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Fausto Curi
Piccola storia delle avanguardie
da Baudelaire al Gruppo 63
Mucchi Editore
isbn 978-88-7000-602-5
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I edizione pubblicata in Modena nel 2013
Il fine e il carattere di questo opuscolo
sono puramente divulgativi e didascalici.
Per eventuali approfondimenti critici
si rinvia alla Bibliografia essenziale.
I
“Che «tutto continui così» è la catastrofe”. Questa frase di Walter Benjamin corrisponde così perfettamente alla odierna
situazione politica italiana da lasciare stupefatti. Il pericolo non viene dunque tanto
dai mutamenti e dalle trasformazioni, che
pure, quando ci sono stati, sono stati tutti di
segno negativo. Il pericolo viene dall’immobilità e dalla ripetizione. Il pericolo viene dal
fatto che il nuovo, quando non è un peggioramento dello stato precedente, altro non è
che un suo stanco prolungamento. Mi pare
che non lo si noti abbastanza ma il nuovo
più infame e più deleterio, se non fosse il più
ridicolmente assurdo, è, oggi, in Italia, Berlusconi che si presenta come il salvatore della patria, colui che ha soprattutto a cuore gli
interessi del Paese. La catastrofe, dunque,
non è una minaccia, la catastrofe è qualcosa in mezzo alla quale viviamo da tempo.
Qualcosa alla quale sopravviviamo perché
siamo così assuefatti al disastro e allo schi5
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fo da accorgerci appena che fa schifo. Attenzione però: c’è qualcuno che alla catastrofe
non si è assuefatto perché non può permetterselo. Il giorno in cui verrà meno anche il
pochissimo di assuefazione che gli è rimasto, verrà meno anche la catastrofe. Allora il
nuovo nascerà davvero. Non sappiamo però
che forma avrà e se ci piacerà.
La frase di Benjamin indica perfettamente anche la situazione da cui nasce l’avanguardia. La quale è dunque prima di tutto una rottura della continuità, un’interruzione volontaria della normalità e della
stabilità. Ed è un’interruzione globale, che
non riguarda solo la letteratura, ma aspira a
investire tutte le arti e, al di là di queste, tutte le istituzioni, politiche, sociali, economiche. Per questo non sempre si dà avanguardia, quando sembra che vi sia avanguardia.
Da un punto di vista storico, si è soliti
far iniziare l’avanguardia da Baudelaire. Ma
Baudelaire non è propriamente un poeta
d’avanguardia, anche se con lui incominciano una condizione dello scrittore, e un comportamento dello scrittore, che in un breve
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Piccola storia delle avanguardie da Baudelaire al Gruppo 63
volgere di anni porteranno all’avanguardia
vera e propria. In un capitolo del suo saggio intitolato Il pittore della vita moderna,
tracciando il profilo di quello che egli chiama il dandy, Baudelaire ha perfettamente
prefigurato il profilo dello scrittore d’avanguardia. Il dandy, per Baudelaire, non è il
personaggio ozioso, amante del lusso e preoccupato soltanto dell’eleganza della propria persona al quale di solito quella denominazione rinvia. I dandys sono una sorta
di comunità, una “casta”, dice precisamente Baudelaire, costituita da uomini “disgustati”, “declassati” e “disoccupati” che si collocano all’“opposizione” e aspirano alla “rivolta”. Il dandy è all’“opposizione” della classe
dominante, cioè della borghesia, perché è
“disgustato” dal suo comportamento banale, volgare e repressivo, mentre il cittadino che sarebbe un giorno diventato un dandy si era illuso, in un primo momento, che
i borghesi potessero amare e proteggere le
arti. Il dandy è inoltre un “declassato”, cioè
non ha più una classe di appartenenza, o
perché da essa è stato espulso o perché ne è
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Fausto Curi
uscito volontariamente. Dunque è un uomo
socialmente libero, anche se porta il peso
di quella libertà. Infatti è un “disoccupato”,
nel senso che, essendo un “declassato”, è stato privato di ogni mandato sociale, cioè di
ogni funzione all’interno non soltanto della
propria classe d’origine, ma dell’intera società, o a quel mandato ha rinunciato per suo
conto. Non è tanto un ritratto, quello fornitoci da Baudelaire, quanto un autoritratto, o meglio, per usare una nota definizione
di Starobinski, un “autoritratto travestito”,
mediante il quale il poeta rappresenta la propria condizione, che è socialmente e culturalmente nuova in quanto egli non è più, come
era ancora in quegli stessi anni in Francia un
poeta come Victor Hugo, un rappresentante
della classe borghese, perfettamente integrato nelle idee e nei valori di quella classe,
ma è all’“opposizione” e in “rivolta” contro
di essa, da essa completamente dissociato. Si
pensi a ciò che questo significa. Si pensi a
ciò che per secoli la poesia ha quasi sempre
significato per la classe dominante, abituata a considerare gli scrittori, e segnatamente
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Piccola storia delle avanguardie da Baudelaire al Gruppo 63
i poeti, come propri cortigiani. Trattati con
maggiore o minore riguardo, essi erano pur
sempre al servizio dei potenti. E, come è
noto, si trattava non di rado di grandi poeti:
Ariosto, Tasso, Racine, La Fontaine. Dopo
la Rivoluzione francese, salita al potere la
borghesia, la condizione del poeta si fa certamente più libera, ma non lo è mai totalmente. Per essere libero Hugo deve scegliere l’esilio. E la vita del borghese Foscolo è
sempre libera ma precaria. Mentre precaria non è, se non per scelta, la vita del conte
Alfieri, del conte Manzoni, del conte Leopardi. Libero ma integrato: così può riassumersi la condizione del poeta postrivoluzionario. Libero e non integrato è invece Baudelaire, che, si narra, si aggira per Parigi coperto di stracci e quasi sempre pieno di debiti,
tranne quando la sua fitta collaborazione ai
giornali gli concede un po’ di respiro. Il giornalismo, divenuto una vera e propria professione, è infatti spesso il segno della nuova
condizione del libero scrittore.
L’“autoritratto travestito” delineato
da Baudelaire nel Pittore della vita moder9
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na non ci dice tutto su di lui e sulla prefigurazione del poeta d’avanguardia. Giacché
occorre guardare a un episodio fondamentale della vita di Baudelaire per intendere
appieno quella prefigurazione. Non si tratta, ora, di letteratura, o meglio, non si tratta soltanto di letteratura. Il 20 agosto 1857,
a pochi giorni dall’uscita del suo capolavoro, I fiori del male, la sesta Camera correzionale di Parigi, su segnalazione del Ministero dell’Interno, condanna Baudelaire a 300
franchi d’ammenda e soprattutto a sopprimere sei componimenti del libro. Sua colpa: “oltraggio alla morale pubblica”. Facciamo attenzione, non siamo di fronte a un
incidente di scarso rilievo. Siamo di fronte
a un evento storico e simbolico che segna
indelebilmente la modernità letteraria. Che
i despoti e i potenti abbiano sempre guardato con sospetto il lavoro intellettuale è
cosa nota. Che abbiano perseguitato scrittori e filosofi fino al punto di gettarli in galera e a volte di mandarli a morte innocenti,
è cosa altrettanto nota: da Giordano Bruno
ad Antonio Gramsci. Ma si trattava, appun10
Piccola storia delle avanguardie da Baudelaire al Gruppo 63
to, di despoti, di monarchi che non dovevano rispettare alcuna legge, perché incarnavano loro la legge. Ma la condanna che colpisce Baudelaire presenta due aspetti nuovi:
in primo luogo, non è emessa da un despota,
è irrogata da un tribunale regolare sulla base
di leggi che fano parte della giurisprudenza
del tempo; in secondo luogo, non colpisce
un furto, una violenza, un omicidio, o un
tentativo di sovversione dello Stato, colpisce
la poesia, è una condanna della poesia. Certo, si può sempre osservare che a capo dello Stato che condanna Baudelaire è un nuovo despota, Napoleone III. Ma, diversamente dal passato, non è costui che condanna
direttamente il poeta, sono le leggi approvate da un Parlamento, sia pure assai poco
democratico, che lo condannano. Insomma, l’anomalia sta nel fatto che ciò che accade, accade dopo che si è compiuta quella
Rivoluzione che ha tagliato la testa al Re, ha
strappato il potere dalle mani dell’aristocrazia e, in nome della libertà, lo ha consegnato in quelle della borghesia. Napoleone III
è soltanto un esecutore, è la borghesia, pas11
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sata rapidamente dalla Rivoluzione alla reazione, una borghesia preoccupata di tutelare
il proprio potere da ogni pur minimo pericolo, una borghesia occhiuta, spavalda e al
tempo stesso timorosa, è questa borghesia
che condanna Baudelaire. Nel Manifesto del
partito comunista, che esce nel 1848, nove
anni prima dei Fiori del male, Marx e Engels
fanno notare che la borghesia, in quanto ha
abbattuto “le condizioni di vita feudali”, “ha
avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria”. Ciò è vero, ma riguarda soprattutto la prima parte dell’egemonia borghese. Nell’età di Baudelaire la borghesia, o meglio il capitalismo, incomincia
ormai ad essere nella fase pienamente egemonica della sua storia e all’azione “rivoluzionaria” mescola l’azione repressiva, della
quale maggiormente risentono i non borghesi, ossia i proletari e i declassati.
Fra la poesia e il potere borghese si apre
così una frattura insanabile, che, pur variando le circostanze, gli uomini e le azioni, permane fino ai nostri giorni. Non si tratta soltanto del trauma che patisce Baudelaire,
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Piccola storia delle avanguardie da Baudelaire al Gruppo 63
il quale si considera innocente e si aspetta
addirittura che gli venga restituito “l’onore”. Si tratta del fatto che fra la libertà illimitata cui giustamente aspira ogni vero artista, e le leggi, le regole, la morale spesso ipocrita che governano la società borghese l’inconciliabilità è e rimane totale, assoluta. In
misura diversa, e in modi diversi, i poeti
diventano pertanto antagonisti della società, che viene percepita come banale, ottusa e soprattutto repressiva. Se ci si interroga su quando abbia inizio la modernità culturale si possono ragionevolmente fornire le
risposte più diverse: si può fare il nome di
Kant, oppure di Hegel, oppure di Leopardi,
oppure di Marx, oppure di Nietzsche, oppure di Freud. La risposta più persuasiva sembra però essere quella che indica il nome di
Baudelaire. Non solo per lo splendore raggiante della sua poesia, ma per la persecuzione che per la sua poesia egli ha patito. La
vera modernità culturale non ha inizio con
un fatto culturale, ha inizio con un evento giudiziario. Ha inizio quando la poesia è
trascinata in tribunale e il tribunale stabili13
Fausto Curi
sce che la poesia non è libera e che il poeta,
proprio in quanto poeta, può essere trattato alla stregua di un malfattore. Un evento
veramente rivoluzionario.
È giusto riconoscere che la più gran
parte degli scrittori accetta più o meno di
buon grado la società in cui vive, e che alcuni ne diventano addirittura gli ispiratori, i
modelli artistici e etici: si pensi, per l’Italia,
a Manzoni, per la Francia, a Hugo. Ciò però
non cancella lo scandalo di un’arte che per
proteggere la propria piena libertà e per non
soccombere al dominio del mercato che si
fa sempre più soffocante è costretta a diventare antagonista della società in cui è nata.
È continuando a praticare tenacemente la
contestazione e l’azione antagonista che il
dandy diventerà un giorno uno scrittore
d’avanguardia.
Lo stile e la metrica dei Fiori del male
hanno la perfezione e l’equilibrio della
grande poesia classica. Il lettore ingenuo
potrà quindi chiedersi come sia possibile
che questa poesia abbia suscitato scandalo
e, al tempo stesso, abbia potentemente rin14
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novato la scrittura poetica. La risposta è fornita dal libro stesso di Baudelaire, anzi, ellitticamente, dall’ultima parola del suo titolo.
La scoperta del male non è una novità assoluta in un Paese che fra i suoi grandi scrittori annovera Sade. Sade però scriveva in prosa, Baudelaire apre al male la poesia. Cosa
significa questo? Significa che mentre la
poesia che ha preceduto Baudelaire occultava sempre il male mediante il sublime, Baudelaire (che è certo un buon lettore di Sade)
lo desublima penetrando fino nelle fibre
più intime dell’essere umano e rappresentandolo con intrepido realismo. Baudelaire non si compiace di rappresentare il male:
da questo punto di vista egli aveva perfettamente ragione di obiettare al suo inquisitore che la sua opera era innocente. Il punto
è che il male consente di scoprire la verità
della condizione umana. Non c’è verità se il
male si occulta o si sublima. Con Baudelaire la poesia diventa adulta, cessa di illudersi
che siano i buoni sentimenti e i nobili ideali a caratterizzare l’umanità. Fin dalla prima poesia del suo libro, dedicata significati15
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vamente Al lettore, Baudelaire dice chiaramente che “È il diavolo che tiene i fili che ci
muovono”. Posta questa premessa, e poiché
Dio non è affatto assente dal libro, si capisce meglio ciò che di angosciato e di tormentoso è in esso. Ma si capiscono meglio
anche i momenti di abbandono e di sovrumana distensione e serenità contrapposti
alla bruciante ebrezza carnale delle “pièces
condamnées”. La novità e la modernità di
questa poesia sta nell’umanità dolente e
trionfante che essa porta in luce, un’umanità tragica nelle sue passioni, affascinata da
un eros dolcissimo e rapinoso, ossessionata
dal demonio. L’uomo guarda sé stesso senza
celarsi, senza mascherarsi, nella nuda corporalità del suo essere, e scopre in sé qualcosa di divino e di diabolico.
Il dandy, lo si è accennato, non muore
con Baudelaire. Mutando sembianze e comportamento, ma conservando tenacemente, sia per necessità, sia per scelta, la propria condizione antagonistica e contestativa, è pur sempre uno scrittore “in rivolta”,
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