Operette morali
di Giacomo Leopardi
Letteratura italiana Einaudi
Edizione di riferimento:
Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 1991
Selezione e commento di Giorgio Panizza
Letteratura italiana Einaudi
ii
Sommario
Storia del genere umano
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
Dialogo di Malambruno e di Farfarello
Dialogo delle Natura e di un’Anima
La scommessa di Prometeo
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio
familiare
Dialogo della Natura e di un Islandese
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
Cantico del Gallo silvestre
Dialogo di Timandro e di Eleandro
Dialogo di un Venditore d’almanacchi e
di un Passeggere
Dialogo di Tristano e di un Amico
1
42
53
60
72
96
112
137
156
175
189
216
221
Letteratura italiana Einaudi
iii
STORIA DEL GENERE UMANO
1Narrasi2
che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini3, e fossero nutricati dalle api,
dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti favo5 leggiarono dell’educazione di Giove4. E che la terra fosse molto più piccola che ora non è, quasi tutti i paesi
piani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e apparisse nel mondo molto minore varietà e magnificenza
che oggi non vi si scuopre5. Ma nondimeno gli uomini
10 compiacendosi insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la terra, maravigliandosene sopra modo
e riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che vasti, ma
infiniti, così di grandezza come di maestà e di leggiadria;
pascendosi6 oltre a ciò di lietissime speranze, e traendo
1
rr. 1-46. Primo stadio della storia umana. È un periodo del tutto immaginario, ma funzionale, secondo quella che possiamo chiamare una «ipotesi per assurdo», alle riflessioni che Leopardi intende proporre.
2 Narrasi: il verbo regge il primo periodo (che + cong.) e il secondo (E che... si scuopre); ma già il terzo, molto lungo, è indipendente (Ma nondimeno... crescevano).
3
e tutti bambini: si noti l’irrealtà dell’invenzione; unita agli altri
dati di partenza (uomini creati per ogni dove a un medesimo tempo), è questa una delle premesse più importanti per lo svolgimento
dell’ipotesi formulata con il primo tratto di racconto.
4 fossero... Giove: le fonti sono ricordate da Leopardi in una nota dell’autografo: «api. Callim[aco]. colombe. Ateneo. capre. la capra amaltea». Nutricati (latinismo) è la forma continuativa di «nutrire» (sono forme che Leopardi studia a lungo in appunti dello
Zibaldone); educazione ha il senso latino di «crescita, sviluppo».
5 E che la terra... scuopre: e l’altro insieme di condizioni, anch’esse irreali, da cui può muovere l’ipotesi. Magnificenza: «manifestazione di grandezza».
6
pascendosi: alimentandosi.
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1
Giacomo Leopardi - Operette morali
15 da ciascun sentimento della loro vita incredibili diletti,
crescevano con molto contento7, e con poco meno che
opinione di felicità8. Così consumata dolcissimamente9
la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più
ferma10, incominciarono a provare alcuna mutazione.
7
contento: contentezza.
8
Ma nondimeno... felicità: la costruzione del periodo è rallentata dalla lunga serie dei gerundi, ma nello stesso tempo tesa verso la
proposizione principale e verso la conclusione sulla parola chiave
del passo (felicità), rilevata per significato, posizione e accento. In
questo modo è consentito al lettore di cogliere con un unico sguardo effetto e cause, nel loro prodursi; può cioè percepire che la felicità degli uomini non è cosa diversa dalle sensazioni descritte. Notiamo quali sono: piacere generato dall’idea di vastità e infinità del
mondo; speranze; diletti provocati dal sentirsi vivi, cioè dal sentire
le sensazioni. Poiché anche il secondo e terzo motivo sono causa di
piacere in quanto non limitati, conclusivamente felicità e piacere
proveniente dalla sensazione di infinito vengono a coincidere. Oltre all’effetto determinato dalla struttura sintattica, altri fatti formali si collegano a rendere sensibile la descrizione di Leopardi. Vediamoli in sintesi: parole polisillabe, e in particolare dilatate quelle
che indicano il sentimento umano (compiacendosi insaziabilmente,
riguardare, considerare, meravigliandosene, ecc.); superlativi (bellissimi, lietissime); composti con in- negativo (insaziabilmente, incredibili, infiniti); plurali non strettamente giustificati dall’oggetto descritto (quindi, a parte bellissimi... vasti… infiniti, anche lietissime
speranze, incredibili diletti). Sono tutti fenomeni che rientrano tra
quelli chiamati da uno studioso (Blasucci) «i segnali dell’infinito»,
perché ad essi Leopardi ricorre tutte le volte in cui vuole che la pagina richiami sensazioni «vaste e indefinite», e insomma l’idea del
piacere. Anche a proposito della descrizione del mondo al tempo
di Adamo nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi Leopardi notava: «Si
procuri di destare un’idea vasta e infinita di questa solitudine» (Le
poesie e le prose, op. cit., I, p. 429). 9 consumata dolcissimamente:
ecco un altro superlativo; tutta l’espressione riassume per forma e
per contenuto il passo precedente, preparando il lettore a una mutazione.
10 ferma: matura; cfr. Al conte Carlo Pepoli, v. 115, «nella ferma
e nella stanca etade» (e vedi tutto il passo).
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Giacomo Leopardi - Operette morali
20 Perciocché11 le speranze, che eglino fino a quel tempo
erano andati rimettendo12 di giorno in giorno, non si riducendo ancora ad effetto13, parve loro che meritassero
poca fede, e contentarsi di quello che presentemente godessero, senza promettersi verun accrescimento di bene,
25 non pareva loro di potere, massimamente14 che l’aspetto
delle cose naturali e ciascuna parte della vita giornaliera,
o per l’assuefazione o per essere diminuita nei loro animi quella prima vivacità15, non riusciva loro di gran lungo così dilettevole e grata come a principio. Andavano
30 per la terra visitando lontanissime contrade, poiché lo
potevano fare agevolmente, per essere i luoghi piani, e
non divisi da mari, né impediti da altre difficoltà; e dopo
non molti anni, i più di loro si avvidero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi16, e non così larghi
35 che fossero incomprensibili17 e che tutti i luoghi di essa
11
Perciocchè: «Per il fatto che»; introduce come causale tutto il
complesso periodo che segue.
12
rimettendo: come se le spostassero avanti continuamente, in
attesa di un compimento; cfr. Il Parini ovvero della gloria, X, r. 42 e
seg.: «la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, in
ultimo [...] si ferma nella posterità».
13
non si riducendo... effetto: non realizzandosi.
14
massimamente: soprattutto.
15
quella prima vivacità: vedi rr. 14-15. Per tutto il passo cfr. Zibaldone, p. 166: «perché questa è un’altra delle proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le impressioni a poco a poco svaniscano, e che l’assuefazione, come toglie il dolore, così spenga il
piacere».
16 ancorché grande... certi: esatto contrario di quanto sembrava
prima («il cielo e la terra [...] non che vasti, ma infiniti»), come nota in Zibaldone, p. 1465: «L’esperienza dimostra necessariamente i
confini di molte cose anche all’uomo naturale e insocievole». Cfr.
Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 30-31: «Vix ita limitibus dissaepserat
omnia certis».
17
non... incomprensibili: «non tali da non poter essere contenu-
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Giacomo Leopardi - Operette morali
terra e tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze,
erano conformi gli uni agli altri. Per le quali cose cresceva la loro mala contentezza di modo che essi non erano
ancora usciti dalla gioventù, che un espresso fastidio
40 dell’esser loro gli aveva universalmente occupati. E di
mano in mano nell’età virile, e maggiormente in sul declinare degli anni, convertita la sazietà in odio, alcuni
vennero in sì fatta disperazione, che non sopportando la
luce e lo spirito18, che nel primo tempo avevano avuti in
45 tanto amore, spontaneamente, quale in uno e quale in
altro modo, se ne privarono19.
20
Parve orrendo questo caso agli Dei21, che da creature viventi la morte fosse preposta alla vita, e che questa medesima in alcun suo proprio soggetto, senza forza
50 di necessità e senza altro concorso, fosse instrumento a
ti dalla mente», cioè misurabili e rappresentabili. La «tendenza nostra» è invece «verso un infinito che non comprendiamo» (Zibaldone, p. 165). Cfr. poi r. 304 e seg. e, per tutto il passo, Ad Angelo
Mai, vv. 98-100: «e figurato è il mondo in breve carta; / Ecco tutto
è simile, e discoprendo, / Solo il nulla s’accresce».
18
la luce e lo spirito: per indicare la vita, come ne Le ricordanze,
vv. 44-46, dove il perduto «caro tempo giovanil» sarà più caro anche «che la pura / Luce del giorno, e lo spirar»; sulla parola spirito
cfr. le osservazioni di Zibaldone, pp. 602 e 3854.
19 se ne privarono: attraverso una sintassi che tiene legato un periodo all’altro (Per le quali cose, E di mano in mano) fino alla consecutiva (in sì fatta... che), siamo portati senza interruzione a questa
conclusione violenta, segnata dal passato remoto come da un rimbombo. Per l’idea narrativa, cfr. il passo di Zibaldone, p. 216.
20
rr. 47-124. Reazioni e provvedimenti degli dei.
21
Parve... Dei: la collocazione delle parole, con l’attesa creata
dalla prolessi di questo caso (vedi Galimberti), sottolinea il cambiamento di scena, secondo l’alternanza su cui è costruita tutta l’operetta. L’attacco, che è del resto un endecasillabo, ricorda Bruto Minore, v. 46 («Spiace agli Dei...»), ma l’argomento qui è tutt’altro.
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4
Giacomo Leopardi - Operette morali
disfarlo22. Né si può facilmente dire quanto si maravigliassero che i loro doni fossero tenuti così vili ed abbominevoli, che altri dovesse con ogni sua forza spogliarseli e rigettarli parendo loro aver posta nel mondo tanta
55 bontà e vaghezza, e tali ordini e condizioni, che quella
stanza23 avesse ad essere, non che tollerata, ma sommamente amata da qualsivoglia animale, e dagli uomini
massimamente, il qual genere avevano formato con singolare studio24 a maravigliosa eccellenza25. Ma nel me60 desimo tempo, oltre all’essere tocchi26 da non mediocre
pietà di tanta miseria umana quanta manifestavasi dagli
effetti27, dubitavano eziandio28 che rinnovandosi e moltiplicandosi quei tristi esempi, la stirpe umana fra poca
età, contro l’ordine dei fati, venisse a perire, e le cose
22
che questa medesima... disfarlo: «che la vita stessa, di per sé,
senza motivi o necessità speciali, fosse un mezzo di morte per le
creature, cioè per coloro che sono l’unico suo ambito di realizzazione (in alcun suo proprio soggetto)»; in breve, che la vita si autodistruggesse. Per l’espressione, precisamente calibrata da Leopardi
nei suoi elementi, cfr. Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, rr. 2829, e soprattutto il passo di Zibaldone, pp. 3783-3784.
23
stanza: dimora.
24
con singolare studio: con impegno del tutto speciale.
25
maravigliosa eccellenza: ripetendo la concezione tradizionale
dell’ordine perfetto delle cose create, l’autodistruzione degli uomini, che sono il vertice di tale ordine, risulta ancora più assurda. Per
il modo in cui Leopardi interpreta l’idea dell’eccellenza dell’uomo
nella scala degli esseri viventi, vedi Dialogo della Natura e di un’Anima, r. 31 e seg. e r. 154 e seg.26 tocchi: toccati, commossi; cfr. Il
primo amore, v. 60, «Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?».
27 tanta miseria… effetti: all’eccellenza stabilita dagli dei si contrappone la miseria che la realtà dimostra.
28
eziandio: anche.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
65 fossero private di quella perfezione29 che risultava loro
dal nostro genere, ed essi di quegli onori che ricevevano
dagli uomini30.
Deliberato per tanto Giove di migliorare, poiché parea che si richiedesse, lo stato umano, e d’indirizzarlo al70 la felicità con maggiori sussidi, intendeva che gli uomini
si querelavano31 principalmente che le cose non fossero
immense di grandezza, né infinite di beltà, di perfezione
e di varietà, come essi da prima avevano giudicato; anzi
essere32 angustissime, tutte imperfette, e pressoché di
75 una forma; e che dolendosi non solo dell’età provetta,
ma della natura, e della medesima gioventù33, e desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferventemente di essere tornati34 nella fanciullezza35, e in quel29 perfezione: cfr. Genesi, 2,1: «igitur perfecti sunt caeli et terra
et omnis ornatus eorum».
30
dubitavano… uomini: lo spunto viene da Ovidio, Metamorfosi, v. 246 e seg. Con le considerazioni degli dei svolte in questo paragrafo, è chiarita la formulazione dell’«ipotesi per assurdo» di
Leopardi: se la natura avesse fornito all’uomo un mondo come
quello descritto all’inizio, gli uomini non avrebbero resistito e si sarebbero estinti.
31
querelavano: lamentavano.
32
che le cose non fossero... anzi essere: variazione nella struttura
sintattica (usata da Leopardi anche altrove), per cui in dipendenza
da si querelavano un che + congiuntivo è coordinato a un infinito;
quest’ultima è una forma di accusativo + infinito normale nella tradizione della prosa letteraria italiana.
33 dell’età provetta... gioventù: in scala decrescente; provetta significa «avanzata» (l’espressione è anche nel Cantico del gallo silvestre, r. 123, e in Per una donna inferma di malattia lunga e mortale,
v. 126; «provetti giorni» è ne Il passero solitario, v. 21, cfr. anche il
commento di De Robertis).
34
essere tornati: si noti l’uso passivo, all’interno delle Operette
morali ripetuto solo in questa, r. 547 (nei Canti, «tornare» transitivo è in una variante rifiutata de Alla Primavera o delle favole antiche, v. 92).
35
fanciullezza: perché l’unica età in cui avevano potuto conside-
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6
Giacomo Leopardi - Operette morali
la perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non po80 tea Giove soddisfarli, essendo contraria alle leggi uni-
versali della natura, ed a quegli uffici36 e quelle utilità
che gli uomini dovevano, secondo l’intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre. Né anche poteva comunicare37 la propria infinità colle creature mortali, né fare
85 la materia infinita, né infinita la perfezione e la felicità
delle cose e degli uomini38. Ben gli parve conveniente39
di propagare i termini del creato, e di maggiormente
adornarlo e distinguerlo40: e preso questo consiglio41,
rare il mondo bellissimo e infinito, per la forza dell’immaginazione
di cui si parlerà tra poco [sulla fanciullezza vedi inoltre i passi citati nelle note 60 e 211].
36 uffici: «compiti»; a uffici si connette in fine esercitare («compiere attivamente»), a utilità, produrre.
37
comunicare: rendere comune.
38
Della qual cosa... uomini: attraverso la risposta di Giove è dichiarata da subito la condizione costitutiva del genere umano: gli
uomini sono mortali, finiti, limitati; nessun sussidio divino può superare questo limite, posto dalle leggi universali della natura, e
dunque le richieste degli uomini non possono essere esaudite nella
sostanza, ma solo alleviate da provvedimenti sostitutivi: la varietà
delle cose e le apparenze di infinito. A questo scopo si indirizzano
gli aiuti di Giove descritti di seguito, che corrispondono alla effettiva «creazione del mondo», tradizionalmente intesa; fin dall’inizio, dice dunque Leopardi, il mondo fu disposto per «soccorrere»
l’uomo, nei limiti che si sono visti, e per evitargli una precoce autodistruzione. Oltre alla «teoria del piacere», vedi il Frammento sul
suicidio: «Tutto il piano della natura intorno alla vita umana si aggira sopra la gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza»
(Le poesie e le prose, cit., I, p. 1083).
39 Ben gli parve conveniente...: vari i punti di contatto con la descrizione ovidiana della creazione del mondo in Metamorfosi. I, v.
32 e seg.; vedi in particolare vv. 43-44: «Iussit et extendi campos,
subsidere valles, / fronde tegi silvas [per cui cfr. qui rr. 114-116],
lapidosos surgere montes».
40
distinguerlo: renderlo diverso.
41
consiglio: decisione.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
ringrandì la terra d’ogn’intorno, e v’infuse il mare, ac90 ciocché42, interponendosi ai luoghi abitati, diversificasse
la sembianza43 delle cose, e impedisse che i confini loro
non potessero facilmente essere conosciuti44 dagli uomini, interrompendo i cammini, ed anche rappresentando
agli occhi una viva similitudine dell’immensità. Nel qual
95 tempo occuparono le nuove acque la terra Atlantide,
non solo essa, ma insieme altri innumerabili e distesissimi tratti, benché di quella resti memoria speciale, sopravvissuta alla moltitudine dei secoli. Molti luoghi depresse45, molti ricolmò suscitando46 i monti e le colline,
100 cosperse47 la notte di stelle, rassottigliò e ripurgò la natura dell’aria48 ed accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò e contemperò più diversamente che per
l’addietro i colori del cielo e delle campagne, confuse49
42
acciocchè: in modo che.
43
sembianza: aspetto.
44
impedisse che... non... conosciuti: il non è dovuto al senso di
divieto del verbo «impedire». Leopardi riprende l’idea antica per
cui l’attraversamento dei mari era stato uno dei principali atti di
«disobbedienza» dell’uomo e tra i motivi della fine dell’età dell’oro. Cfr. Orazio, Odi, I, 3, v. 21 e seg., citato dallo stesso Leopardi in
una lunga riflessione sull’argomento, in Zibaldone, p. 3646; Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 94-96, 132 e seg. Come tale, ma adattata alla propria ricostruzione, l’immagine è ripresa più volte da Leopardi: cfr. almeno Ad Angelo Mai, v. 84 e seg.; Inno ai Patriarchi. vv.
67-69 («Agl’inaccessi / Regni del mar vendicatore illude / Profana
destra»).
45
depresse: abbassò.
46
suscitando: facendo sorgere.
47
cosperse: Leopardi avvicina l’italiano cospargere alla sua matrice latina cospergere; recuperando così una parola «pellegrina», ma
riconoscibile.
48 aria: cfr. Ovidio, Metamorfosi , I, v. 23: «liquidum spisso secrevit ab aëre caelum».
49
confuse: mescolò.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
le generazioni degli uomini in guisa50 che la vecchiezza
105 degli uni concorresse in un medesimo tempo coll’altrui
giovanezza e puerizia. E risolutosi di moltiplicare le apparenze di quell’infinito che gli uomini sommamente
desideravano51 (dappoi che egli non li poteva compiacere della sostanza), e volendo favorire e pascere52 le colo110 ro53 immaginazioni, dalla virtù delle quali principalmente comprendeva essere proceduta quella tanta
beatitudine della loro fanciullezza54; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome fu quello del mare)55,
creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, e
115 mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con un
vasto ondeggiamento delle loro cime56. Creò similmente
50
in guisa: in modo.
51
quell’infinito… desideravano: ecco riassunta in un’espressione
sola la ragione di tutte le richieste degli uomini.
52
pascere: vedi nota 6.
53
coloro: è l’uso letterario antico del pronome colui in senso
possessivo, che Leopardi mantiene (ma con significativi tentativi di
correzione) in soli due casi, qui e in Dialogo di un Folletto e di uno
Gnomo (r. 116).
54 immaginazioni...fanciullezza: cfr. Zibaldone, p. 167 («teoria
del piacere»); vedi anche qui r. 401.
55
mare: vedi rr. 65-69.
56
l’eco... cime: vedi Zibaldone, pp. 1928-1929: «È piacevole
qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si
diffonda [...], massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A questa considerazione appartiene il piacere che può dare e dà (quando
non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand’è
più sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna [...]. Perocchè oltre la vastità, e l’incertezza e confusione del suono non si vede l’oggetto
che lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono. E piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi o la voce ec. Perocchè l’eco non si vede ec.». Negli
Errori popolari aveva scritto: «Il timore aveva fatto riguardare il
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
il popolo de’ sogni57, e commise loro che ingannando
sotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero58
loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che egli
120 non vedeva modo a ridurre in atto, e quelle immagini
perplesse59 e indeterminate, delle quali esso medesimo,
se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio
reale60.
61Fu per questi provvedimenti di Giove ricreato ed
125
tuono e la folgore come cose soprannaturali. Esso fece qualche cosa di più riguardo al vento. Per sua opera si attribuì a questo la Divinità! Si videro gli alberi agitarsi e crollare, mentre per l’aria udivasi un soffiai veemente e un romor forte, quasi di torrente che
dall’alto precipitasse con empito. Guardando intorno, non vedeasi
cosa che cagionasse quel soffio. Questo fenomeno inconcepibile
colpì gli uomini primitivi» (cap. XIV, in Le poesie e le prose, op.
cit., II, pp. 398-399). Si noti l’allitterazione in s e in o: «mise nelle
selve uno strepito sordo e profondo».
57 il popolo dei sogni: l’immagine, come tutti i commentatori ricordano, è di Esiodo.
58
figurassero: «rappresentassero»; come in Amore e Morte, v.
39: «Felicità che il suo pensier figura» (a sua volta da Petrarca, vedi il commento di De Robertis).
59 perplesse: confuse; cfr. Detti memorabili di Filippo Ottonieri,
IV, r. 9: «perplessità e sospensione d’animo».
60
Creò… reale: cfr. Zibaldone, p. 514: «Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono, ec. un racconto, una
descrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace e
diletta, quel piacere è sempre vago e indefinito: l’idea che ci desta è
sempre indeterminata e senza limiti». È solo in questa immaginazione che si possono placare i desideri degli uomini per quella piena felicità non realizzabile (ridurre in atto) e nemmeno intelligibile
(vedi anche r. 35). Concludendo l’esposizione dei provvedimenti
divini, si ripetono i dati di partenza, ma con nuovi elementi.
61 rr. 126-151. Secondo stadio della storia umana, conseguente
alla prima serie di provvedimenti divini. È la fase primitiva, che
precede il diluvio universale, corrispondente alla cosiddetta «età
dell’oro».
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
eretto62 l’animo degli uomini, e rintegrata in ciascuno di
loro la grazia e la carità della vita63, non altrimenti che
l’opinione, il diletto e lo stupore della bellezza e dell’immensità delle cose terrene. E durò questo buono stato
130 più lungamente che il primo, massime per la differenza
del tempo introdotta da Giove nei nascimenti, sicché gli
animi freddi e stanchi per l’esperienza delle cose, erano
confortati vedendo il calore e le speranze dell’età verde64. Ma in progresso di tempo tornata a mancare affat135 to65 la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli uomini in tale
abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli
antichi che lo serbarono65bis, che nascendo alcuno, si
140 congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto66. All’ulti62
eretto: da avvilito che era (ma tra poco si tornerà all’abbattimento, r. 137, e agli animi affievoliti, r. 190); l’espressione è latina;
cfr. inoltre Ovidio, Metamorfosi, I, v. 86: «erectos ad sidera tollere
vultus».
63 grazia... vita: genitivo oggettivo: «il favore e l’amore verso la
vita», in seguito di nuovo soppiantati da tedio e disistima (r. 135136).
64
età verde: la giovinezza; metafora letteraria tra le più tradizionali, usata spesso da Leopardi (cfr. Al conte Carlo Pepoli, v. 116, e il
relativo commento di De Robertis). Calore e speranze si contrappongono a freddi e stanchi.
65
affatto: del tutto.
65 bis
serbarono: nota di leopardi: «(1) Erodoto, lib. 5, cap. 4.
Strabone, lib. 11, edit. Casaub. p. 519. Mela, lib. 2, cap. 2. Antologia greca, ed. H. Steph. p. 16. Coricio sofista, Orat. fun. in Procop.
gaz. cap. 35, ap. Fabric. Bibl. Graec. ed. vet. vol. 8, p. 859.» Per
Plutarco si tratta dell’edizione recente (Firenze, Piatti, 1819) degli
Opuscoli morali nella traduzione cinquecentesca dell’Adriani.
66 che nacque allora… estinto: dalle testimonianze sopravvissute
nella fase successiva del genere umano, quella antica, si ricavano
Letteratura italiana Einaudi
11
Giacomo Leopardi - Operette morali
mo tutti i mortali si volsero all’empietà, o che paresse loro di non essere ascoltati da Giove, o essendo propria
145 natura delle miserie indurare e corrompere gli animi
eziandio più bennati, e disamorarli dell’onesto e del retto. Perciocché s’ingannano a ogni modo67 coloro i quali
stimano essere nata primieramente l’infelicità umana
dall’iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma
150 per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità68.
notizie sulle abitudini dello stadio in cui ora si trovano gli uomini,
quello primitivo. I fatti citati da Leopardi al servizio del proprio
racconto derivano dalle decisive letture da lui svolte durante il primo soggiorno a Roma (novembre 1822-maggio 1823), che gli dimostrarono chiaramente l’esistenza di un pensiero pessimista anche nell’antichità. Tra gli appunti presi allora nello Zibaldone,
eccone due riutilizzati in questa operetta: «Parmi plusieurs de ces
nations que les Grecs appellent barbares, le jour de la naissance
d’un enfant est un jour de deuil pour sa famille (HERODOT., 1. V,
c. 4; STRAB., XI, p. 519, Anthol., p. 16). Assemblée autour de lui,
elle le plaint d’avoir reçu le funeste présent de la vie. Ces plaintes
effrayantes ne sont que trop conformes aux maximes des sages de
la Grèce. Quand on songe, disent ils, à la destinée qui attend
l’homme sur la terre, il faudroit arroser de pleurs son berceau:
(EURIP., fragm. Ctesiph., p. 476; AXIOCH., ap. Plat., l. III, p. 368;
CICER0, Tuscul., l. I, e. 48, t. II, p. 273)» [Zibaldone, p. 2671].
«Pianger si de’ il dì nascente ch’incomincia Or a solcare il mar di
tanti mali, E con gioia al sepolcro s’accompagni, L’uscito de’ travagli della vita. Poeta antico, appo Plutarco, Come debba il giovane
udir le poesie, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane» [Zibaldone, p. 2673]. Il primo passo è una citazione da una delle letture fondamentali di quel periodo, il Voyage du jeune Anacharsis en
Gréce di Jean-Jacques Barthélemy; da lì come si vede provengono
per gran parte i riscontri citati nella nota 1 di Leopardi.
67
a ogni modo: da ogni punto di vinta, comunque.
68
Perciocchè... calamità: interrotta la narrazione, al commento
diretto del narratore-autore tocca il compito di esprimere esplicitamente il punto di più forte divergenza con le interpretazioni religiose, pagana e cristiana, della storia umana, in entrambe le quali è
presente l’idea che il dolore degli uomini provenga dalla loro empietà, dalla rottura di un patto che li lega alla divinità, tanto che
questa è costretta a punirli (in special modo col Diluvio Universa-
Letteratura italiana Einaudi
12
Alessandro Manzoni - Il Cinque Maggio
69Ora
poiché fu punita dagli Dei col diluvio di Deucalione la protervia70 dei mortali e presa vendetta delle
ingiurie, i due soli scampati dal naufragio universale del
155 nostro genere, Deucalione e Pirra71, affermando seco
medesimi niuna cosa potere maggiormente giovare alla
le). Ovviamente la veste pagana copre il vero bersaglio polemico,
che è il cristianesimo, indirizzandosi non solo al Diluvio, ma ancor
più alla ricostruzione che la Genesi propone della cacciata dell’uomo dall’originaria condizione di felicità per sua colpa. A questo
problema Leopardi dedica numerose e importanti riflessioni dello
Zibaldone, sorte in seguito alla lettura del cattolico Lamennais (vedi pp. 393-437, dicembre 1820), ma la sua impostazione è già chiara nelle Canzoni del 1824 (dalla cui edizione cito); cfr. Inno ai Patriarchi, v. 11 e seg.: «E se di vostro antico / Error che l’uman seme
a la tiranna / Possa de’ morbi e di sciagura offerse, / Grido antico
ragiona, altre più dire / Colpe de’ figli, e pervicace ingegno, / E demenza maggior l’offeso Olimpo / N’armaro incontra, e la negletta
mano / De l’altrice Natura»; e Ultimo canto di Saffo, v. 37 e seg.
(nel testo del 1824): «Qual de la mente mia nefando errore / Macchiommi anzi ’1 natale, onde sì crudo / Il Ciel mi fosse e di fortuna
il senno? / Qual ne la prima età (mentre di colpa / Nudi viviam)»
ecc.
69 rr. 152-247. Dopo la punizione del diluvio, nuovi provvedimenti degli dei.
70
protervia: superbia sfrontata.
71
Deucalione e Pirra: Deucalione, figlio di Prometeo, e sua moglie Pirra sono gli unici scampati al diluvio secondo il mito greco,
narrato distesamente da Ovidio. Il racconto tradizionale dice che
la coppia, interrogata la dea Temi su come dar continuazione al genere umano, ne ebbe come risposta di gettare dietro di sé le ossa
della «gran madre», vale a dire le pietre, come interpretò Deucalione, la «gran madre» essendo la Terra. Le pietre buttate si trasformarono appunto in uomini e donne. Opposto il racconto di Leopardi, che dei due superstiti fa uomini coscienti della loro sorte
disperata e che dunque resistono a farsi strumento di perpetuazione di una specie condannata all’infelicità. Rintracciabile anche in
questo passo qualche tassello dalle Metamorfosi ovidiane: «nunc
genus in nobis restat mortale duobus» (I, v. 365) rimanda a i due
soli; «desolatas... terras» (v. 349) e «populos reparare» (v. 363) rimandano a riparare alla solitudine della terra.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
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170
175
stirpe umana che di essere al tutto spenta72, sedevano in
cima a una rupe chiamando la morte con efficacissimo
desiderio73, non che temessero né deplorassero74 il fato
comune. Non per tanto, ammoniti da Giove di riparare
alla solitudine della terra; e non sostenendo, come75 erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera alla
generazione; tolto delle pietre della montagna, secondo
che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo76 le
spalle, restaurarono la specie umana. Ma Giove fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali,
vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato
l’impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quando meno sono afflitti dagli altri
mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo
misero genere: le quali furono principalmente due. L’una mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla in
mille negozi e fatiche, ad effetto d’intrattenere gli uomini, e divertirli quanto più si potesse dal conversare col
proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità77.
72
giovare... spenta: paradosso tragico: l’unico aiuto è la fine della specie.
73 chiamando… desiderio: cfr. Dialogo di Tristano e di un amico,
r. 310 e seg.
74
non che... deplorassero: «tutt’altro che disposti a temere e
compiangere». Rovesciamento della narrazione di Ovidio, dove
per bocca di Deucalione, i due si interrogano angosciati sul futuro
loro e della specie (cfr. Metamorfosi, I, v. 350 e seg.). La costruzione sintattica (principale + non che...) è la forma capovolta di quella
più usuale non che… ma (vedi per esempio rr. 261, 330).
75
come: siccome.
76
dopo: dietro (cfr. «post terga», in Metamorfosi, I, v. 394); e di
uso frequente in Dante.
77
Ma Giove fatto accorto... felicità: torna il tema dominante del-
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
Quindi78 primieramente diffuse tra loro una varia
180 moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure: parte volendo, col variare le condizioni e le fortune
della vita mortale, ovviare alla sazietà79 e crescere colla
opposizione dei mali il pregio de’ beni80; parte accioc-
l’operetta. L’espressione bramando... l’impossibile richiama quella
precedente (r. 107-108), quell’infinito che gli uomini sommamente
desideravano (si noti il climax da «desiderare» a «bramare»), e che
già si è visto non era realizzabile; infatti è desiderio di una felicità
incognita e vana, come prima era non intellegibile (r. 119). Dunque
la condizione «primitiva» all’uomo non basta, come sembra bastare invece agli altri animali (cfn. Dialogo di Malambruno e di Farfarello, rr. 81-85). Perché? Per ciò che Leopardi chiama noia (è importante notare però che in questa operetta la parola non è mai
citata: si descrive il fenomeno, senza darne il nome; solo «tedio», r.
135), chiarendo fin dalla «teoria del piacere»: «Insomma la noia
non è altro che una mancanza del piacere...» (vedi Zibaldone). Come dirà ne Al conte Carlo Pepoli: «e per se sola / La vita all’uom
non ha pregio nessuno» (vv. 16-17); è la riflessione che troveremo
poi nella quinta strofa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (v. 105 e seg.). Ma a questa noia esiste ancora almeno qualche tentativo di rimedio (in Zibaldone, p. 175: «E la natura è certo
che ha provveduto in tutti i modi contro questo male [...]»; si ricordi ancora Ad Angelo Mai, vv. 70-72: «E pur men grava e morde
/ Il mal che n’addolora / Del tedio che n’affoga». I rimedi sono appunto le nuove arti messe in opera da Giove, tutte con lo scopo di
divertire (nel significato etimologico: «distogliere») gli uomini e
raggruppabili in due categorie: mescere, «mescolare», la vita di mali, e implicarla, cioè «impiegarla, avvolgerla» in impegni gravosi
(negozi, nel senso latino di «attività», e fatiche). Sotto questa forma
Leopardi reinterpreta i dolori e le attività a cui l’uomo fu costretto
uscendo dall’età dell’oro, secondo il racconto della mitologia classica, ovvero dall’Eden, secondo la Genesi, cioè nel passaggio dalla
«stato naturale» alla civiltà «antica».
78 Quindi: definiti i principi generali, si viene all’esposizione
dettagliata (fino a r. 247) dei provvedimenti di Giove: in primo luogo (rr. 179-211) mescere la […] vita di mali veri.
79 ovviare alla sazietà: «rimediare» alla sazietà, già vista come
una delle cause principali del tedio umano.
80
crescere... beni: «accrescere il pregio dei beni nel contrasto
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
ché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitati
185 in cose peggiori, molto più comportabile81 che non ave-
va fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di rompere e mansuefare la ferocia degli uomini82,
ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi più facilmente appagare della propria
190 sorte83, e rintuzzare negli animi affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri, l’acume e
la veemenza84 del desiderio. Oltre di questo, conosceva
dovere avvenire che gli uomini oppressi dai morbi e dalle calamità, fossero meno pronti che per l’addietro a vol195 gere le mani contra se stessi, perocché sarebbero incodarditi e prostrati di cuore, come interviene85 per l’uso
dei patimenti. I quali sogliono anche, lasciando luogo alle speranze migliori, allacciare gli animi alla vita: imperciocché gl’infelici hanno ferma opinione che eglino sa-
con i mali», come Leopardi esemplifica ne La quiete dopo la tempesta (e cfr. qui rr. 203-211).
81 acciocchè... comportabile: «perché la mancanza dei godimenti
finisse per essere, a chi aveva esperienza di cose peggiori, più sopportabile».
82
la ferocia degli uomini: cfr. Dal greco di Simonide, I, vv. 27-28:
«i miseri mortali / Volgo fiero e diverso».
83 sorte: si confronti con quanto Leopardi ebbe a dire di se stesso: «L’animo, dopo lunghissima e ferocissima resistenza, finalmente è soggiogato, e ubbidiente alla fortuna» (lettera al Giordani del
5 gennaio 1921); e, più in generale, si legga un pensiero degli stessi
giorni in Zibaldone, pp. 503-504.
84 acume... veemenza: parole dalla sonorità spigolosa, che ferisce. Cfr. «uno spron quasi mi punge» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v. 119), e qui r. 397 e seg. L’immagine viene
probabilmente da Dante, Paradiso, I, vv. 83-84: «un disio / mai non
sentito di cotanto acume» (Della Giovanna).
85
interviene: avviene (ma Leopardi evita la ripetizione con r.
142).
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
200 rebbero felicissimi quando si riavessero dei propri ma-
li86; la qual cosa, come è la natura dell’uomo, non mancano mai di sperare che debba loro succedere in qualche modo87. Appresso creò le tempeste dei venti e dei
nembi88, si armò del tuono e del fulmine, diede a Nettu205 no il tridente89, spinse le comete in giro e ordinò le eclissi; colle quali cose e con altri segni ed effetti terribili, instituì di spaventare i mortali di tempo in tempo:
sapendo che il timore e i presenti pericoli riconcilierebbero alla vita, almeno per breve ora, non tanto gl’infeli210 ci, ma quelli eziandio che l’avessero in maggiore abbominio, e che fossero più disposti a fuggirla90.
86
gl’infelici... mali: questa speranza è un’illusione, poiché, come
si è visto, agli uomini «non può […] bastare [...] vivere ed essere liberi da ogni dolore» (rr. 123-124) per essere felici; ma è per Leopardi una delle illusioni tipiche dello «stato antico». «Sono sempre
stato sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e
mi disperavo perché mi pareva [...] che m’impedissero la felicità,
della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era
allora in tutto e per tutto come quello degli antichi», (così Leopardi di se stesso, Zibaldone, p. 143; cfr. anche pp. 76-77). Il motivo ritorna qui a rr. 376-377. «Riavere» ha il senso di «ristorare» (su
questo significato vedi un preciso appunto in Zibaldone, p. 4200).
87
la qualcosa... modo: vedi «il detto di Simonide» citato nel Il
Parini ovvero della gloria, X (è parziale anticipazione del testo dato
poi per intero nei Canti): «La bella speranza tutti ci nutrica / Di
sembianze beate; / Onde ciascuno indarno si affatica; / Altri l’aurora amica, altri l’etate / O la stagione aspetta; / E nullo in terra il
mortal corso affretta, / Cui nell’anno avvenir facili e pii / Con Pluto gli altri iddii / La mente non prometta».
88 Appresso... nembi: cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 54-56: «illic
et nebulas, illic consistere nubes / iussit et humana motura tonitrua
mentes».
89 tridente: «Al tridente di Nettuno attribuivano gli antichi la
potenza di scuoter la terra coi terremoti» (Porena). «Lui che la terra scuote», inizia difatti l’Inno a Nettuno, il falso volgarizzamento
dal greco di Leopardi giovane (Le poesie e le prose, op. cit., I, p.
310).
90
sapendo...fuggirla: vedi qui rr. 181-183. Cfr., oltre al canto A
Letteratura italiana Einaudi
17
Giacomo Leopardi - Operette morali
E per escludere la passata oziosità91, indusse nel genere umano il bisogno e l’appetito92 di nuovi cibi e di
nuove bevande, le quali cose non senza molta e grave fa215 tica si potessero provvedere, laddove insino al diluvio gli
uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti
delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori93 somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili94 e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi
220 anche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli di
California95. Assegnò ai diversi luoghi diverse qualità ceun vincitore nel pallone, l’operetta Dialogo di Cristoforo Colombo e
Pietro Gutierrez. La frase che l’avessero in maggior abbominio significa «a cui ripugnasse di più».
91
E... oziosità: inizia l’esposizione della seconda serie di provvedimenti, quelli destinati a implicare la vita in mille negozi e fatiche.
La passata oziosità è quella attribuita all’«età dell’oro».
92
appetito: desiderio.
93
arbori: alberi.
94
vili: di poco valore.
95
California: fino al pensiero di Zibaldone, pp. 3773-3810, con
cui più criticamente Leopardi rivede le proprie approssimazioni
sullo «stato selvaggio» dell’umanità, gli indigeni della California
sono per lui l’esempio più significativo, e alla fine «forse unico»
(Zibaldone, p. 3801), di popolo che vive ancora allo stato di natura;
idea che si è fatta da tempo: «per ciò che ne riferiscono i viaggiatori, vive con maggior naturalezza di quello ch’a noi paia, non dirò
credibile, ma possibile nella specie umana», dice nelle Annotazioni
alle Canzoni (in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 181). Come tali i
«Californi» sono infatti citati più volte nello Zibaldone e un «panegirico» dei loro «costumi» è contenuto nell’Inno ai Patriarchi, che
si conclude contrapponendo la «beata prole» delle «Californie selve», ultimo esempio di un’umanità a cui il mondo è ancora «dilettoso e caro» come nell’età dell’oro dei patriarchi, all’infelice e corrotta condizione dei popoli «progrediti». Ancora più esplicito il
passo corrispondente nella prosa dell’abbozzo, che presenta molti
degli elementi che tornano in questa operetta: i californiani non
hanno «nè desiderii nè timori», «ignorano i morbi», «la tempesta li
turba per un momento», «non alberga tra loro nè tristezza nè noia»
(Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 432, corsivo di Leopardi); ed è
Letteratura italiana Einaudi
18
Giacomo Leopardi - Operette morali
lesti, e similmente alle parti dell’anno, il quale insino a
quel tempo era stato sempre e in tutta la terra benigno e
piacevole in modo, che gli uomini non avevano avuto
225 uso di vestimenti; ma di questi per l’innanzi furono costretti a fornirsi, e con molte industrie riparare alle mutazioni e inclemenze del cielo96. Impose a Mercurio97
che fondasse le prime città, e distinguesse il genere umano in popoli, nazioni e lingue, ponendo gara e discordia
230 tra loro; e che mostrasse agli uomini il canto e quelle altre arti, che sì per la natura e sì per l’origine, furono
chiamate, e ancora si chiamano, divine98. Esso medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in
ultimo volendo con un incomparabile dono99 beneficarforse per essere fedele a questa immagine che Leopardi non ha
usato prima la parola noia (vedi nota 77). Ma la Storia del genere
umano è l’ultimo testo di Leopardi in cui appare questo riferimento; pur legata al pensiero citato dello Zibaldone, ormai dimostra
che quello dei Californiani è un esempio irraggiungibile, forse «finto»: solo un riferimento ideale.
96
Assegnò... cielo: cfr. in Ovidio, Metamorfosi, il passaggio dall’età aurea, quando «Ver erat aetemum» (v. 107), alle stagioni (vv.
116-120); qualità celesti: climi; industrie: nel senso latino di «operosità».
97 Mercurio: così nel mito del Protagora di Platone (XI-XII,
320c-322d), ricordato da tutti i commentatori, secondo cui Zeus
«inviò Ermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia affinché servissero da ordinamento della città e da vincoli costituenti
unità di amicizia» (trad. Adorno, ed. Laterza). Come è stato notato, in Leopardi seguono invece gara e discordia (per cui vedi piuttosto Esiodo, Le opere e i giorni, v. 11 e seg.), ma secondo Leopardi
l’«odio nazionale» era una caratteristica della vitalità degli stati antichi: «quanto più una nazione sentiva e amava se stessa, che avviene massimamente ai popoli liberi, tanto più era nemica delle straniere» (Zibaldone, pp. 888-889).
98 divine: cfr. V. Monti, Musogonia, v. 3: «Arte figlia del cielo»
(Della Giovanna); ma è luogo comune, vedi per esempio la Prefazione alle Favole e novelle del Pignotti (Pavia, 1796), p. 25: «La
Poesia fu un tempo venerata da’ popoli come un’arte divina».
99 incomparabile dono: che si aggiunge alla doppia serie di provvedimenti appena elencati.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
235 le, mandò tra loro alcuni fantasmi100 di sembianze101 ec-
cellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di esse genti: e furono
chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente
240 uno chiamato Amore102, che in quel tempo primiera-
100
fantasmi: in seguito anche larve (rr. 254, 295), per dire «entità ideali, non reali». Cfr. Nelle nozze della sorella Paolina, vv. 2-3:
«le beate / Larve e l’antico error, celeste dono»; Le ricordanze, v. 77
e seg.: «O speranze, speranze; ameni inganni / Della mia prima
età! [...] / [...] Fantasmi, intendo, / Son la gloria e l’onor». Oltre ai
surrogati di infinito e alle distrazioni, Giove fornisce agli uomini la
possibilità di entusiasmarsi per grandi illusioni, perseguendole come se fossero beni reali; è questo il dono che rende particolarmente apprezzabile e «beato» lo stato antico ed è a maggior ragione un
dono incomparabile perché rappresenta il massimo che gli dei potessero fare per aiutare gli uomini (vedi rr. 334-335). La natura illusoria ma benefica delle «virtù» è uno dei fondamenti originari della riflessione e della poesia di Leopardi, tema conduttore delle
Canzoni del 1824 (con la Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte). Cfr. almeno Zibaldone, p. 272:
«Coloro che dicono per consolare una persona priva di qualche
considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati che
sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà e
dovrà rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell’illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita.
Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo?
Nella stessa maniera dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a
fomentare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele, come son tolte. Che
piacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza vera in
amore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità, ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E tuttavia l’uomo sensibile se ne trovasse fraequentemente nel mondo, sarebbe meno infelice, e se il mondo andasse più dietro questi enti immaginari
(astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto meno infelice
[...]» (11 ottobre 1820). Vedi anche nota 119.
101
sembianze: cfr. r. 91.
102
uno chiamato Amore...: è questo il primo punto di una «storia di Amore», che sarà ripresa nella conclusione dell’operetta; sia-
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mente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché
innanzi all’uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di
cupidità, non dissimile negli uomini di allora da quello
che fu di ogni tempo nei bruti103, spingeva l’un sesso
verso l’altro, nella guisa104 che è tratto ciascuno ai cibi e
a simili oggetti i quali non si amano veramente, ma si appetiscono.
105
Fu cosa mirabile quanto frutto partorissero questi
divini consigli alla vita mortale, e quanto la nuova condizione degli uomini, non ostante le fatiche, gli spaventi e i
dolori, cose per l’addietro ignorate dal nostro genere,
superasse di comodità e di dolcezza quelle che erano
state innanzi al diluvio. E questo effetto provenne in
gran parte da quelle maravigliose larve106; le quali dagli
uomini furono riputate ora geni107 ora iddii, e seguite e
culte108 con ardore inestimabile e con vaste e portentose
fatiche per lunghissima età; infiammandoli a questo dal
canto loro con infinito sforzo i poeti e i nobili artefici109,
tanto che un grandissimo numero di mortali non dubitarono chi all’uno e chi all’altro di quei fantasmi donare e
sacrificare il sangue e la vita propria. La qual cosa, non
mo per ora informati che era proprio dell’età primitiva un semplice
impeto animale, mentre è nell’età antica che si può parlare di Amore, in quanto è anch’esso uno dei fantasmi; vedi poi r. 502 e seg.
103
bruti: è il termine tradizionale per indicare gli animali privi
di ragione.
104
nella guisa: «nel modo».
105
rr. 247-339. Terzo stadio della storia umana: lo stato «anti-
co».
106
larve: i fantasmi già citati.
107
geni: «divinità tutelari».
108
culte: «venerate».
109
nobili artefici: «artisti» nel senso moderno (le «arti nobili» si
contrappongono a quelle «meccaniche»).
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che fosse discara a Giove, anzi piacevagli sopra modo,
così per altri rispetti, come che egli giudicava dovere essere gli uomini tanto meno facili a gittare volontariamente la vita, quanto più fossero pronti a spenderla per
cagioni belle e gloriose. Anche di durata questi buoni
ordini eccedettero grandemente i superiori, poiché
quantunque venuti dopo molti secoli in manifesto abbassamento, nondimeno eziandio declinando e poscia
precipitando, valsero in guisa110, che fino all’entrare di
un’età non molto rimota dalla presente, la vita umana, la
quale per virtù di quegli ordini era stata già, massime in
alcun tempo, quasi gioconda, si mantenne per beneficio
loro mediocremente facile e tollerabile.
Le cagioni e i modi del loro alterarsi111 furono i molti ingegni112 trovati dagli uomini per provvedere agevolmente e con poco tempo ai propri bisogni; lo smisurato
accrescimento della disparità di condizioni e di uffici
constituita da Giove tra gli uomini quando fondò e dispose le prime repubbliche; l’oziosità e la vanità113 che
per queste cagioni, di nuovo, dopo antichissimo esilio,
occuparono la vita; l’essere, non solo per la sostanza delle cose, ma ancora da altra parte per l’estimazione degli
uomini, venuta a scemarsi in essa vita la grazia della va-
110
valsero in guisa: «ebbero tanta forza» (così una variante alternativa di Leopardi).
111 Le cagioni… alterarsi: la nuova «alterazione», preannunciata
nel periodo precedente, ha due ordini di cause, il primo in corrispondenza coi provvedimenti di Giove per distrarre gli uomini, il
secondo, più importante e decisivo, col dono dei fantasmi.
112 ingegni: «invenzioni tecniche» (oggetto in particolare di satira in una successiva operetta, la Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi); si noti che nel mito del Protagora (op. cit.) l’uomo è fornito da Prometeo del «sapere tecnico» (†ntecnoj sofàa,
312d).
113
vanità: nel senso etimologico di «vuotezza, inconsistenza».
Letteratura italiana Einaudi
22
Giacomo Leopardi - Operette morali
285 rietà114, come sempre suole per la lunga consuetudine; e
finalmente le altre cose più gravi, le quali per essere già
descritte e dichiarate da molti, non accade ora distinguere115. Certo negli uomini si rinnovellò quel fastidio
delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il diluvio, e
290 rinfrescossi quell’amaro desiderio di felicità ignota ed
aliena dalla natura dell’universo116.
Ma il totale rivolgimento della loro fortuna e l’ultimo esito di quello stato che oggi siamo soliti di chiamare
antico, venne principalmente da una cagione diversa
295 dalle predette: e fu questa117 . Era118 tra quelle larve, tanto apprezzate dagli antichi, una chiamata nelle costoro
lingue Sapienza119; la quale onorata universalmente co114
la grazia della varietà: cfr. r. 127.
115
le altre cose... distinguere: come nota Fubini, Leopardi si riferisce ai delitti attribuiti alla decadenza dell’uomo nell’«età del
bronzo», secondo il racconto di Ovidio.
116
rinfrescossi... universo: cfr. rr. 122-131; per l’espressione cfr.
Petrarca, Rerum Vulgarum Fragmenta [Canzoniere], XXXVII, vv.
49-50: «Lasso, se ragionando si rinfresca / quell’ardente desio»
(Della Giovanna; si noti che rinfrescossi è lezione non dell’autografo, ma della stampa 1827, cioè dopo che Leopardi aveva commentato Petrarca per l’editore Stella).
117 Ma... questa: l’attenzione del lettore è fortemente richiamata
(Ma... cagione diversa... e fu questa) su ciò che si preannuncia come
il definitivo cambiamento nella storia del genere umano (totale, ultimo esito), tanto da costituire il più importante elemento di periodizzazione di tutto il racconto: il passaggio dallo stato antico a
quello moderno (cfr. Zibaldone, p. 144: «La mutazione totale in me,
e il passaggio dallo stato antico al moderno […]»).
118 Era: il mutamento annunciato ha bisogno di una spiegazione
più larga; nel filo principale del racconto si innesta una narrazione
secondaria, alla quale dà avvio – con procedimento tra i più consueti – la collocazione iniziale di Era (dello stesso Leopardi si ricordi lo stacco di «Era il maggio odoroso», in A Silvia, v. 13), dopo di
che la digressione continua all’imperfetto, riallacciandosi al filo
principale solo con il passato remoto di volsero (r. 320).
119
una... Sapienza: l’accrescimento del sapere è un bene appa-
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
me tutte le sue compagne, e seguita in particolare da
molti, aveva altresì al pari di quelle conferito per la sua
300 parte alla prosperità dei secoli scorsi. Questa più e più
volte, anzi quotidianamente, aveva promesso e giurato ai
seguaci suoi di voler loro mostrare la Verità, la quale diceva ella essere un genio grandissimo, e sua propria signora, né mai venuta in sulla terra, ma sedere120 cogli
305 Dei nel cielo; donde essa121 prometteva che coll’autorità
e grazia propria intendeva di trarla, e di ridurla per
qualche spazio di tempo a peregrinare tra gli uomini:
per l’uso e per la familiarità della quale, dovere il genere
rente, in quanto conduce alla conoscenza del vero, che rivela all’uomo la sua infelicità (è quanto più avanti spiegherà ampiamente
Giove). Lo stesso processo è esposto nella Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte: «Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi
che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita, cioè
tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono
ordinarissimi e giornalieri dopo che l’intelletto umano coll’andare
dei secoli ha scoperto, non dico la nudità, ma fino agli scheletri
delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicità, s’è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non
conoscendola, o non l’avrebbero sentita, o certo l’avrebbero medicata colla speranza» (Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1039); e per
quanto riguarda se stesso, nella lettera a Perticari del 9 aprile 1821:
«Tutti i beni di questo mondo sono inganni. Ma dunque togliete
via questi inganni: che bene ci resta? dove ci ripariamo? che cosa è
la sapienza? che altro c’insegna fuorchè la nostra infelicità? In sostanza il felice non è felice, ma il misero è veramente misero, per
molto che la sapienza anche più misera s’adopri di consolarlo. Era
un tempo ch’io mi fidava della virtù, e dispregiava la fortuna: ora
dopo lunghissima battaglia son domo, e disteso per terra, perchè
mi trovo in termine che se molti sapienti hanno conosciuto la tristezza e vanità delle cose, io, come parecchi altri, ho conosciuto anche la tristezza e vanità della sapienza».
120 diceva… essere… sedere: ancora proposizioni dichiarative all’infinito (vedi r. 74); appena oltre, prometteva regge che intendeva
e dovere.
121
essa: la Sapienza.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
umano venire in sì fatti termini, che di altezza di cono310 scimento, eccellenza d’instituti e di costumi, e felicità di
315
320
325
330
vita, per poco fosse comparabile al divino. Ma come poteva una pura ombra ed una sembianza vota mandare ad
effetto le sue promesse, non che menare in terra la Verità? Sicché gli uomini, dopo lunghissimo credere e confidare, avvedutisi della vanità di quelle profferte; e nel
medesimo tempo famelici di cose nuove, massime per
l’ozio in cui vivevano; e stimolati parte dall’ambizione di
pareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di quella beatitudine che per le parole del fantasma si riputavano, conversando colla Verità, essere per conseguire; si volsero
con instantissime122 e presuntuose voci dimandando a
Giove che per alcun tempo concedesse alla terra quel
nobilissimo genio, rimproverandogli che egli invidiasse123 alle sue creature l’utilità infinita che dalla presenza
di quello riporterebbero; e insieme124 si rammaricavano
con lui della sorte umana, rinnovando le antiche e odiose125 querele della piccolezza e della povertà delle cose
loro. E perché quelle speciosissime126 larve, principio di
tanti beni alle età passate, ora si tenevano dalla maggior
parte in poca stima; non che già fossero note per quelle
che veramente erano127, ma la comune viltà dei pensieri
e l’ignavia128 dei costumi facevano che quasi niuno oggi122
instantissime: molto pressanti.
123
invidiasse: rifiutasse per invidia (senso e costruzione sono la-
tini).
124
insieme: contemporaneamente.
125
odiose: per Giove; anticipa l’irritazione di Giove per gli uomini che si manifesterà in pieno tra poco.
126
speciosissime: bellissime.
127
non... erano: che Giustizia, Virtù, Gloria, ecc. siano illusioni,
fantasmi, sarà rivelato agli uomini solo dopo l’arrivo della Verità.
128
ignavia: indolenza, apatia.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
335
340
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350
mai le seguiva; perciò gli uomini bestemmiando scelleratamente il maggior dono che gli eterni avessero fatto e
potuto fare ai mortali, gridavano129 che la terra non era
degnata se non dei minori geni; ed ai maggiori, ai quali
la stirpe umana più condecentemente s’inchinerebbe,
non essere130 degno né lecito di porre il piede in questa
infima parte dell’universo.
131
Molte cose132 avevano già da gran tempo aliena133
ta novamente dagli uomini la volontà di Giove; e tra
le altre gl’incomparabili vizi e misfatti, i quali per numero e per tristezza si avevano di lunghissimo intervallo lasciate addietro le malvagità vendicate dal diluvio. Stomacavalo del tutto, dopo tante esperienze prese134,
l’inquieta, insaziabile, immoderata natura umana; alla
tranquillità della quale, non che alla felicità, vedeva oramai per certo, niun provvedimento condurre, niuno stato convenire, niun luogo essere bastante; perché quando
bene135 egli avesse voluto in mille doppi aumentare gli
129
gridavano: dopo essersi manifestata con progressiva intensità
(instantissime e presuntuose voci, querele, bestemmiando scelleratamente), esplode infine la ribellione degli uomini. Siamo ormai alle
soglie dell’ultimo esito della storia, con la richiesta di qualcosa (la
Verità), che per molti segni si preannuncia fatale agli uomini.
130
non essere: altra infinitiva, dipendente da gridavano insieme a
che... non era degnata.
131 rr. 340-457. Provvedimenti finali degli dei, vista l’inutilità degli sforzi precedenti.
132
Molte cose...: l’esito finale è ancora ritardato da un «prologo
in cielo»; alla crescita delle lamentele (e della corruzione) degli uomini si accompagna parallela quella dell’insofferenza di Giove; la
narrazione è ancora all’imperfetto, fino alla risoluzione.
133
alienata: resa diversa, allontanata.
134
dopo tante esperienze prese: cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, v.
190: «cuncta prius temptata, sed inmedicabile corpus», che richiama il successivo inquieta, insaziabile, immoderata natura umana.
135
quando bene: introduce la protasi di un periodo ipotetico.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
spazi e i diletti della terra, e l’università136 delle cose,
quella e queste agli uomini, parimente incapaci e cupidi
dell’infinito, fra breve tempo erano per parere strette,
disamene e di poco pregio137. Ma in ultimo quelle stolte
355 e superbe domande commossero talmente l’ira del
dio138, che egli si risolse, posta da parte ogni pietà, di
punire in perpetuo la specie umana, condannandola per
tutte le età future a miseria molto più grave che le passate. Per la qual cosa deliberò non solo mandare la Verità
360 fra gli uomini a stare, come essi chiedevano, per alquanto di tempo, ma dandole eterno domicilio tra loro, ed
136
università: totalità.
137
Stomacavalo... pregio: all’inizio del periodo una parola dal
contenuto «forte» (Galimberti) segna il limite dell’irritazione di
Giove, cresciuta non più solo per i vizi e misfatti, ma per le caratteristiche proprie della natura umana. Ciò di cui Giove si era già accorto (l’impossibilità di esaudire il desiderio degli uomini: vedi rr.
106-109 e 165-78), si rivela infine pienamente: nessun sussidio,
provvedimento o arte può bastare ad accontentare gli uomini; la
tragedia della loro condizione è chiara: sono parimente incapaci e
cupidi dell’infinito. Non resta che avviarli al loro destino terribile, a
conoscere la verità della loro condizione. È il momento centrale
dell’operetta, quello in cui Leopardi condensa l’essenziale della
sua scoperta sulla condizione umana. L’architettura del periodo è
solennemente impiantata su una serie di elementi tripartiti, che
danno alle affermazioni un senso di conclusione e di completezza e
insieme esprimono l’ultima noia di Giove per fatti che si ripetono
così immutabili. Ma (come fa notare Galimberti) si veda che a tali
affermazioni conclusive si arriva per via di ripetute negazioni; si
prende atto insomma di una limitazione, di una condizione negata,
come è condensato nell’allitterazione di «INcapaci e cupidi», dove
il movimento dato dal secondo termine è tenuto bloccato dal primo.
138 Ma... dio: la narrazione torna al passato remoto e risolve l’aspettativa creata dall’annuncio del totale rivolgimento (r. 292): si
tratta di una punizione in perpetuo degli uomini, ottenuta mandando loro la Verità. Cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, v. 166: «ingentes animo et dignas Iove concipit iras».
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Giacomo Leopardi - Operette morali
esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi che egli vi avea
collocati, farla perpetua139 moderatrice e signora140 della
gente umana.
E maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio141,
365
come quelli142 ai quali pareva che egli143 avesse a ridondare in troppo innalzamento dello stato nostro e in pregiudizio della loro maggioranza144, Giove li rimosse da
questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti i ge370 ni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non essere tale l’ingegno145 della Verità, che ella dovesse fare gli
stessi effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddove agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai
375 medesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo, non come opera
solamente della fortuna146, ma come tale che per niuno
139 eterno… perpetua (e prima in perpetuo... per tutte le età future): Leopardi insiste sull’eternità della condanna.
140
signora: la Verità è immediatamente contrapposta ai vaghi
fantasmi. Cfr. anche Ad Angelo Mai, vv. 100-103 (Galimberti).
141
E maravigliandosi... consigliò: è una domanda anche del lettore (consiglio vale sempre «decisione»); perché la Verità, che si
presenterebbe di per sé come conquista positiva, è invece una così
grave punizione? Da qui la lunga e risolutiva spiegazione di Giove.
142 come quelli: corrisponde alla costruzione latina quippe qui,
con valore causale.
143
egli: il consiglio.
144
maggioranza: «superiorità», come dice una variante scartata
dell’autografo (cfr. anche Dialogo della Natura e di un’Anima, nota
16).
145
ingegno: indole.
146
non… fortuna: che è concezione propria dello stato antico
(cfr. nota 86), nel quale gli uomini «quando erano travagliati dalle
sventure, se ne dolevano in modo come se per queste sole fossero
privi della felicità, che stimavano possibilissima a conseguire, anzi
propria dell’uomo, se non quanto la fortuna gliela vietasse» (Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte, in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1040).
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
accidente e niuno rimedio non la possano campare 147,
né mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte
380 dei loro mali questa natura, che in tanto sieno mali in
quanto sono creduti essere da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo che esso gli stima; si può giudicare di
quanto grandissimo nocumento148 sia per essere agli uomini la presenza di questo genio149. Ai quali niuna cosa
385 apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i beni
mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa
fuorché dei propri dolori150. Per queste cagioni saranno
eziandio privati della speranza; colla quale dal principio
insino al presente, più che con altro diletto o conforto
390 alcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, né veg147 campare: «evitare, liberarsi [da]»; così spiega, con diversi
esempi, Leopardi in un appunto della stesura manoscritta del Bruto Minore, che ai vv. 33-34 portava scritto: «e s’a campar non vale /
Gli oltraggi lor», poi corretto in cessar.
148
nocumento: danno.
149
Ed avendo… genio: cfr. Zibaldone, p. 169: «Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec. essendo tanto grandi quanto si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e copia delle illusioni va la
grandezza e copia de’ piaceri, i quali sebbene neanche gli antichi li
trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci se
non di riempierli, almeno di trattenerli a bada. La natura non voleva che sapessimo, e l’uomo primitivo non sa che nessun piacere lo
può soddisfare». Fin dai primissimi pensieri dello Zibaldone (vedi
pp. 58-59), Leopardi annota un verso di Sannazzaro (Arcadia,
VIII, v. 126): «E tanto è miser l’uom quant’ei si reputa», che torna
poi nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi (Le poesie e le prose, op.
cit., I, p. 432) come emblema di un convincimento ormai raggiunto: che l’infelicità dell’uomo nasce dalla consapevolezza del suo
stato; nello stato antico invece «s’ignoravano le sventure che ignorate non sono tali» (Abbozzo, op. cit.).
150 Ai quali… dolori: la forma paradossale (per ossimori) dà particolare forza all’enunciato: vera...falsità; solida... vanità; solida vale
(come nota Leopardi stesso nell’autografo rinviando al Vocabolario
della Crusca e al lessico latino del Forcellini) «di corpo», cioè «corposa, piena», al contrario di «vuotezza» (vedi r. 280). Leopardi si
era già espresso in modi analoghi; cfr. Ad Angelo Mai, vv. 119-120:
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
gendo alle imprese e fatiche loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza ed abborrimento da ogni opera
industriosa, non che magnanima, che la comune usanza
dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti151.
395 Ma in questa disperazione e lentezza152 non potranno
fuggire che il desiderio di un’immensa felicità, congenito153 agli animi loro, non li punga e cruci154 tanto più
che in addietro, quanto sarà meno ingombro e distratto
dalla varietà delle cure e dall’impeto delle azioni 155. E
«Il certo e solo / Veder che tutto è vano altro che il duolo»; Saffo,
vv. 46-47: «Arcano è tutto, / Fuor di nostro dolor»; ma si veda soprattutto la lettera al Giordani del 6 marzo 1820: «questa è la miserabile condizione dell’uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel
travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre e solamente giusto e vero. E se bene regolando tutta quanta la
nostra vita secondo il sentimento di questa nullità, finirebbe il
mondo e giustamente saremmo chiamati pazzi, a ogni modo è formalmente certo che questa sarebbe una pazzia ragionevole per
ogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze sarebbero pazzie,
giacchè tutto a questo mondo si fa per la semplice e continua dimenticanza di quella verità universale che tutto è nulla». A queste
riflessioni sono molto vicine quelle di Zibaldone, p. 103, dalle quali
prenderà il via l’esposizione della «teoria del piacere» (Zibaldone,
p. 165).
151 E nulla... sepolti: altro ossimoro (vivi… sepolti); la scoperta
del vero toglie all’uomo ogni motivo di attività, tema centrale di alcune operette (Dialogo d’Ercole e di Atlante, Dialogo della Moda e
della Morte), ma già delle Canzoni del 1824.
152
lentezza: «inerzia»; cfr. All’Italia, v. 178: «affaticata e lenta»;
Ad Angelo Mai, vv. 17-18: «ove più lento / E grave è il nostro disperato obblio».
153 desiderio… congenito: vedi qui rr. 170-171, 346, 352-353. Vedi Zibaldone, p. 165: «Questo desiderio e questa tendenza [al piacere, n.d.c.] non ha limiti, perchè è ingenita o congenita coll’esistenza».
154 punga e cruci: vedi qui r. 141: «l’acume e la veemenza». Analoghe espressioni ne Al conte Carlo Pepoli, vv. 57-59: «al duro morso / Della brama insanabile che invano / Felicità richiede».
155
meno ingombro... azioni: vedi qui r. 173 e seg.
Letteratura italiana Einaudi
30
Giacomo Leopardi - Operette morali
400 nel medesimo tempo si troveranno essere destituiti156
della naturale virtù immaginativa157, che sola poteva per
alcuna parte soddisfarli di questa felicità non possibile e
non intesa, né da me, né da loro stessi che la sospirano158. E tutte quelle somiglianze dell’infinito che io stu405 diosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pascerli, conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e
indeterminati159, riusciranno insufficienti a quest’effetto
per la dottrina e per gli abiti160 che eglino apprenderanno dalla Verità. Di maniera che la terra e le altre parti
410 dell’universo, se per addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome: perché essi saranno instrutti161 e chiariti degli arcani162 della natura; e perché
quelle, contro la presente aspettazione degli uomini, ap-
156
destituiti: privati.
157
naturale virtù immaginativa: vedi qui rr. 110-112, e Al conte
Carlo Pepoli, v. 112: «Virtù del caro immaginai». Cfr. T. Tasso, Il
messaggiero: «Le forze de la virtù imaginatrice sono incredibili» (I
dialoghi, I, 212). Virtù in questi passi ha il significato di «facoltà,
potenzialità», proprio del lessico filosofico e scientifico pre-ottocentesco (cfr. Zibaldone, p. 2215).
158 questa felicità... sospirano: cfr., oltre a rr. 119 e 178, r. 290,
«felicità ignota e aliena dalla natura dell’universo». Si noti come il
discorso si sia trasformato da indiretto in diretto (nè da me), togliendo alle parole di Giove ogni carattere di disquisizione generale e ipotetica (r. 368 e seg.: Giove li rimoss… mostrando loro, oltre
che... non essere... Perocché laddove... ella dimostrava... discoprirebbe... e proporrebbe... fino all’indicativo di Ai quali niuna cosa apparirà). Sospirano, qui come a r. 122, sostituisce la variante bramano
(e cfr. Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, r. 250).
159 tutte... indeterminati: vedi r. 106 e seg.; per inclinazione, vedi
Dialogo della Natura e di un’Anima, nota 15.
160
abiti: abitudini, modi.
161
instrutti: istruiti.
162
arcani: cfr. Zibaldone, p. 125: «tutte queste verità che la natura aveva nascoste sotto un profondissimo arcano».
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Giacomo Leopardi - Operette morali
paiono tanto più strette a ciascuno quanto egli ne ha più
415 notizia163. Finalmente, perciocché saranno stati ritolti al-
la terra i suoi fantasmi164, e per gl’insegnamenti165 della
Verità, per li quali gli uomini avranno piena contezza166
dell’essere di quelli, mancherà dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine, così di pensieri come di fatti; e
420 non pure lo studio e la carità167, ma il nome stesso delle
nazioni e delle patrie sarà spento per ogni dove; recandosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati di
dire, in una sola nazione e patria, come fu da principio,
e facendo professione di amore universale verso tutta la
425 loro specie; ma veramente dissipandosi la stirpe umana
in tanti popoli quanti saranno uomini168. Perciocché
non si proponendo né patria da dovere particolarmente
amare, né strani169 da odiare; ciascheduno odierà tutti
gli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesi430 mo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi sieno per
nascere, sarebbe infinito a raccontare. Né per tanta e sì
disperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandona-
163
appaiono... notizia: cfr. Ad Angelo Mai, vv. 87-90: «Ahi, ahi,
ma conosciuto il mondo! Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto / L’etra sonante e l’alma terra e il mare / Al fanciullin, che non
al saggio, appare» (e l’altro passo citato qui alla nota 17).
164
fantasmi: vedi r. 235 e seg.
165
insegnamenti: ancora un ossimoro (un insegnamento serve a
far mancare alla vita ogni valore).
166
contezza: consapevolezza.
167
lo studio e la carità: da legare a delle nazioni e delle patrie; genitivo oggettivo.
168 recandosi... uomini: l’«amor di patria», che fa tutt’uno con la
«gloria», è la più attiva delle passioni antiche. Tra le moltissime riflessioni dello Zibaldone al proposito, vedi almeno pp. 457 e 885 (e
anche Costumi degli italiani, in Le poesie e le prose, op. cit., II, p.
555).
169
strani: stranieri.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
re la luce spontaneamente: perocché l’imperio di questo
genio li farà non meno vili che miseri; ed aggiungendo
435 oltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del valore di rifiutarla170.
Per queste parole di Giove parve agli Dei che la nostra sorte fosse per essere troppo più fiera171 e terribile
che alla divina pietà non si convenisse di consentire. Ma
440 Giove seguitò dicendo. Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che essi chiamano
Amore172; il quale io sono disposto, rimovendo tutti gli
altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla
Verità, quantunque potentissima e combattendolo di
445 continuo, né sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo se
non di rado173. Sicché la vita degli uomini, parimente
occupata nel culto di quel fantasma e di questo genio,
170
Nè... rifiutarla: cfr. Zibaldone, p. 2030: «Quando gli uomini
avevano pur qualche mezzo di felicità o di minore infelicità ch’al
presente, quando perdendo la vita, perdevano pur qualche cosa,
essi l’avventuravano spesso e facilmente e di buona voglia, non temevano, anzi cercavano i pericoli, non si spaventavano della morte, anzi l’affrontavano tutto dì o coi nemici o tra loro, e godevano
sopra ogni cosa e stimavano il sommo bene, di morire gloriosamente. Ora il timor dei pericoli è tanto maggiore quanto maggiore
è l’infelicità e il fastidio di cui la morte ci libererebbe, e se non altro, quanto più e nullo quello che morendo abbiamo a perdere. E
l’amor della vita e il timor della morte è cresciuto nel genere umano e cresce in ciascuna nazione secondo che la vita val meno». Valore: forza.
171
fiera: violenta.
172
Amore: vedi r. 240 e seg., e più avanti rr. 503-511.
173
E non... se non di rado: cfr. Ad Angelo Mai, vv. 128-129:
«Amore, / Amor, di nostra vita ultimo inganno»; Inno ai Patriarchi,
vv. 83-84. invitto / Amor»; e anche l’espressione usata nella lettera
citata del 6 marzo 1820 a Giordani, dove Leopardi lamenta la fine
della «stessa onnipotenza eterna e sovrana dell’amore». Il tema va
seguito fino ai canti più tardi come Il pensiero dominante e Amore
e Morte.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
450
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460
465
470
sarà divisa in due parti; e l’uno e l’altro di quelli avranno
nelle cose e negli animi dei mortali comune imperio.
Tutti gli altri studi, eccetto che alcuni pochi e di picciolo
conto, verranno meno nella maggior parte degli uomini.
Alle età gravi174 il difetto175 delle consolazioni di Amore
sarà compensato dal beneficio della loro naturale proprietà di essere quasi contenti della stessa vita176, come
accade negli altri generi di animali177, e di curarla diligentemente per sua cagione propria, non per diletto né
per comodo che ne ritraggano.
178
Così rimossi dalla terra i beati fantasmi, salvo solamente Amore, il manco nobile di tutti, Giove mandò tra
gli uomini la Verità, e diedele appo179 loro perpetua
stanza e signoria. Di che seguitarono tutti quei luttuosi180 effetti che egli avea preveduto. E intervenne cosa di
gran meraviglia; che ove quel genio prima della sua discesa, quando egli non avea potere né ragione alcuna negli uomini, era stato da essi onorato con un grandissimo
numero di templi e di sacrifici; ora venuto in sulla terra
con autorità di principe181, e cominciato a conoscere di
presenza, al contrario di tutti gli altri immortali, che più
chiaramente manifestandosi, appaiono più venerandi,
contristò di modo le menti degli uomini e percossele di
174
età gravi: la vecchiaia.
175
il difetto: la mancanza.
176
essere… vita: cfr. Zibaldone, pp. 633-635.
177
come… animali: vedi qui r. 168.
178
rr. 58-480. Ultimo e definitivo stadio del genere umano,
quello «moderno».
179
appo: presso (latino apud).
180
luttuosi: «mortiferi»; cfr. Nelle nozze della sorella Paolina, 89: «in gravi e luttuosi tempi».
181 con autorità di principe: cfr. r. 449 imperio e r. 461 signoria;
ma tra poco tirannide (r. 476).
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
così fatto orrore182, che eglino, se bene sforzati di ubbidirlo, ricusarono di adorarlo. E in vece183 che quelle larve in qualunque animo avessero maggiormente usata la
loro forza, solevano essere da quello più riverite ed ama475 te; esso genio riportò più fiere maledizioni e più grave
odio da coloro in che184 egli ottenne maggiore imperio.
Ma non potendo perciò né sottrarsi, né ripugnare alla
sua tirannide, vivevano i mortali in quella suprema miseria che eglino sostengono insino ad ora, e sempre soster480 ranno185.
186Se non che la pietà187, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta, commosse, non è gran tempo188,
la volontà di Giove sopra tanta infelicità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’intel485 letto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i
182
percossele... orrore: l’uso figurato di percuotere per indicare
una commozione violenta è tradizionale già in latino e nell’italiano
letterario (per l’espressione qui usata cfr. Dante, Paradiso,
XXXIII, vv. 140-141: «se non che la mia mente fu percossa / da un
fulgore»; di Leopardi vedi anche Amore e Morte, vv. 17-18: «cor...
percosso d’amor»), ma qui contribuisce a riprodurre il suono d’un
colpo improvviso e cupo: perCOSSele di cOSì fatto OrrOre.
183
in vece che: mentre.
184
in che : sui quali.
185
sostengono... sosterranno: clausola definitiva, con la ripetizione sostengono... sosterranno disposta a chiasmo.
186 rr. 481-562. Nuovo speciale intervento degli dei: Amore Celeste visita i pochi mortali che ne sono degni.
187 Se non che la pietà ...: molto efficacemente, dopo la chiusura
definitoria del capoverso precedente (lo nota in particolare Fubini), la forma grammaticale esprime il rinascere di un movimento
nel destino umano.
188 non è gran tempo: «in questi ultimi anni si è reso per la prima
volta comune quell’amore che con nuovo nome, siccome nuova cosa, si è chiamato sentimentale», si dice in Zibaldone, p. 3911.
Letteratura italiana Einaudi
35
Giacomo Leopardi - Operette morali
quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio. Avevano usato gli Dei negli antichi
tempi, quando Giustizia, Virtù e gli altri fantasmi gover490 navano le cose umane, visitare alcuna volta le proprie
fatture189, scendendo ora l’uno ora l’altro in terra, e qui
significando190 la loro presenza in diversi modi: la quale
era stata191 sempre con grandissimo beneficio o di tutti i
mortali o di alcuno in particolare. Ma corrotta di nuovo
495 la vita, e sommersa in ogni scelleratezza, sdegnarono
quelli per lunghissimo tempo la conversazione umana.
Ora Giove compassionando192 alla nostra somma infelicità, propose agl’immortali se alcuno di loro fosse per
indurre l’animo a visitare, come avevano usato in antico,
500 e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e
particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto
a se, indegni della sciagura universale. Al che tacendo
tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, confor-
189
fatture: «creature». La credenza nella visita degli dei sulla
terra (trattata fin dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi,
cap. VII) era per Leopardi uno dei frutti più vivi della capacità di
immaginazione che rendeva «beati» gli «antichi tempi», quando la
natura nei suoi fenomeni «parlava senza svelarsi» (Ad Angelo Mai,
vv. 53-54), risultando «viva», animata dalla presenza divina. È il tema di Alla Primavera, o delle favole antiche (cfr. in particolare l’Annotazione a II, 9), presente anche nell’Inno ai Patriarchi, vv. 73-78.
Nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e nelle Annotazioni
sono elencati numerosi passi classici e della Sacra Scrittura che testimoniano di tale credenza; il più vicino al nostro (come ricorda
Galimberti) è quello di Catullo, 64, v. 384 e seg. Una discesa divina
in terra volta in satira costituisce la trama narrativa di una successiva operetta, La scommessa di Prometeo.
190 significando: cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, v. 220: «signa dedi
venisse deum».
191
stata: avvenuta.
192
compassionando: la reggenza col dativo è latina.
Letteratura italiana Einaudi
36
Giacomo Leopardi - Operette morali
me di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di
505 virtù e di opere diversissimo193; si offerse (come194 è sin-
golare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l’ufficio
proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai
per l’avanti non si era tolto; non sofferendo il concilio
degl’immortali, per196 averlo indicibilmente caro, che
510 egli si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. 197Se bene di tratto in tratto molti antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del
fantasma chiamato collo stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di questo massimo id515 dio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che
eglino fossero sottoposti all’imperio della Verità. 198Do193 Amore... diversissimo: il chiasmo (conforme... diversissimo)
contribuisce a rilevare con nettezza l’opposizione. Come ricorda
Foscolo, sulla scorta di un passo molto noto del Convito di Platone
(180d-e) e dell’Epigramma XIII di Teocrito, «gli antichi distinguevano due Veneri; una terrestre e sensuale, l’altra celeste e spirituale» (nota a Dei Sepolcri, v. 179), da cui discendevano due diversi
Amori. L’immagine di Amore Celeste è da Leopardi però adattata
a un proprio e diverso ragionamento, dovendo rappresentare
l’«amore sentimentale» proprio solo dell’ultima fase della storia
umana (vedi Introduzione; l’espressione «di natura, di virtù e di
opere diversissimo» riprende direttamente quella di Zibaldone, p.
3913, lì citata: «di natura e di principio e di origine affatto diverso
e distinto»).
194
come: siccome (cfr. in latino ut + indicativo).
195
sofferendo: sopportando
196
per: causale.
197
commercio: nel senso, già latino, di «compagnia, conversazione, società»; così spiega Leopardi, sulla scorta di un passo di Guicciardini, in una delle sue giunte al Vocabolario della lingua italiana
del Manuzzi (Firenze 1833-1842), integrando il Vocabolario della
Crusca (vedi Nencioni, Leopardi lessicologo e lessicografo, p. 282,
citato in bibliografia). Sulla parola l’attenzione di Leopardi si è soffermata in modo particolare: vedi Zibaldone, pp. 1422-1423 e pp.
1427-1428.
198 Se bene... Verità: l’«inganno» si riferisce a ciò che gli antichi
uomini (con cui si intendono anche gli scrittori del Cinquecento,
Letteratura italiana Einaudi
37
Giacomo Leopardi - Operette morali
po il qual tempo, non suole anco scendere se non di rado, e poco si ferma; così per la generale indegnità della
gente umana, come che gli Dei sopportano molestissi520 mamente la sua lontananza. Quando viene in sulla199
terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone
più generose e magnanime200; e quivi siede201 per breve
come il Castiglione, che termina il Cortegiano con un’apologia
dell’«amor santissimo» recitata dal Bembo, e il Bembo stesso) hanno chiamato «amore platonico», confondibile con l’amore ideale
di cui parla Leopardi, ma che in realtà non era che una «trasformazione e frode» del fantasma di Amore, in quanto il vero amore
ideale non nasce che dopo la scoperta del «vero».
199
in sulla: doppia preposizione non rara nell’uso leopardiano;
vedi per esempio l’attacco de Il passero solitario (e commento di
De Robertis).
200 i cuori… magnanime: cfr. gli uomini singolari (r. 484). Si veda
questo passo d’una lettera al Brighenti: «Tutti noi combattiamo
l’uno contro l’altro [...]. Ciascuno è nemico di ciascuno, e dalla sua
parte non ha altri che se stesso [cfr. qui, r. 420 e seg.]. Eccetto quei
pochissimi che sortirono le facoltà del cuore, i quali possono aver
dalla loro parte alcuni di questo numero» (22 giugno 1821).
Espressioni simili sono in altre lettere di quegli anni: a Leonardo
Trissino («Quanto più conosco la scelleratezza e la viltà degli uomini, tanto più divento animato e fervoroso verso i cuori nobili e
buoni come il suo, stimando somma e rarissima fortuna il trovarne,
e molto più l’esser degnato dell’amor loro», 27 settembre 1819); a
Giordani («procuriamo di piangere insieme giacché la fortuna tanto nemica in ogni altra cosa ci ha favoriti oltre dell’ordinario in
questo, che avessimo dove riporre sicuramente il nostro amore», 1
ottobre 1819).
201 siede: «regna», secondo una caratteristica immagine stilnovistica; cfr. Dante: «Tre donne intorno ai cor mi son venute, / e seggonsi di fore: ché dentro siede Amore» (Rime, v. 104). Tutto il passo è costruito su una filigrana stilnovista, ripresa attraverso il
Canzoniere di Petrarca: da sceglie i cuori più teneri e più gentili (cfr.
la canzone fondatrice del «nuovo stile», Al cor gentil rempaira sempre amore, di Guinizzelli); alla mirabile soavità; alla beatitudine (cfr.
per esempio Dante, Vita nuova, X, 2: «lo suo dolcissimo salutare
ne lo quale stava tutta la mia beatitudine», e il nome stesso di Beatrice). Leopardi fa sue queste immagini per rappresentare un amore non «reale», portatore di beatitudine in quanto slancio soggetti-
Letteratura italiana Einaudi
38
Giacomo Leopardi - Operette morali
spazio; diffondendovi sì pellegrina202 e mirabile soavità,
ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e for525 tezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel
genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme203, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in am530 bedue; benché pregatone con grandissima instanza da
tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente
di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità204
che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo
superata dalla divina205. A ogni modo, l’essere pieni del
535 suo nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi206. Dove egli
vo, suscitatore di «idee vaste e indefinite», quale è cantato in Alla
sua donna. Lo stato d’animo di Leopardi è ben chiarito dal passo
della lettera allo Jacopssen citato alla nota 22, del Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare.
202
pellegrina: rara.
203
Rarissimamente... insieme: «rare volte si combinano de’ cuori umani sensibili e onesti», scrive Ferdinanda Melchiori al nipote
Leopardi, in una lettera tra le sue più vicine ai sentimenti di Giacomo (21 marzo 1821).
204 felicità: cfr. Consalvo, vv. 123-126: «Lice, lice al mortal, non è
già sogno / Come stimai gran tempo, ahi lice in terra / Provai felicità. Ciò seppi il giorno / che fiso io ti mirai» (il canto appartiene al
ciclo fiorentino, ma nella raccolta – l’edizione del 1835 – è significativamente anticipato appena prima di Alla sua donna).
205 ma Giove… divina: lo stesso concetto già in Alla sua donna,
vv. 23-33: «Fra cotanto dolore / Quanto all’umana età propose il
fato, / Se vera e quale il mio pensier ti pinge, / Alcun t’amasse in
terra, a lui pur fora / Questo viver beato [...] / [...] Or non aggiunse / Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; / E teco la mortal vita sana / Simile a quella che nel cielo india». Cfr. anche Consalvo, vv.
111-113: «Ahi, ma cotanto / Esser beato non consente il cielo / A
natura terrena».
206
migliori tempi: quelli dei buoni ordini dello stato antico. Per
Letteratura italiana Einaudi
39
Giacomo Leopardi - Operette morali
si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli
altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine
umana207; le quali esso Dio riconduce per questo effetto
540 in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere
vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno:
ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli
Dei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna,
545 quindi esso, convenientemente 208 a questa sua natura,
adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia209. Perciocché negli animi che egli si elegge210 ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi
550 siede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni
degli anni teneri211. Molti mortali, inesperti e incapaci
l’espressione di tutto il passo, cfr. Consalvo; vv. 110-111: «felice io
fui / Sovra tutti i felici».
207
consuetudine umana: frequentazione degli uomini.
208
convenientemente: in maniera conforme.
209
quel primo voto... puerizia: il racconto si avvia alla conclusione tornando circolarmente alla fase iniziale: cfr. rr. 78-79, da cui riprende con piccola variazione l’espressione centrale (essere tornati
nella fanciullezza).
210
si elegge: sceglie.
211
suscita... teneri: cfr. il seguente passo di una lettera al Giordani, tutta da leggere: «Che farò, mio povero amico, per te, o che
posso far io? Tramutare il mondo? ma neanche consolarti? Se non
altro posso amarti, e questo infinitamente, come fo. Io ritorno fanciullo, e considero che l’amore sia la più bella cosa della terra, e mi
pasco di vane immagini» (30 giugno 1820); che ne richiama un’altra: «vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è
finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicchè non vivono fino alla morte se non quelli che restano
fanciulli tutta la vita» (17 dicembre 1819); cfr. anche Il risorgimento, vv. 145-146: «Pur sento in me rivivere / Gl’inganni aperti e noti».
Letteratura italiana Einaudi
40
Giacomo Leopardi - Operette morali
de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono212 tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri213; e quando gli
555 udisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da natura
magnanimo e mansueto. Oltre che gl’immortali, contenti della vendetta che prendono di tutta la stirpe, e dell’insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari214 offese degli uomini; né d’altro in particolare sono
560 puniti i frodolenti e gl’ingiusti e i dispregiatori degli Dei,
che di essere alieni anche per proprio nome215 dalla grazia di quelli.
212
scherniscono e mordono: dittologia sinonimica.
213
obbrobri: insulti.
214
singolari: «singole», dei singoli uomini.
215
per proprio nome: per il fatto stesso di essere frodolenti, ingiusti, ecc.; chi non è in grado di apprezzare Amore non ha bisogno di speciali punizioni, perché è sufficiente la sua esclusione dalla beatitudine che quel dio produce.
Letteratura italiana Einaudi
41
DIALOGO DI UN FOLLETTO
E DI UNO GNOMO
FOLLETTO1. Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio2? Dove si va?
GNOMO3. Mio padre m’ha spedito a raccapezzare4
che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli
5 uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da
un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno5 non se ne vede uno. Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però6 non fosse tor1 folletto: «Folletti sono spiriti, che secondo la fantasia popolare, e poetica vanno per l’aria, come uccel, vagando, al dir del Pulci
(vedi Morgante, c. XXIV, v. 109) e si dilettano anche di darsi spasso degli uomini» (Della Giovanna). Sulla parola, quando inizia la
stesura dell’operetta, Leopardi segna un’annotazione linguistica
nello Zibaldone: «Diminutivi positivati. Fou-follet. Vedi i Dizionari
francesi in questa voce, e nota che questo è un aggettivo. Noi pure
folletto benchè per lo più sostantivato per la soppressione del nome spirito. E questa nostra voce (come fors’anche folle) par che
venga dal francese o dal provenzale. Del resto vedi la Crusca in folletto esempio 2 e § 2, e gli spagnoli» (Zibaldone, p. 4040, 3 marzo
1824; nel Vocabolario della Crusca sono citati due degli autori la cui
prosa è studiata da Leopardi: Tasso e Speroni).
2 Sabazio: nome di un’antica divinità della Frigia, assimilata poi
anche a Bacco, considerata il padre degli gnomi.
3
gnomo: gli gnomi sono «spiriti piccolissimi che, secondo la
fantasia dei cabalisti, dimorano nelle viscere della terra e ne custodiscono i metalli preziosi» (Della Giovanna); spiriti della terra,
dunque, mentre dell’aria sono i folletti, distinzione sulla cui base si
spiegano le battute alle rr. 81-85.
4
raccapezzare: ritrovare (Vocabolario della Crusca).
5
in tutto il suo regno: quello appunto del sottosuolo, nel quale
non si vedono più scendere gli uomini a cer care metalli preziosi;
da qui le ironiche supposizioni del periodo seguente, per spie gare
come abbiano potuto sostituire le monete.
6
se però: a meno che.
Letteratura italiana Einaudi
42
Giacomo Leopardi - Operette morali
nato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e
10 argento7; o se i popoli civili non si contentassero di po-
lizzine8 per moneta come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro9, come fanno i barbari; o se pure non
fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare
il meno credibile10.
FOLLETTO. Voi gli aspettate invan: son tutti morti,
15
diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i
personaggi11.
7
non fosse ... argento: cioè che gli uomini fossero tornati al baratto.
8 polizzine: «carta moneta», che effettivamente nei «popoli civili» sostituisce la moneta metallica; ma si noti il sarcasmo con cui la
carta moneta dei «civili» è messa sullo stesso piano dei paternostro
di vetro dei «barbari». Cfr. Palinodia al marchese Gino Capponi, vv.
57-59: «Ben molte volte / Argento ed or disprezzerà, contenta / A
polizze di cambio».
9 paternostri di vetro: con paternostro si indicano i grani più
grossi della corona del rosario e anche tutta la corona, ma per
estensione è venuto a significare «ninnolo», «ornamento» di poco
conto in genere. Tutta la locuzione paternostri di vetro è ampiamente diffusa per indicare la bigiotteria donata dai popoli «civili»
ai «selvaggi» come se fosse cosa di valore. Cfr., per esempio, fra i
vari passi riportati dal Battaglia, questo di Benzoni: «Gli donò a
ciascuno una corona di paternostri di vetro, sonagli campanelli e
altre cose».
10
se pure ... credibile: le leggi di Licurgo permettevano a Sparta
la circolazione solo di monete di ferro; ma per i moderni il ritorno
a tale uso «sarebbe segno di un’austerità tramontata da troppo
tempo» (Galimberti).
11 Voi... personaggi: si tratta di Rutzvanscad il giovane. Arcisopratragichissima tragedia elaborata ad uso del buon gusto de’ grecheggianti compositori da Cattuffio Panchianio Bubulco arcade (edita nel
1724), composta da Zaccaria Valaresso come parodia di una tragedia seria di Domenico Lazzarini (Ulisse il giovane) e in generale di
tutte le tragedie truculente «all’uso greco». Il verso (l’ultimo dell’opera) è citato da Leopardi con un adattamento minimo: «Ma l’aspettate invan...».
Letteratura italiana Einaudi
43
Giacomo Leopardi - Operette morali
GNOMO. Che vuoi tu inferire12?
FOLLETTO. Voglio inferire che gli uomini son tutti
20 morti, e la razza è perduta13.
GNOMO. Oh cotesto è caso da gazzette14. Ma pure
fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
FOLLETTO. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini,
non si stampano più gazzette15?
GNOMO. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le
25
nuove del mondo?
FOLLETTO. Che nuove16? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o
nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini,
30 la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle brac-
12
inferire: sostenere.
13
la razza è perduta: per chi osserva gli uomini da fuori, la loro
non è che una razza come le altre.
14 Oh... gazzette: il personaggio dello gnomo appare ancora legato a un’idea antropocentrica, da cui viene distolto per le repliche
ironiche del folletto.
15
non si stampano più gazzette?: questo è il testo instaurato da
Leopardi nell’edizione napoletana del 1835. Prima aveva scritto,
più acremente: «non si trova chi voglia stampar le gazzette, perchè
ci metterebbe la spesa non avendo chi gli comperasse le menzogne
a contanti?». Il sarcasmo contro le pubblicazioni periodiche è frequente in Leopardi, che in esse identifica una delle manifestazioni
più caratteristiche della presunzione di progresso; cfr. il Dialogo di
Tristano e di un amico, r. 188 e seg.
16 Che nuove?...: è il primo apparire del tema dominante dell’operetta. Scomparsi gli uomini, il mondo procede ugualmente; alle
«novità» (nuove), come connotazione tipica che gli uomini hanno
del proprio attivo intervento nel mondo, si contrappone il percorso ciclico della natura, il ripetersi uguale dei fenomeni. Del resto
l’idea che gli uomini avevano delle proprie azioni si rivela doppiamente presuntuosa, poiché la loro vita era in realtà tanto dominata
dalla fortuna, che questa ora, scomparsi uomini e regni, non ha più
nulla da fare.
Letteratura italiana Einaudi
44
Giacomo Leopardi - Operette morali
cia in croce a sedere17, guardando le cose del mondo
senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bol35 le18, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e
tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a
uovo19.
GNOMO. Né anche si potrà sapere a quanti siamo del
mese, perché non si stamperanno più lunari.
40
FOLLETTO. Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
GNOMO. E i giorni della settimana non avranno più
nome.
FOLLETTO. Che, hai paura che se tu non li chiami
45 per nome, che non vengano20? o forse ti pensi, poiché
sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
GNOMO. E non si potrà tenere il conto degli anni.
17
la fortuna... sedere: la fortuna è tradizionalmente simboleggiata da una donna bendata che corre su una ruota; la raffigurazione
ironica di un personaggio favoloso ridotto alle misure umane è ancor più caricata dalla presenza degli occhiali, ricorrente topos derisorio per Leopardi, in quanto manifestazione della «corruzione»
fisica cui porta la civilizzazione (vedi Dialogo della Moda e della
Morte, p. 54; Paralipomeni della Batracomiomachia, II, 19; cfr. anche Zibaldone, p. 256: «Si mise un paio di occhiali fatti della metà
del meridiano co’ due cerchi polari» [1 ottobre 1820], brevissima
idea per qualche «disegno satirico» all’alba delle Operette morali).
18 regni... bolle: cfr. Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 76, vv. 38: «Vide un monte di tumide vesiche / che dentro parea aver tumulti e grida; / e seppe ch’eran le corone antiche / e degli assiri e
de la terra lida, / e de’ Persi e de’ Greci, che già furo / incliti, et or
n’è quasi il nome oscuro».
19 come uovo a uovo: cfr. Dialogo Galantuomo e Mondo, ed. a cura di Besomi, p. 473: «tutti debbon essere come tante uova, in maniera che tu non possa distinguere questo da quello».
20 hai paura... non vengano?: i nomi sono artifici umani (è uno
dei temi principali del Dialogo della Terra e della Luna).
Letteratura italiana Einaudi
45
Giacomo Leopardi - Operette morali
FOLLETTO. Così ci spacceremo per giovani anche
dopo il tempo, e non misurando l’età passata, ce ne da50 remo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non
istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
GNOMO. Ma come sono andati a mancare quei monelli21?
FOLLETTO. Parte guerreggiando tra loro, parte navi55 gando, parte mangiandosi l’un l’altro22, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando
nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura23 e di
60 capitar male.
GNOMO. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di
pianta24, come tu dici.
21
monelli: nel senso originario di «furfante», e collegandosi infatti a questi furfanti degli uomini (r. 4) e a quella ciurmaglia (r. 72),
ma con la sfumatura ironica di «ragazzacci», di «furboni» che con
le loro trovate sono finiti per capitar male (r. 44). Cfr. G. Folena,
Semantica e storia di «monello», in «Lingua nostra», XVII, 1956,
pp. 65-77, in particolare p. 71; fino all’edizione 1835 Leopardi aveva scritto mariuoli.
22 mangiandosi l’un l’altro: cfr. la succes siva operetta La scommessa di Prometeo.
23
in fine… natura: in questa frase si compendia tutto il non-senso della «civilizzazione» umana, già svilita e ridicolizzata dalle precedenti espressioni del folletto. In un’indicazione aggiunta agli abbozzi (Dialogo di un cavallo e un bue) da cui deriverà questa
operetta, Leopardi dice esplicitamente: «Si può far derivare l’estinzione della specie umana dalla sua corruzione, effetto ben probabile anche in filosofia considerando l’indebolimento delle generazioni, e paragonando la durata della vita, e la statura, il vigore ec; degli
uomini moderni con quello degli antichi. E così rispetto ai cangiamenti dell’animo e dello spirito, alle sventure derivatene, al mal essere politico, corporale, morale, spirituale che cagionano ec.» (nell’edizione a cura di O. Besomi, p. 463).
24
di pianta: fin dalle radici, del tutto.
Letteratura italiana Einaudi
46
Giacomo Leopardi - Operette morali
FOLLETTO. Tu che sei maestro in geologia25, dovresti
65 sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano,
salvo pochi ossami impietriti26. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che,
come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in
70 perdizione.
GNOMO. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o
due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello
che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia
dileguato il genere umano, ancora durano e procedono
75 come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.
FOLLETTO. E non volevano intendere che egli è fatto
e mantenuto per li folletti27.
GNOMO. Tu folleggi28 veramente, se parli sul sodo29.
25 maestro in geologia: in quanto, ironicamente, esperto di sottosuolo.
26
impietriti: è il termine della scienza sei-settecentesca per indicare i resti fossili. L’aggettivo è un’aggiunta dell’edizione napoletana (1835), in funzione di un cambiamento di tutta la frase, che nelle precedenti stesure diceva: «Se come tu sei maestro in
mineralogia, così fossi pratico dell’istoria degli animali, sapresti
che il caso... salvo pochi ossami». Ma era una lezione rimasta in
parte legata alla fase più antica di ideazione dell’operetta, mentre
ora Leopardi rende più asciutta l’ironia, potendo attribuire anche i
resti fossili alla competenza di un «maestro in geologia».
27 E non volevano intendere… folletti: è una commedia nella
commedia, necessaria a illustrare la riflessione che per bocca del
Folletto Leopardi avanza alla fine dell’episodio (rr. 89-96). Folletti
e gnomi (e qualunque altro essere) non sono diversi dagli uomini
nel ritenersi al centro dell’universo, come Leopardi notava nel
pensiero di Zibaldone, p. 390; nel contesto del dialogo quella riflessione (tutte le specie animali s’immaginano di «essere il primo ente
della natura») acuisce ancor di più la satira dell’antropocentrismo.
28
folleggi: paronoma sia con folletto.
29
sul sodo: seriamente.
Letteratura italiana Einaudi
47
Giacomo Leopardi - Operette morali
80
85
90
95
100
105
FOLLETTO. Perché? io parlo bene sul sodo.
GNOMO. Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il
mondo è fatto per gli gnomi?
FOLLETTO. Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, il mare, le campagne?
GNOMO. Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle30?
FOLLETTO. Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per
fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano
che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro
specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che
niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico
solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi
dispererei31.
GNOMO. Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei32 volentieri quel che direbbero
gli uomini della loro presunzione33, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello34, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere
umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori35.
30
prima pelle: superficie.
31
se... dispererei: nel pensiero citato di Zibaldone, p. 390, si spiega infatti la cosa sulla base dell’«amor proprio», comune a tutti i
viventi.
32
saprei: conoscerei.
33
Ora... presunzione: lo Gnomo riprende il discorso dal punto
in cui era divagato (vedi r.71 e seg.).
34
a questo e a quello: degli altri esseri non umani.
35
s’inabissavano... fuori: cfr. Cicerone, De natura Deorum, II,
Letteratura italiana Einaudi
48
Giacomo Leopardi - Operette morali
FOLLETTO. Che maraviglia? quando non solamente
si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio36 che di stare al servigio loro, ma facevano
conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero
110 una bagatella37. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro genti, storie del mondo38, benché si potevano numerare, anche dentro ai termini nella terra, forse tante altre specie,
non dico di creature, ma solamente di animali, quanti
115 capi d’uomini vivi39: i quali animali, che erano fatti
60: «Nos e terrae cavernis ferrum elicimus, rem ad colendos agros
necessariam, nos aeris, argenti, auri venas, penitus abditas, invenimus», passo citato da Della Giovanna, che aggiunge: «in qualche
punto questo dialoghetto pare una confutazione della tesi di Cicerone che dimostra (‘omnia quae sint in hoc mundo, quibus utantur
homines hominum causa facta esse et parata’) nei capitoli 61 e seg.
del libro II; libro che l’autore cita poco appresso» (alla sua nota 7,
riportata qui in nota 42; ma è un passo aggiunto sul manoscritto in
un secondo momento). L’idea della burla della natura da sfidare riflette la presunzione umana, poiché osserva Leopardi che tutti gli
strumenti della civilizzazione umana sono stati ottenuti contro la
natura: «Il fuoco – dice nello Zibaldone, p. 3645 – è una di quelle
materie, di quegli agenti terribili, come l’elettricità, che la natura
sembra avere studiosamente seppellito e appartato, e rimosso dalla
vista e da’ sensi e dalla vita degli animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita totale della natura ha
principalmente luogo [...]. Tanto è lungi ch’ella abbia avuto intenzione di farne una materia d’uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del
globo, e di sottometterlo all’arbitrio dell’uomo, come le frutta o
l’erbe ec., e di destinarlo come necessario alla felicità e quindi alla
natural perfezione della principale specie di esseri terrestri».
36
uffizio: compito.
37
bagattella: cosa da nulla.
38
E però... mondo: cfr. r. 19 e seg. Si noti l’antitesi proprie-loro/mondo che regge, ripetendosi, tutto il passo (però = «perciò»), e
che risale allo Zibaldone, p. 55.
39 tante altre specie... quanti capi d’uomini vivi: il numero delle
specie animali è almeno pari a quello degli individui umani.
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espressamente per coloro40 uso, non si accorgevano
però mai che il mondo si rivoltasse41.
GNOMO. Anche le zanzare e le pulci erano fatte per
benefizio degli uomini?
FOLLETTO. Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza come essi dicevano.
GNOMO. In verità che mancava loro occasione di
esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
FOLLETTO. Ma i porci, secondo Crisippo42, erano
pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le
cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.
GNOMO. Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima,
non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
FOLLETTO. E anche quest’altra è piacevole43; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro padroni44; o perché elle vivono
in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere
tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne
accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire
40
coloro: loro.
41
i quali animali… rivoltasse: il Folletto adotta ironicamente il
punto di vista degli uomini.
42 Crisippo: nota di leopardi: «(7) Sus vero quid habet praeter
escam? cui quidem, ne putisce ret, animam ipsam, pro sale, datam dicit esse Chrysippus. Cicerone, de Nat. Deor. lib. 2, cap. 64.» Crsippo (III sec. a. C.) è il «secondo fondatore» della scuola stoica, dopo Zenone; l’anima è, nella concezione stoica, il «soffio vitale»
(pne„ma), che garantisce a ogni essere, anche di minimo valore, il
suo fine virtuoso.
43
piacevole: divertente.
44
loro padroni: secondo il punto di vista umano, mentre nemmeno erano in grado di vedere tutti i loro presunti dipendenti.
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circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimenti di
tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per
migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che
fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie45: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti
fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù
nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte
avevano gran faccende.
GNOMO. Sicché, in tempo di state, quando vedevano
cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù
per l’aria avranno detto che qualche spirito andava
smoccolando le stelle46 per servizio degli uomini.
FOLLETTO. Ma ora che ei sono tutti spariti47, la terra
non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi
di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire
alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
GNOMO. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie48.
FOLLETTO. E il sole non s’ha intonacato il viso di
ruggine; come fece, secondo Virgilio49, per la morte di
45
masserizie: arnesi, carabattole.
46
smoccolando le stelle: l’espressione è del Boccalini (come ricorda Bigi, Tono e tecnica delle «Operette morali», in Dal Petrarca
al Leopardi, p. 123).
47 Ma ora... spariti: resosi lo Gnomo ormai consapevole della fine degli uomini, il dialogo s’avvia alla conclusione riallacciandosi
alle battute iniziali.
48
gramaglie: vesti da lutto.
49
E il sole... Virgilio: cfr. Virgilio, Georgiche, I, 466-467: «Ille
[sol] etiam exstincto miseratus Caesare Romam, / cum caput obscura nitidum ferrugine texit». Il confronto tra questo passo e il testo di Leopardi offre un esempio semplice, ma chiaro di come Leo-
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Giacomo Leopardi - Operette morali
160 Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affan-
no quanto ne pigliò la statua di Pompeo50.
pardi riduca a linguaggio comico una fonte di tono più alto: basta
che il sole, invece di «coprirsi il capo» in segno di lutto, si sia intonacato il viso, come il patetico espediente di qualunque umano che
tenti di mascherare le proprie fattezze; e anche l’obscura ferrugo
perde la connotazione tragica del proprio colore, per diventare
una ridicola ruggine carnevalesca.
50 Pompeo: «Cesare, ferito dai congiurati, andò a cadere presso
la statua del suo antagonista Pompeo» (Della Giovanna). A indicare l’indifferenza Leopardi, nel corso dell’elaborazione manoscritta,
aveva dapprima pensato a una contrapposizione di ordine diverso,
scrivendo: «quanto che ne pigliarono i Messicani».
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52
DIALOGO DI MALAMBRUNO
E DI FARFARELLO
MALAMBRUNO1. Spiriti d’abisso, Farfarello, Ciriatto,
Baconero, Astarotte, Alichino2, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù3, e vi comando per la virtù dell’arte mia, che può sgangherare la lu5 na, e inchiodare il sole a mezzo il cielo4: venga uno di voi
con libero comando5 del vostro principe e piena potestà
di usare tutte le forze dell’inferno in mio servigio.
1 malambruno: «un gigante e incantatore di questo nome apparisce nei capitoli 39-41 della seconda parte del Don Chisciotte» (Sanesi), all’interno del fantastico racconto della Dama Tribolata; Malambruno, che vi compare su un cavallo di legno, «oltre ad esser
crudele, è anche un famoso incantatore», nonché «tracotante e
perfido» (traduzione di Carlesi, Milano, Mondadori, pp. 919 e
920). La lettura, in lingua originale, del capolavoro di Cervantes
accompagnò a lungo Leopardi, dal viaggio a Roma al maggio del
1824.
2 Farfarello... Alichino: sono tutti nomi di provenienza letteraria
(e da testi di genere comico): «Farfarello, Ciriatto e Alichino sono
tre diavoli che Dante pone nella bolgia dei barattieri (vedi Inferno,
canti XXI e XXII); Astarotte si trova nel Morgante di Luigi Pulci
(vedi canto XXV); Baconero nel Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi (vedi canto V)» (Della Giovanna). Nella rappresentazione
dantesca Farfarello è un diavolo particolarmente furfante.
3
Belzebù: il principe dei diavoli.
4
sgangherare... cielo: già nel Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi (cap. IV, Della magia) Leopardi ricorda la credenza «che i
magi avessero il potere di trar giù dal cielo la luna con incantesimi»
(espressione che torna anche altre volte nel capitolo), e più oltre
traduce passi di Plutarco sulle maghe che promettono di «svellere
la luna dal cielo» o che «han fama di staccar la luna dal cielo» (Le
poesie e le prose, op. cit., II, pp. 242 e 255-256); partendo da questa
base, come l’aggiunta dell’espressione inchiodare il sole, così la
scelta lessicale di sgangherare indicano immediatamente il tono comico della scena (e solo da testi comici provengono gli esempi di
sgangherare in senso metaforico nel Vocabolario della Crusca).
5 comando: mandato (che è la lezione dell’autografo, modificata
nella prima edizione).
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Giacomo Leopardi - Operette morali
FARFARELLO. Eccomi.
MALAMBRUNO. Chi sei?
10
FARFARELLO. Farfarello, a’ tuoi comandi.
MALAMBRUNO. Rechi il mandato di Belzebù?
FARFARELLO. Sì recolo; e posso fare in tuo servigio
tutto quello che potrebbe il Re proprio, e più che non
potrebbero tutte l’altre creature insieme6.
15
MALAMBRUNO. Sta bene. Tu m’hai da contentare
d’un desiderio7.
FARFARELLO. Sarai servito. Che vuoi8? nobiltà maggiore di quella degli Atridi9?
MALAMBRUNO. No.
FARFARELLO. Più ricchezze di quelle che si troveran20
no nella città di Manoa10 quando sarà scoperta?
MALAMBRUNO. No.
FARFARELLO. Un impero11 grande come quello che
dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?
6 Sì... insieme: dalla presentazione di Farfarello risulta il suo potere di esaudire qualunque richiesta, e come tale è accolto da Malambruno (Sta bene).
7 Tu... desiderio: si noti l’abbassamento a un tono più quotidiano, rispetto all’evocazione iniziale.
8 Che vuoi?: per le offerte di Farfarello vedi quanto detto nell’Introduzione.
9 Atridi: la stirpe di Agamennone e Menelao, i principi achei figli di Atreo.
10 Manoa: nota di leopardi: «(8) Città favolosa, detta altrimenti
El Dorado la quale immaginarono gli Spagnuoli, e la credettero essere nell’America meridionale, tra il fiume dell’Orenoco e quel delle Amazzoni. Vedi i geografi.» In un’annotazione marginale dell’autografo si rinvia a due repertori geografici; ma a El Dorado
capita anche il protagonista del Candido di Voltaire (vedi capp.
XVII-XVIII), libro che (nella traduzione italiana edita a Venezia
nel 1759) Leopardi aveva finito di leggere appena prima della stesura di quest’operetta.
11 Un impero: sui cui domini non tramontava mai il sole, esempio dell’impero più vasto mai creato. Carlo V è duramente giudicato nei Paralipomeni della Batracomiomachia, III, v. 217 e seg. (vedi
il commento di Allodoli).
Letteratura italiana Einaudi
54
Giacomo Leopardi - Operette morali
MALAMBRUNO. No.
FARFARELLO. Recare alle tue voglie una donna più
salvatica di Penelope12?
MALAMBRUNO. No. Ti par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo?
30
FARFARELLO. Onori e buona fortuna così ribaldo 13
come sei?
MALAMBRUNO. Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo
se volessi il contrario14.
FARFARELLO. In fine, che mi comandi?
35
MALAMBRUNO. Fammi felice per un momento di
tempo.
FARFARELLO. Non posso15.
MALAMBRUNO. Come non puoi?
FARFARELLO. Ti giuro in coscienza che non posso.
40
MALAMBRUNO. In coscienza di demonio da bene.
25
12
più salvatica di Penelope: «più ritrosa», in quanto «zotica, rozza» (Vocabolario della Crusca); difficile da conquistare, cioè, ma
non per fedeltà al marito.
13 ribaldo: «disonesto, sopraffatore» (cfr. i passi del Don Chisciotte citati alla nota 1); è un ulteriore abbassamento di tono: non
c’è alcuna grandezza eroica nel «mago» Malambruno.
14
Piuttosto... contrario: nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi si parla appunto della «prospera fortuna degl’insensati, de’ ribaldi e de’ vili», accanto all’«universale noncuranza»
e alla «miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi» (p. 64):
condizioni caratteristiche dello «stato moderno» dell’uomo. Cfr.
anche un abbozzo relativo al Dialogo Galantuomo e Mondo (operetta incompiuta): «Di tutto, eziandio che con gravissime ed estreme minacce vietato, si può al mondo non pagare pena alcuna. De’
tradimenti, delle usurpazioni, degl’inganni, delle avarizie, oppressioni crudeltà, ingiustizie, torti, oltraggi, omicidi, tirannia ec. ec.
bene spesso non si paga pena; spessissimo ancora se n’ha premio, o
certo utilità» (ed. a cura di O. Besomi, p. 469).
15 Non posso: il dialogo ha finora preparato Malambruno (e i lettori) al potere di Farfarello; quindi ancor più forte suona l’impossibilità di esaudire l’unico desiderio del mago.
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FARFARELLO. Sì certo. Fa conto che vi sia de’ diavoli
da bene come v’è degli uomini.
MALAMBRUNO. Ma tu fa conto che io t’appicco qui
per la coda a una di queste travi16, se tu non mi ubbidisci subito senza più parole.
FARFARELLO. Tu mi puoi meglio ammazzare, che non
io contentarti di quello che tu domandi.
MALAMBRUNO. Dunque ritorna tu col mal anno17, e
venga Belzebù in persona.
FARFARELLO. Se anco viene Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge18, non potrà farti felice né te né altri della tua specie, più che abbia potuto io.
MALAMBRUNO. Né anche per un momento solo?
FARFARELLO. Tanto è possibile per un momento, anzi per la metà di un momento, e per la millesima parte;
quanto per tutta la vita.
MALAMBRUNO. Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l’animo almeno di liberarmi dall’infelicità19?
FARFARELLO. Se tu20 puoi fare di non amarti supremamente21.
16
t’appicco... travi: altro tratto comico, di seguito a quello delle
battute precedenti.
17 mal anno: formula di malaugurio, usata «a modo di imprecazione», come spiega il Vocabolario della Crusca, allegando esempi
di Boccaccio e di Sacchetti.
18
Giudecca... Bolge: anche la toponomastica è tutta letteraria, ricorrendo a due delle zone in cui è diviso l’Inferno dantesco (e nell’autografo: «con tutto l’inferno dell’Odissea, dell’Eneide, della divina Commedia e del Paradiso perduto»).
19
Ma... infelicità: è l’ultimo tentativo di Malambruno.
20
Se tu...: non più una risposta negativa, ma una condizione,
che è però l’uomo stesso a dover riconoscere impossibile.
21 amarti supremamente: l’«amor proprio», o in altri termini
l’«amor di se e della propria conservazione» viene a coincidere con
l’esistenza stessa, nessun vivente ne può essere privo. Cfr. Zibaldo-
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MALAMBRUNO. Cotesto lo potrò dopo morto22.
FARFARELLO. Ma in vita non lo può nessun animale:
perché la vostra natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa.
MALAMBRUNO. Così è.
FARFARELLO. Dunque, amandoti necessariamente
del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente
desideri il più che puoi la felicità propria23; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non24 possi fuggire
per nessun verso di non essere infelice.
MALAMBRUNO. Né anco nei tempi che io proverò
qualche diletto; perché nessun diletto mi farà né felice
né pago25.
FARFARELLO. Nessuno veramente.
MALAMBRUNO. E però, non uguagliando il desiderio
naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo, non
sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è
per durare, io non lascerò26 di essere infelice.
ne (sono le pagine finali della «teoria del piacere»), e quindi le introduzioni al Dialogo della Natura e di un’Anima e al Dialogo di un
Fisico e di un Metafisico.
22
dopo morto: in senso proprio, per quanto dice subito Farfa-
rello.
23
amandoti necessariamente… propria: l’«amor proprio», l’amore del vivente per la propria conservazione e il proprio benessere
non può che essere il maggiore possibile, senza limiti; oltre ai passi
cui si rinvia nella nota 21. cfr. le espressioni di Zibaldone, p. 390:
l’«amor proprio» è «necessariamente coesistente con noi, e necessariamente illimitato».
24 non: «il secondo non è dovuto a influenza della costruzione
latina fugere ne» (Porena; cfr. anche Storia del genere umano, nota
44, rr. 92).
25 pago: appagato. Per tutto il passo cfr. i passi di Zibaldone,
(«teoria del piacere»); così la successiva battuta di Malambruno
sintetizza il seguito.
26
lascerò: cesserò.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
FARFARELLO. Non lascerai: perché negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque
senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo
di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità
85 espressa27.
MALAMBRUNO. Tanto che dalla nascita insino alla
morte, l’infelicità nostra non può cessare per ispazio,
non che altro, di un solo istante28.
FARFARELLO. Sì: cessa, sempre che dormite senza so90 gnare, o che vi coglie uno sfinimento o altro che v’interrompa l’uso dei sensi29.
MALAMBRUNO. Ma non mai però30 mentre sentiamo
la nostra propria vita.
FARFARELLO. Non mai.
MALAMBRUNO. Di modo che, assolutamente31 par95
lando, il non vivere è sempre meglio del vivere32.
27
negli uomini... espressa: cfr. Storia del genere umano, rr. 165179 e nota 77, con la significativa differenza che qui il fenomeno
interessa tutti i viventi (perché, come ha detto prima Farfarello,
«nessun animale» può evitare di «amarsi supremamente»); e vedi
anche il passo citato qui alla nota 23. Espressa vale «evidente, completa».
28 Tanto che... istante: da cui la precedente risposta di Farfarello,
rr. 43-44.
29
cessa... sensi: cfr. Zibaldone, p. 2861: «In ciascun punto della
vita, anche nell’atto del maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo o
il vivente è in istato di desiderio, e quindi non v’ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione
esso venga) nel quale l’individuo non sia in istato di pena, tanto
maggiore quanto egli [...] è in istato di maggior sensibilità ed esercizio alla vita, e viceversa»; e p. 3895: «Il sonno e tutto quello che
induce il sonno, ec. è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria
del piacere ec. Non c’è maggior piacere (nè maggior felicità) nella
vita, che il non sentirla».
30
però: perciò.
31
assolutamente: noi diremmo «astrattamente».
32
il non vivere… vivere: cfr. Zibaldone, p. 4043: «Nè la occupa-
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58
Giacomo Leopardi - Operette morali
FARFARELLO. Se la privazione dell’infelicità è semplicemente meglio dell’infelicità.
MALAMBRUNO. Dunque?
FARFARELLO. Dunque se ti pare di darmi l’anima pri100
ma del tempo, io sono qui pronto per portarmela.
zione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o
divertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quello
che vive vita uniforme senza distrazione alcuna. Perchè? se nè questi nè quelli sono punto superiori gli uni agli altri nel godimento e
nel piacere, ch’è l’unico bene dell’uomo? Ciò vuol dire che la vita è
per se stessa un male. Occupata o divertita, ella si sente e si conosce di meno, e passa in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non
divertiti, sono più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma per
maggioranza di mal e, cioè maggior sentimento, conoscimento, e
diuturnità (apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun altro male particolare. Il sentir meno la vita e l’abbreviarne l’apparenza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di
male e d’infelicità, che l’uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la
noia? Niun male nè dolore particolare [...], ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e
il non vivere o il vivere meno, sì per estensione che per intensione,
è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per
se ed assolutamente alla vita ec.».
Letteratura italiana Einaudi
59
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN’ANIMA
NATURA. Va, figliuola mia prediletta, che tale1 sarai
tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii
grande e infelice2.
ANIMA. Che male ho io commesso prima di vivere,
5 che tu mi condanni a cotesta pena3?
NATURA. Che pena, figliuola mia?
ANIMA. Non mi prescrivi tu di essere infelice?
NATURA. Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei de10 stinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini
per necessità nascono e vivono infelici4.
ANIMA. Ma in contrario saria di ragione5 che tu
provvedessi in modo, che eglino fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astene15 re da porli al mondo.
1 tale: cioè prediletta; nell’autografo, in un passo poi cancellato,
la Natura aggiungeva, a sottolineare l’unicità dell’anima appena
formata: «ed ecco che io spezzo la stampa che non ho adoperato a
formare altra che te».
2
infelice: il tono trionfale di tutta la prima battuta urta con la
parola conclusiva, mettendo in rilievo il contrasto su cui nasce e si
sviluppa il dialogo. L’idea proviene da un passo letto in D’Alembert.
3 Che male… pena: la battuta rivela un punto di vista opposto:
quello che per la Natura era frutto di «predilezione» all’Anima
suona come una condanna, e infatti la Natura a sua volta non capirà a che pena si riferisca l’Anima. Per l’espressione cfr. i versi dell’Ultimo canto di Saffo citati in Storia del genere umano, r. 150-151.
4 Ma... infelici: due sono quindi le ragioni dell’infelicità, la prima dovuta semplicemente all’essere uomini, la seconda uomini
grandi; vivificare: rendere vivo.
5
sana di ragione: sarebbe ragionevole.
Letteratura italiana Einaudi
60
Giacomo Leopardi - Operette morali
NATURA. Né l’una né l’altra cosa è in potestà mia,
che sono sottoposta al fato6; il quale ordina altrimenti,
qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non la
possiamo intendere. Ora, come7 tu sei stata creata e di20 sposta a informare8 una persona umana, già qualsivoglia
forza, né mia né d’altri, non è potente a scamparti dall’infelicità comune degli uomini. Ma oltre di questa, te
ne bisognerà sostenere una propria, e maggiore assai,
per l’eccellenza della quale io t’ho fornita.
25
ANIMA. Io non ho ancora appreso nulla; cominciando a vivere in questo punto: e da ciò dee provenire ch’io
non t’intendo9. Ma dimmi, eccellenza e infelicità straordinaria10 sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare11 l’u30 na dall’altra?
6
che sono sottoposta al fato: con fato Leopardi indica ciò che fa
sì che l’essere esista e non possa non esistere, e che solo raffigurato
come una forza a sé si distingue da quanto nomina altrimenti come
ordine primigenio e perpetuo delle cose create (r. 43-44; cfr. anche in
Storia del genere umano, r. 64: «l’ordine dei fati»). L’esistenza delle
cose è il dato «a priori» che noi semplicemente non possiamo che
accettare, e esistenza vuol dire amore di sé, con l’infelicità che ne
consegue (vedi la successiva spiegazione della Natura); è «quell’ordine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamo
concepire», come dice un passo di Zibaldone, p. 648. A questo si
riferisce la frase della Natura: «nè io nè tu non la possiamo intendere».
7
come: siccome.
8
informare: dare forma (a).
9
Io... intendo: si noti che l’anima non conosce nulla, non esistono idee innate (cosa che diventa un espediente narrativo per permettere alla Natura di spiegarsi).
10
straordinaria: in aggiunta a quella comune.
11
scompagnare: dividere; cfr. Zibaldone, p. 2411: «non potendosi né scompagnare il sentimento dell’esistenza propria (ch’è ciò che
s’intende per vita) dall’amore dell’esistente [...]». Cfr. anche Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, r. 49.
Letteratura italiana Einaudi
61
Giacomo Leopardi - Operette morali
NATURA. Nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali,12 si può dire
che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché
l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione13
35 della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento
dell’infelicità propria; che è come se io dicessi maggiore
infelicità. Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggiore efficacia di amor proprio14, dovunque esso
s’inclini15, e sotto qualunque volto si manifesti: la qual
40 maggioranza16 di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine17, e però maggiore scontento e affan12
Nelle anime… animali: come la Natura torna a spiegare verso
la conclusione del dialogo (rr. 154-158), tutti gli esseri viventi si
possono disporre lungo una scala che va dalla minore alla maggiore vitalità, quindi capacità di sentire le sensazioni, di sentire la vita.
Per il contenuto del discorso della Natura vedi i passi dello Zibaldone citati in Introduzione.
13
intensione: «intensità» (che è variante cancellata nell’autografo, ma Leopardi vuole evitare la rima con infelicità).
14 amor proprio: nel senso settecentesco (e in particolare rousseauiano) di «amore del vivente per se stesso»; l’espressione appare qui per la prima volta nelle Operette morali, ma il concetto è
trattato direttamente già nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello.
15 s’inclini: «sia portato a muoversi, abbia inclinazione» (cfr. per
esempio Il Parini ovvero della gloria: «Perciò veggiamo che i più
degli scrittori eccellenti, e massime de’ poeti illustri, di questa medesima età [...] furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni»). «Inclinare» e «inclinazione’ in questo senso,
usati frequentemente nelle Operette morali, sono termini della filosofia scolastica; cfr. Dante, Convivio, I, I, 1: «ciascuna cosa, da
provvidenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria
perfezione»; e Leopardi lo mantiene espressamente per indicare le
tendenze innate, non prodotte dall’assuefazione, che si riducono
poi solo alla tendenza alla «vivacità» (vedi Zibaldone, p. 2046, e Indice del mio zibaldone).
16 maggioranza: nel senso di «quantità o grandezza maggiore»,
come Leopardi spiega in un’annotazione dell’autografo, citando
un esempio di D. Compagni (vedi anche Storia del genere umano, r.
368).
17
beatitudine: felicità.
Letteratura italiana Einaudi
62
Giacomo Leopardi - Operette morali
no di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che
sopravvengono. Tutto questo è contenuto nell’ordine
primigenio18 e perpetuo delle cose create, il quale io non
45 posso alterare. Oltre di ciò19, la finezza del tuo proprio
intelletto, e la vivacità dell’immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte della signoria di te stessa20. Gli animali bruti21 usano agevolmente ai fini che
eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli
50 uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti
ordinariamente dalla ragione e dall’immaginativa22; le
quali creano mille dubbietà nel deliberare23, e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti o meno usati24 a ponderare
e considerare seco medesimi25, sono i più pronti al risol-
18 primigenio: «stabilito fin dalle origini». È l’ordine per cui esistere e amare se stessi sono elementi indivisibili; si esiste in quanto
ci si ama.
19
Oltre di ciò...: fin qui la Natura ha esposto le ragioni per cui
«tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici» (rr. 9-10);
ora spiega la maggiore infelicità destinata alle «anime grandi».
20
ti escluderanno... stessa: «t’impediranno di poter usare ogni
tua facoltà o forza» (Della Giovanna); vedi rr. 57-58: «quindi impotenti di se medesime».
21
animali bruti: vedi Storia del genere umano, nota 103.
22
immaginativa: «immaginazione» (come Leopardi aveva dapprima scritto); immaginativa è aggettivo sostantivato, per l’omissione del sostantivo facoltà. Fin dalla «teoria del piacere» Leopardi
aveva notato che «la forza e fecondità dell’immaginazione [...] come rende facilissima l’azione, così spessissimo renda facile l’inazione» (Zibaldone, p. 176).
23 deliberare: «decidere». Si noti la precisione dell’analisi, che
distingue decisione (fatto ancora mentale) da esecuzione, e la conseguente proprietà lessicale nel nominare diversamente dubbietà e
ritegni. Vedi anche alle rr. 54-55, con struttura a chiasmo: «i più
pronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci».
24
usati: abituati.
25
seco medesimi: con se stessi.
Letteratura italiana Einaudi
63
Giacomo Leopardi - Operette morali
55 versi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari26, impli-
cate27 continuamente in loro stesse, e come soverchiate28
dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti
di se medesime29, soggiacciono il più del tempo all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è
60 l’uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana30. Aggiungi che31 mentre per l’eccellenza delle tue di26 Ma le tue pari: dopo aver ripercorso la «scala degli esseri», dagli animali bruti, agli uomini… meno atti, il discorso torna alle tue
pari, da cui era partito alla r. 34.
27
implicate: «ripiegate», quasi «avvolte»: è la rappresentazione
di chi riflette su se stesso.
28
soverchiate: superate, sopraffatte.
29
impotenti di se medesime: «espressione foggiata sulla latina
potens sui» (Fubini).
30 Ma le tue pari... vita umana: cfr. Zibaldone, pp. 538-539 (21
gennaio 1821): «È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli
uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al
credere quanto all’operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi,
restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e la
profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di
risolvere». E p. 3040 (26 luglio 1823): «L’uomo in cui concorressero grande e colto ingegno, e risolutezza, si può affermare senz’alcun dubbio che farebbe e otterrebbe gran cose nel mondo, e che
certo non potrebbe restare oscuro, in qualunque condizione l’avesse posto la fortuna dalla nascita. Ma l’abito della prudenza nel deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere,
ed anche la fermezza nell’operare. Di qui è che gli uomini d’ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre prigionieri, per così dire, dell’irresolutezza, difficili a risolvere, timidi, sospesi incerti, delicati, deboli nell’eseguire» (si noti la forte
vicinanza al lessico dell’operetta). Sull’argomento Leopardi si sofferma anche nella lettera allo Jacopssen del 23 giugno 1823.
31 Aggiungi che...: per questa aggiunta vedi Zibaldone, pp. 31873190, dove si parla di coloro in cui alla forza della natura, cioè della sensibilità, si unisce «una sorta di debolezza» (ne è un esempio
Rousseau): «Ciò sono quelle persone di vastissimo, finissimo e altissimo ingegno, al quale per la troppa capacità e ampiezza sfuggo-
Letteratura italiana Einaudi
64
Giacomo Leopardi - Operette morali
sposizioni trapasserai32 facilmente e in poco tempo, quasi tutte le altre della tua specie33 nelle conoscenze più
gravi34, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno
65 ti riuscirà sempre o impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose
menome35 in se, ma necessarissime al conversare36 cogli
altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare
perfettamente ed apprendere senza fatica da mille inge70 gni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.
Queste ed altre infinite difficoltà e miserie occupano e
circondano gli animi grandi. Ma elle sono ricompensate
abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori
che frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla
75 durabilità della ricordanza che essi lasciano di se ai loro
posteri.
no e in essa ampiezza si perdono le cose piccole; per la troppa finezza riescono difficilissime e impossibili ad apprendersi, a seguirsi, a possedersi le grosse; per la troppa altezza escono di vista le cose basse. Non già ch’essi sempre le sdegnino, anzi bene spesso con
somma e intensissima cura le cercano e studiano, ma con gran meraviglia loro e dei pochi che ben li conoscono, non viene lor fatto
di conseguire in quelle cose appena una centesima parte di quell’abilità e di quel successo che gl’ingegni mediocri, e talora piccoli,
con molto minor cura e studio, facilmente e perfettamente conseguono, possiedono e adoprano»; le stesse ragioni, l’eccesso di riflessione e la mancanza di disinvoltura, impediscono «a quei rari
ingegni di mai, se non imperfettissimamente, conseguire, di mai, se
non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le
qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano [...]».
32
trapasserai: sorpasserai.
33
tua specie: quella umana.
34
gravi: impegnative.
35
menome: minime.
36
conversare: nel senso di «trattare, avere a che fare». Vedi Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. IV, rr. 74-76: «non vengono
a capo, nonostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a se, non che altrui».
Letteratura italiana Einaudi
65
Giacomo Leopardi - Operette morali
80
85
90
95
ANIMA. Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici, gli
avrò io dal cielo, o da te, o da chi altro37?
NATURA. Dagli uomini: perché altri che essi non li
può dare.
ANIMA. Ora vedi38, io mi pensava che non sapendo
fare quello che è necessarissimo, come tu dici, al commercio cogli altri uomini, e che riesce anche facile insino
ai più poveri ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggita, non che lodata, dai medesimi uomini; o certo fossi
per vivere sconosciuta a quasi tutti loro, come39 inetta al
consorzio umano.
NATURA. A me non è dato prevedere il futuro, né
quindi anche prenunziarti40 infallibilmente quello che
gli uomini sieno per fare e pensare verso di te mentre sarai sulla terra. Ben è vero41 che dall’esperienza del passato io ritraggo per lo più verisimile, che essi ti debbano
perseguitare coll’invidia; la quale è un’altra calamità solita di farsi incontro alle anime eccelse; ovvero ti sieno
per opprimere col dispregio e la noncuranza42. Oltre
che la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essere
inimici delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come
37
Ma... altro: l’Anima dubita che questa «ricompensa» alle sue
pene non sia in realtà così facile da ottenere, per i motivi che spiega subito dopo.
38 Ora vedi...: l’Anima riprende le affermazioni della Natura, rr.
64-67 (commercio corrisponde a conversare; cfr. Storia del genere
umano, nota 197), facendone però discendere conclusioni ben diverse.
39
come: in quanto.
40
prenunziarti: preannunciarti.
41
Ben è vero...: la Natura conferma i dubbi dell’Anima; del resto aveva già parlato di «altre infinite difficoltà e miserie» (r. 71); ritraggo significa «ritengo, deduco».
42 col dispregio e la noncuranza: cfr. Ad Angelo Mai, vv. 147-148:
«Nè livor più, ma ben di lui più dura / La noncuranza avviene ai
sommi» (Fubini).
Letteratura italiana Einaudi
66
Giacomo Leopardi - Operette morali
avvenne ad uno chiamato Camoens43, o al più di quivi
ad alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Mil100 ton44, tu sarai celebrata e levata al cielo45, non dirò da
tutti, ma, se non altro, dal piccolo numero degli uomini
di buon giudizio46. E forse le ceneri della persona nella
quale tu sarai dimorata, riposeranno in sepoltura magnifica; e le sue fattezze47, imitate in diverse guise48, an105 dranno per le mani degli uomini; e saranno descritti da
molti, e da altri mandati a memoria con grande studio,
gli accidenti della sua vita; e in ultimo tutto il mondo ci-
43 Camoens: Luìs Vaz de Camões (1524-1580) è autore del maggior poema in lingua portoghese, Os Lusìadas (cioè i discendenti di
Luso, fondatore mitico del Portogallo; Leopardi ne utilizza un passo nel Dialogo della Natura e di un Islandese), pubblicato nel 1572,
quasi al termine di una vita travagliatissima. È incluso già nel Dialogo Galantuomo e Mondo; e anche nello Zibaldone, occupandosi
della sua opera, Leopardi lo ricorda come «lo sfortunato Camoens» (p. 3146).
44 Milton: l’inglese John Milton (1608-1674), autore del Paradise
Lost (Paradiso perduto), pubblicato nel 1667, opera più volte presente a Leopardi, al quale durante la progettazione degli Inni cristiani, poi non realizzati, era sembrata la miglior opera poetica di
argomento religioso (cfr. Le poesie e le prose, op. cit., I, pp. 426427; in casa Leopardi del Paradiso perduto esisteva la traduzione
italiana di P. Rossi, Venezia, 1783). Di Milton Leopardi si ricorderà
anche nella stesura dell’operetta Il Parini ovvero della gloria, dove
era destinato a rappresentare il tipo di «sommo poeta» che è anche
«sommo filosofo», ma nell’edizione del 1835 fu sostituito con
Shakespeare (cfr. ed. a cura di O. Besomi, p. 212; così l’inferno del
Paradiso perduto è in una variante dell’autografo del Dialogo di Malambruno e di Farfarello). Il poeta inglese soffrì di una cecità piuttosto precoce e in quanto seguace della rivoluzione puritana fu
perseguitato al sopravvenire della restaurazione monarchica.
45
levata al cielo: si intenda «il tuo nome osannato».
46
non dirò… giudizio: quindi un’ulteriore limitazione; subito
dopo ancora un forse.
47
fattezze: forme, lineamenti.
48
imitate in diverse guise: riprodotte in diversi modi.
Letteratura italiana Einaudi
67
Giacomo Leopardi - Operette morali
vile sarà pieno del nome suo. Eccetto se49 dalla malignità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesima
110 delle tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedita di mostrare agli uomini alcun proporzionato segno50
del tuo valore: di che non sono mancati per verità molti
esempi51, noti a me sola ed al fato52.
ANIMA. Madre mia53, non ostante l’essere ancora
115 priva delle altre cognizioni54, io sento tuttavia che il
maggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, è
quello della felicità55. E posto che io sia capace di quel
della gloria, certo non altrimenti posso appetire56 questo
non so se io mi dica bene o male57, se non solamente co49 Eccetto se...: cfr. un passo della lettera di Leopardi al Brighenti del 28 aprile 1820, scritta nella crisi di impotenza e di rabbia che
seguì al veto posto dal padre alla stampa delle sue canzoni: «Essendo pur troppo vero che l’ingegno il più raro e il più sublime (quando anche io ne avessi punto) non basta neppure a far conoscere il
proprio nome, senza l’aiuto di circostanze indispensabili»; nella
stessa lettera (citata da Della Giovanna) Leopardi parla della sua
«infelicità particolare», e spiega: «dico particolare, perchè delle comuni nessuno va esente». Vedi anche il passo del Dialogo Galantuomo e Mondo e Zibaldone, pp. 1176-1179.
50 mostrare… segno: «far conoscere» (in una nota dell’autografo
Leopardi cita a riscontro dell’espressione un passo del Galateo di
Della Casa).
51 di che.., esempi: sono insomma davvero del tutto precarie le
eventuali «ricompense» all’infelicità delle «anime grandi».
52
noti… fato: perché appunto mai gli uomini se ne sono accorti.
53
Madre mia: corrisponde a figliuola mia (rr. 1 e 6, e poi 140),
ma il vocativo iniziale prepara al forte contrasto che l’anima denuncerà nella parte finale del suo discorso.
54
non ostante... cognizioni: vedi rr. 20-21.
55
io sento... felicità: questo è infatti un desiderio congenito,
tutt’uno coll’amore del vivente per sé, cioè col sentimento (io sento) della propria vitalità.
56
appetire: desiderare.
57
questo... male: come chiamare con certezza «bene» la gloria,
se è raggiungibile solo da anime così soggette all’infelicità?
Letteratura italiana Einaudi
68
Giacomo Leopardi - Operette morali
120 me felicità, o come utile ad acquistarla58. Ora, secondo
le tue parole, l’eccellenza della quale tu m’hai dotata,
ben potrà essere o di bisogno o di profitto59 al conseguimento della gloria; ma non però mena60 alla beatitudine61, anzi tira violentemente all’infelicità. Né pure alla
125 stessa gloria è credibile che mi conduca62 innanzi alla
morte63: sopraggiunta la quale, che utile o che diletto mi
potrà pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ultimo, può facilmente accadere, come tu dici, che questa
sì ritrosa64 gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi venga
130 ottenuta in maniera alcuna, eziandio65 dopo la morte. Di
modo che dalle tue stesse parole io conchiudo che tu, in
luogo di amarmi singolarmente, come affermavi a principio66, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggiore
che non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarò
135 nel mondo; poiché non hai dubitato di farmi così calamitoso67 dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti.
58
se non... acquistarla: il desiderio della gloria non può essere
che subordinato a quello della felicità (tanto grande da poter essere definito il solo desiderio).
59
o di bisogno o di profitto: o necessaria o utile.
60
mena: conduce.
61
beatitudine: vedi r. 41.
62
che mi conduca: soggetto è sempre l’eccellenza.
63
innanzi alla morte: «prima di morire» (sempre secondo le parole della Natura).
64
ritrosa: «sfuggente». Si noti la retorica della contrapposizione
tra sì ritrosa... tanta infelicità e la possibilità di non ottenere nulla.
65
eziandio: anche.
66
come... principio: vedi r. 1, «figliuola mia prediletta», cui corrisponde qui amarmi singolarmente (cioè in misura particolare).
67 calamitoso: «portatore di calamità, sciagurato». Nell’ossimoro
calamitoso dono è condensata tutta l’antitesi tra i punti di vista della Natura e dell’Anima, che prosegue segnando il proprio distacco
da «cotesta eccellenza che tu mi vanti».
Letteratura italiana Einaudi
69
Giacomo Leopardi - Operette morali
La quale sarà l’uno dei principali ostacoli che mi vieteranno di giungere al mio solo intento, cioè alla beatitudine68.
NATURA. Figliuola mia69; tutte le anime degli uomini,
140
come io ti diceva, sono assegnate in preda all’infelicità,
senza mia colpa. Ma nell’universale miseria della condizione umana, e nell’infinita vanità di ogni suo diletto e
vantaggio70, la gloria è giudicata dalla miglior parte degli
145 uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e il
più degno oggetto che questi possano proporre alle cure
e alle azioni loro71. Onde, non per odio72, ma per vera e
speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di
prestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidi
150 che erano in mio potere.
ANIMA. Dimmi: degli animali bruti, che tu menzionavi, è per avventura alcuno fornito di minore vitalità e
sentimento che gli uomini73?
68
La quale... beatitudine: la conclusione corrisponde all’inizio
del discorso; la premessa dichiarata allora è ora ribadita («giungere
al mio solo intento, cioè la beatitudine»), dimostrando che il dono
non è tale.
69 Figliuola mia: di fronte all’accusa dell’Anima, la Natura ribadisce la propria predilezione (vedi nota 71).
70
diletto e vantaggio: perché non possono appagare veramente
il desiderio di felicità (cfr. Dialogo di Malambruno e di Farfarello,
rr. 73-75); vanità significa «vuotezza, inconsistenza», vedi anche
Storia del genere umano, r. 386, ma qui l’espressione riprende quella precocissima dello Zibaldone: «Oh infinita vanità del vero» (p.
69), che tornerà poi in A se stesso, v. 16, «E l’infinita vanità del tutto».
71 la gloria.., loro: mentre prima la Natura aveva parlato di «ricompense», ora chiarisce che la gloria è l’unico senso che la miglior
parte degli uomini ha trovato per una vita altrimenti vana. Per questo intende la grandezza dell’anima come un dono.
72
Onde, non per odio...: ribatte alle accuse dell’Anima, r. 131 e
seg.
73 Dimmi... uomini: la domanda è in funzione della decisione
che l’Anima intende ormai prendere; per avventura: «per caso».
Letteratura italiana Einaudi
70
Giacomo Leopardi - Operette morali
NATURA. Cominciando da quelli che tengono74 della
155 pianta, tutti sono in cotesto, gli uni più, gli altri meno,
inferiori all’uomo; il quale ha maggior copia75 di vita, e
maggior sentimento, che niun altro animale; per essere
di tutti i viventi il più perfetto76.
ANIMA. Dunque alluogami77, se tu m’ami, nel più
160 imperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle funeste
doti che mi nobilitano78, fammi conforme al più stupido
e insensato spirito umano che tu producessi in alcun
tempo.
NATURA. Di cotesta ultima cosa io ti posso compia165 cere; e sono per farlo; poiché tu rifiuti l’immortalità 79,
verso la quale io t’aveva indirizzata.
ANIMA. E in cambio dell’immortalità, pregoti di accelerarmi la morte il più che si possa80.
NATURA. Di codesto conferirò col destino.
74
tengono: hanno i caratteri.
75
copia: abbondanza.
76
Cominciando... più perfetto: cfr. r. 31 e seg. In questa maggior
vitalità consiste l’unica perfezione, l’eccellenza del genere umano
(cfr. Storia del genere umano, r. 56).
77
alluogami: mettimi.
78
funeste doti che mi nobilitano: altro ossimoro; l’espressione è
del tutto parallela a quella di r. 135-136.
79 immortalità:
quella dovuta alla gloria.
80
pregoti... possa: cfr. la conclusione del Dialogo di Malambruno
e di Farfarello.
Letteratura italiana Einaudi
71
LA SCOMMESSA DI PROMETEO
L’anno ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove1, il collegio2 delle Muse diede
fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici
della città e dei sobborghi d’Ipernéfelo3, diverse
5 cedole4, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e minori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemente o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente5 o in figura o per
iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E
10 scusandosi che per la sua nota povertà non si poteva dimostrare così liberale6 come avrebbe voluto, prometteva
in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato
più bello o più fruttuoso, una corona di lauro, con privilegio di poterla portare in capo il dì e la notte, privata15 mente e pubblicamente, in città e fuori; e poter essere
dipinto, scolpito, inciso, gittato7, figurato in qualunque
1
L’anno... Giove: la data, nella sua meticolosa e assurda precisione, introduce da subito all’impostazione lucianea della prima
parte del racconto, ambientata in un «paese degli dei» dalle prosaiche caratteristiche umane.
2
il collegio: come dire «l’ordine professionale».
3
Ipernéfelo: cioè «Sopranuvole»; è la trasposizione del greco
¤pernûfeloj che fa da sottotitolo a un testo di Luciano, l’Icaromenippo.
4 cedole: «avvisi, manifestini»; Leopardi avrà presente questo
passo di Guicciardini, citato nel Vocabolario della Crusca: «erano
appiccate, ne’ luoghi pubblici, le cedole, per le quali se gli intimava
la convocazione del concilio» (Storia d’italia, libro IX, cap. XVIII;
Bari, ed. Laterza, vol. III, pp. 100-101).
5
effettualmente: con l’oggetto stesso.
6
liberale: generoso.
7
gittato: gittare è il termine tecnico per indicare la fusione, spe-
Letteratura italiana Einaudi
72
Giacomo Leopardi - Operette morali
modo e materia, col segno di quella corona dintorno al
capo8.
Concorsero a questo premio non pochi dei celesti
20 per passatempo; cosa non meno necessaria agli abitatori
d’Ipernéfelo, che a quelli di altre città9; senza alcun desiderio di quella corona; la quale in se non valeva il pregio
di una berretta di stoppa; e in quanto alla gloria, se gli
uomini, da poi che sono fatti filosofi, la disprezzano10, si
25 può congetturare che stima ne facciano gli Dei, tanto
più sapienti degli uomini, anzi soli sapienti secondo Pitagora e Platone11. Per tanto, con esempio unico e fino
allora inaudito in simili casi di ricompense proposte ai
più meritevoli12, fu aggiudicato questo premio, senza in30 tervento di sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né di artifizi: e tre furono gli anteposti13: cioè Bacco per l’invenzione del vino; Minerva per quella
dell’olio, necessario alle unzioni delle quali gli Dei fanno
quotidianamente uso dopo il bagno; e Vulcano14 per
cialmente in bronzo; l’elenco copre quindi tutti i possibili modi di
riproduzione artistica.
8
con privilegio… capo: con un’evidente sproporzione tra l’insignificanza del premio e l’ampiezza dei diritti cui darebbe luogo.
9
cosa... città: anche da questo punto di vista (la necessità di distrarsi dalla noia) non c’è differenza tra gli dei e gli uomini.
10 se gli uomini… la disprezzano: come viene spiegato nella Storia del genere umano, r. 415 e seg.
11
Pitagora e Platone: come si desume da una nota dell’autografo, Leopardi per Pitagora si riferisce a un passo di Diogene
Laerzio, per Platone a un passo del Fedro (LXIV; 278 d).
12 con esempio unico… meritevoli: ma appunto perché si tratta
di premio di nessun valore.
13 anteposti: «preferiti» (latinismo; diversi esempi trecenteschi
nel (Vocabolario della Crusca).
14 Bacco... Minerva... Vulcano: l’unica invenzione che corrisponde alla tradizione mitologica è quella di Bacco, dalla quale le altre
Letteratura italiana Einaudi
73
Giacomo Leopardi - Operette morali
35 aver trovato una pentola di rame, detta economica, che
serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente15. Così, dovendosi fare il premio in tre parti, restava a ciascuno un ramuscello di lauro: ma tutti e tre ricusarono16 così la parte come il tutto; perché Vulcano
procedono in un crescendo di prosaicità: al vino si accompagna l’olio, sia pure da bagno, per finire con la pentola economica, ritrovata
dal dio addetto alle fucine dell’Olimpo. Questa premiazione dissacrante prepara i motivi dello svolgimento narrativo e logico dell’operetta, con la rivendicazione di Prometeo.
15 pentola... speditamente: anche nella Palinodia al marchese Gino Capponi «nove forme di paioli, e nove / Pentole» (vv. 120-121)
saranno derise come esempi dei ritrovati «moderni», con cui il
progresso presume di raggiungere «la mortal felicità». Il riferimento è tutt’altro che generico. Negli anni precedenti uno scienziato
piuttosto avventuroso, Benjamin Thompson, conte di Rumford
(1753-1814), impegnato tra l’altro in ricerche sulla natura del calore, su cui il dibattito era allora molto vivo, si era ripetutamente occupato della tecnologia necessaria alla cottura dei cibi con la massima economia possibile, proponendo dettagliate modifiche alle
cucine, ai camini e alle pentole. I suoi studi, dedicati in particolare
alla creazione di «cucine economiche» per la vita in comunità (caserme, ospizi, ecc.) furono editi anche in italiano: Saggi politici, economici e filosofici del conte di Rumford che hanno servito di base allo stabilimento di Monaco per i poveri, Prato, V. Vestri, 1819. Molto
difficile che Leopardi conoscesse questo libro, ma le trovate di
Rumford erano largamente divulgate, contraddistinte proprio dall’epiteto di economiche; se ne parla per esempio sul Conciliatore
(cito dall’edizione a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 19481953): «Ho osservato con mio piacere che vi si praticano i fornelli
economici secondo gli insegnamenti del celebre conte di
Rumford» (articolo di Serristori, II, pp. 756-757); «Il conte di
Rumford sì noto per le sue invenzioni economiche [...], la pratica e
l’applicazione delle sue invenzioni non mancarono d’occupare l’attenzione di questo istituto. Vi fu una bottega per la costruzione degli utensili, e una cucina montata alla Rumford» (articolo di Sismondi. III, pp. 316-317). Casi analoghi di riferimenti satirici di
Leopardi all’attualità tecnologica sono commentati da A. Parronchi, «Il computar», in La nascita dell’Infinito, Amadeus, Montebelluna 1989.
16
ricusarono: rifiutarono.
Letteratura italiana Einaudi
74
Giacomo Leopardi - Operette morali
40 allegò17 che stando il più del tempo al fuoco della fucina
con gran fatica e sudore, gli sarebbe importunissimo
quell’ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe in pericolo di essere abbrustolato o riarso, se per avventura
qualche scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi
45 mettesse il fuoco. Minerva disse che avendo a sostenere
in sul capo un elmo bastante, come scrive Omero18, a
coprirsene tutti insieme gli eserciti di cento città, non le
conveniva aumentarsi questo peso in alcun modo19. Bacco non volle mutare20 la sua mitra21, e la sua corona di
50 pampini, con quella di lauro: benché l’avrebbe accettata
volentieri se gli fosse stato lecito di metterla per insegna
fuori della sua taverna22; ma le Muse non consentirono
di dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimase
nel loro comune erario23.
55
Niuno dei competitori di questo premio ebbe invidia ai24 tre Dei che l’avevano conseguito e rifiutato, né si
17
allegò: si scusò dicendo.
18
come scrive Omero: una nota manoscritta rinvia all’Iliade, V,
vv. 743-744. Sono versi «di dubbia lezione e interpretazione, così
tradotti dal Monti: “Indi alla fronte, L’aurea celata impone, irta di
quattro Eccelsi coni, a ricoprir bastante Eserciti e città” (vv. 991994): il Leopardi, che li interpreta come Monti e li traduce più
esattamente, ne cava un nuovo motivo di sorriso su quelle incredibili favole» (Fubini), o piuttosto li utilizza per la propria ricostruzione parodica.
19
non le conveniva… modo: come se un ramo d’alloro facesse
qualche sensibile aggiunta a quell’elmo smisurato.
20
mutare: scambiare.
21
mitra: non è un copricapo, ma la fascia che gli cingeva la fronte; oltre alla corona di pampini è l’ornamento caratteristico del dio.
22 insegna… taverna: una frasca era l’insegna tipica delle osterie;
lo spirito di passatempo con cui gli dei hanno affrontato il concorso
volge in aperta derisione.
23
erario: tesoro.
24
ebbe invidia ai: costruzione latina col complemento di termine.
Letteratura italiana Einaudi
75
Giacomo Leopardi - Operette morali
60
65
70
75
dolse dei giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamente uno, che fu Prometeo25, venuto a parte26 del concorso
con mandarvi il modello di terra che aveva fatto e adoperato a formare i primi uomini, aggiuntavi una scrittura che dichiarava le qualità e gli uffici27 del genere umano, stato trovato da esso. Muove non poca maraviglia il
rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale, che
da tutti gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco: perciò investigandone la cagione, si è conosciuto che
quegli desiderava efficacemente, non già l’onore, ma bene il privilegio28 che gli sarebbe pervenuto colla vittoria.
Alcuni pensano che intendesse di prevalersi29 del lauro
per difesa del capo contro alle tempeste, secondo si narra di Tiberio, che sempre che udiva tonare, si ponea la
corona; stimandosi che l’alloro non sia percosso dai fulmini30. Ma nella città d’Ipernéfelo non cade fulmine e
non tuona. Altri più probabilmente31 affermano che
Prometeo, per difetto degli anni, comincia a gittare32 i
capelli; la quale sventura sopportando, come accade a
25
Prometeo: in contrapposizione all’atteggiamento degli altri
dei, è l’unico che prende sul serio il concorso, fatto che muove non
poca maraviglia.
26
venuto a parte: «che aveva partecipato» (ma il participio serve
probabilmente a evitare la ripetizione di un che).
27
uffici: compiti.
28
privilegio: cioè per un motivo (vedi r. 13) ancor meno apprezzabile dell’onore, subito messo in ridicolo; fin dalle prime battute
Prometeo appare nella parte dello sciocco.
29
prevalersi: approfittare.
30
fulmini: nota di Leopardi: «(16) Plinio, lib. 16, cap. 30; lib. 2,
cap. 55. Svetonio, Tiber, cap. 69». I passi erano già stati utilizzati
nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (cfr. Le poesie e le
prose, II, 392-393).
31
più probabilmente: «più attendibilmente» (Galimberti).
32
gittare: perdere.
Letteratura italiana Einaudi
76
Giacomo Leopardi - Operette morali
molti, di malissima voglia, e non avendo letto le lodi della calvizie scritte da Sinesio33, o non essendone persuaso, che è più credibile, voleva sotto il diadema nascondere, come Cesare dittatore, la nudità del capo.
80
Ma per tornare al fatto, un giorno tra gli altri ragionando Prometeo con Momo34, si querelava35 aspramente che il vino, l’olio e le pentole fossero stati anteposti al
genere umano, il quale diceva essere36 la migliore opera
degl’immortali che apparisse nel mondo. E parendogli
85 non persuaderlo bastantemente a Momo37, il quale adduceva non so che ragioni in contrario, gli propose di
scendere tutti e due congiuntamente verso la terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle cinque
parti di quella scoprissero abitato dagli uomini; fatta
90 prima reciprocamente questa scommessa: se in tutti cinque i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti che l’uomo sia la più perfetta creatura
dell’universo38. Il che accettato da Momo, e convenuti
33
Sinesio: Sinesio di Cirene, scrittore dell’ultimo ellenismo di
un certo interesse storico e documentario (vissuto tra il 370 e il
415, fu vescovo di Tolemaide). Leopardi, che lo cita di sfuggita anche nella Storia dell’astronomia e nel Saggio sopra gli errori popolari
degli antichi, si riferisce qui a un testo scherzoso, il Falßkraj
ùnkÎmion (Encomio della calvizie).
34 Momo: nella letteratura greca rappresenta il biasimo personificato, e a lui Leopardi può dunque affidare la parte del «critico»
contro l’ingenuo ottimismo di Prometeo. Il personaggio si ritrova
in un brano dell’Ermotimo o delle sette di Luciano, che può aver
dato qualche spunto a Leopardi.
35
querelava: lamentava.
36
diceva essere: dichiarativa con l’infinito, alla latina; così subito
dopo (parendogli non persuaderlo).
37 non persuaderlo... a Momo: costruzione latina con l’accusativo
dell’oggetto e il dativo della persona (lo vale «di ciò»).
38
questa scommessa... universo: indicato nel titolo, ecco il tema
Letteratura italiana Einaudi
77
Giacomo Leopardi - Operette morali
del prezzo della scommessa, incominciarono senza in95 dugio a scendere verso la terra; indirizzandosi primiera-
mente al nuovo mondo39; come quello che pel nome
stesso, e per non avervi posto piede insino allora niuno
degl’immortali, stimolava maggiormente la curiosità.
Fermarono il volo nel paese di Popaian40, dal lato set100 tentrionale, poco lungi dal fiume Cauca, in un luogo dove apparivano molti segni di abitazione umana: vestigi
di cultura41 per la campagna; parecchi sentieri, ancorché
tronchi in molti luoghi, e nella maggior parte ingombri;
alberi tagliati e distesi; e particolarmente alcune che pa105 revano sepolture, e qualche ossa d’uomini di tratto in
tratto. Ma non perciò poterono i due celesti, porgendo
gli orecchi, e distendendo la vista per ogn’intorno, udire
una voce né scoprire un’ombra d’uomo vivo42. Andarono, parte camminando parte volando, per ispazio di
110 molte miglia; passando monti e fiumi; e trovando da per
tutto i medesimi segni e la medesima solitudine43.
dell’operetta; attraverso l’invenzione narrativa della scommessa l’esposizione del ragionamento assume la forma di un dibattito.
39 nuovo mondo: il continente americano. Il primo quadro del
viaggio di Prometeo e Momo dipende da diversi passi del libro che
Leopardi cita alla nota 17 [riportata qui alla nota 58] (molti altri
sono i rinvii nell’autografo), letto tra il settembre e il novembre del
1823 e già utilizzato, come si è visto, nelle riflessioni dello Zibaldone.
40
Popaian: nell’attuale Colombia.
41
vestigi di cultura: «resti di coltivazione» (vedi nota 43).
42
vivo: in contrapposizione alle sepolture e alle ossa; è l’assenza
di vita umana il dato più impressionante.
43 Andarono… solitudine: ai due visitatori appare un paesaggio
di misteriosa desolazione, che insospettisce Momo e che troverà
spiegazione solo al termine della visita; ne è causa la guerra inevitabile in una «società stretta», come spiega il passo dello Zibaldone
citato alla nota 59, dal quale deriva questa descrizione (cfr. lì vestigi di coltivazione con vestigi di cultura della nota 41, ecc.).
Letteratura italiana Einaudi
78
Giacomo Leopardi - Operette morali
Come44 sono ora deserti questi paesi, diceva Momo a
Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere
115 stati abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i tremuoti45, i temporali, le piogge strabocchevoli,
che sapeva essere ordinarie nelle regioni calde: e veramente in quel medesimo tempo udivano, da tutte le boscaglie vicine, i rami degli alberi che, agitati dall’aria,
stillavano continuamente acqua46. Se non che Momo
120 non sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta alle inondazioni del mare, così lontano
di là, che non appariva da alcun lato; e meno intendeva
per qual destino i tremuoti, i temporali e le piogge avessero avuto a disfare47 tutti gli uomini del paese, perdo125 nando agli sciaguari48, alle scimmie, a’ formichieri, a’ cerigoni49, alle aquile, a’ pappagalli, e a cento altre qualità
di animali terrestri e volatili, che andavano per quei dintorni. In fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono, come a dire, un piccolo mucchio50 di case o capanne
44
Come: introduce un’interrogativa: «come mai».
45
tremuoti: terremoti.
46
e veramente… acqua: nell’assenza di voci, il paesaggio è riconquistato dalla voce primigenia della natura: i rami agitati dall’aria e
lo stillare dell’acqua.
47
disfare: «distruggere» (come scrive Leopardi stesso tra le varianti alternative); cfr. Storia del genere umano, r. 99, e Palinodia al
marchese Gino Capponi, v. 161 e seg.: «Così natura ogni opra sua
[...] / [...] non prima / Vede perfetta, ch’a disfarla imprende».
48
sciaguari: giaguari.
49
cerigoni: «è nome d’un animale di color del bossolo, e grande
quant’una volpe»: così Leopardi impara da una passo di Francesco
Serdonati (1540-1602?) sul Brasile che sceglie per la Crestomazia
italiana (La Prosa) [p. 98; vedi Galimberti]. Il libro di Serdonati gli
è prestato dal Pepoli a Bologna, e infatti cerigoni fa parte di un’aggiunta marginale del manoscritto.
50 piccolo mucchio: in forte contrasto con i deserti incontrati prima e con la valle immensa; è la «piccola e incolta e povera borga-
Letteratura italiana Einaudi
79
Giacomo Leopardi - Operette morali
130 di legno, coperte di foglie di palma, e circondata ognuna
da un chiuso a maniera di steccato: dinanzi a una delle
quali stavano molte persone, parte in piedi, parte sedute, dintorno a un vaso di terra51 posto a un gran fuoco.
Si accostarono i due celesti, presa forma umana52; e Pro135 meteo, salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno che
accennava53 di essere il principale, interrogollo: che si
fa54?
SELVAGGIO. Si mangia, come vedi.
PROMETEO. Che buone vivande avete?
140
SELVAGGIO. Questo poco di carne.
PROMETEO. Carne domestica o salvatica?
SELVAGGIO. Domestica, anzi55 del mio figliuolo.
PROMETEO. Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae56?
tella di quattro capannucce» di Zibaldone, p. 3790 (citato alla nota
59). Tutto accentua il divario tra le aspettative di Prometeo e la
realtà.
51
vaso di terra: una gran marmitta di terracotta.
52
Si accostarono... umana: cfr. nota 189 della Storia del genere
umano.
53
accennava: manifestava.
54
che si fa?: nessuno stupore e venerazione per l’arrivo degli dei
(siamo del resto nel «mondo nuovo»); Prometeo è anzi nella condizione di inferiorità dell’estraneo che con un attacco spigliato e manifestando partecipazione («Che buone vivande») tenta di inserirsi
nella conversazione; ma alle sue curiosità risponde il tono dimesso
e imperturbabile con cui il Selvaggio descrive il proprio comportamento. Il rilievo «antropologico» (per il Selvaggio è naturale ciò
che a noi appare stupefacente) diventa in Leopardi idea narrativa,
prendendo spunto dal passo citato nella sua nota 17 (riportata qui
alla nota 58), del quale sottolinea la «forma di dire naturalissima»
(e cfr. nel testo spagnolo respondio mansamente).
55
anzi: come dire «la più domestica che ci sia».
56
Pasifae: la moglie di Minosse che, congiungendosi con un toro, diede alla luce il Minotauro.
Letteratura italiana Einaudi
80
Giacomo Leopardi - Operette morali
SELVAGGIO. Non un vitello, ma un uomo, come ebbero tutti gli altri57.
PROMETEO. Dici tu da senno? mangi tu la tua carne
propria?
SELVAGGIO. La mia propria no, ma ben quella di co150 stui: che per questo solo uso io l’ho messo al mondo, e
preso cura di nutrirlo.
PROMETEO. Per uso di mangiartelo?
SELVAGGIO. Che maraviglia? E la madre ancora, che
già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, penso
155 di mangiarla presto.
MOMO. Come si mangia la gallina dopo mangiate le
uova.
SELVAGGIO. E l’altre donne che io tengo, come sieno
fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi
160 miei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non
fosse per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, e
mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangerò
anche loro a uno a uno, se io campo58.
145
57
come... altri: in reazione a come ebbe Pasifae. Si noti il gioco
delle parti che domina queste battute: mentre Prometeo si stupisce
del comportamento del selvaggio e non vuole credere alle proprie
orecchie, l’altro si stupisce delle domande del dio.
58 campo: nota di leopardi: «(17) Voglio recare qui un luogo poco piacevole veramente e poco gentile per la materia, ma pure molto curioso da leggere, per quella tal forma di dire naturalissima,
che l’autore usa. Questi è un Pietro di Cieza, spagnuolo, vissuto al
tempo delle prime scoperte e conquiste fatte da’ suoi nazionali in
America, nella quale militò, e stettevi diciassette anni. Della sua veracità e fede nelle narrative, si può vedere la prima nota del Robertson al sesto libro della Storia d’America. Riduco le parole all’ortografia moderna. ‘La segunda vez que volvìmos por aquellos
valles, cuando la ciudad de Antiocha fué poblada en la sierras que
estàn por encima dellos, oì decir, que los señores ó caciques destos
valles de Nore buscaban por las tierras de sus enemigos todas las mugeres que podian; las quales traidas á sus casas, usaban con ellas como con la suyas proprias; y si se empreñaban dellos, los hijos que nacian los criaban con mucho regalo, hasta que habian doce ó trece
aiños; y desta edad, estando bien gordos, los comian con gran sabor,
Letteratura italiana Einaudi
81
Giacomo Leopardi - Operette morali
sin mirar que eran su substancia y carne propria: y desta manera tenien mugeres para solamente engendrar hijos en ellas para despues
comer; pecado mayor que todos los que ellos hacen. Y hàceme tener
por cierto lo que digo, ver lo que pasò con el licienciado Juan de Vadillo (que en este año està en España; y si le preguntan lo que digo
dirá ser verdad): y es, que la primera vez que entraron Christianos
espagñoles en estos valles, que fuímos yo y mis compañeros, vino de
paz un señorete, que habia por nombre Nabonuco, y traia consigo
tres mugeres; y viniendo la noche, las dos dellas se echaron á la larga
encima de un tapete ó estera, y la otra atraversada para servir de almohada; y el Indio se echó encima de los cuerpos dellas, muy tendido; y tomó de la mano otra muger hermosa que quedaba atras con
otra gente suya, que luego vino. Y como el licenciado Juan de Vadillo
le viese de aquella suerte, preguntéle que para qué habia traido
aquella muger que tenia de la mano: y mirandolo al rostro el Indio,
respondió mansamente, que para comerla; y que si él no hubiera venido, lo hubiera yà hecho. Vadillo, oido esto, mostrando espantàrse,
le dijo: ¿pues como, siendo tu muger, la has de comer? El cacique, alzando la voz, torné ó responder diciendo: mira, mira; y aun al hijo
que pariere tengo tambien de comer. Esto que he dicho, pasó en el
valle de Nore: y en él de Guaca, que es él que dije quedar atras, oí decir á este licenciado Vadillo algunas vezes, como supo por dicho de algunos Indios viejos, por las lenguas que traíamos, que cuando los naturale dél iban à la guerra, à los Indios que prendian en ella, hacian
sus esclavos; á los quales casaban con sus parientas y vecinas; y los
hijos que habian en ellas aquellos esclavos, los comian: y que despues
que los mismos esclavos eran muy viejos, y sin potencia para engendrar, los comian tambien á ellos. Y á la verdad, como estos Indios
non tenian fe, ni conocian al demonio, que tales pecados les hacia hacer, cuan malo y perverso era; no me espanto dello: porque hacer esto,
mas lo tenian ellos por valentia, eque por precado’. Parte primera de
la Chronica del Perù hecha por Pedro de Cieza, cap. 12, ed. de Anvers 1554, hoja 30 y seguiente». Riferendosi a questi stessi passi,
nel pensiero dello Zibaldone, citato, Leopardi scriveva: «Qual cosa
più contraria a natura di quello che una specie di animali serva al
mantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto sarebbe aver destinato un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo effettivamente quelle proprie parti di ch’ei si nutrisse. La natura ha destinato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento l’une
alle altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non per
eccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca,
e lo preferisca agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si trova in altra specie che nell’umana. Nazioni intere, di costumi quasi
primitive, se non che sono strette in una informe società, usano ordinariamente o usarono per secoli e secoli questo costume, e non
pure verso i nemici, ma verso i compagni, i maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli» (Zibaldone, p. 3797).
Letteratura italiana Einaudi
82
PROMETEO. Dimmi: cotesti schiavi sono della tua na165 zione medesima, o di qualche altra?
SELVAGGIO. D’un’altra.
PROMETEO. Molto lontana di qua?
SELVAGGIO. Lontanissima: tanto che tra le loro case e
le nostre, ci correva un rigagnolo59.
170
E additando un collicello, soggiunse: ecco là il sito
dov’ella era; ma i nostri l’hanno distrutta60. In questo
59 Lontanissima... rigagnolo: cfr. Zibaldone, pp. 3789-3791: «Venendo ora da più presso a mostrare quanto sia vero che l’odio verso gli altri, specialmente verso i simili, è assai maggiore nell’uomo
che negli altri animali, e quindi l’uomo è il più insociale di tutti gli
animali, perchè una società stretta di uomini [...] nuoce assai più
che non farebbe in niun’altra specie; considereremo la guerra [...].
E come la guerra nasca inevitabilmente da una società stretta qual
ch’ella sia, notisi che non v’ha popolo sì selvaggio e sì poco corrotto, il quale avendo una società, non abbia guerra, e continua e crudelissima. Videsi questo, per portare un esempio, nelle selvatiche
nazioni d’America, tra le quali non v’aveva così piccola e incolta e
povera borgatella di quattro capannucce, che non fosse in continua
e ferocissima guerra con questa o con quell’altra simile borgatella
vicina, di modo che di tratto in tratto le borgate intere scomparivano, e le intere provincie erano spopolate di uomini per man dell’uomo, e immensi deserti si vedevano e veggonsi ancora da’ viaggiatori, dove pochi vestigi di coltivazione e di luogo anticamente o
recentemente abitato attestano i danni, la calamità e la distruzione
che reca alla specie umana l’odio naturale verso i suoi simili posto
in atto e renduto efficace dalla società»; l’esempio deriva dal Cieça.
60 distrutta: nota di leopardi: «(18) ‘Le nombre des indigènes
indépendans qui habitent les deux Amériques décroît annuellement.
On en compte encore environ 500.000 au nord et à l’ouest des EtatsUnits, et 400.000 au sud des républiques de Rio de la Plata et du
Chili. C’est moins aux guerres qu’ils ont à soutenir contre les gouvernemens américains, qu’à leur funeste passion pour les liqueurs fortes
et aux combats d’extermination qu’ils se livrent entr’eux, que l’on
doit attribuer leur décroissement rapide. Ils portent à un tel point ces
deux excés, que l’on peut prédire, avec certitude, qu’avant un siècle
ils auront complètement disparu de cette partie du globe. L’ouvrage
de M. Schoolcraft (intitolato, Travels in the central portions of the
Mississipi valley; pubblicato a NewYork, l’anno 1825) est plein de
détails curieux sur ces propiétaires primitifs du Nouveau-Monde; il
Letteratura italiana Einaudi
83
Giacomo Leopardi - Operette morali
parve a Prometeo che non so quanti di coloro lo stessero
mirando con una cotal guardatura61 amorevole, come è
quella che fa il gatto al topo: sicché, per non essere man175 giato dalle sue proprie fatture62, si levò subito a volo; e
seco63 similmente Momo: e fu tanto il timore che ebbero
l’uno e l’altro, che nel partirsi, corruppero i cibi dei barbari con quella sorta d’immondizia che le arpie sgorgarono per invidia sulle mense troiane64. Ma coloro, più
180 famelici e meno schivi de’ compagni di Enea, seguitarono il loro pasto; e Prometeo, malissimo soddisfatto del
mondo nuovo, si volse incontanente65 al più vecchio, voglio dire all’Asia: e trascorso quasi in un subito l’intervallo che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambe185 due presso ad Agra66 in un campo pieno d’infinito
devra être d’autant plus récherché, que c’est, pour ansi dire, l’histoire
de la dernière période d’existence d’un peuple qui va s’éteindre’. Revue Encyclopédique, tom. 28, novembre 1825, pag. 444». Anche
questa nota, da cui Leopardi trae nuove conferme alle tesi già
espresse nell’operetta, è aggiunta durante il soggiorno bolognese,
durante il quale Leopardi poté leggere la Revue Encyclopédique,
che mancava nella sua biblioteca.
61
guardatura: modo di guardare (cfr. Vocabolario della Crusca).
62
fatture: creature (cfr. Storia del genere umano, nota 189).
63
seco: con lui.
64
e fu… troiane: cfr. Virgilio, Eneide, III, v. 209 e seg.: i troiani
di Enea e Anchise, sbarcati sulle isole Strofadi, ne sono scacciati da
un attacco delle Arpie, la cui «foedissima ventris proluvies» insozza il cibo imbandito.
65
incontanente: subito.
66
Agra: tra le principali città antiche dell’India, sede della corte
del Gran Mogol (o Mogor). Il nome del luogo e l’episodio sono
tratti (come Leopardi annota sull’autografo) dal libro di Danieilo
Bartoli, Missione al Gran Mogor del P. Ridolfo Acquaviva della
Compagnia di Giesù..., che Leopardi possedeva nell’edizione di
Roma, 1663. Il caso è citato anche in Zibaldone, p. 3798: «Le superstizioni, le vittime umane, anche di nazionali e compagni, immolate non per odio, ma per timore, come altrove s’è detto, e poi
per usanza; i nemici ancora immolati crudelissimamente agli Dei
Letteratura italiana Einaudi
84
Giacomo Leopardi - Operette morali
popolo, adunato intorno a una fossa colma di legne: sull’orlo della quale, da un lato, si vedevano alcuni con torchi67 accesi, in procinto di porle il fuoco; e da altro lato,
sopra un palco, una donna giovane, coperta di vesti sun190 tuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la
quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima allegrezza. Prometeo vedendo questo,
immaginava68 seco stesso una nuova Lucrezia o nuova
Virginia69, o qualche emulatrice delle figliuole di Eret195 teo, delle Ifigenie, de’ Codri, de’ Menecei, dei Curzi e
dei Deci, che seguitando la fede di qualche oracolo,
s’immolasse volontariamente per la sua patria70. Intensenza passione alcuna, ma solo per costume; il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità, per superstizione per uso; l’abbruciarsi
vive le mogli spontaneamente dopo le morti de’ mariti; il seppellire
uomini e dorme vive insieme co’ lor signori morti, come s’usava in
moltissime parti dell’America meridionale; ec. ec. son cose notissime».
67
torchi: torce.
68
Prometeo… immaginava: di nuovo Prometeo legge gli avvenimenti secondo la propria visione idealizzata, destinata a scontrarsi
con la realtà (cfr. rr. 197-198: Intendendo poi… pensò; rr. 201: Ma
saputo...).
69
Lucrezia... Virginia: eroine romane il cui onore fu riscattato o
difeso con la morte contro la violenza tirannica, diventando così
esempio di riscossa per tutti i cittadini. Virginia è personaggio caro
alla poesia di Leopardi; dopo aver immaginato un’intera canzone
«dove si finga di vedere in sogno l’ombra di Lei, e di parlargli teneramente tanto sul suo fatto quanto sui mali presenti d’Italia» (Le
poesie e le prose, op. cit., I, p. 700), ne fa la protagonista delle strofe finali di Nelle nozze della sorella Paolina.
70 qualche... patria: serie di esempi di eroine o eroi dell’età classica, tutti immolatisi secondo rituali antichi (seguitando la fede di
qualche oracolo), che pretendevano il sacrificio della vita per il bene della patria (la devotio romana). L’elenco deriva quasi tutto da
un passo di Cicerone (Tusculanae disputationes I, 48) richiamato da
Leopardi in un’annotazione dell’autografo insieme ad altre fonti
erudite. Vedi il passo di Zibaldone, pp. 3641-3642, dove si parla dei
sacrifici umani rimasti nell’antica Roma.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
dendo poi che la cagione del sacrificio della donna era la
morte del marito, pensò che quella, poco dissimile da
200 Alceste, volesse col prezzo di se medesima, ricomperare
lo spirito di colui71. Ma saputo che ella non s’induceva
ad abbruciarsi se non perché questo si usava di fare dalle donne vedove della sua setta, e che aveva sempre portato odio al marito, e che era ubbriaca, e che il morto, in
200 cambio di risuscitare, aveva a essere arso in quel medesimo fuoco72; voltato subito il dosso a quello spettacolo,
prese la via dell’Europa73; dove intanto che andavano74,
ebbe col suo compagno questo colloquio75.
MOMO. Avresti tu pensato quando rubavi con tuo
210 grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo
agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per
cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi
spontaneamente76?
71
Intendendo poi... colui: svanita la prima immaginazione, Prometeo s’illude di trovarsi di fronte a una nuova Alceste (altrimenti
Alcesti), «l’eroina della tragedia omonima di Euripide, votatasi alla
morte per salvare il marito Admeto» (Fubini).
72 Ma saputo... fuoco: ben diverso il caso da quello eroico e amoroso di Alcesti (e ormai rapida la disillusione di Prometeo): si usava
di fare, odio al marito, ubriaca.
73
Europa: il viaggio segue le tappe di un avvicinamento alla «civiltà».
74 dove… andavano: «e mentre vi andavano»; è un ricalco, proprio dell’italiano letterario, dell’uso latino di ubi prolettico, con
funzione di nesso relativo (= et ibi); vedi anche qui, r. 220, e Detti
memorabili di Filippo Ottonieri, p. 263. La locuzione intanto che è
annotata da Leopardi, poco prima di stendere quest’operetta, tra
le espressioni perfettamente corrispondenti nel greco antico e nelle
lingue romanze (cfr. Zibaldone, p. 4061, 7 aprile 1824; dove cita
esempi italiani da Guicciardini).
75 colloquio: dopo essersi limitato a esprimere dubbi (vedi rr. 8485, 113, 119 e seg.), ora, dopo le prime due visite, Momo ha elementi sufficienti per negare l’opinione di Prometeo.
76 Avresti... spontaneamente: ecco a cosa è servita la massima benemerenza di Prometeo, quel furto del fuoco agli dei, per cui ha
Letteratura italiana Einaudi
86
Giacomo Leopardi - Operette morali
PROMETEO. No per certo. Ma considera, caro Mo215 mo, che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono bar-
bari: e dai barbari non si dee far giudizio della natura
degli uomini; ma bene dagl’inciviliti: ai quali andiamo al
presente: e ho ferma opinione che tra loro vedremo e
udremo cose e parole che ti parranno degne, non sola220 mente di lode, ma di stupore77.
MOMO. Io per me78 non veggo79, se gli uomini sono
il più perfetto genere dell’universo80, come faccia di bisogno81 che sieno inciviliti perché non si abbrucino da
se stessi, e non mangino i figliuoli propri: quando che82
225 gli altri animali sono tutti barbari83, e ciò non ostante,
patito la punizione di essere incatenato a una rupe e roso quotidianamente da un’aquila. Momo sottolinea sarcasticamente (cuocersi
l’un l’altro, pignatte) il comportamento umano, che annulla ogni
grandezza tragica del gesto di Prometeo.
77
No per certo... stupore: la fiducia di Prometeo non è ancora
scalfita, poiché è nello stadio «incivilito» che si aspetta di veder
realizzata la natura «perfetta» dell’uomo (sarà la posizione poi di
Timandro, vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro, rr. 267-269).
Èquesta la tesi cui si oppone subito Momo, ma l’aspettativa creata
dalle certezze di Prometeo è destinata a una disillusione ancor più
viva: nella visita all’Europa si dovrà davvero stupire, ma per motivi
molto diversi da quelli previsti.
78
Io per me: nella lunga replica di Momo Leopardi raccoglie la
riflessione proposta in questa operetta. Si noti all’inizio la ripetizione del pronome di prima persona: di fronte alle parole di Prometeo, in cui sono rispecchiate idee dominanti, Momo Leopardi oppone la differenza della propria personale osservazione; la formula
è caratteristica di Leopardi, in particolare con Timandro e Tristano.
79
veggo: «vedo»; regge il successivo come.
80
se gli uomini… universo: ripete l’oggetto della scommessa (rr.
67-69).
81
faccia di bisogno: sia necessario.
82
quando che: dal momento che.
83
inciviliti... barbari: riprende l’opposizione usata da Prometeo.
Letteratura italiana Einaudi
87
Giacomo Leopardi - Operette morali
nessuno si abbrucia a bello studio84, fuorché la fenice,
che non si trova85; rarissimi si mangiano alcun loro simile; e molto più rari86 si cibano dei loro figliuoli, per qualche accidente insolito, e non per averli generati a que230 st’uso. Avverti eziandio87, che delle cinque parti del
mondo una sola88, né tutta intera, e questa non paragonabile per grandezza a veruna delle altre quattro, è dotata della civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole porzioncelle di un’altra parte del mondo89. E già tu
235 medesimo non vorrai dire che questa civiltà sia compiuta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o di Filadelfia90 abbiano generalmente tutta la perfezione che può
convenire alla loro specie. Ora, per condursi al presente
stato di civiltà non ancora perfetta, quanto tempo hanno
240 dovuto penare questi tali popoli? Tanti anni quanti si
possono numerare dall’origine dell’uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che erano o di
maggiore necessità o di maggior profitto al consegui-
Questa la prima argomentazione di Momo: se l’uomo è la creatura
più perfetta, perché deve aspettare di incivilire per non commettere tutti gli atti contro la propria specie, ai quali gli altri animali,
senza aver bisogno di alcun incivilimento, non ricorrono?
84
a bello studio: apposta.
85
la fenice, che non si trova: l’«araba fenice», l’uccello favoloso
che, dopo essersi bruciato, rinasce dalle proprie ceneri.
86
molto più rari: in correlazione con nessuno... rarissimi.
87
Avverti eziandio: (eziandio = «anche») Momo avanza una seconda serie di argomenti: se la perfezione dell’uomo si realizza con
la civiltà, come è possibile che ad essa arrivi solo una minoranza, e
neanche tutta, e attraverso scoperte occasionali?
88
una sola: l’Europa.
89
alcune… mondo: le zone «civilizzate» dell’America.
90
Parigi... Filadelfia: le capitali della «civilizzazione» in Europa
e in America.
Letteratura italiana Einaudi
88
Giacomo Leopardi - Operette morali
mento dello stato civile, hanno avuto origine, non da ra245 gione, ma da casi fortuiti: di modo che la civiltà umana è
250
255
260
265
opera della sorte più che della natura: e dove questi tali
casi non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che abbiano altrettanta età quanta i
popoli civili. Dico io dunque91: se l’uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a qualunque altro
animale; se la civiltà, che è l’opposto della barbarie, non
è posseduta né anche oggi se non da una piccola parte
del genere umano; se oltre di ciò, questa parte non è potuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se non
dopo una quantità innumerabile di secoli, e per beneficio massimamente del caso, piuttosto che di alcun’altra
cagione; all’ultimo, se il detto stato civile non è per anche perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza
circa il genere umano fosse più vera acconciandola92 in
questa forma: cioè dicendo che esso è veramente sommo
tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell’imperfezione, piuttosto che nella perfezione93; quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino continuamente l’una coll’altra; argomentando da certi cotali
presupposti che si hanno fatto essi, e tengonli per verità
palpabili94. Certo che gli altri generi di creature fino nel
91 Dico io dunque: Momo riprende tutte le proprie obiezioni in
una serie ordinata e serrata di domande.
92 acconciandola: «adattandola»; ma è un eufemismo, poiché
Momo propone il capovolgimento della sentenza di Prometeo.
93 sommo... perfezione: riprende i termini usati in Zibaldone, pp.
2898-2902.
94 quantunque... palpabili: è un’aggiunta successiva, che allude
probabilmente (come, in forma più estesa e complessa, Paralipomeni della Batracomiomachia, IV, vv. 1-20; si veda il commento di
Allodoli) al pensiero cattolico reazionario (De Maistre, De Bonald,
primo Lamennais), in cui si sosteneva che la perfezione dell’uomo
consistesse nella sua creazione a uno stadio di civiltà e di conoscenza già compiuto e corrispondente al volere divino, dal quale l’uomo per sua colpa era decaduto e al quale doveva tornare. Era un ti-
Letteratura italiana Einaudi
89
270
275
280
285
principio furono perfettissimi ciascheduno in se stesso.
E quando eziandio non fosse chiaro che l’uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado che l’essere naturalmente
imperfettissimo nel proprio genere, come pare che sia
l’uomo95, s’abbia a tenere in conto di perfezione maggiore di tutte l’altre. Aggiungi che la civiltà umana, così
difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a
compimento, non è anco stabile in modo, che ella non
possa cadere: come in effetto si trova essere avvenuto
più volte, e in diversi popoli, che ne avevano acquistato
una buona parte. In somma96 io conchiudo che se tuo
fratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbe
avere adoperato quando formò il primo asino o la prima
rana, forse ne riportava il premio che tu non hai conseguito97. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che
l’uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la sua
perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e per-
pico modo di riporre la perfezione umana in un’ambito assoluto, al
di fuori della natura, che Leopardi combatteva.
95 l’essere… l’uomo: per i motivi esposti nel passo citato dello
Zibaldone (pp. 2898-2902), cioè per il fatto di essere l’animale più
conformabile, cioè modificabile; questo è appunto ciò che viene tenuto in conto di perfezione, mentre andrebbe considerato il contrario.
96
In somma...: Momo conclude con una serie di battute ironi-
che.
97 se tuo fratello... conseguito: la frecciata è sarcastica; nel racconto greco (esposto da Platone nel Protagora, XI, 320c-322a; cito
nella traduzione di Adorno, ed. Laterza) Epimeteo, «al quale mancava compiuta sapienza», nel dare la vita ai modelli degli esseri viventi dotò tutti gli animali di diverse facoltà, lasciandone però privo l’ultimo, l’uomo, a cui dovette provvedere Prometeo rubando il
fuoco.
Letteratura italiana Einaudi
90
Giacomo Leopardi - Operette morali
fetto assolutamente; ma perché il mondo sia perfetto,
conviene che egli abbia in se, tra le altre cose, anco tutti
i mali possibili: però in fatti si trova in lui tanto male,
quanto vi può capire98. E in questo rispetto forse io con290 cederei similmente al Leibnizio che il mondo presente
fosse il migliore di tutti i mondi possibili99.
98 vi può capire: «ve ne può essere contenuto» (vedi nota seguente).
99
Pure... possibili: le idee di perfezione e di armonia assolute e
prestabilite di Plotino e di Leibniz rappresentano sistemi opposti e
addirittura risibili rispetto ai convincimenti di Leopardi (l’armonia
prestabilita viene considerata «assurda e ridicola» già nelle Dissertazioni filosofiche, p. 248). Tutto il brano è un’aggiunta successiva
nel manoscritto, insieme alla seguente annotazione: «Buhle Stor.
della Filos. mod. Mil. 1821. ec. t. 3 p. 200-201. 206». Il libro cui
Leopardi si riferisce è G. A. Buhle, Storia della filosofia moderna
dal risorgimento delle lettere sino a Kant... tradotta in lingua italiana da Vincenzo Lancetti, Milano, Dalla Tipografia di Commercio,
1821-1825 (in 12 tomi), che tratta a lungo anche della filosofia antica; Leopardi non lo possedeva, ma l’ebbe in prestito dall’amico
Pepoli durante il soggiorno bolognese (vedi la lettera dell’ottobre
1826). Ecco i passi in questione: «Perchè l’universo derivava dalla
Divinità, Plotino conchiudea ch’esso è perfetto, e non ha nè difetti,
nè lacune, nè imperfezioni. La causa suprema che lo ha prodotto è
l’idea della maggior perfezione, e l’ente che basta a se medesimo
più che nessun altro; essa non creò dunque il mondo per bisogno,
nè sopra un disegno, nè per uno scopo che potesse condurla a soddisfar quel bisogno; quindi l’universo è perfetto appunto per esser
sortito da un ente che possiede la perfezione in supremo grado
[…]. Plotino fu astretto di ammettere la perfezione assoluta del
mondo, perchè la facea derivare dal solo pensiero della Divinità,
con cui l’universo formava per conseguenza un solo e medesimo
ente» (Buhle, op. cit., pp. 200-201); «Ma Plotino valevasi parimenti di altre più importanti ragioni per far comprendere l’esistenza
del male. L’intelligenza divina è l’idea di tutte le cose immaginabili,
e per conseguenza le abbraccia in se tutte. Tutto esiste per lo pensiero di Dio. E dappoi che l’intelligenza divina comprende, ed è
tutto ciò che può esistere, essa dunque presenta e diversità e molteplicità. Tale diversità dee pure estendersi al grado di perfezione
delle cose, di maniera che sono esse più o meno perfette, potendo
essere così pensate dalla intelligenza divina, e così esistere realmen-
Letteratura italiana Einaudi
91
Giacomo Leopardi - Operette morali
Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine100
una risposta in forma distinta, precisa e dialettica101 a
tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la
295 diede102: perché in questo medesimo punto si trovarono
sopra alla città di Londra103: dove scesi104, e veduto105
gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una
casa privata106, messisi tra la folla, entrarono nella casa: e
te. Debbe dunque essere al mondo tanto male quant’era possibile che
ve ne fosse» (Buhle, op. cit., pp. 205-206; in corsivo una frase ripresa quasi letteralmente da Leopardi). Per quanto riguarda Io slogan
che caratterizza Leibniz (autore che Leopardi non conosceva direttamente, ma i punti fondamentali della cui filosofia, «monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate», considerava da tempo
«favole e sogni» [Zibaldone, p. 1857]), è ben probabile che sia un
ricordo del Candido, o dell’ottimismo di Voltaire (vedi Dialogo di
Malambruno e di Farfarello, nota 10), in cui fa da continuo ritornello ed è il primo oggetto di satira. Plotino sarà uno dei due locutori
del Dialogo di Plotino e di Porfirio, ma in un ruolo sostanzialmente
non dipendente dalla sua filosofia.
100
avesse a ordine: «tenesse pronta» (ma la locuzione con avere
a è forse un’innovazione di Leopardi).
101 dialettica: in senso tecnico; la dialettica «c’insegna tenzionare, contendere e disputare l’uno contro l’altro, e fare questione e
difese» (così un passo citato dal Vocabolario della Crusca, dal volgarizzamento del Tesoro di B. Latini, erroneamente attribuito a Bono
Giamboni).
102 Non si dubita... diede: con tono ossequioso e formale si riconosce ironicamente a Prometeo ciò che in realtà non può dare; da
qui «il contrasto tra la sostenutezza latineggiante della prima parte
del periodo [..] e la rapidità della negazione che la liquida» (Galimberti).
103 Londra: per la scelta della città e la fonte dell’episodio vedi
più oltre.
104
dove scesi: vedi nota 74.
105
veduto: forma invariabile del participio passato attivo, secondo il tipo «veduto la bellezza» (come è definito dai grammatici),
tradizionale nella prosa italiana (cfr. Serianni, Grammatica italiana,
XI, pp. 415-416).
106
privata: per questo sorprende il concorso della folla.
Letteratura italiana Einaudi
92
Giacomo Leopardi - Operette morali
trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, che
300 avea nella ritta107 una pistola; ferito nel petto, e morto; e
accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente
morti108. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che
un officiale109 scriveva.
PROMETEO. Chi sono questi sciagurati?
310
UN FAMIGLIO110. Il mio padrone e i figliuoli.
PROMETEO. Chi gli ha uccisi?
UN FAMIGLIO. Il padrone tutti e tre.
PROMETEO. Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?
315
UN FAMIGLIO. Appunto.
PROMETEO. Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta.
UN FAMIGLIO. Nessuna, che io sappia.
PROMETEO. Ma forse era povero, o disprezzato da
320 tutti, o sfortunato in amore, o in corte?
UN FAMIGLIO. Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo
stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva
molto favore.
107
ritta: mano destra.
108
e trovarono… morti: si faccia attenzione alla sintassi. Con
funzione predicativa di uomo si succedono una serie di elementi,
variati tra loro (participio passato con aggettivo in funzione avverbiale [disteso supino], frase relativa [che aveva], altro participio
passato con determinazione [ferito nel petto]), che si concludono
seccamente con morto; ma una eoordinazione riapre il quadro sui
fanciullini, con una frase all’infinito posta come improvvisata, al di
fuori di legami sintattici prestabiliti e «corretti» col resto del periodo (mantenendo però un parallelismo nella conclusione: medesimamente morti). Con questa esposizione dall’apparenza spontanea, Leopardi raggiunge il fine di rendere più impressivamente le
rivelazioni successive della scena.
109
officiale: funzionario.
110
famiglio: servitore.
Letteratura italiana Einaudi
93
Giacomo Leopardi - Operette morali
PROMETEO. Dunque come è caduto in questa dispe320 razione?
UN FAMIGLIO. Per tedio della vita, secondo che ha
lasciato scritto.
PROMETEO. E questi giudici che fanno?
UN FAMIGLIO. S’informano se il padrone era impaz325 zito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ricade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fare
che non ricada111.
PROMETEO. Ma, dimmi, non aveva nessun amico o
parente, a cui potesse raccomandare questi fanciullini,
330 in cambio d’ammazzarli?
UN FAMIGLIO. Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli era
molto intrinseco112, al quale ha raccomandato113 il suo
cane.
111 S’informano… ricada: secondo la legge inglese, ricordata da
Della Giovanna, il suicida per libera scelta (e non per qualche forma di costrizione) commetteva un reato e i suoi beni erano confiscati. È l’ultimo tratto per informare che è un caso di suicidio pienamente deliberato e senza motivi esterni. (Si ricordi il suicidio
degli uomini nella Storia del genere umano, r. 45 e seg., che avviene
«spontaneamente», «senza forza di necessità e senza altro concorso»).
112
intrinseco: amico.
113
cane: nota di leopardi: «(19) Questo fatto è vero». Nota aggiunta nell’edizione di Napoli, 1835, per certificare della realtà dell’ultima notizia, troppo dura per essere accettata come documento.
La fonte dell’episodio era già stata indicata da Della Giovanna in
un fatto raccontato sia alla voce Suicide dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, sia a quella De Caton, du Suicide del Dictionnaire
philosophique di Voltaire. Si può essere più precisi, perché l’articolo del Dictionnaire è tradotto nel primo torno di Voltaire, Opere
scelte appartenenti alla storia, alla letteratura ed alla filosofia, Londra [ma Venezia], Milocco, 1760, libro posseduto a Recanati e unica fonte volteriana (a parte Candido e le lettere a Federico II) che
Leopardi conoscesse prima delle Operette morali (negli Elenchi di
letture è registrato al marzo 1824). La «frequenza dei suicidi in Inghilterra» è una notizia che aveva colpito Leopardi già da tempo:
Letteratura italiana Einaudi
94
Giacomo Leopardi - Operette morali
Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i
335 buoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che ap-
pariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell’uomo, si
uccide volontariamente esso medesimo 114, né spegne
per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo
340 prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa.
cfr. Zibaldone, p. 177 («teoria del piacere»): «La profondità della
mente e la facoltà di penetrare nei più intimi recessi del vero dell’astratto ec. [...] forma tutta l’occupazione e quindi l’infelicità dei
settentrionali colti (osservate perciò la frequenza de’ suicidi in Inghilterra), i quali non hanno cosa che li distragga dalla considerazione del vero»; p. 484: «Non si è mai letto di nessun antico che si
sia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, e
vedi il suicidio ragionato di Buona-fede. Nè perchè questo accade
oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse comune in quel paese anche anticamente»; e vedi anche il cosiddetto
Frammento sul suicidio, in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1082.
104 nessun altro animale... medesimo: oltre a Zibaldone, pp.
3932-3936, vedi Zibaldone, pp. 3882-3884 (14 novembre 1823),
dove ritornando alla «snaturatezza» della società si nota: Per esempio il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi
fondamentali dell’esistenza, ai principii, alle basi dell’essere di tutte le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se
non dalla società? […]. Ora in niuna specie d’animali, neanche la
più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avessero
luogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturati
come quelli degl’individui e popoli umani in qualunque società,
ma molto meno».
Letteratura italiana Einaudi
95
DIALOGO DI UN FISICO
E DI UN METAFISICO
FISICO. Eureca, eureca1.
METAFISICO. Che è? che hai trovato2?
FISICO. L’arte di vivere lungamente3.
METAFISICO. E cotesto libro4 che porti?
1 Eureca, eureca: nota di leopardi: «(20) Famose voci di Archimede, quando egli ebbe trovato la via di conoscere il furto fatto
dall’artefice nel fabbricare la corona votiva del re Gerone».
2
hai trovato: eureca significa in greco «ho trovato».
3
lungamente: nota di Leopardi: «(21) I desiderosi di quest’arte
potranno in effetto, non so se apprenderla, ma studiarla certamente in diversi libri, non meno moderni che antichi: come, per modo
di esempio, nelle Lezioni dell’arte di prolungare la vita umana scritte ai nostri tempi in tedesco dal signor Hufeland, state anco volgarizzate e stampate in Italia. Nuova maniera di adulazione fu quella
di un Tommaso Giannotti medico di Ravenna, detto per soprannome il filologo, e stato famoso a’ suoi tempi; il quale nell’anno 1550
scrisse a Giulio terzo, assunto in quello stesso anno al pontificato,
un libro de vita hominis ultra CXX annos protrahenda, molto a proposito dei Papi, come quelli che quando incominciano a regnare,
sogliono essere di età grande. Sarebbe libro da ridere, se non fosse
oscurissimo. Dice il medico, averlo scritto a fine principalmente di
prolungare la vita al nuovo Pontefice, necessaria al mondo; confortato anche a scriverlo da due Cardinali, desideroso oltremodo dello stesso effetto. Nella dedicatoria, vives igitur, dice, beatissime pater, ni fallor, diutissime. E nel corpo dell’opera, avendo cercato in
un capitolo intero cur Pontificum supremorum nullus ad Petri annos
pervenerit, ne intitola un altro in questo modo: Iulius III papa videbit annos Petri et ultra; huius libri, pro longaeva hominis vita ac christianae religionis commodo, immensa utilitate. Ma il Papa morì
cinque anni appresso, in età di sessantasette. Quanto a se, il medico prova che se egli per caso non passerà o non toccherà il centoventesimo anno dell’età sua, non sarà sua colpa, e i suoi precetti
non si dovranno disprezzare per questo. Si conchiude il libro con
una ricetta intitolata, Iulii III vitae longaevae ac semper sanae consilium.»
4 libro: come se si trattasse di uno dei due autori citati da Leopardi nella nota 21 (qui riportata alla nota 3).
Letteratura italiana Einaudi
96
Giacomo Leopardi - Operette morali
5
10
15
20
25
FISICO. Qui la dichiaro5: e per questa invenzione, se
gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in
eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.
METAFISICO. Fa una cosa a mio modo. Trova una
cassettina di piombo6, chiudivi cotesto libro, sotterrala,
e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà
trovata l’arte di vivere felicemente7.
FISICO. E in questo mezzo8?
METAFISICO. In questo mezzo non sarà buono da
nulla. Più lo stimerei se contenesse l’arte di viver poco.
FISICO. Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu
difficile a trovarla.
METAFISICO. In ogni modo la stimo più della tua.
FISICO. Perché?
METAFISICO. Perché se la vita non è felice, che fino a
ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga9.
FISICO. Oh cotesto no: perché la vita è bene da se
medesima, e ciascuno la desidera e l’ama naturalmente.
METAFISICO. Così credono gli uomini; ma s’ingannano: come il volgo s’inganna pensando che i colori sieno
qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma
della luce10. Dico che l’uomo non desidera e non ama se
5
dichiaro: espongo.
6
di piombo: per resistere molto a lungo, visto quanto si dice subito dopo; ma commenta Porena: «non sfugga l’amara ironia: di
piombo si facevano solitamente le casse da morto».
7 vivere felicemente: in contrapposizione a vivere lungamente; in
sordina, è introdotto il tema del dialogo.
8
in questo mezzo: nel frattempo.
9
perché... lunga: ecco pienamente enunciato il tema, il cui contrasto col senso comune (r. 24: «così credono gli uomini») lascia
stupito il Fisico.
10 il volgo... luce: esempio tra i più significativi di inganno dovuto a una considerazione superficiale, che ritiene oggettivamente
Letteratura italiana Einaudi
97
Giacomo Leopardi - Operette morali
non la felicità propria11. Però12 non ama la vita, se non
in quanto la reputa instrumento13 o subbietto14 di essa
30 felicità. In modo che propriamente viene ad amare questa e non quella, ancorché spessissimo attribuisca all’una
l’amore che porta all’altra. Vero è che questo inganno e
quello dei colori sono tutti e due naturali. Ma che l’amore15 della vita negli uomini non sia naturale, o vogliamo
35 dire non sia necessario, vedi che 16 moltissimi ai tempi
esistente ciò che invece dipende dalla condizione percettiva del
soggetto. Come spiegava Leopardi già in una delle Dissertazioni filosofiche giovanili (Sopra la luce): «La diversa rifrangibilità della luce, provenendo secondo il Newton dalla diversa massa e velocità
delle particelle di luce, egli è facile il comprendere come l’anima
percepisca le diverse sensazioni dei colori poichè le particelle, che
hanno maggior velocità, e maggior mole commuovendo più fortemente la retina eccitano nell’anima la sensazione di un colore più
vivo quale è il rosso, e così viceversa. Un corpo poi apparisce di un
tal colore allorchè, secondo il sistema Newtoniano, le sue parti sono disposte in modo da riflettere solamente quelle molecole di luce, che lo compongono, ed assorbire le altre» (p. 137).
11 Dico... propria: il Metafisico riprende e rivela punto per punto
l’inganno dell’opinione del Fisico; per prima cosa risponde all’affermazione che ciascuno ama e desidera la vita.
12
Però: perciò.
13
instrumento: «mezzo a conseguire un dato fine od effetto»
(così il Vocabolario della Crusca).
14 subbietto: (= soggetto) «campo d’azione». Per la vicinanza dei
termini instrumento e subbietto, vedi anche Storia del genere umano, rr. 36-37.
15 Ma che l’amore...: il discorso risponde ora al naturalmente del
Fisico. Si segua il ragionamento: naturale è l’inganno, come le innumerevoli illusioni favorite dalla natura, non di per sé l’amore della vita; per evitare confusioni, Leopardi stesso specifica: «o vogliamo dire [...] necessario». Con necessario si intende ciò che appena
dopo è definito natura dell’uomo e natura di ogni vivente, vale a dire un dato immodificabile, inerente all’esistenza in sé, senza il quale l’esistenza non ci sarebbe; necessario è l’amore della propria felicità, non quello per la vita.
16
Ma che... vedi che: secondo un uso latino, poi molto diffuso
Letteratura italiana Einaudi
98
Giacomo Leopardi - Operette morali
antichi elessero17 di morire potendo vivere, e moltissimi
ai tempi nostri desiderano la morte in diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose che non potrebbero essere se l’amore della vita per se medesimo fosse
40 natura dell’uomo. Come essendo natura di ogni vivente
l’amore della propria felicità, prima cadrebbe il mondo,
che alcuno di loro lasciasse di amarla e di procurarla a
suo modo18. Che poi la vita sia bene per se medesima19,
aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o meta45 fisiche o di qualunque disciplina. Per me20, dico che la
vita felice, saria bene senza fallo21; ma come felice, non
come vita. La vita infelice, in quanto all’essere infelice, è
male; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini,
porta che vita e infelicità non si possono scompagnare22,
500 discorri23 tu medesimo quello che ne segua.
nella prosa letteraria italiana (ma raro in Leopardi), il che «equivale a un quod nel senso di quanto a ciò che» (Porena); il Metafisico
sta appunto richiamando un’affermazione del Fisico (rr. 22-23),
come farà più oltre (r. 43: «Che poi la vita...»).
17
elessero: scelsero.
18
Come... modo: cfr. Dialogo di Malambruno e di Farfarello, rr.
63-65. Il Come vale «così come invece».
19
Che poi... medesima: riprende la prima affermazione del Fisico (r. 20).
20
Per me: vedi La scommessa di Prometeo, r. 221.
21
senza fallo: senza dubbio.
22
la natura... scompagnare: cfr. Dialogo della Natura e di un’Anima, r. 29-30.
23 discorri: «considera, passa in rassegna mentalmente» (cfr. Detti memorabili di Filippo Ottonieri, VI, rr. 81-82).
24 malinconica: non è un generico richiamo alla «tristezza»; la
malinconia è in Leopardi l’inevitabile compagna dell’«infelicità dei
moderni», di chi ha scoperto la verità delle illusioni: «lo sviluppo
del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal pro-
Letteratura italiana Einaudi
99
Giacomo Leopardi - Operette morali
FISICO. Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è
troppo malinconica24; e senza tante sottigliezze, rispondimi sinceramente25: se l’uomo vivesse e potesse vivere
in eterno; dico senza morire, e non dopo morto26;credi
55 tu che non gli piacesse27?
METAFISICO. A un presupposto favoloso28 risponderò con qualche favola: tanto più che non sono mai vis-
gresso della filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, e
della vanità delle cose, e della infelicità umana, cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai
conoscere» (Zibaldone, p. 78-79). Il Fisico invece non vuole diventare Metafisico: «La malinconia per esempio fa vedere le cose e le
verità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello
in cui le fa vedere l’allegria [...]. E l’allegro e il malinconico ec. (siano pur due pensatori e filosofi, o uno stesso filosofo in due diversi
tempi e stati) sono persuasissimi di vedere il vero, ed hanno le loro
convincenti ragioni per crederlo. Vero è purtroppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia [...]; ed il vero filosofo nello
stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero
sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare,
e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle
cose, che veramente non l’hanno» (Zibaldone, pp. 1690-1691). Il
Fisico dunque si sottrae all’invito; senza neanche contrapporre un
proprio ragionamento, si trattiene al di qua degli approfondimenti
cui intende portarlo il Metafisico.
25
e senza... sinceramente: richiamo tipico al «senso comune»,
come se in esso solo stesse la «sincerità», mentre gli approfondimenti del Metafisico sarebbero sottigliezze, puri artifici intellettuali.
26 dico... morto: «vuol dire che non intende parlare d’immortalità dell’anima, ma d’immortalità del corpo» (Porena).
27
piacesse: si noti il congiuntivo invece del condizionale.
28
presupposto favoloso: impossibile «rispondere sinceramente»
al Fisico: l’immortalità non esiste, è una «favola»; così il Metafisico, dopo qualche battuta ironica, prosegue la propria dimostrazione sullo stesso terreno del Fisico, per via di «favole» (cioè con racconti tratti dall’invenzione mitologica, o altri di «mitologia»
moderna, come la fama di Cagliostro).
Letteratura italiana Einaudi
100
Giacomo Leopardi - Operette morali
suto in eterno, sicché non posso rispondere per esperienza; né anche ho parlato con alcuno che fosse immor60 tale; e fuori che nelle favole, non trovo notizia di persone di tal sorta. Se fosse qui presente il Cagliostro, forse
ci potrebbe dare un poco di lume; essendo vissuto parecchi secoli: se bene, perché poi morì come gli altri,
non pare che fosse immortale29. Dirò dunque che il sag65 gio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiò
della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e
morì30. Or pensa, se l’immortalità rincresce agli Dei, che
farebbe agli uomini31. Gl’Iperborei32, popolo incognito,
ma famoso; ai quali non si può penetrare, né per terra né
70 per acqua; ricchi di ogni bene; e specialmente di bellissimi asini, dei quali sogliono fare ecatombe; potendo, se
io non m’inganno, essere immortali; perché non hanno
infermità né fatiche né guerre né discordie né carestie né
vizi né colpe; contuttociò muoiono tutti: perché, in capo
29 Se fosse... immortale: celeberrimo in tutta Europa il caso di
Alessandro Cagliostro, nome d’arte (se così possiamo dire) di Giuseppe Balsamo; condannato dal Sant’Ufficio romano al carcere
perpetuo e rinchiuso nel forte romagnolo di San Leo, non troppo
lontano da Recanati, vi morì, dopo maltrattamenti disumani, il 26
agosto 1795. Tra le altre cose sosteneva appunto di essere vissuto
in tempi remotissimi e contrabbandava la ricetta di un «elixir di
lunga vita» (si legga la bella voce di C. Francovich nel Dizionario
Biografico degli Italiani).
30 morì: nota di leopardi: «(22) Vedi Luciano, Dial. Menip. et
Chiron. opp. tom. 1, pag. 514.» «Il Centauro Chirone maestro d’Achille, nel dialogo di Luciano, dice di essersi stancato dell’immortalità e d’aver voluto morire per variare stato» (Della Giovanna).
31
Or... uomini: ecco, pur attraverso il ricorso alle «favole», la risposta al Fisico.
32
Iperborei: per gli antichi Greci, nome di una popolazione mitica, abitante nell’estremo nord del mondo conosciuto. Tutto il
passo che li riguarda (fino ad annegano, r. 76) è stato aggiunto sul
manoscritto da Leopardi in un secondo tempo, in fondo all’operetta, basandosi sulle fonti citate nella sua nota 23 (riportata alla nota
seguente).
Letteratura italiana Einaudi
101
Giacomo Leopardi - Operette morali
75 a mille anni di vita o circa, sazi della terra, saltano spon-
taneamente da una certa rupe in mare, e vi si annegano33. Aggiungi quest’altra favola. Bitone e Cleobi fratelli34, un giorno di festa, che non erano in pronto le mule,
essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di
80 Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea
che rimunerasse la pietà de’ figliuoli col maggior bene
che possa cadere negli uomini. Giunone, in vece di farli
immortali, come avrebbe potuto; e allora si costumava;
fece che l’uno e l’altro pian piano35 se ne morirono in
85 quella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede e a
Trofonio36. Finito il tempio di Delfo, fecero instanza ad
Apollo che li pagasse: il quale rispose volerli soddisfare
fra sette giorni; in questo mezzo37 attendessero38 a far
33 annegano: nota di Leopardi: «(23) Pindaro, Pyth. od. 10 v. 46 et
seqq. Strabone, lib. 15, p. 710 et seqq. Mela, lib. 3, cap. 5. Plinio,
lib. 4, cap. 12 in fine.»
34 Bitone e Cleobi fratelli: l’episodio qui ripreso, sempre tratto
da racconti greci, deriva da uno dei vari passi che colpirono l’interesse di Leopardi leggendo l’opera del Barthélemy e insieme gli
Opuscoli morali di Plutarco tradotti da Marcello Adriani (vedi Storia del genere umano, nota 66). Ecco l’appunto che ne trasse allora
sullo Zibaldone, p. 2675: «Dans les transports de sa joie (Cydippe
la prêtesse de Junon), elle supplia la Déesse d’accorder à ses fils
(Biton et Cleobis) le plus grand des bonheurs. Ses voeux furent,
dit-on, exaucés: un doux sommeil les saisit dans le temple même
(de Junon, entre Argos et Mycènes) et les fit tranquillement passer
de la vie à la mort; comme si les dieux n’avoient pas de plus grand
bien à nous accorder, que d’abréger nos jours [...]. Aggiungi Plutarco nel libro della consolazione ad Apollonio, volgarizzamento di
Marcello Adriani il giovine, Firenze, 1819, t. I, p. 189, e vedi ciò
ch’egii soggiunge a questo proposito».
35 pian piano: cfr. il passo del Barthélemy citato nella nota precedente: «et les fit traquillement passer...».
36 Agamede... Trofonio: nell’opera di Plutarco utilizzata per l’episodio precedente, a quello segue subito quest’altro.
37
in questo mezzo: vedi nota 8.
38
rispose… attendessero: sintassi sveltita e variata a fini narrati-
Letteratura italiana Einaudi
102
Giacomo Leopardi - Operette morali
gozzoviglia a loro spese. La settima notte, mandò loro
90 un dolce sonno, dal quale ancora s’hanno a svegliare; e
avuta questa, non dimandarono altra paga. Ma poiché
siamo in sulle favole, eccotene un’altra, intorno alla quale ti vo’ proporre una questione39. Io so che oggi i vostri
pari40 tengono per sentenza certa, che la vita umana, in
95 qualunque paese abitato, e sotto qualunque cielo, dura
naturalmente, eccetto piccole differenze, una medesima
quantità di tempo, considerando ciascun popolo in
grosso. Ma qualche buono antico42 racconta che gli uomini di alcune parti dell’India e dell’Etiopia non campa100 no oltre a quarant’anni; chi muore in questa età, muor
vecchissimo; e le fanciulle di sette anni sono di età da
marito. Il quale ultimo capo sappiamo che, appresso a
poco, si verifica nella Guinea, nel Decan e in altri luoghi
sottoposti alla zona torrida. Dunque, presupponendo
105 per vero che si trovi una o più nazioni, gli uomini delle
quali regolarmente non passino i quarant’anni di vita; e
ciò sia per natura, non, come si è creduto degli Ottentotti43, per altre cagioni; domando se in rispetto a quevi; da rispose dipendono una dichiarativa implicita e una esplicita,
entrambe con l’omissione della preposizione.
39 Ma... questione: senza lasciare il tono leggero e ironico del
suo discorso, col quale ha del resto già risposto all’obiezione del
Fisico, il Metafisico porta il ragionamento a un punto successivo.
40
i vostri pari: gli altri «fisici».
41
antico: nota di leopardi: «(24) Plinio, lib. 6, cap. 30; lib. 7,
cap. 2. Arriano, Indic., cap. 9.»
42 sappiamo: un’annotazione dell’autografo indica la fonte della
notizia in Buffon.
43 Ottentotti: così spiega Della Giovanna: «Di questi abitatori
della parte più meridionale dell’Africa, si è creduto che non per
naturale disposizione, ma per acquisita debolezza non avessero vita
lunga […]. Ma l’aut. che doveva aver letto, nella Raccolta del
Cook, a cui egli s’era associato, come si apprende dall’Epistolario
(vol. I, lett. 10 [v. lettere all’editore Stella del 12 e del 30 maggio
1817]), i viaggi del Le Vaillant nell’Africa, attribuisce ad altre ca-
Letteratura italiana Einaudi
103
Giacomo Leopardi - Operette morali
sto, ti pare che i detti popoli debbano essere più miseri
110 o più felici degli altri44?
FISICO. Più miseri senza fallo, venendo a morte più
presto45.
METAFISICO. Io credo il contrario anche per cotesta
ragione. Ma qui non consiste il punto46. Fa un poco di
115 avvertenza47. Io negava che48 la pura vita, cioè a dire il
semplice sentimento dell’esser proprio, fosse cosa amabile e desiderabile per natura. Ma quello che forse più
degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato e
120 desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azione
o passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole o
dolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce grata,
eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole49.
gioni la breve durata di vita degli Ottentotti»; infatti una nota dell’autografo rinvia a Buffon, che riporta l’idea comune, aggiungendo «V. però le Vaillant [...]».
44
ti pare... altri: ecco la questione preannunciata a r. 93 e seg.
45
Più miseri… presto: opinione conseguente a ciò che il Fisico
sostiene fin dall’inizio.
46
Ma qui... punto: il Metafisico ha posto la questione per arrivare ad un ulteriore approfondimento, o sottigliezza, come direbbe il
Fisico.
47 Fa... avvertenza: «segui col pensiero». Su «avvertire nel senso
di por mente» si sofferma l’appunto di Zibaldone, p. 3992, che rinvia anche al Vocabolario della Crusca, dove troviamo questo esempio del Segneri: «Fatevi un poco d’avvertenza speciale».
48
Io negava che...: il Metafisico si riallaccia a quanto diceva all’inizio, r. 25 e seg., proponendo però una distinzione più accurata;
con vita si intende sempre un sentire l’esistenza, ma in ciò che indica la stessa parola occorre distinguere due gradi diversi: una specie
di «grado zero» («pura vita»), che è il «semplice sentimento dell’esser proprio»; e un grado più intenso, che è la vita cosciente nel pieno sentire le sensazioni; a questo livello (che potremmo chiamare
«vitalità») spetta più degnamente il nome di vita, o, come il Metafisico dirà alla fine, di vera vita.
49
Ma quello… dilettevole: la vita consiste nelle sensazioni, e cre-
Letteratura italiana Einaudi
104
Giacomo Leopardi - Operette morali
Ora in quella specie d’uomini, la vita dei quali si consu125 masse naturalmente in ispazio di quarant’anni50, cioè
nella metà del tempo destinato dalla natura agli altri uomini; essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più viva
il doppio di questa nostra: perché, dovendo coloro crescere, e giungere a perfezione, e similmente appassire e
130 mancare, alla metà del tempo; le operazioni vitali della
loro natura, proporzionalmente a questa celerità, sarebbero in ciascuno istante doppie di forza per rispetto a
quello che accade negli altri; ed anche le azioni volontarie di questi tali, la mobilità e la vivacità estrinseca51,
135 corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di modo che essi avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità di vita52 che abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero d’anni basterebbe a
riempierli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella non
140 basta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto,
sarebbero quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la
sce con il crescere della loro efficacia e copia; l’essere vivente ama e
ricerca dunque le sensazioni, non l’esistenza in sé. Oltre alla «teoria
del piacere», cfr. Storia del genere umano, rr. 14-15: «traendo da
ciascun sentimento della loro vita incredibili diletti»; e Beccaria,
Ricerche intorno alla natura dello stile, in Scritti filosofici e letterari,
a cura di L. Firpo, G. Francioni e G. Gaspari, Milano, Mediobanca, 1984 (Edizione Nazionale, vol. II), p. 90: «Al numero e alla varietà delle sensazioni è preferibile la grandezza e la vivacità di esse».
50 in quella specie... quarant’anni: richiama le popolazioni di cui
ha parlato prima (r. 78 e seg.), ma il congiuntivo consumasse indica
che al Metafisico interessa elaborare un’ipotesi («Posto che possa
esistere una specie d’uomini che...»), secondo un’impostazione già
data da Leopardi nel pensiero che è tra le fonti più importanti di
questa operetta (vedi Zibaldone, p. 3512, nota 1).
51
estrinseca: verso l’esterno.
52
vita: s’intende appunto quella che «più degnamente ha nome
di vita».
Letteratura italiana Einaudi
105
Giacomo Leopardi - Operette morali
loro età; dove che nella nostra, molto più lunga, restano
spessissimi e grandi intervalli, vòti di ogni azione e affe145 zione viva53. E poiché non il semplice essere, ma il solo
essere felice, è desiderabile54; e la buona o cattiva sorte
di chicchessia non si misura dal numero dei giorni; io
conchiudo che la vita di quelle nazioni, che quanto più
breve, tanto sarebbe men povera di piacere, o di quello
150 che è chiamato con questo nome55, si vorrebbe anteporre56 alla vita nostra, ed anche a quella dei primi re dell’Assiria, dell’Egitto, della Cina, dell’India, e d’altri paesi; che vissero, per tornare alle favole, migliaia d’anni.
Perciò, non solo io non mi curo dell’immortalità, e sono
155 contento di lasciarla a’ pesci; ai quali la dona il
Leeuwenhoek57, purché non sieno mangiati dagli uomi53
La quale... viva: con la metafora dello spazio pieno e vuoto il
Metafisico torna a chiarire la propria idea; il «semplice sentimento
dell’essere proprio» è come uno spazio vuoto, che si riempie solo
quando si hanno azioni e sensazioni, quando è vivificato. Le stesse
riflessioni erano già svolte nello Zibaldone, pp. 4062-4063. Si noti
inoltre il gioco dei sinonimi: «azione e affezione viva» sostituisce
nell’autografo «sensazioni vive», e richiama a distanza «azione o
passione viva e forte» (r. 122).
54
E poiché... desiderabile: la ripresa del discorso svolto nella prima parte (rr. 27-28) è ora arricchita dalle riflessioni intermedie,
benché il passaggio non sia del tutto esplicito; distinguendosi dal
semplice essere, l’essere felice coincide appunto col diletto provocato da «qualunque azione e passione viva e forte» (cfr. il passo dello
Zibaldone citato nella nota precedente).
55 o di quello.., nome: perché in realtà non si tratta di un piacere
vero (ma è un altro discorso: vedi Dialogo di Malambruno e di Farfarello, rr. 73-75).
56
anteporre: preferire.
57
Leeuwenhoek: il riferimento deriva (come dichiara una nota
marginale dell’autografo) da Buffon, che, a proposito della grande
longevità dei pesci, commenta: «Non dirò col Leeuwenhoek, che i
pesci sieno immortali, o per lo meno che non possano morir di vecchiezza» (t. III, p. 374). Anton van Leeuwenhoek fu un celebre naturalista olandese (1632-1723), che per primo identificò al microscopio gli spermatozoi.
Letteratura italiana Einaudi
106
Giacomo Leopardi - Operette morali
ni o dalle balene; ma, in cambio di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per allungare la vita, come propone il Maupertuis58, io vorrei che la potes160 simo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse
alla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri,
dei quali si dice che i più vecchi non passano l’età di un
giorno, e contuttociò muoiono bisavoli e trisavoli59. Nel
qual caso, io stimo che non ci rimarrebbe luogo alla
165 noia60. Che pensi di questo ragionamento?
FISICO. Penso che non mi persuade; e che se tu ami
la metafisica, io m’attengo alla fisica: voglio dire che se
tu guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne contento61. Però senza metter mano al microscopio62, giudi170 co che la vita sia più bella della morte63, e do il pomo a
quella, guardandole tutte due vestite64.
58 Maupertuis: nota di leopardi: «(25) Lettres philosophiques,
let. 11.»
59 alcuni insetti… trisavoli: come indica una nota dell’autografo,
la fonte di queste righe è un passo di Genovesi, che Leopardi aveva
da tempo trascritto e commentato sullo Zibaldone. La precisazione
«chiamati efimeri» è aggiunta invece da Leopardi nell’edizione fiorentina del 1834, perché l’aveva desunta da un articolo dell’Encyclopédie methodique solo nell’aprile del 1827, proprio mentre la
prima edizione delle Operette morali era in stampa, mentre attorno
agli «efimeri» nasceranno nuove riflessioni, riprese e messe a frutto
nello stendere il Dialogo di Tristano e di un amico, scritto nel 1832 e
per la prima volta edito appunto nel 1834 (vedi Zibaldone, pp.
4270 e 4272, e nel Dialogo di Tristano e di un amico, nota 72).
60
noia: che corrisponde dunque al vuoto «di ogni azione e affezione viva» ( vedi infatti r. 208); il tema, qui appena toccato, è svolto poi nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, vedi
r. 166 e seg.
61
voglio dire... contento: cfr. rr. 51-55.
62
senza… microscopio: lo sguardo del Metafisico andrebbe così
tanto pel sottile che è necessario il microscopio.
63 giudico... morte: si noti che il Fisico non risponde propriamente al ragionamento del Metafisico, che non affermava affatto la
superiorità della morte sulla vita; da qui la successiva risposta.
Letteratura italiana Einaudi
107
Giacomo Leopardi - Operette morali
METAFISICO. Così giudico anch’io65. Ma quando mi
torna a mente il costume di quei barbari, che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano in un tur175 casso66 una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca67, penso quanto poco numero delle bianche è
verisimile che fosse trovato in quelle faretre alla morte68
di ciascheduno, e quanto69 gran moltitudine delle nere.
E desidero vedermi davanti tutte le pietruzze dei giorni
180 che mi rimangono; e, sceverandole70, aver facoltà di gittar via tutte le nere, e detrarle dalla mia vita; riserbandomi solo le bianche: quantunque io sappia bene che non
farebbero gran cumulo, e sarebbero di un bianco torbido71.
FISICO. Molti, per lo contrario, quando anche tutti i
185
sassolini fossero neri, e più neri del paragone72; vorreb64
do il pomo... vestite: «La frase è tutta allusiva al giudizio di Paride, che dovendo aggiudicare il pomo gittato fra Giunone, Minerva e Venere, alla più bella delle tre dee, volle vederle nude. Il Fisico
invece si contenta di veder la Vita e la Morte vestite, ossia vuol giudicarle senza sofisticare troppo» (Porena).
65
Così... anch’ io: naturalmente, posta l’alternativa vita/morte;
ma subito il Metafisico cerca di riportare il discorso al proprio ragionamento, cui il Fisico è sfuggito.
66
turcasso: come faretra di r. 177, è il contenitore cilindrico delle frecce.
67
bianca: nota di Leopardi: «(26) Suida, voc. Leuc¬ Ωmera.»
68
alla morte: «è frase, tra gli altri, del Guicc[iardini] 3.348», annota Leopardi sul manoscritto, preferendola alla variante alternativa dopo la morte.
69
quanto: avverbio.
70
sceverandole: distinguendole.
71
bianco torbido: per il motivo già detto alla nota 55.
72
paragone: normale, fino a tempi recenti, invece di «pietra di
paragone».
73
e anche la morte... modo: per dire che tutti questi tentativi non
Letteratura italiana Einaudi
108
Giacomo Leopardi - Operette morali
bero potervene aggiungere, benché dello stesso colore:
perché tengono per fermo che niun sassolino sia così nero come l’ultimo. E questi tali, del cui numero sono an190 ch’io, potranno aggiungere in effetto molti sassolini alla
loro vita, usando l’arte che si mostra in questo mio libro.
METAFISICO. Ciascuno pensi ed operi a suo talento: e
anche la morte non mancherà di fare a suo modo73. Ma
se tu vuoi, prolungando la vita, giovare agli uomini vera195 mente; trova un’arte per la quale sieno moltiplicate di
numero e di gagliardia74 le sensazioni e le azioni loro.
Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita umana,
ed empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei
quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere, ti po200 trai dar vanto di prolungarla76. E ciò senza andare in
cerca dell’impossibile, o usar violenza alla natura77, anzi
secondandola78. Non pare a te che gli antichi vivessero
più di noi, dato ancora che, per li pericoli gravi e contiavranno un vero risultato (cfr. la nota 21 di Leopardi, riportata alla
nota 3).
74 numero e di gagliardia: cfr. rr. 118-119, l’efficacia e la copia delle sensazioni. Per tutto il passo cfr. la lettera allo Jacopssen del 23
giugno 1823: «Sans doute, mon cher ami, ou il ne faudrait pas vivre, ou il faudrait toujours sentir, toujours aimer, toujours espérer.
La sensibilité ce serait le plus précieux de tous les dons, si l’on
pouvait le faire valoir, ou s’il y avait dans ce monde à quoi l’appliquer».
75
smisurati... tempo: riprende la metafora usata in precedenza,
ma la perorazione conclusiva del Metafisico lascia che al linguaggio
dell’analisi morale more geometrico usato in precedenza (r. 127 e
seg.: «essa vita… sarebbe più viva il doppio... nella metà del tempo... proporzionatamente» «spessissimi e grandi intervalli», ecc.) si
mescolino parole più evocative: smisurati intervalli.
76 Nel qual modo... prolungarla: è una questione di intensità, non
di lunghezza. Durare equivale al semplice sentimento dell’esser proprio (r. 116), e rappresenta molto meglio, con meno concretezza
della variante alternativa campare una vuota continuità di tempo.
Cfr. per contro Al conte Carlo Pepoli, vv. 12-18: «La schiera industre/ [...] / Se oziosa dirai, da che la vita / È per campar la vita, e
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109
Giacomo Leopardi - Operette morali
nui che solevano correre, morissero comunemente più
205 presto79? E farai grandissimo beneficio agli uomini: la
cui vita fu sempre, non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio80. Ma piena d’ozio e di
tedio, che è quanto dire vacua81, dà luogo82 a creder ve-
per se sola / La vita all’uom non ha pregio nessuno / Dritto e vero
dirai»; passo come si vede conseguente anche alle riflessioni qui
svolte.
77 senza... natura: come vorrebbe fare invece il Fisico con le sue
«invenzioni».
78
anzi secondandola: perché corrisponde all’ordine da lei stabilito, secondo il disegno con cui Leopardi concludeva il seguito delle riflessioni che portano a questa operetta. Del «vitalismo» di Leopardi è documento particolare (quasi unico nelle sue espressioni,
in seguito infatti messe in discussione) il pensiero di Zibaldone, p.
3813 (31 ottobre 1823), dove si legge: «L’amor della vita, il piacere
delle sensazioni vive, dell’aspetto della vita ec. […], è ben consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa
ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua
operazione alla vita».
79
Non pare... presto: cfr. Zibaldone, p. 625 e seg., e pp. 13301332 (che a quello si richiama): «Ho detto altrove che nell’antico
sistema delle nazioni la vitalità era molto maggiore e la mortalità
minore che nel moderno. Non intendo con ciò fondarmi sopra la
maggior durata possibile della vita umana in quei tempi che adesso
[…]. Ma io suppongo, e bisogna generalmente supporre, che l’antichità nota a noi non potesse viver più di quello che si possa vivere
oggidì. La maggior vitalità del tempo antico, non è quanto alla potenza, ma quanto all’effetto, vale a dire la realizzazione della potenza. Vale a dire che, non potendo gli antichi vivere più lungamente
di quello che possano i moderni, vivevano però, generalmente parlando, più di quello che i moderni vivano».
80 la cui vita… disagio: cfr. r. 92 e seg. e rr. 112-113. Vedi anche
Al conte Carlo Pepoli, vv. 33-34: «e pieno, / Poi che lieto non può,
corresse il giorno».
81
Ma... vacua: cfr. r. 165.
82
dà luogo: «dare adito, modo, facoltà», come spiega il Vocabolario della Crusca (voce Luogo).
Letteratura italiana Einaudi
110
Giacomo Leopardi - Operette morali
210 ra quella sentenza di Pirrone83, che dalla vita alla morte
non è divario84. Il che se io credessi, ti giuro che la morte mi spaventerebbe non poco85. Ma in fine, la vita
debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio86.
83
Pirrone: il più celebre filosofo della scuola scettica.
84
dalla vita… divario: il Metafisico risponde così alle affermazioni di «buon senso» del Fisico: la vita può essere uguale alla morte, se non è vita vera.
85 Il che... poco: si noti la forza paradossale dell’affermazione,
che da sola capovolge tutta l’impostazione dell’altro interlocutore;
il Fisico si basa sul rifiuto della morte in ogni modo, mentre il Metafisico rifiuta la noia, la mancanza di vita felice, ecc.; cfr. questo
passo di una lettera ad Angelo Mai: «Io sarò debitore a V. S. di
molto più che della vita, perché la vita non è un bene per se medesima; bensì l’infelicità e la disperazione totale della vita, è un sommo male quaggiù» (30 marzo 1821).
86 Ma infine… pregio: cfr. Zibaldone, p. 2415: «La vita è fatta naturalmente per la vita, e non per la morte. Vale a dire è fatta per
l’attività, e per tutto quello che v’ha di più vitale nelle funzioni de’
viventi».
Letteratura italiana Einaudi
111
DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO
GENIO FAMILIARE1
GENIO. Come stai, Torquato2?
TASSO. Ben sai come si può stare in una prigione, e
dentro ai guai fino al collo.
GENIO. Via, ma dopo cenato non è tempo da doler5 sene3. Fa buon animo, e ridiamone insieme.
1
nota di leopardi: «(27) Ebbe Torquato Tasso, nel tempo dell’infermità della sua mente, un’opinione simile a quella famosa di
Socrate; cioè credette vedere di tratto in tratto uno spirito buono
ed amico, e avere con esso lui molti e lunghi ragionamenti. Così
leggiamo nella vita del Tasso descritta dal Manso: il quale si trovò
presente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamo
chiamare.» genio familiare: corrisponde al daàmon («demone»)
con cui Socrate aveva continua e interiore (familiare, appunto)
conversazione, secondo il racconto di Platone; vedi specialmente
Apologia 31d: «c’è dentro me non so che spirito divino e demoniaco [...]. Ed è come una voce che io ho in me fino da fanciullo»
(trad. Valgimigli edita da Laterza). E così ne parla Cicerone nel De
divinatione che Leopardi aveva da poco finito di leggere prima della stesura di questa operetta: «Hoc nimirum est illud, quod de Socrate accepimus, quodque ab ipso in libris Socraticorum saepe dicitur: esse divinum quiddam, quod daim’nion appellat, cui semper
ipse paruerit numquam impellenti, saepe revocanti» (I, LIV 122).
Il paragone tra lo «spirito» dei soliloqui del Tasso e il demone di
Socrate e proposto dal Muratori, come si è visto; ma è già indicato
dal Tasso ne Il Messaggero: «[demone] buono fu quello che con
Socrate così era usato di ragionare, com’io teco da alcuni anni ragiono» (I, 243).
2
Come stai, Torquato?: l’attacco colloquiale del Genio dà l’intonazione all’atmosfera e allo stile dell’operetta.
3 dopo cenato... dolersene: vedi infatti la conclusione dell’operetta; cfr. Zibaldone, p. 3835: «L’esaltamento di forze proveniente da’
liquori o da’ cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona, come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico [...], essendo un accrescimento di vita, accresce l’effetto essenziale di essa, ch’è il desiderio del piacere, perocchè
coll’intensità della vita cresce quella dell’amor proprio, e l’amor
proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere»; e
Letteratura italiana Einaudi
112
Giacomo Leopardi - Operette morali
TASSO. Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue
parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.
GENIO. Che io segga? La non è già cosa facile a uno
spirito. Ma ecco: fa conto ch’io sto seduto.
10
TASSO. Oh potess’io rivedere la mia Leonora4. Ogni
volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di
gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultima
punta de’ piedi; e non resta in me nervo né vena che non
sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell’a15 nimo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza delle sciagure e
degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto5.
p. 3881: «Il vino, il cibo, ec. dà talvolta una straordinaria prontezza
vivacità, rapidità, facilità, fecondità d’idee».
4 Oh... Leonora: la prima, la più pressante, delle immagini che
s’affacciano alla mente di Tasso è quella della donna amata, che domina la prima parte del «colloquio» col Genio. Leonora è Eleonora d’Este, sorella di Alfonso II, duca di Ferrara, di cui una tradizione nata almeno colla biografia del Manso ha voluto che Tasso fosse
innamorato e che questa fosse la causa principale delle sue disgrazie; questo amore infelice è uno dei motivi principali della fortuna
di Tasso nell’età romantica (vedi qui anche rr. 56-57).
5 Talora… morto: i «due tempi» del Tasso, prima e dopo «aver
fatto esperienza delle sciagure e degli uomini», corrispondono al
mutamento con cui Leopardi rappresentava la propria evoluzione:
vedi i passi dello Zibaldone citati in Introduzione. Lo schema autobiografico (qui realizzato attraverso Tasso) rimane vivo anche per
opere progettate in seguito, ma non realizzate; vedi la lettera al
Colletta del marzo 1829: «Colloqui dell’io antico e dell’io nuovo;
cioè di quello che io fui, con quello ch’io sono; dell’uomo anteriore
all’esperienza della vita e dell’uomo sperimentato» (cfr. anche nei
Disegni letterari, IX, in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 701). Il ritorno delle «immagini» e degli «affetti», come si chiarirà maggiormente in seguito, indica il rinnovarsi della sensibilità «antica», fanciullesca, delle illusioni; cfr. la conclusione della Storia del genere
umano, in particolare rr. 548-551. Ma vedi anche testimonianze posteriori alle Operette morali: Il risorgimento, v. 37 e seg.: «Giacqui:
insensato, attonito, / Non dimandai conforto: / Quasi perduto e
morto, / Il cor s’abbandonò. / Qual fui! quanto dissimile / Da quel
Letteratura italiana Einaudi
113
Giacomo Leopardi - Operette morali
In vero, io direi che l’uso del mondo, e l’esercizio de’ pa20 timenti6, sogliono come profondare7 e sopire dentro a
ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di
tratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto più di
rado quanto è il progresso degli anni; sempre più poi si
ritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di
25 prima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore.
In fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna
abbia tanta forza, da rinnovarmi, per così dire, l’anima,
e farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che io
non ho più speranza di rivederla, crederei non avere an30 cora perduta la facoltà di essere felice8.
che tanto ardore, Che sì beato errore / Nutrii nell’alma un dì!» e
vv. 89-92: «Siete pur voi quell’unica / Luce de’ giorni miei? / Gli
affetti ch’io perdei / Nella novella età?»; le lettere a Paolina con gli
annunci del ritorno alla poesia, del 25 febbraio 28: «Vi assicuro
che in materia d’immaginazioni, mi pare di essere tornato al mio
buon tempo antico», e del 2 maggio 28: «dopo due anni, ho fatto
dei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio
cuore d’una volta». Vedi anche Zibaldone, p. 1651: «Non v’è uomo
così certo della malizia delle donne ec. che non senta un’impressione dilettevole, e una vana speranza all’aspetto di una beltà che gli
usi qualche piacevolezza [...]. Egli è sempre più o meno soggetto a
ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell’amore, ch’egli ha
conosciuto e sperimentato impossibile, immaginario, vano. Non
v’è uomo così profondamente persuaso della nullità delle cose, della certa e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra d’allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto più vana) alle
speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la fortuna gli
sorride un momento».
6 esercizio de’ patimenti: richiama il racconto dell’Islandese (vedi Dialogo della Natura e di un Islandese, rr. 39-40 e 51-52); già nella Storia del genere umano, r. 145, uso dei patimenti, ma qui (sostituendo esercizio a uso, che è stata spostata nella locuzione
precedente) è ancora più forte il contrasto tra l’idea attiva di esercizio e la passiva di patimenti: la sofferenza è costitutiva della vita.
7
profondare: far scendere nel profondo.
8
E se... felice: cfr. Alla sua donna, vv. 25-30: «Se vera e quale il
mio pensier ti pinge, / Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora / Que-
Letteratura italiana Einaudi
114
Giacomo Leopardi - Operette morali
GENIO. Quale delle due cose stimi che sia più dolce:
vedere la donna amata, o pensarne9?
TASSO. Non so. Certo che quando mi era presente,
ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare
35 una dea10.
GENIO. Coteste dee sono così benigne, che quando
alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi11.
sto viver beato: / E ben chiaro vegg’io siccome ancora / Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni / L’amor tuo mi farebbe»; anche dal
raffronto con questa canzone del 1823 risulta evidente che la Leonora del Tasso è la donna immaginata, la «donna che non si trova»
di Leopardi (questa è la sua stessa definizione presentando la poesia), artefice «sentimentale» del rinnovamento, secondo quanto
esposto nella canzone e nella parte conclusiva della Storia del genere umano. Si vedano infatti le espressioni usate da Tasso: «ella mi
torna in mente», «il pensiero di una donna»; e poi «lontana… una
dea».
9 Quale... pensarne?: l’intervento del Genio mira a rendere più
esplicito, più cosciente, quanto risulta dal discorso di Tasso.
10
lontana… dea: cfr. ancora (come sottolinea Galimberti) Alla
sua donna, vv. 1-2: «Cara beltà che amore / Lunge m’inspiri». Vedi
Zibaldone, pp. 3305-3306 e 3308 (nota): «E però l’uomo si rappresenta la donna in genere, e in ispecie quella ch’egli ama, come cosa
divina, come un ente di stirpe diversa dalla sua ec.». Cfr. tuttavia
anche il passo di Byron citato alla nota seguente.
11 Coteste... innanzi: la donna reale è ben diversa dalla «dea» immaginata. La rappresentazione coi caratteri tipici del tono comico
carica l’ironia del Genio (vedi «ripiegano la loro divinità, si spiccano [staccano] i raggi d’attorno e se li pongono in tasca, per non abbagliare...»; cfr. la rappresentazione della Fortuna nel Dialogo di un
Folletto e di uno Gnomo, r. 29 e seg., e inoltre la vicinanza lessicale
«spiccare»/«appiccare»); ma è in special modo una parodia de I lamenti di Tasso di Byron, vedi: «Idol mi sembravi al culto esposto
Sovr’ara cinta di cristal: da lungi Ti adoravo, e baciavo umilemente
Il suol dall’aura tua santificato. Non era già la Principessa, ch’io
Veneravo così: ti avea l’amore Quasi di gloria circondata, e sparse
Avea le forme tue di tal bellezza Che timor m’inspiravano... che
dissi? Ah no! che m’inspiravano rispetto, Simile a quel, che un santo Nume inspira. In quella tua severità soave Eravi un non so che
Letteratura italiana Einaudi
115
Giacomo Leopardi - Operette morali
TASSO. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare
egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova12, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo?
GENIO. Io non so vedere che colpa s’abbiano in que45 sto, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare13. Qual cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi
pensate che abbia a essere nelle donne14? E anche mi
pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomi50 ni sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le
donne in fatti non sieno angeli.
TASSO. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio
di rivederla, e di riparlarle15.
55
GENIO. Via, questa notte in sogno io te la condurrò
davanti; bella come la gioventù16; e cortese in modo, che
40
di ancor più grato Della stessa pietà» (Byron, op. cit., p. 12). Byron
deriva da una nota canzone di Tasso per Leonora d’Este: «Mentre
ch’a venerar movon le genti Il tuo bel nome in mille carte accolto,
quasi in sacrato tempio idol celeste» (vv. 1-3), che dal confronto
non pare però direttamente presente a Leopardi.
12
alla prova: nei fatti.
13
Io... nettare: prosegue il parallelo donna/dea avviato dal Tasso
(ambrosia e nettare sono il cibo e la bevanda degli dei dell’Olimpo). Come nota Della Giovanna, Leopardi svolgerà poi l’idea
nell’Aspasia, vv. 37-48.
14 Qual cosa... donne?: per il tema misogino, oltre alle finali, crude espressioni di Aspasia, vedi l’operetta Proposta di premi fatta
dall’Accademia dei Sillografi (una delle cui invenzioni è la «donna
ideale»).
15
Con tutto questo... riparlarle: Tasso riporta il discorso al punto
da cui l’aveva avviato (r. 10: «Oh potess’io rivedere la mia Leonora»).
16
bella come la gioventù: altro tratto colloquiale del Genio, con
un paragone di semplicità popolare.
Letteratura italiana Einaudi
116
Giacomo Leopardi - Operette morali
tu prenderai cuore di favellarle17 molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso18, ti
185 metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.
TASSO. Gran conforto: un sogno in cambio del ve185 ro19.
GENIO. Che cosa è il vero?
TASSO. Pilato non lo seppe meno di quello che lo so
io20.
17
favellarle: rivolgerle la parola.
18
guardandoti fiso: fiso è avverbio (come prima franco e spedito)
e l’espressione, di lunga tradizione letteraria, corrisponde a guardavalo fissamente, del Dialogo della Natura e di un Islandese (rr. 1718). Per tutta la scena cfr. Il sogno, vv. 79 e seg.: «concedi, o cara, /
Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto / Soave e tristo, la porgeva», «d’affannosa / Dolcezza palpitante all’anelante / Seno la
stringo», «Quando colei teneramente affissi / Gli occhi negli occhi
miei [...]»; vedi anche Consalvo, v. 60, «fiso il guardo» della «bellissima donna». Come ricorda Galimberti, «sono aspetti canonici di
una situazione ricorrente nella tradizione poetica italiana»; ma va
notato il ricorso in particolare alla tradizione stilnovista, nei modi
già riscontrati nella Storia del genere umano (cfr. nota 201). Al nostro proposito, cfr. Dante, Vita nuova, XI, 3 «E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi per
soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo [...] molte volte si movea come cosa grave inanimata»; XXVI, Tanto gentile, 910, «Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per li occhi una
dolcezza al core / che ‘ntender no la può chi no la prova».
19 Gran... vero: è la battuta che introduce il secondo motivo del
dialogo.
20 Pilato... io: cfr. Vangelo secondo Giovanni, 18: «Dixit itaque ei
Pilatus: ‘Ergo rex es tu?’. Respondit Iesus: ‘Tu dicis quia rex sum
ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimonium perhibeam veritati; omnis qui est ex veritate audit meam vocem’. Dicit ei Pilatus: ‘Quid est veritas?’».
Letteratura italiana Einaudi
117
Giacomo Leopardi - Operette morali
GENIO. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal ve70 ro al sognato, non corre altra differenza, se non che que-
sto può qualche volta essere molto più bello e più dolce,
che quello non può mai21.
TASSO. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?
75
GENIO. Io credo. Anzi ho notizia di uno22 che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in
alcun sogno gentile23, esso per tutto il giorno seguente,
21
Sappi... mai: l’origine di queste considerazioni va rintracciata
nelle riflessioni sulla «teoria del piacere»: «L’immaginazione come
ho detto è il primo fonte della felicità umana [...]. La cognizione
del vero cioè dei limiti e definizioni delle cose circoscrive l’immaginazione [...]. E notate in secondo luogo che la natura ha voluto che
l’immaginazione non fosse considerata dall’uomo come tale, cioè
non ha voluto che l’uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la confondesse con la facoltà conoscitrice, e perciò avesse i
sogni dell’immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dall’immaginario come dal vero (anzi più, perchè l’immaginario ha
forze più naturali, e la natura è sempre superiore alla ragione)» (Zibaldone, p. 168); vedi anche Zibaldone, p. 57: «Una terza sorgente
degli stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni»; e
quindi Storia del genere umano, rr. 116-124.
22
uno: è Leopardi stesso; cfr. la lettera allo Jacopssen del 23 giugno 1823 in cui Leopardi, dopo essersi chiesto: «Celle-ci [la sociéte] ne devrait-elle pas s’appliquer à réaliser les illusions autant qu’il
serait possible, puisque le bonheur de l’homme ne peut consister
dans ce qui est réel?» (cfr. qui la domanda di Tasso delle rr. 73-74),
così prosegue: «Dans l’amour, toutes les jouissances qu’éprouvent
les âmes vulgaires, ne valent pas le plaisir que donne un seul instant de ravissement et d’émotion profonde. Mais comment faire
que ce sentiment soit durable, ou qu’il se renouvelle souvent dans
la vie? où trouver un coeur qui lui réponde? Plusieurs fois j ‘ai
évité pendant quelques jour de rencontrer l’objet qui m’avait
charmé dans un songe délicieux. Je savais que ce charme aurait été
détruit en s’approchant de la réalité. Cependant je pensais toujours
à cet objet, mais je ne le considérais d’après ce qu’il était; je le contemplais dans mon imagination, tel qu’il m’avait paru dans mon
songe».
23 gentile: cioè nobile, elevato, e insieme dolce (nella lettera allo
Jacopssen il songe délicieux si distingue dai piaceri delle anime vul-
Letteratura italiana Einaudi
118
Giacomo Leopardi - Operette morali
fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che
ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine
80 che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero,
cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però24 non sono da
condannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile
85 alla natura umana, se ebbero per costume di procurare
in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni25; né
Pitagora è da riprendere per avere interdetto il mangiare
delle fave, creduto contrario alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a intorbidarli26, e sono da scusare i su90 perstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare27 e far
libazioni28 a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne
menasse loro di quei lieti; l’immagine del quale tenevano
a quest’effetto intagliata in su’ piedi delle lettiere29. Cogaires; cfr. anche Il pensiero dominante, v. 123: «gentili inganni»).
Anche Socrate in Detti memorabili di Filippo Ottonieri è detto «nato con animo assai gentile» (p. 258).
24
Però: Perciò.
25
Però… sogni: per il motivo detto più chiaramente alle rr. 9495; i riferimenti provengono tutti dai materiali del giovanile Saggio
sopra gli errori popolari degli antichi (capitolo V, Dei sogni). Si noti
che il Genio, rivolgendosi a Tasso, lo comprende all’interno dei
«moderni» in cui rientrano Leopardi e i suoi lettori: «gli antichi,
molto più... di voi [moderni]».
26
intorbidarli: nota di leopardi: «(28)Apollonio, Hist. commentit. cap. 46. Cicerone, de Divinat. lib. 1, cap. 30; lib. 2, cap. 58.
Plinio, lib. 18, cap. 12. Plutarco, Convival. Quaestion. lib. 8, quaest. 10, opp. tom. 2, p. 734. Dioscoride, de Materia Medica lib. 2,
cap. 127.» Cfr. Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in Le
poesie e le prose, II, p. 265.
27
orare: pregare.
28
libazioni: offerte rituali di liquidi.
29
lettiere: nota di leopardi: «(29) Meursio, Exercitat. critic.
par. 2, lib. 2, cap. 19, opp. vol. 5, col. 662.» Cfr. Saggio..., in Le poesie e le prose, II, p. 259.
Letteratura italiana Einaudi
119
Giacomo Leopardi - Operette morali
sì, non trovando mai la felicità nel tempo della vigilia30,
95 si studiavano di essere felici dormendo: e credo che in
parte, e in qualche modo, l’ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.
TASSO. Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al31 solo piacere, o del corpo o dell’animo; se da altra
100 parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni,
converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual
cosa, in verità, io non mi posso ridurre32.
GENIO. Già vi sei ridotto e determinato, poiché33 tu
vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere34?
105
TASSO. Non ne ho tanta pratica da poterlo35 conoscere che cosa sia.
GENIO. Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per
ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale36; un desiderio, non un fatto; un senti-
30
vigilia: il periodo in cui si è svegli (cfr. per esempio «dalla vigilia al sonno, dal sonno alla vigilia», Dissertazione sopra i sogni, in
Dissertazioni filosofiche, p. 24).
31
al: per il.
32
Per tanto... ridurre: il Tasso comincia ad assecondare i ragionamenti del Genio, benché arretri ancora davanti a una conclusione che appare paradossale.
33
poiché: «nel momento in cui» (si consideri la congiunzione
come divisa, poi infatti ripresa dal secondo che). Ciò che al Tasso
suona paradossale è invece il fondamento della possibilità di vivere; non solo vi è ridotto passivamente, ma attivamente determinato,
in quanto consente, è d’accordo a vivere.
34 Che cosa è il piacere?: anticipata la conclusione, il Genio incalza socraticamente Tasso a ragionare da sé.
35
poterlo: lo è «il piacere».
36
Nessuno... reale: cfr. Zibaldone, p. 2629: «Da quello che altrove ho detto e provato, che il piacere non è mai presente, ma sempre solamente futuro, segue che propriamente parlando, il piacere
è un ente (o una qualità) di ragione, e immaginario», creato cioè
dalla nostra mente, non esistente in rerum natura.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
110 mento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova;
o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento37.
Non vi accorgete voi38 che nel tempo stesso di qualun37 e non un sentimento: perché anche il sentimento è una forma
di esperienza, cioè un avvenimento in qualche misura reale.
38
Non vi accorgete voi...: per tutto il passo che segue cfr. Zibaldone, p. 532 e seg.: «Il piacere umano (così probabilmente quello
di ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo)
si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un
piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io
ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è
piacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande; ci apre un nuovo campo di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la possibilità di arrivare a certi desideri; ci mette in migliori circostanze
pel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all’opinione e persuasione nostra, ai successi, alle prosperità che ci promettiamo dietro quella prova, quel saggio fattone, ec. Io provo un piacere: come? ciascun individuale istante dell’atto del piacere, è
relativo agl’istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agl’istanti che seguono, vale a dire al futuro. In questo istante il
piacere ch’io provo, non mi soddisfa, e siccome non appaga il mio
desiderio, così non è ancora piacere, ma ecco che senza fallo io lo
proverò immediatamente; ecco che il piacere crescerà, ed io sarò
intieramente soddisfatto. Andiamo più avanti: ancora non provo
vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo. Questo è
il discorso, il cammino, l’occupazione, l’operazione, e la sensazione
dell’animo nell’atto di qualunque siasi piacere. Giunto l’ultimo
istante, e terminato l’atto del piacere, l’uomo non ha provato ancora il piacere: resta dunque o scontento, o soddisfatto comunque,
per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva, di
averlo provato; e va ruminando, e compiacendosi di quello che ha
sentito, e provando così un altro piacere, il di cui oggetto è bensì
passato, ma non il piacere (perché come può essere passato quello
che non è mai stato, e che è sempre futuro?) e l’atto di questo nuovo piacere è composto di una successione d’istanti della stessa natura che l’altro atto; e quindi parimente futuro: o finalmente resta
con una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque non possa il
suo piacere riferirsi più agl’istanti successivi di quell’atto, ch’è già
finito, si riferisce ad altri atti; l’idea del così detto piacere provato,
gli dà un’idea di quelli ch’egli crede di poter provare; concepìsce
una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risolu-
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Giacomo Leopardi - Operette morali
que vostro diletto, ancorché desiderato infinitamente, e
procacciato con fatiche e molestie indicibili; non poten115 dovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più
vero, nel quale consista insomma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl’istanti futuri di
quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi
120 al39 giungere dell’istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e
più veramente in altra occasione, e il conforto di
fingere40 e narrare a voi medesimi di aver goduto, con
raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma
125 per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi
stessi41. Però42 chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare43; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
zione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così prova
un piacere, ma sempre ed ugualmente futuro [...]. Così il piacere
non è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. E
la ragione è, che non può esserci piacer vero per un essere vivente,
se non è infinito; (e infinito in ciascun istante, cioè attualmente) e
infinito non può mai essere, benché ciascuno creda che può essere,
e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza […] è quello che si chiama piacere; è tutto il piacere possibile. Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro».
39
innanzi ai: prima del.
40
fingere: «rappresentare» come se fosse vero.
41
con raccontarlo… stessi: cfr. anche Zibaldone, p. 2685: «A noi
pare bene spesso di provar del piacere dicendo, o fra noi stessi o
con altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero che il piacere
non può mai esser presente, e quantunque da ciò segua ch’esso
non può neanche mai esser passato, tuttavia si può quasi dire
ch’esso può piuttosto esser passato che presente».
42
Però...: è ancora il Genio a chiudere la dimostrazione, tornando alle conclusioni già anticipate.
43
sognare: qui, come nota Fubini, per mantenere il discorso
Letteratura italiana Einaudi
122
TASSO. Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente44?
GENIO. Sempre che credessero cotesto, godrebbero
in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti
ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io go135 do. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o
futuro, e non mai presente45.
TASSO. Che è quanto dire è sempre nulla.
140
GENIO. Così pare.
TASSO. Anche nei sogni.
GENIO. Propriamente parlando.
TASSO. E tuttavia46 l’obbietto e l’intento della vita
nostra, non pure essenziale47 ma unico, è il piacere stes145 so; intendendo per piacere la felicità, che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere48.
130
coerente lungo il tema del sognare, il senso della parola s’allarga al
significato più generale di «immaginare».
44
presentemente: in quel momento.
45
Ma narrami tu... presente: cfr. Zibaldone, pp. 3745-3746: «Il
piacere è sempre passato o futuro, e non mai presente, nel modo
stesso che la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno, o sempre
condizionata e non mai assoluta: e così è impossibile che altri dica
con pieno sentimento di vero dire, e con piena sincerità e persuasione, io provo un piacere, ancorchè menomo, quantunque tutti dicono io n’ho provato e proverò» (vedi anche 2883-2884 e 3526, e il
passo citato alla nota 41). Cfr. anche il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, rr. 23-25: «passeggere: Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? venditore: No in verità, illustrissimo».
46 E tuttavia...: è finalmente Tasso a procedere sulla strada indicata dal Genio.
47
essenziale: nel senso proprio di «necessario all’esistenza».
48
che debbe... procedere: la coincidenza di piacere e felicità è uno
dei dati fondamentali della riflessione leopardiana (basti rinviare a
Letteratura italiana Einaudi
123
Giacomo Leopardi - Operette morali
GENIO. Certissimo.
TASSO. Laonde la nostra vita, mancando sempre del
150 suo fine, è continuamente imperfetta49: e quindi il vivere
è di sua propria natura uno stato violento50.
Zibaldone, p. 165; la felicità, qualunque ne sia l’origine, deve essere
sensibilmente percepibile come piacere. Significativo a questo proposito il confronto con le affermazioni scolastiche di Leopardi giovane: «Epicuro Filosofo, il di cui solo nome è bastante per iscreditare qualsivoglia ipotesi, afferma che la felicità non consiste che nel
piacere [...]. Per quanto speciosa però apparir possa questa ipotesi,
essa non è in conto alcuno ammissibile [...]» (Dissertazione sopra la
Felicità, in Dissertazioni filosofiche, pp. 166-167).
49 mancando… imperfetta: vedi Zibaldone, p. 1355: «Giacchè la
perfezione o imperfezione e corruzione, si deve misurare dal fine
di ciascheduna cosa, e non già assolutamente».
50 stato violento: cfr. lettera al Giordani del 21 novembre 1817:
«e pensando al futuro non vedea come potessi vivere altrimenti
che in uno stato simile a quello dell’anima divisa dal corpo il quale
dicono i filosofi che sia violento». Il riferimento si può forse spiegare sulla base di un concetto tradizionale della filosofia scolastica,
cfr. Aristotele, De anima, 413 : «È chiaro dunque che l’anima non è
separabile dal corpo, o almeno – se per natura essa è divisibile –
non sono separabili certe sue parti» (trad. di Alda Barbieri, Bari,
Laterza, 1957, p. 37). Ma l’espressione proviene forse dal francese
e in particolare, per Leopardi, da Rousseau, cfr. La Nouvelle Héloïse, VI, 6: «On supporte un état violent, quand il passe. Six mois,
un an ne sont rien; on envisage un terme et l’on prend courage.
Mais quand cet état doit durer toujours, qui est-ce qui le supporte?». Stato violento è un ossimoro che Leopardi adotta per significare una condizione di fortissima, impossibile agitazione per la
mancanza di un appagamento però necessario. Vedi infatti Zibaldone, pp. 1988-1990 (pensiero che vedremo utilizzato anche in seguito): «L’uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non
distrugge mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l’uomo prova nel non far nulla. L’assuefazione in tanto può influire sull’inazione, in quanto può trasportare l’azione dall’esterno all’interno, e
l’uomo forzato a non muoversi, o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l’abito di operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d’immaginare, di
trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come
fanno i fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non
Letteratura italiana Einaudi
124
Giacomo Leopardi - Operette morali
GENIO. Forse.
TASSO. Io non ci veggo forse51. Ma dunque perché
viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo52 di vive155 re?
GENIO. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi,
che siete uomini.
TASSO. Io per me ti giuro che non lo so.
GENIO. Domandane altri de’ più savi53, e forse tro160 verai qualcuno che ti risolva cotesto dubbio54.
quella che intorpidisce o estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l’oppio, il letargo, una totale prostrazione di forze ec.)
non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di pura
inazione è tanto grave all’uomo dopo dieci anni di assuefazione,
quanto la prima volta. La nullità, il non fare, il non vivere, la morte,
è l’unica cosa di cui l’uomo sia incapace, e alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero che l’uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è
nato per fare, e per fare tanto vivamente, quanto egli è capace, vale
a dire che l’uomo è nato per l’azione esterna ch’è assai più viva dell’interna [...]. Quanto all’azione interna dell’immaginazione, essa
sprona e domanda impazientemente l’esterna, e riduce l’uomo a
stato violento, se questa gli è impedita. E quella infatti agognano i
giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire senza
metter la loro natura in istato violento» (26 ottobre 1821). E quindi pp. 4074-4075: «Dunque la vita è un male e un dispiacere per
se, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmente
piacere. In fatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichè
naturalmente priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio,
fine e perfezione, che è la felicità. E non cessando questa violenza,
non v’è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere» (20 aprile 1824).
51
Io... forse: Tasso è giunto rapidamente a domande radicali.
52
consentiamo: tutta l’espressione riprende quella del Genio, rr.
79-80.
53 Domandane... savi: «Chiedilo a qualcun’altro tra i più sapienti»; domandare regge, come il latino quaerere, il complemento oggetto.
54 forse... dubbio: detto ironicamente, perché, come risulta anche dalla battuta seguente di Tasso, nessuno può essere «più sapiente» di chi ha patito la sventura.
Letteratura italiana Einaudi
125
Giacomo Leopardi - Operette morali
TASSO. Così farò. Ma certo questa vita che io meno,
è tutta uno stato violento55: perché lasciando anche da
parte i dolori, la noia sola mi uccide56.
GENIO. Che cosa è la noia?
TASSO. Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfa165
re alla tua domanda. A me pare che la noia57 sia della na-
55
Così… violento: qualunque possa essere la risposta altrui,
Tasso torna all’affermazione di prima, perché è in ogni modo valida per lui. Analogo procedimento (lo nota anche Galimberti) nel
Dialogo di Tristano e di un amico (rr. 300-301) e nel Canto notturno
di un pastore errante dell’Asia, vv. 103-104 («Qualche bene o contento / Avrà fors’altri; a me la vita è male»).
56 uccide: cfr. il passo di Zibaldone, p. 175 citato nella nota seguente. Per «tedio della vita» si uccide l’inglese de La scommessa di
Prometeo.
57
A me pare che la noia...: è per bocca del Tasso che Leopardi
svolge la prima analisi della noia nelle Operette morali. Cfr. Zibaldone, pp. 174-175 («teoria del piacere»): «In somma la noia non è
altro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra
esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo. Se non fosse la
tendenza imperiosa dell’uomo al piacere sotto qualunque forma, la
noia, quest’affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto abborrita, non esisterebbe. E infatti per che motivo l’uomo dovrebbe
sentirsi male, quando non ha male nessuno? [...] E pur vediamo
che soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque travaglio a quello
stato (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici consultati dal duca di Brancas, se la noia potesse uccidere [...]). Non per
altro se non per un desiderio ingenito e compagno inseparabile
dell’esistenza, che in quel tempo non è soddisfatto, non ingannato,
non mitigato, non addormentato». E quindi Zibaldone, p. 3622 (7
ottobre 1823): «Sempre che l’uomo non prova piacere alcuno, ei
prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliam dir dispiacere
qualunque, o e’ non s’accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai propriamente che l’uomo provi piacer vero, segue che mai
per niuno intervallo di tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia
con dispiacere o con noia [...]»; dal quale Leopardi rimanda al passo successivo di pp. 3713-3715, che è la preparazione diretta di
questo punto dell’operetta: «L’idea e natura della quale [noia,
n.d.c.] esclude essenzialmente sì quella del piacere che quella del
dispiacere, e suppone l’assenza dell’uno e dell’altro; anzi si può dire la importa; giacchè questa doppia assenza è sempre cagione di
Letteratura italiana Einaudi
126
Giacomo Leopardi - Operette morali
tura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti
alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sot170 tentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti
gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel
mondo materiale, secondo i Peripatetici58, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto; se non
175 quando la mente per qualsivoglia causa intermette59 l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo,
considerato anche in se proprio60 e come disgiunto dal
noia, e posta quella v’è sempre questa. Chi dice assenza di piacere
e dispiacere, dice noia, non che assolutamente queste due cose sieno tutt’una, ma rispetto alla natura del vivente, in cui l’una senza
l’altra (mentre ch’ei sente di vivere) non può assolutamente stare.
La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che
lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto,
cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in natura secondo gli antichi. La noia è come
l’aria quaggiù, la quale riempie tutti gl’intervalli degli altri oggetti,
e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non
gli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo
umano, e l’indifferenza, e la mancanza d’ogni passione, è noia, la
qual è pur passione. Or che vuol dire che il vivente, sempre che
non gode nè soffre, non può fare che non s’annoi? Vuol dire ch’e’
non può mai fare ch’e’ non desideri la felicità, cioè il piacere e il
godimento. Questo desiderio, quando e’ non è nè soddisfatto, nè
dirittamente contrariato dall’opposto del godimento, è noia. La
noia è il desiderio della felicità, lasciato per così dir, puro. Questo
desiderio è passione. Quindi l’animo del vivente non può mai veramente essere senza passione. Questa passione, quando ella si trova
sola, quando altra attualmente non occupa l’animo, è quello che
noi chiamiamo noia […]» (17 ottobre 1823).
58 i Peripatetici: la scuola di Aristotele; cfr. «secondo gli antichi»
in Zibaldone, p. 3714 citato nella nota precedente.
59
intermette: smette, sospende (cfr. latino intermittere).
60
in se proprio: in se stesso.
Letteratura italiana Einaudi
127
Giacomo Leopardi - Operette morali
corpo61, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, im180 porta essere pieno di noia62; la quale anco è passione63,
non altrimenti che il dolore e il diletto.
GENIO. E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente64; perciò come l’aria in questi, così la noia penetra
185 in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la
noia non credo si debba intendere altro che il desiderio
puro della felicità65; non soddisfatto dal piacere, e non
offeso apertamente dal dispiacere. Il buon desiderio, come dicevamo poco innanzi66, non è mai soddisfatto; e il
195 piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana,
per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha ri-
61
disgiunto dal corpo: cfr. nota 50.
62
come quello… noia: per la metafora vacuo/pieno (e così prima
vani e intervalli) vedi anche Dialogo di un Fisico e di un Metafisico,
rr. 137-145 e 208-209 («Ma piena d’ozio e di tedio, che è quanto
dire vacua»). Per la costruzione sintattica come quello a cui, cfr.
Storia del genere umano, r. 366.
63
la quale anco è passione: cfr. Zibaldone, pp. 3714-3715 citato
alla nota 57, pensiero ripreso in Zibaldone, pp. 3879-3880.
64 tutti… trasparenti: la similitudine del Tasso tra noia e aria
prosegue nel Genio con un’invenzione di singolare efficacia poetica, per la semplicità e novità insieme dell’immagine, aiutata da una
sonorità su toni acuti (in i) e dalla disposizione trimembre degli aggettivi (con all’interno la variazione di gusto finissimo: i primi due
al superlativo, il terzo ugualmente lungo, ma in forma base e in
a/e). Pare di sentire la lingua descrittiva, precisa ma evocativa, di
certa prosa scientifica del Seicento (in particolare Magalotti).
65 Veramente... felicità: cfr. ancora il passo dello Zibaldone, p.
3715 citato alla nota 57.
66
innanzi: vedi r. 82 e seg.
Letteratura italiana Einaudi
128
Giacomo Leopardi - Operette morali
poso se non cadendo nell’altra67. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini68.
195
TASSO. Che rimedio potrebbe giovare contro la
noia?
GENIO. Il sonno, l’oppio, e il dolore69. E questo è il
più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non
si annoia per niuna maniera.
200
TASSO. In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita70. Ma pure la varietà71 delle
67
Sicché... altra: vedi anche Dialogo di Malambruno e di Farfarello, r. 107 e seg.
68 E questo... uomini: così il Genio riconduce a valore universale
la riflessione volutamente personale di Tasso.
69
Il sonno... dolore: nella forma emblematica e incisiva che richiede il dialogo sono condensati i rimedi analizzati da Leopardi
fin dalla «teoria del piacere»: vedi Zibaldone, pp. 173-174, riportato in Appendice; rimedi che anche erano stati esposti sotto la forma di provvedimenti di Giove nella Storia del genere umano (rr.
165-179 e nota 77). Cfr. inoltre Dialogo di Malambruno e di Farfarello, rr. 92-93, e Dialogo della Terra e della Luna, p. 116 (la Terra
non vuole interrompere il sonno degli uomini, perché «è il maggior
bene che abbiano»). Cfr. anche Zibaldone, p. 1989, citato alla nota
50.
70 In cambio... vita: per prima cosa, fuggire il dolore; è la stessa
scelta dell’Islandese (vedi Dialogo della Natura e di un Islandese, rr.
53-54: «non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti»). Cfr. Zibaldone, pp. 2433-2434: «Amando il vivente quasi
sopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che odi quasi sopra ogni
cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale (come dice Cicerone in Laelius). Ed in tanto non l’odia sempre sopra ogni cosa, in
quanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; per esempio quando un eccesso di dolor fisico gli fa desiderare anche naturalmente la morte, e preferirla a quel dolore; vale a dire quando l’amor proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che colla
morte. E perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè perchè
egli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di liberarsi
dal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto puramente
dalla speranza» (8 maggio 1822).
71
varietà: è l’altro principalissimo rimedio: la distrazione (mentre sonno e oppio indicano l’altra possibilità dell’«assopimento»). È
Tasso ad aggiungerlo all’elenco del Genio, proprio per osservare
Letteratura italiana Einaudi
129
azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci
libera dalla noia, perché non ci crea diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa pri205 gionia, separato dal commercio72 umano, toltomi eziandio lo scrivere73, ridotto a notare per passatempo i
tocchi dell’oriuolo74, annoverare i correnti75, le fessure e
i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento,
trastullarmi colle farfalle e coi moscherini76 che vanno
210 attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi77 in alcuna parte il carico della noia.
che a lui, carcerato, non è però concesso. Come conferma il documento prodotto alla nota 74, è il punto di massima coincidenza di
Leopardi col personaggio Tasso.
72
commercio: vedi Storia del genere umano, nota 197.
73
toltomi... scrivere: come era accaduto a Leopardi a Recanati
nei periodi di più acuta malattia.
74
ridotto… oriuolo: «È un passo autobiografico. Cfr. lettera al
Perticani del 9 aprile 1821» (Bianchi). Vedi infatti: «Al vostro caro
e pietoso invito rispondo ch’eccetto il caso di una provvisione, io
non potrò veder cielo nè terra che non sia recanatese, prima di
quell’accidente che la natura comanda ch’io tema, e che oltracciò,
secondo natura, avverrà nel tempo della mia vecchiezza; dico la
morte di mio padre. Il quale non ha altro a cuore di tutto ciò che
m’appartiene, fuorchè lasciarmi vivere in quella stanza dov’io traggo tutta quanta la giornata, il mese, l’anno, contando i tocchi dell’oriuolo» (corsivo del curatore; è la lettera citata in Introduzione, dove si ricorda anche il Tasso «sventurato»).
75 annoverare i correnti: correnti è il nome delle travi piccole che
corrono tra trave e trave, o tra trave e muro, per sostenere i soffitti
in legno, chiamati palchi. Una nota dell’autografo rinvia a Berni,
Orlando Innamorato, libro III, VII, 56 («Che voltati con gli occhi
verso il tetto / Si stavano i correnti a numerare»), citazione desunta
dal Vocabolario della Crusca che, alla voce Correnti, spiega: «Contare, od anche Numerare i correnti; detto in maniera proverbiale di
chi se ne sta a letto oziando, ovvero per cagione di malattia».
76
moscherini: forma parallela di «moscerini».
77
scemi: diminuisca.
Letteratura italiana Einaudi
130
Giacomo Leopardi - Operette morali
GENIO. Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a
cotesta forma di vita78?
215
TASSO. Più settimane, come tu sai.
GENIO. Non conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che ella ti reca?
TASSO. Certo che io lo provava maggiore a principio:
perché di mano in mano la mente, non occupata da altro
220 e non isvagata, mi si viene accostumando79 a conversare
seco medesima80 assai più e con maggior sollazzo81 di
prima, e acquistando un abito e una virtù82 di favellare
in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi
pare quasi avere una compagnia di persone in capo che
225 stieno ragionando83, e ogni menomo soggetto che mi si
78 Dimmi...vita?: il Genio vuole spingere il Tasso a una riflessione ulteriore sulla sua condizione, che parrebbe senza possibilità di
rimedio alla noia.
79
accostumando: come appena dopo acquistando un abito.
80
seco medesima: con se stessa.
81
sollazzo: nel senso di «sollievo».
82
abito... virtù: «abitudine» e «capacità». Cfr. Zibaldone, 1989,
citato alla nota 50, dove si citano «fanciulli» e «carcerati» come
esempi di uomini forzati a non agire e che quindi «acquistano l’abito» di parlare con se stessi, ecc.
83 favellare... ragionando: la serie favellare, cicalare, ragionare risale a una passo di Cellini registrato nello Zibaldone, p. 2592; cicalare serve a indicare il chiacchiericcio indistinto della compagnia di
persone. Sul passo vedi Zibaldone, p. 153: «Tutti più o meno parlano e gestiscono da se soli, ma principalmente gli uomini di grande
immaginazione, sempre facili a considerar l’immaginato come presente. Così l’Alfieri nei pareri sulle tragedie, racconta di questo suo
costume, massime nei punti di passione o di calore. Il qual costume è proprio più che mai dei fanciulli, dove l’immaginazione può
molto più che negli uomini». L’Alfieri dedica infatti un capitolo del
Parere dell’autore sulle presenti tragedie ai Soliloqui, in cui tra l’altro scrive: «Aggiungerò, quanto all’inverosimile di questi, che io,
senza esser persona tragica, mosso il più delle volte da passioncelle
non degne del coturno per certo, tuttavia parlo spessissimo con me
stesso; e molte altre volte, ancorché io non favello con bocca, parlo
Letteratura italiana Einaudi
131
Giacomo Leopardi - Operette morali
appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una
gran diceria.
GENIO. Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per modo, che quando poi
230 ti si renda la facoltà 84 di usare cogli 85 altri uomini, ti
parrà essere più disoccupato stando in compagnia loro,
che in solitudine86. E quest’assuefazione in sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a’ tuoi simili,
già consueti87 a meditare; ma ella interviene in più o
235 men tempo a chicchessia88. Di più, l’essere diviso dagli
uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa
utilità; che l’uomo, eziandio89 sazio, chiarito e disamoracon la mente, e perfino dialogizzo idealmente con altri» (vedi V.
Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978 [Opere di Vittorio Alfieri da Asti,
XXXV], p. 152). Vedi poi Zibaldone, p. 393: «I fanciulli parlano
ad alta voce da se delle cose che faranno, delle speranze che hanno,
si raccontano le cose che hanno fatte, vedute ec. o che loro sono
accadute, si lodano, si compiacciono, predicano ed ammirano ad
alta voce le cose che fanno, e non v’è per loro tanta solitudine ed
inazione materiale, che non sia piena società, conversazione ed
azione spirituale» (che riprende un’osservazione già della «teoria
del piacere» sui «fanciulli» che «anche in una quasi perfetta inazione, pur di rado o non mai sentano il vero tormento della noia»; e
poco più avanti si parla di «una specie di rêve, come i fanciulli
quando son soli»; vedi Zibaldone, pp. 175-176, in Appendice).
84
facoltà: possibilità.
85
usare cogli: frequentare gli.
86
ti parrà... solitudine: cfr. Zibaldone, pp. 717-718: «Numquam
minus solus quam cum solus. Ottimamente vero: ma (contro quello
che si usa credere e dire) perchè oggidì colui che si trova in compagnia degli uomini si trova in compagnia del vero, (cioè del nulla, e
quindi non c’è maggior solitudine), chi lontano dagli uomini in
compagnia del falso. Laonde questo detto sebbene antico e riferito
al sapiente, conviene molto più a’ nostri secoli, e non al sapiente
solo, ma alla universalità degli uomini, e massime agli sventurati».
87
consueti: abituati.
88
E quest’assuefazione... chicchessia: cfr. rr. 193-194.
89
eziandio: anche.
Letteratura italiana Einaudi
132
Giacomo Leopardi - Operette morali
to delle cose umane per l’esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle
240 paiono molto più belle e più degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e
quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e
desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o
il potere o il confidare di restituirsi alla società degli uo245 mini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a’
suoi primi anni. Di modo che la solitudine 90 fa quasi
90
Di modo che la solitudine...: l’uomo esperimentato, o, come è
detto appena sopra, l’uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato
delle cose umane per l’esperienza, corrisponde a come si è descritto
Tasso all’inizio dell’operetta (vedi r. 16 e seg.), nel passo cui rimanda anche la frase quella prima inesperienza che tu sospiri. Sulla
«consolazione» che all’«uomo di oggidì» deriva dalla solitudine, in
quanto ricreatrice dell’immaginazione e dell’illusione vedi già Zibaldone, p. 678 e seg. (20 febbraio 1821); la riflessione è riesposta
in modo del tutto coincidente con questa operetta nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (in Le poesie e le prose,
op. cit., II, pp. 567-568): «Nella solitudine anche dell’uomo il più
sapiente, esperimentato e disingannato, la lontananza degli oggetti
giova infinitamente a ingrandirli, apre il campo all’immaginazione
per l’assenza del vero e della realtà e della pratica, risveglia e suscita sovente le illusioni in luogo di sopirle o finir di distruggerle, l’animo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo; e
finalmente la mancanza di occupazioni o distrazioni vive, e il continuo e non diviso nè divagato pensiero che necessariamente si pone
nelle cose presenti, e l’attenzione totale dell’animo che nasce dalla
mancanza di sensazioni che la trasportino qua e là, fanno che all’ultimo si dà peso a menomissimi oggetti, e molto più che non si dava
e che gli altri non danno nel mondo a oggetti molto maggiori (o così detti), e vi si pone tanta cura che finalmente essi riempiono tutto
il tempo, ed occupano la vita, e alcune volte eziandio d’avanzo. L’esperienza lo prova a quelli che hanno potuto farla in se o in altri»;
aggiungendo in nota: «La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe e indebolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure stato
interissimo e profondissimo. Ella rinnuova la vita interna. Insomma, bench’ella sembri compagna indivisibile e quasi sinonimo della noia, nondimeno per un animo che vi abbia contratto una certa
abitudine, e con questa sia divenuto capace di agire e spiegare e
Letteratura italiana Einaudi
133
Giacomo Leopardi - Operette morali
l’ufficio della gioventù, o certo ringiovanisce l’animo,
ravvalora e rimette in opera l’immaginazione, e rinnuova
nell’uomo esperimentato i beneficii di quella prima ine250 sperienza che tu sospiri91. Io ti lascio92; che veggo che il
sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il
bel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita93; non con altra utilità che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al
255 mondo se ne può avere, e l’unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi94. Spessissimo ve la conviene strascinare co’ denti: beato quel dì
che potete o trarvela dietro colle mani, o portarla in sul
mettere in attività nella solitudine le sue facoltà, ella è più propria a
riconciliare o affezionare alla vita, che ad alienare, a rinnovare o
conservare o accrescere la stima verso gli uomini e verso la vita
stessa, che a distruggerla o diminuirla o finir di spegnerla. E ciò
non per altro se non perchè gli uomini e la vita sono lontani da lei,
giacchè ella affeziona o riconcilia propriamente e più particolarmente non alla vita presente, cioè a quella che si mena in essa solitudine, ma a quella del mondo che s’è abbandonata intermessa con
disgusto», rimandando a pensieri dello Zibaldone. Decisiva anche
al proposito di queste riflessioni l’esperienza del viaggio a Roma
(ciò che consente a Leopardi a questa altezza di chiamarsi «esperimentato» delle «cose umane»): vedi le lettere al fratello Carlo del
25 novembre 1822 e del 6 dicembre 1822. Cfr. inoltre nota 83.
91
sospiri: per «sospirare» nel senso, già stilnovista e petrarchesco, di «desiderare fortemente una cosa lontana», vedi Storia del
genere umano, rr. 122-124 e 403-404; cfr. inoltre: Il passero solitario, vv. 20-21: «amore, / Sospiro acerbo de’ provetti giorni», e Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 62-64: «tu forse intendi / [...] / il patir nostro, il sospirar, che sia».
92 Io ti lascio: portando a termine la sua dimostrazione, il Genio
ha concluso il proprio compito dialogico.
93 consumando la vita: vedi almeno Dialogo della Natura e di un
Islandese, r. 73 (e Al conte Carlo Pepoli, 48-49).
94 non con altra utilità... svegliarvi: poiché la «vita vitale» rivolta
verso l’esterno è impossibile, rimane solo la possibilità di «consumare» la vita ricreandosi tra sognare e fantasticare.
Letteratura italiana Einaudi
134
Giacomo Leopardi - Operette morali
dosso95. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a cor260 rere in questa carcere96, che sia nelle sale e negli orti97
quello di chi ti opprime98. Addio.
TASSO. Addio. Ma senti. La tua conversazione mi riconforta pure99 assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è come una
265 notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco,
somiglia al bruno dei crepuscoli100, piuttosto grato che
molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.
270
GENIO. Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso101.
95 Spessissimo... dosso: questo il senso dell’espressione: «reputate fortunati quei giorni in cui la vita, pur essendo un peso, non vi
darà tanta tanta pena. Insomma il trascinar coi denti indica, metaforicamente, una pena maggiore, rispetto al trarre con le mani o
al portare sul dosso» (Porena); dosso significa «schiena» (vedi anche Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 15).
96 carcere: la parola è uno dei casi più tipici di oscillazione nel
genere (l’italiano di oggi dice il carcere/le carceri); il femminile al
singolare è del toscano parlato e quindi anche della lingua letteraria.
97
orti: giardini.
98
Ma... opprime: frase consolatoria del Genio, che riprende
però le affermazioni sulla validità per tutti di quanto considerato
(cfr. rr. 232-235).
99
pure: riferito a la tua conversazione.
100
ma questa... crepuscoli: un’altra similitudine; per l’impressione poetica del «crepuscolo» vedi gli appunti schematici («sventure. crepuscolo. nulla. pianto nella maggiore allegrezza») e il pensiero di Zibaldone, p. 136.
101 In qualche liquore generoso: fino all’edizione 1834, Nel tuo
bicchiere, espressione nello stesso tempo troppo dettagliata e troppo poco chiara. Oltre a un passo de Il Messaggero: «mi giova non
dimeno di credere che la mia follia sia cagionata o da ubbriachezza
o d’amore: perchè so ben io (ed in ciò non m’inganno) che sover-
Letteratura italiana Einaudi
135
Giacomo Leopardi - Operette morali
chiamente bevo» (Tasso, ed. cit., III, p. 332); cfr. anche Muratori,
Della forza della fantasia umana, cap. X (p. 131 dell’ed. cit.), dove a
proposito di alcune donne accusate di stregoneria si dice che nelle
loro fantasie «si aiutano ancora con generosi liquori». Ma lo stesso
Vocabolario della Crusca registra l’espressione (generoso vale «potente, gagliardo»), anche con un esempio dalle lettere del Tasso (e
vedi anche il brano di Galilei, in Crestomazia italiana (La Prosa), p.
296). In molti pensieri dello Zibaldone Leopardi parla del vino come uno degli agenti di «vigore», cioè di ritorno della natura, e/o di
rimedio attraverso il «torpore» alla noia e all’infelicità.
Letteratura italiana Einaudi
136
DIALOGO DELLA NATURA E DI
UN ISLANDESE
Un Islandese1, che era corso per la maggior parte
del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando
una volta per l’interiore dell’Affrica2, e passando sotto la
linea equinoziale3 in un luogo non mai prima penetrato
5 da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne4 a Vasco di Gama5 nel passare il Capo di Buona
speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante,
per distorlo dal tentare quelle nuove acque6. Vide da
10 lontano un busto7 grandissimo; che da principio imma1 un islandese...: al dialogo vero e proprio è premessa una breve cornice; viene in questo modo creato lo spazio fantastico per
l’incontro tra i due interlocutori, e vengono anche poste le condizioni per sciogliere alla fine narrativamente un dialogo, che, come
si vedrà, deve rimanere inconcluso.
2
per... Affrica: «attraverso l’interno dell’Africa». La forma Affrica, con la doppia, è quella letteraria derivata dall’uso toscano, soppiantata da Africa solo nel tardo Ottocento. I motivi del vagabondaggio dell’Islandese saranno chiariti tra poco; ma l’interiore
dell’Africa risponde alla scelta di un luogo remotissimo, dove fosse
possibile ambientare l’incontro e dove la Natura regnasse incontrastata.
3
linea equinoziale: l’equatore.
4
intervenne: capitò.
5
Vasco de Gama: il navigatore portoghese (1469-1524) che oltrepassò per primo il Capo di Buona Speranza e a cui è in gran parte dedicato il poema Os Lusiadas di Camoens (vedi Dialogo della
Natura e di un’Anima, nota 43).
6 acque: nota di Leopardi: «(30) Camoens, Lusiad. canto 5.» andando una volta... acque: il senso di infrazione dal caso di Vasco de
Gama si diffonde anche sul viaggio dell’Islandese, pure diretto in
un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno.
7
busto: perché da lontano ne vede solo la parte superiore.
Letteratura italiana Einaudi
137
Giacomo Leopardi - Operette morali
ginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi8
colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua9. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma
smisurata10 di donna seduta in terra, col busto ritto, ap8 ermi: «Nella 1a ediz. l’aut. aveva adoperato il femminile, che è
veramente la forma in uso, poi ha preferito il maschile, forse perché più conforme al corrispondente vocabolo greco e latino. Erma,
originariamente il busto marmoreo di Mercurio (Ermete), quindi
ogni pietra quadrata sormontata da una testa» (Della Giovanna).
«Colossale» è anche nei Paralipomeni della Batracomiomachia, I,
40, 5: «La statua colossal di Lucerniere».
9 Pasqua: «Troviamo nell’autografo la postilla «La Pérouse t. I.
p. 100-102», che ci dimostra avere il Leopardi tratto le sue notizie
dal Voyage de la Pérouse autour du mond... rédigé par M. L. A. MILET-MUREAU, Paris, Plassan 1798; dove si parla, infatti, assai minutamente (non, però, nel vol. I, ma nel II [...]) di questi «bustes
grossieres» (p. 96) e «de taille colossale» (p. 99) che sorgevano in
quell’isola numerosissimi. E, certo, il poeta esaminò anche l’Atlas
du Voyage de la Pérouse che si accompagna, come quinto volume
complementare, ai quattro volumi del testo del Voyage e che, nella
tav. II, reca un disegno del Duché rappresentante una veduta d’insieme dell’isola di Pasqua: terra aspra e rocciosa, sparsa di virgulti
qua e là; con, a destra, due enormi torsi di pietra (simili, più che a
torsi, a grossolani pilastri) su cui s’innestano i colli e si appoggiano
le teste di due colossali figure umane» (Sanesi). Ma per la raffigurazione della Natura vedi anche i rilievi proposti qui.
10 una forma smisurata: «un qualcosa con l’aspetto smisurato, al
di là delle dimensioni note». Cfr. appena sopra «sotto forma di gigante» (o per esempio Storia del genere umano, r. 118); Leopardi
prima di forma aveva infatti scritto sembianza. La rappresentazione
della Natura, singolarmente viva, risente forse di tradizionali schemi pittorici, in cui le figure allegoriche erano appunto sdraiate e
appoggiate come qui Leopardi immagina la sua donna smisurata. A
questo si aggiunga qualche vicinanza di tratti con le descrizioni
dell’Africa e dell’America contenute in un diffusissimo repertorio
di immagini simboliche (C. RIPA, Iconologia; in casa Leopardi si
trovava l’edizione del 1613), in cui l’Africa è presentata come «una
donna mora, quasi nuda, haverà li capelli crespi e sparsi [...]; da un
lato appresso a lei vi sarà un ferocissimo leone», e i capelli saranno
«neri»; l’America, altro luogo «selvaggio», come «donna ignuda, di
carnagione fosca, di giallo color mista, di volto terribile» (citazioni
dall’edizione di Padova, per Pietro Paolo Tozzi, 1611, pp. 358-359
e 360).
Letteratura italiana Einaudi
138
Giacomo Leopardi - Operette morali
15 poggiato il dosso11 e il gomito a una montagna; e non
finta12 ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente13; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse14.
20
NATURA. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la
tua specie era incognita15?
ISLANDESE. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della
mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per
25 questa.
NATURA. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono
quella che tu fuggi16.
ISLANDESE. La Natura?
30
NATURA. Non altri.
ISLANDESE. Me ne dispiace fino all’anima17; e tengo
per fermo che maggior disavventura di questa non mi
potesse sopraggiungere.
11
dosso: dorso.
12
e non finta: come invece gli ermi dell’isola di Pasqua.
13
guardavalo fissamente: cfr. Dialogo di Torquato Tasso e del suo
Genio familiare, r. 59.
14
e stata... disse: su una scena abbandonata da ogni altro frequentatore, rimangono isolati da una parte il viaggiatore, dall’altra
la forma smisurata di donna ancora sconosciuta, nello stesso tempo
affascinante e repellente. Una lunga pausa ritarda però ancora lo
scioglimento dell’attesa (fissamente, un buono spazio senza parlare,
all’ultimo).
15
incognita: sconosciuta (vedi rr. 4-5).
16
Io... fuggi: ecco, ancora ritardata e detta con una perifrasi (così che tocca all’Islandese riconoscerla col nome), la rivelazione.
17 fino all’anima: «grandissimamente, estremamente» (come
spiega il Vocabolario della Crusca, sotto la voce Anima, con un
esempio, tra gli altri, del Redi: «Mi dispiace fino all’anima»).
Letteratura italiana Einaudi
139
Giacomo Leopardi - Operette morali
NATURA. Ben potevi pensare che io frequentassi spe35 cialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra
più che altrove la mia potenza18. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
ISLANDESE. Tu dei sapere che io19 fino nella prima
gioventù, a20 poche esperienze, fui persuaso e chiaro21
18 dove… potenza: perché terra priva di qualunque forma di civilizzazione.
19
Tu dei sapere che io...: la spiegazione dell’Islandese prende la
forma di un lungo racconto autobiografico, nel quale è facilmente
identificabile un ritratto di Leopardi. Si veda infatti come Leopardi si presenta in Alla vita abbozzata di Silvio Sarno (che è, secondo
la dimostrazione di Monteverdi, un appunto relativo all’abbozzo
di romanzo autobiografico che va sotto il titolo di Ricordi d’infanzia e di adolescenza): «La cosa più notabile e forse unica in lui è che
in età quasi fanciullesca avea già certezza e squisitezza di giudizio
sopra le grandi verità non insegnate agli altri se non dall’esperienza, cognizione quasi intera del mondo, e di se stesso in guisa che
conosceva tutto il suo bene e il suo male, e l’andamento della sua
natura, e andava sempre au devant de’ suoi progressi, e secondo
queste cognizioni regolava anche le sue azioni e il suo contegno
nella conversazione dov’era sempre taciturno, e non curante di far
mostra di se» (Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 689). E a fronte di
quella dell’Islandese vedi questa autopresentazione di Leopardi
nella lettera allo Jacopssen: «Sans doute, mon cher ami, ou il ne
faudrait pas vivre, ou il faudrait toujours sentir, toujours aimer,
toujours espérer. La sensibilité ce serait le plus précieux de tous le
dons, si l’on pouvait le faire valoir, ou s’il y avait dans ce monde à
quoi l’appliquer. Je vous ai dit que l’art de ne pas souffrir est maintenant le seul que je tâche d’apprendre. Ce n’est que précisément
parce que j’ai renoncé à l’espérance de vivre [...]. Pendant un certain temps j’ai senti le vide de l’existence comme si ç’avait été une
chose réelle qui pesât rudement sur mon âme. Le néant des choses
était pour moi la seule chose qui existait» (23 giugno 1823).
20
a: dopo.
21
chiaro: in una variante alternativa certo; ma la dittologia (persuaso e chiaro) vuole indicare il raggiungimento della conoscenza,
ed è ricorrente in Leopardi; vedi Storia del genere umano, r. 412,
«instrutti e chiariti», dopo molte varianti; Aspasia, vv. 82-83, «conoscente e chiaro dell’esser tuo» (su cui vedi il commento De Ro-
Letteratura italiana Einaudi
140
Giacomo Leopardi - Operette morali
40 della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini22; i
quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per
l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non
giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente
infinite sollecitudini23, e infiniti mali, che affannano e
45 nocciono in effetto, tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano24. Per queste considerazioni,
deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di
50 avanzare il mio stato25, non contendendo con altri per
nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato26 dei piaceri, come di cosa negata alla
bertis); vedi anche Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, rr. 237-238, «chiarito e disamorato delle cose umane».
22
fino… uomini: cfr. la lettera di Leopardi al Giordani del 19
novembre 1819: «e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come
sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando
ch’è un niente anche la mia disperazione». Vedi anche Storia del
genere umano, rr. 384-387 e nota 150, ma soprattutto quanto Leopardi fa dire a Eleandro (Dialogo di Timandro e di Eleandro, rr.
136-139): «il concetto della vanità delle cose umane, mi riempie
continuamente l’animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per
nessuna in battaglia».
23 sollecitudini: spesso nelle Operette morali col senso negativo
latino (sostituisce nell’autografo fatiche). Si noti che a sollecitudini
è riferito affannano, a mali, nocciono.
24
tanto più... cercano: spiega il giudizio di stoltezza. Cfr. Zibaldone, pp. 4041-4042 (7 marzo 1824): «Gli uomini sarebbero felici se
non avessero cercato e non cercassero di esserlo [...] la vita umana
è come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, i
filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lasciano più far la natura».
25 non procurando... stato: «senza cercare in nessun modo di
avanzare socialmente” vedi anche Dialogo di Timandro e di Eleandro, rr. 90-93: «non desiderando niente da loro, nè in concorrenza
con loro, io non mi sono esposto alle loro offese più di tanto».
26
disperato: con valore attivo: «non avendo più speranza».
Letteratura italiana Einaudi
141
Giacomo Leopardi - Operette morali
nostra specie27, non mi proposi altra cura28 che di tenermi lontano dai patimenti29. Con che non intendo dire
55 che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica
al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso30. E già nel
primo mettere in opera questa risoluzione31, conobbi
per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli
60 uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che
gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo32 in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia
65 degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla
loro società, e riducendomi in solitudine33: cosa che nel27
come… specie: cfr. Storia del genere umano, rr. 352-354.
28
cura: impegno.
29
patimenti: così anche Eleandro (Dialogo di Timandro e di
Eleandro, rr. 164-165): «quel maggiore, anzi solo bene che sono ridotto a desiderare per me stesso, cioè di non patire». Il punto cui
provvisoriamente giunge l’Islandese (che nel vivere una vita oscura
e tranquilla richiama il precetto epicureo del «vivi nascosto») è
frutto di un processo di esclusione, di progressiva rinuncia, scandito dalla costruzione sintattica dominata dalla negazione: deposto...
non... non... non..., disperato... (negata)... non...; ma si noti che è
una rinuncia operata per scelta, attivamente (deliberai). Su due ordini avviene questo processo di rinuncia, al termine del quale stanno gli unici vantaggi in cui l’Islandese pensa di restringersi: vita
oscura ma tranquilla; negati i piaceri ma lontano dai patimenti.
30
che ben sai... ozioso: di questo Leopardi ha appena parlato in
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (cfr. in particolare il finale),
dove è indicato come la natura persegua la vitalità (ben sai le dice
appunto l’Islandese).
31 E già... risoluzione...: la prima soluzione dell’islandese si rivela
presto inadeguata: per raggiungere la tranquillità non basta restringersi in se stessi, occorre separarsi dagli altri uomini.
32
menomo: minimo.
33
Ma... solitudine: cfr. quanto Leopardi dice di se stesso in Zi-
Letteratura italiana Einaudi
142
Giacomo Leopardi - Operette morali
l’isola mia nativa si può recare ad effetto34 senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine35 di piacere, io non poteva mantenermi però senza
70 patimento36: perché la lunghezza del verno37, l’intensità
del freddo, e l’ardore estremo della state38, che sono
qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il
fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran
parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli oc75 chi col fumo39; di modo che, né in casa né a cielo aperto,
io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche
potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale
principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le
tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le
80 minacce del monte Ecla40, il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi41, come sono i nostri, fatti di
baldone, p. 2472 (11 giugno 1822): «quanto [io] era prima inclinato a comunicare altrui ogni mia sensazione non ordinaria (interiore
o esteriore), così oggi fuggo ed odio non solo il discorso, ma spesso
anche la presenza altrui nel tempo di queste sensazioni. Non per
altro se non per l’abito che ho contratto di dimorar quasi sempre
meco stesso, e di tacer quasi tutto il tempo, e di viver tra gli uomini
come isolatamente e in solitudine» (cfr. anche Dialogo di Timandro
e di Eleandro, nota 31).
34
recare ad effetto: realizzare.
35
immagine: qualcosa tra «sensazione» e «idea».
36
Fatto questo... patimento: richiama le righe 52-54; anche eliminati i disagi del vivere in società, l’Islandese si accorge che rimane un’altra fonte di patimenti, e che la stessa tranquillità non è
completa.
37
verno: inverno.
38
state: estate.
39
e il fuoco... fumo: cfr. il passo di Buffon citato alla nota 69.
40
Ecla: uno dei vulcani più importanti.
41
alberghi: residenze, abitazioni.
Letteratura italiana Einaudi
143
Giacomo Leopardi - Operette morali
legno, non intermettevano42 mai di turbarmi. Tutte le
quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e spe85 ranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento43, e molto più gravi che
elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e
dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto
90 veduto che più che io mi restringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio non
desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi
veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero44; mi posi a cangiar45 luoghi e climi, per vede95 re se in alcuna parte della terra potessi non offendendo
non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa
deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi
nacque46, che forse tu non avessi destinato al genere
umano se non solo un clima della terra (come tu hai fat-
42 intermettevano: «smettevano» (cfr. Dialogo di Torquato Tasso
e del suo Genio familiare, r. 175).
43
momento: importanza.
44
Per tanto... tribolassero: è la crisi interna della soluzione che
l’Islandese pensava di aver raggiunto. Come l’Islandese ha detto
prima in generale, proprio la ricerca della quiete ha spogliato la vita
di ogni desiderio e di ogni occupazione, rendendola indifesa di
fronte alle incomodità. Ora rappresenta la tensione per lui stesso di
quella rinuncia con immagini di evidenza fisica: ristringeva, contraeva. Dal punto di vista grammaticale, si noti l’uso della negazione (di tradizione latina) dopo verbi che indicano «impedimento».
45
cangiar: cambiare.
46
E... nacque...: l’islandese ribadisce il programma iniziale
(«non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire»)
ma con una nuova speranza: che ci fosse un clima adatto per natura agli uomini. È un’idea più volte ripresa e sviluppata da Leopardi
(vedi passi dello Zibaldone), ma alla quale ora, attraverso la «verifica» dell’Islandese, non dà più credito.
Letteratura italiana Einaudi
144
Giacomo Leopardi - Operette morali
100 to a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei
105
110
115
120
delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini
non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi
medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle
abitazioni47 umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e
fatta esperienza di quasi tutti i paesi48; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola
tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra
i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle
commozioni49 degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho
veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è
quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una
battaglia formata50 a quegli abitanti, non rei verso te di
nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria51 del
cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla
moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento
sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati
regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri
furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare52 il tet-
47
abitazioni: stanziamenti.
48
Quasi... paesi: chiasmo (complemento – predicato/predicato
– complemento), dovuto all’inversione della prima frase per mettere in rilievo quanto mondo ha girato; cercato vale «indagato».
49
commozioni: «perturbazioni» (Della Giovanna).
50
battaglia formata: cioè ordinata, condotta secondo le regole di
un vera battaglia (vedi Vocabolario della Crusca, sotto la voce Formato).
51
ordinaria: condizione normale.
52
mi ho sentito crollare: in un appunto dello Zibaldone, pp.
4083-4085, Leopardi sottolinea che è più giusto l’uso dell’ausiliare
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Giacomo Leopardi - Operette morali
to in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per
l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi
125 si è dileguata di sotto ai piedi53; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano54,
come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria.
Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una
menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpen130 ti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che
gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle
ossa55. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti56
all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico57 non trova contro al timore, altro rimedio più vale135 vole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né
le infermità mi hanno perdonato58; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma conti-
avere con le forme verbali che noi chiamiamo «riflessive indirette»
(vedi Serianni, XI, 21-22).
53
la stessa terra... piedi: «si riferisce alle frane» (Della Giovan-
na).
54
che m’inseguivano: per le inondazioni.
55
gl’insetti... ossa: cfr. la descrizione del Monti nel primo canto
del Prometeo, vv. 290 e seg.: «Nudo intanto ed inerme e degli insetti / Al pungolo protervo abbandonato, / L’uom, de’ venti trastullo
e delle piogge, / Or tremando di gelo or da’ cocenti / Raggi del sole abbrustolato e bruno, / Ovunque fermi, ovunque volga il piede,
/ Sia là dove d’Ammo, ferve l’arena, / Sia dove ha cuna o dove ha
tomba il sole, / Dappertutto di vesti è l’infelice / Il molle corpo a
ricoprir dannato». Ma cfr. anche il passo di Buffon citato alla nota
69.
56
imminenti: incombenti.
57
un filosofo antico: nota di leopardi: «(31) Seneca, Natural.
Quaestion. lib. 6, cap. 2.»
58 Nè... perdonato: alle ostilità del mondo esterno si aggiungono
le malattie.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
nente59 dei piaceri del corpo. Io soglio prendere60 non
piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infu140 so tanta e sì ferma61 e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra
parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di
tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità
145 del corpo, la più calamitosa62 negli effetti in quanto a
ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità63
della stessa vita64. Ma in qualunque modo65, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho
potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie:
150 delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata;
59
non dico temperante, ma continente: non solo mi moderavo,
evitando gli eccessi, dice l’Islandese, ma, come ripete più sotto, mi
astenevo dai piaceri «quasi sempre e totalmente».
60
soglio prendere: sono solito avere.
61
ferma: determinata, inamovibile.
62
calamitosa: pericolosa.
63
durabilità: «possibilità di conservarsi» (cfr. anche Dialogo della Natura e di un’Anima, rr. 75-76).
64
Io soglio... vita: l’Islandese interrompe la serie descrittiva dei
propri patimenti per esprimere una riflessione; è come un’idea appena germogliata, uno stupore (soglio prendere non piccola ammirazione) per aver toccato un punto così radicale, senza però affermarne le piene conseguenze, cosa che farà solo alla fine del suo
lungo discorso alla Natura. È lo stesso itinerario di Leopardi, che
dieci giorni prima di stendere questa operetta per la primissima
volta parlava di contraddizione interna della natura, nel pensiero
dello Zibaldone in cui notava che «Non è forse cosa che tanto consumi e abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri»
(Zibaldone, p. 4087, 11 maggio 1824).
65 Ma in qualunque modo: come dire: riprendiamo il filo del discorso, lasciando stare per ora il punto appena toccato.
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e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo
e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo66, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali67 per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore
che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata68, la quale gli sia cagione di
qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per
accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi
nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire,
siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità,
colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai
senza qualche maggiore o minore incomodità o danno,
starsene esposto all’una o all’altro di loro69. In fine70, io
66
E certo...: ritorna di fatto la riflessione interiore dell’Islandese;
l’aumento di male della malattia non è mai compensato dalla Natura in altri momenti, con un «di più» corrispondente di sanità.
67 infermità, mali: uno dei casi più significativi del valore di indicazione ritmica nella lettura (non logico-sintattico) che Leopardi
attribuisce ai segni di punteggiatura: la virgola separa mali benché
complemento oggetto di sperimenti.
68
inusitata: corrisponde al precedente disusati.
69
Ne’ paesi... loro: passo aggiunto in seguito, per rallentare ancora, esponendo altri documenti, le deduzioni finali. Da notare come si riaffacci il tema della contraddizione in natura: Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra [..] siamo ingiuriati di
continuo. L’esempio dei Lapponi deriva, come dichiarato in un’annotazione dell’autografo, da un passo di Buffon che serve anche in
altri punti del racconto; cfr. Storia naturale, op. cit., VI, p. 10:
«Nell’estate non vivono più agiatamente dell’inverno, mentre sono
costretti a passare l’intere giornate in un densissimo fumo, essendo
questo l’unico mezzo da essi immaginato per sottrarsi dalle punture de’ moscherini, che sono forse più abbondanti in quel clima ag-
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Giacomo Leopardi - Operette morali
non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita
senza qualche pena; laddove io non posso numerare71
quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi avveggo72 che tanto ci è destinato e necessa175 rio il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto
senza miseria: e mi risolvo a conchiudere73 che tu sei nemica scoperta74 degli uomini, e degli altri animali, e di
tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci
180 assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre
o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto75, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi
ghiacciato, che ne’ più caldi paesi. Con un metodo di vivere sì stentato, essi però non s’ammalano quasi mai, e giungono tutti ad un’estrema vecchiezza. I vecchi stessi sono sì vigorosi, che appena possono distinguersi da’ giovani; e il solo incomodo a cui sono
soggetti, è la cecità, ch’è molto comune fra essi. Siccome vengono
di continuo abbagliati dallo splendore della neve in tutto il tempo
dell’inverno, dell’autunno, e della primavera, ed acciecati nell’estate dal fumo, così perdono facilmente per la maggior parte gli occhi
avanzando in età».
70
In fine... : siamo alla parte conclusiva, dove si tirano le som-
me.
71
non posso numerare: perché sono troppi, infiniti.
72
avveggo: accorgo.
73
e mi risolvo a conchiudere: si noti la formula, che sottolinea il
processo di «scioglimento» del problema verso quella che appare
l’unica soluzione possibile, nello stesso tempo sospendendo l’attenzione prima di precipitare nel drastico, e per Leopardi drammatico, enunciato conclusivo.
74 scoperta: «evidente». Cfr. quanto dirà Porfirio (Dialogo di Plotino e di Porfirio): «tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o la
necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell’universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie».
75 per costume e per instituto: «per abitudine e per proprietà costitutiva».
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149
Giacomo Leopardi - Operette morali
figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue
viscere76. Per tanto rimango privo di ogni speranza:
185 avendo compreso che gli uomini finiscono77 di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di
fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione,
non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi78. E già mi
veggo79 vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiez190 za; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi,
76 sei carnefice… viscere: la metafora, con la concretezza stridente delle immagini (quasi da concettismo barocco), dà forza al paradosso che l’Islandese è costretto a riconoscere per vero; si ricordi
che una simile insensatezza, ma non attribuita alla Natura, era rilevata ne La scommessa di Prometeo, dove un padre mangia i figli
(vedi r. 138 e seg., e rr. 221-222). La metafora inaugurata qui torna
successivamente in altri testi di Leopardi; vedi Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto
di partire, accomiatandosi dai suoi, vv. 44-47: «Madre temuta e
pianta / Dal nascer già dell’animal famiglia, / Natura, illaudabil
maraviglia, / Che per uccider partorisci e nutri»; Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 180-181 (citato a nota 78); La ginestra o il
fiore del deserto, vv. 123-125: «ma dà la colpa a quella / Che veramente è rea, che de’ mortali / Madre è di parto e di voler matrigna»; Paralipomeni della Batracomiomachia, IV 12, vv. 7-8: «[natura] de’ suoi figli antica / E capital carnefice e nemica» (per le
Operette morali vedi il passo del Dialogo di Plotino e Porfirio citato
a nota 74).
77
finiscono: cessano.
78
Pertanto... opprimi: la riflessione chiude la lunga ricerca dell’Islandese. Cfr. Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 176-181:
«indi una forza / Ostil, distruggitrice, e dentro il fere / E di fuor da
ogni lato, assidua, intenta / Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca, /
Essa indefatigata; insin ch’ei giace / Alfin dall’empia madre oppresso e spento».
79 E già mi veggo...: tutto il passo, fino alla fine del discorso dell’Islandese, aggiunto in seguito sul manoscritto. La E riprende l’esposizione già conclusa, portando lo sguardo più avanti. Ma è un
movimento bloccato; un ritmo lento, in una tonalità minore, scandisce un futuro che non è tale; «privo di ogni speranza», non è che
una conferma della legge appena scoperta.
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preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e
preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro80 in
là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini
è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che
ne seguono.
NATURA. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra81? Ora sappi che nelle fatture82, negli
ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime83,
sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in
qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me
n’avveggo, se non rarissime volte: come84, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non
ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo
quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente,
se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra
specie85, io non me ne avvedrei.
ISLANDESE. Ponghiamo86 caso che uno m’invitasse
80
quinto suo lustro: venticinque anni.
81
Immaginavi… vostra?: la Natura subito capovolge il punto di
vista dell’uomo. Cfr. anche Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo,
r. 74 e seg.
82
fatture: creazioni.
83
trattone pochissime: solo pochissime sono appositamente indirizzate al genere umano.
84
come: allo stesso modo.
85
estinguere... specie: come accade nel Dialogo di un Folletto e
di uno Gnomo.
86
Ponghiamo: «Poniamo». La risposta della Natura non meraviglia più di tanto l’Islandese (cfr. rr. 233-234: «So bene che tu non
hai fatto il mondo in servigio degli uomini»), al quale tuttavia la
scoperta dell’infelicità necessaria pone una questione più profonda
(sul senso dell’esistenza), che esprime ora con un apologo, nel qua-
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215
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230
spontaneamente a una sua villa87, con grande instanza88,
e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per
dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi
in continuo pericolo di essere oppresso89; umida, fetida,
aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse
cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi
lasciasse villaneggiare90, schernire, minacciare e battere
da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia91. Se querelandomi
io seco92 di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e,
bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le
buone spese93; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in
tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente94 hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene
egli95 di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci
viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così
dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e
le è simboleggiato il rapporto tra singoli esseri viventi nel mondo
(gli invitati alla villa) e la Natura (il padrone della villa).
87
villa: nel senso già latino di «possedimento di campagna».
88
instanza: insistenza.
89
oppresso: rovinato, distrutto (vedi poi opprimi, r. 188).
90
villaneggiare: trattare con modi volgari.
91
famiglia: servitù.
92
querelandomi io seco: lamentandomi con lui.
93
farti le buone spese: nutrirti, trattarti bene.
94
spontaneamente: cfr. r. 213.
95
egli: pleonastico.
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235 ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando:
240
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250
255
t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi
vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia?
Ma se di tua volontà, e senza mia saputa96, e in maniera
che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa,
colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio97 tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo
regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico
di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri
animali e di ogni creatura.
NATURA. Tu mostri non aver posto mente98 che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera,
che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che99 cessasse
o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui
cosa alcuna libera da patimento100.
ISLANDESE. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i
filosofi101. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel
che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto me-
96
saputa: notizia, informazione (cfr. Vocabolario della Crusca,
che tra le locuzioni riporta un «senza vostra saputa»).
97
ufficio: compito.
98
Tu... mente: come nella sua prima risposta, la Natura oppone
all’Islandese un altro punto di vista.
99
sempre che: se, nel caso in cui.
100
Per tanto... patimento: la Natura conferma le conclusioni dell’Islandese: il patimento dei viventi è necessario alla conservazione
del mondo.
101 Cotesto... tutti i filosofi: il riferimento è generico (probabilmente ad indicare che tale idea è ritenuta un punto d’arrivo in genere della «filosofia»).
Letteratura italiana Einaudi
153
Giacomo Leopardi - Operette morali
desimamente; dimmi quello che nessun filosofo102 mi sa
dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima
dell’universo103, conservata con danno e con morte di
260 tutte le cose che lo compongono?
Mentre104 stavano in questi e simili ragionamenti è
fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti105 e
maceri dall’inedia106, che appena ebbero la forza di
mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un
265 poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma
sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un
fierissimo107 vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo
mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritro270 vato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so
quale città di Europa108.
102
nessun filosofo: in opposizione a tutti i filosofi.
103
a chi piace... universo: la stessa domanda che ritorna in Al
conte Carlo Pepoli, v. 140 e seg.: «L’acerbo vero, i ciechi / Destini
investigar delle mortali / E dell’eterne cose; a che prodotta, / A che
d’affanni e di miserie carca / L’umana stirpe; a quale ultimo intento
/ Lei spinga il fato e la natura; a cui / Tanto nostro dolor diletti o
giovi; / Con quali ordini e leggi a che si volva / Questo arcano universo; il qual di lode / Colmano i saggi, io d’ammirar son pago»; e
nella quarta strofe del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v. 61 e seg.
104 Mentre...: l’estrema domanda dell’Islandese non ha risposta;
ritorna il narratore fuori campo a chiudere la narrazione, esponendo un finale che è come una dimostrazione di quanto è stato detto.
105 rifiniti: mal conci (cfr. Vocabolario della Crusca). Per l’idea
dei leoni, cfr. l’immagine dell’Africa del Ripa, citata alla nota 10.
106
inedia: sfinimento per mancanza di cibo.
107
fierissimo: violentissimo.
108
sotto il quale... Europa: la conclusione è sarcastica: nei musei
europei viene studiato come mummia, per di più antica, l’uomo
Letteratura italiana Einaudi
154
Giacomo Leopardi - Operette morali
che ha individuato la realtà della contraddizione che condanna i viventi a essere infelici. Il gioco ironico (seppure di tono «tragico»)
coinvolge lo stesso Buffon che ha presieduto a tanta parte dell’invenzione dell’operetta. Nella Storia naturale (op. cit.), infatti, alla
trattazione di ogni animale segue una «Descrizione della parte di
Gabinetto» (cioè di «Museo») relativa a quell’animale, stesa dal
Conservatore Daubenton; nel tomo V, dedicato all’uomo, una parte considerevole è sulle mummie, e proprio a questa parte si rifà a
Leopardi; si veda p. 294: «Le mummie, delle quali ora si tratta, sono corpi imbalsamati: si dà particolarmente questo nome a quelli,
che sono stati cavati da’ sepolcri degli antichi Egizi, ma la significazione di questa voce è stata di poi più oltre estesa, chiamandosi anche col nome di mummia i cadaveri, che sono stati disseccati nelle
infiammate atene dell’Africa, e dell’Asia»; e ancora p. 304: «Si sa,
che gli uomini, e gli animali, che vengono sepolti nelle arene dell’Arabia si disseccano prontamente, e si conservano per molti secoli, come se fossero stati imbalsamati. È accaduto spesso, che delle
carovane intere sono perite ne’ diserti dell’Arabia, sia pe’ venti ardenti, che si sollevano, e che rarefanno l’aria a segno, che gli uomini, e gli animali non possano più respirare, sia per le arene che i
venti sollevano ad una grande altezza, e ch’essi trasportano ad una
gran distanza: questi cadaveri si conservano nel loro intero, e vengono in seguito trovati per qualche fortuito caso» (e le mummie
avranno la parte principale nel Dialogo di Federico Ruysch e delle
sue mummie).
Letteratura italiana Einaudi
155
DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE
SUE MUMMIE1
Coro di morti nello studio di Federico Ruysch
Sola nel mondo eterna2, a cui si volve3
1 nota di leopardi: «(39) Vedi, tra gli altri, circa queste famose
mummie, che in linguaggio scientifico si direbbero preparazioni
anatomiche, il Fontenelle, Eloge de mons. Ruysch.» In un appunto
marginale del manoscritto Leopardi invece annota: «Fontenelle
Eloge de M. Ruysch. Thomas Eloge de Descartes, not. 32». Questa
seconda opera è la fonte effettiva; Leopardi aveva letto l’Eloge de
Descartes di Antoine-Léonard Thomas nel luglio del 1824, mettendolo a frutto nella precedente operetta Il Parini ovvero della gloria;
è in questo testo che ritrova il rinvio al Fontenelle e da cui ricava
diversi spunti per la sua invenzione. Ecco infatti il brano di Thomas cui si riferisce: «Ruysch, un de plus grands hommes de la Hollande, anatomiste, médecin et naturaliste. Il porta à la plus grande
perfection l’art d’injecter […] Perfectionner ainsi, c’est être soimême inventeur. Sa méthode n’a jamais été bien connue. Il eut un
cabinet qui fut long ternps l’admiration de tous les étrangers, et
une des merveillcs de la Hollande. Ce cabinet étoit composé d’une
très-grande quantité de corps injectés et embaumés, dont les membres avoient toute leur mollesse, et qui conservaient un teint fleuri,
sans desséchement et sans rides. Les momies de M. Ruysch prolongeoient en quelque sorte la vie, dit M. de Fontenelle, au lieu que
celles de l’ancienne Egypte ne prolongeoient que la mort. On eût
dit que c’étoient des hommes endormis, prêts à parler à leur réveil
[…]. Le Czar Pierre, à son premier voyage en Hollande en 1698,
fut transporté de ce spectacle [...]. A son second voyage en 1717, il
acheta le cabinet et l’evoya à Petersbourg» (corsivi del curatore).
In realtà, partito dalla immagine delle «mummie», che ritrovava in
Buffon e in Thomas, Leopardi si rende conto in seguito che nel caso di Ruysch la definizione è impropria, come si vede dal fatto che
l’espressione: «che in linguaggio scientifico si direbbero preparazioni anatomiche», è aggiunta nella seconda edizione del libro.
2 Sola... eterna: «Unica ad essere eterna nell’universo», riferito a
morte di v. 3 e in contrapposizione con la caducità di ogni creata cosa. Vedi Cantico del gallo silvestre, rr. 90-91. Tutto converge in quest’attacco nell’evocare un’unica esclusiva suggestione: il significato
di Sola è rafforzato e addirittura imposto dalla posizione sintattica
Letteratura italiana Einaudi
156
Giacomo Leopardi - Operette morali
Ogni creata cosa4,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura5,
5
in forte rilievo (anticipa e fa attendere il sostantivo cui si riferisce) e
dalla posizione metrica, portando il primo accento forte del verso,
da cui proviene anche l’intonazione generale del coro, quella tonalità in o che lo domina.
3
si volve: «è destinata a ritornare» (latino volvitur). Cfr. i due
passi, tra loro legati, di Al conte Carlo Pepoli, vv. 147-148, «a che si
volva / Questo arcano universo», e del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 93-96, «Poi di tanto adoprar, di tanti moti /
D’ogni celeste, ogni terrena cosa, / Girando senza posa, / Per tomar sempre là donde son mosse».
4 Ogni creata cosa: «qualunque esistenza». La stessa considerazione è svolta nel Cantico del gallo silvestre, tra le operette la più vicina a questa: «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio
ed unico obbietto il morire» (rr. 90-91), «In qualunque genere di
creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto
in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte» (rr.
97-99), «Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla
morte, con sollecitudine e celerità mirabile» (rr. 101-102). Ma all’origine sta la consapevolezza raggiunta nel Dialogo della Natura e
di un Islandese, quando la Natura sottolinea che «la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione», e l’Islandese osserva che tale «vita infelisissima è «conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono».
5 In te... natura: è la proposizione principale. La «canzone» dei
morti è dunque una sorta di inno alla morte, visto il vocativo del v.
3 si posa, che fa coppia con si volve, è parola cara al Leopardi (e
analizzata nello Zibaldone) per la sua ambiguità, tra «collocarsi» e
«riposarsi», tra l’idea di «porre» e quella di «pausa»; cfr. soprattutto A se stesso, vv. 1-2, «Or poserai per sempre, / Stanco mio cor».
Con ignuda Leopardi preleva un’espressione tradizionale (in Petrarca indica l’anima priva del corpo dopo la morte: Canzoniere
CXXVI, 19, «torni l’alma al proprio albergo ignuda» e CXXVIII,
101. «l’alma ignuda e sola»), che aveva già usato in Alla sua donna
(v. 14, «ignudo e solo»), per indicare una natura, una condizione,
senza più nulla di vitale; di grado zero, per usare le parole di D. De
Robertis (Sul «Coro dei morti»...). Sul piano concettuale, infatti, la
morte è rappresentata non come mancanza di essere, ma come esistenza del non-essere: natura, ma ignuda; mente, ma confusa; pensier ma grave; manca la lena, non la speme, il desio in sé, ecc. Cfr.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
Lieta no, ma sicura6
Dall’antico dolor7. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura8;
Alla speme, al desio9, l’arido spirto10
Lena mancar si sente:
10
poi quanto si dirà nel dialogo, sulla morte come mancanza di «sentimento vivo», come «estinguersi della facoltà di sentire» (r. 135 e
seg.). Si noti l’assonanza interna -uda :-ura (- una in rima).
6 sicura: «al riparo». Ai morti non tocca nessuna felicità, ma sono salvi dal dolore che è proprio della vita. Il distico Nostra… sicura torna in chiusura quasi come un ritornello, marcando specularmente l’inizio e la fine del coro; un’espressione analoga è stata
segnalata (da D. De Robertis, op. cit.) nel Pastor fido del Guarini,
in un verso che fa appunto da ritornello nel recitativo di Amarilli,
atto II, sc. V: «nuda sì, ma contenta». Vedi anche Al conte Carlo
Pepoii, vv. 33-4, «e pieno, / Poi che lieto non può, corresse il giorno».
7 antico dolor: il dolore proprio della vita (vedi i versi seguenti);
antico per dirne l’allontanamento.
8
Profonda... oscura: dopo ignuda, è la prima immagine della
condizione dei morti; dominante la metafora dell’oscurità (notte,
oscura; profonda: «intensa, impenetrabile»), insieme ad un’idea di
lontananza e di immobilità (ancora profonda; grave nel senso di
«pesante, sprofondato, immobile»: cfr. per esempio Al conte Carlo
Pepoli, vv. 70-72, «Nell’imo [= profondo, n.d.c.] petto, grave, salda
immota / [...] siede / Noia immortale», e Il risorgimento, vv. 81-82,
«Chi dalla grave, immemore / Quiete or mi ridesta?»; di «gravezza
del sonno» si parla in Zibaldone, p. 2566); confusa mente vale «memoria che non è più in grado di distinguere, di riconoscere» (cfr.
poi confusa ricordanza). Vedi anche Cantico del gallo silvestre, rr.
47-50.
9 Alla speme, al desio: la «speranza» e il «desiderio» indicano
qui sinteticamente gli effetti dell’amor proprio, che in quanto tale è
connaturato in ogni vivente, secondo quanto è stato illustrato in altre operette (vedi almeno il Dialogo di Malambruno e di Farfarello),
e cui solo ora appunto è venuta meno la lena, la spinta.
10
arido spinto: come prima ignuda natura.
11
Così: «di conseguenza», perché mancata la lena a quel conti-
Letteratura italiana Einaudi
158
Giacomo Leopardi - Operette morali
Così11 d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente12
Senza tedio13 consuma.
Vivemmo14: e qual15 di paurosa larva,
15
nuo e inappagabile desiderio di felicità che è inseparabile dalla vita, lo spirito è sciolto, libero, dal dolore che necessariamente ne
conseguiva; affanno e temenza («timore»; cfr. Cantico dei gallo silvestre, r. 112-113: «molte cause di timore e d’affanno»; ma si noti
qui la scelta lessicale arcaica) indicano in compendio tutte le manifestazioni di quel dolore.
12
l’età vote e lente: «dato che non v’accade nulla e nessun sentimento le vana. Ma lente, tanto più in rima, è espressivo per il suono e la suggestione anche più che per il significato proprio» (Bacchelli). Lento è l’aggettivo caratteristico in Leopardi per indicare
un tempo immobile e privo di vita; vedi per esempio Ad Angelo
Mai, vv. 17-18: «più lento / E grave è il nostro disperato obblio»; A
un vincitore nel pallone, vv. 62-63: «putri e lente / Ore»; e Dialogo
di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, r. 259.
13
senza tedio: anche la noia, frutto della «tendenza imperiosa al
piacere» (cfr. ancora il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, r. 164), era una componente inevitabile della vita.
14 Vivemmo: l’aspetto puntuale del passato remoto caratterizza
la vita e la separa come esperienza definitivamente conclusa, in
contrasto con l’eterno presente della morte; il verbo si concentra in
uno rilievo fonico e sintattico fortissimo, e così si isola dentro una
pausa che è rievocativa della vita, ormai punto erratico nella confusa ricordanza dei morti. Cfr. Ultimo canto di Saffo, vv. 55-56, «Morremo. Il velo indegno a terra sparto. / Rifuggirà l’ignudo animo a
Dite», che propone a distanza il confronto speculare tra vivi (Morremo) e morti (Vivemmo), esposto in questo Coro (vedi versi seguenti; per di più «rifuggire» è il verbo del v. 27).
15
e qual: correlato a tal (v. 18), dà inizio ad una similitudine, che
svolge un tema già anticipato ai vv. 6-8; la memoria che i morti hanno della vita è come il ricordo confuso che un bambino ha di un
brutto sogno (si ha quindi un maggior grado di lontananza e di incertezza, essendo: il ricordo, di un sogno, di lattante; il sogno inoltre è pauroso, come la vita dolorosa). Cfr. poi nota 21. Per l’idea
della smemoratezza dello stato precedente, Leopardi potrà esser
stato stimolato da un passo di Buffon, anche se di senso contrario:
gli agonizzanti che tornati in vita non ricordano più nulla.
16
di paurosa larva /E di sudato sogno: è un caso di dittologia si-
Letteratura italiana Einaudi
159
Giacomo Leopardi - Operette morali
E di sudato sogno16,
A lattante fanciullo17 erra nell’alma18
Confusa19 ricordanza:
Tal memoria n’avanza20
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar21. Che fummo22?
Che fu quel punto23 acerbo24
20
nonimica; paurosa larva vale «spaventosa apparizione spettrale»
(Bacchelli), sudato ha senso attivo, «che provoca sudore» per lo
spavento.
17 fanciullo: nel senso di «bambino», come nota anche Leopardi
a margine del manoscritto, con rinvio al Vocabolario della Crusca.
18 erra nell’alma: «vaga nell’animo»; cfr. Paralipomeni della Batracomiomachia, II 4, 5: «e qual notturno spirto erra e confonde».
19
confusa: vedi v. 7.
20
n’avanza: rimane.
21
ma... rimembrar: al contrario di quanto succede al lattante
fanciullo, che sarà spaventato dal ricordo del sogno (tema = timore). «Ai morti il ricordo non fa paura. Lunge, con valore enfatico,
significa ch’essi son tanto «sicuri» dalla paura, quanto son certi di
non averla a riprovare, e che non rivivranno» (Bacchelli). Alla tema
si sostituisce in loro il sentimento di stupore esposto nei versi successivi.
22
fummo: riprende Vivemmo, ed è a sua volta ripreso con
anafora nel seguente Che fu; per l’uso del passato remoto, vedi nota 14.
23 punto: nel senso di fenomeno momentaneo, rapidissimo, di
contro all’eternità della morte, ma forse soprattutto nel senso di
cosa lontanissima, quasi impercettibile. Oltre ai Paralipomeni della
Batracomiomachia, III 4, «il varco [...] / Colà dove all’entrar subito
piomba / Notte in sul capo al passegger che vede / Quasi un punto
lontan d’un lume incerto / L’altra bocca onde poi riede all’aperto»,
cfr. soprattutto La Ginestra o il fiore del deserto, v. 163 e seg., «Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, / Cui di lontan fa specchio / Il
mare, e tutto di scintille in giro / Per lo voto seren brillare il mondo. / E poi che gli occhi a quelle luci appunto, / Ch’a lor sembrano
un punto, / E sono immense, in guisa / Che un punto a petto a lor
son terra e mare / Veracemente; [...] / [...] e quando miro / Quegli
ancor più senz’alcun fin remoti / Nodi quasi di stelle / Ch’a noi
paion qual nebbia, a cui non l’uomo / E non la terra sol, ma tutte
Letteratura italiana Einaudi
160
Giacomo Leopardi - Operette morali
Che di vita ebbe nome25?
Cosa arcana e stupenda26
Oggi27 è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de’ vivi al pensiero
L’ignota morte appar28. Come da morte
25
in uno, / Del numero infinite e della mole, / Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle / O sono ignote, o così paion come / Essi alla
terra, un punto / Di luce nebulosa; al pensier mio / Che sembri allora, o prole / Dell’uomo?» [corsivi del curatore], dove è presente
lo stesso schema speculare che troviamo tra pochi versi nel Coro
(vedi anche nota 29).
24
acerbo: «crudo»; cfr. I nuovi credenti, vv. 1-3: «le carte ove l’umana / Vita esprimer tentai, con Salomone / Lei chiamando, qual
soglio, acerba e vana».
25 Che... nome: cfr. Al conte Carlo Pepoli, vv. 1-2, «Questo affannoso e travagliato sonno / Che noi vita nomiam»; qui (come poi ne
La Ginestra o il fiore del deserto, vv. 190-191: «in questo oscuro /
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome») l’espressione dimostra
l’allontanamento, anzi il capovolgimento del punto di vista dei
«mortali» da parte dei morti.
26 arcana e stupenda: «misteriosa e tale da destare stupore»; cfr.
l’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» con cui
si chiude il Cantico del gallo silvestre.
27
Oggi: nell’eterno presente dei morti.
28
è la vita… e tale / Qual... appar: altra similitudine, impostata
con gli stessi elementi grammaticali (tale/quale), ma disposti a
chiasmo rispetto alla precedente (vv. 14-19). Su un chiasmo è poi
organizzato tutto il paragone: la vita (1) – al pensier (2) – nostro =
dei morti (3) / de’ vivi (3) – al pensiero (2) – morte (1), tale da stringere con semplicità perfetta più che il parallelismo, la specularità
tra i due membri; nessuna coloritura offusca l’intensità conoscitiva
del paragone, che è qui straordinaria (Bacchelli ha parlato di «estasi»), perché non porta a un chiarimento (il termine ignoto spiegato
col noto), ma è il rispecchiamento di due ignoti: «la vita al pensiero
dei morti è uguale alla morte nel pensiero dei vivi: ignota». Anche
il paragone precedente è impostato sullo stesso schema (la vita è ai
morti come un sogno al bambino: una confusa ricordanza), ma è
però ancora legato ad altre immagini; parla infatti di «confusa ricordanza», mentre ora si parla di «ignoto».
Letteratura italiana Einaudi
161
Giacomo Leopardi - Operette morali
Vivendo rifuggia, così rifugge29
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura30;
Lieta no ma sicura,
Però31 ch’esser beato32
Nega ai mortali e nega a’ morti il fato33.
30
29
Come... rifugge: ribadisce lo schema speculare dei versi precedenti, ancora con un paragone disposto a chiasmo [anche se non
completo: da morte (1) — vivendo (2) — rifuggia (3) / rifugge (3)
— dalla fiamma vitale (1)]. Cfr. il riscontro citato alla nota 14. Per
l’immagine vedi Zibaldone, p. 282 (tra i pensieri alla base di quest’operetta, citato in Introduzione): «l’anima non si svelle come un
membro, ma parte naturalmente quando non può più rimanere,
nello stesso modo che una fiamma si estingue e parte da quel corpo
dove non trova più alimento»; l’ignuda natura è ciò che, immaginosamente, rimane di una fiamma senza materia che l’alimenti. Ma si
può riconoscere anche il contributo di Buffon, nella rappresentazione della vita suscettibile d’aumento e di diminuzione, fino ad
estinguersi (cfr. Zibaldone, pp. 290-291). Vedi anche Appressamento della monte, V, 4-5: «Sento che va languendo entro mio petto /
La vital fiamma».
30
Nostra... sicura: cfr. vv. 4-5.
31
Però: «perciò»; diversamente da quanto disposto nel v. 5 e
seg., che spiegavano il sicura, qui la spiegazione è relativa al primo
elemento, lieta no, anche in questo modo rispettando lo schema a
chiasmo che appare dominare il Coro, e concludendo sulla nota
negativa.
32
beato: felice.
33
Nega... fato: in questa forma il verso appare nell’edizione fiorentina del 1834, mentre fin dall’autografo si leggeva «Nega agli
estinti ed ai mortali il fato» (cfr. anche Palinodia al marchese Gino
Capponi, v. 175, «il fragil mortale, a perir fatto»). L’innovazione è
una conquista decisiva non solo perché l’affermazione è più perentoria, ma soprattutto perché riporta la conclusione a una piena
continuità di forma col resto del Coro. Il verso viene organizzato in
due membri che ripetono il parallelismo fin qui svolto, ma nel momento stesso in cui si accostano e distinguono i due mondi (vivi e
morti), tramite la ripetizione del verbo e la paronomasia, se ne fa
risaltare l’unico fondamento, che è la morte: la paronomasia distingue i viventi in quanto destinati anch’essi alla morte (mortali); dun-
Letteratura italiana Einaudi
162
Giacomo Leopardi - Operette morali
RUYSCH fuori dello studio, guardando per gli spiragli34
35 dell’uscio. Diamine35! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più morto
di loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla
corruzione, che mi risuscitassero. Tant’è: con tutta la fi40 losofia36, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo37 che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non
so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non
rompano l’uscio, o non escano pel buco della chiave, e
mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura
45 de’ morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e
proviamo un poco di far paura a loro.
Entrando. Figliuoli, a che giuoco giochiamo38? non
que si chiude il cerchio tornando all’inizio: Sola nel mondo eterna,
a cui si volve / Ogni creata cosa (i mortali «si volvono» alla morte).
Inoltre la ripetizione di nega rende universale la negazione della felicità, come un’enorme cappa di infelicità che tutti avvolge. Insomma, «null’altro di bene ci dà la morte, fuorché liberarci di quel grave dolore che fu il vivere» (Antognoni). Tra inizio e fine del Coro
due dati quindi emergono: l’eternità della non-vita e della non-felicità.
34 spiragli: una nota manoscritta di Leopardi rinvia alla voce
«Buco» del Vocabolario della Crusca.
35
Diamine: con questo tipico intercalare da lingua parlata
(«esclamazione familiare», dice il Vocabolario della Crusca), l’inizio
di battuta dà il tono degli interventi di Ruysch, con stacco che non
potrebbe essere più forte da quello del Coro. Tutto l’intervento è
di registro comico: vedi in particolare «Chi ha insegnato la musica
a questi morti, che cantano di mezza notte come galli?»; «Mal abbia quel diavolo...»; «o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare a letto?».
36 con tutta la filosofia: altro tratto colloquiale («nonostante tutta la sicurezza che dovrebbe venirmi dallo studio»).
37 Mal abbia quel diavolo: cfr. Dialogo di Malambruno e di Farfarello, r. 48: «Dunque ritorna tu col mal anno».
38
a che giuoco giochiamo: espressione familare usata «per rim-
Letteratura italiana Einaudi
163
Giacomo Leopardi - Operette morali
vi ricordate di essere morti? che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la visita dello Czar39, e vi pen50 sate di non essere più soggetti40 alle leggi di prima? Io
m’immagino che abbiate avuto intenzione di far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con
voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese41 ai vivi,
come ai morti; e però42 levatevi di casa mia. Se è vero
55 quel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate
altro sangue da bere; che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale43 di quel
finto, che vi ho messo nelle vene44. In somma, se vorrete
continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati fi60 nora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi
mancherà niente; se no, avvertite ch’io piglio la stanga45
dell’uscio, e vi ammazzo tutti46.
proverare alcuno, o per dimostrargli il nostro malcontento» (Vocabolario della Crusca); Ruysch mette in atto il proposito di fingersi
coraggioso e di trattare da una posizione di forza i morti come fossero dei sottoposti indisciplinati.
39
Czar: nota di leopardi: «(40) Lo studio del Ruysch fu visitato
due volte dallo Czar Pietro primo: il quale poi, comperato, lo fece
condurre a Pietroburgo.» Le informazioni spiegate da Leopardi in
questa sua nota e nella successiva dipendono sempre dal brano del
Thomas che abbiamo riportato all’inizio, ma che Leopardi non
aveva segnalato al lettore.
40
soggetti: «sottoposti». Come cioè se i morti non ritenessero
più di «obbedire» alle leggi naturali come facevano prima della visita.
41 far le spese: nutrire (cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese,
rr. 226-227).
42
però: perciò.
43
liberale: generoso.
44
vene: nota di leopardi: «(41) Il mezzo usato dal Ruysch a conservare i cadaveri, furono le iniezioni di una certa materia composta da esso, la quale faceva effetti meravigliosi».
45
stanga: la traversa di legno che serviva da chiusura.
Letteratura italiana Einaudi
164
Giacomo Leopardi - Operette morali
65
70
75
80
MORTO. Non andare in collera; che io ti prometto
che resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci
ammazzi.
RUYSCH. Dunque che è cotesta fantasia47 che vi è nata adesso, di cantare?
MORTO. Poco fa sulla mezza notte appunto, si è
compiuto per la prima volta quell’anno grande e matematico48, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa
similmente è la prima volta che i morti parlano. E non
solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nel
fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e
in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza
notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che
hai sentita49.
RUYSCH. E quanto dureranno a cantare o a parlare?
MORTO. Di cantare hanno già finito. Di parlare hanno facoltà per un quarto d’ora. Poi tornano in silenzio
per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
RUYSCH. Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate
a rompere50 il sonno un’altra volta. Parlate pure insieme
liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per curiosità, senza disturbarvi.
46
vi ammazzo tutti: fedele al ruolo che si è assunto, Ruysch finisce coll’enunciare una grottesca spacconata.
47 fantasia: «capriccio», «ghiribizzo» (che è lezione poi rifiutata
da Leopardi).
48 anno… matematico: «L’anno grande e matematico era, secondo gli antichi, un periodo di tempo dopo il quale i sette pianeti tornavano ad avere tutti la stessa posizione che avevano avuta al principio del loro moto. Gli si attribuivano diverse durate, ma sempre
di molte migliaia d’anni ordinari» (Porena).
49 E non solo noi... sentita: non si tratta di una «fantasia»; salendo e allargandosi lo sguardo fino all’orizzonte indefinito e sterminato di tutti i morti, nelle parole del Morto ritorna l’evocazione
universale del Coro.
Letteratura italiana Einaudi
165
Giacomo Leopardi - Operette morali
MORTO. Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta51.
RUYSCH. Mi dispiace veramente: perché m’immagino che sarebbe un gran sollazzo52 a sentire quello che vi
90 direste fra voi, se poteste parlare insieme.
MORTO. Quando anche potessimo, non sentiresti
nulla; perché non avremmo che ci dire53.
R UYSCH . Mille domande da farvi mi vengono in
mente54. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo
95 a scegliere, datemi ad intendere 55 in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d’animo nel punto della
morte.
MORTO. Del punto proprio della morte, io non me
ne accorsi56.
100
GLI ALTRI MORTI. Né anche noi.
RUYSCH. Come non ve n’accorgeste?
85
50
rompere: interrompere.
51
si accheta: ritorna quieto, silenzioso.
52
sollazzo: divertimento (cfr. invece Dialogo di Torquato Tasso e
del suo Genio familiare, r. 220).
53 Quando... dire: la curiosità di Ruysch corrisponde all’abituale
immaginazione del mondo dei morti come una sorta di continuazione di quello dei vivi, del quale ripete in qualche forma passioni,
morali, eventi, ecc. Il mondo dei morti di Leopardi è invece realmente del tutto diverso, autonomo, senza vita: nelle «età vote e lente» che i morti consumano non c’è nulla da dire.
54
Mille... mente: cfr. il primo amore, vv. 29-31, «oh come / Mille
nell’alma instabili, confusi / Pensieri si volgean!»; e Canto notturno
di un pastore errante dell’Asia, vv. 77-78, «Mille cose sai tu, mille
discopri, / che son celate al semplice pastore».
55
datemi ad intendere: fatemi capire.
56
Del punto... accorsi: cfr. Buffon (IV, p. 292): «Muor dunque la
maggior parte degli uomini senza saperlo». Da questo momento
l’operetta svolge la sostanza concettuale che Leopardi era venuto
elaborando sulla scorta della lettura di Buffon nei pensieri citati
dello Zibaldone.
Letteratura italiana Einaudi
166
Giacomo Leopardi - Operette morali
MORTO. Verbigrazia57, come tu non ti accorgi mai
del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre58.
RUYSCH. Ma l’addormentarsi è cosa naturale.
105
MORTO. E il morire non ti pare naturale? mostrami
un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia59.
RUYSCH. Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste di morire.
110
Così colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,
dice un poeta italiano60. Io mi pensava che sopra questa
faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche
cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul sodo, non
115 sentiste nessun dolore in punto di morte?
MORTO. Che dolore ha da essere quello del quale chi
lo prova, non se n’accorge?
RUYSCH. A ogni modo, tutti si persuadono che il
sentimento della morte61 sia dolorosissimo.
57 Verbigrazia: «A modo di esempio», come dice altrimenti Leopardi; ma la scelta dell’espressione latina rappresenta, nei tre casi
in cui è usata nelle Operette morali, una caricatura del linguaggio
affettato e cerimonioso; qui con intento di riverenza ironica verso
Ruysch.
58 come... porre: vedi Zibaldone: «L’uomo non si avvede mai precisamente del punto in cui egli si addormenta, per quanto voglia
proccurarlo» ecc.
59 E il morire… muoia: cfr. Buffon, IV, p. 265: «Tutto cangia nella Natura, tutto s’altera, tutto perisce».
60 poeta italiano: «Berni Orlando innamorato canto 53, stanza
60», come annota Leopardi sull’autografo (parte II, XXIV, 60). I
versi del Berni sono riecheggiati anche in un’espressione ironica
usata da Leopardi in una lettera alla sorella Paolina del 1° marzo
1826 (da Bologna): «Io non sono mai stato a Firenze, ch’io me ne
sia accorto».
61
il sentimento della morte: il «sentire», il percepire la morte.
Letteratura italiana Einaudi
167
Giacomo Leopardi - Operette morali
MORTO. Quasi che la morte fosse un sentimento, e
non piuttosto il contrario62.
RUYSCH. E tanto quelli che intorno alla natura dell’anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto
quelli che tengono la sentenza comune63, tutti, o la più
125 parte, concorrono64 in quello ch’io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna
comparazione, un dolore vivissimo65.
MORTO. Or bene, tu domanderai da nostra parte agli
uni e agli altri: se l’uomo non ha facoltà di avvedersi del
130 punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor
parte, gli restano non più che interrotte66, o per sonno o
per letargo o per sincope67 o per qualunque causa; come
si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in per135 petuo? Oltre di ciò68, come può essere che un sentimen120
62 il contrario: cioè una mancanza di sentimento, come il Morto
spiega distesamente nella replica successiva. Cfr. in particolare i
passi dello Zibaldone (pp. 281 e seg., 2182, 2566) citati in Introduzione. La battuta del Morto è come un «a parte», che non interrompe la continuità del discorso di Ruysch (vedi l’inizio: «E tanto...»).
63 tanto quelli… comune: cioè sia coloro che considerano «l’anima come materiale», sia coloro che la considerano «come spirituale» (secondo lo schema già impostato nel pensiero dello Zibaldone,
p. 281).
64
concorrono: vengono a essere d’accordo.
65
la morte… vivissimo: cfr. il passo di Zibaldone. p. 2566: «come dunque credere che la morte rechi, e sia essa stessa, e non possa non recare un dolor vivissimo?».
66
non più che interrotte: mentre nella morte cessano del tutto; la
sostanza dell’argomentazione ricalca quanto detto nelle prime battute della discussione (vedi r. 102 e seg.).
67
sincope: perdita di coscienza, improvvisa e non definitiva.
68
Oltre di ciò...: tutta questa porzione (fino a r. 143) riprende
quasi alla lettera la prima parte del pensiero dello Zibaldone, p.
2566, citato in Introduzione, del quale mantiene identica la strut-
Letteratura italiana Einaudi
168
Giacomo Leopardi - Operette morali
140
145
150
155
to vivo abbia luogo 69 nella morte? anzi, che la stessa
morte sia per propria qualità un sentimento vivo?
Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si
annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della
facoltà di sentire70, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che
muoiono di mali acuti e dolorosi71, in sull’appressarsi
della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si
quietano e si riposano in modo, che si può conoscere
che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore72, sicché questo cessa prima di quella.
Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere
a morir di dolore in punto di morte.
RUYSCH. Agli Epicurei73 forse potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti
della sostanza dell’anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendo
udito parlare e cantare i morti74. Perché stimando che il
tura (si veda la serie di interrogative; l’espressione Quando tutti i
sentimenti vitali… che diventa Quando la facoltà di sentire...).
69
abbia luogo: si trovi.
70
questo... sentire: è quanto nel Coro Leopardi indica con l’immagine della «natura ignuda».
71
Vedete… dolorosi: vedi in Introduzione il passo di Zibaldone,
p. 2182, che corregge un’osservazione di Buffon (riprendendo una
frase dello Zibaldone, p. 291: «E ciò in qualunque malattia, anche
nelle acutissime, nelle quali il Buffon pare che convenga che la
morte possa essere dolorosa»).
72
non… dolore: «non basta neanche a sentire più il dolore».
73
Epicurei: vedi r. 123. Non sfugge a Ruysch che identificare la
morte con l’«estinguersi della facoltà di sentire» è idea pienamente
materialista.
74
e farò... morti: si noti l’ironia da parte di Leopardi.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
morire consista in una separazione dell’anima dal
corpo75, non comprenderanno come queste due cose,
congiunte e quasi conglutinate76 tra loro in modo, che
constituiscono l’una e l’altra una sola persona, si possa160 no separare senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile77.
MORTO. Dimmi78: lo spirito è forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spi165 rito si parte? o forse è un membro del corpo, in modo
che n’abbia a essere schiantato o reciso violentemente?
Non vedi che l’anima in tanto esce di esso corpo, in
quanto solo è impedita di rimanervi, e non v’ha più luogo79; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradi170 chi80? Dimmi ancora: forse nell’entrarvi, ella vi si sente
conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici,
75
Perché… corpo: l’anima essendo immortale, si deve separare
dal corpo; si capisce insomma che la questione trattata da Buffon
tocca un punto delicato: negare il dolore della separazione potrebbe essere una negazione anche dell’immortalità dell’anima.
76
conglutinate: in allitterazione con congiunte.
77
una grandissima violenza… indicibile: è l’idea che Buffon
combatte (cfr. anche i passi da noi riportati nel Dialogo di Torquato
Tasso e del suo Genio familiare, nota 50) e da cui si sviluppa la riflessione di Leopardi sull’argomento; travaglio è parola ricorrente
nello Zibaldone, pp. 2182-2184.
78 Dimmi: per tutto il passo che segue vedi Buffon, IV, pp. 293294 e Zibaldone, pp. 281-283.
79 non… luogo: «non vi ha più la sua sede» (cfr. la citazione della nota seguente).
80 strappi e sradichi: altra allitterazione. Le frasi dello Zibaldone
(p. 282) sono qui particolarmente vicine: la morte è «un impedimento che le vieta di più rimanervi, posto il quale impedimento,
l’anima parte da se, perché manca il come abitare il corpo, non
perchè una forza violenta ne la sradichi e rapisca» [corsivi del curatore], anche qui con un accenno di allitterazione.
Letteratura italiana Einaudi
170
Giacomo Leopardi - Operette morali
conglutinare81? Perché dunque sentirà spiccarsi82 all’uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veementissima83? Abbi per fermo84, che l’entrata e l’uscita del175 l’anima sono parimente quiete, facili e molli85.
RUYSCH. Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?
MORTO. Piuttosto piacere86 che altro. Sappi che il
morire, come l’addormentarsi, non si fa in un solo istan180 te, ma per gradi87. Vero è che questi gradi sono più o
meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte88. Nell’ultimo di tali istanti la
morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né
anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare
185 dolore: perché il dolore è cosa viva89, e i sensi dell’uomo
in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di
forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere
81
come... conglutinare: il Morto, al posto dei termini più comuni
usati prima (conficcare, allacciare), riprende quello «scientifico»
adottato da Ruysch: vedi r. 158.
82
spiccarsi: contrario appunto di «appiccare» (vedi r. 162), come spiega il Vocabolario della Crusca.
83
veementissima: violentissima.
84
per fermo: per sicuro.
85
quiete, facili e molli: quiete e facili rispondono a grandissima
violenza e travaglio indicibile (rr. 160-161); molli contrasta con la
durezza espressa da appiccato, conficcare, allacciare.
86 Piuttosto piacere: Leopardi riprende ora le riflessioni dello Zibaldone, p. 290 e seg.
87
per gradi: vedi ancora Buffon, op. cit., IV, pp. 290-291.
88
secondo... morte: come Leopardi spiega nello Zibaldone, p.
2184 (citato in Introduzione).
89 perchè.. viva: per tutto quest’ordine di considerazioni vedi la
seconda parte del pensiero dello Zibaldone, pp. 2566-2567.
Letteratura italiana Einaudi
171
Giacomo Leopardi - Operette morali
non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei
190 diletti umani consistono90 in qualche sorta di languidez-
za. Di modo che i sensi dell’uomo sono capaci di piacere
anche presso all’estinguersi; atteso che spessissime volte
la stessa languidezza è piacere; massime quando vi libera
da patimento; poiché ben sai che la cessazione di qua195 lunque dolore o disagio, è piacere per se medesima91.
Sicché il languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l’uomo da maggior patimento92. Per
me93, se bene nell’ora della morte non posi molta attenzione a quel che io sentiva, perché mi era proibito dai
200 medici di affaticare il cervello, mi ricordo però che il
senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che
è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando.
GLI ALTRI MORTI. Anche a noi pare di ricordarci al205 trettanto.
RUYSCH. Sia come voi dite: benché tutti quelli coi
90
la maggior... consistono: «Concordanza ad sensum» (Contini).
91
perché... medesima: come Leopardi ripete infatti più volte a
partire della «teoria del piacere» (vedi Zibaldone, p. 172, e almeno
anche p. 1779); cfr. infatti Zibaldone, p. 290: «Che il torpore sia dilettevole l’ho notato già in questi pensieri nella teoria del piacere, e
assegnatane la ragione».
92
Sicché... patimento: cfr. sempre Zibaldone, p. 291: «E però generalmente e sempre, il torpore della morte dev’essere più grato di
quello del sonno, perchè succede a molto maggior travaglio».
93 Per me: è il segnale, come sappiamo (vedi La scommessa di
Prometeo, nota 78), del momento in cui Leopardi fa aderire strettamente la dichiarazione del personaggio a un suo punto di vista più
individualmente personale; esattamente come accade infatti nel
pensiero dello Zibaldone, pp. 290-292, in cui l’autore interviene in
prima persona. Qui inoltre il Per me è messo in evidenza, perché,
creando un anacoluto, è anticipato, e ripreso, dopo il lungo inciso
con il mi, all’inizio della principale (e anche nell’inciso si notino le
sottolineature, sia pure per ragioni narrative, «quel che io sentiva»,
«mi era proibito»).
Letteratura italiana Einaudi
172
Giacomo Leopardi - Operette morali
quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro esperienza propria94. Ora
210 ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella
dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse
una cortesia della morte; o pure immaginaste qualche altra cosa?
MORTO. Finché non fui morto, non mi persuasi mai
215 di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro,
fino all’ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai
che mi avanzasse di vita un’ora o due: come stimo che
succeda a molti, quando muoiono95.
GLI ALTRI MORTI. A noi successe il medesimo.
RUYSCH. Così Cicerone96 dice che nessuno è talmen220
te decrepito, che non si prometta di vivere almanco un
anno. Ma come vi accorgeste in ultimo97, che lo spirito
94
ma... propria: in chiusura dell’operetta ritorna il registro comico caratteristico del personaggio Ruysch; si noti l’ironia un
po’ottusa dell’espressione «mentre sentivate quella dolcezza» (e anche di «che quel diletto fosse una cortesia della morte»), con cui
Ruysch sintetizza rozzamente e senza crederci sul serio le definizioni ben altrimenti raffinate del Morto (che parla di piacere, di languore).
95
Finché... muoiono: cfr. Zibaldone, p. 291: «Quanto alle malattie dove l’uomo si estingue appoco appoco, e con piena conoscenza fino all’ultimo, è certo che non v’è momento così immediatamente vicino alla morte, dove l’uomo, anche il meno illuso non si
prometta un’ora almeno di vita, come si dice de’vecchi ec. E così la
morte non è mai troppo vicina al pensiero del moribondo per la
solita misericordia della natura»; e Buffon IV, p. 292, citato in Introduzione: «Muor dunque la maggior parte degli uomini senza saperlo» ecc.
96 Cicerone: nota di leopardi: «(42) De Senect., cap. 7.» Leopardi si riferisce a un passo che aveva appuntato sullo Zibaldone (p.
599): «Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet posse vivere», collegandolo già allora alle riflessioni della p. 290 e seg.
97
in ultimo: alla fine.
Letteratura italiana Einaudi
173
Giacomo Leopardi - Operette morali
era uscito del corpo? Dite: come conosceste di essere
morti? Non rispondono98. Figliuoli99, non m’intendete?
225 Sarà passato il quarto d’ora. Tastiamogli un poco. Sono
rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far
paura un’altra volta: torniamocene a letto100.
98
Non rispondono: come è accaduto all’Islandese, un evento
esterno impedisce la risposta alla domanda più problematica. Si
veda in Introduzione quanto Leopardi aveva scritto alla fine del
pensiero più volte citato dello Zibaldone, pp. 290-293, sul problema del momento «non sensibile, nè conoscibile, nè ricordabile»
del passaggio alla morte, «il quale – concludeva – pare che debba
essere istantaneo, giacché il passaggio dal conoscere al non conoscere, dall’essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma al
nulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente per salto
e istantaneamente». Ma dopo il Dialogo della Natura e di un Islandese il problema si è posto per Leopardi in modo del tutto diverso,
e alla questione i morti hanno in realtà già risposto, non razionalmente, poiché sarebbe impossibile, ma poeticamente: con l’evocazione nel Coro del loro stato, altrimenti indicibile, di esistenza del
non-essere.
99 Figliuoli: Ruysch ha iniziato il dialogo con lo stesso vocativo
(r. 47).
100
Tastiamogli... letto: l’aria di commedia riavvolge l’evento
straordinario negli atti più quotidiani.
Letteratura italiana Einaudi
174
CANTICO DEL GALLO SILVESTRE
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il
cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo
nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo1.
Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che
5
di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di
ragione2; o certo, come un pappagallo3, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli4 uomini: perocché5 si è trovato in una cartapecora6 antica,
1 cielo: nota di leopardi: « (54) Vedi, tra gli altri, il Buxtorf,
Lexic. Caldaic. Talmud. et Rabbin. col. 2653 et seq.» Si tratta del
Lexicon Chaldaicum Talmudicum et Rahbinicum, Basilea, «Sumptibus et Typis Ludovicis Regis», 1639. Alla voce citata Leopardi trovava riportati tra gli altri questi passi: «Gallus sylvestris, cujus pedes consistunt in terra, et caput ejus pertingit in caelum usque,
cantai coram me, Psal. 50, v. 11»; «Gallo sylvestri intellegentia est
ad laudandum me, Job 38. 36»; dai quali derivano i tratti della rappresentazione del Gallo nell’operetta. Mentre i commentatori riportano le citazioni come se provenissero direttamente dai passi
biblici indicati, ha giustamente notato Sanesi che non corrispondono affatto, e che anzi in tutto il Vecchio Testamento non si trova alcun riferimento specifico a tale «gallo silvestre» in Job 38. 36 si legge in effetti: «quis posuit in visceribus hominis sapientiam vel quis
dedit gallo intelligentiam»); le frasi appartengono invece a qualche
targum, cioè parafrasi amplificata della Bibbia, e come tale difatti
le riporta il Buxtorf, ispirando in questo modo l’immaginazione
leopardiana.
2 ha uso di ragione: cfr. il passo targumico sopra riportato
sull’«intelligenza» del Gallo.
3 come un pappagallo: è la spia più significativa di un trattamento ironico della materia.
4
a guisa degli: come gli.
5
perocchè: poiché.
6
cartapecora: o pergamena.
Letteratura italiana Einaudi
175
Giacomo Leopardi - Operette morali
10 scritto in lettera ebraica7, e in lingua tra caldea, targumi-
ca, rabbinica, cabalistica e talmudica8, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra9, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né
senza interrogare più d’un rabbino, cabalista, teologo,
15 giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre10 se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le
mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l’oda canta20 re, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la
lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qual-
7
in lettera ebraica: cioè secondo l’alfabeto ebraico.
8
in lingua... talmudica: «Il caldeo è l’aramaico [la lingua semitica parlata all’epoca di Gesù in tutta l’area tra Palestina e Mesopotamia]; il targumico è la lingua dei targu-mi-m, «traduzioni» (per eccellenza quelle della Bibbia in aramaico); il rabbinico è il
neo-ebraico usato dai rabbini (comparabile al latino scolastico); cabalistica è la lingua (ebraica) della Qa-bbala-h, l’insieme dei testi
esoterici; il talmudico ? la lingua, prevalentemente aramaica, del
Talmu-d, corpo di scritture soprattutto giuridiche» (Contini). Leopardi gioca sull’effetto comico prodotto dall’elenco di lingue dai
nomi esotici (e un altro catalogo è subito dopo: «più d’un rabbino,
cabalista, teologo, giuriconsulto e filosofo ebreo»). Cfr. Paralipomeni della Batracomiomachia, VIII, vv. 42-43: «Perchè se ben le antiche pergamene, / Dietro le quali ho fino a qui condotta / La storia mia, qui mancano, e se bene / Per tal modo la via m’era
interrotta, / La leggenda che in quella si contiene / Altrove in qual
si fosse lingua dotta / Sperai compiuta ritrovar: ma vòto / Ritornommi il pensiero e contro il voto. // Questa in lingua sanscrita e
tibetana, / Indostanica, pahli e giapponese, / Arabica, rabbinica,
persiana, / Etiopica, tartara e cinese, / Siriaca, caldaica, egiziana, /
Mesogotica, sassone e gallese, / Finnica, serviana e dalmatina, / Valacca, provenzal, greca e latina, // Celata in molte biblioteche e
molte / di levante si trova e di ponente».
9 Scir... letzafra: è, come spiega Contini, un montaggio di «citazioni targumiche»: de-tarn e gôl ba-r-? «del gallo del bosco», le-sapr-â
«al mattino»; a si-r corrisponde «cantico».
10
ritrarre: dedurre, capire.
Letteratura italiana Einaudi
176
Giacomo Leopardi - Operette morali
che altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto;
per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la
25 prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo
stile interrotto, e forse qualche volta gonfio11, non mi
dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del
testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte
all’uso delle lingue, e massime12 dei poeti, d’oriente.
Su, mortali, destatevi13. Il dì rinasce: torna la verità
30
in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso
nel vero.
Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre14 col35 l’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama
11
Lo stile… gonfio: sono i fatti principali con cui veniva identificato lo stile dei testi biblici che Leopardi ha in particolare presenti
nella sua imitazione (Salmi e Cantico dei cantici) e in cui si riassumevano genericamente le caratteristiche della poesia cosiddetta
«orientale». Interrotto riguarda la costruzione del discorso per frasi brevi e giustapposte, secondo la sintassi della lingua ebraica, che
non conosce quasi ipotassi; cfr. Zibaldone, p. 2615, dove Leopardi
parla dello scrivere «spezzato, come si vede ne’ libri poetici e sapienziali della scrittura», e spiega: «La lingua ebraica manca quasi
affatto di congiunzioni d’ogni sorta e non può a meno di passar da
un periodo all’altro senza legame, se pure vuoi servire alla varietà,
perché altrimenti tutti i suoi periodi comincerebbero, come moltissimi cominciano, dall’uau» (che è la congiunzione elementare e polivalente dell’ebraico). Lo stile gonfio consiste in una ridondanza
delle immagini e delle espressioni, in particolare per un’esuberanza
di immagini figurate.
12
massime: soprattutto.
13
Su... destatevi: è il richiamo del gallo, ripetuto a metà canto,
che suona come la sveglia dei prigionieri, dei mortali condannati a
vivere: ripigliatevi la soma, il peso, della vita; così che implicitamente, per contrapposizione, risulta più dolce il mondo falso, delle
immagini vane sognate, che quello non gradito del vero.
14
ricorre: ripercorre.
Letteratura italiana Einaudi
177
Giacomo Leopardi - Operette morali
alla memoria i disegni, gli studi e i negozi15; si propone16
i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello
spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è
più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente
40 aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono
soddisfatti di questo desiderio: a tutti17 il risvegliarsi è
danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno,
a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’una
45 e l’altra insino alla vigilia18 del dì seguente, conservasi
intera e salva; ma in questa19, o manca o declina.
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo20, ed una cosa
15
i disegni, gli studi e i negozi: i progetti, gli impegni e le attività.
16
si propone: si mette davanti.
17
a tutti: si noti: E ciascuno... Ma pochi... a tutti.
18
vigilia: il periodo in cui si è svegli; letizia e speranza si mantengono finché non torna la verità.
19
in questa: nella vigilia.
20
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo...: per questa ricorrente
immaginazione leopardiana Fubini ha citato La vita solitaria, vv.
26-38: «Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, / La sua tranquilla
imago il Sol dipinge, / Ed erba o foglia non si crolla al vento, / E
non onda incresparsi, e non cicala / Strider, nè batter penna augello in ramo, / Nè farfalla ronzar, nè voce o moto / Da presso nè da
lunge odi nè vedi. / Tien quelle rive altissima quiete: / Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio / Sedendo immoto; e già mi par che
sciolte / Giaccian le membra mie, nè spirto o senso / Più le commuova, e lor quiete antica / Co’ silenzi del loco si confonda»; e
spontaneo è il ricordo de L’infinito (con la «profondissima quiete»
del v. 6). Ma questa specie di nuova variante funebre corrisponde
all’immaginazione di uno stato di minimo vitale che presiede al
«Coro dei morti» nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie; il sonno perpetuo, la profondissima quiete corrispondono appunto alla profonda notte in cui iena mancar si sente; così qui non
voce, non moto alcuno, come là i morti sono immobili e non parlano; e languendo richiama precisamente il «languore della morte».
Questo «sonno perpetuo» anticipa infatti la metafora sonno=morte, esplicita nella «stanza» successiva.
Letteratura italiana Einaudi
178
Giacomo Leopardi - Operette morali
medesima colla vita; se sotto l’astro diurno21, languendo
per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non
50 apparisse opera22 alcuna; non muggito di buoi per li
prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse
per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non
delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcu55 na banda23; certo l’universo sarebbe inutile24; ma forse
che vi si troverebbe o copia25 minore di felicità, o più di
miseria, che oggi non vi si trova26? Io dimando a te, o sole27, autore del giorno e preside della vigilia28: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo
60 e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo29 infra i viventi essere beato30? Delle opere innumerabili dei mortali
da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di
21
astro diurno: il sole.
22
opera: attività.
23
banda: parte.
24
certo… inutile: al quadro della profondissima quiete lentamente evocato e assaporato nella protasi, si oppone bruscamente la
conclusione dell’apodosi.
25
copia: quantità.
26
ma, forse... trova?: domande retoriche; è nella vigilia, nella vita attiva che si trovano infelicità e miseria.
27
o sole: che sta sorgendo.
28 autore...
vigilia: una delle più artificiose tra le espressioni metaforiche con cui Leopardi imita lo «stile gonfio»; preside vale «che
presiede, a capo».
29 un solo: nella contrapposizione tra un solo e lo spazio dei secoli sta l’efficacia della domanda; così appena dopo,
innumerabili/pur una.
30
beato: al solito significa «felice».
Letteratura italiana Einaudi
179
Giacomo Leopardi - Operette morali
65 presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del
mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual
montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto,
in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano31 e
scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede
70 nell’imo32 delle spelonche, o nel profondo della terra o
del mare? Qual cosa animata33 ne partecipa; qual pianta
o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o
sfornita di virtù vegetative o animali34? E tu medesimo,
tu che quasi un gigante35 instancabile, velocemente, dì e
75 notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice36?
Mortali, destatevi37. Non siete ancora liberi dalla vi38
ta . Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrin-
31
illustrano: illuminano.
32
imo: intimo (che è variante scartata da Leopardi).
33
cosa animata: animale.
34
quai... animali: per dire qualunque «cosa creata».
35
quasi un gigante: una nota dell’autografo rinvia al Salmo 18, 7:
«Exultavit ut gigas ad currendam viam suam».
36 infelice: nota di leopardi: «(55) Come un buon numero di
Gentili e di Cristiani antichi, molti anco degli Ebrei (tra’ quali Filone di Alessandria, e il rabbino Mosè Maimonide) furono di opinione che il sole, e similmente i pianeti e le stelle, avessero anima e vita. Veggasi il Gassendi, Physic. sect. 2, lib. 2, cap. 5; e il Petau,
Theologic. dogm. de sex. dier. opific. lib. 1, cap. 12, § 5 et seqq.» La
nota riprende osservazioni e riferimenti già svolti da Leopardi nel
Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cap. X (Le poesie e le
prose, op. cit., II, pp. 326-327), dove anche è citato il versetto del
salmo richiamato nella nota precedente.
37 Mortali, destatevi: cfr. r. 23. Ma ora il richiamo torna dopo la
dimostrazione della mancanza di felicità e dell’insensatezza del risveglio per tutti i viventi (e per tutte le cose).
38 liberi dalla vita: cfr. il «Coro di morti» nel Dialogo di Federico
Ruysch e delle sue mummie, vv. 5-6: «sicura / Dall’antico dolor».
Letteratura italiana Einaudi
180
seco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma
80 in quella sempre e insaziabilmente riposerete39. Per ora
non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è
consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza
di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se
ella non fosse interrotta frequentemente40. Troppo lun85 go difetto41 di questo sonno breve e caduco, è male per
se mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla42, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un
gusto e quasi una particella di morte.
90
Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed
unico obbietto il morire43. Non potendo morire quel
39
sempre e insaziabilmente riposerete: «sempre e insaziabilmente» è una dittologia sinonimica resa particolarmente efficace dal
contrasto tra «insazabilmente» e «riposerete»: è un riposo che si
muove continuamente perché ricerca un riposo sempre maggiore.
40
Perocchè... frequentemente: cfr., benché all’interno di una riflessione sul piacere generato dalla «varietà», il pensiero di Zibaldone, pp. 193-194 (del luglio 1820): «Gran magistero della natura
fu quello d’interrompere, per modo di dire la vita col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un
rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù ec.: vedi
p. 151 [è il passo qui citato alla nota 48, n.d.c.]. Oltre alla gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di
una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall’altra è
un sommo rimedio contro la monotonia dell’esistenza. Nè questa
si poteva diversificare e variare maggiormente, che componendola
in gran parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte».
41 Troppo lungo difetto: «una mancanza troppo lunga». Si noti
l’opposizione a chiasmo «lungo difetto – sonno breve».
42 portarla: cfr. l’inizio del Cantico: «ripigliatevi la soma della vita»; e si ricordi anche l’immagine del «vecchierel» «con gravissimo
fascio in su le spalle» del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vedi nota 47).
43 Pare... morire: vedi il «Coro dei morti» del Dialogo di Federico
Ruysch e delle sue mummie, in particolare l’inizio: «Sola nel mondo
eterna, a cui si volve / Ogni creata cosa, / In te, morte, si posa /
Letteratura italiana Einaudi
181
Giacomo Leopardi - Operette morali
che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono44. Certo45 l’ultima causa dell’essere non è la felicità;
perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature ani95 mate si propongono questo fine in ciascuna opera loro;
ma da niuna l’ottengono46: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patisco-
Nostra ignuda natura». E la contraddizione, l’«orribile mistero
delle cose e dell’esistenza universale» (Zibaldone, p. 4099), quale
per Leopardi risulta definito a partire dal Dialogo della Natura e di
un islandese, dal quale prende spunto il pensiero citato, che così
spiega: «L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza,
anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto
ben dimostrate e certe intorno all’uomo e ad ogni vivente, quanto
possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra
esperienza. Or l’essere, unito all’infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a
se stesso e suo proprio inimico. Dunque l’essere dei viventi è in
contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo.
La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere infelice, e compresa in lei); cioè nell’essere, ed essere per necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e non propria.
Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e principio di essere malamente, come può stare, se il male per
sua natura è contrario all’essenza rispettiva delle cose e perciò solo
è male? Se l’essere infelicemente non è essere malamente, l’infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemica
al suo subbietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che si
contiene nella propria essenza e natura di un ente dev’essere un
bene per quell’ente. Chi può comprendere queste mostruosità? Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però, secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai
viventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora come si può
comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche
cosa?» (Zibaldone, p. 4099, 2 giugno 1824; corsivo del curatore).
44
Non... sono: l’unico senso dell’essere è tornare nel non-essere.
45
Certo: in confronto al Pare di prima; cfr., nel passo citato dello Zibaldone: «Intanto l’infelicità […] è certa».
46
Vero... ottengono: cfr. rr. 61-64.
Letteratura italiana Einaudi
182
Giacomo Leopardi - Operette morali
no veramente per altro, e non si affaticano, se non per
giungere a questo solo intento della natura, che è la
100 morte47.
A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere
ai viventi il più comportabile48. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma
quasi tutti se ne producono e formano di presente: pe105 rocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia49 alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla
pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione;
110 destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza,
47
e in tutta... morte: da qui l’idea, che, passando per un abbozzo
in prosa nello Zibaldone, pp. 4162-4163, sarà svolta nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 21-38: «Vecchierel bianco,
infermo, / Mezzo vestito e scalzo, / Con gravissimo fascio in su le
spalle, / Per montagna e per valle, / Per sassi acuti, ed alta rena, e
fratte, / Al vento, alla tempesta, e quando avvampa / L’ora, e quando poi gela, / Corre via, corre, anela, / Varca torrenti e stagni, / Cade, risorge, e più e più s’affretta, / Senza posa o ristoro, / Lacero,
sanguinoso; infin ch’arriva / Colà dove la via / E dove il tanto affaticar fu volto: / Abisso orrido, immenso, / Ov’ei precipitando, il
tutto obblia. / Vergine luna, tale / È la vita mortale». Vedi anche
più avanti, rr. 135-136.
48
comportabile: «tollerabile». Vedi Zibaldone, pp. 151-152 (4
luglio 1820): «Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col
riposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte
per una certa rinnuovazione della vita, cagionata da quella specie
d’interrompimento datole, tu ti senti ordinariamente o più lieto o
meno tristo, di quando ti coricasti. Nella mia vita infelicissima l’ora
meno trista è quella del levarmi. Le speranze e le illusioni ripigliano per pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell’ora la
gioventù della giornata per questa similitudine che ha con la gioventù della vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sempre sperare di passarla meglio della precedente. E la sera che ti trovi fallito di questa speranza e disingannato, si può chiamare la
vecchiezza della giornata».
49
eziandio senza materia: anche senza argomenti.
Letteratura italiana Einaudi
183
Giacomo Leopardi - Operette morali
quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti
infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì
115 passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso,
come effetto di errori, e d’immaginazioni vane50. La sera51 è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il
principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo
per lo più racconsolato e confidente52; la sera trista, sco120 raggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i mortali provano
in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta53.
Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa
125 pur misera54. Non per tanto, anche questo povero bene
manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più
segni si avvede della declinazione55 del proprio essere,
appena ne ha sperimentato la perfezione, nè56 potuto
50
immaginazioni vane: come sogni (vedi r. 24).
51
La sera... : vedi il passo dello Zibaldone, alla nota 48, da cui
deriva tutta questa immagine.
52 confidente: «fiducioso»; cfr. Le ricordanze, vv. 154-156:
«splendea negli occhi / Quel confidente immaginar, quel lume / Di
gioventù».
53
provetta: avanzata (cfr. Storia del genere umano, nota 33).
54
Il fior... misera: riprende la conclusione della «stanza» precedente. Per la metafora «fior degli anni», usata unicamente qui nelle
Operette morali, cfr. A Silvia, vv. 42-43, «E non vedevi / Il fior degli
anni tuoi»: «È un modo di dire affatto comune; ma che tale, senza
mai del resto divenir popolare, fu reso dall’uso poetico e perciò ha
ancora presso il Petrarca qualcosa di peregrino che il Leopardi gli
sa stupendamente serbare nella classicità del suo contesto» (De
Lollis, Petrarchismo leopardiano, p. 200).
55
declinazione: l’avviarsi alla fine.
56
nè: «e nemmeno». Si noti la struttura sintattica: alle due reggenti «appena ne ha sperimentato» e «non [ha] potuto sentire e
Letteratura italiana Einaudi
184
Giacomo Leopardi - Operette morali
sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che
130 già scemano57. In qualunque genere di creature mortali,
la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni
opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte58:
poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo.
135 Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla
conoscere», coordinate tra loro dal nè (= «e non»), si legano a chiasmo le due dipendenti quando... si avvede e che già scemano. Per il
passo cfr. il pensiero dello Zibaldone in cui Leopardi riporta (da
Diogene Laerzio) le ultime parole del filosofo Teofrasto (oggetto
poi della Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte): «Ma non così tosto comincia a vivere che la
morte gli sopravviene» (Zibaldone, p. 316).
57
Non per tanto... scemano: cfr. Dialogo della Natura e di un
Islandese, r. 188 e seg. Vedi la successiva e importante riflessione
dello Zibaldone, p. 4127 e seg. (5-6 aprile 1825), dove riprende il
tema della «contraddizione spaventevole» rappresentata dal fatto
che «la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere
nè la felicità degli animali», e in cui si legge tra l’altro: «Poichè dato ancora, che è falsissimo, che la propria conservazione sia l’oggetto immediato e necessario della natura dell’animale, certo essa
non lo è della natura universale […]. Anzi il fine della natura universale è la vita dell’universo, la quale consiste ugualmente in produzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta natura
almen tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più
che la conservazione, in quanto si vede che sono più assai quelle
cose che cospirano alla distruzione di ciascun animale che non
quelle che favoriscono la sua conservazione; in quanto naturalmente nella vita dell’animale occupa maggior spazio la declinazione e
consumazione ossia invecchiamento (il quale incomincia nell’uomo anche prima dei trent’anni) che tutte le altre età insieme (vedi
Dialogo della natura e di un Islandese, e Cantico del gallo silvestre),
[...]; in quanto finalmente lo spazio della conservazione cioè durata
di un animale è un nulla rispetto all’eternità del suo non essere,
cioè della conseguenza e quasi durata della sua distruzione»; riflessione che riprende precisamente il tema di questo Cantico del gallo
silvestre.
58 Tanto… morte: ripete, in altro modo, quanto già affermato
prima (rr. 90-91).
Letteratura italiana Einaudi
185
Giacomo Leopardi - Operette morali
morte, con sollecitudine e celerità mirabile59. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno60 si dimostra
quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagio140 ne nuova ringiovanisce61. Ma siccome62 i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e
finalmente63 si estinguono; così l’universo, benché nel
principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continua145 mente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la
natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti,
che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno
né fama alcuna64; parimente del mondo intero, e delle
150 infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà
pure un vestigio65; ma un silenzio nudo, e una quiete al-
59
Ogni parte... mirabile: cfr. rr. 72-75; mirabile: «stupefacente».
60
verno: inverno.
61
Solo l’universo... ringiovanisce: sullo stesso confronto si baserà
l’ultima strofa de Il tramonto della luna.
62
Ma siccome...: si noti il ripetersi della struttura sintattica di Ma
come... (r. 120), per riproporre un’analoga similitudine.
63
finalmente: alla fine.
64
E nel modo… alcuna: cfr. La sera del dì di festa. v. 28 e seg.: «E
fieramente mi si stringe il core, / A pensar come tutto al mondo
passa, / E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito / Il dì festivo, ed al
festivo il giorno / Volgar succede, e se ne porta il tempo / Ogni
umano accidente. Or dov’è il suono / Di que’ popoli antichi? or
dov’è il grido / De’ nostri avi famosi, e il grande impero / Di quella
Roma, e l’armi, e il fragorio / Che n’andò per la terra e l’oceano? /
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / Il mondo, e più di lor non si
ragiona» (e prima cfr. anche Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, in
Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 676, e Zibaldone, pp. 50-51).
65
vestigio: resto.
Letteratura italiana Einaudi
186
Giacomo Leopardi - Operette morali
tissima, empieranno lo spazio immenso66. Così questo
arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale67,
innanzi di essere dichiarato68 né inteso, si dileguerà e
155 perderassi69.
66
ma... immenso: come rivela il tornare degli stessi «segnali dell’infinito» (silenzio, quiete altissima, spazio immenso), dopo quella
della profondissima quiete (r. 49), è questa un’ulteriore variazione
dell’immaginazione che ha generato L’infinito; si ripete qui in particolare il senso di indefinito che nasce per contrasto con lo scorrere del tempo e le stagioni umane. Risuona però un segnale nuovo,
estraneo al sistema de L’infinito: è l’aggettivo nudo, che è parola
anti-evocativa e che riecheggia la nostra ignuda natura del «Coro
dei morti» (nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie).
67 questo arcano… universale: cfr. nota 43. L’insensatezza dell’esistere è confermata dal fatto che nessun senso sarà trovato prima
che l’essere sparisca. Mirabile e spaventoso: «che non può che provocare sorpresa e spavento».
68
dichiarato: spiegato apertamente.
69
perderassi: «l’enclisi impedisce la rima tronca e accentua il
senso di sfacimento» (Galimberti). nota di leopardi: «(56) Questa
è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine.» La nota appare per la prima volta nell’edizione fiorentina del 1834 e risponde
dunque a un’esigenza sorta in Leopardi in un secondo momento,
assente durante la prima composizione. Sembra in effetti difficile
tener slegata questa precisazione dall’operetta che nell’edizione
postuma del 1845 segue a questa, il Frammento apocrifo di Stratone
da Lampsaco, testo in cui Leopardi finge di tradurre da un codice
greco alcune riflessioni «della origine» e «della fine del mondo».
La filosofia di tale Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco è
compiutamente materialista, e, cosa che ci interessa ora, vi si sostiene il principio dell’eternità della materia: «Le cose materiali,
siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe,
cioè a dire che ella è per sua propria forza ad eterno»; «Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini
delle cose ed un nuovo mondo» (ed. a cura di O. Besomi, pp. 335 e
340). È evidente che Leopardi doveva annullare l’effetto contraddittorio determinato dall’incontro tra la «conclusione poetica» di
Letteratura italiana Einaudi
187
Giacomo Leopardi - Operette morali
questo Cantico del gallo silvestre e quella «filosofica» del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco. Il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco è appunto scritto nel 1825, con ogni probabilità
a Bologna, ambiente a cui si devono letture e aggiornamenti filosofici, quali Leopardi non poté fare a casa sua. Solo per ragioni censorie, come accade per Il Copernico e per il Dialogo di Plotino e di
Porfirio, il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco rimane fuori dal libro, ma Leopardi ritiene comunque importante chiarire il
suo pensiero. Un’annotazione dello Zibaldone stesa a Bologna (Zibaldone, pp. 4181-4182, 4 Giugno 1826) parla infatti dell’«ipotesi
dell’eternità della materia», proprio in relazione a un pensiero sul
«nulla infinito» (Zibaldone, p. 4178).
Letteratura italiana Einaudi
188
DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO
TIMANDRO1. Io ve lo voglio anzi debbo pur dire liberamente2. La sostanza e l’intenzione del vostro scrivere e
del vostro parlare, mi paiono molto biasimevoli.
ELEANDRO3. Quando non vi paia tale anche l’opera5 re, io non mi dolgo poi tanto4: perché le parole e gli
scritti importano poco5.
TIMANDRO. Nell’operare, non trovo di che riprendervi. So che non fate bene agli altri per non potere, e
veggo6 che non fate male per non volere. Ma nelle paro10 le e negli scritti, vi credo molto riprensibile, e non vi
concedo che oggi queste cose importino poco; perché la
1
timandro: cioè «colui che onora gli uomini».
2
liberamente: senza dissimulare.
3
eleandro: cioè «colui che prova compassione per gli uomini».
4
non... tanto: cfr. Al conte Carlo Pepoli, v. 152 e seg.: «E se del
vero / Ragionando talor, fieno alle genti / O mal grati i miei detti o
non intesi, / Non mi dorrò, che già del tutto il vago / Desio di gloria antico in me fia spento».
5
perché... poco: cfr. Il Parini ovvero della gloria, cap. I: «E veramente, se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il primo intento della filosofia l’ordinare le nostre azioni; non è dubbio
che l’operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello
scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e
i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi niun
ingegno è creato dalla natura agli studi; nè l’uomo nasce a scrivere,
ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e
massime de’ poeti illustri, di questa medesima età; come, a cagione
di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse
anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose
grandi» (p. 185); il passo deriva da un pensiero dello Zibaldone,
pp. 2453-2454.
6
veggo: vedo.
Letteratura italiana Einaudi
189
Giacomo Leopardi - Operette morali
nostra vita presente non consiste, si può dire, in altro7.
Lasciamo le parole per ora, e diciamo degli scritti. Quel
continuo biasimare e derider che fate la specie umana,
15 primieramente è fuori di moda8.
ELEANDRO. Anche il mio cervello è fuori di moda9. E
non è nuovo che i figliuoli10 vengano simili al padre.
TIMANDRO. Né anche sarà nuovo che i vostri libri,
come ogni cosa contraria all’uso corrente, abbiano catti20 va fortuna.
ELEANDRO. Poco male. Non per questo andranno
cercando pane in sugli usci11.
TIMANDRO. Quaranta o cinquant’anni addietro, i filosofi solevano mormorare della specie umana; ma in
25 questo secolo fanno tutto al contrario12.
7 perché... altro: Timandro ripete come ovvio ciò che Leopardi
ha sempre sostenuto essere una delle principali caratteristiche negative del mondo moderno; nell’età della filosofia, della scoperta
del «vero», l’agire, che si basa sempre sulle illusioni, è impossibile
o quasi annullato (vedi per esempio, oltre alla nota 5, la Storia del
genere umano, rr. 392-394; il tema tornerà, in forma diversa, nel
Dialogo di Tristano e di un amico, vedi r. 112 e seg.).
8 primieramente... moda: emerge il motivo che fa da filo conduttore all’operetta, e ne determina la stessa struttura: la diversità e
opposizione di Eleandro/Leopardi al proprio tempo. La forma
inoltre già dice (e lo conferma la dura risposta di Eleandro) quale
scarsa considerazione abbia Leopardi di tali argomenti; la richiesta
stessa di «essere alla moda» qualifica i tempi moderni, nella loro ricerca di uniformità e nella loro corsa verso la decadenza; nel Dialogo della Moda e della Morte, la Moda è sorella della Morte e figlia
della Caducità.
9 Anche... moda: così dall’edizione fiorentina in poi; prima si
leggeva Anch’io sono fuor di moda; ma è chiaro che Leopardi ha
voluto evitare qualunque confusione con questioni di comportamento e di persona.
10
i figliuoli: cioè gli scritti.
11
Non... usci: «non si piegheranno a chiedere la carità».
12
Quaranta... contrario: detto per rilevare ancor più l’isolamento di Eleandro, di fronte al moto concorde degli altri filosofi. Cfr.
Letteratura italiana Einaudi
190
Giacomo Leopardi - Operette morali
ELEANDRO. Credete voi che quaranta o cinquant’anni addietro, i filosofi, mormorando degli uomini, dicessero il falso o il vero?
TIMANDRO. Piuttosto e più spesso il vero che il falso.
30
ELEANDRO. Credete che in questi quaranta o cinquant’anni, la specie umana sia mutata in contrario da
quella che era prima?
TIMANDRO. Non credo; ma cotesto non monta13 nulla al nostro proposito.
35
ELEANDRO. Perché non monta? Forse è cresciuta di
potenza, o salita di grado; che gli scrittori d’oggi sieno
costretti di adularla, o tenuti di riverirla?
TIMANDRO. Cotesti sono scherzi in argomento grave.
ELEANDRO. Dunque tornando sul sodo, io non igno40 ro che gli uomini di questo secolo, facendo male ai loro
simili secondo la moda antica14, si sono pur messi a dir-
Palinodia al marchese Gino Capponi. p. 38 e seg.: «Aureo secolo ornai volgono, o Gino, / I fusi delle Parche. Ogni giornale, / Gener
vario di lingue e di colonne, / Da tutti i lidi lo promette al mondo /
Concordemente. Universale amore, / Ferrate vie, moltiplici commerci, / Vapor, tipi e choléra i più divisi / Popoli e climi stringeranno insieme: /Nè maraviglia fia se pino o quercia / Suderà latte e
mele, o s’anco al suono / D’un walser danzerà». L’indicazione
«quaranta o cinquant’anni addietro», pur generica ma non imprecisa, sembra riferirsi più all’Alfieri (per cui vedi nota 5), che agli illuministi francesi.
13
monta: «importa». Timandro sfugge, qui e nella risposta successiva, alla domanda.
14 facendo... antica: cioè illudendoli; più avanti parlerà di «maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti» (rr. 143-144), e dei «molti filosofi di questo secolo» che si
«dilettano» e «pascono» di «buone aspettative», di «sogni e immaginazioni liete circa il futuro» (r. 178 e seg.). Cfr. Per la Novella Senofonte e Machiavello, r. 161 e seg.: «E dove gli altri filosofi senza
odiar gli uomini quanto me, cercano pure di nuocer loro effettivamente co’ loro precetti, io effettivamente giovai, giovo, e gioverò
sempre a chiunque voglia e sappia praticare i miei». La battuta di
Eleandro, amaramente sarcastica (si noti in particolare l’opposizio-
Letteratura italiana Einaudi
191
Giacomo Leopardi - Operette morali
ne bene, al contrario del secolo precedente. Ma io, che
non fo male a simili né a dissimili, non credo essere obbligato a dir bene degli altri contro coscienza.
TIMANDRO. Voi siete pure obbligato come tutti gli al45
tri uomini, a procurar di giovare alla vostra specie.
ELEANDRO. Se la mia specie procura di fare il contrario a me15, non veggo come mi corra cotesto obbligo che
voi dite. Ma ponghiamo16 che mi corra. Che debbo io
50 fare, se non posso17?
TIMANDRO. Non potete, e pochi altri possono, coi
fatti. Ma cogli scritti, ben potete giovare, e dovete. E
non si giova coi libri che mordono continuamente l’uomo in generale; anzi si nuoce assaissimo18.
ELEANDRO. Consento che non si giovi, e stimo che
55
non si noccia. Ma credete voi che i libri possano giovare
alla specie umana?
TIMANDRO. Non solo io, ma tutto il mondo lo crede.
ne facendo male... dirne bene), compendia il motivo generatore di
tutta l’operetta, poi via via svolto e ampliato.
15
Se la mia specie... a me: per il tema della «scellerataggine» e
della guerra tra gli uomini vedi il Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 58 e seg.: «conobbi per prova come egli è vano a pensare, se
tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire
che gli altri non ti offendano»; e Per la Novella Senofonte e Machiavello, r. 67 e seg., r. 152 e seg.
16
ponghiamo: poniamo.
17
se non posso: perché, come si torna a chiarire nelle battute
successive, i libri hanno un limitatissimo potere di «giovare».
18 E... assaissimo: si veda come un recensore delle Operette morali (Francesco Ambrosoli) ricalcherà le orme di Timandro: «E
non è utile indurre o disamore o fastidio di quelle cose fra le quali
si è costretti a vivere; bensì è bello insegnare come si possano volgere o in tutto o in parte o all’utilità o al diletto» (in «Biblioteca italiana», gennaio 1828, p. 87, citato dal Moroncini in Epistolario, IV,
p. 284). continuamente: «come a dire per partito preso» (Della
Giovanna).
Letteratura italiana Einaudi
192
Giacomo Leopardi - Operette morali
ELEANDRO. Che libri?
TIMANDRO. Di più generi; ma specialmente del morale.
ELEANDRO. Questo non è creduto da tutto il mondo;
perché io, fra gli altri, non lo credo; come rispose una
donna a Socrate19. Se alcun libro morale potesse giova65 re, io penso che gioverebbero massimamente i poetici:
dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente;
cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi20. Ora io fo poco sti60
19 come... Socrate: il riferimento, indicato da Leopardi anche in
un’annotazione dell’autografo, è al seguente passo del Convivio di
Platone (dialogano Diotima e Socrate): «‘E però, risposi io, tutti
pensano d’accordo che sia un grande dio.’ ‘Quali tutti? Quelli che
non sanno o anche quelli che sanno?’. ‘Tutti, tutti, dico.’ E lei ridendo: ‘E come possono mai sostenere concordi, o Socrate, che
Amore sia un grande dio, coloro che affermano che egli non è neppure un dio?’. ‘E chi sono questi?’ esclamai. ‘Uno, rispose, sei proprio tu, un’altra io.» (Convivio, XXII, 202b-c; trad. di P. Pucci; Bari, Laterza).
20 dico poetici... versi: quella del «sentire» è per Leopardi la forma più «vera» di conoscenza (‘Perocchè tutto ciò ch’è poetico si
sente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire,
sentendolo si conosce e s’intende, nè altrimenti può essere conosciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragione e la
matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all’immaginazione
e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose
[...]», Zibaldone, p. 3242), nella quale si incontrano poesia e filosofia, ma che appunto per i prevalere del «cuore», dell’immaginativa,
del «caldo» ecc. prende il nome «largamente» di poesia. Vedi in
particolare Il Parini ovvero della gloria, cap. VII: «Penserai forse
che derivando la filosofia dalla ragione, di cui l’universale degli uomini inciviliti partecipa forse più che dell’immaginativa e delle facoltà del cuore; il pregio delle opere filosofiche debba essere conosciuto più facilmente e da maggior numero di persone, che quello
de’ poemi, e degli altri scritti che riguardano il dilettevole e il bello.
Ora io, per me, stimo che il proporzionato giudizio e il perfetto
senso, sia poco meno raro verso quelle, che verso queste. Primieramente abbi per cosa certa, che a far progressi notabili nella filosofia, non bastano sottilità d’ingegno, e facoltà grande di ragionare,
ma si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes,
Letteratura italiana Einaudi
193
Giacomo Leopardi - Operette morali
ma di quella poesia che letta e meditata, non lascia al let70 tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per
mezz’ora, gl’impedisca di ammettere un pensier vile, e
di fare un’azione indegna. Ma se il lettore manca di fede
al suo principale amico un’ora dopo la lettura21, io non
disprezzo perciò quella tal poesia: perché altrimenti mi
75 converrebbe disprezzare le più belle, più calde e più nobili poesie del mondo. Ed escludo poi da questo discorso i lettori che vivono in città grandi22: i quali, in caso
ancora che leggano attentamente, non possono essere
giovati anche per mezz’ora, né molto dilettati né mossi,
80 da alcuna sorta di poesia.
Galileo, il Leibnitz, il Newton, il Vico, in quanto all’innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e per
lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi» (p.
212). Ma è uno dei temi più importanti della riflessione di Leopardi; vedi almeno anche Zibaldone, p. 1650: «Quanto l’immaginazione contribuisca alla filosofia (ch’è pur sua nemica), e quanto sia vero che il gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere un
gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere
da lui professato, e viceversa il filosofo, gran poeta, osserviamo.
Proprietà del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini.
(Omero ” poihtøj n’è il più grande e fecondo modello). L’animo
in entusiasmo, nel caldo della passione qualunque ec. ec. discopre
vivissime somiglianze fra le cose […]». Ancora dello Zibaldone vedi pp. 1856, 3382 e seg., 3237 e seg., 3245.
21
per mezz’ora... un’ora dopo la lettura: non è vera poesia quella
che non lascia un senso di nobiltà, di innalzamento, nell’animo del
lettore, ma ugualmente, come dimostra l’esperienza, non le si può
chiedere di avere un’influenza pedagogica totale e definitiva.
22 città grandi: vedi Il Parini ovvero della gloria, IV, r. 50 e seg.:
«Chiunque poi vive in città grande, per molto che egli sia da natura caldo e svegliato di cuore e d’immaginativa, io non so […] come
possa mai ricevere dalle bellezze o della natura o delle lettere, alcun sentimento tenero o generoso, alcun’immagine sublime o leggiadra. Perciocchè poche cose sono tanto contrarie a quello stato
d’animo che ci fa capaci ditali diletti, quanto la conversazione di
questi uomini, lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti, della falsità perpetua,
delle cure misere, e dell’ozio più misero, che vi regnano».
Letteratura italiana Einaudi
194
Giacomo Leopardi - Operette morali
TIMANDRO. Voi parlate, al solito vostro, malignamente23, e in modo che date ad intendere di essere per
l’ordinario24 molto male accolto e trattato dagli altri:
perché questa il più delle volte è la causa del mal animo
85 e del disprezzo che certi fanno professione25 di avere alla propria specie26.
ELEANDRO. Veramente io non dico che gli uomini mi
abbiano usato ed usino molto buon trattamento: massime che dicendo questo, io mi spaccerei per esempio
90 unico27. Né anche mi hanno fatto però gran male: perché, non desiderando niente da loro, né in concorrenza
con loro, io non mi sono esposto alle loro offese più che
tanto28. Ben vi dico e vi accerto, che siccome io conosco
e veggo29 apertissimamente30 di non saper fare una me95 noma parte di quello che si richiede a rendersi grato alle
persone; e di essere quanto si possa mai dire inetto a
23
malignamente: «per avversione»; cfr. Bruto Minore, v. 45, «E
maligno alle nere ombre sorride» (vedi anche il commento di De
Robertis).
24
per l’ordinario: di solito.
25
fanno professione: dichiarano apertamente.
26
Voi... specie: visti vani i tentativi di far recedere Eleandro dalla sua posizione, Timandro prova a sminuirne il significato e l’importanza, riconducendone l’origine a risentimenti personali. In
questo modo Leopardi mette in mostra una delle «spiegazioni»
che spesso dovette subire delle sue riflessioni (cfr. poi Dialogo di
Tristano e di un amico, in particolare rr. 20-23).
27
Veramente... unico: cfr. nota 15.
28
perché... tanto: cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 46
e seg., 64-66.
29 vi dico e vi accerto... conosco e veggo: «vi comunico perché ne
siate del tutto certo» e «riconosco e continuo a sperimentare»; due
dittologie parallele per scandire con fermezza la replica di Eleandro.
30
apertissimamente: in modo evidentissimo.
Letteratura italiana Einaudi
195
Giacomo Leopardi - Operette morali
conversare cogli altri, anzi alla stessa vita; per colpa o
della mia natura o mia propria31; però32 se gli uomini mi
trattassero meglio di quello che fanno, io gli stimerei
100 meno di quel che gli stimo.
TIMANDRO. Dunque tanto più siete condannabile:
perché l’odio, e la volontà di fare, per dir così, una vendetta degli uomini, essendone stato offeso a torto, avrebbe qualche scusa. Ma l’odio vostro, secondo che voi dite,
105 non ha causa alcuna particolare; se non forse un’ambizione insolita e misera di acquistar fama dalla misantropia33, come Timone34: desiderio abbominevole35 in se,
31
siccome... mia propria: cfr. questo passo della lettera di Leopardi a Vieusseux del 4 marzo 1826: «La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata
dall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più absent di
quel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell’absence èin
me incorreggibile e disperato». Vedi anche Dialogo della Natura e
di un’Anima, rr. 61-67.
32
però: «perciò»; riprende la lunga causale iniziata da un siccome rimasto lontano, per introdurre la protasi e la reggente.
33 misantropia: dal greco, «odio del genere umano»; appena sotto il suo contrario, filantropia.
34
Timone: filosofo scettico, nell’età classica misantropo per antonomasia, tanto da dare il titolo a un dialogo di Luciano (Timone
o il misantropo). Da Plutarco (nella traduzione cinquecentesca dell’Adriani letta da Leopardi) è ricordato così: «Questo Timone fu
ateniese e visse al tempo della guerra peloponnesiaca, come dalle
commedie di Aristofane e del comico Platone si può comprendere;
i quali lo notano col nome di maligno e nimico al genere umano,
sfuggendo ed aborrendo ogni conversazione: solo abbracciava e baciava volentieri Alcibiade giovane fiero ed ardito: di che maravigliato Apemanto domandò della cagione. Ed egli rispose d’amare
quel giovanetto solo, perché sapeva che saria un giorno cagione di
gran mali agli Ateniesi» (Le vite. Antonio. cap. LXX, passo citato
da Della Giovanna; corsivi del curatore).
35
abbominevole: ripugnante.
Letteratura italiana Einaudi
196
Giacomo Leopardi - Operette morali
alieno poi specialmente da questo secolo, dedito sopra
tutto alla filantropia36.
110
ELEANDRO. Dell’ambizione non accade che io vi risponda; perché ho già detto che non desidero niente dagli uomini: e se questo non vi par credibile, benché sia
vero; almeno dovete credere che l’ambizione non mi
muova37 a scriver cose che oggi, come voi stesso affer115 mate, partoriscono vituperio e non lode a chi le scrive.
Dall’odio poi verso tutta la nostra specie, sono così lontano38, che non solamente non voglio, ma non posso anche odiare quelli che mi offendono particolarmente; anzi sono del tutto inabile e impenetrabile all’odio. Il che
120 non è piccola parte della mia tanta inettitudine a praticare nel mondo. Ma io non me ne posso emendare39:
perché sempre penso che comunemente, chiunque si
persuade, con far dispiacere o danno a chicchessia, far
36
alieno... filantropia: un’altra ragione dunque dell’essere «fuori
moda» di Eleandro (alieno: «estraneo»). In un lungo pensiero del
1821 (da cui ha origine tra l’altro il confronto tra Senofonte e Machiavelli) la filantropia dei moderni era fatta discendere dalla fine
delle illusioni «antiche» e rappresenta in realtà il trionfo degli egoismi: «E infatti la filantropia. o amore universale e della umanità,
non fu proprio mai nè dell’uomo nè de’ grandi uomini, e non si nominò se non dopo che, parte a causa del Cristianesimo, parte del
naturale andamento dei tempi, sparito affatto l’amor di patria, e
sottentrato il sogno dell’amore universale, (ch’è la teoria del non
far bene a nessuno) l’uomo non amò veruno fuorchè se stesso, ed
odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni» (Zibaldone, p. 885). Vedi anche Storia del genere umano, r.
420 e seg., e i versi della Palinodia al marchese Gino Capponi, citati
qui alla nota 12.
37 l’ambizione non mi muova: «non può essere l’ambizione a
muovermi».
38 Dall’odio… lontano: è così segnata chiaramente la distanza
dalla maschera originariamente impostata del «misantropo» come
è ancora Machiavello.
39
emendare: correggere.
Letteratura italiana Einaudi
197
Giacomo Leopardi - Operette morali
125
130
135
140
comodo40 o piacere a se proprio; s’induce ad offendere;
non per far male ad altri (che questo non è propriamente il fine di nessun atto o pensiero possibile), ma per far
bene a se41; il qual desiderio è naturale, e non merita
odio. Oltre che ad ogni vizio o colpa che io veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me
stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi
sempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mi
basta l’animo d’irritarmene. Riserbo sempre l’adirarmi a
quella volta che io vegga una malvagità che non possa
aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto
vedere. Finalmente42 il concetto della vanità delle cose
umane, mi riempie continuamente l’animo in modo, che
non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l’ira e l’odio mi paiono passioni molto maggiori e
più forti, che non è conveniente alla tenuità della vita43.
40
far comodo: dipende da si pensuade con l’omissione della preposizione di.
41 ma per fan bene a se: per tutto il passo cfr. Zibaldone, p. 55:
«chi segue il suo odio fa per se, chi l’amore per altrui, chi si vendica giova a se, chi benefica giova altrui, nè alcuno è mai tanto infiammato per giovare altrui quanto a se» (è la conclusione di un
pensiero che sarà ripreso poi nei Detti memorabili di Filippo Ottonieni, cap. V); e p. 872: «L’amor proprio dell’uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè
l’individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può,
dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo, e l’odio
degli altri è una conseguenza necessaria e immediata dell’amore di
se stesso»; vedi anche p. 293. Si noti l’esclusione, su queste basi illuministe, dell’esistenza di un «male» in assoluto e ricercato come
tale (su questo vedi Zibaldone, pp. 2232-2233, e 4100: male è solo
ciò che si contrappone all’«essenza rispettiva delle cose»).
42
Finalmente: «Per finire».
43
Finalmente… vita: cfr. il ritratto che l’Islandese fa di se stesso,
Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 38 e seg., e vedi la lettera a
Giordani del 19 novembre 1819 lì citata alla nota 22.
Letteratura italiana Einaudi
198
Giacomo Leopardi - Operette morali
Dall’animo di Timone44 al mio, vedete che diversità ci
corre. Timone45, odiando e fuggendo tutti gli altri, amava e accarezzava46 solo Alcibiade, come causa futura di
molti mali alla loro patria comune47. Io, senza odiarlo,
145 avrei fuggito più lui che gli altri, ammoniti i cittadini del
pericolo, e confortati a provvedervi48. Alcuni dicono che
Timone non odiava gli uomini, ma le fiere in sembianza
umana. Io non odio né gli uomini né le fiere49.
TIMANDRO. Ma né anche amate nessuno.
ELEANDRO. Sentite, amico mio50. Sono nato ad ama150
44
Dall’animo di Timone...: vedi nota 34.
45
Timone...: si noti la contrapposizione speculare con l’atteggiamento di Eleandro (Timone.../Io...).
46
accarezzava: «trattava con riguardo» (la fonte è comunque il
passo citato della traduzione di Plutarco).
47 causa… comune: in quanto Alcibiade fu ritenuto tra i maggiori responsabili della rovina ateniese nella fase finale della guerra
con Sparta.
48 Io... provvedervi: è già una dichiarazione di solidarietà con gli
uomini, benché, si badi, all’interno di un «amor di patria» ambientato nella Grecia antica, che è tra i miti più vivi di Leopardi.
Cfr. anche il ritratto di Teofrasto nella Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte, in Le poesie e le
prose, op. cit., I, p. 1043: «Ma s’ha da sapere che Teofrasto fu ed
operò tutto il contrario. In quanto alle azioni, abbiamo in Plutarco
nel libro contra Colote che il nostro filosofo liberò due volte la patria dalla tirannide»; e quindi in Per la Novella Senofonte e Machiavello.
49
Io... fiere: cfr. rr. 32-33, «non fo male a simili nè a dissimili».
50
Sentite, amico mio: quasi seguito naturale della dimostrazione
di non odio, il dialogo lascia, per iniziativa di Eleandro, i modi dello scontro polemico, dopo aver difeso e riconfermato la propria
autonomia; è il momento per Eleandro di esprimere distesamente
il proprio punto di vista. Il segnale di «non belligeranza» è dato
dalla formula amico mio, consueta nelle Operette morali, per introdurre il discorso più scoperto: cfr. Dialogo della Natura e di un
Islandese, r. 227; amici sono Colombo e Gutierrez, Plotino e Porfirio; mentre più ambiguo è il caso del Dialogo di Tristano e di un
amico; cfr. anche Il Copernico, «Senti, Copernico» (p. 378).
Letteratura italiana Einaudi
199
Giacomo Leopardi - Operette morali
re51, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai
cadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida52; non mi vergogno a dire che non amo nessuno,
155 fuorché me stesso, per necessità di natura53, e il meno
che mi è possibile54. Contuttociò sono solito e pronto a
eleggere55 di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento agli altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimo160 nio.
TIMANDRO. Non ve lo nego.
ELEANDRO. Di modo che io non lascio di procurare
agli uomini per la mia parte, posponendo ancora il rispetto proprio57, quel maggiore, anzi solo bene che sono
58
165 ridotto a desiderare per me stesso, cioè di non patire .
51 Sono nato ad amare...: cfr. Per la Novella Senofonte e Machiavello, r. 140 e seg. Si cfr. anche la ricostruzione posteriore (1828)
de Il risorgimento; v. 1 e seg.: «Credei ch’al tutto fossero / In me,
sul fior degli anni, / Mancati i dolci affanni / Della mia prima età»
(e tutta la descrizione che segue) e vv. 109-112: «Proprii mi diede i
palpiti, / Natura, e i dolci inganni. / Sopiro in me gli affanni / L’ingenita virtù».
52
benché... tepida: nel 1824, pochi giorni dopo (29 giugno) aver
finito la stesura di quest’operetta, Leopardi compiva 26 anni.
53 fuorché... natura: per il minimo di amor proprio congenito alla vita.
54
il meno che mi è possibile: cfr. il «ritrarsi» e «contrarsi» in se
stesso dell’Islandese (Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 90;
ma si veda tutto il suo racconto).
55 eleggere: «scegliere». Anche questa è in sostanza già la scelta
dell’Islandese.
56
costumi: modi di vita.
57
rispetto proprio: per se stesso, in vigore secondo quanto detto
prima (r. 92 e seg.).
58 quel maggiore... patire: cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese, rr. 52-54.
Letteratura italiana Einaudi
200
Alessandro Manzoni - Il Cinque Maggio
TIMANDRO. Ma confessate voi formalmente, di non
amare né anche la nostra specie in comune?
ELEANDRO. Sì, formalmente. Ma come tuttavia, se
toccasse a me, farei punire i colpevoli, se bene io non gli
170 odio; così, se potessi, farei qualunque maggior benefizio
alla mia specie, ancorché io non l’ami.
TIMANDRO. Bene, sia così. Ma in fine, se non vi muovono ingiurie ricevute, non odio, non ambizione; che
cosa vi muove a usare cotesto modo di scrivere59?
175
ELEANDRO. Diverse cose60. Prima, l’intolleranza di
ogni simulazione e dissimulazione61: alle quali mi piego
talvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perché
spesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto a
scrivere; e quando avessi a dire quel che non penso, non
180 mi darebbe un gran sollazzo62 a stillarmi il cervello sopra le carte63. Tutti i savi si ridono di chi scrive latino al
presente64, che nessuno parla quella lingua, e pochi la
59
che cosa... scrivere?: è il punto da cui era partito il discorso,
cui Timandro ritorna dopo aver abbandonato i toni polemici e il
tentativo di ricondurre Eleandro alla «moda del suo secolo» (cfr.
infatti prima Non ve lo nego, Bene, sia così).
60 Diverse cose: sulla scena si impone ora Eleandro, per rivendicare e spiegare le ragioni del suo essere «fuori moda».
61
l’intolleranza... dissimulazione: vedi rr. 39-44; a simulazione e
dissimulazione corrispondono poi (r. 190) per ingannare gli altri, o
per non essere conosciuti.
62
sollazzo: divertimento.
63
stillarmi... carte: cfr. Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, r.
57.
64 al presente: «oggi». Il caso del latino quale lingua morta serve
come esempio di una lingua usata ancora nonostante gli oggetti di
cui parli non esistano più, si siano modificati ecc..; nell’«età del vero» non esistono più le «illusioni antiche», e invece sono continuamente nominate come se ci fossero; appena oltre Eleandro parlerà
appunto di «maschere», di «finzione».
Letteratura italiana Einaudi
201
Giacomo Leopardi - Operette morali
intendono. Io non veggo65 come non sia parimente ridicolo questo continuo presupporre che si fa scrivendo e
185 parlando, certe qualità umane che ciascun sa che oramai
non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici66, adorati già lungo tempo addietro, ma ora tenuti
interamente67 per nulla e da chi gli nomina, e da chi gli
ode a nominare. Che si usino maschere e travestimenti
190 per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti; non
mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una
stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo,
senza ingannare l’un l’altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le ma195 schere, si rimangano68 coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno più a loro agio. Perché
pur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile,
65 Io non veggo...: tutto il ragionamento segue l’impostazione già
presente in Per la Novella Senofonte e Machiavello, r. 112 e seg.,
dove è ancora più chiaramente esposta l’idea della «lingua falsa»
per tradurre gli» insegnamenti del vero». Vedi anche in particolare
il ripetersi dei nessi discorsivi: «Io non veggo...» (in Per la Novella
Senofonte e Machiavello, r. 120: «Ora io non so perché...»); «Che si
usino maschere...», r. 189 (in Per la Novella Senofonte e Machiavello, r. 115: «Che questo sia...»).
66 certi... fantastici: sono i «fantasmi [...] chiamati Giustizia,
Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi», di cui parla la
Storia del genere umano (rr. 237-239), le illusioni cioè dello «stato
antico». L’espressione enti razionali (per cui una nota manoscritta
di Leopardi rimanda al Vocabolario della Crusca, sotto Entità), o
«enti di ragione», era usata dal linguaggio filosofico scolastico per
indicare un’«entità» che esiste solo nella mente, come concetto,
senza una corrispondenza reale.
67
internamente: in privato.
68
Cavinsi... si rimangano: si noti l’enclisi del pronome atono con
verbo all’inizio di periodo (a differenza di si rimangano), fatto caratteristico della lingua antica (secondo la «legge Tobler-Mussafia») e adottato anche altrove da Leopardi (vedi Storia del genere
umano); qui però serve a far emergere l’accento forte di cAvinsi, e a
far risuonare una frustata sarcastica contro l’ipocrisia delle «maschere».
Letteratura italiana Einaudi
202
Giacomo Leopardi - Operette morali
e questo sempre rappresentare una persona diversissima
dalla propria, non si può fare senza impaccio e fastidio
200 grande. Se gli uomini dallo stato primitivo, solitario e
silvestre69, fossero passati alla civiltà moderna in un tratto, e non per gradi; crediamo noi che si troverebbero
nelle lingue i nomi delle cose dette dianzi, non che nelle
nazioni l’uso di ripetergli a ogni poco, e di farvi mille ra205 gionamenti sopra70? In verità quest’uso mi par come
una di quelle cerimonie o pratiche antiche, alienissime71
dai costumi presenti, le quali contuttociò si mantengono, per virtù della consuetudine. Ma io che non mi posso adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quel210 l’uso; e scrivo in lingua moderna, e non dei tempi
troiani72. In secondo luogo; non tanto io cerco mordere73 ne’ miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del
fato74. Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile,
69
silvestre: come «selvaggio»; solitario e silvestre «rappresentano i caratteri dello stato primitivo, in cui mancavano la società
stretta e le città» (Bianchi).
70 Se gli uomini… sopra?: solo la lentezza nel cambiamento delle
cose ha reso possibile il mantenimento di nomi, forme, ecc., che altrimenti sarebbero anch’essi decaduti.
71
alienissime: cfr. r. 108.
72
scrivo… troiani: dei tempi troiani vale a dire l’estremo più antico della lingua letteraria (essendo Omero il primo poeta); cfr. il
paragone precedente della lingua latina (rr. 181-182). Alle spalle
dell’argomento si intravede la ricchissima riflessione di Leopardi
sulla lingua (vedi per esempio Zibaldone, p. 3861).
73
mordere: cfr. r. 53.
74
non tanto... fato: per bocca di Eleandro Leopardi arriva a una
formulazione decisiva. La parola fato indica l’«ordine primigenio e
perpetuo delle cose create» (cfr. Dialogo della Natura e di un’Anima, nota 6). Come spiega lo Zibaldone: «l’uomo essendo sempre
infelice, naturalmente tende ad incolparne altresì sempre non la
natura delle cose e degli uomini […], ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa particolare in cui possa sfogar l’amarezza che
gli cagionano i suoi mali [...]. Questa naturale tendenza opera poi
Letteratura italiana Einaudi
203
Giacomo Leopardi - Operette morali
che l’infelicità necessaria di tutti i viventi75. Se questa in215 felicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e
qualunque altro discorso. Se è vera, perché non mi ha
da essere né pur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire, io patisco? Ma se mi dolessi piangendo
(e questo si è la terza causa che mi muove), darei noia
220 non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto.
Ridendo dei nostri mali76, trovo qualche conforto; e
procuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questo
non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei
nostri mali sia l’unico profitto che se ne possa cavare, e
225 l’unico rimedio che vi si trovi77. Dicono i poeti che la diche il misero si persuade anche effettivamente di quello che egli
immagina, e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli ha
immaginato i nomi e le persone di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in mancanza d’altri oggetti, rivolgiamo seriamente l’odio e le querele delle nostre sventure»
(Zibaldone. pp. 4070-4071, 17 aprile 1824). Dopo Dialogo della
Natura e di un Islandese, «fato» e Natura vengono a coincidere, e
identificano l’ordine universale delle cose così come esiste.
75 Nessuna... viventi: benché enunciato senza alcuna particolare
preparazione, questo (che è considerazione fondamentale di tutte
le Operette morali) è il primo fondamento dell’esperienza di Eleandro, come è infatti subito dichiarato.
76
Ridendo... mali: cfr. l’accusa di Timandro, rr. 14-15.
77
Se questo...vi si trovi: per l’origine di questo atteggiamento in
Leopardi vedi la lettera al Giordani del 18 giugno 1821: «Ma dimmi, non potresti tu di Eraclito convertirti in Democrito? La qual
cosa va pure accadendo a me che la stimava impossibilissima. Vero
è che la disperazione si finge sorridente. Ma il riso intorno agli uomini ed alle mie stesse miserie, al quale mi vengo accostumando,
quantunque non derivi dalla speranza, non viene però dal dolore,
ma piuttosto dalla noncuranza, ch’è l’ultimo rifugio degli infelici
soggiogati dalla necessità collo spogliarli non del coraggio di combatterla, ma dell’ultima speranza di poterla vincere, cioè la speranza della morte». Il tema ha una sua evoluzione, ma per quanto importa qui è da vedere l’abbozzo di «storia del riso» tracciato
nell’Elogio degli uccelli: «Cosa certamente mirabile è questa, che
nell’uomo, il quale infra tutte le creature è la più travagliata e mise-
Letteratura italiana Einaudi
204
Giacomo Leopardi - Operette morali
sperazione ha sempre nella bocca un sorriso78. Non dovete pensare che io non compatisca all’infelicità umana.
Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessuna
arte, nessuna industria, nessun patto79; stimo assai più
230 degno dell’uomo, e di una disperazione magnanima80, il
ra, si trovi la facoltà del riso, aliena da ogni altro animale. Mirabile
ancora si è l’uso che noi facciamo di questa facoltà: poiché si veggono molti in qualche fierissimo accidente, altri in grande tristezza
d’animo, altri che quasi non serbano alcuno amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano, presso che incapaci di ogni
gioia, e privi di ogni speranza; nondimeno ridere. Anzi, quanto conoscono meglio la vanità dei predetti beni, e l’infelicità della vita; e
quanto meno sperano, e meno eziandio sono atti a godere; tanto
maggiormente sogliono i particolari uomini essere inclinati al riso.
La natura del quale generalmente, e gl’intimi principii e modi, in
quanto si è a quella parte che consiste nell’animo, appena si potrebbero definire e spiegare; se non se forse dicendo che il riso è
una specie di pazzia non durabile, o pure di vaneggiamento e delirio»; nei tempi moderni il riso «si trova essere in dignità e stato
maggiore che fosse mai; tenendo nelle nazioni civili un luogo, e facendo un ufficio, coi quali esso supplisce per qualche modo alle
parti esercitate in altri tempi dalla virtù, dalla giustizia, dall’onore e
simili; e in molte cose raffrenando e spaventando gli uomini dalle
male opere» (pp. 313-316).
78 Dicono... sorriso: vedi la lettera citata nella nota precedente;
cfr. Zibaldone: «Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura» (Zibaldone, p. 107; vedi
anche p. 188).
79
nessuna… patto: cfr. Storia del genere umano, rr. 348-349.
80
disperazione magnanima: la forza dell’espressione sta nell’essere in sostanza un ossimoro, se, come è in particolare per Leopardi, la disperazione produce inattività, mentre la magnanimità è la
disposizione alle grandi azioni (si noti anche il contrasto fonico tra
l’asprezza di disperazione e la distensione di magnanima, in a e in
nasale). Ma è in questa tensione che si rappresenta Leopardi; in
mezzo, come dice in un pensiero subito successivo a questa operetta, tra la «disperazione placida», in cui ogni spinta alla vita è annullata, e la «disperazione furiosa», che «anela smaniosamente alla felicità nell’atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se
medesimo» (Zibaldone, p. 4106, 29 giugno 1824). La «disperazione magnanima» è, in altri termini, la grandezza d’animo di chi sa di
non avere speranze, ma che in questo pur vive.
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235
240
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250
ridere dei mali comuni; che il mettermene a sospirare,
lagrimare e stridere81 insieme cogli altri, o incitandoli a
fare altrettanto. In ultimo mi resta a dire, che io desidero quanto voi, e quanto qualunque altro, il bene della
mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo; non mi so dilettare e pascere82 di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo83; e la mia disperazione, per essere intera, e continua,
e fondata in un giudizio fermo e in una certezza84, non
mi lascia luogo a sogni e immaginazioni liete circa il futuro, né animo d’intraprendere cosa alcuna per vedere
di ridurle ad effetto. E ben sapete che l’uomo non si dispone a tentare quel che egli sa o crede non dovergli
succedere, e quando vi si disponga, opera di mala voglia
e con poca forza; e che85 scrivendo in modo diverso o
contrario all’opinione propria, se questa fosse anco falsa, non si fa mai cosa degna di considerazione.
TIMANDRO. Ma bisogna ben riformare il giudizio
proprio quando sia diverso dal vero; come il vostro86.
ELEANDRO. Io giudico quanto a me87 di essere infeli-
81
sospirare... stridere: climax; per stridere cfr. la lezione originaria (1820, poi modificata) di Ad Angelo Mai, v. 138: «Se vuoi strider d’angoscia».
82
pascere: nutrire.
83
come… secolo: cfr. rr. 23-25. Le «buone aspettative» sono
quelle della «perfettibilità» dell’uomo, come si chiarirà tra poco.
84
per essere… certezza: ancora una costruzione con due dittolo-
gie.
85
e che: dipende sempre da sapete.
86
Ma... vostro: Timandro cerca di far leva sul punto che sorregge tutte le osservazioni di Eleandro: vedi rr. 214-216.
87 Io giudico quanto a me...: questa è l’«unità di misura» di
Eleandro, nessuno può modificare il risultato conoscitivo della sua
esperienza. La risposta rivela il nudo schema che presiede a tutta
l’operetta: Io... Se gli altri... Io... Se gli altri...
Letteratura italiana Einaudi
206
Giacomo Leopardi - Operette morali
ce, e in questo so che non m’inganno. Se gli altri non sono, me ne congratulo seco loro con tutta l’anima. Io sono anche sicuro di non liberarmi dall’infelicità, prima
che io muoia. Se gli altri hanno diversa speranza di se,
255 me ne rallegro similmente.
TIMANDRO. Tutti siamo infelici, e tutti sono stati: e
credo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenza
sia delle più nuove. Ma la condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come è già mi260 gliorata indicibilmente da quello che fu. Voi mostrate
non ricordarvi, o non volervi ricordare, che l’uomo è
perfettibile88.
ELEANDRO. Perfettibile89 lo crederò sopra la vostra
fede; ma perfetto, che è quel che importa maggiormen-
88 Voi mostrate... perfettibile: neanche Timandro dunque può
negare l’infelicità dell’uomo, ma ad essa oppone il rimedio della
«perfettibilità» umana, della sua possibilità di perfezionarsi: tutti
siamo e siamo stati infelici, ma non lo saremo in futuro.
89 perfettibile: nelle Operette morali il termine appare solo qui,
ma è concetto a cui Leopardi dedica nello Zibaldone numerose riflessioni critiche, messe a frutto in particolare ne La scommessa di
Prometeo (vedi il commento a questa operetta). Il concetto di «perfettibilità» (e la parola) si diffonde a partire dall’opera di Condorcet e ha grandissima fortuna anche in Italia, dove si registra una vivace discussione proprio nel primo trentennio dell’Ottocento (vedi
F. Rigotti, L’umana perfezione, Napoli, Bibliopolis, 1981). Per Leopardi l’idea era assurda in quanto era appunto l’«incivilimento» ad
allontanare l’uomo da quelle condizioni «naturali» di ignoranza e
spontaneità che gli garantivano l’unica felicità possibile (vedi Zibaldone, pp. 2392-2395); la «perfettibilità» inoltre rimandava secondo
lui all’esistenza di idee assolute, mentre il concetto stesso di perfezione è un concetto relativo; piuttosto che di «perfettibilità» bisognava parlare di «conformabilità» dell’uomo (vedi Zibaldone, pp.
1570-1572 e 1618-1619, del 1821). Questa è l’impostazione ancora
vigente fino a La scommessa di Prometeo. A maggior ragione l’idea
di «perfettibilità» e di «perfezione» dell’uomo all’interno del sistema naturale risultano assurde dopo aver raggiunto la convinzione,
nei modi visti nel Dialogo della Natura e di un islandese, che tutta
l’esistenza delle cose manchi di senso.
Letteratura italiana Einaudi
207
Giacomo Leopardi - Operette morali
265 te, non so quando l’avrò da credere né sopra la fede di
270
275
280
285
chi90.
TIMANDRO. Non è giunto ancora alla perfezione,
perché gli è mancato tempo; ma non si può dubitare che
non vi sia per giungere91.
ELEANDRO. Né io ne dubito92. Questi pochi anni che
sono corsi dal principio del mondo al presente, non potevano bastare; e non se ne dee far giudizio dell’indole,
del destino e delle facoltà dell’uomo: oltre che si sono
avute altre faccende per le mani. Ma ora non si attende
ad altro che a perfezionare la nostra specie.
TIMANDRO. Certo93 vi si attende con sommo studio
in tutto il mondo civile. E considerando la copia94 e l’efficacia dei mezzi, l’una e l’altra aumentate incredibilmente da poco in qua, si può credere che l’effetto si abbia veramente a conseguire fra più o men tempo: e
questa speranza è di non piccolo giovamento a cagione
delle imprese e operazioni utili che ella promuove o partorisce. Però95 se fu mai dannoso e riprensibile in alcun
tempo, nel presente è dannosissimo e abbominevole l’ostentare cotesta vostra disperazione, e l’inculcare agli
90
ma perfetto... chi: cfr. La scommessa di Prometeo, e in particolare il discorso di Momo, che propone di considerare piuttosto il
genere umano «sommo nell’imperfezione» (r. 261-262).
91 Non... giungere: cfr. appunto la risposta di Prometeo, nell’operetta citata, r. 214 e seg.
92 Nè io ne dubito: l’affermazione, parallela alla precedente
(«Perfettibile lo crederò sopra la vostra fede») è sarcastica, come
subito dimostra il resto della battuta.
93 Certo...: Timandro non dà segno di cogliere l’ironia. Studio
vale «impegno».
94
copia: abbondanza.
95
Però...: «perciò»; ecco la ragione più profonda del biasimo
verso Eleandro: la sua verità è nociva all’«aureo secolo».
Letteratura italiana Einaudi
208
Giacomo Leopardi - Operette morali
uomini la necessità della loro miseria96, la vanità della vita, l’imbecillità97 e piccolezza della loro specie, e la malvagità della loro natura: il che non può fare altro frutto
che prostrarli d’animo; spogliarli della stima di se mede290 simi, primo fondamento della vita onesta, della utile,
della gloriosa; e distorli dal procurare il proprio bene.
ELEANDRO. Io vorrei che mi dichiaraste precisamente, se vi pare che quello che io credo e dico intorno all’infelicità degli uomini, sia vero o falso98.
295
TIMANDRO. Voi riponete mano alla vostra solita arme99; e quando io vi confessi che quello che dite è vero,
pensate vincere la questione. Ora io vi rispondo, che
non ogni verità è da predicare a tutti, né in ogni tempo.
ELEANDRO. Di grazia, soddisfatemi anche di un’altra
300 domanda. Queste verità che io dico e non predico100, sono nella filosofia, verità principali, o pure101 accessorie?
TIMANDRO. Io, quanto a me102, credo che sieno la sostanza di tutta la filosofia.
96
la necessità della loro miseria: «la loro condizione necessariamente misera».
97
imbecillità: debolezza.
98
io vorrei… falso: se il biasimo pare riguardare solo l’opportunità degli scritti di Eleandro, è il momento di riportare Timandro
al centro del problema, dopo le sue ammissioni di r. 256. Si veda
infatti la risposta.
99 arme: l’uscita in -e al sing. (per metaplasmo) è di radicata tradizione letteraria e costantemente adottata da Leopardi.
100 dico e non predico: (nell’autografo era indicato l’accento: prédico) in reazione al predicare usato da Timandro, la paronomasia
accentua la distinzione di significato, e quindi di comportamento,
cui tiene Eleandro; sono gli altri che dicono e predicano.
101
o pure: sempre disgiunti nelle Operette morali.
102
lo... me: riprende la formula di Eleandro (vedi nota 87).
Letteratura italiana Einaudi
209
Giacomo Leopardi - Operette morali
ELEANDRO. Dunque s’ingannano grandemente quel305 li che103 dicono e predicano che la perfezione dell’uomo
consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali
provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che
il genere umano allora finalmente sarà felice, quando
ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero e a
310 norma di quello solo comporranno e governeranno la
loro vita. E queste cose le dicono poco meno che tutti i
filosofi antichi e moderni105. Ecco che105 a giudizio vostro, quelle verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli uomi315 ni; e credo che facilmente consentireste che debbano
essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e
ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. Il
che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal
mondo. Io non ignoro106 che l’ultima conclusione che si
320 ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non biso-
103
Dunque s’ingannano grandemente quelli che...: è il discorso
rivolto contro gli altri filosofi (quelli che... sono «poco meno che
tutti i filosofi antichi e moderni», come è chiarito più oltre), cui
corrisponderà poi quello in propria apologia. Cfr. la lettera a Giordani del 6 marzo 1820 (citata in Storia del genere umano, nota 150),
in cui, dopo aver ricordato il «barbaro insegnamento della ragione
che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio
che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre e solamente giusto e vero», aggiunge: «Queste considerazioni io vorrei
che facessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano dello smisurato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità
umana sia riposta nella cognizione del vero. quando non c’è altro
vero che il nulla».
104 E... moderni: il che vale anche come risposta a quanto detto
da Timandro alle rr. 23-25.
105 Ecco che...: questa la contraddizione in cui Eleandro intende
cogliere i «filosofi».
106 Io non ignoro: litote per dire: «è appunto ciò che io ho sempre sostenuto.
Letteratura italiana Einaudi
210
Giacomo Leopardi - Operette morali
gna filosofare107. Dal che s’inferisce108 che la filosofia,
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non
filosofare, non fa di bisogno esser filosofo; secondariamente è dannosissima, perché quella ultima conclusione
325 non vi s’impara se non alle proprie spese, e imparata che
sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio
degli uomini dimenticare le verità conosciute, e depo-
107 l’ultima... filosofare: cfr. Zibaldone, pp. 304-305 (7 novembre
1820), tipica riflessione di quel periodo per la svalutazione della filosofia e l’apologia della natura istintiva: «Quel detto scherzevole
di un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas a me pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della più sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma
questo insegnamento ci era già dato dalla natura, e non al nostro
intelletto nè alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tutti
noi l’avevamo messo in pratica da fanciulli. Che cosa dunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori,
dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto
a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi, e senza stenti
nè fatiche nè ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicchè la
natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggio
del nostro o di qualsivoglia tempo [...]. Così l’apice del sapere
umano e della filosofia consiste a conoscer la di lei propria inutilità
se l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a corregger i
danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato, s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perchè ci libera e disinganna dalla filosofia». Analogamente Zibaldone, p. 2711 (21
maggio 1823): «Di qui si conferma quel mio principio che la sommità della sapienza consiste nel conoscere la propria inutilità, e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella mai non fosse nata:
e la sua maggiore utilità, o per lo meno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’è possibile) appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento’. E vedi anche la Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto
vicini a morte: ‘non e maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza
medesima» (Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1041).
108
s’inferisce: si ricava.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
330
335
340
345
nendosi più facilmente qualunque altro abito che quello
di filosofare. In somma la filosofia, sperando e promettendo a principio di medicare i nostri mali, in ultimo si
riduce a desiderare invano di rimediare a se stessa. Posto tutto ciò, domando perché si abbia da credere che
l’età presente sia più prossima e disposta alla perfezione
che le passate109. Forse110 per la maggior notizia del vero; la quale si vede essere contrarissima alla felicità dell’uomo? O forse perché al presente alcuni pochi conoscono che non bisogna filosofare, senza che però
abbiano facoltà di astenersene? Ma i primi uomini in
fatti non filosofarono, e i selvaggi se ne astengono senza
fatica. Quali altri mezzi o nuovi, o maggiori che non ebbero gli antenati, abbiamo noi, di approssimarci alla
perfezione?
TIMANDRO. Molti, e di grande utilità: ma l’esporgli
vorrebbe un ragionamento infinito111.
ELEANDRO. Lasciamoli da parte per ora: e tornando
al fatto mio112, dico, che se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e ripren-
109
domando... passate: che è quanto ha sostenuto Timandro (rr.
279-280), prendendone motivo per biasimare Eleandro.
110 Forse...: segue una serie di domande retoriche, in cui è chiara
la risposta negativa. Solo l’ultima domanda lascia apparentemente
una risposta aperta, ma è infatti elusa da Timandro (il ragionamento infinito non si può tenere).
111 ma... infinito: in modo analogo Prometeo non risponde a
Momo, vedi La scommessa di Prometeo, r. 287 e seg.
112 e tornando al fatto mio: è il momento del discorso di apologia
di Eleandro; cfr. la posizione di Teofrasto nella Comparazione delle
sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
350 dere lo studio di quel misero113 e freddo114 vero, la co-
gnizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine115, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà di
azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario,
lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che genera355 no atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed
utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le
illusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori antichi,
diversi assai dagli errori barbari116; i quali solamente, e
113
misero: povero, limitato.
114
freddo: perché contrario alla vita; cfr. Storia del genere umano, r. 132, «gli animi freddi e stanchi per l’esperienza delle cose», e
soprattutto A Silvia, vv. 60-63, «All’apparir del vero / Tu, misera,
cadesti: e con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda /
Mostravi di lontano».
115
infingardaggine: poltroneria.
116
barbari: Leopardi si riferisce in questo modo al Medioevo, ai
«tempi bassi» tra età classica e rinascita moderna della «filosofia».
La distinzione tra i due tipi di errori (antichi e barbari) è fondamentale in Leopardi, che dimostra una convinzione definitiva sulla
questione, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (scritto probabilmente tra marzo e aprile del 1824, durante la
stesura delle Operette morali); in esso, opponendosi esplicitamente
alle idee reazionarie di Chateaubriand, afferma: «Si potrà forse disputare non poco se l’antica civiltà sia da preporre o posporre alla
moderna, in ordine alla felicità sì dell’uomo sì de’ popoli ed alla
virtù, valore, vita, energia ed attività delle nazioni. Ma lo stato della
Spagna [di cui parla appunto lo scrittore francese, n.d.c.] non ha
niente a fare coll’antica civiltà. Tutto quello in che la Spagna (e i
popoli che se le assomigliano) si distingue dagli altri popoli d’Europa [...] appartiene alla barbarie de’ tempi bassi, è una derivazione, o piuttosto una continuazione di quella [...] Ora i costumi, le
opinioni e lo stato propriamente antico favorivano, conducevano,
e generavano il grande, ma quelli del tempo basso in generale considerandoli, non hanno mai nè favorito nè prodotto niente di grande, nè sono di natura da poterne produrre o da esser compatibili
colla vera grandezza nè dell’individuo nè molto meno delle nazioni. È un falsissimo modo di vedere quello di considerar la civiltà
moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico [...]. Il ri-
Letteratura italiana Einaudi
213
Giacomo Leopardi - Operette morali
360 non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della ci-
viltà moderna e della filosofia. Ma queste, secondo me,
trapassando i termini (come è proprio e inevitabile alle
cose umane); non molto dopo sollevati da una barbarie,
ci hanno precipitati in un’altra, non minore della pri365 ma117; quantunque nata dalla ragione e dal sapere, e non
dall’ignoranza; e però meno efficace e manifesta nel corpo che nello spirito, men gagliarda nelle opere, e per dir
così, più riposta ed intrinseca118. In ogni modo, io dubi-
sorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stadio
antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e
propagandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico» (Le poesie e le prose, op. cit., II,
pp. 577-578).
117 Ma queste... prima: cfr. Zibaldone, p. 162 (10 luglio 1820):
«Lo scopo dell’incivilimento moderno doveva essere di ricondurci
appresso a poco alla civiltà antica offuscata ed estinta dalla barbarie dei tempi di mezzo. Ma quanto più considereremo l’antica civiltà, e la paragoneremo alla presente, tanto più dovremo convenire ch’ella era quasi nel giusto punto, e in quel mezzo tra i due
eccessi, il quale solo poteva proccurare all’uomo in società una certa felicità! La barbarie de’ tempi bassi non era una rozzezza primitiva, ma una corruzione del buono, perciò dannosissima e funestissima. Lo scopo dell’incivilimento dovea esser di togliere la ruggine
alla spada già bella o accrescergli solamente un poco di lustro. Ma
siamo andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare, che siamo
presso a romperla».
118 e però... intrinseca: mentre la barbarie nata dall’ignoranza
(quella dei «tempi bassi») si manifestava in attività esterne (corpo,
opere: violenze, distruzioni, ingiustizie, ecc.), quella moderna agisce sull’attività sentimentale e intellettuale. Secondo una riflessione
di alcuni anni prima (dicembre 1820) l’ignoranza dei «tempi bassi»
«richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura trionfa ordinariamente, facilmente e naturalmente quando
manca il suo maggiore ostacolo ch’è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana dalla natura e meno infelice, più attiva ec. di quella che produce l’incivilimento non medio
ma eccessivo del nostro secolo». E evidente nell’operetta che la distinzione non è più svolta sulla base della maggiore vicinanza alla
natura in quanto fonte vitale.
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
to, o inclino piuttosto a credere, che gli errori antichi,
370 quanto sono necessari al buono stato delle nazioni civili,
tanto sieno, e ogni dì più debbano essere, impossibili a
rinnovarveli119. Circa la perfezione dell’uomo, io vi giuro, che se fosse già conseguita, avrei scritto almeno un
tomo in lode del genere umano. Ma poiché non è tocca375 to a me di vederla, e non aspetto che mi tocchi in mia vita, sono disposto di assegnare per testamento una buona
parte della mia roba ad uso che quando il genere umano120 sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato
380 un tempietto all’antica, o una statua, o quello che sarà
creduto a proposito.
119 In ogni modo... rinnovarveli: è il necessario chiarimento rispetto a quanto detto prima: indietro non si può tornare (cfr. rr.
246-247: «non essendo in arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute»).
120 avrei scritto… umano: ironicamente, di fronte a un avvenimento grandioso e tragicamente impossibile come la «perfezione»
dell’uomo, Eleandro si adeguerebbe alla piccineria dei filosofi «alla moda». Tutto il finale è «in accordo con la componente ironica e
satirica delle Operette morali: si pensi ai premi proposti dall’Accademia dei Sillografi [nell’operetta con questo titolo, n.d.c.] o stabiliti dal collegio delle Muse ne La scommessa di Prometeo» (Galimberti).
Letteratura italiana Einaudi
215
DIALOGO DI UN VENDITORE
D’ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE1
VENDITORE. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari
nuovi2. Bisognano, signore, almanacchi?
PASSEGGERE. Almanacchi per l’anno nuovo?
VENDITORE. Sì signore.
5
PASSEGGERE. Credete che sarà felice quest’anno
nuovo?
VENDITORE. Oh illustrissimo3 sì, certo.
PASSEGGERE. Come quest’anno passato?
10
VENDITORE. Più più assai.
PASSEGGERE. Come quello di là?
VENDITORE. Più più, illustrissimo4.
1
Passeggere: passante, viandante.
2
Almanacchi.. lunari nuovi: Galimberti riporta opportunamente la voce del Dizionario dei sinonimi di Tommaseo, che spiega la
diversità tra «lunario» e «almanacco», entrambe pubblicazioni diffuse in grande tiratura alla fine dell’anno. Lunario è il «libro dove
stanno registrati i giorni dell’anno solare, a cui si fanno corrispondere quelli dell’anno lunare; coi nomi dei giorni della settimana, le
feste de’ Santi, la cui commemorazione cade a ciascun dì, l’ora del
levare e del tramontare del Sole, i fenomeni straordinarii, ma prevedibili, di natura e simili»; l’almanacco «oltre alle cose nel lunario
comprese, contiene osservazioni astronomiche, e altre notizie».
Nell’editoria di quegli anni, in particolare a Milano, ma anche a Firenze proprio su iniziativa dell’«Antologia», si registrava un notevole rinnovamento di quel genere di pubblicazioni.
3 illustrissimo: questa cadenza di rispetto formale è un inserto
«dal vero», che si aggiunge a quelli dei richiami iniziali (vengono in
mente, in ambito letterario opposto, entrambi gli attacchi delle Desgrazzi de Giovannin Bongee di Carlo Porta); contrassegna inoltre i
ruoli degli interlocutori, alternando nella parte centrale con signore, ma tornando a ripetersi nella conclusione.
4 Più più, illustrissimo: con le sue risposte il Venditore pensa di
assecondare l’acquirente, dando per scontato che anche lui condivida l’idea corrente che la felicità di anno in anno aumenti; ma il
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PASSEGGERE. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli5 che l’anno nuovo fosse come qualcuno di
questi anni ultimi?
VENDITORE. Signor no, non mi piacerebbe.
PASSEGGERE. Quanti anni nuovi sono passati da che
voi vendete almanacchi?
VENDITORE. Saranno vent’anni, illustrissimo.
PASSEGGERE. A quale di cotesti vent’anni vorreste
che somigliasse l’anno venturo?
VENDITORE. Io? non saprei.
PASSEGGERE. Non vi ricordate di nessun anno in
particolare, che vi paresse felice6?
VENDITORE. No in verità, illustrissimo.
PASSEGGERE. E pure la vita è una cosa bella. Non è
vero7?
VENDITORE. Cotesto si sa8.
PASSEGGERE. Non tornereste voi a vivere cotesti
vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando
da che nasceste9?
Passeggere, che non domandava a caso, utilizza proprio quelle risposte per sollecitare una riflessione meno superficiale.
5
egli: pleonastico.
6
Non vi… felice?: vedi Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, nota 45.
7 E pure... vero?: il Non è vero? segnala la distanza del Passeggere dall’affermazione: dopo la risposta negativa del Venditore (non
si ricorda nessun anno felice), è a lui che vuole far trarre le conseguenze ultime del discorso, contrapponendo l’esperienza reale all’affermazione generica che «la vita è una cosa bella».
8 si sa: l’affermazione comune non viene contestata, ma la risposta è impersonale (così la successiva).
9 Non tornereste... nasceste: il Passeggere insiste e torna in forma
diversa al tipo di domanda già formulato (r. 20 e seg.: «A quale di
cotesti vent’anni ...?», «Non vi ricordate ...?»).
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Giacomo Leopardi - Operette morali
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VENDITORE. Eh, caro signore10, piacesse a Dio che si
potesse.
PASSEGGERE. Ma se aveste a rifare la vita che avete
fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che
avete passati?
VENDITORE. Cotesto non vorrei11.
PASSEGGERE. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita
ch’ho fatta io, o quella del principe12, o di chi altro? O
non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
VENDITORE. Lo credo cotesto.
PASSEGGERE. Né anche voi tornereste indietro con
questo patto13, non potendo in altro modo?
VENDITORE. Signor no davvero, non tornerei.
PASSEGGERE. Oh che vita vorreste voi dunque14?
VENDITORE. Vorrei una vita così15, come Dio me la
mandasse, senz’altri patti16.
10
caro signore: la gerarchia dei ruoli non è mutata, ma la conversazione si sta prolungando oltre le forme solite, diventa più personale.
11 Cotesto non vorrei: condotto di nuovo all’esperienza personale, la risposta è ancora negativa.
12
principe: per indicare il potente in genere.
13
con questo patto: cioè rifacendo esattamente la vita già fatta.
14
Oh... dunque? cfr. r. 38; ma ormai il Venditore ha riconosciuto che il rifiuto di rifare la propria vita è generale, non dipende da
particolari condizioni.
15 così: su quest’uso di così Leopardi si sofferma nello Zibaldone,
p. 3170 (12 agosto 1823): «Così ridondante, o con un certo cotal significato che non si può altrimenti esprimere se non col gesto, si
crede esser proprietà della nostra lingua, e idiotismo del nostro dir
familiare (benchè molto usato dagli eleganti scrittori) [...]. Ma quest’uso è latino e greco [...]». Cfr. il Preambolo a Lo Spettatore Fiorentino, testo contemporaneo a questa operetta (Le poesie e le prose, II. p. 715): «ne hanno un certo concetto così nella mente».
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Giacomo Leopardi - Operette morali
PASSEGGERE. Una vita a caso, e non saperne altro
avanti, come non si sa dell’anno nuovo17?
VENDITORE. Appunto.
PASSEGGERE. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere,
55 e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto
quest’anno, ha trattato tutti male18. E si vede chiaro che
ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il
male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la
vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessu60 no vorrebbe rinascere19. Quella vita ch’è una cosa bella20, non è la vita che si conosce, ma quella che non si
conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno
nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti
gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero21?
16
senz’altri patti: come dire: «senza tante condizioni e complicazioni» (riferendosi a con questo patto di prima).
17 Una vita… nuovo: il Passeggere interpreta e finisce la risposta
approssimativa dell’interlocutore, riportando il discorso all’occasione iniziale, per dimostrare che l’attesa dell’anno nuovo ha basi
ben diverse da quelle che presupponeva il semplice Venditore; altro ha il senso di «nulla» (a questo proposito sono numerosissime
le schede di Leopardi nello Zibaldone).
18
Ma questo... male: al contrario di quanto era dato per scontato dal Venditore.
19 E si vede chiaro... rinascere: è il nucleo logico generatore dell’operetta (vedi Zibaldone, pp. 4283-4284 citato in Introduzione):
il fatto che nessuno voglia rifare la propria vita dimostra che vi ha
prevalso l’infelicità.
20
Quella… bella: cfr. r. 26.
21
Non è vero?: come in precedenza, anche qui è il segnale di
una conclusione provvisoria, fittizia; l’anno che viene non ha nessun motivo per essere diverso dai precedenti, cioè felice. Il discorso non è concluso, ma solo interrotto.
Letteratura italiana Einaudi
219
Giacomo Leopardi - Operette morali
VENDITORE. Speriamo22.
PASSEGGERE. Dunque mostratemi l’almanacco più
bello che avete.
VENDITORE. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta
soldi.
70
PASSEGGERE. Ecco trenta soldi.
VENDITORE. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
65
22
Speriamo: il Venditore ripete l’unica conclusione possibile: si
continua a vivere solo «per una illusione della speranza» (Zibaldone, p. 4284).
Letteratura italiana Einaudi
220
DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO1
AMICO. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito2.
TRISTANO. Sì1, al mio solito.
AMICO. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede
5 che questa vita vi pare una gran brutta cosa4.
TRISTANO. Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo
questa pazzia, che la vita umana fosse infelice5.
AMICO. Infelice sì forse. Ma pure alla fine6...
TRISTANO. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata
10 opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quel1 tristano: è l’eroe di uno dei maggiori miti medievali (la storia
di Tristano e Isotta) la cui sostanza è stata descritta come «una passione adultera più forte di qualsiasi legge umana o divina, nata fatalmente, vissuta con dolorosa intensità e tragicamente conclusa»
(A. Roncaglia, Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, Milano, Nuova Accademia, p. 175). Per questo motivo è chiamato a
rappresentare Leopardi al termine di una vicenda di «amore e
morte» (vedi comunque nota 115).
2 Malinconico… solito: vedi Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, nota 24. Ma si noti che la qualifica di «malinconico» ricorre per
esempio nelle recensioni sull’Antologia» di G. Montani (pur apprezzato da Leopardi) sia all’edizione 1826 dei Versi; sia alla prima
edizione delle Operette morali («Certo il rider suo è più melanconico di qualunque pianto»; vedi ora Scritti letterari, a cura di A. Ferraris, Torino, Einaudi, 1980, pp. 196 e 199).
3
Sì...: per il modo di accettazione delle ‘accuse», vedi anche le
battute iniziali del Dialogo di Timandro e di Eleandro.
4 si vede… brutta cosa: anticipa il giudizio riduttivo poi riportato
esplicitamente da Tristano (r. 20 e seg.).
5 Che... infelice: adottando il punto di vista dell’Amico (l’idea
che la vita sia infelice sarebbe una pazzia), preannuncia la (finta)
palinodia delle battute successive.
6 Infelice...fine...: cfr. Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 256 e
seg.; e Dialogo di un Venditore d’almanacchi e di un passeggere, r.
26-27.
Letteratura italiana Einaudi
221
Giacomo Leopardi - Operette morali
la pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso,
che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse
15 rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse 7.
Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità o del
danno di tali osservazioni8, ma non mai della verità: anzi
mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali
comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le
20 ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è
infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto
d’infermità, o d’altra miseria mia particolare9, da prima
rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso10, e
25 per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo;
poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e
dissi: gli uomini11 sono in generale come i mariti. I mari7
ciascuna di esse: le osservazioni.
8
Solo… osservazioni: è infatti argomento del Dialogo di Timandro e di Eleandro (vedi in particolare r. 45 e seg.), l’operetta che,
chiudendo la prima edizione del libro, ne doveva costituire l’«apologia».
9 E sentendo... particolare: è il giudizio che Leopardi doveva più
spesso sentir ripetere per togliere validità generale alle sue riflessioni. Vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro, rr. 81-86.
10
rimasi… sasso: cfr. un passo di una disperata lettera giovanile
al Giordani: «Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia
pazzia sarebbe di seder sempre con gli occhi attoniti, colla bocca
aperta, colle mani tra le ginocchia, senza nè ridere nè piangere, nè
muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi» (lettera
del 12 novembre 1819).
11 poi risi, e dissi: gli uomini...: si noti la forma da «motto o risposta arguta» (come nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri) che
Tristano dà alla sua proposizione; prima enuncia un parallelo insolito («gli uomini in generale sono come i mariti»), quindi lo spiega
per fasi successive, partendo da una considerazione ironica, da tutti facilmente condivisa, e svelando con progressive generalizzazioni
Letteratura italiana Einaudi
222
Giacomo Leopardi - Operette morali
ti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano
le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche
30 quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi
vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda
uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli
uomini universalmente, volendo vivere12, conviene che
credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si
35 adirano contro chi pensa altrimenti13. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello
che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non
crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nul40 la, né di non aver nulla a sperare14. Nessun filosofo che
il senso del paragone: I mariti...; Chi vuole o dee vivere...; Gli uomini universalmente.... Tutto il passo è anticipato in questo appunto
dello Zibaldone, p. 4525 (23 maggio 1832): «Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle
fedeli, benchè sappiano il contrario. Così chi dee vivere in un paese ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di credere
la vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco e tenero della sua moglie».
12 volendo vivere: l’ultima e più generale proposizione rispetto a
se vogliono vivere tranquilli e vivere in un paese. Questo è infatti
l’«assioma generale» esposto poi nel Pensiero LIV: «che [...] l’uomo non ostante qualunque ragione ed evidenza delle cose contrarie, non lascia mai tra se e se, e anche nascondendo ciò a tutti gli altri, di creder vere quelle cose, la credenza delle quali gli è
necessaria alla tranquillità dell’animo, e, per dir così, a poter vivere».
13
chi pensa altrimenti: come Tristano/Leopardi. Cfr., dal I dei
Pensieri: «Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e generosi perchè ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi nomi loro.
Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, nè il male stesso, quanto chi lo nomina» (che rimanda ai «nomi falsi» di cui si parla nel Dialogo di Timandro e di Eleandro).
14 nè di non saper nulla... sperare: che è invece la verità. Cfr. Zibaldone, p. 4525: «Due verità che gli uomini generalmente non
crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla.
Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non
Letteratura italiana Einaudi
223
Giacomo Leopardi - Operette morali
insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né
farebbe setta15, specialmente nel popolo: perché, oltre
che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le
due prime offendono la superbia degli uomini, la terza,
45 anzi ancora le altre due, vogliono coraggio16 e fortezza
d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi17,
deboli, d’animo ignobile e angusto18; docili sempre a
sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni
del bene secondo che la necessità governa la loro vita;
50 prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca19, alla
loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di
qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso
in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno
perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a
55 qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze
false, così gagliarde e ferme20, come se fossero le più ve-
aver nulla a sperare dopo la morte». Evidente nel testo dell’operetta l’offuscamento del giudizio sulla mancanza di un futuro ultraterreno dell’uomo, giudizio ancora chiaramente ribadito nella lettera
a De Sinner del 24 maggio 1832: «j’ai eu assez de courage pour ne
pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances
d’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche résignation».
15
farebbe setta: formerebbe dei seguaci.
16
vogliono coraggio: vedi ancora il passo citato della lettera a De
Sinner.
17
codardi: cfr. la «lâcheté» di cui parla la lettera citata.
18
d’animo ignobile e angusto: è l’opposto della disperazione magnanima manifestata da Timandro.
19 Petrarca: nota di leopardi: «(61) Parte 2, Canzone 5, Solea
dalla fontana di mia vita.» Cioè Canzoniere, CCCXXXI, vv. 7-8: «et
l’arme rendo / a l’empia et vïolenta mia fortuna» (fortuna vale latinamente «sorte»).
20
gagliarde e ferme: forti e sicure.
Letteratura italiana Einaudi
224
Giacomo Leopardi - Operette morali
re o le più fondate del mondo. Io per me21, come l’Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli in60 fedeli, così rido del genere umano innamorato della vita;
e giudico assai poco virile22 il voler lasciarsi ingannare e
deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono,
essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo
sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma del65 l’intelletto23. Se questi miei sentimenti nascano da malattia24, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e
ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la
privazione di ogni speranza25, mirare intrepidamente il
21
Io per me...: riprendendo il parallelo tra mariti e uomini, il discorso ritorna al punto in cui era stato lasciato, e spiega le ragioni
del ridere di Tristano (poi risi, r. 26); al comportamento degli uomini prima esposto e condannato, si contrappone ora quello di Tristano; come segno della distinzione, dello stacco individuale, torna
qui e più oltre (r. 300) la formula Io per me che già conosciamo (vedi La scommessa di Prometeo), e che può essere assunta a emblema
di questa operetta.
22
virile: «coraggioso, magnanimo», ma il termine si mantiene
nel campo semantico stabilito dai mariti innamorati.
23 inganni... intelletto: la precisazione per Leopardi è sempre
fondamentale: inganni dell’immaginazione sono gli «ameni inganni» delle «illusioni», fonti di vita sempre aperte finché dura l’ignoranza del «freddo vero» (cfr. almeno Storia del genere umano, nota
100, e soprattutto il Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 345 e
seg.). Conoscere il vero, invece, ma conoscerlo in modo errato, lasciarsi ingannare, è segno insieme di presunzione e di debolezza.
Cfr. il pensiero di Zibaldone, pp. 4206-4208 (26 settembre 1826),
in cui, manifestando la propria totale distanza dal secolo che si definisce «éminentement religieux, cioè spiritualista», Leopardi aggiunge: «Giacchè è manifesto che questa e simili innumerabili follie, dalle quali pare ormai impossibile e disperato il guarire gli
intelletti umani, sono puri parti, non mica dell’ignoranza, ma della
scienza».
24
Se... malattia...: risponde, con forza, all’accusa di r. 22-23.
25
ho il coraggio... speranza: vedi rr. 39-40 e nota 14.
Letteratura italiana Einaudi
225
Giacomo Leopardi - Operette morali
70 deserto della vita26, non dissimularmi nessuna parte del-
l’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di
una filosofia dolorosa, ma vera27. La quale se non è utile
ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza
di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa
75 crudeltà del destino umano28. Io diceva queste cose fra
me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia, vedendola così rifiutata da tutti, come si
rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salo80 mone e quanto Omero29, e i poeti e i filosofi più antichi
26 il deserto della vita: cfr. Al conte Carlo Pepoli, vv. 110-118:
«Ben mille volte / Fortunato colui che la caduca / Virtù del caro
immaginar non perde / Per volger d’anni; a cui serbare eterna / La
gioventù del cor diedero i fati; / che nella ferma e nella stanca etade, / Così come solea nell’età verde, / In suo chiuso pensier natura
abbella, / Morte, deserto avviva». Ma è da sottolineare che l’immagine torna in due dei canti fiorentini: Il pensiero dominante, v. 97
(«Per lo mortal deserto») e Amore e Morte, v. 35 («questo deserto»).
27 non dissimularmi... vera: vedi lettera a De Sinner citata: «Ç’à
été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité a l’embrasser toute entière».
28
coperta... umano: è «l’arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» su cui si chiude il Cantico del Gallo silvestre. Cfr.
Amore e Morte, v. 95, «Se non quella del fato, altra possanza», e soprattutto A se stesso, vv. 14-15, «il brutto / Poter che, ascoso, a comun danno impera». Sull’immagine del «destino» vedi anche Dialogo di Timandro e di Eleandro, nota 74.
29 quanto Salomone e quanto Omero: come a dire le fonti insieme
della poesia e della sapienza umane (quali archetipi dell’«ingegno»
umano sono già in Galantuomo e Mondo, ed. a cura di O. Besomi,
p. 470). Salomone è citato come autore dell’Ecclesiaste, in cui risuona il «Vanitas vanitatum et omnia vanitas»; Omero per un passo dell’Iliade (XVII, 446-447) così tradotto dal Monti: «Forse perché partecipi de’ mali / Foste dell’uomo di cui nulla al mondo, / Di
quanto in terra ha spiro e moto, eguaglia / L’alta miseria?» (Iliade,
XVII, 562-565); il passo era ricordato anche nel Dialogo di Plotino
e di Porfirio ed è ripreso qui appena sotto. Cfr. inoltre I nuovi cre-
Letteratura italiana Einaudi
226
Giacomo Leopardi - Operette morali
che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure30, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali31; chi dice che il meglio è non nascere,
85 e per chi è nato, morire in cuna32; altri, che uno che sia
caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare33. E anche mi ricordai che da
quei tempi insino a ieri o all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti i
filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un
90 altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine.
Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché34
studiando più profondamente questa materia, conobbi
che l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati35
95 dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo
decimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io aveva
il torto a credere quello ch’io credeva36.
denti, vv. 1-3: «Ranieri mio, le carte ove l’umana / Vita esprimer
tentai, con Salomone / Lei chiamando, qual soglio, acerba e vana».
30
figure: immagini.
31
e chi di loro… animali: vedi il passo di Omero citato sopra.
32
cuna: culla.
33
andare: nota di leopardi: «(62) Vedi Stobeo, Serm. 96, p. 527
et seqq. Serm. 119, p. 601 et seqq.» La prima «sentenza» è quella
citata da Omero; la seconda è da Euripide; la terza, da Menandro,
è usata da Leopardi anche come epigrafe per Amore e Morte (e nello stesso 1832 l’affermazione ritorna, come ricorda D. De Robertis,
nell’iscrizione per Raffaello, «felicissimo per la morte ottenuta nel
fiore degli anni»).
34 finché...: evidente in questo finale, nel contrasto con la convinzione manifestata prima, la simulazione di palinodia, che nella
battute successive arriva allo scherno.
35
inveterati: che durano per vecchiaia.
36
confesso... credeva: cfr. l’inizio della Palinodia al marchese Gi-
Letteratura italiana Einaudi
227
Giacomo Leopardi - Operette morali
AMICO. E avete cambiata opinione?
TRISTANO. Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
AMICO. E credete voi tutto quello che crede il secolo?
TRISTANO. Certamente. Oh che maraviglia?
105
AMICO. Credete dunque alla perfettibilità indefinita37 dell’uomo?
TRISTANO. Senza dubbio.
AMICO. Credete che in fatti la specie umana vada
ogni giorno migliorando?
TRISTANO. Sì certo. E` ben vero che alcune volte
110
penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi38. E il corpo è l’uomo; perché
100
no Capponi: «Errai, candido Gino; assai gran tempo / E di gran
lunga errai».
37
perfettibilità indefinita: vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro, nota 89. Si ricorderanno Le magnifiche sorti e progressive che
Leopardi deride ne La Ginestra o ilfiore del deserto, v. 51. Il verso,
come è noto, è una citazione adattata dalla dedica agli Inni sacri di
T. Mamiani, libro uscito a Parigi nello stesso 1832 in cui compose
quest’operetta e da Leopardi avuto in prestito quell’anno dal
Vieusseux (vedi Epistolario, op. cit.,Vl, p. 210).
38 È ben vero… noi: quello del vigore corporale degli antichi e
della decadenza fisica dei moderni è un terna che ricorre fin dalle
prime riflessioni di Leopardi; vedi Zibaldone, pp. 207-208, 830 e
seg., 1597-1602, 1624-1625, 1631-1632, e in particolare pp. 31793182, dove tra l’altro si dice: «È indubitato che la civiltà debilita il
corpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa proporzionatamente) si conviene la forza, e il quale, privo di forza, o con
minor forza della sua natura, non può essere che imperfettissimo; e
ch’ella rende propria dell’uomo civile la delicatezza rispettiva di
corpo, qualità che in natura non è propria nè dell’uomo nè di veruno altro genere di cose, nè dev’esserlo […]. È indubitato che le generazioni umane peggiorano in quanto al corpo di mano in mano,
ogni generazione più, sì per se stessa, si perch’ella così peggiorata
non può non produrre una generazione peggior di se ec. ec. Da
tutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi altri luoghi considerate, si fa più che certissimo e si tocca con mano, che i
progressi della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il
Letteratura italiana Einaudi
228
Giacomo Leopardi - Operette morali
(lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le
passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto
115 ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del
corpo, e senza quello non ha luogo39. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed
esso al più chiacchierare40, ma la vita non è per lui. E
successivo deterioramento del suo fisico, deterioramento sempre
crescente in proporzione d’essa civiltà. Nei progressi della civiltà, e
non in altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente
tutti, chiamano oggidì ( e molti anche in antico) il perfezionamento
dell’uomo e dello spirito umano. È dunque dimostrato e fuori di
controversia che il perfezionamento dell’uomo include, non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il corrispondente e sempre
proporzionato deterioramento e, per così dire, imperfezionamento
di una piccola parte di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo che
quanto l’uomo s’avanza verso la perfezione, tanto il suo fisico cresce nella imperfezione; e quando l’uomo sarà pienamente perfetto,
il corpo umano, generalmente parlando, si troverà nel peggiore stato ch’e’ mai siasi trovato, e in che gli sia possibile di trovarsi generalmente» (Zibaldone, 17 agosto 1823). Il tema è già presente nel
Dialogo della Moda e della Morte, dove la Moda afferma: «A poco
per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano
al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita» (ed.
a cura di O. Besomi, p. 58; il tema era utilizzato anche nell’operetta solo abbozzata Dialogo di un cavallo e di un bue; vedi in Appendice). Qui tuttavia, nell’opposizione di corpo a spirito e nella preminenza affidata al primo («E il corpo è l’uomo», «tutto ciò che fa
nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello
non ha luogo»), acquista i connotati di una decisa polemica antispiritualista.
39 perché... luogo: cfr. anche Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, r. 192 e seg.
40
al più chiacchierare: ricorda l’opposizione tra scrivere e agire
all’inizio del Dialogo di Timandro e di Eleandro. Vedi Zibaldone, p.
115: «Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del
corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitare l’amor
della gloria ec., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non
saranno mai in un corpo debole (vedete gli altri miei pensieri) in
Letteratura italiana Einaudi
229
Giacomo Leopardi - Operette morali
120 però41 anticamente la debolezza del corpo fu ignominio-
sa42, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e
appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo:
125 senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda
anche lo spirito. E dato che43 si potesse rimediare in
ciò44 all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare
radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita pri130 vata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono
anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini45, e che gli
antichi a confronto nostro si può dire più che mai che
135 furono uomini. Parlo così degl’individui paragonati
agl’individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna46) paragonate alle masse. Ed
somma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle
nazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del corpo nuoce alle facoltà intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo contrario
l’imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere, (7 giugno
1820), e chi riflette non opera, e poco immagina, e le grandi illusioni non son fatte per lui».
41
però: perciò.
42
ignominiosa: vergognosa, disprezzata.
43
dato che: posto il caso che.
44
in ciò: «in questo singolo problema». Ma è un punto talmente
costitutivo dello «stato moderno», che anche solo se si partisse da
qui, il cambiamento sarebbe radicale.
45
poco più che bambini: ridotti dunque come si è detto poco so-
pra.
46 per usare... moderna: vedi anche più avanti, rr. 204-205. «Nel
senso politico massa è un francesismo (masse) dell’epoca della Rivoluzione, ma il significato di quantità di persone è già latino cristiano» (Dizionario etimologico italiano). In particolare, la parola
Letteratura italiana Einaudi
230
Giacomo Leopardi - Operette morali
aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più
virili47 di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica.
140 A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole
obbiezioni, credo costantemente che la specie umana
vada sempre acquistando48.
AMICO. Credete ancora, già s’intende, che il sapere,
o, come si dice, i lumi49, crescano continuamente.
TRISTANO. Certissimo. Sebbene vedo50 che quanto
145
masse (al plurale) si stava imponendo a partire dal dibattito francese durante la Restaurazione (vedi in proposito Il problema delle
«masse» in A. Omodeo, Studi sull’età della restaurazione, Torino,
Einaudi, 1970, pp. 81-88) ed era concetto fondamentale nelle nuove scienze statistiche (dove la singolarità in quanto tale degli individui è irrilevante, mentre conta la generalità della massa), anche per
questo aborrite da Leopardi; vedi la lettera del 5 dicembre 1831 alla Targioni Tozzetti: «Sapete ch’io abbomino la politica, perchè
credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma di
governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse perchè il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici».
47
più virili: cioè meno «deboli» (cfr. r. 61) nel lasciarsi ingannare da sistemi filosofici accomodanti. Si tenga presente quanto dice
Leopardi nella lettera citata a De Sinner, sul fatto che i suoi «sentimenti verso e contro il destino» sono sempre come quelli di Bruto,
della canzone e della Comparazione delle sentenze di Bruto Minore
e di Teofrasto vicini a morte.
48 A ogni modo… acquistando: come prima, evidente il sarcasmo
(piccole obbiezioni) del mutamento d’idee simulato; acquistando:
«migliorando».
49
o, come si dice, i lumi: cfr. Paralipomeni della Batracomiomachia, VI, 22, 6, «D’augumentar come si dice i lumi»; la metafora
dei lumi per indicare il sapere, del tutto tradizionale, è il simbolo
del rinnovamento culturale che dal tardo Seicento porta, appunto,
all’Illuminismo; ma qui l’ironia è in particolare verso il dilagare
dell’immagine, in quei primi decenni dell’Ottocento, sempre di
fonte francese, come sinonimo di progresso.
50 Certissimo. Sebbene vedo...: cfr. r. 83: «Sì certo. È ben vero...»;
se prima ha parlato del corpo, ora viene a «ciò che appartiene allo
spirito» (vedi rr. 183). Vicino a tutto questo passo è un pensiero
dello Zibaldone, ricordato da Galimberti: «Non solo della ragione,
Letteratura italiana Einaudi
231
Giacomo Leopardi - Operette morali
cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero
dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni51 addietro, e anche più tardi, e
150 vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello
ma anche del sapere, della dottrina, della erudizione, delle cognizioni umane, si può dubitare, se facciano progressi reali. Pel moderno si dimentica e si abbandona l’antico. Non voglio già dir l’archeologia, ma la storia civile e politica, la letteraria, la notizia degli
uomini insigni, la bibliologia, la letteratura, le scoperte, le scienze
stesse degli antichi. Si apprende, si sa quel che sanno i moderni;
quel che seppero gli antichi (che forse equivaleva), si trascura e s’ignora. Nè voglio dir solo i greci o i latini, ma i nostri de’ secoli precedenti, non escluso pure il diciottesimo. Guardate i più dotti ed
eruditi moderni: eccetto alcuni pochi mostri di sapere (come qualche tedesco) che conoscono egualmente l’antico e il moderno, la
scienza degli altri, enciclopedica, immensa, non si stende, per così
dire, che nel presente: del passato hanno una notizia sì superficiale,
che non può servire a nulla. Invece di aumentare il nostro sapere,
non facciamo che sostituire un sapere a un altro, anco in uno stesso
genere (senza che poi uno studio prevale in una età a spese degli altri). Ed è cosa naturalissima; il tempo manca: cresce lo scibile, lo
spazio della vita non cresce, ed esso non ammette più che tanto di
cognizioni. Anche le scienze materiali non so quanto progrediscano, a ben considerare la cosa. Bastando appena il tempo a conoscere le innumerabili osservazioni che si fanno da’ contemporanei,
quanto si può profittare di quelle d’un tempo addietro? I materiali
non crescono, si cambiano. E quante cose si scuoprono giornalmente, che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensava
più. Ripeto che non parlo solo degli antichissimi; anco de’ recenti.
Un’occhiata a’ Dizionari biografici, agli scritti, alle osservazioni, alle scoperte, alle istituzioni di uomini ignoti o appena noti, e pur
vissuti pochi lustri o poche diecine d’anni sono: si avrà il comento
e la prova di queste mie considerazioni. Gli uomini imparano ogni
giorno, ma il genere umano dimentica, e non so se altrettanto» (Zibaldone, pp. 4507-4508, 13 maggio [1829]). Vedi anche il pensiero
di Rousseau copiato a p. 4500-4501, a cui questo rinvia.
51 cencinquant’anni addietro: «Se presi alla lettera, gli anni di
Locke, Newton, Leibniz (tuttavia sottovalutato dal Leopardi [vedi
in La scommessa di Prometeo, nota 991). Bayle. Mabillon ecc. ecc.»
(Contini)
Letteratura italiana Einaudi
232
Giacomo Leopardi - Operette morali
dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi
perché in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia52 di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni
155 non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno
poco, e’53 si sa poco; perché la scienza va dietro alla
scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale può
essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a
160 molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se
non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e
fornito esso individualmente di un immenso capitale54
di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e con165 durre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in
Germania55, donde la dottrina56 non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi
uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile?
Io fo queste riflessioni57 così per discorrere, e per filoso52
copia: gran quantità.
53
e’ = ei, «egli». È un fiorentinismo, con un valore ritmico, per
scandire le due parti dell’affermazione; ed è un tratto del tono proverbiale, da sentenza popolare, di queste righe.
54
capitale: riprende la metafora delle «ricchezze».
55
eccetto... Germania: vedi il passo dello Zibaldone, citato alla
nota 50; nello stesso periodo in cui stendeva quest’operetta, così
Leopardi scriveva a De Sinner (lettera del 18 dicembre 1832): «E
non mi fa punto meraviglia che la Germania, solo paese dotto oggidì, sia più giusta verso di Voi, che la presuntuosissima, e superficialissima, e ciarlatanissima Francia».
56
dottrina: cioè l’insieme di conoscenze dei «dotti».
57
Io fo queste riflessioni...: la conclusione ripete schema e intenzioni delle altre, accentuando il sarcasmo nel professare fede per il
progresso anche quando al mondo fossero solo «ignoranti impostori» e «ignoranti presuntuosi», che è per Leopardi la situazione
del momento.
Letteratura italiana Einaudi
233
Giacomo Leopardi - Operette morali
170 fare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia per-
suaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il
mondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, e
d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei,
come credo, che il sapere e i lumi crescano di conti175 nuo58.
AMICO. In conseguenza, credete che questo secolo
sia superiore a tutti i passati.
TRISTANO. Sicuro. Così hanno creduto di se tutti i
secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed
180 io con lui59. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in
ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose
dette dianzi60.
AMICO. In somma, per ridurre il tutto in due parole,
185 pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali?
58
che... di continuo: riprende l’affermazione dell’Amico.
59
Così... con lui: già una riflessione di molti anni prima dello Zibaldone diceva: «Nessun secolo de’ più barbari si è creduto mai
barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere
il fiore dei secoli, e l’epoca più perfetta dello spirito umano e della
società. Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo l’opinione presente, ma le cose, e
quindi congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà tale
da poter giudicarci rettamente» (Zibaldone, p. 646, 12 febbraio
1821); pensiero ripreso più tardi: «Non solo, come ho detto altrove, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si
credette e si crede essere il non plus ultra dei progressi dello spirito
umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate
dai posteri, certo non dai passati» (Zibaldone, p. 4120, 10 ottobre
1824; vedi anche p. 4124).
60 mi rimetterei alle cose dette dianzi: che dimostrano la presunzione di superiorità del secolo.
Letteratura italiana Einaudi
234
Giacomo Leopardi - Operette morali
TRISTANO. Appunto. Credo ed abbraccio61 la
profonda filosofia de’ giornali62, i quali uccidendo ogni
190 altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave
e spiacevole63, sono maestri e luce dell’età presente.
Non è vero64?
AMICO. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.
TRISTANO. Sì certamente, de’ vostri.
195
AMICO. Oh dunque, che farete del vostro libro65?
Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
61
Credo e abbraccio: si noti la parodia nell’adottare le espressioni di una professione di fede, ma indirizzata verso i giornali (cfr.
anche r. 130).
62
la profonda filosofia dei giornali: il sarcasmo, già evidente nel
contrasto tra profonda filosofia e l’effimero di un giornale, è più
esplicito nell’affermazione successiva: «uccidendo ogni altro studio... sono maestri e luce dell’età presente». Pur espressi anche prima (vedi Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, nota 15), è in questi ultimi anni che si concentrano gli attacchi di Leopardi alle
pubblicazioni periodiche; vedi soprattutto la Palinodia al marchese
Gino Capponi, v. 18 e seg.: «viva rifulse / Agli occhi miei la giomaliera luce / Delle gazzette. Riconobbi e vidi / La pubblica letizia, e
le dolcezze / Del destino mortal»; v. 151 e seg.: «le gazzette, anima
e vita / Dell’universo, e di savere a questa / Ed alle età venture unica fonte!» (e ancora vv. 38-42; 102-107; 205-207); e i Paralipomeni
della Batracomiomachia, I, vv. 34-36 e 42.
63 spiacevole: è il punto di vista dell’«età presente», che rinuncia
allo studio perché troppo faticoso e innalza dunque a «profonda filosofia» gli articoli dei giornali.
64 Non è vero?: come nel Dialogo di un venditore d’almanacchi e
di un passeggere (cfr. rr. 25-26 e soprattutto r. 65) la locuzione segnala una distanza tra il personaggio e le sue affermazioni, indica
l’ironia di Tristano, che lascia all ‘Amico il compito di confermare
(«Verissimo») un giudizio che è in realtà sarcastico. E l’Amico infatti comincia a dubitare: «Se... è detto da vero...
65
libro: da qui era partito il colloquio.
Letteratura italiana Einaudi
235
Giacomo Leopardi - Operette morali
TRISTANO. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate;
66
200 e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei .
Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di
cose individuali del secolo decimonono, intendete bene
che non v’è timore di posteri67, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati68. Gl’individui sono
205 spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni69. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque
suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli
resta più da sperare né in vigilia70 né in sogno. Lasci fare
210 alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui71, desidero e spero
che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse,
che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de’ posteri, i libri specialmente, che ora
215 per lo più si scrivono in minor tempo che non ne biso-
66
e se... più riderei; cioè, se voi credeste sul serio all’importanza
dei posteri, riderei ancora di più per la vostra ingenuità.
67 Non dirò... posteri: per quanto riguarda i posteri, dice Tristano, non occorre guardare al mio caso personale, ma al problema,
già accennato, di qual è la condizione presunta degli individui in
questo secolo. Poiché, secondo l’opinione diffusa (che è quella sostenuta dall’Amico) «Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse»,
non è più necessario occuparsi dei posteri; ecco perché l’Amico
doveva «scherzare», non potendo prendere sul serio tale argomento.
68
i quali… antenati: interpreto il ne come riferito a a riguardo
d’individui o di cose individuali: sull’argomento i posteri rimarranno della stessa idea dei loro antenati, cioè di noi (dice Tristano)
«del secolo decimonono».
69
Gl’ individui… moderni: vedi nota 46.
70
in vigilia: da sveglio.
71
Lasci…individui: oltre alla lettera citata alla nota 46, vedi
quella al Giordani del 24 luglio 1828. Vedi anche Palinodia al marchese Gino Capponi, v. 199 e seg.
Letteratura italiana Einaudi
236
Giacomo Leopardi - Operette morali
gna a leggerli72, vedete bene che, siccome costano quel
che vagliono73, così durano a proporzione di quel che
costano. Io per me74 credo che il secolo venturo farà un
bellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolo
220 decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che75 da
loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta
225 non avrò più che leggere, allora metterò mano ai libri
improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di
ragazzi76, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello
che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni
230 ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri
tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi,
così a un tratto, senza altre fatiche preparatorie. Anzi
72 che ora... leggerli: vedi Zibaldone, pp. 4272-4273: «Molti libri
oggi, anche dei bene accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se
poi si volesse aver cura della perfezione dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna
con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili agli efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispazio
di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi per
arrivare a quello d’insetti alati, nel quale non durano più di due, di
tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di una
sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una,
di due o di tre ore […]» (2 aprile 1827). Ma è da vedere tutto il
pensiero alla p. 4268 e seg., del quale questo è un’aggiunta (in parte citato alla nota 83).
73 siccome... vagliono: uno dei fenomeni più caratteristici e imponenti dell’editoria in quegli anni furono le collezioni economiche, composte da molti volumetti di poco costo.
74
Io per me: cfr. r. 58.
75
la verisimiglianza è che: è verosimile che.
76
questo... ragazzi: cfr. rr. 132-135.
Letteratura italiana Einaudi
237
Giacomo Leopardi - Operette morali
vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e
che l’indole del tempo presente e futuro, assolvano77 es235 si e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti78 alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di
maneggi e di faccende79, che anche la mediocrità è divenuta rarissima: quasi tutti sono inetti, quasi tutti insuffi240 cienti a quegli uffici80 o a quegli esercizi81 a cui necessità
o fortuna o elezione82 gli ha destinati. In ciò mi pare che
consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo,
245 in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai
quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è
più possibile di aprirsi una via83. E così, mentre tutti
77
assolvano: sciolgano.
78
atti: adatti, capaci.
79
Mi diceva… faccende: si noti che anche il conte Leccafondi
nei Paralipomeni della Batracomiomachia è detto «ne’ maneggi nutrito», cosa che è sembrata rafforzare l’identità del comune riferimento a Gino Capponi, amico fiorentino di Leopardi, benché distante ideologicamente (e infatti destinatario della Palinodia al
marchese Gino Capponi).
80
uffici: compiti.
81
esercizi: attività.
82
elezione: scelta.
83
Onde è tale il romore... una via: svolge in altro modo considerazioni analoghe un passo dello Zibaldone, p. 4269: «Troppa è la
copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno,
e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi,
sian pure eccellenti. Tutti i posti dell’immortalità in questo genere,
sono già occupati. Gli antichi classici, voglio dire, conserveranno
quella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero degl’immortali; oh questo io non credo che sia più possibile».
Letteratura italiana Einaudi
238
Giacomo Leopardi - Operette morali
250 gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esi-
to diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma
viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e
politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante
belle creazioni del nostro secolo84! e viva sempre il seco255 lo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e
larghissimo di parole85: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei
anni86, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue
ragioni.
AMICO. Voi parlate, a quanto pare, un poco ironi260
co87. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione88.
TRISTANO. Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti
i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione,
265 perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà
secolo nel quale ella abbia stato89 che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto90 il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i
84
Ma viva la statistica... secolo: vedi la lettera del 1828 al Giordani cit. (e la satira della statistica nella Palinodia al marchese Gino
Capponi, v. 135 e seg.); per la triade economiche, morali e politiche
cfr. Paralipomeni della Batracomiomachia, I, op. cit., 35, 7-8, «bisogni universali / Politici, economici e morali».
85
ma... parole: cfr. Il pensiero dominante, vv. 59-61: «questa età
superba, / Che di vote speranze si nutrica, / Vaga di ciance, e di
virtù nemica».
86 sessantasei anni: dal 1834, data di edizione di quest’operetta
(infatti nell’autografo, steso nel 1832, sessantotto).
87 Voi parlate… ironico: cfr. Dialogo di Timandro e di Eleandro,
rr. 81-82: «Voi parlate, al solito vostro, malignamente».
88 questo... transizione: un’altra delle espressioni più diffuse del
momento.
89
stato: condizione.
90
punto: per niente.
Letteratura italiana Einaudi
239
Giacomo Leopardi - Operette morali
secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che
270 oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizio-
ne che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per
eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della
civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal ca275 so chiedo licenza di ridere91 di cotesto passaggio rapido,
e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno
fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a
grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la na280 tura non va a salti92, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino. Ovvero, per dir meglio, quelle tali
transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma
non reali.
AMICO. Vi prego, non fate di cotesti discorsi con
285 troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici93.
TRISTANO. Poco importa. Oramai né nimici né amici
mi faranno gran male94.
91
In tal caso... ridere: cfr. rr. 199-200.
92
la natura non va a salti: «‘Natura non facit saltus’, adagio attribuito a Linneo e a Leibniz, ma che ha precedenti addirittura medievali» (Contini); come «assioma de’ Leibniziani (se non erro)» lo
ricorda infatti Leopardi nella forma «nihil in naturafieri per
saltum» (Zibaldone, p. 1658).
93
non fate... nemici: tanto l’immagine di un secolo di veloce mutamento (e progresso) era cara ai contemporanei. La pur trasparente simulazione di Tristano sta per essere del tutto abbandonata;
già l’Amico notava la possibile burla e il parlare un poco ironico di
Tristano, tra poco chiederà Ma infine avete voi mutato opinioni o
no?
94 Poco importa... male: l’accomunare amici e nemici in una
eguale indifferenza è il primo segno del totale distacco di Tristano
(e si veda infatti dove porterà lo schema nè... nè, ripreso alle rr.
255-256).
Letteratura italiana Einaudi
240
Giacomo Leopardi - Operette morali
AMICO. O più probabilmente sarete disprezzato95,
come poco intendente della filosofia moderna, e poco
290 curante del progresso della civiltà e dei lumi.
TRISTANO. Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se
mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
AMICO. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e
che s’ha egli a fare di questo libro96?
TRISTANO. Bruciarlo è il meglio97. Non lo volendo
295
bruciare, serbarlo98 come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci99 malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confiden-
95
sarete disprezzato: cfr. Consalvo, in cui il protagonista è «Dai
più diletti amici abbandonato: / Ch’amico in terra al lungo andar
nessuno / Resta a colui che della terra è schivo» (vv. 7-9). Il tema è
frequente negli ultimi testi: vedi Palinodia al marchese Gino Capponi, v. 245 e seg., La Ginestra o il fiore del deserto, vv. 68-69, e i nuovi credenti.
96
e che… libro?: cfr. r. 196, ma ribatte a Tristano («ma che s’ha
a fare?»).
97 Bruciarlo è il meglio...: rispondendo solo alla seconda domanda, Tristano replica anche alla prima, e in senso contrario a ciò che
aveva lasciato credere quando l’Amico gliene aveva posto una
identica (r. 99, «E avete cambiato opinione?»). Ora la finzione di
palinodia si è dissolta, Tristano non ha affatto mutato opinioni, ma
ha definitivamente provato l’isolamento suo dai contemporanei; il
libro nel quale era esposta l’idea che la vita umana fosse infelice,
con la persuasione che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere
prontissima testimonianza alle sue osservazioni, a questo punto non
può che essere bruciato, oppure accolto attraverso una lettura riduttiva: solo come un libro al di fuori della realtà, puramente fantastico e derivato da un umore bizzarro (un libro di sogni poetici,
d’invenzioni e di capricci malinconici), appunto espressione dell’infelicità dell’autore, fatto soggettivo e non generalizzabile.
98
serbano: conservarlo.
99
capricci: nel senso di «bizzarrie». È nome diventato istituzionale in ambito artistico, soprattutto nelle arti figurative, dal Cinquecento ai Caprichos di Goya, e in ambito musicale (vedi Dizionario etimologico italiano).
Letteratura italiana Einaudi
241
Giacomo Leopardi - Operette morali
za, mio caro amico100, io credo felice voi e felici tutti gli
300 altri; ma io quanto a me101, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo102; e tutti i giornali
de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.
AMICO. Io non conosco103 le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individual305 mente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il
giudizio di questa non può fallare104.
TRISTANO. Verissimo. E di più vi dico francamente,
ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il
capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri
105
106
310 uomini ; e ardisco desiderare la morte , e desiderarla
sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità,
100 in confidenza... amico: cfr. il Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 150.
101
io quanto a me: vedi r. 58; tutto il passo ripete l’espressione
di Eleandro, in Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 250 e seg. (e
vedi nota 87).
102 e tale mi credo: si noti la precisazione: io, dice Tristano, sono
infelice e tale anche mi credo, cioè riconosco; voi vi credete felici, e
se me lo dite lo credo anch’io, ma (la domanda è sottintesa) lo siete
davvero?
103
Io non conosco...: ben diversa dalla risposta di Timandro
(Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 256), questa dell’Amico segna il distacco più completo dalle riflessioni di Tristano/Leopardi;
il dialogo non ha più ragione d’essere e qui finisce, ma da qui, nello
spazio dove nessuno è giudice se non la persona stessa, Tristano può
ergersi solo, a parlare di cose su cui nessuno può interferire.
104
fallare: sbagliare.
105
E di più... uomini: in questo ritratto Tristano si contrappone
a distanza a quello degli altri uomini che ha tracciato all’inizio.
106 e ardisco desiderare la morte...: invece «gli uomini universalmente, volendo vivere...» (r. 33). Cfr. Consalvo, v. 42 e seg.: «desiata, e molto, / Come sai, ripregata a me discende, / Non temuta, la
morte; e lieto apparmi / Questo feral mio dì». Si noti il processo di
amplificazione, con la ripetizione disposta a chiasmo (ardisco desiderarla... desiderarla... ardore...).
Letteratura italiana Einaudi
242
Giacomo Leopardi - Operette morali
con quanta credo fermamente che non sia desiderata al
mondo se non da pochissimi107. Né vi parlerei così se
non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismen315 tirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento
dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non
sia lontana. Troppo sono maturo alla morte108, troppo
mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto co320 me sono spiritualmente109, così conchiusa in me da ogni
parte la favola della vita110, durare ancora quaranta o
cinquant’anni, quanti mi sono minacciati111 dalla natura.
Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così di325 re, la forza immaginativa, così questo112 mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se
107
se non da pochissimi: cfr. lettera al padre del 3 luglio 1832:
«Se mai persona desiderò la morte così sinceramente e vivamente
come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mi
fu superiore».
108 Troppo... morte: sono parole di semplice potenza, come tutte
in questo discorso finale di Tristano; qui la pienezza di maturo è
drammaticamente spenta da morte, in un legame stretto anche dall’allitterazione.
109
morto... spiritualmente: come se vivesse, cioè, per la sola vita
vegetativa; cfr. l’espressione usata nella lettera dedicatoria Agli
amici suoi di Toscana dell’edizione fiorentina (1831) dei Canti: «Ho
perduto tutto: sono un tronco che sente e pena» (e vedi anche la
lettera cit. qui alla nota 10).
110 conchiusa... vita: riprende il distico di Petrarca già adottato
da Leopardi come epigrafe nella dedicatoria citata: «La mia favola
breve è già compita, / E fornito il mio tempo a mezzo gli anni» (Petrarca, Canzoniere, CCLIV, vv. 13-l4; compita: «compiuta», fornito:
«finito»); a tale dedica quindi si richiama, ma per aggiungere qui
«conchiusa in me da ogni parte».
111
minacciati: non destinati.
112
questo: di continuare a vivere.
Letteratura italiana Einaudi
243
Giacomo Leopardi - Operette morali
qualcuno mi parla di un avvenire lontano113 come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere
fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta
340 a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo
pensiero che mi sostiene. Libri e studi114, che spesso mi
maraviglio d’aver tanto amato, disegni115 di cose grandi,
e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose delle
quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e
345 delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro
con tutta l’anima ogni miglior successo possibile116, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il
buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che
hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho in350 vidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran
concetto di se medesimi117; e volentieri mi sarei cambia113 avvenire lontano: il censore ecclesiastico fiorentino aveva imposto e ottenuto di correggere la lezione con l’altra vivere molti anni, che non lasciava nessun possibile richiamo alla negazione di un
mondo ultraterreno.
114
Libri e studi...: cfr. la dedicatoria Agli amici suoi di Toscana,
citata: «Sia dedicato a voi questo libro [...] col quale al presente (nè
posso già dirlo senza lacrime) prendo commiato dalle lettere e dagli studi». Si noti che in questo elenco finale Leopardi passa in rassegna tutti gli strumenti di rinnovamento delle «illusioni antiche»
che ha in qualche modo considerato efficaci per se stesso ma che
ora non lo sono più (fino addirittura alla rinascita della poesia grazie alle «ricordanze»); dunque ora non si oppone più nessun diaframma all’attesa di annullarsi nella morte (vedi rr. 352-357). Non
fa parola però dell’amore, che era l’unica forte possibilità di vita rimasta e la cui fine è stata determinante nel consegnare Leopardi al
desiderio di morte; l’unica traccia rimane nel nome di Tristano.
115
disegni: progetti.
116
desidero... possibile: vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro,
r. 176 e seg.
117 gli sciocchi e gli stolti... se medesimi: gli uni e gli altri dotati di
una maggiore sicurezza di vivere, contrariamente a Tristano, troppo «implicato continuamente in se stesso» (vedi Dialogo della Natura e di un’Anima, r. 45 e seg.).
Letteratura italiana Einaudi
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Giacomo Leopardi - Operette morali
to con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti
né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni im355 maginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire ch’io
fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire118. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi
360 turbano più, come solevano119. Se ottengo la morte
morrò così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo120. Questo
è il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi
fosse proposta da un lato la fortuna121 e la fama di Cesa-
118 Ogni immaginazione… uscire: riecheggia il «Coro dei morti»
del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, v. 1 e seg.: «Sola nel mondo eterna, a cui si volve / Ogni creata cosa, / In te, morte, si posa / Nostra ignuda natura»; e più oltre il Morto, rispondendo alla domanda di Ruysch «che cosa è la morte», dice: «Piuttosto
piacere che altro».
119 Nè... solevano: il riferimento, come ricorda Della Giovanna,
è a Le ricordanze (richiamate anche direttamente dalla parola tematica ricordanza); cfr. v. 87 e seg.: «Ahi, ma qualvolta / A voi ripenso,
o mie speranze antiche, / Ed a quel caro immaginar mio primo; /
Indi riguardo il viver mio sì vile / E sì dolente, e che la morte è
quello / Che di cotanta speme oggi m’avanza; / Sento serrarmi il
cor, sento ch’al tutto / Consolarmi non so del mio destino. / E
quando pur questa invocata morte / Sarammi allato, e sarà giunto
il fine / Della sventura mia; quando la terra / Mi fia straniera valle,
e dal mio sguardo / Fuggirà l’avvenir; di voi per certo / Risovverrammi; e quell’imago ancora / Sospirar mi farà, farammi acerbo /
L’esser vissuto indarno, e la dolcezza / Del dì fatal tempererà d’affanno»; come si vede, anche con autocitazione diretta («il pensiero
d’esser vissuto invano»).
120 come... mondo: mentre non è vero, come documentano ampiamente gli scritti precedenti (e tra i primi Le ricordanze); ma nello stacco da essi, ancor più forte si disegna il nuovo ritratto di Leopardi.
121
fortuna: nel senso latino di successo nei tempi a venire.
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Giacomo Leopardi - Operette morali
365 re o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di
morir oggi, e che dovessi scegliere122, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi123.
122
e che... scegliere: dipende, con variatio, da fosse proposta.
123
e... risolvermi: «e non vorrei si perdesse neanche il tempo per
decidere».
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