Contributo della Compagnia di Gesù alla ricerca e didattica delle scienze
Marco Casazza
Dipartimento di Fisica, Università degli Studi di Torino
Introduzione
Di fronte all'argomento proposto dal titolo del mio intervento, le domande che possono sorgere sono
numerose sia per gli studiosi sia per chi, incuriosito da un titolo, che suona quasi come
provocatorio, voglia saperne di più. Esiste un contributo in questo settore del sapere dato dalla
Compagnia di Gesù (cioè dai Gesuiti) (SJ di seguito)? Come viene comunemente considerato? Ma
che senso ha, per un appartenente a questo specifico ordine religioso lo studio (e, quindi, anche
quello delle scienze)? Esistono dei contributi veramente significativi e da parte di chi? Perché
parlare di didattica? E, in maniera più specifica, di didattica delle scienze, sempre riferendosi alla
SJ? Cercherò di rispondere a queste domande, rispettandone l'ordine.
Valutazioni sui contributi della Compagnia di Gesù alla ricerca e didattica delle scienze
Maltese (1989) sostiene che “la SJ fu il principale protettore dello studio delle scienze fisiche e
matematiche nel XVII secolo, per la qualità del suo sistema educativo, dei suoi insegnanti e
ricercatori. Questo non deve tuttavia indurre ad una sovrastima”. Aggiunge che “il ruolo dell'Ordine
fu al più di conciliare il vecchio al nuovo”. Inoltre “l'apporto scientifico gesuita fu elemento
fondamentale ed universalmente accessibile di unione tra vecchio e nuovo”. Infine “la crescita del
caratteri nazionali della scienza, sotto forma delle Accademie scientifiche nazionali, relegò l'opera
dei Gesuiti in una posizione sempre meno importante”.
Nell'introduzione al volume dedicato a Giambattista Riccioli, Maria Teresa Borgato (2002)
definisce il vocabolo “merito” non in senso valutativo, ma puramente nel senso di argomento
trattato. Anzi. All'interno del medesimo volume, nel contributo di Baldini (2002), viene espresso un
duro giudizio sulle parole scritte da Giambattista Riccioli SJ sul confratello, Francesco Maria
Grimaldi SJ, in occasione della sua morte che furono di prevalente natura morale e non di elogio per
i meriti scientifici.
Naturalmente non si possono tacere le posizioni contro le tesi di Copernico, sostenute,
fondamentalmente, a causa di una tendenza che vedeva, all'epoca, l'intendere il contenuto della
Bibbia interpretabile in toto alla lettera (tendenza, che, a quell'epoca, era prevalente) come
sottolineato da Kelter (1995). Ma, nel medesimo scritto sottolinea come venissero accettate, da
studiosi della SJ, le ipotesi copernicane.
A prima vista la causa di questi giudizi – in particolar modo il primo – potrebbero risiedere nel fatto
che, all'inizio del XVII secolo, come ricorda lo stesso Maltese (1989), si intendesse per “fisica” una
scienza dei corpi naturali qualitativa ed astratta, una scienza delle cause e non degli effetti
(comprendeva, da un lato i anche i fenomeni psicologici e organici, mentre escludeva la matematica
e gli esperimenti). Rientravano invece nella Matematica applicata i saperi come l'ottica, astronomia,
idraulica ed altri simili. Cosicché la “matematica applicata” non veniva insegnata nell'università,
mentre era insegnata (in lingua volgare) nei collegi della SJ. In tal caso avrebbe senso dire che il
contributo alla fisica (usando, quindi, la definizione di allora) non è da sovrastimare. Però, citando i
contributi in astronomia, ottica e così via non mi posso trovare d'accordo.
Non sono nemmeno d'accordo con il giudizio di Baldini, che lascia intendere – nemmeno troppo –
che la SJ non considera troppo l'opera di Grimaldi – presa, invece, in grande considerazione da altri
studiosi. Bisogna tener conto, infatti, che l'espressione delle parole di elogio, di carattere morale,
espresse dal Riccioli, sono scritte non da un uomo qualsiasi, ma da un religioso. Sembra, dunque,
che talvolta non si consideri il contesto in cui i pregi e le lacune sono nati e cresciuti. Se non quando
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si debba esprimere una critica (anche corretta). E questo è il caso di Kelter (1995).
Piuttosto risulta interessante questo cercare di attribuire ad un intero ordine religioso dei difetti,
mentre non si considerano le opere dei singoli in quanto contributi. Dall'altra parte emerge il fatto
che si stia parlando di “scienza gesuitica”. È possibile tutto ciò? Il paradosso risulta nel fatto che dei
religiosi, il cui compito risieda nel salvare le anime, siano stati in grado di produrre un corpus di
5000 opere, con argomenti, che toccano praticamente ogni branca delle scienze matematiche e
fisiche. Il paradosso è conciliabile, secondo Harris (1995), nel ritenere il contributo come forma di
ricerca ad una sottostante coerenza al fine di costruire un nuovo modo di professare la fede tra tutti
e anche fra le persone istruite. Si tratta, dunque, di un modo per cercare il dialogo tra la SJ e la
società. Risulta, dunque, inadeguato il cercare di conciliare il lavoro scientifico come espressione
organica e coerente dell'attività religiosa. Piuttosto è interessante l'orientamento più recente di
“confessionalizzazione”, che consiste, in questo caso, nel “cristianizzare le masse e spiritualizzare
la vita di ogni giorno”. Ecco che, attraverso le opere di educazione, viene mal interpretato il ruolo di
“portatori di cultura, che la SJ ha assunto al fine di diffondere la cristianizzazione.
Riassumendo. Esiste un innegabile contributo della SJ alle scienze (analizzeremo, in seguito, il
contributo di alcuni studiosi membri della Compagnia) e spesso viene mal interpretato partendo dal
presupposto della dicotomia tra scienza e fede, senza considerare le ragioni che hanno spinto
quest'Ordine ad avere al suo interno dei componenti, che tanto si sono dedicati a discipline di
carattere scientifico.
Lo studio e il suo significato spirituale
Nello suo scritto, Mucci (2011) si domanda quale sia il senso dello studio come attività spirituale, in
particolar modo riferendoci agli scritti di S. Ignazio di Loyola. In una lettera a S. Francesco Borgia
SJ (Roma, luglio 1549), S. Ignazio scrive che “quelli che studiano per il servizio di Dio e il bene
generale della Chiesa” hanno il dovere di “mantenere le loro facoltà intellettuali disposte allo sforzo
dello studio e conservare la sanità”. Costoro non devono essere gravati di lunghe preghiere, perché
“Dio non si serve dell'uomo solo quando prega, ma ci sono dei momenti in cui Dio è servito con
altre azioni più che con la preghiera”. Scrive (lettera a Bartolomeo Hernàndez, Roma, 21 luglio
1554) che “quando lo studio è puramente ordinato al servizio divino, è in sé ottima devozione”.
Riteneva, infine, che fosse necessaria una compensazione equilibratrice tra le due forme spirituali e
parlava di escuela del entendimiento ed escuela del afecto. La prima è la scuola della formazione e
degli studi, mentre la seconda è incentrata sull'interiorità dell'io umano.
Riassumendo. Non c'è dissidio tra vita interiore e vita di studio, a patto che la seconda sia
“ordinata”, cioè orientata (ovvero: serva allo scopo) al servizio divino.
Esistono dei contributi veramente significativi?
Tracceremo, in questo capitoletto, il profilo di alcuni studiosi, che durante la loro vita all'interno
della SJ, si dedicarono con particolare merito alle scienze, con particolare riguardo a quelle
matematiche e fisiche.
Cristopher Clavius (1538-1612). meglio noto in Italia come Cristoforo Clavio (Bamberga, 25 marzo
1538 – Roma, 12 febbraio 1612), è stato matematico e astronomo, noto per il suo contributo alla
definizione del calendario gregoriano. sarebbe la latinizzazione di Christoph Clau (o Christoph
Klau). Secondo altri, potrebbe essere una semplice traduzione di Christoph Schlüssel. Nel 1555
entra nell'ordine dei Gesuiti e l'anno successivo viene inviato all'Università di Coimbra, dove i
gesuiti avevano fondato un loro collegio. Nei corsi universitari eccelle nelle discipline matematiche,
e nel 1560 esegue osservazioni astronomiche su una eclissi solare totale che lo inducono a
indirizzarsi agli studi astronomici. Clavius diventa il più autorevole matematico dei gesuiti, e in
quanto tale scrive un gran numero di testi che hanno una elevata influenza. Sono di Clavius una
versione degli Elementi di Euclide (1574), una delle più autorevoli del suo tempo, un commento
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alla Sfera di Sacrobosco (1581), libri di aritmetica pratica, di geometria, di algebra e sull'astrolabio.
Nel 1579 viene nominato Primo Matematico nella Commissione pontificia per la riforma del
calendario giuliano. La definizione del nuovo calendario ottiene grande successo, e viene adottata
nei paesi cattolici nel 1582 per ordine del Papa Gregorio XIII. Come riconoscimento di questa sua
attività viene soprannominato Euclide del XVI secolo. Come astronomo segue il modello
geocentrico del sistema solare, il modello ortodosso suffragato dall'opera di Claudio Tolomeo,
riconoscendo però i problemi del modello tolemaico. All'inizio del XVII secolo è uno dei più
autorevoli astronomi, e Galileo gli fa visita nel 1611 per discutere con lui le osservazioni da lui
eseguite con il telescopio. Nell'ultima edizione (1611) di In Spheram Joannis de Sacrobosco
commentarius, che presenta una visione dell'astronomia dell'epoca, riporta le nuove scoperte di
Galileo con il telescopio (anni 1609-1610) nonché le osservazioni del 1570, 1600 e 1604. Riporta
inoltre della cometa del 1577. Mostrando, così, che i cieli non erano incorruttibili a differenza di
quanto sostiene la dottrina aristotelica (e anche le fasi di Venere e i satelliti di Giove, che
mostravano che non tutto gira intorno alla Terra), afferma che è necessaria una riforma delle orbite
celesti. Clavius accetta le nuove scoperte, anche se nutre dubbi sulla presenza di montagne sulla
Luna (ironia della sorte, a Clavius è dedicato uno dei maggiori crateri lunari). Infine insiste sulla
necessità della matematica per trattare i temi di fisica, dato che “per la loro ignoranza in matematica
alcuni professori hanno commesso molti gravissimi errori” e dato che “senza la matematica la
filosofia naturale resta monca”.
Giovanni Battista Riccioli (1598-1671). Nacque a Ferrara il 17 aprile 1598 e morì a Bologna il 25
giugno 1671. Ha calcolato latitudine e longitudine di molte località; ha disegnato una mappa lunare
(insieme a Grimaldi), pubblicata nell'Almagestum Novum (1651), introducendo una nomenclatura in
parte ancor' oggi utilizzata. Ha compilato un catalogo stellare, osservato una stella doppia, notato le
bande colorate parallele passanti per l'equatore di Giove. Ha sviluppato, infine, un metodo per
calcolare il diametro del Sole (insieme a Grimaldi).
Daniello Bartoli (1608-1685). Nacque a Ferrara il 12 febbraio 1608 e morì a Roma il 13 gennaio
1685. Famoso per la sua Istoria della Compagnia di Gesù, scrisse anche dei trattati scientifici, tra i
quali i quattro libri Del suono de' tremori armonici e dell'udito (1679), in cui descrive la
propagazione del suono, comparandola con “i circoli che si forman' nell'acqua” (stagnante).
Sottolinea, nel medesimo luogo, che la filosofia naturale “douersi tenere colle sperienze”.
Francesco Maria Grimaldi (1618-1663). Nacque a Parma il 2 aprile 1618 e morì a Bologna il 28
dicembre 1663. Stretto collaboratore di Giovanni Battista Riccioli, è famoso per aver scoperto e
definito la diffrazione della luce: “lumen propagatur seu diffunditur non solum Directe, Refracte,
aut Reflexe, sed etiam alio quodam quarto modo, DIFFRACTE”. All'interno del suo famoso testo, il
De Lumine (1663), suddiviso in due volumi, tratta, sperimentalmente sia della natura della luce in
quanto corpuscolo sia della luce parlando di “fluido” che si propaga undulatim. Nel medesimo
trattato emerge l'orientamento dell'Autore nel non ritenere un approccio modellistico – validato
dagli esperimenti – predominante rispetto all'altro. Fu citato da Newton nella sua “Ottica” per la
scoperta della diffrazione.
Giuseppe Ruggero Bošković (1711-1787). Nacque in Croazia (Ragusa) il 18 maggio 1711 e morì a
Milano il 13 febbraio 1787. Uno dei primi studiosi ad accettare le teorie di Newton. Boscovich fu il
primo a fornire una procedura per il calcolo dell'orbita di un pianeta sulla base di tre osservazioni
della sua posizione e diede anche una procedura per determinare l'equatore di un pianeta. Inoltre,
formulò quella che oggi è chiamata ipotesi di Boscovich ed è alla base della definizione fisica di
corpo rigido. Pubblicò un libro sulle macchie solari (1736). Non mi dilungherò su di lui, essendo
già stata trattato più volte e approfonditamente in questa sede il suo profilo e i risultati dei suoi
studi.
Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Nacque a Orcines (Francia) il 1 maggio 1881 e morì a
New York il 10 aprile 1955. Noto come paleontologo e come teologo. Meno noto per alcune
considerazioni interessanti applicabili alla fisica dei sistemi complessi, con particolar riguardo
all'ecofisica, disciplina neonata, che tratta l'utilizzo della fisica nella descrizione degli ecosistemi.
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Sviluppa il pensiero di Vladimir Vernadskij (V. fu colui che coniò il termine biosfera e noosfera). In
un suo testo del 1952, pubblicato per la prima volta nella Revue des questions scientifiques il 20
ottobre di quell'anno, propone uno schema dell'evoluzione umana rappresentabile come misura
della complessità del sistema in funzione dell'entropia. Tali temi sono attualissimi (cioè vengono
proposti come nuovi nella letteratura scientifica degli ultimi decenni).
Georges Edouard Lemaître (1894-1966). Nacque a Charleroi (Belgio) il 17 luglio 1894 e morì a
Lovanio il 20 giugno 1966. Fu il primo a capire che lo spostamento verso il rosso (Hubble, 1931)
della luce delle stelle era la prova dell'espansione dell'universo e a proporre la legge di Hubble,
secondo la quale vi è una proporzionalità fra distanza delle galassie e loro velocità di recessione.
Nel 1927, infatti, pubblicò l'ipotesi dell'atomo primigenio, oggi nota come teoria del Big Bang,
basata sulla relatività generale, per spiegare entrambi i fenomeni. Riporta le due seguenti
affermazioni nelle conclusioni del lavoro appena citato: (1) la massa dell'universo è costante ed è
legata alla costante cosmologica dalla relazione di Einstein; (2) il raggio dell'universo cresce senza
interruzione fino ad un valore asintotico R 0 per t ∞ .
Riassumendo. Emergono dei contributi interessantissimi di membri della SJ e di carattere non
secondario. L'opinione secondo la quale il contributo della SJ (intesa come contributo dei suoi
componenti) alle scienze, con particolare riguardo a quelle fisiche, sia di sola unione tra vecchio e
nuovo e non già di originalità è, dunque, inesatta e riduttiva. Certamente è pretenzioso ritenere,
invece, che un ordine religioso in toto finalizzi la propria opera nel dare contributi alla scienza,
perciò, in tal caso, i giudizi espressi partono da un punto di vista, evidentemente, assurdo.
Il ruolo della didattica
Veniamo all'ultimo punto. Per essere buoni scienziati, non sarebbe necessario sottolinearlo, è
indispensabile, prima, studiare. Perché insegnare la scienza? Qual'è l'approccio allo studio che la SJ
propone e che ha permesso di annoverare tra i “suoi” anche degli scienziati?
Una risposta alla prima domanda viene dallo scritto di Tuker (2001). La scienza è un mezzo di
promozione della giustizia sociale, poiché genera informazioni, che possono essere utilizzate per
rimediare alle ingiustizie, dato che la più elementare forma di legame dell'uomo dalla natura
dipende dall'assoluta dipendenza fisica (aria respirabile; acqua bevibile; ecc.). Questa è l'importanza
attuale delle scienze fisiche (con particolare riguardo a quelle ambientali). Per il passato – ma
ancora oggi – è interessante anche la proposta di Harris (1995) di “cristianizzare le masse e
spiritualizzare la vita di ogni giorno”. Direi che un connubio tra le due risposte possa, in prima
approssimazione, dare risposta a questa domanda.
La seconda domanda richiederebbe una lunga trattazione, che in questa sede non è possibile.
Cercherò di dare, quindi, una risposta sintetica.
«Premesso che lo scopo, che la Compagnia direttamente persegue, è di aiutare l'anima dei suoi
soggetti e quella del prossimo nel conseguimento del fine ultimo, per cui sono state create; e che
per questo, oltre l'esempio della vita è necessaria la dottrina e la maniera di presentarla; dopo che
in essi si sarà riscontrato il debito fondamento del profitto nelle virtù, si dovrà innalzare l'edificio
delle lettere e acquisire la maniera di servirsene per aiutare a conoscere e a servire meglio Dio....
Ecco perché la Compagnia accetta i Collegi e le università...» (Cost. n. 307)
Riporto passi dello scritto di Mario Guarino SJ (1974). Il P. Pietro Ribadeneira, rifacendo spesso a
ritroso il cammino fatto dalla Compagnia di alcuni decenni, non poteva dimenticare le parole
dettegli da s. Ignazio una sera di fine settembre del 1549 alla vigilia della sua partenza per Palermo,
dov'era destinato a insegnare retorica nel Collegio d'imminente apertura: «Se viviamo altri dieci
anni, Pietro, vedremo grandi cose nella Compagnia. Se viviamo? Se vivrete voi, le vedrete; perché
io non credo di dover vivere tanto». Queste parole dovevano rivelarsi profetiche, specialmente se
rapportate al primo ‘600, ad appena 70 anni dalla nascita dell'Ordine. A quella data, secondo i dati
fornitici dallo stesso P. Ribadeneira in appendice al suo volume «Illustrium Scriptorum Societatis
Jesu» esso conta già più di 10 mila membri e gestisce circa 300 Collegi, di cui una quarantina circa
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fuori Europa. Tale contesto spiega gli orientamenti di principio e le scelte pratiche proposte e
imposte dal Loyola alla propria istituzione. Egli intese appieno l'urgenza e la portata del mezzo
principe della ricostruzione etico-religiosa della società del tempo: l'educazione, cui infatti riservò
un'intera sezione della sua opera legislativa (la Parte IV delle Costituzioni), e, negli ultimi anni, una
vasta aliquota del suo carteggio. La funzione, per così dire liberante, da lui attribuita all'intervento
educativo, trovò consensi persino formali in tutto l'Ordine: si pensi all'asserzione enfatica. uscita
dalla penna del gesuita spagnolo Juan Bonifacio in un suo celebre, ma ormai introvabile, opuscolo
sull'argomento: «Puerilis institutio est renovatio mundi».
Continua ancora. Centro di attuazione fu, nei primi tempi, l'università pubblica, alla cui ombra
stabilirono i loro domicili i giovani gesuiti, ancora in via nel compimento dei loro studi. Queste case
di coabitazione, ma prive di docenti, costituirono i Collegi nella prima accezione del termine.
L'istituzione suggerita dal gesuita P. Lainez e approvata da Paolo III (1540) non costituiva allora
una novità. Solo che i Collegi voluti da s. Ignazio rimasero esenti dalle ingerenze delle autorità
accademiche, ad esclusivo uso degli studenti gesuiti, privi d'insegnamento. Ci fu quindi una reale,
laboriosissima gestazione dell'apostolato educativo in quell'Ordine nuovo che fu la Compagnia di
Gesù. Alla futura originalità di fisionomia e di struttura non poteva non correlarsi una specie di
iniziale brancolamento nella ricerca dei mezzi realizzativi. Si procedette dunque, per assaggi, che
però, inizialmente, non coinvolsero il settore educativo. Il perseguimento di ideali pedagogicoumanistici non fu effetto di programmazione, ma di particolari congiunture che fecero inserire in
questa anche l'attività dell'insegnamento e della formazione in generale. Vi si giunse per una via
lunga e lenta e partendo da zero: «niente studi né lezioni nella Compagnia»: è la prima decisione del
nucleo di avvio. Né studi generali né particolari, ma solo le indispensabili ripetizioni, le dispute, gli
altri esercizi scolastici.
«Nostro compito è di risollevare la scienza, restaurare la teologia, la religione e ancor più prepararvi
gli alunni» scriverà s. Ignazio al duca di Baviera. Questa preparazione consiste nella cultura
dell'intelligenza mediante le scienze inferiori: le lettere umane, la filosofia e le scienze. Tutto il
piano ignaziano di studi è condensato in queste linee; lo scopo finale: la teologia, attraverso la quale
i docenti devono accendere come «dei piccoli fuochi» nell'animo dei discepoli affinché essi tendano
con tutto lo sforzo verso di essa come a traguardo dei loro studi di filosofia e di scienze.
Particolarmente caratterizzanti sono i seguenti che si ricavano dalla Parte IV delle Costituzioni:
I) Una presa di posizione chiara e netta sul problema della formazione intellettuale, perché s'insiste
da una parte sulle lettere classiche come il fine perseguito di un umanesimo integrale lo richiede, e
d'altra parte si attribuisce alla teologia il primato per raggiungere la formazione di un umanesimo
cristiano (c. 12).
II) La conservazione del principio di unità nel programma scolastico e nella direzione della scuola
(c. 17).
III) Alta considerazione per il corpo insegnante e la personalità del docente giudicata più importante
dello stesso programma di studi e delle prescrizioni pedagogiche (c. 13).
IV) Introduzione della gratuità dell'insegnamento impartito dalla Compagnia (cc. 2 - 3 - 7)
V) Armoniosa unità dell'istruzione e dell'educazione, sottolineando costantemente il principio:
imparare per saper vivere (Introduzione alla P. IV e c. 11).
Il secondo che si concretizzerà nella norma sancita nelle Costituzioni che «la direzione intellettuale
e morale di tutta l'università» sia nelle mani di un «rettore» della Compagnia, che ne «avrà la
responsabilità o sovraintendenza e il governo» (n. 490) scaturì, come abbiamo visto, sopra, dalla
deficiente preparazione di docenti adatti nelle università pubbliche. Di qui la norma che «il rettore,
dopo un conveniente esame, vedrà e deciderà quanto tempo debba darsi ad una materia, e quando si
debba passare ad un'altra» (Cost. n. 357) e quindi la decisione di organizzare Collegi con scuole e
direzione proprie, con docenti gesuiti possibilmente (Cost. n. 457) che, come prima cosa, si
facessero capire dagli studenti e li spingessero, ma progressivamente, alla conquista del sapere.
Come secondo passo essi dovranno stimolare l'impegno individuale mediante l'emulazione, facendo
collaborare attivamente l'intera classe, anche se numerosa (Cost. n. 456). A proposito dell'alta
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considerazione di cui all'inizio godevano i docenti dei nostri Collegi, il P. Ribadeneira scrive: «Se in
poco tempo i nostri alunni fanno rilevante progresso nelle lettere, ciò deriva dal metodo che
adottiamo». Ordine e metodo d'insegnamento da parte dei docenti furono giudicati tanto essenziali
fin dall'inizio che, per distinguere il loro codice pedagogico, i gesuiti non trovarono altro termine
più adatto di «Ratio atque institutio studiorum». La gratuità dello insegnamento era indirettamente
legata all'autosufficienza economica di un Collegio, che perciò si voleva «fondato» come si diceva
allora mediante un reddito fisso, abitualmente agganciato alla proprietà fondiaria di benefattori.
La Ratio Studiorum nasce come regolamentazione, in realtà, del Collegio Romano, nel 1551 e da lì
si sviluppa nelle sue successive forme, seguita, nelle sue successive elaborazioni ad una forma più
completa, data da S. Francesco Borgia SJ nel 1569, che regolamenta gli studi inferiori (tra cui quelli
di fisica evidentemente).
Il contributo ai testi delle prime versioni della Ratio (1586 e 1591) dato da Clavius emerge nelle
frasi di elogio della matematica, senza la quale “la nostra accademia sarebbe priva di un grande
ornamento”. Si propone così un programma di tre anni per un gruppo ridotto di giovani di talento. A
loro si devono spiegare gli Elementi di Euclide, la geografia e l'astronomia e si propone l'istituzione
di una accademia di matematica, per coloro che avessero mostrato maggiore interesse, dopo aver
terminato gli studi di filosofia. Ricordiamo che all'interno della matematica, all'epoca, erano
compresi studi di ottica, astronomia, idraulica e così via, noti col nome di matematica applicata. In
senso più specifico, tenendo conto di una struttura costituita da prelectio – lectio – repetitio, la
prelectio (ovverosia la definizione dei risultati da raggiungere nell'apprendimento, il metodo di
lavoro per gli alunni, i problemi da affrontare, le definizioni utili per affrontare il tema da svolgere, i
difetti dei precedenti lavori e così via) sappiamo che, nel caso della matematica, debba avere una
ampiezza (non annuale, ma per ogni giorno di lezione nel secondo anno) di tre ore circa (edizione
della Ratio del 1600). Come abbiamo, poi, già sottolineato, è prevista la possibilità di approfondire
questi studi per coloro che mostrino particolari doti.
Riassumendo. La fisica e la matematica applicata rivestono, all'interno di un organico e strutturato
progetto educativo “volto a risollevare la scienza e restaurare la teologia e la religione” (le parole
virgolettate sono di S. Ignazio), un ruolo importante e di base, tanto da far parte degli studi inferiori
(quindi, di base). È ritenuta indispensabile ed insegnata in lingua volgare agli alunni per un anno
intero. La riflessione sulla Ratio continua ancor oggi parlando di Paradigma Pedagogico Didattico,
utile termine di confronto per tutti gli insegnanti di tutte le materie, con un approccio agli studi che
ha più di quattrocento anni di vita.
Conclusioni
Dobbiamo distinguere il contributo della SJ in toto da quello di alcuni dei suoi componenti. Nel
primo caso bisogna sottolineare i meriti nel creare una struttura organica nell'insegnamento di tutte
le discipline, definendo delle regole chiare di gestione dei Collegi e delle materie e del metodo di
insegnamento, basato sul methodus parisiensis (cioè quello osservato da S. Ignazio stesso durante i
suoi studi alla Sorbona a Parigi). Per quanto riguarda il contributo alla ricerca scientifica (che,
evidentemente non è scopo di un ordine religioso) emergono risultati di grandissima importanza,
come descritto prima. Certamente i giudizi dati complessivamente alla SJ partono da un punto di
vista sbagliato, presupponendo un ruolo che la SJ si assume all'interno delle scienze che sia fine a se
stesso e sminuendo in parte i risultati ottenuti (se non dimenticandoli talvolta).
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