New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives NEO PP M Pubblicazione di informazione scientifica oncologica a cura di N° 4 Aprile 2014 L’Editore non si assume alcuna responsabilità per qualsiasi lesione e/o danno a persona o beni in quanto responsabilità di prodotto, negligenza o altrimenti, oppure a operazione di qualsiasi metodo, prodotto, istruzione o idea contenuti nel materiale di cui trattasi. A causa del rapido progresso nella scienza medica, l’Editore raccomanda la verifica indipendente delle diagnosi e del dosaggio dei medicinali. EDIZIONI TECNOGRAF S.r.l. Via Piave, 14 - 20010 Canegrate (MI) Tel. (+39) 0331.404.444 - Fax (+39) 0331.410.508 - E-mail: [email protected] Tutti i diritti riservati. È vietato riprodurre, archiviare in un sistema di riproduzione o trasmettere sotto qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per fotocopia, registrazione o altro, qualsiasi parte di questa pubblicazione senza autorizzazione scritta dell’Editore. Progetto grafico: Tecnograf s.r.l. Stampato in Italia da Tecnograf s.r.l. Direttore Responsabile: Giancarlo Martignoni Registrazione Tribunale Civile e Penale di Milano n. 301 del 30 settembre 2013 Edizione speciale fuori commercio riservata ai Sigg. Medici In copertina Vassily Kandisky - “Blu di cielo” (1940) 1 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives SOMMARIO EDITORIALE: L’anno che verrà Giancarlo Martignoni 3 Intervista a Francesco Perrone: 12° Rapporto Nazionale 2013 “La Sperimentazione Clinica dei Medicinali in Italia” Luciano Frontini 5 Mantenere, Depotenziare, Mandare in vacanza. How to cook it Alberto Zaniboni 9 Intervista a Roberto Labianca: Aspirina e riduzione del rischio di ripresa di malattia nel tumore del colon Antonio Ghidini 11 Terapia orale nel trattamento del tumore colo-rettale metastatico: vantaggi e limiti Sandro Barni, Fausto Petrelli, Andrea Coinu 15 Quel tumore che verrà domani… forse Medicina predittiva in oncologia Francesca Adami, Fiorella Carbonardi, Elena Panizza, Enrico Aitini 23 GISCAD NEWS 31 N° 4 APRILE 2014 3 EDITORIALE: L’ANNO CHE VERRÀ ……l'anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va. Continuando la traccia della splendida canzone di Lucio Dalla, già citata nel precedente Editoriale, vorrei fare alcune considerazioni su quello che mi aspetto, e spero vi aspettiate, cari lettori, per il nuovo anno. La revisione accurata della letteratura degli ultimi mesi, la selezione degli articoli più importanti, l’esigenza della conoscenza degli standard internazionali di trattamento che più frequentemente ricorrono nella pratica clinica dell’oncologo medico, sono servizi che riteniamo possono essere di utilità per il lettore e, per questo, ottenere un alto indice di gradimento. Con queste parole terminava l’editoriale di Gino Luporini nel primo numero di MOPP nell’ormai lontano anno 2000. Siamo sopravvissuti come carta stampata, lucida e profumata, agevole da consultarsi e molto meno (lo ammetto) da archiviare o da eliminare, agli ultimi anni di novità on line, tra cinguettii, newsletter e web conference. Il nostro sito GISCAD può fornire quell’aggiornamento continuo di qualità e informazione che ci siamo prefissati, e abbiamo incrementato con gli incontri di STAGE inteso come Scuola (termine obsoleto, con antichi ricordi…), STAGEinweb (intraducibile o quasi), video-conferenze, MOPP ON LINE. Nonostante ciò, NEO-MOPP è restato, e vorrebbe aiutarvi, ogni 4 mesi, a fare un riassunto critico sulla evoluzione delle nostre conoscenze, per avere quei suggerimenti pratici, adatti per i pazienti che vediamo tutti i giorni nei nostri ambulatori, con pluri-comorbilità fisiche e cognitive, molto lontani da quelli degli studi clinici controllati e randomizzati. 4 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives Argomenti quindi affidati ad autori “anziani” (di grande esperienza e militanza oncologica, ma sempre giovani di età e spirito), comunque sempre ritenuti indispensabili a portare la loro conoscenza dagli stessi “giovani”: le scelte del nuovo “Comitato di Redazione” per il numero che state leggendo, ne sono un esempio. Ma, lo ha già annunciato Roberto Labianca: “largo ai giovani !”. Sono numerosi, come avete notato, gli innesti nei Comitati Scientifici e nel Comitato di Redazione di GISCAD & NEO-MOPP; ma vi promettiamo niente “rottamazione”! Un rammarico: la parità delle “quote rosa” sarà lungi dall’essere raggiunta (grazie comunque Sara e Stefania) ma ci stiamo pensando! Accanto all’informazione scientifica, ci vorremmo anche occupare di un aspetto insolito della nostra professione: difficilmente ci si sofferma su aspetti di etica, morale, deontologia, comunicazione al paziente. Per questo vi offriremo uno spunto di riflessione e di meditazione, per non dimenticare quanto proclamato nel nostro Giuramento…! Certamente, Enrico Aitini saprà con esperienza introdurci in questi argomenti. Infine, un’ultima considerazione: il GISCAD FORUM, lanciato e auspicato con Maurizio Meregalli parecchi anni fa, non è mai decollato. Ritengo che quello che avevamo inteso come “mercato” o, meglio, come una vetrina di opinioni e di riflessioni, sia ancora di attualità e potrebbe far crescere la rivista con la vostra partecipazione e i vostri suggerimenti e critiche. Per cui attendiamo… i “cinguettii”. L'anno che sta arrivando tra un anno passerà io mi sto preparando è questa la novità. Giancarlo Martignoni (per il Comitato di Redazione) 5 LA SPERIMENTAZIONE CLINICA DEI MEDICINALI IN ITALIA 12° Rapporto Nazionale 2013 Intervista a Francesco Perrone Direttore Unità Sperimentazioni Cliniche Intervista raccolta da Luciano Frontini Nel volume pubblicato da AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco)* sono riportati alcuni dati ed elementi meritevoli di osservazione, considerazione e commento in relazione ad argomenti attinenti la ricerca clinica in oncologia. Abbiamo chiesto all’amico Franco Perrone, esperto di ricerca clinica e di conduzione di studi clinici, il suo parere su alcune questioni, a nostro parere, rilevanti. • In Italia nel 2012 gli studi clinici sono stati complessivamente 697, un dato che conferma quello dell’anno precedente con 676 studi. Inoltre è importante rilevare che dal 2007 al 2012 il numero delle sperimentazioni in Italia non ha subito una decrescita di rilievo, mentre in Europa si è assistito, nello stesso periodo, ad una diminuzione del 25% circa. Quali potrebbero essere le ragioni di tale difformità? Caro Luciano, devo fare una premessa. Il numero di sperimentazioni per anno è un indicatore quantitativo; ne possiamo discutere per comprendere l’andamento del fenomeno, ma non dovremmo tout-court assegnargli un valore qualitativo, come purtroppo spesso vedo fare. Misurare il misurabile e contare quello che si può contare è cosa buona e giusta, ma mi sembra che ancora si debba sviluppare ai massimi livelli istituzionali la cultura di una valutazione qualitativa del processo della sperimentazione clinica, di cui secondo me vi è assoluto bisogno. Detto questo, la mia lettura dei numeri parte dalla considerazione che il 2008 è stato l’anno in cui il numero di studi approvati per anno ha raggiunto il suo massimo in Italia, apice di un progressivo e costante incremento iniziato nel 2000. Dal 2008 è iniziata una repentina decrescita: già due anni dopo il calo era nell’ordine del 25% e dal 2010 al 2012 il calo oscilla (direi stabilmente) tra il 20% e il 25%. Al contrario, in Europa, il calo è stato meno repentino, anche se il numero di sperimentazioni approvate nel 2012 è comunque del 17% inferiore rispetto a quelle del 2008. Quindi la crisi (se di crisi si può parlare...) si vede sia in Italia che in Europa, repentina nel primo caso e più regolare nel secondo. Il tutto mi sembra rispecchi le macro difficoltà dell’Italia nel contesto europeo degli ultimi 3-4 anni. *www.agenziafarmaco.gov.it N° 4 APRILE 2014 6 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives • La fa da padrone l’oncologia che, rappresentando il 34,9% delle sperimentazioni, è l’area terapeutica maggiormente interessata. Per quali motivi? Niente di nuovo sotto il cielo. Per quanto sia vivo e vegeto il fenomeno del disease mongering, cioè della creazione di malattie e malati finalizzata a creare dei bisogni terapeutici a vantaggio dell’industria del farmaco, resta il fatto che il cancro è una malattia vera, una delle piaghe della società moderna, che rappresenta allo stesso tempo un campo in cui il bisogno di ulteriore progresso è fortemente sentito (dai malati e dagli operatori) e il campo in cui l’industria del farmaco vede possibilità di notevole sviluppo. • Le fasi I rappresentano il 5.9% del totale delle sperimentazioni cliniche. Può essere considerata una percentuale significativa? La domanda mi fa piacere, perché in questi mesi mi sto avvicinando molto all’argomento fase 1, avendo tra l’altro la responsabilità di una unità dedicata a questa fase di studio nel mio Istituto. Tuttavia non so risponderti con certezza. Non so se esiste una quota magica che la fase 1 dovrebbe raggiungere. Osservo che negli ultimi 5 anni la quota è sostanzialmente stabile e mi chiedo se non abbiamo raggiunto il plateau. Ma vedo due problemi. Quello macroscopico sta nel fatto che considererei la fase 1 come un indicatore positivo dello sviluppo tecnologico di un paese se essa fosse la conseguenza della presenza sul territorio nazionale di centri di ricerca che producano nuovi candidati farmaci. E sappiamo che questo non è il caso dell’Italia, né sul versante industriale né su quello accademico. L’altro problema, meno macroscopico ma molto rilevante per la mia coscienza meridionale, sta nel fatto che quel poco di fase 1 che c’è in Italia ha una distribuzione geografica non omogenea che penalizza le regioni meridionali. Questo è uno dei motivi che mi spinge a lavorarci. • La ricerca cosiddetta no profit, ma che preferiamo chiamare indipendente, è invece in controtendenza, in quanto evidenzia una flessione rispetto all’anno precedente; 34.8% nel 2011, rispetto al 32.3% del 2012. Dove vanno ricercate le ragioni e pensi che questo trend si manterrà? Il calo della ricerca indipendente italiana all’interno del calo della ricerca complessiva rappresenta un fenomeno sicuramente rilevante sul piano quantitativo. Ma ancora una volta ho un problema su quantità e qualità. Sappiamo infatti che in Italia avevamo una quota di ricerca indipendente molto più alta che nel resto del mondo. Questo era la conseguenza di una legislazione visionaria (nel senso positivo del termine) e le cronache recenti sulla vicenda dei farmaci per il trattamento delle maculopatie degenerative ci fanno capire quanto quella legislazione fosse importante, quanto richiedeva di essere New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 7 ulteriormente sviluppata e consolidata e, ahimè, quanto invece il progetto sia stato abbandonato e disatteso negli ultimi anni, salvo poi riscoprirlo in risposta a fatti critici. Può darsi, tuttavia, che nei primi anni i numeri Italiani fossero gonfiati da una sperimentazione di scarsa qualità. Se oggi i numeri calano perché restano solo gli studi indipendenti di buona qualità, ne sono solo contento, credo che il sistema ci guadagni e penso che ci assesteremo sulla “giusta quota”. Ma penso che questo rappresenti solo una parte del fenomeno. Le difficoltà oggettive procedurali a fare studi indipendenti sono l’altra parte e temo che quando vedremo una statistica sui numeri del 2013 ci renderemo conto degli effetti negativi che l’incredibile black-out tecnologico di AIFA avrà prodotto sul nostro lavoro. • Quali altre considerazioni ritieni utile e necessario riportare? Un paio. Nel 2012 gli studi osservazionali rappresentano quasi il 20% degli studi condotti in Italia. E’ un numero assolutamente troppo alto. Mi auguro che con la riforma dei Comitati Etici vi sia una notevole stretta che limiti questo numero, dal momento che la rilevanza scientifica di questi studi è in moltissimi casi discutibile e la loro conduzione sottrae energie alla sperimentazione clinica interventistica. Ultima cosa, mi piacerebbe prima o poi che si mettesse a fuoco il problema della sperimentazione sui trattamenti locoregionali. E’ una zona grigia che in parte sfugge agli attuali sistemi di codifica e registrazione. • …ed infine, anche se non strettamente attinente, ma comunque anche riportato nella relazione, quale è il tuo parere sulla proposta per il nuovo Regolamento del Parlamento Europeo, concernente la sperimentazione clinica di medicinali per uso umano, che dovrebbe abrogare la Direttiva 2001/20/CE? Ben venga. A regime alcune cose dovrebbero essere semplificate, come i problemi assicurativi per le sperimentazioni a basso rischio o gli obblighi di farmacovigilanza rispetto ai farmaci usati in indicazioni già registrate. Ma temo che la implementazione sarà dolorosa sul piano della burocrazia. N° 4 APRILE 2014 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 9 Mantenere, Depotenziare, Mandare in vacanza. How to cook it. Alberto Zaniboni Fondazione Poliambulanza - Brescia Depotenziamenti terapeutici/Terapia di mantenimento, pause terapeutiche complete o parziali, strategia Stop and go… È da qualche anno che chi si occupa di trattamento medico del carcinoma del colon retto metastatico si interroga, tra le altre cose, su quale sia la miglior strategia operativa dopo aver ottenuto una “ragionevole remissione” clinica e sintomatica della malattia metastatica (sì, la definizione è alquanto spannometrica, me ne rendo conto, ma non chiedetemi numeri magici….), avendo magari nel contempo migliorato / conservato il PS e la QOL dei nostri pazienti. Trattare un paziente fino a progressione e poi dover cambiare ma continuare senza pause il trattamento è una condizione frustrante per la maggior parte dei pazienti e dei loro oncologi. Numerosi studi in corso, alcuni terminati da poco o nel recente passato per il mantenimento (OPTIMOX-1.CONcePT, Macro-TTD, Studio Turco, CAIRO III, SAKK/4106), per la strategia Stop and go (MRC 06, optimox-2) o per quella On-Off (GISCAD, MRC-Coin), cercano di dare una risposta che fatalmente non può essere univoca ed è per giunta al continuo inseguimento di uno scenario strategicoterapeutico globale piuttosto “liquido”. Dovendo scegliere per questa occasione tra l’effettuare un’analisi occhiuta e puntigliosa dei singoli trials ed il darvi una valutazione personale più pratica dei “risultati” degli stessi, dopo attenta riflessione (cinque secondi) ho optato per la seconda ipotesi (abbiate pietà, è domenica pomeriggio!). • Premessa fondamentale: nel corso del trattamento di induzione si impara a conoscere il paziente (non illudetevi di aver capito tutto di lui/lei dopo il primo colloquio od alla firma del consenso informato), le sue preferenze, le aspettative, le capacità di coping nei confronti della malattia e delle terapie. Così come qualcosa di più sapremo sul Suo tumore in termini di aggressività, sensibilità alle cure, rapidità di risposta (non illudetevi di aver capito tutto dall’analisi molecolare e da qualche score prognostico di base). • Detto ciò, riflettiamo sul fatto che, con le debite eccezioni, la disponibilità di 3-4 linee terapeutiche, di trattamenti non farmacologici variamente integrabili nel continuum terapeutico (chirurgia delle metastasi, RFA, SBRT, DEBIRI, etc) e di strategie di rechallenge può diluire considerevolmente eventuali vantaggi in genere non eclatanti che trattamenti inizialmente più intensivi-continuativi vs depotenziati o con pause possono aver suggerito in alcuni studi di cui sopra. • La durata del trattamento di induzione conta. Se inferiore ai 4-5 mesi una terapia di mantenimento può essere superiore a pause complete (Qvortrup, WCGC, 2013). Pazienti che non hanno piastrinosi al baseline, che mostrano una normalizzazione del CEA dopo tre mesi di cura ed hanno effettuato un’induzione di sei mesi possono in genere essere candidati a pause terapeutiche complete senza detrimento. • In generale, ricordiamoci anche che la recente metanalisi di Berry (Asco 2013) su N° 4 APRILE 2014 10 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives oltre 4000 pazienti non ha mostrato differenze statisticamente significative per OS tra strategie continuative ed intermittenti (HR 1.02). • Personalmente non ho mai usato il bevacizumab da solo come strategia di mantenimento nella malattia avanzata, ritenendo poco plausibile che un agente privo di “single drug activity” potesse impattare in maniera significativa in tale situazione. I risultati dello studio SAKK sembrerebbero piuttosto allineati con questa teoria. Al contrario, un mantenimento con capecitabina e bevacizumab (ad esempio dopo induzione con Capox e Beva come nello studio Cairo III) pare clinicamente utile, pur mancando il dato della sola capecitabina. Del resto, già Kabbinavar e poi gli studi MAX ed AVEX avevano segnalato la bontà dell’associazione tra fluoropirimidina da sola e bevacizumab. • È intuitivo che esistano situazioni dove mantenimento e/o pause terapeutiche siano sconsigliate da condizioni cliniche e biologiche. Tra le prime penso a pazienti ad elevato carico tumorale, LDH elevato, altamente sintomatici all’esordio (es epatalgia +/- febbre paraneoplastica da massiva sostituzione epatica). Tra le seconde ai pazienti con mutazione di BRAF. • Concludendo dal punto da cui sono partito, ricordiamoci di chiedere al paziente cosa vuole fare all’interno di un ragionevole range di possibilità che dobbiamo presentargli noi e che sarà ovviamente diverso da caso a caso. Ancora oggi vengo sorpreso da pazienti che credo di gratificare offrendo loro una pausa dal trattamento e che invece si sentono smarriti e senza protezione nel fronteggiare questa opportunità. Altri invece attendono in grazia di alleggerire o sospendere temporaneamente la terapia. I pazienti in terapia con anti-EGFR e lungo-responsivi apprezzano in genere molto la possibilità di (brevi) pause complete per recuperare dalla tossicità cutanea. La malattia può riprendere a crescere nell’arco di poche settimane (e di questo i pazienti devono essere informati) ma nella mia esperienza e in quella di altri clinici possono tornare a rispondere alla reintroduzione del trattamento stesso. Come nella maggior parte degli scenari clinici che affrontiamo quotidianamente in oncologia, in queste scelte è ben rappresentata la sfida della vera personalizzazione terapeutica che non è solo quella offerta dalla precision medicine ma anche se non prevalentemente dalla necessità di interagire con la psiche dei nostri pazienti (e con la nostra) e non solo con gli aspetti clinici della malattia. È ancora oggi questo uno dei principali motivi che mi fanno apprezzare il privilegio di svolgere il nostro mestiere. 11 ASPIRINA E RIDUZIONE DEL RISCHIO DI RIPRESA DI MALATTIA NEL TUMORE DEL COLON Intervista a Roberto Labianca Presidente GISCAD Intervista raccolta da Antonio Ghidini (Casa di Cura Igea – Milano) Da quando è nato, più di cent'anni fa, l'acido acetilsalicilico continua a far parlare di sé e riserva continuamente nuove sorprese: dalla cura dei processi infiammatori si è passati alla prevenzione nell'ambito cardiovascolare ed oggi è grande l’attenzione nel mondo dell'oncologia. Le prime evidenze scientifiche sono emerse analizzando i dati di diversi trial clinici su migliaia di soggetti, volti a studiare la prevenzione di patologie quali ictus e infarto miocardico. Da questi studi, comunque non disegnati per rispondere al quesito oncologico, emergeva un legame tra assunzione protratta nel tempo (più di cinque anni) di aspirina e riduzione di mortalità per cause tumorali e in particolare per le neoplasie del tratto gastroenterico; tale legame sembrava mantenuto anche con l'assunzione di basse dosi di farmaco. Più recentemente questi dati sono stati confermati in popolazioni con maggior rischio di sviluppare carcinoma del colon (pazienti portatori di poliposi multipla o con caratteri ereditari come nella sindrome di Lynch). Anche nel setting dei pazienti operati per tale patologia, numerose segnalazioni di letteratura sembrano indicare che la somministrazione di aspirina a basso dosaggio sia in grado di ridurre il rischio di ripresa di malattia. Quale sarebbe allora il razionale per l'utilizzo del farmaco? Quale il meccanismo d'azione nell'inibizione della trasformazione cellulare? Sono sempre più noti e molto complessi i legami tra infiammazione e cancro, e nell’evoluzione delle conoscenze il microambiente cellulare acquisisce sempre maggiore importanza nella progressione locale del tumore e nello sviluppo delle metastasi. L'acido acetilsalicilico, inibendo irreversibilmente la cicloossigenasi, determina una riduzione della concentrazione di prostaglandine: questi mediatori chimici sono coinvolti nella genesi del processo infiammatorio, vanno ad agire sulla permeabilità dei vasi sanguigni, e hanno azione vasodilatatrice e di chemiotassi, cioè in qualche modo “dirigono” il movimento cellulare in relazione a segnali molecolari, con il coinvolgimento inoltre di numerosi altri mediatori e del sistema immune. L’aspirina inoltre giocherebbe un ruolo anche nell’inibizione dell’angiogenesi, della proliferazione e della motilità cellulare, nonché della sopravvivenza e proliferazione delle cellule endoteliali, queste ultime mediate in particolare dal trombossano, altro prodotto derivato dall’acido arachidonico come le prostaglandine. Su questo e su molti altri argomenti correlati sono ancora molti i punti da chiarire, più le domande delle risposte, soprattutto in presenza di patologie – quelle tumorali – che sono molto eterogenee tra loro, anche nell’ambito di uno stesso organo. Verrebbe quasi da dire che esiste una fisiopatologia che si declina diversamente in funzione di profili genetici diversi, di fenomeni epigenetici diversi, di stimoli ambientali diversi. È chiaro quindi che occorrerà in futuro approfondire sempre di più tutti questi meccanismi, identificando soprattutto i soggetti che maggiormente possono beneficiare di un trattamento cronico preventivo, di certo sì a basso costo economico, ma non scevro di rischi e di possibili complicanze potenzialmente anche fatali. N° 4 APRILE 2014 12 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives Abbiamo scelto di addentrarci maggiormente in questo argomento, ed in particolar modo nel ruolo di prevenzione da recidive che può svolgere aspirina nei pazienti sottoposti a chirurgia per carcinoma del colon, rivolgendo a Roberto Labianca alcune domande. • La somministrazione di aspirina a basso dosaggio è sempre e comunque in grado di ridurre il rischio di ripresa di malattia nei pazienti operati per carcinoma del colon? Ricordiamo ancora che numerosi studi epidemiologici, e più recentemente anche dei trials clinici, hanno dimostrato che l’aspirina è in grado di inibire la carcinogenesi colo-rettale nei soggetti a rischio, prevenendo in modo particolare la recidiva degli adenomi sporadici e l’insorgenza di neoplasia in soggetti con sindromi ereditarie. Ad esempio, in una importante meta-analisi di studi randomizzati di prevenzione cardiovascolare è stato osservato che il farmaco (alla dose di almeno 75 mg/die) è in grado di ridurre la incidenza a lungo termine e la mortalità del carcinoma del colon-retto. Il dato è stato confermato in una ulteriore analisi condotta su un numero maggiore di studi e includente la valutazione anche di altre frequenti neoplasie. Se ci spostiamo più avanti nella storia naturale del carcinoma del grosso intestino troviamo, ancora in una ampia meta-analisi, che l’uso del farmaco è in grado di ridurre in misura significativa la insorgenza di metastasi a distanza in svariati tumori, e ciò con particolare evidenza negli adenocarcinomi e in particolare in quelli del colon-retto. Questo effetto sulle metastasi appare in linea con osservazioni su animali da esperimento evidenzianti il ruolo importante svolto dalle piastrine nell’insorgenza della diffusione ematogena delle neoplasie. Se poi consideriamo popolazioni di pazienti con neoplasia del colon-retto clinicamente evidente, operati ed eventualmente trattati con chemioterapia adiuvante, vediamo da studi di coorte che l’uso regolare del farmaco è associato ad una riduzione significativa del rischio di ripresa di malattia e di morte. Il vantaggio appare particolarmente evidente nei pazienti con iper-espressione di COX-2, mentre nei soggetti COX-2 negativi l’assunzione di farmaco non apporta un significativo beneficio. • La valutazione dello stato di PIK3CA è da ritenersi mandatoria per la selezione dei pazienti da trattare? Nelle stesse due coorti di cui sopra, sono stati di recente riportati i risultati di analisi molecolari effettuate su oltre 900 pazienti ed è stato riscontrato che nei casi PIK3CA mutati l’uso regolare di aspirina dopo la diagnosi di neoplasia era associato a un nettissimo incremento della sopravvivenza specifica per tumore del colon-retto (HR: 0,18). In una successiva analisi molecolare condotta nella stessa popolazione, è stato poi evidenziato che il rischio è ridotto nei tumori BRAF-wild type, ma non nei BRAF mutati. • PIK3CA si può ragionevolmente considerare un fattore predittivo di risposta? Direi proprio di sì: la forza della associazione e il razionale biologico appaiono davvero molto forti, anche se non vi sono dati da studi rigorosamente prospettici e randomizzati, che peraltro non mi sembrano di facilissima esecuzione. New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 13 • Quali altri test biomolecolari sono importanti per la selezione dei pazienti? Per ora, non disponiamo di evidenze sicure per decidere in quali casi prescrivere in modo inequivocabile l’aspirina, tanto a scopo di chemioprevenzione che di profilassi terziaria dopo diagnosi e resezione chirurgica di neoplasia del colon-retto e in combinazione o meno alla chemioterapia adiuvante. • E quali altri potrebbero diventarlo? All’interno di uno studio prospettico (ad esempio di valutazione dell’aggiunta di aspirina alla chemioterapia adiuvante in pazienti ad alto rischio di ricaduta in carcinoma del colon resecato chirurgicamente) potrebbe essere indicato e opportuno indagare il possibile ruolo prognostico e/o predittivo di determinanti molecolari quali l’iperespressione di COX-2, l’instabilità microsatellitare, le mutazioni di KRAS, BRAF e, ovviamente, di PIK3CA…… Recentemente è stato segnalato un vantaggio in OS in relazione alla espressione dell’antigene HLA classe I in uno studio di 999 pazienti trattati con aspirina dopo la diagnosi di tumore del colon. Ricercherei anche il possibile ruolo di miRNA “signature” e misurerei il trombossano circolante B2 per valutare la compliance al farmaco e la possibile contaminazione nell’indispensabile braccio trattato con placebo. • Al momento attuale che ruolo ha l’utilizzo, con la stessa indicazione, dei farmaci antinfiammatori non steroidei (COX 2 inibitori)? Direi molto meno evidente, anche in considerazione della maggiore tossicità, principalmente cardiovascolare, che questi composti esibiscono. Gli effetti collaterali da aspirina appaiono invece tutto sommato limitati e ben gestibili, come dimostrato anche recentemente da impeccabili analisi su serie amplissime. • Ritieni che siano necessari ulteriori studi clinici? Certamente sì, e questo sta già avvenendo a livello internazionale, in particolare UK, Germania e Olanda. • Quale potrebbe essere il corretto disegno di uno studio clinico? Credo non sia un mistero per nessuno che da circa 1 anno, grazie al contributo fondamentale di un esperto di caratura internazionale quale Andrea De Censi, GISCAD e gli altri gruppi cooperativi italiani attivi nella ricerca sui tumori gastroenterici hanno disegnato un ampio studio randomizzato (AIDA: Adiuvant Intervention with Daily Aspirin) che intende mettere a confronto, nei pazienti in stadio II “alto rischio” o III resecati chirurgicamente con intento di radicalità, l’aggiunta di acido acetilsalicilico (100 mg/die) x 5 anni alla chemioterapia standard verso placebo. Saranno necessari 2700 pazienti, che potranno essere inclusi in una più ampia analisi combinata a livello europeo (ETAC). Attendiamo risposte, si spera ovviamente positive, da AIFA e dal programma Horizon 2020: invitiamo tutti i lettori di NEO-MOPP a un rito collettivo di incrociamento delle dita… N° 4 APRILE 2014 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 14 Bibliografia 1. Chan AT, Ogino S, Fuchs CS: Aspirin and the risk of colorectal cancer in relation to the expression of COX-2. N Engl J Med 356:2131-2142, 2007. 2. Chan AT, Ogino S, Fuchs CS: Aspirin use and survival after diagnosis of colorectal cancer. JAMA 302:649-658, 2009 3. Domingo E, Church DN, Sieber O, et al: Evaluation of PIK3CA mutation as a predictor of benefit from nonsteroidal anti-inflammatory drug therapy in colorectal cancer. J Clin Oncol. 2013 Sep 23 4. Fuchs CS et al. Influence of regular aspirin use on survival for patients with stage III colon cancer: findings from Intergroup trial CALGB 89803 (abstract). J Clin Oncol 23 (suppl 16), abstract 3530, 2005 5. Liao X, Lochhead P, Nishihara R, et al: Aspirin use, tumor PIK3CA mutation, and colorectal cancer survival. N Engl J Med 367:1596-1606, 2012 6. Midgley RS, McConkey CC, Johnstone EC, et al: Phase III randomized trial assessing rofecoxib in the adjuvant setting of colorectal cancer: Final results of the VICTOR trial. J Clin Oncol 28:4575-4580, 2010 7. Nishihara R, Lochhead p., Kuchiba A, et al. Aspirin use and risk of colorectal cancer according to BRAF mutation status. JAMA 309: 2563-2571, 2013 8. Rothwell PM, Wilson M, Elwin CE, et al. Long-term effect of aspirin on colorectal cancer incidence and mortality: 20-year follow-up of five randomized trials. Lancet 376:1741-1750, 2010 9. Rothwell PM, Fowkes FG, Belch JF, et al. Effect of daily aspirin on long-term risk of death due to cancer: analysis of individual patient data from randomized trials. Lancet 377: 31-41, 2011 10. Rothwell PM, Wilson M, Price JF, et al. Effect of daily aspirin on risk of cancer metastasis: a study of incident cancer during randomized controlled trials. Lancet 379: 1591-1601, 2012 11. Rothwell PM, Price JF, Fowkes FG, et al. Short-term effects of daily aspirin on cancer incidence, mortality and non-vascular death: analysis of the time course of risks and benefits in 51 randomized controlled trials. Lancet 379: 1602-1612, 2012 12. Rothwell PM. Alternate-day, low-dose aspirin and cancer risk. Ann Intern Med 159: 148-150, 2013 13. 13. Reimers MS, Bastiaannet E, Langley ER, et al. Expression of HLA Class I Antigen, Aspirin use, and survival after a diagnosis of colon cancer. JAMA Intern Med. Published online March 31, 2014 15 Terapia orale nel trattamento del tumore colo-rettale metastatico: vantaggi e limiti Sandro Barni, Fausto Petrelli, Andrea Coinu UO Oncologia, Azienda Ospedaliera Treviglio La terapia orale nel trattamento dei tumori solidi è risultata essere una delle principali innovazioni nella cura delle neoplasie maligne perché ugualmente efficace ed accettata di buon grado dai pazienti stante la possibilità di assumerla a domicilio evitando l’infusione tramite puntura venosa. Tuttavia l’uso della terapia orale ha di necessità sollevato il problema dell’aderenza e della persistenza al trattamento, oltre che della maggiore assunzione di responsabilità del paziente e dei suoi care-givers, oltreché del personale infermieristico. Per maggiore chiarificazione, il termine aderenza, di cui esistono varie definizioni [1,2], si riferisce alla corretta assunzione del farmaco orale alle dosi e nei tempi prescritti. Al contrario la persistenza si riferisce alla assunzione del farmaco orale per la durata prestabilita dal curante [2]. Sono state effettuate analisi sistematiche volte a valutare i fattori implicati nella non-aderenza e nella nonpersistenza del trattamento orale nei tumori solidi. Nella più recente review pubblicata nel 2013 da Verbrugghe e collaboratori [3], sono stati analizzati 25 studi e si è osservato che le fasce di età estreme (<45 e >85 anni) sono risultate associate a minore aderenza e persistenza al trattamento. Allo stesso modo gli effetti collaterali attesi dal trattamento sembrerebbero influenzare la compliance al trattamento stesso; questa analisi riguardava per l’80% pazienti con tumore alla mammella e consisteva in studi metodologicamente di qualità modesta e retrospettivi. Questa e un’altra review, sollevano la necessità di un’analisi rigorosa, prospettica, e con strumenti validati, di questo delicato argomento, che potrebbe diventare addirittura uno degli endpoint di futuri studi clinici [4]. Sembra dimostrato che azioni educazionali ed interventistiche, in particolare in pazienti a rischio di bassa aderenza, possano infatti in qualche modo migliorare la compliance generale al trattamento. Nell’ambito dei carcinomi colon rettali (CCR) avanzati parliamo in sostanza di 2 farmaci, capecitabina ed S-1 (quest’ultimo non ancora approvato in Italia) e di terapie biologiche orali, oggi testate ma non ancora approvate nei tumori colon rettali (es. sorafenib e sunitinib) ad eccezione di regorafenib. Perché queste differenze di risultati nell’ambito gastroenterico? Eppure le pathways che vanno ad interferire sono generalmente cruciali anche nel colon retto (es. VEGF). E' facile quindi supporre che siano intervenuti problemi legati alle cosiddette “overalapping toxicities” e alla compliance al trattamento. Le analizzeremo se discusse nei rispettivi lavori, così come discuteremo il successo di regorafenib, recentemente approvato per l’uso in monoterapia nei pazienti pretrattati con chemioterapia e biologici e per i quali non esistono altri trattamenti efficaci. Fluropirimidine orali in I linea. Esistono evidenze ormai consolidate che la capecitabina, un pro farmaco del 5FU, sia equivalente in termini di efficacia, tollerabilità e convenienza per il paziente con tumore del colon-retto e non solo. Una meta-analisi pubblicata nel 2012 e che N° 4 APRILE 2014 16 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives comprendeva 16 trials randomizzati [5], dimostrava che la capecitabina risultava associata ad un 60% di rischio in meno di stomatiti e neutropenia con solo incremento di rischio di sindrome mano-piede rispetto al 5FU ev. Questo dato risulta atteso dato che, negli schemi considerati nei bracci di controllo (FOLFOX, FOLFIRI, 5FU Mayo Clinic), un bolo ev di 5FU aggiunto al 5FU o in sostituzione del 5FU ic, risulta in qualche modo gravare significativamente sulla tossicità ematologica e gastrointestinale. Complessivamente l’efficacia dei trattamenti risulta però equivalente. Una metaanalisi di autori orientali ha recentemente validato l’equivalenza di XELIRI e FOLFIRI nel CCR avanzato, prescritti da soli o in associazione a bevacizumab [6]. L’analisi ha confermato una maggiore incidenza di diarrea per le combinazioni con capecitabina e una sostanziale assenza di differenza in qualità di vita. Si ribadisce quindi l’importanza di valutare la potenziale presenza di tossicità sovrapponibili con terapie orali ed ev, che potrebbero in qualche modo andare ad inficiare l’aderenza allo schema di terapia. Allo stesso modo anche S-1, pro-farmaco molto usato in oriente, risulta associato ad una efficacia ed a una tollerabilità simile alla capecitabina ma con minore rischio di tossicità cutanea e anoressia [7]. Tuttavia questa ultima meta-analisi deriva da studi per lo più pubblicati nel setting del carcinoma gastrico. Un recente studio di fase 3 di non inferiorità in pazienti asiatici, ha confermato anche l’equivalenza di S-1 e 5FU in combinazione con oxaliplatino (schema SOX vs FOLFOX) in prima linea per malattia avanzata. La leucopenia severa è risultata essere minore per lo schema SOX, mentre diarrea e anoressia G3-4 minori per FOLFOX [8]. Tornando alla capecitabina, il suo uso nei pazienti anziani, ha permesso inoltre la sua combinazione con bevacizumab, usato comunemente in prima linea con le doppiette FOLFOX o FOLFIRI. Nello studio AVEX infatti, pazienti con età > di 70 anni sono stati randomizzati a capecitabina (1000 mg/m2 per 14 giorni ogni 21) + bevacizumab alla dose di 7,5 mg/kg ogni 21 giorni [9]. Nello studio, che ha arruolato 280 pazienti anziani, l’aggiunta di bevacizumab ha quasi raddoppiato la PFS (da 5.1 a 9.1 mesi) senza però migliorare la OS mediana. Al contrario l’associazione di capecitabina e anticorpi anti-EGFR non sembrerebbe essere cosi adeguata rispetto al 5FU ev. In dettaglio lo studio inglese COIN ha confrontato 5FU ic vs 5FU bolo vs capecitabina con oxaliplatino e cetuximab nel CCR avanzato in prima linea. Nello studio è stato osservato un maggiore rischio di tossicità e una minore efficacia nel braccio con capecitabina. L’analisi puntuale di 4 studi che hanno valutato l’aggiunta di 5FU o capecitabina al cetuximab in prima linea ha messo chiaramente in evidenza che il vantaggio in OS e PFS non risultava significativo quando i farmaci anti-EGFR venivano aggiunti al bolo di 5-FU o a regimi a base di capecitabina, quando confrontati rispetto alla sola chemioterapia, mentre PFS e marginalmente l’OS risultavano migliori quando oxaliplatino e l’anti-EGFR venivano associati al 5FU ic [10]. Spiegazioni? Le più variabili, a cominciare da una maggiore tossicità gastroenterica che, oltre a una probabile mal gestione dell’evento in sé, è risultata deleteria per l’efficacia finale del trattamento. Si suggerisce che laddove vi fosse il rischio di una sovrapposizione delle tossicità (capecitabina + anti-EGFR, capecitabina + irinotecan etc.), il farmaco orale probabilmente non rappresenta ad oggi la migliore scelta. Complessivamente si può affermare che, nel CCR, la capecitabina può sostituire 5FU ev in tutte le doppiette, con o senza biologici, ad eccezione della combinazione con cetuximab dove sembrerebbe esserci una migliore efficacia per lo schema con 5FU ic, oltre che una minore tossicità. Tuttavia il dato di equivalenza più consistente, è stato osservato nel “Landmark” trial di Cassidy dove XELOX e FOLFOX4 sono risultati sovrapponibili in termini di outcome ma, quando si associava bevacizumab, non vi è stato vantaggio di OS. Da qui la consuetudine di usare quindi nella pratica clinica la doppietta con FOLFIRI quando c’è da accoppiare New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives il bevacizumab. Tuttavia, una pooled analysis degli studi con XELOX o FOLFOX + bevacizumab, ha però confermato il dato di OS come simile ai dati storici con FOLFIRI + bevacizumab (24 mesi di OS mediana e 50% circa di risposte) [11]. In sostanza per concludere non ci sono evidenze, se non quelle degli studi con cetuximab, per non considerare come equivalente la capecitabina in prima linea nel CCR avanzato. Biologici orali in I linea + chemioterapia ev. Tutta una serie di studi randomizzati ha valutato anche l’efficacia di farmaci multitarget orali in associazione alle doppiette “storiche” nel CCR avanzato. Quale/i ragione/i alla base di questo generale insuccesso? Vediamo i dati di maggiore rilevanza. L’ultimo studio di fase 3 in ordine di pubblicazione è il lavoro di Tabernero del 2013 che confrontava FOLFOX con o senza sorafenib, il noto multitarget orale approvato nell’HCC e nel carcinoma renale [12]. Complessivamente nei 198 pazienti randomizzati, nessuna differenza di PFS e OS osservata, neanche nell’analisi di sottogruppo per stato di KRAS e BRAF, e 26 e 20% rispettivamente di maggiore incidenza di neutropenia e sindrome mano piede G3-4, con conseguente minore intensità di dose per il braccio sperimentale. Si trattava per lo più di pazienti con stadio IV alla diagnosi (70% circa), BRAF wild type (90%) e con solamente 1-2 sedi metastatiche. Probabilmente pathways alternative o la scarsa efficacia di per sé di sorafenib nel CCR hanno reso non utile la sua aggiunta alla doppietta oxaliplatinobased in questo piccolo studio di fase 3. Nello stesso anno Carrato e collaboratori pubblicavano sul Journal of Clinical Oncology uno studio di piu ampia portata (n=768 pazienti), di fase 3, che confrontava FOLFIRI da solo o con sunitinib [13]. Anche in questo caso PFS identici (7.8 vs 8.4 mesi) e peggiore profilo di tossicità per il braccio sperimentale, per cui lo studio venne chiuso in anticipo. Sunitinib + FOLFIRI è risultato associato con più alto tasso di eventi avversi di G≥ 3 e 17 anomalie di laboratorio rispetto al braccio FOLFIRI + placebo (in particolare diarrea, stomatite, astenia, sindrome mano-piede, neutropenia, trombocitopenia, anemia e neutropenia febbrile). Inoltre si sono verificate più morti tossiche (12 vs 4), più rinvii, riduzioni di dose, interruzioni del trattamento nel braccio con sunitinib. Crediamo che già questo sia sufficiente a spiegare i risultati negativi dello studio che includeva pazienti per lo piu (80%) con stadio molto avanzato all’esordio. Altri 2 studi hanno confermato il fallimento di farmaci anti-VEGF(R) orali in prima linea: gli studi HORIZON 2 e 3 [14,15]. Nel primo 800 pazienti sono stati randomizzati a FOLFOX/XELOX + placebo o cediranib, un pan-VEGFR inibitore orale. L’unico dato positivo è stato un vantaggio significativo in PFS di 0,5 mesi! Nessun vantaggio in OS e risposte obiettive, 10% in meno di dose intensity nel braccio sperimentale con una tossicità definita “maneggevole”. Anche in questo studio l’80% circa dei pazienti non aveva ricevuto chemioterapia adiuvante. In questo lavoro nessun sottogruppo sembrerebbe tra l’altro beneficiare maggiormente dell’uso del farmaco sperimentale. Nello studio affine HORIZON 3, il cediranib combinato a FOLFOX6 è stato confrontato a chemioterapia + bevacizumab: non è stato osservato alcun beneficio in PFS, OS e risposte obiettive in n=1400 pazienti randomizzati, con caratteristiche simili a quelli inclusi nell’HORIZON 2. Al contrario si è notata piu neutropenia e diarrea oltreché piu riduzioni/interruzioni nel braccio sperimentale. L’aggiunta di altri multitarget tyrosine kinase inhibitors (TKIs) come i gia citati studi con sunitinib, sorafenib, oltre chè vatalanib, sembra quindi una strada fallimentare. Lo studio con vatalanib ad esempio (FOLFOX + vatalanib o placebo in > di 1000 pazienti con CCR in stadio IV) non ha dato vantaggi ad eccezione del gruppo di pazienti con alto livello di LDH circolante (marker di ipossia) dove il PFS è stato 2 mesi maggiore [16]. Da questi studi emerge in sostanza che l’aggiunta di un farmaco anti-VEGFR orale o N° 4 APRILE 2014 18 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives di un multi target TKI non sembra meglio della sola chemioterapia (con o senza bevacizumab); al contrario sembra peggiorare la dose intensity e probabilmente l’efficacia della chemioterapia stessa. Quindi fino a che non verranno identificati sottogruppi di pazienti, o specifici biomarker predittivi di risposta, l’uso di TKIs orali nel CCR metastatico sembra una strada non percorribile. Anche in questo caso tossicità, aderenza, intensità di dose e outcome al trattamento sembrano strettamente correlati. Biologici orali nelle linee successive. Oggi esistono in seconda linea sostanzialmente 2 standard terapeutici: FOLFOX + bevacizumab in pazienti pretrattati con FOLFIRI, e FOLFIRI + aflibercept in pazienti pretrattati con FOLFOX. Allo stesso modo FOLFIRI + panitumumab o irinotecan + cetuximab nei pazienti RAS wild type e FOLFIRI + bevacizumab sono opzioni alternative in pazienti esposti ad oxaliplatino in prima linea. L’anti EGFR orale erlotinib è stato combinato con solo cetuximab (senza chemioterapia), e i risultati sono stati promettenti, soprattutto nei pazienti KRAS wild type (41% di risposte) [17]. Il già citato vatalanib associato a FOLFOX ha conferito un vantaggio modesto in PFS (1,4 mesi) rispetto a FOLFOX da solo in n=800 pazienti pretrattati, in particolare con livelli elevati di LDH [18]. Un’altra molecola orale, TAS-102, un nucleoside orale di nuova generazione, è stato confrontato con placebo in uno studio che ha randomizzato pazienti con CCR pesantemente pretrattati. Circa 3 mesi e mezzo di vantaggio di OS sono risultati significativi (P=0.0011) in una popolazione di pazienti senza altre chances terapeutiche [19]. Lo studio di fase 2 randomizzato di Bendell ha confrontato capecitabina e perifosina con capecitabina da sola in pazienti (n=38) con CCR in seconda o terza linea [20]. Perifosina è una piccola molecola orale in grado di interferire con vari pathways intracellulari tra cui PI3K/Akt/mTOR. Lo studio è stato condotto in pazienti già esposti a FOLFOX e FOLFIRI e nel 75-83% dei casi anche a bevacizumab. Il 70% di essi erano refrattari (in progressione entro 3 mesi) ad una chemioterapia a base di 5FU. Lo studio, il cui endpoint primario era il TTP, ha mostrato un vantaggio netto per la combinazione (27,5 vs 10.1 settimane). L'OS mediano è risultato incrementato a favore di perifosina + capecitabina (17.7 vs 7.6 mesi); cosi come le risposte obiettive (17 vs 7%). Gli eventi avversi di G3-4 sono risultati irrilevanti ad eccezione della sindrome mano-piede (30%) e dell'anemia (15%). Il dato, derivante da uno studio di piccole dimensioni, mostra che perifosina sembra in grado di modulare la risposta al 5FU anche in pazienti refrattari ad un precedente trattamento con 5FU stesso. E veniamo a regorafenib, da poco approvato per l’uso in pazienti pretrattati con 5FU, oxaliplatino, irinotecan e bevacizumab. Lo studio CORRECT è stato lo studio registrativo di regorafenib, un multitarget TKI, che viene assunto alla dose di 160 mg die, per 3 settimane sì e una settimana no [21]. Lo studio ha incluso n=760 pazienti che sono stati randomizzati 2:1 a regorafenib o placebo, che avevano fallito tutti i trattamenti potenzialmente attivi (chemioterapia e biologici) e con l’ultimo trattamento in corso o terminato entro 4 mesi. Si può quindi affermare che la popolazione arruolata era sfavorevole dal punto di vista delle aspettative di vita e terapeutiche. L’endpoint primario, l’OS, è risultato incrementato di 1,4 mesi (P=0.0052) con un HR di 0.77. Questo dato è significativo dal punto di vista clinico poiché questi pazienti non avrebbero altre chances e sarebbero candidati a sola best supportive care. Le risposte obiettive sono state del 1%, a fronte di un 41% di stabilizzazioni di malattia a 6 settimane; il TTP era di circa 2 mesi e le tossicità abbastanza frequenti, soprattutto nelle prime settimane. Sono stati osservati maggiormente nel primo ciclo di terapia fatigue, rash, ipertensione. Il vantaggio di OS è stato significativo nei pazienti < 65 anni e PS 0. Da qui una prima considerazione per la pratica clinica: tutti i pazienti sono candidabili a regorafenib? O è comunque lecito New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives chiedersi se la selezione del paziente sia cruciale anche in questo setting? Molto probabilmente la risposta è no alla prima domanda. Quanti sono i pazienti giovani e fit che arrivano alla 4-5 linea di terapia? Pochissimi nella nostra pratica clinica. La risposta alla seconda domanda sembra essere sì: specialmente in questa fase di malattia, l’utilizzo di terapie orali con potenziale vantaggio clinico ma con rilevante tossicità sistemica, richiede un’attenta selezione del malato. Se il paziente è anziano e con significative comorbidità, c'è da chiedersi se quello che offriamo sia clinicamente importante e non vada ad inficiare invece la qualità di vita. Anche in questo caso vediamo come un farmaco orale, che richiede un'assunzione relativamente semplice a domicilio, può manifestare effetti collaterali importanti. Inoltre si ribadisce il concetto che, laddove altri TKIs orali hanno fallito perché dotati di scarsa attività come single agent (es. sorafenib), il regorafenib ha successo forse per la sua efficacia in monoterapia in studi di fase Ib (74% di controllo di malattia in 38 pazienti pretrattati) e quindi, un suo oculato utilizzo in fasi avanzate di malattia, ha permesso di osservare significativi vantaggi di OS. Per concludere, i farmaci orali hanno rappresentato per molte neoplasie una rivoluzione oltre che una evoluzione. Basti pensare al tumore renale dove tutti i trattamenti disponibili sono quasi interamente orali. Rimane aperto il dibattito circa l’ottimale sequenza terapeutica, che deriva dal corretto disegno degli studi clinici e dalla conoscenza di effetti collaterali e biomarkers predittivi, che dovrebbero agevolare il compito dei clinici e delle aziende farmaceutiche nella programmazione della ricerca. Oltre a questo compito, c'è un altro compito non meno importante che spetta in ultima analisi al 19 medico e al personale sanitario: quello educativo! Abbiamo visto come l’aderenza e la persistenza al trattamento in qualche modo dipendono dall’età e dagli effetti collaterali attesi. Vi è quindi il compito cruciale di selezionare ab initio il paziente ideale da candidare a un trattamento con farmaci orali. Se da un lato essi portano a innumerevoli vantaggi (abolizione dell’uso di accessi venosi, ridotto tempo in day hospital, minor affollamento delle strutture sanitarie e minor utilizzo di risorse umane per la dispensazione della terapia), con l'implementazione di farmaci ad assunzione orale queste risorse risparmiate dovrebbero essere re-investite in altrettanto importanti e cruciali compiti assistenziali che vanno dall'addestramento del personale infermieristico alla dispensazione, alla valutazione dell’aderenza domiciliare e all'addestramento dei caregivers. L'implementazione da parte delle aziende di materiale didattico/informativo per il paziente ed i suoi familiari (opuscoli, diari, siti internet, ..ecc) ad esempio può in qualche modo essere di ausilio per la corretta assunzione e gestione del farmaco. La selezione, del paziente da parte del medico rimane il caposaldo della pratica clinica. Spesso il farmaco orale presenta interazioni farmacologiche con altre “pillole” che il paziente già assume (es. warfarin per la capecitabina); esistono nuove forme di tossicità fino ad ora sconosciute (es. allungamento del QT) spesso precipitate dalla interazione con farmaci che spiccano nella terapia di molti pazienti anziani; e per ultimo, in molti casi, l'ambiente sociale del paziente non permette una sicura valutazione della compliance del trattamento, che abbiamo visto spesso interferire negativamente con l’outcome finale. N° 4 APRILE 2014 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 20 Bibliografia 1. 1.Ruddy K, Mayer E, Partridge A. Patient adherence and persistence with oral anticancer treatment. CA: Cancer J Clin 2009;59(1):56–66. 2. Cramer JA, Roy A, Burrell A, et al. Medication compliance and persistence. Terminology and definitions. Value Health 2008;11(1):44–7. 3. Verbrugghe M, Verhaeghe S, Lauwaert Ket al. Determinants and associated factors influencing medication adherence and persistence to oral anticancer drugs: a systematic review. Cancer Treat Rev. 2013 Oct;39(6):610-21. 4. Mathes T, Antoine SL, Pieper D, Eikermann M. Adherence enhancing interventions for oral anticancer agents: a systematic review. Cancer Treat Rev. 2014 Feb;40(1):102-8 5. Petrelli F, Cabiddu M, Barni S. 5-Fluorouracil or capecitabine in the treatment of advanced colorectal cancer: a pooledanalysis of randomized trials. Med Oncol. 2012 Jun;29(2):1020-9. 6. Guo Y, Shi M, Shen X, et al. 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Questo presupposto può essere considerato il punto di partenza di una politica sanitaria sviluppatasi attraverso l’educazione sanitaria, le modalità di protezionistica ambientale e professionale, l’adozione di corretti stili di vita (aspetti correlati ad una prevenzione primaria) e alla diffusione delle campagne di screening che vede tra i più diffusi e validati quelli che mirano ad una diagnosi precoce, ovvero ad una prevenzione secondaria, di neoplasie della mammella, della cervice uterina e del colon retto (1, 2, 3). Una branca sviluppatasi all’inizio degli anni ‘90 nell’ambito della medicina preventiva viene definita medicina predittiva. Con questo termine (in senso stretto) si intende un approccio diagnostico rivolto ad una persona sana, sia in fase prenatale che dopo la nascita, finalizzato a valutare in termini probabilistici eventuali fattori che possono contribuire, per quella specifica persona, all’insorgenza di una determinata patologia. Le applicazioni della medicina predittiva si vanno rapidamente ampliando, coinvolgendo fasce sempre più ampie della popolazione, come, a titolo d’esempio, la carta del rischio cardiovascolare. La medicina predittiva in ambito oncologico Da parecchi anni, in ambito oncologico, è noto il concetto che la familiarità costituisce un importante fattore di rischio dal momento che la presenza di un certo tipo di tumore in un paziente comporta, per i familiari di primo grado, un aumentato rischio di sviluppare la stessa malattia nell’arco della vita. In anni più recenti si è andata affermando una medicina predittiva strettamente correlata alla genetica a tal punto che si può tranquillamente parlare di genetica predittiva ( 4, 5, 6, 7, 8). Questo è stato reso possibile grazie agli enormi progressi compiuti in ambito di biologia molecolare che hanno dimostrato il ruolo di specifiche alterazioni geniche (mutazioni) nello sviluppo di altrettanto specifiche neoplasie. Tali indagini consentono di individuare, tramite analisi del DNA, la presenza (o l’assenza) di alterazioni genetiche ereditarie (mutazioni costitutive) che determinano una predisposizione, nei soggetti portatori di tali mutazioni, a sviluppare determinati tipi di neoplasie o, in ogni caso, a presentare un rischio maggiore rispetto alla popolazione normale. Queste ricerche hanno consentito di definire, nell’ambito dei tumori “familiari”, una sottoclasse che raccoglie i cosiddetti tumori “ereditari”, neoplasie in cui è presente una singola alterazione genetica ereditabile che conferisce un elevato rischio di ammalarsi anche in giovane età. In ambito oncologico, quindi, la valutazione del rischio si pone il seguente obiettivo: N° 4 APRILE 2014 24 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives identificare la suscettibilità ereditaria in persone sane con lo scopo di porre in atto tutte le misure possibili a prevenire la malattia o quanto meno ad individuarla in una fase più precoce possibile. Va qui ricordato, inoltre che, collateralmente, esiste un forte sviluppo nella ricerca tesa ad identificare eventuali geni che definiscono specifici sottogruppi di neoplasie rispondenti ad un determinato trattamento di farmaci a bersaglio molecolare. Queste ricerche, tuttavia, come facilmente si evince, sono dirette a persone già affette da una determinata patologia e, pur essendo considerate parte della medicina predittiva, esulano dall’argomento qui preso in esame. Tra le indagini che ormai hanno assunto (o lo assumeranno in tempi brevi) un carattere routinario nel definire il rischio di malattia, vanno ricordate in particolare la determinazione dei geni BRCA 1 e BRCA 2, relativi al rischio di neoplasie mammarie ed ovariche, del gene P16 per il melanoma (9), dei geni MLH1 ed MSH2 per la predisposizione a sviluppare neoplasie del colon ereditario non poliposico (HNPCC), del gene RET, proto oncogene per la suscettibilità a sviluppare tumori midollari della tiroide (10). Accanto ai sopracitati esistono diverse altre alterazioni genetiche che per brevità non tratteremo in questa rassegna. Grazie a questi test, comunque, oggi siamo in grado di stimare come circa il 12% dei tumori mammari, il 10% di quelli ovarici, il 5-10% di quelli colorettali e il 20 % dei tumori midollari della tiroide presentino una componente eredo familiare. Va tuttavia sottolineato che questi test sono definiti anche test di “suscettibilità” in quanto, pur identificando particolari genotipi, non sono in grado di stabilire una correlazione diretta tra la presenza della mutazione e lo sviluppo della malattia ma unicamente una probabilità statistica di sviluppare, nel corso degli anni, una determinata patologia. I diversi tipi di mutazioni geniche Come già accennato, per mutazione genica intendiamo ogni modifica stabile ed ereditabile del materiale genetico di una persona. I vari tipi di mutazione possono essere distinti in funzioni di molte caratteristiche: ad esempio mutazioni puntiformi sono quelle che interessano uno o pochi nucleotidi, la mutazioni dinamiche comportano la ripetizione di brevi triplette nucleotidiche, le delezioni, le traslocazioni, le inversioni sono invece tutti tipi di mutazioni che riguardano la struttura cromosomica. Un modo più sintetico per definire le varie mutazioni può essere il seguente: alterazioni di sequenza (mutazioni puntiformi, non senso… ed altre che comunque riguardano piccole modificazioni nella sequenza genica) ed alterazioni strutturali (mutazioni che riguardano ampi segmenti genici che possono essere duplicati o deleti con importante perdita di materiale genico). Essendo interesse di questa breve riflessione prendere in considerazione soprattutto gli aspetti psicologici, relazionali, etici, comunicativi, faremo cenno ad alcuni aspetti “tecnici” del problema esaminando solo le mutazioni predittive del carcinoma mammario (fino ad oggi conosciute, è bene ricordarlo), ovvero quelle relative ai geni BRCA1 e BRCA2. I modelli per la stima del rischio per il carcinoma eredo-familiare della mammella sono numerosi: citeremo qui i più noti, partendo da quelli fino ad ora più utilizzati quali il modello di Gail e quello di Claus, il primo basato sui fattori di rischio non genetici quali età al menarca, età al primo parto, numero di parenti di primo grado con neoplasia mammaria etc…, mentre quello di Claus, prodotto negli Stati Uniti alla fine degli anni ’70, è nato da un enorme studio caso-controllo che ha consentito l’identificazione di un allele autosomico dominante in grado di aumentare la suscettibilità allo sviluppo di un carcinoma mammario. Purtroppo la concordanza tra questi due modelli si è dimostrata piuttosto modesta (11, 12). Modelli più recenti sono quelli di BRCAPRO (13) e quello definito BOAIDICEA (14). Attualmente il modello più attendibile viene considerato quello di CuzickTyrer che integra storia familiare con diversi altri New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives fattori di rischio (15). In base ai punteggi ottenuti, è possibile suddividere la popolazione interessata in tre fasce di rischi: basso (profilo 1), intermedio (profilo 2), alto (profilo 3). Quest’ultimo, inoltre, andrebbe suddiviso in alto rischio senza mutazione genetica accertata e in alto rischio con mutazione genetica accertata, ovvero con mutazione accertata di BRCA1/BRCA2. Naturalmente ogni profilo dovrà prevedere un protocollo di intervento o sorveglianza differente. Al momento attuale la gestione delle persone portatrici di mutazioni BRCA1 e BRCA2 è oggetto di intenso dibattito presentando ancora diversi aspetti controversi. Gli approcci chirurgici quali mastectomia profilattica, salpingo-ovariectomia profilattica, chemioprevenzione con Tamoxifen, adozione di stili di vita adeguati, di alimentazione adeguata, follow-up intensivi non possono e non devono essere considerate scelte tra loro contradditorie ma piuttosto complementari per offrire a quella specifica persona in quello specifico momento della sua vita la soluzione più opportuna. Problematiche sociali ed aspetti etici Prima di affrontare le incertezze e le difficoltà che la comunicazione dell’esito di un determinato test genetico predittivo ad una persona non malata può comportare, compiamo un breve excursus su come la società occidentale si pone di fronte all’utilizzo dei test genetici. La Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina (Convenzione di Oviedo, aprile 1997, ratificata dalla legge 145 del 28 marzo 2001) analizza accuratamente il problema (16). All’articolo 11 sottolinea come sia vietata ogni forma di discriminazione nei confronti di una persona in ragione del suo patrimonio genetico. All’articolo 12 sancisce come non si debba procedere all’esecuzione di test predittivi di malattie genetiche tali da identificare un soggetto come portatore di un elevato rischio di malattia o comunque di predisposizione se non per finalità scientifica o di ricerca medica con l’ovvio consenso informato della persona in oggetto. Qualsiasi altro 25 uso, con finalità differenti da quelle sopraccitate, deve considerarsi illegittimo. Si evince facilmente come sia preoccupazione degli estensori evitare che informazioni di questo tipo, se acquisite da elementi estranei, possano costituire la base di una discriminazione “razziale” su base genetica sia in ambito sociale che professionale. La World Medical Association, già negli anni ’90, ha proposto una regolamentazione all’utilizzo di questi test secondo cui è etico ricorrere ad essi solo nel caso in cui sia possibile attuare un trattamento adeguato per evitare l’insorgere della patologia a rischio o quanto meno di attuare un intervento di diagnosi precoce che possa modificare la storia naturale della malattia stessa. Nella Convenzione di Oviedo si rimarca come la comunicazione e l’interpretazione del risultato debbano essere considerate parti integrati lo stesso test. Il consenso informato Il consenso informato dovrebbe costituire l’atto conclusivo di un dialogo tra il medico genetista e la persona in procinto di essere sottoposta ad uno specifico test genetico. Le informazioni fornite dal medico prima del test, devono essere tali da consentire alla persona interessata una piena consapevolezza decisionale e la possibilità di esprimere tutte le eventuali valutazioni, dubbi, preoccupazioni circa l’esito e le eventuali conseguenze. L’autonomia della persona deve essere rispettata in modo assoluto così come il medico deve adeguare il proprio linguaggio al livello culturale di chi riceve le informazioni in modo tale che queste siano perfettamente recepite ed il consenso possa basarsi su un’informazione del tutto esauriente e sia libero da qualsiasi forma di condizionamento. Giova qui ricordare che nell’intervallo tra l’esecuzione del test e la comunicazione del risultato potrebbero insorgere ripensamenti tali da indurre la persona a modificare la precedente decisione: in questo caso è suo diritto non conoscere l’esito del test e nessuna pressione deve essere esercitata perché ne venga a conoscenza. N° 4 APRILE 2014 26 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives Tra gli altri atti legislativi inerenti, tutti i concetti sovra elencati sono ben analizzati anche al punto 5 della Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 15 luglio 2004 con oggetto “Accordo tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sul documento recante: Lineeguida per le attività di genetica medica”. Di fronte al futuro Come ben scrive Sandro Spinsanti nel suo editoriale su Janus (estate 2005), il principale problema della medicina odierna è l’incertezza (17). Infatti, nonostante il progresso tecnologico e culturale, la medicina resta ancora un’arte che, se pur supportata da aspetti scientifici assai avanzati, non può definirsi scienza, soprattutto scienza esatta. E questo, per la nostra società occidentale del terzo millennio, è una colpa difficile da perdonare: non è accettabile condurre un’esistenza nella penombra delle probabilità, nonostante, la grande maggioranza di noi viva molto lontanamente il fatto che ogni nostra azione, ogni progetto per il futuro sia altrettanto lontano dalla certezza ma sia, al contrario, costantemente avvolto dalla penombra delle probabilità. Addentrandoci poi nella medicina predittiva, l’incertezza così frustrante sia per il medico che per il paziente, subisce un aumento esponenziale. Spinsanti, infatti, afferma:” La medicina predittiva va oltre la capacità di diagnosticare una malattia presente, anche in fase iniziale… è la medicina che apre una finestra sulla malattia che verrà (forse)”. Le reazioni ad una comunicazione inerente un aumentato rischio di ammalarsi di una determinata patologia possono essere estremamente differenti tra loro con un range che nella maggior parte dei casi varia da modesti stati d’ansia a crisi ricorrenti di panico o a stati di angoscia permanente. In casi estremi, pur in condizioni di assoluta asintomaticità, la persona interessata potrebbe percepire questo rischio come un pericolo cui non è più possibile sfuggire e che la costringe ad affrontare un profondo stravolgimento della vita personale, familiare e relazionale nonché professionale con la totale perdita di qualsiasi progettualità. Per tale motivo, al fine di evitare effetti nefasti che possono coinvolgere non solo la persona portatrice di una certa mutazione genica ma anche la cerchia dei suoi affetti e legami, un ruolo determinante deve assumere la comunicazione di tale alterazione genica, comunicazione che può e deve essere affidata solo a personale altamente competente in più ambiti, da quello psicologico a quello genetico, naturalmente, ma anche in ambito terapeutico e di ricerca clinica. La comunicazione In ambito medico, in quello oncologico nello specifico, una particolare attenzione agli aspetti comunicativi è, da tempo, un target abituale nell’ambito di studi clinici controllati così come nella pratica medica quotidiana. La relazione medico/paziente è divenuta parte integrante di un approccio al paziente neoplastico caratterizzato da una visione globale del bisogno di cura: accanto alla identificazione dei problemi strettamente clinici, l’attenzione dei medici si è concentrata sulle modalità di comunicazione, sulle esigenze relazionali e su quelle sociali, sugli aspetti etici, sulla spiritualità e su quella che, alla fine, può essere definita la ‘biografia’ della persona malata. Tutte le fasi della malattia, infatti, costituiscono un banco di prova assai difficile sia per il medico che per il paziente che deve affrontare un impatto particolarmente angosciante al momento della diagnosi, impatto che in genere diviene più pesante nel momento di una recidiva o di progressione e può assumere toni letteralmente drammatici nel momento in cui si evidenzia l’impossibilità di proseguire i trattamenti specifici per la patologia di base (18, 19, 20). Da quanto sopra descritto, la comunicazione di una cattiva notizia costituisce in genere un problema che pone difficoltà al medico che ha il compito di trasmetterla così come, naturalmente, un dramma per il paziente e i familiari che la ricevono. Nel caso della medicina predittiva (in senso stretto, ovvero New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives quella rivolta a persone sane) la comunicazione non riguarda una diagnosi, ovvero un dato relativamente, per quanto possibile, certo, ma la probabilità di una ipotetica diagnosi futura. E dunque è lecito chiedersi se sia più difficile accettare una certezza, seppur negativa, sul proprio stato di salute (in termini di diagnosi, terapie da seguire e possibile prognosi), o l’incertezza circa la possibilità di continuare un’esistenza “normale” in quanto prigionieri del rischio reale di un’ipotetica malattia? Certamente non è facile affrontare un argomento relativo ad un evento che per ora non esiste, che potrebbe tuttavia prendere vita domani ma che potrebbe restare solo un’ipotesi che mai si realizzerà. Come ben sottolineano Nadia Crotti e Giorgia Gollo nel volume di Janus sopracitato, una comunicazione di rischio genetico di neoplasia potrebbe essere vissuta coma una vera e propria diagnosi di tumore con le frequenti conseguenze che questa situazione specifica, il carattere eredo familiare, comporta, ovvero un amplificato timore, oltre che per se stesso, anche per i familiari più stretti. Il vissuto si trasmette, di conseguenza, a tutto l’ambito familiare con conseguenze, nelle situazioni più complesse, non facili da prevedere. Il processo comunicativo-relazionale, infatti, risulterà oltremodo complesso in quanto potrebbe essere esteso, se il portatore di mutazione lo richiede, pur con la necessaria gradualità e nel totale rispetto della privacy, a tutti i familiari della persona portatrice della mutazione. Anche con la comunicazione più adeguata, comunque, il soggetto portatore percepisce in ogni modo come la sua vita sia profondamente mutata: il suo futuro non sarà più come era nelle sue aspettative (21, 22, 23). A questo punto, risulta evidente come la variabile principale che entra in gioco nel comunicare una mutazione genica, oltre al rischio che questa comporta, sia legata indissolubilmente a quali e quanti strumenti possiede la medicina oggi per prevenire l’insorgere della malattia ipotizzata o quanto meno per attuare una diagnosi così precoce da modificarne la storia naturale. 27 Esistenza: certezze ed incertezze La cultura dominante nel mondo occidentale, pur sostanzialmente libera da fondamentalismi di qualsiasi genere, vive, più o meno consapevolmente, una ricerca, a volte ossessiva, di certezze non discutibili. La fiducia, meglio, le richieste quotidianamente poste alla medicina non tengono in alcun conto i limiti che questa branca del sapere inevitabilmente possiede. Senza dubbio, i nuovi orizzonti che la medicina predittiva consente di scorgere attraverso la possibilità di ottenere informazioni su possibili destini della nostra esistenza, costituiscono un affascinante campo di confronto culturale. Tra gli altri, il pensiero corre a Renato Dulbecco, Nobel per la Medicina nel 1975, scienziato particolarmente lungimirante, uno dei padri del progetto “Genoma Umano”. Il grande ricercatore, scomparso all’età di 98 anni nel 2012, amava ripetere con una certa ma non troppa ironia: “Nella sequenza dei geni di ognuno di noi, riusciremo a leggere il nostro futuro”. Il filosofo francese Edgard Morin, profondamente interessato agli studi di genetica fin dal suo primo soggiorno al Salk Institute in California alla fine degli anni ’60, svilupperà gran parte del suo pensiero sull’esistenza e sulla visione dell’umanità in cui le influenze del l’evoluzione della genetica risulteranno evidenti in opere come “Il paradigma perduto: la natura umana” del 1973 o “Educare per l’era planetaria: il pensiero complesso come metodo di apprendimento dentro l’errore e l’incertezza umana” del 2003. Il filosofo polacco Zygmunt Bauman, con le sue note metafore legate agli aggettivi “liquido” e “solido”, descrive magistralmente lo stato di incertezza che opprime la società intera e la singola persona. Di fronte a questi concetti, a queste elaborazioni del pensiero filosofico e scientifico, come e dove collochiamo il contributo che la genetica in ambito strettamente medico può offrire alla conoscenza in relazione alla vita di ciascuno di noi, alla nostra ricerca di certezza? Laconicamente N° 4 APRILE 2014 28 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives potremmo citare le ormai storiche parole di Bob Dylan “The answer is blowin’ in the wind”, oppure potremmo affidarci ad un pensiero del filosofo esistenzialista Edmund Husserl che affermava come ogni progresso scientifico, qualora questo fosse disgiunto da una visione filosofico-antropologica, riducesse l’uomo a semplice oggetto di studio illudendolo di essere soggetto di scienza ed artefice della propria biografia. Da qui, la necessità che ogni progresso scientifico (e il cammino della genetica ne è un limpido esempio) sia anche un progresso etico ed umano. 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New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 31 32 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 33 34 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 35 36 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 37 38 New Era Opened Medical Oncology Progress & Perspectives 39 Note: Depositato presso AIFA in data 31/01/2014 – AN n° L.IT.01.2014.0312 Estende il trattamento. Aumenta la sopravvivenza1 STIVARGA® è indicato per il trattamento dei pazienti adulti affetti da carcinoma metastatico del colon-retto precedentemente trattati oppure non candidabili al trattamento con le terapie disponibili2 Medicinale sottoposto a monitoraggio addizionale. Bibliografia 1. Grothey A, et al. Lancet 2013; 381(9863): 303-12. 2. STIVARGA – Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto. Nel sito www.bayer.com si trova sempre disponibile l’ultima versione approvata dell’RCP. www.giscad.org Scansiona il codice QR con il cellulare e scoprirai un mondo di informazioni