare obiezioni e reazioni perfino dove pare essere dominante. Gli accaniti attacchi ideologici che ha subito a opera dei movimenti marxistici non sono stati né i primi né gli ultimi. Occorre però tornare alle origini, alla rivoluzione comunal-cittadina, per percepire nell'intera sua estensione la rilevanza del precetto capitalistico di anteporre, in un certo senso, l'economia a tutto il resto. Il punto da chiarire è che il precetto mutava il contenuto dell'economia mentre ne cambiava la collocazione negli ordinamenti sociali. L'economia, che avanzava di rango, non era più la vecchia economia: era un'economia capace di cose nuove perché era l'economia del capitale, anziché l'economia della terra. La ricchezza antica era costituita tipicamente da beni naturali, come la terra e l'oro. La ricchezza borghese puntò invece su beni artificiali, come il capitale. Intendiamoci: il capitale, quale strumento produttivo costruito dall'uomo, era sempre esistito e tale si poteva già considerare, per esempio, la selce scheggiata dall'uomo del Paleolitico per farne un utensile o un'arma. Ma fin tanto che la terra e l'oro restavano le basi dell'accumulazione della ricchezza, il capitale non acquistava importanza perché esso non è in grado di produrre direttamente né terra né oro. Essendo questi beni un dono della natura, la nostra volontà non può riprodurli in alcun modo: può bonificare un terreno, ma il terreno deve esserci già; può scavare un filone aurifero, ma il minerale deve esserci già. Nel sentire antico la disponibilità globale di ricchezza era fissata dalla natura. Chi ambiva a disporre per sé di più terra o di più oro doveva pensare a sottrarre ad altri quei beni, con mezzi pacifici o violenti, a parte i casi sempre meno numerosi di fondi vergini e di nessuno. Non c'era, nitido, il concetto di prodotto netto, di ricchezza creata dall'uomo, e creata per così dire dal nulla; o meglio, il prodotto netto si riduceva alla fertilità della natura che ogni anno fornisce un raccolto, il quale comunque, in epoche di scarso o nullo progresso tecnologico, dipendeva rigidamente dall'estensione dei campi. Ecco come l'accumulazione della ricchezza, nei millenni preborghesi, rispondeva a una mentalità predatoria assai più che a una mentalità produttivistica, a una mentalità militare assai più che a una mentalità economica. Se non che era proprio l'economia, allora, a rendersi facilmente illecita, per un paradosso che è tale soltanto per i borghesi. La cultura signorile antieconomica non era affatto ostile all'accumulazione della ricchezza, purché ciò servisse un fine pubblico, e non era affatto ostile all'impiego, d'altronde reputato inevitabile, della forza come mezzo, purché ciò corrispondesse a uno scontro col nemico 'ufficiale' (il barbaro, l'infedele, o semplicemente lo straniero, chi era fuori del sacro suolo patrio e mancava di diritti). L'iniziativa economica privata, in cerca del profitto egoistico, esercitava lo stesso un'azione predatoria, in assenza di contributi produttivi, che non si scorgevano, ma la esercitava senza rispettare le regole del bene pubblico e dell'onore militare. Di qui la sua fondamentale immoralità, non appena andava oltre lo stretto necessario. Il cristianesimo aveva modificato poco questa tradizione psicologica: la definizione di nemico forse si restrinse, ma perdurò l'incapacità di percepire la ricchezza come prodotto netto e quindi come sostanza aumentabile senza trasferimento. Si predicarono il dono, la carità, talvolta l'eguaglianza, più che atti produttivi, e lo stesso lavoro, sebbene nobilitato, sebbene strappato all'infamia classica, lo fu essenzialmente quale forma di preghiera e di espiazione, non tanto ai fini dell'economia. Come avrebbe potuto essere altrimenti, se il cristiano collegava la nascita dell'economia alla caduta dell'umanità nel peccato originale e alla conseguente punizione divina? Perfino la borghesia, che era anch'essa cristiana, non aveva idee chiare su quello che faceva. Di certo rivendicava il diritto di arricchirsi e divenire potente senza ricorrere in via preventiva alla conquista militare, senza seguire le orme della nobiltà feudale: col 'nemico', anziché combattere, si potevano realizzare buoni affari, e addirittura, pareva, con beneficio reciproco. Inoltre, la borghesia andava scoprendo che, mentre la terra non produce terra, il capitale produce capitale, anche se non è evidente il perché, e dunque permette un genere di arricchimento rapido e illimitato. La scoperta rimase equivoca a lungo, il capitale non venne capito subito nella sua intima potenza creativa, troppo spesso venne degradato a mero capitale finanziario, ovvero nuovamente a moneta d'oro improduttiva (la moneta non partorisce moneta). Ci si impegolò nelle dispute sull'interesse e sull'usura, ma intanto la società cambiava a dispetto dei conservatori e dei moralisti, cambiava in attesa di giustificarsi, di giustificare quanto avveniva quasi da sé, per prorompente vitalità, incontrollatamente. Il capitale produce capitale: ecco l'importante. "Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto; esso deve costituire il punto di partenza così come il punto d'arrivo, e deve essere trattato prima della proprietà fondiaria": Marx, nell'introduzione a Per la critica dell'economia politica, affermava l'evidente, dopo alcuni secoli di capitalismo, ma lo affermava dubitando che l'economia politica avesse già spiegato bene come il capitale si autogenerasse. E invero né la scolastica, né il mercantilismo, né la fisiocrazia, né la scuola classica fondata da Adam Smith avevano fugato ogni ombra. Giacevano in fondo alla mente di ognuno gli antichi preconcetti: che il guadagno di una parte doveva essere per forza la perdita in pari quantità di un'altra parte, e che al massimo era la natura a possedere una virtus generativa e a regalarci qualcosa. Lo stesso Marx non sfuggì alla tentazione di scorgere, dietro il capitale che cresce a dismisura, un colossale processo di sfruttamento: non sfruttamento della natura a opera dell'uomo, ma sfruttamento dell'uomo a opera dell'uomo, del proletario a opera del capitalista. L'uomo marxiano era, sì, capace di creare, lavorando, un prodotto netto, un di più rispetto al naturale, un surplus, un plusvalore, ma, come le api, lo creava per farselo predare dal proprietario del capitale. Pertanto, il capitale era il mezzo per estorcere plusvalore al lavoratore e quel plusvalore era anche pluslavoro, poiché tutto il valore economico veniva dal lavoro. Qui stava, secondo Marx, l'efficacia della terribile formula capitalistica, che sconfiggeva la "sconcia neghittosità" feudale obbligando il lavoratore a cadere nell'eccesso opposto di un massacrante pluslavoro prima inimmaginabile. Nell'epoca di Marx i turni di lavoro nelle fabbriche superavano spesso le dodici ore giornaliere, ed era sotto gli occhi di tutti che prolungando l'orario, facendo girare le macchine più a lungo, si aumentava la produzione industriale. In agricoltura non era così: non si otteneva un raccolto doppio, lavorando il doppio sul medesimo campo. Ecco un'altra differenza tra il capitale e la terra, a vantaggio del capitalista che teneva per sé tutto quanto l'operaio produceva in più rispetto al minimo di sussistenza. In una giornata lavorativa di dodici ore, se per esempio ne bastavano sette all'operaio per produrre il necessario a mantenersi in vita e a riprodursi, le cinque rimanenti fornivano beni che il capitalista trasformava in profitto per sé e in fonte di nuovo capitale. E poiché il capitalista era insaziabile nella voglia di accumulare capitale, il capitalismo portava a un grado di sfruttamento dell'operaio superiore a quello del contadino, del servo della gleba, dello schiavo nei sistemi precapitalistici, nei quali vi erano dei limiti dettati da leggi di natura riguardanti la terra. Così "nel suo dominio appena secolare di classe", la borghesia aveva creato forze di produzione "più gigantesche e imponenti" di quelle di tutte le generazioni passate messe insieme (Manifesto del partito comunista). Era la via obbligata verso il regno dell'abbondanza, ma una via spinosa, che il proletariato sanguinante percorreva prestando un immane pluslavoro sotto la sferza del capitale. Lì stava "il grande ruolo storico del capitale", la sua "funzione civilizzatrice". "Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quello di estorcere pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali, e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione [di capitale], di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc." (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. III, pp. 932-933). L'avidità del capitalista serviva uno scopo sociale. E non sorprende che, decenni dopo, Keynes mantenesse una visione sostanzialmente eguale del capitalismo: "L'immensa accumulazione di capitale fisso, che con gran vantaggio dell'umanità venne condotta durante il cinquantennio che precedette la guerra [la prima guerra mondiale], non si sarebbe potuta formare in una società dove la ricchezza fosse egualmente divisa [...]. Negli inconsci recessi del suo essere, la società sapeva quello che si faceva. La torta era realmente piccola in proporzione agli appetiti di consumo, e se essa fosse stata ripartita in giro fra tutti, ben poco ognuno ne avrebbe potuto godere. La società lavorava non per i piccoli piaceri dell'oggi, ma per la certezza del futuro e per il miglioramento della specie; in sostanza per il 'progresso"' (v. Keynes, 1919; tr. it., pp. 15 e 19). Tanto Marx quanto Keynes sostenevano, ovviamente, che il capitalismo sarebbe finito, di morte violenta o di dolce eutanasia, terminata la sua "funzione civilizzatrice", per lasciar posto a un sistema più equo, nel quale l'ottenuta abbondanza diventasse finalmente accessibile al benessere di tutti. Per intanto, il capitalismo era quello che la storia aveva imposto con certe caratteristiche tipiche e fors'anche fatali, che è il momento di riassumere: un apprezzamento degli atti economici e in particolare degli atti produttivi, che l'antichità aveva trascurato e perfino vilipeso; uno spostamento di attenzione dalla terra al capitale, dal naturale all'artificiale, dall'agricoltura all'industria; uno sfruttamento delle nuove occasioni di ottenere pluslavoro e quindi plusvalore, che era stato risparmiato e investito, non consumato se non in minima parte, ai fini della massima accumulazione di capitale. Ciò aveva richiesto, fra l'altro, dei profondi mutamenti giuridici. Il concetto di proprietà, che il feudalesimo applicava alla terra, non poteva certo valere per il capitale della borghesia. La terra feudale era una specie di bene in comune su cui molti vantavano diversi diritti parziali. Il capitale borghese doveva invece essere rigorosamente privato, per essere gestito liberamente dal proprietario capitalista e a suo esclusivo profitto. Affermatosi il concetto borghese di proprietà, esso si era poi esteso anche al settore agricolo (agricoltura capitalistica), per esempio col fenomeno delle enclosures, della recinzione dei campi una volta aperti alla collettività locale. La terra, che era stata a lungo praticamente fuori commercio, col diffondersi del capitalismo subiva la stessa sorte del capitale, cioè si vendeva, si comperava e si affittava con grande facilità, in modo che la gestione finisse col toccare ai più efficienti.Il diritto del lavoro non era mutato meno. Quando la borghesia aveva dato il colpo di grazia alla servitù feudale, la figura del salariato, di infima importanza nell'antichità, si era gradatamente moltiplicata fino a costituirsi come figura normale. Pagato a tempo, il salariato conveniva a un sistema basato sull'indurre l'operaio al pluslavoro e che desiderava assumere e licenziare secondo criteri puramente produttivistici. La mobilità del salariato non era d'altronde che un aspetto della più generale mobilità della gente dalla campagna alla città, da una città all'altra, da un mestiere all'altro, da un mercato all'altro, in una economia non più stazionaria e non più autarchica. Se ci fermassimo qui, disporremmo di un vasto quadro di cambiamenti sociali, senza però esaurire affatto il complesso delle innovazioni intervenute con l'irrompere del capitalismo. E anzi lasceremmo fuori quello che forse è il cambiamento psicologico più radicale e che in modo ellittico possiamo chiamare il cambiamento per il cambiamento. L'analisi del capitalismo fin qui condotta palesemente non soddisfa, se non altro perché non risponde a fondo nemmeno agli interrogativi posti da essa stessa. Non sfugge la rozzezza di una spiegazione che faccia dipendere il plusvalore soltanto dal pluslavoro e da nient'altro, come se non esistessero un progresso organizzativo, un progresso tecnologico, un progresso merceologico e via dicendo. È indispensabile proseguire l'analisi legando ciò che aggiungeremo a ciò che precede, cercando cause comuni e fattori omogenei. Ora, è proprio la passione del cambiamento per il cambiamento ciò che più distinse e distingue il capitalismo, nei suoi momenti più dinamici, dai sistemi stazionari e semistazionari che lo precedettero; ed è pure ciò che lo rese e lo rende accanito nella ricerca del progresso di ogni genere, vale a dire nel tentativo di aumentare i 'gradi di libertà' concessi all'uomo. Fare cose che prima non si sapevano fare, accrescere le possibilità o le scelte a noi concesse, giungere dove nessuno era mai giunto, sperimentare nuovi modi di vita, in una incessante "creazione distruttrice" (per usare le note parole di Schumpeter): in questo consistette e consiste lo spirito capitalistico allo stato puro, nonché il carattere saliente dell'uomo occidentale, che ha finito spesso con l'assumere i tratti del borghese trionfante al culmine della sua parabola. Così il quadro si completa, fors'anche si dilata eccessivamente, ma la timidezza non paga nell'esplorare un sistema tanto esteso e tanto complesso quanto il capitalismo. "Il dinamismo sociale, che chiamasi pure progresso sociale, incute alle masse un vero terrore, in ragione del suo costo, che, se non è per ora misurato e misurabile, è tuttavia vagamente sentito. È questo il fondamento delle opposizioni che incontra. La grandissima maggioranza è in favore di condizioni statiche. Una piccola parte dell'umanità funziona da lievito. Nelle nostre società questa parte della popolazione è più numerosa e incontra minori resistenze che in altre. Eppure, anche nelle nostre società sono manifeste molte correnti che tendono a limitare la variabilità dei gusti, le invenzioni tecniche o sociali, e la concorrenza [...]. Una gran parte del favore che il socialismo trova è dovuta alla speranza che riesca a creare condizioni più stabili, a burocratizzare la vita, ad assicurare pensioni, a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza produce in ogni situazione" (v. Pantaleoni, 1925, vol. I, pp. 220-222). Questa, di Maffeo Pantaleoni, è la costatazione di un fatto razionalmente spiegabile: il costo del progresso non è immaginario, esso consiste nella pena reale associata alla rottura di comode abitudini, nell'offesa che subiscono gli interessi precostituiti in seguito all'irrompere del nuovo, e nei rischi connessi al sovvertimento dell'equilibrio sociale. Il progresso è una serie di salti nel buio: ci pone di fronte a situazioni impreviste e non fornisce garanzie che sapremo scegliere bene quando avremo allargato il ventaglio delle scelte. Oltre all'istintiva diffidenza delle masse per il cambiamento, esiste una concezione colta della vita per cui non dobbiamo cambiare per cambiare, bensì aderire il più possibile a modelli fissi di perfezione, che preesistono e per loro natura non diventano mai obsoleti. La ripetizione, non il cambiamento, è allora il processo sociale ideale: processo collettivo, poiché i modelli sono unici, validi per tutti e non concedono varietà soggettive. Meno convincente è però Pantaleoni quando, per esemplificare casi di dinamismo ridotto al minimo, citava "la storia secolare della Cina e quella dell'India, e il nostro Medioevo". Al contrario, proprio nel nostro Medioevo il cambiamento per il cambiamento si impose per la prima volta, pur fra numerosi ostacoli: proprio allora si prese gusto a una via moderna contrapposta alla via antiqua e cominciò, in nome della ragione, l'attacco frontale agli usi, alle consuetudini, alle tradizioni, alle credenze, agli assoluti (fino a mettere in dubbio la ragione stessa). Il fenomeno non fu affatto limitato al campo dell'economia ed ebbe cause recondite su cui si discute senza fine; ma nel campo dell'economia fu prorompente, avendo trovato nel mercato di concorrenza l'istituzione adatta a dispiegarne gli effetti.Appunto perché l'innovazione economica offende gli interessi precostituiti, essa è l'arma adatta per attaccare e vincere nel mercato di concorrenza. Nel medesimo tempo il mercato di concorrenza è l'istituzione opportuna per fomentare l'innovazione economica, che in esso diventa una necessità vitale: o innovare o perire. Il capitalista accumula capitale, è vero; se non che ci sbagliamo di grosso se pensiamo in termini puramente quantitativi, come se il capitale accumulato fosse sempre della stessa qualità (come accadeva grosso modo con la terra). 'Capitale' è parola generica, che nel capitalismo designa beni non soltanto diversi fra loro nello spazio, ma diversi nel tempo, beni nuovi che sostituiscono incessantemente beni vecchi. L'accumulazione capitalistica non consiste principalmente nell'aggiungere nuovi 'strati' di capitale a quelli già creati, bensì nel rimpiazzare quelli già creati con nuovi strati di maggior valore. L'obsolescenza e l'ammortamento del capitale sono quindi tanto importanti quanto l'investimento. Il capitalismo non costruisce più per l'eternità: il suo capitale è precario, così come sono precari i suoi posti di lavoro. Per accumulare bisogna prima innovare, altrimenti, come vedremo, la crescita si inceppa, si arresta e perfino regredisce, come spiegherà Keynes. Ma neanche Keynes, al pari di tanti altri economisti, riuscirà a svincolarsi del tutto dal pregiudizio quantitativo, e pertanto ci fornirà del capitalismo (di cui era nemico) un'immagine monca. Contrariamente a quanto molti credevano in passato, il Medioevo fu capitalistico anche perché fu un periodo di sostanziale progresso tecnologico. "Lo sviluppo iniziatosi con la rivoluzione comunalcittadina ebbe un alto contenuto tecnologico. Mulini e velieri in primo piano. L'applicazione su larga scala dell'energia idraulica ed eolica mediante l'uso di mulini ai processi di fabbricazione dei tessili, del ferro, della carta e della birra, quindi in altre parole la meccanizzazione mediante uso di energia inanimata nei processi suaccennati, l'adozione dell'arcolaio, i miglioramenti tecnici nell'attività mineraria, i progressi nelle tecniche di navigazione e delle costruzioni navali, l'invenzione degli occhiali, l'invenzione e il progressivo perfezionamento dell'orologio meccanico, l'invenzione della stampa a caratteri mobili, i perfezionamenti nella produzione e nell'uso dell'artiglieria non furono che i punti salienti di un processo cumulativo di sviluppo tecnologico che investì ogni settore della produzione economica e ogni paese d'Europa" (v. Cipolla, 1988, p. 466). La ruota idraulica e la vela perfezionate, il mulino a vento, l'arcolaio, la bussola, l'orologio, ecc., erano nuove forme di capitale create dall'ingegnosità medievale. Distinguiamo però da questo progresso tecnologico un altro tipo di progresso, che nei secoli successivi si sarebbe dimostrato ancor più necessario al capitalismo: il progresso merceologico, che consiste nell'invenzione di nuovi beni di consumo, nuovi come qualità, non importa se fabbricati con tecniche nuove o vecchie. Mentre in pratica il progresso mercantile e quello tecnologico vengono solitamente confusi, l'analisi teorica deve separarli perché (lo vedremo) essi recitano due parti differenti nel sistema di mercato. Gli occhiali sono un esempio di nuovo bene di consumo a disposizione degli europei dal XIII secolo, ma la rivoluzione dei consumi, che sfocerà nel consumismo capitalistico, si realizzerà in massa assai più tardi, dopo la rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo. Il progresso merceologico fu all'inizio soprattutto un progresso mercantile, consistente nell'importare da terre lontane prodotti esotici, rari o affatto sconosciuti. La vigorosa ripresa del commercio facente capo all'Europa, dopo l'anno Mille, non fu soltanto una manifestazione dell'avidità di profitto: fu anche un modo di esprimere, da parte degli europei, la loro sete di novità, di cambiamento, di avventura, di esplorazione, di sperimentazione, come testimonia il Milione del mercante Marco Polo e come perfino le Crociate in un certo senso confermavano. L'Oriente favoloso stimolava la nostra curiosità, e la curiosità diveniva un ingrediente dello spirito capitalistico e dello spirito scientifico, una nostra caratteristica distintiva, che difettava agli orientali. Ficcare il naso in casa d'altri e nei segreti della natura, nella fisica, nella geografia, e farlo con intenti utilitari, fu senza dubbio uno scopo diffuso in Occidente già nel Medioevo e poi destinato a trionfare oltre ogni attesa, fino ai nostri giorni. Per organizzare la nuova rete intercontinentale di traffici venne richiesto un progresso finanziario, oltre che dei trasporti: il capitalismo, in altre parole, si costruì un suo sistema monetario e creditizio per effettuare i pagamenti. Si costruì pure un suo sistema contabile, per il calcolo del profitto, e in entrambi gli esercizi l'Italia fu all'avanguardia. Nella contabilità capitalistica il rischio del cambiamento appare nella specie di un costo anticipato rispetto a un ricavo futuro e incerto. L'attività capitalistica si traduce dunque in una serie di cambiamenti o trasformazioni di costi in ricavi, cui corrispondono sempre delle anticipazioni di valori. Chi produce anticipa il costo del lavoro, delle materie prime, dei macchinari, ecc.; chi commercia anticipa il costo delle merci, che spera di rivendere; chi presta anticipa una somma a favore di un debitore, che ha l'obbligo di rimborsarlo alla scadenza. Il capitalista indossa così i panni di colui che si assume il rischio del cambiamento e dell'anticipazione dei valori, nonché il profitto o la perdita conseguente. Del pari, è capitale qualunque valore anticipato, se consideriamo l'accezione più estesa del concetto, comprensiva dell'idea di capitale quale strumento prodotto in via anticipata per ottenere altri prodotti. Un forno da pane va costruito prima di ottenerne il pane, perciò è capitale e capitalista è il fornaio proprietario. Il quale fornaio mira a ricavare dal pane più di quanto a lui siano costati il forno e quant'altro occorre per la panificazione. Ma mentre qui è facile prevedere con pochi errori il ricavo del pane che il forno consentirà di produrre, il rischio dell'anticipazione aumenta se il capitalista tenta vie nuove, inusitate, senza precedenti, o più lunghe, più perigliose, meno controllabili. La nave che partiva per l'Oriente non avrebbe fatto ritorno prima di mesi e mesi, sempre che le tempeste e i pirati non lo avessero impedito, e il suo carico si sarebbe acquistato e venduto a prezzi largamente imprevedibili. Analogamente, introdurre una costosa novità tecnica, diciamo un nuovo tipo di nave non provato in precedenza, poteva costituire un grosso vantaggio, se l'esperimento riusciva, o un grosso svantaggio, se non riusciva. Sicché la frenesia capitalistica del cambiamento per il cambiamento corrispondeva a effettuare anticipazioni più costose e più rischiose, e in campo economico, non militare. I rischi erano 'calcolati', s'intende, ma calcolarli non significava evitarli. Le famiglie borghesi, che sovente non avevano un passato illustre, non avevano nemmeno un avvenire assicurato: la loro caduta poteva essere tanto repentina quanto la loro ascesa. Il fallimento e la bancarotta assunsero un ruolo sociale mai prima osservato, e la circolazione delle élites accelerò per cause economiche. Mentre a Firenze i Peruzzi e i Bardi si rovinavano, 'uomini nuovi' salivano alla ribalta in un continuo avvicendamento, che la borghesia realizzava ben più della nobiltà. Va da sé che la borghesia arrivata tendeva a stabilizzare la sua posizione ricorrendo, se opportuno, a mezzi corporativi, o a mezzi politici, come fu per i Medici a Firenze, o imitando la nobiltà proprietaria terriera e ritirandosi dai traffici. Non di meno la stessa borghesia aveva irrimediabilmente offeso proprio quella mentalità e quelle istituzioni che avrebbero potuto meglio proteggerla, ed era in qualche misura vittima di se stessa. I borghesi italiani furono pertanto danneggiati da quelli fiamminghi, che lo furono da quelli olandesi, che lo furono da quelli inglesi, che lo furono da quelli americani. La concorrenza, soffocata in un luogo, scoppiava in un altro e ormai tutti i mercati erano poco o molto collegati: si era formato ciò che Immanuel Wallerstein chiama "l'economia-mondo". Peggio ancora, la borghesia, responsabile di quanto accadeva, stentava a farsi riconoscere una funzione positiva fin nei casi in cui aveva innovato con successo e realizzato un indubbio progresso generale. Le sue perdite non intenerivano nessuno e i suoi profitti erano messi in questione da tutti. È altamente significativo che la scienza economica, già nata tardi, dovesse giungere addirittura alla fine del XIX secolo per cominciare a fornire un'adeguata teoria del profitto, la quale, del resto, è tuttora discussa. Ovviamente, senza una tale teoria, non è dato di comprendere il capitalismo, né è dato di confrontarlo col socialismo o con altri sistemi alternativi. Con questo non sosteniamo che il profitto sia una categoria valida soltanto nel capitalismo, o presente soltanto in esso: anzi, vi sono buone ragioni per riconoscerlo come una categoria universale. Il fatto è che chiarire la natura del profitto è un prerequisito di qualunque indagine comparativa sui sistemi economici, appunto per evitare l'errore di pensare che alcuni lo usino e altri no. È piuttosto come lo usano ciò che separa i sistemi e li classifica, qualunque sia il vocabolario usato (il quale può ricorrere ad altri termini equivalenti, se la parola 'profitto' urta per le sue risonanze capitalistiche). E, come diremo a momenti, il discorso sul profitto si estende subito all'interesse, la cui natura è simile. La teoria del profitto è strettamente connessa alla teoria del prodotto netto o del plusvalore, cioè al problema della creazione di un valore non preesistente, non semplicemente trasferito o trasformato. Nel mondo agrario veniva spontaneo pensare che il prodotto netto fosse in qualche modo connesso alla potenza generatrice della natura, soluzione cui si attennero i fisiocrati. Nel mondo industriale, invece, l'intuizione portava in primo luogo a scorgere nel lavoro umano la forza che, aggiungendo qualcosa alla ricchezza preesistente, suscitava nuovo valore economico. Se, insieme a Marx, sosteniamo che il lavoro sia l'unica "sostanza valorificante" e che quindi soltanto il lavoro, anzi soltanto il pluslavoro crei plusvalore, allora il profitto non è un'aggiunta di valore alla produzione, ma una sottrazione di valore al salario. Con questo Marx non negava che il capitale sia produttivo, però ne riduceva la produttività a quella del lavoro, che aveva costruito il capitale stesso, lo strumento, la macchina, la fabbrica. Si viene a dire che il capitale è nient'altro che "lavoro cristallizzato", e che la contabilità in termini di lavoro è tutto quanto serve in economia. Contro questa interpretazione semplificatrice della realtà produttiva si possono tuttavia avanzare dubbi, alcuni dei quali assillarono Marx medesimo. Era evidente che gli incrementi di produzione realizzati dal capitalismo dipendevano solo in parte dalla sua capacità di estorcere pluslavoro mediante il prolungamento della giornata lavorativa, tanto più che si incontrano assai presto dei limiti naturali a percorrere tale strada, essendo in ogni caso impossibile un'attività superiore alle ventiquattr'ore giornaliere. Del pari evidente era che il progresso tecnologico recita una parte importante nello sviluppare la produzione. Esso era interpretabile come un progresso della conoscenza rivolto a scoprire quale lavoro fosse inutile e quindi sopprimibile. Marx ammetteva che non qualunque lavoro, ma soltanto il lavoro utile creasse valore economico: se non che un lavoro apparentemente utile decadeva a lavoro inutile non appena si introduceva una nuova tecnica tale da renderlo obsoleto. La nuova tecnica si attuava mediante una nuova forma di capitale, il quale, dunque, era sì 'lavoro cristallizzato', ma pure 'conoscenza cristallizzata'. Anche se accompagnata dal rischio di una disoccupazione tecnologica, ogni avanzata della conoscenza offriva la possibilità di un'avanzata della produzione, grazie alla scoperta di nuovi e migliori tipi di lavoro utile in sostituzione di vecchi tipi di lavoro divenuto inutile, e a prescindere dal prolungamento degli orari lavorativi, ai quali anzi era consentito di diminuire senza ledere la formazione del plusvalore. Certo, era sostenibile che il tecnico inventore fosse anch'egli un lavoratore al pari di tutti gli altri. Non di meno il suo lavoro manifestava una produttività in larga misura sganciata dal tempo di impegno, nel senso che non bastava pensare durante un tempo doppio per farsi venire il doppio di idee. L'invenzione o la scoperta in campo tecnico rappresentavano poi appena l'inizio di complicati processi innovativi, che occorreva portare a termine per rendere le idee operative, per dimostrarne la bontà pratica, per trasformarle in realtà produttiva, più produttiva di prima. E l'esperienza europea insegnava che, accanto all'inventore, doveva solitamente collocarsi a tal fine la figura dell'imprenditore, una figura spesso coincidente col capitalista e dotata di qualità diverse da quelle del tecnico e dei lavoratori in generale. L'inventore James Watt, per esempio, si era alleato con l'imprenditore-capitalista Matthew Boulton, e le doti d'ingegno del secondo avevano contribuito non meno di quelle del primo al successo economico della macchina a vapore nel corso della rivoluzione industriale. Inoltre, osservando più da vicino l'attività tipica dell'imprenditore-capitalista, che l'economia borghese spingeva alla ribalta, si notavano via via elementi che avevano sempre meno attinenza col lavoro vero e proprio e sempre più attinenza con la mera assunzione di rischi. Il punto da chiarire era se e come l'incertezza, inevitabile nella produzione, avesse rapporti col plusvalore: una questione intricata, che il capitalismo esasperava in un modo senza precedenti, benché essa fosse presente in qualunque sistema economico, compreso il socialismo. In tutti i sistemi economici, infatti, la produzione non è immediata, i costi precedono solitamente i ricavi, e qualcuno deve assumersi i rischi di sopportare dei costi in vista di ricavi futuri e incerti (salvo che l'avvenire sia perfettamente prevedibile). Non si poteva negare che la questione riguardasse anche la natura del profitto, il quale per definizione è null'altro che la differenza tra i ricavi e i costi; differenza accertabile soltanto a posteriori, dopo che i ricavi si siano realizzati, e differenza talvolta negativa, non positiva, nel qual caso si parla di perdita. Il capitalista percepisce il profitto o si accolla la perdita appunto perché anticipa i costi, fornisce un capitale, che è sempre un'anticipazione di valore. La natura dell'interesse è analoga, come spiega l'etimologia: 'interesse', essere tra due valori, uno anticipato, l'altro posticipato. I rischi possono essere maggiori o minori, ma nascono sempre dallo sfasamento temporale, dalla mancanza di sincronia tra quanto si sborsa ora e quanto si incasserà in futuro, se si incasserà. Non che il passaggio del tempo sia condizione sufficiente del plusvalore. Il tempo in sé è una scatola vuota: conta quanto si fa dentro il tempo, e quanto si fa è un'attività lavorativa, produttiva, creativa, spesso innovativa, sempre poco o tanto rischiosa. Ma il passaggio del tempo, trasformando il futuro in presente, toglie incertezza e, se realizza quanto è in potenza nelle risorse iniziali, se mantiene le promesse, costituisce per così dire una forma di produzione, suscita plusvalore, in concorso col lavoro. Infatti, una promessa realizzata è sicura, una promessa solamente annunciata non lo è. La ricchezza fattasi immediatamente godibile vale più della stessa ricchezza soltanto probabile perché differita. Il lavoro del seminatore non garantisce il raccolto, né tanto meno lo garantisce in una misura predeterminata: lo annuncia appena, e in quantità variabile, in attesa che lo scorrere dei mesi faccia la sua parte nel valorizzare il grano. Il carico di spezie a Venezia acquista valore per i veneziani non solo perché si carica delle spese di trasporto dall'India, ma pure perché la sua disponibilità è meno aleatoria di quando era in India.Il fatto che il passaggio del tempo possa creare un valore dal nulla, riducendo l'incertezza, è un fatto universale, da cui discende che, in qualunque sistema economico, il lavoro, in qualsiasi forma si presenti, non è l'unica 'sostanza valorificante': lo è pure la buona sorte e quanto la favorisce, qualora l'uomo non abbia un completo dominio degli eventi economici. Nel socialismo, non meno che nel capitalismo, la collettività sta meglio nel complesso quando il suo lavoro, oltre che essere stato prestato con fatica, mostra infine frutti pari all'attesa, o superiori, grazie all'esito positivo della produzione. Ma se al contrario l'esito fosse negativo, diremmo che la produzione è avvenuta in perdita, anziché con profitto, e che la collettività tutta intera manca di un plusvalore la cui natura è aleatoria. Ciò che veramente distingue il capitalismo dal socialismo non è la presenza o l'assenza del profitto e della perdita: è chi si assume i rischi relativi, se qualche volontario, animato dalla speranza che gli tocchi più spesso un profitto che una perdita, o la collettività senza esclusioni. Nel primo caso, cioè nel caso del capitalismo, il volontario, che è il capitalista, deve essere in grado di effettuare le anticipazioni opportune, che a lui appaiono come costi da sopportare per ottenere il lavoro, il capitale e quant'altro serve alla produzione. In un'economia di mercato egli contratta detti costi coi lavoratori e i rimanenti fornitori di fattori produttivi, ai quali i costi medesimi si presentano al contrario in veste di redditi guadagnati per la partecipazione al processo economico. Al capitalista toccheranno poi i ricavi futuri e incerti, e questo diritto ai ricavi, indeterminati, è la contropartita per il servizio di anticipazione da lui prestato. Nel caso del socialismo, invece, anticipare i costi è un compito collettivo, col che cade la distinzione tra lavoratori puri e capitalisti puri, tutti i lavoratori divenendo anche in qualche misura capitalisti. I redditi spettanti ai lavoratori-capitalisti, nel socialismo, sono teoricamente separabili in una quota di salario e in una quota di profitto (o di perdita). In pratica la distinzione non si fa, perché, se si ragiona a livello collettivo, è indifferente che i redditi abbiano questa o quella origine e, se si ragiona a livello individuale, il calcolo non è fattibile, mancando l'indicazione di quanto ogni lavoratore anticipa. Tutto quello che si può dire è che la collettività non sfugge alle alee della produzione, ma ciascuno le sopporta in modo imprecisato, a causa della confusione tra salario e profitto (o perdita): ciascuno bada solo al proprio reddito complessivo che di solito è stabilito politicamente. Collettivizzare le anticipazioni di capitale suscita problemi politici che il capitalismo non conosce. La collettività (a maggioranza?) o qualche suo rappresentante deve decidere dove e quanto anticipare e come retribuire ciascuno. (È ovvio che la retribuzione non è definitiva se non a posteriori, ossia quando i ricavi sono divenuti certi e si sa se la buona sorte ha operato o no). Anche il più democratico dei socialismi deve contenere elementi di coercizione, che si presentano quanto meno come ordini della maggioranza alla minoranza: se ogni individuo fosse lasciato libero di partecipare o no alle anticipazioni, e di parteciparvi molto o poco, si formerebbe presto un mercato del capitale che trasformerebbe quel socialismo volontario in capitalismo. È lecito inoltre sospettare che, se fosse lasciata alla maggioranza della popolazione la decisione sull'entità e la qualità degli investimenti di capitale, prevarrebbe quel sentimento avverso al rischio di cui parlava Pantaleoni attribuendolo alle masse. Il cambiamento e l'innovazione sarebbero forse ridotti al minimo, e lo stesso progresso tecnologico avrebbe le ali tarpate. A questo proposito va ricordato che gran parte del progresso tecnologico, compreso quello più semplice, esalta le anticipazioni: fabbricare dei pezzi metallici a mano, uno per uno, richiede scarse anticipazioni; ne richiede di più cominciare col fabbricare uno stampo, che ci servirà in seguito per rendere più celere la produzione dei pezzi. Oltre che essere un costo anticipato, lo stampo è un costo fisso: lo sopportiamo nella stessa misura sia che venga usato per produrre un pezzo, sia che venga usato per produrne cento o mille, sicché torniamo a incappare nel rischio dell'anticipazione, se non sappiamo con certezza quanti pezzi saranno richiesti o venderemo. La convenienza di ricorrere allo stampo dipende dunque da previsioni incerte: ben difficilmente si può dimostrare a priori che una qualsiasi innovazione, per quanto elementare essa sia, giovi a tutti, subito e con sicurezza. L'umanità è trascinata sulla strada del progresso tecnologico da minoranze attive, che però operano in condizioni radicalmente diverse nel capitalismo e nel socialismo. Nel capitalismo è il capitalista volontario a imporre l'uso dello stampo, se lo ritiene opportuno, addossandosi tuttavia la perdita in caso di insuccesso: ciò non libererà i lavoratori da tutti i rischi economici, ma almeno da alcuni. Nel socialismo, mentre non è facile che sia l'intera collettività a scegliere lo stampo, è più facile che sia l'intera collettività a correre tutti i rischi connessi al suo uso. Nel capitalismo di concorrenza chiunque è libero di innovare se può anticiparne i costi ed è pronto a subirne le conseguenze dirette, che sono appunto in primo luogo la perdita dei costi anticipati (le conseguenze indirette si diffondono spesso incontrollatamente nella popolazione). Nel socialismo collettivistico non tutti hanno quella libertà, ma chiunque è esposto alle conseguenze dirette e indirette, positive e negative, delle scelte fatte da chi ne ha il potere. E ancora: nel capitalismo di concorrenza è frequente che libere e diverse scelte produttive, effettuate da individui diversi, coesistano per qualche tempo, finché l'esperienza non dimostri quale fra esse sia la migliore; nel socialismo collettivistico si giunge più rapidamente a una scelta uniforme, a causa della minore libertà di decidere e della maggiore capacità di imporre ovunque la stessa decisione. Il procedimento socialistico offrirebbe forti vantaggi se fosse dato di predeterminare con una certa accuratezza, a opera di esperti, gli effetti delle innovazioni proposte e da mettere a confronto; ma questi esperti, pur nel caso di loro massima competenza, è presumibile sappiano molto sul passato e sul presente, ma poco sul futuro. Più l'innovazione è radicale e meno c'è ripetizione, meno esistono i precedenti sui quali fondarsi per arguire quanto succederà anche nel nostro caso. All'inizio del Novecento, tre quarti delle automobili costruite negli Stati Uniti erano o a vapore o a elettricità, ed esse sarebbero state considerate uno spreco se fosse stato noto che la soluzione vincente era costituita dal motore a benzina, sul quale tuttavia gli esperti non puntavano. Nessuna gara meriterebbe di essere disputata se il suo esito si potesse calcolare a tavolino e il vincitore risultasse identificabile in partenza. La concorrenza di mercato presuppone che i concorrenti debbano gareggiare per mostrare virtù e difetti che soltanto la gara stessa mette in luce. Il capitalismo europeo, adottando la concorrenza come sistema ideale (in pratica, s'intende, più o meno corrotto), si era ispirato alle filosofie individualistiche e liberali, insieme alle quali crescerà a partire dalla rivoluzione borghese. Ma aveva pure contribuito all'adozione la singolare storia politica del continente, un continente frammentato in numerosi popoli indipendenti e diversamente creativi, ciascuno col suo genio particolare e le sue particolari esperienze. Un'innovazione di successo in una nazione europea aveva molte probabilità di essere imitata dalle nazioni vicine, mentre i fallimenti in un luogo insegnavano a evitarli nel resto del continente. Questo trionfo della varietà, collegato con la mania del cambiamento, contrastava con gli impulsi verso l'uniformità e la stabilità più tipici degli imperi centralizzati. Nell'Europa occidentale vi erano di continuo nazioni con un'economia caratterizzata da uno sviluppo originale e altre nazioni con un'economia caratterizzata da uno sviluppo imitativo, ma l'imitazione era per lo più considerata una fase transitoria in vista del superamento delle rivali. Il capitalismo, presentandosi come una serie di scommesse sul futuro, premiava la mentalità disposta ad affrontare le alee economiche e anzi a suscitarle, e ciò faceva fino a farsi paragonare a un onnipresente gioco d'azzardo, che trasformava la società in una bisca. Ovviamente ne derivavano e ne derivano anche critiche anticapitalistiche, perché non tutti, nemmeno in Occidente, gradivano e gradiscono quei lati della vita in cui il caso o la fortuna sembrano prevalere sul merito. Tali critiche (noi oggi lo sappiamo dopo tanto discutere) non colpiscono sempre il bersaglio. I razionalisti sono propensi ad attribuire al caso o alla fortuna qualunque successo che essi siano stati incapaci di prevedere. Ora, nel capitalismo di concorrenza gli alti profitti sono spesso dovuti a scelte produttive nuove, non conformistiche, che urtano la 'saggezza convenzionale' e che gli esperti non scorgevano o rifiutavano. Deve essere così: per guadagnare molto serve un fattore di sorpresa, non la routine alla portata di chiunque. Cessata la sorpresa, gli alti profitti di chi ha anticipato i costi vengono 'assaliti' dagli imitatori e da coloro ai quali i costi sono pagati (fra cui i lavoratori, che reclameranno salari maggiori), secondo processi cui Schumpeter dedicò molta attenzione. Resta comunque vero che nel mercato capitalistico la gara concorrenziale non dà la vittoria al 'migliore', secondo criteri razionali (e tanto meno secondo criteri etici o estetici), bensì al produttore il quale, magari per mero accidente, abbia col suo prodotto incontrato la domanda dei consumatori, chiunque essi siano. Non vi è alcun presupposto per cui il gusto dei consumatori debba essere educato o adeguato a canoni convenuti di rispettabilità e la produzione debba mirare all'eccellenza qualitativa, come negli intendimenti corporativi avversi alla concorrenza. Il mercato capitalistico è neutrale, colloca fuori di sé, nella coscienza dei consumatori stessi, ogni responsabilità etica ed estetica, e pur quando cerca di influire sui loro gusti, con la pubblicità commerciale o in altro modo, lo fa esclusivamente per vendere di più. Perciò il mercato capitalistico è disposto a vendere anche libri scritti contro il mercato capitalistico, purché vi scorga una possibilità di guadagno monetario. Le famiglie, le scuole, le chiese, i governi, e altre istituzioni di tal genere mantengono importanti funzioni di indirizzo nelle società capitalistiche, però separatamente dal mercato, almeno in teoria, e nonostante certe inevitabili interferenze reciproche che si osservano nella realtà. Nessun sistema sociale funziona allo stato puro, non di meno le realizzazioni storiche del capitalismo concorrenziale sono ampiamente differenziate da quelle del socialismo collettivistico, appunto perché più si rinuncia al mercato e più si rinuncia alla sua neutralità. Nel socialismo, collettivizzare le anticipazioni o gli investimenti di capitale conduce per forza a collettivizzare i consumi, e quindi ad accrescere gli elementi politici non neutrali che governano i modi di vita.In tutte le società, comprese quelle capitalistiche, vi sono dei consumi proibiti per legge e dei consumi obbligatori, ma nel socialismo la sfera dei consumi lasciati alla discrezionalità individuale è facilmente più ridotta. Lo è per ragioni 'tecniche', connesse a come si formano le scelte collettive, e lo è per ragioni ideologiche, quelle medesime che hanno indotto a collettivizzare. Non si può credere che capitalismo e socialismo si distinguano soltanto nei mezzi usati e non anche nei fini, e che tutto si riduca a stabilire quale sistema sia più efficiente. Il discorso, in termini di efficienza, si ferma quasi immediatamente, non appena cioè cominciamo a scorgere che capitalismo e socialismo hanno talvolta scopi perfino opposti, per cui quanto qui è efficienza, là è inefficienza, e viceversa. Vi sono buoni motivi per presumere che il capitalismo sia il sistema più efficiente per raggiungere i suoi propri obiettivi e il socialismo il più efficiente per i suoi diversi obiettivi. La neutralità del mercato capitalistico si riferisce alla domanda dei consumatori, i quali possono acquistare ciò che vogliono, purché acquistino, in modo che i capitalisti abbiano una prospettiva di profitto. Non è sconosciuto il caso di capitalisti animati da uno scopo morale, che li porta a condannare certi consumi e a proporne altri in sostituzione: per esempio, capitalisti puritani puntarono sull'industria delle bevande gassate per combattere l'alcolismo; ma il successo che il mercato decretò loro prescindeva dalla loro finalità extraeconomica. La funzione del mercato è semplicemente quella di captare, dove esiste, una domanda potenziale insoddisfatta e di trasformarla in domanda effettiva per soddisfarla con profitto.Il mercato non è passivo, non si limita a registrare le domande, bensì le suscita, e questo ruolo attivo è tanto più rilevante quanto più lo sviluppo economico è avanzato e il livello medio dei consumi è alto. I bisogni di prima necessità sono dettati dalla natura in una dimensione quasi fissa e sono all'incirca i medesimi per tutti; i bisogni artificiali e i semplici desideri possono essere invece assai differenti da individuo a individuo, perché dipendono soltanto da noi e sono suscettibili di crescere illimitatamente. Il mercato capitalistico, mediante il progresso merceologico, inventa e propone sempre nuovi beni di consumo, che saranno generalmente beni voluttuari ('superflui' a tutto, tranne che alla ricerca del piacere), per stimolare i bisogni artificiali, i semplici desideri e le domande relative. Mentre perfino Marx lodava il capitalismo per l'enorme capacità di produrre e aumentare l'offerta di merci, si è dato meno peso alla sua ancor più straordinaria capacità di espandere la domanda di merci. E mentre tutti insistono sul progresso tecnologico, può sfuggire che al capitalismo è ancor più indispensabile il progresso merceologico, senza il quale ogni domanda verrebbe presto soddisfatta, e la sazietà dei consumatori e la saturazione del mercato fermerebbero lo sviluppo economico. Il progresso tecnologico è un portato della concorrenza, nel capitalismo, ma può risolversi in definitiva in un aumento del tempo libero dal lavoro, ciò che non interessa al mercato se non in quanto il tempo libero sia esso stesso fomentatore di speciali domande di consumo. Il progresso merceologico, al contrario, tende a frenare l'aumento del tempo libero, inducendo a lavorare per produrre i nuovi beni di consumo, e stuzzica direttamente le domande. Inoltre il progresso merceologico è connesso ai processi concorrenziali di mercato anche più del progresso tecnologico. I capitalisti non gareggiano tanto per soddisfare meglio, a più basso costo, vecchie domande, quanto per accaparrarsi nuove domande, che essi stessi cercano di creare dal nulla. Detto in altro modo: è spesso più facile entrare in un mercato nuovo che allargare la propria quota in un mercato vecchio. Ma in realtà tutti i capitalisti, in qualunque settore operino, si contendono alla fin fine un unico e complessivo potere d'acquisto dei consumatori. Chi vende televisori non è in concorrenza soltanto con gli altri venditori di televisori: lo è pure con i venditori di automobili, di frigoriferi, di qualunque cosa pretenda per sé una fetta del reddito delle famiglie acquirenti. Di qui il relativamente scarso impatto del monopolio nel capitalismo di mercato. È vero che la concorrenza stessa, premiando i vincitori della gara, può renderli temporaneamente dei monopolisti o quanto meno degli oligopolisti, ma (se non intervengono fattori, di solito politici, che impediscano ovunque alla gara di continuare) è raro che si possa dormire a lungo sugli allori. Un ipotetico monopolista nel settore teatrale sarebbe stato minacciato egualmente dal cinematografo muto e poi da quello sonoro, così come un altro ipotetico monopolista in quest'ultimo settore non sarebbe sfuggito all'attacco della televisione in bianco e nero e a colori. Nessun capitalista è mai stato abbastanza potente da controllare tutti i settori e da impedire sempre che ne nascano di nuovi, salvo che la legge gli attribuisca una posizione monopolistica assoluta e universale. Il progresso merceologico, che tanto giova alla concorrenza, è ovviamente rischioso per i produttori che lo praticano e per quelli che lo subiscono. I produttori che lo praticano vedono fra l'altro che esso obbliga di frequente ad allungare i tempi delle anticipazioni di capitale, oltre la durata richiesta dal progresso tecnologico, col quale in pratica è mescolato. Il progresso tecnologico richiede di costruire una nuova macchina, un nuovo impianto o una nuova fabbrica prima di avviare la produzione; il progresso merceologico aggiunge a ciò l'attesa che si formi a poco a poco la domanda in grado di assorbire una nuova produzione. Col progresso merceologico non solo i costi precedono i ricavi, ma l'offerta precede la domanda, che deve 'imparare' i nuovi consumi. "Se l'industria cotoniera del 1760 fosse dipesa interamente dalla domanda effettiva del momento, le ferrovie dalla domanda effettiva del 1830, l'industria automobilistica da quella del 1900, nessuna di queste industrie avrebbe iniziato [...]. La produzione capitalistica dovette trovare il modo di crearsi i suoi propri mercati in espansione" (v. Hobsbawm, 1965). Si comprende quindi perché il progresso merceologico rende più acuto il problema dei costi fissi e spinge le imprese a sostenere anche ingenti costi di propaganda, di pubblicità, di promozione delle vendite. Sono manifestazioni del cosiddetto consumismo, fenomeno la cui importanza è andata crescendo senza tregua con l'evoluzione capitalistica. Il moderno capitalismo consumistico o opulento sembra totalmente opposto al capitalismo pauperistico, del quale ragionava Marx, e al capitalismo austero o 'weberiano'. A questo riguardo va ricordato che Max Weber non era affatto cieco di fronte alla 'democratizzazione del lusso', in corso all'epoca in cui scriveva, e si limitava a osservare che, in certe fasi del capitalismo primitivo, la condotta dei capitalisti respingeva lo sperpero, così come l'avarizia, circa i propri guadagni, i quali andavano risparmiati e reinvestiti con oculatezza per continuare ad accumulare capitale. È indubbio che per certi versi il calvinismo ha contribuito a tale spirito capitalistico di sobrietà operosa, ma senza mai proporsi l'esaltazione dell'economia di mercato. D'altronde, assai prima di Calvino la rivoluzione comunal-cittadina era già avvenuta anche con il proposito di sostituire la parsimonia borghese alle 'mani bucate' del cavaliere feudale, per il quale il disinteresse, la prodigalità, la munificenza, la magnificenza erano titoli d'onore. Si aggiunga che il calvinismo dei capitalisti olandesi all'apogeo della loro potenza era quello 'dolce' di derivazione arminiana, tollerante e per nulla nemico dell'agiatezza. Del pari, l'Inghilterra della rivoluzione industriale richiamava sì, con Adam Smith, i rimbrotti contro gli sprechi e le vanità della nobiltà terriera, ma non predicava l'ascetismo e anzi si avviava, con l'utilitarismo di Bentham, a concepire la vita come un ininterrotto 'calcolo felicifico'. Lo stesso Weber ammetteva che la primitiva austerità del capitalista non era un tratto permanente della psicologia propria del sistema di mercato; e oggi a noi è dato di sostenere molto tranquillamente che l'austerità è caso mai peculiare del socialismo, non del capitalismo. Comunque, merita occuparsi soprattutto del tenore di vita dei lavoratori, che costituiscono la gran massa della popolazione, non di quello dei capitalisti, per quanto non sia irrilevante che costoro talvolta si avvicinino al tipo austero weberiano, talaltra appartengano piuttosto alla leisure class di cui parlava Thornstein Veblen. La tipologia di Veblen distingue pure tra capitalisti industriosi e capitalisti assenteisti, tra capitalisti tecnici e capitalisti finanziari. Esiste sicuramente una grande varietà di personaggi; dubbio è che essi recitino secondo un copione intessuto di leggi sociologiche note. Dunque, a proposito dei lavoratori, il punto saliente è che sino alla fine del Settecento, cioè fino agli albori della rivoluzione industriale, il salario reale non aveva ancora mostrato alcuna tendenza generale a un duraturo aumento. Il miglioramento più vistoso era avvenuto nella seconda metà del Trecento, ma il capitalismo non c'entrava: il merito, se così si può dire, andava alla peste, che aveva ridotto la popolazione e concesso ai pochi sopravvissuti di nutrirsi più facilmente limitandosi a coltivare le terre più fertili. Ricresciuta la popolazione, il potere d'acquisto del salario era disceso verso il consueto minimo di sussistenza. All'inizio dell'Ottocento celebri economisti come Malthus e Ricardo potevano continuare a temere che i fattori demografici avrebbero perennemente ancorato il salario al minimo di sussistenza, e alla metà dell'Ottocento Marx, pur sostituendo ai fattori demografici altre cause, insisteva nel dire che il capitalismo non era in grado di fare meglio. Questa pessimistica 'legge ferrea o bronzea' del salario persisterà a lungo nelle credenze collettive (anche dopo Marx, anche presso i non marxisti), solo un poco moderata dal riconoscimento che il minimo di sussistenza non era fisso, ma legato al grado di incivilimento della società. Se poi qualche ottimista ipotizzava un improbabile progresso materiale della classe lavoratrice, c'era subito chi gli opponeva il pericolo che essa allora cadesse in preda all'ozio, non appena la fame cessasse di costringerla ad andare in fabbrica o nei campi. Col senno di poi ci è concesso oggi di correggere notevolmente il quadro. Il capitalismo, nei luoghi dove la sua fioritura fu più copiosa, contribuì assai presto alla formazione di un suo caratteristico ceto medio che, sebbene non formato da salariati comuni, era abbastanza numeroso. Tale ceto medio fu il primo a godere di quella lenta 'democratizzazione del lusso' che rientra nella logica del capitalismo industriale e di cui il consumismo attuale è una conseguenza che in Occidente si estende fino al ceto operaio. La logica a cui pensiamo punta sullo sviluppo economico illimitato, il quale non è sostenibile con una domanda che derivi esclusivamente dalla sempre piccola frazione della collettività costituita dai più ricchi. Non importa che questa frazione minima costituisca una leisure class dedita a 'consumi vistosi' o un gruppo di capitalisti austeri, che vendono a se stessi beni di investimento: in ogni caso, il mercato ristretto dimostra la sua fragilità ai fini dello sviluppo, e presto o tardi vien fatto esplodere dalla concorrenza e dal progresso merceologico, pena, altrimenti, l'arresto dello sviluppo. L'esperienza storica rivela diversi artifici usati per alimentare la domanda esulando dal mercato, artifici che richiedono un intervento politico (guerre, lavori pubblici, ecc.); ma un conto è rimediare con essi a una breve crisi congiunturale, un altro conto è provvedere a uno sviluppo illimitato e non temporaneo. Se inoltre la spesa pubblica si finanzia con imposte e tasse, essa minaccia di nuocere alla domanda privata e non dà un rilevante e sicuro giovamento alla domanda complessiva, se non in momenti eccezionali. Così pure, l'imperialismo economico e il colonialismo non permettono di ingrossare sistematicamente la domanda, se le popolazioni dominate sono e rimangono povere. Si esporta di preferenza nei paesi con più reddito, non nei paesi con meno reddito di quello del venditore. Ciò che l'esperienza storica ha di veramente fondamentale da insegnarci è che uno sviluppo incentrato su pochi beni di gran lusso, destinati a una piccola minoranza, non può essere rapido né sostenuto. Lo sperimentò anche l'Italia quando, in epoca rinascimentale o poco dopo, sconfitta la sua industria laniera dalla concorrenza dei paesi europei nordoccidentali, dovette ripiegare sull'industria della seta, ossia su produzioni di più alta qualità: fu un espediente che servì a frenare la decadenza, non a capovolgerla. A differenza dei prodotti artigianali, i prodotti industriali sono forniti dalle macchine in massa e per le masse: più si allarga il loro volume e meno incidono i costi fissi, finché i costi unitari sono così bassi da consentire l'acquisto a gran parte della popolazione. Reciprocamente l'aumento del salario reale, purché contenuto entro certi limiti non punitivi del profitto, incita ad adottare macchinari che sostituiscono il lavoro e ne accrescono la produttività. Si possono così formare 'circoli virtuosi', che il capitalismo ha sfruttato varie volte. Si discute se, nei paesi industrializzati e nell'ultimo secolo, il continuo aumento del salario reale, di pari passo con l'aumento della produttività media del lavoro, sia stato strappato dai sindacati dei lavoratori ai capitalisti o concesso dai capitalisti per loro convenienza, per trasformare i lavoratori in buoni clienti. La questione è in parte irrilevante, perché in ogni caso sono state le forze del mercato di concorrenza a operare, non essendo altro il sindacalismo, come si è affermato in Occidente, che un'evoluzione della libertà contrattuale tipica del sistema capitalistico. È a questo punto che gli avversari del capitalismo hanno cominciato a lanciare i loro strali contro la sua forma consumistica, non più contro la forma pauperistica. Dopo la grave crisi mondiale di deflazione del 1929-1934, l'economista britannico John M. Keynes e il suo seguace americano Alvin H. Hansen avevano ipotizzato che il capitalismo maturo e opulento fosse molto vulnerabile e socialmente pericoloso, perché proprio l'alto tenore di vita della popolazione rendeva probabile che i risparmi eccedessero gli investimenti. La moneta così 'tesoreggiata' ristagnava oziosa, non portava ad alcuna domanda di merci, e l'offerta invenduta provocava fallimenti, disoccupazione, cadute del reddito nazionale e un ritorno alla miseria. Senza una socializzazione più o meno ampia degli investimenti il capitalismo consumistico era velleitario, non riusciva ad andare stabilmente oltre una data soglia di benessere, perché l'offerta pletorica stentava sempre più a trovare sbocchi adeguati e remunerativi. La socializzazione degli investimenti si proponeva di rimediare istituendo il Welfare State, la fornitura massiccia di servizi pubblici di sicurezza sociale in sostituzione dell'iniziativa privata; ma, sebbene spesso non lo si dicesse apertamente, ciò avrebbe significato, più che un rimedio, l'eutanasia del capitalismo consumistico, se non di qualunque capitalismo. Nella concezione di Marx il capitalismo pauperistico doveva perire di morte violenta, per ribellione dei proletari; nella concezione di Keynes il capitalismo consumistico sarebbe trapassato senza una rivoluzione sanguinosa e forse addirittura col consenso dei capitalisti, che speravano di salvare il salvabile cedendo ai governi i loro magazzini ridondanti.I keynesiani e i fautori del Welfare State sottostimavano di grosso le capacità di recupero del capitalismo consumistico e gli effetti tonici sulla domanda dell'ulteriore progresso merceologico (si pensi, per esempio, alla valanga di nuovi beni di consumo forniti dalle recenti applicazioni dell'elettronica e avidamente assorbiti dal mercato). Non si fa però giustizia al pensiero keynesiano e anzi, per questo, al pensiero socialistico in generale, se non si aggiunge e non si sottolinea che l'illimitato progresso merceologico non era giudicato soltanto difficile, ma altresì indesiderabile. Tale progresso merceologico veniva posto al passivo, non all'attivo, nel fare il bilancio del capitalismo contemporaneo; ossia i suoi aspetti più consumistici erano e sono deprecati, indipendentemente dall'instabilità economica che possono provocare e dalla volgarità del costume in cui talvolta degenerano. Si temeva e si teme, non senza giustificazione, che l'eccessivo produrre beni 'futili' renda più scarsi, per esempio, i servizi sanitari pubblici per i redditieri delle fasce basse, sottraendo risorse alla sicurezza sociale. Il pensiero socialisteggiante, nel quale rientra in parte, per certi aspetti, quello keynesiano, giunse a riscoprire e a rivalutare, da una particolare angolatura, un genere di virtù simili all'austerità, alla morigeratezza spartana; un genere che ora si opponeva allo sviluppo economico illimitato, come il capitalismo moderno prospettava con le sue seduzioni commerciali. Naturalmente Marx si era già espresso con abilità sulla questione, facendo in modo che il socialismo e più ancora il comunismo non apparissero sistemi rinunciatari o mortificanti, bensì sistemi in cui la creatività umana fosse piena, benché emancipata progressivamente dall'economia. Egli condannava che nel mercato "ogni uomo spera di creare all'altro un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo in una nuova dipendenza e indurlo a un nuovo modo di godimento e però di rovina economica". Denunciava che l'espansione dei prodotti e dei bisogni diventasse "schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari" (v. Marx, 1932; tr. it., pp. 236 e 241). Al di fuori del marxismo sentimenti analoghi erano stati espressi da John Stuart Mill nei Principî di economia politica: "Confesso che non mi piace l'ideale di vita sostenuto da coloro che pensano che lo stato normale degli uomini sia quello di una lotta per procedere oltre; che l'urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che forma il tipo esistente della vita sociale, sia la sorte meglio desiderabile per il genere umano, e non uno dei più tristi sintomi di una fase del progresso produttivo [...]. La condizione migliore per la natura umana è quella in cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera di divenire più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi degli altri per avanzare" (v. Mill, 1848; tr. it., pp. 708 e 713). La conclusione di Mill era che si dovesse puntare, se non sulla fine integrale dell'economia, sulla sua riduzione a uno stato stazionario, che è l'antitesi dello sviluppo capitalistico indefinito. Egli dichiarava che soltanto nei paesi arretrati una maggior produzione restava uno scopo importante, lasciando intendere che l'evoluta Gran Bretagna del suo tempo fosse ormai prossima al punto ottimale e quindi all'arresto della crescita. Morto nel 1873, Mill non aveva previsto tutta la serie di nuovi prodotti legati all'elettricità, che avrebbero impresso all'economia mondiale, e non solo a quella britannica, uno slancio impressionante, né la miriade di altre innovazioni interamente incompatibili con qualsiasi stato stazionario. Chi sosterrebbe che fossero sempre innovazioni da respingere, se non da proibire? Nel secolo successivo Keynes, più prudente, parlava di alcune generazioni destinate ancora a continuare gli sforzi produttivi, prima di poter tirare i remi in barca e contentarsi dell'abbondanza conquistata. Ma Marx, Mill e Keynes erano coscienti di una complicazione, alla quale sapevano di non poter sfuggire se non dando una spropositata dimensione universale ai loro disegni. La loro esortazione a sopprimere gli appetiti 'immaginari' e a terminare la gara concorrenziale implica, oltre alla rinuncia a quanto non è stato nemmeno immaginato, anche la compressione dei desideri di superiorità. Tali desideri, siano essi pure immaginari o appartengano alla realtà della natura umana, sono in ogni caso in contrasto con i disegni di rallentare la corsa, ridurne l'agonismo, darle un traguardo ultimo e definitivo, che livelli in seguito la sorte di vinti e vincitori. Non è sufficiente eliminare la concorrenza all'interno di una singola società se permane la concorrenza fra società diverse, per cui la stasi di una comporta il sorpasso a opera di altre che l'ambizione mantiene in condizioni di sviluppo economico capitalistico. Sono troppo stretti i nessi tra potenza economica e potenza militare perché la rinuncia unilaterale al progresso merceologico illimitato, che in qualche misura frenerebbe anche il progresso tecnologico, non susciti ansia nella società rinunciataria. La rinuncia o è universale o è pericolosa per chi la pratica, e questo falsa la scelta tra capitalismo e socialismo. Se è improbabile che tutti gli individui della medesima società optino volontariamente per il socialismo, ancor meno probabile è che lo facciano spontaneamente tutte le società del mondo. Ma la pacifica coesistenza di nazioni capitalistiche e di nazioni socialistiche sembra obbligare principalmente queste ultime a non essere completamente ciò che vorrebbero (e ciò che potrebbero se fossero sole). C'è per esse il problema di schermare i propri consumatori dalle tentazioni opulentistiche provenienti dai paesi del capitalismo di mercato; e c'è, più serio, il problema di come liberarsi gradualmente dalle catene dell'economia, se lo sviluppo economico illimitato è richiesto quanto meno dalle esigenze militari. Fin quando ci si illuse che, affrontando un identico o simile piano di produzione, il socialismo sarebbe stato molto più efficiente del capitalismo nel realizzarlo, le difficoltà di cui sopra parvero temporanee. Ma ora si comincia a dubitarne, perché si dubita che il socialismo, trascinato a misurarsi col capitalismo usando i criteri del capitalismo, possa reggere il confronto. E ancora: perde di attrattiva per i suoi seguaci un socialismo ideologicamente monco, in cui taluni obiettivi essenziali non siano perseguibili fino in fondo; tanto più che, se si scende a compromessi, anche il capitalismo consente di realizzarne, e per esempio non nega una certa dose di Welfare State, di sicurezza sociale, di stabilizzazione dell'economia, di redistribuzione in senso egualitario dei redditi, di austerità nel costume individuale di vita. Non che nel capitalismo obiettivi come il pieno impiego e l'eguaglianza siano perseguibili a oltranza con la stessa efficacia che nel socialismo. Non lo sono ogni volta che essi entrano troppo in conflitto con la libertà economica, cui gli imprenditori capitalisti non vogliono rinunciare oltre un certo grado. Ma l'economia borghese ha capito che sarebbe vittima di una insopportabile ostilità sociale qualora non ammettesse qualche intervento privato, e soprattutto pubblico, per temperare i mali della disoccupazione e della diseguaglianza che essa suscita purtroppo largamente. Non v'è dubbio che il capitalismo odierno, per certi versi tanto più potente del capitalismo primitivo, sia per altri versi più condizionato da forze contrapposte, che ne riducono i gradi di libertà. Le corporazioni di un tempo proteggevano i padroni assai più degli operai, ma il sindacalismo moderno è eminentemente un fenomeno che accresce il peso dei lavoratori o dei loro rappresentanti nel momento in cui essi contrattano con i datori di lavoro. Poco efficace quando i lavoratori sono dispersi nei campi o in una miriade di botteghe artigiane, l'organizzazione sindacale si rafforza proprio grazie alle grandi fabbriche cittadine, che concentrano i lavoratori e ne facilitano la manovra di massa. E se in origine i sindacati interessavano soprattutto una élite di lavoratori qualificati (i primi ad assumere una 'coscienza sindacale'), poi si è passati all'inquadramento della folla sterminata dei lavoratori comuni, costituiti per lo più da ex contadini inurbati. Il sindacalismo, dunque, ha sfruttato una conseguenza dello sviluppo del capitalismo: la trasformazione delle società di contadini in società di operai. E non è l'unica conseguenza di cui il sindacalismo si sia servito, perché esso ha tratto dalla libertà contrattuale cara al mercato la giustificazione per negoziare con pieno diritto i contratti collettivi di lavoro. I quali d'altronde avrebbero avuto ben poco da ripartire senza la consistente capacità del capitalismo di produrre sempre nuova ricchezza. Ma vi è ancora un presupposto capitalistico alla base dell'ascesa sindacale, un presupposto da ricercare nei nessi tra libertà economica e libertà politica, per cui in Occidente il progresso della democrazia si è associato spesso e volentieri al progresso del sistema borghese di produzione. Le leggi antimonopolistiche, nate per ostacolare i sindacati, si sono risolte infine in seri tentativi politici di impedire la formazione di trusts e cartelli industriali e commerciali. Il che rende semplicistica la tesi che il potere economico, inteso come potere padronale, conquisti regolarmente il potere politico: le cose sono oggi più complesse e certo i sindacati occidentali hanno, col passare degli anni, trovato appoggi in forti partiti politici riformisti, se non rivoluzionari. Il potere capitalistico, il potere sindacale e il potere politico giocano una complicata partita a tre, con schieramenti mutevoli ed esiti diversi. Vi sono momenti in cui prevale la violenza dei contrasti (tutti contro tutti) e altri in cui si forma una specie di consenso generale, per esempio su misure di protezione doganale (ma in merito i consumatori potrebbero parlare di un loro danno causato dalla collusione o connivenza fra i tre poteri). L'abbondante ricchezza capitalistica fa comunque gola al potere politico, che attraverso il fisco vi attinge abbondantemente. Quando circa la metà dei redditi, dei profitti in specie, viene oggi prelevata dalle imposte e dalle tasse, contro appena un decimo o un quinto di non molti decenni fa, è lecito concludere che il fisco recita ormai una parte leonina. Se le proteste di quei contribuenti che non possono o non vogliono evadere sono moderate, è appunto perché la ricchezza nel capitalismo sviluppato è abbondante, e anche perché i governanti usano la spesa pubblica per 'comperare' consensi. Il Welfare State ha raggiunto sovente questo scopo, nonostante i vasti sprechi commessi in suo nome, e lo ha raggiunto cercando di dare un po' di sicurezza ai ceti più deboli di fronte alle vicissitudini congiunturali del mercato. Ma altri tipi di spesa pubblica hanno favorito i capitalisti, anziché danneggiarli, e c'è del vero nella tesi secondo la quale le politiche keynesiane, volendo o non volendo, hanno rafforzato il capitalismo, che richiedeva una qualche regolamentazione pubblica della domanda aggregata. Si pensi poi ai molti servizi pubblici ausiliari alla produzione privata: per esempio, il finanziamento statale della ricerca scientifica e tecnologica, di cui profittano i produttori che ne applicano le scoperte, il credito agevolato agli investitori, ecc. A rendere il quadro ancora più complesso contribuisce la presenza di elementi di discordia all'interno dello stesso fronte capitalistico, che non è affatto omogeneo. La concorrenza è di per sé un motivo di attrito fra capitalisti: in particolare, gli innovatori urtano gli interessi preesistenti, che vorrebbero mantenere lo status quo. Oltre a questo, il capitalismo moderno ha visto talvolta inasprirsi il dissidio tra i proprietari del capitale, da un lato, e i tecnici e i managers, dall'altro. La cosiddetta rivoluzione manageriale dell'ultimo secolo o mezzo secolo corrisponde alla crescita della dimensione delle imprese, che le porta facilmente fuori dell'ambito familiare e impone di assumere dei professionisti specializzati per la loro direzione. La grande impresa societaria può avere il suo capitale frazionato fra milioni di azionisti, fino a divenire una corporation 'pubblica', in cui i proprietari stentano a formare stabili maggioranze di controllo. Si assiste così alle 'scalate' di gruppi, che cercano di ottenere il controllo della società per azioni sottraendolo a maggioranze precedenti. Tuttavia accade talvolta che il vero controllo sia e resti nelle mani di managers, pur quando essi non posseggano alcuna quota del capitale. La crescita della dimensione delle imprese è un fatto peraltro fino a un certo punto inevitabile. L'evoluzione tipica è quella avvenuta, per esempio, nell'industria automobilistica, che all'inizio del nostro secolo, quando il settore era giovane, contava migliaia di piccole imprese, il cui numero si è quindi ridotto man mano che il settore maturava, fino all'attuale oligopolio di pochi grossi produttori: i superstiti vincitori, i selezionati dalla concorrenza. Questo non significa però la scomparsa di tutte le piccole imprese: molte sussistono come fornitrici delle grandi e molte nascono di continuo nei settori giovani, in cui il mercato è ancora embrionale. Le innovazioni importanti non sono necessariamente opera di grosse imprese, che anzi possono rivelarsi conservatrici proprio perché già paghe o appesantite dalla burocrazia interna. Senza sottovalutare la rilevanza delle economie di scala, non va dimenticato che conta anche l'agilità di comportamento, la quale oltre certe dimensioni aziendali si riduce. In anni recenti, proprio mentre molti credevano che il futuro della siderurgia fosse delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i minimills rivelarono in America e altrove i vantaggi di accrescere la produzione in piccole unità facilmente convertibili e subito sfruttate al cento per cento, anziché in grosse unità rigide e poco utilizzate per anni e anni. Inoltre le stesse dimensioni assumono significati diversi secondo le epoche: è ovvio che il progresso delle telecomunicazioni, dei trasporti e dell'informatica restringe il tempo e lo spazio, e permette di costruire senza problemi reti organizzative una volta impensabili. Le imprese multinazionali o transnazionali, frequenti nel capitalismo moderno (sebbene non sconosciute, a parte il neologismo, nei secoli scorsi), testimoniano che funzionano con efficienza organizzazioni produttive private a scala mondiale. Esse hanno capisaldi in diversi paesi sia per avvicinare la produzione alle aree di consumo, sia per sfruttare risorse naturali e forze lavorative locali. A questo proposito va notato che nei paesi di vecchia industrializzazione, anche per il calo del tasso di natalità, si sono esauriti i serbatoi di manodopera, dopo che nelle campagne gli addetti all'agricoltura sono scesi enormemente. Di qui la duplice nuova politica dell'industria capitalistica: trasferire le fabbriche nei paesi ancora sottosviluppati, con manodopera abbondante e a basso costo, o automatizzare la produzione il più possibile. Pertanto, nei paesi di vecchia industrializzazione la percentuale delle forze di lavoro occupate nell'industria è ormai stazionaria o in calo. È il settore terziario o dei servizi che invece si espande proporzionalmente, in media potendo automatizzare meno (a parte l'effetto dell'aumento del reddito pro capite, che favorisce appunto la domanda di molti servizi). Come in precedenza si era passati da società di contadini a società di operai, ora si sta passando da società di 'colletti blu' a società di 'colletti bianchi', con profonde ripercussioni culturali, oltre che economiche. La produttività del lavoro, che non migliora in tutti i settori al medesimo ritmo, influisce sui salari e sui prezzi. I salari tendono ad adeguarsi ovunque alla crescita massima della produttività, che si verifica nell'industria automatizzata: questo significa il rincaro dei costi e dei prezzi nei settori, come il terziario, dove la produttività cresce meno delle punte massime o non cresce affatto. Ne risulta una continua pressione inflazionistica, giacché i prezzi assoluti non calano dove il progresso della produttività è maggiore e salgono dove tale progresso è minore. Se mantenuta entro confini prossimi, tale pressione inflazionistica è accettata o tollerata ampiamente, nonostante i suoi inconvenienti. I venditori sarebbero in ogni caso restii a concedere vistosi ribassi di prezzo, che essi associano a difficoltà di mercato o a crisi congiunturali deflazionistiche. Tutti sono poi contrari alle disordinate oscillazioni dei prezzi, che si verificano per ragioni tecniche in alcuni mercati come quelli agricoli di concorrenza atomistica, e preferiscono le prevedibili regolarità dei prezzi di concorrenza oligopolistica, ancorché siano regolarità in cui l'inflazione è una presenza costante. In termini di ore di lavoro necessarie per l'acquisto, i beni fatti a macchina diventano sempre più accessibili ai consumatori. Non così per i beni la cui produzione non si presta a essere automatizzata. I servizi personali, per esempio, sono oggi più di ieri difficili da acquisire, anche a causa della minore diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, che distingue le società capitalistiche avanzate da quelle preindustriali. Al limite, la perfetta eguaglianza impedirebbe di avere un collaboratore domestico a tempo pieno: bisognerebbe pagarlo dandogli l'intero reddito del padrone. Per quanto cresca di continuo il reddito medio pro capite, alcune forme di vita agiata, che erano godute dai ricchi del passato, non si potranno ripetere e non si diffonderanno nell'intera popolazione. La ricchezza 'democratica' è essenzialmente diversa dalla ricchezza 'aristocratica', per cui l'arricchimento generale non sempre riesce a trasformare la domanda virtuale di beni in domanda effettiva. I beni per loro natura irrimediabilmente scarsi, come le dimensioni limitate di un piccolo luogo di grande bellezza turistica, suscitano problemi irrisolvibili circa la crescita del benessere e del numero di coloro che li appetiscono. Il capitalismo sopporta l'incessante aumento dei salari reali grazie all'incessante aumento della produttività del lavoro, che di norma si ottiene dotando ogni lavoratore di più capitale. Ma ciò non sarebbe sufficiente a conservare un buon tasso di profitto, se il maggior capitale per lavoratore si traducesse anche in maggior capitale per unità di prodotto. In quest'ultimo deprecabile caso il capitale crescerebbe nel tempo più rapidamente della produzione che esso fornisce, per cui sarebbe sempre più arduo remunerarlo adeguatamente, dal punto di vista dei capitalisti privati. Marx (e non soltanto lui) prevedeva nell'Ottocento che la meccanizzazione e l'automazione avrebbero effettivamente sortito tale risultato, mettendo in crisi il capitalismo. Oggi sappiamo invece che, nelle medie nazionali di lungo periodo, il rapporto tra il valore del capitale investito e il valore della produzione che ne deriva non ha mostrato alcuna stabile tendenza a salire.In definitiva, il più importante compromesso del capitalismo è stato quello di riuscire a migliorare i salari reali senza danneggiare il tasso di profitto. Un tasso di profitto costante, applicato a un capitale che si accumula, aumenta via via la massa dei guadagni dei capitalisti nel loro complesso. Quanto ai guadagni medi del singolo capitalista, essi dipendono anche dall'andamento del numero complessivo di capitalisti, sul quale i dati sono carenti. Si sa che il numero dei lavoratori occupati aumenta, durante lo sviluppo capitalistico moderno, meno velocemente del prodotto nazionale e dello stock di capitale, il che appunto determina l'aumento della produttività del lavoro e dei salari reali. Non si sa se il numero dei capitalisti aumenti di più, di meno o nella medesima misura del numero dei lavoratori, ma è certo che nel capitalismo contemporaneo è più frequente la figura del lavoratore-capitalista, ovvero di colui che non è più lavoratore puro, in quanto ha potuto risparmiare e investire una parte dei suoi salari. È pure certo che, nonostante gravi fasi critiche, come negli anni trenta del nostro secolo, il capitalismo si è rivelato notevolmente solido, non così esposto alle sue 'contraddizioni interne' come speravano o temevano taluni suoi studiosi o osservatori. Gli è stata utile la grande capacità di adattamento alle varie circostanze storiche, sociali e politiche, per cui oggi non si discute più tanto sulla fine del capitalismo: si discute piuttosto sulle diverse forme che può assumere, quelle maggiormente accettabili e quelle decisamente da avversare. Intanto, sebbene si sappia poco sulla condizione e sulla psicologia dei capitalisti, si sa però che finora essi si sono mostrati disposti a continuare l'accumulazione di capitale in vari luoghi e circostanze, e a mantenere in corsa un sistema in fondo poco 'sistematico', la cui razionalità globale lascia sovente perplessi. Le nazioni del Terzo Mondo, che oggi tentano di realizzare uno sviluppo economico imitando le nazioni più industrializzate, hanno scelto a volte il modello capitalistico, a volte quello socialistico, senza escludere le innumerevoli forme miste. Sulla scelta ha influito in non pochi casi la rivalità politica tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, con gli aiuti che le due grandi potenze erano disposte a concedere ai loro satelliti. Col passar del tempo, però, ha perso credito la tesi che una rivoluzione politica, come appunto quella sovietica del 1917, sia indispensabile al Terzo Mondo per sfuggire rapidamente all'arretratezza e questo ha accresciuto le chances del capitalismo. Non si deve credere tuttavia che il capitalismo nel Terzo Mondo sia da includere fin da ora nella stessa classe del capitalismo avanzato."In molti paesi del Terzo Mondo il capitalismo che si conosce non è quello industriale, bensì quello mercantile (il capitalismo dei compradores)" (v. Sylos Labini, 1983, p. 184). E l'evoluzione verso tipi più complessi, organizzativamente e tecnologicamente, avverrà - se avverrà - non in condizioni di laissez faire, ma con l'ausilio di interventi pubblici nel campo educativo e nel campo produttivo, a cominciare dall'agricoltura. Ciò presuppone una riforma della pubblica amministrazione nei paesi del Terzo Mondo e l'adozione di sistemi fiscali adeguati agli obiettivi di ammodernamento, e quindi con un minimo di durezze sociali. Il dibattito sulle origini del capitalismo di Alessandro Cavalli sommario: 1. Cenni storici sulle origini del concetto di capitalismo. 2. Le origini del capitalismo nel pensiero di Marx. 3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber e Sombart. 4. La questione del capitalismo medievale. 5. La nascita dell'economia-mondo capitalistica. 6. Conclusioni. □ Bibliografia. 1. Cenni storici sulle origini del concetto di capitalismo Il dibattito sulle origini del capitalismo si sviluppa lungo tutto l'arco della storia delle scienze sociali e della storiografia dagli ultimi decenni dell'Ottocento fino all'epoca attuale. La storia della "questione delle origini" è vecchia di più di un secolo. L'interrogativo sulle origini si intreccia con l'interrogativo sulla natura del capitalismo: chiedersi come e quando il capitalismo sia nato vuol dire chiedersi che cosa sia.La stessa storia del termine 'capitalismo' fornisce una traccia per indagare la storia di questa controversia. Di capitalismo si incomincia a parlare verso la metà del XIX secolo nelle opere di coloro che verranno poi chiamati i socialisti "utopisti". Sembra che il termine compaia per la prima volta negli scritti di Louis Blanc, mentre Marx lo usa solo come aggettivo per denotare uno specifico modo di organizzare l'attività economica, vale a dire il "modo di produzione capitalistico". Il termine nasce quindi molto dopo il fenomeno che con esso si intende indicare. Gli studiosi e i pensatori del XVIII secolo e della prima metà del XIX avevano certo rilevato e descritto con grande acutezza le imponenti trasformazioni che erano avvenute o che stavano avvenendo sotto i loro occhi nella sfera economica e sociale, l'enorme accelerazione che la storia stava subendo nelle aree cruciali dell'Europa. Come riflesso e conseguenza di tali trasformazioni era addirittura nata una nuova scienza, l'economia politica, che si era assunta il compito di elaborare strumenti teorici per analizzare le leggi del divenire economico. Lo stesso Adam Smith, che pure offre ne La ricchezza delle nazioni del 1776 un'analisi illuminante e precorritrice della transizione dal feudalesimo, non aveva avvertito il bisogno di coniare un termine specifico col quale designare sinteticamente e globalmente il sistema economico e sociale che era emerso da tali trasformazioni. L'esigenza di disporre di un concetto di tale natura si presenta quando la realtà che esso pretende di interpretare ha già da lungo tempo fatto la sua comparsa. Le ragioni di questo divario temporale tra concetto e realtà sono da rintracciare nel fatto che i pensatori che 'scoprono' l'esistenza del capitalismo come oggetto di studio e di riflessione sono gli stessi che ne prevedono e annunciano la prossima fine. Agli occhi di costoro l'ordine economico e sociale esistente appare minato da crisi profonde che risultano dal conflitto delle forze che esso stesso ha generato. Tale ordine appare nella sua storicità come qualcosa che è inevitabilmente destinato a finire. Coloro, invece, che ritenevano l'ordine economico e sociale nato dal tramonto del feudalesimo come fondamentalmente stabile, oppure come passibile di ulteriori sviluppi all'infinito, non sentivano l'esigenza di un concetto di capitalismo inteso come configurazione dotata di una specifica individualità storica. La nozione di capitalismo fa la sua comparsa nella storia del pensiero sociale quando ci si interroga sul suo destino, quando ci si chiede che cosa succederà a esso. Se il capitalismo è destinato a finire vuol dire che si tratta di un fenomeno storico e che di esso si può scrivere la storia lungo un percorso che ha un inizio e avrà una fine. La questione delle origini si presenta quindi nell'orizzonte culturale del pensiero socialista, di coloro cioè che parlano di crisi, di declino, oppure addirittura di crollo del capitalismo.Il concetto viene dapprima accolto con sospetto; la matrice ideologica dalla quale è nato sembra impedirne un utilizzo in sede di discorso scientifico. Tuttavia il concetto ha fortuna e viene fatto proprio in un secondo tempo anche da coloro che, lungi dal prevedere la fine del capitalismo, ne celebrano i continui successi, per diventare quindi uno strumento concettuale della ricerca storica, economica e sociologica quando si avverte l'esigenza di un termine che esprima sinteticamente i tratti comuni di un insieme assai disparato di fenomeni, tipici dello sviluppo economico e sociale dell'Occidente. Del dibattito sulle origini del capitalismo analizzeremo alcuni momenti salienti: partiremo da Karl Marx, da Max Weber e da Werner Sombart, affronteremo quindi la questione se sia esistito un capitalismo medievale sulla scorta dei lavori degli storici economici nei primi decenni del secolo, considereremo poi la ripresa del dibattito sulle origini nel marxismo occidentale del secondo dopoguerra, per accennare infine agli sviluppi più recenti. 2. Le origini del capitalismo nel pensiero di Marx Marx, come si è detto, usa il termine 'capitalismo' solo come aggettivo per indicare uno specifico "modo di produzione". La storia per Marx vede una successione di modi di produzione, ognuno dei quali è determinato da un particolare assetto, da un lato delle forze produttive (nelle quali si esprime lo stadio di sviluppo delle tecnologie e delle capacità umane a esse associate) e dall'altro dei rapporti sociali di produzione (cioè dei rapporti giuridico-politici che definiscono le forme della proprietà dei mezzi e delle condizioni della produzione). Per interi periodi storici forze produttive e rapporti sociali di produzione si integrano in modo coerente e si rafforzano reciprocamente. Sono i periodi in cui un modo di produzione è stabile. In altri periodi, invece, lo sviluppo delle forze produttive viene frenato dai rapporti di produzione esistenti e gli elementi costitutivi del modo di produzione entrano in contraddizione. In questi periodi si genera un conflitto insanabile di interessi tra le classi che difendono i vecchi rapporti di produzione e le classi che esprimono le istanze di sviluppo delle forze produttive. Sono i periodi di transizione tra un modo di produzione e il successivo. Come è noto, questa concezione "dialettica" serviva a Marx per spiegare come si sarebbe passati dalle contraddizioni interne del capitalismo all'avvento del socialismo. Il problema dell'analisi della transizione dal capitalismo al socialismo evoca però immediatamente un altro problema, quello della transizione dal feudalesimo al capitalismo, vale a dire il problema delle origini del capitalismo. Mentre però Marx per spiegare la prima transizione parte dall'analisi delle contraddizioni interne del capitalismo (cioè dal termine a quo), per spiegare la seconda parte da un'analisi dei presupposti del capitalismo (cioè dal termine ad quem). Tali presupposti sono da un lato la presenza di una massa di lavoratori 'liberi' provenienti dalle campagne, privi di terra, di mezzi di lavoro e di sussistenza, dall'altro una massa di capitale pronto ad acquistare forza-lavoro e metterla al suo servizio. Marx non formula una teoria della crisi del modo di produzione feudale dalla quale si sarebbero liberati i presupposti del capitalismo. Per spiegare la loro genesi egli deve ricorrere all' "arcano della cosiddetta accumulazione originaria", che condurrebbe all'espropriazione dei contadini e degli artigiani, all'espulsione violenta dei contadini dalla terra (ad esempio mediante le enclosures), in breve alla separazione dei lavoratori dalla proprietà delle condizioni di lavoro, da un lato, e dall'altro all'accumulazione di ingenti somme di danaro mediante il commercio coloniale di rapina, il debito pubblico e la pressione fiscale. L'attore che mette in moto i processi di accumulazione originaria è lo Stato ("violenza concentrata e organizzata della società - come si legge nel XXIV capitolo del I Libro del Capitale - per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi"). L'azione dello Stato, tuttavia, uno Stato che non è più uno Stato feudale ma non è ancora uno Stato borghese, ha esclusivamente la funzione di accelerare processi che dovevano già essere in atto: da un lato la formazione di una classe di piccoli produttori indipendenti, sia contadini sia artigiani, che gradualmente si liberano dai vincoli feudali nelle campagne e dai vincoli delle corporazioni nelle città e si trasformano quindi in piccoli capitalisti; dall'altro lato la formazione di una classe di ricchi mercanti che operano sul mercato che si è aperto su scala mondiale alla fine del XV secolo.Il primo processo opera nella sfera della produzione, il secondo nella sfera della circolazione. I due processi devono però agire congiuntamente per consentire il pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico. Se si fosse dovuta aspettare la crescita graduale dei piccoli produttori, che a poco a poco allargavano le dimensioni delle proprie attività produttive, il processo sarebbe progredito - come scrive Marx - "al passo di lumaca", la transizione si sarebbe protratta per un tempo infinito. E d'altronde lo sviluppo indipendente e isolato del capitale commerciale (così come era avvenuto nell'antichità rispetto all'economia schiavistica) avrebbe piuttosto consolidato invece che disgregato il vecchio modo di produzione feudale (com'era in parte avvenuto nelle città italiane del Medioevo e più tardi nelle regioni dell'Europa orientale). È stata quindi la combinazione dei due processi, accelerata dal ruolo dello Stato nell'accumulazione originaria, a scatenare secondo Marx la dinamica del nuovo modo di produzione. Entrambi i processi sono indispensabili e interdipendenti, tuttavia a seconda che nella combinazione prevalga il primo oppure il secondo gli esiti saranno diversi. Marx parla, infatti, in un passo che è stato frequentemente ripreso nelle discussioni successive (Il capitale, Libro III, cap. XX), dell'esistenza di due vie: "Il passaggio dal modo di produzione feudale si compie in due maniere. Il produttore diventa commerciante e capitalista, si oppone all'economia agricola naturale e al lavoro manuale stretto in corporazioni dell'industria medievale urbana. Questo è il cammino effettivamente rivoluzionario. Oppure il commercio si impadronisce direttamente della produzione. Quest'ultimo procedimento, pur rappresentando storicamente una fase di transizione [...] non porta in sé e per sé alla rivoluzione dell'antico modo di produzione". Questo passo è, come vedremo, molto importante perché indica come in Marx non vi sia una spiegazione unica della genesi del capitalismo. Egli postula l'esistenza di almeno due vie e apre quindi il campo a una spiegazione più articolata che suggerisce l'esigenza di un'analisi comparativa. 3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber e Sombart Per Weber il problema delle origini del capitalismo non si risolve spiegando come si siano formati da un lato il capitale e dall'altro il lavoro salariato. Già l'antichità e il Medioevo avevano conosciuto, in forme diverse, sia l'uno che l'altro; il fenomeno da spiegare è piuttosto come mai solo in Occidente, nei secoli XVI e XVII, coloro che disponevano di capitali accumulati in forma monetaria furono indotti a impiegarli in modi qualitativamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato. L'elemento nuovo da spiegare è quindi l'emergere di una condotta orientata al guadagno, che sfrutta le opportunità di mercato mediante l'organizzazione razionale dell'impresa. Non possiamo parlare di capitalismo, per Weber, se non quando compare e si afferma l'impresa capitalistica, vale a dire l'organizzazione razionale del lavoro libero dalle obbligazioni di carattere servile.L'impulso acquisitivo non ha nulla di specificamente capitalistico. Esso è diffuso in tutte le società, in tutte le epoche e in tutti i ceti sociali. Il capitalismo, scrive Weber nelle pagine iniziali del famoso saggio sull'Etica protestante e lo spirito del capitalismo, "può addirittura essere identico con la coercizione o almeno con il temperamento razionale di questo impulso irrazionale". Lo stesso grande commercio medievale, dal quale pure sono nate le forme giuridiche che in seguito ha assunto l'impresa capitalistica, era orientato prevalentemente a lucrare sulle differenze di prezzo esistenti tra un luogo e l'altro, era quindi eminentemente speculativo e irrazionale, reso possibile dall'assenza di un vero e proprio mercato internazionale. L'istituzione distintiva del capitalismo è quindi l'impresa razionale che produce merci per il mercato in vista di un profitto da reinvestire nell'impresa stessa. Il terreno di sviluppo dell'impresa è la produzione industriale ed è solo da quando il nuovo spirito si impadronisce della produzione industriale che possiamo datare la nascita del capitalismo: "I portatori - scrive Weber - di quel nuovo modo di sentire che abbiamo definito 'spirito del capitalismo' non furono affatto esclusivamente o prevalentemente gli imprenditori capitalistici del patriziato commerciale, ma piuttosto gli strati in ascesa del ceto medio industriale". Si tratta di uomini nuovi, di parvenus, che assumono un orientamento radicalmente innovativo, improntato a sobrietà e razionalità, verso l'attività economica. Una componente essenziale della spiegazione della genesi del capitalismo deve pertanto dar conto di come questo nuovo spirito sia nato: è a questo punto che Weber avanza l'ipotesi suggestiva che questo nuovo spirito si sia formato nel clima culturale delle sette protestanti di matrice calvinista, che predicavano una condotta di vita fondata sul controllo degli impulsi irrazionali e volta al perseguimento del successo mondano come segno della grazia divina. Tradotto in termini di etica economica, tale orientamento risultò inintenzionalmente del tutto congeniale al perseguimento del fine astratto della massimizzazione del profitto di lungo periodo dell'impresa capitalistica. Quest'ipotesi di Weber è stata da molti, ed erroneamente, interpretata come il tentativo di contrapporre a una spiegazione materialistica e strutturalistica della genesi del capitalismo una spiegazione spiritualistica e culturalistica. Egli vuol soltanto dimostrare l'esistenza di una singolare "affinità elettiva" tra l'etica delle sette calviniste (che ricostruisce minuziosamente sulla base dei testi dei predicatori, più vicini al modo di sentire comune, piuttosto che sui testi teologici dei fondatori) e lo spirito del capitalismo. Una volta che l'impresa si è affermata come modello generalizzato di organizzazione dell'attività economica, essa non richiede più la presenza di un sostegno soggettivo di origine religiosa. Tutti coloro che operano sul mercato finiscono inevitabilmente, anche contro la loro volontà, per essere condizionati da questo 'spirito': è l'impresa stessa, come formazione oggettiva, a riprodurre continuamente i motivi soggettivi che ne garantiscono l'esistenza. La spiegazione delle origini del capitalismo non si esaurisce tuttavia nella spiegazione della genesi dello spirito del capitalismo. È soltanto in un ciclo di lezioni tenute poco prima della morte, e pubblicate postume col titolo di Wirtschaftsgeschichte, che Weber ci offre un modello esplicativo articolato e complesso delle origini del capitalismo. In quest'opera l'etica protestante rimane come elemento decisivo per la spiegazione di uno soltanto dei fattori la cui compresenza è necessaria perché si possa parlare di capitalismo. Il concetto stesso di capitalismo deve venir allargato per comprendervi una pluralità di componenti: la proprietà privata dei mezzi di produzione; una classe di lavoratori senza proprietà, liberi di vendere la propria forza-lavoro e costretti a farlo "sotto la frusta della fame"; la libera circolazione di beni e fattori di produzione, senza restrizioni irrazionali di ordine politico o monopolistico; un ordinamento giuridico e amministrativo razionale che garantisca la prevedibilità e l'efficacia delle regole del mercato; l'uso di tecnologie razionali, sia nella produzione sia nelle procedure amministrative e contabili, tali da assicurare una gestione fondata sul calcolo del reddito e del capitale. Per spiegare la genesi di un sistema così articolato bisogna far ricorso sia a fattori di ordine culturale che influenzano gli orientamenti, gli atteggiamenti e le motivazioni dell'agire economico, sia a fattori di ordine istituzionale. Tra questi ultimi risulta di decisiva importanza la formazione dello Stato burocratico moderno, fondato su un ordinamento legale-razionale, sul concetto di cittadinanza, sul monopolio della violenza, sul monopolio monetario e fiscale, sulla presenza di un corpo di funzionari stipendiati. La nascita del capitalismo non è imputabile a un unico fattore, ma a una costellazione di fattori, anzi a una singolare combinazione di fattori che si è realizzata soltanto nelle regioni nordoccidentali dell'Europa tra i secoli XVI e XVII. Altrove, in altri paesi e in altre epoche, ad esempio nell'Italia medievale e rinascimentale, molti di questi fattori erano presenti e sviluppati, ciò che mancava era la loro combinazione. L'ultimo Weber non ridimensiona quindi l'ipotesi dell'etica protestante, la inserisce piuttosto in un modello esplicativo plurifattoriale, sulla base del quale egli imposta una serie di ricerche comparative volte a spiegare come mai il capitalismo, nella sua configurazione di capitalismo moderno, sia nato soltanto in Europa e non altrove, come in Cina, dove pure erano presenti molti prerequisiti per il suo sviluppo.Le tesi weberiane hanno avuto grande risonanza e suscitato un nutrito dibattito: K. Kautsky, R. Tawney, C. Hill, K. Samuelsson, H. R. Trevor-Roper e, in Italia, A. Fanfani e L. Pellicani, tra gli altri, hanno posto in discussione questo o quel punto dell'argomentazione di Weber, sia sul piano teorico, sia sul piano storiografico. In particolare, le discussioni hanno riguardato se, e in che misura, le tesi weberiane possano essere interpretate come una confutazione dell'impostazione marxiana. Non è possibile in questa sede entrare nel dettaglio di questo dibattito. Sembra tuttavia possibile concludere che sia Marx che Weber pongono l'accento sul fatto che non si può parlare di capitalismo fino a quando non incominciano a trasformarsi in modo radicale le strutture produttive. Entrambi avanzano seri dubbi sul fatto che i grandi commerci a lunga distanza, che hanno condotto all'accumulazione di ingenti somme di capitale mercantile almeno dal XIII secolo in poi, possano di per sé essere considerati forme capitalistiche. Il capitalismo moderno si differenzia dalle forme precedenti di capitalismo proprio per il fatto che il suo dominio si estende alla sfera della produzione di merci e non rimane circoscritto alla sfera della circolazione. Non si può parlare di capitalismo, quindi, prima del XVI secolo. Negli stessi anni in cui Weber lavora sulle origini dello spirito del capitalismo nell'etica protestante esce il primo volume della monumentale opera di Werner Sombart, Der moderne Kapitalismus (1902). Quest'opera è assai importante perché con essa il termine capitalismo entra definitivamente a far parte del bagaglio della ricerca storiografica e sociologica. Per Sombart, come per Weber, si tratta di spiegare la nascita dello spirito del capitalismo, nel quale egli sottolinea la presenza di una duplice componente: l'orientamento acquisitivo, che indirizza l'attività economica verso l'accumulazione di ricchezza e non più soltanto verso il soddisfacimento dei bisogni, e la razionalità nella condotta degli affari, che infrange i condizionamenti della tradizione. La nascita di questo spirito corrisponde alla formazione di un nuovo gruppo sociale costituito dagli imprenditori capitalistici. L'origine sociale di questo gruppo non è omogenea; essi possono essere reclutati da tutti i ceti sociali (nobili, mercanti, artigiani, contadini), ma soprattutto da gruppi sociali marginali come gli Ebrei, gli eretici e gli stranieri, poiché le condizioni di marginalità sociale favoriscono la rottura della tradizione e aprono la strada all'innovazione. Il mercante medievale non è ancora un imprenditore capitalistico. Anche se i suoi traffici si svolgono su lunghe distanze e se ha creato forme associative che precorrono le moderne società di capitali, l'orizzonte delle sue mete resta vincolato alla tradizione e le sue pratiche non escono dai rigidi confini tracciati dalle norme delle gilde mercantili volte essenzialmente a impedire la concorrenza tra gli associati. Bisognerà aspettare il Rinascimento, quando il ceto dei mercanti si intreccia con il patriziato urbano e il capitale mercantile con la rendita fondiaria urbana, per veder affiorare i tratti del nascente spirito borghese. Per Sombart è Leon Battista Alberti il vero precursore del moderno imprenditore capitalistico, ma si tratta, appunto, soltanto di un precursore che testimonia del fatto che il capitalismo non è ancora nato. La tematica sombartiana della formazione dell'imprenditorialità fu ripresa in seguito da quegli storici, economisti e sociologi per i quali la nascita del capitalismo corrisponde all'irrompere dell'innovazione nei suoi aspetti tecnologici, organizzativi e culturali. Basta ricordare, tra tutti, J. A. Schumpeter, per il quale l'origine e il destino del capitalismo sono indissolubilmente legati all'emergere e al declino della funzione innovativa dell'imprenditore. 4. La questione del capitalismo medievale Le tesi di Sombart si opponevano agli assunti di certa storiografia romantica, soprattutto tedesca, per la quale le origini del mondo moderno, e quindi anche del capitalismo, non erano da rintracciare nell'epoca recente delle rivoluzioni borghesi, ma ben più indietro nei secoli; essa tesseva l'apologia del mercante medievale come precursore del moderno capitano d'industria.Tra coloro che reagirono vivacemente alle tesi di Sombart si possono ricordare Brentano e Dopsch. Per Lujo Brentano (v., 1916) già le spedizioni dei Crociati erano organizzate su base capitalistica ed è allora che nasce il moderno spirito mercantile. Per Dopsch (v., 1930) già il periodo carolingio appartiene all'era capitalistica, poiché in esso riprende con slancio la tendenza all'accumulazione illimitata della ricchezza, sia in forma reale (soprattutto la terra) sia in forma monetaria. Appare chiaro che l'oggetto di cui questi autori vogliono ricercare le origini non è sempre lo stesso: per Brentano la nascita del capitalismo coincide con l'avvento e lo sviluppo dell'economia monetaria a scapito dell'economia naturale, per Dopsch risulta capitalistica ogni forma di accumulazione della ricchezza. Quanto più remote le origini, tanto più generico il concetto di capitalismo utilizzato; il concetto stesso perde la capacità di individuare fenomeni storicamente specifici e le origini del capitalismo si perdono quindi nella notte dei tempi. Nel dibattito sul capitalismo medievale la posizione forse più interessante fu assunta da H. Pirenne, se non altro per il fatto che è stata ripresa molte volte in seguito, anche nelle discussioni più recenti. Contrariamente a Marx e a Weber, per Pirenne le origini del capitalismo sono strettamente legate alla ripresa degli scambi mercantili nel tardo Medioevo. Il capitalismo nasce quando il commercio cessa di essere un'attività occasionale (come lo era nelle corti feudali), oppure un'attività di rapina (come lo era quello dei Crociati), e diventa un'attività professionale e continuativa di un nuovo ceto mercantile che contribuisce in modo decisivo al rifiorire della vita delle città, praticamente estinta nei lunghi secoli dell'alto Medioevo, e che lotta contro l'ordine feudale per affermare la propria autonomia. Non bisogna confondere, avverte Pirenne, Medioevo e feudalesimo: vi è un primo Medioevo in cui la ricchezza, nelle mani dell'aristocrazia feudale, non circola e non si trasforma in capitale, e vi è un tardo Medioevo in cui l'asse si sposta verso le città dove si intrecciano le correnti dei traffici mercantili. Le città tardo-medievali, prima in Italia e poi nei paesi dell'Europa settentrionale, sono per Pirenne il luogo di nascita del capitalismo. Le tesi di Pirenne furono riprese nel secondo dopoguerra dall'economista marxista americano Paul Sweezy in un saggio ormai famoso, pubblicato nel 1950 sulla rivista "Science and society": in esso Sweezy polemizza con i risultati delle ricerche di Maurice Dobb, uno storico marxista inglese, pubblicati qualche anno prima in un libro altrettanto famoso, Studies in the development of capitalism (1946). Dobb aveva sostenuto che i grandi mercanti e banchieri dal XIII al XV secolo non potevano essere considerati esponenti di una nascente borghesia capitalistica; essi commerciavano in denaro, in beni di lusso e in armi per soddisfare i bisogni di un'aristocrazia feudale le cui rendite erano sempre più insufficienti per coprire le spese delle corti signorili. Il loro contributo alla nascita del capitalismo fu decisivo solo nel senso che, come classe parassitaria, favorirono l'indebolimento economico della nobiltà fondiaria feudale. Il capitalismo non sarebbe nato senza la formazione autonoma di una classe di piccoli e medi produttori di merci, reclutati tra le fila dei contadini benestanti (gli yeomen) e della piccola nobiltà (la gentry), che diedero vita alle prime manifatture, fondate sul lavoro salariato e svincolate dalle restrizioni imposte dagli ordinamenti delle corporazioni. Fu questa classe a esercitare un ruolo economicamente e politicamente rivoluzionario, capace di spezzare la logica di funzionamento dell'economia feudale e del lavoro servile. Sweezy, invece, richiamandosi esplicitamente a Pirenne, parte da una concezione del feudalesimo come sistema di produzione statico, volto esclusivamente alla copertura dei bisogni dettati dal costume e dalla tradizione, incapace di innovazione nelle tecniche e nei metodi di produzione e quindi ostile a ogni tendenza all'accumulazione. Tale sistema risulta incompatibile con l'economia di scambio e quindi la causa primaria del suo declino deve essere ricercata nello sviluppo dell'economia urbana che cresce nel suo seno come una specie di corpo esterno. Un sistema statico è un sistema privo di contraddizioni interne e può essere messo in crisi soltanto quando al suo esterno si sviluppa un sistema più efficiente e razionale che trova il suo fulcro nelle città. Ciò non vuol dire, però, che i secoli che vedono uno sviluppo prorompente dei commerci e la fioritura delle città (grosso modo dal XIII al XVI secolo) siano già secoli capitalistici. Sweezy propone di chiamare il sistema economico di questo periodo intermedio di transizione, non più feudale ma non ancora capitalistico, "sistema mercantile precapitalistico". Non è possibile in questa sede richiamare nel dettaglio i vari interventi che si sono succeduti nel dibattito seguito alla contrapposizione tra Dobb e Sweezy. Al centro di questo dibattito si collocano comunque due interrogativi fondamentali: 1) se e come il capitale mercantile abbia o meno esercitato una funzione di disgregazione dell'ordinamento economico e politico feudale; 2) se e come il capitale mercantile abbia costituito una premessa indispensabile per lo sviluppo del capitalismo industriale.È probabilmente impossibile dare a questi interrogativi una risposta univoca e trovare una soluzione che si applichi a situazioni storicamente diverse: dall'Italia del tardo Medioevo ai Paesi Bassi e alle Fiandre, dall'Inghilterra dei secoli XVI e XVII all'Europa orientale e al Giappone. Un modello adeguato di spiegazione delle origini del capitalismo deve essere in grado di dar conto del fatto che i punti di partenza e i punti di arrivo del processo sono diversi in paesi e in epoche diverse. Tale modello può risultare pertanto solo da un'analisi storico-comparativa che tenga conto sia delle specifiche condizioni storiche in cui il capitalismo è comparso - oppure non è comparso - nei vari paesi, sia dei rapporti di interdipendenza generati dallo sviluppo capitalistico su scala mondiale.Già H. K. Takahashi, uno storico giapponese di tendenza marxista, aveva sottolineato come in Giappone la formazione del capitalismo avvenne seguendo un percorso opposto a quello dell'Europa occidentale, cioè essenzialmente attraverso la trasformazione del capitale commerciale e monopolistico in capitale industriale, sotto il controllo dello Stato feudale, senza che venisse intaccata la struttura della proprietà feudale e si desse la formazione di un ceto borghese libero e indipendente. E, analizzando le differenze dello sviluppo industriale della Russia e dell'Europa occidentale, A. Gerschenkron aveva avvertito come bisognasse accuratamente tenere distinti i casi dei paesi first comers (dove cioè il capitalismo era nato per primo) da quelli dei paesi late comers (dove cioè la nascita del capitalismo non solo era stata ritardata, ma era avvenuta in un contesto economico mondiale trainato dai primi). 5. La nascita dell'economia-mondo capitalistica Il dibattito sul capitalismo medievale aveva messo in luce i limiti di una visione troppo eurocentrica del problema delle origini del capitalismo: non solo bisognava trovare una spiegazione al fatto che all'interno dell'Europa lo sviluppo era stato molto diseguale nei diversi paesi, ma bisognava pure spiegare come e perché il capitalismo si fosse sviluppato altrove tardivamente e seguendo percorsi diversi. Un contributo importante alla risposta a questi interrogativi è venuto dalla monumentale opera di Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (1979), e dal lavoro di Immanuel Wallerstein The modern world-system. Anche Braudel si riallaccia alle tesi di Pirenne sulle origini mercantili del capitalismo moderno; i primi capitalisti si curavano assai poco del sistema con cui venivano prodotte le merci che vendevano e comperavano e la produzione artigianale accompagna il capitalismo per un lungo tratto della sua esistenza. Rispetto a Pirenne egli richiama però la necessità di operare una distinzione più netta tra commercio locale (esercitato da una miriade di piccoli negozianti) e commercio a lunga distanza, esercitato da un gruppo ristretto di mercanti ricchi e politicamente influenti. Solo in questi ultimi si possono riconoscere i tratti del capitalismo, in quanto essi tengono le fila di un sistema di scambi che va oltre i confini di ogni singolo Stato. Il capitalismo è infatti, fin dalle origini, un'economia-mondo. Un'economia-mondo è caratterizzata da tre elementi: a) occupa uno spazio geografico che abbraccia una pluralità di Stati territoriali; b) è governata da un polo centrale che storicamente si sposta nello spazio (da Venezia e Genova nel XIV e XV secolo, verso Amsterdam nel XVI e XVII, Londra nel XIX e New York nel XX); c) si articola in zone successive che vanno dal centro (il cuore) alle aree intermedie (la semiperiferia) e alla periferia. Lo spostamento del centro (décentrage, récentrage) dal Mediterraneo al Mare del Nord e infine all'Oceano Atlantico segna i momenti di crisi e nello stesso tempo le tappe fondamentali dello sviluppo dell'economia-mondo capitalistica: il capitalismo non ha un solo luogo e una sola data di nascita, poiché ogni volta che il suo centro si sposta è come se rinascesse in una forma nuova. Wallerstein mutua direttamente da Braudel il concetto di economia-mondo capitalistica, intesa come un sistema che si estende oltre i confini di ogni Stato, fino a comprendere l'area coperta dalla rete degli scambi internazionali. All'interno dell'economia-mondo si sviluppa - a partire grosso modo dal 1450 - un sistema di divisione del lavoro tra aree centrali, semiperiferiche e periferiche, in base al quale non tutti i beni che entrano in circolazione sono prodotti da imprese che adottano rapporti capitalistici di produzione. I rapporti di produzione di tipo feudale o schiavistico che sopravvivono all'interno dell'economia-mondo capitalistica non sono pure sopravvivenze di modi di produzione precedenti, destinati a estinguersi nel processo di sviluppo del capitalismo. La ripresa del lavoro servile nell'Europa orientale, conseguente all'apertura del mercato mondiale alla produzione cerealicola di quelle aree, oppure lo sviluppo della schiavitù nelle piantagioni di cotone, zucchero e caffè del continente americano, non costituiscono residui di un passato remoto, ma sono il prodotto della divisione del lavoro nell'economia-mondo capitalistica. Il capitalismo quindi produrrà effetti diversi a seconda che una regione si collochi al centro oppure alla periferia del sistema.A questo punto anche Wallerstein si pone l'interrogativo: come mai l'economia-mondo si è affermata in Europa e non, ad esempio, in Cina? La risposta è che mentre l'Europa tra il XV e il XVI secolo era una nascente economia-mondo composta di piccoli imperi, di Stati nazionali e di città-Stato, la Cina era invece un grande Impero continentale e, mentre in Europa il sistema feudale aveva comportato lo smantellamento della struttura imperiale, in Cina il sistema delle prebende aveva contribuito a mantenerla e a rafforzarla. La pluralità degli Stati gioca in Europa come un potente fattore di sviluppo economico e tecnologico, la solidità dell'Impero ostacola invece in Cina la formazione di una rete estesa di commercio internazionale e l'accumulazione di capitale. Non esiste quindi un unico processo di transizione al capitalismo, ma una pluralità di processi, ognuno dotato di una propria specificità spazio-temporale a seconda della collocazione, centrale, periferica o esterna all'economia-mondo capitalistica; i diversi processi avvengono nel quadro di una rete di interdipendenze costituita dalla presenza di un sistema mondiale gerarchizzato al suo interno. La pluralità delle vie della transizione non rispecchia dunque soltanto la specificità delle condizioni storiche locali, il retaggio di passati diversi, ma anche la specificità della collocazione dei singoli paesi in un sistema mondiale che condiziona modalità e tempi dello sviluppo. Di recente, anche uno studioso italiano, L. Pellicani (v., 1988), ha cercato di spiegare come mai il capitalismo sia nato in Europa e non in Oriente. Per Pellicani fu l'intrinseca debolezza dello Stato feudale a preservare l'Europa dall'esperienza degli imperi totalitari di stampo orientale, che con la libertà politica avevano soffocato anche i commerci e la vita delle città. Il feudalesimo non riuscì invece a impedire che in Europa (e prima di tutto in Italia) si sviluppasse l'esperienza del tutto originale delle città-Stato, che quindi sono da considerare come la vera culla del capitalismo. La data di nascita del capitalismo oscilla dunque a seconda delle varie tesi lungo l'arco di tempo che va dal X al XVII secolo. Il problema appare ben lungi dall'essere risolto. Il dibattito dura ormai da più di un secolo e tutto lascia prevedere che continuerà anche in futuro. Ogni generazione di studiosi pone in modo nuovo vecchi interrogativi e ne formula di nuovi. In questo, come in altri campi, la ricerca è senza fine, nonostante il processo graduale e continuo di accumulazione del sapere. Il dibattito sulle origini del capitalismo, ha scritto Alessandro Cavalli, si sviluppa lungo tutto l'arco della storia delle scienze sociali e della storiografia dagli ultimi decenni dell'Ottocento fino all'epoca attuale. La storia della "questione delle origini" è vecchia di più di un secolo. L'interrogativo sulle origini si intreccia con l'interrogativo sulla natura del capitalismo: chiedersi come e quando il capitalismo sia nato vuol dire chiedersi che cosa sia.La stessa storia del termine 'capitalismo' fornisce una traccia per indagare la storia di questa controversia. Di capitalismo si incomincia a parlare verso la metà del XIX secolo nelle opere di coloro che verranno poi chiamati i socialisti "utopisti". Sembra che il termine compaia per la prima volta negli scritti di Louis Blanc, mentre Marx lo usa solo come aggettivo per denotare uno specifico modo di organizzare l'attività economica, vale a dire il "modo di produzione capitalistico". Il termine nasce quindi molto dopo il fenomeno che con esso si intende indicare. Gli studiosi e i pensatori del XVIII secolo e della prima metà del XIX avevano certo rilevato e descritto con grande acutezza le imponenti trasformazioni che erano avvenute o che stavano avvenendo sotto i loro occhi nella sfera economica e sociale, l'enorme accelerazione che la storia stava subendo nelle aree cruciali dell'Europa. Come riflesso e conseguenza di tali trasformazioni era addirittura nata una nuova scienza, l'economia politica, che si era assunta il compito di elaborare strumenti teorici per analizzare le leggi del divenire economico. Lo stesso Adam Smith, che pure offre ne La ricchezza delle nazioni del 1776 un'analisi illuminante e precorritrice della transizione dal feudalesimo, non aveva avvertito il bisogno di coniare un termine specifico col quale designare sinteticamente e globalmente il sistema economico e sociale che era emerso da tali trasformazioni. L'esigenza di disporre di un concetto di tale natura si presenta quando la realtà che esso pretende di interpretare ha già da lungo tempo fatto la sua comparsa. Le ragioni di questo divario temporale tra concetto e realtà sono da rintracciare nel fatto che i pensatori che 'scoprono' l'esistenza del capitalismo come oggetto di studio e di riflessione sono gli stessi che ne prevedono e annunciano la prossima fine. Agli occhi di costoro l'ordine economico e sociale esistente appare minato da crisi profonde che risultano dal conflitto delle forze che esso stesso ha generato. Tale ordine appare nella sua storicità come qualcosa che è inevitabilmente destinato a finire. Coloro, invece, che ritenevano l'ordine economico e sociale nato dal tramonto del feudalesimo come fondamentalmente stabile, oppure come passibile di ulteriori sviluppi all'infinito, non sentivano l'esigenza di un concetto di capitalismo inteso come configurazione dotata di una specifica individualità storica. La nozione di capitalismo fa la sua comparsa nella storia del pensiero sociale quando ci si interroga sul suo destino, quando ci si chiede che cosa succederà a esso. Se il capitalismo è destinato a finire vuol dire che si tratta di un fenomeno storico e che di esso si può scrivere la storia lungo un percorso che ha un inizio e avrà una fine. La questione delle origini si presenta quindi nell'orizzonte culturale del pensiero socialista, di coloro cioè che parlano di crisi, di declino, oppure addirittura di crollo del capitalismo.Il concetto viene dapprima accolto con sospetto; la matrice ideologica dalla quale è nato sembra impedirne un utilizzo in sede di discorso scientifico. Tuttavia il concetto ha fortuna e viene fatto proprio in un secondo tempo anche da coloro che, lungi dal prevedere la fine del capitalismo, ne celebrano i continui successi, per diventare quindi uno strumento concettuale della ricerca storica, economica e sociologica quando si avverte l'esigenza di un termine che esprima sinteticamente i tratti comuni di un insieme assai disparato di fenomeni, tipici dello sviluppo economico e sociale dell'Occidente. Del dibattito sulle origini del capitalismo analizzeremo alcuni momenti salienti: partiremo da Karl Marx, da Max Weber e da Werner Sombart, affronteremo quindi la questione se sia esistito un capitalismo medievale sulla scorta dei lavori degli storici economici nei primi decenni del secolo, considereremo poi la ripresa del dibattito sulle origini nel marxismo occidentale del secondo dopoguerra, per accennare infine agli sviluppi più recenti. Marx, come si è detto, usa il termine 'capitalismo' solo come aggettivo per indicare uno specifico "modo di produzione". La storia per Marx vede una successione di modi di produzione, ognuno dei quali è determinato da un particolare assetto, da un lato delle forze produttive (nelle quali si esprime lo stadio di sviluppo delle tecnologie e delle capacità umane a esse associate) e dall'altro dei rapporti sociali di produzione (cioè dei rapporti giuridico-politici che definiscono le forme della proprietà dei mezzi e delle condizioni della produzione). Per interi periodi storici forze produttive e rapporti sociali di produzione si integrano in modo coerente e si rafforzano reciprocamente. Sono i periodi in cui un modo di produzione è stabile. In altri periodi, invece, lo sviluppo delle forze produttive viene frenato dai rapporti di produzione esistenti e gli elementi costitutivi del modo di produzione entrano in contraddizione. In questi periodi si genera un conflitto insanabile di interessi tra le classi che difendono i vecchi rapporti di produzione e le classi che esprimono le istanze di sviluppo delle forze produttive. Sono i periodi di transizione tra un modo di produzione e il successivo. Come è noto, questa concezione "dialettica" serviva a Marx per spiegare come si sarebbe passati dalle contraddizioni interne del capitalismo all'avvento del socialismo. Il problema dell'analisi della transizione dal capitalismo al socialismo evoca però immediatamente un altro problema, quello della transizione dal feudalesimo al capitalismo, vale a dire il problema delle origini del capitalismo. Mentre però Marx per spiegare la prima transizione parte dall'analisi delle contraddizioni interne del capitalismo (cioè dal termine a quo), per spiegare la seconda parte da un'analisi dei presupposti del capitalismo (cioè dal termine ad quem). Tali presupposti sono da un lato la presenza di una massa di lavoratori 'liberi' provenienti dalle campagne, privi di terra, di mezzi di lavoro e di sussistenza, dall'altro una massa di capitale pronto ad acquistare forza-lavoro e metterla al suo servizio. Marx non formula una teoria della crisi del modo di produzione feudale dalla quale si sarebbero liberati i presupposti del capitalismo. Per spiegare la loro genesi egli deve ricorrere all' "arcano della cosiddetta accumulazione originaria", che condurrebbe all'espropriazione dei contadini e degli artigiani, all'espulsione violenta dei contadini dalla terra (ad esempio mediante le enclosures), in breve alla separazione dei lavoratori dalla proprietà delle condizioni di lavoro, da un lato, e dall'altro all'accumulazione di ingenti somme di danaro mediante il commercio coloniale di rapina, il debito pubblico e la pressione fiscale. L'attore che mette in moto i processi di accumulazione originaria è lo Stato ("violenza concentrata e organizzata della società - come si legge nel XXIV capitolo del I Libro del Capitale - per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi"). L'azione dello Stato, tuttavia, uno Stato che non è più uno Stato feudale ma non è ancora uno Stato borghese, ha esclusivamente la funzione di accelerare processi che dovevano già essere in atto: da un lato la formazione di una classe di piccoli produttori indipendenti, sia contadini sia artigiani, che gradualmente si liberano dai vincoli feudali nelle campagne e dai vincoli delle corporazioni nelle città e si trasformano quindi in piccoli capitalisti; dall'altro lato la formazione di una classe di ricchi mercanti che operano sul mercato che si è aperto su scala mondiale alla fine del XV secolo.Il primo processo opera nella sfera della produzione, il secondo nella sfera della circolazione. I due processi devono però agire congiuntamente per consentire il pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico. Se si fosse dovuta aspettare la crescita graduale dei piccoli produttori, che a poco a poco allargavano le dimensioni delle proprie attività produttive, il processo sarebbe progredito - come scrive Marx - "al passo di lumaca", la transizione si sarebbe protratta per un tempo infinito. E d'altronde lo sviluppo indipendente e isolato del capitale commerciale (così come era avvenuto nell'antichità rispetto all'economia schiavistica) avrebbe piuttosto consolidato invece che disgregato il vecchio modo di produzione feudale (com'era in parte avvenuto nelle città italiane del Medioevo e più tardi nelle regioni dell'Europa orientale). È stata quindi la combinazione dei due processi, accelerata dal ruolo dello Stato nell'accumulazione originaria, a scatenare secondo Marx la dinamica del nuovo modo di produzione. Entrambi i processi sono indispensabili e interdipendenti, tuttavia a seconda che nella combinazione prevalga il primo oppure il secondo gli esiti saranno diversi. Marx parla, infatti, in un passo che è stato frequentemente ripreso nelle discussioni successive (Il capitale, Libro III, cap. XX), dell'esistenza di due vie: "Il passaggio dal modo di produzione feudale si compie in due maniere. Il produttore diventa commerciante e capitalista, si oppone all'economia agricola naturale e al lavoro manuale stretto in corporazioni dell'industria medievale urbana. Questo è il cammino effettivamente rivoluzionario. Oppure il commercio si impadronisce direttamente della produzione. Quest'ultimo procedimento, pur rappresentando storicamente una fase di transizione [...] non porta in sé e per sé alla rivoluzione dell'antico modo di produzione". Questo passo è, come vedremo, molto importante perché indica come in Marx non vi sia una spiegazione unica della genesi del capitalismo. Egli postula l'esistenza di almeno due vie e apre quindi il campo a una spiegazione più articolata che suggerisce l'esigenza di un'analisi comparativa. Per Weber il problema delle origini del capitalismo non si risolve spiegando come si siano formati da un lato il capitale e dall'altro il lavoro salariato. Già l'antichità e il Medioevo avevano conosciuto, in forme diverse, sia l'uno che l'altro; il fenomeno da spiegare è piuttosto come mai solo in Occidente, nei secoli XVI e XVII, coloro che disponevano di capitali accumulati in forma monetaria furono indotti a impiegarli in modi qualitativamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato. L'elemento nuovo da spiegare è quindi l'emergere di una condotta orientata al guadagno, che sfrutta le opportunità di mercato mediante l'organizzazione razionale dell'impresa. Non possiamo parlare di capitalismo, per Weber, se non quando compare e si afferma l'impresa capitalistica, vale a dire l'organizzazione razionale del lavoro libero dalle obbligazioni di carattere servile.L'impulso acquisitivo non ha nulla di specificamente capitalistico. Esso è diffuso in tutte le società, in tutte le epoche e in tutti i ceti sociali. Il capitalismo, scrive Weber nelle pagine iniziali del famoso saggio sull'Etica protestante e lo spirito del capitalismo, "può addirittura essere identico con la coercizione o almeno con il temperamento razionale di questo impulso irrazionale". Lo stesso grande commercio medievale, dal quale pure sono nate le forme giuridiche che in seguito ha assunto l'impresa capitalistica, era orientato prevalentemente a lucrare sulle differenze di prezzo esistenti tra un luogo e l'altro, era quindi eminentemente speculativo e irrazionale, reso possibile dall'assenza di un vero e proprio mercato internazionale. L'istituzione distintiva del capitalismo è quindi l'impresa razionale che produce merci per il mercato in vista di un profitto da reinvestire nell'impresa stessa. Il terreno di sviluppo dell'impresa è la produzione industriale ed è solo da quando il nuovo spirito si impadronisce della produzione industriale che possiamo datare la nascita del capitalismo: "I portatori - scrive Weber - di quel nuovo modo di sentire che abbiamo definito 'spirito del capitalismo' non furono affatto esclusivamente o prevalentemente gli imprenditori capitalistici del patriziato commerciale, ma piuttosto gli strati in ascesa del ceto medio industriale". Si tratta di uomini nuovi, di parvenus, che assumono un orientamento radicalmente innovativo, improntato a sobrietà e razionalità, verso l'attività economica. Una componente essenziale della spiegazione della genesi del capitalismo deve pertanto dar conto di come questo nuovo spirito sia nato: è a questo punto che Weber avanza l'ipotesi suggestiva che questo nuovo spirito si sia formato nel clima culturale delle sette protestanti di matrice calvinista, che predicavano una condotta di vita fondata sul controllo degli impulsi irrazionali e volta al perseguimento del successo mondano come segno della grazia divina. Tradotto in termini di etica economica, tale orientamento risultò inintenzionalmente del tutto congeniale al perseguimento del fine astratto della massimizzazione del profitto di lungo periodo dell'impresa capitalistica. Quest'ipotesi di Weber è stata da molti, ed erroneamente, interpretata come il tentativo di contrapporre a una spiegazione materialistica e strutturalistica della genesi del capitalismo una spiegazione spiritualistica e culturalistica. Egli vuol soltanto dimostrare l'esistenza di una singolare "affinità elettiva" tra l'etica delle sette calviniste (che ricostruisce minuziosamente sulla base dei testi dei predicatori, più vicini al modo di sentire comune, piuttosto che sui testi teologici dei fondatori) e lo spirito del capitalismo. Una volta che l'impresa si è affermata come modello generalizzato di organizzazione dell'attività economica, essa non richiede più la presenza di un sostegno soggettivo di origine religiosa. Tutti coloro che operano sul mercato finiscono inevitabilmente, anche contro la loro volontà, per essere condizionati da questo 'spirito': è l'impresa stessa, come formazione oggettiva, a riprodurre continuamente i motivi soggettivi che ne garantiscono l'esistenza. La spiegazione delle origini del capitalismo non si esaurisce tuttavia nella spiegazione della genesi dello spirito del capitalismo. È soltanto in un ciclo di lezioni tenute poco prima della morte, e pubblicate postume col titolo di Wirtschaftsgeschichte, che Weber ci offre un modello esplicativo articolato e complesso delle origini del capitalismo. In quest'opera l'etica protestante rimane come elemento decisivo per la spiegazione di uno soltanto dei fattori la cui compresenza è necessaria perché si possa parlare di capitalismo. Il concetto stesso di capitalismo deve venir allargato per comprendervi una pluralità di componenti: la proprietà privata dei mezzi di produzione; una classe di lavoratori senza proprietà, liberi di vendere la propria forza-lavoro e costretti a farlo "sotto la frusta della fame"; la libera circolazione di beni e fattori di produzione, senza restrizioni irrazionali di ordine politico o monopolistico; un ordinamento giuridico e amministrativo razionale che garantisca la prevedibilità e l'efficacia delle regole del mercato; l'uso di tecnologie razionali, sia nella produzione sia nelle procedure amministrative e contabili, tali da assicurare una gestione fondata sul calcolo del reddito e del capitale. Per spiegare la genesi di un sistema così articolato bisogna far ricorso sia a fattori di ordine culturale che influenzano gli orientamenti, gli atteggiamenti e le motivazioni dell'agire economico, sia a fattori di ordine istituzionale. Tra questi ultimi risulta di decisiva importanza la formazione dello Stato burocratico moderno, fondato su un ordinamento legale-razionale, sul concetto di cittadinanza, sul monopolio della violenza, sul monopolio monetario e fiscale, sulla presenza di un corpo di funzionari stipendiati. La nascita del capitalismo non è imputabile a un unico fattore, ma a una costellazione di fattori, anzi a una singolare combinazione di fattori che si è realizzata soltanto nelle regioni nordoccidentali dell'Europa tra i secoli XVI e XVII. Altrove, in altri paesi e in altre epoche, ad esempio nell'Italia medievale e rinascimentale, molti di questi fattori erano presenti e sviluppati, ciò che mancava era la loro combinazione. L'ultimo Weber non ridimensiona quindi l'ipotesi dell'etica protestante, la inserisce piuttosto in un modello esplicativo plurifattoriale, sulla base del quale egli imposta una serie di ricerche comparative volte a spiegare come mai il capitalismo, nella sua configurazione di capitalismo moderno, sia nato soltanto in Europa e non altrove, come in Cina, dove pure erano presenti molti prerequisiti per il suo sviluppo.Le tesi weberiane hanno avuto grande risonanza e suscitato un nutrito dibattito: K. Kautsky, R. Tawney, C. Hill, K. Samuelsson, H. R. Trevor-Roper e, in Italia, A. Fanfani e L. Pellicani, tra gli altri, hanno posto in discussione questo o quel punto dell'argomentazione di Weber, sia sul piano teorico, sia sul piano storiografico. In particolare, le discussioni hanno riguardato se, e in che misura, le tesi weberiane possano essere interpretate come una confutazione dell'impostazione marxiana. Non è possibile in questa sede entrare nel dettaglio di questo dibattito. Sembra tuttavia possibile concludere che sia Marx che Weber pongono l'accento sul fatto che non si può parlare di capitalismo fino a quando non incominciano a trasformarsi in modo radicale le strutture produttive. Entrambi avanzano seri dubbi sul fatto che i grandi commerci a lunga distanza, che hanno condotto all'accumulazione di ingenti somme di capitale mercantile almeno dal XIII secolo in poi, possano di per sé essere considerati forme capitalistiche. Il capitalismo moderno si differenzia dalle forme precedenti di capitalismo proprio per il fatto che il suo dominio si estende alla sfera della produzione di merci e non rimane circoscritto alla sfera della circolazione. Non si può parlare di capitalismo, quindi, prima del XVI secolo. Negli stessi anni in cui Weber lavora sulle origini dello spirito del capitalismo nell'etica protestante esce il primo volume della monumentale opera di Werner Sombart, Der moderne Kapitalismus (1902). Quest'opera è assai importante perché con essa il termine capitalismo entra definitivamente a far parte del bagaglio della ricerca storiografica e sociologica. Per Sombart, come per Weber, si tratta di spiegare la nascita dello spirito del capitalismo, nel quale egli sottolinea la presenza di una duplice componente: l'orientamento acquisitivo, che indirizza l'attività economica verso l'accumulazione di ricchezza e non più soltanto verso il soddisfacimento dei bisogni, e la razionalità nella condotta degli affari, che infrange i condizionamenti della tradizione. La nascita di questo spirito corrisponde alla formazione di un nuovo gruppo sociale costituito dagli imprenditori capitalistici. L'origine sociale di questo gruppo non è omogenea; essi possono essere reclutati da tutti i ceti sociali (nobili, mercanti, artigiani, contadini), ma soprattutto da gruppi sociali marginali come gli Ebrei, gli eretici e gli stranieri, poiché le condizioni di marginalità sociale favoriscono la rottura della tradizione e aprono la strada all'innovazione. Il mercante medievale non è ancora un imprenditore capitalistico. Anche se i suoi traffici si svolgono su lunghe distanze e se ha creato forme associative che precorrono le moderne società di capitali, l'orizzonte delle sue mete resta vincolato alla tradizione e le sue pratiche non escono dai rigidi confini tracciati dalle norme delle gilde mercantili volte essenzialmente a impedire la concorrenza tra gli associati. Bisognerà aspettare il Rinascimento, quando il ceto dei mercanti si intreccia con il patriziato urbano e il capitale mercantile con la rendita fondiaria urbana, per veder affiorare i tratti del nascente spirito borghese. Per Sombart è Leon Battista Alberti il vero precursore del moderno imprenditore capitalistico, ma si tratta, appunto, soltanto di un precursore che testimonia del fatto che il capitalismo non è ancora nato. La tematica sombartiana della formazione dell'imprenditorialità fu ripresa in seguito da quegli storici, economisti e sociologi per i quali la nascita del capitalismo corrisponde all'irrompere dell'innovazione nei suoi aspetti tecnologici, organizzativi e culturali. Basta ricordare, tra tutti, J. A. Schumpeter, per il quale l'origine e il destino del capitalismo sono indissolubilmente legati all'emergere e al declino della funzione innovativa dell'imprenditore. Le tesi di Sombart si opponevano agli assunti di certa storiografia romantica, soprattutto tedesca, per la quale le origini del mondo moderno, e quindi anche del capitalismo, non erano da rintracciare nell'epoca recente delle rivoluzioni borghesi, ma ben più indietro nei secoli; essa tesseva l'apologia del mercante medievale come precursore del moderno capitano d'industria.Tra coloro che reagirono vivacemente alle tesi di Sombart si possono ricordare Brentano e Dopsch. Per Lujo Brentano (v., 1916) già le spedizioni dei Crociati erano organizzate su base capitalistica ed è allora che nasce il moderno spirito mercantile. Per Dopsch (v., 1930) già il periodo carolingio appartiene all'era capitalistica, poiché in esso riprende con slancio la tendenza all'accumulazione illimitata della ricchezza, sia in forma reale (soprattutto la terra) sia in forma monetaria. Appare chiaro che l'oggetto di cui questi autori vogliono ricercare le origini non è sempre lo stesso: per Brentano la nascita del capitalismo coincide con l'avvento e lo sviluppo dell'economia monetaria a scapito dell'economia naturale, per Dopsch risulta capitalistica ogni forma di accumulazione della ricchezza. Quanto più remote le origini, tanto più generico il concetto di capitalismo utilizzato; il concetto stesso perde la capacità di individuare fenomeni storicamente specifici e le origini del capitalismo si perdono quindi nella notte dei tempi. Nel dibattito sul capitalismo medievale la posizione forse più interessante fu assunta da H. Pirenne, se non altro per il fatto che è stata ripresa molte volte in seguito, anche nelle discussioni più recenti. Contrariamente a Marx e a Weber, per Pirenne le origini del capitalismo sono strettamente legate alla ripresa degli scambi mercantili nel tardo Medioevo. Il capitalismo nasce quando il commercio cessa di essere un'attività occasionale (come lo era nelle corti feudali), oppure un'attività di rapina (come lo era quello dei Crociati), e diventa un'attività professionale e continuativa di un nuovo ceto mercantile che contribuisce in modo decisivo al rifiorire della vita delle città, praticamente estinta nei lunghi secoli dell'alto Medioevo, e che lotta contro l'ordine feudale per affermare la propria autonomia. Non bisogna confondere, avverte Pirenne, Medioevo e feudalesimo: vi è un primo Medioevo in cui la ricchezza, nelle mani dell'aristocrazia feudale, non circola e non si trasforma in capitale, e vi è un tardo Medioevo in cui l'asse si sposta verso le città dove si intrecciano le correnti dei traffici mercantili. Le città tardo-medievali, prima in Italia e poi nei paesi dell'Europa settentrionale, sono per Pirenne il luogo di nascita del capitalismo. Le tesi di Pirenne furono riprese nel secondo dopoguerra dall'economista marxista americano Paul Sweezy in un saggio ormai famoso, pubblicato nel 1950 sulla rivista "Science and society": in esso Sweezy polemizza con i risultati delle ricerche di Maurice Dobb, uno storico marxista inglese, pubblicati qualche anno prima in un libro altrettanto famoso, Studies in the development of capitalism (1946). Dobb aveva sostenuto che i grandi mercanti e banchieri dal XIII al XV secolo non potevano essere considerati esponenti di una nascente borghesia capitalistica; essi commerciavano in denaro, in beni di lusso e in armi per soddisfare i bisogni di un'aristocrazia feudale le cui rendite erano sempre più insufficienti per coprire le spese delle corti signorili. Il loro contributo alla nascita del capitalismo fu decisivo solo nel senso che, come classe parassitaria, favorirono l'indebolimento economico della nobiltà fondiaria feudale. Il capitalismo non sarebbe nato senza la formazione autonoma di una classe di piccoli e medi produttori di merci, reclutati tra le fila dei contadini benestanti (gli yeomen) e della piccola nobiltà (la gentry), che diedero vita alle prime manifatture, fondate sul lavoro salariato e svincolate dalle restrizioni imposte dagli ordinamenti delle corporazioni. Fu questa classe a esercitare un ruolo economicamente e politicamente rivoluzionario, capace di spezzare la logica di funzionamento dell'economia feudale e del lavoro servile. Sweezy, invece, richiamandosi esplicitamente a Pirenne, parte da una concezione del feudalesimo come sistema di produzione statico, volto esclusivamente alla copertura dei bisogni dettati dal costume e dalla tradizione, incapace di innovazione nelle tecniche e nei metodi di produzione e quindi ostile a ogni tendenza all'accumulazione. Tale sistema risulta incompatibile con l'economia di scambio e quindi la causa primaria del suo declino deve essere ricercata nello sviluppo dell'economia urbana che cresce nel suo seno come una specie di corpo esterno. Un sistema statico è un sistema privo di contraddizioni interne e può essere messo in crisi soltanto quando al suo esterno si sviluppa un sistema più efficiente e razionale che trova il suo fulcro nelle città. Ciò non vuol dire, però, che i secoli che vedono uno sviluppo prorompente dei commerci e la fioritura delle città (grosso modo dal XIII al XVI secolo) siano già secoli capitalistici. Sweezy propone di chiamare il sistema economico di questo periodo intermedio di transizione, non più feudale ma non ancora capitalistico, "sistema mercantile precapitalistico". Non è possibile in questa sede richiamare nel dettaglio i vari interventi che si sono succeduti nel dibattito seguito alla contrapposizione tra Dobb e Sweezy. Al centro di questo dibattito si collocano comunque due interrogativi fondamentali: 1) se e come il capitale mercantile abbia o meno esercitato una funzione di disgregazione dell'ordinamento economico e politico feudale; 2) se e come il capitale mercantile abbia costituito una premessa indispensabile per lo sviluppo del capitalismo industriale.È probabilmente impossibile dare a questi interrogativi una risposta univoca e trovare una soluzione che si applichi a situazioni storicamente diverse: dall'Italia del tardo Medioevo ai Paesi Bassi e alle Fiandre, dall'Inghilterra dei secoli XVI e XVII all'Europa orientale e al Giappone. Un modello adeguato di spiegazione delle origini del capitalismo deve essere in grado di dar conto del fatto che i punti di partenza e i punti di arrivo del processo sono diversi in paesi e in epoche diverse. Tale modello può risultare pertanto solo da un'analisi storico-comparativa che tenga conto sia delle specifiche condizioni storiche in cui il capitalismo è comparso - oppure non è comparso - nei vari paesi, sia dei rapporti di interdipendenza generati dallo sviluppo capitalistico su scala mondiale.Già H. K. Takahashi, uno storico giapponese di tendenza marxista, aveva sottolineato come in Giappone la formazione del capitalismo avvenne seguendo un percorso opposto a quello dell'Europa occidentale, cioè essenzialmente attraverso la trasformazione del capitale commerciale e monopolistico in capitale industriale, sotto il controllo dello Stato feudale, senza che venisse intaccata la struttura della proprietà feudale e si desse la formazione di un ceto borghese libero e indipendente. E, analizzando le differenze dello sviluppo industriale della Russia e dell'Europa occidentale, A. Gerschenkron aveva avvertito come bisognasse accuratamente tenere distinti i casi dei paesi first comers (dove cioè il capitalismo era nato per primo) da quelli dei paesi late comers (dove cioè la nascita del capitalismo non solo era stata ritardata, ma era avvenuta in un contesto economico mondiale trainato dai primi). Il dibattito sul capitalismo medievale aveva messo in luce i limiti di una visione troppo eurocentrica del problema delle origini del capitalismo: non solo bisognava trovare una spiegazione al fatto che all'interno dell'Europa lo sviluppo era stato molto diseguale nei diversi paesi, ma bisognava pure spiegare come e perché il capitalismo si fosse sviluppato altrove tardivamente e seguendo percorsi diversi. Un contributo importante alla risposta a questi interrogativi è venuto dalla monumentale opera di Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (1979), e dal lavoro di Immanuel Wallerstein The modern world-system. Anche Braudel si riallaccia alle tesi di Pirenne sulle origini mercantili del capitalismo moderno; i primi capitalisti si curavano assai poco del sistema con cui venivano prodotte le merci che vendevano e comperavano e la produzione artigianale accompagna il capitalismo per un lungo tratto della sua esistenza. Rispetto a Pirenne egli richiama però la necessità di operare una distinzione più netta tra commercio locale (esercitato da una miriade di piccoli negozianti) e commercio a lunga distanza, esercitato da un gruppo ristretto di mercanti ricchi e politicamente influenti. Solo in questi ultimi si possono riconoscere i tratti del capitalismo, in quanto essi tengono le fila di un sistema di scambi che va oltre i confini di ogni singolo Stato. Il capitalismo è infatti, fin dalle origini, un'economia-mondo. Un'economia-mondo è caratterizzata da tre elementi: a) occupa uno spazio geografico che abbraccia una pluralità di Stati territoriali; b) è governata da un polo centrale che storicamente si sposta nello spazio (da Venezia e Genova nel XIV e XV secolo, verso Amsterdam nel XVI e XVII, Londra nel XIX e New York nel XX); c) si articola in zone successive che vanno dal centro (il cuore) alle aree intermedie (la semiperiferia) e alla periferia. Lo spostamento del centro (décentrage, récentrage) dal Mediterraneo al Mare del Nord e infine all'Oceano Atlantico segna i momenti di crisi e nello stesso tempo le tappe fondamentali dello sviluppo dell'economia-mondo capitalistica: il capitalismo non ha un solo luogo e una sola data di nascita, poiché ogni volta che il suo centro si sposta è come se rinascesse in una forma nuova. Wallerstein mutua direttamente da Braudel il concetto di economia-mondo capitalistica, intesa come un sistema che si estende oltre i confini di ogni Stato, fino a comprendere l'area coperta dalla rete degli scambi internazionali. All'interno dell'economia-mondo si sviluppa - a partire grosso modo dal 1450 - un sistema di divisione del lavoro tra aree centrali, semiperiferiche e periferiche, in base al quale non tutti i beni che entrano in circolazione sono prodotti da imprese che adottano rapporti capitalistici di produzione. I rapporti di produzione di tipo feudale o schiavistico che sopravvivono all'interno dell'economia-mondo capitalistica non sono pure sopravvivenze di modi di produzione precedenti, destinati a estinguersi nel processo di sviluppo del capitalismo. La ripresa del lavoro servile nell'Europa orientale, conseguente all'apertura del mercato mondiale alla produzione cerealicola di quelle aree, oppure lo sviluppo della schiavitù nelle piantagioni di cotone, zucchero e caffè del continente americano, non costituiscono residui di un passato remoto, ma sono il prodotto della divisione del lavoro nell'economia-mondo capitalistica. Il capitalismo quindi produrrà effetti diversi a seconda che una regione si collochi al centro oppure alla periferia del sistema.A questo punto anche Wallerstein si pone l'interrogativo: come mai l'economia-mondo si è affermata in Europa e non, ad esempio, in Cina? La risposta è che mentre l'Europa tra il XV e il XVI secolo era una nascente economia-mondo composta di piccoli imperi, di Stati nazionali e di città-Stato, la Cina era invece un grande Impero continentale e, mentre in Europa il sistema feudale aveva comportato lo smantellamento della struttura imperiale, in Cina il sistema delle prebende aveva contribuito a mantenerla e a rafforzarla. La pluralità degli Stati gioca in Europa come un potente fattore di sviluppo economico e tecnologico, la solidità dell'Impero ostacola invece in Cina la formazione di una rete estesa di commercio internazionale e l'accumulazione di capitale. Non esiste quindi un unico processo di transizione al capitalismo, ma una pluralità di processi, ognuno dotato di una propria specificità spazio-temporale a seconda della collocazione, centrale, periferica o esterna all'economia-mondo capitalistica; i diversi processi avvengono nel quadro di una rete di interdipendenze costituita dalla presenza di un sistema mondiale gerarchizzato al suo interno. La pluralità delle vie della transizione non rispecchia dunque soltanto la specificità delle condizioni storiche locali, il retaggio di passati diversi, ma anche la specificità della collocazione dei singoli paesi in un sistema mondiale che condiziona modalità e tempi dello sviluppo. Di recente, anche uno studioso italiano, L. Pellicani (v., 1988), ha cercato di spiegare come mai il capitalismo sia nato in Europa e non in Oriente. Per Pellicani fu l'intrinseca debolezza dello Stato feudale a preservare l'Europa dall'esperienza degli imperi totalitari di stampo orientale, che con la libertà politica avevano soffocato anche i commerci e la vita delle città. Il feudalesimo non riuscì invece a impedire che in Europa (e prima di tutto in Italia) si sviluppasse l'esperienza del tutto originale delle città-Stato, che quindi sono da considerare come la vera culla del capitalismo. Detto questo, io credo sia necessario ricordare che il capitalismo è una formazione economico-sociale che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio; sulla libertà di iniziativa, su un mercato del lavoro governato dalla legge della domanda ed offerta, su imprese che fanno uso del calcolo economico-razionale. [M. Weber Storia economica, Donzelli]. Il capitalismo comparve in un ben determinato periodo storico ed è destinato a scomparire come tutto ciò che attiene alla storia [M. Dobb Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti] Le condzioni dello sviluppo. In chiusura, è necessario ricordare il problema delle condizioni della industrializzazione [P. Bairoch Rivoluzione industriale esottoviluppo, Einaudi] e i cosiddetti vantaggi del ritardo [A. Gerschenkron Il problema storico dell'arretratezza economica, Einaudi]. Un fatto, comunque, è certo. Tutti i paesi oggi considerati sviluppati presentano alcuni aspetti economici, sociali, politici e culturali comuni. [D. Landes Ricchezza e povertà delle nazioni, Garzanti]. Inoltre, non dobbiamo dimenticare, da un lato, il ruolo fondamentale svolto dallo sviluppo della della scienza e della tecnica. [D. Landes Prometeo liberato, Einaudi]; dall'altro lato, il fatto che ogni paese ha seguito una via all'industrializzazione diversa da quella degli altri paesi e che, come dimostrò Tom Kemp esiste una quantità di modelli di industrializzazione. [T. Kemp Modelli di industrializzazione, Laterza. Id L'industrializzazione in Europa nell'Ottocento, Il mulino]. Nella pubblicistica economica, capitalismo è considerato sinonimo di economia di mercato. Non è esatto. Esiste anche il capitalismo di stato o, come scrivevano gli economisti marxisti, il capitalismo monopolistico di stato, cioè quella forma di capitalismo in cui lo stato viene a svolgere un ruolo fondamentale nel processo di accumulazione del capitale [F. Pollock teoria e prassi dell'economia di piano, De Donato, C. Offe Lo stato nel capitalismo maturo, Etas Libri. J. Habermas La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, M. Horkheimer Lo stato autoritario, in La società di transizione, Einaudi]. Ad ogni forma di proprietà corrisponde una particolare forma di calcolo economico cui corrisponde una particolare definizione del concetto di economico [C. Bettelheim Calcolo economico e forme di proprietà, Jaca Book]. Questa osservazione ci fa ricordare un fatto che noi spesso dimentichiamo, vale a dire la storicità delle nostre istituzioni economiche e che come oggi le nostre comunità sono basate sul principio dello scambio, così sono esistite ed esistono ancora comunità basate, per dirla con Karl Polany, sulla reciprocità e sulla redistribuzione. [K. Polany Economie primitive, antiche e moderne, Einaudi]. Il moderno concetto di economico nacque all'inizio dell'era moderna con l'avvento al potere della borghesia ed ebbe la sua consacrazione nella "Ricchezza delle nazioni" di Adam Smith. Come scrisse infatti Albert Hirschman, "il fine principale de 'La ricchezza delle nazioni' consiste nell'affermare un solenne principio economico che giustificasse il libero perseguimento del personale interesse da parte di ciascuno". [A. Hirschman Le passioni e gli interessi, Feltrinelli] In realtà, come dimostrò Thomas Nagel nel suo saggio intitolato Possibilità dell'altruismo, esiste anche l'altruismo, ovvero, esistono anche delle motivazioni non egoistiche dell'agire umano. [B. Frey Non solo per denaro, Mondadori]. Capitalismo per von Hayek. icona del neoliberismo, significa libertà, libertà di giocare con la propria vita e la vita degli altri. Il punto di vista di von Hayek è l'esatto opposto del punto di vista di Max Weber. Infatti, laddove Weber metteva in luce la presenza di una morale dell'impegno e della responsabilità dovuta all'origine riformatrice dello spirito del capitalismo [M. Weber L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni]; von Hayek enfatizza l'aspetto ludico dell'attività economica in regime capitalistico. Chi svolge un'attività economica in regime capitalistico, per von Hayek è completamente irresponsabile delle conseguenze delle sue azioni.. [F. A. von Hayek Legge, legislazione, libertà, Il saggiatore] Il capitalismo secondo Milton Friedman è sinonimo di efficienza, libertà e democrazia. In realtà, le cose stanno in modo affatto opposto. La concezione friedmaniana del capitalismo postula infatti una società fondata su un'economia di concorrenza perfetta nella quale esiste una miriade di piccole imprese che ricevono i prezzi dal mercato e che, date le loro piccole dimensioni non sono in grado di condizionare il funzionamento del mercato. [M. Friedman Capitalismo e libertà, Studio Tesi. Id Liberi di scegliere, Longanessi.] L'economia contemporanea è tutto meno che di concorrenza perfetta ed è caratterizzata da forme non-concorrenziali di mercato che consentono alle grandi imprese non solo di controllare il mercato dei loro prodotti e servizi, ma consentono loro anche di controllare i giornali, le emittenti televisive, le produzioni cinematografiche; in altre parole, consentono loro di plasmare la società a propria immagine e somiglianza, creando i consumatori dei propri prodotti e servizi con pubblicità più o meno occulte, condizionando l'azione dei governi attraverso l'azione di potenti lobby. [R. Reich Supercapitalismo. Fazi. B. Barber Consumati, Einaudi]. Chiunque legga le "Lezioni di politica sociale" di Luigi Einaudi non può non rimanere colpito dalla vivacità con la quale l'autore descrive il funzionamento di un'economia di mercato. Il libro venne dettato da Einaudi nel 1944 e, a quell'epoca, con tutto il rispetto che è dovuto al suo autore, il mercato descritto nel libro apparteneva ormai al mondo delle favole. L'economia di mercato, ovvero, se vogliamo chiamarla con il suo nick name, il capitalismo, aveva imboccato la strada della monopolizzazione e i governi dei paesi capitalistici avanzati avevano cominciato ormai da tempo a mettere in atto delle misure anti-trust. Le prime norme antitrust risalgono allo Sherman Act del 1890 Ancora nel 1910 l'economista marxista austriaco Rudolf Hilferding aveva dato alla stampa il libro "Il capitale finanziario" nel quale analizzava il modo di funzionamento del nuovo capitalismo nato dalla fusione fra capitale industriale e capitale bancario. Nel 1933, Joan Robinson aveva pubblicato il saggio sull'economia della concorrenza imperfetta e Edward Chamberlein aveva pubblicato il saggio sulla concorrenza monopolistica. Gardiner Means e Adolf Berle avevano dato alle stampe "Proprieà privata e società per azioni" nel quale analizzavano il modo di funionaamento delle moderne società per azioni basato sulla separazione fra proprietà e controllo. Il 1933 fu anche l'anno in cui in America venne lanciato il New Deal basato sull'idea che si era entrati in un'epoca che rendeva necessaria l'instaurazione di nuovi rapporti fra stato e economia; e fu sulla base di questa idea che venne elaborata la teoria dei poteri contrapposti esposta da John K. Galbraith nel 1957 in "Amerrican Capitalism". L'anno prima, il nostro Paolo Sylos Labini aveva pubblicata la prima edizione di "Oligopolio e progrsso tecnico" che diventò un classico dell'argomento per la complessità e l'acutezza dell'analisi. Sono trascorsi cinquantaquattro anni d'allora. Le biblioteche si sono riempite di libri sull'argomento. Nuove leggi anti-trust sono state emanate; il problema, però, non è staato risolto, né potrà mai essere risolto perché è la logica che governa il modo di funzionamento del capitalismo che porta inevitabilmente alla monopolizzazione dell'economia e fa piazza pulita delle "robinsonate" alla Milton Friedman. In questo quadro, penso che un libro come "Il capitale monopolistico" di Baran e Sweezy, malgrado i suoi errori, abbia ancora molte cose da insegnarci, ad esempio in materia di spese militari e della relativa militarizzazione dell'economia e della società. Come dire che non è solo per amore della democrazia e della pace che noi abbiamo fatto guerra alla Jugoslavia, all'Iraq e che noi siamo oggi in Afghanistan, ma perché a far politica è, oggi come ieri, il complesso militare-industriale. [L. Einaudi "Lezioni di politica sociale", Einaudi, R. Hilferding "Il capitale finanziario", Feltrinelli, A. Berle G. Means "Società per azioni e proprietà privata", Einaudi, J. K. Galbraith "Il capitalismo americano"", Comunità, P. Sylos Labini "Oligopolio e progresso tecnico", Einaudi, M. Friedman "Capitalismo e libertà", Studio tesi, P. Baran P. Sweezy "Il capitale monopolistico", Einaudi] Il capitalismo secondo Veblen. In principio fu il branco. I nostri antenati, dai tratti somatici ancora scimmieschi, si muovevano a gruppi, alla ricerca di qualcosa da mangiare e di femmine da razziare. Come ricordava Veblen in Teoria della classe agiata, la lotta per il possesso dei beni seguì la lotta per il possesso delle donne e la facilitò. Thorstein Veblen non è mai stato considerato un grande economista. Il suo nome compare appena nelle più famose storie del pensiero economico. Egli infatti è sempre stato considerato più un sociologo che un economista, più uno psicologo che un analista economico. La lettura della sua opera ci aiuta a capire però il capitalismo meglio di quello che fanno le opere dei suoi più famosi colleghi. Veblen ci parla infatti del capitalismo in carne e ossa, ci illumina sui vari aspetti della concorrenza capitalistica; mostra i lati oscuri della accumulazione capitalistica; ci introduce ai misteri del “consumo vistoso”; evidenzia l'istinto di rapina della società capitalistica. In altre parole, ci parla di ciò di cui non si parla mai e che costituisce invece il basamento sul quale è costruito il capitalismo. [T. Veblen Teoria della classe agiata, Il saggiatore] Per Weber capitalismo significava razionalità – calcolo razionale, impresa gestita con criteri razionali, diritto razionale. [M. Weber Economia e società, Comunità] Tale razionalità era l'altra faccia dell'ascesi protestante. [M. Weber Etica protestante e spirito del capitalismo, Sansoni]. Ne derivava, per Weber che, una volta che l'elemento ascetico d'origine protestante fosse svanito, il capitalismo si sarebbe trasformato in una fredda “gabbia d'acciaio”. [M. Weber Economia e società, Comunità]. Karl Marx, l'autore che più d'ogni altro fu acerrimo critico del capitalismo, non possedeva il concetto di capitalismo e perderemmo il nostro tempo a cercare la parola capitalismo fra le migliaia di pagine della sua opera. Per Marx, il capitalismo era una formazione economico-sociale caratterizzata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Essa era comparsa in una determinata epoca della storia ed era destinata ad essere sopraffatta dalla contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e i rapporti capitalistici di produzione.[K. Marx Prefazione a Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti] La letteratura sulle crisi economiche è vastissima. [ N. De Vecchi Crisi economiche, Boringhieri]. In questa sede, è sufficiente ricordare lo schema analizzato in precedenza. Da quello schema si deduce che le crisi sopravvengono quando succede qualcosa che impedisce ai flussi di denaro e di beni e di servizi di scorrere liberamente entro i loro argini. Facciamo il caso di un'economia che sta per raggiungere la frontiera della piena occupazione. Ciò comporta un surriscaldamento dei circuiti economici che provoca un innalzamento dei prezzi e dei salari. A questo punto, il governo, ovvero, l'autorità monetaria possono assecondare il processo in modo da consentire all'economia un “rientro morbido”; oppure, possono stringere i cordoni della borsa, con la conseguenza di strangolare il processo e di farlo morire per asfissia, come è accaduto in Italia nel 1963, quando la stretta monetaria effettuata dalla Banca d'Italia pose fine al cosiddetto Miracolo economico. [M. Salvati Economia e politica in Italia dal dopoguerra ad oggi, Garzanti] Una crisi può scoppiare anche per eventi esterni, come accadde con l'oil shock del 1973. Allora si ebbe un'impennata dei prezzi del petrolio che si accompagnò ad una caduta della produzione e dell'occupazione che causò una situazione di stagflation, stagnazione abbinata a inflazione. In termini generali, le cause delle crisi, secondo gli economisti marxisti sono riconducibili da un lato all'anarchia della produzione capitalistica, dall'altra alla ricerca del massimo profitto. [M. Dobb Economia politica e capitalismo, Boringhieri] Non esiste in Marx una teoria delle crisi. Dagli schemi della riproduzione allargata del Capitale è possibile ricavare una teoria delle crisi da sovrapproduzione, da sproporzione, da realizzo. [P. Sweezy La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri]. Eccentrica rispetto a questo gruppo di teorie, è l'elaborazione di Rosa Luxemburg, secondo la quale il capitalismo non potrebbe esistere senza la esistenza di un ambiente non capitalistico [R. Luxemburg Accumulazione del capitale, Einaudi]. Secondo una scuola di pensiero di carattere trasversale, sarebbe insita nel capitalismo una tendenza a sviluppare la capacità di produrre più della capacità di consumare. Questa tendenza creerebbe una situazione di sottoconsumo alla quale il capitalismo ovvierebbe con l'investimento estero, il consumo di lusso, le spese militari e le spese pubblicitarie. [P. Baran P. Sweezy Il capitale monopolistico. Einaudi] Secondo un'altra scuola di pensiero di carattere trasversale, il passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo organizzato, eliminando l'anarchia della produzione, avrebbe dovuto rendere più difficile la creazione di situazioni di crisi. [F. Pollock Teoria e prassi dell'economia di piano, De Donato] L'esperienza ha dimostrato che non era così e che la monopolizzazione dell'economia ha reso ancora più ampia la divergenza fra capacità di produrre e capacità di consumare. [P. Baran Note sul sottoconsumo, in Id. Saggi marxisti, Einaudi]. Economisti e crisi economica. C'è una domanda che si pone a chi rifletta sulla crisi del 2007-8: "Perché gli economisti non hanno saputo prevederla? Sono in grado di dirci di quanto crescerà l'economia da oggi in avanti, e non sono in grado di prevedere una crisi come quella del 2007-8? Che razza di economisti sono? ". Risposta. Sono degli economisti, ma sono anche degli uomini e come a tutti gli uomini, anche agli economisti succede di innamorarsi di certe idee. In particolare, essi si sono innamorati dell'idea che l'economia di mercato possieda dei meccanismi automatici di regolazione della propria attività. Ciò escluderebbe la possibilità di crisi di carattere generale, perché tali meccanismi automatici entrerebbero in funzione nel momento opportuno in modo da riportare l'economia in condizioni di normalità: in altre parole, non si tratta che della cosiddetta "mano invisibile" di cui parlò Adam Smith in Ricchezza delle Nazioni. Tale mano, scrisse Smith, fa sì che ognuno di noi, mirando solo al proprio guadagno, sia condotto, grazie a tale mano, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Ora, il funzionamento di tali meccanismi è sottoposto all'esistenza di ben determinate condizioni che sono poi quelle relative all'esistenza della concorrenza perfetta, come le piccole dimensioni delle imprese, la perfetta elasticità delle curve di offerta, la perfetta sostituibilità dei fattori della produzione... Ora, nessuna di tali condizioni esiste in economie mono-oligopolistico come le nostre. Più complesso è il discorso per quello che riguarda le cause della crisi. A questo riguardo s'è molto discusso sul modello di crisi finanziaria elaborato a suo tempo dall'economista americano Hjman Minsky. Ridotto all'osso, il discorso d Minsky può essere così sintetizzato. Le condizioni favorevoli del mercato finanziario generano ottimismo, l'ottimismo induce gli operatori ad abbassare la guardia; ciò indebolisce progressivamente il sistema finanziario che si viene così a trovare esposto a possibili condizioni avverse, le quali, una volta realizzatesi, creano una corsa alle vendite... Gli economisti hanno parlato a questo proposito di "euforia irrazionale", di "spiriti animali". In realtà, si tratta di puro e semplice capitalismo. Che cos'è, infatti, il capitalismo se non un "modo di produzione" fondato sulla ricerca del "massimo profitto"? [C. Kindleberger Euforia e panico, R. Shiller Euforia irrazionale, G. Akelrof R. Shiller Spiriti animali, C. Reinhart K. Rogoff Questa volta è diverso, N. Ferguson Ascesa e declino del denaro. N. Roubini La crisi non è finita, Feltrinelli. P. Krugman La crisi del 2008 e il ritorno dell'economia della depressione. J. Stiglitz Bancarotta. R. Dore Finanza pigliatutto. M. Onado I nodi al pettine, Laterza]. Le leggi dell'economia. L'economia non è una “scienza esatta” nel senso che gli eventi economici non sono sottoposti a leggi che s'impongono con cieca necessità. Il mondo economico non funziona come un orologio. Il mondo economico è un mondo di propensioni – per il consumo, per il risparmio, per l'investimento - e di preferenze – preferenza per la liquidità - nel quale le decisioni sono prese da singoli individui in base a criteri che non sono riconducibili a quelli previsti da una logica freddamente economica. [G. Ackelrof R. Shiller Spiriti animali, Rizzoli]. Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare alla crisi finanziaria del 2008. La speculazione finanziaria aveva creato quella che in gergo si chiama bolla speculativa che aveva gonfiato oltre ogni misura il valore dei titoli. Ciò significava che, prima o poi, la bolla sarebbe scoppiata: malgrado ciò, la gente continuava a comperare cercando di guadagnare in questo modo il più possibile nel minor tempo possibile. [M. Onado I nodi al pettine, Laterza] Oppure, possiamo pensare alla vicenda della New Economy. Salutata come una nuova Età dell'oro [J. Rifkin L'età dell'accesso, Mondadori], essa finì per crollare su se stessa, a causa dei propri successi il cui segreto stava nell'aver trasformato il capitalismo in una sorta di casinò nel quale l'attività economica era diventata un gioco d'azzardo dove vinceva chi era più bravo a bluffare. [G. Rossi Mercato d'azzardo, Adelphi). Il mezzo comunemente usato dagli amministratori delle imprese era quello della manipolazione dei libri contabili, in americano “to cook the books”. Le imprese della New Economy erano diventate delle maestre nell'arte di manipolare i libri contabili, ovvero, nel cooking the books. Ciò divenne evidente con il fallimento di Enron, la grande utility americana che in combutta con la società che doveva certificare i suoi bilanci, gonfiò le proprie attività in modo da attrarre sempre nuovi investitori i quali affidavano alla Enron i propri risparmi non tenendo conto del fatto che solo “sound firms” danno “sound profits”. Il fallimento di Enron pose all'attenzione dell'opinione pubblica un problema che è vecchio come il capitalismo: si tratta del problema della responsabilità delle imprese. Tale problema è venuto ad aggravarsi nel corso del tempo con il passaggio dall'impresa gestita individualmente dal singolo imprenditore a quella che Paul Baran e Paul Sweezy chiamarono “società per azioni gigante”. In essa, la proprietà della impresa è scissa dalla gestione, affidata a un consiglio d'amministrazione, il quale nomina un amministratore delegato. [P. Baran P. Sweezy Il capitale monopolistico, Einaudi]. Con lo sviluppo di questa forma di società, già studiata negli anni '30 la proprietà e venuta sempre più a separarsi dalla gestione dell'impresa e i consiglieri di amministrazione son diventati sempre più potenti e arroganti; tant'è vero che sono essi che stabiliscono l'ammontare delle proprie remunerazioni e decidono l'attribuzione a se stessi di azioni della società da essi amministrata. [A. Berle Gardiner Means Società per azioni e proprietà privata Einaudi] Questa trasformazione dell'impresa ha aperto un dibattito sulla logica aziendale e sugli obiettivi da essa perseguiti. Tale dibattito è ben rappresentato da due testi pubblicati alla metà degli anni '60: Il nuovo stato industriale di John K. Galbraith e Il capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy che furono recensiti con la consueta acutezza da Federico Caffè [F. Caffè Temi e problemi di politica sociale, Laterza]. Si vennero così a creare, per farla breve, due scuole di pensiero: una scuola di pensiero per la quale tale trasformazione dell'impresa avrebbe portato al superamento della logica economica basata sulla ricerca del massimo profitto; e la scuola di pensiero per la quale l'avvento di tale trasformazione a livello d'impresa avrebbe mantenuto inalterato l'obiettivo della ricerca del massimo profitto come punto di riferimento della gestione dell'impresa. La crescente finanziarizzazione dell'economia ha accresciuto il potere dei CEOs i quali son diventati dei moderni mandarini del capitale, per usare una bella definizione dell'economista africano Samir Amin, autore di alcuni illuminanti saggi sulla globalizzazione pubblicati sulla Monthly Review. Sono loro, i CEOs delle società per azioni giganti che decidono le politiche aziendali avendo come obiettivo, da un lato, quello di impinguare il portafoglio dei soci della società; dall'altro lato, quello di incrementare i propri guadagni con succose opzioni azionarie. Tutto ciò toccò l'acme alla fine dei “ruggenti Novanta”, allorché parve d'essere entrati nell'Era di Cuccagna. A chi obiettava che, prima o poi, l'euforia per la continua ascesa del corso dei titoli si sarebbe sgonfiata e sarebbe subentrata un'Era del Cordoglio si rispondeva che egli non aveva capito che il mondo era cambiato e che il capitalismo, grazie alla teoria delle “aspettative razionali”, aveva trovato il modo di crescere senza incorrere nel rischio di precipitare in crisi simili a quelle del passato. [Per una critica della teoria delle aspettative razionali vedi J. Tobin Problemi di economia contemporanea, Laterza] Scempiaggini. La crisi sopravvenne e sopravvenne pure il cordoglio. Nessuno, però, pagò per aver recato danno all'immagine del capitalismo. Perché di questo si tratta. In borsa c'è chi specula al rialzo e chi specula al ribasso; cioè, c'è chi compra oggi per vendere domani e c'è chi vende oggi per comprare domani. Ciò che gli uni perdono è guadagnato dagli altri. Noi veniamo informati su chi perde. Nulla ci viene detto su chi guadagna, anche se i nomi sono noti. Polemiche a parte, resta il fatto che a comperare ed a vendere, siamo tutti noi; nel senso che siamo tutti noi attraverso i nostri risparmi, gli accantonamenti per la pensione che vengono investiti in borsa dai nostri fondi pensione, a portare acqua al mulino del Finanzkapital. [L. Gallino Finanzkapital, Einaudi] Ne deriva, che non usciremo dalla crisi finché non ci saremo liberati di questa mentalità; finché non avremo tolto gli scheletri dai nostri armadi; finché non saremo pronti ad abbracciare un nuovo modo di vedere le cose di questo mondo. In altre parole, finché non avremo smesso d'essere consumatori e saremo ritornati ad essere dei cittadini. Capitalismo, socialismo, democrazia. La parola capitalismo non è mai entrata nel lessico dell'economia politica. Alla parola capitalismo, gli economisti hanno sempre preferito l'espressione economia di mercato. Come ricordò Pierre Vilar, la parola capitalismo venne usata dagli storici che studiarono le origini del capitalismo, i suoi rapporti con la religione, come Lujo Brentano, Max Weber, Richard Tawney, Werner Sombart, Ernest Troletsch. [P. Vilar Le parole della storia, Editori Riuniti] Non dobbiamo stupirci, perciò, se essi non possono aiutarci in alcun modo a capire il funzionamento del capitalismo. Come scrisse infatti Confucio, noi arriviamo a conclusioni sbagliate se usiamo parole sbagliate. Con l'espressione economia di mercato si intende porre l'accento sul fatto che si tratta di un'economia la cui istituzione fondamentale è rappresentata dal mercato. In realtà, l'istituzione chiave del capitalismo è rappresentata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Ciò distingue il capitalismo dal socialismo la cui economia è gestita secondo un piano elaborato dall'autorità addetta alla gestione dell'economia. Tale gestione può essere accentrata o decentrata, ma pur sempre di pianificazione si tratta [W. Brus Il funzionamento dell'economia socialista, Feltrinelli]. Si tratta, cioè. di un sistema economico nel quale vengono fissati dalla autorità preposta alla pianificazione gli obiettivi del piano, le quantità che devono essere prodotte d'ogni bene, le sue caratteristiche tecniche, il suo prezzo... [M. Ellman La pianificazione socialista, Editori Riuniti] Teoricamente, ciò può può essere realizzato o mediante il ricorso o al metodo empirico dei cosiddetti bilanci materiali lungamente in uso in Urss [C. Bettelheim Problemi teorici e pratici della pianificazione, Savelli]; o mediante il ricorso a complesse matrici industriali e a non meno complesse tecniche di calcolo.[V. Marrama Programmazione e sviluppo economico in Urss, Boringhieri] Ciò non mette al sicuro dalle crisi. Possono infatti pur sempre crearsi delle situazioni di crisi dovute ad inconvenienti tecnici o ad errori di calcolo che possono scatenare delle crisi economiche a causa della creazione di colli di bottiglia oppure a causa della pessima qualità dei beni prodotti delle imprese socialiste. [M. Ellman La pianificazione socialista, Editori Riuniti] Gli inconvenienti principali del capitalismo sono quelli che sono legati alle sue crisi periodiche. Le crisi capitalistiche sono di diversi tipi, ma le loro cause sono riconducibili, in un modo o nell'altro, alla ricerca del massimo profitto combinata con l'anarchia della produzione capitalistica. Il socialismo è stato sempre visto dai liberali come la via della servitù. In realtà, non c'è servitù peggiore di quella prodotta dal lavoro salariato. Questo fatto è sempre stato negato dagli economisti borghesi. Per essi, come scrisse Marx, “il capitale può accrescersi solo se si scambia con lavoro”, quindi, ”l'interesse dell'operaio e del capitalista sono gli stessi.” Fu in questo quadro che venne elaborata la teoria dei cosiddetti fattori della produzione – terra, capitale, lavoro – definita sprezzantemente da Marx come la “formula trinitaria”. Tale “formula” è sopravvissuta alle critiche di Marx e continua ad essere usata da economisti, uomini politici, opinionisti. In realtà, come scrisse Marx nei “Lineamenti”, la trasformazione del lavoro in capitale è il risultato dello scambio tra capitale e lavoro. Essa ha luogo nel processo di produzione, perciò, notò Marx, “è dunque assurdo chiedersi se il capitale sia produttivo o no. Il lavoro stesso è produttivo solo in quanto è assunto nel capitale”. Nei suoi termini generali, la questione si presenta, perciò, in questo modo: ”La produttività del capitale consiste anzitutto, scrisse Marx in “Teorie sul plus-valore”, nella costrizione a fornire plus-lavoro, a lavorare in misura superiore alle necessità immediate, una costrizione che il modo di produzione capitalistico ha in comune con i modi di produzione precedenti ma che esso esercita, realizza in modo più favorevole alla produzione”. Tale concetto, sviluppato nel “Capitolo VI inedito” dove vennero introdotti i concetti di sussunzione reale e di sussunzione formale del lavoro al capitale, trovò la sua definizione ultima in “Il capitale”. Per Marx infatti il capitale è prima di tutto un rapporto sociale. Ciò pone un problema di importanza capitale. La democrazia è un bene indivisibile. Essa deve caratterizzare tutte le istituzioni d'uno stato. La fabbrica è una di queste istituzioni. Tale era il senso che si poteva trarre dalla lettura del famose “sette tesi sul controllo operaio” pubblicate da Panzieri e da Libertini nel 1958 sulla rivista socialista Mondo operaio. La pubblicazione delle tesi di Panzieri e Libertini suscitarono un vivace dibattito sia nel Psi che nel Pci con gli interventi di Francesco De Martino, Rodolfo Morandi, Alberto Caracciolo, Vittorio Foa, Antonio Pesenti, Roberto Guiducci, i quali espressero in genere un notevole imbarazzo, poiché le tesi di Panzierri e Libertini ponevano il problema centrale della via al socialismo. Per Panzieri e Libertini socialismo significava infatti autodeterminazione e tale autodeterminazione non poteva non partire dalla fabbrica. E' trascorso mezzo secolo d'allora. Il socialismo è stato messo in soffitta. Resta il problema della democrazia, la quale, come ho detto, non è un bene divisibile, ma deve essere presente in tutte le istituzioni, a cominciare dalla fabbrica. Il mito della mano invisibile. Secondo la teoria economica oggi dominante, che altro non è che un banale rifacimento della teoria smithiana della mano invisibile, ciascuno di noi, perseguendo il proprio interesse è come condotto da una mano invisibile a realizzare inconsapevolmente il massimo benessere per la collettività nel suo insieme. [A. Roncaglia Il mito della mano invisibile, Laterza] Domanda è davvero così? No. Non è così. Per renderci conto di questo fatto possiamo pensare agli effetti negativi prodotti da quella che Fred Hirsh chiamò competizione per i beni posizionali che ha portato alla distruzione dei boschi, alla cementificazione delle coste, all'inquinamento atmosferico. [F. Hirsh I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani] Oppure, possiamo pensare a cosa succederebbe se un'impresa decidesse di abbassare i prezzi dei propri prodotti per battere le concorrenza di altre imprese. Succederebbe che essa indurrebbe le altre imprese a ridurre i prezzi dei loro prodotti innescando in questo modo una corsa al ribasso dei prezzi che porterebbe alla fine ad una riduzione dei profitti [D. Kreps Teoria dei giochi e teoria economica, Il mulino] Oppure, possiamo pensare a cosa succederebbe se tutti gli imprenditori italiani decidessero di tagliare i salari dei loro dipendenti per potere aumentare i propri profitti. Ciò che otterrebbero sarebbe un crollo della domanda dei loro prodotti che porterebbe ad un crollo dei profitti. Come scrisse infatti Kalecki, i capitalisti guadagnano ciò che spendono, i lavoratori spendono ciò che guadagnano. Ciò significa che l'economia funziona finché i capitalisti investono i loro profitti e i lavoratori spendono i loro salari in acquisti per le loro famiglie. [M. Kalecki Saggi sulla dinamica dell'economia capitalistica, Einaudi] Non solo. Più i salari sono elevati meglio funziona l'economia perché più alti sono i profitti; profitti più alti significa maggiori investimenti; maggiori investimenti significano maggiore occupazione. Il problema, come scrisse sempre Kalecki, è che l'investimento è utile. Cioè, crea capacità produttiva. Ciò, disincentiva, a lungo andare gli investimenti, la riduzione degli investimenti provoca un rallentamento nella crescita dell'economia. Opposto era il punto di vista di Ricardo. Per Ricardo che scriveva nei primi due decenni dell'Ottocento, il profitto era un residuo, cioè era quello che restava al capitalista dopo che questi aveva pagato i salari dei lavoratori, per cui egli poteva affermare che: se i salari aumentano, ferme restando le altre condizioni, i profitti diminuiscono. Appunto: ferme restando le altre condizioni. In economia, però, le condizioni non sono mai ferme. Uno di fattori fondamentali per la crescita dell'economia è il progresso tecnico. Con il progresso tecnico aumenta la produttività del lavoro, quindi, aumentano i profitti dei capitalisti. A quel punto, si pone un altro problema, quello della redistribuzione dei profitti che sono aumentati grazie al progresso tecnico che ha aumentato la produttività del lavoro. Questa redistribuzione del reddito è tanto più elevata quanto più forti sono i sindacati dei lavoratori; i sindacati dei lavoratori sono tanto più forti quanto più compatti sono i lavoratori e i lavoratori sono tanto più compatti quanto sono concentrati in pochi luoghi di lavoro. I capitalisti l'avevano sempre saputo, ma avevano dovuto accettare la situazione non avendo alternative. La catena di montaggio, infatti, mentre spezzettava il lavoro rendendo in frantumi la personalità dell'operaio, offriva agli operai la possibilità di colpire al cuore i processo di valorizzazione del capitale. Bloccare la catena, voleva dire bloccare la fabbrica, mettere in crisi il processo di estrazione del plusvalore, forma originaria del profitto e costringere i capitalisti a scendere a patti con i sindacati. Come ho detto, i capitalisti avevano sempre saputo che la catena rafforzava il potere dei sindacati, così avevano pensato di indebolire i sindacati indebolendo i lavoratori attraverso l'aumento dei ritmi di produzione: potere come controllo dei corpi in movimento. Foucault più Marx, Babbage più Bentham. In una parola, taylorismo. Tutto ciò è durato fino alla rivoluzione microelettronica che ha permesso di rivoluzionare la fabbrica. Isole, robot, metodo Toyota. A poco a poco ciò ha indebolito in modo drammatico la classe operaia, ha rotto la tela dei rapporti di lavoro, ha isolato i lavoratori, ha colpito a morte il processo di formazione della coscienza di classe. Oggi stiamo facendo i conti con l'esito finale di questo processo. Un processo che come abbiamo visto viene da lontano ed è destinato ad andare lontano. Ciò pone le organizzazioni dei lavoratori di fronte ad un problema di sopravvivenza e possiamo capire, la difesa dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori che è assurto a simbolo d'una lotta di classe di non c'è più, mancando la classe, o meglio mancando le condizioni per la formazione d'una classe sociale nel senso pieno della espressione. [H. Braverman Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, A. De Palma Macchine e grande industria da Smith a Marx, Einaudi, M. Kalecki Saggi sulla dinamica della economia capitalista, Einaudi, L.Pasinetti Sviluppo economico e distribuzione del reddito, Il mulino, P. Garegnani Valore e domanda effettiva, Einaudi. P. Leon Teoria della domanda effettiva, Feltrinelli] Microeconomia, macroeconomia, politica economica . La microeconomia si occupa dell'analisi dei problemi economici a livello di impresa. La macroeconomia si occupa dell'analisi dei problemi economici a livello nazionale. Non a caso, il suo insegnamento inizia normalmente con l'analisi del processo di formazione del reddito nazionale e della sua ripartizione fra consumi, risparmi investimenti, spese pubbliche, esportazioni: Y = C+S+I+G+E In questo contesto è usuale distinguere fra economia positiva e economia normativa, dove l'economia positiva studia le leggi dell'economia e l'economia normativa studia il modo in cui intervenire nell'economia al fine di indirizzarla nel senso voluto nel rispetto delle sue leggi.[P. Samuelson Economica, Utet]. Il fatto è che le leggi dell'economia non sono leggi di carattere deterministico. Non esiste in economia una relazione fra causa ed effetto simile a quella che si genera quando usiamo una leva; ovvero, per metterla in termini filosofici, non esiste una relazione del genere Se A ►B La relazione è: Se A►B, C, D Caso emblematico è quello del funzionamento del mercato borsistico, dove contano più le voci, gli umori, i timori, le aspettative che il freddo calcolo economico basato sui cosiddetti fondamentali. [R.Shiller Euforia irrazionale, Il mulino] In altre parole, tutto quello che possiamo dire è che se accade A l'esperienza ci dice che potrebbe accadere B; cioè, se il prezzo delle Panda diminuisse potrebbe registrarsi un aumento delle loro vendite, ma potrebbe anche non accadere e Fiat potrebbe registrare addirittura una diminuzione delle vendite delle Panda e un aumento a favore di qualche altro modello della stessa Fiat il cui prezzo è aumentato. In altre parole, le leggi economiche fanno parte di una cassetta di strumenti che vanno usati con la necessaria cautela [C. Kindleberger Leggi economiche e storia, Laterza] Produzione, distribuzione e crescita economica. Secondo la famosa definizione, David Ricardo, l'economia politica studia le leggi che regolano la distribuzione del reddito nazionale fra rendite, profitti, salari. Per Ricardo, le leggi che regolavano la produzione erano immutabili ed eterne. [L. Robbins La teoria della politica economica, Utet] In realtà, produzione e distribuzione sono, per dirla in parole povere, le due facce della stessa medaglia. A dire. Sono i rapporti sociali che regolano la produzione a determinare il modo in cui il reddito viene distribuito fra rendite, profitti, salari. Ciò significa che nessuna riforma nella distribuzione potrà cambiare la relazione di subordinazione del lavoratore al suo datore di lavoro, cioè il rapporto capitale/lavoro. Come scrisse Marx, il capitale è, prima di tutto, un rapporto sociale. [K. Marx Introduzione del 1857 in Per la critica dell'economia politica, Editori Runiti] Chiarito ciò, resta da rispondere ad una domanda che l'opinione pubblica si pone: “Un cambiamento nella distribuzione del reddito può modificare il saggio di crescita dell'economia?”. La risposta è che l'esperienza ci dice che tutti i paesi più sviluppati presentano dei livelli di consumi più elevati di quelli esistenti nei paesi meno sviluppati.[D. Landes La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti]. Tuttavia, in teoria, è possibile immaginare anche altre vie allo sviluppo Malthus pensava 1) che nessun imprenditore investe per produrre beni che il mercato non richiede; 2) che – data la legge della popolazione – i salari erano destinati a restare al livello della sussistenza. Ciò significava che essi non avrebbero mai fornito incentivi ad investire ai capitalisti. Ne derivava che tali incentivi potevano provenire solo dai consumi di lusso delle classi elevate. [C. Napoleoni La posizione del consumo nella teoria economica, in Id Dalla scienza all'utopia, Boringhieri] Problema analogo si pone, in termini keynesiani, per quello che riguarda la funzione del risparmio. Per i keynesiani, com'è noto, capitalisti e operai hanno due diverse propensioni al risparmio e quella dei capitalisti è più alta di quella degli operai. Il caso limite è rappresentato da una propensione al risparmio degli operai uguale a zero. Ebbene, è stato dimostrato che questo fatto non influenzerebbe negativamente il saggio di crescita dell'economia. [L. Pasinetti Sviluppo economico e distribuzione del reddito, Il mulino] Crescita economica e forme di mercato. Teoricamente, esistono due forme estreme di mercato. Il mercato di concorrenza perfetta e il mercato in una situazione di monopolio. Nel primo caso, le imprese presenti sul mercato ricevono i prezzi dal mercato dove essi si formano in base alla legge della domanda ed offerta. Nel secondo caso, c'è un'impresa che controlla il mercato e può imporre ai compratori un determinato prezzo, oppure, una determinata quantità. [J. Robinson Che cos'è la concorrenza perfetta, in Prezzi, valore, distribuzione del reddito, Il mulino. J. Hicks Teoria del monopolio, Prezzi cit.] Fra queste due posizioni estreme, esistono posizioni intermedie, definite dalla teoria come concorrenza imperfetta, concorrenza monopolistica, oligopolio. In ciascuna di queste forme, la concorrenza non viene meno, ma si trasforma; diventa una concorrenza tra pochi i quali possono trovare il modo di giungere a un accordo ponendo fine alla stessa concorrenza. Oppure, possono dar vita a delle vere e proprie guerre economiche. [K. Rothschild Teoria del monopolio, in Economisti moderni, a cura di F. Caffè, Laterza] Ora, non occorre essere prevenuti nei confronti del capitalismo per vedere nel fenomeno della monopolizzazione dell'economia un elemento che, smorzando o bloccando del tutto lo stimolo della concorrenza, finisce per frenare il processo di crescita dell'economia capitalistica. Emblematica a questo riguardo è la posizione di Joseph Alois Schumpeter. Parlare di sviluppo economico, per Schumpeter, è parlare di innovazione. E' il ciclo dell'innovazione, infatti, che determina il ciclo economico. Figura dominante lo scenario economico schumpeteriano è l'imprenditore innovatore. Tale figura, tipica del capitalismo delle origini, secondo Schumpeter, è destinata a scomparire con il procedere dell'accumulazione capitalistica, la trasformazione delle imprese in entità burocratiche che mirano più ad estendere il loro controllo sull'esistente che alla sua trasformazione. [J. A. Schumpeter La teoria dello sviluppo economico, Sansoni. Id. Il processo capitalistico, Boringhieri, Id. Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Libri, Id. L'imprenditore, Bollati Boringhieri] Il capitale. Il capitale è l'opera più famosa di Marx e anche la più controversa. "Il capitale" è sempre stato letto, infatti, come un libro di economia nel quale Marx analizza il processo di accumulazione del capitale. In realtà, "Il capitale" è un libro di filosofia costruito attorno a quella che Il'enkov chiamò la dialettica dell'astratto e del concreto. Come Marx scrisse infatti nella "Einleintung", "il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni e unità del molteplice". E' per questo motivo, notò Marx, che esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l'effettivo punto di partenza. Ed è per questo motivo, spiegò Marx, che Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall'astratto al concreto è solo il modo il cui il pensiero si appropria del concreto. In altre parole, Marx, dopo aver svelato in "Critica della filosofia hegelana del diritto pubblico" quello che Della Volpe chiamò il falso mobile della dialettica hegeliana, si propose di rimettere la dialettica hegeliana con i piedi per terra. Ovvero, per usare le parole di Marx, di isolare il nucleo razionale dentro il guscio mistico della dialettica hegeliana. "Il capitale" rappresenta il tentativo operato da Marx in questo senso. Ne è uscita un'opera ponderosa e di difficile lettura a causa del linguaggio spesso astruso e oscuro usato da Marx, il quale non era un economista ma era un filosofo laureatosi con una tesi sulle filosofie di Democrito e di Epicuro. Scopo di "Il capitale" era quello di fornire alla classe operaia l'arma per combattere la borghesia nel campo della teoria. Come Marx aveva scritto infatti in "Critica della filosofia del diritto di Hegel", se è vero che una potenza materiale può essere abbattuta soltanto da un'altra potenza materiale, è anche vero che la teoria diventa forza materiale non appena penetra fra le masse. "Il capitale" venne pubblicato nel 1867, solo alcuni anni prima della pubblicazione di "Teoria dell'economia politica" di Jevons la quale inaugurò la cosiddetta "rivoluzione marginalista che getttò alle ortiche la teoria del valore-lavoro sulla quale era stato costruito "Il capitale" e propose una nuova teoria del valore basata sul concetto di utilità. Secondo la teoria del valore-lavoro, i beni avevano valore in quanto prodotti del lavoro umano e il tempo di lavoro impiegato nella loro produzione era la misura del loro valore. Come Marx aveva infatti scritto in "Per la critica dell'economia politica", il valore d'uso è la base materiale in cui si presenta il valore di scambio, la cui misura è il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre una merce. Secondo la nuova teoria, i beni avevano valore, come scrisse Wicksell, "soltanto in virtù della loro utilità, vale a dire, del godimento e della soddisfazione che ci danno, oppure, della quantità di pena e disagio dalla quale ci liberano". In tale contesto, il lavoro era considerato come un bene qualsiasi e il lavoratore era considerato un imprenditore di se stesso che prendeva le proprie decisioni riguardanti il bene che possedeva in base ad un calcolo di utilità e di disutilità, ovvero, di soddisfazione e disagio. La questione è di grande importanza. La teoria del valore-lavoro e la teoria del valore basata sull'utilità esprimevano due differenti visioni del mondo che caratterizzarono due epoche: l'epoca del ascesa della borghesia e l'epoca del trionfo della borghesia. In questo quadro, "Il capitale appartiene al novero delle grandi opere classiche come "La ricchezza delle nazioni" e i "Principi di economia " di Ricardo. Per Marx, il capitalismo è una formazione economico-sociale storica. Esso è apparso in una certa epoca della storia ed è destinato, a causa delle proprie contraddizioni interne, a lasciare posto ad un'altra e superiore formazione economico-sociale. "Il capitale" è dedicato all'analisi delle suddette contraddizioni e all'enunciazione di tre grandi leggi: la legge della proletarizzazione crescente dei ceti medi, la legge dell'immiserimento crescente del proletariato, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. In termini formali, se C= capitale costante V=salari S=plusvalore q=composizione organica del capitale= C/V s=saggio di sfruttamento =S/V p= S/C+V=saggio di profitto vediamo che, rimanendo costante il saggio di sfruttamento s, p diminuisce all'aumentare di q, ovvero p=s/1-q L'errore di Marx consistette nel mantenere s costante, laddove è evidente che nel corso del processo di accumulazione non aumenta solo la dotazione di capitale, ma aumenta anche la produttività del lavoro, ovvero, quello che Marx chiamò saggio di sfruttamento s. In questo quadro, vanno inserite le altre due grandi leggi marxiane: la legge dell'impoverimento crescente della classe operaia, la legge della proletarizzazione crescente dei ceti medi. Ora, non occorre ricordare che nessuna di queste leggi è andata a fagiolo. Il motivo è da rintracciarsi nel fatto che il capitalismo ha dimostrato una capacità di rinnovamento che Marx no aveva nemmeno sospettato. Non solo, nel conto va messo anche l'effetto che la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni operaie hanno avuto sull'evoluzione politica dei paesi capitalistici avanzati che permise l'introduzione di nuove leggi a protezione dei lavoratori, l'introduzione delle assicurazioni sociali e così via, fino alla creazione del moderno stato sciale. A questo punto, qualcuno potrebbe chiedere per quale motivo dovremmo leggere un'opera che è stata così gravemente contraddetta dai fatti. A tale domanda si può rispondere in due modi. O nel modo di chi intende salvare “Il capitale” a tutti i costi come hanno fatto numerosi marxisti cercando di riformulare, spesso in modo immaginoso, le equazioni di Marx; oppure si può rifare a ritroso il percorso fatto da Marx per giungere alla stesura di “Il capitale” e scoprire l'attualità dell'opera di Marx. Per capire “Il capitale” occorre partire dalla fine, dal terzo libro di “Il capitale” e precisamente dalle pagine in cui Marx affronta il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Tale problema non venne risolto da Marx. Marxisti e critici di Marx hanno tentato di risolverlo per via matematica. In realtà nella mancata soluzione del problema è nascosto il motivo dell'attualità dell'opera di Marx. Nella mancata soluzione del problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione sta il segreto della crisi del capitalismo, la ragione per la quale ad un certo punto il processo di accumulazione si interrompe e scoppia la crisi. Gli analisti finanziari parlano di “fondamentali”. Marx parlava di valori. Il problema di fondo è il medesimo e medesimo è anche l'effetto ultimo. In questo contesto, diventa fondamentale l'analisi marxiana del denaro esposta nei “Lineamenti fondamentali d'una critica dell'economia politica” Come scrisse infatti Marx, “ciò che rende particolarmente difficile la comprensione del denaro nella sua determinazione di denaro è che qui un rapporto sociale, una determinata relazione fra individui si presenta come metallo, come pietra, come oggetto puramente materiale esterno ad essi, il quale come tale viene trovato in natura e nel quale non resta più da distinguere , dalla sua esistenza naturale, neppure una determinazione formale”. Oggi le banche hanno sostituito la natura e l'oro è stato sostituito dai derivati. Come dire che il processo di alienazione si è ulteriormente perfezionato fino a trasformare la realtà in feticcio: che esattamente ciò che Marx voleva dire in “Il capitale”. In tal senso, “I capitale” chiude un percorso di ricerca iniziato con i “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, dove Marx elabora il concetto di alienazione capitalistica. “Questo fatto, scrisse Marx, non esprime altro che questo: che l'oggetto, prodotto del lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l'oggettivazione del lavoro” che diventa “espropriazione dell'operaio, come alienazione”. Ciò significa, come scrisse Marx nei “Lineamenti” che “nessuna forma di lavoro salariato, sebbene possa eliminare gli inconvenienti dell'altra, può eliminare gli inconvenienti del lavoro salariato stesso”, vale a dire l'alienazione del lavoratore nel prodotto del suo lavoro. Solo l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione potrà fare una cosa del genere. Ciò non avverrà per una decisione dall'alto, ma sarà il punto di arrivo di un lungo processo storico che creerà le basi per il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione e scambio. Questo fatto comporterà il superamento della vecchia forma di calcolo economico fondato sul principio della massimizzazione del profitto e darà vita ad una nuova forma di calcolo economico fondato sulla ricerca del benessere collettivo. Molte sono state le critiche rivolte all'opera di Marx. Quella più interessante è stata mossa da Baran e da Sweezy in “Il capitale monopolistico”. Secondo i due economisti marxisti americani, “l'analisi marxista del capitalismo, in fondo riposa ancora sul presupposto di un'economia concorrenziale.” In altre parole, secondo Baran e Sweezy, è assente in Marx un'analisi della società per azioni gigante che costituisce oggi il nerbo del capitalismo contemporaneo. L'analisi del modus operandi della società per azioni gigante porta Baran e Sweezy a abbandonare la teoria del valore-lavoro di Marx e a sostituire alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto con la legge della tendenza del surplus economico effettivo ad aumentare, in virtù delle pratiche monopolistiche messe in atto dalla società per azioni gigante che la porta ad accumulare un eccesso di capacità produttiva. Baran e Sweezy basano la loro analisi sui dati contenuti nel rapporto del Kefauver Commitee sull'industria dell'auto. Secondo tale rapporto presentato nel 1957, la General Motors produsse nel 1957 3,4 milioni di automobili da essa vendute ad un prezzo medio di 2213 dollari l'una. I costi variabili ammontarono a 1350 dollari l'una, lasciando 863 dollari per spese generali e profitti. Le spese generali ammontarono a 1870 milioni di dollari, le quali, ripartite fra tutte le automobili prodotte, produssero profitti per 313 dollari ad automobile. Il “punto di rottura”, corrispondente ad un profitto pari a zero, era stato calcolato nel 65% delle vendite del 1957. La tendenza del surplus economico effettivo ad aumentare poneva il problema del suo assorbimento che veniva risolto attraverso il consumo dei capitalisti, la promozione delle vendite, le spese militari, gli investimenti esteri, in una parola, attraverso le tradizionali pratiche imperialistiche. Tali pratiche erano state studiate da Lenin in “Imperialismo fase suprema del capitalismo”. Nella sua opera pubblicata nel nell'aprile del 1917, Lenin notava che “la concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare, si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche.... Viene socializzata la produzione ma l'appropriazione dei prodotti rimane privata.” Nello stesso tempo, notava Lenin, “si sviluppa, per così dire, un'unione personale tra banca e le maggiori imprese industriali mediante il possesso di azioni o l'entrata degli uomini delle banche nei consigli di amministrazione delle imprese industriali”,. L'unione personale delle banche con l'industria è completata dall'unione personale di entrambe con il governo. Ciò, notava Lenin, portandoci ai nostri giorni, ha favorito, da un lato, la fusione, se non la simbiosi, del capitale bancario col capitale industriale, e dall'altro lato al trasformarsi delle banche in istituzioni veramente di carattere universale. Dal punto di vista teorico, come aveva spiegato Hilferding in “il capitale finanziario”, l'avvento del capitale finanziario aveva portato ad una rottura del processo D-M-M'D' e alla creazione di un nuovo ramo D-D' che rappresentava il processo in base al quale il denaro si auto-valorizzava in virtù della sola speculazione finanziaria che generava un nuovo genere di crisi di carattere finanziario destinata a trasformarsi in crisi bancaria ed industriale n virtù degli stretti collegamenti esistenti tra banca e industria. Costo. valore, prezzo. In un'economia di mercato i prezzi sono determinati dal “gioco” della domanda e dell'offerta. In un'economia socialista i prezzi sono fissati dall'autorità preposta alla pianificazione [C. Bettelheim Problemi teorici e pratici della pianificazione, Savelli]. Ciò, secondo Ludwig von Mises renderebbe l'economia di mercato più efficiente dell'economia socialista [L. von Mises Socialismo, Rusconi. F. A. von Hayek, a cura di, La pianificazione nell'economia collettivista, Einaudi]. In realtà, come abbiamo visto, anche in un'economia di mercato, i prezzi sono pianificati. Ciò non avviene a livello generale, ma avviene livello di impresa. Il metodo, abbiamo visto anche questo, è quello di calcolare il prezzo aggiungendo un margine di profitto al costo primo. Secondo Michal Kalecki l'ammontare di questo margine dipende dal grado di monopolio di cui godono le imprese [M. Kalecki, Teoria della dinamica economica, Einaudi]. Paolo Sylos Labini dimostrò che la logica in base alla quale il prezzo d'un bene viene fissato a livello di impresa è molto più complessa di quello che Kalecki immaginasse dipendendo dalla strategia complessiva di impresa, ma l'effetto finale è il medesimo: il mercato, la legge della domanda e dell'offerta, e tutto quello che è legato ad essi vengono messi in soffitta [P. Sylos Labini Elementi di dinamica economica, Laterza] Noi continuiamo, però ad essere oggetto d'una battente campagna di stampa sulle meravigliose virtù dell'economia di mercato. Polemiche a parte, non posiamo non porci una domanda. Se i prezzi vengono determinati nel modo anzidetto, che fine ha fatto il valore dei classici, l'utilità dei neoclassici? [C. Napoleoni Valore, Isedi]. Per Ricardo, il costo d'un bene era determinato dal suo contenuto in lavoro. Il calcolo del costo richiedeva il possesso d'una misura invariabile del valore. David Ricardo, il fondatore della moderna Economica, spese le sue energie migliori nella ricerca di questa misura invariabile del valore [C. Napoleoni Smith, Ricardo, Marx, Boringhieri]. Essa venne trovata da Sraffa e fu da lui illustrata nella forma di “merce tipo” nel 1960 Produzione di merci e mezzo di merci. Così facendo, Sraffa risolveva uno dei più intricati problemi che avessero angustiato l'economia classica [R. Faucci, a cura di, L'economia classica, Feltrinelli], ma distruggeva l'intera impalcatura della economia classica trasformando il problema del valore-lavoro in un “problema ingegneristico” [G. Lunghini La crisi dell'economia politica e la teoria valore-lavoro, Feltrinelli]. Le leggi dell'economia. L'economia non è una “scienza esatta” nel senso che gli eventi economici non sono sottoposti a leggi che s'impongono con cieca necessità. Il mondo economico non funziona come un orologio. Il mondo economico è un mondo di propensioni – per il consumo, per il risparmio, per l'investimento - e di preferenze – preferenza per la liquidità - nel quale le decisioni sono prese da singoli individui in base a criteri che non sono riconducibili a quelli previsti da una logica freddamente economica. [G. Ackelrof R. Shiller Spiriti animali, Rizzoli]. Per renderci conto di questo fatto, possiamo pensare alla crisi finanziaria del 2008. La speculazione finanziaria aveva creato quella che in gergo si chiama bolla speculativa che aveva gonfiato oltre ogni misura il valore dei titoli. Ciò significava che, prima o poi, la bolla sarebbe scoppiata: malgrado ciò, la gente continuava a comperare cercando di guadagnare in questo modo il più possibile nel minor tempo possibile. [M. Onado I nodi al pettine, Laterza] Oppure, possiamo pensare alla vicenda della New Economy. Salutata come una nuova Età dell'oro [J. Rifkin L'età dell'accesso, Mondadori], essa finì per crollare su se stessa, a causa dei propri successi il cui segreto stava nell'aver trasformato il capitalismo in una sorta di casinò nel quale l'attività economica era diventata un gioco d'azzardo dove vinceva chi era più bravo a bluffare. [G. Rossi Mercato d'azzardo, Adelphi). Il mezzo comunemente usato dagli amministratori delle imprese era quello della manipolazione dei libri contabili, in americano “to cook the books”. Le imprese della New Economy erano diventate delle maestre nell'arte di manipolare i libri contabili, ovvero, nel cooking the books. Ciò divenne evidente con il fallimento di Enron, la grande utility americana che in combutta con la società che doveva certificare i suoi bilanci, gonfiò le proprie attività in modo da attrarre sempre nuovi investitori i quali affidavano alla Enron i propri risparmi non tenendo conto del fatto che solo “sound firms” danno “sound profits”. Il fallimento di Enron pose all'attenzione dell'opinione pubblica un problema che è vecchio come il capitalismo: si tratta del problema della responsabilità delle imprese. Tale problema è venuto ad aggravarsi nel corso del tempo con il passaggio dall'impresa gestita individualmente dal singolo imprenditore a quella che Paul Baran e Paul Sweezy chiamarono “società per azioni gigante”. In essa, la proprietà della impresa è scissa dalla gestione, affidata a un consiglio d'amministrazione, il quale nomina un amministratore delegato. [P. Baran P. Sweezy Il capitale monopolistico, Einaudi]. Con lo sviluppo di questa forma di società, già studiata negli anni '30 la proprietà e venuta sempre più a separarsi dalla gestione dell'impresa e i consiglieri di amministrazione son diventati sempre più potenti e arroganti; tant'è vero che sono essi che stabiliscono l'ammontare delle proprie remunerazioni e decidono l'attribuzione a se stessi di azioni della società da essi amministrata. [A. Berle Gardiner Means Società per azioni e proprietà privata Einaudi] Questa trasformazione dell'impresa ha aperto un dibattito sulla logica aziendale e sugli obiettivi da essa perseguiti. Tale dibattito è ben rappresentato da due testi pubblicati alla metà degli anni '60: Il nuovo stato industriale di John K. Galbraith e Il capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy che furono recensiti con la consueta acutezza da Federico Caffè [F. Caffè Temi e problemi di politica sociale, Laterza]. Si vennero così a creare, per farla breve, due scuole di pensiero: una scuola di pensiero per la quale tale trasformazione dell'impresa avrebbe portato al superamento della logica economica basata sulla ricerca del massimo profitto; e la scuola di pensiero per la quale l'avvento di tale trasformazione a livello d'impresa avrebbe mantenuto inalterato l'obiettivo della ricerca del massimo profitto come punto di riferimento della gestione dell'impresa. La crescente finanziarizzazione dell'economia ha accresciuto il potere dei CEOs i quali son diventati dei moderni mandarini del capitale, per usare una bella definizione dell'economista africano Samir Amin, autore di alcuni illuminanti saggi sulla globalizzazione pubblicati sulla Monthly Review. Sono loro, i CEOs delle società per azioni giganti che decidono le politiche aziendali avendo come obiettivo, da un lato, quello di impinguare il portafoglio dei soci della società; dall'altro lato, quello di incrementare i propri guadagni con succose opzioni azionarie. Tutto ciò toccò l'acme alla fine dei “ruggenti Novanta”, allorché parve d'essere entrati nell'Era di Cuccagna. A chi obiettava che, prima o poi, l'euforia per la continua ascesa del corso dei titoli si sarebbe sgonfiata e sarebbe subentrata un'Era del Cordoglio si rispondeva che egli non aveva capito che il mondo era cambiato e che il capitalismo, grazie alla teoria delle “aspettative razionali”, aveva trovato il modo di crescere senza incorrere nel rischio di precipitare in crisi simili a quelle del passato. [Per una critica della teoria delle aspettative razionali vedi J. Tobin Problemi di economia contemporanea, Laterza] Scempiaggini. La crisi sopravvenne e sopravvenne pure il cordoglio. Nessuno, però, pagò per aver recato danno all'immagine del capitalismo. Perché di questo si tratta. In borsa c'è chi specula al rialzo e chi specula al ribasso; cioè, c'è chi compra oggi per vendere domani e c'è chi vende oggi per comprare domani. Ciò che gli uni perdono è guadagnato dagli altri. Noi veniamo informati su chi perde. Nulla ci viene detto su chi guadagna, anche se i nomi sono noti. Polemiche a parte, resta il fatto che a comperare ed a vendere, siamo tutti noi; nel senso che siamo tutti noi attraverso i nostri risparmi, gli accantonamenti per la pensione che vengono investiti in borsa dai nostri fondi pensione, a portare acqua al mulino del Finanzkapital. [L. Gallino Finanzkapital, Einaudi] Ne deriva, che non usciremo dalla crisi finché non ci saremo liberati di questamentalità; finché non avremo tolto gli scheletri dai nostri armadi; finché non saremopronti ad abbracciare un nuovo modo di vedere le cose di questo mondo. In altreparole, finché non avremo smesso d'essere consumatori e saremo ritornati ad esseredei cittadini.