LA DIMENSIONE DELL’ACCOMPAGNAMENTO NELLA VITA CONSACRATA. PER UNA VISIONE D’INSIEME Assisi, 13 settembre 2013 Fr. Paolo Martinelli, OFMCap Premessa Che cosa è in gioco nella considerazione dell’accompagnamento per coloro che sono chiamati a seguire il Signore Gesù sulla via dell’obbedienza, povertà e castità? Evitiamo in questa sede di specificare in cosa consista l’idea di accompagnamento nelle sue complesse determinazioni antropologiche e psicopedagogiche, rimandando per questo alle opere specializzate1. La stessa parola “accompagnamento” viene qui considerata nel suo senso più elementare, vale a dire il fatto che il percorso vocazionale alla vita consacrata non possa avvenire se non insieme ad altri, in una comunità, in cui taluni in modo peculiare svolgono una funzione formativa2. Il mio contributo non si concentra nel delineare questa varietà di figure né sulle sue modalità attuative, ma sul fatto stesso che la vita consacrata possa esserci solo in relazione ad una esperienza di accompagnamento e su quali siano le parole chiave che questo accompagnamento deve tematizzare. In effetti, se, come insegna Vita Consecrata, lo scopo di tutta la formazione è la “progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre” (VC 65)3; allora tale percorso ha bisogno di una “compagnia”, seguendo la quale Gesù stesso con la potenza dello Spirito Santo, che è Spirito dei figli adottivi, realizza nei formandi la sua opera, trasformando la vita giorno dopo giorno. PRIMA PARTE 1. L’accompagnamento e la vocazione alla vita consacrata 1.1. Vocazione o autoprogettazione? Nel suo aspetto originario l’accompagnamento va ad indicare, a mio parere, il fatto che la vocazione in genere, e alla vita consacrata in particolare, non possa essere considerata realtà meramente individuale. Non c’è accesso alla vocazione, non c’è percorso formativo, tanto permanente quanto iniziale, che non sia originariamente “in relazione”. 1 Cf. A. SCHMUCKI, Verso un approccio ermeneutico alla formazione, in ID. (ed.), Formazione francescana oggi, EDB, Bologna 2012, 23-60. ID., La personalizzazione dialogica nell’accompagnamento formativo, in Formazione francescana oggi, 435-464. M. ALETTI - M.I. ANGELINI - A. MONTANARI, Accompagnamento spirituale e intervento psicologico: interpretazioni, Glossa, Milano 2008. A. CENCINI, L’accompagnamento personale nella pastorale vocazionale e nella formazione alla vita consacrata, in CONFERENZA ITALIANA DEI SUPERIORI MAGGIORI (CISM), L’accompagnamento alla vita religiosa, Ed. Rogate, Roma 1992, 81-147. N. DELL’AGLI, Un accompagnamento spirituale in stile francescano, in Italia Francescana 80 (2005) 239-260. L. DI PALMA, L’accompagnamento alla vita religiosa e al ministero ordinato, in Italia Francescana 80 (2005) 277-311. 2 Con ciò presupponiamo evidentemente che vi siano figure diverse nel percorso formativo, dal responsabile della formazione nei suoi differenti livelli, alla direzione spirituale, al confessore, al compito della comunità formativa e di una eventuale équipe. 3 L’idea fondamentale è ripresa in Ripartire da Cristo: “La formazione, perciò, dovrà avere le caratteristiche dell’iniziazione alla sequela radicale di Cristo. Dal momento che il fine della vita consacrata consiste nella configurazione al Signore Gesù, è necessario mettere in atto un itinerario di progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre. Ciò aiuterà ad integrare conoscenze teologiche, umanistiche e tecniche con la vita spirituale e apostolica dell’Istituto e conserverà sempre la caratteristica di scuola di santità” (n.18). Vedi anche VC 66. Parliamo di una certa essenzialità dell’accompagnamento per la vita consacrata in quanto costituisce nella Chiesa uno stato specifico di vita, costituito dalla professione dei consigli evangelici secondo una regola e delle costituzioni approvate dalla Chiesa mediante l’autorità preposta. Già questa considerazione, affermata dal Concilio Vaticano II in modo molto chiaro4, ci fa pensare al fatto che la vita consacrata non sia innanzitutto una scelta individuale, ma una risposta ad una chiamata fino alla decisione “per sempre”, con la quale la persona si impegna in modo definitivo sulla via della castità, povertà e obbedienza. La vocazione non è un progetto che l’individuo escogita in proprio, per il quale eventualmente chiede qualche “consulenza”; essa è piuttosto evento nel quale il Dio di Gesù Cristo irrompe nell’esistenza e pertanto, per la sua stessa natura, bisognosa di essere accompagnata, di seguire “altro” da sé. In questa prospettiva, prima ancora che essere strategica ad un percorso formativo, l’accompagnamento esprime la natura della vita consacrata come vocazione a seguire Cristo, ad appartenergli secondo una determinata forma carismatica, per essere al servizio della missione ecclesiale. Infatti, non c’è chiamata senza alterità. Non c’è formazione senza accompagnamento. La vocazione implica l’essere chiamati da una realtà che è differente dal soggetto stesso. La vocazione decentra la persona rispetto a sé, ponendola in tensione verso la perenne novità di Dio. A questo proposito sovvengono le parole semplici e acute di papa Francesco Ai seminaristi, ai novizi e alle novizie provenienti da varie parti del mondo in occasione dell'Anno della Fede (6 luglio 2013): Nel chiamarvi Dio vi dice: “Tu sei importante per me, ti voglio bene, conto su di te”. Gesù, a ciascuno di noi, dice questo! Di là nasce la gioia! La gioia del momento in cui Gesù mi ha guardato. Capire e sentire questo è il segreto della nostra gioia. Sentirsi amati da Dio, sentire che per Lui noi siamo non numeri, ma persone; e sentire che è Lui che ci chiama. Diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una scelta nostra. Io non mi fido di quel seminarista, di quella novizia, che dice: “Io ho scelto questa strada”. Non mi piace questo! Non va! Ma è la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di amore. Sento qualcosa dentro, che mi inquieta, e io rispondo di sì. Nella preghiera il Signore ci fa sentire questo amore, ma anche attraverso tanti segni che possiamo leggere nella nostra vita, tante persone che mette sul cammino. E la gioia dell’incontro con Lui e della sua chiamata porta a non chiudersi, ma ad aprirsi; porta al servizio nella Chiesa5. In queste espressioni Papa Francesco sembra diffidare dalle vocazioni “fai da te”, da coloro che si approcciano al cammino di consacrazione a partire da una propria misura e da una propria “scelta”. La posizione giusta è, invece, quella della risposta ad una chiamata che si palesa dentro la propria esistenza. La realtà della chiamata indica relazione, fatti, eventi in cui Dio ha realizzato il suo passaggio nella vita, iniziando con la persona l’avventura vocazionale. Le vocazioni non si autogenerano. Esse non sono una iniziativa del soggetto che sceglie per sé una forma di vita particolare. La chiamata per sua natura evoca una voce – una Parola - che invita ad un cammino radicale. La vocazione è eccentrica. Ha il suo centro nell’altrove. Essa non è sforzo individuale, impegno volontario, ma evento personale che introduce in una storia che precede e che va oltre la propria individualità. La chiamata è sempre personale, ma al contempo mai autoreferente. Essa riguarda l’io, la realtà più intima della persona, chiamata ad uscire da se stessa. Per questo Papa Francesco pone all’inizio della vocazione la gioia dell’incontro con Cristo che porta a lasciare tutto per servirlo nella Chiesa e per il mondo. 4 5 Cf. LG 43-45. In L’Osservatore Romano, lunedì-martedì 8-9 luglio 2013, 6. I corsivi sono miei. Quanto affermato vale anche per il carattere carismatico che connota ogni forma di vita consacrata. Guardando agli inizi dell’esperienza francescana, si può riconoscere come la vocazione si trasmetta per attrattiva e contagio nei confronti di una esperienza originale che si pone e che chiede di essere seguita. I primi compagni sono colpiti ed attratti dal modo di vivere di Francesco e sentono così la chiamata a stare con lui e a vivere come lui. La chiamata alla vita consacrata inizia, si forma e cresce nel tempo secondo le diverse età della vita, sempre dentro delle relazioni fondamentali. Infatti, ogni persona deve corrispondere in termini personali alla propria chiamata partecipando alla storia e al presente della propria realtà carismatica. Ogni storia vocazionale è sempre segnata da incontri e eventi che danno alla vita una direzione particolare; cosicché la persona, per comprendere se stessa, di fatto, non possa più prescindere da quei volti attraverso i quali si è trasmessa la chiamata. In questa prospettiva il tema dell’accompagnamento nella vita consacrata risulta oggi particolarmente decisivo. La stagione culturale che stiamo vivendo6, infatti, da una parte ci impedisce di vedere il percorso formativo come assunzione estrinseca di modelli e di valori cui la soggettività del chiamato dovrebbe adattarsi passivamente; dall’altra parte, il lungo processo di individuazione, che caratterizza soprattutto l’Occidente, pone il rischio di snaturare l’evento vocazionale stesso, che viene ridotto ad una propria intenzione volontaristica e che porta al massimo a mettersi insieme ad altre persone con cui si possono condividere alcuni progetti7. Da una tale impostazione emerge più la figura del “volontariato” e della “associazione” che della vocazione alla vita consacrata. La dimensione dell’accompagnamento, come dimensione costitutiva della vita consacrata, si pone in alternativa sia della vocazione come adattamento formale ed esteriore della soggettività all’istituzione, sia alla sua riduzione ad “associazione” di stampo volontaristico. L’immagine di “Emmaus” (Lc 24) appare anche un questo contesto particolarmente suggestiva; è Cristo stesso che accompagna a comprendere quello che già precedentemente era accaduto nella vita dei due discepoli e che permette di interpretare in modo nuovo le Scritture e con esse anche la propria vita. Proprio quell’Accompagnatore, incontrato quasi per caso, si manifesta intimo ai loro pensieri e al loro cuore, capace di dialogare con i loro desideri e con il loro dolore. Infine, questa presenza accompagnatrice non può essere trattenuta, non può essere consumata e ridotta; essa ha come scopo di lanciare verso la missione. L’accompagnamento, a sua volta, non è autoreferente ma è teso alla missione, non trattiene ma invia. Del resto la vocazione alla vita consacrata è sempre vocazione per la missione. 1.2. L’accompagnamento e l’esperienza spirituale Volendo specificare più precisamente l’approccio che intendo seguire intorno al tema dell’accompagnamento nella vita consacrata, credo si debba qualificare il mio contributo nell’ambito teologico spirituale. Dunque, l’accompagnamento come dimensione intrinseca dell’esperienza spirituale propria della vocazione. Infatti l’esperienza spirituale è il luogo teologale della chiamata di Dio. Essa non è l’applicazione formale di ciò che il soggetto ha imparato teoreticamente altrove e non è nemmeno il luogo del sentimento inverificabile che la persona ha delle cose divine, priva di alcuna attestazione. L’esperienza spirituale possiede anch’essa, invece, il carattere di evento; indica la relazione tra la libertà di Dio, che agisce gratuitamente nella storia, e quella della persona umana, sempre situata nel tempo e nello spazio. Una vera esperienza spirituale non può che essere integrale. Poiché l’esperienza spirituale è sempre esperienza di un incontro non deducibile dal soggetto, ma che viene al soggetto; allora non c’è vera esperienza di chiamata se non 6 7 Sul rapporto tra formazione e cambiamenti culturali vedi l’istruzione Ripartire da Cristo n. 15. Cf. M. HÖFFNER, Berufung im Spannungsfeld von Freiheit und Notwendigkeit, Echter, Freiburg 2008. nella piena relazione con le circostanze attraverso le quali Dio fa sorgere nella persona la percezione della vocazione, permettendone la maturazione e lo sviluppo. L’esperienza spirituale ricovera in sé, in un intreccio indissolubile, la dimensione ricettiva e la dimensione attiva del soggetto, fino al suo livello ultimativo, ossia fino alla questione del senso integrale dell’esistenza8, capace di catalizzare la propria persona fino alla decisione totalizzante con cui è data una nuova appartenenza. La vocazione porta sempre a sperimentare, sebbene in modi diversi, ciò che afferma san Paolo: “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20). E’ la scoperta, dal sapore agostiniano, per cui Cristo, che chiama ad appartenergli, è interior intimo meo, ossia è più me di me stesso. Per questo decidersi per sempre per lui è ultimamente decidersi per la propria vera identità. Poiché non è possibile l’incontro tra la libertà di Dio e la libertà della persona fuori dall’esperienza situata, essa non può che avvenire dentro relazioni in cui la vocazione stessa è accompagnata nel suo percorso. In tal senso, l’alterità che l’accompagnamento evoca, sta al cuore di ogni autentica esperienza spirituale di chiamata. L’esperienza autentica dell’accompagnamento, in tutti i suoi livelli – da quelli più personali a quelli più comunitari – appare così intrinseca alla vocazione stessa. L’esperienza sebbene sia sempre personale e non delegabile, tuttavia non sarebbe tale se non fosse “abitata” dall’altro. In tal senso l’esperienza spirituale è sempre esperienza di sé alla luce della testimonianza dell’altro, riconosciuto ed ospitato. 1.3. L’accompagnatore come testimone/padre Non volendo entrare nelle diverse figure dell’accompagnamento e nelle precise modalità della sua attuazione9, basti in questa sede ricordare che in una prospettiva teologico spirituale l’accompagnatore non potrà che essere innanzitutto un testimone, ossia colui attraverso il quale viene mediata contestualmente la vita spirituale relativa ad un determinato carisma. Ciò di cui ha bisogno la formazione alla vita consacrata oggi non è di comunicatori di dottrine da applicare all’esistenza e nemmeno di “consiglieri” che confermino o meno quanto vissuto dal soggetto, ma di testimoni; persone capaci di mediare una proposta di vita che a propria volta hanno ricevuto e vissuto; persone che non legano a sé ma che rimandano alla sorgente della vocazione stessa, tuttavia esponendo se stesse nel concreto rapporto esistenziale; capaci di interrogare – come Gesù – il cuore dell’uomo (“che cercate?”) e di dire “venite e vedrete” a chi è mosso dallo Spirito per intraprendere un cammino di consacrazione10. La vocazione vive e cresce attraverso la testimonianza di vita, capace di dare le ragioni della propria speranza, mettendo in moto la libertà dell’altro a verificare la proposta come percorso di chiamata all’interno di una storia carismatica. A partire da questo sfondo testimoniale gli accompagnatori dovranno acquisire tutte le competenze specifiche necessarie al loro compito. Tali competenze saranno sempre finalizzate e relativizzate all’efficacia di una testimonianza, attraverso la quale rendere possibile il cammino dell’altro nel suo percorso proprio. Non è possibile essere accompagnatori se non si è testimoni di quanto a propria volta è stato donato. Il testimone espone se stesso nella relazione con gli altri non in forza di una propria dottrina o convinzione ma dell’incontro che ha determinato la propria vita 8 J. MOUROUX, L’esperienza cristiana. Introduzione a una teologia, Morcelliana, Brescia, 1956; G. MOIOLI, L' esperienza spirituale. Lezioni introduttive, Milano 1992. 9 Per questo rimandiamo a quanto affermati nell’istruzione Potissimum Institutioni in genere ed in particolare al n. 30. 10 RC 16: “La via maestra della promozione vocazionale alla vita consacrata è quella che il Signore stesso ha iniziato, quando ha detto agli apostoli Giovanni ed Andrea: « Venite e vedrete» (Gv 1, 39). Questo incontro, accompagnato dalla condivisione della vita, chiede alle persone consacrate di vivere profondamente la loro consacrazione per diventare un segno visibile della gioia che Dio dona a chi ascolta la sua chiamata. Di qui la necessità di comunità accoglienti e capaci di condividere il loro ideale di vita con i giovani, lasciandosi interpellare dalle esigenze di autenticità, pronte a camminare con loro”. come vocazione. In tal senso la figura del testimone come accompagnatore è figura “generativa”; poiché accoglie e accompagna, genera e rigenera l’altro nel suo cammino. In tal senso l’accompagnamento spirituale come testimonianza prende il volto della paternità spirituale11. Se è assolutamente vero che rispetto a Dio tam pater nemo, tuttavia è vero che questa paternità sorgiva di Dio si comunica attraverso relazioni che danno vita perché testimoniano quello che a loro volta hanno ricevuto. A partire da quanto abbiamo cercato di delineare, credo sia possibile ora indicare alcuni punti di ferimento essenziali per l’accompagnamento nella vita consacrata. Vorrei poter anticipatamente descrivere così il percorso: innanzitutto si tratta di saper rispondere alla domanda circa l’identità vocazionale per la quale è necessario l’accompagnamento. Una immagine confusa e incerta della vita consacrata si preclude per così dire a priori un cammino formativo, tanto iniziale quanto permanente. Si tratta di accompagnare a scoprire il volto autentico della vita consacrata alla quale si è chiamati. Tale identità ha subìto non pochi ripensamenti negli ultimi decenni, soprattutto con l’evento del Concilio Vaticano II, sia dal punto di vista ecclesiologico che antropologico12. Pertanto si cercherà ora di individuare un percorso di identità vocazionale in cui poter far emergere sia il volto della vita consacrata all’interno della Chiesa, che nella sua profonda pertinenza antropologica. Ci sembra che l’accompagnamento nella vita consacrata non possa oggi che confrontarsi con queste dimensioni fondamentali. Da ultimo si cercherà di proporre un percorso valoriale di riferimento che, in un quadro unitario, relazioni gli elementi di cui l’accompagnamento nella vita consacrata ha bisogno. 2. L’accompagnamento e l’identità ecclesiale relazionale della vita consacrata 2.1. Quale immagine di vita consacrata? Un primo elemento essenziale della vita consacrata, cui l’accompagnamento e la formazione in genere devono fare riferimento, è indubbiamente l’identità e la missione propria della consacrazione, tenendo conto del dibattito che si è articolatamente sviluppato in abito teologico spirituale ed ecclesiale negli ultimi decenni. La necessità di una comprensione chiara del compito della vita consacrata è sempre essenziale, ma lo diventa a maggior ragione nel momento della formazione iniziale e nei momenti di crisi vocazionale, in cui sorge l’ipotesi di messa in discussione dello stesso stato di vita caratterizzato dalla professione dei consigli evangelici. Detto in termini espliciti: difficilmente si potrà pensare alla maturazione di un percorso vocazionale nei confronti di una identità che non è sufficientemente determinata. Richiedendo il percorso vocazionale una decisione incondizionata, l’indeterminatezza di una tale natura non potrà che generare fragili decisioni, esposte alla revocazione. Peraltro non è secondario il fatto che la vocazione alla vita consacrata richieda la rinuncia di alcune elementi assai importanti dell’esperienza antropologica, come ad esempio l’avere una moglie o un marito e il generare figli nella propria carne. Giacché tale rinuncia non può essere fatta per “disinteresse” nei confronti di tali elementi, occorre che l’identità della vita consacrata renda ragione di questa privazione in favore di un compito irrinunciabile ed essenziale per la vita della Chiesa13, così da mostrare anche il suo contributo assai positivo per il mondo. 11 Cf. A. LOUF, Generati dallo Spirito. L’accompagnamento spirituale oggi, Qiqajon, Magnano 1994; L. CASTO, La direzione spirituale come paternità, Effatà, Cantalupa (Torino) 2003. E. BIANCHI, La paternité spirituelle: éléments biblique, in Iréikon 81 (2008) 245-259. 12 Cf. P. MARTINELLI (ed.), Il rinnovamento della vita consacrata e la famiglia francescana, EDB, Bologna 2007. 13 Cf. P. MARTINELLI, Sull’«essenzialità» (o «necessità») della vita consacrata nella Chiesa per il mondo. Note per una ricerca che continua, in Religiosi in Italia 346 (2005) 32-46. Non è difficile trovare nella letteratura sui colloqui formativi dialoghi in cui la persona consacrata che si trova in una emergenza affettiva non riesca a trovare un motivo valido per rinunciare a formarsi una famiglia nel momento in cui non si è in grado di testimoniare l’essenzialità della vita consacrata per la Chiesa. Se tutte le vocazioni sono uguali – si afferma – perché mai dovrei rinunciare al desiderio insorgente di avere dei figli e di formarmi una famiglia? Non si può rispondere a questa domanda se non si riconosce il senso proprio della vocazione alla vita consacrata. Di che cosa bisogna tenere conto per poter lavorare in ambito formativo con una adeguata identità della vita consacrata? Da cosa può dipendere una certa sottovalutazione del suo compito specifico nella Chiesa? Partiamo dall’ipotesi fondamentale che la vita consacrata sia una vocazione specifica nella Chiesa, ad essa essenziale, caratterizzata dalla professione dei consigli evangelici. La difficoltà che a volte si sperimenta a coglierne il suo valore o a ridurne la sua portata dipende sia dai diversi contesti ecclesiali nei quali ci si trova ad operare, ma anche da una storia culturale e teologica che informa i nostri attuali codici di riferimento a questo proposito. A volte ad esempio si ha la sensazione che la vocazione alla vita consacrata sia considerata genericamente come “un modo tra altri” di vivere il vangelo, una sorta di variabile facoltativa della vocazione battesimale, ma che non debba pretendere uno statuto particolare all’interno della Chiesa. Conseguentemente si ha pure l’impressione che un suo eventuale apprezzamento sia dovuto solo alle opere che essa realizza sia in ambito sociale che ecclesiale, ma che non abbia un valore in se stessa. Il fatto che la presenza di religiosi sia valorizzata in alcune diocesi solo per il fatto di supplire alla mancanza del clero secolare e che questi si comportino nelle attività parrocchiali esattamente come il clero della diocesi, senza una caratterizzazione propria, fa pensare che la loro importanza sia dovuta più al fatto di essere sacerdoti che non religiosi. Allo stesso modo le numerose opere sanitarie ed educative portate avanti da tanti istituti religiosi, in molte zone del pianeta sono state assunte oggi da laici preparati professionalmente. Anche qui l’essenzialità relativa dei religiosi e delle religiose alle proprie opere li rende ultimamente sostituibili nel tempo. I tentativi recenti effettuati sia da alcuni teologi come anche da interventi magisteriali di affermare una “obiettiva eccellenza” (VC 18.32) della vita consacrata sulla vita laicale e matrimoniale hanno suscitato reazioni piuttosto forti. E’ possibile che una certa debolezza formativa nella vita consacrata dipenda dalla fatica con cui riusciamo a dire in modo adeguato e persuasivo il proprium della vita consacrata? Accompagnando il cammino formativo, a quale immagine di vita consacrata occorre fare riferimento? 2.2. Alcune considerazioni storiche Una breve considerazione storica ci può forse aiutare. In estrema sintesi si deve dire che l’identità e la formazione alla vita consacrata hanno subito nella modernità alcuni significativi riposizionamenti dai quali non è possibile prescindere, se vogliamo comprendere il momento attuale. Basti qui ricordare che il modello di riferimento formativo si forma negli ultimi secoli all’interno della contrapposizione tra cristianesimo e modernità: da una parte la riforma luterana che attacca il sacerdozio ordinato e l’istituto monastico, affermando la sufficienza del sacerdozio comune battesimale, dall’altra parte una società che – non priva di riferimento allo scontro tra le diverse confessioni cristiane in Europa – riscrive i codici culturali universali in senso laicista, ossia etsi deus non daretur, riducendo la fede a fatto privato. Davanti a tutto questo, la Chiesa a partire dalla riforma tridentina rafforza l’identità specifica delle vocazioni di speciale consacrazione, ossia quelle alla vita consacrata e al sacerdozio ministeriale. La vocazione alla vita consacrata, in particolare, diventa così simbolicamente espressiva della contrapposizione tra la Chiesa e il mondo che diventa sempre più mondano (Weltliche Welt). Mentre il laico cristiano assume una figura essenzialmente passiva, la vita consacrata appare, insieme al sacerdozio ministeriale, la vocazione essenziale e rappresentativa della Chiesa stessa. La formazione alla vita religiosa rimarrà centrata, fino alla metà del XX secolo centrata su questa idea di esclusività e di eccellenza morale, proprio perché staccata dal “mondo” e dalle cose “umane”14. Occorre considerare ora un ulteriore passaggio: a questo “canone moderno”, che relazione Chiesa (clero e religiosi) e società in termini di separazione giustappositiva o conflittiva, la riflessione teologica che prepara il Concilio Vaticano II risponde sostenendo nuove forme di vita consacrata che, pur professando i consigli evangelici, non smettono di considerarsi in qualche modo “laici”: ossia gli istituti secolari (e forme affini). Certamente dal nostro punto di vista il Concilio Vaticano II ha i suoi testi migliori proprio nel riproporre la santità della vita cristiana a tutti i fedeli (LG, cap. V) e l’importanza del fedele laico, riscattandolo dalla sua passività15. Da qui si pone l’odierna problematica teologica ed ecclesiologica che deve ripensare l’identità della vita secondo i consigli evangelici in un orizzonte di riscoperta della chiamata universale alla santità e di valorizzazione della identità cristiana laicale. Certamente il Concilio Vaticano II ha affermato l’essenziale sulla vita religiosa, baricentrandola sulla professione dei consigli evangelici. Il dato conciliare afferma l’appartenenza dei religiosi e delle religiose alla vita della Chiesa e alla sua santità, sebbene non faccia parte della gerarchia (LG 44). Inoltre il Concilio rifiuta l’idea della vita religiosa sia uno stato “intermedio tra la condizione clericale e laicale, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da Dio a fruire di questo speciale dono nella vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la sua missione salvifica” (LG 43). Le descrizioni identitarie più specifiche della vita religiosa effettuate dall’assise vaticana fanno per lo più riferimento alla figura comparativa – di derivazione essenzialmente tomista - con la quale si cerca di affermare al contempo il pieno recupero della vita battesimale e l’elemento peculiare della vita secondo i consigli evangelici16. Il giusto quadro consegnatoci dal Concilio ha tuttavia messo in evidenza la debolezza della riflessione teologica e formativa posta in atto fino a quel momento, così da sentire spesso l’affermazione del proprium della vita consacrata in contrasto con la promozione della soggettività battesimale e viceversa. La figura comparativa, per quanto suggestiva, non è in grado da sola di fornire un quadro identitario sufficiente. A quale immagine di vita consacrata occorre formare affinché questa non sia a discapito del prezioso e decisivo recupero della vita battesimale, ma che nello stesso tempo sia capace di fondare una decisione per sempre specifica e non solo una variabile facoltativa della vocazione battesimale, aperta inevitabilmente alla revocazione? 2.3. Una vocazione particolare per l’universale cristiano Sono persuaso che già nei testi conciliari troviamo indicazioni decisive a questo proposito, come anche in alcune affermazioni magisteriali successive, relative ai Sinodi dei Vescovi che negli anni successivi, non di certo a caso, sentono il bisogno di rileggere gli elementi specifici delle diverse vocazioni cristiane, alla luce della ecclesiologia presentata dal Vaticano II. Giustamente tale 14 Cf. ad esempio il manuale della PUG di L. HERTLING, Theologiae Asceticae. Cursus brevior, Romae 1939. In questa prospettiva si comprende perché le realtà ecclesiali di maggior capacità aggregativa intorno al Concilio e nei tempi successivi siano quelle che puntano soprattutto sulla riscoperta della vita battesimale come realtà integrale, capace di intervenire nella storia. 16 Tipico è il passaggio di LG 44: “Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale rende più liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia l'esistenza di una vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste. Parimenti, lo stato religioso imita più fedelmente e rappresenta continuamente nella Chiesa la forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò venendo nel mondo per fare la volontà del Padre e che propose ai discepoli che lo seguivano. Infine, in modo speciale manifesta l'elevazione del regno di Dio sopra tutte le cose terrestri e le sue esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli uomini la preminente grandezza della potenza di Cristo-Re e la infinita potenza dello Spirito Santo, mirabilmente operante nella Chiesa»” 15 ecclesiologia, soprattutto a partire dal Sinodo straordinario celebrato nel 1985, a 20 anni dalla chiusura del Concilio, viene chiamata di “comunione”. In tale visione non è più possibile interpretare i diversi stati di vita in maniera antagonistica e nemmeno come una sorta di forme giustapposte di vita cristiana. In questa prospettiva si tratta di formare vocazioni alla vita consacrata che sappiano vedere nella soggettività battesimale la loro radice; anzi, come dice il Concilio stesso, la vita secondo i consigli evangelici è un dono elargito per “portare più frutti dalla grazia battesimale” (LG 44). Tuttavia occorre arrivare a stimare adeguatamente la propria vocazione specifica come contributo qualificante la stessa vita battesimale. Si tratta di un dono, non gerarchico ma carismatico (cf. LG 4.12), altrettanto essenziale alla vita della Chiesa tutta. Una indicazione, per quanto implicita, a questo proposito la troviamo in LG 42; dove, nel capitolo V, riguardante la vocazione alla santità di tutti i battezzati, il testo, dopo aver descritto il mistero pasquale come espressione massima dell’amore, cui tutti i battezzati sono chiamati, si parla del martirio come forma primaria con cui alcuni – non tutti - fedeli sono chiamati ad imitare Cristo, ricordando così che “tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa”. In tal modo la vocazione al martirio di alcuni non sottrae nulla alla pienezza della soggettività battesimale; piuttosto la qualifica. E’ suggestivo che subito dopo aver tematizzato il martirio, il testo della Lumen gentium introduce il tema dei consigli: “Parimenti la santità della Chiesa è favorita in modo speciale dai molteplici consigli che il Signore nel Vangelo propone all'osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni (cfr. Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di consacrarsi, più facilmente e senza divisione del cuore (cfr. 1 Cor 7,7), a Dio solo nella verginità o nel celibato”. Siamo così posti ad una visione del martirio e della verginità – già nell’epoca patristica equiparati come forme del radicalismo evangelico – come il particolare dell’universale cristiano, che non solo non sottrae nulla al valore del battesimo, piuttosto ne mostra la verità. In questa prospettiva si possono leggere anche le affermazioni interessanti di Christifideles Laici 55, in cui, nel quadro di una equilibrata ecclesiologia di comunione, ogni stati di vita è visto esplicitare ciò che è essenziale all’altro: lo stato di vita laicale ha nell'indole secolare la sua specificità e realizza un servizio ecclesiale nel testimoniare e nel richiamare, a suo modo, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose il significato che le realtà terrene e temporali hanno nel disegno salvifico di Dio. A sua volta il sacerdozio ministeriale rappresenta la permanente garanzia della presenza sacramentale, nei diversi tempi e luoghi, di Cristo Redentore. Lo stato religioso testimonia l'indole escatologica della Chiesa, ossia la sua tensione verso il Regno di Dio, che viene prefigurato e in qualche modo anticipato e pregustato dai voti di castità, povertà e obbedienza. Come si vede, nel caso della vita consacrata, essa è vista esprimere in modo peculiare la dimensione escatologica di tutta la Chiesa. In tal modo l’affermazione delle peculiarità dello stato di vita di ciascuno non appare più in giustapposizione antagonistica ma in reciprocità essenziale. Vita Consecrata, poi, insiste sul fatto che lo stesso stato di vita secondo i consigli evangelici, riprendendo ciò che era già stato affermato dal Concilio, ha il compito di rappresentare l’umanità di Gesù: “Le persone consacrate, che abbracciano i consigli evangelici, ricevono una nuova e speciale consacrazione che, senza essere sacramentale, le impegna a fare propria — nel celibato, nella povertà e nell'obbedienza — la forma di vita praticata personalmente da Gesù, e da Lui proposta ai discepoli” (VC 31). Da questa impostazione emerge l’importanza di formare attraverso un adeguato accompagnamento alla vita consacrata come forma vocazionale che, da una parte, attinge pienamente alla soggettività battesimale, mentre dall’altra parte sottolinei il suo elemento peculiare, non tanto come elemento che vada oltre il battesimo, quanto piuttosto come realtà rappresentativa dell’umanità di Cristo, casto povero ed obbediente. In tal modo nel processo formativo sarà possibile approfondire lo specifico della propria vocazione prendendo maggiore contatto con la vita battesimale e con la vita della Chiesa. La formazione alla vita consacrata manterrà il suo elemento di “differenza”, senza dover togliere nulla alla pienezza battesimale e senza dover costituire un “gruppo di élite”. Cosicché accompagnando e formando agli elementi specifici della propria vocazione si sarà di fatto introdotti ad una comprensione più profonda della stessa realtà battesimale e della vita ecclesiale. 3. L’accompagnamento e la questione antropologica Tuttavia, accompagnando alla scoperta della radice battesimale della vocazione alla vita consacrata ed imparando a riconoscere il suo compito specifico come servizio alla vita di tutta la Chiesa, emerge inevitabilmente il secondo pilastro che costituisce il riferimento fondamentale della formazione: la dimensione antropologica. Il rapporto tra la pratica dei consigli evangelici e la questione antropologica è certamente una delle problematiche più attuali, emergenti in relazione all’accompagnamento formativo. Volutamente arrivo a mettere a tema tali questioni solo dopo aver affrontato il nodo teologico identitario. Infatti ritengo che solo avendo ritrovato il nesso con la vita battesimale ed ecclesiale sia possibile illustrare l’itinerario che la realtà umana deve compiere alla sequela di Cristo casto, povero e obbediente. In effetti, l’uomo nuovo di cui parla san Paolo è rappresentato dalla figura del battezzato, da colui che si è rivestito di Cristo. La fragile percezione della soggettività battesimale, che ha caratterizzato ampiamente la riflessione teologica nell’epoca moderna prima del concilio Vaticano II, ha di fatto condizionato anche la corretta relazione tra i consigli evangelici e le dinamiche antropologiche ad essi sottese. Non è a caso che di fronte alla debole produzione teologica sulla vita consacrata dopo l’assise conciliare – incomparabilmente minore rispetto agli altri temi tipici del dibattito teologico degli ultimi tempi – troviamo, invece, un ampio numero di testi sulle problematiche formative dei consacrati, su come integrare l’umano nell’ideale della vita religiosa e sugli aspetti patologici che si riscontrano nelle comunità di vita consacrata. Ci sembra che al di là della valutazione di queste opere, peraltro assai variegate, tutto ciò sia sintomatico di un travaglio della vita consacrata nel comprendere la pertinenza antropologica dei consigli evangelici. Tale processo può essere almeno in parte illuminato se si considerano taluni passaggi culturali della modernità e la loro ricaduta nell’ambito della identità della vita consacrata. Credo si debba innanzitutto considerare il fatto che, a partire dalla tensione conflittiva presente nell’epoca moderna tra la Chiesa e il mondo laico, gli elementi propri della vita soprannaturale e quello dell’umano si siano andati gradatamente estraniando. Se da una parte il concetto di ragione, di natura umana e di libertà si sono resi sempre di più autonomi da ogni riferimento alla religione in forza del processo complesso della secolarizzazione, dall’altra parte la riflessione teologica ha cercato di delimitare tali concetti. sottolineando la differenza, fino alla separazione, degli elementi specifici della vita cristiana. Nasce così una relazione tra gli elementi antropologici e quelli relativi alla grazia di carattere estrinseco: grazia e natura, fede e ragione, Chiesa e mondo, eschaton e storia, sono le “coppie” che caratterizzano il clima culturale del tempo. La vita religiosa e nella fattispecie la pratica dei consigli evangelici quasi necessariamente si sono attestate in relazione all’elemento soprannaturale, dando un po’ per scontato l’elemento antropologico. Se è vero che la teologia barocca non ha mai dimenticato l’assioma gratia supponit naturam, tuttavia è vero che spesso se ne è diffusa una visione giustapposta, nella quale la vita consacrata aveva il compito di esprimere l’aspetto radicale della prima, non curandosi della relazione con la seconda17. Essa aveva il compito 17 Cf. su questo i classici lavori di H. DE LUBAC, Il mistero del soprannaturale, Milano 1978; G. COLOMBO, Del Soprannaturale, Milano 1996. di rappresentare simbolicamente quello che va “oltre” la natura umana, oltre i “comandamenti”. Analogamente si è pensato ad una vita consacrata che, dovendo rimandare all’aldilà della storia, sembrava non doversi occupare della relazione con quest’ultima. Si è così diffuso anche a livello formativo l’idea che, infondo, per essere veramente religiosi occorreva sostanzialmente non considerare l’ “umano”. Il carattere “angelico” della vita consacrata, spesso sottolineata anche nei manuali di ascetica e di mistica fino agli anni ‘50, favoriva l’idea che il percorso formativo dovesse essenzialmente mortificare l’aspetto umano nelle sue diverse componenti. 3.1. Cristo uomo perfetto Anche qui si deve riconoscere al Concilio Vaticano II un lavoro di recupero potente dell’originario cristiano nel suo nesso intrinseco con l’umano. Basti qui ricordare brevemente alcuni passaggi a questo proposito. Innanzitutto si deve richiamare la visione chiaramente cristocentrica dell’umano che viene affermata da Gaudium et spes 22: In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Qui l’estrinsecismo, che caratterizza tanta riflessione teologica e spirituale moderna, viene superato proprio dal primato di Cristo su tutte le cose. Inutile ricordare in questa sede la matrice francescana e scotista di tale visione. L’uomo non perviene a se stesso fino a quando non perviene a Cristo, giacché Gesù Cristo stesso è il “primo voluto” nel prestabilito disegno del Padre. Poiché Gesù rivela il Padre e il suo amore, egli rivela anche chi siamo noi veramente: creature chiamate per grazia ad essere figli nel Figlio. Questo nesso vitale viene anche espresso dalla stessa costituzione pastorale, dove si afferma suggestivamente che “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo” (GS 41). In tal modo si evidenzia la pertinenza antropologica dell’evento cristiano stesso, su cui innestare anche la pertinenza antropologica dei consigli evangelici. 3.2. I consigli evangelici a giovamento della persona umana Proprio questo è il valore a mio parere messo in evidenza inequivocabile da Lumen Gentium al n. 46 nel capitolo VI sui Religiosi quando si afferma che “la professione dei consigli evangelici, quantunque comporti la rinunzia di beni certamente molto apprezzabili, non si oppone al vero progresso della persona umana, ma al contrario per sua natura le è di grandissimo profitto”. Il passaggio è di grande importanza. Esso contiene innanzitutto un chiaro richiamo al realismo della rinuncia che la pratica dei consigli esige18; realtà che non deve essere mai dimenticata nell’accompagnamento formativo. Significativo è il fatto che si affermi come la rinuncia venga effettuata su beni che sono “certamente molto apprezzabili”. Nel percorso formativo non si dovrebbe mai dimenticare questo duplice aspetto che aiuta a chiarire il quadro motivazionale della risposta alla chiamata: i consigli evangelici non autorizzano a nessun giudizio negativo sulla realtà umana, per quanto segnata dal peccato. Non si fa voto di obbedienza per la paura della propria libertà; né si vive “sine proprio” perché il carattere transitorio delle cose le fa ritenere un male; tantomeno la rinuncia al matrimonio può essere giustificata da una disistima della differenza 18 Cf. su questo K. RAHNER, Per una teologia della rinuncia, in Saggi di spiritualità, Roma 1965, 79-96. sessuale e della generazione nella carne. La rinuncia è motivata solo se vi è una reale stima sulla realtà su cui si compie il sacrifico implicato dalla pratica dei consigli evangelici. Dall’altra parte, il testo della Lumen Gentium afferma che tale pratica “per natura sua non si oppone al vero progresso della persona umana, ma al contrario per sua natura le è di grandissimo profitto”. Pertanto, l’accompagnamento deve poter verificare una autentica vocazione dalla capacità umanizzante della sequela di Cristo in castità, povertà e obbedienza. Una persona che sperimentasse nel proprio cammino vocazionale una minore capacità di responsabilità, una debole capacità di rapporto con le cose e verificasse un inaridimento affettivo, sarebbe segno di una seria necessità di revisione del proprio cammino di consacrazione, facendo un adeguato discernimento sulla propria esperienza spirituale. L’accompagnamento formativo deve poter proporre e verificare come il fare propria la forma di vita di Gesù permetta un incremento della libertà come responsabilità, una più intensa capacità creativa ed una più matura intensità di affezione nelle relazioni interpersonali. Senza l’accompagnamento, fatto di testimonianza e di attenzione pedagogica, è praticamente impossibile poter sostenere realisticamente quel sacrificio, che tuttavia non deve inibire ma spalancare l’umano ad una maturità più grande, libera e feconda. 3.3. Consigli evangelici a beneficio del mondo Non trascurabile nella stessa prospettiva è anche il richiamo della Lumen gentium sempre al n. 46 anche alla relazione tra vita consacrata e società, come si può evincere dal seguente passaggio: Né pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili nella città terrestre. Poiché, se anche talora non sono direttamente presenti a fianco dei loro contemporanei, li tengono tuttavia presenti in modo più profondo con la tenerezza di Cristo, e con essi collaborano spiritualmente, affinché la edificazione della città terrena sia sempre fondata nel Signore, e a lui diretta, né avvenga che lavorino invano quelli che la stanno edificando (LG 46). In ciò affiora un rinnovato riferimento all’escatologico cristiano non più estraneo alla società e alla storia. Richiamare alla dimensione escatologica, da questo punto di vista, non rende disinteressati all’umano e alla società; piuttosto più attenti e appassionati al destino di ogni uomo. Anche qui possiamo considerare come l’accompagnamento formativo debba proporre e verificare quella passione per l’umano che scaturisce dall’appartenere a Cristo. Se indubbiamente la vita religiosa con la sua scelta relativizza i beni di questo mondo a quanto è definitivo in Cristo, tuttavia in ciò alberga la più grande valorizzazione della storia e del tempo. Infatti, affermare che ogni azione ed ogni impegno sono relativi a Cristo risorto, senso ultimo della storia, significa affermare la profonda dignità di ogni istante. In definitiva l’accompagnamento deve potersi farsi carico di questa scoperta dell’umano e della storia a partire dalla preferenza incondizionata che il consacrato è chiamato a vivere per la persona di Gesù Cristo. 3.4. Postmodernità e “mutazione antropologica” Questa attenzione all’umano esigita dalla pratica dei consigli evangelici, rettamente compresi, non esaurisce l’attuale sfida antropologica. Qui, infatti, è necessario sporgerci oltre gli asserti conciliari per rilevare un ulteriore passaggio di portata storica con cui l’accompagnamento alla vita consacrata deve inevitabilmente confrontarsi. Facciamo riferimento alle questioni antropologiche emergenti nel passaggio dal moderno alla postmodernità (o tarda modernità). Qui abbiamo certamente delle nuove sfide che occorre evidenziare. La modernità ha configurato la comprensione umana intorno al concetto di autonomia, soprattutto grazie alla centralità data alla ragione, libera da ogni tutela ed autorità, in grado di costruire da sé la verità, congedandosi dalla rivelazione cristiana, sentita come troppo ingombrante, fino ad arrivare alla grande stagione ideologica dei titanici progetti di autoredenzione. Il postmoderno, invece, sorge essenzialmente dalle ceneri di tali pretese ideologiche – naufragate sul terreno della storia con i grandi conflitti che insanguinano il XX secolo e preannunciate dalle tesi nichiliste di Nietzsche – come rinuncia definitiva al pensiero fondativo in favore di una pensiero “debole” e relativista. Congedata la ragione, con la sua pretesa di verità, dal trono che l’epoca dei lumi gli aveva assegnato, un’altra parola d’ordine sembra prendere il sopravvento: la libertà. L’uomo sembra congedarsi da ogni ricerca di verità assoluta, sia religiosa che metafisica, in favore della libertà come possibilità di soddisfare il più rapidamente possibile bisogni e desideri, in una fondamentale assenza di legami. In tal modo nel postmoderno verità e libertà appaiono ormai drasticamente in alternativa. Ogni affermazione veritativa sembra ultimamente impedire la libertà nel suo automovimento. A ciò si deve connettere il dato formidabile derivato dall’applicazione delle scoperte scientifiche alla tecnica. La tecnoscienza sembra in effetti essere l’unica “ideologia” a non essere andata in crisi con fine della stagione utopica. Lo stesso processo di globalizzazione informatica, economica e culturale è reso possibile dalla grande diffusione delle nuove tecnologie. La velocità di questi cambiamenti e il senso profondo dell’accelerazione inarrestabile delle nuove scoperte sembra mutare anche la percezione che l’uomo ha del suo limite, dei suoi desideri ed anche dei suoi affetti19. La straordinaria capacità manipolatoria che l’uomo del XXI secolo ha acquistato ha fatto parlare persino di una mutazione antropologica in atto, presentata ad esempio dalla immaginata commistione tra l’uomo e la macchina, come nella figura del Cyborg. L’uomo non solo manifesta l’impossibilità di arrivare ad una verità ultima e trascendente, ma dichiara apertamente disinteresse per essa, persino inimicizia. Anzi, lo stesso orizzonte nichilista ed antimetafisico sembra proprio strutturarsi necessariamente come condizione per una reiterata manipolazione del reale cui nessuna ontologia deve mettere freno. La libertà sembra per questo non potersi mai decidere in modo definitivo per qualche cosa. Nella società “liquida” dei consumi la legge del godimento replicabile all’infinito sembra precludere il “per sempre”, percepito come limite insopportabile alla libertà. Se non v’ è alcuna verità assoluta non vi può essere nemmeno decisione assoluta. Da qui l’ipertrofia dell’istante presente senza memoria e senza futuro che caratterizza spesso il sentimento della libertà ipermoderna. Questa cultura del provvisorio sembra essere – secondo le suggestive considerazioni di Papa Francesco - uno degli elementi di maggiore condizionamento della formazione alla vita consacrata20. La secolarizzazione, sorta agli inizi della modernità, ha subito anche nei confronti dell’esperienza religiosa dei cambiamenti notevoli: oggi non troviamo più una pregiudiziale antireligiosa diffusa come nell’epoca delle grandi ideologie; piuttosto troviamo una sua riduzione in termini estremamente soggettivi ed emotivi, una sorta di “opzione tra le altre” – per usare una 19 Cf. F. BOTTURI (ed.), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, MILANO 2003; F. BOTTURI – C. VIGNA (edd.), Affetti e legami, Milano 2004; G. ANGELINI – G. COMO – V. MELCHIORRE, Le età della vita. Accelerazione del tempo e identità sfuggente, Glossa, Milano 2009. 20 Papa Francesco, 6 luglio 2013, in L’Osservatore Romano, lunedì-martedì 8-9 luglio 2013, 6: “Ho sentito un seminarista, un bravo seminarista, che diceva che lui voleva servire Cristo, ma per dieci anni, e poi penserà di incominciare un’altra vita… Questo è pericoloso! Ma sentite bene: tutti noi, anche noi più vecchi, anche noi, siamo sotto la pressione di questa cultura del provvisorio; e questo è pericoloso, perché uno non gioca la vita una volta per sempre. Io mi sposo fino a che dura l’amore; io mi faccio suora, ma per un “tempino…”, “un po’ di tempo”, e poi vedrò; io mi faccio seminarista per farmi prete, ma non so come finirà la storia. Questo non va con Gesù! Io non rimprovero voi, rimprovero questa cultura del provvisorio, che ci bastona tutti, perché non ci fa bene: perché una scelta definitiva oggi è molto difficile. Ai miei tempi era più facile, perché la cultura favoriva una scelta definitiva sia per la vita matrimoniale, sia per la vita consacrata o la vita sacerdotale. Ma in questa epoca non è facile una scelta definitiva. Noi siamo vittime di questa cultura del provvisorio”. nota espressione di Charles Taylor21 – privata di riferimento veritativo e trascendente, una religiosità “fai da te” e del benessere, un bene di consumo – per così dire – tra altri. Anche la vita consacrata trova qui il rischio di essere concepito come una esperienza pur interessante ma strutturalmente revocabile, come ogni opzione personale. Bastano solo questi brevi accenni per far comprendere come le formidabili intuizioni del Concilio Vaticano II sul rapporto tra vita consacrata e antropologia vengono oggi messe di fronte a nuove prove, di cui l’accompagnamento spirituale si deve fare carico. L’enfasi sulla libertà individuale, sul godimento consumistico seduttivo, un regime degli affetti fortemente emotivo, sono solo alcune delle sfide che vengono poste. 3.5. Il carattere profetico dei consigli evangelici Per completare il quadro di riferimento, si deve considerare, anche dal punto di vista antropologico, l’ambivalenza del postmoderno su queste tematiche, in cui l’uomo non appare più semplicemente come soggetto ma anche come oggetto dei suoi esperimenti, mettendo così a rischio proprio quell’autonomia per la quale la stessa modernità aveva preso le mosse oltre cinque secoli fa. L’esortazione apostolica postsinodale Vita Consecrata non evita di accennare alla problematica quando mette a tema i consigli evangelici proprio in relazione ai grandi mutamenti epocali relativi alla libertà, alla economia e agli affetti. Il documento postsinodale si esprime a questo proposito con le seguenti parole: Il compito profetico della vita consacrata viene provocato da tre sfide principali rivolte alla stessa Chiesa: sono sfide di sempre, che vengono poste in forme nuove, e forse più radicali, dalla società contemporanea, almeno in alcune parti del mondo. Esse toccano direttamente i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, stimolando la Chiesa e, in particolare, le persone consacrate a metterne in luce e a testimoniarne il profondo significato antropologico (VC 87). Queste parole risultano molto importanti perché riprendono i consigli evangelici nel loro significato umano proprio in relazione alle mutazioni antropologiche in atto. Il documento sembra offrire una prospettiva interessante: non invita a prendere le distanze dall’umano ma piuttosto ad accorgersi che i tempi pongono oggi nuove sfide, che se accolte ci permettono di scoprire in modo nuovo anche i consigli evangelici, soprattutto nella loro capacità “terapeutica” nei confronti dell’umano ferito e bisognoso di guarigione. Riguardo alla castità il documento rileva la sfida del diffuso disordine affettivo che caratterizza gran parte della società moderna: “La prima provocazione è quella di una cultura edonistica che svincola la sessualità da ogni norma morale oggettiva, riducendola spesso a gioco e a consumo, e indulgendo con la complicità dei mezzi di comunicazione sociale a una sorta di idolatria dell'istinto. Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: prevaricazioni di ogni genere, a cui s'accompagnano innumerevoli sofferenze psichiche e morali per gli individui e le famiglie” (VC 88). Il beato Giovanni Paolo II, come risposta a tale idolatria dell’istinto, che asservisce al consumo e al godimento immediato anche gli affetti più cari, così afferma: E' necessario che la vita consacrata presenti al mondo di oggi esempi di una castità vissuta da uomini e donne che dimostrano equilibrio, dominio di sé, intraprendenza, maturità psicologica ed affettiva. Grazie a questa testimonianza, viene offerto all'amore umano un sicuro punto di riferimento, che la persona consacrata attinge dalla contemplazione 21 Cf. Ch. TAYLOR, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, 12-14. dell'amore trinitario, rivelatoci in Cristo. Proprio perché immersa in questo mistero, essa si sente capace di un amore radicale e universale, che le dà la forza della padronanza di sé e della disciplina necessarie per non cadere nella schiavitù dei sensi e degli istinti. La castità consacrata appare così come esperienza di gioia e di libertà. Illuminata dalla fede nel Signore risorto e dall'attesa dei cieli nuovi e della terra nuova (cfr Ap 21, 1), essa offre preziosi stimoli anche per l'educazione alla castità doverosa in altri stati di vita (VC 88). Da qui emerge un compito assai impegnativo per l’accompagnamento spirituale. La sequela di Cristo in castità deve sfidare l’idolatria dell’istinto e la banalizzazione degli affetti. Non si tratta solo di imparare la continenza, come rinuncia alla genitalità, ma di incarnare un modello affettivo capace di relazioni libere e profonde. In ciò si comprende il compito estremamente attuale di una vita vissuta nell’amore verginale. A proposito del voto di povertà il medesimo documento puntualizza la situazione con queste parole: “Altra provocazione è, oggi, quella di un materialismo avido di possesso, disattento verso le esigenze e le sofferenze dei più deboli e privo di ogni considerazione per lo stesso equilibrio delle risorse naturali. La risposta della vita consacrata sta nella professione della povertà evangelica, vissuta in forme diverse e spesso accompagnata da un attivo impegno nella promozione della solidarietà e della carità” (VC 89). Senza tuttavia dimenticare che “In realtà, prima ancora di essere un servizio per i poveri, la povertà evangelica è un valore in se stessa, in quanto richiama la prima delle Beatitudini nell'imitazione di Cristo povero. Il suo primo senso, infatti, è testimoniare Dio come vera ricchezza del cuore umano. Ma proprio per questo essa contesta con forza l'idolatria di mammona, proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della misura e il significato stesso delle cose” (VC 90). Anche qui assistiamo ad una sorta di replica di quanto affermato nell’ambito delle relazioni affettive in rapporto con la realtà quotidiana. L’esasperazione del criterio tecnoscientifico rischia di ridurre la realtà a pura materia manipolabile, misconoscendone il carattere originario di dono. Anche l’attenzione ai poveri viene radicato cristologicamente. L’imitazione di Cristo povero genera una profonda solidarietà con i bisognosi, che non si lascia ridurre a mero impegno sociologico. L’accompagnamento nella vita consacrata deve poter verificare questa radice nella imitazione di Cristo che conduce ad un nuovo modo di sentire la realtà e di vivere la compassione con i poveri. Infatti la sola motivazione sociologica per la vicinanza agli ultimi non è in grado di fondare una decisione vocazionale per sempre. Analogamente, il beato Giovanni Paolo II pone importanti punti di riferimento riguardo al tema dell’obbedienza circa la tematica postmoderna della libertà: La terza provocazione proviene da quelle concezioni della libertà che sottraggono questa fondamentale prerogativa umana al suo costitutivo rapporto con la verità e con la norma morale. In realtà, la cultura della libertà è un autentico valore, intimamente connesso col rispetto della persona umana. Ma chi non vede a quali abnormi conseguenze di ingiustizia e persino di violenza porta, nella vita dei singoli e dei popoli, l'uso distorto della libertà? Una risposta efficace a tale situazione è l' obbedienza che caratterizza la vita consacrata. Essa ripropone in modo particolarmente vivo l'obbedienza di Cristo al Padre e, proprio partendo dal suo mistero, testimonia che non c'è contraddizione tra obbedienza e libertà (VC 91). Il testo mostra molto bene il punto di rottura tra libertà e verità che caratterizza la nostra attuale stagione culturale. Si afferma giustamente la libertà come valore e guadagno fondamentale del cammino proprio della modernità, ma ne evidenzia anche il punto di impasse. L’obbedienza deve essere compresa e vissuta non come alternativa alla libertà ma come sua forma autentica, come forma della libertà che scopre la verità di Dio come la sua più grande alleata. Con il tema dell’obbedienza si pone inevitabilmente anche quello dell’autorità, che il processo della modernità ha posto radicalmente in questione. L’accompagnamento fa emergere inevitabilmente la crisi di paternità e di autorità che il nostro tempo patisce. Si tratta di reimparare il senso dell’altro autorevole, posto sul proprio cammino, che non deve né sostituire né mortificare la propria libertà, ma essere riferimento di proposta per un cammino possibile22. Infine non è trascurabile il riferimento che il documento postsinodale pone anche sulla vita fraterna che caratterizza le diverse forme di vita religiosa. Sebbene con espressioni rapide, si mostra come la ricerca comune della volontà di Dio ed il ruolo proprio dell’autorità permettono di riscoprire sul senso delle relazioni interpersonali nel contesto della vita quotidiana: “Contro lo spirito di discordia e di divisione, autorità e obbedienza risplendono come un segno di quell'unica paternità che viene da Dio, della fraternità nata dallo Spirito, della libertà interiore di chi si fida di Dio nonostante i limiti umani di quanti Lo rappresentano” (VC 92). Il tema a dire il vero era stato accennato anche nel precedente documento su La vita fraterna in comunità (1994), in cui emerge il senso profondo dell’appartenenza ed in cui si analizza il fenomeno diffuso di una antropologia dai forti connotati individualistici, di fronte alla quale la vita consacrata deve saper proporre cammini di sequela che permettano di ritrovare il senso positivo dei legami fraterni. Tutto ciò fornisce all’accompagnamento formativo nella vita consacrata elementi decisivi. La polarità tra individuo e comunità è tra le più problematiche oggi in ambito antropologico. La vita fraterna in comunità, incarnando esistenzialmente il principio della Chiesa come comunione23, deve poter mostrare come tutto ciò che è personale sia tale in quanto ha una dimensione comunitaria; come a sua volta quanto è realmente comunitario sia per l’edificazione della persona. Al di là della completezza o meno del discorso portato avanti dalla esortazione apostolica postsinodale e dai documenti successivi, sembra importante qui soprattutto evidenziare il metodo di approccio relativo agli intrecci fra questioni antropologiche postmoderne e carattere “terapeutico” della pratica dei consigli evangelici. Qui si tratta di cogliere ed accogliere la sfida formativa sottesa e mettere in atto percorsi in cui le persone consacrate possano mediante la pratica della castità, povertà e obbedienza mostrare la dignità vera dell’uomo, il senso della realtà creata e del suo carattere insuperabile di dono ed il profondo ordine degli affetti che l’uomo come essere in relazione richiede. In sintesi In definitiva, siamo passati da un modello formativo nella modernità che aveva come criterio la messa tra parentesi dell’umano per permettere al religioso si essere figura “altra” rispetto al mondo, ad un recupero della realtà antropologica e della sua giusta e relativa autonomia all’interno della centralità della persona di Cristo, mostrando come la stessa sequela di Gesù possieda un carattere profondamente umanizzante. Attualmente, la visione “liquida” dell’umano, presente nella cultura postmoderna, chiede un ulteriore coraggioso passaggio, in cui scoprire nei consigli evangelici un contributo fondamentale per affrontare il disorientamento antropologico in 22 Interessanti sono le riflessioni proposte dall’istruzione della CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza (2008). Sul tema in generale si veda G. ANGELINI - D. ALBARELLO - G. BORGONOVO, «Onora il padre e la madre». L'autorità: la rimozione moderna e la verità cristiana, Glossa, Milano 2012. Per la spiritualità francescana: P. MARTINELLI (ed.), Autorità e obbedienza nella vita consacrata e nella famiglia francescana, EDB, Bologna 2008. 23 Si guardino le interessanti osservazioni del documento Ripartire da Cristo sulla “spiritualità di comunione” che deve animare la vita fraterna in comunità (nn. 28.29). atto intorno ai temi della libertà, del desiderio e degli affetti. In tal modo il primato di Dio che la vita consacrata deve mostrare si manifesta essere gravida di implicazioni antropologiche: la vita consacrata, con la sua stessa forma di vita, può mostrare a tutti, alla Chiesa e alla società che la “questione di Dio” è in realtà la vera “questione dell’uomo”24. Solo in una vita che acquista la sua forma dalla ricerca di Dio permette di ritrovare anche la vera forma dell’uomo. Al termine di questo itinerario abbiamo gli elementi, certamente in forma sparsa, che l’accompagnamento nella vita consacrata deve avere presenti per un adeguato percorso formativo, per una vita secondo i consigli evangelici che non fugga di fronte alla realtà in cambiamento, e che nello stesso tempo non si anonimizzi nella Chiesa e nella società, capace, invece, di rapportarsi significativamente alla vita ecclesiale per svolgere la sua missione propria. In estrema sintesi, la vita consacrata vissuta secondo i consigli evangelici mediante la forma della vita fraterna deve potersi formare in un quadro di riferimenti che da una parte attinga pienamente alla vita ecclesiale, esprimendo in pienezza la soggettività battesimale, dall’altra assuma tutte le dinamiche antropologiche così da dare un contributo decisivo all’uomo del III millennio. SECONDA PARTE 4. L’accompagnamento e i consigli evangelici: un quadro d’insieme In quest’ultimo punto vorrei cercare di mettere, in un quadro coerente, gli elementi che abbiamo visto via via emergere in relazione ai mutamenti in atto e che a mio parere possono costituire un punto di riferimento dell’accompagnamento nella vita consacrata, sia per la formazione permanente che iniziale. 4.1. Valenza formativa della sequenza dei consigli evangelici Prima di provare a delineare le relazioni tra i diversi aspetti che devono essere considerati nell’accompagnamento formativo dal punto di vista spirituale vorrei attirare l’attenzione sul tema dei consigli evangelici dal punto di vista del loro ordine. Fino ad ora, nel presentare la castità, la povertà e l’obbedienza abbiamo sostanzialmente tenuto la taxis rinvenuta nei documenti cui abbiamo fatto riferimento. Volendo presentare ora uno schema di riferimento credo sia necessario almeno a grandi linee riflettere sul suo senso. Come è noto, la cosiddetta triade dei consigli evangelici non è conosciuta formalmente se non nel secondo millennio cristiano25. Le forme monastiche e di radicalismo evangelico del I millennio, presenti sia in oriente che in occidente, di fatto si trovano a vivere secondo i consigli evangelici, sebbene questi non siano esplicitamente considerati nelle loro regole26. I consigli evangelici appaiono esplicitamente solo con la regola di Giovanni de Matha per i Trinitari e di san Francesco d’Assisi per i Frati Minori. In genere si ritiene che, soprattutto agli inizi, non vi sia un significato particolare all’ordine dato ai consigli. Mentre nel prosieguo della storia della Chiesa e degli interventi magisteriali abbiamo sicuramente un cambiamento della taxis dovuta a differenti comprensioni ed ermeneutiche della stessa vita religiosa nella Chiesa. Vediamo brevemente in rassegna le formule più note: • GIOVANNI DE MATHA, Regola dei Trinitari: obbedienza, castità e «sine proprio» 24 Cf. A. SCOLA, Nuova evangelizzazione e Vita Consacrata alla luce della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, in Rivista Española de Teología 73 (2013) 23-40. 25 Cf. J.M.R. TILLARD, Consigli evangelici, in Dizionario degli Istituti di Perfezione. II, Paoline, Roma 1975, 1630-1685. 26 Nella letteratura patristica troviamo il genere letterario De Verginitate; non mancano opuscoli sulla povertà; mentre il tema dell’obbedienza è particolarmente considerato nelle regole monastiche del primo millennio, dettagliando anche il ruolo proprio dell’autorità, come ad esempio l’abate nella regola benedettina. • • • • • • • • FRANCESCO D’ASSISI, Regola non Bollata: obbedienza, castità e «sine proprio» FRANCESCO D’ASSISI, Regola Bollata: obbedienza, «sine proprio» e castità BONAVENTURA, Quaestiones Disputatae: De Perfectione evangelica: – povertà, castità e obbedienza TOMMASO D’AQUINO, Summa e Opuscula: – povertà, castità e obbedienza – In un caso solo usa: obbedienza, povertà e castità CIC 1917, can. 487: obbedienza, castità e povertà CONCILIO VATICANO II (LG e PC): castità, povertà e obbedienza CIC 1983, can. 573 § 2: castità, povertà e obbedienza GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata: castità, povertà e obbedienza Quale interesse può avere l’ordine dei consigli per l’accompagnamento nella vita consacrata? Dal quadro che abbiamo presentato si può notare che c’è un primo calco, fondamentalmente giuridico, che troviamo sia nella regola dei Trinitari che nella regola non bollata di san Francesco. Si parte dall’obbedienza – che era anche il valore fondamentale delle regole monastiche del primo millennio – cui fa seguito la castità e la povertà (“sine proprio”). Il valore giuridico della formula è comprovato anche dalla sua permanenza fino al codice del 1917. Lo stesso Francesco d’Assisi nella Regola Bollata utilizza una scansione diversa: obbedienza, povertà e castità. Questo ordine sarà molto importante e verrà mantenuto anche nella formula della professione che la famiglia francescana utilizza fino ad oggi. La riflessione teologica, soprattutto in Bonaventura e in Tommaso d’Aquino, si concentra volutamente su un ordine diverso: dapprima la povertà, poi la castità ed infine l’obbedienza. L’uguale ordine utilizzato dai due grandi teologi del medioevo probabilmente non indica lo stesso intendimento dei consigli. L’ordine in Bonaventura risente, da una parte, della disputa sulla povertà in atto a livello teologico – cosa che lo accomuna anche a Tommaso – nei confronti dei “Calunniatori”, ma soprattutto del fatto che i francescani considerano la povertà il consiglio “per eccellenza”, proprio a partire dalla insistenza su di essa messa in atto da Francesco d’Assisi. Si deve inoltre sottolineare il fatto che Bonaventura premette alla triade l’Humilitas come condizione previa senza la quale anche la stessa pratica dei consigli evangelici diventerebbe inautentica. In tal senso la vita dei frati minori ha come porta di accesso la l’umiltà-povertà. Tommaso in genere preferisce la sequenza: povertà – castità – obbedienza, come Bonaventura. Come recenti studi hanno mostrato27, in ciò viene esplicitato un interessante significato antropologico che mira ad indicare il progressivo coinvolgimento della persona chiamata nella sequela di Cristo. In effetti i consigli evangelici in questo ordine indicano una sequenza che va dall’esterno al sempre più intimo: con la povertà la sequela di Cristo modifica il rapporto che la persona ha con le cose ed in genere con la realtà circostante; con la castità la sequela arriva a modificare il rapporto del soggetto con il suo corpo, entrando in merito alla sfera affettiva e generativa. Con l’obbedienza, invece, la persona rimette nelle mani di Cristo il suo centro più intimo: la propria volontà. In tal modo l’ordine dei consigli esprime il coinvolgimento sempre più radicale della persona in relazione a Gesù che chiama alla sequela: dal beni esterni fino all’iolibertà passando per il corpo e gli affetti. Credo che questo quadro suggerisca attenzioni importanti che l’accompagnamento nella vita consacrata può considerare nel percorso formativo. Infatti, in questa prospettiva si vede come l’accompagnamento dovrebbe curare il progressivo coinvolgimento della persona fino ad arrivare alla consegna di sé stesso a Cristo nell’intimo della propria volontà. 27 Cf. H. DEAK, Consilia sapientis amici. The Theological Foundation of the Evangelical Counsels from the Perspective of the Nature-Grace Relationship in Saint Thomas Aquinas, Dissertazione dottorale alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana, Roma 2012. A partire dal Concilio Vaticano II l’ordine di presentazione dei consigli evangelici cambia in modo significativo: castità, povertà ed obbedienza. La povertà e la castità si sono, per così dire, scambiate di posto. Tale scelta viene poi confermata anche dai documenti successivi, in particolare dal Codice di Diritto Canonico del 1983 e dalla Esortazione Apostolica postsinodale Vita Consecrata. Mentre sia Lumen Gentium che Perfectae Caritatis non si preoccupano sostanzialmente di motivare il cambiamento, in Vita Consecrata troviamo alcuni passaggi di rilievo. Un primo riferimento, molto chiaro, lo troviamo al n.14: “la consacrazione battesimale è portata ad una risposta radicale nella sequela di Cristo mediante l'assunzione dei consigli evangelici, primo ed essenziale tra essi il vincolo sacro della castità per il Regno dei Cieli”28. Ancora più esplicito è il passaggio al n. 32: “La vita consacrata annuncia e in certo modo anticipa il tempo futuro, quando, raggiunta la pienezza di quel Regno dei cieli che già ora è presente in germe e nel mistero, i figli della risurrezione non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli di Dio (cfr Mt 22, 30). In effetti, l'eccellenza della castità perfetta per il Regno, a buon diritto considerata la «porta» di tutta la vita consacrata, è oggetto del costante insegnamento della Chiesa”29. Ci sembra, in definitiva, che l’ordine dei consigli che pone la castità al primo posto manifesti una preoccupazione identitaria per la vita consacrata. Non a caso tale ordine viene introdotto e diffuso insieme alla riscoperta della vocazione battesimale, come a voler indicare il punto diacritico che distingue la vita consacrata dalle altre forme di vita cristiana. In effetti, mentre si potrebbe pensare ad una vita di obbedienza e di povertà, con tutte le precauzioni del caso, anche per coloro che sono uniti in matrimonio, nell’ambito della castità evidentemente siamo di fronte ad un criterio di discernimento costitutivo: la scelta della verginità consacrata implica la rinuncia al partner coniugale e alla generazione fisica di figli. In tal senso finché non si coglie il senso del voto di castità non si comprende la vita consacrata come tale nel suo punto identitario specifico. Come si può facilmente notare, la diversità degli ordini di presentazione dei consigli evangelici, di per sé, non è un elemento problematico ma di arricchimento. Ogni formula espositiva ha una sua ricchezza che può essere integrata con le altre. L’accompagnamento spirituale nella vita consacrata potrà giustamente sottolineare l’una o l’altra modalità a seconda del significato che si vuole richiamare. Detto questo, tuttavia, vorrei considerare come da previlegiare proprio l’ordine che troviamo nella Regola bollata di san Francesco d’Assisi. Questo evidentemente è possibile solo sulla base del fatto che tutti e tre i consigli evangelici costituiscono una vera e propria circuminsessione. Pertanto non è possibile ultimamente separarli o considerarli autonomamente: sono parole che esprimono il loro significato proprio nella loro indivisibile unità, sia dal punto di vista cristologico che antropologico. Pertanto, il privilegiare la sequenza della regola bollata non è esclusiva e non intende fare una gerarchia all’interno dei consigli evangelici, che invece possono essere compresi e vissuti solo insieme, in relazione alla forma vita che Gesù stesso ha praticato per il pieno compimento della sua missione. La sequenza “obbedienza – sine proprio – castità”, in effetti, appare innanzitutto più immediatamente aderente al dato biblico neotestamentario e assai efficace dal punto di vista pedagogico. All’inizio della sequela non troviamo innanzitutto un invito né ad assumere un ministero, né alla scelta celibataria. Certamente Gesù si presenta come celibe e l’invito alla sequela radicale implica l’immedesimazione con Cristo fino alla castità consacrata. Tuttavia, è interessante che all’inizio del percorso dei discepoli ci sia innanzitutto l’incontro con la sua persona e l’invito a lasciare tutto per stare con lui. Al centro vi è dunque l’ascolto obbediente nei confronti di Gesù. Da qui emerge l’immagine fondamentale della sequela: il lasciare ogni cosa, il mettersi nella 28 Il corsivo è mio. Il corsivo è mio. Al n. 62 il documento preciserà che proprio a motivo della differenza tra castità matrimoniale e castità propria dei religiosi (cosiddetta “perfetta”) impedisce che due coniugi impegnati in modo lodevole in una determinata esperienza carismatica possano essere ritenuto consacrati allo stesso modo di coloro che fanno voto di castità. 29 condizione della povertà indica la condizione perché la sequela di Gesù sia reale e manifesti la stima sincera e totalizzante per la persona di Cristo, per stare con il quale appare gioioso vendere tutto, come si afferma nelle parabole del Regno circa il tesoro nascosto nel campo e della perla preziosa. Come noto, in Israele – eccettuato il caso singolare e controverso degli esseni – non vi era alcuna stima per la verginità o per il celibato come forma stabile di vita. Essa era condizione preparatoria al matrimonio. Conosciamo piuttosto nella tradizione ebraica il piangere sulla verginità (Gdc 11,37) che non la sua lode. Vera eccezione è costituita da Gesù stesso, che nel brano evangelico sull’eunuchia per il regno dei cieli, infondo, rende ragione della sua eunuchia, che poteva risultare incomprensibile a Israele (Mt 19). In questa prospettiva, ben sapendo dell’intrinseco legame dei consigli evangelici tra loro, la sequenza proposta dalla Regola non bollata mi sembra favorisca pedagogicamente il cammino che permette di arrivare fino al senso pieno della verginità a partire dalla sequela di Cristo. Un altro motivo che ci permette di preferire per l’accompagnamento nella vita consacrata la sequenza che a tutt’oggi l’Ordine francescano ha nella formula della professione, sta nella possibilità che essa offre di connettersi agilmente con gli altri elementi che abbiamo precedentemente identificato, ossia il rapporto tra consigli evangelici e la vita battesimale, da una parte, ed il rapporto tra consigli evangelici e dinamiche antropologiche, dall’altra. Innanzitutto la sequenza obbedienza – povertà – castità ci permette di riconoscere una relazione con la vita battesimale, descritta classicamente attraverso le tre virtù teologali che costituiscono i pilastri fondamentali della vita nuova in Cristo, ossia fede speranza e carità30. All’obbedienza si connette la virtù della fede, alla povertà la virtù della speranza, alla verginità la virtù della carità. Questa triplice polarità permette di tematizzare, secondo un preciso ordine, anche le parole chiave che illustrano le dinamiche antropologiche implicate nella vita secondo i consigli evangelici. Tra la fede e l’obbedienza vorremmo collocare il binomio verità e libertà; mentre tra speranza e povertà vorremmo riprendere il tema dell’umano desiderare in rapporto con il senso cristiano del tempo. Infine, tra la carità e la castità consacrata occorre recuperare le problematiche relative agli affetti e alla fecondità. Arriviamo in questo modo ad elaborare uno quadro riassuntivo degli elementi che un adeguato accompagnamento nella vita consacrata dovrà tenere presente sia nell’ambito della formazione iniziale che permanente: VITA BATTESIMALE CONSIGLI EVANGELICI Fede DINAMICHE ANTROPOLOGICHE Verità / Libertà Speranza Desiderio / Tempo Povertà Carità Affetti / Fecondità Verginità Obbedienza Compagnia vocazionale Ovviamente non abbiamo la possibilità di illustrare esaustivamente il percorso che abbiamo enunciato. Ci basti tuttavia richiamare i nodi nevralgici che l’accompagnamento deve tenere 30 Cf. l’istruzione Potissimum institutioni 34 e 36. In particolare PI, 12: “La fede, la speranza e la carità spingono le religiose e i religiosi ad impegnarsi con i voti a praticare e a professare i consigli evangelici e a testimoniare così l'attualità e il senso delle Beatitudini nel mondo” presente perché le vocazioni possano crescere in armonia. Come si vede dal disegno, il percorso formativo non prevede un andamento univoco, gli elementi si possono intrecciare e richiamare vicendevolmente. Giacché i consigli evangelici si compenetrano l’un l’altro, il percorso non potrà che trovare sempre nuovi nessi attraverso i quali crescere nella propria esperienza di consacrazione. 4.2. L’obbedienza della fede Per quanto riguarda la prima linea dello schema appare in tutta evidenza l’idea fondamentale paolina dell’obbedienza della fede. A fondamento di tutto il cammino formativo si pone ultimamente l’esperienza della fede come esperienza dell’incontro personale con Cristo, riconosciuto ed accolto dentro la propria vita. Non si insisterà mai abbastanza sulla fede come fondamento e condizione di possibilità dello stesso percorso formativo. Essa non può essere concepita come una premessa da lasciarsi, poi, alle spalle. Essa costituisce la costante porta di accesso al mistero della propria vocazione e la possibilità del suo svolgimento. La qualità della vita di fede decide anche la qualità della propria consacrazione31. Si pensi alle forti espressioni di Porta Fidei: “per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità, segni concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire” (PF 13)32. Nell’orizzonte della fede, in cui ci è dato di conoscere il Signore Gesù, è necessario essere introdotti all’esperienza di ciò che è incondizionato e su cui si può costruire la propria esistenza. Papa Francesco ci ha mostrato nella sua enciclica Lumen Fidei come il tema del credere non può essere ridotto ad un vago sentimento nei confronti del divino e nemmeno ad una conoscenza meramente intellettuale di asserti che superano la ragione33; la fede è il modo con cui nel tempo e nello spazio facciamo esperienza di quella verità affidabile che è Dio nella carne. Tutto ciò dialoga profondamente con le istanze postmoderne relative al rifiuto di una verità sentita come ingombrante per la libertà; al contrario, nell’esperienza della fede la libertà è massimamente esaltata proprio in relazione a quella verità di Dio che non si presenta in modo coercitivo ma umile. D’altra parte, la stessa libertà non può essere vissuta solo come possibilità di automovimento indefinitamente reiterabile, senza una direzione e senza meta. La libertà dell’uomo non viene salvata dal relativismo nichilista, che alla fine disorienta la persona lasciandola in balia di se stessa e dei propri istinti; la libertà è esaltata e sostenuta proprio nella fede in cui la verità dell’amore di Dio si offre nella forma dell’umiltà. In questo senso già nel cuore della libertà alberga il tema del desiderio come energia personale che spinge ad uscire di sé verso il compimento del proprio essere34. Nei racconti evangelici è del tutto evidente che in ogni incontro Cristo si rivolge alla libertà e dunque al desiderio più profondo del cuore dell’uomo: “se vuoi essere perfetto”. Del resto, nel cammino di consacrazione non si avrà un vero percorso vocazionale se non si arriva a riconoscere il passaggio di Dio dentro la propria vita, che la fede riconosce. La libertà dell’uomo può rischiare legami significativi e definitivi solo se incontra nella fede quella verità di Dio, sommamente desiderabile, per la quale vale la pena rischiare tutto se stessi. Senza il 31 Cf. l’interessante riflessione di J. ROVIRA, E se il religioso entra in crisi di fede, che si fa?, I-II, in Vita Consacrata 47 (2011)16-28; 125-139. 32 Papa Francesco approfondisce questo dato nella recente enciclica sulla fede: “La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità” (LF 53). 33 Cf. Lumen Fidei 23-25. 34 Cf. A. MANENTI, Ambivalenza del desiderio, in Parola Spirito e vita 67 (2013) 231-242. G. SALONIA, Desiderio e bisogno, in Parola Spirito e vita 67 (2013) 243-255. M.I. ANGELINI, Il desiderio di Dio nel monachesimo, in Parola Spirito e vita 67 (2013) 195-213. Interessanti anche le considerazioni di M. RECALCATI, I ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore Milano 2012. presentimento di una chiamata incondizionata da parte di Dio, che la fede riconosce, difficilmente il cammino vocazionale avrà una prospettiva durevole. In tale prospettiva, l’obbedienza si manifesta non come alienazione spersonalizzante ma come responsabilità, come forma integrale della libertà, che riconoscendo il passaggio di Dio nella propria vita, ad esso si lega, iniziando a seguire non più il proprio progetto ma la modalità concreta – il carisma – con cui l’evento di Cristo si è palesato ai propri occhi. L’accompagnamento nella vita consacrata dovrà mettere la massima attenzione nel rilanciare continuamente la libertà nell’obbedienza della fede perché il formando rinnovi costantemente l’adesione cordiale a quanto si è attestato nella propria esperienza come chiamata di Dio a seguire le orme di nostro Signore Gesù Cristo. Inutile in questa sede richiamare la centralità nell’esperienza di Francesco d’Assisi circa la 35 fede : basti qui ricordare come egli stesso al termine della sua vita nel Testamento rilegga tutta la sua esistenza alla luce della fede: “il Signore mi dette tanta fede…”. La fede è la reale ermeneutica che egli effettua su tutta la sua vita, riconoscendo in ogni evento il passaggio di Dio che lo ha fatto camminare nel tempo. In ciò emerge anche quella dimensione sacramentale del credere in Francesco così esplicita nella I Ammonizione, in cui il mistero di Dio viene riconosciuto ed accolto (“vedere e credere”) nel segno fragile dell’Eucaristia, della Chiesa, del sacerdote, del lebbroso, del fratello e della realtà tutta. Non a caso nella regola non bollata riguardo a coloro che vogliono farsi frati francesco così si esprime: “I ministri poi diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa”. Infatti senza una autentica vita di fede che si esprime nei sacramenti non vi può essere autentica vocazione. Anche i diversi intendimenti dell’obbedienza, espressi da san Francesco nella III Ammonizione – obbedienza vera, caritativa e perfetta – hanno la loro radice nella esperienza persuasiva della fede. 4.3. La povertà e la speranza Il tema della speranza come virtù teologale si pone nel cammino formativo come implicazione propria della vita della fede. L’incontro con Cristo è riconosciuto capace di sostenere il proprio cammino verso il compimento della vita e del desiderio che la anima. Gesù Cristo si manifesta agli occhi del chiamato come speranza veramente “affidabile”, come ha affermato Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi. L’orizzonte della speranza mostra come la vocazione contenga in sé la forma della promessa che dialoga con la struttura desiderante propria di ogni uomo. L’incontro con Cristo, la sua singolare umanità, ridesta nell’uomo il suo desiderio più profondo di felicità, di essere amato e di amare in modo incondizionato. La sequela di Cristo libera così il desiderio dell’uomo dalle sue riduzioni, autorizza la libertà al desiderio, liberandolo dalla dispersione dei “desideri”, dei godimenti immediati e reiterati che la società dei consumi continuamente evoca, estenuando lo stesso cuore dell’uomo. La crisi del desiderio, di cui ci parla la sociologia contemporanea insieme e non pochi settori della psicoanalisi36, mette in evidenza che il desiderio dell’uomo è sempre desiderio dell’altro e dell’altrove, strutturalmente insaziabile, perché aperto e orientato all’infinito ed esso si corrompe se non è ancorato ad una prospettiva che vada oltre il soddisfacimento immediato di carattere narcisistico. Nella prospettiva della speranza la persona può tornare a guardare con simpatia alla propria umanità desiderante, riconoscendo la verità della promessa che la vocazione introduce nella propria esperienza. 35 Cf. P. MARTINELLI, “Dammi fede diritta”. Con san Francesco d’Assisi, per ricominciare a credere, Edizioni Porziuncola, Santa Maria degli Angeli – Assisi 2012. 36 Cf. M. RECALCATI, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano 2010. CENSIS, 44° Rapporto sulla situazione sociale del paese 2010, Franco Angeli, Milano 2010. Il tempo stesso appare così in una nuova luce. Nella speranza esso non appare più solo come limite e come carcere che imprigiona il reale nella finitezza. Il tempo è tempo del desiderio e della promessa. Mi sembra che un percorso di accompagnamento nella vita consacrata non sia possibile senza questa dimensione. La speranza educa a vivere il desiderio nel tempo della promessa, rinunciando all’attrattiva parziale e istintiva, e mantenendo la persona fedele al cammino intrapreso. Si tratta di una “speranza certa”, dice Francesco d’Assisi. La povertà evangelica fiorisce necessariamente sul terreno di questa speranza. Essa, infatti, si presenta, da una parte, come custodia del desiderio più profondo del cuore dell’uomo. Come ci insegna l’episodio evangelico drammatico del giovane ricco. Di fronte all’incontro con Cristo, capace di suscitare il più grande desiderio di vita eterna, ossia di vita vera, la persona può improvvisamente interrompere la sequela, come appare in Matteo 19. Davanti all’invito di Gesù di lasciare ogni cosa egli se ne andò via triste perché aveva molti beni. La sua fiducia era riposta nelle cose che possedeva a tal punto che tali cose diventano una obiezione alla richiesta di Gesù di mettersi risolutamente alla sua sequela in vista dell’essere “perfetto”, cioè compiuto. Ma in tale modo il giovane ricco tradisce quello stesso desiderio per il quale era arrivato fino a porre la domanda a Gesù sulla vita eterna. In questo senso nell’accompagnamento formativo si deve porre particolare attenzione per cogliere dove la persona pone la sua speranza e da dove si aspetta il compimento dei propri desideri. Solo attraverso percorsi di autentica povertà evangelica alimentati dalla speranza possono rendere la persona chiamata capace di decidersi “per sempre”. Infatti, il “per sempre” presuppone una certezza sul tempo futuro che solo la speranza cristiana può offrire. La povertà evangelica educa il cuore ad essere fedele al proprio desiderio ultimo, evitando di attaccarsi a ciò che non è capace di compiere la promessa, rendendo così possibile il governo di se stessi. C’è un distacco reale che occorre introdurre ed accompagnare nel cammino formativo perché la persona approfondisca il rapporto con Cristo e con i propri autentici desideri. In tal modo la stessa povertà evangelica, come ci insegnano le Scritture e la stessa esperienza di Francesco d’Assisi, è già in un certo senso anche anticipo del compimento finale. E’ lo stesso Evangelista a narrare, dopo l’episodio del giovane ricco, la domanda risoluta di Pietro a Gesù: “«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,27-29). Nell’idea del “centuplo” è contenuto quell’anticipo del compimento che è promesso a coloro che lasciano tutto per mettersi alla sequela di Cristo. In tal senso nell’accompagnamento formativo si deve poter scorgere e stimare adeguatamente i segni del centuplo nella propria esperienza di consacrazione. Se da una parte la povertà contiene in sé un momento di distacco, di rinuncia e di sacrificio in vista di ciò che realmente può corrispondere alle domande che albergano nel cuore dell’uomo, dall’altra essa diventa già fin d’ora un modo nuovo di entrare in rapporto con tutte le cose secondo una prospettiva integrale che sfonda l’immediata apparenza delle nella loro continua mutevolezza. L’apostolo Paolo stesso ci attesta nella sua esperienza come coloro che non hanno niente perché hanno lasciato ogni falsa sicurezza per Cristo, in realtà possiedono tutto: nihil habentes, omnia possidentes (2Cor 6,10). San Francesco d’Assisi con il suo radicale distacco dalle cose non ha forse potuto sperimentare una profondissima intimità con tutta la creazione? Colui che non voleva che alcuna cosa fosse detta “sua”, in realtà ha testimoniato con la vita e con le parole – si pensi al cantico di Frate Sole – di saper vivere ogni circostanza della vita nella luce del mistero di Dio, come vero anticipo del compimento finale. Man mano che nel percorso formativo cresce la consapevolezza del “centuplo”, cresce anche la convinzione della bontà del percorso intrapreso. La povertà evangelica, animata dalla speranza, diventa una luce nuova per il consacrato su tutta la realtà ed in particolare sull’uso dei beni. Qui si può solo nominare alcune delle questioni che vanno rilette in questa luce, come l’uso dei soldi, dei beni e soprattutto il modo di lavorare. Da questi aspetti del vivere quotidiano si può e si deve in effetti verificare molto concretamente la consistenza del cammino formativo. 4.4. La carità e la castità consacrata Arrivando alla terza colonna della vita cristiana – la carità – sia la fede che la speranza pervengono al loro fondamento ultimo, la vita di Dio come amore trinitario. La scoperta di Dio come infinita gratuità (“Deus caritas est”), con la possibilità di poter partecipare a tale gioia si prospetta così come l’unico ideale capace di muovere la libertà dell’uomo ad una adesione incondizionata. Solo l’incontro con Dio come amore – dono infinito, gratuito e fedele – rende ragione dell’esistenza nel suo senso ultimo; l’amore non è solo un sentimento nuovo ma è anche una nuova intelligenza di tutta la realtà; solo questo amore spiega l’enigma dell’uomo. Per questo ogni vocazione è realmente una vocazione alla perfezione dell’amore; l’esistenza rimane tragicamente incompiuta al di fuori di esso. L’amore è questione di vita o di morte; chi non ama rimane nella morte. L’amore, ossia il dono compassionevole e totale di sé, è la legge suprema dell’essere. La vocazione alla verginità consacrata trova qui il suo fondamento e la sua forma definitiva. Essa appare come modalità affettiva peculiare. La verginità entra nel mondo ultimamente come imitazione del modo con cui Cristo ha vissuto le relazioni e gli affetti, con una intensità e dedizione incomparabili. Da qui si comprende perché l’accompagnamento nella vita consacrata deve poter mettere adeguatamente a tema la verginità come forma definitivamente redenta degli affetti. Anche in questo caso andiamo ad intercettare una delle questioni radicali sollevate dalla postmodernità soprattutto in riferimento al disordine affettivo – speculare al disordine dei desideri - che spesso si intreccia con la difficoltà radicale ad accettare la propria finitezza e l’alterità. Il dissesto affettivo, che in particolare il mondo occidentale si trova a vivere e che trova espressione acuta nella perdita del senso positivo della differenza tra l’uomo e la donna, appare ultimamente come un grido presente nella condizione antropologica contemporanea. Il tentativo spesso titanico e delirante di superare i propri limiti, alimentato dalle inedite scoperte tecnoscientifiche, che cosa attestano ultimamente se non la tragica impossibilità del rapporto con l’altro e del proprio perdurare nell’essere? I rapporti affettivi così “liquidi”, come del resto la stessa fluidità della identità sessuale, non dicono forse del bisogno dell’altro e della impossibilità di un autentico compimento? Il desiderio d’amore frustrato e la paura della morte diventano le segrete regine delle relazioni affettive tra le persone, tra uomo e donna, tra genitori e figli. Accettare di essere iscritti dentro un corpo segnato dalla differenza sessuale vuol dire sempre accettare di essere segnati da una mancanza, dalla finitezza, ed accettare di essere in rapporto con l’altro che in nessun modo posso ridurre ad una unità fusionale. Il tema della differenza sessuale, dell’abitare il proprio corpo sessuato, in relazione al tema del desiderio di essere amati ed amare, diventa oggi semplicemente vitale per il percorso formativo alla vita consacrata. La troppa insistenza nel passato su vocazioni angelicate come ideale della vita consacrata ci ha resi oggi particolarmente sprovveduti di fronte ad una cultura che esalta la neutralità affettiva come ideale antropologico. Occorre per questo che l’accompagnamento formativo abbia la pazienza di entrare nella complessità della vita affettiva per ritrovare nell’annuncio di Cristo la possibilità di un’autentica redenzione degli affetti, ossia il loro ordine teologale. Alla luce del mistero pasquale, come mistero di liberazione dalla paura della morte, si spalancano nuovi orizzonti per la vita affettiva, di cui i consacrati devono essere per tutti autentici testimoni. L’amore verginale non è una amore spirituale disincarnato a fronte di un amore carnale che normalmente segna il destino degli uomini; l’amore verginale è amore sposale, è dedizione del corpo fino alla fine. In tal senso l’affezione di coloro che sono chiamati alla verginità, prendendo le mosse dal mistero pasquale, introduce nelle relazioni la possibilità della gratuità e dell’assenza del calcolo. Il cammino della verginità consacrata è pertanto un cammino di redenzione degli affetti, che permette nel tempo una autentica riconciliazione con se stessi, soprattutto con il proprio corpo, con gli altri, perché ultimamente si sperimenta la riconciliazione con Dio. La rinuncia che la verginità chiede, apre così ad una esperienza affettiva più profonda ed anticipa nel tempo la pienezza escatologica, cui ogni uomo è chiamato in Cristo. Si può qui solo accennare al carisma francescano-clariano, che possiede una grande potenzialità proprio nella prospettiva della differenza uomo – donna, accolta e vissuta nella forma della castità. Certamente la relazione tra Francesco e Chiara, per quanto spesso fraintesa dalla letteratura specie romantica, è di fatto impossibile a comprendersi nella sua valenza carismatica e formativa se si prescinde dalla loro differenza. La loro personale esperienza spirituale sarebbe stata diversa senza la loro relazione. Anzi, evitando inutili ricostruzioni ipotetiche, si deve dire che i due santi di Assisi non sono storicamente pensabili l’uno senza l’altro e così anche la spiritualità di tutta la famiglia francescana. Il riferimento all’altro è stato certamente costitutivo per entrambi. E tuttavia la loro frequentazione è stata del tutto discreta e la loro relazione spesso segnata da distacco e silenzio. Sia a livello di riflessione teologico spirituale che nel ripensamento dei modelli formativi, la formazione alla reciprocità del maschile e femminile deve trovare uno spazio adeguato. Giustamente, già il beato Giovanni Paolo II nelle sue catechesi sull’amore umano aveva affermato il carattere sponsale della consacrazione verginale e come ci si debba consacrare a Dio non neutralmente, ma ciascuno come uomo o come donna37. In questo c’è in gioco la struttura antropologica del desiderio e la condizione teologica della vocazione che vive dell’alterità e della differenza38. Nella logica della caritas si può, infine, rileggere anche tutta vita fraterna in comunità. Essa prende il suo calco originario nel mistero della Trinità come mistero di comunione, in cui unità e differenza non sono superate ma condizione l’una dell’altra. Come già si è fatto cenno, la vita fraterna è luogo teologale in cui si impara ad appartenere a Cristo perché si impara ad appartenere ad una compagnia che vive nel suo nome. La persona non cresce nella sua vocazione se non impara a vivere relazioni gratuite di donazione sincera in cui accogliere l’altro nella sua differenza; in questa prospettiva si deve fare esperienza di come la stessa fraternità non appiattisca le persone ma le accolga e faccia crescere nella loro peculiarità39. Francesco d’Assisi risulta maestro insuperabile di tutto ciò con la sua vita e con i suoi testi. Su tutto domina l’espressione del Testamento: “il Signore mi diede dei fratelli”. Francesco li riconosce chiaramente come compagni dati per il suo cammino vocazionale. In tal modo ogni vero accompagnamento nella vita consacrata ha bisogno di questa compagnia per verificare la bellezza 37 “Non possiamo pensare che quel secondo genere di scelta [verginità] possa essere fatto in modo cosciente e libero senza un riferimento alla propria mascolinità o femminilità ed a quel significato sponsale che è proprio dell’uomo appunto nella mascolinità o femminilità del suo essere soggetto personale. Anzi, alla luce delle parole di Cristo, dobbiamo ammettere che quel secondo genere di scelta, cioè la continenza per il regno di Dio, si attua pure in rapporto alla mascolinità o femminilità propria della persona che fa tale scelta; si attua in base alla piena coscienza di quel significato sponsale che la mascolinità e la femminilità contengono in sé. Se tale scelta si attuasse per via di un qualche artificioso «prescindere» da questa reale ricchezza di ogni soggetto umano, essa non risponderebbe in modo appropriato ed adeguato al contenuto delle parole di Cristo in Mt 19,11-12”, GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna li creò. Catechesi sull'amore umano, Città Nuova, Roma 1985, 317. Indicazioni operative in questa direzione sono accennate chiaramente nel documento circa le direttive sulla formazione della CONGREGAZIONE DEGLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA. Potissimum Institutioni (2 febbraio 1990), 39-41. Cf. anche CONGREGAZIONE PER L'EDUCAZIONE CATTOLICA, Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali (4 novembre 2005), n. 2. 38 Cf. P. MARTINELLI (ed.) Maschile e femminile, vita consacrata, francescanesimo. Scritti per l’VIII centenario dell’Ordine di Santa Chiara, EDB, Bologna 2012 39 Cf. P. MARTINELLI, Ecclesiologia di comunione e fraternità francescana. Appunti per una verifica, in Italia Francescana 78/2 (2003) 11-42. della propria chiamata a seguire Cristo casto, povero ed obbediente. La celeberrima Lettera ad un ministro, poi, costituisce la Magna Charta l’espressione della legge più intima vita fraterna, ossia l’accoglienza e il perdono. La figura adulta del consacrato, che vive in comunità, appare nella capacità di misericordia nelle relazioni fraterne. 4.5. La meta dell’accompagnamento: diventare “padri” Da qui si apre l’esito finale, sempre da rinnovarsi, dell’accompagnamento nella vita consacrata. Il diventare a propria volta dei testimoni, padri e madri perché testimoni del senso ultimo della vita più forte della morte. La vocazione alla vita consacrata è ultimamente una vocazione ad una paternità e maternità spirituale, non più segnata dalla morte; anzi, che proprio perché prende le mosse dal mistero pasquale testimonia che la morte è stata per sempre vinta. Mediante la testimonianza di una paternità e di una maternità verginale, anche la fecondità nella carne per coloro che si sposano trova un nuovo senso; non più quello di generare figli dai quali ci si aspetta il compimento futuro, caricando così questi ultimi di una attesa e di un compito impossibile. La testimonianza della verginità consacrata afferma la bontà originaria dell’essere uomo e dell’essere donna, chiamati alla fecondità dell’amore, non più segnato dalla paura dalla morte ma dalla gioia perché la morte è stata vinta. Nell’individuare l’esito dell’accompagnamento formativo nella capacità di testimonianza generativa – paternità e maternità spirituale – finisce anche la nostra riflessione, esattamente nello stesso punto da cui eravamo partiti. L’accompagnatore nella vita religiosa più che essere uno stratega della formazione deve essere testimone di un desiderio possibile, sostenendo il cammino dell’altro nella sua formazione. L’esito di questo cammino è la formazione di persone adulte nella fede e nella consacrazione, ossia persone a propria volta chiamate ad accogliere e introdurre altri alla vita della fede, alla speranza e alla carità. Vorrei per questo concludere ancora con le parole di papa Francesco pronunciate il 6 luglio nell’incontro con i seminaristi, novizi e novizie in occasione dell’anno della fede: Voi, seminaristi, suore, consacrate il vostro amore a Gesù, un amore grande; il cuore è per Gesù, e questo ci porta a fare il voto di castità, il voto di celibato. Ma il voto di castità e il voto di celibato non finisce nel momento del voto, va avanti… Una strada che matura, matura, matura verso la paternità pastorale, verso la maternità pastorale, e quando un prete non è padre della sua comunità, quando una suora non è madre di tutti quelli con i quali lavora, diventa triste. Questo è il problema. Per questo io dico a voi: la radice della tristezza nella vita pastorale sta proprio nella mancanza di paternità e maternità che viene dal vivere male questa consacrazione, che invece ci deve portare alla fecondità. Non si può pensare un prete o una suora che non siano fecondi40. Proprio questa fecondità spirituale, richiamata da papa Francesco, è lo scopo di ogni accompagnamento nella vita consacrata. 40 In L’Osservatore Romano, lunedì-martedì 8-9 luglio 2013, 6.