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di Gigi Bettoli
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Le metamorfosi di un sindacato industriale:
idee per una storia della Camera del lavoro di Pordenone.
Due parole sulla scelta del titolo di questa brevissima sintesi, meritevole di notevoli
approfondimenti. Sindacato industriale non significa necessariamente sindacato di fabbrica. E’ un termine che ha una sua valenza innanzitutto politica, segnando il passaggio
dalla fase del sindacato di mestiere al moderno sindacato “federale”, nel quale la categoria, più che elemento di suddivisione, è momento di unione fra lavoratori operanti in
mansioni e settori diversi.
Il sindacato pordenonese nasce da subito moderno, superando presto quella fase
- ancora di natura corporativa - nella quale poteva accadere che in uno stesso cantiere i muratori oppure i manovali scioperassero, mentre carpentieri ed imbianchini non
solo continuavano la propria attività, ma addirittura li sostituivano al lavoro. Il sindacato
nasce industriale, unitario, nelle fabbriche, dove è spinto dalla forza delle donne, che
rifiutano di essere incasellate in schemi angusti, imponendo spesso il loro protagonismo
con drammatiche rivolte. E nasce industriale nell’altra categoria fondante della storia
del movimento operaio locale, quella di un’emigrazione edile dove la coesione etnica,
intrecciata con la solidarietà internazionale, impongono - più che consigliare - la ricerca
della coalizione fra categorie. Nasce infine come sindacato generale nelle Camere del
Lavoro, dove occupati e disoccupati, operai e contadini trovano un momento di sintesi
ed alleanza che impone da subito una lettura attenta delle dinamiche del territorio e la
scelta della politica: anche su questo piano, mutualità, cooperazione e gestione delle
amministrazioni comunali appaiono sbocchi realistici immediati, più che scelta teorica.
Le rivolte degli operai-massa vincolati alla moderna schiavitù della catena di montaggio, negli anni ‘60 e ‘70, sono figlie di questa storia, dove il sindacato conta perché è generale, ed è egemone perché si fa carico dei bisogni dei vari settori della società. Oggi
sindacato industriale equivale spesso a sindacato dei lavoratori dei servizi. Anzi, non
dei servizi, come vorrebbero altre tradizioni moderate, che danno per acquisito un venir
meno della funzione di rappresenza del conflitto da parte del sindacato, ma nei servizi,
come dimostra l’importante crescita organizzativa nelle varie aree del terziario pubblico
e privato, in linea con le più avanzate esperienze sindacali internazionali che si stanno
facendo carico di settori un tempo definiti i “colletti bianchi”, dove ora dilaga il precariato
come e spesso più che nel lavoro agricolo ed industriale. Si tratta di un sindacato che
ha adottato la contrattazione articolata, nata negli stabilimenti industriali. Un modo di
essere, indotto da profonde modifiche del quadro contrattuale e giuridico nazionale, che
ha talvolta subito l’influenza di sindacalisti provenienti dalla fabbrica. Indubbiamente ai
pensionamenti per anzianità o mobilità dei quadri operai si deve l’estensione a macchia
d’olio del sindacato dei pensionati sul territorio, costruendo una nuova forma di “sindacato generale” concentrato sulle questioni della salute e della coesione sociale.
Come afferma la relazione introduttiva all’ultimo congresso della Camera del Lavoro1
- ricollegandosi ad una tradizione antica ed ancora oggi dirompente - compito della Cgil
e delle sue categorie è assumere integralmente la titolarità contrattuale di tutte le figure
dei lavoratori, senza creare ghetti per i più deboli (IODICE 2006, pagg. 28-29). Questo è
il semplice significato di sindacato industriale che oggi, come nelle sigle nate nell’America del secolo scorso, non può che essere internazionale.
1
D’ora in poi indicata come CdL.
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Pordenone
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1. Una storia ancora in gran parte da scrivere.
La storia del movimento operaio è andata da decenni irrimediabilmente fuori moda.
Indubbie esigenze di rinnovamento scientifico, una maggiore attenzione alla storia sociale, culturale e della vita privata hanno coinciso con una fase di svolta politica recessiva, che ha emarginato chi studia la faticosa e drammatica storia dell’emancipazione
delle classi subalterne. Una storia che ha bisogno, per non diventare sterile, di conoscere condizioni di vita e di lavoro, caratteristiche e senso delle innovazioni tecniche
conquistate o subite, ma non può prescindere dalla ricostruzione delle vicende delle forme organizzative e delle istituzioni prodotte dall’aggregazione di lavoratrici e lavoratori.
In quest’ordine, e non solo per cortesia e risarcimento storico di secoli di oppressione
anche di genere, ma perché la lotta di classe, nel lungo secolo segnato dalle ciminiere
dell’industria cotoniera e delle filande seriche, ha camminato sulle gambe di una classe
operaia fatta essenzialmente di donne.
Paradossalmente, si sa di più sulla storia del movimento operaio e contadino dei
primi decenni del ‘900 o sotto il fascismo che su quanto succede nella seconda metà
del secolo. Ciò grazie ad un buon numero di ricerche, talvolta a carattere locale, che
si sono concentrate sulla fase che va dalle origini delle strutture sindacali, cooperative,
associative e politiche del movimento operaio a quella del “biennio rosso” nel primo dopoguerra - quando nasce la CdL di Pordenone - alla reazione fascista ed alla resistenza
popolare alla dittatura (LIZZERO, i due testi del 1958; LOZER 1960, 1963 e 1967;
BARRACO 1973; DEGAN 1975, 1985, 2001 e 2003; CONTELLI 1983; CESCUT 1983,
1998, 2002 e 2003; MARIUZ 1988; PILLOT e CAMISA 1997; CAMISA 2000; PILLOT
2000; ANTONINI CANTERIN 2000, BETTOLI G.L. 2003). Diversa la situazione relativa al periodo successivo, studiato soprattutto riguardo alle lotte contadine ed operaie
dell’immediato dopoguerra, anche con l’eccezionale presenza del primo romanzo del
maggiore scrittore friulano del Novecento (PASOLINI 1962; GASPARI 1983; BETTOLI
M. 1983; ARGENTON 1989; VIDAL 1991). Una singola opera (MAZZOTTA 1994) è
dedicata alla ricostruzione delle vicende sindacali degli anni ‘50 e ‘60.
Solo alcuni lavori si avventurano sul lungo periodo. Il primo (DEGAN 1981) è dedicato
alla storia dell’industria tessile dal sorgere dei grandi cotonifici nell’800 alla dura vertenza del 1954, unendo la storia politico-sindacale con quella sociale e produttiva degli
stabilimenti. Degan sottolinea il dato fondante di quella esperienza: una classe operaia
prevalentemente femminile, dotata di grande professionalità e di una forte coscienza di
classe, che per un secolo segna il termometro sociale del polo industriale pordenonese.
Il secondo (CHIARADIA 1992) è un troppo ristretto condensato della storia sindacale
provinciale, mentre il terzo (MARIGLIANO 1998) tenta per la prima volta di realizzare
una sintesi della storia sindacale di tutta la regione dalle origini alla rottura dell’unità
sindacale alla metà degli anni ‘80. Infine, l’Amministrazione Provinciale non ha ancora
provveduto a pubblicare uno studio specificamente commissionato al proposito (BOSARI, 1994). Luigi Vidal, per decenni sindacalista dei tessili, ha invece affidato ad una
frequente produzione giornalistica il suo lavoro di ricostruzione della memoria storica
della categoria.
Da parte cattolica, più che le opere storiografiche predominano le memorie del principale organizzatore sindacale cattolico dell’inizio del ‘900 (LOZER 1960, 1963 e 1967),
importante testimonianza viziata però da eccesso di soggettività e spirito polemico,
che va integrata con la biografia (MARIUZZO 1999) e con il lavoro collettivo dedicato
all’altro protagonista del sindacalismo cattolico fra i mezzadri (L’opera sociale politica e
pastorale di Giovanni Maria Concina 1999).
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Ma è soprattutto a proposito delle vicende del maggior gruppo industriale pordenonese della seconda metà del secolo, la Zanussi, che si deve lamentare la maggior
assenza. Certo, l’analisi economica ha fornito importanti materiali (MUSOLLA 1966;
PARMEGGIANI 1966; ANASTASIA e GIUSTO 1984; RAGOGNA e POLZOT 2005), ma
rivolti prevalentemente alla vita ed alle problematiche dell’impresa, dove il sindacato sta
solo sullo sfondo. Al contrario, (DIEMOZ 1984) dedica molto spazio al sindacato, visto
con l’approccio conservatore di un dirigente d’azienda letteralmente spaventato dal
grande movimento sindacale del 1969, capace però di testimoniare onestamente sulle
condizioni di sfruttamento patite dall’operaio-massa degli anni ‘60. Recentemente un ex
dirigente della Cgil di quegli anni ha fornito un’opera ampia e documentata (PADOVAN
2005), ma ispirata alla visione aclassista della “grande impresa”, che ricade in un’ottica
subalterna all’ideologia aziendalistica del “sistema partecipativo”. Considerano il punto
di vista operaio e sindacale sulla storia della Zanussi solo la rara ricostruzione di un
allora dirigente nazionale della Fiom (VALDEVIT 1971), una tesi di laurea dedicata ai
rapporti fra le scelte aziendali, il sindacato ma soprattutto il Pci (ZANOLIN 1987-1988)
e la ricerca sociologica svolta fra i delegati dello stabilimento di Porcia nel 1993-1996
(FARRO, FAMIGLIETTI e PALERMO, 2000), mentre sono ancora inediti gli atti del convegno del 1997 sul sistema partecipativo (FIOM 1997).
Recentemente l’Associazione per la Prosa e l’Amministrazione Comunale di Pordenone hanno promosso un’opera collettiva di grande interesse, sia per la valutazione
del passato che per il futuro della ricerca (CORAI e LICEO SCIENTIFICO, 2005). Una
ricerca sulla storia del Cotonificio Veneziano che ha visto operare insieme sia studenti,
stimolati a compiere un autonomo percorso di ricerca storiografica sull’argomento, sia
ricercatori di storia orale, che hanno realizzato 44 interviste ad operaie ed operai, sindacalisti ed altri testimoni, rendendole fruibili dal pubblico anche con un apposito sito
internet (La storia le storie). Si tratta di un’iniziativa che, oltre a testimoniare l’egemonia
della Fiot-Cgil negli stabilimenti pordenonesi del Veneziano, fornisce un quadro di informazioni quanto mai ricco e soggetto ad ulteriori sviluppi. Un modello per un lavoro
da svolgere, a partire dalle principali realtà del movimento operaio provinciale. Altra
opera innovativa è quella di due archeologi (CRIPPA e MATTOZZI 2003), che hanno
denunciato come la distruzione delle tracce del patrimonio industriale, da parte della
speculazione edilizia, porti alla cancellazione della memoria storica.
2. Gli archivi scomparsi (e quelli salvati).
C’è una ragione per lo squilibrio nelle ricerche fra la prima e la seconda metà del
Novecento. Ed è dato dalla sistematica distruzione degli archivi della sinistra pordenonese. Dopo la fine del Pci e del Psi, gli archivi delle federazioni di questi due partiti
sono stati semplicemente gettati. Delle principali forze politiche che hanno condiviso
il percorso quasi secolare della CdL, è rimasto solo l’archivio del Psiup (1964-1972),
attualmente non ancora fruibile per il pubblico, mentre non risultano esistere quelli delle
formazioni della nuova sinistra succedutesi a partire dagli anni ‘60. Solo alcune buste
dell’archivio del Pci sono state salvate e conservate presso la Casa del Popolo di Torre.
E’ drammatico leggere oggi (ZANOLIN, 1987-1988, pagg. I-III) la puntuale descrizione
dell’archivio della federazione del Pci dedicato alla Zanussi e delle modalità di accesso
per il pubblico, sapendo che fu distrutto solo pochissimi anni dopo.
Quanto all’archivio della CdL di Pordenone, vari sindacalisti ricordano come - dopo
il terremoto ed il trasloco dalla sede di Piazza della Motta a quella provvisoria di Via
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Pordenone
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pali il quotidiano radicale Il Paese, il settimanale socialista Il Lavoratore Friulano , il quotidiano socialista (poi comunista) triestino Il Lavoratore e, dopo la caduta del fascismo,
il quotidiano del Cln provinciale Libertà ed i settimanali comunista e socialista, Lotta e
lavoro e, di nuovo, Il Lavoratore Friulano. Dal 1948 il quotidiano comunista l’Unità realizza una pagina dedicata alla cronaca locale, che durerà quasi quarant’anni. Non sono
gli unici organi di stampa, anche rimanendo all’ambito della sinistra, ma in essi le notizie
sul movimento sindacale sono frequenti e ricche. Sono disponibili presso la Biblioteca
Civica di Udine (l’Unità, lacunoso, è integrabile presso le altre biblioteche della regione,
a Pordenone solo dalla fine degli anni ‘60).
Ed infine ci sono gli archivi privati, dove sono conservati documenti acquisiti in lunghi
anni di ricerca storica, come nel caso della prof.ssa Teresina Degan, che della Cgil è
stata anche la prima segretaria provinciale del Sindacato Scuola, oppure frutto di raccolta personale, spesso utilizzati nelle opere sopra citate: come quelli di Giovanni Migliorini, già segretario della CdL, di Luigi Vidal, ex segretario della Filtea impegnato da
anni nell’elaborazione di articoli di storia sindacale sulla stampa locale e di Alessando
Vicenzini, delegato della Fim-Cisl che ha raccolto i volantini distribuiti alla Zanussi dagli
anni ‘60 agli ‘80. Anche in questo caso, si tratta di preziose collezioni che andrebbero
acquisite in copia presso istituti pubblici e rese fruibili, anche per motivi di tutela, onde
preservarle da dispersioni spesso accadute ad altri patrimoni, a causa delle persecuzioni politiche, dell’inclemenza degli elementi naturali o dell’indelicatezza degli eredi.
3. Il teatro dell’azione.
Nel corso del ‘900 opere di irregimentazione dei corsi d’acqua e bonifica fondiaria,
di costruzione di strade e ferrovie, oltre all’urbanizzazione ed allo spopolamento della
montagna, hanno inciso profondamente sull’ambiente naturale, rendendo oggi quasi
impossibile leggere gran parte delle caratteristiche materiali del territorio del Friuli occidentale, nel quale nel 1968 viene costituita la provincia di Pordenone. Ricordiamo
quindi brevemente quali fossero le condizioni di partenza, in un territorio che nell’arco di
un secolo - a differenza della realtà nazionale, che registra un aumento di popolazione
del 73% - vive una profonda trasformazione, accompagnata però da una stagnazione
della popolazione, dovuta all’emigrazione all’estero e nelle regioni industriali del Nordovest italiano.
La maggioranza del territorio provinciale all’inizio del ‘900 è costituita da una montagna arida e da un’alta pianura che, per l’effetto dei materiali trascinati a valle da fiumi a
regime torrentizio, è arida. Questo territorio arriva alle soglie dei centri abitati maggiori,
situati lungo l’asse della strada e ferrovia Pontebbana e soprattutto delle risorgive, dove
l’acqua zampilla da terreni argillosi dando finalmente vita ad un vero sistema fluviale.
Al di sopra di questa linea, predomina una piccola proprietà non autosufficiente, che
induce la popolazione maschile all’emigrazione all’estero, lasciando alle donne ed agli
anziani l’attività agricola. Si forma così una classe operaia migrante, impiegata nella
prima metà del secolo in attività edilizie qualificate: muratori, piastrellisti e mosaicisti,
scalpellini, nei centri montani, mentre nei paesi di pianura prevalgono attività meno
qualificate come i fornaciai. Sotto la linea delle sorgive, sono dominanti le attività agricole, pur dovendo considerare altre significative fratture nel territorio. Il cuore dell’attività
agraria è collocato fra San Vito al Tagliamento e Portogruaro (pur nella divisione dell’agro concordiese creata sotto il dominio austriaco), fra Pordenone e Sacile si incunea
un’area di praterie semipaludose, quella dei Camolli. Questa è l’area della mezzadria,
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Ospedale vecchio - le buste con i documenti ed i registri con i verbali delle riunioni di
categoria e delle Commissioni Interne fossero dapprima accumulati all’esterno del fabbricato, e poi donati ad una organizzazione religiosa per essere venduti come carta da
macero. Non migliore è stato il trattamento nel successivo trasloco alla sede sindacale
unitaria di Via San Valentino, così come qualche altro cambio di segreteria, che hanno
prodotto ulteriori distruzioni. Quanto rimane dell’archivio camerale è costituito da alcune
buste ordinate, da raccolte di contratti e materiale amministrativo, nel caso di alcune
categorie più virtuose, fra le quali va citata innanzitutto la Fillea, dalla conservazione dei
periodici sindacali. Per fortuna, le esigenze amministrative hanno permesso di salvare
materiale utilissimo, come i prospetti del tesseramento (completati con quelli esistenti
presso la Cgil regionale e nazionale) , i dati delle prestazioni dei servizi come l’Inca,
le nomine dei delegati ed altri elementi. Per altro, il materiale, in assenza di un vero e
proprio archivio storico, è disperso casualmente e necessiterebbe, per renderne leggibile la consistenza e renderlo fruibile, dell’individuazione di una sede adeguata e di una
catalogazione.
Non si tratta di questioni di secondaria importanza. La valenza direttamente politica
della conservazione degli archivi può essere dimostrata da questo semplice esempio:
se si fa iniziare la vita sindacale alla Zanussi negli anni ‘60, come succede rimanendo
alla documentazione disponibile a Pordenone ed utilizzata negli studi pubblicati finora,
il giudizio è di un tipo, e fa emergere la fiammata del 1968-1969 come un’eccezionale
ubriacatura estremistica; se invece si acquisiscono materiali e testimonianze relativi
agli anni ‘30-’50, il giudizio cambia notevolmente, sia sulle modalità organizzative dell’azienda, sia sul ruolo giocato dalla Cgil clandestina che su quello degli anni della
ricostruzione.
Per fortuna le fonti sono anche altre. E non solo quelle relative ai non moltissimi testimoni sentiti in un anno di ricerca, che hanno potuto fornire informazioni preziose, che
dovrebbero essere implementate con una ricerca a più vasto raggio di quella realizzata
in questa fase. Ci sono le carte d’archivio: quelle degli Archivi dello Stato, soprattutto
quello Centrale, dove è conservata una massa impressionante di documentazioni di
polizia e giudiziarie. Poi ci sono quelle degli altri archivi pubblici, ad iniziare da quelli
degli Enti Locali, dove spesso è possibile incontrare testimonianze importanti dell’attività sindacale in relazione agli organi elettivi nelle loro molteplici funzioni. Poi ci sono le
documentazioni conservate presso gli archivi di Enti privati, dalla citata Casa del Popolo
di Torre all’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di Udine, che
ha acquisito sia le carte di Vincenzo Marini, segretario del Pci pordenonese alla metà
degli anni ‘50, sia la documentazione di rilevanza regionale della Fondazione Gramsci
di Roma. Altri archivi personali sono dispersi nei luoghi più impensati: come quello di
Costante Masutti, conservato in copia presso il Centro Studi “Piero Gobetti” di Torino.
Il sindacato ha inoltre i propri archivi nazionali, quello confederale (l’Archivio Storico
della Cgil) e quelli delle Federazioni, dei quali è per ora aperto al pubblico quello della
Flai (nata dall’unificazione fra Federbraccianti e Filziat, il sindacato degli alimentaristi).
Grazie a queste fonti, è possibile integrare la documentazione con parte delle corrispondenze fra la CdL ed il sindacato nazionale. Opuscoli, volantini e relazioni congressuali,
oltre ad interi carteggi ed alla documentazione sul tesseramento dei primi decenni di
questo dopoguerra , ormai dispersi in Friuli, riemergono dall’archivio nazionale confederale, ed è sperabile lo stesso possa succedere con quelli federali, e con quello della
Federmezzadri, conservato presso l’Archivio Cervi di Reggio Emilia.
Fonte quanto mai importante è la stampa, a partire da quella sindacale e dei partiti
della sinistra, che nella prima metà del secolo sono particolarmente presenti: fra i princi34
Pordenone
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dove l’azienda capitalistica conserva forti elementi ereditati dal feudalesimo (come le
prestazioni gratuite di manodopera e le regalie) .
Fra gli interstizi dell’agricoltura e dell’emigrazione sorgono però, da epoca che si perde nei secoli del medioevo e della dominazione veneziana, i nuclei di un’industria che
arriva fino ai giorni nostri. In tutto il territorio l’industria serica (collocata in Italia quasi
esclusivamente in Friuli e nel Trevigiano) unisce stagionalmente lavoro contadino e lavoro industriale femminile, mediante l’allevamento dei bachi nelle famiglie e l’attività di
trasformazione nelle filande collocate nei centri maggiori. Ma altre industrie traggono la
loro vita dallo sfruttamento dell’energia dei corsi d’acqua canalizzati: dalla coltivazione
forestale nelle valli, con il trasporto fluviale e la realizzazione di apposite rogge, all’industria dei coltelli di Maniago, che usufruisce di un sistema di vendita diffuso, garantito
dalle ambulanti della Valcellina. Sulle rogge pordenonesi fioriscono le cartiere, i magli
per la lavorazione dei metalli e l’industria laniera. Si tratta di un sistema che usufruisce
di una rete di trasporti fluviali attivi per secoli, che raggiunge Sacile fino all’800 e Pordenone fino ai primi decenni del ‘900.
Ma è sotto il dominio austriaco che questo substrato di attività (si sono da sempre sottolineate le abbondanti risorse idriche e la disponibilità di manodopera a basso costo,
meno la professionalità operaia preesistente) subisce una svolta significativa, con la
costruzione dei grandi cotonifici a Pordenone, realizzati grazie all’immissione di capitali prevalentemente stranieri: nel 1840 a Torre, nel 1846 la Tessitura di Rorai Grande,
(destinate presto ad essere unificate in un’unica società); nel 1875 e nel 1885 i cotonifici Amman di Pordenone e Fiume Veneto ed infine, nel 1902, il Makò di Cordenons.
Stabilimenti che trasformano Pordenone nella “Manchester del Friuli”, accompagnati da
imponenti innovazioni nell’industria idroelettrica e dalla realizzazione della ferrovia che
collegherà progressivamente Venezia all’Austria. Con l’inizio del ‘900 queste realizzazioni producono lo sviluppo di nuove industrie, parte nate dall’indotto dei cotonifici, tutte
dall’associazione fra la professionalizzazione di una città che ormai ha la sua vocazione
nell’industria e la nuova disponibilità energetica indotta dalla rivoluzione elettrica. A
differenza dell’industria serica, ormai in provincia si sono delineati ben due proletariati:
quello tessile, inurbato e completamente sradicato dall’agricoltura e quello edile, intrecciato con la piccola proprietà contadina ma inserito nei circuiti internazionali della realizzazione di opere pubbliche. Ambedue sfuggono ormai al dominio assoluto degli agrari,
che non possono che imprecare contro l’emigrazione ed il lavoro di fabbrica che sottrae
loro braccia da sfruttare senza fine. In città, questi due proletariati possono convivere
sotto lo stesso tetto, grazie alla divisione di genere del lavoro delle famiglie operaie.
4. L’organizzazione operaia prima della nascita
della Confederazione Generale del Lavoro.
Le condizioni di lavoro nell’industria tessile sono estreme: si lavora fin dalla più tenera
età, senza alcuna limitazione al lavoro notturno. L’orario di lavoro è di oltre 12 ore al
giorno, ovviamente per sei giorni la settimana, che talvolta diventano sette. Si lavora
tutta la vita, finché ormai inabili non si aprono le porte dell’ospizio. Le abitazioni dei
lavoratori, non solo nei quartieri operai come Torre, ma anche nei vecchi centri urbani
come Sacile, vedono ammucchiarsi i lavoratori in condizioni di totale assenza d’igiene.
Le condizioni sanitarie nelle fabbriche sono insostenibili: si lavora nell’umido, in mezzo
al pulviscolo di cotone, e la tubercolosi, insieme con l’alcool che diventa l’unica forma,
endemica, di distrazione, sono veri e propri flagelli sociali. Per raggiungere le fabbriche
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bisogna fare chilometri a piedi su strade sterrate spesso rese impraticabili dal maltempo
e dall’incuria. L’assistenza e la previdenza sono garantite solo dalla mutualità volontaria esercitata dalle Società Operaie. All’infanzia, nei brevi anni precedenti l’entrata in
fabbrica, viene offerta un’istruzione in edifici precari, dove gli alunni si affollano in condizioni intollerabili. In un’epoca in cui non ci sono ancora i Contratti collettivi di lavoro,
il Regolamento di fabbrica, emanato unilateralmente dalla proprietà, costituisce l’unica
norma valida. Le retribuzioni sono inferiori di un terzo rispetto a quelle degli altri centri
industriali. Oltre a questi fatti generalizzati, alle donne vengono offerti - in cambio di
mansioni pesanti, dell’impossibilità di fare carriera e della totale mancanza di permessi
di maternità - salari inferiori ai maschi a parità di mansioni, e sono pure discriminate
nella Società Operaia.
Alcuni interventi di tipo paternalistico - dovuti soprattutto all’imprenditore Giovanni Antonio Locatelli per Torre e Rorai e ad Alberto Wepfer per l’Amman - come la costruzione
di scuole ed asili di fabbrica nelle frazioni, di case operaie e di un dormitorio a Borgomeduna per le operaie provenienti dai paesi più lontani (che, come tutti i locali analoghi,
diventa luogo di reclusione da parte delle suore cui viene affidata la gestione), l’apertura
di spacci cooperativi di consumo, l’assunzione di lavori pubblici per lenire le crisi produttive, non possono nascondere l’aumento dello sfruttamento imposto negli anni ‘80 dalle
nuove gestioni. Se già a partire dal 1878 si registrano i primi atti di violenza operaia, nel
1887-1888 scoppiano i primi scioperi a Rorai Grande, contro la diminuzione dei salari,
a Fiume Veneto ed a Torre per la modifica del regolamento di fabbrica, dove si ottiene
l’iscrizione alla Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro. Queste agitazioni vedono la
presenza, che sarà continua nei conflitti del lavoro successivi, non solo della polizia, ma
di contingenti di militari. In quel decennio, contro i nuovi dirigenti, per lo più di origine straniera, si dipingono scritte nelle strade e vengono compiuti attentati di matrice anarchica,
che ottengono l’indubbio risultato di far scappare da Pordenone il direttore e comproprietario di Torre Oscar Hermann (DEGAN, 1981, pagg. 24-56; MIO, 1983, pagg. 82-101 2).
Negli anni ‘90 si manifestano le prime presenze organizzate del neocostituito Partito
Socialista, in una fase in cui ancora socialisti e democratico-radicali agiscono in forma
indistinta: solo nel decennio successivo si avranno scelte definitive in un senso o nell’altro, pur riuscendo ad assicurare a Pordenone una serie di giunte comunali di sinistra,
composte dai radicali ed appoggiate dal Psi (Acs, Cpc 3, fascicoli di Francesco Asquini,
Giuseppe Ellero, Guido Rosso, Romano Sacilotto, Antonio Scaini senior). Nel 1893 nasce il Magazzino cooperativo di consumo che, pur avviato in locali offerti dal Cotonificio,
assumerà un chiaro indirizzo socialista nel 1903 (a differenza delle analoghe istituzioni
dell’Amman che nel 1906, per il controllo esercitato dalla proprietà, chiuderanno il credito agli operai in sciopero). Ilario Fantuzzi, capolega dei cotonieri ed agente del Magazzino, diviene nel 1899 il primo consigliere comunale socialista eletto a Pordenone
(MIO, 1983, pagg. 103 e 106).
L’organizzazione sindacale non si limita agli operai di fabbrica, ma si estende agli
agenti (i lavoratori del commercio e degli uffici), dove un gruppo di giovani socialisti
e radicali guidati da Gino Rosso e Luigi Scottà riesce a farsi eleggere all’interno della
Società di previdenza della categoria nel 1900. Ma è nel 1901, quando la Federazione
nazionale agenti (presieduta dall’avvocato radicale Luigi Gasparotto, di origine sacilese) indice un comizio per rivendicare il riposo settimanale, che per la prima volta Scottà
Per non essere ripetitivo, rinvio al mio Una terra amara per quei passi
per i quali non sia esplicitamente indicata altra fonte bibliografica.
3
Archivio Centrale dello Stato (Roma), Casellario Politico Centrale, fascicoli dei sovversivi.
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fa risuonare i concetti della lotta di classe e difende il riposo festivo chiamando “pietose
finzioni” le abitudini dei clienti messe avanti dai padroni . All’agitazione partecipano, per
quanto in minoranza, anche i cattolici: mentre la locale Unione Agenti rivendica un giorno di riposo che può essere accettato anche durante la settimana, i cattolici ritengono
- con motivazioni religiose - debba trattarsi esclusivamente della domenica.
Il proletariato pordenonese è protagonista dell’agitazione per sostenere la proposta di
legge Turati-Kulisciov, elaborata per regolamentare il lavoro delle donne e dei fanciulli. Il
23 febbraio 1902 si tiene in città uno dei 250 comizi convocati contemporaneamente in
tutta Italia dal Psi, dalle Camere del Lavoro e dalle Federazioni di mestiere. Vi aderiscono socialisti, radicali e perfino il deputato liberale locale, l’on. Gustavo Monti. Si tratta
di una delle rivendicazioni fondamentali del socialismo riformista, che incide in modo
particolare nelle realtà tessili dove la maggioranza della classe operaia è interessata
direttamente alla conquista di queste norme. Pochi mesi dopo, in settembre, la Società
Operaia pordenonese viene conquistata dai candidati di sinistra, guidati dal negoziante
radicale Francesco Asquini e dal tipografo socialista Vincenzo Degan. Nell’Italia giolittiana succeduta alla vittoria sulla reazione monarchica del decennio precedente, il nascente movimento operaio si articola su una pluralità di iniziative sindacali, cooperative
e previdenziali, che coinvolgono operai ed impiegati, e si presenta sul piano politico con
un’alleanza fra le forze dell’estrema sinistra (anche fra i radicali-repubblicani locali molti
esponenti del partito sono di origine operaia) ed i settori più aperti del liberalismo.
La coincidenza è evidente: il 23 marzo si costituiscono le leghe di resistenza dei cotonieri di Torre (un mese dopo si formerà a Milano la Federazione nazionale delle Arti
Tessili, la prima denominazione del sindacato di categoria: DEGAN 1981, pag. 61) e poi
quella dei metallurgici, quest’ultima come sezione di quella udinese. Negli ultimi mesi
del 1902, in un clima di agitazioni di tutte le categorie, si organizzano gli stovigliai della
Ceramica Galvani, i fornai ed i falegnami. Il 29 settembre il nuovo sindaco Antonio Polese, espresso da una maggioranza radicale-repubblicana, ha proposto la costituzione
della CdL, per fornire agli operai uno strumento di rappresentanza di classe che li parifichi con i proprietari rappresentati dalla Camera di Commercio, riprendendo una antica
proposta formulata dall’allora sindaco Vincenzo Policreti al primo Congresso operaio
provinciale del 1896 (RENZULLI , 1978, pagg. 219-220). Si tratta di istituzioni miste
che svolgono, oltre alle funzioni prettamente sindacali, anche quelle del collocamento,
in particolare relativamente agli emigranti. La proposta verrà messa in discussione il 16
maggio 1903, sotto forma di sussidio alla CdL di Udine perché essa apra una succursale a Pordenone, ma viene bocciata dal coalizzarsi dei moderati-clericali con alcuni
esponenti della maggioranza, che vorrebbero al contrario l’istituzione di un Ufficio comunale del lavoro, con pure funzioni di collocamento ed assistenziali. In conseguenza
della mancata costituzione della CdL, la direzione del movimento sindacale rimane, fino
alla prima guerra mondiale, affidata direttamente ai dirigenti del Psi, ed in particolare
agli avvocati Guido Rosso e Giuseppe Ellero, che saranno i portavoce dei lavoratori e
ne difenderanno la causa nei tanti procedimenti intentati dalle autorità.
Tutto questo attivismo non può rimanere senza risposte, ed infatti anche da parte
cattolica si iniziano a chiamare in provincia conferenzieri per organizzare il proprio sindacato. Nel 1903 il vescovo Francesco Isola invia a Torre don Giuseppe Lozer, giovane
parroco modernista che diventa il principale organizzatore sociale della diocesi (LOZER,
1960, pagg. 7-8, MARIUZZO, 1999, pagg. 148-158). Da sinistra ci si oppone duramente
ai tentativi di organizzazione sindacale cattolica, che vengono ritenuti un elemento di divisione della classe operaia, non solo per l’alleanza che a livello nazionale sta saldando
i politici clericali con la destra moderata in funzione antisocialista, ma per una specifica
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ragione sindacale. I sindacati internazionali infatti si battono per il principio del closed
shop, la regola per la quale è possibile solo l’assunzione di manodopera tesserata, che
viene vanificata dalla presenza di più organizzazioni concorrenti, e dalla sistematica
opera di crumiraggio organizzata da una parte del clero.
5. 1904-1905: le tessitrici di Rorai e lo sciopero generale.
Il primo 1° maggio. Pordenone roccaforte delle Arti Tessili.
Dopo che i cotonieri di Torre ottengono miglioramenti salariali, saranno i tessili dell’Amman di Pordenone a strapparli, respingendo una proposta aziendale di riduzione,
con il primo, grandioso, memorabile sciopero dei cotonieri e la costituzione della loro
lega nel 1903 (per la data: CORAI, Piccolo dizionario, 2005). L’anno dopo saranno la
tessitrici di Rorai Grande a dar vita ad una durissima lotta, definita un avvenimento mai
successo a Pordenon, un avvenimento che resterà nella storia da Francesco Asquini,
presidente della Società Operaia (La Patria del Friuli di giovedì 14 aprile 1904).
Il 1904 è l’anno in cui il movimento sindacale italiano raggiunge l’apice con lo sciopero
generale di protesta di settembre contro gli eccidi di lavoratori nel Sud da parte della
forza pubblica. Il clima di effervescenza rivoluzionaria si manifesta anche a Pordenone,
con lo sciopero delle operaie della Tessitura di Rorai Grande dal 15 marzo al 20 aprile,
che si trasforma in sciopero generale il 12, 13 e 14 aprile. La cronaca di questa agitazione è esemplare per le problematiche complesse che mette in evidenza. L’agitazione
delle 400 operaie è causata dalla richiesta di aumenti salariali proporzionati all’aggravio
della produzione subdolamente attuato dal direttore della Tessitura Oscar Steimann
(allungando le pezze da 65 a 72 metri ed oltre). Si tratta di un’iniziativa spontanea, che
trae la sua radicalità dal fatto che le operaie di Rorai (in gran parte provenienti dal comune di Porcia) sono giovani, nubili ed hanno alle spalle il sostegno delle loro famiglie
contadine: è inevitabile il parallelo con la rivolta dei “40 giorni” dei giovani “metalmezzadri” della Zoppas di Susegana del 1960. Ma la lotta di Rorai ha altri aspetti originali:
il primo dei quali è la determinazione di genere, che non deriva, ma impone lo sciopero
ai compagni di lavoro maschi, sia tessili che edili. Ogni mattina davanti alla Tessitura lo
sciopero viene imposto con grande determinazione, nonostante l’affluire delle truppe in
funzione repressiva. Le operaie in corteo percorrono ogni giorno le vie di Pordenone,
il socialista Inno dei lavoratori diventa insieme a canzoni popolari modificate con i testi
degli slogans la colonna sonora della lotta.
A differenza di altre situazioni, la Federazione delle Arti Tessili è costretta ad intervenire, grazie alla mediazione dei socialisti pordenonesi: il segretario nazionale Riccardo
Rho segue a Pordenone tutta la vertenza, nonostante le operaie non siano organizzate
ed il vertice del sindacato nazionale sia noto per il suo pesante pregiudizio antifemminile. Il rapporto fra spontaneità ed organizzazione appare evidente da subito: le operaie
non hanno intenzione di cedere rispetto alle loro legittime richieste, mentre la Società
Operaia, il sindacato e le autorità politiche cittadine conducono la trattativa alla ricerca
dell’accordo contrattuale. La funzione dell’organizzazione si mostra nella sua duplice
veste di strumento di sostegno alla lotta, di organizzazione della solidarietà di classe e
di concreta gestione vertenziale. Ma nelle assemblee hanno diritto di decisione solo le
donne di Rorai, e sono le loro portavoce ad analizzare tecnicamente i contenuti delle ipotesi di accordo, a dimostrazione di una professionalità ed autocoscienza di classe ormai
matura. Alcuni nomi riemergono dalle nebbie della storia: Rachele Santarossa, Maria
Venerus, Rosa Stella, Caterina Mason, Caterina Del Piero ed Elisa Bongiorno. Ciò che
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
impressiona e fa seriamente pensare è la tenacità delle scioperanti, tenacità che non
essendo l’effetto di suggestione per parte d’altri, deve pur aver il suo fondamento nella
coscienza sicura di lottare per una causa giusta (La Patria del Friuli del 23 marzo 1904).
La lotta si allarga, e le tessitrici di Rorai riescono a convincere anche le filatrici di Torre,
altro stabilimento del Cotonificio Veneziano, ad entrare in sciopero per solidarietà. Nella
notte fra l’11 ed il 12 aprile numerose scioperanti di Rorai sono accolte dalle famiglie di
Torre, alternando il sonno nelle stalle e nei fienili con la vigilanza nelle strade. E’ il preludio dello sciopero generale, che coinvolge l’Amman di Pordenone e poi gli altri stabilimenti cittadini (la cartiera Lustig, la ceramica Galvani, la filanda Marcolini), le botteghe
artigiane ed il commercio. La città vive giornate concitate, la ferrovia vomita 2.000 militari
che impongono lo stato d’assedio, la lotta e l’odio di classe - alimentato dalle provocazioni, vere e presunte, della moglie di Steimann, novella Maria Antonietta - assumono
aspetti violenti, che entrano in contraddizione con la solidarietà popolare con le scioperanti. La mediazione sindacale, dapprima respinta all’unanimità dalle operaie, dovrà essere accolta sotto la spinta delle circostanze. Ma la città non sarà più la stessa: nei giorni
successivi scoppia lo sciopero al Cotonificio Makò di Cordenons. La notte del 25 aprile,
festa patronale, le strade risuonano di inni socialisti ed anarchici, domenica 1° maggio
le autorità impediscono la manifestazione sindacale manu militari. A settembre gli operai
aderiscono allo sciopero generale nazionale. Lo sciopero di Rorai accentua la divisione
fra leghe rosse e bianche: mentre le prime scelgono la via dello sciopero generale a
sostegno delle operaie di Rorai, le seconde invece vorrebbero limitarsi alla raccolta di
fondi. Lo stesso don Lozer viene cacciato da un’assemblea operaia per aver sostenuto
questa tesi, chiedendo la fine dello sciopero a Torre. E’ in questa occasione che egli
propone per la prima volta l’unità sindacale fra le due organizzazioni, condizionandola
però ad una riduzione al solo terreno economico, escludendo lo sciopero politico – tesi
inaccettabile per il sindacalismo di classe, su cui avverrà anche la scissione del 1948 - e
polemizzando inoltre in modo inaccettabile contro le attiviste sindacali: In Cotonificio c’è
una vera setta di donne maniache che nelle sale di lavoro bestemmiano, parlano sconciamente, insultano le cattoliche chiamandole crumire (LOZER 1960, pagg. 22-23).
L’anno dopo, il 1° maggio 1905 vedrà la prima manifestazione pubblica, dopo anni di
celebrazioni in sale private. La partecipazione, che assume le stesse dimensioni delle
giornate dello sciopero generale, assomma a circa 3.000 persone e vede una massiccia presenza femminile (DEGAN 1981, servizio fotografico). La presenza delle donne,
costante in ogni occasione, diventa una caratteristica dei cortei pordenonesi.
Il 18 gennaio 1906, al congresso provinciale socialista di Tolmezzo, Guido Rosso dichiara di rappresentare nove leghe di resistenza, con 1.500 iscritti. Se pensiamo che la
stragrande maggioranza di questi sono operai tessili, ciò significa che in quel momento
il polo cotoniero del Friuli occidentale conta quasi il 20% degli iscritti al sindacato tessile
nazionale (BETTOLI 2004, pag. 216).
6. La lotta di classe penetra nel feudo degli agrari:
lo sciopero delle tessitrici dell’Amman di Fiume del 1906.
Il 20 febbraio 1906 entra in lotta il cotonificio Amman di Fiume, per rivendicare la parificazione salariale con quello di Pordenone. Il mese precedente ci sono stati la rivolta
contro la mancanza di fonti idriche non inquinate a San Quirino (repressa dall’esercito)
e due giorni di sciopero al Makò di Cordenons per far rispettare la legge sul lavoro notturno di donne e fanciulli, mentre viene vietato a Pordenone il corteo di sostegno alla
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
Rivoluzione russa. Insultate come fannullone e pellagrose dal direttore di Fiume Alberto
Diener, le 500 operaie si recano in corteo a Pordenone, ma sono bloccate al ponte sul
Meduna dall’esercito. Il paese viene occupato militarmente, le manifestazioni si susseguono, le operaie si sdraiano a terra per impedire l’uscita della produzione dallo stabilimento. L’Amman chiude il credito agli operai presso lo spaccio aziendale, e li sfratta
dalle case di sua proprietà; come estrema misura di rappresaglia il 10 marzo chiude
per serrata lo stabilimento di Pordenone, lasciando senza lavoro altri 1.700 operai. Il
terrorismo padronale non risparmia nessuno: un impiegato che ha reso pubbliche le
retribuzioni delle operaie viene immediatamente licenziato. Più volte operaie vengono
arrestate durante gli scontri.
La risposta all’atteggiamento provocatorio dell’Amman mette in rilievo il contrasto fra i
poteri politici che governano sulle due rive del Meduna. Sul lato sanvitese, feudo dell’on.
Rota, grande proprietario terriero nobile, la rappresentanza politica è assente. Sull’altro
lato, da alcuni mesi a Pordenone governa un’amministrazione di sinistra, guidata dall’on. Luigi Domenico Galeazzi, avvocato radicale di Chions che nel passato fu deputato
proprio del collegio di San Vito, difensore dei diritti dei contadini e feroce nemico degli
agrari. La giunta radicale, che governa con l’appoggio socialista (due consiglieri del Psi
sono capilega al Cotonificio di Torre: Ilario Fantuzzi e Giuseppe Bresin, ma un numero
superiore di operai è eletto nelle file radicali) organizza la solidarietà, e lo stesso sindaco
emana un manifesto di chiaro sostegno agli operai. Nuovamente accorre a Pordenone
il segretario nazionale dei tessili Riccardo Rho per dirigere lo sciopero. Arrivano parlamentari, fra i quali il massimo dirigente socialista del momento, il penalista prof. Enrico
Ferri, la cui visita si trasforma in un’immensa manifestazione di folla, ed il deputato radicale udinese Giuseppe Girardini. Tutta la provincia viene mobilitata a sostegno dello
sciopero, il 29 marzo si tiene un grande comizio con Rosso ed Ellero al Teatro Cecchini
ad Udine. Il comune di Pordenone stanzia 5.000 lire di contributo a favore degli operai.
Mentre lo Stato invia l’esercito ad occupare gli stabilimenti, a difesa della serrata padronale, i poteri locali eletti dal popolo si schierano a sostegno della lotta.
La vertenza, che viene accompagnata dallo scoppio di un’agitazione di cinque giorni
per rivendicazioni salariali al Cotonificio Veneziano di Torre, si conclude l’11 aprile con
un risultato incerto. Si ottiene la parificazione salariale fra Fiume e Pordenone; il tentativo aziendale di non far rientrare parte degli attivisti sindacali negli stabilimenti di Fiume
e Pordenone verrà battuto dalla minaccia di riprendere la lotta. In coda, il consigliere
comunale clericale 4 De Mattia, a dimostrazione del gretto corporativismo degli esponenti di quella parte politica, interviene più volte per assicurarsi che i soldi del comune
non siano destinati anche alle operaie di Fiume. Pochi giorni dopo, un referendum al
Cotonificio Veneziano di Torre e Rorai ed alla Ceramica Galvani approva a stragrande
maggioranza la decisione di considerare il 1° maggio 1906 giorno festivo.
Nei mesi successivi, fino alla primavera del 1907, continuano agitazioni nei vari stabilimenti tessili pordenonesi, cui interviene come supporto il segretario della Federazione
delle Arti Tessili Alessandro Galli (DEGAN 1981, pagg. 80-82). Ma con il passare del
tempo il prezzo della ripresa del lavoro all’Amman appare molto duro: la repressione
da parte del direttore di Pordenone Antonio De Finetti costringe vari operai a licenziarsi
per emigrare. La organizzazione fu spezzata, schiacciata, e rappresaglie, soprusi, tutto
fu usato senza che brillasse mai un solo raggio di generosità del vincitore sul vinto! (Il
Lavoratore Friulano dell’8 novembre 1907).
Il termine clericale, nei primi decenni dell’Italia unita, è la definizione assunta dai politici fedeli
alle indicazioni della Chiesa cattolica, fino alla costituzione del Partito Popolare Italiano nel 1919.
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Pordenone
7. I dipendenti pubblici. Il sindacato mette radici nel Friuli occidentale.
Il Segretariato dell’Emigrazione e la Federazione Edilizia.
All’interno della maggioranza di sinistra che governa Pordenone la componente socialista e quella operaia radicale non esitano a mettere in crisi (anche con l’appoggio
clericale) i rapporti con la Giunta per tutelare i diritti dei dipendenti pubblici. Nell’estate
1906 il sindaco Galeazzi è costretto a ritirare il regolamento di pulizia ed igiene urbana,
che prevede l’assunzione di un responsabile con funzioni di controllo, rifiutata per il suo
carattere antioperaio. Vengono al contrario denunciate le basse retribuzioni dei dipendenti comunali. L’interesse per le condizioni di lavoro nell’ente pubblico si estende ad
altre categorie, come i dipendenti delle poste, costretti a lavorare in ambienti cadenti, il
personale della scuola - in particolare le maestre e le bidelle, ridotte a vere condizioni di
servaggio nei piccoli centri, dove il clero cerca di mantenere il monopolio dell’istruzione
a scapito dei docenti diplomati - i medici condotti, che spesso sono i primi ad intervenire sulle spaventose condizioni di salute della popolazione (innanzitutto alcoolismo e
tubercolosi nei centri industriali e fra gli emigranti, pellagra e malattie gastroenteriche
da inquinamento dei pozzi nelle campagne), sia sul piano delle denuncia politica che
su quello della promozione di forni rurali e cooperativi.
Non può mancare l’attenzione agli appalti, per i quali si rivendica l’affidamento a cooperative di lavoro costituite dalle leghe operaie, in particolare edili. Le condizioni di
affidamento degli appalti vengono discusse nel Consiglio Comunale di Pordenone del
26 ottobre 1906: il cons. Degan vorrebbe che fosse fatto obbligo all’impresa di servirsi
di operai locali, e di stabilire per essi un massimo di ore di lavoro ed un minimo di paga.
Il Sindaco risponde che non si può né conviene imporre tali oneri all’impresa; le si farà
raccomandazioni in tale senso. Come si può notare, il tentativo degli amministratori
pubblici, anche progressisti, di sottrarsi alle loro responsabilità verso la manodopera
che lavora negli appalti conta anch’esso almeno un secolo!
A Sacile, cittadina caratterizzata come quasi tutti gli altri capoluoghi di mandamento
da prevalenti funzioni di mediazione con l’area agricola circostante, l’organizzazione
sindacale ruota attorno agli insegnanti: grazie alla presenza della Scuola normale - antenata dell’Istituto magistrale - il centro liventino è la roccaforte del sindacato laico di
categoria, al quale sono iscritti 34 dei 40 insegnanti locali. L’avvocato socialista Enrico
Fornasotto, originariamente maestro, è presidente dell’Associazione Magistrale Friulana e diventa assessore all’istruzione nel 1905, promuovendo ampie realizzazioni nel
settore, che trasformano la città del Livenza in un modello di politica scolastica per tutto
il Friuli. La presenza del sindacalismo nella scuola è messa in rilievo anche dal ruolo
nazionale del prof. Giuseppe Ricchieri, geografo socialista originario di una famiglia di
nobili proprietari terrieri pordenonesi, che assume incarichi di direzione nella Federazione nazionale insegnanti scuola media (Fnism) oltre che nel movimento delle Università
Popolari che, insieme con le Società Operaie, rappresenta un fenomeno di formazione
ed istruzione dal basso delle classi subalterne. Ricchieri è l’oratore del 1° maggio 1908,
dedicato allo scrittore socialista Edmondo De Amicis, manifestazione che vede la partecipazione degli insegnanti pordenonesi.
Fatto significativo, la Scuola Popolare promossa a Sacile diviene luogo di aggregazione non solo degli operai, ma anche dei contadini dei centri vicini. Il sindacato sacilese
si insedia successivamente in un altro settore ad alta scolarizzazione, i tipografi della
ditta Zilli, che costituiscono nel 1910 una sezione della lega udinese della Federazione
italiana fra i lavoratori del libro ed ottengono nel gennaio 1911 la riduzione dell’orario di
lavoro a 9 ore. Negli anni che precedono la prima guerra mondiale inizia l’interesse per
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le condizioni di lavoro nell’azienda di Giuseppe Lacchin, che opera nei settori del legno,
dell’agroalimentare e della coltivazione delle cave di Caneva.
L’organizzazione sindacale si radica anche fuori dalle città, penetrando nei centri
agricoli vicini. A Vallenoncello il primo sciopero della Fabbrica di Concimi, costruita a
ridosso del porto fluviale cittadino sul Noncello, scoppia nel 1905 per motivi salariali e
viene represso dall’esercito. Un nuovo sciopero, nel 1909, vedrà l’intervento di crumiri
reclutati dai clericali avianesi. Con la costruzione nel 1902 del Cotonificio Raetz (detto
Makò per il particolare tipo di filato pregiato egiziano prodotto nello stabilimento), Cordenons diventa con Pordenone meta dei comizi socialisti, svolti spesso da propagandiste donne: Margherita Sarfatti, Carolina Annoni, Maria Goia e, più famosa di tutte, la
russa Angelica Balabanov. Alle lotte dei cotonieri si sovrappongono quelle delle operaie
delle filande, come lo sciopero delle cento operaie della Antonini e Ceresa del 1905, che
si conclude con l’intervento delle truppe e la delocalizzazione dell’azienda a Nervesa
(Tv). Analoghe agitazioni coinvolgono la filanda Piva di San Vito al Tagliamento e la
filanda Banfi Spilimbergo (Il Paese di martedì 27 maggio 1913). Nel 1907 a Cordenons
si costituisce una sezione della Federazione Edilizia, collegata - come in tutti i centri di
emigrazione - al Segretariato dell’Emigrazione di Udine. La causa scatenante è il crumiraggio prestato in Germania da una trentina di operai del paese ai danni di uno sciopero
condotto unitariamente da sterratori tedeschi ed italiani.
Quanto avviene a Cordenons fa parte di un fenomeno esteso a tutta la provincia, in
particolare nella zona alta. A partire dalla fondazione nel 1901, i lavoratori emigranti
possono usufruire di una forma particolare di sindacalizzazione di tipo transnazionale. Si tratta dell’alleanza, definita nell’ambito dell’Internazionale Socialista, fra apposite istituzioni assistenziali coordinate dalla Società Umanitaria di Milano (i Segretariati
dell’Emigrazione, di cui quello di Udine rappresenta il più valido esempio in Italia, arrivando a superare nel 1910 i 6.200 iscritti, di cui oltre 1.300 nel solo Friuli occidentale),
la Federazione Edilizia ed i sindacati dei paesi di emigrazione. I lavoratori emigranti
usufruiscono inoltre dell’attività formativa ed assistenziale delle Società Operaie e delle
amministrazioni di sinistra, fra cui si segnala il primo comune socialista friulano, quello
di Pinzano, che a partire dal 1902 realizza in particolare iniziative contro la tratta dei
fanciulli. Non ci si limita solo all’istruzione ed all’assistenza: Segretariato e sindacati si
impegnano in una durissima lotta contro il crumiraggio nel quale sono coinvolti soprattutto gli emigranti friulani: il sindacato tedesco stampa per primo un giornale apposito, L’Operaio Italiano, insieme allo svizzero L’Avvenire dei lavoratori ed al successivo
L’Operaio Edile austriaco. I mesi invernali sono dedicati a campagne di propaganda nei
paesi di emigrazione, per organizzare gli edili e denunciare pubblicamente gli arruolatori di crumiri. Segretariato dell’Emigrazione, Federazione Edilizia e Psi promuovono loro
sezioni, soprattutto nei comuni montani, ma non solo, istituendo anche Biblioteche popolari, come nel caso di Dardago ed in quello di Vivaro. Nell’arco del primo decennio del
‘900 il fenomeno del crumiraggio subisce duri colpi, mentre - a tutela dei guadagni degli
emigranti falcidiati dalla speculazione commerciale in patria - si sviluppa il movimento
cooperativo di consumo, credito e lavoro. Nel 1908, per sostenere lo sciopero generale
degli edili in Germania, il Segretariato arriva a spostare il flusso di 10.000 emigranti da
quel paese all’Ungheria ed alla Romania (BETTOLI 2005).
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
8. I muratori dallo sciopero di Pordenone
del 1907 alla rivolta di Pinzano del 1911.
Nel marzo 1907 gli edili pordenonesi scendono per la prima volta in sciopero per
ottenere aumenti salariali. Li ottengono da 12 delle 14 imprese, ma la resistenza più
dura viene opposta dai due maggiori datori di lavoro: i cotonifici, impegnati nei lavori di
costruzione di nuovi padiglioni. Dopo più di un mese di sciopero , gli operai sono ridotti
alla fame, e la rigidità di De Finetti dell’Amman trascina anche il Cotonificio Veneziano,
disponibile a chiudere la trattativa. L’esasperazione, ma anche la presenza di una forte
componente anarchica, portano a scegliere la scorciatoia della violenza: alcuni esponenti della lega degli edili uccidono il 22 aprile il direttore dei lavori edili dell’Amman,
l’ing. Antonio Toffoletti, ritenuto la bestia nera della resistenza padronale. Torre viene
definita la Patterson del Friuli, paragonata al centro tessile del New Jersey roccaforte
del neocostituito sindacato rivoluzionario Industrial Workers of the World e luogo da cui
sono partiti Gaetano Bresci, il giustiziere di Umberto I, ed altri regicidi anarchici.
Nonostante la vertenza si concluda finalmente pochi giorni dopo, con la concessione
degli aumenti richiesti, l’omicidio dà il via ad una durissima campagna antioperaia ed
antisocialista, le cui basi materiali sono ben individuate nel fatto che, nei pochi anni di
vita delle organizzazioni proletarie, il livello dei salari pordenonesi è quasi raddoppiato.
Vengono arrestati i dirigenti sindacali della categoria, che saranno sottoposti a processo nel novembre successivo. A testimoniare in difesa dei sindacalisti - difesi da un collegio di avvocati socialisti, democratico-radicali e dal democristiano spilimberghese Peter
Ciriani - si presentano le autorità cittadine progressiste ed il dirigente nazionale della
Federazione Edilizia Giuseppe Borghesio, che da anni cura la propaganda invernale
presso gli edili friulani. Alla canea reazionaria che grida al complotto si contrappone la
solidarietà della città con una classe operaia portata allo stremo dall’ottusità padronale,
mentre il grande psichiatra Giuseppe Antonini, allievo del Lombroso, invoca le circostanze attenuanti dello stato di necessità per i due omicidi.
La lega dei muratori, spazzata via transitoriamente dalla reazione, si ricostituisce nel
giro di pochi mesi. Per questi operai, che alternano il lavoro in patria a periodi ciclici
di emigrazione, gli anni successivi saranno quelli della costruzione degli insediamenti
militari dell’esercito - che si prepara al futuro conflitto - e della rete ferroviaria locale.
Nel 1910 - dopo che l’anno precedente una coalizione moderata-clericale ha battuto
l’amministrazione comunale di sinistra ed il candidato radicale al Parlamento avv. Carlo
Policreti, grazie soprattutto agli sforzi di don Lozer, che organizza nei cotonifici il Sindacato Tessile cattolico e ripropone l’unità sindacale sulla base della pura difesa degli
interessi economici - sono gli edili a costruire volontariamente la Casa del Popolo di
Torre, sede delle organizzazioni sindacali, politiche e culturali del proletariato del centro
operaio, che verrà aperta al pubblico nel gennaio 1911.
I lavori pubblici ripropongono in patria il fenomeno dell’intermediazione e dello sfruttamento al di fuori di ogni regola da parte di impresari senza scrupoli, segnalati nel
decennio precedente dal sindacato tedesco. Nei lavori ferroviari, come sulla PinzanoGemona, centinaia di operai lavorano senza regola per 11 ore al giorno, esposti ai rischi
di infortunio, alla concorrenza dei cottimisti cui vengono affidati i subappalti, al taglieggiamento sul conteggio delle paghe. Il dramma avviene domenica 1° aprile 1911: sabato gli operai non si vedono pagare la quindicina, e sono costretti a ritornare l’indomani
a Pinzano: questo significa (per esempio per gli operai provenienti da Cornino) perdere
praticamente tutta la giornata di riposo festivo. Solo quella mattina vengono compilati
i libri paga, e gli operai si trovano anche 20-25 ore in meno. Alle 10, affamati e senza
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
una lira , gli operai iniziano una protesta. Vola un sasso contro le vetrate della sede
della ditta; l’impresa minaccia di sospendere il pagamento se gli operai non denunciano
l’autore dell’episodio; gli operai a questo punto si rivoltano e cominciano una fitta sassaiola. Carlo Mosca, rappresentante dell’impresa, replica con alcuni colpi di pistola, che
feriscono l’operaio Gio Batta Candotti. A testimonianza del clima di esasperazione e di
sfruttamento, tutta la stampa riporta l’episodio sostenendo le ragioni degli operai, con
una sola parziale eccezione: il quotidiano cattolico Il Crociato, che sposa la tesi della
ditta secondo la quale i primi colpi di pistola sono stati sparati dagli operai(Il Lavoratore
Friulano, corrispondenze da Pinzano dal settembre 1909 all’aprile 1911).
Le caratteristiche della manodopera emigrante, fortemente specializzata e cosciente
che oltre confine sono disponibili retribuzioni ben diverse, costituiscono però anche un
ostacolo all’organizzazione sindacale. Per gli edili friulani, professionalizzati da generazioni di lavoro all’estero, la possibilità di scelta non è fra sfruttamento e lotta di classe
in patria, ma fra una bassa retribuzione in Italia ed una stagione di guadagni garantiti
nell’emigrazione. Al posto di costituire le leghe dell’Edilizia, gli operai abbandonano i
cantieri e riprendono la via dell’emigrazione primaverile, praticando una scelta che lascia ai loro compagni di altre regioni il posto di lavoro meno ambito.
9. Scioperare contro Marx nel feudo del conte.
All’inizio del ‘900 si insedia a Maniago una nuova industria moderna, che si pone
come obiettivo la trasformazione dello storico insediamento fabbrile locale. Come tutta
la grande industria del Friuli occidentale, sorge con capitali stranieri: prima di assumere
la denominazione di Coricama, prende il nome dal suo principale proprietario, il signor
Albert Marx. Lo stabilimento riesce ad assorbire la grande maggioranza della manodopera locale, trasformando gli artigiani in operai. Ma il meccanismo regge a stento e nel
febbraio 1909 la sezione del Psi di Spilimbergo e la CdL di Udine debbono intervenire,
per gestire un primo sciopero. Fino a quel momento la cittadina è vissuta sotto il tallone
dell’antica proprietà feudale dei conti d’Attimis e soprattutto in quel comune, nelle elezioni politiche di quell’anno, i socialisti vedono cadere il loro candidato al Parlamento,
quell’avvocato Giovanni Cosattini che - grazie alla sua storica funzione di promotore del
Segretariato di Udine - il voto compatto degli emigranti porta ad un passo dall’elezione.
L’unica categoria di lavoratori che si organizza è, nel 1910, quella dei maestri, che aderiscono all’Unione Magistrale Nazionale.
Ma è nel giugno 1911 che scoppia lo storico sciopero che mette a confronto l’antica
professionalità degli operai coltellinai con l’industria capitalistica moderna, costringendo
quest’ultima ad una resa umiliante. La causa immediata dello sciopero è il licenziamento di 50 operai, che causa il blocco della produzione. Cortei iniziano a percorrere la città,
e una delegazione operaia apre la trattativa con la direzione, per arrivare ad una determinazione rigida dei cottimi, in modo da non essere sottoposti agli arbitri che collocano
la maggior parte degli operai al di sotto della soglia di sopravvivenza. Vengono messi
in discussione l’autoritarismo della gestione dello stabilimento ed il fallimento della politica commerciale, che l’impresa cerca di scaricare sui salari operai. Per il sindacato
interviene alle trattative Giovanni Cosattini, insieme con Ezio Cantarutti e Domenico
Sedran, che nel 1920-1923 saranno i principali protagonisti del Comune socialista di
Spilimbergo). Il 26 giugno si costituisce la lega di resistenza dei coltellinai, aderente alla
CdL provinciale: nell’arco di una settimana quasi tutti gli operai hanno aderito.
Il 30 giugno, durante una manifestazione, il direttore deve fuggire dallo stabilimento
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Pordenone
per sottrarsi alla rabbia popolare. Per resistere, molti operai si fanno assumere in lavori
stradali od altre officine. La vertenza si conclude dopo un mese di sciopero, con il rientro al lavoro degli operai il 12 luglio. Lo sciopero non ha avuto un solo cedimento, e gli
operai nel frattempo hanno avviato le loro officine manuali ed organizzato lo smercio
della loro produzione. All’organizzazione capitalistica della produzione hanno opposto il
loro antico sapere professionale, quello che per secoli ha dato loro lavoro, garantendo
la commercializzazione del prodotto per il tramite delle sedonere della Valcellina.
A fianco degli operai si è venuta stringendo la solidarietà delle altre categorie dei lavoratori: dalle filandiere ai contadini pronti ad unirsi allo sciopero, all’amministrazione comunale che sotto la pressione popolare minaccia di interrompere la fornitura di energia
elettrica allo stabilimento, all’opinione pubblica pronta a sottoscrivere per fornire sussidi
agli scioperanti più bisognosi. La fame non ha piegato il movimento, come speravano i
padroni dello stabilimento. Tutti gli operai vengono riassunti, nessuno escluso; le retribuzioni non subiscono alcuna diminuzione. Le tariffe, i criteri di divisione del lavoro ed i
costi dei materiali rimangono di esclusiva competenza aziendale, ma la lega ottiene per
la prima volta che essi siano resi pubblici agli operai, in modo da rendere nota e certa
la retribuzione. I risultati non sono gran cosa sul piano materiale, ma quello che appare
come il dato di gran lunga prevalente è il patrimonio di solidarietà e di organizzazione
che rimane in dote ai lavoratori maniaghesi e che li porterà, nel 1920, a dare lo sfratto
al conte per insediare la loro amministrazione comunale (Il Lavoratore Friulano del 7
agosto 1909 e corrispondenze da Maniago del giugno-luglio 1911).
10. Verso la prima guerra mondiale:
la nuova centralità degli operai-contadini rientrati dall’emigrazione.
Gli anni fra la fine del primo decennio e la guerra mondiale sono anni di crisi industriale, che coinvolge in primo luogo il settore cotoniero, cui si somma la diminuzione degli
investimenti per opere pubbliche dovuta all’aggressione militare italiana alla Libia del
1911-1912. Sono gli anni della massima emigrazione, anche se i primi contingenti di
emigranti iniziano ad essere espulsi dai possedimenti turchi del Mediterraneo orientale
(bombardati dalle regie cannoniere) e dai Balcani, dove la guerra deflagra a causa del
cerino italiano gettato sull’Impero Ottomano. Sorgono le prime industrie nel settore del
legno e della metallurgia, usufruendo delle risorse idriche e dello sviluppo dell’elettrificazione, in una città da sempre all’avanguardia nella nuova rivoluzionaria industria.
Alcune avranno un futuro: come la fonderia Licinio; che arriva a 160 operai - fondata
nel 1906 proprio da un pioniere dell’industria idroelettrica, l’ing. Aristide Zenari - e le
officine meccaniche Savio (nel 1911) e Zanussi (1916). In alcuni casi si tratta ancora
solo di botteghe artigiane, ma qualcuna già esistente, come la falegnameria di Antonio
Zanette, nel 1908 fissa la sua nuova sede, dove raggiungerà un grande sviluppo nei
decenni successivi. A testimonianza di una nuova domanda produttiva formata dalla
modernizzazione delle campagne (che ha visto sorgere, oltre allo stabilimento di fertilizzanti di Vallenoncello, quello di Portogruaro voluto dall’Associazione Agraria Friulana),
le officine Licinio e Savio costruiscono macchine agricole; ma le stesse, insieme alla
Zanette, evidenziano il rapporto fra lo sviluppo del territorio e la presenza della grande
industria, traendo origine una parte delle loro produzioni dall’indotto dei cotonifici.
Anche il sindacato pordenonese tende a diversificarsi. Nel gennaio 1910 uno sciopero
alla Tipografia Sociale Arti Grafiche (già Fratelli Gatti) di Pordenone mette in discussione la direzione tecnica imposta dalla nuova proprietà, presieduta da un dirigente della
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1906
2006
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
destra locale, l’avv. Riccardo Etro. Il licenziamento di tre esperti compositori provoca
l’intervento di Antonio Cremese, il dirigente della Federazione Lavoratori del Libro di
Udine: nelle assemblee dei tipografi e litografi si decide la costituzione della sezione
locale del sindacato. La vertenza si conclude ottenendo le 9 ore lavorative, e con la
costituzione, da parte dei tre operai licenziati, della Tipografia Sociale ad Udine.
Nel gennaio 1912, la crisi prodotta dalla diminuzione di investimenti seguente all’inizio
dell’invasione italiana della Libia provoca diminuzioni salariali, con le prime forme di
organizzazione anche fra i lavoratori del legno per tutelarsi dal costume padronale di
utilizzare nei cantieri manodopera esterna pagata a metà tariffa. Il 18 febbraio 1913
saranno i cinquanta operai della Società Anonima Lavorazione del Legno ad entrare in
sciopero contro il licenziamento di alcuni compagni di lavoro.
Il padronato deve confrontarsi con una combattività operaia che rivendica nuovi spazi
di vita. La prima agitazione fra i metallurgici pordenonesi, quelli della fonderia Licinio,
vede nel febbraio 1912 la stragrande maggioranza degli operai praticare senza autorizzazione una mezza giornata aggiuntiva di riposo per il mercoledì delle Ceneri (da
aggiungersi alla mezza ottenuta per l’ultimo di Carnevale): iniziativa conclusasi con il
licenziamento del capo fonditore Paolo Pedna, di Udine.
Al Cotonificio Veneziano, dove il cambio della guardia nel 1911 fra Steimann ed il
lombardo Giovanni Zanini, riesce ben presto a dimostrare che l’unica differenza tra un
direttore di fabbrica italiano ed uno straniero riguardava al massimo l’uso più o meno
corretto della lingua italiana (DEGAN 1981, pag. 88), il licenziamento di operai anziani
per sostituirli con nuovi meno pagati provoca la ripresa degli scioperi a Torre ed a Rorai
e la ricostituzione della lega in quest’ultimo cotonificio. Fino all’avvento del fascismo, la
direzione di Zanini (che sarà uno dei primi sostenitori dello squadrismo) sarà costellata
di episodi di provocazione antioperaia e dalla risposta sindacale.
Nel 1912-1913 si riorganizza per la terza volta la lega di miglioramento fra muratori e
braccianti, guidata da Umberto De Gottardo, che per mezzo secolo sarà al vertice della
categoria. Obiettivo delle lotte degli edili è lo sfruttamento praticato dall’impresa impegnata nella costruzione delle caserme, che pratica la solita politica di licenziamento
degli operai esperti, per sostituirli con manodopera meno retribuita. L’impresario, Daniele Marin, era già stato denunciato come arruolatore di crumiri in Germania. Socialisti
ed anarchici sostengono il movimento: in quegli anni è presente a Pordenone l’istriano Andrea Tomsich, portabandiera anche di una nuova rivoluzionaria industria, attirata
in città dalla istituzione della prima scuola italiana di volo della Comina. Sulle nuove
macchine volanti, costruite da artigiani falegnami nelle loro officine (Tomsich lavora
in Corso Garibaldi), fa le prime esperienze come pilota anche il contadino Francesco
Ortolan, che sarà capolega della Federterra e dirigente socialista sacilese: i segni di un
cambiamento rivoluzionario si percepiscono veramente nell’aria. Quanto al campo della
Comina, la presenza degli anarchici rimane forte anche dopo l’emigrazione di Tomsich
in Argentina, come dimostrano le mitragliatrici fornite nel maggio 1921 agli Arditi del
popolo che difendono Torre dai fascisti (Acs, Cpc, f. Tomsich Andrea; testimonianze di
Mario Bettoli e Teresina Degan).
Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, il rientro degli emigranti provoca
l’espansione tumultuosa dei socialisti nelle campagne. Si riporta in patria l’organizzazione sperimentata all’estero: quella di Aviano, che sarà esemplare nelle lotte del dopoguerra, viene definita nel 1913 come un esempio delle capacità organizzative della socialdemocrazia tedesca, con la sua organizzazione diffusa in modo capillare nelle frazioni
e la creazione di cooperative di lavoro, come quella per la gestione della cava di pietra.
Contemporaneamente, soprattutto da parte di don Giovanni Maria Concina, i cattolici
46
Pordenone
organizzano i mezzadri nella Bassa pordenonese, suscitando le proteste degli agrari
anche presso papa Pio X, che nel 1914 chiede al vescovo Isola di richiamare all’ordine i
preti sindacalisti (L’opera sociale politica e pastorale di Giovanni Maria Concina,1989).
Questo nuovo clima porta i socialisti pordenonesi a contrapporsi alla segreteria camerale udinese retta per alcuni mesi da Pallante Rugginenti (che nel 1938 morirà in
esilio ricoprendo le funzioni di dirigente della Cgdl e di vicesegretario del Psi, al fianco
di Bruno Buozzi e Pietro Nenni). Nel congresso di Gemona del 18 aprile 1915, Giuseppe Ellero ed il dottor Plinio Longo di Pinzano (che cadrà ucciso a bastonate dai fascisti
nel 1925) richiedono che il sindacato friulano dia priorità al lavoro di organizzazione dei
contadini, piuttosto che a quella degli operai che sono concentrati solo in alcune città.
Un’intuizione di quelli che sono ormai i principali soggetti dei movimenti popolari, che
nella primavera 1915 infiammano i centri della Pedemontana e delle campagne della
Bassa, dando vita ad una estesa rivolta contro la disoccupazione e la fame degli emigranti rientrati in patria a causa della guerra.
Richiesta di lavori pubblici per far fronte alla disoccupazione, movimenti di donne
per il pane, manifestazioni di massa sempre più numerose e violente a fronte della repressione militare, conquista dei campanili e campane a stormo, negate da una storia
patria scritta sotto il fascismo, appaiono un movimento ben più ampio e significativo del
“maggio radioso” dei pochi interventisti che - favoriti dalle autorità pubbliche - coprono
la scelta politica di gettare l’Italia nella fornace dell’inutile strage. Mentre il sindacato
pordenonese preme sulle autorità politiche per individuare nuovi canali di rifornimento
dei cotonifici, dopo la chiusura della navigazione nell’Adriatico dove le flotte italiana ed
austroungarica si preparano allo scontro, nelle campagne si salda quel blocco popolare
di edili-contadini che sarà protagonista, dopo l’immane massacro nelle trincee della
guerra mondiale, della grande congiunzione fra le lotte popolari del “biennio rosso”.
11. La rivoluzione sociale del dopoguerra e la costituzione
delle Camere del Lavoro di Pordenone e San Vito al Tagliamento.
La guerra mondiale, combattuta per gran parte sul territorio friulano, comporta la distruzione totale del tessuto produttivo, soprattutto per gli opposti spostamenti di fronte
del 1917-1918. Reparti e masse di sbandati degli eserciti austroungarico, italiano e
tedesco distruggono o depredano sistematicamente ogni impianto industriale e scorta
agricola. Abitazioni, edifici pubblici, ponti e vie di comunicazione sono demoliti senza
pietà. Alla fine della guerra, i territori veneto orientale e friulano sono regrediti di decenni. La popolazione è abbandonata a se stessa. Il potere politico, dopo aver scatenato
tanta opera distruttiva, non è capace di dare risposte ed alimenta a bella posta il conflitto fra chi, dopo la ritirata di Caporetto, è fuggito nella profuganza e chi è rimasto a patire
la fame sotto l’occupazione. Per soprannumero, ai circa 100.000 emigranti friulani la
guerra ha portato il bel dono della distruzione del posto di lavoro, con il crollo degli imperi germanico, austro-ungarico e turco.
Nel 1917, mentre infuriava la tempesta bellica, dall’oriente sorge il faro di una nuova
era: la rivoluzione russa indica la via della pace e del rovesciamento violento dell’ordine
costituito. Un esempio che le censure non riescono a nascondere, e che stimola la volontà di lotta e di protagonismo, soprattutto delle giovani generazioni che hanno fatto la
guerra, e fra trincee e reticolati hanno dovuto familiarizzare con la violenza estrema.
Mentre i militari vengono congedati a scaglioni, nel 1919 iniziano le grandi lotte popolari per la ricostruzione. Vengono richiesti ed ottenuti lavori pubblici, dapprima ge47
1906
2006
stiti direttamente dall’esercito e poi passati alle amministrazioni civili. Non si tratta di
un’azione pianificata dei poteri pubblici, ma di un’azione imposta dal basso, dalla forza
dirompente di una massa incontenibile di senza lavoro, di emigranti senza sbocchi, di
operai senza fabbriche, di contadini senza raccolti e bestiame, di cittadini che si aggirano per paesi e città devastati. Di fronte al crollo della credibilità di un’intera classe
politica, a dare una risposta alla gente sono le forze politiche che si erano opposte alla
guerra, pur dagli opposti lati dello schieramento politico: i socialisti ed i cattolici, ora
riuniti nel Partito Popolare e nella Confederazione Italiana del Lavoro. Una collaborazione delle due forze politiche, che spesso si trovano a condurre agitazioni parallele, è
impensabile: se l’ala sinistra del Ppi, rappresentata da Guido Miglioli, agisce sul piano
della lotta di classe, il grosso del partito rimane legato alle politiche conservatrici del
Vaticano, mentre fra i socialisti prevalgono le componenti rivoluzionarie, che puntano al
rovesciamento dei rapporti sociali. Saranno queste due forze politiche ad assicurarsi i
consensi della popolazione nelle varie tornate elettorali del dopoguerra, con una netta
prevalenza socialista a livello provinciale. Le elezioni amministrative dell’autunno 1920,
pur segnate da un recupero dei vecchi gruppi dirigenti conservatori, rappresenteranno
uno dei più sconvolgenti momenti di rinnovamento della rappresentanza politica locale,
portando i ceti popolari al governo di decine di amministrazioni comunali ed interrompendo per un biennio il predominio dei ceti privilegiati tradizionali: poi, il fascismo ricollocherà al loro posto gli antichi dominatori.
Fra il 1919 e l’avvento del fascismo, pur in un alternarsi di fasi segnate dall’ascesa dei
movimenti sociali e dalla reazione armata del capitalismo, si realizza concretamente un
vasto esperimento di gestione sociale profondamente rinnovata. La richiesta di lavoro
e la necessità di garantire l’alimentazione della popolazione si traducono in una diffusione a macchia d’olio della cooperazione di lavoro e di consumo: quasi in ogni comune
sorgono o risorgono queste realtà, con l’obiettivo di fornire lavoro ai disoccupati e di
contrastare il carovita. La Fioe, nuova denominazione del sindacato edile della Cgdl, si
radica quasi in ogni comune, e costituisce la struttura più diffusa del socialismo friulano:
in vari casi, nell’ottobre 1920, le liste socialiste sono presentate dalle leghe edili. A capeggiare la Fioe nel Friuli occidentale sono nuovi dirigenti, che faranno la storia del sindacato pordenonese: come Umberto De Gottardo, Costante Masutti ed Ernesto Oliva.
Tutti e tre, a partire da De Gottardo che ne sarà il primo segretario nel 1919, siederanno
al vertice della neocostituita CdL. La Fioe promuove la costituzione di cooperative, che
assumono la gestione dei lavori, subentrando alle iniziative arbitrarie, gli “scioperi a rovescio”, avviate dalle leghe degli edili, per poi sperimentarsi nella gestione degli appalti:
si tratta di ponti, strade, ricostruzioni di edifici, ma anche di opere molto più complesse.
Sono le cooperative avianesi a realizzare, di fatto in regime di autogestione, la massicciata della ferrovia Pordenone-Aviano , così come le principali opere del Comune di
Pordenone di quegli anni: il porto fluviale del Noncello e le Scuole Elementari “Gabelli”.
Sono cooperative, anche se in questo caso bianche, quelle che realizzano il ponte sul
Tagliamento fra Dignano e Spilimbergo, così come sono cooperative, rosse, quelle che
realizzano la grande bonifica dei Camolli, promossa dal commissario prefettizio socialista di Sacile, Enrico Fornasotto.
Un commissario prefettizio socialista? Sì, succede anche questo, in quegli anni tempestosi, nei quali una classe dirigente fugge dalle responsabilità da essa create con il
disastro della guerra, e spesso rimangono solo i “sovversivi” a dover cercare di rimediare ad una situazione esplosiva. Come a Pordenone e ad Aviano, dove i primi assessori
socialisti entrano in giunta nel 1919 (ad Aviano è il capolega degli edili di Marsure, Carlo
Basso), numericamente in minoranza ma sospinti da un impetuoso e violento movimen48
Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
1° maggio 1919
a Pordenone.
Archivio Romano Rizzo
Pordenone,
1921: il primo
congresso
del sindacato
veneto
degli operai
tessili alla
Casa
del popolo
49
1906
2006
to popolare. A parti rovesciate, imboscati e collaboratori degli occupatori austrotedeschi
abbandonano i posti di responsabilità tuonando da improvvisati pulpiti patriottici, mentre
operai e contadini pacifisti, insieme a giovani ex ufficiali interventisti pentiti, ritornano
dalle trincee per mettersi alla testa del movimento per la ricostruzione. Quanto si sperimenta in quegli anni sarà quasi irripetibile: la spinta del movimento sul governo ottiene
fondi, sempre insufficienti, che vengono messi a disposizione delle amministrazioni locali per realizzare opere affidate a cooperative create da un sindacato cui si iscrivono
decine di migliaia di persone. Si avviano bonifiche fondiare (oltre a quella dei Camolli,
quella dei Magredi, realizzata dalla giunta socialista di Cordenons), si riprende la politica
di creazione di infrastrutture (ferroviarie e tramviarie) già progettata dall’amministrazione provinciale prima della guerra e si avvia un complesso progetto per la realizzazione
di un sistema di sfruttamento dell’energia idroelettrica, attraverso un’agenzia pubblica,
l’Ente per le Forze Idrauliche del Friuli, che è sostenuto unitariamente dai socialisti e
dall’amministrazione provinciale a maggioranza Ppi. E’ questo - al di là dei diversi approcci al dibattito su riforme e rivoluzione - l’aspetto predominante dell’azione sindacale
e politica di questo periodo, insieme con i conflitti operai che portano all’applicazione
dei primi contratti collettivi di lavoro nazionali ed alla conquista delle 8 ore di lavoro al
giorno ed ai grandi movimenti contadini che portano alla stipula dei primi patti colonici.
La mancanza di una politica di ricostruzione del Friuli (che verrà proseguita anche dal
fascismo) e la ripresa dell’emigrazione, a partire dal 1921, non possono cancellare questa grande esperienza di protagonismo e realizzazioni popolari.
Nel gennaio 1921 gli iscritti alla CdL provinciale di Udine sono circa 19.000, di cui
8.809 nella sola CdL di Pordenone, che indubbiamente rappresenta il punto di forza del
sindacato friulano (le tabelle con le leghe ed i dati sono in: PILLOT e CAMISA, 1997,
pagg. 292-295). La CdL di Pordenone viene costituita il 21 luglio 1919, durante lo sciopero a sostegno dei governi sovietici di Russia ed Ungheria, contro l’intervento militare
occidentale. I suoi punti di forza sono la Fioe (5.045 iscritti , diffusi nel territorio con
18 leghe) e la Fiot (2.932 iscritti, che invece sono quasi tutti concentrati nei cotonifici
dell’hinterland pordenonese, con la sola eccezione della filanda di Stevenà di Caneva). A rafforzare la struttura sindacale giungono in Friuli nuovi dirigenti sindacali, che
si aggiungono a quelli locali: nel caso di Pordenone si tratta dell’operaio metallurgico
torinese Michele Sammartino, che diventa segretario della CdL, della sua compagna
Elvira Pomesano, bracciante pure torinese, che è la prima operatrice sindacale donna
del sindacato pordenonese, di Dario Mosca e di Ettore Rusca, segretario della Fiot, che
nel secondo dopoguerra sarà il segretario amministrativo della Cgil nazionale.
Un giovane di origine cattolica, il maestro Piero Sartor, promuove la costituzione,
il 18 aprile 1920, di una associazione fra impiegati e affini aderente alla Federazione
nazionale dell’impiego privato ed alla Cgdl. La categoria non si limita ad organizzare il
pubblico impiego: guidati da Sartor, nel luglio successivo entrano in sciopero i commessi dei negozi. Dopo il rifiuto a trattare sulle richieste sindacali da parte dei commercianti,
nessuno in città si aspetta lo sciopero. L’organizzazione e la combattività degli scioperanti stupisce, in questa categoria dispersa in decine di botteghe e nuova all’organizzazione sindacale. Lo sciopero scoppia sabato 24, giorno di mercato. Circa settanta
commessi, datosi appuntamento alla loro sede, percorrono la città riuniti in squadre ed
impongono la completa chiusura dei negozi. Lo stesso accade a Torre, dove ad opporre
un po’ di resistenza alla chiusura è solo l’Unione Cooperativa di don Lozer. L’accordo
viene rapidamente raggiunto nel pomeriggio, per iniziativa di alcuni commercianti che
si recano alla CdL a trattare. Ma lo sciopero continua anche lunedì mattina nelle ditte
che non hanno ancora firmato l’accordo. Nel frattempo, a mezzogiorno di domenica
50
Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
25 un gruppo di operai inscena una dimostrazione ostile davanti al municipio, di cui si
contesta il ruolo negativo nella vertenza, e davanti all’abitazione di alcuni dei più grossi
commercianti: La lezione fu salutare e persuase anche i più restii a mandare la propria
adesione. L’azione si conclude con una completa vittoria.
Ma nel Friuli occidentale c’è un’altra CdL, quella mandamentale di San Vito al Tagliamento, che fa direttamente riferimento a quella di Udine ed organizza anche il mandamento di Spilimbergo. Con la creazione di questa struttura sindacale, si lacera la
pace sociale che fino agli anni ‘10 aveva connotato quella che i socialisti definivano la
Vandea del Friuli centrale. Si tratta di altri 1.465 iscritti, prevalentemente tutti edili. Si
tratta di dati ancora parziali, perché è proprio nella fase successiva, quando con la scissione comunista i dirigenti della CdL di Pordenone passsano in gran parte con il nuovo
partito, che viene rafforzata da CdL di San Vito, con la nomina a segretario del socialista
Orazio Infanti, dirigente della Federterra, che sviluppa in particolare le leghe contadine
rosse nel Sanvitese e contemporaneamente nel Sacilese, organizzando il sindacato
contadino che ancora in questa fase appare debole. Le leghe contadine rosse organizzate nella Federterra - sottostimate a cinque in sede storiografica, sulla base di un
vecchio studio (MIZZAU 1961) relativo a tutto il Friuli - sono le prime a firmare il patto
con gli agrari del Friuli occidentale, e mostrano una capacità di organizzazione che
si manifesta soprattutto negli anni successivi all’immediato dopoguerra. Esse puntano
alla realizzazione di cooperative per l’acquisto e la coltivazione della terra, nell’ambito
di una politica di bonifica delle terre incolte (aride nei magredi, paludose nella piana irrigua) ed ottengono indubbi successi, come a Cordovado - dove i socialisti conquistano
un comune dove non avevano un solo voto nel 1919 - ed a Pravisdomini, dove uno dei
primi atti della giunta guidata dal muratore Carlo Marinato è l’occupazione delle cascine
e la proclamazione del soviet: provvedimento innocuo sul piano politico (Marinato è un
riformista), ma determinato sul piano sindacale, per costringere gli agrari a cedere alle
rivendicazioni del mezzadri. La strutturazione del movimento operaio nel Friuli occidentale si completa con la costituzione , a Torre, dell’Alleanza Cooperativa Pordenonese e
della Federazione provinciale delle Cooperative di Lavoro, il cui direttore tecnico è l’ing.
Domenico Pievatolo, un altro degli assessori della giunta socialista di Spilimbergo.
12. Il fascismo. Un ventennio di stagnazione economica.
Una lunga resistenza popolare.
Le classi dirigenti non possono permettersi di stare a guardare l’esito di quell’esperimento epocale di sovversione di rapporti secolari. Industriali ed agrari evocano e finanziano la reazione, formano un proprio esercito privato, trovano il consenso di una
classe politica tradizionale che pensa di poter manovrare le bande armate del fascismo.
Il governo invita gli ufficiali smobilitati a presentarsi alle sedi dei fasci in via di costituzione; le armi vengono attinte ai depositi dell’esercito; la polizia assiste e collabora con
le squadre ed arresta le vittime. Pochi casi di difesa delle istituzioni democratiche da
parte della forza pubblica, come quello di Sarzana, dimostrano come quello fascista
sia, dopo l’entrata in guerra del 1915, il secondo colpo di stato della monarchia e delle
classi dirigenti nazionali.
Nella primavera del 1921 le squadre fasciste emiliane, venete e giuliane spazzano il
Friuli, in una loro campagna elettorale politica che non prevede la partecipazione degli
avversari. Il 10 maggio i fascisti invadono Pordenone, capeggiati da Gino Covre, ex
ufficiale ed oscuro faccendiere di Chions (che finirà giustiziato dai partigiani durante la
51
1906
2006
guerra di Liberazione) e dall’astro nascente del fascismo friulano, l’avv. Piero Pisenti.
Per la prima volta nella loro corsa selvaggia, le squadre fasciste assaporano l’amaro
gusto della sconfitta. A Pordenone cade uno dei loro, l’udinese Pio Pischiutta, forse colpito dai suoi stessi camerati, mentre il comune socialista viene devastato ed immediatamente commissariato dal Sottoprefetto Umberto Magrini. Ma è a Torre, dove si sono
asserragliati gli antifascisti pordenonesi ed i rinforzi che giungono dalla provincia, che i
predoni neri fanno l’esperienza della resistenza popolare. Comandati dai maestri Pietro
Sartor e Francesco Fiorot da Sacile (ambedue perderanno il posto per questa scelta)
e da altri ex combattenti, socialisti e comunisti si difendono dietro trincee e barricate,
usando armi e munizioni procurate da soldati dei reparti alpini stanziati in zona (memoriale di Costante Masutti, in arch. Degan). Anche le ragazze più giovani contribuiscono
portando sassi da gettare sui fascisti (testimonianza di Ortenilla Bailot, in La storia le
storie). Per entrare a Torre, i fascisti dovranno nascondersi dietro i reparti dell’esercito:
ma le botte e l’arresto di molti difensori non potranno nascondere la vittoria morale e
la salvezza delle istituzioni operaie, la Casa del Popolo e la Cooperativa Sociale, erede
del Magazzino di consumo.
L’azione di difesa armata è accompagnata dallo sciopero generale, che blocca Pordenone e ed i centri vicini per una settimana, fino a lunedì 16. Domenica 15 maggio, in una
città sotto occupazione militare, mentre le squadre percorrono i paesi vicini in cerca di
dirigenti socialisti e comunisti da perseguitare, il proletariato del Friuli occidentale elegge alla Camera dei Deputati il suo primo deputato, l’on. Giuseppe Ellero, confermando
la maggioranza socialista nella rappresentanza parlamentare provinciale.
La resistenza costringe i fascisti a trattare: proprio a partire da Pordenone prende
forma il “patto di pacificazione”, che permette - pochi mesi dopo - l’eccezionale reinsediamento della giunta guidata dall’avv. Rosso. Ma l’azione politica si accompagna alla
resistenza armata: di fronte al ripetersi delle violenze si organizza la milizia unitaria antifascista degli Arditi del Popolo, a dispetto delle direttive settarie del vertice comunista,
coinvolgendo nelle campagne anche esponenti del Ppi (lettera della direzione del Pcd’i
alla Federazione di Udine dell’8 novembre 1921, in Arch. Ifsml 5; DEGAN 2001). L’autodifesa armata è dettata dal bisogno elementare di sopravvivere: nella notte dell’8 giugno l’organizzatore del sindacato fascista degli edili, il padovano Arturo Salvato, pensa
di risolvere la concorrenza costituita dalle migliaia di iscritti alla Fioe con un’imboscata
al segretario di categoria Costante Masutti, che per fortuna ha la meglio, uccidendo lo
squadrista. Il 1° luglio invece l’aggressione a Sartor all’uscita dalla CdL (sita presso il
Monte di Pietà in Piazza della Motta) costa la vita all’operaio Tranquillo Moras, capo dei
giovani comunisti di Torre. Due settimane dopo, le squadre di Covre assaltano Treviso,
accanendosi in particolare contro i repubblicani di sinistra del dott. Guido Bergamo,
odiato perché eroe del combattentismo e feroce accusatore di quei capi fascisti che,
come il veneziano Pietro Marsich - e Pisenti - la guerra l’hanno fatta da imboscati.
Le scorrerie delle mobili squadre fasciste preparano il terreno della rivincita padronale, con la disdetta ai mezzadri e la proposizione dei primi contratti nazionali in riduzione
di salario. In agosto, il rifiuto della riduzione del 20% di salario prevista dal nuovo contratto dei tessili provoca la rottura della Fiot pordenonese e l’organizzazione, in alcuni
degli stabilimenti, del Sindacato Veneto Operai Tessili, sindacato rivoluzionario aderente all’Unione Sindacale Italiana. Pordenone diventa il laboratorio dell’alleanza fra
sindacalisti rivoluzionari e comunisti, che sperimentano la possibilità di un sindacato
alternativo alla Cgdl diretta dai socialisti riformisti. Dopo le prime perplessità, lo Svot
5
Archivio dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di Udine.
52
Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
aderisce all’Internazionale Sindacale Rossa di Mosca, anche se l’operazione non va in
porto con l’Usi, dove gli anarchici conservano la maggioranza. A livello locale si arriva
ad un accordo per cui sia lo Svot che la Fiot aderiscono alla CdL di Pordenone, mentre
Pietro Sartor diventa nel 1922, il direttore de L’Internazionale Rossa di Verona, organo
dello Svot, che sarà però spazzato via dalle fabbriche pordenonesi con l’andata a potere del fascismo. La classe operaia pordenonese combatte la sua ultima battaglia durante la crisi seguita all’omicidio del segretario del Psu Giacomo Matteotti nel giugno 1924:
nel mese di agosto scendono in sciopero politico per settimane i cotonifici, fatto unico in
Italia, ancora una volta grazie alla forza trainante delle donne, che impongono la lotta ai
compagni di lavoro. Soprattutto grazie al lavoro di collettrice di Elena Brusadin, la Fiot
riesce a ritesserare 380 operaie. Nello studio di Ellero si ritrovano massimalisti del Psi e
riformisti del Psu per ridare vita alla CdL. Orazio Infanti viene incaricato della segreteria
regionale della Fiot, fino a quando - nel gennaio 1925 - non verrà cacciato da Pordenone con il foglio di via (DEGAN 1981; Acs, Cpc, f. di Giuseppe Ellero).
Come palliativo, il fascismo invia a commissariare il sindacato di regime friulano l’ex
sindacalista rivoluzionario ferrarese Romualdo Rossi, amico dell’estremista Farinacci,
con il risultato di scoprire di essersi allevato una serpe in seno, che gira per fabbriche
e campagne a scatenare una inedita lotta di classe interna alla dittatura. Dopo l’energico intervento dei parlamentari agrari sanvitesi sen. Rota ed on. Tullio, anche la breve
stagione di Rossi ha termine, a testimonianza di come il ruolo del sindacato fascista sia
incompatibile con la difesa degli interessi dei lavoratori (Asu, GdP, b. 8, f. 31 6 ).
La funzione sociale del fascismo viene ben esemplificata dal ruolo personale del suo
massimo rappresentante, Pisenti. Figura emergente fra gli esponenti delle classi dominanti che confluiscono nel fascismo, sottraendo le leve del potere ai piccolo borghesi
protagonisti delle violenze squadristiche, Pisenti riesce ad assommare in sè la funzione
di lobbista degli agrari, degli industriali e del capitale finanziario. Al servizio della Sade
del finanziere veneziano Giuseppe Volpi, scambia l’appoggio di questi allo sviluppo del
fascismo friulano con il sostegno alla privatizzazione dell’industria elettrica, regalando ai
privati l’imponente programma di sfruttamento idroelettrico dei bacini del Piave, del Tagliamento e dell’Isonzo. In campo industriale, negli anni ‘30 si attiverà per impedire una
soluzione imprenditoriale (patrocinatata dall’ex deputato socialista Ellero, insieme con
l’ex deputato democratico Gasparotto ed ambienti probabilmente vicini agli Olcese) alla
crisi del Cotonificio Veneziano dopo il fallimento dei Brunner, per poi arrivare alla vendita
sotto costo degli stabilimenti a.... Volpi, Cini & Gaggia, che ripeteranno l’affare nel secondo dopoguerra con la vendita alla Snia di Marinotti, altro pescecane arricchitosi con il
fascismo, che porterà alla crisi definitiva la principale industria friulana di allora nel 1954.
In campo agricolo Pisenti, insieme a Rota e Tullio e con la collaborazione del fascista
ing. Napoleone Aprilis (cui l’Italia repubblicana ha dedicato il lago di Barcis) a capo del
Consorzio Cellina-Meduna, avvia una politica di bonifiche agrarie basata sull’estensione della mezzadria e l’esproprio della piccola proprietà per mezzo della fiscalità.
La resistenza popolare continua nonostante la dittatura fascista: nel dissenso, che si
esprime nelle più varie forme di protesta e dileggio nei confronti dell’autorità; nelle cooperative, che continuano ad essere dirette da amministratori socialisti ed impongono
al regime un lento e faticoso processo di conquista; nelle agitazioni operaie - guidate
soprattutto da attivisti comunisti - che uniscono rivendicazioni sindacali e politiche; nelle
proteste contadine, che a volte esplodono con violenza; nelle ultime battaglie dei sacerdoti legati al Ppi, prima del grande accordo fra il regime ed il fascismo con il Concordato
6
Archivio di Stato di Udine, Archivio del Gabinetto della Prefettura. B. = busta, f.= fascicolo.
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del 1929. Perfino, come succede a Caneva negli anni ‘30, si contano episodi di “entrismo”, con gruppi di militanti socialisti che si iscrivono al Pnf per lacerarne l’organizzazione con violente polemiche .
Nel febbraio-marzo 1928, migliaia di cotonieri pordenonesi entrano in sciopero contro
la ristrutturazione dei nuovi proprietari, i Brunner, che impone pesanti carichi di lavoro
con l’aumento dei telai assegnati a ciascuna operaia e migliaia di licenziamenti. Per un
mese la città resiste, nonostante la durissima repressione fascista coordinata direttamente da Mussolini, che deve spezzare il più lungo e compatto sciopero dei tessili nel
periodo fascista (DEGAN 1981, pag. 134). Dopo il trauma dell’invasione della città da
parte dei cortei operai, che attaccano le sedi fasciste ed arrivano a ferire il podestà, i
fascisti mettono in stato d’assedio i quartieri popolari. Gli arresti e la repressione non
possono impedire ai manifestanti di realizzare anche comizi con gli esponenti del Pcd’i
clandestino. Dietro lo sciopero c’è ancora una volta il sostegno di una città, si tratti dei
commercianti , oppure - come dichiarerà Ernesto Oliva al 4° congresso clandestino di
Colonia del Pcd’i nel 1931 - delle 30.000 lire di esposizione della Cooperativa Operaia
di Borgomeduna, che distribuisce a credito le proprie merci agli scioperanti (relazione
in Arch. Ifsml, b. 3, f. 95).
Gli scioperi si ripetono negli anni successivi, alimentati dalla diffusione della stampa
della Cgdl clandestina. Non basta l’arresto dell’organizzazione comunista di Pordenone, e successivamente di quella dello Spilimberghese (artefice di manifestazioni di
disoccupati e filandine), che si concludono con processi al Tribunale Speciale nel 1931
e nel 1934. Come testimonia in una sua relazione Teresa Noce, che nel dopoguerra
sarà la segretaria nazionale della Fiot, l’ossatura dell’opposizione è basata soprattutto
sulle donne dei cotonifici, il cui ruolo è tanto anonimo quanto fondamentale. Sfuggite
agli arresti, continuano ad alimentare l’opposizione operaia, con manifestazioni contro
le sospensioni del lavoro. Non sono giovani militanti libere da impegni: le organizzatrici
del sindacato clandestino di fabbrica sono donne che debbono reggere sulle loro spalle
la famiglia, priva degli uomini emigranti all’estero, e madri di bambini, che portano con
sè e che prendono così i primi contatti con l’antifascismo operaio. Fra loro emergono le
figure di Ida Brusadin, sorella di Elena e moglie di Oliva, che col nome di battaglia di Antonietta emigra in Francia per entrare nella struttura clandestina del Pcd’i, e di Rachele
Redigo Da Corte, dirigente sindacale del Cotonificio di Torre e madre di Alma Da Corte,
componente della Commissione Interna dello stesso stabilimento, che nel marzo 1954
sarà licenziata per rappresaglia dalla direzione (Tribunale Speciale per la Difesa dello
Stato. Decisioni emesse nel 1931 e 1934; relazioni di Noce ed altri funzionari del Pcd’i
in Arch. Ifsml, b. 4, f. 101; DEGAN 1981; testimonianza di Teresina Degan, presente
all’incontro con Noce insieme con la zia Redigo).
Nei primi anni ‘30, dopo l’esplodere della crisi economica del 1929 - che somma la
grave perdita di possibilità di lavoro per gli emigranti all’estero con la crisi interna - non
si contano solo le agitazioni nei cotonifici, che sopravvivono in una situazione di drammatica crisi, evidenziata dalle relazioni sulla situazione assistenziale. Le bandiere rosse
appaiono improvvisamente sulla ciminiera dell’essiccatoio bozzoli di Codroipo e, il 1°
maggio 1930, sul campanile di Torre, issata dal gruppo dei giovani comunisti guidato
da Achille Durigon, così come le scritte anarchiche tracciate dagli operai all’interno dei
gabinetti della Coricama di Maniago nel pomeriggio del 12 marzo 1927, di cui non si
scopriranno gli autori, nonostante i carabinieri arrestino ed interroghino parecchi operai
e sguinzaglino spie per lo stabilimento. Nel 1931 scoppiano le rivolte di Roveredo, San
Quirino e Cordenons, da parte dei contadini espropriati dagli oneri di bonifica del Consorzio Cellina-Meduna: i contadini di Cordenons debbono pagare per la seconda volta
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
Il cotonificio di Torre - archivio Teresina Degan
Autunno
1937, cinque
dirigenti italiani
del sindacato
edile
argentino
vengono
deportati sulla
“Principessa
Giovanna” verso
l’Italia
fascista. I nn. I e
II sono Pietro ed
Emilio Fabretti
(fonte: Archivio
Centrale dello
Stato, aut.
622/06)
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1906
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un’opera già realizzata dall’amministrazione socialista eletta nel 1920! Ci sono manifestazioni dei disoccupati per ottenere lavori pubblici: nel 1933 l’occupazione del municipio di Castelnovo da parte di 300 disoccupati ha una coda nelle bonifiche pontine,
dove le condizioni di lavoro sono così insopportabili in termini di nocività e mancanza di
regole contrattuali da imporre agli operai la drammatica fuga da Littoria (documenti in
Arch. Ifsml, fondo Pcd’i; Asu, GdP, b. 19, f. 69; Battaglie sindacali, periodico clandestino
della Cgdl del settembre 1933, in Acs, Tsds, Ms 7).
Nel febbraio 1935 un operaio pordenonese, nel presentare ad un responsabile della
gioventù comunista in Francia la situazione dei vari stabilimenti industriali della città, ci
lascia la prima relazione sulla Zanussi, a testimonianza delle condizioni di “accumulazione originaria” della futura principale industria friulana. Occupa una ventina di giovani
operai. Vengono assunti all’età di 14-15 anni con una paga di poche lire alla settimana.
L’apprendistato varia da uno a due anni a piacere del padrone. Allorché la conoscenza
della professione è raggiunta le paghe variano da 3 a 5 lire al giorno. Questi giovani vi
lavorano in generale fino alla partenza al reggimento. Al loro ritorno non sono più assunti perché il padrone mantiene regolarmente alcuni operai istruttori che permettono di
far subire la stessa sorte ad altri giovani (Arch. Ifsml, fondo Pdc’i, b. 5, f. 142).
13. Il sindacato in esilio.
La storia del sindacato sotto la dittatura non può prescindere dalle vicende di chi è
costretto ad emigrare. Fin dal primo dopoguerra l’emigrazione riprende, modificando i
suoi flussi dall’Europa centro-orientale alla Francia, dove la devastazione dei territori
orientali e la catastrofe demografica prodotta dalla guerra richiamano centinaia di migliaia di emigranti italiani. L’emigrazione economica si salda con quella politica: alcune
amministrazioni socialiste, come quella di Aviano, cadono già prima della marcia su
Roma del 1922, per il venir meno del numero legale causato dalla partenza della maggioranza dei consiglieri. Un drammatico fenomeno di esclusione materiale della classe
lavoratrice dal potere politico che si ripeterà nel secondo dopoguerra, come si rileverà
nel 1949 nel caso di Spilimbergo.
Altri filoni di emigrazione portano giovani operai nei nuovi centri di industrializzazione
italiana, soprattutto nel “triangolo” del nordovest: i dati delle condanne al carcere del Tribunale Speciale e di quelle delle commissioni provinciali per l’assegnazione al confino
di polizia segnalano lavoratori provenienti dal Friuli occidentale attivi in tutti i maggiori
centri industriali (DAL PONT e CAROLINI 1983.). Fra questi troviamo attive due colonne del movimento operaio pordenonese. Dopo aver diretto la ricostruzione del Pcd’i
clandestino nel Pordenonese, Ernesto Oliva entra nel comitato centrale del partito nel
1931; l’anno dopo viene arrestato con il centro interno del Pcd’i a Milano, dove svolge le
funzioni di responsabile della Cgdl clandestina per la Lombardia. Sempre fra Lombardia
e Piemonte opera dal 1930 al 1933 come segretario interregionale della gioventù comunista un giovane originario di Chions e proveniente dall’emigrazione in Francia: si tratta
di Rino Favot, che in quegli anni di clandestinità si dedica alla propaganda politica ma
anche all’organizzazione di importanti scioperi, come quelli delle mondine. Dopo anni
di “università” nel confino di Ponza, Favot, col nome di battaglia di Sergio, assumerà la
direzione militare della Resistenza nella pianura fra Pordenone ed il Veneto (Tribunale
Speciale per la Difesa dello Stato. Decisioni emesse nel 1934; Acs, Cpc, fascicoli di Er7
Archivio Centrale dello Stato, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, Materiali a stampa.
56
Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
nesto Oliva e Rino Favot e Tsds, b. 443, f. 4338; relazioni di Oliva in Arch. Ifsml, fondo
Pcd’i, e di Favot ed Ardito Fornasir, nel fondo Diari e testimonianze).
Le vicende dell’esilio dei dirigenti sindacali pordenonesi attraversano il pianeta, portando le loro esperienze a confrontarsi con quelle di altri movimenti operai e contadini.
Pietro Sartor, costretto a fuggire da Pordenone nel luglio 1921, viene dapprima inviato
a dirigere il Pcd’i fiorentino, al posto del ferroviere Spartaco Lavagnini ucciso dai fascisti. Sartor è il segretario stipendiato degli edili di Firenze, e si trova a rappresentare la
corrente comunista in una CdL che esprime il vicesegretario nazionale della Cgdl, Gino
Baldesi. Porterà in quel sindacato le sue grandi capacità innovative, a cominciare dalla
formazione professionale della categoria, e si trova a dirigere nei primi mesi del 1922
una vertenza pilota per la categoria a livello nazionale, destreggiandosi fra l’attacco
degli impresari edili al sindacato. Poi, costretto ad emigrare all’estero, sarà il responsabile dell’ufficio per la manodopera straniera del sindacato comunista francese Cgtu,
coadiuvato da Michele Sammartino come responsabile per la regione parigina. Sartor
diventerà il principale dirigente dell’emigrazione comunista in Francia e poi, dopo varie
espulsioni, nel Belgio, dove sarà ucciso in uno strano incidente stradale (con tutta probabilità un attentato) nel 1927. In Belgio continuano la loro attività Sammartino, come
organizzatore delle leghe antifasciste, ed Elvira Pomesano nel movimento delle donne
(Acs, Cpc, fascicoli di Pietro Sartor, Michele Sammartino ed Elvira Pomesano; collezioni de La Difesa e L’Azione Comunista).
Agli antipodi, Orazio Infanti è attivo in Argentina come organizzatore del Psi e del
sindacato contadino, mentre fanno le prime esperienze sindacali fra gli edili due fratelli
fornaciai di Nimis, Pietro ed Emilio Fabretti. Sono loro i protagonisti, a capo di un’organizzazione che conta 30.000 iscritti nell’area di Buenos Aires, di molteplici agitazioni,
che culminano in uno sciopero che nel 1936 vede violenti scontri con la polizia - con
morti da ambedue le parti - ed un vasto sostegno popolare, che culmina nell’organizzazione di mense a favore degli operai in lotta. Dopo diversi arresti, la reclusione
nei terribili campi di concentramento della dittatura argentina ed un primo tentativo di
deportazione di Pietro, ambedue i fratelli con altri tre compagni sono estradati in Italia
nel 1937. Il viaggio del piroscafo Regina Giovanna mobilita la Federazione sindacale
internazionale con il tentativo di strappare i cinque sindacalisti italiani dalle mani della
dittatura fascista: si tenta di ottenere l’asilo politico in Messico, la Cgt proclama lo sciopero dei porti dell’Africa francese. Il loro destino sarà il confino nel Sud Italia: Emilio
giungerà a Pordenone nel 1944, per rappresentare il Pci e curare l’organizzazione della
Resistenza nelle fabbriche. Diventerà più tardi segretario della CdL, mentre il fratello
presterà la sua attività per quella di Udine (Acs, Cpc, fascicoli di Orazio Infanti, Pietro
Fabretti ed Emilio Fabretti; testimonianza di Eugenia Bellot Fabretti).
14. Il sindacato nella guerra partigiana.
Lotte operaie e resistenza antifascista camminano insieme fin dai primi giorni della
caduta del regime. La prima agitazione è segnalata a Maniago, dove 150 operai coltellinai scioperano già durante i primi giorni dell’occupazione tedesca, astenendosi dal
lavoro il 9 e 10 settembre 1943 per rivendicazioni salariali, dando sfogo ad una conflittualità compressa per diciotto anni dalla dura disciplina industriale della Coricama, dalla
concorrenza creata dal subappalto delle produzioni ad industrie prive di regole e dalla
crisi generale del settore. (Asu, GdP, b. 19, f. 69)
Il sindacato si riorganizza nei Cotonifici, grazie ai quadri formatisi nella clandestinità
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ed ai giovani entrati in fabbrica negli anni della guerra, come Adolfo Bresin e Luigi Piccinin, che narra così il suo primo approccio con l’antifascismo: Appena entrato in fabbrica
ero in contatto con operai anziani gente che lavorava in fabbrica dagli anni ‘21-’22 e ho
cominciato a parlare con loro di certe cose: perché questo è il fascismo. (...) I compagni
anziani, Giovanni Favret, Piero Pessot, Ciro Colin, li ricordo in modo simpatico, brava
gente, corretta, che mi hanno aiutato “bociassa non hai capito niente, non sai niente”.
Il fatto che venga privilegiato l’aspetto sindacale su quello politico non impedisce la
repressione, ma ne limita i danni (non ci sono deportazioni in massa in Germania, ma
solo arresti temporanei delle operaie). Si costituisce una relazione contrattuale fra il
sindacato clandestino del Cotonificio di Pordenone, rappresentato da una Commissione Interna eletta democraticamente dai lavoratori per la prima volta dopo vent’anni, e
le autorità tedesche, che delegittima direzioni aziendali ed autorità fasciste (negli altri
stabilimenti del Veneziano le produzioni cotoniere sono sospese e sostituite da attività
di produzione bellica od ausiliaria: una sartoria-calzoleria per la Wehrmacht a Torre,
uno stabilimento della Galileo a Rorai ed il silurificio Whithead trasferito da Fiume nel
Carnaro a Fiume Veneto). La contrattazione che non esclude l’organizzazione armata
delle Squadre di Azione Patriottica e la raccolta di fondi per il sostegno ai reparti partigiani (DEGAN 1981, pagg. 166-171; testimonianze di Adolfo Bresin; interviste di Luigi
Piccinin ed Ettore Scian in La storia le storie).
La protesta scoppia a Cordenons al Cotonificio Cantoni ed alla Cartiera Galvani, nonostante il clima di terrore imposto dal dominio nazifascista. In Cartiera, dove opera un
gruppo molto attivo, partecipa alla resistenza nelle file liberali anche il proprietario, ing.
Enrico Galvani, che assume giovani operai per sottrarli alla leva e garantisce per due di
loro denunciati dai fascisti. Al Cantoni sono organizzati sia il Gap che il Gruppo di Difesa
della Donna, fornendo alla Resistenza locale sia partigiani combattenti che staffette.
Fanno parte del Gap gli operai Luigi Del Mul (che ospita Fabretti in clandestinità), Luigi
Zampese, Ugo Santin, Secondo De Santi, Pietro Bidoli, Augusto Bertoli e Vittorio Carli
(uno dei condannati al Tribunale Speciale del 1931). Ai quali va aggiunto Domenico De
Benedet, capo operaio al Cotonificio Veneziano, arrestato dopo uno sciopero nel 1938
e futuro sindaco comunista di Cordenons. Ma sono, come al solito, le donne a prendere in mano l’iniziativa di massa: Nella Carli (la figlia di Vittorio), Rina Raffin, Serafina
Scian, Maria Senuto, Maria De Zan e Teresa e Caterina Vianello, fra le altre. E’ Nella a
promuovere lo sciopero nel luglio 1944 contro la riduzione delle retribuzioni ed il rischio
di trasferimento dei macchinari in Germania, in un clima pesantissimo segnato da un
rastrellamento tedesco in paese. Lo sciopero viene preparato con una distribuzioni di
volantini ciclostilati alla macchina, e con un picchetto di 6-7 donne che riescono a trattenere tutte le maestranze. In autunno si costituisce la Commissione Interna, che impone
insieme ai partigiani (fra i quali operano i fratelli di Nella, Spartaco e Mario, che sarà
il vicesindaco di Pordenone designato dal Cln) la riassunzione delle promotrici dello
sciopero. L’impegno dell’intera famiglia Carli, viene pagato con la distruzione della loro
abitazione, minata dai fascisti il 19 settembre 1944 (DEGAN 1981, cit.; RAFFIN 1984;
CARLI 1994; DEGAN e VIDAL 1995; testimonianza di Eugenia Bellot Fabretti).
L’organizzazione non si limita agli stabilimenti principali: esiste nell’azienda di produzione di cucine Zanussi, dove l’amministrazione è tenuta dal segretario del Pci Eugenio
Pamio, rappresentante del partito nel Cln, che utilizza la sua posizione per sottrarre
molte decine di operai alla leva, permettendo così l’impegno di alcuni di essi nella lotta
clandestina. Antonio Zaramella, allora giovane fattorino negli uffici della Zanussi, nell’agosto 1944 viene incaricato da Vico Chiarottin, un operaio di Torre, di introdurre in
fabbrica i volantini che annunciano lo sciopero al Cotonificio Veneziano, dopo quelli del58
Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
Il decennale dell’occupazione delle fabbriche del 1944
2 maggio 1947: il comizio per la strage di Portella delle Ginestre
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
l’Amman e del Cantoni (documento Zanussi conservato da Agostino Rosset; intervista
ad Antonio Zaramella in La storia le storie).
L’esperienza della Resistenza operaia nelle fabbriche si salda con quella, altrettanto
originale, dei reparti partigiani di pianura, i primi a realizzare l’unificazione fra la Garibaldi e l’Osoppo nella Brigata “Ippolito Nievo B”. E’ da questa esperienza che escono
i principali dirigenti sindacali del dopoguerra: Emilio Fabretti (Arturo), Ardito Fornasir
(Ario, commissario politico della brigata), Rino Favot (Sergio, comandante della brigata), Adolfo Bresin (sarà il segretario della Fiot dal 1946 al 1956). Insieme con loro,
nell’immediato dopoguerra rientreranno dalla Francia altri sindacalisti esiliati, fra i quali
Umberto De Gottardo (combattente repubblicano nella guerra di Spagna, prende la
guida della Filea, il sindacato edile), Costante Masutti (nell’Unione Sovietica ha maturato il distacco dallo stalinismo e, rientrato a Pordenone, assume fino al 1949 il ruolo
di principale organizzatore ed esponente sindacale socialista), Achille Durigon (pure lui
si distacca dal partito comunista durante lo scontro fratricida di Barcellona, per aderire
all’anarchismo).
Anche la Resistenza della montagna vanta una sua, per quanto contraddittoria, politica sindacale. Nell’estate del 1944 viene sottoscritto con gli industriali coltellinai di
Maniago un accordo sindacale, con la funzione di garantire la tregua nella città a protezione della Tipografia Mazzoli, dove è stato allestito il centro stampa clandestino della
resistenza friulana, diretto dai giornalisti comunisti spilimberghesi Luigi Bortolussi e
G.A. Colonnello. Per non disturbare la stampa clandestina, Maniago viene così esclusa
dalle operazioni militari partigiane, che vengono limitate alle sole funzioni di polizia svolte dal locale battaglione garibaldino “Colvera”, comandato da Riccardo Rosa (Asso).
Una delegazione, guidata dal partigiano pordenonese Francesco Rossi (Mario Zero),
comandante del Btg. Gramsci in Valcellina, incontra i rappresentanti degli industriali,
che stanno producendo per i tedeschi: la richiesta, accolta, è quella di raddoppiare i salari operai, in cambio della pace sociale fino alla Liberazione. Ma la trattativa non vede
protagoniste - come a Pordenone - le rappresentanze operaie, e l’imperfetto collegamento fra i partigiani locali e quelli della Valcellina lascia all’oscuro la maggioranza dei
lavoratori. Questa imposizione dall’alto comporta fra i coltellinai (con l’eccezione della
Coricama, dove la Resistenza è organizzata in fabbrica) un atteggiamento di incredulità
a proposito delle vere ragioni dell’accordo e di grande consenso nei confronti degli industriali, ritenuti i generosi autori dell’iniziativa, fatto che produrrà nel dopoguerra scarsa
disponibilità all’organizzazione sindacale. La pace sociale, in termini militari, produce
una situazione tale da permettere ai partigiani di arrivare fino in piazza a Maniago,
davanti al comando tedesco, per approvvigionarsi di armi alla stazione dei Carabinieri
(testimonianza di Mario Bettoli).
15. La seconda ricostruzione. Le precoci tensioni nella Cgil unitaria.
La fine della seconda guerra mondiale ripropone le stesse problematiche di vent’anni
prima. Un territorio distrutto, le attività economiche bloccate, masse di reduci privi di
lavoro. Le prime esigenze sono quelle dell’assistenza ai profughi ed ai reduci dai luoghi
di prigionia e di guerra, degli approvvigionamenti alimentari e della ricostruzione dei collegamenti e delle abitazioni, del reperimento delle fonti energetiche per la ripresa delle
attività industriali, della lotta al mercato nero che ricrea inaccettabili differenze di reddito, a danno di chi ha più sofferto la guerra. La differenza è politica: le masse lavoratrici,
organizzate nella nuova Cgil unitaria creata dal Patto di Roma del 1944 fra Pci, Psiup e
60
Pordenone
Dc, sono interne allo schieramento governativo resistenziale, anche se i segni di difficoltà nel fare i conti con il passato si manifestano già nei primi mesi dopo la Liberazione.
Il Friuli (legato al destino della Venezia Giulia, il cui contrastato status viene definito con
gli accordi di pace di Parigi) rimane fino a tutto il 1947 sotto il governo militare alleato,
che delegittima immediatamente i Comitati di Liberazione Nazionale. Uno dei suoi primi
atti è revocare il “premio per la Liberazione” concesso dal Cln provinciale ai lavoratori
su richiesta della Cgil. I residui del regime fascista escono allo scoperto già nei primi
mesi dopo la Liberazione, uscendo spesso a testa alta dai processi intentati contro i loro
crimini (esemplare è l’assoluzione, con congratulazioni da parte dei giudici, di Pisenti,
ministro della giustizia della Repubblica di Salò). Il processo di epurazione non marcia,
mentre l’unità resistenziale scricchiola già in occasione delle prime manifestazioni sindacali del luglio 1945, dalle quali si dissocia la componente democristiana.
La Cgil unitaria nasce alla metà di maggio del 1945, articolandosi in una Camera Confederale del Lavoro di carattere provinciale ad Udine ed in Camere del Lavoro mandamentali, pur manifestandosi da subito una notevole autonomia di quella di Pordenone. Il
sindacato occupa locali di fortuna, la sede di Pordenone è angusta e ristretta dove non
si può entrare più di due o tre persone per volta poiché è formata da due piccole stanzette occupate per la maggior parte da tavoli, scaffali e sedie, e così come in tante cose
l’operaio è costretto a far coda nella strada, esposto al sole ed alla pioggia (Il Lavoratore
Friulano del 18 agosto 1945). La prima segreteria della CdL è costituita dal comunista
Elso Gasparotto, dal democristiano Umberto Grizzo e dal socialista Corrado Barbesin
(BIAGIONI, PANTILE e PONTACOLONE 1981, pag. 135).
Il sindacato deve supplire alle più elementari esigenze della gente: nelle sedi sindacali
si organizzano i rifornimenti alla popolazione, si distribuiscono alimentari, vestiti e scarpe
ed altri generi di prima necessità a basso prezzo. Si organizzano campagne per reperire
il carbone per far ripartire gli stabilimenti industriali, così come (grazie alla presenza nella
CdL di Udine di Alessandro Galli, il segretario della Fiot nazionale prefascista) per regolare i prezzi dei bachi da seta e permettere la riapertura della filande. In questi anni del
secondo dopoguerra, la funzione del sindacato è più volta alla rivitalizzazione e ricostruzione delle regole del sistema economico-sociale che alla conflittualità aziendale, come
nota il primo segretario della CdL, Elso Gasparotto: la classe lavoratrice ha dimostrato
di non essere per lo sciopero ma per la ricostruzione italiana. Il che non è stato sempre
tenuto presente dai rappresentanti dei datori di lavoro (Libertà del 24 aprile 1947).
La conflittualità è determinata semmai, sul piano generale, dal carovita e dalla disoccupazione, e rivolta ai poteri pubblici. Il primo sciopero si svolge a Pordenone il 16
luglio, per rivendicare il caro vita per operai ed impiegati, la revisione del contratto di
mezzadria, l’inizio d’opere d’utilità pubblica per impiegare gli operai; tra le rivendicazioni politiche principali: epurazione, sostituzione dell’attuale polizia con una partigiana
e libertà di stampa e riunione. Di fronte ai 5.000 manifestanti, il governatore alleato fa
affluire truppe, ma accetta la trattativa con una delegazione dei lavoratori. Pure a Spilimbergo, il 4 agosto si tiene una manifestazione di disoccupati del mandamento, che
riunisce altre 5.000 persone: durante il comizio Angelo Mirolo, che parla a nome del Cln
mandamentale, richiede lavori pubblici pagati da chi si è arricchito con il regime, l’epurazione dei fascisti, la revisione dei patti di mezzadria, la distribuzione di generi alimentari
nei paesi della montagna saccheggiati dagli occupatori ed il controllo dei prezzi, che a
Spilimbergo sono più alti che a Udine (Lotta e lavoro del 26 luglio 1945 e Il Lavoratore
Friulano del 18 agosto 1945). Ma, nonostante il freno alle rivendicazioni posto dalle autorità militari (che tendono, in sintonia con gli imprenditori, a ridimensionare le risultanze
degli accordi sindacali siglati per il nord Italia), le agitazioni esplodono nelle varie cate61
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2006
gorie, come lo sciopero generale di tutti i dipendenti statali che inizia l’11 agosto e quello
del personale delle esattorie che inizia il 30 dello stesso mese. Si avvia una fase convulsa di vertenze in materia salariale, conclusesi vittoriosamente, sulle indennità di contingenza e carovita. In molti casi si riesce ad ottenere miglioramenti rispetto ai risultati del
Patto di Milano stipulato fra la Cgil e la Confindustria dell’Alta Italia, anche se non tutti i
proprietari corrispondono correttamente le spettanze concordate. Nella sola Pordenone i disoccupati sono 5.000 (Lotta e lavoro del 3 ottobre 1945), e l’accordo nazionale
per lo sblocco dei licenziamenti aggrava la situazione. L’amministrazione comunale di
Pordenone, guidata dall’azionista ing. Asquini, realizza il riatto degli edifici pubblici, per
permettere la ripresa delle attività amministrative e scolastiche, anche come risposta
alle necessità occupazionali. Ma l’iniziativa pubblica è insufficiente, ed è necessario
fare appello alla debole iniziativa privata (Libertà del 26 agosto 1945). Per dare lavoro
ai disoccupati si smantelleranno le opere del porto fluviale realizzato vent’anni prima
ed abbandonato dal fascismo, utilizzandone gli inerti per erigere il rilevato della Strada
Rivierasca. Il lavoro del sindacato e delle amministrazioni locali è quello di trattare con
le aziende industriali per verificare ogni spazio occupazionale individuabile, soprattutto
attraverso il ripristino degli stabilimenti cotonieri, la difesa dell’occupazione nei lavori
pubblici ed il rifiuto dello smantellamento delle fabbriche impegnate in produzioni belliche, proponendone la riconversione a produzioni pacifiche. Inizia l’organizzazione della
Federterra nelle campagne e si formulano i primi progetti di bonifica per impiegare i
disoccupati, imponendone l’assunzione come braccianti agli agrari, in sostituzione delle
giornate di lavoro gratuito imposte ai mezzadri.
In novembre parte dagli insegnanti liceali di Pordenone, giunti all’estremo limite della
resistenza e della sopportazione e dopo vane e frequenti sollecitazioni presso le Autorità scolastiche, lo sciopero provinciale della categoria, che non vede stipendi da 4/6
mesi (Libertà, dal 15 novembre al 21 novembre 1945). La situazione di miseria viene
affrontata anche con iniziative solidaristiche, per esempio ospitando i bambini dei paesi
montani, ed in particolare di quelli distrutti dai nazifascisti durante la guerra partigiana,
nei paesi della bassa, secondo una tradizione che aveva visto analoghe iniziative a
favore dei bimbi austriaci nel precedente dopoguerra.
Durante l’inverno c’è ancora un’ondata di manifestazioni di disoccupati: dopo quelle di
Pordenone e Spilimbergo di dicembre, il 25 febbraio 1946 se ne tiene una a Castelnovo
del Friuli che raccoglie più di 600 persone; altre si ripetono un po’ ovunque, legate alle
richieste di lavori pubblici e di distribuzione di sussidi e pasti e viveri a basso costo.
Agitazioni alle quali aderiscono gli operai degli stabilimenti cittadini, tessili a Pordenone e del legno a Sacile. Il movimento di protesta appare per altro in difficoltà nei mesi
successivi: nel maggio 1946 la CdL di Spilimbergo, rappresentata dal segretario democristiano Rino Papaiz e dal segretario degli Edili locali Giovanni Carminati, deve limitarsi ad invitare - insieme al Comune, al Cln ed ai partiti - i maggiorenti della città ad un
incontro per chiedere loro di contribuire ad alleviare la condizione dei 1491 disoccupati
locali, ma con sconforto se ne presentano solo 22 su 120: ai sindacalisti non rimane che
organizzare una visita personale agli abbienti, per far loro assumere almeno 1-2 operai
(Il Lavoratore Friulano del 2 marzo 1946; Libertà del 19 maggio e 9 e 28 luglio 1946).
La durezza delle lotte per il lavoro inizia ad essere affrontata dalle forze dell’ordine con
la repressione. In quei giorni ad Aviano tre manifestanti sono arrestati dai carabinieri su
denuncia di un ex squadrista: pallida anticipazione delle pesanti repressioni degli anni
successivi, che vedranno diventare sistematico l’uso dei reparti celeri della polizia contro le manifestazioni operaie a Pordenone e quelle contadine a San Vito al Tagliamento
ed a Codroipo e gli arresti dei dirigenti sindacali (Lotta e lavoro dell’11 agosto 1946).
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
La situazione occupazionale è esplosiva e fin dall’inizio del 1946 la prospettiva dell’emigrazione è ormai matura per gran parte dei lavoratori disoccupati. Inizia l’espatrio
clandestino verso la Francia, che per migliaia comporta l’arruolamento coatto nella Legione straniera e la spedizione in Nordafrica od in Vietnam (stessa sorte succede agli
emigranti in Australia, che verranno spediti a combattere in Corea). Già nel dicembre
1946 Teresina Degan denuncia le condizioni di sfruttamento degli emigranti venduti dal
governo italiano alle miniere del Belgio in cambio di forniture di carbone, ma la stessa
cosa succede a 506 operai friulani inviati in Austria a lavorare in cambio non di salari,
ma di cemento da importare in Italia (Lotta e lavoro del 8 dicembre 1946; Libertà del 30
ottobre 1946 e seguenti).
16. La rottura dell’unità resistenziale e la scissione sindacale.
Sul sindacato unitario iniziano a farsi sentire presto le pressioni in senso scissionistico
degli ambienti cattolici, e non a caso il primo luogo dove vengono allo scoperto è il Cotonificio di Torre, dove dietro le Acli agisce don Giuseppe Lozer, che sta per rientrare a reggere la parrocchia (Lotta e lavoro del 4 agosto 1946). Pressioni indotte dalla divergenza
fra le linee contrapposte della Dc, protagonista di una politica di stabilizzazione moderata,
e della sinistra che deve rispondere ai movimenti sociali. La rottura è ormai segnata sul
terreno delle amministrazioni locali: a Pordenone la sinistra si colloca nettamente all’opposizione, mentre in altri comuni ha conquistato la maggioranza con coalizioni unitarie.
Il 4 ottobre a Pordenone convergono oltre diecimila manifestanti da tutto il mandamento.
Oltre alle rivendicazioni sociali, viene denunciata la politica di ostacolo al dispiegamento
dell’organizzazione sindacale, attraverso assunzioni e licenziamenti arbitrari. Il sindaco
democristiano on. Garlato, che annuncia lavori pubblici (fra cui l’antica promessa del
completamento della ferrovia Pordenone-Aviano) e l’apertura di spacci e di una mensa
comunali, parla tra vivaci contestazioni; stessa sorte subisce Gualtiero Driussi, segretario democristiano della CdL di Udine (Lotta e lavoro del 13 ottobre 1946).
All’inizio del 1947, ormai stesa sull’Europa la “cortina di ferro” dei contrapposti blocchi
politico-militari, si scinde il Partito Socialista e successivamente si rompe la coalizione
fra le forze antifasciste. Come in Francia, le sinistre sono escluse dal governo. La composizione della Cgil pordenonese risente, più che in ogni altro mandamento friulano, dei
nuovi equilibri politici, con un direttivo dove socialisti e democristiani sono ormai ridotti
ad un solo rappresentante e la nuova segreteria è composta da Fabretti, Bresin come
vicesegretario e da Alberto Pignattin (Lotta e lavoro del 19 gennaio 1947). La manifestazione per la strage di Portella della Ginestra, che si tiene il 2 maggio 1947 a Pordenone,
è un ulteriore momento di tensione fra le componenti sindacali (Libertà del 4 maggio
1947). La leadership appare pericolosamente monocolore, per un movimento la cui
capacità di resistenza inizia ad essere saggiata da troppi avversari. Come un padronato
che non si rassegna ad accettare come acquisito lo spirito dei tempi nuovi: il 2 giugno,
prima festa della Repubblica, tutte le aziende industriali pordenonesi propongono ai
lavoratori di utilizzare la giornata per recuperare le ore non lavorate precedentemente.
L’occasione è troppo ghiotta per don Lozer che distribuisce a Torre un volantino contro
la Commissione Interna, responsabile di aver impedito ai lavoratori di andare a lavorare
in un giorno di festa nazionale: settarismo clericale e scissionismo sindacale si legano
in questa pesante manovra di delegittimazione, ad un tempo, del sindacato e della repubblica democratica stessa (Libertà del 6 e 12 giugno 1947). La vittoria democristiana
del 18 aprile 1948 avviene in un clima di pressioni politiche e sociali, che si aggravano
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
dopo il voto: licenziamenti nelle fabbriche per distruggere la rappresentanza sindacale
e, nelle campagne, la generalizzazione delle disdette dei patti colonici. I disoccupati
friulani ammontano ormai a 70.000, e la polizia aggrava la situazione provvedendo
all’arresto in patria degli emigranti clandestini in partenza per l’estero. La repressione
arriva nelle case dei militanti di sinistra: iniziano le incarcerazioni di partigiani.
L’ora della scissione sindacale scocca poche settimane dopo, con l’attentato a Togliatti del 14 luglio, che vede l’immediata occupazione delle fabbriche e la costituzione
di Comitati di agitazione, con la funzione di garantire il coordinamento della lotta ed il
mantenimento dell’ordine pubblico, dopo aver respinto la Celere, che durante la seconda giornata di sciopero carica la manifestazione. In serata si svolge una imponente assemblea popolare; il movimento - controllato dalle organizzazioni di sinistra - cessa solo
in seguito all’arrivo dell’ordine della Cgil di interrompere lo stato di agitazione. Manifestazioni si svolgono nei centri della provincia in un clima di ordinata protesta. Nei giorni
successivi la polizia provvede ad arrestare numerosi lavoratori ed i dirigenti sindacali, e
contemporaneamente la direzione del Cotonificio Veneziano tenta di impedire l’accesso
a Fabretti agli stabilimenti per tenervi una riunione sindacale: decisione che provoca un
compatto sciopero dei 4.000 operai cotonieri, cui partecipano gli aderenti alla stessa
Corrente Sindacale Cristiana (Lotta e lavoro del 25 luglio e 8 agosto 1948).
Lo sciopero politico provoca l’uscita della Csc dalla Cgil: il 6 agosto la riunione del
Consiglio sindacale mandamentale decide l’espulsione del democristiano Achille Bianchettin dalla Commissione esecutiva della CdL, per non aver partecipato allo sciopero di
luglio ed essere impegnato nell’organizzazione della scissione. Altri tre sindacalisti sono
espulsi dalla CdL di Maniago. Per quanto si smentiscano passaggi significativi di iscritti,
si nota la diffusione della organizzazione scissionistica nel territorio, dove la Csc aveva
un certo seguito, ad esempio nelle filande (Lotta e lavoro del 15 e 29 agosto 1948). Le
elezioni per le Commissioni Interne degli stabilimenti industriali che si tengono alla fine
dell’anno sembrano premiare ampiamente la Cgil, con risultati che confermano il suo
consenso sia nei grandi stabilimenti cotonieri, sia nelle medie aziende metallurgiche
come la Safop e la Zanussi. Nelle filande invece (la Csc era forte ad esempio in quelle
del Sacilese) la situazione è controversa: alla Valdevit di Porcia si afferma la Cgil, mentre i Sindacati Liberi prevalgono alla filanda Zava di Spilimbergo (Libertà del 30 maggio
1947; Lotta e lavoro del 26 dicembre 1948 e 13 febbraio 1949).
Ma - come dimostrano i dati provinciali (Cgil Tess.8 1949-1973, b. 63) - il tesseramento
evidenzia una crisi dell’insediamento sindacale, che risente, oltre che della scissione
democristiana, della più generale crisi occupazionale, come dimostra per esempio il
calo di quasi cinquemila iscritti nel solo settore edile (da 11.848 iscritti a 7.014) fra 1949
e 1950, che supera di gran lunga l’arretramento segnato fra i metallurgici (da 3.926 a
2.767), i tessili (da 7.548 a 5.222), i chimici (da 1.220 a 961), le industrie estrattive (da
1.025 a 871), i poligrafici e cartai (da 1.263 a 971), le industrie del legno (da 1.478 ad
853), i mezzadri (da 3.034 a 2.000). Altre categorie rimangono stabili, in particolare nel
pubblico impiego, come i ferrovieri (da 2.418 a 2.404), gli autoferrotramvieri, gli statali, i dipendenti degli enti locali (che contano ciascuna poche centinaia di iscritti) ed i
braccianti (da 1.027 a 1.050). In termini più generali, vanno messi a confronto i 10.000
iscritti alla Cgil unitaria dell’inizio del 1947, con gli 8.205/9.070 del 1953/1955, quando
vengono rilevati per la prima volta i dati disaggregati della CdL di Pordenone, tenendo
però conto che i primi si riferiscono solo ad uno, anche se il più sindacalizzato, dei cinque mandamenti rilevati nel secondo dato.
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Archivio Storico Cgil nazionale, Ufficio organizzazione, Amministrazione tesseramento.
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Pordenone
La scissione comporta da quel momento un grave cambiamento del clima sindacale:
i picchettaggi con gli scontri fra sindacalisti della Cgil e quelli del Sindacati Liberi che
non aderiscono allo sciopero; la repressione generalizzata da parte delle autorità; una
forte reazione padronale che mette in discussione la rappresentatività delle Commissioni Interne. E nuove forme di lotta: dai brevi scioperi generali di solidarietà - che a
Pordenone permettono di far pesare la classe operaia cotoniera a favore delle aziende
minori - alla “non collaborazione”, forma di irrigidimento del mansionario produttivo che
viene svolta sul luogo di lavoro senza giungere allo sciopero (Il Lavoratore Friulano del
5 marzo 1949).
17. La disinvolta giovinezza della nuova industria manifatturiera.
Il sindacato pordenonese nel secondo dopoguerra deve affrontare la realtà di nuovi
settori industriali che, ancora allo stadio di gestazione, costituiranno la spina dorsale
dell’economia del territorio, tanto da riuscire nel decennio successivo (almeno sul piano
quantitativo) a riassorbire quasi senza scosse le migliaia di posti di lavoro distrutti nell’industria cotoniera. Si tratta di tre settori essenzialmente: l’industria metallurgica, che
si sviluppa attorno ad alcuni stabilimenti come la Safop, che produce macchine utensili,
la Savio, che produce macchine tessili e la Zanussi, che dalla produzione di cucine economiche si espanderà poi nei decenni successivi a tutta la gamma degli elettrodomestici di consumo e dell’elettronica, sostituendo i cotonifici nel ruolo di grande industria che
presiede alle principali dinamiche economiche ed occupazionali del territorio. Il settore
chimico vede l’affiancarsi alla antica fabbrica di stoviglie Galvani di nuovi stabilimenti
nel campo della ceramica sanitaria, in particolare la Ceramica Scala. Una nuova zona
industriale si forma a nord del centro di Pordenone, lungo la via Molinari che, dopo aver
delimitato l’antica proprietà Vaselli-Ottoboni, vede negli anni ‘40 allinearsi Zanussi, Savio, Safop e Scala, prima del decentramento del decennio successivo (debbo questa
osservazione, che esemplifica meglio di ogni altra considerazione l’individuazione di
questa “nuova classe operaia”, ad Antonio Zaramella). Inoltre il settore del legno, partendo dallo sviluppo della Zanette e di alcune aziende collocate a Sacile, vede l’espandersi della produzione in tutto il territorio al confine con il Trevigiano, con la costituzione
della “Zona del mobile”.
Questi settori, evolvendosi dall’artigianato, forniranno nuova occupazione - nella fase
del massimo sviluppo dei ‘50 e ‘60 - ad una manodopera di origine essenzialmente
agricola: per questo solo superficialmente si può parlare di una sostituzione dell’occupazione tessile con quella nei nuovi settori manifatturieri. In realtà la gran parte delle
lavoratrici cotoniere sarà semplicemente espulsa dai processi produttivi, mentre la nuova manodopera è generalmente priva di tradizioni sindacali e soggetta a forme di sfruttamento che solo con fatica verranno combattute dall’organizzazione sindacale. Fanno
eccezione alcune medie aziende che sviluppano produzioni fortemente specializzate,
dove la manodopera qualificata tende a mantenere una costante sindacalizzazione: la
Safop e, nel settore del legno fino agli anni ‘70 la Zanette.
E’ in questi settori che avviene il decollo economico del Friuli occidentale negli anni
‘50, in una situazione che colloca fino al 1970 i redditi della futura provincia al di sotto
di quelli nazionale e friulano. Il settore tessile, nonostante alcune conquiste della classe operaia pordenonese, è comunque quello a più basso reddito fra i salari industriali,
anche a causa della discriminazione salariale a scapito delle donne, ma evidentemente
non c’è un recupero grazie agli altri settori, neanche con le rimesse degli edili migranti.
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A ciò va aggiunta la perversione delle “gabbie salariali”, che permangono fino al 1969,
per cui i “mitici” edili friulani si trovano ad essere pagati meno di quelli giuliani e di quelli
di Milano, meta di massiccia emigrazione (L’Edile del dicembre 1968). Negli anni ‘50
inizia nel Friuli occidentale il grande balzo in avanti dell’industria, la cui percentuale
nella composizione del reddito complessivo schizza in dodici anni dal 28% al 39,7%,
superando nel 1963 la media nazionale. C’è però un dato che spiega come i valori complessivi continuino a basarsi su una condizione di sfruttamento della manodopera: in
quello stesso anno il reddito per abitante della futura provincia è ancora più basso della
media provinciale e nazionale, sintomo che - come nella fase di prevalenza del tessile
e dell’edile - i salari sono bassi, gli orari di lavoro sono lunghi ed i rapporti di lavoro
sono irregolari. Ed infatti il balzo del reddito oltre quelle soglie avviene solo nel 1970,
dopo anni di crescenti agitazioni sindacali: per questo motivo lo studio dell’organizzazione operaia nei settori manifatturieri che sostituiscono quelli tradizionali è importante,
per capire il contributo degli organizzatori sindacali che, negli anni bui successivi alla
Liberazione, hanno costruito le premesse di quel grande movimento che si colloca convenzionalmente nel 1968-1969 (Grandinetti 1979, 2° e 3° capitolo). Emersa dal mondo
dell’artigianato e delle professionalità operaie formatesi nei cotonifici (dove nasce la prima Fiom nel 1919, così come nel decennio precedente era successo alla Federazione
Edilizia) l’industria metallurgica ha iniziato la sua lunga incubazione ai primi del secolo,
e si è sviluppata in condizioni di minorità sotto il regime, sostituendo la mancanza di
infrastrutture con forme di sfruttamento della manodopera che continueranno anche nei
decenni successivi. Nel dopoguerra non si contano le riduzioni di orario, che vengono
fatte gravare dall’azienda sui lavoratori (assunti come stagionali) e sulle integrazioni
dell’Inps per quelli in organico: dal 1947 al 1950 le interruzioni avvengono più volte
l’anno e durano anche per mesi. Praticamente, l’azienda diminuisce significativamente
il costo del lavoro - quando non può licenziare - facendolo gravare sull’assistenza pubblica. Durante l’inverno, inoltre, l’azienda mantiene in servizio solo il personale minimo
per la manutenzione degli impianti, licenziando quello assunto a tempo determinato.
La situazione esplode nel 1949, quando in marzo la Zanussi licenzia 120 operai, pari
al 34% delle maestranze, senza avvertire la Commissione Interna, provvedimento che
produce lo stato di agitazione da parte della Cgil in tutte le fabbriche pordenonesi, senza però riuscire a risolvere la vertenza: la Zanussi procede quindi alla riassunzione di
operai, stipulando con questi contratti individuali in deroga al contratto collettivo, grazie
al sostegno degli scissionisti della Libera Cgil, che si trasformerà nella Cisl. L’anno dopo
la Zanussi ripropone 192 licenziamenti, pari al 24% dell’organico, ed a questo punto il
28 febbraio 1950 la fabbrica viene occupata dai 400 operai. Significativo l’espediente
per garantire una direzione alla lotta: gli operai fingono il sequestro del segretario della
CdL Emilio Fabretti, trascinandolo nello stabilimento. Dopo una trattativa durata l’intera
giornata, la proprietà è costretta ad assumere 93 operai e ad impegnarsi ad assumerne
successivamente altri 99 in accordo con i sindacati, abolendo inoltre lo straordinario per
facilitare al più presto il rientro. Si tratta di una clamorosa vittoria della Cgil, strappata
grazie al sostegno popolare all’occupazione ed al rifiuto di quasi tutti i 120 iscritti ai Sindacati Liberi di dissociarsi dalla lotta.
La vendetta, forse dovuta a Guido Zanussi, colpisce il 4 maggio Bruno Muzzin, giovane segretario della Fiom e capo della Commissione Interna, che viene licenziato per
aver affisso all’albo sindacale un manifesto della Federazione Sindacale Mondiale per il
1° Maggio. Nonostante le manifestazioni di solidarietà, che coinvolgono tutte le aziende
cittadine, Muzzin, in tempi in cui non esiste ancora l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, è costretto ad emigrare.
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Nel 1951 la Zanussi riduce nuovamente l’orario: a questo punto l’Inps mette in discussione i disinvolti metodi aziendali. Il 16 marzo la Commissione provinciale di Udine per la Cassa integrazione guadagni accoglie a maggioranza dei voti la richiesta
della Zanussi relativa alla totalità dei suoi 317 operai, lavoranti 24 ore settimanali dal
26 febbraio al 31 marzo a causa della “stasi temporanea di lavoro in attesa di nuove
commesse dalla clientela”, ma l’Inps ricorre, denunciando il fatto che le sospensioni dal
lavoro sono strutturali ed accertate fin dal 1947. Analogo provvedimento e motivazioni
riguardano la Società p.a. Industria Cucine “Nova” di Porcia, satellite della Zanussi, che
riduce l’orario a 24 ore lavorative settimanali per i 37 operai. Il ricorso dell’Inps viene
portato al Comitato Speciale dell’Integrazione di Roma, dove avviene un fatto curioso:
solo i rappresentanti della Cgil sostengono la linea della Zanussi, che però viene respinta. Non i Sindacati Liberi, non la Confindustria sostengono l’azienda, ma il sindacato
antagonista che - dopo aver strappato il primo accordo per stabilizzare il personale,
superando la precarietà diffusa - si assume il compito di aiutare l’azienda a far quadrare
il bilancio. Un atteggiamento responsabile, che smentisce i facili luoghi comuni sulla
Cgil massimalista.
Unica via rimasta, consigliata dalla segreteria della Cgil alla CdL, è quella del ricorso
al Ministero del Lavoro. Cosa che la Zanussi fa il 13 luglio, sostenuta anche questa
volta dalla Cgil. Come dichiara una lettera del segretario Fabretti, in febbraio e marzo
di ogni anno la Ditta riduce il ritmo di produzione (si afferma che ciò avviene per un
rallentamento nelle vendite, ma noi pensiamo che lo facciano anche per non trovarsi,
all’inizio della nuova stagione, con i magazzini pieni di cucine di tipo superato), licenziando temporaneamente una parte del personale e facendo lavorare il resto a ritmo
ridotto. Questa consuetudine ha sempre dato origine ad azioni decise da parte nostra;
azioni che hanno permesso di ridurre al minimo i licenziamenti temporanei e le sospensioni. Quest’anno l’azienda, in data 15 gennaio, aveva licenziato soltanto una ventina di
operai e tutti gli altri lavoravano ad orario ridotto, ma la crisi, contrariamente ad ogni previsione si è prolungata fin verso la metà del mese scorso e solo attualmente sembra ci
sia una fase di faticosa ripresa. Ma il ricorso, nonostante il riconfermato sostegno della
Cgil, nulla può di fronte al fatto che Inps ed Ispettorato del Lavoro riescono facilmente a
dimostrare come la Zanussi abbia strutturalmente abusato dell’istituto dell’integrazione
salariale. Alla Cgil nazionale non rimane che consigliare alla CdL di ricorrere alla via della contrattazione sindacale nei confronti dell’azienda, in quanto è chiaramente precluso,
da oggi, ogni ricorso alla Cassa Integrazione alle maestranze della Ditta Zanussi per
il periodo febbraio-maggio (Cgil naz. 9, 1952, b. 13, f. 262; Lotta e lavoro del 13 marzo
1949 e numeri seguenti; l’Unità dal 20 gennaio al 6 maggio 1950; testimonianze di Mario Bettoli ed Antonio Zaramella; DEGAN 1981, pag. 180; DEL GIUDICE 2003).
Se questa è la situazione di quella che di lì a poco diventerà la seconda industria privata italiana, osserviamo le dinamiche di una media azienda ad alta specializzazione.
All’inizio del 1946 la Cgil pone alle autorità il problema della gestione della Safop, una
industria che produce macchine utensili, ed in particolare torni, di proprietà della famiglia Coran. Gli operai sono in agitazione da mesi per ottenere la regolare corresponsione delle retribuzioni. In un incontro con la Prefettura e l’Associazione Industriali, il
segretario della CdL Gasparotto ed i delegati della Commissione Interna Corrado Burin
e Luigi De Marchi accusano l’azienda di stare spostando gli investimenti dallo stabilimento pordenonese a quello di Milano. I Coran perseverano con il loro comportamento:
all’inizio di marzo, dopo un mese di mancata retribuzione, gli operai sono costretti a
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Archivio Storico Cgil nazionale.
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cinque giorni consecutivi di sciopero, dopo i quali il viceprefetto conte di Varmo giunge
alla conclusione, d’accordo con il sindacato, di commissariare l’azienda. L’amministratore Antonio Coran è costretto a versare un anticipo delle retribuzioni dopo che, oltre
a di Varmo, interviene duramente a sostegno delle ragioni degli operai un maggiore
dei carabinieri. Infine l’azienda è dichiarata fallita e si arriva alla chiusura l’11 maggio,
lasciando senza lavoro duecento operai. La CdL è costretta a richiederne l’assunzione
alle altre aziende della zona.
La Safop riapre in esercizio provvisorio dopo qualche settimana, assorbendo alcune decine di operai: la ripresa della produzione giunge al punto che la CdL riesce ad
ottenere dalla curatela miglioramenti salariali per tutti gli operai, il riconoscimento dei
passaggi di qualifica per gli specializzati e l’impegno a nuove assunzioni. L’esempio dei
lavoratori e del sindacato alla Safop diventa il punto di riferimento della categoria dei
metalmeccanici. Nella primavera del 1947 gli operai scendono nuovamente in sciopero,
per richiedere di essere coinvolti nello scioglimento della vicenda relativa alla proprietà
della loro azienda. Si profila l’acquisto da parte di una società costituita dagli impiegati
ed equiparati del Cotonificio Veneziano, i quali hanno ottenuto una consistente indennità (i cosiddetti “milioni del Veneziano”: DEGAN 1981, pagg. 176-177) per il servizio
prestato in gravose condizioni durante la guerra. Gli operai propongono agli impiegatiinvestitori (fra i quali spicca Seroppi, rappresentante degli equiparati nella Fiot ed esponente della Corrente Sindacale Cristiana rimasta nella Cgil) di riunirsi in un’assemblea
comune: si tratta del primo tentativo - successivamente sarà richiesta la costituzione
del Consiglio di Gestione - di entrare nella direzione dell’impresa, istanze frustrate a
dispetto del ruolo centrale giocato dalle maestranze nel salvataggio di questa azienda
da sempre roccaforte della Fiom (uscirà da qui Luigi Brait, il segretario generale che
guiderà la categoria durante l’autunno caldo).
In realtà il cambio gestionale, affidato all’ing. Herliker ed al consigliere delegato Bonacina, non risolve del tutto i problemi, e si arriva nel gennaio 1950 alla richiesta di
licenziamento di 107 operai, che viene respinta ottenendo una riduzione di orario con
integrazione salariale e l’avvio a corsi di formazione per 35 operai. Ma, nonostante le
commesse, che permettono di riassorbire in poco tempo la manodopera e di impegnarla anche con straordinari, l’azienda non paga, e il 1950 passa con continue agitazioni a
singhiozzo per ottenere la corresponsione dei salari. Si ipotizza che i maggiori azionisti
(fra i quali si contano Bonacina, Bonacini e Savio) vogliano, agitando lo spettro del fallimento, spingere i piccoli azionisti a vendere le loro azioni, per controllare l’azienda ed
ottenere ricche commesse governative per l’industria bellica. L’accordo interviene alfine
il 24 gennaio 1951, dopo 55 giorni di vertenza, grazie alla decisione dei lavoratori e della
CdL che, di fronte alla solida realtà di mercato della Safop decidono di continuare a lavorare fino al 30 aprile prima di ottenere il saldo del salario. L’iniziativa viene sostenuta
da sottoscrizioni nelle altre fabbriche e dal ricorso al credito da parte dei commercianti
Mentre si svolge la vertenza, il direttore mette alle strette gli operai, costringendone
molti all’emigrazione: grazie alla presenza in città di rappresentanti delle industrie meccanotessili svizzere, è facile per gli specializzati trovare vantaggiosi ingaggi, come succederà pure al presidente della Commissione Interna della Savio, Pagnonsin. Si otterrà
un risultato paradossale: la carenza di manodopera professionalizzata, che costringerà
Bonacina, rappresentante la proprietà della Safop, a chiedere al sindacato di far rientrare gli operai allontanati (Lotta e lavoro del 13 febbraio ed 8 dicembre 1946; Libertà del
13 e 16 marzo, 9 giugno, 11 agosto 1946 e 25 maggio 1947; l’Unità dal 7 gennaio 1950
al 24 gennaio 1951; VIDAL 2000; testimonianza di Mario Bettoli).
Condizioni peggiori infine alla Ceramica Scala, azienda diretta da Giulio Locatelli,
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I blocchi al Cotonificio Veneto - archivio Cgil nazionale
1° maggio a Pordenone, metà anni Cinquanta - archivio Cgil nazionale
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nipote del pioniere dell’industria cotoniera. Le radici di questa industria che produce sanitari, pure destinata ad un grande sviluppo, nascono dalla lunga tradizione della ceramica locale ma, a differenza dell’alta professionalità operaia e del consolidato paternalismo illuminato dei Galvani, la condizione della Scala è, e sarà per decenni, quella di uno
stabilimento dove la gestione del personale è proverbiale per la sua scorrettezza: non si
rispetta il salario minimo contrattuale, l’indennità di contingenza, i diritti delle lavoratrici
gestanti vigenti in provincia di Treviso, il cui contratto locale è stato scelto unilateralmente perché più basso delle retribuzioni nazionali (Lotta e lavoro del 30 novembre 1947).
Si tratta di una metodica particolarmente diffusa: precariato, bassi salari e lavoro nero
costituiscono le basi per lo sviluppo di una delle province più industriali dell’Italia moderna. Il lavoro del sindacato cambia completamente la sua natura, deve abbandonare la
dimensione aggregata della grande azienda, ponendosi il problema del rapporto con il
territorio, come facevano un tempo gli organizzatori dei contadini e degli edili. Un lavoro
difficile: il decentramento territoriale della piccola e media azienda della “terza Italia” che
nasce sembra fatto apposta per creare ostacoli all’organizzazione di classe.
18. Il sogno di una cosa. Lotte agrarie e scioperi
a rovescio nell’era del Piano del lavoro.
Il movimento sindacale non si limita alle fabbriche cittadine, ma si estende con forza
nelle campagne, iniziando con la vertenza per il patto colonico. Il movimento contadino
che inizia nel 1947 unisce i mezzadri agli affittuari ed ai braccianti disoccupati, con una
piattaforma basata sulle rivendicazioni contrattuali (l’applicazione del “lodo De Gasperi”
sull’aumento della ripartizione dei prodotti per i mezzadri dal 50 al 53%, più un 4% della
parte padronale da destinarsi a lavori di miglioria fondiaria da effettuarsi con l’assunzione di disoccupati; la proroga degli affitti, le indennità di disoccupazione) e sull’imponibile
di manodopera a carico degli agrari, per realizzare lavori di miglioramento fondiario e
di bonifica. Movimento che si legherà ad esperienze cooperativistiche, anche di durata
temporanea, come la Scapt nel settore meccanico e dei trasporti, e quella che occupa
dal 1945 un migliaio di sanvitesi e casarsesi nella raccolta del “quadro”, una pianta
spontanea usata per la costruzione di spazzole, che avviene in un territorio esteso a
tutte le aree golenali del Friuli centrale, fin quando c’è disponibilità del prodotto.
Come nel precedente dopoguerra, sono interessate dal movimento contadino le aree
umide del sud del Friuli, come la Bassa a sinistra del Tagliamento, il Portogruarese (Ve)
ed il Sanvitese sulla destra. Qui il movimento si sviluppa sotto la guida di un giovane ex
comandante partigiano di formazione cattolica, inizialmente socialista e poi comunista:
Angelo Galante, detto Ciliti, segretario della CdL mandamentale dal 1946 al 1948. Angelo Galante è stato il più prestigioso leader espresso dalle lotte agrarie dei contadini
friulani nel secondo dopoguerra: il più amato ed il più seguito (ARGENTON 1989).
Di fronte al boicottaggio del “lodo De Gasperi” da parte degli agrari (ancora alla metà
degli anni ‘50 i mezzadri dei conti Zoppola percepiranno solo il 50% del prodotto, in violazione delle norme contrattuali: testimonianza di Fortunato Vendrame), la Federmezzadri organizza i contadini per iniziare direttamente la divisione dei prodotti secondo le
nuove norme. I contadini hanno il timor panico delle disdette, che possono provocare a
San Martino la cacciata arbitraria dell’intera famiglia dal podere, magari perché il numero dei componenti è sceso sotto le 25 unità, perché i figli del mezzadro hanno scelto un
altro lavoro senza il permesso dell’agrario.... ma la generazione cresciuta nella Resistenza non accetta più di vivere senza certezze e denaro, senza scuole e futuro, in case
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fatiscenti mentre gli agrari ristrutturano le stalle per le bestie. Il lavoro di organizzazione
si svolge girando di nascosto per le case con il buio, convincendo le famiglie una per
una, scegliendo i più decisi a tentare la via della lotta. Per capire il clima, basti dire che
fra i paranoici rapporti di polizia conservati presso l’Archivio di Stato di Udine ce n’è uno
che assicura che nel Sanvitese si aggira una numerosa banda di partigiani jugoslavi,
guidati dal mansueto vicesindaco comunista prof. Augusto Culos.
La lotta, durissima, si sviluppa con varie forme: dal blocco del conferimento dei prodotti agli agrari all’azione diretta, che soprattutto nel Sanvitese vede (usando i metodi
piuttosto duri utilizzati più di vent’anni prima dalle leghe bianche) l’invasione consecutiva delle proprietà degli agrari e l’imposizione degli accordi azienda per azienda. L’azione scatta il 28-29 gennaio 1948, con migliaia di contadini e disoccupati che occupano
San Vito. Questo comporta una fortissima repressione da parte della polizia, che a San
Vito al Tagliamento ed a Cordovado (raggiunta in bicicletta, dopo aver chiesto in prestito tutti i mezzi disponibili a San Vito) aggredisce con reparti celeri i manifestanti, che
però resistono alle bastonate, ed anche le restituiscono, organizzati come sono da un
servizio d’ordine di ex partigiani. Battaglia corale di un intera comunità, che viene resa
con grande carica evocativa dalla prima fatica letteraria di Pier Paolo Pasolini, Il sogno
di una cosa, che di Galante diventa amico ed estimatore. In risposta alle aggressioni
poliziesche il Sanvitese si ferma completamente per uno sciopero generale il 30 gennaio 1948, che vede la partecipazione di 4.000 manifestanti. Contrario ad ogni forma di
indisciplina che possa danneggiare il movimento, Galante fa restituire ai proprietari tutti
i beni sottratti durante l’invasione di palazzo Rota.
Dopo 15 giorni di presidio, gli agrari cedono. Si ottiene l’assunzione di 300 disoccupati
nelle aziende agricole, che in parte saranno poi licenziati la settimana successiva alla
vittoria democristiana del 18 aprile. Il 17 novembre 1948, Angelo Galante viene arrestato. La sua persecuzione provoca un vasto movimento di protesta, con manifestazioni e
lo sciopero generale in tutta la provincia, agitazione che dura fino alla liberazione dopo
45 giorni di carcere. Diventato segretario della Federmezzadri provinciale dal 1948 al
1952, Galante è il principale organizzatore di nuove agitazioni per imporre agli agrari
l’assunzione di braccianti disoccupati, che culminano nel gennaio 1950 in manifestazioni a San Vito al Tagliamento (una fiaccolata notturna con la partecipazione di migliaia di
persone, dopo la quale si ottengono altre centinaia di nuovi posti di lavoro nella lavorazione stagionale del tabacco, in lavori di miglioria agraria e nella nuova ferriera Silfer)
e nell’epico “sciopero a rovescio” del Cormor nella Bassa friulana (Lotta e lavoro del 2
marzo 1947; ARGENTON 1989; VIDAL 1991, VIDAL e MARIUZ 1999).
Ci sono poi altri punti di forza della iniziativa sindacale della Confederterra nell’area
irrigua del Friuli occidentale : come Sacile (Libertà del 19 gennaio 1947) e Fiume Veneto,
dove il capolega della Federmezzadri Giuseppe Tondat viene multato dai carabinieri per
sobillazione degli animi dei mezzadri locali con grave pericolo per l’ordine pubblico, per
aver organizzato il 14 novembre 1948 una pubblica assemblea sindacale della categoria
(Il Lavoratore Friulano del 5 febbraio 1949). Le agitazioni tendono tutte a trasformarsi in
scioperi a rovescio: così avviene a Sacile e a Fiume Veneto (l’Unità del 24 febbraio, 2 e
25 marzo e seguenti e 7 aprile 1950). Tutte queste manifestazioni si trasformano in battaglie campali a causa della repressione della onnipresente Celere, che inizia la lunga
serie di massacri di manifestanti operai e contadini in tutt’Italia, e si accompagnano ad
agitazioni industriali contro i licenziamenti ed alla generalizzata persecuzione scatenata
contro i comandanti partigiani, cui vengono imputati episodi connessi alle vicende belliche. Siamo nell’epoca in cui la Cgil dà il via al “Piano del lavoro”, un ambizioso progetto
di programmazione dal basso delle necessità occupazionali dei lavoratori e delle possi71
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bilità produttive del sistema economico italiano, che impegna a lungo tutta la struttura
sindacale per elaborare indicazioni articolate per settore e per area. In quest’ambito, gli
scioperi a rovescio riprendono la pratica dei lavori autogestiti del primo dopoguerra, pur
assumendo un carattere maggiormente spontaneo: forse la differenza principale è la
mancanza di un diffuso tessuto di cooperative di lavoro che sedimentino professionalità
e progetti, ma non va scordato che proprio la cooperazione è uno degli obiettivi della
politica repressiva del ministro di polizia democristiano Mario Scelba.
Le realizzazioni sono ambiziose: se nella Bassa si inizia la costruzione di canali di
bonifica, a Caneva si realizza la strada per il Cansiglio che sale da Sarone, primo elemento di una serie di interventi di bonifica e lavori pubblici in questi paesi di emigranti a
monte di Sacile. Il 15 maggio 195 disoccupati di Caneva, Sarone, Fiaschetti e Polcenigo, in buona parte ex partigiani organizzati dalla CdL di Sacile e diretti da Galdino Soranzo, iniziano i lavori della strada, che può assumere funzioni di potenziamento della
coltivazione forestale e della zootecnia dell’altipiano. Dopo alcuni giorni altri disoccupati
avviano i lavori di bonifica delle paludi di Caneva, ma ad una settimana dall’inizio dello
sciopero a rovescio la polizia circonda i paesi per impedire che i lavoratori salgano nei
boschi, arrestandone 12. La comunità, compresi il parroco don Erminio Lorenzet e la
piccola borghesia di Sarone, si stringe attorno ai manifestanti, che riprendono la loro
attività. Sono imitati a pochi chilometri di distanza da 120 operai che riprendono illegalmente i lavori di costruzione della strada che da Dardago e da Pedemonte sale al Piancavallo, appoggiati dalla CdL e dai loro sindaci. Ormai tutta la Pedemontana occidentale
è in lotta: al decimo giorno la polizia abbandona la zona (mentre nel Cormor continuano
gli attacchi agli scioperanti), anche se successivamente cercherà di allontanare Soranzo. La Prefettura concede 110 posti per quattro mesi in cantieri scuola per disoccupati.
A Sacile i 200 operai dell’industria del mobile Lacchin di Sacile sottoscrivono un’ora di
lavoro a favore dei manifestanti, che continuano la loro attività.
Il 10 giugno la questione arriva in Parlamento, mentre si annuncia l’inizio dello sciopero a rovescio a Vittorio Veneto, sul versante trevigiano del Cansiglio. Il 13 giugno
giunge l’accordo che risolve la vertenza. La Forestale assume un centinaio di operai,
regolarmente stipendiati, per completare la realizzazione della strada; verranno pagati
gli arretrati per i 25 giorni di sciopero a rovescio. Altri 80 vengono assunti in altri corsi
di formazione, in un cantiere di forestazione a Polcenigo ed in lavori di canalizzazione
e bonifica. Non mancherà la vendetta poliziesca, con cento imputazioni verso gli scioperanti ed una multa per cinque saronesi che avevano raccolto generi alimentari per
sostenerli.
La vittoria del Cansiglio galvanizza i paesi circostanti, ed induce il 10 giugno 40 dei 77
operai licenziati a riprendere i lavori della strada per il Piancavallo. Anche nei loro confronti iniziano, dopo due settimane di lotta, le intimidazioni dei carabinieri. Il 3 luglio tutte
le attività di Aviano e Budoia sono interrotte da uno sciopero generale a loro sostegno.
Il giorno dopo inizia lo sciopero a rovescio a Vittorio Veneto, con 200 disoccupati che
costruiscono una strada dal capoluogo alla frazione di Vizza, e che vede anche in questo caso i manifestanti proseguire per settimane la loro attività. Anche se dal punto di
vista economico tutte queste iniziative si esauriranno insieme con i fondi stanziati (che
Zamparo, il direttore dell’Ufficio Provinciale del Lavoro di Udine, sospende già durante
l’estate) e non rimarrà che l’antica via dell’emigrazione, il movimento non si rassegna e,
ancora nel gennaio 1951, ottiene nuovi stanziamenti per la primavera successiva, per
opere di rimboschimento, corsi di formazione per scalpellini e la realizzazione, da parte
del Cotonificio Veneziano, del canale del Longon e la bonifica del Palù. (l’Unità dal 9
aprile 1950 all’11 gennaio 1951).
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19. Anni di piombo. Lo sciopero del Cotonificio Cantoni del 1950.
Crisi e ristrutturazione nelle coltellerie di Maniago.
La politica autoritaria dei governi centristi, con il divieto delle manifestazioni pubbliche, la censura sui manifesti, i continui interventi polizieschi, si salda con una ristrutturazione dell’apparato produttivo che viene scaricata sulle masse lavoratrici. Il “miracolo
italiano” viene preparato con l’espulsione dei contadini dalle campagne, i licenziamenti
di massa, il sistematico utilizzo delle maestranze industriali ad orario ridotto, l’emigrazione. La Cgil organizza continuamente scioperi politici (soprattutto contro gli eccidi
polizieschi) che si saldano con lunghe agitazioni articolate negli stabilimenti e gli scioperi a rovescio. La Lcgil boicotta gli scioperi politici e spesso, come alla Zanussi, anche
quelli aziendali, assumendosi la responsabilità di sostenere un governo che pratica la
violenza sistematica contro le lotte sindacali.
Facciamo la cronaca di un solo anno di scioperi politici. 11 gennaio 1950: lo sciopero
pomeridiano di due ore per protesta contro l’uccisione di 6 operai a Modena, con manifestazioni a Pordenone (dove aderiscono i commercianti), San Vito e Sacile; la lotta
si salda con la vertenza Safop. 15 marzo: si sciopera tutto il giorno contro il ferimento a
morte di 2 operai alla Breda di Marghera, con manifestazioni di operai e contadini in vari
centri . Le migliaia di manifestanti pordenonesi assediano la Zanussi, dove lavorano 80
dei 300 operai, costringendo direzione e polizia a farli uscire. 23 marzo: sciopero generale contro l’uccisione di 2 braccianti a Lentella in Abruzzo. Il corteo si dirige alla Savio
per fare uscire i crumiri: vari manifestanti, fra i quali il segretario del Pci Scaini sono picchiati dalla polizia. Si denuncia come i dirigenti della Lcgil abbiano chiamato la polizia;
altri cortei percorrono Pordenone, dove cinema e negozi rimangono chiusi. 3 maggio:
mezz’ora di sciopero nazionale per i 2 morti di Celano, in Abruzzo, con assemblee nelle
fabbriche. 5 luglio: sciopero generale a sostegno della vertenza contrattuale dei tessili e
per la riassunzione di Bruno Muzzin: nonostante il boicottaggio della Cisl, sciopera per
tutta la giornata il 90% degli operai della Zanussi. 17 gennaio 1951: sciopero generale
contro la visita di Eisenhower: il Cotonificio Veneziano proclama la serrata del turno di
pomeriggio per rappresaglia; il giorno dopo la Fiot risponde con lo sciopero degli stabilimenti e la richiesta del pagamento della giornata precedente (l’Unità dell’11 gennaio,
15, 16 e 24 marzo e 4 maggio 1950 e 18 e 19 gennaio 1951).
La conflittualità politica si salda con quella aziendale: un caso significativo è quello del
Cotonificio Cantoni, che nello stesso anno è in agitazione continua, a causa dei dirigenti
Triulzi e Berner che cercano di imporre pesanti aumenti dei carichi di lavoro alle operaie
senza rispettare il dettato del Ccnl10 che assegna la decisione ad una Commissione
tecnica paritetica presieduta dall’Ispettorato del lavoro. Il 18 marzo 1950 si svolge una
manifestazione di fronte al Cotonificio presidiato dalla polizia, per protestare contro il
fatto che la direzione abbia fatto recuperare la giornata di lavoro alle crumire espulse
dalle scioperanti dallo stabilimento durante lo sciopero generale del 15. Dal 29 marzo
scioperi articolati contro 25 licenziamenti al turno di notte (dove gli operai continuano a
presentarsi al lavoro), il raddoppio delle macchine assegnate alle operaie del reparto
rings e le multe inflitte alle operaie del reparto banchi, dove la produzione è rovinata
dalla cattiva qualità del prodotto utilizzato. l’8 aprile Fabretti e Bresin ottengono la restituzione delle multe, il recupero delle ore di sciopero ed il passaggio temporaneo ad
imprese edili dei 25 operai, senza licenziamento. Dal 12 luglio sciopero ai reparti banchi
(contro le multe che sono riprese) e binatura, contro l’aumento da 20 a 25 delle rocche
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Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
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assegnate alle operaie. Il 17 luglio Triulzi, Berner ed alcuni capi operai tentano di forzare la situazione, premendo sulle operaie con violenze fisiche e verbali. Varie operaie
sono colte da malore, ma non cedono alla provocazione. Dopo il licenziamento di 5 di
loro, scoppia lo sciopero dello stabilimento. Il 20 lo sciopero di solidarietà si allarga al
Cotonificio Veneziano; al Cantoni lo sciopero continua in forma articolata. Nel frattempo
è rinnovata la Commissione Interna: 77,98% dei 1098 operai votano per la Cgil, 22,02%
per la Cisl. Viene raggiunto l’accordo il 26 - dopo 13 giorni di lotta - con il ritiro dei licenziamenti, la convocazione della Commissione paritetica per la binatura e la corresponsione di vari elementi salariali aggiuntivi.
In quel periodo il Cantoni lavora ad orari ridottissimi: in luglio a 12 ore settimanali,
tanto che lo stabilimento è esentato dallo sciopero generale per il rinnovo del CCNL.
Ma in aprile e settembre l’azienda per rappresaglia toglie agli scioperanti l’integrazione
salariale pubblica. Il 9 novembre inizia una lunghissima agitazione articolata al reparto
rings, dove sono introdotte nuove macchine che comportano il raddoppio, da 3 a 6,
dei lati macchina assegnati a 24 operaie. Dopo 5 ore di sperimentazione, rivelandosi
impossibile lavorare, in mezzo ad una nuvola di polvere, le operaie sospendono la produzione. La direzione chiude questa parte del reparto e le sospende, facendo scoppiare
lo sciopero, che prosegue ad intermmittenza. Dopo un accordo con la Fiot per la convocazione della Commissione paritetica, questa il 25 non si può riunire perché la Cisl
non invia il suo tecnico, assumendosi la responsabilità di bloccare la soluzione della
vertenza. Il 27 ed il 28 la direzione tenta la forzatura, facendo bloccare l’ingresso alle 24
operaie dai carabinieri. Ma, ad ogni turno, le maestranze escono in massa e riportano
dentro le compagne. Il giorno dopo, di fronte allo sciopero di 10 minuti ogni ora di tutto
lo stabilimento, l’azienda sospende la produzione: la risposta di Cordenons è la costituzione di un Comitato di solidarietà, che alla fine dei 48 giorni di vertenza avrà raccolto
più di 123.000 lire fra i cittadini, e circa 80.000 fra gli operai del Cantoni. Il 5 dicembre in
Prefettura viene raggiunto un accordo parziale per il rientro delle 24 operaie sospese;
ma, dopo il parere della Commissione paritetica che conferma i 6 lati-macchina, l’agitazione riprende, verificata l’impossibilità tecnica di andare oltre i 4, pur con l’impiego
di operaie aiutanti(l’Unità dal 19 marzo al 23 dicembre 1950; Cgil naz., b. 22, f. 337;
VIDAL, Gli anni del “Makò”) .
Come nel caso della Zanussi, anche in quello del Cantoni si può evidenziare un doppio
livello, nel quale la conflittualità più radicale si salda con interventi di sostegno all’azienda, quando siano di comune interesse. Due anni dopo il Cotonificio Cantoni presenta per
l’ennesima volta domanda di integrazione salariale, rilevando come l’Inps non intenda
più accordarla dal mese di ottobre, quando per la stagione e la non concomitanza di altre
favorevoli condizioni si fa sentire maggiormente il disagio del poco lavoro della maestranza, tra la quale possono nascere reazioni non desiderabili alle superiori Autorità. La CdL
di Pordenone si accorda con il vicesegretario nazionale Federico Rossi, per una verifica
dell’istanza dell’azienda, al fine di eventualmente correggerla prima della discussione in
sede di Commissione centrale per l’integrazione (Cgil naz., 1952, b. 13, f. 262).
Un’altra lotta sindacale significativa è quella che si svolge nelle coltellerie di Maniago,
per contrastare la gestione padronale della crisi del settore. Invece di percorrre la via
della costruzione di una struttura consortile per commercializzare il prodotto, le aziende
industriali scelgono quella del licenziamento in massa degli operai, per trasformarli in
terzisti. La lotta contro i licenziamenti coinvolge le industrie Coricama, Mazzoli Chiasais,
Nanutti Beltrame e Farm Cellini e riceve il sostegno dei 400 artigiani locali, che vedono
con preoccupazione il tentativo degli industriali di far loro ribassare le tariffe, mettendoli
in concorrenza con i licenziati (l’Unità dal 16 aprile 1950 al 17 febbraio 1951).
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20. La grande battaglia per salvare il Cotonificio Veneziano del 1954.
Prime prove di unità sindacale.
La crisi generale del settore tessile degli anni ’50 è oggetto di articolate proposte della
Fiot a partire dal Piano del lavoro, che vengono riprese anche dal giornalista de l’Unità
Lino Zecchiero, a proposito delle arretrate condizioni della Filatura di Torre: è necessario diminuire lo spreco di risorse umane con il risanamento ambientale (si lavora in
condizioni igieniche terribili, si diffonde la pleurite, l’assenteismo per malattia raggiunge
il 12-16%), investire per sostituire il macchinario obsoleto, aprire al mercato dell’Europa
orientale (bloccato per ragioni politiche) ed a quello interno, aumentando i redditi dei
lavoratori perché possano acquistare prodotti. Nell’autunno 1952 la Snia pretende di
imporre l’aumento a 20 telai alla Tessitura di Rorai, provocando una lunga agitazione
che porta allo sciopero generale il 13 novembre. In questa occasione si rileva un fatto
nuovo: lo sciopero è proclamato unitariamente da Cgil e Cisl.
Nel gennaio 1953 il dr. Morpurgo, direttore generale del Cotonificio Veneziano, comunica alle Commissioni Interne dei cotonifici di Pordenone la scelta di ristrutturare
riducendo la manodopera. In marzo inizia l’agitazione a Torre, dove si lavora solo 32 ore
settimanali e la direzione spinge per aumentare i carichi di lavoro ed espellere numerose lavoratrici. L’agitazione sindacale si salda con gli scioperi politici per battere la leggetruffa voluta dalla Dc per le elezioni politiche del 7 giugno: la Snia tenta di ridurre gli spazi di partecipazione agli operai con multe e diffide contro gli attivisti sindacali: vengono
sospesi Luigi Piccinin e Luigi Furlan della Fiot ed Antonio Basso della Federtessili-Cisl.
L’ 8 settembre scoppia la vertenza per difendere l’occupazione al Cotonificio Veneziano di Santa Marta a Venezia. Guidate da Cgil, Cisl ed Uil, le 530 operaie rifiutano le
minacce di riduzione dell’orario di lavoro a 24 ore occupando lo stabilimento. Attorno a
loro si stringe tutta la città: l’11 settembre si svolge uno sciopero generale che coinvolge
20.000 lavoratori. Dopo un mese di lotta, si arriva all’accordo il 9 ottobre, prevedendo
il rientro al lavoro a 24 ore settimanali più l’integrazione salariale. Pochi giorni dopo, in
occasione dello sciopero nazionale dei tessili per il contratto e contro i licenziamenti, a
Pordenone Fiot e Federtessili pubblicano un manifesto unitario. Nei giorni successivi
si tiene anche una conferenza unitaria alla Sala Astoria di Pordenone, dove parlano i
segretari della Cgil Galante e Fornasir e quello della Cisl Bruno Giust, nell’ambito della
vertenza nazionale per il conglobamento, che punta ad unificare i singoli istituti contrattuali: vertenza che per altro si concluderà nel 1954 con una firma separata da parte di
Cisl ed Uil (l’Unità dal 17 ottobre al 12 novembre 1952 e dall’8-9 gennaio al 15 settembre 1953; DEGAN 1981, pagg. 183-184; testimonianza di Luigi Vidal).
Il 4 gennaio 1954 una eccezionale nevicata (e la colposa imperizia dei progettisti e
costruttori) provoca il crollo della Tessitura di Rorai, l’unico stabilimento dove la Snia abbia investito nel rinnovamento tecnologico. Si inizia una fase di agitazione, nella quale
l’azienda annuncia che non intende ricostruire Rorai, dove si sono persi centinaia di posti di lavoro, e nega l’agibilità politica ai componenti della Commissione Interna di Torre.
Vengono sospesi Vittorio Del Ben (Micèl), Giovanni Magri ed Alma Da Corte, che poi
sarà licenziata. L’11 agosto, approfittando della chiusura di Ferragosto, la Snia recapita
3.000 lettere di sospensione agli operai di Pordenone, Torre e Fiume Veneto: l’obiettivo
è lo smantellamento del complesso cotoniero ed il licenziamento della maggioranza dei
lavoratori. Si apre una grande e difficile vertenza, che vede l’occupazione degli stabilimenti; la vertenza viene condotta unitariamente da Cgil e Cisl, cui nell’ultima fase si
aggiunge la Uil, e da un Comitato cittadino che vede la presenza delle amministrazioni
pubbliche, delle forze politiche, sociali e religiose. Si organizza la solidarietà della città,
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
che da un secolo trae vita dall’industria cotoniera, e di tutta la provincia. Manifestazioni
si svolgono a Pordenone e, in bicicletta, nei maggiori centri del Friuli ed a Vittorio Veneto, dove viene posto simbolicamente l’assedio alla villa di Marinotti, padrone della Snia.
Alle manifestazioni danno il loro contributo i mezzadri, diventati un punto di forza della
Cgil nel territorio. La stampa dà uno spazio eccezionale alla vertenza: in quella sindacale e della sinistra, l’attenzione riservata alla lotta del Veneziano di Pordenone non ha
confronti, forse solo con la Zanussi di qualche decennio dopo. Per la prima volta, in un
opuscolo della Cgil nazionale appaiono le prese di posizione di don Lozer e del parroco
del duomo di Pordenone, mons. Peressutti. Contro le manifestazioni si accaniscono le
forze dell’ordine, in ripetute battaglie di strada che culminano in un tentativo di invasione
della CdL respinto dai sindacalisti. Operai ed operaie vengono feriti gravemente: Ester
Porracin rimane in ospedale oltre un mese, mentre sono arrestati il sindacalista Vittorio
Orenti, Capi Zago (fratello di Iole, nota attivista della Fiot) e Lina Gasparotto, che porta
con sè la figlia di solo 20 mesi.
Per la Cgil nazionale la vertenza del Cotonificio Veneziano fa parte della più grande
lotta contro i monopoli e per la loro nazionalizzazione, ed in tal senso viene anche
elaborata una proposta di legge, per altro non recepita dal Pci. La vertenza si estende
al gruppo Snia, ma le Commissioni Interne non riescono ad organizzare uno sciopero
generale del gruppo, per la debolezza negli altri stabilimenti. Iniziative sono comunque
organizzate, con volantinaggi e petizioni, negli stabilimenti tessili vicentini e nel vittoriese. Ma, nonostante l’unità delle organizzazioni sindacali, si manifesta una differente
scelta sull’esito della vertenza, con Cisl e Uil che decidono di accettare la mediazione
governativa, invece di insistere sul rifiuto dei licenziamenti e la definizione di un percorso di formazione ed ammortizzatori sociali. La Cgil tuttavia decide di non rompere con
le altre confederazioni, per non indebolire la lotta: la conclusione avviene l’11 dicembre, con la riduzione del numero dei licenziati: 790 invece dei 1.500 richiesti, con un
incentivo extracontrattuale di 100.000 lire. 1154 lavoratori vengono riassorbiti subito,
e 250 sono avviati a corsi di formazione in attesa di una riassunzione. L’accordo però
viene gestito dalla Snia in modo brutalmente discriminatorio, riuscendo ad allontanare
gli attivisti della Fiot, al punto che – alle successive elezioni per la Commissione Interna
di Torre, dove si è concentrata la maggiore riduzione di organico - dei vecchi delegati
della Fiot potrà essere ricandidato il solo Micèl Del Ben. L’azienda allontana, con il falso
pretesto di azioni giudiziarie in corso, Enzo Falomo, Leda Perissinotti e Giovanni Magri,
membri della C.I. della Filatura di Torre e Luigi Piccinin ed Oreste Truccolo della Filatura
di Pordenone.
Per più di un anno la Cgil di Pordenone chiede inutilmente aiuto a quella nazionale
perché intervenga sul piano politico, di fronte all’impossibilità di riorganizzare la resistenza operaia ed inviando petizioni con centinaia di firme per il rispetto dell’accordo.
La conclusione della vertenza si trasforma quindi in un dramma per la Cgil e la sua
base, costretta a lunghi anni di disoccupazione od all’emigrazione: come ricorda una
lavoratrice licenziata di Torre, in Svizzera c’era Pordenone completo. Nell’arco di due
anni, la Fiot passa da 2.500 a solo 479 iscritti e la CdL, privata di uno dei suoi pilastri,
collassa (DEGAN 1981; VIDAL 1994; Cgil naz., 1955, b. 21, f. 334; Cgil Pn, interviste
in La storia le storie)
Ai cancelli del Veneziano nel 1954 - archivio Cgil nazionale
1954, la lotta per il Cotonificio Veneziano: i cortei in bicicletta
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
21. La “cinghia di trasmissione”:
lo stalinismo nel sindacato e la crisi della Cgil degli anni ‘50.
Le vicende della Cgil pordenonese si legano a quelle dei partiti della sinistra locale,
che hanno una loro particolare natura. Il Pci, fin dalla Liberazione, vede l’emarginazione
degli esponenti locali, diretti per quasi un decennio da quadri provenienti dalla Venezia
Giulia, con la breve parentesi del 1949-1953, quando la segreteria della neocostituita
federazione autonoma del partito è retta da Antonino Scaini: ma anche in quell’occasione, le pressioni esterne si fanno sentire con forza, imponendo l’espulsione di Pier Paolo
Pasolini per un procedimento penale nel quale verrà poi assolto.
La linea settaria di questi quadri comunisti, formatisi nella guerra partigiana in montagna, a stretto contatto con la Resistenza jugoslava, porta a scelte drammatiche, come
la decisione di presentare singole liste di partito alle elezioni comunali di Pordenone
del 1946, consegnando così una città operaia con una netta maggioranza di sinistra alla
Democrazia Cristiana. Non si tratta di un episodio isolato, se si pensa alla precedente
manifestazione pordenonese contro la speculazione e la disoccupazione del 13 dicembre 1945, svoltasi in un clima di divisione fra le forze politiche e conclusa dal segretario
zonale del Pci Giovanni Padovan (Vanni) e da De Gottardo, appena rientrato dalla
Francia e diventato responsabile del sindacato edile Filea. Il Pci cerca di dare diretta
espressione al movimento popolare: la manifestazione pordenonese viene immediatamente seguita da un’altra a Spilimbergo, nella quale si richiedono lavori pubblici per
impegnare i disoccupati, con un attacco frontale all’amministrazione comunale diretta
dal socialista Ezio Cantarutti, creando un clima di dura polemica proprio fra le stesse
forze di sinistra (Lotta e lavoro del 21 e 24 dicembre 1945 e Il Lavoratore Friulano dell’8
dicembre 1945). In questi anni è normale la frammistione fra il ruolo dei dirigenti politici
(soprattutto del Pci) e quelli sindacali, ben evidenziato dal rituale dei comizi pubblici.
Subito dopo le elezioni per la Costituente del 1946 - deludenti per il Pci, che ottiene un
solo deputato nella circoscrizione - viene sostituito il segretario della CdL: Gasparotto
lascia per motivi di salute e di studio (in realtà viene trasferito alla CdL di Udine come
vicesegretario). I socialisti, consci della loro prevalenza nell’elettorato di sinistra (il Pci è
forte solo nell’hinterland cotoniero ed in pochi altri centri) propongono immediatamente
un loro dirigente per assumere questa carica. Si tratta di Costante Masutti, candidatura
inaccettabile per i comunisti, che non potrebbero sopportare un dirigente, per quanto
schierato a sinistra, uscito dal partito su posizioni antisovietiche. Viene quindi richiamato da Udine Emilio Fabretti, che aveva precedentemente rappresentato la linea unitaria
del Pci durante la Resistenza, cui si affianca il nuovo segretario Sigfrido Pavan (Libertà
del 26 febbraio 1946; Lotta e Lavoro del 27 luglio 1946 e Il Lavoratore Friulano del 13
ottobre 1946).
In campo socialista, la scissione socialdemocratica del 1947 provoca un’emorragia di
iscritti (e, nelle elezioni del 1948, un ancor più drammatico crollo elettorale, con il Psli
di Saragat che supera l’intero Fronte Popolare nel Friuli occidentale) che viene recuperata nel 1947-1949 con lo sforzo organizzativo diretto da Masutti a Pordenone e da
Azzo Rossi - pure rientrato dalla Francia, diventerà vicesegretario della CdL di Udine - a
livello provinciale, con la confluenza nel Psi della maggioranza del Partito d’Azione, che
conta in Fermo Solari uno dei massimi dirigenti nazionali, ed infine con la pratica della
“doppia tessera”, cioè il passaggio di quadri comunisti al Psi, utilizzata nel 1949 per
coprire la vicesegreteria della Cgil di Pordenone con Mario Bettoli. Il Psi pordenonese
recupera la sua forza in anticipo sul quadro nazionale, conservando una presenza maggioritaria nel territorio fino agli anni ‘60, grazie ad una forte componente di sinistra, che
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La solidarietà dei negozianti con lo sciopero dei cotonieri del 1954 - archivio Cgil
Anni 50
a Pordenone
- archivio
Istituto
friulano per
la storia
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sarà alla base della radicata esperienza del Psiup dopo la scissione del 1964, cui aderiranno tutti gli esponenti socialisti della Cgil: solo negli anni successivi il Psi riprenderà
la sua presenza, con l’immissione nel gruppo dirigente della CdL di Roberto Giovanardi
come segretario dei chimici della Filceva (testimonianza di Mario Toppan; BIAGIONI,
PANTILE e PONTACOLONE 1981, pag. 135).
Nei primi anni ‘50 si consuma il dramma della vera e propria eliminazione dei quadri
dirigenti della CdL di Pordenone, da parte di un Pci che non ne sopporta l’autonomia.
Nel settembre 1951 Francesco Spagnol, operaio del mobilificio Viotto e segretario responsabile dal 1949 della CdL Mandamentale di Sacile viene costretto a dimettersi
dopo uno scontro con i funzionari della federazione del Pci. Nel bel mezzo della difficile
vertenza del Cotonificio Veneziano il Pci fa dimettere il nuovo segretario della CdL di
Pordenone Angelo Galante, con argomenti pretestuosi, sostituendolo con la debole e
breve segreteria del reggiano Silvio Bonsaver. In ambedue i casi, le dimissioni sono
decise dal partito e notificate alla Cgil. Anche i rapporti fra il Pci e l’ex segretario della
Cgil Emilio Fabretti, ritiratosi dall’impegno sindacale per motivi di salute, sono tesissimi;
Adolfo Bresin dà le dimissioni dalla segreteria della Fiot e pure Ario Fornasir, il funzionario che segue le categorie dell’industria, chiede di essere esonerato.
Un ispettore della Cgil nazionale, nel 1956, deve rilevare la crisi della CdL, crollata da
9.070 iscritti del 1955 ai 5.828 del 1956/57 (ma andrà peggio, scendendo nel 1958 a
2.869, perdendo complessivamente il 67,35% della propria forza organizzata). In quello
stesso triennio va in crisi la Cgil nazionale, per vari motivi che vanno dagli effetti della repressione, dell’attacco padronale alle conseguenze della grande migrazione dalle
campagne del Sud di quegli anni, ma anche dagli errori di strategia sindacale alla crisi
del Pci provocata dal consenso espresso all’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956:
ma a livello nazionale la diminuzione è “solo” del 38%. Localmente, si vedono i sintomi
di una profonda crisi organizzativa, dimostrata anche da una categoria come gli edili,
manodopera cosciente che non risente della vicenda del Veneziano, ma crollano da
700 ad 85 iscritti (1955/giugno 1956) perché De Gottardo si ammala e deve abbandonare il lavoro nell’edilizia per dedicarsi all’attività di ambulante. In una situazione in cui il
sindacato è privo di risorse, la segreteria della CdL passa a Vittorio Orenti, che deve già
badare a seguire la sua categoria, la Federmezzadri, che non a caso regge (passando
da 2.234 a 1.870), rimanendo l’unico sindacato operativo.
Sui ricambi al vertice della CdL, l’ispettore dichiara recisamente: sono stati decisi dall’alto, per ragioni spesso (Galante) che nulla avevano a che vedere con l’organizzazione sindacale e anche contro il parere manifesto dei lavoratori. Ciò ha provocato, unitamente ad alcune vicende propriamente sindacali, come la lotta al cotonificio veneziano,
una grave manifestazione di scontento dei lavoratori nei confronti della nostra organizzazione, a tutti i livelli, scontento che si è poi prodotto in diffusa apatia e nella perdita di
numerosi tesserati (Arch. CdP 11; arch. Ifsml; Cgil Tess., b. 9, f. 5, 1962; TURONE 1975;
DI NICOLA 1989, pp. 26; PEPE, IUSO e MISIANI 2001, p. 88; testimonianze di Bruno
Pascutto e Mario Toppan).
11
Archivio Casa del Popolo di Torre, fondo Federazione Pci.
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
22. La Cgil per la pace.
L’inizio degli anni ‘50 è segnato dal dispiegarsi della guerra fredda, che comporta la
concentrazione di un terzo dell’esercito italiano in Friuli e l’apprestamento di una grande
base aerea americana ad Aviano, che sarà circondata da una cortina di missili nucleari
“tattici” destinati a distruggere la regione in caso di conflitto. In Corea si combatte il
principale conflitto armato fra i paesi occidentali e quelli comunisti, con il coinvolgimento diretto della Cina e l’utilizzo da parte statunitense di armi batteriologiche. Nei paesi
coloniali si combattono sanguinose guerre di liberazione. Le visite dei generali americani creano un clima nel quale è realistico il terrore del possibile scoppio di una guerra
atomica.
Nel gennaio 1951 l’esercito invia ai giovani congedati le cartoline rosa di preavviso
di richiamo in servizio, provocando un salto di qualità nella tensione bellicista. La Cgil
è uno dei pilastri del movimento antiatomico, con l’impegno dei suoi dirigenti, che sono
in prima fila nel bruciare pubblicamente le cartoline rosa nelle piazze. Sono arrestati,
e condannati dal Tribunale militare di Padova a detenzioni da 12 a 18 mesi, Vittorio
Orenti (sindacalista della Federmezzadri), i partigiani Bruno Pagotto (Boris) e Ferruccio
Brenelli, gli operai Enrico Battel ed Attilio Cardin ed il segretario della CdL di San Vito
Alfio Guardabasso.
E’ generalizzato il ricorso anticostituzionale ai Tribunali militari per la repressione del
dissenso politico, con il moltiplicarsi di lunghe condanne nei confronti degli esponenti
pacifisti. Nell’aprile 1954 viene arrestato il segretario della Fiom e delle Camere del
Lavoro di Maniago e Spilimbergo Giovanni Migliorini, accusato di violazione di segreti
militari per la pubblicazione di un opuscolo del movimento dei Partigiani della Pace che
denuncia la militarizzazione del territorio e la repressione contro i pacifisti. Migliorini
viene condannato a 26 mesi, che sconta per gran parte nel carcere militare di Gaeta. La
sua liberazione viene richiesta durante le manifestazioni del Primo Maggio (documentazione in Cgil Pn 12 ed arch. Migliorini; VIDAL 1999).
Rimarrà sempre irrisolto il problema della sindacalizzazione dei dipendenti della base
Usaf di Aviano, nella quale le uniche vertenze - gestite dalla Cgil - sono quelle del dopoguerra, che interessano gli edili impegnati nei lavori di costruzione. Il governo statunitense si rifiuta da sempre di considerare la Cgil soggetto negoziale: discriminazione accettata dal sindacato di categoria della Cisl, che in questa come nelle altre basi militari
americane accetta di fare da cassa di risonanza degli interessi statunitensi, con il ricatto
delle centinaia di posti di lavoro messi indiscussione ogni qual volta governi nazionali ed
autorità locali non si dimostrino proni ai desiderata degli ingombranti alleati.
Il sindacato negli anni ‘60 e ‘70 sarà impegnato a sostegno delle lotte di liberazione,
in particolare quella del Vietnam, che assume una funzione centrale per il confronto fra
l’immenso potenziale distruttivo statunitense ed un piccolo popolo, che nel 1954 era già
riuscito a liberarsi dai colonialisti francesi (un operaio emigrante e partigiano spilimberghese, Derino Zecchini, riesce ad arrivare a Diem Bien Phu ed a contribuire alla vittoria
del Fronte di Liberazione: RAVAGLI e WU MING, 2000, pagg. 183-191). Grande sostegno viene prestato alle vittime delle dittature sudamericane, in particolare ai profughi
cileni, uno dei quali - Rodrigo Diaz, oggi famoso organizzatore del Festival del cinema
latinoamericano di Trieste - lavora per la Cgil e le Acli del Veneto e più volte percorre
la provincia per iniziative di solidarietà con la resistenza sandinista e salvadoregna. La
collocazione in regione di nuove armi di distruzione di massa, come le “mine atomiche”
12
Archivio Camera del Lavoro Cgil Pordenone.
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
e la pesante cappa delle servitù militari che ostacolano le attività agricole, i collegamenti
stradali e ferroviari e lo stesso sviluppo industriale di alcuni comprensori, le martellanti
attività dei poligoni di tiro (che nel Friuli occidentale spaccano letteralmente il territorio
in due, con rischi estremi per la popolazione, come dimostrano gli sgomberi di paesi sul
Ciaurlec, i danni prodotti dagli attraversamenti dei mezzi corazzati, i casuali bombardamenti di centri abitati come Arba o Vajont ed incidenti che, nel caso di Maniago, rischiano di coinvolgere lo stesso stabilimento della Zanussi Metallurgica) sono all’ordine del
giorno, e vedono coinvolto il sindacato a fianco delle popolazioni e dei gruppi pacifisti.
L’impegno pacifista ed internazionalista tende poi a ridursi, in proporzione diretta alla
delicata fase del riflusso, all’emergere della difesa dell’occupazione come terreno prioritario negli anni ‘80 ed anche alla politica di monetizzazione delle servitù militari inaugurata a livello governativo. Il “canto del cigno” del pacifismo sindacale pordenonese coincide con la clamorosa iniziativa che porta, su proposta di due delegate degli impiegati,
Clara Gasperoni e Donata Dell’Armellina, il Consiglio di Fabbrica della Zanussi di Porcia a partecipare con una sua delegazione ai blocchi nonviolenti ai cancelli della base
atomica di Comiso, in Sicilia, dove nei primi anni ‘80 sono destinati i nuovi “euromissili”
nucleari statunitensi Cruise. L’iniziativa, pur condivisa dalla rappresentanza sindacale,
non può che ottenere un sostegno disattento in fabbrica, nei mesi in cui la maggiore
industria pordenonese vive l’incerta fase di un pesante piano di ristrutturazione che
sarà l’anticamera del passaggio di proprietà alla svedese Electrolux. Proprio mentre sta
per essere venduto, il marchio Zanussi finisce sui mass media di mezzo mondo il 16
settembre 1983, grazie a quello striscione che ferma inesorabile le ripetute cariche degli
idranti della Celere: quasi a riconfermare quel vecchio slogan commerciale del gruppo:
Zoppas li fa, nessuno li distrugge.
Pordenone, 1° maggio 1959 - archivio Cgil Pordenone
23. Sviluppo economico e ripresa sindacale.
La contrattazione articolata. Salario e salute alla Zanussi ed alla Scala.
Lo sviluppo dell’industria dei beni di consumo riassorbe rapidamente i volumi di manodopera persi nel tessile, ma cambiandone le caratteristiche interne: alla manodopera
cotoniera sindacalizzata (ancora nel 1956, quando la Zanussi assume 600 operai, ci
sono 682 sospesi del Veneziano senza lavoro: DEGAN 1981, pag. 189) succede una
nuova classe operaia di origine contadina, che si espande in termini massicci: la principale azienda - la Zanussi - conta 1.000 occupati nel 1955, 3.000 nel 1960 e 15.000 nel
1968, mentre il settore della ceramica raggiunge i 2.262 addetti nel 1961 ed i 3.242 nel
1971 (MAZZOTTA 1993, pagg. 62 e 75).
La discriminazione contro gli operai sindacalizzati ed il supersfruttamento della manodopera sono il vangelo dei nuovi capitani d’industria: coraggiosi, com’è diventato usuale
descriverli, ma sono dei pirati. Ricorda un dirigente della Zanussi di allora: La disciplina
era ferrea; bastavano due assenze domenicali consecutive (!) per essere licenziati. Per
chi era in odore di comunismo non era facile entrare in Zanussi. Si assumevano invece
generosamente le donne, perché venivano pagate meno, salvo poi esigere da loro un
rendimento pari a quello maschile facendole piangere, se necessario, per costringerle
a sostenere gli stessi ritmi (DIEMOZ 1984, pag. 204).
La nuova classe operaia non ha generalmente tradizioni di sindacalizzazione, è decentrata nel territorio, il suo rapporto con la fabbrica è mediato da un forte pendolarismo
oppure dall’insediamento degli stabilimenti nelle zone rurali. Sono questi gli anni in cui
avviene lo sviluppo della Cisl, che ha la funzione di sindacalizzare settori operai ed
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26 settembre 1983 , ai cancelli della base atomica di Comiso
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
impiegatizi di origine cattolica e lontani dalla cultura della sinistra. Ciò nonostante, la
Cgil in questi anni vive un processo di espansione significativo, che la porterà dai 3.869
iscritti del 1958 (quando inizia la lunga segreteria di Giovanni Migliorini) ai 7.950 del
1964 ai 9.520-11.970 del 1968/69. L’anno di svolta è il 1963, quando i metalmeccanici
(1530 iscritti) superano per la prima volta i tessili (1332), mentre gli edili-legno seguono
l’anno dopo (1500) (Cgil tess., b. 64, f.4; Cgil Pn, Inca, b. Regione, f. settimana 1968).
I rapporti di forza fra i tre sindacati sono evidenziati dai risultati delle Commissioni Interne nel 1963/64. Su quindici stabilimenti (dove sono coinvolti nel voto rispettivamente
5.600 e 6.750 lavoratori, esclusi gli impiegati, che votano prevalentemente su liste autonome), la Cgil ha percentuali rispettivamente del 62,66/61,70%, mentre la Cisl ottiene
il 37,34/36,01% dei voti (la Uil, che si presenta per la prima volta alla Zanussi ed alla
Savio, prende in totale 154 voti). La Cgil prevale in quasi tutti gli stabilimenti maggiori,
salvo alla Savio, dove c’è un’equivalenza fra i due sindacati. In termini di delegati - in
espansione, in proporzione ai lavoratori - la CGIL passa da 39 a 49 e la Cisl da 21 a 23
(Cgil naz., 1965, b. 6, f. 72, relazione al IV congresso CdL).
Nel 1959-1960 la Cgil inizia la campagna di contrattazione articolata, basata soprattutto sulla rivendicazione dei minimi di cottimo, sui premi di produzione (per sottrarre
questa materia all’arbitrio padronale) e sui ritmi della produzione. Nelle lotte per i rinnovi
contrattuali degli ultimi anni ‘50 tutte le categorie dimostrano una grande partecipazione, con l’eccezione degli alimentaristi e della Ceramica Scala. La necessità della contrattazione è resa evidente dalle caratteristiche dello sviluppo capitalistico accelerato,
basato sui bassi salari, la meccanizzazione accentuata e la mancanza di un controllo
sindacale. La ristrutturazione al Cotonificio Veneziano ha permesso di incrementare
la produzione della Filatura, dal 1960 al 1964, del 147%, aumentando la manodopera
da 980 a solamente 1.150 operai; analogo risultato in Tessitura. Al Cantoni dal 1954
al 1963 la manodopera è crollata da 1.200 a 650 operai, con un incremento della produttività media del 400%. Anche fra i nuovi assunti si contestano le gabbie salariali e si
manifesta una nuova volontà di lotta, come al Cantoni, dove si ottiene un accordo che
prevede l’istituzione di incentivi, del mancato cottimo, del miglioramento delle qualifiche
e la contrattazione del premio di produzione. Complessivamente, dal 1960 al 1964 vengono sottoscritti 70 accordi aziendali, 10 di complesso, 3 di settore e 5 territoriali, che
interessano 13.950 lavoratori, metà dei quali sono metallurgici (Cgil naz., 1959, b. 5, f.
99, 1965, b. 6, f. 72, cit. e Veneto, b. 29, f. 183 ).
Alla Zanussi è importante il ruolo esercitato dai giovani operai specializzati che riescono a transitare dall’esperienza del Cotonificio Veneziano alla Zanussi (come Antonio
Zaramella, Attilio Cardin, Enzo Falomo, più tardi Luigi Piccinin), portando con sè la memoria di un’irripetibile esperienza sindacale, vissuta in termini di partecipazione democratica, impegno personale e disponibilità dei collettori a raccogliere le quote sindacali.
Una coscienza ed una partecipazione che alla Zanussi si riesce a ricreare solo con il
passar del tempo, lavorando tantissimo per rafforzare il debole nucleo della Commissione Interna, costituito inizialmente da Elso Moro - che nel 1953 rappresenta la Fiom
nella segreteria della CdL - Cassin e pochi altri; la stessa Cisl è debole. Dalla metà degli
anni ‘50 c’è uno sviluppo torrenziale dell’azienda, vengono assunte migliaia di lavoratori
e questo corrisponde alla crescita del sindacato e della sua capacità di iniziativa, anche
sul piano organizzativo. Nel 1959 si apre un confronto ed una contrattazione aziendale
senza precedenti, costituendo esperienze che diventano un riferimento nazionale per il
sindacato: in una serie di accordi consecutivi, con una cadenza praticamente annuale,
viene definita l’indennità sostitutiva di cottimo, il premio di produzione, un’indennità per
i lavori nocivi, sono conquistate pause per i turnisti e poi il soccorritore per le sostitu84
Pordenone
Pordenone: corteo per la ceramica Scala - archivio Cgil nazionale
Pordenone, manifestazione operaia - archivio Cgil nazionale
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zioni, la riduzione dell’orario di lavoro, il diritto di rifiutare lo straordinario ed il diritto di
assemblea, la rivisitazione delle qualifiche. Già in questa fase non ci si concentra solo
sull’aspetto economico - per altro dirompente dopo anni di privazioni - ma si cominciano
ad ottenere elementi di rottura della pesante disciplina della fabbrica tayloristica. Non
ci si limita alla elaborazione dei contratti integrativi, ma si persegue una contrattazione continua, con i capi reparto: già negli anni ‘60 la Commissione Interna crea degli
strumenti nuovi, come le commissioni - che svolgono a loro volta una grande opera di
contrattazione sull’organizzazione del lavoro e sulle condizioni ambientali, direttamente
a contatto con i lavoratori delle catene di montaggio, costruendo le basi di quello che
sarà, negli anni ‘70, il “sindacato dei consigli”. L’azienda, è costretta a fare investimenti
per impianti di aspirazione e ventilazione per ridurre fumi e polveri, e schermature per
ridurre calore e rumorosità. Per le ventilazioni dei reparti ci sono state varie fermate del
lavoro, specie da parte delle operaie addette alla produzione dei televisori ove, d’estate,
gli svenimenti erano dell’ordine di decine al giorno.
Uno dei risultati più significativi è l’apertura della mensa nel 1966: prima migliaia di
lavoratori mangiavano nei refettori in condizioni di grande disagio e scarsa igiene (al
Cotonificio Veneziano la mensa era stata una delle prime conquiste del dopoguerra).
Viene attivata anche la Commissione mensa. Le condizioni ambientali della fabbrica
sono al centro della politica delle Cgil, che su questo punto non firma l’accordo del
1965. Si rivendica il diritto di mettere in discussione le condizioni insopportabili di vita
nei reparti, i ritmi insostenibili della catena di montaggio, la mancanza di tempo per
assolvere le funzioni fisiologiche, l’esistenza di lavorazioni gravemente nocive, le ore
perse nei trasporti dai pendolari. La contrattazione entra nel merito della gestione dei
reparti, come quelli giganteschi delle presse, dove mancano le attrezzature, ma anche
le protezioni antinfortunistiche, i grembiuli, i guanti. Sull’esperienza del Cotonificio Veneziano, si misurano i decibel, viene costruito il rapporto con il servizio di Medicina del
Lavoro e le le Università, portando i sanitari in fabbrica per analizzare la situazione dei
reparti nocivi, come la galvanica, la fonderia, la verniciatura, la plastica. L’ultimo accordo di questa fase è quello del 1968, che istituisce il cottimo collettivo di stabilimento e
la predeterminazione dei tempi delle linee di montaggio, dopo che la vertenza iniziata
nel 1967 pone all’ordine del giorno il diritto dei lavoratori a conoscere e discutere i tempi
di produzione. Per consolidare tale conquista i lavoratori delle catene ottengono inoltre
che su ogni catena di montaggio l’azienda esponga dei tabelloni indicanti il numero
degli addetti alla catena e la produzione oraria da realizzare e ciò per poter controllare
meglio la situazione (testimonianza di Antonio Zaramella; VALDEVIT 1971, da cui sono
tratte le citazioni; MAZZOTTA 1994; PADOVAN 2005).
Alla Zanussi il sindacato tratta (a costo di lotte durissime) con un conservatore illuminato come Lino Zanussi, che costruisce un rapporto basato sul confronto, anche
creando una singolare tradizione di “botta e risposta”, con comunicati aziendali che replicano a quelli sindacali, oltre che con comunicati stampa. Ben diversa è la situazione
nell’industria gemella di Conegliano, la Zoppas, dove la proprietà replica brutalmente
con la discriminazione e la segregazione dei delegati nei reparti confino. Simili al comportamento dei fratelli Zoppas sono le relazioni industriali alla Ceramica Scala di Locatelli. Qui prevale l’autoritarismo padronale ed il rifiuto dell’applicazione dei contratti di
lavoro. Il rapporto con i lavoratori, che riescono a rispondere solo grazie ad una azione
unitaria fra la Cgil e la Cisl, viene mantenuto a suon di minacce, multe, sospensioni e
licenziamenti, ovviamente senza reintegrazione nonostante i pronunciamenti della magistratura. Fenomeno - quello dei licenziamenti politici - diffuso in tutte le industrie: nel
1955 la Savio licenzia il delegato Giulio Pitton; nel 1962 il Cantoni licenzia, durante una
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
dura vertenza sindacale, Wilma Nardozzi, Fatima Cancian, Lidia Zilli e Pia Mascarin;
nel 1967 la Torcitura di Sesto al Reghena licenzia l’organizzatore sindacale Giuseppe
Montico ed il Maglificio di Travesio Giuliana Martina. Escluso l’ultimo caso, nonostante
lunghi scioperi le aziende preferiscono pagare una penale che riassumere.
Stessa cosa per Locatelli, che costruisce il successo della sua azienda (2.000 operai in 4 stabilimenti, la maggioranza a Pordenone ed Orcenico Inferiore) pagando la
manodopera con salari d’ingresso pari anche ad un quarto delle magre retribuzioni
contrattuali della provincia di Treviso, che sono il suo punto di riferimento arbitrario, visto che la Scala neanche aderisce a Confindustria. Oltre alla dimensione salariale, che
costringe il sindacato a durissime agitazioni negli anni ‘60, anche con scioperi generali
della categoria e manifestazioni pubbliche - a Zoppola nel marzo 1961 ed a Pordenone
nell’ottobre 1963 - è drammatica la condizione ambientale, con la pesante esposizione
ad altri agenti nocivi e la gravità degli sforzi per sollevare gli stampi, con deformazioni
alla spina dorsale che rendono necessari interventi chirurgici correttivi. Ancora oggi,
dopo decenni, i lavoratori muoiono per tumori, silicosi, enfisema polmonare ed altre malattie derivanti dalle polveri nocive che una volta venivano accumulate in fabbrica senza
nessuna protezione. Le relazioni sindacali alla Scala sono proverbiali: il delegato Cgil
Virginio Colonnello viene invitato ad andarsene, mentre il 21 dicembre 1966 25 operai
sono sospesi per rappresaglia, facendo passare lo sciopero di un reparto per un’assenza ingiustificata (arch. Migliorini; MAZZOTTA 1994; DEL GIUDICE 2003; testimonianze
di Silvio Valdevit, Giuseppe Gasparotto e Fortunato Vendrame).
24. Il sindacato ed il territorio.
Le basi della rinascita della Cgil vengono poste anche nelle aziende minori, attraverso
la riorganizzazione o la sindacalizzazione ex novo di alcune categorie. Assunto come
segretario delle categorie degli edili e del legno (frattanto unificatesi nella Fillea) nel
1957, Mario Toppan inizia a riprendere i fili della categoria a partire dai riferimenti esistenti. Nel settore del legno il sindacato è presente alla Lacchin ed alla Viotto di Sacile
(dove c’è Aleardo Poles, futuro segretario di categoria) ed alla Zanette di Pordenone,
dove ci sono alcuni attivisti che riescono a rompere il clima di omertà. Nella zona di
Brugnera, dove le fabbriche sono già sviluppate alla fine degli anni ‘50, il sindacato
entra successivamente, in forma clandestina: c’era un recapito a Brugnera in una casa
di contadini, dove gli operai arrivavano con il buio. Non ci sono agitazioni collettive, ma
solo vertenze individuali contro i datori di lavoro, quando ormai gli operai non hanno più
alternative. La maggior parte delle vertenze si risolve con il risarcimento monetario, ma
la necessità di manodopera nel settore è tale da permettere la riassunzione degli operai
sindacalizzati altrove, anche perché sono i più evoluti e professionalizzati. L’edilizia
viene riorganizzata cantiere per cantiere, con volantinaggi nell’ora di sosta meridiana.
Le agitazioni sono basate sul rispetto del contratto di lavoro e la situazione è migliore
rispetto al legno: si tratta di operai che erano stati emigranti, tutta gente preparata, che
abita nella Pedemontana, da Caneva allo Spilimberghese: erano già stati organizzati,
e l’indebolimento della categoria era stato causato solo dalla mancanza di un segretario. Gli edili sono dispersi nel territorio, e le assemblee sindacali si svolgono a livello di
mandamento ed anche nei comuni piccoli: il lavoro organizzativo è gestito direttamente
in gran parte dai delegati (testimonianza di Mario Toppan).
L’attività sindacale trova un forte limite nella scarsità di mezzi: fino ai primi contratti
del 1962 non esiste la delega per la trattenuta della quota sindacale in busta-paga, e le
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
iscrizioni vanno conquistate una per una, così come il finanziamento con la riscossione
delle quote periodiche attraverso i collettori. Talvolta interviene qualche finanziamento
della Cgil nazionale, soprattutto per permettere alla CdL di potenziare l’organico, in
modo da garantire la presenza delle correnti sottorappresentate, oppure lo sviluppo di
nuove categorie. La sede di quegli anni, l’ultima prima del trasferimento nella più grande sede di Palazzo Klefish in Piazza della Motta, è in una casupola di Via Ospedale
Vecchio, con stanze gelide ed una scricchiolante scala in legno per la quale si sale all’Ufficio Vertenze, gestito insieme alla Fillea da Toppan: la CdL all’epoca è costituita da
un pugno di persone, che debbono assumersi varie responsabilità. Molto tempo viene
perso per gestire l’attività delle vertenze, ne rimane poco per l’organizzazione sindacale. I volantinaggi si fanno ad ore pasti, e di sera - due volte la settimana - via a Brugnera
per il settore legno (testimonianze di Mario Toppan ed Oscar Vignola; Cgil naz.).
Gli anni del “miracolo economico” sono anche quelli che svelano, con alcuni gravissimi “disastri innaturali”, le contraddizioni della politica di rapina del territorio. Il 9 ottobre
1963 il Monte Toc frana nel lago del Vajont, provocando la morte di 1918 persone. Si
tratta di una catastrofe annunciata, denunciata negli anni precedenti dalle popolazioni
e dalla coraggiosa giornalista comunista Tina Merlin. La costruzione delle dighe era
stata costellata di frane di grandi dimensioni nei bacini costruiti in spregio alle condizioni
ambientali, ma anche da un’ecatombe di morti nei cantieri di lavoro: già nel 1949 i morti
segnalati nei cantieri della Sade della Valle del Piave avevano raggiunto l’impressonante numero di 40 (l’Unità ). Il Vajont è l’ultimo boccone avvelenato degli affari della
Sade di Volpi prima della statalizzazione dell’industria elettrica, storica rivendicazione
della Cgil e conquista del primo centrosinistra di Nenni e Moro. Le Camere del Lavoro
di Pordenone e Belluno si trovano al centro del grande sforzo di solidarietà della Cgil
italiana, con raccolte di fondi nei luoghi di lavoro ed il trasporto di generi alimentari e
farmaci e poi con l’organizzazione dell’attività di assistenza legale agli sfollati, spostando in Valcellina l’attività del patronato Inca (testimonianze di Mario Bettoli e Giovanni
Migliorini in: CADORE 1998).
Nel settembre 1965 e nel novembre 1966 ci sono due grandi alluvioni, in un territorio
mangiato letteralmente dalla speculazione edilizia. La prima, con l’allagamento del Cotonificio Veneziano di Pordenone (dove, dopo la ristrutturazione, erano state spostate
le macchine della Tessitura di Rorai), rischia di essere il colpo finale all’industria tessile,
con la sua definitiva chiusura. Gli operai, con l’appoggio del sindacato, entrano nello
stabilimento - in mezzo all’acqua - per iniziare la manutenzione. Un’iniziativa che salva
lo stabilimento, nel corso della quale trova la morte l’elettricista Giannino Bettoli, attivista della Filtea (VIDAL 2002; testimonianza di Vitaliano Brollo in La storia le storie 13).
Queste ed altre testimonianze datano erroneamente la vicenda nel 1966, l’anno
dell’alluvione maggiore: si tratta di un caso esemplare di sovrapposizione della memoria collettiva.
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25. L’impegno sindacale per la provincia di Pordenone e la regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia. La costituzione della Cgil regionale.
L’autonomia territoriale del Friuli occidentale viene individuata fin dai tempi del dibattito alla Costituente sulle regioni come un punto di forza della politica sindacale pordenonese. Autonomia provinciale e regionale sono viste come cardini di una prospettiva
di sviluppo economico. A questi principi risponde la presa di posizione della CdL di Pordenone, che - facendo pesare i suoi 10.000 iscritti del 1947 a favore di un’unica regione
veneta, in contrasto con l’ipotesi di una regione comprendente solo il Friuli ritenuta
inadeguata per le sue piccole dimensioni - inaugura un capitolo che vedrà impegnato il
sindacato, ed in particolare la Cgil, a dare basi di massa ad un progetto che mira a significativi spostamenti di risorse pubbliche a favore dello sviluppo dell’economia e della
società locale (Libertà del 25 gennaio 1947).
Parimenti sarà poi la CdL mandamentale di Spilimbergo il primo organismo ad esprimersi a favore della creazione della nuova provincia del Friuli occidentale in quel mandamento, da sempre gravitante su Udine, piuttosto che su Pordenone, dal quale era
diviso dallo iato costituito dagli estesi invasi degli imprevedibili torrenti prealpini, invalicabili parzialmente ancor oggi (Lotta e lavoro del 16 aprile 1950). Ma i governi centristi
non hanno alcuna intenzione di attuare l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione, all’interno del quale si pone anche il destino delle nuove province.
Pur con un ritardo di 4 anni rispetto alle Federazioni del Pci e del Psi, che nascono
nel 1949, la CdL di Pordenone acquisisce la sua autonomia nel gennaio 1953 (l’Unità
dell’8-9 gennaio 1953): tutta la sinistra si articola secondo la circoscrizione della nuova
provincia, anticipando ogni altra forma sociale ed istituzionale.
E’ dal 1954, l’anno che vede la definizione del confine giuliano ed il ritorno di Trieste
all’Italia, che Pci e Psi iniziano la campagna per la realizzazione dell’autonomia regionale, nei nuovi confini del Friuli-Venezia Giulia (Arch. Ifsml, quaderni riunioni in fondo Marini). La Cgil diviene la base di massa per la doppia agitazione che porterà alla conquista
della regione nel 1963 e, nel 1968, della prima nuova provincia italiana nell’era repubblicana. Il 15 luglio 1961 la Cgil indice uno sciopero generale nel Friuli occidentale per
la conquista dei due istituti. Lo sciopero vede il boicottaggio padronale, a dispetto della
leggenda urbana - ripresa recentemente anche da un ex dirigente della Cgil - secondo la quale la provincia fu opera essenzialmente di Lino Zanussi. Pure la Cisl nega la
sua adesione, negando che la creazione dell’ente regione, pur influendo sullo sviluppo
economico, possa avere benefici influssi sui salari operai (rassegna stampa in arch.
Migliorini; MAZZOTTA 1994, pagg. 42-46; PADOVAN 2005, pag. 68).
Nel 1964, una volta approvata dal Parlamento l’istituzione della Regione, la Cgil si dà
una struttura regionale, il cui primo coordinatore è il dirigente della Fiom triestina Emilio
Semilli. Costituito nei mesi successivi il Comitato Regionale, assume la carica di segretario Mario Bettoli, inaugurando la lunga serie di segretari pordenonesi che - con la sola
eccezione del suo successore Arturo Calabria - si susseguiranno alla guida della Cgil
del Friuli-Venezia Giulia, a testimonianza della forza propositiva dell’esperienza della
CdL del Friuli occidentale (Cgil naz., 1963, b. 2, f. 77).
La regionalizzazione non è solo frutto di un investimento politico, ma inizia a trarre
fondamento in nuove esperienze di organizzazione sindacale, come quella degli autotrasporti su gomma. La Filt nasce a Pordenone attorno al 1958, organizzata dagli autisti
della Sap dei fratelli Puppin, partendo dalla questione salariale. A livello regionale ci
sono situazioni analoghe: ad Udine la Saita, a Gorizia la Ribi, ecc., così inizia l’autorganizzazione degli autisti e si costituiscono le prime Commissioni Interne del settore, alla
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Sap ed alla Saita di Udine. Per due anni alla Sap ci sono frequenti scioperi, nei quali
il prefetto, su richiesta dell’azienda, fa sostituire le corriere bloccate dallo sciopero dai
camions militari. Ma ci sono 70 autisti, tutti iscritti alla Cgil, che picchettano le strade per
impedire il crumiraggio. Si tratta di una categoria molto mobile: alcuni vengono addirittura dal Tarcentino e tutti, per le necessità del mestiere, hanno l’auto personale, grazie
soprattutto al fatto che con la sindacalizzazione le assunzioni diventano regolari e viene
applicato il CCNL. Una volta al mese, tutti ritornano a Pordenone la sera per la riunione
del sindacato. I pordenonesi, come un “rullo compressore”, iniziano a picchettare tutta
la regione, trascinando i loro colleghi. Iniziano le denuncie, la prima da parte della Ribi
di Gorizia. Gli scioperi si svolgono in forma articolata, bloccando in forma alternata le
varie linee e facendo saltare le coincidenze: agitazioni ovviamente molto dure, che spiegano il successo delle rivendicazioni sindacali (testimonianza di Oscar Vignola).
26. L’autunno caldo e gli anni ‘70.
La grande stagione del sindacato unitario, del conflitto e delle riforme.
Il 1968 inizia con un avvenimento che sconvolge l’immagine del mondo: in occasione
della festività vietnamita del Tet, i guerriglieri comunisti scatenano un’offensiva improvvisa che mette in ginocchio la poderosa ed apparentemente invincibile armata di occupazione statunitense. E’ l’anno in cui scoppia la contestazione giovanile in tutto il pianeta, in
collegamento ideale fra il movimento pacifista e di liberazione dei neri americani, la rivoluzione culturale cinese, le lotte di liberazione nel terzo mondo, la rivoluzione nonviolenta
che fino all’invasione sovietica di agosto porta un nuovo gruppo dirigente antistalinista
alla guida della Cecoslovacchia. Il mondo sembra rovesciarsi: non è un caso sia l’anno
in cui il movimento sindacale italiano dà la spallata definitiva alle gabbie salariali.
La conflittualità sociale raggiunge livelli altissimi, la nuova generazione operaia si
salda con nuove spinte sociali, come quelle degli studenti, alla tradizione della sinistra
di classe di sovrappongono le nuove culture del dissenso cattolico e dei gruppi della sinistra rivoluzionaria. Cambia lo scenario sindacale, dopo anni di preparazione: la spinta
unitaria dal basso è alimentata dalla nuova cultura delle categorie dell’industria, dove
sempre più spesso i quadri cislini ed aclisti hanno rotto la cinghia di trasmissione con la
Democrazia Cristiana. Si apre la stagione dei Consigli di Fabbrica e dell’unità sindacale
che, per quanto mai portata a compimento per le resistenze dei settori moderati di Cisl
e Uil, dà alla Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil un ruolo centrale nella vita del paese.
In particolare lo stabilimento di Porcia della Zanussi accentua il suo ruolo strategico
nel movimento sindacale friulano e nazionale, luogo di sperimentazione delle politiche
della Fiom-Fim-Uilm e, dal 1972, della Flm14, la più avanzata delle esperienze di unità
sindacale. Il CCNL del 1969 dei metalmeccanici (quello che porta alla conquista della
trattenuta sindacale, dei consigli di fabbrica, delle assemblee) è preparato dagli accordi
nei grandi gruppi, e nella fase di elaborazione avviene un confronto a Pordenone fra la
Fiom di Torino, guidata da Emilio Pugno, e quella locale. Trentin stesso, segretario della
Fiom, si dimostra molto soddisfatto della linea non salarialista dei risultati ottenuti alla
Zanussi, che forniscono esperienze concrete da trasferire nelle piattaforme nazionali.
La forza innovativa dell’esperienza di Porcia deriva dalla riuscita amalgama fra la “vecchia” generazione degli operai professionali ed i giovani delegati emersi dall’universo
dell’operaio-massa. C’è inoltre l’elemento di confronto che nasce dallo scambio di espe14
Anni ‘70, davanti al cotonificio veneziano di Borgomeduna
Pordenone, manifestazione negli anni ‘70 - archivio Cgil nazionale
Federazione Lavoratori Metalmeccanici.
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rienza con i compagni della Fiom della Zoppas di Conegliano, dalla quale proviene nel
1967 il nuovo operatore della Fiom che segue la Zanussi (Silvio Valdevit, che insieme
con Renata Bagatin della Filcams sarà l’unico esponente della Cgil pordenonese a lavorare per un periodo a livello nazionale nella direzione di una categoria).
Il problema centrale negli stabilimenti della Zanussi è l’organizzazione della linea, con
le continue modifiche dopo i controlli dei cronometristi, con il taglio dei tempi e l’aumento della saturazione. Non passa giorno che i vari sindacati non distribuiscano volantini
e l’azienda risponda. Dopo la morte prematura di Lino Zanussi (e di Alfio Di Vora, il
vero interfaccia dell’organizzazione sindacale) anche la gestione di Lamberto Mazza
e del capo del personale Dalle Molle, pur apparentemente conflittuale nei confronti del
sindacato, si rivela in sostanza disponibile a giungere ad accordi soddisfacenti, costituendo in questo modo esempi a livello nazionale, come l’accordo sui delegati di linea.
La linea della Fiom è più attenta ai diritti che al salario (che invece costituisce la maggiore preoccupazione della Fim), ottenendo così risultati che poi a caduta influiscono
anche sul lato economico. Nelle assemblee gli operai comprendono la necessità di non
monetizzare i diritti; si risponde alle esigenze dei professionalizzati con le rivendicazioni
sulle qualifiche, mentre la grande massa dei generici è coinvolta nelle tematiche dell’organizzazione della catena di montaggio. Questa linea per altro non comporta salari più
bassi che negli altri gruppi dell’industria degli elettrodomestici, basta fare un confronto
con la Ignis di Cassinetta, insieme alla Zoppas il gruppo gestito in modo più arretrato
nelle relazioni industriali (ambedue queste realtà non sono sopravvissute, a differenza
di quelle aperte al confronto, come Zanussi e Merloni). Strappando i delegati, si creano
le basi materiali per un sindacato unitario, poiché essi sono rappresentanti del gruppo,
non più dell’organizzazione sindacale.
Con gli accordi dell’estate 1969, alla Zanussi la nuova struttura di rappresentanza
si basa su molte decine di delegati, che portano la contrattazione direttamente nelle
varie unità produttive. Viene istituito il Comitato cottimi, che tratta con la direzione di
stabilimento tutte le questioni non decise direttamente dalla contrattazione di linea, nell’ambito di un meccanismo di retribuzione collettiva del cottimo. E’ in questo quadro che
si affrontano le dure vertenze dei primi anni ‘70, quando ci si deve confrontare con la
ristrutturazione del gruppo dopo l’acquisto della Zoppas e di altre aziende del settore,
respingendo la proposta di migliaia di licenziamenti e concordando soluzioni basate sulla garanzia di un minimo salariale. Altro elemento di preoccupazione è l’entrata, con una
quota di capitale di controllo del 25,01%, della tedesca Aeg-Telefunken, che fa intravvedere per la prima volta il rischio della vendita della Zanussi al capitale multinazionale
(nella stessa fase storica in cui Locatelli vende la Scala all’americana Ideal Standard).
In questo quadro, si costituisce a livello nazionale un coordinamento sindacale di gruppo, per affrontare adeguatamente una realtà che è ormai diventata la seconda industria
privata italiana, superando i 30.000 addetti. Ma il ricorso generalizzato alla Cassa Integrazione ed il blocco del turn over fanno calare gli addetti, dal 1970 al 1973, a 25.616. A
tutela del patrimonio produttivo del gruppo, i lavoratori costruiscono una relazione con
le amministrazioni pubbliche, che porta nel 1972 ad un primo convegno delle 6 regioni
dove hanno sede gli stabilimenti Zanussi.
Le vertenze - vissute come uno sconvolgente stravolgimento di consolidati rapporti
gerarchici da parte dei quadri aziendali - utilizzano nuove forme di contestazione, dai
cortei interni agli scioperi articolati, dal “salto dei pezzi” lavorati alla catena di montaggio
a clamorose azioni pubbliche, come i blocchi stradali e quello della stazione ferroviaria. Di fronte a reazioni unilateriali dell’azienda, si arriva a riattivare gli impianti ed a
realizzare momenti di autogestione. La funzione del sindacato è quella di ricondurre
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ad unità un movimento spontaneo e magmatico, costruendo il consenso attraverso la
contrattazione articolata e la conquista di risultati concreti. Contestazione dei ritmi alla
catena di montaggio, conquista di spazi di vita e centralità della battaglia sulla salute
si legano con forme di lotta che rappresentano esse stesse uno storico recupero di
dignità umana da parte dell’operaio-massa incatenato alla fabbrica tayloristica. Azione
nella quale il sindacato riesce con successo a riassorbire le spinte dei gruppi che si
organizzano alla sua sinistra, che agiscono anche con notevole protagonismo, come
nel caso del Comitato Operaio di Porcia, ma non riescono ad organizzare una stabile
alternativa in opposizione alla nascente Flm. In questo radicamento del sindacato trova
anche ragione la sostanziale estraneità delle fabbriche pordenonesi al fenomeno della
violenza sistematica e, più tardi, del ricorso alla lotta armata da parte di un segmento
della sinistra extraparlamentare. Sull’altro lato, va segnalato come i confederali riescano a bloccare rapidamente la costituzione dell’Adaz, un tentativo di sindacato giallo
promosso alla Zanussi sul modello dell’agnelliano Sida, che presenta storicamente basi
di massa negli stabilimenti della Fiat.
La caratteristica della politica sindacale degli anni ‘70 - ed il Consiglio di Fabbrica della Zanussi di Porcia è un punto di riferimento di livello centrale per l’iniziativa regionale
e nazionale in questi anni - è quella di aprirsi al territorio, non solo per ottenere sostegno
alle lotte di fabbrica, ma per porre questioni generali che accomunano lo sfruttamento
operaio all’organizzazione della società. Sono anni in cui la classe operaia realizza effettivamente un suo ruolo egemone nella realtà sociale, ponendo il problema delle riforme
di struttura e contribuendo a creare le alleanze per ottenerne l’approvazione, in primo
luogo con i nuovi movimenti di massa degli studenti, delle donne, dei lavoratori intellettuali. In un decennio vengono approvate la legge sul divorzio e poi quella sull’aborto
(ed i due referendum confermano, battendo i tentativi clericali, il profondo cambiamento
culturale intervenuto in Italia), le riforme fiscale, delle pensioni, della casa, della sanità.
Norme non perfette, spesso inadeguate, ma che segnano un’epoca: a partire dallo Statuto dei Lavoratori del 1970 e dalla nuova giurisprudenza della Magistratura del Lavoro,
che comincia a testimoniare il cambiamento che sta avvenendo in uno dei settori tradizionalmente più conservatori delle istituzioni. Non è un caso che in questi anni avvengano due fenomeni contrastanti, che dimostrano la forza di attrazione del sindacato: da
una parte la grande ondata repressiva, nei primi anni ‘70, contro i protagonisti delle lotte
operaie, che si salda con l’inizio della “strage di stato” e delle manovre golpiste negli apparati dello stato; dall’altra il processo di sindacalizzazione clandestina della polizia, che
porta nelle file del movimento sindacale un intero settore dei “lavoratori della repressione” - conquistati, come testimoniato da molti dei promotori di quella esperienza - proprio
dalle tematiche e dalle parole d’ordine ascoltate nelle manifestazioni sindacali mentre
svolgono i turni di “ordine pubblico”. Sarà la piccola sede del Centro Operativo Unitario
della Federazione provinciale Cgil-Cisl-Uil a fare da recapito notturno per i familiari della
quasi totalità degli agenti della polizia di Pordenone, che consegnano le buste con le
quali viene eletto segretamente il direttivo del Siulp clandestino.
La lotta di fabbrica si salda con quella degli studenti per contestare un servizio di trasporto privato che lucra sulle ore di vita spesa dai pendolari in mezzi fatiscenti: la prima
metà del decennio è segnata da dure agitazioni, che uniscono utenti ed autisti delle
società di trasporto, ottenendo finalmente la pubblicizzazione del servizio in provincia,
con la creazione dell’Atap e l’avvio di un processo di rinnovo del parco macchine e di
controllo delle tariffe. Nei maggiori stabilimenti industriali viene contrattata una quota di
servizio che le aziende debbono versare all’azienda pubblica come forma di rimborso
del disagio sopportato dal territorio con la pendolarità. La conflittualità sui trasporti è
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segnata da due episodi significativi: nell’autunno 1973 il blocco per alcuni giorni della
stazione delle corriere di Pordenone da parte degli studenti, che porta ad un’assemblea
unitaria studenti-operai alla Zanussi di Porcia, ed in quello del 1974 l’autoriduzione dei
biglietti organizzata dalla Flm insieme ai collettivi studenteschi.
Se la presenza dei sindacalisti metalmeccanici diventa consueta nelle assemblee
studentesche, non lo è meno nel rapporto con le migliaia di giovani di leva costretti a
passare il servizio militare nelle caserme friulane. Il rapporto con il movimento democratico dei soldati avrà una sua prosecuzione di tipo specificamente para-sindacale nelle
agitazioni dei sottufficiali di mestiere dell’aviazione e dell’esercito. Memorabile l’episodio in cui centinaia di soldati in divisa, in mancanza di altre sale di riunione, si recano in
corteo cantando fino alla Casa del Popolo di Torre, svolgendovi un’assemblea nella sala
oscurata per impedire l’individuazione degli intervenuti, mentre il sindacato organizza
all’esterno il servizio d’ordine per impedire l’ingresso ai carabinieri.
Il ruolo del sindacato è importante a sostegno delle lotte nel territorio, come nel caso
di quella della popolazione di Lestans contro l’inquinamento prodotto dall’installazione
del Cementificio di Travesio. Primo di una serie di cinque impianti che avrebbero dovuto costellare la Pedemontana occidentale per dare rifugio alle aziende cementiere
scacciate dal Colli Euganei, il Cementificio sorge privo dei più elementari meccanismi
di abbattimento delle polveri, secondo una logica coloniale che continua a vedere la
montagna friulana come un’area da sfruttare senza regole. Ma si trova di fronte ad una
inedita resistenza popolare, che assedia per lunghi mesi lo stabilimento, costringendo
l’opinione pubblica regionale a prendere coscienza.
La richiesta di una politica di costruzione degli asili nido diventa un punto forte delle
rinvendicazioni operaie, portando a provvedimenti regionali per il finanziamento della
costruzione di queste strutture. Se in alcuni comuni alla costruzione degli immobili non
corrisponderà l’apertura del servizio, a Porcia - sede del principale stabilimento Zanussi
- la giunta di sinistra ne realizzerà negli anni ‘70 ben due, superando per iniziativa lo
stesso capoluogo di provincia.
Il sindacato riprende in questa fase il suo storico rapporto con la cooperazione di
consumo, individuata come strumento di difesa del reddito dei lavoratori, di fronte all’inflazione che rischia di rimangiarsi il risultato delle dure lotte di quegli anni. Se in altri casi
il ruolo del sindacato, nel rapporto con l’esterno, è di solidarietà e sostegno, l’incontro
con la Cooperativa di Borgomeduna, vede un protagonismo diretto del sindacato della
Zanussi di Porcia, che porta all’apertura del primo supermercato proprio vicino allo stabilimento. Si contribuisce così, con l’impegno diretto di delegati Fiom come Zaramella,
Alberto Bomben e Mario Titton) allo svecchiamento della cooperativa, immettendovi migliaia di nuovi soci operai ed avviando un processo che assume una funzione trainante
a livello regionale, influenzando analoghe iniziative, come quella che sorge al Cantiere
di Monfalcone (testimonianze di Antonio Zaramella e Silvio Valdevit; VALDEVIT 1971;
DIEMOZ 1984; ZANOLIN 1987-1988; MAZZOTTA 1994; PADOVAN 2005).
Altra iniziativa direttamente gestita dal sindacato è l’intervento sulla politica della
casa, attraverso la costituzione del Sunia, il sindacato inquilini, organizzato da Claudio
Kellner, elettricista della Zanussi rientrato dall’emigrazione in Svizzera. L’azione del Sunia si rivolge alla tutela degli inquilini dalle violazioni contrattuali in materia di canoni di
affitto, ma anche alla rivendicazione di nuove realizzazioni nel campo dell’edilizia pubblica ed all’organizzazione degli assegnatari dei complessi di alloggi popolari, per i quali
vengono organizzate la contrattazione collettiva ed azioni di miglioria degli immobili.
Come denuncia Migliorini nel 1968, mancano gli alloggi popolari, mentre la speculazione edilizia ha portato in città gli affitti a 30-40 mila lire mensili. Dal 1960 al 1968 sono
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stati costruiti dai vari enti solo 130 alloggi, in massima parte destinati alle famiglie sfollate dalle ristrutturazioni che hanno interessato le vecchie abitazioni del centro urbano.
Stessa situazione in provincia: con soli 48 alloggi complessivamente programmati ed in
via di costruzione a Porcia, Brugnera, Sacile e Maniago (L’Edile del maggio 1968).
Mentre alla Zanussi di Porcia i primi rapporti con le multinazionali generano comprensibili preoccupazioni, nel caso della Scala - venduta nel 1969 - si riscontra paradossalmente un miglioramento delle relazioni industriali con la nuova proprietà americana,.
L’Ideal Standard riconosce subito il ruolo del sindacato ed in particolare quello molto forte della Cgil, guidata da Arcangelo Valvasori. I chimici sono una delle quattro categorie
industriali che si unificano, e la Fulc15 ha anche una sua sede, in Via XXX aprile, come
la Flm in Via Molinari. Anche all’Ideal Standard avvengono grandi battaglie sindacali,
con la partecipazione alle manifestazioni anche da parte degli impiegati e picchettaggi
affollati e compatti. Quando un dirigente dell’azienda denuncia i lavoratori per un picchetto, il sindacato - per ottenere il ritiro della denuncia - inizia a far calare gradualmente
la temperatura del forno a ciclo continuo, finché la direzione centrale del gruppo accetta
la richiesta: con le tecnologie dell’epoca, abbassare la temperatura di un forno voleva
dire perdere molte ore di produzione. Altra forma di lotta è il lasciare il prodotto negli
stampi oltre la durata prevista, rovinando la colata: l’azienda replica con trattenute a tutti
gli operai, che rispondono con affollate manifestazioni pubbliche.
Anche nel principale stabilimento del settore ceramico, la scelta della Filcea è quella
di privilegiare le problematiche dell’ambiente e della salute rispetto a quelle del mero
salario. Si tratta di una scelta molto discussa, che comporta anche minacce dirette
agli esponenti Filcea da parte degli operai più vicini alla direzione aziendale. Si parte
con un ambiente molto pericoloso (alla fine degli anni ‘60 lo stabilimento viene ancora
pulito solo una volta al mese, mentre dopo decenni di lotte si arriva ad ottenere anche
più interventi consecutivi al giorno) costituendo una commissione apposita, e quando
viene istituito il servizio di Medicina del Lavoro si riesce ad imporre attraverso i controlli
il risanamento ambientale. I medici propongono di assegnare i controlli ad un’università,
e le visite mediche sono affidate all’Università di Padova e poi di Pavia, passando infine
alla competenza di un gruppo di medici che seguono tutto il gruppo Ideal Standard. Si
ottiene che venga predisposta una infermeria per le medicazioni interne. Per i silicotici
si conquista anche il diritto di andare in montagna per ossigenazione per due settimane.
Si riesce a costituire un fondo per finanziare questa iniziativa,finanziato dall’azienda
sul monte-salari. Questa iniziativa durerà fino agli anni ‘90, non senza contraddizioni:
vari lavoratori chiedono all’azienda ed al sindacato di essere pagati per andare in altre
località. Si arriva ad organizzare ispezioni, con un rappresentante dell’azienda ed un
delegato sindacale, per reprimere gli abusi di chi abbandona il luogo di soggiorno per
tornare a lavorare a domicilio. Si riesce anche a far finanziare una biblioteca aziendale,
con libri e riviste. Si ottiene l’inserimento di un lavoratore con la sindrome di down, con
un accordo sindacale per garantirne le forme di tutela e di accompagnamento, anche
se purtroppo questo esperimento finisce male, con il ricovero coatto ed il suicidio della
persona interessata. Gli interventi di risanamento ambientale non si limitano solo agli
stabilimenti maggiori: alla vetreria Cogeve di Villotta di Chions, allora soggetta ad un
elevato turn over del personale per le terribili condizioni di lavoro, si sperimenta la cabina per i macchinisti per proteggerli dal calore e dal rumore, intervento accompagnato da
visite ospedaliere periodiche per la rilevazione della sordità (testimonianze di Giuseppe
Gasparotto, Fortunato Vendrame ed Oscar Vignola).
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Federazione Unitaria Lavoratori Chimici.
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27. Picchetti volanti. L’espansione sindacale nella piccola e media azienda.
Se il movimento nelle grandi fabbriche colpisce maggiormente la fantasia per le significative mobilitazioni e conquiste degli anni ‘60 e ‘70, quanto succede in quest’epoca
sul territorio è forse ancora più significativo, vedendo la sindacalizzazione di nuove
categorie, delle piccole e medie aziende e dei servizi. Si tratta di un’azione capillare,
che si confronta con vecchi e nuovi soprusi, cercando di imporre regole ad un padronato arretrato che si regge su un rapporto sistematicamente scorretto nei confronti della
manodopera. La forza del sindacato è accresciuta dalla nuova unità realizzata fra le
tre confederazione e le Acli che, avviate verso la “scelta socialista” del congresso di
Vallombrosa, diventano espressione della nuova sinistra cristiana. Il 21 febbraio 1970 si
tiene un’assemblea della Cgil provinciale: sono presenti per la prima volta delegazioni
di Cisl, Uil ed Acli. Dopo il primo accordo alla Zanussi del marzo 1968, nelle fabbriche
della ceramica ed in una parte di quelle tessili e dell’abbigliamento si conquistano i
comitati cottimi, il premio di produzione, i delegati di reparto e le assemblee. Altri punti
qualificanti sono la riduzione del numero delle categorie di inquadramento, a partire
dalle più basse, la riduzione dell’orario di lavoro settimanale ed il rifiuto dello straordinario. Le vertenze aziendali avviate nel 1969 in provincia sono 64, di cui 58 concluse
entro l’anno, ed interessano 24.350 lavoratori. Per ottenere gli accordi, sono state necessarie 1.483.400 ore di sciopero. Se metà dei lavoratori interessati sono collocati nel
settore metalmeccanico, va segnalato come il settore del legno, con 6.000 lavoratori,
superi quello del tessile, che ne vede coinvolti 5.500, ed i chimici (2.700). Per la prima
volta, sono coinvolte nuove categorie, dagli alimentaristi al commercio (3.000 addetti),
dall’unica clinica privata alla vigilanza notturna, fino ai 2.500 braccianti agricoli (L’Edile
del febbraio 1970; Cgil naz., Veneto, b. 29, f. 183).
In tutta l’azione di sindacalizzazione delle industrie sparse sul territorio della nuova
provincia, appare fondamentale l’azione di sostegno prestata dagli operai delle aziende
maggiori: in primo luogo Zanussi, Ideal Standard, Cotonificio Veneziano. A partire dal
1968-1969, i delegati escono in permesso per organizzare e formare gli operai delle
altre aziende. Si fanno i primi picchettaggi alle fabbriche, bloccando le corriere che
portano gli operai fin dentro lo stabilimento per impedire loro contatti con gli attivisti
sindacali. I delegati fanno picchetti non solo nelle industrie - uscendo in permesso sindacale almeno 4-5 giorni al mese - ma anche nei grandi magazzini, nelle banche, alla
lavanderia Fantuzzi, nelle imprese edili. Si tratta spesso di situazioni rischiose, come
quando, in un’azienda tessile del Sanvitese, i delegati sono investiti da una corriera, che
cerca di spingerli all’interno dell’area dello stabilimento, per permettere poi ai carabinieri
di denunciarli per violazione di proprietà (testimonianze di Giuseppe Gasparotto, Fortunato Vendrame, Oscar Vignola; intervista a Vitaliano Brollo in La storia le storie).
Il sindacato investe nella formazione dei nuovi delegati che aderiscono nelle più svariate aziende: è il caso del corso di formazione organizzato dalla Filtea il 12 e 13 ottobre
1968, cui partecipano 30 delegati degli stabilimenti pordenonesi e 4 di Udine. L’età dei
frequentanti è mediamente molto bassa, si aggira attorno alla ventina. Oltre alle presenze dai Cotonifici Veneziano e Cantoni, si notano le giovanissime delegate delle aziende
del settore abbigliamento. La finalità immediata del corso, il primo della categoria, è
data dal fatto che nei mesi successivi si apriranno le vertenze sulla rivalutazione dei
cottimi al Cantoni, sull’introduzione dei cottimi alla Vittadello di Cordovado, all’Arve di
Azzano Decimo ed al Maglificio di Travesio e sulla contrattazione dei carichi di lavoro e
dei cottimi al Veneziano (Cgil naz., b. 11, f. 98)
La prima grande vertenza degli edili avviene nel 1968 nei cantieri di quella che allora
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viene chiamata Nuova Erto, il sito vicino a Maniago dove sorgerà la futura Vajont, con la
ricollocazione di una parte dei superstiti della catastrofe. Le imprese non solo praticano
estese evasioni contributive e contrattuali, ma minacciano di sospendere in blocco i
lavoratori, lasciandoli privi di salario, in quanto non sono state pagate per i lavori. Per
questo motivo, e per la situazione generalizzata di crisi della zona industriale maniaghese, viene proclamato uno sciopero generale della zona il 29 luglio. Gli edili bloccano tutti
i cantieri durante lo sciopero, mentre il sindaco di Maniago - ancora chiuso su posizioni
grettamente antioperaie - reagisce alla manifestazione vietando vanamente l’uso della
piazza. Il sindacato deve anche far intervenire l’Ispettorato del Lavoro per imporre la fornitura di acqua potabile nei cantieri. Le vertenze nelle aziende edili debbono affrontare
diffuse irregolarità: l’impresa Manzon risparmia sulla indennità di liquidazione dei propri
operai, non accandonando l’equivalente dovuto; l’impresa Guerra & C. di Spilimbergo
licenzia un lavoratore che rivendica i suoi diritti; le imprese Alpi, Fadalti Achille, Biscontin & De Filippo ed altre, invece di mettere gli operai in Cassa Integrazione Guadagni
in caso di maltempo o cause di forza maggiore, li licenziano per non corrispondere gli
oneri riflessi sulla retribuzione. Nel settembre-ottobre 1969 ci sono dure giornate di lotta
per rinnovare il CCNL degli edili. In particolare si dimostrano compatti i 70 lavoratori
dell’Impresa Caldart, che nel cantiere di Usago di Travesio stanno costruendo il nuovo
cementificio. La direzione, per rappresaglia, invia sette lettere di licenziamento, ritirate
dopo uno sciopero ad oltranza.
Alla fine degli anni ‘60 nella fiorente industria del legno ci sono circa 6.000 addetti,
con poche centinaia di iscritti alla Fillea e meno alla Filca-Cisl. Gli iscritti della Fillea
sono ancora quasi tutti concentrati alla Zanette ed a Sacile, alla Viotto (che ha assorbito la Lacchin) ed alla Piero Della Valentina, che si è sviluppata nel frattempo, dove il
sindacato è organizzato da Ernesto Gaspardo. Nella Zona del Mobile non c’è ancora
quasi nulla: in quel periodo viene rinnovato un CCNL del legno con l’aumento di 15 lire
l’ora, e nel volantino si scrive: “abbiamo chiuso perché non c’era nessun rapporto di
forza”. Il mobiliere Casagrande di Sacile riesce, il 1° ottobre 1968, a far scioperare i suoi
dipendenti ed a portarli in piazza per protestare contro sindaco e giunta che non avevano partecipato all’inaugurazione del nuovo stabilimento. Lo stesso industriale (che nel
1964 aveva licenziato 28 lavoratori membri della Commissione Interna ed attivisti del
sindacato) reagisce con gli insulti ad ogni sciopero proclamato dal sindacato contro le
retribuzioni da fame dello stabilimento.
Nel 1968-1969 inizia il lavoro sistematico di sindacalizzazione dell’area, svolto unitariamente dai nuovi sindacalisti Oscar Vignola della Fillea e Sergio Celotto della Filca, operando nella prospettiva della costruzione della Flc16. Si ideano alcune vertenze
aziendali, costruite senza l’aiuto dei lavoratori, con cui non ci sono ancora contatti. A
quei tempi, i principali industriali della zona, Luigi Dall’Agnese e Rino Presotto, fanno a
gara nel presentarsi alla messa domenicale a Maron di Brugnera sfoggiando automobili
lussuose e le pellicce ed i gioielli delle mogli (Dall’Agnese acquista perfino titoli nobiliari): una delle prime iniziative del sindacato sarà quella di irridere a questa competizione
fra ricchezze. Capito il punto debole dei capofila dei mobilieri, il passaggio successivo
è quello di metterli l’uno contro l’altro, raccogliendo le loro confidenze. Un grande aiuto
viene dagli operai della Zanussi, che vengono a fare i picchetti: Presotto li innaffia con
l’idrante, finché i picchettatori glielo strappano di mano, lui fugge gridando alla rivoluzione e lo stabilimento viene bloccato.
Finalmente da Dall’Agnese si crea un gruppo di sindacalizzati Cgil/Cisl, in un’epoca in
16
Federazione Lavoratori delle Costruzioni.
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cui bisogna ancora riunirsi nelle trattorie, senza diritti di assemblea e permessi. Tramite
le loro informazioni si acquisiscono dati sulle altre fabbriche. Si costituisce la Commissione Interna da Tomasella: il delegato Donadonibus, che ha contratto la silicosi nelle
miniere del Belgio, viene inviato per punizione a spostare le tavole all’esterno in pieno
inverno. In un’altra azienda un lavoratore denuncia al sindacato il ricatto del padrone
che vuole abusare di sua figlia: con gli operai della Zanussi, viene bloccata la fabbrica
e viene rapidamente posta fine all’ignobile vicenda. Fillea e Commissione Interna effettuano una vertenza aziendale presso il Mobilificio Impra di Pravisdomini, per arrivare al
rispetto delle norme legislative e contrattuali. Dopo la minaccia di entrare in agitazione
ed ampi e burrascosi colloqui, si arriva ad un accordo che prevede: rispetto dei minimi
contrattuali con mantenimento delle condizioni di miglior favore; abrogazione della V
categoria; promozione di 5 lavoratori a operai specializzati; scaldavivande per coloro
che non possono andare a pranzare a casa propria; tutte le decisioni che riguardano i
rapporti con il personale non potranno essere poste in atto fintantoché non vi sarà un
accordo delle parti, ecc. I lavoratori del Mobilificio Dotta di Prata effettuano 48 ore di
sciopero per arrivare all’applicazione del CCNL. Dopo questa dura lotta, finalmente i
fratelli Dotta iniziano il confronto con il sindacato: l’accordo porta all’applicazione dell’Accordo interconfederale del 18 aprile 1966, le qualifiche vengono riallineate al CCNL,
viene abrogata la V categoria e corrisposta la retribuzione contrattuale. Nell’ottobre
1968 si costituisce per la prima volta la Commissione Interna alla S.A.C.M.A. di Azzanello di Pasiano.
La prima vertenza alla Dall’Agnese avviene alla fine del 1969. Come sempre c’è un
alto numero di crumiri, uno addirittura ha la spudoratezza di chiedere ai sindacalisti di
rimborsargli i calzoni rotti nel saltare la ringhiera! A mali estremi, estremi rimedi: i sindacalisti con gli altoparlanti stazionano davanti alla villa di Dall’Agnese per un po’ di giorni,
alle 5 di mattina, fino a che l’industriale cede. Durante uno sciopero, Dall’Agnese esce
dallo stabilimento e strappa il microfono dalle mani di un sindacalista, che lo stringe al
cancello ed ottiene così finalmente la firma del contratto. Si ottengono il superminimo
aziendale del 7% sui salari tabellari vigenti; l’eliminazione della V categoria e la revisione degli altri inquadramenti; una prima una tantum di 3.000 lire a tutto il personale; il
diritto di assemblea con la presenza dei dirigenti sindacali (un’ora in tutto!). Gli aumenti
orari vanno dalle 28,21 lire della prima categoria ai 22,89 della quarta.
Subito dopo la vittoria simbolo alla Dall’Agnese, si strappano accordi aziendali (che
prevedono l’assemblea di fabbrica, superminimi aziendali e l’eliminazione della quinta
categoria, con revisione delle rimanenti) alla Presotto Rino, Tomasella, Celotto, Piccinato, Verardo, Santa Lucia, Tonon ed in altre fabbriche. La zona del mobile ha avuto
così la prima importante esperienza della trattativa articolata e, fatto di enorme importanza di democrazia sindacale, per la prima volta dirigenti sindacali hanno effettuato
all’interno degli stabilimenti delle assemblee a tutti i lavoratori raccogliendo il massimo
entusiasmo. I lavoratori della zona hanno così avuto modo di valutare la importanza che
ha assunto il sindacato rispondendo con una massiccia iscrizione di massa. La contrattazione articolata continua allla Viotto, Piero Della Valentina, Amedeo Della Valentina,
Casagrande, Da Frè, Pegolo, Zanette Del Santo, Jolli, Presotto Ruggero & Italo.
I dati delle prime contrattazioni aziendali nel legno dimostrano una forte presenza di
apprendisti e il fortissimo aumento del numero di operai delle qualifiche più basse (4a
e 5a). Per quanto riguarda gli incentivi aziendali, grazie alla contrattazione aziendale
2.500 dei 4.500 lavoratori del settore provinciale del legno ottengono superiminimi individuali che vanno dal 5 al 7% del salario non riassorbibile, andando in questo modo ad
un’emersione del fuori-busta. Risultati ottenuti grazie a 18.800 ore di sciopero. Le as98
Pordenone
Il congresso della Fillea di Pordenone nel 1985 - archivio Fillea Pordenone
Sacile: manifestazione di operai della “Piero della Valentina” - archivio Fillea Pn
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semblee di fabbrica iniziano a diventare una pratica normale nelle aziende. A Brugnera,
negli stabilimenti Dall’Agnese e Tomasella, i padroni inviano loro fiduciari a registrare
le assemblee di fabbrica, per intimidire i lavoratori: l’intervento dei sindacalisti provoca
l’arresto delle apparecchiature. Poco dopo, la vertenza per il CCNL del legno produce
i primi scioperi significativi a Brugnera, dove i padroni non vogliono cedere una lira di
salario, poiché trovano più facile fare una ringhiera di 18 milioni per la propria villa, comperarsi castelli e speculare sulle aree fabbricabili. La lotta articolata vede per la prima
volta l’organizzazione dei picchetti composti dagli operai davanti agli stabilimenti dove
il sindacato è più debole. Abbiamo visto lavoratori, portati all’interno delle fabbriche con
le corriere, scendere ed uscire per partecipare allo sciopero. Abbiamo visto crumiri di
professione vergognarsi davanti ai loro compagni e partecipare agli scioperi. Abbiamo
visto compagni organizzarsi a gruppi nei crocevia per convincere lavoratori di altre fabbriche. Abbiamo visto aziende difficili, scioperare compatte.
Anche nel settore del legno un aspetto importante della contrattazione è il problema
della salute. Per esaminare le singole situazioni e fare formazione sindacale si organizzano riunioni notturne con Rino Favot, direttore dell’Inca. Si studiano sperimentazioni
che permettono di far installare protezioni sulle macchine; si effettuano moltissime denunce sugli infortuni, in particolare per le dita tranciate; si denunciano gli effetti nocivi
di materiali e sostanze, come la noce di mansonia alla Zanette, o l’ incredibile quantità
di sostanze disperse nell’aria della Zona del Mobile (benzene, toluolo, xilolo, ecc.) con
l’intervento del servizio di Medicina del Lavoro. Grazie a questa attività, la Fillea cresce
dai 1.315 iscritti del 1968 a 2.000 nel 1969, 2.969 nel 1973, 3.500 nel 1974, fino ai 3.650
del 1981, che rappresentano la punta massima dello sviluppo della categoria (testimonianza di Oscar Vignola; L’Edile del 1968-1970; Cgil Pn, Inca, b. Regione, f. settimana
1968 e carte Vendruscolo).
L’esperienza di sindacalizzazione del legno – e quella contemporanea della meccanica generale, la vasta area di medio-piccole aziende diffuse nel territorio – portano a
due risultati significativi, unici in Italia. Vengono sottoscritti nel 1974 due contratti integrativi provinciali, che tutt’ora (pur nel superamento di quello della meccanica generale
negli anni ’90, per il passaggio alla contrattazione aziendale, e nell’allineamento alla
dimensione provinciale del secondo livello contrattuale del legno, a partire dal CCNL del
2004) costituiscono la base di una serie di conquiste generalizzate per le due categorie.
Il contratto provinciale della meccanica generale nasce da un contesto determinato
dall’esistenza di un gruppo di medie aziende di vecchia sindacalizzazione, con alcune
centinaia di operai ciascuna, fatto che induce nel tempo dinamiche di lotta simili: Casagrande, Cimolai, Imat, Safop, Bertoia, San Marco, Moro, Infa. Si tratta di aziende i
cui imprenditori hanno un ruolo decisivo in sede di Federmeccanica provinciale, subito
dopo Zanussi e Savio. Al polo opposto ci sono gli industriali coltellinai, che per ben
due volte hanno ottenuto deroghe in pejus, soprattutto dal punto di vista temporale,
per la zona di Maniago. Il contratto nasce come scelta unitaria della Flm, costruita in
forma simile alle vertenze di un grande gruppo, attraverso l’elaborazione collettiva nelle
assemblee delle singole fabbriche, che orienta il resto della categoria. Si tratta di una
operazione solidaristica, che produce l’ “esplosione” della sindacalizzazione nella metalmeccanica. Una caratteristica comune di quasi tutto il gruppo di aziende trainanti è
l’adesione maggioritaria degli operai alla Fiom, che organizza anche le aziende minori,
contribuendo a formare l’attuale gruppo dirigente della categoria. Oggi, dopo l’accordo
del 1993 sulle relazioni industriali, l’accordo - pur non più rinnovato - rimane in vigore
come un terzo livello contrattuale, richiamato nei contratti aziendali, ed i tentativi di qualche azienda di metterne in discussione i diritti acquisiti sono stati battuti. Alcune con100
Pordenone
dizioni, ad esempio di esclusione di forme di precariato, garantiscono i lavoratori dalla
deregolamentazione, grazie alla resistenza delle Rsu (testimonianze di Bruno Bazzo,
Daniele Roviani e Flavio Vallan).
Per quanto riguarda il contratto provinciale del legno, si tratta di uno strumento nato
dall’esigenza di unire una categoria dispersa sul territorio e con scarsa tradizione sindacale: con conquiste importanti, come l’integrazione a carico dell’azienda della carenza
di malattia fin dal primo giorno, anticipando una conquista ottenuta a livello nazionale
solo con l’ultimo CCNL. Nei primi anni ‘80, per ottenere l’accordo integrativo, si arriva
anche ad una manifestazione pubblica nella Zona del Mobile, che si conclude al Teatro Pileo di Prata. La categoria acquisisce una diffusa rappresentatività territoriale: nel
periodo dal 1980 al 1991 la Flc unitaria riesce ad estendere la sua rete di delegati in un
centinaio di aziende del settore, sia nella Zona del Mobile sia nel resto della provincia.
La Zona del Mobile rimane comunque atipica per il sindacato, che alle soglie del
nuovo secolo si trova a convivere con un orientamento politico di destra anche fra gli
operai, a dispetto dell’impegno della Fillea, che conserva il maggior numero di iscritti.
Gli scioperi generali in questa zona non riescono e la sindacalizzazione conserva un
aspetto passivo, legato al lavoro di assistenza individuale assicurata ai lavoratori. Fra i
sindacalisti che hanno diretto la categoria, si collega questa forma di sindacalizzazione
passiva ad una sorta di compromesso accettato dagli imprenditori, dopo aver saggiato
per anni l’aggressività del sindacato nei confronti delle aziende. Altri sottolineano i fattori
legati alla particolare organizzazione del lavoro, connotata dal lavoro nero, dagli straordinari, da una capacità di reddito molto alta per la scelta delle aziende di pagare fuori
busta: è una realtà dove la manodopera si è formata con una mentalità che favorisce
una disponibilità totale alle richieste degli imprenditori. A dispetto degli alti redditi (si
percepisce il 30% in più che in altri settori) nelle fabbriche del legno non si trovano ex
metalmeccanici od ex chimici, categorie i cui lavoratori non sono disponibili ad accettare
di lavorare stabilmente 9 ore al giorno per 6 giorni la settimana, e che quindi finiscono
per essere espulsi dall’ambiente come corpi estranei. Una realtà che oggi sembra essere messa in crisi dalla mentalità dei nuovi operai stranieri.
Realtà del tutto diversa quella degli edili, che operano in un quadro da sempre connotato dal contratto nazionale e provinciale, oltre che dalla Cassa Edile che, istituita
in provincia il 1° aprile 1971, offre istituti aggiuntivi e forme di anticipo salariale. Queste particolarità dipendono dalla caratteristica itinerante degli edili, con il passaggio
continuo da un’impresa all’altra. Grazie alla Cassa Edile viene realizzato un controllo
generalizzato sulle aziende, incrociato con il controllo sull’assegnazione degli appalti.
Gli edili sono la categoria più sindacalizzata dell’industria in generale, per diversi motivi:
per la storia del settore, per la bilateralità (la delega sindacale viene inviata alla Cassa
Edile e non all’impresa), perché il valore della tessera è più basso, in quanto tutta la
categoria - anche i non iscritti - versa la quota di servizio contrattuale. L’edile si iscrive
più facilmente perché il sindacato, oltre a fare la contrattazione, fornisce un servizio più
immediato, compila pratiche nel cantiere: non serve che l’operaio vada alla Cassa Edile
od al sindacato, perché è il sindacalista che agisce nel territorio, operando in cantiere,
al bar, nella pausa mensa. Anche i lavoratori stranieri sono molto sindacalizzati: soprattutto la Cisl, dopo l’ultima sanatoria ha fatto un enorme salto organizzativo sia a livello
nazionale che locale. Per alcuni anni, la Fillea ha potuto contare fra i suoi delegati edili
don Tarcisio Bertacco, delegato per la Pastorale del Lavoro di Sacile (Diocesi di Vittorio
Veneto), dal gennaio 1991 missionario ad Am-Timan in Ciad (testimonianze di Giuseppe Dario, Daniele Roviani ed Oscar Vignola; Cgil Pn, arch. Fillea, b. Lettere nomina
rappresentanti ...).
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Un settore sindacale che rinasce negli anni ‘70 è quello dell’agricoltura, dopo il crollo
della Federmezzadri del decennio precedente, quando passa dai 1.350 iscritti del 1960
alle poche centinaia degli anni successivi, mentre la Federbraccianti, con qualche decina di iscritti, organizza solo l’1% della categoria. Nel 1975 la Federmezzadri, diretta da
Mario Ceolin, organizza nuovamente 700 iscritti (di cui 260 pensionati) su 1.200 lavoratori del settore, mentre la Federbraccianti è salita a 950 iscritti, su 300 lavoratori stabili
e 1.600 stagionali. Presenza consolidata negli anni ‘80, quando (dopo la confluenza
della Federmezzadri con l’Alleanza Contadina nella nuova organizzazione Confcoltivatori, poi Cia) la consistenza della categoria si aggira attorno al migliaio di iscritti che
rappresentano, dopo l’unificazione con gli alimentaristi nella Flai, il 43% degli occupati.
La Federbraccianti promuove cooperative agricole, e - come le categorie industriali - è
presente nel territorio per affrontare le tematiche della salute: è del 1978 un’inchiesta
del Consorzio Socio-Sanitario sulla condizione di lavoro dei trattoristi, la morbilità derivante dalla posizione sui mezzi e dall’utilizzo di prodotti chimici e l’infortunistica. Nel
1980 il contratto integrativo provinciale di Pordenone diventa la vertenza pilota utilizzata
dalla Federbraccianti nazionale.
Il settore dell’industria alimentare è pure gravato da seri problemi ambientali. Ci sono
vertenze significative, come alla macelleria Agriservice di Pasiano - poi chiusa per concentrazione produttiva a Vicenza - che occupa un centinaio di donne, costrette a lavorare in un ambiente molto pesante, freddo, con ritmi ripetitivi. Si lavora nell’umido con
grembiuli e stivali di gomma, con gli organici ridotto all’osso e scarsa considerazione
per le pause fisiologiche. Per quanto la vertenza sia gestita dalle operaie, essa attira
l’attenzione della stampa per la presenza di un gruppo di marocchini - fra i primi lavoratori stranieri coinvolti in un’azione sindacale - assunti per i lavori più duri e sporchi, lo
scarico e la macellazione. Una vertenza innovativa è quella che all’inizio dei ‘90 vede
gli operai dell’Universal mangimi di San Vito impegnati in uno “sciopero a rovescio”.
C’e molto sporco perché l’azienda risparmia sulle pulizie, la polvere provoca malattie
bronchiali. Si decide quindi di effettuare un’ora di sciopero, pulendo gratuitamente lo
stabilimento: si tratta di una proposta accolta inizialmente con perplessità dagli operai
(alcuni rifiutano l’idea di lavorare gratis, mentre altri ne comprendono il valore simbolico), che spiazza l’azienda, soprattutto per il rilievo dato dalla stampa all’episodio (Cgil
Pn, Inca, b. Regione, f. Settimana 1968 e carte Vendruscolo; archivio Flai naz., fondo
Federbraccianti 1978-88, b. 1.1/6, f. Cipl 1979 Friuli; testimonianza di Silvio Valdevit).
28. Sopravvivere ai terremoti.
Dalla politica della solidarietà nazionale agli anni del riflusso.
Nell’arco di un decennio si consumano la stagione dell’unità sindacale e quella dello
spostamento a sinistra del paese, mentre una serie di scossoni cambiano lo sfondo. Il
primo è costituito dai due terremoti del 1976, che vedono il sindacato coinvolto in prima
persona nella gestione dell’emergenza e della ricostruzione. Il sindacato si trova impegnato nelle assemblee dei lavoratori per ottenere il loro massimo sforzo, chiedendo di
lavorare anche i sabati e le domeniche negli stabilimenti del legno che costruiscono i
prefabbricati e nei cantieri edili, per permettere alla popolazione di rientrare nei paesi
dopo l’inverno passato negli alberghi dei centri balneari. Nelle fabbriche si pone come
priorità la loro riapertura o ricostruzione, per impedire che la sospensione delle attività
produttive diventi definitiva. Il sindacato si schiera per una gestione democratica della
ricostruzione, gestita dalle autonomie locali e per battere i fenomeni di degenerazione
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Pordenone
localistica: il terremoto ha evidenziato le contraddizioni del blocco di potere e la mancanza di un progetto regionale unitario da parte delle forze dominanti, come dimostrano
il carattere conservatore attribuito alla rivendicazione dell’Università friulana e, a Trieste, l’opposizione al Trattato di Osimo con la Jugoslavia.
Il terremoto si inserisce, a livello locale, in un quadro generale di crisi, che porta il sindacato a modificare la sua strategia nella seconda metà degli anni ‘70. La crisi economica è prodotta dalla mancanza di una politica industriale e, sul piano internazionale, dalla
crisi petrolifera. A livello regionale, nel periodo post-terremoto, sono in pericolo 3.000
posti di lavoro, soprattutto femminili, nel tessile. In provincia, è in pericolo la Torcitura di
Sesto al Reghena, mentre è imminente il licenziamento delle 330 operaie della Vestir
di Cordovado, dopo anni di battaglie per difendere lo stabilimento. E’ in crisi il disciolto
gruppo pubblico Egam, di cui fa parte la Savio, con il tentativo di riprivatizzarla visto
che va bene. Ci sono crisi gestionali alla Ceramica ed alla Cartiera Galvani; si riscontra
l’utilizzo massiccio della Cassa Integrazione nella Zona del Mobile, dove si tende ad
adeguare la produzione alla stagionalità del mercato. Vanno bene le piccole e medie
imprese, grazie alla loro flessibilità, e le grandi aziende esportatrici, come Zanussi, Savio e Cantoni. La crisi differenzia quindi due settori economici, mentre gli imprenditori
rispondono alle conquiste dei lavoratori attraverso il decentramento produttivo e la frantumazione del mercato del lavoro, colpendo soprattutto i giovani e le donne: è l’inizio di
una tendenza di lungo periodo.
La crisi economica ha la sua preoccupante corrispondenza in quella politica. La tenaglia, costituita dalla strategia della tensione orchestrata dai poteri occulti e dal fenomeno
della lotta armata di settori dell’estrema sinistra, opera contro la prospettiva di entrata
dell’intera sinistra nel governo nazionale. Il possibile punto di giunzione della crisi economica e di quella politica, nel quale possono entrare in crisi le basi della democrazia
creando un consenso per correnti eversive di massa, è la crescente disoccupazione e
precarizzazione dei rapporti di lavoro. Per questo motivo, la relazione del nuovo segretario della CdL Giannino Padovan al congresso del 5-7 maggio 1977 pone al centro la
difesa e lo sviluppo dell’occupazione insieme alla difesa delle istituzioni democratiche.
Si sceglie, sulla linea che porterà all’assemblea nazionale dell’Eur dell’anno successivo, di assumere come sindacato una funzione stabilizzatrice delle istituzioni e della
società nazionale, ponendo al centro la programmazione economica e rivendicando al
suo interno un ruolo centrale, puntanto all’estensione della base produttiva nazionale,
alla piena occupazione, allo spostamento di risorse dai consumi privati a quelli collettivi
ed all’efficienza della pubblica amministrazione.
Vengono messe in secondo piano le rivendicazioni salariali, rilevando anzi come gli
automatismi conquistati sottraggono paradossalmente al sindacato la sua principale
ragion d’essere, quella di strumento attraverso il quale i lavoratori contrattano i loro
redditi. Il sindacato diviene così elemento di consolidamento della spinta politica a sinistra, a costo di creare tensioni con i settori sindacali (interni soprattutto alla Cisl) che
privilegiano le rivendicazioni salariali, e di consumare la rottura con l’area estrema dei
movimenti giovanili: un mese prima Lama è stato cacciato dall’Università di Roma dagli
studenti autonomi. Sul piano industriale, la Cgil sceglie di superare la linea della difesa
ad oltranza degli stabilimenti in crisi, ponendo come discrimine l’individuazione di precisi
progetti di ristrutturazione aziendale e di riqualificazione del personale, sul modello del
Cotonificio Veneziano e delle piattaforme elaborate per l’Ideal Standard e la Galvani.
Vengono messi in rilievo i risultati nel pubblico impiego, dove si rivendica la generalizzazione dei consigli dei delegati e delle prime esperienze di contrattazione decentrata,
realizzate al Cpas (il consorzio per l’assistenza ai portatori di handicap), al Consorzio
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Socio-Sanitario (primo nucleo delle future Usl) e negli ospedali. Sono gli anni in cui si
sviluppano le strutture locali del Welfare State, attraverso lo smantellamento delle istituzioni totali come i manicomi e i brefotrofi. La nuova provincia e la scolarizzazione di
massa inducono la costituzione di un consistente pubblico impiego, con l’immigrazione
in massa di giovani scolarizzati. La sindacalizzazione del pubblico impiego viene spinta
da questi giovani lavoratori intellettuali, soprattutto nella scuola: nel 1974 viene chiesto
per la prima volta alla Cgil nazionale di finanziare il distacco del segretario di categoria
Ilario Valvasori, per far fronte ad una realtà ormai presente in 38 delle 42 scuole medie
superiori. E’ in queste categorie che per la prima volta da anni si allarga lo spettro politico degli aderenti alla Cgil, con le prime elezioni di dirigenti provenienti dalla cosiddetta
“terza componente”, espressione dei gruppi sorti alla sinistra di Pci e Psi. Complessivamente la Cgil provinciale, nel corso del decennio, è cresciuta dai 9.520 iscritti del 1968
ai 20.188 del 1977 (Cgil Pn, Inca, b. Regione, f. Settimana 1968; Cgil naz., Congresso
1977, b. 55, f. 81; 1974, b. 12, f. 102).
Quella che però appare l’alba di una nuova stagione di conquiste si rivelerà una
stagione di veleni e sangue. Il governo di unità nazionale viene arenato da oscure
manovre, che culminano nell’uccisione del dirigente democristiano Aldo Moro. La fine
degli anni ‘70 ed i primi anni ‘80 saranno concentrati dal sindacato nella lotta contro
il terrorismo, con la costante mobilitazione dei lavoratori in difesa delle istituzioni e la
vigilanza nei confronti degli episodi di infiltrazione in fabbrica, per altro irrilevanti nel
Pordenonese. La sinistra si divide sul piano strategico aprendo la strada, negli anni ‘80,
ad un attacco alle conquiste del decennio precedente, con il decreto sul congelamento
di tre punti della scala mobile deciso dal governo Craxi nel 1984 e le prime iniziative per
l’innalzamento dell’età pensionabile. Divisione delle sinistra e nel sindacato marciano di
conserva, portando alla fine dell’esperienza della Federazione unitaria ed alla campagna elettorale per il referendum del 1985 sulla scala mobile, nel quale le confederazioni
sindacali si trovano schierate su fronti opposti. Paradossalmente, il sindacato si spacca
a Pordenone proprio nei giorni in cui finalmente, sulla facciata della sede di Via San
Valentino, inaugurata nel 1979, vengono dipinte le sigle di Cgil, Cisl ed Uil.
Il clima è lo stesso a livello internazionale, dove le politiche neoliberiste fanno i loro
primi passi con Ronald Reagan e Margaret Tatcher, ed alla politica della coesistenza
pacifica succede una nuova corsa al riarmo nucleare. La sconfitta del lungo sciopero
del 1984-1985 dei minatori inglesi conclude il ciclo delle grandi lotte di massa della classe operaia novecentesca, dopo che il colpo di stato polacco del 1981 chiude il confronto
di classe iniziato con il grande sciopero operaio di Solidarnosc dell’anno precedente
e - pure nel 1980 - la lotta ad oltranza degli operai della Fiat di Torino viene sconfitta
dall’intransigenza padronale e dall’aggregarsi dei quadri intermedi contro il sindacato.
Alla fine del decennio, fra il 1989 ed il 1991, crolla l’intero blocco sovietico seppellendo,
insieme ai regimi autoritari, anche gran parte della speranza di cambiamento della parte
subalterna dell’umanità. Non a caso, dopo la “caduta del muro”, si moltiplicano i conflitti
armati e si scatena un attacco planetario al Welfare State. L’era della globalizzazione
si basa sulla centralità del capitale finanziario, che sfrutta l’innovazione tecnologica per
spostare la produzione dove il costo del lavoro è minore.
Questo è il quadro interno ed internazionale in cui si colloca l’azione della Cgil in
particolare, stretta fra la necessità di difendere il frutto di anni di conquiste e quella di
preservare il patrimonio sindacale unitario, per non ritornare all’isolamento degli anni
‘50. Difesa dei diritti e tutela dell’occupazione sono i punti di riferimento della politica di
accordi aziendali realizzati nelle aziende, basati su una relativa moderazione salariale
in cambio di investimenti per il rinnovamento tecnologico. Questa politica coincide, nella
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
Zanussi di Mazza, con la politica della diversificazione produttiva, condivisa dal sindacato in quanto corrispondente alla richiesta di un nuovo modello di sviluppo basato sui
bisogni collettivi. Alcune analisi sottolineano il ruolo delle acquisizioni a pioggia di aziende e della mancata scelta governativa sulla televisione a colori, nella crisi finanziaria
che ha portato alla vendita della Zanussi all’Electrolux. Analisi che mettono in rilievo la
mancanza di una politica industriale del governo che, insieme all’elettronica, ha permesso lo smantellamento di altri settori strategici, dimostrandosi al contempo incapace
di risolvere le grandi contraddizioni strutturali del paese, come la formazione, i trasporti,
la casa e facendo fallire ogni sperimentazione produttiva in quel senso. Ma viene anche
denunciata l’irresponsabilità delle “grandi” famiglie del capitalismo italiano, insuperabili
nel privatizzare i profitti e socializzare le perdite, e l’assenza di ruolo dell’Associazione
Industriali di Pordenone. In tale quadro, la politica di diversificazione della Zanussi degli
anni ‘70 rappresenta una funzione di supplenza da parte della direzione aziendale, per
altro dimostratasi inadeguata alla sfida della gestione dei settori diversificati.
L’intervento sindacale nelle ristrutturazioni riesce ad ottenere risultati significativi nel
preservare il patrimonio industriale ed aprire le porte all’assunzione delle giovani generazioni. Dopo anni di blocco del turn over, con l’accordo del 1976 si ottengono 1.200
assunzioni alla Zanussi. A volte si tratta di scelte dolorose, come quelle che progressivamente, ed in particolare con gli accordi del 1984 e del 1993, vedono scambiare
gli investimenti per l’ammodernamento degli impianti della Ideal Standard di Orcenico
con la fuoriuscita incentivata del personale più anziano e sindacalizzato, per fare posto
a giovani assunti con contratti di formazione lavoro. Gli interventi, che comportano la
meccanizzazione degli impianti, iniziano negli anni ‘70, e nel decennio successivo portano alla salvezza dello stabilimento locale. Si tratta di una ristrutturazione contrattata
puntualmente con i delegati, a volte anche modificando le indicazioni tecniche iniziali
dell’azienda. Si passa da una situazione in cui, per rovesciare gli stampi, erano necessarie da 1 ad 8 persone - con la conseguenza di continui sforzi alla schiena - ad una lavorazione in forma automatizzata, che permette di realizzare la stessa produzione con
metà personale. La Filcea viene accusata di rinunciare a conquiste salariali in cambio
della ristrutturazione ma i problemi, facendo un bilancio dell’esperienza, appaiono altri:
come i ritmi vincolati della produzione meccanica e la minore professionalità.
In questo, come negli altri stabilimenti, c’è un problema di trasmissione della memoria
fra le generazioni di lavoratori: fra chi ha lottato per conquistare un miglioramento delle
condizioni di lavoro e chi invece privilegia gli spazi di espressione individuale e vive
l’esperienza di fabbrica come non definitiva (un’inchiesta realizzata dal Pci alla Zanussi
rivela già nel 1987 tendenze individualistiche molto accentuate: BOSARI 1994). Ma nel
caso dei giovani dell’Ideal Standard la sindacalizzazione ha inciso, ed alcuni di essi
prendono il posto dei loro predecessori come delegati. Ancora oggi questa azienda,
anche grazie alle scelte di una proprietà che punta su un prodotto di gamma medio-alta
ed è disponibile ad investire, rappresenta un caso avanzato di contrattazione continua,
basata su una forte presenza di un’organizzazione sindacale potenzialmente conflittuale. Ogni cosa deve essere contrattata e monetizzata, e questa è una forma mentis che
è stata trasmessa dai vecchi ai giovani sindacalisti.
Il principale problema delle crisi aziendali rimane comunque quello dell’individuazione
di un imprenditore. Lo dimostra il caso della Cartiera di Cordenons, industria con manodopera molto professionalizzata, entrata in crisi proprio con la gestione Zanussi. In
quel quadro, la Filis17 è costretta a vertenze sul riconoscimento della professionalità, gli
17
Oggi confluita nel Slc, Sindacato Lavoratori delle Comunicazioni.
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
organici, perfino sul servizio mensa: la Zanussi aveva chiuso il servizio mensa fornito
dai Galvani, facendo ritornare gli operai al gavettino di un tempo. Parallelamente al successo dell’azienda con i nuovi imprenditori, si ottiene un miglioramento delle condizioni
dei lavoratori sia sotto l’aspetto salariale che normativo, con accordi integrativi e premio
di risultato. Oggi è un’azienda dove si spende in innovazione e ricerca, con altri due
stabilimenti in Belgio ed in Trentino, l’unica che vada bene del settore cartario regionale
(ZANOLIN 1987-88; PADOVAN 2005; interviste a Giuseppe Gasparotto, Giuseppe Pascale, Daniele Roviani, Fortunato Vendrame, Silvio Valdevit)
29. Ristrutturazione e contrattazione nell’industria metalmeccanica.
Alla fine del 1984 il gruppo Zanussi viene venduto alla multinazionale svedese
Electrolux. La posizione della Cgil, ricordata recentemente dal segretario regionale di
allora, è quella di confrontarsi con l’impresa straniera, evitando di perdere tempo con
soluzioni alternative inesistenti. Si crea una forte alleanza fra sindacato e management,
finalizzata a salvaguardare il patrimonio industriale, a prescindere dall’“italianità” del
padrone (intervento di Graziano Pasqual alla conferenza pubblica del 2 marzo 2006).
L’Electrolux accetta di mantenere in Italia la direzione del gruppo, secondo il modello
decentrato praticato in quella fase dalla multinazionale, e presenta un piano che prevede la dismissione delle attività nel settore dell’elettronica - che viene scorporata in una
nuova società, la Seleco, che subirà progressivi ridimensionamenti in assenza di una
politica nazionale di settore - e consistenti investimenti, mentre sul lato dell’occupazione
viene concordata una riduzione incentivata di 3.800 posti di lavoro.
Si avvia un processo di riduzione dimensionale complessiva della grande industria.
Se negli anni ‘90 la composizione del settore metalmeccanico provinciale vede ancora
la prevalenza della grande fabbrica, nel decennio successivo il rapporto si va rovesciando. La galassia Zanussi si disperde in più aziende, perdendo anche il settore della componentistica e dei grandi impianti. Se nel 1974 la Zanussi di Porcia ha 10.000 dipendenti, nel 2006 ne ha solo 2.500; la Savio passa dai 1.700 dipendenti della gestione Eni
a 480; la Seleco da 1500 (punta massima negli anni ‘70) alle sole 175 persone odierne
(comprensive di 100 della scorporata Sim2). C’è un dimezzamento degli organici nelle
medie aziende ed una forte frammentazione, dovuta al decentramento delle aziende
maggiori: comunque specializzazione e decentramento producono complessivamente
un aumento del settore. Alla fine del processo, in provincia sopravvive una sola grande azienda ridimensionata; un altro gruppo sui generis costituito dalle principali aziende della meccanica generale (con un proprio prodotto, anche se con decentramento
produttivo); un terzo gruppo di aziende specializzate nella componentistica; un quarto
gruppo - che lavora a servizio dei primi due - costituito dall’artigianato della subfornitura,
privo di investimento progettuale. Questa frammentazione del settore implica una desindacalizzazione, che interroga il sindacato, chiedendogli di rivisitare forme di presenza non più centrate sulla fabbrica, ma sulla zona, attualizzando il modello mutualistico
della CdL delle origini.
Nell’azienda principale, dopo la vendita viene progressivamente messo in discussione il meccanismo di relazioni costruito precedentemente. Gli accordi che si susseguono
a partire dal 1985 introducono un legame fra incentivi e produttività, rendono flessibile
l’orario lavorativo annuo ed ammettono assunzioni a termine in rapporto ai picchi di produzione. Viene aumentato il rendimento delle linee di montaggio, portandolo dal passo
125 al passo 133, il massimo ammissibile secondo l’accordo sul cottimo del 1969. Sulla
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Pordenone
quantificazione delle assunzioni a termine, si arriva - per la priva volta da vent’anni all’accordo separato, che la Fiom sarà costretta a subire aggiungendo la sua firma in
un secondo momento, nonostante la perplessità sulla mancanza di precisi impegni da
parte dell’Electrolux.
Se da parte della Cgil si manifestano preoccupazioni sul terreno della difesa dell’occupazione, su quello dell’efficienza si sviluppa un dialogo fra azienda e sindacato:
il sindacato può iniziare a mettere mano sull’organizzazione del lavoro. Il confronto è
reso possibile dall’incontrarsi fra la proposta della Fiom nazionale di sperimentare la
“codeterminazione”, cioè la disponibilità ad intervenire sull’organizzazione del lavoro
attraverso la contrattazione integrativa, e l’impostazione delle relazioni industriali dell’Electrolux - vicina ai modelli socialdemocratici nordeuropei - che si differenzia dalla
chiusura mostrata delle altre aziende italiane, come la Fiat. Nello stabilimento di Porcia
degli anni ‘80, gli investimenti sull’innovazione portano a tentativi di modifica della linea
di montaggio. La Fiom è interessata ad andare oltre la catena di montaggio e quindi
vede con favore il tipo di ristrutturazione attuata a Porcia da Aldo Burello, che sceglie
una mediazione fra automazione e modello tradizionale, con un ruolo importante riservato al lavoro operaio: resta la vecchia catena di montaggio, ma si costruisce l’innovativa “fabbrica tubo” (entra in funzione completamente nel 1990) che a distanza di 16 anni
resta la fabbrica più innovativa del mondo nel settore lavatrici. Le linee di montaggio
rimangono tradizionali, ma con elementi di automazione e le baie che rendono più flessibile la prestazione del lavoratore. Altre linee rimangono tradizionali, ma più spinte. Se
alla fine degli anni ‘80 occorrono 4.500 fra impiegati ed operai per produrre 1.000.000
di lavatrici l’anno, oggi c’è il doppio di produttività con circa 3.000 lavoratori, con enormi
profitti per l’azienda.
Poi l’esperimento viene abbandonato, dal 1998 in poi si ritorna indietro, l’Electrolux è
interessata solo a realizzare il massimo di reddito senza ulteriori investimenti. Si scelgono prodotti semplificati, pochi processi di innovazione del prodotto, alta produttività, si
tende a ridurre l’utilizzo delle maestranze. La Fiom si oppone a questa scomposizione,
che viene invece accolta dagli altri sindacati. Non a caso c’è il ritorno indietro alla catena di montaggio ed allo sfruttamento dei lavoratori: si torna ad andare sotto il minuto
per prestazione (oggi si lavora anche a 45’’). Questa scelta deriva dal cambiamento di
direzione del gruppo Electrolux, che da industriale è diventato soprattutto finanziario.
Ricostruita la verticalità di direzione, tolte le autonomie ai vari paesi, gli stessi marchi
sono affiancati (Zanussi-Electrolux) nella prospettiva di arrivare ad un marchio solo.
Scelta che comporta la chiusura di stabilimenti europei, ultimo la Aeg da Norimberga.
L’Italia si sta ancora avvantaggiando dalle chiusure in Germania ed Inghilterra, ma gli
investimenti in Polonia mettono a rischio gli stabilimenti italiani. Negli ultimi 4-5 anni le
vertenze sono fatte tutte in difesa dell’occupazione.
Parallelamente alla realtà della produzione, si snoda la vicenda del “sistema partecipativo”, basato su una rete di organismi congiunti fra sindacato ed impresa, costituiti
per discutere in sede tecnica sull’organizzazione del lavoro, la sicurezza e l’ambiente,
le pari opportunità, gli inquadramenti professionali, la mensa. Negli anni ‘90 la Fiom così come tutti i sindacati - è d’accordo il modello di relazioni strutturate e regolate, che
apre spazi negoziali nella fabbrica, pur individuando il rischio della burocratizzazione e
dell’espropriazione degli organismi titolari della contrattazione (il Consiglio di Fabbrica,
e dal 1993 la Rsu). Si creano problemi fra i sindacati (più che fra i lavoratori, che sono
di fatto esclusi dalla partecipazione alla gestione produttiva), si scatenano battaglie fra
la Fiom - che sostiene che i delegati negli organismi congiunti debbono rispondere ai lavoratori - e Fim e Uilm, che rivendicano l’autonomia decisionale dei delegati. Il sistema
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partecipativo inizia però a scricchiolare all’inizio dello stesso decennio, quando Maurizio
Castro, responsabile del personale del gruppo, sceglie di giocare questo meccanismo
contro il conflitto, tentando di portare il sindacato, attraverso i meccanismi di decisione,
ad accettare il punto di vista dell’impresa. L’elemento che produce l’opposizione della
Fiom è la proposta di Castro che gli organismi congiunti si trasformino da consultivi in
decisionali, nei quali per di più si deciderebbe a maggioranza qualificata, ipotizzando la
rottura fra i sindacati e l’accordo separato sistematico di alcuni di essi con l’azienda.
La Fiom, che non firma in un primo momento l’accordo del 1991, propone ed ottiene
di inserire nelle norme partecipative la conferma delle materie che il CCNL delega alla
contrattazione aziendale, mentre agli organismi partecipativi vengono lasciate le materie legate alle tematiche specifiche: chi fa gli accordi sulle materie resta il Consiglio
di Fabbrica. L’azienda rinuncia alla maggioranza qualificata, ma dopo due anni rileva
che non si chiudono gli accordi, che c’è troppa rivendicazione: in realtà non riesce più
a predeterminare le scelte negli organismi congiunti. A questo punto nel 1997 l’azienda
propone un “Testo Unico” delle norme sulla partecipazione, tentando di realizzare una
svolta di tipo autoritario e burocratico del sistema: si ipotizzano organismi nazionali
congiunti, sottraendo la partecipazione al livello di fabbrica. Si costruisce un terzo pezzo
del meccanismo: oltre alla contrattazione ed alla partecipazione, si costruisce una commissione nazionale di garanzia, con la presenza di giuristi, per regolare la buona fede e
la lealtà dei comportamenti delle parti (criteri seppelliti da decenni di giurisprudenza del
lavoro che, sulla base della Costituzione, rileva l’asimmetrica relazione contrattuale fra
il potere dell’imprenditore ed i lavoratori, tutelando questi ultimi), prevedendo anche la
possibile imposizione di un arbitrato e sanzioni nei confronti del sindacato. La proposta
dell’Electrolux si colloca al di fuori delle norme del diritto del lavoro italiano. Nel 1997 la
Fiom nazionale cambia linea, a differenza delle altre due federazioni e, in un convegno
che si svolge a Pordenone con la presenza del segretario generale Claudio Sabbatini
e l’appoggio della CdL, esprime il suo rifiuto della proposta aziendale. Le assemblee
modificano la proposta, accettando la commissione nazionale, ma priva dei poteri sanzionatori e di arbitrato. Dal 2000 l’azienda dà la disdetta del sistema, ritenendolo inefficace dal suo punto di vista; molti organismi continuano ancora oggi a lavorare, ma solo
a livello aziendale.
Durante la discussione per il rinnovo dell’integrativo, l’Electrolux propone il cosiddetto
job-on-call, cioè la possibilità di far lavorare personale a part-time a chiamata, per sostituire malattie, ferie, ecc., con preavvisi di 24/48 ore, in cambio di un’indennità annua di
poche centinaia di euro per la disponibilità, in pieno stravolgimento delle regole contrattuali (norma poi introdotta dalla L. 30, ma di fatto mai applicata). Fim ed Uilm accettano
la proposta e firmano un accordo separato, in un clima in cui ambienti imprenditoriali,
sindacali e politici (anche minoranze della Fiom in altre province) sono interessati a sperimentare il sistema derogando alla legge sul part-time. La Fiom di Pordenone assume
invece una funzione trainante nell’opposizione all’accordo. Si impone il referendum,
accettato dalla stessa azienda (sicura del risultato, grazie alla contropartita salariale
promessa a tutti gli altri lavoratori), che si conclude nel luglio 2000 con la bocciatura dell’accordo da parte del 70% dei lavoratori (questo risultato porterà alla decisione
successiva di Fim e Uilm di rifiutare di sottoporre a referendum gli accordi separati per
i bienni contrattuali del 2001 e 2003, fino alla chiusura del nuovo Ccnl del 2005). La
vittoria porta nel novembre 2000 alla sottoscrizione di un nuovo accordo unitario, con
gli stessi soldi dell’accordo precedente. E’ significativo che al referendum l’opposizione
venga anche da un settore tradizionalmente lontano dalla Fiom come gli impiegati, che
poi premieranno questo sindacato in occasione del successivo rinnovo delle Rsu.
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Pordenone
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Rimane però un’eredità negativa di questa fase: il sistema partecipativo ha limitato la
discussione con i lavoratori, in quanto il sindacato è stato assorbito in un continuo meccanismo di partecipazione e verifiche, ed i lavoratori si sono convinti che non serva più
il conflitto e basta la delega ai rappresentanti. In tal modo si ha un indebolimento della
contrattazione quotidiana: ci sono richieste pressanti, si richiedono risultati al sindacato,
ma senza un protagonismo diretto. Il sistema partecipativo ha sterilizzato il conflitto,
ma poteva funzionare solo finché l’azienda poteva o voleva scambiare qualcosa: ora
che non può più dare nulla, il sistema non funziona. Un altro elemento di debolezza è
la struttura delle Rsu: prima c’era il delegato di linea, eletto con il sistema maggioritario
ed un legame forte con il proprio gruppo omogeneo, mentre oggi le Rsu sono rappresentanze di uno stabilimento, che non sono necessariamente presenti nei vari reparti
(testimonianze di Bruno Bazzo e Flavio Vallan; FIOM 1997; PADOVAN 2005; Cgil Pn,
carte Iodice).
30. Nuove frontiere del mondo del lavoro.
Un sindacato di impiegati, insegnanti, pulitrici, commesse.
In trent’anni, dal 1975 al 2005, gli iscritti alla Camera del Lavoro di Pordenone passano da 17.499 a 37.404, con un incremento del 214% circa. Tale tumultuosa avanzata è
determinata dall’afflusso degli iscritti allo Spi, il sindacato dei pensionati, che cresce da
4.051 a 23.373 iscritti. Questo dato eclatante porta talvolta osservatori distratti a sottolineare la trasformazione della Cgil (e con essa degli altri sindacati) da organizzazione
di lavoratori attivi a struttura di pensionati. In realtà non si tratta di questo. I lavoratori
attivi rimangono stabili alla quota raggiunta nel 1975, anzi hanno un lieve incremento:
da 13.448 a 14.031. Il dato, quindi, non è quello della riduzione della presenza del sindacato nel mondo del lavoro, quanto quello di un suo radicamento territoriale, basato
sulla fidelizzazione dei lavoratori non più attivi, che si accompagna ad una modificazione della composizione della manodopera rappresentata. Se nel 1975 i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura erano l’89,68% degli occupati iscritti alla Cgil, nel 2005 essi
sono calati al 58,28%, in linea con la generale riduzione degli occupati nella produzione
diretta in una società sviluppata. Crescono invece significativamente i lavoratori dei servizi pubblici e privati iscritti alle tre categorie della Flc (scuola), Fp (pubblico impiego) e
Filcams (servizi privati), che colmano il calo di iscritti di provenienza operaia, crescendo
da 1.387 a 5.852. Vale la pena rilevare quali siano le tre principali categorie di occupati
rappresentate nella CdL nel 1975 ed oggi: erano la Fiom (3.190 iscritti), la Fillea (3.500)
e la Filtea (1.400), tutte categorie “sottorappresentate” per la presenza di migliaia di
tessere fatte direttamente ai sindacati unitari esistenti allora; la quarta categoria era la
Federbraccianti. Nel 2005 l’ordine muta e le tre maggiori categorie sono la Fiom (3.100
iscritti), la Cgil-scuola, nel frattempo diventata Flc (2.790) e la Fillea (2.305); a seguire,
sono la Funzione Pubblica e la Filcams, mentre le altre categorie contano poche centinaia di iscritti. Particolare significativo, tutti e tre i sindacati dei servizi sono in fase di
espansione. I numeri ci dicono quindi che siamo di fronte ad un sindacato in movimento,
con capacità di aderire alle pieghe della società (Cgil Pn, carte Vendruscolo; Cgil Fvg).
Le tre federazioni dei servizi sono accomunate da alcuni elementi, che hanno corrisposto ad innovazioni strutturali nella vita dei settori (come la elezione delle Rsu nella
scuola e la privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego) ed a scelte
politiche di rinnovamento del sindacato. Ne è derivato un investimento sul radicamento
nel territorio, il superamento della struttura accentrata nello staff dei funzionari, la pro109
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La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
mozione di nuove risorse umane e lo spostamento della contrattazione al livello delle
strutture di base.
Il sindacato scuola cresce dai 40 iscritti del 1969 (fino a quell’anno gli insegnanti di
sinistra erano iscritti ad alcuni sindacati autonomi laici, come Snase ed Snsm) ai quasi
tremila di oggi. I tesserati dipendenti della scuola pubblica sono circa 2.500, rappresentando oltre la metà della categoria (4.800 occupati), di cui 800 fra il personale non insegnante. Dato confermato dai risultati elettorali, che da vent’anni vedono la Cgil ottenere
la maggioranza dei consensi, risultando prima in tutti i settori della scuola con il 54% di
rappresentatività, la percentuale più alta d’Italia: in poche altre province, anche “rosse”,
si arriva al massimo al 28-31%. Ma la Flc ha pure iscritti nella formazione professionale
(settore difficile, perché la grande maggioranza dei lavoratori lavora con contratto a
tempo determinato od a prestazione professionale), all’università e nelle scuole private dove, soprattutto con le vertenze individuali, si opera da 15 anni. Dal 1982 si sono
aperte sedi locali nei centri maggiori della provincia, il che ha contribuito a rafforzare
la presenza e le adesioni al sindacato, che gode della presenza volontaristica di molti
iscritti ed anche di pensionati. Il sindacato si organizza con consulte di settore, oltre che
con il direttivo provinciale, coinvolgendo circa 180 persone. Mentre un tempo gli iscritti
si caratterizzavano soprattutto dal punto di vista politico, oggi non c’è più un’omogeneità
così precisa, le persone aderiscono alla Cgil sulla base della condivisione di singole
questioni. Il sindacato è riconosciuto perché dà risposte precise, mentre nel passato chi
era di sinistra si iscriveva comunque.
La categoria ha un grande sviluppo con la creazione delle Rsu (dove conta 89 eletti
su 150), ma già prima si erano creati i delegati in ogni istituzione scolastica, e ciò ha
consentito di capire meglio le esigenze dei lavoratori nelle scuole. In alcune realtà (si
tratta di 49 sedi, che raggruppano circa 210 plessi) si sono nominati più delegati, anche
suddividendoli fra personale docente e non docente (Ata): la rappresentatività di tutte le
categorie del personale è un punto di forza nella contrattazione. In ogni istituto vengono
sottoscritti da un minimo di 4 fino a 6 accordi su varie materie, dai diritti sindacali alla
retribuzione integrativa all’organizzazione del lavoro, come previsto dal CCNL (che in
questo settore è rimasto di diritto pubblico). Si svolgono circa 250 assemblee annue
nelle scuole, consumando tutte le 10 ore di disponibilità. Un importante risultato della
contrattazione nelle scuole è stata quella di ottenere, con un risultato unico a livello nazionale, l’abolizione degli appalti di servizi, ottenendo fin dal 2003 l’assunzione diretta
(anche se rimane ancora aperto il problema della precarietà del 40% del personale Ata).
Scelta coerente con quella di privilegiare i giovani, a partire dai precari, seguendoli nella
loro promozione verso il posto stabile.
Una caratteristica della Flc sono i frequenti rapporti con gli Enti Locali e con il territorio,
per proporre interventi sull’edilizia scolastica, per richiedere nuove scuole per l’infanzia,
ecc. Ci sono state le raccolte di firme per la scuola pubblica e le campagne contro le
riforme Berlinguer e Moratti, che hanno visto numerose affollatissime assemblee in tutti
i comuni. I sindacalisti della scuola sono stati chiamati a parlarne nei direttivi di alcune
categorie del privato: si è ripreso a parlare della scuola come di un problema comune,
ma il percorso è ancora molto lungo. Problematiche come le classi a tempo pieno non
autorizzate, o la non assegnazione di insegnanti di sostegno agli alunni con handicap,
vengono viste ancora come proprie solo del settore (interviste a Gianfranco Dall’Agnese e Carla Franza; Cgil Pn, Inca, b: Regione, f: Settimana 1968; Cgil Fvg).
La Funzione Pubblica passa dalle poche decine di aderenti ai piccoli sindacati di categoria degli anni ‘60 (statali, parastatali, enti locali e sanità) ai 1.961 iscritti del 2005, con
uno sviluppo accentuato dal cambio di contrattazione nell’ultimo decennio: con il CCNL
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Pordenone
del 1994-1997 cambiano le regole e l’approccio del sindacato rispetto ai problemi dei
lavoratori, per la prima volta in modo forte si interviene nella contrattazione di secondo
livello. Prima, il CCNL di diritto pubblico determinava quasi tutte le materie, lasciando
spazio ad un’attività sindacale volta a seguire le questioni di carattere collettivo che riguardavano la generalità dei lavoratori (le piante organiche) e l’adesione era soprattutto
politica. Dopo, la contrattazione ha cominciato ad entrare nel merito dell’organizzazione
e dei carichi di lavoro, della pianta organica e dei concorsi, sulla distribuzione del salario accessorio, sulla corresponsione di benefici economici legati a condizioni di lavoro
disagiate. Questo rinnovamento ha prodotto anche il successo della Fp nelle elezioni
per il rinnovo delle Rsu, dove è diventata il sindacato maggioritario nei comparti degli
Enti Locali e della Sanità.
Un salto di qualità nella contrattazione articolata è stato determinato - con il bienio
2000-2001 - dall’adozione del criterio della progressione orizzontale, che ha prodotto
un grande confronto nella categoria ed è stato accolto come strumento per recuperare
salario reale e limitare arbitrarietà. La contrapposizione fra diverse fasce di lavoratori è
una realtà molto presente, che ha indotto il sindacato a “svuotare” in qualche modo la
contrattazione di secondo livello, per ridurre al minimo le forme di distribuzione arbitraria dovuta alla strumentalità della controparte. Si è scelto invece di prelevare il massimo
possibile del salario accessorio disponibile e di trasferirlo nelle progressioni orizzontali,
con il risultato di stabilizzare gran parte delle risorse altrimenti soggette a contrattazione
aziendale, trasformandole in elementi certi e ricorrenti, di fatto andando ad aumentare
la retribuzione fissa. Sono molto importanti i criteri di contrattazione di questo istituto,
che non può essere applicato con eccessivi automatismi (pena l’esaurimento delle risorse) e senza tener conto di criteri oggettivi, come i bisogni dell’insieme dei lavoratori
da un lato, e la reale condizione dei singoli, in termini di produttività, carichi di lavoro,
ecc. Un ulteriore elemento di innovazione è determinato dalla contrattazione regionale:
con il nuovo contratto regionale dell’estate 2006 si recide quasi ogni collegamento con il
CCNL. Si è partiti dalla necessità di accompagnare le esigenze dei lavoratori con quelle
dell’istituto regionale, che punta ad una devoluzione di funzioni e personale agli Enti
Locali. La contrattazione ha portato alla scelta del comparto unico come elemento di
unificazione e razionalizzazione delle competenze del personale regionale e degli enti
locali. Con il nuovo contratto regionale sarà possibile attuare la mobilità dalla regione
agli enti locali e, successivamente, anche dagli enti locali alla regione, con l’obiettivo di
giungere ad un’omogeneizzazione integrale fra le due categorie sul lungo periodo.
Nel Terzo Settore la Fp-Cgil di Pordenone è stata un laboratorio, soprattutto per il confronto con la realtà avanzata della cooperazione sociale locale, che conta migliaia di lavoratori. Non si è fatto del sindacalismo classico: la cooperazione sociale è stata il luogo
per la costruzione di una pratica rivolta unitariamente contro il vero datore di lavoro, che
sono gli enti pubblici appaltanti, che scaricano sui lavoratori delle cooperative i risparmi
gestionali. La realtà di Pordenone è stata quella sulla quale si è costruita l’esperienza
del Comitato Paritetico Regionale del settore, che rappresenta un’esperienza senza
paragoni a livello nazionale. Recentemente, insieme con la Filcams, è stato avviato un
progetto per la sindacalizzazione del settore (interviste a Luca Munno, Susanna Pellegrini e Claudio Venturoso; Cgil tess., b. 24, f. 4; Cgil Fvg).
Fino alla decisione del segretario generale della CdL Mauro Cignola (prematuramente scomparso nel 2004) di investire sulla categoria, la Filcams è stata per lungo tempo
la Cenerentola della Cgil provinciale, a dispetto del migliaio di iscritti consolidato ormai
da anni. E’ un settore difficile, sempre più precarizzato, dove viene sperimentata ogni
forma di lavoro atipico, dove c’è molto lavoro nero e contratti irregolari: ad esempio il
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2006
contratto di associazione in partecipazione negli esercizi pubblici, che è solo una forma
di lavoro dipendente su cui vengono scaricati i costi d’impresa ed il rischio, in cambio di
una paga da fame. C’è un fortissimo turn-over, con conseguenze negative anche per la
clientela che usufruisce di bassi livelli di qualità, sia nel commercio che nei servizi.
La Filcams organizza i più diversi settori: dal commercio alle pulizie, dalla ristorazione
alla vigilanza notturna. Alcuni settori sono di antica sindacalizzazione, come i supermercati e la vigilanza notturna. In altri tempi, quando esistevano i vecchi supermercati tipo
la Standa, Coin o Basevi, con alta occupazione femminile, c’era una buona sindacalizzazione e si erano ottenuti contratti integrativi a livello di gruppo. Oggi invece i grandi
gruppi stranieri, - come la Billa che ha acquisito Standa - disdicono gli integrativi. Nel
commercio, la maggior parte degli iscritti è concentrata nelle cooperative di consumo
che, pur ponendosi su un livello di tutela dei lavoratori diverso e rimanendo l’unica
realtà della grande distribuzione italiana, pretendono però di diversificare il livello delle
garanzie fra i vecchi ed i nuovi assunti. Il recente accordo sindacale per l’apertura del
nuovo Ipermercato Coop di Pordenone, è però migliorativo rispetto alle procedure analoghe previste dal CCNL. Ci sono fenomeni di nuova sindacalizzazione in centri come
Mercatone e Gros Market, nel primo caso anche con la conquista di un integrativo
aziendale.
C’è un peggioramento delle condizioni di lavoro delle lavoratrici del commercio (le
donne compongono il 90% del settore), soprattutto per la perdita del riposo nel fine
settimana. Il sindacato contrappone all’apertura domenicale l’orario continuato, la turnazione fra esercizi: è un problema di non adeguarsi alla mentalità consumistica, che
crea una tossicodipendenza dal consumo senza poter difendere livelli di qualità della
vita: siamo solo dei contenitori da riempire. La crisi generale del settore, in particolare
a Pordenone, provoca mobilità e riduzioni di centinaia di posti in organico nelle aziende
maggiori, ai quali vanno aggiunti i tanti piccoli negozi che chiudono. C’è una crisi dovuta all’incapacità di adeguarsi e rinnovarsi, ma anche al calo dei consumi: i prezzi sono
particolarmente alti, la concorrenza non crea competitività a favore del consumatore,
gli stessi nuovi centri commerciali non hanno prodotto vantaggi a livello di qualità e
prezzo. Gli ipermercati (ne sono in arrivo altri) sono solo la duplicazione del centro città:
non hanno portato neanche grande occupazione, e va valutata la ricaduta sul resto del
sistema commerciale, con la richiesta di riduzione di posti di lavoro dovuta alla concorrenza fra le varie iniziative, .
C’è invece un livello molto buono di sindacalizzazione nel settore delle pulizie e delle
mense, dove ad esempio si organizzano normalmente gli scioperi.. I lavoratori sono
quelli più in basso nella scala delle garanzie, e quindi aderiscono al sindacato perché
non hanno niente da perdere: hanno soprattutto bisogno di tutela nei cambi d’appalto.
Ci sono situazioni inaccettabili, come le clausole illegali di “mancato gradimento” previste in quasi tutti i capitolati: esse producono pressioni illecite e molestie soprattutto nei
confronti delle lavoratrici. Le riduzioni di orario conseguenti alle gare al massimo ribasso provocano un aumento dello sfruttamento, costringendo i lavoratori a lavorare oltre
gli orari retribuiti. In questi settori il sindacato è presente sia nelle cooperative di servizi,
dove ci sono relazioni industriali strutturate, che nelle aziende private. Punto debole della categoria sono gli stranieri, che sottostanno ad ogni condizione di lavoro, accettano lo
straordinario oltre il monte-ore consentito ed il cambio continuo delle turnazioni.
Ci sono poi i mondi privi di diritti: gli studi professionali, il lavoro domestico, i bar e
pubblici esercizi, i ristoranti, i negozi al di sotto dei 15 dipendenti: realtà enorme dove la
sindacalizzazione penetra solo con le vertenze individuali o l’adesione ideale. La sindacalizzazione non riesce a decollare perché non ci sono tutele e si può perdere il posto
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Pordenone
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
di lavoro senza alcuna tutela o diritto alla reintegrazione. Si perde ancora normalmente
il lavoro per maternità. Un esempio eccezionalmente positivo è invece quello del callcenter Overtel di San Vito al Tagliamento, collegato alla Bo-Frost. Qui il personale, tutte
donne, è assunto, mancano forme di precarietà e di lavoro atipico, a differenza del resto
del settore, e sono iscritte alla Filcams la quasi totalità delle teleoperatrici (intervista a
Susanna Pellegrini; Cgil Pn, carte Vendruscolo; Cgil Fvg).
31. Il sindacato della coesione sociale e dell’accoglienza.
La precarizzazione dei rapporti di lavoro viene confermata dell’Ufficio Vertenze della
CdL, che con 300 vertenze all’anno ed un’attività continua di controllo dei documenti
di lavoro e formazione sindacale costituisce un osservatorio fondamentale sulla condizione dei lavoratori. Recentemente sono aumentati i casi di persone che cambiano
più lavori durante lo stesso anno, ciò che indebolisce la loro condizione economica
e sociale e rende sempre meno esigibili diritti come malattia e maternità. In metà dei
contenziosi i lavoratori non vengono pagati: l’impresa dura pochi mesi e poi sparisce,
fenomeno presente soprattutto nel settore del legno. Si contano anche una quindicina
di imprese all’anno i cui titolari si rendono irreperibili, portando la sede legale all’estero
e rendendo impossibile il recupero delle spettanze. Quelli che si rivolgono al sindacato
per avere tutela sono generalmente i lavoratori più deboli, spesso rimasti senza paga,
senza casa, con problemi di ricongiungimento familiare. Ci sono nuovi fenomeni di violenza sul posto di lavoro. Il servizio di tutela legale svolto dal sindacato è fondamentale,
come dimostra il fatto che la metà delle cause di lavoro in provincia passano per gli uffici
di Cgil, Cisl e Uil, percentuale molto più alta di quella nazionale, che è del 15%.
Altrettanto importante, ma egualmente interessato da una sempre maggiore delega
da parte delle federazioni di categoria, è il servizio svolto dall’Inca. La storia del patronato si è evoluta insieme con quella della CdL, articolando il suo servizio sul territorio
e nei principali stabilimenti industriali, fornendo assistenza nelle pratiche previdenziali
ed assicurative e supporto alle lotte per la tutela della saluta in fabbrica. I corrispondenti dell’Inca nelle CdL mandamentali sono stati per decenni il crocevia di un’azione
sindacale trasversale nel territorio, come ben evidenzia la figura di Modesta Colombo,
la filandina diventata animatrice della CdL di Spilimbergo. Eppure l’Inca non riesce a
superare il ruolo di “secondo classificato” fra i patronati sindacali, con oltre un decimo
di pratiche gestite in meno rispetto all’Inas-Cisl, spia di un limite nella “cassetta degli
attrezzi” dei delegati sindacali (interviste ad Edy Padovan e Roberto Dus; Cgil Pn, arch.
Inca, b. Onda; ROTA 2003).
Legato alla sindacalizzazione del territorio è il fenomeno più appariscente nell’ultimo
quarto di secolo: l’esplosione delle adesioni allo Spi, concentrata soprattutto negli anni
‘80, quando gli iscritti schizzano dai 6.573 del 1981 ai 18.370 del 1990, per poi attestarsi stabilmente oltre i 20.000. La svolta coincide con il periodo della ristrutturazione
e dei prepensionamenti alla Zanussi: si può dire che è la classe operaia di questa ed
altre fabbriche trainanti che, pensionata, costruisce lo Spi. E’ partendo dal rapporto
precedente fra questi lavoratori, presenti in tutta l’area provinciale, che si cominciano
ad individuare i riferimenti nei vari comuni. Si sviluppa così un sindacato decentrato,
basato sull’impegno a tempo pieno sul piano dei servizi, dalla compilazione dei moduli
previdenziali all’assistenza nelle pratiche per le prestazioni socio-sanitarie. Vengono
costruite prima 10, e poi 8 grandi leghe territoriali dello Spi, con una dimensione organizzativa che va (nel 1996) dai 1.038 iscritti di Porcia ai 5.186 di Sacile. In ogni lega
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1906
2006
La Cgil e il Friuli Venezia Giulia
Pordenone
si promuovono attività di tipo ricreativo e culturale di massa, dando risposte sul piano
della qualità della vita, con una contrattazione delle politiche sociali a livello di territorio.
Si realizzano grandi iniziative, quella di Caorle con 2.500 pensionati, quella in Fiera a
Pordenone per il 50° anniversario della Liberazione.
Per dare continuità alle iniziative di volontariato, lo Spi locale promuove alla fine del
1996 la nascita dell’Auser, che opera utilizzando le professionalità dei pensionati. Nel
2005 l’Auser raggiunge i 3.000 soci, 1.000 dei quali non sono iscritti allo Spi, ed organizza l’impegno di 220 volontari, distribuiti in 12 associazioni affiliate attive sul territorio.
Le attività spaziano dall’animazione nelle strutture per anziani ai “nonni vigili”, dal call
center del progetto “Filo d’argento” agli accompagnamenti, dalle spese, ai servizi di
compagnia. In alcuni sedi si organizzano corsi di formazione aperti alla cittadinanza ed
a Roveredo è attiva l’Università delle Libere Età. Collegata all’Auser è l’attività dell’Atli,
associazione di turismo sociale, nato negli anni ‘70 come ente sindacale. Nel 2005 hanno partecipato alle sue attività più impegnative - organizzate direttamente senza scopo
di lucro - poco meno di 1.000 soci, mentre 3.000/4.000, in gran parte ultrasessantenni,
partecipano alle gite sociali. Si tratta di un’esperienza unica (altrove ci si affida ad agenzie turistiche) che è nata dalla grande intuizione di rispondere alle opportunità fornite
dalla liberazione del tempo di tante persone uscite dal processo produttivo in età ancora
giovane (interviste ad Nicola Andriani, Vincenzo Buffo, Maurizio Di Sarro ed Antonio
Zaramella; Cgil Pn, carte Vendruscolo; Cgil Fvg).
32. Il sindacato di domani. Gli eredi legittimi dei nostri nonni emigranti.
La Cgil istituisce per la prima volta negli anni ‘80 un servizio settimanale di assistenza
per i lavoratori immigrati, seguito da un’esule argentina. Una rilevazione sugli immigrati
iscritti alla CdL in quegli anni - solo 85 - annuncia le tendenze che si stanno formando
nella loro scelta professionale: i lavoratori africani si occupano prevalentemente nel settore metalmeccanico, gli albanesi nell’edilizia ed i nordafricani nell’agroindustria. Dato
in qualche modo sorprendentemente confermato, per alcuni aspetti, dalla rilevazione
empirica sui tesserati nella primavera 2006, che vede 927 stranieri su 11.994 iscritti occupati nell’impiego privato (il 7,72%). E’ straniero il 15,22% degli iscritti alla Filcem (circa metà africani), il 18,32% della Fillea (le nazioni più rappresentate sono l’Albania, con
71 iscritti, e la Romania con 58); il 13,09% della Fiom (124, cioè più di un terzo, sono
ghanesi); il 27,58% della Filtea (prevalentemente provenienti da Romania e Albania);
il 14,65% della Flai (dove gli indiani superano di poco gli albanesi ed i rumeni). Le nazionalità più rappresentate in Cgil sono i ghanesi, con 213 iscritti, quasi tutti concentrati
nella metalmeccanica. Gli albanesi sono 164 ed i rumeni 134, concentrati nell’edilizia e
nel tessile: esattamente come i nostri avi in Germania cent’anni fa: gli uomini nei cantieri
edili e le donne nell’industria tessile. Seguono con cifre decrescenti marocchini, indiani,
bangladeshi, burkinabè, croati, senegalesi, tunisini ed altre presenze minori. A differenza dei lavoratori provenienti dai vari paesi del subcontinente indiano, i cinesi iscritti sono
solo 2. L’assistenza agli immigrati è fornita, in accordo con la Cgil, dall’Associazione
Italiana Lavoratori Emigrati del Friuli-Venezia Giulia: i tempi delle migrazioni cambiano,
i problemi e le risposte fondamentali rimangono gli stessi (Cgil Pn, carte Vendruscolo;
rilevazione sui dati degli iscritti nel maggio 2006; testimonianza di Oscar Vignola).
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