Suadela –#– Collana diretta da Adelino Cattani Suadela è lo splendido nome dato dai Romani alla Peitho greca, semidea e personificazione della persuasione. Suadela è altresì assunta a personificazione della non prepotenza e del rispetto del pensiero altrui. C’è chi la chiama tolleranza. C’è chi la chiama civiltà aRGOMENTARE LE PROPRIE RAGIONI Organizzare, condurre e valutare un dibattito a cura di Adelino Cattani loffredo editore university press In copertina: EAN Coordinamento University Press: Ugo Cundari [email protected] Finito di stampare nel mese © LOFFREDO EDITORE s.r.l. Via Capri 67 80026 Casoria (NA) http://www.loffredo.it E-Mail: [email protected] Indice Introduzione 9 ADELINO CATTANI Filosofi e retori 1. Filosofia e retorica 2. Filosofi contro retori 3. Filosofia, retorica e verità 4. Filosofia e retorica nel dibattito 17 17 18 21 22 MANUELE DE CONTI Gestire i disaccordi 31 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 1. L’argomento ad ignorantiam 2. Logica e retorica 3. Tipi di cliché 4. Risorse disponibili 39 40 41 41 48 PAOLO BOSCHI Fatti, valori e dibattito 1. La situazione 2. Casi ricorrenti 3. Altri casi 4. Parole valigia 5. Attenzione, capacità e consapevolezza 55 55 56 61 65 67 PAOLA CANTÙ La formazione al dibattito attraverso l’analisi di ragionamenti tratti dai quotidiani 1. Introduzione 2. Tre obiezioni 3. La peculiarità dello strumento formativo 4. La monnezza rom 5. Non desiderare la tesi altrui 6. Un modo per zittire il dibattito 7. Come ti avveleno la sorgente 8. Conclusione 75 75 76 77 78 80 83 85 88 ALFRED C. SNIDER Debate: Critical Method for the 21st Century My background Why the 21st century is different Why current educational methods fall short Debating as important bundle of educational experiences Empirical results Competitive debating Classroom debating Conclusions 91 91 92 93 95 96 97 98 99 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ Con Acento 101 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 111 1. Diseñando situaciones argumentativas 112 2. Fundamentos para un enfoque crítico de debate académico 113 3. Diálogo, debate y metacognición. 117 4. Características ideales del debate académico como modalidad dialógica 5. La reconstrucción de discusiones críticas 6. Aportes de un enfoque dialógico cognitivo al diseño de un modelo de debate 7. Propuesta general de diseño para un modelo de debate crítico 8. Conclusiones 121 123 128 131 133 CATERINA BOTTECCHIA “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento formativo Premessa Il torneo di disputa filosofica e la quotidiana attività didattica Conclusione 139 139 140 149 ROBERTO FALDUTI Palestra di botta e risposta al microscopio: considerazioni teorico-pratiche e analisi di una disputa 1. Considerazioni preliminari 2. Osservazioni sul percorso di dispute 3- Analisi di una disputa 153 153 157 166 SENOFONTE NICOLLI Non di sole parole. Disputa filosofica e comunicazione non verbale 185 ALBERTO RIELLO La parola e il gesto Il gesto degli altri, ovvero manipolazioni di pensieri illustri 191 192 GIULIO ZENNARO Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica come esperienza didattica 195 Introduzione «Se io so di essere fallibile e tu sei consapevole della tua fallibilità, allora – se ci sta davvero a cuore risolvere i problemi – io aspetterò con ansia le tue alternative e le tue critiche e tu sarai grato delle mie alternative alle tue proposta e delle mie critiche. Insomma discuteremo. E la discussione è l’anima della democrazia.» (D. Antiseri, Princìpi liberali, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 19) Il dibattito ha così tanta parte nella nostra vita, e, incomprensibilmente, così poca parte nei nostri pensieri. Non abbiamo sempre chiaro quale sia il suo senso, non abbiamo presenti quali ne siano i metodi, le procedure, le finalità, le diverse tipologie. Ci si affida al dibattito senza averne appreso regole e mosse. Certo si può entrare in campo e disputare un incontro da dilettante, ma ha la meglio chi mette a frutto la sua capacità dialettica innata o si avvale dell’argomento “giusto”. Si sa bene che in un dibattito non vince sempre la tesi migliore, ma quella meglio argomentata; non ha la meglio il discorso giusto ma quello meglio impostato; non prevale l’opinione più ragionevole, ma quella meglio motivata, vale a dire quella supportata da motivi e cause più che da ragioni. La ragione infatti è ciò che giustifica, la causa è ciò che determina, il motivo è ciò che spinge. Ragione, causa e motivo rispondono tutti alla domanda “perché?”, ma una cosa è fornire una spiegazione logica delle nostre scelte, altra cosa è indicarne una causa oggettiva e controllabile, altra ancora è addurre un motivo soggettivo e valido solo per me. Con questa consapevolezza e con l’intento di “dibattere concretamente sul dibattito”, il 18 e 19 novembre 2010 si sono riunite a Padova sette associazioni (ACPD, APOGEO, ERGO, IASC, TORNEO CON ACENTO, WDI, ZIP) e studiosi-operatori di sette diverse nazioni (Cile, Israele, Italia, 10 Adelino Cattani Messico, Slovenia, Spagna, Stati Uniti) per confrontarsi sul valore e sui limiti di una formazione al dibattito. Titolo del convegno-laboratorio: Argomentare le proprie ragioni: come organizzare, condurre e valutare un dibattito. Il volume è frutto dei colloqui intercorsi durante e dopo quelle giornate, oltre la contingenza dell’incontro. Argomentare e non dimostrare, perché entrambi gli atti, pur avendo il medesimo scopo di provare qualcosa per via inferenziale, sono di natura assai diversa. Ragioni, e non ragione, perché nel dibattito contano le ragioni plurali, conta chi ha più ragioni o meno torto dalla sua e contano anche la quantità e il modo, oltre che la qualità e le pertinenza. Le proprie ragioni, perché, se è pur vero che “non posso conoscere la mia verità se non conosco la verità degli altri”, a ognuno il suo compito: io posso comprendere e debbo tenere conto delle ragioni altrui, ma non farmene necessariamente carico; sarà l’interlocutore-oppositore che saprà/dovrà difenderle al meglio, quando, come succede perlopiù, il contesto è controversiale e polemico. Questi tre termini caratterizzano e definiscono il dibattito, un atto davvero vitale, ma poco tematizzato. Come organizzare, condurre e valutare un dibattito è il sottotitolo: a Padova, che è stata la prima sede universitaria ad introdurre un corso di Teoria dell’argomentazione, tuttora unico in Italia; in Italia dove una volta si esercitava la preziosa logica maior, che è quella sostanziale e discorsiva, e dove un tempo vivevano “retori felici”, si è voluto riflettere su quell’atto tipicamente ed esclusivamente umano che è il dibattito. Un buon dibattito, per quanto scontroso e polemico possa essere, consente di far emergere quanto di meglio si possa dire, quanto di meglio sia mai stato detto e scritto. Un buon dibattito è quello in cui si confrontano due interlocutori, ciascuno dei quali riconosce il diritto, accetta il dovere ma gode altresì del piacere di discutere. «Razionale è una persona a cui importa più di imparare che di avere ragione» diceva il liberale Karl Popper, per il quale liberale è la persona consapevole della propria e dell’altrui fallibilità, e della propria e dell’altrui ignoranza. Argomentare le proprie ragioni 11 Tra filosofi e oratori-retori c’è sempre stato antagonismo, perché il filosofo mira alla verità in sé, l’oratore mira alla verità in comunità. Verità ed educazione discorsiva-negoziazione sono due valori che si possono contemperare nel dibattito, in quell’arte, la dialettica, che un tempo era qualificata liberale e che oggi definiremmo liberante. Liberante perché promuove la libertà di pensare, la libertà di esprimere e la libertà di replicare. Liberante perché incoraggia il pensiero indipendente e, come recita lo slogan apparentemente paradossale della campagna promozionale della storica Enciclopedia Filosofica concepita dal Centro di Studi Filosofici di Gallarate ed ora (2010/2011) riproposta, a distanza di sessant’anni, in nuovissima rielaborazione da Rizzoli/RCS, “è il pensiero degli altri che ci aiuta a pensare con la propria testa”. Le sette Associazioni, impegnate in questa sfida teorico-educativa, alfabeticamente ordinate, sono le seguenti. ACPD – Associazione per una Cultura e la Promozione del Dibattito, è l’esito di un progetto di formazione al dibattito, chiamato Palestra di Botta e risposta, avviato a Padova dal 2006 e collegato al corso di Teoria dell’argomentazione attivata dal 2001 nell’università patavina. Si propone di introdurre nella scuola la metodologia del dibattito regolamentato. Ispirato all’idea che la discussione sia non solo un diritto del singolo e un dovere civico, ma altresì un piacere, il progetto si attua in forma di torneo a cui partecipano studenti degli istituti di istruzione secondaria. (http://www.educazione.unipd.it/ bottaerisposta) APOGEO – Acronimo che sta per Analisi Progettazione Organizzazione Gestione Operativa, Agenzia di formazione fiorentina diretta da Paolo Boschi e Lucia Sprugnoli. Opera in diversi settori d’intervento, dalla formazione manageriale alla sviluppo della comunicazione e interna ed esterna, dal counselling psicologico all’acting teatrale (bisogna anche apprendere la “spontaneità” dei gesti in un dibattito). Gestire tempo, conflitti e frustrazioni, riunioni, collaboratori e “colleghi impossibili”. Superare 12 Adelino Cattani l’ansia e vincere lo stress (condizioni psicologiche rilevanti e ricorrenti in un dibattito). Arte del comunicare ma anche del tacere. (http://www. apogeoform.net) ERGO – Associazione di Pratica e Teoria dell’argomentazione. Costituitasi nel 2008, ricorrenza del 50° anniversario della pubblicazione del Trattato dell’argomentazione di Chaïm Perelman e del volume di Stephen Toulmin, Gli usi dell’argomentazione, per iniziativa di Adelino Cattani, Paola Cantù, Italo Testa e Paolo Vidali, vorrebbe abbinare teoria e pratica, privilegiando, fin dalla denominazione del gruppo, la pratica alla teoria, l’applicazione e la trasferibilità delle analisi teoriche. Meglio che qualcosa funzioni anche senza avere completa cognizione del perché (questo sarebbe pratica) anziché niente funzioni avendo tutti piena cognizione del perché (questo è spesso la teoria). L’auspicio è che teoria e pratica del dibattito si saldino. Cfr. La svolta argomentativa. Cinquant’anni dopo Perelman e Toulmin. Loffredo 2009. (http://www2. unipr.it/~itates68/ARGO.htm) CEAR – Centro de Estudios de la Argumentación y el Razonamiemto, costituito presso l’Università Diego Portales di Santiago del Cile e diretto da Claudio Fuentes e Cristian Santibañez, che da oltre cinque lustri conducono, in varie forme, un’intensa e diffusa opera di formazione al dibattito nelle scuole cilene. (http://www.cear.udp.cl) CON ACENTO. È una iniziativa ideata e animata da Antonio Martín Sánchez, rivolta a giovani universitari spagnoli della regione Andalusa. È un torneo di dibattito, nell’ambito del Club di dibattito dell’Università Pablo de Olavide di Siviglia, che intende valorizzare i talenti di intelligenza, di partecipazione, di impegno dei giovani e della società andalusa, per mezzo del poderoso strumento della parola, dell’oratoria e della dialettica, all’insegna della semplicità unita alla precisione, della convinzione unita all’apertura, del dinamismo unito all’attenzione, della serietà unita alla disinvoltura. (http://debateconacento.com/quienes.html) Argomentare le proprie ragioni 13 IASC – International Association for the Study of Controversies. Fondata nel 1995 e presieduta da Marcelo Dascal, è dedicata alla elaborazione di strumenti idonei per lo studio e la gestione delle controversie, soprattutto filosofiche e scientifiche, nella convinzione che la controversia, in tutte le sua forme, dalla polemica virulenta alla discussione pacata, sia il motore del progresso in ogni campo. (http://tau.ac.il/humanities/philos/iasc) WDI – World Debate Institute, Università del Vermont, USA. Diretto da Alfred Snider e attivo dal 1982, il WDI nel corso di un trentennio ha formato addestratori e giudici di dibattito di 50 diversi paesi in tutto il mondo, rivolgendosi primariamente ai paesi emergenti e in cui ancora non si è diffusa la pratica del dibattito formativo, con spirito “missionario”, mirando ad uno sviluppo delle capacità dibattimentali, nella convinzione che una comunità in cui si discute liberamente e con competenza sia anche una società potenzialmente più pacifica e più giusta. (http://worlddebateinstitute.blogspot.com; http://debate.uvm.edu/debateblog/wdi) ZIP – Za in proti, Zavod za kulturo dialoga - Pro et Contra, Institute for Culture of Dialogue, Ljbljiana, Slovenia. Diretto da Bojana Skrt, responsabile della Debate Academy Slovena, ZIP, un acronimo che, in lingua slovena, sta per Pro e contro, è un Istituto per la cultura del dialogo ed un programma di vasto respiro rivolto a scuole di diversi paesi di ogni livello, dalle medie all’università, che mira a diffondere, con tutti i mezzi disponibili, attraverso workshops, forum, tornei di dibattito, tavole rotonde, manuali e trasmissioni radio-televisive, la cultura del dibattito. Ad oggi, nell’arco di 6 anni ha organizzato oltre 150 eventi, con più di 5000 partecipanti ed ha costituito più di 60 gruppi di dibattito nelle scuole medie della Slovenia. (www.zainproti.com). Il volume è diviso in due parti, la prima prevalentemente teorica, la seconda prettamente operativa. Nella prima si tratta dei fondamenti e delle finalità di una formazione al dibattito. La seconda è dedicata all’organizzazione, alla conduzione e alla valutazione del dibattito. 14 Adelino Cattani L’introduzione di Adelino Cattani esamina il rapporto, da sempre problematico, tra filosofi e retori, rilevando quanta retorica ci sia nella filosofia e quanta filosofia ci sia nella retorica, a dispetto dell’antica ostilità fra le due. Il tema del disaccordo, della sua genesi e possibilità di superamento, è al centro e nel cuore dell’interesse di Manuele De Conti, infaticabile promotore di queste iniziative di dibattito formativo e cofondatore della Associazione per una Cultura e la Promozione del Dibattito - ACPD. Se De Conti tratta di come gestire il disaccordo, di come gestire stereotipi e fenomeni simili si occupa Rafael Jiménez Cataño, docente nell’Università della Santa Croce di Roma. Membro della IASC – International Association for the Study of Controversies, egli è assiduamente attivo anche in Messico. Al laboratorio padovano del 1819 novembre 2010 era presente, con un intervento sul tema Arguing our reasons and other reasons for arguing. Controversies theory and political debite, Amnon Knoll, della School of Philosophy di Tel Aviv, dove opera Marcelo Dascal, fondatore e presidente della IASC. Paolo Boschi, direttore dell’Agenzia di formazione “Apogeo”, di Firenze, discute, con chiari esempi illustrativi, quella che, sulla falsariga della epistemologica “pregnanza teorica delle osservazioni”, potremmo chiamare la “pregnanza valoriale dei fatti” in un contesto di scambio dialogico/polemico. Infine Paola Cantù e Italo Testa, ispiratori e membri cofondatori di Ergo, propongono un’analisi della stampa come momento di formazione al dibattito. Chiude la sezione dedicata ai fondamenti e alle finalità, il contributo di Alfred Snider, un “apostolo” del dibattito, che dirige il World Debate Institute. Snider testimonia la rilevanza del dibattito visto come “condotta critica” per il nuovo secolo, come strumento di cambiamento e di promozione individuale, scolastica e sociale, i cui esiti sono documentati sia da numerose singole esperienze (tra cui la sua personale) sia da nascenti ricerche sperimentali sul campo a lungo termine. La parte operativa è aperta dall’intervento del direttore del Torneo de Debate con Acento, attivato presso l’Università Pablo Olavide di Siviglia, Antonio Martín Sanchez, il quale riferisce dell’esperienza organizzativa spagnoloandalusa in tema di formazione al dibattito competitivo. Argomentare le proprie ragioni 15 Dall’America Latina, precisamente da Santiago del Cile, dove da alcuni decenni si è sviluppato un forte interesse teorico e pratico per l’argomentazione, Claudio Fuentes Bravo e Cristian Santibánez Yáñez, che gestiscono il CEAR, Centro de Estudios de la Argumentación y el Razonamiemto, costituito presso l’Università Cilena Diego Portales, delineano i vantaggi di una trattazione teorica e di una progettazione pratica di natura dialogico-cognitiva del dibattito accademico-formativo a fronte di una trattazione-progettazione tradizionale. Caterina Bottecchia e Roberto Falduti, due docenti padovani pionieri in questa attività di formazione scolastica al dibattito, mettono a frutto e a disposizione la loro competenza filosofica e l’esperienza acquisita in qualità di educatori e di addestratori di torneo. Con acribia e con verificata convinzione, Caterina Bottecchia evidenzia nella Palestra di botta e risposta la natura di un percorso di autentico arricchimento formativo, proponendo altresì sperimentati esercizi idonei a conseguire gli obiettivi educativi fondamentali e a superare le difficoltà di comunicazione che intervengono nel processo di insegnamento-apprendimento. Roberto Falduti dedica il suo intervento ad un riesame anche operativo, “al microscopio”, dell’esperienza finora condotta, sulla base delle effettive dispute svolte nella Palestra di botta e risposta. Minuziosa la sua analisi di una disputa sul tema “È corretto chiamare ‘scienze’ le scienze umane?”, sorretta da puntuali considerazioni teorico-pratiche. Senofonte Nicolli, dirigente scolastico e supervisore nella Facoltà di Scienze della Formazione nell’Univeristà di Padova e Alberto Riello, incaricato dall’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto di progetto di educazione al teatro, un vero “form-attore”, sottolineano l’importanza dell’azione oratoria – della comunicazione non verbale e del linguaggio del corpo – perché “non di sole parole” vive l’uomo che discute e si nutre il dibattito. Chiude il volume il contributo di Giulio Zennaro, professore di filosofia e storia nel liceo Concetto Marchesi di Padova, la cui squadra si è aggiudicato il titolo di magnifico disputante nel Torneo di disputa “Palestra di botta e risposta” dell’anno 2010, sulla base di una pionieristica esperienza di formazione 16 Adelino Cattani al dibattito scolastico, tratta della disputa filosofica come esperienza didattica nella prospettiva dell’argomentare inteso come forma di dialogo. Zennaro offre un succinto e pregnante epilogo che evidenzia chiaramente la natura creativa e ricreativa della disputa esercitata nel quadro di una Palestra di botta e risposta, il cui valore è riassumibile in quattro punti: 1. l’essere, in primo luogo, una sfida e una competizione regolamentata che favorisce la crescita dei partecipanti; 2. il consentire di imparare dai propri errori e dalle sconfitte; 3. il privilegiare negli studenti l’attività di ricerca rispetto alla ripetizione mnemonica; 4. l’indurre nella classe un atteggiamento di cooperazione efficace volta a raggiungere un obiettivo comune. Si aggiunga l’obbligo di individuare una preliminare, inderogabile premessa di partenza condivisa, se si vuole intraprendere qualsiasi dibattito che non sia tra sordi: sembrerà paradossale, ma la condizione per discutere è di essere d’accordo (d’accordo su un punto di partenza comune). Tale premessa condivisibile, può ricercarsi, ad esempio, nei più generali diritti umani. Detto in breve, la disputa privilegia il dialogo come metodo e l’argomentazione come regola, al motto di “mai imporre, ma sempre spiegare e proporre all’assenso”. ADELINO CATTANI Filosofi e retori Abstract L’intervento prende le mosse dal duplice quesito: “Se e quanta filosofia ci sia nella retorica e se e quanta retorica ci sia nella filosofia”. La domanda può suonare sorprendente, perché tra filosofia e retorica c’è sempre stato antagonismo. Lo scontro tra filosofi e oratori verte essenzialmente sul rapporto pensiero/linguaggio e sulla rispettiva concezione di bene: il parlare “bene” dei filosofi e il parlare “bene” degli oratori/ retori. Per il filosofo il bene dicendi consiste nel dire il vero e il giusto, per l’oratore consiste nel comunicare in maniera persuasiva. La verità, la “nuda verità”, anche quella filosofica, dovrebbe parlare da sè e non dovrebbe avere bisogno di orpelli retorici. Ma una considerazione sia storica sia teorica attesta che la retorica non è assente dalla filosofia. Anzi si può sostenere che ogni argomento filosofico è inevitabilmente retorico e la retorica è una forma di filosofia. Perché, per dirla aforisticamente: bisogna avere ragione e bisogna saperla esprimere, ma non basta; bisogna anche riuscire a farsela riconoscere. 1. Filosofia e retorica Il rapporto tra filosofia e retorica è da sempre stato problematico. Una delle ragioni riconosciute è il fatto che «la storia della retorica è come la storia di una disciplina che si accorcia…La retorica venne morire quando il gusto per la classificazione delle figure soppiantò il senso filosofico che animava il vasto impero retorico, ne teneva insieme le parti e collegava il tutto all’Organon e alla filosofia prima» (Ricoeur 1976, p. 190). Si cercherà qui di rispondere all’interrogativo “Se e quanta filosofia ci sia nella retorica e se e quanta retorica ci sia nella filosofia”. 18 ADELINO CATTANI A tale fine consideriamo in primo luogo che cosa ha fatto/fa chi pratica la filosofia e che cosa ha fatto/fa chi pratica la retorica. Che cosa fanno, oggi, i retori? Dopo una lunga eclissi, la retorica è tornata prepotentemente tornata alla ribalta del sapere in due forme: come “teoria generale del discorso e della comunicazione” (retorica come tecnica pregnante e totalizzante, l’impero della retorica, «più vasto e più tenace di qualsiasi impero politico» - R. Barthes ) e come “teoria dell’argomentazione” (retorica come antidoto alla violenza e garanzia della democrazia, la retorica delle «buone ragioni» - Ch. Perelman). Che cosa fanno i filosofi? Qualcuno, molto autorevole, ha sostenuto, semplicisticamente e drasticamente, che la filosofia è morta, che non ha più nulla da dire: ci basta, ci occorre la scienza per spiegare il mondo – lo sostengono, ad esempio, Stephen Hawking e Leonard Mlodinow nel loro recente volume, Il grande disegno. Ma per fortuna qualche filosofo in circolazione c’è ancora. Che cosa fa? Dimostra? La risposta è chiaramente no, perché la filosofia è storicamente una sequenza ininterrotta teorie rivali e di pensatori in contrasto fra di loro. Spiega? La risposta è: cerca di spiegare, ma la sua spiegazione non è mai definitiva; mai un filosofo risponde con un sì o un no decisivi. E pretenderlo sarebbe come chiedere ad un tennista di fare goal, per usare una celebre immagine di origine neopositivistica. I filosofi non dimostrano e non spiegano, ma argomentano e l’argomentazione è lo strumento della retorica e della controversia. 2. Filosofi contro retori Platone contro Isocrate, Boezio contro Cassiodoro, Thomas H. Huxley contro Matthew Arnold, John Dewey contro Jacques Maritain costituiscono tutti diversi, opposti punti di vista, quello filosofico e quello oratorio che hanno interagito in modo controversiale lungo tutta la storia del pensiero e dell’educazione dall’antichità ai giorni nostri. Filosofi e retori 19 In una ipotetica competizione tra filosofi fautori e detrattori della retorica, la squadra dei contrari sarebbe preponderante per numero e in forza. Oltre a Platone, una drastica condanna della retorica, giudicata ingannevole e menzognera, è pronunciata da John Locke: «la retorica, quel potente strumento d'errore ed inganno… come il bel sesso ha in sé fascini troppo potenti per tollerare che mai si parli contro di essa. E vana cosa è denunciare quelle arti dell'inganno, nelle quali gli uomini trovano piacere a essere ingannati.» (Locke 1999, III, X, 34, p. 572 ). Anche Kant si schiera con i detrattori dell'«ars oratoria», intesa come arte di persuadere, «ossia di abbindolare, con una bella apparenza»: «l'arte oratoria, in quanto arte di servirsi della debolezza umana ai propri fini (siano supposti o siano realmente buoni quanto si voglia), non merita alcuna stima». I motivi della sua condanna, che riecheggia temi e idee antiche, sono spiegati in una nota della Critica del Giudizio (Critica del Giudizio, Sez. I, libro 1, par. 53) e sono riassumibili nella avversione per la parola impura, asservita e liberticida, di cui la retorica pare l'istituzionalizzazione Critica della Ragion Pura, II, cap. II, sez. III. A dispetto dei giudizi espressi dai filosofi sulla retorica, di cui i precedenti sono solo una minima campionatura, a metà del secolo scorso si è riaffermata l’importanza anche filosofica della retorica, ben espressa, ad esempio, da Ernesto Grassi. Il filosofo italo-tedesco si è occupato in particolare del rapporto tra retorica e filosofia giungendo alla sorprendente convinzione per cui la retorica non sarebbe una semplice modalità di espressione finalizzata alla persuasione, bensì un atto costituivo e fondante del pensare umano: “la retorica non è qualcosa che si aggiunge alla verità filosofica; è la fonte di questa verità.” (Grassi 1980). Grassi vede nella retorica il punto di partenza della filosofia, non viceversa1. 1 Grassi valorizza l’umanesimo italiano, contro la tradizione scientista. Considera centrali la metaforicità e l’ingenium che si manifestano nell’immaginazione, nell’attività e nel linguaggio. Solitamente si ritiene che la metafora non sia altro che un decoro linguistico che nulla aggiunge alla sua sostanza. 20 ADELINO CATTANI Tra i pensatori moderni, il primo ad aver portato l'attenzione sulla dimensione ineludibilmente retorica della parola è stato Nietzsche (Nietzsche 1912). Nietzsche ha non solo parlato di retorica ma ha parlato, e fatto filosofia, retoricamente; al punto che è stato considerato un poeta manipolatore, un retore-oratore appunto. Qualcuno l’ha definito “un filosofo contro i filosofi”. Ciò prova una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che la filosofia è essenzialmente e irrimediabilmente controversiale. Lo è non tanto nel senso banale per cui non c’è tesi che un qualche filosofo non abbia sostenuto (se ne lamentavano sia l’oratore Cicerone sia il filosofo Cartesio), quanto nel senso più pregnante per cui la filosofia è un perenne confronto di posizioni diverse e contrarie. Sia Cartesio sia Nietzsche sono considerati dei filosofi, ma il primo fa filosofia in maniera articolata, rigorosa e conformemente ad un modulo logico-sillogistico, il secondo in maniera sentenziosa e in forma esplicitamente retorica. Parimenti, prendiamo Aristotele e Kiekegaard, leggiamo un testo di Kant ed uno di Wittgentsein, confrontiamo Heiddeger e Carnap: se tutti sono a ragione definibili filosofi, significa che filosofia si dice in molti modi, e la filosofia contempla contenuti e stili quantomai diversi. Qual è la differenza tra i pensatori menzionati, se tutti sono filosofi? Ciò che li distingue è una particolare “retorica filosofica” (Grassi 1980). Oggi tendiamo ancora a prendere le distanze dalla retorica. La tradizione oratoria e quella filosofica hanno divorziato; discorso e ragione, oratio e ratio rimangono due approcci concorrenti. Certamente gli oratori dell’antichità erano dogmatici: ritenevano che il compito dell’educazione fosse impartire la verità. Certamente la retorica deteriorò in sofistica. Certamente la retorica divenne poco a poco una vacua arte declamatoria. Ciò giustifica la condanna e i giudizi costantemente negativi pronunciati dai filosofi nei confronti della retorica, considerata corrotta e corruttrice sotto tutti i punti di vista, per i suoi intrinseci vizi di natura cognitiva, metodologica, etica e sociale. La retorica è stata infatti giudicata: Filosofi e retori 21 - un ragionare vizioso perché infondata o fondata su basi irrazionali o a-razionali; - una procedura fallace perché superficiale, aforistica, entimematica; - un’arte ingannevole perché indifferente alla distinzione vero/falso o, peggio, capace di spacciare il falso per vero. - pericolosa per la sua parzialità, demagogia e potere seduttivo. Quando poi la retorica si esercita sul dibattito, c’è il timore che essa crei solo individui brillanti che hanno sempre una risposta apparente per tutto e in ogni occasione, cioè disputanti capaci di trovare argomenti fasulli e false ragioni, che sanno sempre come replicare e come mentire. 3. Filosofia, retorica e verità Ma da quando il filosofo ha incominciato ad interrogarsi più problematicamente sulla verità, integrando il suo interrogarsi sul vero con la clausola if any e da quando il retore ha ripreso a coltivare i “fioretti dialettici” oltre che i suoi “fioretti retorici”, il rapporto tra filosofia e retorica è un po’ cambiato. In particolare da quando la filosofia ha preso a occuparsi a fondo del linguaggio, il come dire (la forma) non è più in insanabile conflitto con il cosa dire (il contenuto). Infine, da quando la filosofia fa i conti con la controversia, il filosofo, attore solitamente alquanto monologico e solipsistico, deve fare i conti con la disputa, con la disputa intesa sia come forma di scambio dialogico-cooperativo sia come forma di scambio polemico-competitivo. Così oggi possiamo dire che, accanto ai suoi noti limiti e vizi, alla retorica sono riconosciuti i seguenti pregi e valori. Dal punto di vista cognitivo, la retorica può fornire schemi euristicamente validi a cogliere i molteplici aspetti del reale. Dal punto di vista metodologico, è associata con apertura critica. 22 ADELINO CATTANI Dal punto di vista etico, è associata con prudenza ed antiautoritarismo Dal punto di vista sociale, è nel contempo indice e promotrice di apertura mentale o – se vogliamo dirlo “retoricamente”, nel tradizionale senso del termine – di antidogmatismo, democrazia, tolleranza, 4. Filosofia e retorica nel dibattito Queste quattro dimensioni della retorica e la retorica stessa caratterizzano quella peculiare attività umana che contraddistingue l’uomo, vale a dire il processo del discutere/dibattere. Anche in un dibattito si possono utilmente distinguere una dimensione logico-cognitiva, una metodologica, una etica ed una sociale. Il dibattito è la terza via tra il monologo e il dialogo, la terza opzione tra un duetto e un duello. Un ping-pong di ragioni che rimbalzano da una parte all’altra pare una valida alternativa all’indifferenza e allo scontro. E se lo scopo di una buona discussione è quello di trasformare una contrapposizione di argomenti (un pro e un contro, un “x vale quanto y”) in un modulo selettivo (un pro o un contro, un “x è migliore di y perché”) che consenta una valutazione ponderata e quindi una scelta fra due posizioni, rientra in essa sia una dimensione filosofica sia una dimensione retorica. Nella dimensione filosofica rientrano le regole e i doveri “dialettici” (logici ed etici) del disputante, operanti a livello normativo (ciò che si dovrebbe fare). Nella dimensione retorica rientrano le mosse e i diritti “oratòri”(comportamentali e sociali) del disputante, individuabili sul piano descrittivo (ciò che si fa). Abbiamo regole dell’onesta e leale discussione e mosse dell’abile polemista, e di conseguenza due diversi livelli di analisi, quello normativo e quello descrittivo. Il livello descrittivo ci offre una rappresentazione realistica di una situazione concreta, il livello normativo ci offre un codice di condotta per ottenere il Filosofi e retori 23 massimo e il meglio da un dibattito, al fine di elaborare un insieme di strumenti utilizzabili e non utopici per chi discute. Le regole e i diritti “filosofici” codificati del dibattito sono del tipo: 1. Non ritenerti infallibile. 2. Cerca un punto di partenza comune. 3. Attieniti a ciò che ritieni vero. 4. Porta le prove richieste dall’interlocutore. 5. Non sfuggire alle obiezioni. 6. Non scaricare l’onere della prova. 7. Sii pertinente. 8. Sii chiaro. 9. Non deformare la posizione della controparte. 10. In caso di dubbio, sospendi il giudizio, se possibile. Ma che fare se l’avversario non rispetta queste regole e questi doveri? Le ipotesi di risposta che comporta questo problema non sono state finora adeguatamente considerate nel processo educativo. Un decalogo integrativo – non un controdecalogo – di mosse e diritti “retorici” potrebbe essere il seguente. 1. Abbiamo il diritto di mettere tutto in dubbio. 2. Abbiamo il diritto di non esplicitare i fatti e gli argomenti sfavorevoli. 3. Abbiamo il diritto di sottrarci alla strategia dell’avversario. 4. Abbiamo il diritto di difendere noi stessi e le nostre posizioni. 5. Abbiamo il diritto di concludere il nostro discorso. (Diritto elementare, ma non sempre riconosciuto quando si discute). 6. Abbiamo il diritto di aspirare alla vittoria. 7. Abbiamo il diritto di usare i nostri argomenti. 8. Abbiamo il diritto di rivolgerci ad una terza parte (giudice, pubblico, mediatore). 24 ADELINO CATTANI 9. Abbiamo il diritto di essere giudicati per quel che diciamo e non per quel che abbiamo fatto. 10. Abbiamo il diritto di cambiare d’accordo con la controparte le regole della discussione. Il dibattito è infatti l’unico gioco in cui le regole possono stabilirle e concordarle i giocatori. Sono queste le mosse descrittive di uno scambio fattuale che si aggiungono alle regole normative di una discussione ideale. Abbiamo bisogno diritti e di doveri, di regole e di mosse. Diceva John Stuart Mill nella sua opera dedicata alla libertà di parola e di espressione: sono necessari insieme l’ordine e la rivoluzione, l’uguaglianza e la proprietà, la cooperazione e la competizione perché l’uno limiti reciprocamente gli eccessi dell’altro: ciascuno di questi modi di pensare/agire deriva la sua utilità dalle carenze dell’altro: ma è in larga misura l’opposizione dell’altro a mantenere ciascuno nei limiti del ragionevole buon senso (Mill, 1859, p. 48; 1999, p. 54). Logica e retorica, dimostrazione e argomentazione vanno a braccetto nel dibattito. L’oratore e il disputante devono a essere attrezzati sia di strumenti logici che di strumenti retorici. Non basta pensare bene, occorre parlare bene. Bisogna avere ragione, bisogna saperla esprimere, bisogna riuscire a farsela riconoscere. In un dibattito il problema riguarda non tanto l’uso di mosse retoriche (che sembra inevitabile), ma il fatto che chi vi partecipa non sia capace di individuare e di neutralizzare le fallacie, intenzionali o involontarie, gli errori, i trucchi. Se uno si serve di mosse retoriche, sarà compito della controparte identificarle e rintuzzarle. Certo, spesso chi discute è platealmente parziale, usa argomenti capziosi, espone la questione in modo impreciso, utilizza dati e argomenti unilaterali, travisa l’opinione avversa, magari in buona fede. Nelle discussioni accese il polemista ricorre intenzionalmente ad invettive, al sarcasmo, ad attacchi personali, a mosse sleali. Ma quanto diceva Martin Luther King a proposito dei diritti civili è applicabile anche al dibattito che si vorrebbe civile: «Ciò che deve preoccupare non è l’urlo delle gente brutale, ma il silenzio degli onesti». Filosofi e retori 25 Sicuramente il connubio di comunicazione e conoscenza, la combinazione di arte della parola e scienza è l’ideale auspicabile: sapientia cum eloquentia e eloquentia cum sapienta era il celebre chiasmo ciceroniano (Cicerone, De Inventione, I, 1). Quella prodigiosa alleanza tra pensiero e parola che gli antichi avevano voluto fu rotta dai «discepoli di Socrate che allontanarono da sé gli oratori e li privarono del nome di filosofo che prima era comune agli uni e agli altri» (De oratore, III, 19, 73). Il ristabilimento di quella mirabile alleanza ripristinerebbe anche il significato, la funzione e la forza del logos, concetto cruciale diventato ambiguo. Non ragione o parola, ma ragione e parola, vale a dire quel logos «che ci ha permesso di perfezionare quasi tutto ciò che abbiamo acquisito civilmente. Infatti è il logos che ci ha fornito i criteri di giusto e sbagliato, di onesto e disonesto, principi senza i quali non saremmo in grado di vivere in società… il parlare bene è per noi la prova più sicura del pensare bene… È grazie al logos che discutiamo di ciò che è controverso e che indaghiamo ciò che è oscuro. In una parola, al logos fanno capo tutte le azioni e i pensieri e coloro che se ne servono sono i più saggi di tutti gli uomini» (Isocrate, Antidosis, 254-257). Per questo Isocrate reclamava per l’oratore il titolo di ‘filosofo’, perché a suo giudizio l’altezza filosofica era raggiunta dall’eloquenza oratoria. Se un buon uso della parola è l’indizio più sicuro di un buon ragionamento, come dice in modo interessato ma condivisibile Isocrate, un buon uso del dibattito è il segno più sicuro di una buona società, perché, potremmo dire, con Kimball, «Socrate aveva ragione se parliamo della verità, gli oratori avevano ragione se parliamo della società» (Kimball 1995, p. XIX). Dibattere è un’arte liberale e liberante. La persona «perfettamente educata in tutte quelle arti che sono degne di un libero cittadino» è colui che ha acquisito la libertà di pensare, la libertà di dire e, più importante ancora, la libertà di controargomentare in una comunità in cui si valorizzi al massimo il pensiero indipendente la “comprensione” (nel suo duplice senso di “atto di capire” e di “atto di far proprio”) con il fine di utilizzare il meglio che sia stato pensato e detto nel mondo. 26 ADELINO CATTANI Cicerone si pone all’inizio del suo De inventione (1, 1) questo interrogativo: se sia maggiore il bene o il male che ha arrecato alla società e agli uomini la copia dicendi e l’eloquentiae studium, cioè la retorica. Sulla base delle precedenti considerazioni, la nostra risposta è: la retorica ha arrecato danni, ma può arrecare bene se una sufficiente libertà/abilità di parola (parresia) è distribuita in maniera sufficientemente paritaria ed egalitaria (isegoria). E questa felice combinazione si ha con l’introduzione sulla scena del teatro filosofico, accanto al pensatore-protagonista, di un secondo personaggio che svolga il ruolo di antagonista, di interlocutore o di oppositore, e sulla scena pedagogico-sociale con l’introduzione di una adeguata educazione filosofica abbinata da una formazione al dibattito, come avveniva nella buona tradizione della disputatio scolastica medioevale. Filosofia retorica e retorica filosofica possono sembrare due ossimori. Certo quella retorica è più un’arena passionale, quello filosofico è più un asettico laboratorio. In un’arena sono solleticate le passioni, in un laboratorio contano i dati. Nella prima le conclusioni sono raggiunte per deliberazione, nel secondo sono il risultato di un’inferenza logica. In realtà c’è molta retorica nella filosofia e c’è molta filosofia nella retorica. Anzi, di più: ogni filosofia è retorica. E un filosofo è un oratore-retore quasi sempre a propria insaputa. Come la retorica, la filosofia è un mezzo e non un fine. È uno strumento. Uno strumento per pensare autonomamente (con la propria testa) e creativamente (in modo nuovo e fruttuoso), per produrre argomenti convincenti o almeno persuasivi e per giudicare in modo critico (nel doppio senso che ha il termine “critico”, ossia in modo valutativo e in modo polemico-oppositivo). Come la dialettica, la filosofia è simile alla retorica e da essa diversa, ne è l’analogo e la controparte. La retorica a sua volta è sia subordinata sia coordinata rispetto alla filosofia. Ne è l’antistrophos, per riprendere il discusso termine introdotto da Aristotele per designare rapporto problematico che sussiste tra dialettica e retorica. Rapporto che esprimerei in questo modo: entrambe utilizzano la medesima struttura inferenziale, ma mentre la filosofia dovrebbe partire dalle premesse per ricavarne una conclusione convincente, la retorica Filosofi e retori 27 parte dalla conclusione, che è già certezza del retore, per cercare e esplicitare le premesse che rendano tale conclusione accettabile all’uditorio. In retorica si assumono le conclusioni che si presume siano sostenute e legittimate da certe premesse, mentre in filosofia si assumono le premesse che si presume sostengano e legittimino una certa conclusione. Nell’uno e nell’altro caso si parte da assunzioni che bisogna giustificare, non da dati. E la giustificazione si costruisce nel dibattito o meglio in quella che un tempo si chiamava la disputatio. C’era una volta la disputatio, che combinava insieme dialogo e polemica, ragione e astuzie della ragione, comprensione e persuasione.. Potrà mai la disputa tornare ad essere, come nei tempi passati, la forma del dialogo e il mezzo di formazione al dialogo? Torneranno ad esserci, oltre che retori, anche disputanti felici? Anche se mai tornerà un’epoca storica in cui la retorica sia, con la filosofia, il vertice massimo dell’educazione e del sapere, una buona teoria e una buona pratica dell’argomentazione possono ricostituire l’equilibrio del chiasmo ciceroniano sapientia cum eloquentia, eloquentia cum sapientia. Sempre sia lodato il dialogo: il dialogo è l’atteggiamento giusto per chi vive in comunità. Ma sempre sia lodata anche la polemica: la polemica è l’atteggiamento giusto per chi vuole comprendere. L’atteggiamento dialogico-cooperativo è più conforme ad uno spirito di verificazione: la discussione in ottica cooperativa mira trovare le soluzioni più accettabili o le conclusioni più condivise. L’atteggiamento polemico-competitivo invece è conforme ad uno spirito di falsificazione, per cui la discussione funge da filtro per individuare le carenze e i limiti delle proposte. Concordia o verità? Pax aut veritas? Senza necessariamente dover operare un rovesciamento dei valori alla Nietzsche, una composizione di queste due esigenze sembra possibile ed è necessaria. È possibile se consideriamo gli aspetti dialogici insiti nella controversia e nel dibattito polemico: chi accetta di discutere con qualcuno riconosce valore all’interlocutore, lo ascolta e prende in considerazione il suo punto di vista e, difendendo le proprie idee, insieme cerca di confutare le sue. 28 ADELINO CATTANI È necessaria se puntiamo ad una verità che va ricercata e non ad una verità che va trasmessa e impartita. A render liberi non è solo la verità, secondo il dettato evangelico, ma anche la semplice ricerca della verità. Il modello educativo contemporaneo si ispira naturalmente più agli ideali filosofici che a quelli oratori-retorici. Ma non è stato sempre così. Nel passato la cultura pedagogica è stata debitrice più a pensatori come Isocrate, Cicerone e Quintiliano che a Socrate, Platone e Aristotele. Aristotele aveva anticipato e cercato di risolvere il problema del dire bene da filosofo (dire il vero e il giusto) e dire bene da retore (dire il persuasivo), definendo la retorica “la facoltà di scoprire ciò che c’è di persuasivo in ogni discorso”. Aristotele quindi intendeva la retorica non come l’arte di persuadere, ma la capacità di scoprire tutto ciò che ha una funzione persuasiva. Una distinzione analoga negli anni Sessanta del secolo corso consentiva di mantenere la scienza distinta dagli usi della scienza, per quanto potenzialmente perversi e micidiali fossero questi usi. Ma a molti può sembrare più una soluzionescappatoia che una risposta davvero risolutiva. Possiamo forse fare un passo avanti rispetto alla mera distinzione, in direzione di una fattibile integrazione. Come dicevamo, i filosofi hanno di mira la verità in sè, mentre gli oratori hanno in mente la verità in comunità: la verità è un valore filosofico, mentre la negoziazione e l’educazione discorsiva sono valori sociali; e i due valori vanno contemperati se si aspira ad un’educazione liberale. Si possono, e si devono armonizzare, se si concepisce l’educazione non come un processo mediante il quale si impartisce la verità, ma un processo che favorisca la ricerca della verità. Ricapitolando: in attesa che tutti gli uomini buoni diventino bravi e che tutti i bravi diventino buoni, si può auspicare almeno che i filosofi diventino un po’ più oratori e acquisiscano consapevolezza della loro retoricità e gli oratori diventino un po’ più filosofi e acquisiscano consapevolezza del loro essere qualcosa di più che teorici e praticanti della retorica. Parlare bene è indice e causa del pensare bene. Pensare bene significa anche pesare i pro e i contro, confrontandosi con gli altri dialogicamente o polemica- Filosofi e retori 29 mente. Cioè pensare bene è anche argomentare e controargomentare. E l’argomentazione è lo strumento tipico della retorica e della filosofia. In questa circolarità risiede, ritengo, il rapporto tra filosofia e retorica: argomentare è un’operazione che ha natura prettamente retorica e ha finalità prettamente filosofica. Per questo riteniamo che una “Palestra di botta e risposta” in cui si eserciti la “disputa filosofica” come pratica didattica di formazione al dibattito nella scuola (Nicolli e Cattani 2008) sia utile, preziosa e necessaria. BIBLIOGRAFIA Grassi, E. (1980), Rhetoric as Philosophy. The Humanist Tradition, University Park, Pennsylvania State University. Hawking, St. e Mlodinow, L. (2010), Il grande disegno, Mondadori, Milano.. Kant, I. Critica del giudizio Kant, I, Critica della ragion pura Kimball, B.B. (1995), Orators & Philosophers. A History of the Idea of Liberal Education, The College Entrance Examination Board, New York. Locke, J. (1988), Saggio sull’intelligenza umana, Laterza, Roma-Bari. Mill, J. Stuart (1859). On liberty; trad. it. (1999) Saggio sulla libertà. Il Saggiatore, Milano. Nicolli, S. e Cattani, A. (2008), Palestra di botta e risposta. La disputa filosofica come formazione al dibattito nella scuola, Cleup, Padova. Nietzsche, F. (1912), Rethorik, in Werke, XVIII, Kroener Verlag (Lezioni di Basilea sulla retorica). Ricoeur, P. (1976), La metafora viva, Jaca Book, Milano. MANUELE DE CONTI Gestire i disaccordi Abstract Ripensare l’educazione al dibattito è quanto mai importante per valorizzarne la funzione e l’efficacia non solo tecnica, ma pedagogica. In questo quadro, «disaccordo» e «bias cognitivo» sono due nozioni fondamentali da problematizzare: il disaccordo, inteso come una particolare condizione cognitiva, permette infatti di individuare un momento precedente alla comunicazione a partire dal quale poterla orientare; lo studio dei bias cognitivi, invece, svelandoci nuove prospettive per guardare ai ragionamenti invalidi e fallaci, può offrirci modi nuovi per una più accurata comprensione del mondo e del nostro interlocutore. La necessità di pensare a un’educazione al dibattito deriva dal fatto che la formazione al dibattito, intesa come addestramento principalmente tecnica, esige d’essere integrata con un’educazione civile, ossia un’educazione della persona intesa come cittadino, con particolare riguardo alla convivenza sociale. Già in passato, infatti, le dispute medievali furono tacciate di rendere sfrontata la gioventù e di provocare sommosse (Holberg 1994: pp. 36-7). Nel mio intervento, quindi, per mostrare l’importanza del riferimento a un’educazione civile ai fini della formazione al dibattito, tratteggerò alcuni dei concetti su cui questa formazione potrebbe basarsi, soffermandomi, sui seguenti punti: 1) l’importanza del concetto di «disaccordo» per una formazione al dibattito, che sia anche un’educazione al dibattito; 2) l’importanza della consapevolezza dei bias cognitivi in questa formazione. Come si sa, il modo in cui fatti e situazioni sono descritti struttura il nostro modo di percepirli e di reagirvi (Lakoff 2004, p. XV). Anche gli antichi retori 32 MANUELE DE CONTI ne erano consapevoli; in processo il reo poteva essere considerato ladro oppure sacrilego e un comandante, macchiatosi di aver abbattuto le mura di una città, poteva evitare la condanna dichiarando di averlo fatto per un bene maggiore: la vittoria. E inoltre quanti uomini considerati perseveranti, ossia uomini la cui condotta è al servizio di una causa (reputata) buona, sono giudicati da altri ostinati, ossia al servizio di una causa (ritenuta) sbagliata? Pertanto non sarà lo stesso descrivere uno scambio comunicativo come lite o dialogo. Gli stessi dialoghi socratici, ad esempio, si trasformerebbero nelle socratiche liti perdendo il loro riferimento pedagogico per acquisirne uno marcatamente polemico. Tuttavia ancora più importante di un corretto uso dei termini è l’avere a disposizione i concetti per indicare o strutturare situazioni differenti: essi, infatti, permettono di cambiare il modo in cui si vede il mondo (Lakoff 2004, p. XV). Noi abbiamo due differenti concetti di «disaccordo» e «conflitto», ma esiste una notevole confusione intorno al loro uso. Non sempre, infatti, nella letteratura specialistica questi due termini sono distinti (Mizzau 2002, p. 21). Meno ancora nella letteratura non specialistica, in cui parlare o interpretare le circostanze in termini conflittuali permette addirittura di accattivarsi il pubblico, o alimentare dannose discussioni, come Deborah Tannen lamenta (Tannen 1999). Tuttavia è possibile individuare una differenza tra disaccordo e stadi a esso successivi in cui sarebbero presenti tratti di conflittualità. La conflittualità, considerata come negazione della soddisfazione di un bisogno da parte di un altro agente, nel conflitto si presenta come azioni o comportamenti reciprocamente ostili degli stessi agenti1. Essere in conflitto significa opporsi, significa ostacolarsi, significa lottare. Ciò non vale per il concetto di «disaccordo» secondo il quale è possibile essere in disaccordo con il nostro interlocutore senza esprimere questo dissenso, com’è possibile essere in disaccordo con un interlocutore a prescindere dal fatto che esso lo sia con noi. Parlare di disaccordo non significa perciò riferirsi a una situazione di reciproca ostilità tra agenti 1 Questa definizione si può ritrovare nella concezione di «conflitto in senso stretto» presentata da Emanuele Arielli e Giovanni Scotto (Arielli, Scotto 2003, p. 10). Gestire i disaccordi 33 manifestata attraverso il loro comportamento, ma significa riferirsi a uno stato cognitivo che consiste nel non considerare esistente, vero, certo o corretto quanto detto o fatto dal proprio interlocutore, o terzo. In questo senso, non coincidendo con l’esecuzione di un’azione o l’assunzione di un comportamento, ma essendone precedente, il concetto di «disaccordo» manifesta il suo potenziale educativo per una formazione al dibattito e alla discussione. Infatti, da come si reagisce al disaccordo, la relazione tra gli interlocutori di una discussione potrà essere più o meno conflittuale (Arielli e Scotto 2003, p. 83) e la discussione più o meno fruttuosa (Eemeren, Grootendorst 1988, p. 281). Tuttavia il concetto di «disaccordo» non è importante solamente perché individua un momento precedente all’azione e all’espressione su cui intervenire su di esse per poterle orientare. Il disaccordo acquista la sua importanza all’interno di qualsiasi democrazia perché è la dimensione entro la quale i conflitti dovrebbero essere ricondotti. Condurre e trasformare il conflitto in disaccordo significa passare dal bastone alla parola per poter così accedere alla risorsa della discussione (Arielli, Scotto 2003: pp. 161-74) e del dibattito (Branham 1991, p. 16-9). Da un punto di vista opposto, essere in disaccordo ed evitare che degneri in conflitto significa saper dibattere, saper discutere e al tempo stesso meglio convivere (Cattani, in Cattani et all. 2009, p. 17). È proprio perché il disaccordo individua un momento anteriore all’azione e all’espressione, e perché è strettamente collegato al dibattito come istituto e capacità sociale, che il concetto di «disaccordo» assume un ruolo fondamentale in un’educazione al dibattito e all’argomentazione. A sviluppare la ricerca in questa direzione è stata la scuola pragma-dialettica di Frans van Eemeren. Dal punto di vista di questa scuola centrale è, infatti, il concetto di «disaccordo» e lo stretto rapporto che esso intrattiene con l’argomentazione. Saper esporre le proprie ragioni esternalizzando il disaccordo e saperle discutere argomentando diventano i punti fondamentali di una procedura finalizzata a risolvere o minimizzare i disaccordi stessi (Eemeren, Grootendorst 1988, p. 286). Attraverso le regole stilate dalla scuola pragmadialettica sarebbe infatti possibile impostare un dibattito in modo fruttuoso poiché il rispetto delle regole stesse limita proprio i ragionamenti ingannevoli, 34 MANUELE DE CONTI ossia le fallacie. E una discussione esente da fallacie è una situazione idealutopica, ma auspicabile. Tuttavia se il dibattito deve essere riconosciuto come uno strumento utile per lo sviluppo e l’acquisizione della capacità sociale di gestire il disaccordo, e non solo per lo sviluppo delle capacità critico-argomentative o di orientamento decisionale, classiche funzioni ad esso attribuite, una formazione ispirata a un’educazione civile non può non comprendere il riferimento ai bias cognitivi, ossia agli errori sistematici della nostra capacità cognitiva. E questo per due principali motivi: 1) perché i bias ci impedirebbero di individuare strategie opportune per orientare i dibattiti verso uno sviluppo fruttuoso; 2) perché, se non correttamente compresi e gestiti, i bias condurrebbero dal disaccordo al conflitto. Quando diciamo “tutti i politici sono trasformisti” commettiamo una evidente generalizzazione indebita. Tali generalizzazioni determinano assunzioni o derivano da assunzioni che si configurano come vere e proprie petizioni di principio, in cui cioè le conclusioni coincidono con le premesse. Nel caso in esame: “se un politico non fosse un trasformista, allora non sarebbe un politico”. Tali assunzioni che strutturano la nostra percezione del mondo, e che ci conducono alle fallacie appena menzionate, sono gli stereotipi, ossia le opinioni precostituite, generalizzate e semplicistiche (che non si fondano cioè sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripetono meccanicamente), su persone, avvenimenti o situazioni. La facilità di reperimento degli elementi a proprio favore, o le aspettative, conducono invece a un’altra fallacia, ossia quella che consiste nell’attribuire al proprio interlocutore una tesi più semplice di quella da lui effettivamente sostenuta facendo apparire noi, con la coda di paglia, e lui, come un fantoccio. Infine, non essere in grado di comprendere l’alta probabilità di due eventi tra loro indipendenti ci conduce a considerare questi eventi come sorprendentemente legati da causalità, anziché comprendere le meraviglie della casualità (Motterlini 2008: pp. 62-69). Gestire i disaccordi 35 Come questi esempi ci indicano spesso gli inganni della nostra facoltà cognitiva, ci inducono a commettere quegli errori di ragionamento che, da un punto di vista formale o pragmatico, sono chiamati fallacie. Non sto dicendo che i bias cognitivi siano l’unica causa dei ragionamenti fallaci2. Quello che sto dicendo è che la possibilità di spiegare i ragionamenti fallaci anche in termini di bias cognitivi apre la strada a nuove possibilità di comprensione e nuove strategie di replica. Infatti, se penso che lavare la macchina faccia immancabilmente piovere, forse non ho ancora capito che sto commettendo un ragionamento fallace che va sotto il nome di post hoc ergo propter hoc, ossia che confondo una relazione temporale con una relazione causale, ma anche che, forse, dove lavo la macchina, la probabilità di pioggia è molto alta. Avendo nuove possibilità di neutralizzare i ragionamenti fallaci perseguiremo l’obiettivo di eliminare alcune delle cause che complicano i dibattiti, favorendone uno svolgimento corretto e lineare al fine di minimizzare i disaccordi e garantire più stabili accordi. Tuttavia i bias ci permettono di perseguire questo obiettivo anche in un altro modo. Infatti i bias cognitivi non agiscono solo negli altri. Comprendere che la nostra stessa conoscenza e il nostro stesso giudizio ne sono minacciati può permetterci di individuare strategie critiche di verifica dei nostri stessi processi cognitivi (Vaughn 2008: pp. 4-9). E questo risulta importante poiché che dei vari errori cognitivi a cui si sarebbe soggetti, uno dei più insidiosi è l’autocompiacimento. Esso, infatti, condurrebbe a essere sensibilissimi agli errori cognitivi degli altri ma molto meno ai propri (Pronin 2007, p. 37). In questo modo la propria capacità d’errore ne risulta sottostimata. Nella direzione delle strategie critiche di verifica dei processi cognitivi si muovono le proposte del critical thinking. Caratterizzato dall’attenzione alle modalità di reperimento, valutazione e organizzazione delle conoscenze e credenze, il critical thinking riconosce come spesso l’uomo, assuma le proprie credenze solo perché sono in molti a considerarle vere, o perché queste lo fanno 2 Infatti i ragionamenti vengono considerati fallaci quando presentano vizi formali o violano alcuni impegni pragmatici. 36 MANUELE DE CONTI sentire bene. Inoltre anche le emozioni o l’interesse personale svolgerebbero un ruolo fondamentale nel distorcere i giudizi. Pertanto diventa necessario dotarsi di quei criteri di valutazione delle credenze atti ad evitare di incorrere in questi tranelli. Questo ci condurrà a essere più liberi e a scelte più consapevoli, dato che ciò in cui crediamo influenza le nostre azioni e scelte (Pronin 2007: pp. 4-21). La possibilità di nuove ed efficaci strategie di replica e di verifica è solo il primo beneficio che può derivare dallo studio dei bias cognitivi. Fino al 2006 gli studi di psicologia cognitiva sulle reazioni al disaccordo arrivavano a mettere in evidenza come ci sia una generale inclinazione a considerare l’interlocutore con il quale siamo in disaccordo come influenzato da interessi personali. Pertanto chi ha un punto di vista diverso dal nostro è facilmente accusato di sostenere tale opinione per proprio tornaconto, per simpatia, per adesione politica, per incapacità di vedere le cose correttamente o per granitica adesione ad una ideologia (Kennedy, Pronin 2008, p. 834). La possibilità di riferirsi a queste cause di distorsione come a bias avrebbe invece portato a concentrarsi maggiormente su di un altro aspetto. Come dimostrano Emily Pronin e Kathleen Kennedy, la tendenza a percepire chi è in disaccordo con noi come soggetti a bias cognitivi, ossia errori sistematici della capacità cognitiva, avrebbe conseguenze infelici: infatti, più ci sentiremo in disaccordo con il nostro interlocutore, più avremo la tendenza a percepirlo soggetto a errore e più questa tendenza sarà forte più saremo inclini a reagire nei suoi confronti in modo conflittuale (Kennedy, Pronin 2008, p. 846). Pertanto se vogliamo educare al dibattito, ossia a un dibattito inteso anche come strumento utile per lo sviluppo e per l’acquisizione della capacità sociale di gestire il disaccordo, risulta fondamentale educare a discutere attraverso strategie che possano condurre a: percepire i propri interlocutori come capaci di obiettività; essere motivati a intraprendere ulteriori sforzi per una più accurata comprensione del mondo (Kennedy, Pronin 2008, p. 846); ampliare le proprie modalità comunicative e capacità retoriche per meglio trasmettere i messaggi. Solo in questo modo potremmo evitare che le critiche mosse alle dispute medievali, ossia di essere ars rixosa (Brucker, 1975: pp. 532-912) e puri Gestire i disaccordi 37 combattimenti tra galli (Holberg 1994), siano rivolte anche ai nostri dibattiti scolastici. Le proposte della pragma-dialettica e dell’Informal Logic già tendono a questi fini. Il riferimento, infatti, alle regole che una discussione deve rispettare per raggiungere risultati validi, di per sé ha come obiettivo di evitare, tra gli altri, quegli errori di ragionamento e relazionali che consistono nel combattere l’interlocutore anziché la sua tesi. Anche le regole conversazionali di Paul Grice assumono in questo contesto un nuovo valore pratico, ossia il rispetto della cooperazione che, come ben sappiamo, non ha come suo contrario la competizione, bensì il conflitto. Infine, oltre allo sviluppo delle proposte di Pronin e Kennedy ossia di discutere attraverso strategie che possano motivare ad intraprendere ulteriori sforzi per una più accurata comprensione del mondo e a percepire i propri interlocutori come capaci di obiettività, interessanti sono le proposte di comunicazione nonviolenta elaborate da Arne Naess. Padre dell’ecologia profonda, facendo riferimento al satyagraha, ossia al tipo di lotta nonviolenta principalmente gandhiana, Naess elabora una serie di principi sui quali la comunicazione dovrebbe basarsi affinché sia uno mezzo per risolvere problemi, piuttosto che alimentare confitti (Naess 2006: pp. 100-11). Concludendo, parlare di disaccordo significa continuare a tracciare la strada lungo il solco della nostra tradizione, interessata più al dibattito che alla violenza, più alla libertà di espressione che alla forza della repressione. Questo concetto ci permette infatti di individuare un momento precedente all’espressione e all’azione dal quale poter orientare il proprio comportamento. In particolare la comprensione dei bias cognitivi ci può guidare a individuare nuove strategie per far fronter agli altrui errori e alle proprie sviste, e a elaborare le strategie per evitare che un singolo stato cognitivo si traduca in una situazione reciprocamente conflittuale. Infine una formazione al dibattito che sia imperniata sull’idea di un’educazione civile e centrata sui concetti di «disaccordo» e «bias cognitivo» ci porterà non solo a una teoria del dibattito finalizzata allo sviluppo delle capacità critico-argomentative, ossia focalizzata sulla conoscenza del soggetto che dibatte; non solo a una teoria del dibattito come strumento per orientare le scelte, fo- 38 MANUELE DE CONTI calizzata su una terza parte rispetto alle due coinvolte nel dibattito, l’uditorio; ma soprattutto a una teoria del dibattito che, oltre ad includere le altre teorie, sia centrata sulla capacità di gestire il disaccordo e quindi focalizzata su colui con il quale stiamo dibattendo. BIBLIOGRAFIA Arielli, E. e Scotto, G. (2003), Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori, Milano. Branham, R. J. (1991), Debate and Critical Analysis: the Harmony of Conflict, Lawrence Erlbaum Associates. Brucker, J. J. 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Nella gestione dialettica dello stereotipo che porta ad affermazioni generali che contraddicono la propria esperienza, è efficace evitare l’induzione e poggiare invece sull’esempio. Se la disputa è eristica, le risorse per portare al ridicolo sono spesso a portata di mano. Se però il disputatore tiene al rispetto della persona dell’interlocutore e cerca la condivisione di una verità, sembra più efficace una strategia che porti l’interlocutore a percorrere tutti i passi per raggiungere la conclusione senza dipendere dall’autorità del partner nel dialogo. Se si dovesse presentare questo contributo come studio sul dibattito, sarebbe un testo alquanto anomalo, perché viene a proporre accorgimenti che esulano dai tempi normali di un dibattito. Sono infatti convinto che spesso gli stereotipi richiedano tempi molto lunghi. Inoltre io parlerò qui della rilevanza dell’ethos nella loro gestione, quindi non in primo luogo del logos, che è il mezzo di persuasione che più immediatamente si associa al dibattere. Tempi lunghi vuol dire che spesso c’è poco da fare all’interno di un dibattito, anche se dovesse durare alcune ore. Il superamento di alcuni luoghi comuni può entrare nei parametri temporali dell’educazione, della crescita di una persona, della maturazione di un rapporto. Nel percorso che farò dei diversi tipi di semplificazione cercherò di far notare il loro aspetto positivo, oltre a quello fallace. Questo è uno dei motivi per cui ora ho detto “semplificazione”, che non è di per se una denominazione negativa, come invece lo è “stereotipo”. Ci sono semplificazioni – di pensiero, 40 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO di espressione, di argomentazione – estremamente ordinarie nella nostra vita, che hanno un ruolo positivo nella comprensione della realtà. Esse sono vitali anche per la comunicazione e per l’educazione1. 1. L’argomento ad ignorantiam Come approccio alle semplificazioni e alla prevenzione delle loro versioni difettive, trovo utile ricorrere a quello schema che a partire da Locke è stato chiamato argumentum ad ignorantiam. Esso “consiste – scrive Adelino Cattani – nel considerare vera una tesi perché non è stata dimostrata falsa o, viceversa, falsa perché non ne è stata dimostrata la verità” (Cattani 1995, p. 127). La formulazione della pragma-dialettica di Frans Van Eemeren dice che l’argomento ad ignorantiam “consiste nel concludere che un’asserzione è vera perché la sua contraria non è stata difesa con successo” (Eemeren, Grootendorst 2008, p. 134). Non mi trattengo sull’invalidità di questo schema. Vorrei solo ricordarne l’applicazione giuridica, che di solito aiuta a capirlo: se il legale di un imputato confuta le prove di colpevolezza presentate dal pubblico ministero, non ha ancora provato l’innocenza del suo cliente, ha solo provato che la requisitoria del pubblico ministero non prova niente. Se ci sfugge questo particolare rischiamo di trasformare un non-sapere in sapere (Cfr. Cattani 1995, p. 129), che è appunto l’origine del nome “ad ignorantiam”. Questo schema argomentativo fa vedere con molta chiarezza la relatività della nozione di fallacia, il bisogno di metterla in contesto per giudicarla tale o meno. Anche su questo punto trovo innecessario fermarmi, perché chi è aduso ai dibattiti ha l’esperienza immediatissima della dimensione vitale della maggior parte dei ragionamenti: il loro rapporto con delle persone e con delle risorse cognitive. Dell’argomento ad ignorantiam ci sono difatti usi non fallaci, usi che nessuno obietterebbe (Cfr. D’Agostini 2009, p. 74). C’è per esempio il valore 1 Sul ruolo costruttivo delle semplificazioni si veda il punto di vista psicologico in Arcuri, Cadinu 1998: pp.10, 13, 139. Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 41 della consuetudine o dell’esperienza (“abbiamo sempre fatto così; finché non si trova un modo chiaramente migliore di farlo, continueremo a fare così”), oppure l’assoluzione per mancanza di prove. 2. Logica e retorica Nel caso dell’argomento ad ignorantiam, validità e invalidità si giocano in buona misura nella sua diversa valenza logica e retorica. È un’esperienza vitale dei dibattiti: se uno viene confutato ripetutamente, ciò non significa che la tesi contraria sia stata provata. Questo, da un punto di vista logico. Ma è inevitabile che per coloro che seguono il dibattito si consolidi a poco a poco l’impressione che la tesi contraria sia valida, forse fino alla persuasione. E questo è il punto di vista retorico. C’è un fenomeno ben noto a chi lavora nell’ambito dei mezzi di comunicazione, il cosiddetto stillicidio, che ha un’efficacia strabiliante. È un gocciolio che finisce per formare una vera e propria opinione pubblica spesso senza alcuna vera e propria ragione. Si potrebbe pensare che l’infondatezza ripetuta finisse per persuadere del contrario, ma ciò non succede perché non c’è coscienza dell’infondatezza. Una condizione per l’efficacia dello stillicidio è la superficialità. In questo caso (e, credo, nell’argomento ad ignorantiam in generale) è naturalmente più facile che a trarre la conclusione sbagliata sia l’opinione pubblica che gli esperti della materia. Già Aristotele distingueva fra l’opinione (doxa) e l’opinione degli esperti (endoxon) (Topici, I, 100a-b). 3. Tipi di cliché a. Semplice generalizzazione – Errore tassonomico Un primo tipo di cliché è la semplice generalizzazione: fare d’ogni erba un fascio. L’errore della generalizzazione indebita sta nell’applicare a tutti gli elementi di un 42 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO gruppo una qualità che possiedono solo alcuni: pochi, o anche molti, ma non tutti. Esiste anche il caso in cui nessuno degli individui risponde all’attributo affibbiato, oppure questi sì, ci sono, ma non è stata quella l’origine del cliché. Questo ci porta ad un altro fenomeno, anch’esso diverso dallo stereotipo, che possiamo chiamare errore tassonomico, come pensare che gli iraniani sono arabi, che i rumeni sono slavi, che i messicani sono sudamericani, che gli scozzesi sono inglesi. Qui non ha senso parlare di “eccezione” senza ricorrere a cittadinanze acquisite o alla diversa valenza dell’aggettivo a seconda che significhi una razza, una lingua, una nazionalità. b. Simbolizzazioni Spesso le generalizzazioni hanno un valore metonimico. Sono quindi significative, non un puro errore, ma sbagliate se non si tiene conto della metonimia. Molte denominazioni ufficiali (o almeno storiche) di paesi e di popoli hanno questo carattere. Si pensi al significato di “Asia”, nome del continente più esteso di tutti, che in origine significava una regione ben più ristretta in paragone. “Messico” prende il suo nome dal popolo che dominava la maggior parte del territorio che oggi porta quel nome; molte etnie oggi “messicane” non sono assolutamente messicane nel senso etnologico proprio. “Argentina” è un termine legato al Rio de la Plata, che, per quanto grande ed importante (rappresentato addirittura nella Fontana dei Fiumi a Piazza Navona), non ha una rilevanza geografica per tutto l’immenso territorio di quel paese. Tutto questo è di solito pacifico, finché non si alza un’etnia per dichiararsi stufa di essere chiamata con il nome di suoi antichi dominatori, o una nazione per sottolineare la propria specificità, diversa dallo stato cui appartiene. Si pensi per esempio ad alcune regioni della Spagna. c. Microfondamentalismo Ora vediamo un tipo tutto particolare di semplificazione, che non riguarda solo un rapporto fra generalità più o meno ampie ma fra una realtà e le Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 43 sue versioni. Ci sono infatti realtà talmente ricche che solo una pluralità di versioni può esprimere la loro ricchezza, gli argomenti di cui si occupa la filosofia, per esempio, ed è questo il motivo per cui non esiste una filosofia che possa essere chiamata quella totale, o quella vera. Anche le forme dell’amicizia presentano una profusione simile, e quelle della società, della famiglia, delle religioni, delle diverse arti. Luigi Pareyson fa una distinzione fra la verità e le sue formulazioni, che risponde con precisione a quanto voglio esprimere2. La pluralità di formulazioni della verità può essere assunta come una pluralità di verità. Ci sono molti sensi in cui certamente esiste una pluralità di verità, ma qui sto segnalando un malinteso frequente che è una delle forme del relativismo. L’estremo opposto consiste nel rifiutare quella pluralità prendendo una delle versioni come se fosse la realtà piena. Questo può essere chiamato fondamentalismo. Si pensi a ciò che succede se si prende una filosofia fra le molte esistenti, per esempio il marxismo-leninismo o il tomismo, o la filosofia analitica, e si ritiene “la vera filosofia”, con esclusione di tutte le altre, il che è chiaramente una posizione fondamentalista. L’essenziale non è il riconoscimento di validità di ciò che è stato preso, ma l’esclusione di validità di tutto il resto. Ci sono ambiti dove di solito non ricorriamo al termine “fondamentalismo”, e tuttavia si applica lo stesso schema. Per esempio se uno dice che vera pittura è quella rinascimentale e tutto il resto è tentativo di arrivare o corruzione posteriore; oppure uno che dice che la Sinfonia Incompiuta di Schubert è quella di Giulini e le altre sono soltanto approssimazioni; o dire che pizza è la pizza margherita e tutto il resto sono capricci di turisti. Certo, non stiamo 2 “La parola rivela la verità, ma come inesauribile, e quindi è eloquente non solo per quel ch’essa dice, ma anche per quel ch’essa non dice: l’esplicito è talmente significante che appare come una continua irradiazione di significati, perennemente alimentata dall’infinita ricchezza dell’implicito, sì che comprendere significa approfondire l’esplicito per cogliervi l’inesauribile fecondità dell’implicito, senza mai raggiungere la completa esplicitazione, per la sovrabbondanza della verità, cioè non per inadeguatezza della parola, ma proprio per la sua capacità di possedere un infinito, cioè per una pregnanza di rivelazioni che non per il fatto di aumentare di numero s’avvicinano a una manifestazione totale, di per sé impossibile” (Pareyson 1971, p.115). 44 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO a dare del fondamentalista al poveraccio che non riesce a godersi le molteplici interpretazioni dell’Incompiuta, ma mi sembra chiaro che lo schema di pensiero è lo stesso. Per spiegare questo, Pareyson ricorre al fenomeno dell’interpretazione artistica, ed afferma che l’opera non è “un ‘oggetto’ a cui l’interprete debba adeguare la propria rappresentazione dall’esterno, essendo essa piuttosto caratterizzata da una ‘inoggettivabilità’, che le deriva dall’essere inseparabile dall’esecuzione cha la fa vivere e al tempo stesso irreducibile a ciascuna delle proprie esecuzioni”3. Sono convinto che è molto difficile, se non addirittura impossibile, essere assolutamente liberi da questo tipo di semplificazione. È qualcosa di vitale. Per un principio di economia mentale e linguistica, non sempre prendiamo in considerazione tutte le virtualità di una realtà bensì solo ciò che risulta pertinente in un contesto determinato. Questo ha una spiegazione nella psicologia cognitiva (Cfr. Arcuri, Cadinu 1998: pp. 10, 13, 139), ma da un punto di vista dialettico propongo chiamarlo “microfondamentalismo”. Eliminare ogni microfondamentalismo dalla nostra vita non è solo difficile ma inutile e persino dannoso. Ciò che è importante è esserne consapevoli. d) Eresia Penso che sia molto conveniente mantenere distinto il fondamentalismo (o microfondamentalismo) da un altro tipo di semplificazione che possiamo 3 “È evidente che un rapporto del genere non si può configurare nei termini di soggetto e oggetto: né l’interprete è un ‘soggetto’ che dissolva l’opera nel proprio atto o che debba spersonalizzarsi per rendere fedelmente l’opera in sé stessa, ma è piuttosto una ‘persona’ che sa servirsi della propria sostanza storica e della propria insostituibile attività e iniziativa per penetrare l’opera nella sua realtà e farla vivere della sua vita; né l’opera è un ‘oggetto’ a cui l’interprete debba adeguare la propria rappresentazione dall’esterno, essendo essa piuttosto caratterizzata da una ‘inoggettivabilità’, che le deriva dall’essere inseparabile dall’esecuzione cha la fa vivere e al tempo stesso irreducibile a ciascuna delle proprie esecuzioni” (Pareyson 1971, p.71). Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 45 chiamare “eresia”. Com’è ben saputo, hairesis significa “scelta”, e di solito le eresie (le più conosciute sono quelle del cristianesimo) sono consistite nel prendere qualche verità come quella essenziale, e a partire da lì giudicare le altre o addirittura eliminarle. Fra due testi della Bibbia, per esempio, che appaiono incompatibili, c’è chi cerca di trovarne la sintonia ed è disposto a lasciare il chiarimento alle future generazioni, e c’è chi sceglie uno e dichiara l’altro una corruzione del testo, un’interpolazione, un errore del copista. Non vorrei insistere di più su questa distinzione, perché l’uso sia di “eresia” che di “fondamentalismo” consentono molte sfumature, a seconda delle scelte di classificazione e quindi delle convenzioni lessicali. Ritengo rilevante in ogni modo mantenere distinti due tipi di semplificazione, uno che è la riduzione di una realtà ad una sola delle sue possibili versioni, che è un difetto per mancanza di interpretazione, e questo è un senso classico del termine fondamentalismo; e un altro che è la scelta, non fra versioni ma fra gli elementi di cui una realtà è composta a scapito degli altri, che è ciò che possiamo chiamare eresia. e) Stereotipo E arriviamo ora al tipo di semplificazione che meglio risponde a ciò che chiamiamo stereotipo. È il caso dell’idea generale che contraddice l’esperienza particolare, anche personale. La definizione di stereotipo che riporta il vocabolario di De Mauro dice: “Un’opinione precostituita, non acquisita sulla base di un’esperienza diretta e scarsamente suscettibile di modifica” (De Mauro 1999-2007: Vol. 6, p. 388). Altri vocabolari sono meno precisi. Si badi bene che non è solo una semplificazione. Le semplificazioni, torno ad insistere, possono giocare un imprescindibile ruolo pedagogico, a patto che restino aperte ad integrazioni. Nessuno di noi può godere del massimo livello di profondità in tutte le sue conoscenze. Anche per l’uomo di saggezza “sconfinata” ci saranno sempre campi in cui la sua conoscenza sia piuttosto elementare. Egli si dimostrerà veramente saggio nella consapevolezza di quell’elementarità e nella 46 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO disposizione ad imparare di più. Quelle nozioni semplici non sono quindi uno stereotipo. Qualche anno fa Marcelo Dascal, dell’università di Tel Aviv, esperto in argomentazione, commentava il suo desiderio di analizzare un giorno la logica che sta alla base di espressioni come questa: “Gli ebrei sono dei furfanti, ma devo riconoscere che i miei migliori amici sono ebrei”. L’espressione citata è un caso molto caratteristico, ma non è difficile trovare altre categorie umane dove si verifichi questo modo di ragionare. Dal contrasto fra il cliché e l’esperienza personale non si passa alla correzione di uno degli estremi, vale a dire rivedere il cliché o concludere per deduzione che quei carissimi amici sono pure dei furfanti. Invece no, lo stereotipo si mantiene e l’esperienza personale si assume allora come eccezione. Quando ci si trova ad entrare in una di queste categorie “stereotipate” non è strano che uno si senta dire “Ma tu sei diverso”, o qualche altra formulazione di eccezionalità. Lo stereotipo quindi e l’esperienza si contraddicono, eppure era dall’esperienza che si poteva fare un’induzione. Certo, il cliché non è stato ottenuto per induzione (o si è fatta una generalizzazione indebita). Quando dal cliché si fa deduzione, si ottiene una conclusione che contraddice l’esperienza, la quale viene allora considerata un’eccezione. Sono molte le persone che si portano avanti uno stato irrisolto nella valutazione di una categoria umana. Da una parte convivono serenamente, forse anche proficuamente, persino in un rapporto personale impegnato; e dall’altra, conservano una valutazione negativa per la categoria nel suo insieme. f ) Argomento ad verecundiam Certamente non sono da confondere gli argomenti ad ignorantiam e ad verecundiam. Tuttavia quest’ultimo illumina bene quanto abbiamo visto, perché anche qui l’ignoranza gioca un ruolo decisivo. Esso trae il suo nome dalla vergogna che l’interlocutore potrebbe provare nell’ammettere che non conosce un’autorità che è stata citata, e perciò l’accetta. Chi usa questa mossa come Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 47 strategia prevede quella reazione di fronte al suo sfoggio di scienza e quindi gioca con l’ignoranza altrui (unita all’amor proprio e forse anche alla timidezza). Gli stereotipi sono spesso efficaci perché chi li accetta lo fa per paura di andare contro un’autorità, quella dell’autore di moda o quella dell’“opinione comune”. Spesso è solo una vaghissima impressione che quello sia il pensiero imperante, o l’opinione degli anticonformisti (se il luogo comune è quello), o quello dei progressisti o quello dei conservatori, ecc. Un personaggio de Il ritratto di Dorian Gray molto celebre, forse più ancora del protagonista, è Lord Henry Wotton. Egli ha una rara abilità per asserire con efficacia il contrario di ciò che tutti sostengono o il contrario del buon senso. Durante un ricevimento, dopo che qualcuno ha augurato a uno dei presenti un matrimonio felice, Lord Henry esclama: “Quante sciocchezze dice la gente riguardo ai matrimoni felici! Un uomo può essere felice con qualunque donna, a patto di non amarla” (Wilde 2003, p. 184). Questo espediente gli procura un invito a pranzo da parte di una vecchia dama, che considera Lord Henry “un tonico veramente ammirevole, molto migliore di quelli che mi prescrive Sir Andrew”. Poco dopo, una nobildonna dichiara: — Io fumo davvero troppo. D’ora in poi voglio moderarmi. — Non lo fate, Lady Ruxton, per favore — disse Lord Henry. — La moderazione è una cosa fatale. (…) Lady Ruxton lo guardò incuriosita. — Venite da me un pomeriggio a spiegarmi questo. Mi sembra una teoria affascinante. Possiamo così immaginare che si siano incontrati in casa della nobildonna e, abbandonata ogni moderazione, abbiano bevuto cinque litri di the a testa. In ogni modo, è ammirevole e affascinante quanto dice Lord Henry forse perché fa intravedere una giustificazione per le proprie debolezze, ma dal punto di vista dei motivi per accettarlo il punto di forza sta nel timore di opporsi a qualcosa che a quanto pare tutti sanno, almeno tutti quelli in cui uno si riconosce. Ecco perché è un argomento ad verecundiam e porta con sé un elemen- 48 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO to di ignoranza. Così pure, l’accettazione dello stereotipo è spesso mossa dalla vergogna di non sapere ciò che “tutti sanno”. E poi, certo, dalla comodità di accontentarsi di quell’informazione. 4. Risorse disponibili E così possiamo ora pensare alle possibili risorse per la gestione dello stereotipo. È evidente che contro l’ignoranza c’è la conoscenza, l’informazione. Questo però si può rivelare una trappola. Bisogna offrire informazione, su questo non c’è dubbio, ma più rilevante ancora è il modo di farlo. È chiaro che spesso la disinformazione contiene informazione corretta. È anche assodato che l’esperienza concreta spesso non riesce a cancellare il cliché che contraddice. Nei primi messi del 2010 si parlò molto di uno studio che aveva già una lunga storia e poi pubblicato sulla rivista Political Behavior (Nyhan, Reifler 2010), dove si sostiene che le false informazioni non si superano con le rettifiche, anzi spesso le rettifiche le rafforzano. Ciò è dovuto in buona misura al fatto che l’effetto del chiarimento è governato da posizioni ideologicamente prese4. Sebbene la ricerca si incentri sul campo politico, le conclusioni riflettono una realtà più ampia, e certamente illuminano la natura degli stereotipi in generale5. Come si combatte allora l’ignoranza? In casi particolari, poco numerosi, di persone veramente serie, in grado di affrontare un’analisi imparziale al modo d’uno studio sociologico, è proponibile una disamina dei dati per chiarire il malinteso. Di solito però l’attenzio4 È illustrativa la serie di ipotesi presentate per l’analisi: “Hypothesis 1 (Ideological Interaction): The effect of corrections on misperceptions will be moderated by ideology. Hypothesis 2a (Resistance to Corrections): Corrections will fail to reduce misperceptions among the ideological subgroup that is likely to hold the misperception. Hypothesis 2b (Correction Backfire): In some cases, the interaction between corrections and ideology will be so strong that misperceptions will increase for the ideological subgroup in question” (Cfr. Nyhan, Reifler 2010, p. 309). 5 Anche Arcuri e Cadinu dedicano spazio a “gli effetti ironici dei tentativi di soppressione degli stereotipi” (Arcuri, Cadinu 1998, p.159). Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 49 ne si dovrà rivolgere ad altre qualità della comunicazione, ad altri mezzi di persuasione. Nella maggior parte dei casi è controproducente conferire all’informazione una forma espositiva sistematica, come di chi vuole dimostrare, confutare. È più efficace il ricorso al caso concreto non come parte di un processo induttivo, ma come esempio (paradeigma), soprattutto se sono storie umane, con anima, perché esse hanno una vita propria. Octavio Paz fece nel 1937 un viaggio in Spagna assieme a molti intellettuali messicani che volevano far sentire una voce “antifascista” durante la Guerra Civile degli anni 1936-19396. Durante il soggiorno, Paz ebbe occasione di arrivare fino al fronte, quasi a contatto con il nemico, in un fabbricato dove lo poteva persino sentire, e riferisce che fu per lui una scossa avvertire in loro una normalità che non si aspettava: quei nemici erano uomini! (Cfr. Paz 1990, p. 106). Non erano dei mostri, si raccontavano barzellette e dicevano cose come “passami una sigaretta”. Conviene quindi evitare l’induzione. È conveniente evitare persino l’apparenza di induzione. Di fronte allo stereotipo non è la ragione la prima facoltà chiamata in causa ma un insieme di risorse che Aristotele chiama buona volontà (eunoia7), che possiamo definire come volontà di capire8. Quando uno non vuole capire, ogni informazione, per quanto opportuna e perspicua, rimane insufficiente. È evidente però che la volontà dell’interlocutore non è la nostra, non è nelle nostre mani la facoltà di farla agire. Possiamo solo provare a suscitarla, e a questo scopo il modo migliore è mostrare quella propria9 (Cfr. Jiménez Cataño 2006: pp. 97-104), perciò non è di solito indicato il tono di sfida ma, tutt’al contrario, la mitezza nel chiarimento. Come si può vedere, questo esula dai tempi ragionevoli di un dibattito. Sono i tempi dell’educazione, della maturazione. Taluni argomenti possono 6 Di questo viaggio egli si rammaricò più tardi perché diventò una specie di baccanale che nulla aveva a che fare con le convinzioni politiche. 7 Aristotele, Retorica, II, 1378a. 8 Benedetto XVI la formula in una maniera molto indovinata: “quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione” (Benedetto XVI 2007, p. 20). 9 Cfr. anche Aristotele, Retorica, II, 4. 50 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO richiedere anni. I già citati Arcuri e Cadinu spiegano che “un eventuale cambiamento degli stereotipi si può realizzare solo con lentissime progressioni e solo nella misura in cui gli attributi che ne segnano la modificazione si interconnettono in maniera estensiva e duratura con il nodo concettuale” (Arcuri, Cadinu 1998, p. 70). Ho presentato parte di quanto sto proponendo qui come lectio magistralis all’inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011, nella mia università, che è la realizzazione postuma di un desiderio di san Josemaría Escrivá (19021975). Proprio in alcune sue lettere avevo avvertito suggerimenti dialettici quanto mai azzeccati e un evento così istituzionale era l’occasione ideale per andarli a ritrovare. Egli scriveva: “Conversare richiede agire con cortesia, saper ascoltare, avere fiducia nell’intelligenza, ripudiare la violenza come metodo per convincere. La violenza non è mai una soluzione, la violenza di per sé è stupida. Quando una macchina non funziona, la soluzione non è mai darle botte, ma lubrificarla, oliarla. Nei rapporti umani l’olio è il dialogo amabile, la giustizia intrisa di carità”10. Penso che per violenza – respinte senz’altro quella fisica e anche quella verbale che si traduce in insulti, minacce, ecc. – qui si intenda più verosimilmente il discorso che si impone con l’autorità o con la forza di argomenti forse anche validi ma più ingiunti che proposti alla comprensione dell’interlocutore. In ogni caso è probabile che, sebbene non sarà difficile alla maggior parte dei lettori trovare condivisibile la messa al bando della violenza, tuttavia rimanga l’impressione che in questa descrizione delle esigenze di una conversazione le risorse dialettiche si riducano. È legittimo domandarsi perché mai si dovrebbe essere cortesi, o su quale base potremmo fidarci dell’intelligenza altrui. Dovremmo appellarci ad un’antropologia cognitiva e ad una teoria del dialogo, ma per il momento basti segnalare che è una questione di fini. Nel suo celebre manualetto di disputa eristica, Schopenhauer propone stratagemmi ben lontani da questa considerazione per la persona dell’interlocutore, ma 10 Escrivá 1965: n.33. La traduzione è mia. Sulla natura di queste lettere, cfr. Illanes 2009: pp. 246-257. Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 51 il suo gioco è chiaro: lo scopo è quello di vincere in una discussione, non quello di raggiungere o condividere una verità né tanto meno quello di educare nessuno. Egli spiega che ci sono dialoghi in cui si cerca la verità e dialoghi in cui lo scopo è “ottenere ragione, dunque per fas et nefas [con mezzi leciti e illeciti]” (Cfr. Schopenhauer 2004, p. 903), perché, “di regola, chi disputa non lotta per la verità, ma per imporre la propria tesi”11. Siccome lo scopo del dialogo di cui parla san Josemaría è la condivisione della verità, e visto che l’interlocutore viene preso nella sua integrità di persona, egli invitava ad esporre “la verità serenamente, in maniera positiva, senza polemica, senza umiliare, lasciando sempre all’altro un’uscita dignitosa” (Escrivá 1932: n.70). Questo mi sembra un modo chiaro di mostrare la propria buona volontà. Ed è anche una rinuncia a far leva sulla vergogna altrui. Così, quando poi capiterà a me di avere torto, questo stesso atteggiamento mi aiuterà a scoprirlo e ad accettarlo. La proposta di applicare questi suggerimenti nella gestione degli stereotipi risponde al forte radicamento che essi hanno nella nostra mente, il che costituisce anche un problema di visione: finché un nostro concetto avrà le caratteristiche dello stereotipo, non ci consentirà di vedere altro, donde l’esigenza di ricorrere alla buona volontà, che sposta il peso dell’attenzione fuori dall’ambito concettuale. Si potrebbe dire che chi ha come scopo vincere in una disputa può fare uso di risorse più “forti” – la sfida, il sarcasmo, la polemica – di chi invece vuole condividere una verità e trattare l’interlocutore come un “altro io” (Etica Nicomachea, IX, 4, 1166a 32). Se però ha l’intenzione di debellare qualche stereotipo, è probabile che riesca solo ad indurirli ulteriormente. Perciò san Josemaría scendeva persino allo specifico suggerimento di “non stravincere” (qui usava il verbo italiano12) come una dimostrazione di delicatezza. Schopenhauer – il contrasto è drastico, ma illuminante – proponeva l’argumentum ad verecundiam proprio come uno stratagemma, con l’esplicito 11 Si spiega pure che in quelle dispute bisogna presupporre slealtà e vanità nei partecipanti (Cfr. Schopenhauer 2004: pp. 904-5). 12 Escrivá 1965: n.33: “Es necesario tener la delicadeza de no apabullar, de no stravincere, como dicen en italiano, de no llevar las cosas más allá de lo necesario”. 52 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO invito a servirsi dei pregiudizi esistenti e con la consapevolezza che “le autorità che l’avversario non capisce affatto per lo più producono l’effetto migliore” (Schopenhauer 2004, p. 932); e con la stessa pragmaticità egli garantisce il successo in un altro stratagemma – quello di cantare vittoria senza fondamento – “se l’avversario è timido o sciocco”13. “Lasciare all’altro un’uscita dignitosa”, “non stravincere”, sono strategie tutt’altro che vincenti nel senso dell’opuscolo di Schopenhauer. Se però si tiene ben presente la distinzione dei fini, sarà possibile apprezzare un nuovo giro di vite “perdente” in cui io trovo una risorsa paradossalmente efficace se lo scopo del dialogo è condividere la verità nel rispetto dell’altro: “A volte la carità più fine sarà far sì che l’altro rimanga nella convinzione di essere arrivato per conto suo a scoprire qualche nuova verità” (Escrivá 1932: n. 70). L’accurata attenzione alla buona volontà nella gestione di concettualizzazioni difettive è anche pertinente in funzione preventiva, per evitare il difetto in contesti che presentano quel rischio, come succede in ogni uso di analogie, metafore, metonimie14. La distanza fra il senso letterale e ciò che si vuole comunicare è sempre una non identità e racchiude quindi una certa ignoranza che deve essere superata, il che richiede altrettanta volontà di vedere e di capire. BIBLIOGRAFIA Arcuri, L. Cadinu M. R. (1998), Gli stereotipi. Dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali, Il Mulino, Bologna. Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Laterza, Bari 1999. Aristotele, Retorica, trad. di M. Dorati, Arnoldo Mondadori, Milano 1996. Aristotele, Topici, a cura di M. Zanetta, UTET, Torino 1996. 13 “Schüchtern oder dumm” dice l’originale, ingentilito nella traduzione (Schopenhauer 2004, p.926). 14 Dove le fallacie in agguato sono generalizzazione indebita, falsa analogia, caricatura, antagonista di comodo (straw man), pio desiderio (wishful thinking), e inoltre i cliché che abbiamo or ora analizzato. Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 53 Benedetto XVI, (2007), Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano. Cattani, A. (1995), Discorsi ingannevoli. Argomenti per difendersi, attaccare, divertirsi, Edizioni GB, Padova. D’Agostini, F. (2009), Fallacia ad ignorantiam, realismo ed epistemicismo. Contributo allo studio filosofico delle fallacie, in: Cattani, A. et al. 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Al fine di contenere questo rischio l'articolo indaga le difficoltà ricorrenti della percezione, intesa come sintesi dei dati sensoriali alla ricerca di forme dotate di significato. Poiché la percezione della realtà cambia da un soggetto all'altro, viene poi rilevato come la definizione di fatto, i valori, il metodo stesso dell'argomentazione siano funzioni della visione del mondo che caratterizza ciascun attore del dibattito. Vengono quindi percorsi i legami fra chi dibatte e gli astanti. Una proposta finale motiva e sostiene lo scambio fra cognitivisti, filosofi e retori. 1. La situazione Il tema prende le mosse da alcune fra le riflessioni di Adelino Cattani, per le quali l’argomentare è un atto inferenziale comunque diverso dal dimostrare, dove le ragioni rilevano sia per quantità e modo che per qualità e pertinenza. Tutto ciò conduce a rilevare come un’argomentazione logica e sequenziale possa, talora, fondarsi su dati di partenza erronei o decodificati in modo improprio. In questi casi il costrutto sarà sì corretto in quanto tale, ma viziato dalla mancanza di un presupposto fondante riconoscibile come valido. Il confronto sulle ragioni sarebbe allora inutile o fuorviante. Tale situazione è rappresentata allegoricamente da chi, allacciando l’ultimo bottone di una camicia, si accorgesse di aver sbagliato tutte le asole. A ben guardare solo l’errore compiuto con il primo bottone è da considerare veramente tale, mentre i disallineamenti successivi sono solo le sue conseguenze logiche. 56 PAOLO BOSCHI Il mondo attuale, mutevole e intercorrelato, rende ancora più complessa la questione, che impone un’attenzione elevata a questa possibile criticità. Diviene pertanto naturale e ineludibile uno sviluppo significativo della capacità di leggere i contesti e le costruzioni verbali, al fine di accrescere una sensibilità e una tecnica utili per vedere quello che va effettivamente visto, in modo da non ingannarsi o lasciarsi ingannare alle pendici di un dibattito. La questione è tanto più importante poiché l’aggiornamento e lo sviluppo continuo delle capacità di comunicazione risulta uno degli elementi fondamentali per interagire in maniera consapevole nella società contemporanea, non per “diventare bravi” o “più bravi”, ma per sviluppare i propri modelli comportamentali, adeguandoli alla situazione attuale e alle sue previsioni di sviluppo. Alla base di tutto ciò sta, in modo naturale e forse ineludibile, lo sviluppo significativo della capacità di leggere i contesti e di comunicare. Una delle prime difficoltà da affrontare si rintraccia nel fatto che ogni dato, che ci ostiniamo a definire come “imparziale”, “spassionato, “realistico” oppure “obiettivo”, possa invece: presentarsi in modo parziale; risultare diverso a seconda del contesto e dell’angolo di visuale; cambiare aspetto a seconda della distanza da cui viene osservato; essere variamente interpretato dall’osservatore, causando incidenti percettivi anche rilevanti. Parafrasando un antico adagio della tradizione toscana, talvolta “fra il dire e il vero c’è di mezzo il mare”. 2. Casi ricorrenti Se la situazione descritta sin qui può essere fonte di normale difficoltà in casi usuali, il problema si complica enormemente in un mondo professionale complesso come quello di oggi, mutevole e sempre più intercorrelato. Il tema Fatti, valori e dibattito 57 merita quindi elevata attenzione, prendendo in considerazione le principali criticità che possono sovente caratterizzarlo. Primo aspetto: “dato parziale”. Consideriamo ad esempio un dato per cui nel secondo semestre 2010 gli infortuni mortali sul lavoro sarebbero “diminuiti del 7,2%”. Questo dato “obiettivo” – e chi osa mettere in dubbio le statistiche dell’Inail? – sembrerebbe estremamente rassicurante, tale da coonestare il lavoro del legislatore sui testi unici per la sicurezza e quello degli spot pubblicitari nel merito. Occorre però considerare che questa consolante informazione potrebbe essere integrata da un’altra, per la quale nello stesso periodo le ore lavorate sarebbero diminuite di una percentuale significativamente maggiore. Comparando le due informazioni, verrebbe da considerare che forse gli incidenti sul lavoro non siano affatto diminuiti, quanto piuttosto aumentati. Ciò illustra con chiarezza la questione percettiva: se il primo dato - assolutamente vero - viene considerato da solo permette una serie di elogi a tutto ciò che gravita intorno alla sicurezza, dallo sviluppo della normativa alla diffusione dell’uso dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.). Quando trova collocazione in un contesto più ampio e cessa di costituire una visione parziale della realtà contrabbandata per l’intero, narra tutt’altra situazione e suggerisce l’opportunità di ulteriori interventi. Sarà allora nostra cura rifuggire da facili entusiasmi e indagare, contestualizzando l’informazione nel suo più ampio quadro di riferimento. Quanto più l’interlocutore farà esistenza, evitando di rispondere o assumendo toni definitivi, tanto più sapremo di essere sulla buona strada. 58 PAOLO BOSCHI Secondo aspetto: “dato che risulta diverso a seconda del punto di osservazione”. Consideriamo questa immagine, dalla quale si ricava l’impressione che sia una statua a “fare canestro”. Certo, tutta la nostra esperienza ci dice che i monumenti sono affetti da una certa qual rigidità, che impedisce di credere fino in fondo a quello che propone il colpo d’occhio. Proviamo a immaginare una situazione del genere in altri contesti e la difficoltà diventa subito chiara, con tutti i pericoli che vi possono essere connessi. Al riguardo, i formatori tradizionali sono soliti esemplificare questo concetto citando una novella zen, il cui succo è all’incirca: “Un monaco attraversa una regione agricola. Dietro una stecconata, vede un uomo che zappa stando seduto. Scandalizzato da tanta pigrizia, gira intorno al recinto per trovare l’accesso e rimproverare l’uomo. Giunto dall’altro lato, si accorge però che l’uomo è mutilato di una gamba e che, quindi, quello è forse l’unico modo che ha per compiere il suo lavoro. Avendo visto la situazione da ambo i lati, lo loda” (se qualcuno ha la versione integrale e vuole segnalarmela, il mio indirizzo email è [email protected]). La novella chiarisce il concetto, anche se il monaco lascia perplessi per il modo in cui si forma un giudizio senza aver prima indagato. Cerchiamo quindi di comportarci in maniera più riflessiva. Più in generale, ecco un monito dell’umorista statunitense Josh Billings: “Se vuoi giungere alla verità, di regola, ascolta le due campane e non credere a nessuna delle due”. Terzo aspetto : “dato che muta aspetto per la distanza da cui viene osservato”. L’osservazione di questa immagine da distanze diverse (provate!) esemplifica il rapporto fra visione strategica e visione operativa, laddove la strategia Fatti, valori e dibattito 59 può essere definita come “scienza/arte dei piani d’azione a medio/lungo termine, per impostare e coordinare le azioni verso l’obiettivo” (dal greco στρατηγός, ossia “generale”), mentre la tattica è data da “un insieme di accorgimenti tecnici per utilizzare al meglio le risorse in ogni azione, tenendo conto del regime di vincoli, in vista dell’obiettivo finale”. Pertanto la strategia porta l’attenzione sugli insiemi, dovendo quindi e per forza di cose prescindere dai dettagli per considerare scenari e operazioni complesse. La tattica, invece, richiedere concentrazione sui particolari. Questo fenomeno, del tutto necessario se non addirittura naturale e opportuno, può condurre a difficoltà di comprensione quando i diversi piani vengano mischiati senza controllo o interlocutori attestati – o arroccati – sulle rispettive pozioni non intendano considerare l’uno quella dell’altro. In termini metaforici, lo stratega non vede la farfalla per effetto del volto di donna, mentre il tattico non scorge il volto per effetto dei fiori. Per contribuire al dialogo e generare interessanti e proficue sinergie, occorre portare l’attenzione sui ruoli dei diversi attori del processo e modulare di conseguenza la comunicazione. In tal modo ciascuno dovrebbe poter sviluppare la propria attività in maniera sempre più consapevole e produttivo, in un orientamento sistemico ai risultati. Quarto aspetto: “dato variamente interpretato dall’osservatore”. È noto come una stessa immagine possa dare luogo a interpretazioni anche molto distanti in persone diverse, o come un medesimo concetto possa concretizzarsi in immagini di significati simbolici fra loro assai lontani. Probabilmente questa problematica è nell’esperienza della maggior parte delle persone. Per averne un ulteriore esempio può essere significativo osservare il quadro di 60 PAOLO BOSCHI Dalì che raffigura il mercato degli schiavi, dove però qualcuno vede il ritratto di Voltaire. Diventare consapevoli del fenomeno permette di contenere malintesi, perdite di tempo e altri inconvenienti comici, irritanti o pericolosi. Fra i principali motivi che portano gli esseri umani a percezioni diverse di uno stesso fenomeno si individuano il contesto, le esperienze del passato, i bisogni e le aspettative. Studi specifici hanno dimostrato che anche le convinzioni individuali possono concorrere a deformare il dato di realtà. Ad esempio, persone alle quali sono state mostrate immagini contrarie alla propria visione del mondo hanno riposto alla richiesta di riferire quello che avevano visto travisando o addirittura ribaltando i termini proposti dall’immagine, per ricondurli nell’alveo delle propria visione del mondo, pur nella sicurezza fortemente difesa – per quanto arbitraria - di dare un resoconto corretto. Gli aspetti più cupi di questo fenomeno sembrano spiegabili attraverso il concetto di “ideologia” per come viene modernamente inteso. Per maggiore chiarezza, occorre dedicare una breve nota all’evoluzione del termine. Come origine, appare per la prima volta nell'opera Mémoire sur la faculté de penser del 1796 di Antoine-Louis-Calude Destutt de Tracy (1754-1836) con il significato di “scienza delle idee e delle sensazioni”. Risulta che a quel tempo l'ideologia si riferisse principalmente al pensiero di John Loke e Condillac, ricorrendo anche ad una base fortemente materialistica e utilizzando gli studi sulla fisiologia del sistema nervoso di Pierre Jean Georges Cabanis. Per l’opposizione espressa dagli ideologi al suo sistema di governo, Napoleone utilizzò Fatti, valori e dibattito 61 il termine in senso dispregiativo, indicando negli ideologi i “dottrinari”, coloro che avevano poco contatto con la realtà e scarso senso politico. Fu a partire da qui che il termine perse la sua connotazione esclusivamente filosofica, acquisendo connotati sempre più vicini alla nozione moderna, vicina a quella di dogmatismo. Si arriva così alla definizione attuale del dizionario di italiano Sabatini Colletti, per il quale “ideologico” è, per estensione, ciò che risulta “condizionato da idee preconcette, da pregiudizi” , tanto da portare a costruzioni di frasi come: “il suo modo di vedere le cose è ideologico”. Esemplifica il tutto un caso enucleato dalla psicologia della testimonianza, per il quale quando più persone che affermino di aver assistito allo stesso evento criminoso ne danno un’identica versione, l’una in modo indipendente dalle altre, c’è ragionevole certezza che stiano mentendo di concerto. Infatti, già il solo angolo visuale di ciascun astante può diversificare le rispettive percezioni. Se a ciò si aggiungono i diversi livelli di attenzione ai dettagli, il grado di memoria, gli effetti di distorsione causati dall’impressione più o meno forte che l’evento abbia causato in ciascun astante e i risultati del pregiudizio su alcuni sospetti, ad esempio a causa della loro etnia, diviene lampante come le narrazioni dovrebbero divergere, almeno su alcuni elementi. Una particolare attenzione, che tenga conto degli effetti perversi della percezione indagati sin qui, integrati con tutti gli altri elementi maturati nel tempo e con l’esperienza, può consentire di procedere prevenendo sorprese sgradevoli. 3. Altri casi Talvolta si cerca di ovviare ai problemi di percezione compiendo un’operazione definita “basarsi sui dati”. Questo accorgimento può invece complicare 62 PAOLO BOSCHI ulteriormente i rapporti, quando talune distorsioni della cultura contemporanea inducano operazioni improprie. Se da un lato sono poche le occasioni per esibirsi in lezioni di analisi e statistica, dall’altro occorre comunque riconoscere gli errori e porvi rimedio. Due casi ricorrenti di interpretazione erronea dei dati riguardano: l’aspetto quantitativo; l’aspetto probabilistico. Nel primo caso, aspetto quantitativo, non viene definita numericamente l’importanza di un dato. Si consideri ad esempio il consiglio da farmacopea pubblicitaria: “La vitamina C combatte i radicali liberi: mangia un’arancia!”. Ammesso che i radicali liberi siano da combattere a priori, la dose proposta è sufficiente o no? Difficile instaurare un dibattito nel merito se prima non vengono prese in considerazione e risolte queste due questioni pregiudiziali. Lo stesso inconveniente si verifica con qualsiasi altro dato quantitativo trattato in maniera generica. L’aspetto probabilistico rileva almeno in due fattispecie. La prima riguarda l’errore di aprobabilità, come nel caso dell’avvinazzato cronico che ben potrà citare a difesa delle proprie abitudini un alpino ottuagenario che beve due fiasche di brandy al giorno da quando aveva sei anni e ancora si reca a piedi in cima al Monte Cauriol tutte le volte che gliene prende lo sghiribizzo. Ora, ammesso anche che un cotanto fenomeno umano esista, è l’unico noto e di certo statisticamente non rilevante. Ma vaglielo a spiegare. La seconda fattispecie è definibile come “errore di fuga”. Si sostanzia quando taluno rifugge in toto da una situazione, con ripiegamento talora disordinato o evitamento assoluto, senza calcolare le possibilità che un evento nega- Fatti, valori e dibattito 63 tivo temuto e non voluto possa effettivamente accadere, né verificare quanto sia contenibile con adeguate precauzioni. Ben lo sanno gli assicuratori, quando incontrano un cliente che risulta indisponibile a riconoscere il grado di probabilità del verificarsi di taluni eventi infausti, per una sorta di fede magica in una particolare configurazione del mondo per la quale “a lui certe cose non accadono”. In questi casi, come in molti altri simili, portare statistiche e articoli di giornale a sostegno delle proprie tesi può essere d’aiuto, anche se parziale. Talvolta può valere la pena di sensibilizzare familiari e altri interlocutori che possano contribuire a determinare le scelte di chi non accetta altrimenti il mondo per come in effetti è. Come caso estremo di errore di interpretazione, talora i dati sono disponibili tuttavia non vengono considerati. Si possono generare allora errori di: irrazionalità; emozione; semplificazione. Nel primo caso, irrazionalità, il soggetto può arrivare ad assumere posizioni e/o prendere decisioni in base a elementi non collegati al contesto. I casi più ricorrenti sono quelli della superstizione e dell’astrologia da rotocalco. Nel secondo caso, emozione, i costrutti vengono elaborati sull’unica base dei sentimenti. EW’ da ritenere che tale modalità possa presentare limiti pericolosi. Già in termini cartesiani il sentimento non ha a che fare con la materialità del corpo, bensì con “un moto dell'anima che diviene oggetto passivo di una forza che la sovrasta”. Anche il 64 PAOLO BOSCHI “sentire del cuore” di Pascal sembra poco razionalizzabile, organizzabile e trasmissibile in maniera strutturata. Più funzionale risulta la visione di Leibniz, che reputa difficile considerare il sentimento come un atteggiamento conoscitivo poiché produce un sapere confuso, incerto e ambiguo rispetto a quello che deriva dalla razionalità. Diverso è l’intuito, inteso come quel tipo di conoscenza immediata che secondo alcuni non si avvarrebbe del ragionamento o della conoscenza sensibile. In quest’ottica, da Platone a Kant e da Schelling a Cusano si arriva a Bergson, che attribuisce all’intuito la possibilità più istintiva e genuina di portare a soluzione ogni problema per la sua capacità di andare oltre la rigidità materiale del pensiero razionale. Rileva qui anche il concetto di “intuizione”, che secondo Jung è un processo di intervento dell'inconscio con cui la mente riesce a percepire i modelli della realtà nascosti dietro i fatti. In un certo senso, potrebbe quindi trattarsi di un raptus cognitivo talmente rapido da sfuggire alla percezione, pur rimanendo tale. Importante sarebbe, ai fini dell’analisi del dato e della successiva costruzione di argomentazioni, che ogni soggetto cercasse di maturare una qualche forma di consapevolezza del processo che pone in essere. Modernamente ricorre invece un modo di procedere basato sui meri sentimenti, chiamati proditoriamente “intuito” e difesi in modo aggressivo con logorroiche pretese di razionalità. Il fenomeno si evidenzia in talune trasmissioni televisive criminogene, che arrivano a proporre scelte basate su pastiche pseudo-istintivi, in realtà meramente egocentrici. L’approccio standard è riassumibile in affermazioni del tipo: “Io sono così e mi comporto di conseguenza, tu devi tenerne conto e non venirmi a fare la morale perché non mi conosci e comunque quando ho una sensazione so che è vera e tu non cercare di sviarmi con i fatti, tanto lo so io che cosa va bene per me”. Fatti, valori e dibattito 65 Nel terzo caso, semplificazione, si cerca un modello facile, ad es. una monocausa o un rinforzo di quanto sia già esistente (ipersoluzione), quando la situazione in esame si presenta ben più variegata. Vale qui la pena di richiamare l’indicazione di Leon Woods, secondo cui “il complicato va semplificato, ma il complesso può essere solo capito e gestito”. In tutti questi casi le obiezioni dell’interlocutore non possono essere né “aggredite” né tanto meno “demolite”, poiché ogni attacco diretto ottiene in genere il solo effetto di rinforzarne le posizioni. Meglio sarà un’opera di gestione, tenendo distinte le conclusioni raggiunte per intuito, che possono avere una loro validità, da quelle irrazionali o emotive, che spesso risultano pericolose e fuorvianti. 4. Parole valigia Un’attenzione particolare merita uno strumento concreto per sostenere il governo della comunicazione in tempi turbolenti: l’attenzione ai concetti e alle parole cosiddette “valigia”. Si tratta di espressioni, o anche di singoli vocaboli che sembrano mettere tutti d’accordo solo perché permettono a ciascuno di attribuire loro il significato che più gli è congeniale, anche se diverso da quello degli altri. Alcuni esempi tratti dal dibattito politico e dall’ambiente familiare esemplificano il concetto in tutta la sua nefanda importanza. Un esempio valga per tutti: certo tutti siamo d’accordo sull’opportunità di “premiare il merito”. La discussione potrebbe tuttavia farsi aspra quando si tratti di decidere se il “merito” corrisponda all’impegno o al risultato, soprattutto se a seconda dell’accezione scelta taluno rimanesse escluso dai ricchi riconoscimenti. Anche questo tipo 66 PAOLO BOSCHI di consapevolezza permette di strutturare meglio il divenire del dialogo, di raccogliere informazioni precise e complete e, all’occorrenza, di condurre la conversazione in una direzione specifica. Concetto soggettivo espresso in modo oggettivo solo all’apparenza (talvolta nemmeno quella) Domanda di verifica per evitare interpretazioni personali ed arbitrarie La crisi di governo non deve succedere E perché? È chiaro a tutti che….. “A tutti” chi? “Chiaro” come e perché? Test clinici confermano che… Quali test? Fatti da chi? Costa poco…. “Poco” quanto? Per rafforzare le possibilità di utilizzo dello strumento, provi il lettore a completare la tabella che segue, per poi confrontare le proprie soluzioni con quelle alla fine del testo. Nel farlo, tenga presente che talvolta esistono più campi di indagine, ognuno dei quali con diverse possibilità di formulazione, tanto da rendere legittime altre possibilità oltre quelle proposte. Concetto soggettivo espresso in modo oggettivo solo all’apparenza (talvolta nemmeno quella) Se mi eleggete farò le riforme che servono Ci vuole troppo Fuori fa freddo È vicino Domanda di verifica per evitare interpretazioni personali ed arbitrarie Fatti, valori e dibattito 67 5. Attenzione, capacità e consapevolezza In definitiva, affinché un confronto possa avere un buon punto di partenza condiviso, o almeno condivisibile, occorre prestare attenzione a: grado di completezza delle informazioni; corretta lettura dei dati; parametri utilizzati per la valutazione dei dati; effettiva considerazione dei dati. Rilevante anche, per evitare dolorosi malintesi ed equivoci cruenti, verificare la condivisione del significato attribuito ai termini utilizzati durante lo scambio. Come avvertiva Cicerone in tempi non sospetti, “ogni trattazione sistematica di un argomento deve iniziare con una definizione, così che tutti possano capire l’oggetto dell’analisi” (De officiis, I,19-21). Se ciò non avviene all’inizio, è possibile rimediare in corso d’opera. L’onere spetta a chi per primo abbia il sospetto di un’intrusione anfibologica fra i termini in uso. A tutto ciò si aggiunga il dovere di meditare sulla direzione da prendere, intesa come responsabilità personale. Nel dibattito si argomenta infatti con ragioni che, se ben sostenute, possono arrivare non solo a convincere, ma persino a persuadere interlocutore e astanti, spostandoli dal loro punto di vista originario per convogliarli verso nuovi orizzonti. La distinzione non è da poco. Infatti, l’atto di “convincere” punta a indurre l’accettazione di una proposta o l’ammissione di un fatto meditante l’evidenza delle prove o la validità degli argomenti addotti. Riguarda quindi la sola parte razionale dell’interlocutore. Per contro, la persuasione è volta a conseguire l’approvazione o la fiducia attraverso un’opera o un motivo personale di convinzione. Riguarda l’immaginazione, il corpo, il sentimento, tutto ciò che non è ragione. Èil pri- 68 PAOLO BOSCHI mo passo verso un’azione forte. Quindi, Per chi tende al risultato, persuadere più che convincere. In altri termini, la capacità argomentativa di per se stessa pone chi ne fa uso nella condizione di poter spingere avanti il ragionamento nel suo divenire fino alle estreme conseguenze, oppure di mettervi un punto fermo, nella consapevolezza e responsabilità che la scelta è arbitraria e che gli esiti dell’azione possono condizionare il pensiero e le azioni altrui, fino a segnarne le scelte e gli sviluppi di vita, con conseguenze variamente definibili. La cosa si complica considerando come le conclusioni di un’argomentazione possano convincere anche e in primo luogo chi sta argomentando, attivando un processo circolare: chi argomenta ha una sua visione della realtà, che può essere viziata da tutti gli inconvenienti esaminati sin qui. Tuttavia, quando le proposizioni si susseguono l'un l'altra in modo congruente e sequenziale, quando si arriva al punto in cui si decide di fermarsi, sembra che non sussistano motivi per ritenere che la conclusione possa essere falsa. Ergo, deve essere vera. E se è necessariamente vera non è possibile non crederci, poiché la verità è ciò che necessariamente è. Solo che qualche volta potrebbe non risultare tale, proprio per la parzialità distorta del dato di partenza. Già questo dovrebbe essere sufficiente per far porre solenni interrogativi a chi ritiene di possedere verità universali. Poiché la percezione della realtà cambia da un soggetto all’altro, occorre ancora osservare come le precondizioni della validità di qualsiasi discorso argomentativo non possano essere assolute: la definizione di fatto, i valori, il metodo stesso dell'argomentazione divengono funzioni della visione del mondo che caratterizza ciascun attore del dibattito, retore o astante che sia. Si veda al riguardo e per tutti il lavoro di Perelman e Olbrechts-Tyteca, dove la Fatti, valori e dibattito 69 competenza argomentativa è sempre e comunque individuata come relativa, dal punto di vista gnoseologico, pedagogico e morale. Così, un’argomentazione adatta per convincere o persuadere un determinato uditorio potrebbe addirittura risultare neppure comprensibile per un altro. Allo stesso modo, visioni discordanti del mondo possono far accogliere in modo diverso uno stesso argomento. In più, taluni argomenti godono di una tale e radicata condivisione da poter restare impliciti, mentre altri risultano disporre di uno statuto epistemico diverso nel tempo o tra gruppi sociali diversi, per il quale vengono accettati come validi e indiscutibili in una certa epoca o in una certa comunità e respinti in epoche successive o in altre comunità. Per quanto è stato considerato sin qui, alla base della comunicazione in genere e di quella argomentativa in particolare sta il fatto che ciascuno di noi è diverso dagli altri. Questo porta a dover tenere presente che in un dibattito davanti a un pubblico, nel formulare le proprie ragioni occorre considerare sia l’impatto sull’interlocutore diretto che sugli astanti. Questi costituiscono infatti una massa in grado di manifestare reazioni fisiche o psichiche, tali comunque da poter influire sullo stato di coloro che stanno confrontando le rispettive ragioni. Esemplificando, se l’argomentazione è di un “amico” quasi tutti coloro che sono schierati nello stesso campo si sentiranno portati a difenderla indipendentemente dalla sua qualità concettuale, trasmettendo forza al proprio beniamino. Se promana da un “nemico”, pressoché nessuna considerazione di qualità oggettiva la potrà salvare, tanto che il malcapitato sarà colpito da strali a dir poco frustranti. In simili condizioni estreme, impegnarsi a costruire argomentazioni ritenute “buone a prescindere” rappresenterebbe una perdita di tempo. Occorrerebbe allora aggirare la questione contribuendo in primo luogo a moralizzare il sistema, impresa per la quale occorre comunque una buona capacità argomentativa. Nel frattempo, sarebbe comunque indispensabile riconoscere all’uditorio la sua importanza e comportarsi di conseguenza. La figura qui riportata schematizza la situazione. Fra noi e l’interlocutore intercorre una linea di scambio argomentativo. Da ciascuno dei due l’argomento proposto all’altro si proietta anche verso l’uditorio, con due linee 70 PAOLO BOSCHI convergenti che concorrono a formare i due lati del triangolo che rappresenta l’insieme dei rapporti. Nella figura, si tratta del triangolo bianco con la base dalla parte del lettore. Da parte sua, l’uditorio reagisce ai segnali che percepisce e risponde con emanazioni di ritorno, che si insinuano tra i due contendenti, contribuendo a definirne i rispettivi stati psichici e la conseguente forza dibattimentale. Nella figura, questo feedback è rappresentato dal triangolo bordato di nero con la punta rivolta verso il lettore. Nella configurazione di tale feedback è l’uditorio a stabilire la qualità dell’argomentazione, poiché non esiste il discorso “chiaro e convincente in astratto”, ma solo discorsi comprensibili o non comprensibili, accettabili o non accettabili per determinate platee. Il valore della chiarezza, fondamentale per argomentare, passa dunque attraverso una corretta analisi e definizione preventiva dell’uditorio, diretta a inferire il suo modo di percepire la realtà. Infatti, per decidere di dedicare parte del proprio tempo all’ascolto di un’argomentazione – e soprattutto per decidere se accettarla o meno - l’uditorio ha necessità di poter percepire che quell’argomentazione lo riguardi e abbia a che fare con i suoi reali interessi, che possono essere quotidiani e concreti come il prezzo dei generi alimentari, elevati e morali come l’abolizione della tortura, culturali e tecnici come il progresso dell’astronomia. Al fine di ottenere consenso e sostegno da un uditorio occorre poi tenere conto dei suoi valori e delle sue reazioni, talora variegate. Ad esempio, a un dibattito su nuove forme di sostegno alla disabilità possono presenziare anche persone normodotate, come familiari, amici e volontari legati a tale contesto. Occorrerà Fatti, valori e dibattito 71 quindi tenere presente che il pubblico è composto da soggetti diversi con istanze altrettanto diverse rispetto alla questione handicap. Il tema è tanto più importante quanto più l’uditorio abbia un rilievo rispetto alla conclusione di un dibattito. Un’ultima considerazione e un quesito finale Nonostante ciò che la tavola mostra e ad onta del modo in cui le figure costituite dai vettori di comunicazione sono state definite poco sopra, nello schema non vi sono triangoli. Risulta allo sguardo, ma si tratta solo di un caso di percezione amodale. Da qui il quesito: ora che sappiamo che le figure geometriche utilizzate per esemplificare il concetto non ci sono, il concetto che essa è stata chiamata a rappresentare risulta ancora valido? Per tutto ciò, risulta confermata l’importanza di indagare i temi della percezione e della comunicazione, in modo da garantire visioni corrette del dato di partenza e sviluppare capacità di impatto sugli astanti. I vantaggi per chi si muovesse in tal senso potrebbero risultare molti e importanti: recupero di tempo e chiarezza, diminuzione del contenzioso, sviluppo della capacità di acquisire informazioni oggettive e, infine, aprirsi al nuovo come sviluppo fisiologico. Lo scambio fra cognitivisti, filosofi e oratori-retori sarebbe vantaggioso per tutti e per ciascuno poiché , con lo slogan citato da Adelino Cattani, “è il pensiero degli altri che ci aiuta a pensare con la propria testa”. Proposta di soluzione alla ricerca Concetto soggettivo espresso in modo oggettivo solo all’apparenza (talvolta nemmeno quella) Domanda di verifica per evitare interpretazioni personali ed arbitrarie Se mi eleggete farò le riforme che servono Quali riforme, di preciso? 72 PAOLO BOSCHI Ci vuole troppo Quanto tempo? (in gg, h, minuti) Fuori fa freddo Quanti gradi? È vicino Quanto dista? (in km e m) Per esplorare ulteriormente la questione, si tenga comunque presente che la percezione del tempo e delle distanze del nostro interlocutore potrebbe avere una natura decisamente personale. CITAZIONI Al posto di un elenco di libri da comprare e con meno incomodo per il lettore È difficile trovare persone di buon senso, salvo tra quelle che la pensano come noi. (La Rochefoucauld) Il genio è la capacità di vedere dei rapporti dove gli uomini inferiori non ne vedono alcuno. (William James) La concentrazione è avere il coraggio di imporre… alle persone e agli avvenimenti la vostra decisione su cosa è importante e su cosa deve venire al primo posto. (Peter Druker) La semplice idea che esista un’altra idea è già qualcosa di guadagnato. (Richard Jeffries) Il linguaggio è un labirinto di strade, vieni da una parte e ti sai orientare, giungi allo stesso punto da un’altra parte e non ti raccapezzi più. (Ludwig Wittgenstein) Le si affacciò una lagrima sul ciglio, / sul mio labbro una frase di perdono; parlò l’orgoglio e si asciugò il suo pianto, / e sul labbro la frase mi morì. Io vo per una via, lei per un’altra; / ma se pensiamo al nostro muto amore Io dico ancor: Perché quel giorno tacqui? / E lei: Perché non lagrimai, quel dì? (Leon Woods) è impossibile sconfiggere un ignorante durante un litigio. (William Gibbs) È la dose che fa il veleno. (Paracelso) Gli ideali di un leader li capisci dalle sue metafore. (Leon Woods) Fatti, valori e dibattito 73 Non c'è uomo che non erri, né cavallo che non sferri. (Antico proverbio toscano) Ciascuno chiama idee chiare quelle che hanno lo stesso grado di confusione delle sue. (Marcel Proust) Il genio è la percezione dell’ovvio che nessun altro vede. (Ronald Weiss) Tutto il pensare che fai prima di iniziare un lavoro, abbrevia il tempo per eseguirlo. (Roy L. Smith) Se non avete problemi, perdete l’opportunità di crescere. (Thomas Blandi) È meglio un capitombolo che non provarci mai. (Raffaella Carrà) L’umorismo è un’affermazione di dignità, una dichiarazione della superiorità dell’uomo su tutto quanto gli accade. (Romain Gary) A meno di non essere un genio, conviene puntare alla comprensibilità. (Anthony Hope) Parlare a qualcuno che non ascolta è sufficiente a irritare il diavolo. (Pearl Bailey) PAOLA CANTÙ1 La formazione al dibattito attraverso l’analisi di ragionamenti tratti dai quotidiani Abstract L’articolo sostiene che la lettura e l’analisi dei quotidiani può costituire un momento formativo per l’educazione al dibattito dei cittadini, poiché favorisce lo smascheramento degli errori di ragionamento, lo studio delle mosse strategiche e la distinzione tra mosse retoriche efficaci e mosse logicamente corrette. In particolare l’interesse dei testi giornalistici concerne anche l’analisi dei meta-argomenti, vale a dire dei ragionamenti che hanno come oggetto la validità dei ragionamenti stessi. Attraverso l’analisi di tre esempi specifici l’articolo abbozza anche una strategia di difesa contro le mosse che mirano a squalificare i giornali come falsi e dunque a chiudere anziché aprire la discussione. 1. Introduzione L’analisi degli argomenti contenuti negli articoli dei quotidiani è un ottimo esercizio per sviluppare ed applicare la capacità di riconoscere fallacie e buoni argomenti, ma – e questa è la tesi che sosterremo nell’articolo – qualora gli articoli siano scelti in maniera accurata, essa può costituire anche un momento di formazione al dibattito, e dunque un aspetto essenziale dell’educazione del cittadino alla vita democratica, basata sulla discussione pubblica della bontà delle ragioni delle parti. In primo luogo la lettura comparata dei botta e risposta pubblicati su quotidiani diversi favorisce lo smascheramento degli errori di ragionamento altrui, 1 Ringrazio Italo Testa che, pur non avendo avuto modo di collaborare alla preparazione e alla stesura di questo articolo, ha comunque discusso varie parti dell’articolo, fornendo, come d’abitudine, preziosi commenti. 76 PAOLO CANTÙ preludendo all’apprendimento dell’arte di scoprire le fallacie nei propri discorsi, ma anche l’individuazione di meta-argomenti che possono essere ripresi, sviluppati, scelti come modello in una discussione persuasiva e razionale. In secondo luogo l’analisi degli argomenti prodotti dai giornalisti permette di rivolgere l’attenzione alle mosse strategiche compiute dall’oratore, distinguendo tra errori volontari e sviste involontarie e favorendo la comprensione dei meccanismi che spiegano la maggiore efficacia di certe mosse rispetto ad altre, nonché l’individuazione degli interessi dell’autore o del pubblico di lettori cui ci si rivolge. In terzo luogo la lettura dei quotidiani permette di rivolgere una particolare attenzione alla distinzione problematica tra mosse retoriche efficaci e mosse logicamente corrette, favorendo l’analisi di diversi contesti in cui lo stesso argomento può essere valutato ora come corretto ora come fallace. In particolare, l’individuazione di fallacie diverse su uno stesso tema aiuta a comprendere che gli errori possono avere gradi diversi di gravità, contro l’abitudine a commettere una generalizzazione indebita: “se tutti i giornali contengono almeno una fallacia, allora sono tutti egualmente falsi”. Non tutti gli errori di ragionamento sono fallaci allo stesso grado: alcuni errori sono più gravi di altri e lo stesso errore può essere più grave in un contesto e meno grave in un altro. Come a scuola ci sono errori blu e errori rossi, così in teoria dell’argomentazione ci sono errori di vari colori. 2. Tre obiezioni Si potrebbero tuttavia sollevare diverse obiezioni alla scelta di utilizzare la lettura dei quotidiani come esercizio di formazione al dibattito. Innanzitutto la varietà dei contesti è ristretta al caso del dialogo persuasivo, o della ricerca di informazioni: si tratta senz’altro di un limite, ma non per questo di un problema, poiché non si pretende di dimostrare che la lettura dei quotidiani sia l’unico mezzo di formazione al dibattito e nemmeno che sia uno strumento sufficiente per una formazione completa. La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 77 In secondo luogo gli articoli di giornale sono sempre e soltanto testi scritti. Tuttavia essi sono spesso un’istantanea di argomenti ripetuti nel dibattito pubblico, vuoi perché riportano un’intervista o parti di un discorso pubblico, vuoi perché per avvicinarsi ai lettori gli autori cercano talvolta di imitarne il linguaggio e gli stili argomentativi. L’analisi e la ricostruzione degli argomenti presenti nei testi scritti ha il vantaggio di essere più semplice perché il testo può essere riletto più volte, e garantisce comunque una facile estensione all’ambito del dibattito orale, che spesso si basa su argomenti simili a quelli riscontrati nei testi scritti. In terzo luogo gli articoli pubblicati sui quotidiani sono monologici, ad eccezione delle interviste riportate in discorso diretto. Tuttavia l’apparenza monologica non esclude la presenza di una struttura fondamentalmente dialettica, poiché molti articoli nascono come risposta a testi (scritti o orali) precedenti oppure mirano a scatenare una reazione (una risposta, un dibattito, una domanda, una riflessione) nel lettore, in altri giornalisti, in personaggi pubblici, negli intellettuali, nell’editore... In questo senso tali articoli possono essere considerati come delle istantanee di un vero e proprio dibattito che si muove in un tempo discontinuo e rallentato, ma che non cessa perciò di avere la funzione di una discussione dialettica tra punti di vista diversi, che interagiscono rispettando ciascuno il proprio turno di parola. A questo proposito, si potrebbe pensare che i giornali abbiano il vantaggio, rispetto ai talk-show televisivi, di impedire il mancato rispetto dei turni di parola, e dunque di favorire uno scambio equilibrato e corretto tra le parti. Vedremo tuttavia che ogni mezzo ha le sue infrazioni specifiche e che anche sui quotidiani è possibile violare le regole di un corretto scambio dialettico, ad esempio interpretando in maniera scorretta le tesi dell’interlocutore oppure ignorandole o ancora facendole proprie in maniera tacita (§ 5). 3. La peculiarità dello strumento formativo I quotidiani hanno alcuni tratti peculiari che permettono di vedere o scoprire argomenti che non sono sempre altrettanto evidenti nel caso di altri mezzi di comunicazione. Un vantaggio degli articoli di giornale è quello di permettere facilmente 78 PAOLO CANTÙ l’analisi e la valutazione dei meta-argomenti, vale a dire dei ragionamenti che hanno come oggetto la validità dei ragionamenti stessi. La tesi che l’argomento vuole difendere non riguarda come stanno le cose, ma come devono essere valutate le ragioni portate a favore di una tesi. In altre parole io produco un meta-argomento quando porto ragioni a favore della distinzione tra ciò che è legittimo e ciò che non è legittimo dire nel dibattito pubblico, quando cioè l’oggetto dell’argomento è a sua volta un argomento (§ 3). In particolare mediante la lettura comparata dei quotidiani è possibile studiare i meta-argomenti e gli effetti dello stile argomentativo sull’andamento del dibattito pubblico. Ad esempio (§ 7), è possibile indagare l’effetto di fallacie particolarmente pervasive, come l’avvelenamento del pozzo, sulla credibilità dei quotidiani come mezzi di informazione. In particolare l’analisi dello stile argomentativo dei quotidiani permette anche di individuare vari usi del dibattito pubblico stesso, che può essere volto a chiudere o a riaprire la discussione, frenando o stimolando la richiesta di ulteriori ragioni nell’interlocutore (§ 6). Nel seguito dell’articolo analizzeremo alcuni esempi, tratti dal volume E qui casca l’asino. Gli errori di ragionamento nel dibattito pubblico (Cantù 2011) a sostegno delle tesi sopra esposte, prima fra tutte l’idea che gli argomenti presenti negli articoli dei quotidiani possano avere una natura intrinsecamente dialettica se considerati come momenti di un dibattito pubblico più ampio. Dapprima analizzeremo uno scambio dialettico basato su meta-argomenti tra un lettore e l’editore di un quotidiano (§ 4). Quindi considereremo un caso di violazione delle regole della comunicazione in uno scambio tra una giornalista, una scrittrice e una filosofa (§ 5). In seguito valuteremo un caso di argomento che mira a chiudere o zittire il dibattito (§ 6). Da ultimo analizzeremo una fallacia di avvelenamento del pozzo che ha ricadute significative sulla credibilità dell’informazione giornalistica (§ 7). 4. La monnezza rom Uno scambio dialettico che si è verificato nel maggio 2008 tra Vittorio Feltri, giornalista e direttore di «Libero», e Alfonso Gianni, lettore e ex onorevole di Rifondazione Comunista illustra bene il meccanismo dialettico che può instau- La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 79 rarsi tra diversi articoli di giornale che esprimono meta-argomenti. Entrambi i giornalisti si riferiscono ad un articolo apparso il 16 maggio su «Libero» a firma di Matteo Mion, che rispondeva a sua volta ad un articolo apparso su «L’Espresso»: Matteo Mion scrive: La mia mente ottusa pensava che Papalia & C. s’impegnassero a disinfestare il Veneto dalla monnezza rom e assimilati. Sono stato il solito egoista: ho pensato sempre e solo alla mia grama pellaccia, a non farmi randellare dal primo marocco di strada.2 Al passo precedente si riferisce Alfonso Gianni in una lettera indignata al direttore di «Libero»: Come può pensare di ospitare sul suo giornale opinioni di questo genere? Come Lei può constatare siamo nel più puro e delirante razzismo. Tale è considerare una porzione di umanità, come il popolo rom (e «gli assimilati» chi e quanti sono?), un rifiuto.3 Il ragionamento di Gianni è un meta-argomento, perché è volto a criticare la legittimità del ragionamento di Mion, che in teoria dell’argomentazione potrebbe essere catalogato come una fallacia d’accento ma anche come una metafora esplicitamente denigratoria. In risposta Vittorio Feltri scrive: [Matteo Mion] non ha scritto che i rom sono spazzatura, ha scritto di aspettarsi che Papalia & C. si impegnino a disinfestare il Veneto dalla spazzatura rom. Cioè dei rom, che notoriamente non sono rispettosi, nei loro campi abusivi e no, delle norme igieniche. E anche questo è un dato, non una sensazione. Lei obietterà che Mion avrebbe potuto esprimersi in forma più delicata. Sono dello stesso parere. Ma 2 Matteo Mion, «L’Espresso e la Verona che non c’è», Libero, 16 maggio 2008, p. 12. 3 Alfonso Gianni, «Che tristezza definire i rom in quel modo», Libero, 23 maggio 2008, p. 7. 80 PAOLO CANTÙ aggiungo che chiunque maneggi la penna non è mai abbastanza lieve. Il razzismo, via, è un’altra cosa.4 La risposta di Feltri è anch’essa un meta-argomento, perché per difendere Mion egli ne spiega il ragionamento come un caso di anfibolia, cioè come un errore di ambiguità. L’espressione monnezza che Gianni interpretava come una qualifica attribuita al popolo rom e dunque come una locuzione razzista, viene invece intesa in senso letterale come l’immondizia depositata in alcuni angoli dei campi rom. Tuttavia, oltre alla scarsa plausibilità grammaticale (l’anfibolia come figura retorica ha luogo quando in una stessa frase entrambi i significati del termine, quello letterale e quello figurato, sono interscambiabili, mentre l’interpretazione di Feltri richiede la scrittura “monnezza dei rom” e non “monnezza rom”), la spiegazione è in contrasto con uno stile giornalistico frequente su «Libero», come mostra l’articolo di Marcello Veneziani pubblicato il 22 maggio 2008, ove l’analogia è introdotta in maniera esplicita: Zingari & Cassonetti, monnezza umana e monnezza urbana. Circolano due teorie: da quando c’è la destra con la Lega al governo, zingari e immigrati sono due capitoli dell’emergenza rifiuti. L’altra teoria dice: no, la destra e la Lega sono al governo perché la gente considera zingari e immigrati due capitoli dell’emergenza rifiuti.5 L’analisi di questo esempio è possibile soltanto grazie ad una lettura comparata dei quotidiani in un arco temporale di varie settimane: non solo si vede che gli articoli sono spesso in dialogo tra loro, ma si scopre il valore formativo per il dibattito di una dialettica giornalistica basata su mete-argomenti. 4 Vittorio Feltri, «Ma i fatti contano più di qualsiasi parola», Libero, 23 maggio 2008, p. 7. 5 Marcello Veneziani, «Cacciate i rom che delinquono. Ma attenzione…», Libero, 22 maggio 2008. La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 81 5. Non desiderare la tesi altrui Un altro esempio di dialettica a più voci tra giornalisti è offerto dall’articolo di Marcello Veneziani, pubblicato su «Libero» il 15 luglio 2010 in risposta a due precedenti interventi di Dacia Maraini sul «Corriere della Sera» e di Michela Marzano su «La Repubblica». Maraini e Marzano condannano l’abitudine giornalistica di classificare i delitti compiuti contro le donne da amanti, mariti, compagni, parenti e affini come omicidi compiuti per un raptus d’amore. Le due autrici argomentano che si tratterebbe non di una passione improvvisa ma di uno stato emotivo costante, non di amore ma di desiderio di possesso: «paura di perdere il potere sulla persona che si considera cosa propria»6 o «un modo per sventare la minaccia della perdita, per continuare a mantenere un controllo sulla donna, per ridurla a mero oggetto di possesso».7 Il desiderio di possesso è spiegato però in due modi diversi: per Maraini è il segno di una cultura androcentrica e possessiva che permane anche nei paesi in cui è garantita la parità formale tra i sessi, mentre per Marzano è il segno di una reazione maschile violenta di fronte alla raggiunta autonomia delle donne. Già nel titolo del proprio pezzo «L’uomo uccide: non è colpa del maschilismo» Veneziani esplicita l’intenzione di confutare la tesi «vecchiotta» di Marzano e Maraini: Gira e rigira, tornano sempre al femminismo. Per spiegare la catena funesta di delitti contro le donne, uno al giorno, Dacia Maraini sul Corriere della sera, Michela Marzano su la Repubblica e un esercito di donne pubblicanti sui quotidiani d’impegno, ricorrono alla solita vecchiotta spiegazione, diversamente modulata: è il maschio spossessato (...) che non sopporta l’emancipazione femminile e allora torna dispotico, cruento e 6 D. Maraini, «Il sale sulla coda. Quelle ragazze uccise dal bisogno di potere», Corriere della Sera, 13 luglio 2010. 7 M. Marzano, «Perché gli uomini uccidono le donne», La Repubblica, 14 luglio 2010. 82 PAOLO CANTÙ primitivo. La tesi è facile, ideologicamente comoda per loro, ma non convince. Perché non considera tre o quattro cose. Veneziani non attacca la tesi principale avanzata nei due articoli (gli omicidi in questione non sono l’effetto di un sentimento d’amore ma di un sentimento di paura), bensì la tesi che collega la paura di perdere il possesso e il potere sull’altro alla diffusione di una cultura «androcentrica» o «maschilista». Le due diverse posizioni sopra menzionate vengono però identificate da Veneziani in un’unica tesi che egli ricostruisce in maniera semplificata per aver miglior gioco nella confutazione. In questo modo egli viola la decima regola del decalogo di van Eemeren e Grootendorst (2008, p. 176): «Una parte non può usare formulazioni non sufficientemente chiare, confuse o ambigue. Una parte deve sempre interpretare le formulazioni dell’altra parte quanto più attentamente e accuratamente possibile». Consideriamo la prima obiezione mossa da Veneziani alla tesi di Marzano: La prima obiezione elementare è che la società era infinitamente più maschilista negli anni Settanta quando il femminismo era più virulento, mentre delitti di questo genere con questa impressionante sequenza, si vedono invece quarant’anni dopo, quando molte di quelle rivendicazioni che all’epoca sconcertavano, sono diventate ormai orizzonte comune.8 Si tratta di un’obiezione che Marzano stessa si era posta e cui aveva risposto suggerendo che si tratti di un tentativo di restaurazione della cultura patriarcale-dispotica.9 La scorrettezza dialettica di Veneziani consiste sia nell’usare un’obiezione già confutata da Marzano ignorando però il controargomento sia nella dichiarazione di aver confutato la tesi avversaria pur non avendo mos8 M. Veneziani, «L'uomo uccide: non è colpa del maschilismo», il Giornale, 15 luglio 2010. 9 «Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?» M. Marzano, op. cit. La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 83 so obiezioni alla tesi principale, ma soltanto ad una tesi accessoria formulata in maniera imprecisa. La regola della pertinenza di van Eemeren et Grootendorst (2008, p. 174) recita infatti: «Le critiche devono vertere esattamente su ciò che l’interlocutore sostiene». Non è lecito, per apparire vincenti nella discussione, deformare la tesi dell’avversario, semplificandola oltre misura o estraendo arbitrariamente una parte dell’argomentazione dal contesto. Anche in un dibattito tra giornalisti su quotidiani diversi si possono dunque riscontrare alcune violazioni delle regole argomentative: anzi, puntando sul fatto che raramente i lettori leggono quotidiani diversi, non è rara l’occorrenza di fallacie del fantoccio: per mostrare più facilmente che la tesi dell’avversario è errata, Veneziani la presenta in maniera imprecisa e incompleta, selezionando alcune parti del ragionamento a scapito di altre. 6. Un modo per zittire il dibattito Se la fallacia del fantoccio ricorre frequentemente sui quotidiani, sembrano più rare le infrazioni alla regola secondo la quale ciascun interlocutore deve sempre lasciare all’altro il diritto di esprimere il proprio punto di vista e di muovere obiezioni al punto di vista dell’altro (Cfr. van eemeren, Grootendorst: 2008, p. 173). Se la contestazione, in quanto espressione di un disaccordo, è di solito il punto di partenza di un’argomentazione, vedremo due esempi di articoli che svolgono una funzione opposta: in un caso mirano a “estinguere” il dibattito, nell’altro lo “alimentano”. Il 4 settembre alla festa del Partito Democratico a Torino un gruppo di contestatori fischia Fassino nel momento in cui dà la parola a Renato Schifani, che accusa i contestatori di essere anti-democratici perché fischiando impediscono a due politici di discutere. La mossa di Schifani è fallace perché non riconosce i cittadini intervenuti alla festa del PD come interlocutori legittimi e perché ritiene che il disaccordo, anche radicale, sia illegittimo qualora impedisca la discussione. Al contrario il disaccordo è un ingrediente essenziale del dibattito democratico: casi di deep disagreement, 84 PAOLO CANTÙ che riguardano spesso il rapporto tra una minoranza ed una maggioranza, sono presenti in ogni forma democratica e dovrebbero stimolare gli interlocutori a cercare altre vie di dialogo, magari rispondendo ai fischi con argomenti. La reazione di Schifani ha suscitato la risposta dialettica di Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera»:10 Battista non si interroga sulle origini della contestazione (un articolo a firma di Lirio Abbate su «L’Espresso» che segnalava un’indagine su presunti collegamenti tra Schifani ed esponenti di Cosa Nostra),11 ma insiste sulla anti-democraticità della contestazione mediante fischi, muovendo accuse ad hominem ai «professionisti del fischio» per delegittimarli e zittirli: I professionisti del fischio sono cupi, arroganti, fanatici. Purtroppo sta diventando una moda. Ma è un errore essere accondiscendenti con una pessima abitudine, antiliberale e antidemocratica. Non è vero che ci sia alcunché di spontaneo, in quel dissenso: sono sempre minoranze molto agguerrite e molto organizzate. Ma non sono il popolo. [...] Fischiassero pure, ma la smettessero di farlo a nome di un loro inesistente «popolo indignato». [...] Hanno tutti gli strumenti democratici per dissentire: manifestazioni, cortei, spettacoli, comizi, sit-in, happening di piazza. Ma la smettano di zittire gli altri per sentirsi buoni e forti. Non in nostro nome. Travaglio ribatte che per quanto poco rappresentativi dell’intera popolazione, i contestatori sono comunque cittadini che hanno diritto di esprimere il dissenso e l’esiguità del loro numero non dovrebbe privarli del diritto di avere una risposta dall’interlocutore contestato, se è vero che i diritti di una minoranza dovrebbero essere tutelati al pari dei diritti della maggioranza in democrazia. Travaglio cita l’esempio di Tony Blair, che alla contestazione radicale subita poco prima della presentazione di un suo libro, si era sentito in 10 Cf. Pierluigi Battista «I professionisti dell’intimidazione. Vanno in scena i Dissidenti Preventivi e i Professionisti dell’Urlo», Corriere della Sera, 5 settembre 2010. 11 Cf. Lirio Abbate «Quel che so di Schifani», L’Espresso, 2 settembre 2010. La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 85 dovere di rispondere nei giorni successivi con un’intervista nella quale esponeva una ragionata difesa delle proprie scelte politiche in Iraq.12 In risposta all’articolo di Battista, Travaglio ribatte con tre diverse strategie: 1) controargomenta mediante un esempio: come Blair ha risposto alle critiche ritenendole legittime così dovrebbe fare anche Schifani, perché la contestazione dei potenti è uno strumento tipico delle democrazie e i cittadini hanno diritto di essere presi sul serio come interlocutori, anche quando fischiano o pronunciano slogan offensivi; 2) denuncia le fallacie di linguaggio pregiudizievole di Battista con un meta-argomento; 3) spiega già dal titolo del suo pezzo «Giornalisti-estintori» che la strategia argomentativa di Battista mira a zittire il dibattito pubblico. 7. Come ti avveleno la sorgente Ci sono fallacie teoriche che meglio si possono comprendere in correlazione con gli stili di ragionamento tipici della comunicazione giornalistica. Per esempio, in teoria dell’argomentazione si è a lungo discusso intorno alla natura della fallacia dell’avvelenamento del pozzo: secondo alcuni autori, come Douglas Walton, si tratta di una fallacia ad hominem con caratteristiche peculiari Walton 2006: pp. 273-307); secondo altri si tratta di una mossa retorica. Nel suo recente libro Verità avvelenata Franca D’Agostini suggerisce che nel dibattito pubblico sia presente una versione generalizzata di tale ragionamento, la cui fallacia consisterebbe nell’obiettivo di screditare o delegittimare in anticipo qualunque argomento e qualunque argomentatore (D’Agostini 2010, p. 11). Si tratterebbe cioè di una strategia che viene messa in campo preventivamente, per evitare di dover prendere parte al gioco democratico di dare e chiedere ragioni. La strategia della macchina del fango, denunciata nei giornali di sinistra come un’operazione compiuta dai giornali di destra, e dai giornali di destra 12 Marco Travaglio, «Giornalisti-estintori», Il Fatto quotidiano, 7 settembre 2010. 86 PAOLO CANTÙ come un meccanismo usato frequentemente dai giornali di sinistra, è stata paragonata alle azioni di linciaggio morale o killeraggio politico tipiche delle elezioni presidenziali americane (Castells 2009). Tuttavia la propaganda negativa propria delle campagne elettorali si distingue dalla macchina del fango per varie ragioni: innanzitutto non è ristretta al periodo pre-elettorale; in secondo luogo è usata come strategia da parte di un gruppo politico per mantenere il potere e il consenso anche dopo le elezioni; infine non è messa in opera dai portavoce al soldo dei politici ma dai giornalisti stessi. Una lettura comparata dei quotidiani può essere utile a questo proposito per comprendere in che misura la fabbrica del fango in Italia abbia cambiato obiettivo: dai politici ai giornali.13 Il fango è scaricato sui giornalisti dai giornalisti e il duello verbale non avviene più tra due uomini politici ma tra due ventriloqui, ciascuno dei quali parla con la pancia, cioè tramite il suo giornale-portavoce. Un esempio rivelerà il rischio che la macchina del fango italiana serva non a vincere le elezioni ma a zittire i giornali e il pubblico dibattito. Il botta e risposta tra D’Avanzo, Bracalini e Sallusti a proposito dei dossier preparati da «Libero» esemplifica anche un caso di mancato rispetto delle regole dialettiche. D’Avanzo accusa Feltri di essere responsabile della preparazione di 13 Inizialmente Massimo D’Avanzo si era riferito alla «macchina del fango» diretta da Berlusconi contro i suoi oppositori politici, Saviano aveva parlato della «macchina del fango» orchestrata da Cosentino contro Caldoro, candidato rivale del Pdl in Campania, e Ezio Mauro aveva usato l’espressione «centrale del fango» nell’analisi del caso Marrazzo. Successivamente il termine «fango» è stato impiegato per accusare i giornalisti stessi : si è parlato per esempio del «fango che [Santoro] getta quotidianamente contro il premier», o del fango raccolto nelle fabbriche dei dossier dal direttore del giornale di Silvio Berlusconi in relazione ai casi Vaudano, Marini, Boffo, Marcegaglia o delle «paginate di fango su la Repubblica a firma D’Avanzo» o ancora del «Metodo “Repubblica”: fango e giustizialismo sempre a senso unico». Cf. M. D’Avanzo, «La macchina del fango», La Repubblica, 27 ottobre 2009; R. Saviano, «Dossier, calunnie e voti comprati. La macchina del fango targata Cosentino», La Repubblica, 17 luglio 2010; E. Mauro, «La centrale del fango», Corriere della Sera, 23 luglio 2010; AAVV, «Feltri sospeso sei mesi per caso Boffo e Farina. Il direttore: trattato peggio di un prete pedofilo», Redazione della versione online de il Giornale, 26 marzo 2010; G. D’Avanzo, «Così colpisce la fabbrica dei dossier al servizio del Cavaliere», La Repubblica, 11 ottobre 2010; A. Sallusti, «Ecco le vere fabbriche del fango», il Giornale, 12 ottobre 2010; P. Bracalini, «Metodo "Repubblica": fango e giustizialismo sempre a senso unico», il Giornale, 12 ottobre 2010. La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 87 falsi dossier sugli avversari politici di Berlusconi per intimorirli o minacciarli (si veda ad esempio la condanna ricevuta dall’Ordine dei giornalisti per aver acconsentito alla pubblicazione di documenti su Boffo, poi risultati falsi, senza averne verificata l’autenticità).14 L’impianto accusatorio di D’Avanzo è basato su due tipi di argomenti: un appello al precedente e un riferimento di Feltri stesso alla minaccia, poi realizzata, di una campagna d’opinione contro Fini. Bracalini e Sallusti non ribattono alle accuse di D’Avanzo ma introducono argomenti a difesa di Feltri e del suo «Giornale» con un ragionamento ad populum: ci accontentiamo del giudizio dei nostri lettori, che in questi giorni ci premiano facendo schizzare le vendite del Giornale a cifre da record15 o con una fallacia di inversione dell’onere della prova unito ad un attacco ad hominem non circonstanziato: D’Avanzo torna in cattedra: vuole impartirci lezioni di deontologia, ma è lui a fabbricare veleni e falsi scoop.16 Entrambi commettono ulteriori fallacie ad hominem quando scrivono rispettivamente: Due paginate di fango su La Repubblica a firma D’Avanzo, quello che nel torbido pesca da anni per costruire teoremi che mai reggono la prova dei fatti.17 La fabbrica di condanne preventive, peraltro, fabbrica frequentemente falsi scoop e clamorosi flop. [...] la fabbrica è sempre aperta e dà lezioni deontologiche agli altri. 14 D’Avanzo, op. cit. 15 Sallusti, op. cit. 16 Bracalini, op. cit. 17 Sallusti, op. cit. 88 PAOLO CANTÙ Anche se poi si rivela per quel che è: un giornalismo di scorie velenose, un giornalismo D’Avanzo.18 Al di là dei singoli argomenti, la strategia complessiva de il Giornale è volta a mostrare che, se qualcuno ha fabbricato fango, allora lo fanno tutti, e quindi non ha più senso distinguere tra argomenti che gettano fango sull’avversario e argomenti che non lo fanno: ciò che conta è solo il gradimento dei lettori. È proprio questa la strategia di avvelenamento del pozzo: l’obiettivo è dimostrare che tutti i giornali sono egualmente falsi e dunque che nessuno fornisce un’informazione oggettiva. Così ciascun lettore sceglierà il suo giornale indipendentemente dalle notizie vere o false che riporta, come a dire: sui giornali non hanno spazio né la verità né l’argomentazione. Ma proprio perché così non è, come ci sembra di aver mostrato in queste pagine, la lettura dei quotidiani è al contrario un’ottima palestra di formazione al dibattito, sia per smascherare le fallacie sia per valutare i meta-argomenti che distinguono gli argomenti accettabili dagli argomenti scorretti. 8. Conclusione L’ultimo esempio è interessante perché permette di analizzare un caso in cui la convinzione diffusa che i giornali della parte politica avversa siano “falsi” impedisce il nascere della discussione e scoraggia il lettore dal tentativo di interloquire. Se tutti sparano fango allo stesso modo, se il dibattito sui quotidiani è solo un loop di insulti a vuoto, allora meglio rimanere spettatori e non immischiarsi, se non si vuole correre il rischio di essere sommersi di fango. Si vede così che la pubblicazione di articoli in dialogo tra loro può avere non solo la funzione di alimentare il dibattito, ma anche di spegnerlo, o di infuocarlo rendendolo inavvicinabile a causa delle troppo alte temperature. 18 Bracalini, op. cit. La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 89 Ma un’analisi comparata di tali articoli permette di sviluppare una strategia parafango, che favorisce la formazione al dibattito, a condizione di essere accompagnata da tre strategie da adottare in maniera sinergica per difendersi dagli spruzzi: 1) tenere ben presente la personalizzazione della politica italiana, 2) essere consapevoli dell’uso peculiare di alcuni quotidiani come portavoce dei politici, 3) aguzzare lo sguardo per imparare a distinguere, nella melma del rumore di fondo, grumi più o meno densi di ragionamento, migliorando al contempo la propria abilità di individuazione delle fallacie e dei meta-argomenti nel dibattito pubblico. In conclusione, la lettura e l’analisi dei giornali può costituire un momento formativo per l’educazione al dibattito dei cittadini non soltanto perché aiuta ad apprendere e ad applicare la distinzione tra argomenti buoni e fallacie, o tra mosse dialettiche corrette e scorrette (come nel caso dei meta-argomenti), ma soprattutto perché fornisce ai cittadini una strategia parafango che evita l’assuefazione ad un cattivo argomentare e promuove la richiesta di un’informazione giornalistica basata su ragioni migliori. BIBLIOGRAFIA Cantù, P. (2011), E qui casca l’asino. Gli errori di ragionamento nel dibattito pubblico, Torino, Bollati Boringhieri. Castells, M. (2009), Licenza di uccidere: la politica dell’aggressione, estratto dal volume Comunicazione e potere (Milano, Bocconi Editore, 2009), Micromega, 16 ottobre 2009. D’Agostini, F. (2010), La verità avvelenata, Torino, Bollati Boringhieri. Eemeren, F. van, e Grootendorst, R. (2008) A Systematic Theory of Argumentation. The PragmaDialectical Approach, 2004, Cambridge, CUP; trad. it. a cura di A. Gilardoni, Una teoria sistematica dell’argomentazione: l’approccio pragma-dialettico, Milano, Mimesis. Walton, D. (2006), Poisoning the Well, Argumentation, 20, pp. 273-307. ALFRED C. SNIDER Debate: Critical Method for the 21st Century Abstract Il 21° secolo si distingue dal secolo passato per diversi aspetti: l’enorme quantità di informazione a cui possiamo aver accesso, ma dalla quale siamo anche investiti e oberati; i veloci cambiamenti sociali; l’interconnessione globale, che vede, ad esempio, in Cina le conseguenze di ciò che succede in Italia; la capacità argomentativa promossa attraverso rilevanti risorse economiche. Così com’è, il sistema scolastico non è in grado di far fronte a queste sfide. Infatti, la concezione della memoria come “deposito” è inidonea allo scopo e troppo spesso gli studenti hanno un ruolo passivo nel processo educativo. Inoltre lo sviluppo delle loro capacità è trascurato e sempre più si chiede loro di ascoltare e non di mettere in discussione. Il dibattito è la possibile soluzione a tutto ciò: esso è infatti lo strumento adatto per promuovere la capacità di pensare e di dialogare, non può facilmente essere sottoposto al controllo autoritario e inoltre attiva una serie di processi di adattamento vitali nella società attuale. Tuttavia l’entusiasmo per questo metodo e i notevoli risultati acquisiti e acquisibili con la sua applicazione non hanno finora indotto mutamenti sensibili nel sistema scolastico. A tal fine si rendono necessari anche dati empirici, di cui noi oggi siamo in possesso, che accertino questa sua validità. Il presente articolo riporta gli esiti di una prima ricerca a riprova della più alta probabilità di portare a termine gli studi da parte degli studenti che hanno incontrato il dibattito lungo il loro percorso scolastico; dei loro migliori risultati accademici; dell’aiuto che il dibattito può offrire non solo gli studenti più dotati, bensì a tutti quelli che vi prendono parte, a prescindere dalle doti naturali di partenza. My background I was a very poor student and also a discipline problem until at the age of eleven. I was invited to be in a debate. It changed my life, and especially my 92 ALFRED C. SNIDER approach to academics. I discovered a reason to enjoy school, and I found my voice in the modern classroom. I debated all through college and immediately became a debating coach at the college level. I have been one ever since. About twelve years ago I became involved in promoting debating in other countries. I have now done debate training in 35 countries, including places like Venezuela, Iraq, Latvia and a lot more. For the last eight years I have focused my training of students for competition in the World Universities Debating Championship format and I regularly attend the world championships. I have published a broad variety of articles and books concerning debating, with a special mention of my book, now in its second edition, Many Sides: Debate Across the Curriculum about using debate techniques in the classroom to improve learning in a broad array of subjects (Snider, 2006). I have become somewhat of a debate evangelist, taking my message to whoever and wherever I can. I am just a small part of the story, but debating as a method of learning and individual development is now spreading explosively all over the world, from Saskatchewan to Sudan, from Iraq to India, and everywhere in between. Why the 21st century is different Our older techniques of education and social organization may have been satisfactory in the past, but the present is quite different. Many important changes in the intellectual landscape of our planet took place in the 20th Century, and they are all making their mark in the 21st Century. These developments are already known to you, but bear repeating to make my eventual point. Instead of an in-depth explanation, allow me to just outline these changes: 1. There is more information now that ever. The increase in information will continue to increase geometrically, which means that we Debate: Critical Method for the 21st Century 93 need to know how to find and analyze information as much if not more than we need to memorize the information itself. 2. The pace of social change continues to increase. Our lives are so much different than our grandparents; our parents and our children will live in a very different world. We need to learn more than useful patterns; we need to know how to adapt and how social change redefines us as citizens. 3. The globe is one connected whole more than ever. What happens in Italy influences China, what happens in Brazil influences India. Economies and technological patterns are increasingly connected. As with any large and complex system, understanding how it operates can be challenging. 4. Our mass media rains down on us with “expert” discourse. Given the first three events, we more and more rely on selected talking heads to do our thinking for us. Of course, such “experts” have their own points of view and their own masters, requiring us to judge them more closely than ever. 5. We are surrounded by weak arguments promoted with considerable resources. We vote for “Yes we can,” instead of “Here is how we can,” and we are told so often that certain products or services will make use sexy or give us status when that is obviously not true. We become susceptible to the weak arguments around us through sheer repetition. Why current educational methods fall short I am sure that we are all familiar with the chorus of criticisms that modern education faces. Rather than repeat all of them, I would like to briefly summarize those indictments that seem most relevant to this discussion. 1. The old “banking” model is insufficient. We often view students as a bank account into which the instructor deposits knowledge. The 94 ALFRED C. SNIDER data is a “thing” or an “artifact,” and once the student has it, they are then educated. Given the magnitude of current knowledge that seems impossible as well as ineffective. I tend to agree with Paolo Freire in this work The Pedagogy of the Oppressed (Freire, 2007). Students need to learn how to manipulate and process data more than just check to see how full their knowledge bank account is. 2. Students are too often in a passive role. They are told to remain quiet and learn through listening. I am all for listening, but there is little motivation for it unless the student has a chance to be active, to participate and express themselves. We need a “noisy classroom” in the words of the UK’s Debbie Newman, who advocates active roles for students through debating and similar communicative roles (Newman, 2010). 3. Skill development is neglected. Skills have been relegated to the domain of vocational education, whereas multiple skills are essential for high level intellectual involvement in modern society, such as organizing research, public speaking, responding to criticism, thinking on one’s feet, asking and answering questions, note taking, learning to persuade listeners and other abilities. The current method of “learn it once and move on” neglects these complex skills that need to be developed over time and through considerable repetition. Debating does this by, during each iteration, calling on all of these skills by those participating. 4. Students are taught to “accept” and not to “question.” The truth comes from the teacher as unassailable fact and the student becomes a habitual receiver of that information. The student is not taught to question and find the fault in what is offered. This poorly prepares students for the real life situation of competing advocates offering their own perspectives and asking the citizen to wisely choose between them. Modern education does not train young people to find faults, ask difficult questions and to test ideas that are being offered to them. Thus, in life they may find it hard to do what they are Debate: Critical Method for the 21st Century 95 rarely trained to do in school. Debating, on the other hand, makes as one of its absolute principles that they need to question and find fault with the ideas of the other side. Debating as important bundle of educational experiences For each of these five ills, I believe that debate is a possible solution. Debate provides the potential for independent vigorous free thought and dialogue. Debate cannot easily be policed or controlled, and its process requires active thinking. Classrooms are increasingly important spaces to teach students intellectual survival skills. I believe that using debate as an educational and/or classroom technique is valuable in addressing these issues and how citizens deal with them. Debate teaches content as well as process and requires information acquisition and management. Different aspects of an issue must be investigated and understood by the debater. Debaters learn how to gather information and marshal that knowledge for their purposes. The process of debating is dynamic, fluid, and changing. Every day brings new ideas and new arguments. Every opponent uses some arguments that are expected and some that are not. Connections need to be made between the arguments in every debate as debaters search for ways to use what others have said against them. Debaters also learn to compete against others in the realm of ideas while cooperating with team and class members in their efforts. Debaters learn to cooperate in order to compete. Debaters must critically analyze and deconstruct ideas presented by their opponents in preparation for doing the same thing for the rest of their lives in all of their information transactions. Debating inherently involves a number of essential processes. It is easy to see how these processes add extra dimensions to the learning situation. 1. State your case. Any essay will do this, of course. 96 ALFRED C. SNIDER 2. Clash with a critique the arguments of the other. This is rarely done in modern media, and even more rarely in schools. 3. Defend your own arguments from the critique of opponents. Media time allocation does not allow this, nor are there many teachers who are willing to defend their arguments against critical analysis. 4. Develop a perspective on all issues that enables a decision about the question at hand. The discussion needs to be packaged for a decision by an audience, which rarely happens today in politics or in education. Debate calls to task simplistic public dialogue and foments a kind of global critical thinking. By encouraging participants to look carefully at the root causes and implications of controversies, and by teaching students that experts often have their own interests in mind when they produce facts and norms, debate can create a powerful resistance to many problems that seem to overwhelm us today. Most important, debate teaches a method of critical questioning and learning that can help anyone who seeks out new interpretations. Debates encourage students not only to debate about content but also about the frameworks of problems and how to solve them. Debate heightens mental alertness by teaching students to quickly process and articulate ideas. Thinking on their feet, debaters are required to hear an idea and then provide a response. This pressure-laden scenario enhances the educational outcomes and spontaneity of debates. Empirical results Most of us working in this field believe that debating has a very positive academic impact on the students who participate. However, the opinions of committed enthusiasts is not going to influence school systems and ministries of education. Only rigorous empirical research can do this. Some of the earlier studies of the academic impact of debating were flawed in very important Debate: Critical Method for the 21st Century 97 ways. However, now we seem to have a series of peer reviewed studies that suggest that the relationship is quite strong between debating and academic success. Competitive debating Academic performance by African Americans in the USA is an example of an education system failing an important population. Fewer than half of African American high school students finish school. Debate can make a real difference. Mezuk (2009) examines data from Chicago Public Schools and the Chicago Debate League from 1997 to 2006. Overall, more than three quarters of debaters graduate, compared to barely half of non-debaters. The effects for African American males are even bigger: African American males who participate in debate are 70 percent more likely to graduate and three times less likely to drop out than their peers. A variety of other studies have confirmed these findings. According to the National Association for Urban Debate Leagues compendium of research (NAUDL 2010). Studies of students in Chicago, Kansas City, St. Louis, Seattle and New York (2004) concluded, "Academic debate improves performance at statistically significant levels on reading test scores, diminishes highrisk behaviors, and improves academic success and student attitudes towards higher education." In another study, in Minnesota in 2005, the findings included: • Debaters scored 36% higher on the reading post-test than on the pre-test. This improvement is 61% greater than improvements among the comparison group. • 80% of debaters reported no attendance problems compared to 49.02% with no reported attendance problems among the comparison group. • Debaters averaged 15% higher self-esteem than the comparison group, and this boost in self-esteem was positively correlated with 98 ALFRED C. SNIDER the duration of debate participation: the longer he/she debated, the wider the differential. • By the end of their first year of debate, 100% of the debaters reported an increased interest in their classes. • Compared to the comparison group, 87% of debaters were better able to analyze information. • On a 4.0 scale, the gross average of debaters' 2006 GPAs was 2.97, compared to 2.5875 among the comparison group. Returning debaters averaged a 0.13 increase in their GPAs, while returning comparison group members lost an average of 0.10 points. • 100% of Minneapolis urban debate league debaters were unlikely to engage in negative risk behavior (drug use, early pregnancy, and alcohol). Debaters scored the highest possible score on this indicator. Classroom debating One of the earliest results from the application of debating as a technique to use in classrooms teaching non-debate subjects was gathered in Providence, Rhode Island by Frank Duffin (2005). He was the principal of the school, so he was able to make broad changes in the way courses were taught. He divided the school into three groups: A.) debate across the curriculum used heavily in classes, B.) debate across the curriculum used sparingly in classes and C.) debate across the curriculum used not at all in classes. He took baseline information from the entire school in 2002. In 2003, after the program had begun, the results were mixed. In basic reading comprehension, students in group A.) finished 20% ahead of Group B.) [24 vs. 20] and 33% ahead of group C.) [24 vs. 16.7]. In 2004 students in A.) gained an additional advantage, rising to a score of 28 while the other two group reading comprehension scores had actually fallen. In a study of student ability to analyze and interpret world problems, all three groups improved from a score of 9.5 in 2002 to a score of 12 in 2003, but then the differences really emerged and in 2004 students in Debate: Critical Method for the 21st Century 99 group A.) improved to 20 while group B.) improved to only 14 and group C.) scores actually declined. At this point parents of those in group C.) demanded that their students be included in the debate across the curriculum method and the experiment was discontinued. In a recent study of students in Hong Kong, Sam Greenland (2010) was able to show that debate training of high school students showed considerable promise. He found that many of the issues that had been raised about previous studies did not seem relevant. He found that it was not true, as some had suggested, that male students learned debating better than females, but that both gained knowledge and skills equally. He also found that those students, who were more academically able, based on previous performance, did no better than their poorer performing comrades, indicating that debate is not just “for the smart” but can be done by almost all students. Finally, he discovered that abilities in speaking English (the debating activities all took place in English) did not influence the amount of debating expertise developed, and that those with less English speaking ability still performed very well in the debates that were scored. Thus, these findings may serve to answer some of the concerns that debating only helps some, or the gifted or the verbally able. The results in a large controlled study showed that debating helped everyone. As of this time I am awaiting Greenland’s findings about the future academic success of these students and whether debating improved their overall performance, and preliminary analysis of the data indicates that debating did, indeed, improve overall academic performance significantly. Conclusions Those we teach today will spend the rest of their lives in the future. It is essential that we understand how the present is different from the past and design our educational experiences accordingly. All over the world educational systems are being reorganized to emphasize active learning, critical thinking and creativity. I do not pretend to believe that debating is a magic bullet for all 100 ALFRED C. SNIDER of the issues we face, but I do think it is a very strong candidate for something that can be done to better prepare students for the future. A democracy cannot just be a form of government; it must also be a state of mind. In democracies we get the governments we deserve, and if your voters are passive, accepting and lack critical thinking capacities and abilities to speak out, we will have more of the same, more of what we have now. I believe that we can greatly improve all of our societies by raising up a generation of debaters to become a new generation of citizens. BIBLIOGRAFIA Duffin, F. (2005), Debate Across the Curriculum Results, privately published paper. Freire, P. (2007), Pedagogy of the Oppressed, New York, Continuum. Greenland, S. (2010), More Debates in More Classrooms, Keynote Speech at 3rd International Conference on Argumentation, Rhetoric, Debate and the Pedagogy of Empowerment, Maribor, Slovenia, «http://debatevideoblog.blogspot.com/2010/10/lecture-more-debates-in-more-classrooms.html» Mezuk, B. (2009), Urban Debate and High School Educational Outcomes for African American Males: The Case of the Chicago Debate League, The Journal of Negro Education, Vol. 78 n. 3, pp. 290-304. National Association for Urban Debate, (2010), Urban Debate Works Evidence Center, «http://www.urbandebate.org/literature.shtml» Newman, D. (2010),The Noisy Classroom, Keynote Speech at 3rd International Conference on Argumentation, Rhetoric, Debate and the Pedagogy of Empowerment, Maribor, Slovenia, «http://debatevideoblog.blogspot.com/2010/10/lecture-noisy-classroom- debate-for.html» Snider, A. Schnurer, M. (2006), Many Sides: debate Across the Curriculum, New York, iDebate Press. ANTONIO MARTÍN SANCHEZ Con Acento Abstract Il torneo di dibattito Con Acento è finalizzato a formare oratori che si rivelino capaci, competenti e leali anche nella sfera pubblica, rivalutando nel contempo il modo di esprimersi, o “accento”, della terra andalusa. Aperto a tutti gli studenti dei corsi pre-universitari dell’Andalusia, Con Acento si distingue dalle consuete competizioni dibattimentali per diversi aspetti: la partecipazione è completamente gratuita e l’amicizia prevale sulla competizione grazie alla creazione di un contesto che mira a far socializzare e dilettare i partecipanti. Inoltre i giudici del programma Con Acento si dedicano alla formazione dei dibattenti anche al di fuori del periodo di feedback e, dal punto di vista della valutazione, particolare merito sarà riconosciuto alla squadra più capace di valorizzare i punti comuni delle due posizioni contrastanti. Tali caratteristiche, che distinguono Con Acento da altre iniziative simili, sono le basi e i pilastri dell’obiettivo principale che si propone questo torneo, ossia estendere il dibattito, come strumento educativo, a tutte le scuole pre-universitarie. El Torneo de Debate para jóvenes promesas de Andalucía Con Acento nace, en primera instancia, con dos objetivos claros. No obstante, superados estos, Con Acento conlleva y apareja un sinfín de retos, dibujados en caminos con un destino claro que intentaré describir de forma clara en esta intervención. Conociendo la meta intentaré desgranar, objeto de esta ponencia, la gestión y el desarrollo del torneo. Pero empecemos por el origen y conocer qué es Con Acento. Con Acento es un Torneo de Debate para jóvenes de toda Andalucía, región del sur de España con más de 8 millones de habitantes. En él participan más de 100 estudiantes de último curso de bachillerato (enseñanza preuniversitaria) distri- 102 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ buidos en 24 centros de enseñanza que presentan equipos de cuatro integrantes y un profesor capitán que se encarga de la selección de los participantes y su formación previa al torneo. El torneo se desarrolla en Sevilla, capital de Andalucía, en sede universitaria, durante cuatro días. El origen de Con Acento marca la idiosincrasia del mismo. Con Acento nace tras la unión de varios estudiantes debatientes en torneos universitarios. Cansados del modelo tradicional de gestión de los torneos, proponemos un modelo diferente dónde la formación se una de forma radical al compromiso social. Antes de continuar, los dos objetivos principales de Con Acento: El primero, poner el acento en nuestros jóvenes. En el año 2009 surge en España el concepto, creado por los mass-media y poco fiel a la realidad, ni-ni. Ni-Ni, que quiere decir "ni estudio ni trabajo" hace alusión de forma generalista a toda una generación de jóvenes que son calificados de vagos, despreocupados, con falta de formación, desinteresados de dialogar sobre temas de trascendencia. El concepto nace como producto de la "telebasura" pero su calado social es profundo. Unido a problemas que acechan a la juventud, difícil acceso a la vivienda, alta tasa de paro juvenil, etc. empieza a surgir la reacción, puramente falaz, de que las nuevas generaciones son "peores" que las anteriores, identificada en el dicho "estos jóvenes de hoy en día(, no son los de antes)". Baste mirar los datos de formación y nuestros resultados, no sólo académicos, también, por ejemplo, deportivos, para saber que cada generación que surge en España está más capacitada que la anterior. Con Acento nace como instrumento de doble vía. La primera, ante la sociedad, poniendo en valor la capacidad de nuestros jóvenes, su intención de participar en la vida pública de forma rigurosa y con talento, evitando discursos demagógicos o vacíos de evidencias. La segunda, ante los jóvenes, siendo canal de participación pura y medio de expresión de valores. El segundo objetivo, reivindicar una forma de expresión propia de la tierra, rica, ágil y expresiva, que es el acento Andaluz. Andalucía sufrió, durante la dictadura franquista, una gran represión y falta de inversión. La imagen (alejada de la realidad) de Andalucía se consolidó, para el resto de España, Con Acento 103 como una tierra de agricultura especialmente analfabeta y cateta, dónde la fiesta primaba sobre el trabajo y el contacto con nuestra cultura se resumía en la gran pantalla al servicio doméstico, que siempre era interpretado por andaluces. Durante la etapa democrática Andalucía ha sido capaz de romper ese falso paternalismo y sentirse orgullosa de su tierra y su cultura y es una de las regiones más prosperas del país. La Andalucía de Lorca, Picasso, Juan Ramón Jiménez y otros muchos artistas, investigadores, emprendedores, etc. camina con paso firme y es una referencia internacional por su alegría, calidad de vida, y por sectores emergentes como la aeronáutica, biomedicina o energías renovables. Pero aún permanecen estigmas de esa imagen falsa y tópica que ha quedado encerrada en España (es curioso que fuera de España casi todo lo que suele representar al país es cultura Andaluza). Uno de esos estigmas, y quizás el más relevante, es nuestro habla. El acento Andaluz sigue, aunque cada vez menos, identificándose, especialmente en ciertos círculos como es el debate de competición o académico, como "vulgar", "gracioso", "poco serio", "no riguroso", etc. Describir la riqueza del andaluz como habla o lengua nos llevaría una ponencia completa y no es el caso. Con Acento pretende afianzar el orgullo de nuestros jóvenes por sus raíces y en especial, por la forma de expresión de un pueblo, así como reivindicar el uso de nuestro habla en ámbito académico con seriedad, precisión y rigurosidad sin la renuncia a las características propias de este. Enunciados brevemente los dos objetivos que dan lugar al juego de palabras que pone nombre al torneo, Con Acento se desarrolla en una esfera mucho mayor, dando lugar a una forma de entender el debate de competición que ha terminado por gestar una sociedad con su mismo nombre. Pero, ¿que características definen el proyecto frente a otros? Y sobre todo, ¿Que parte de ellas es responsabilidad de la gestión del mismo? Aunque sean muchas las características diferenciadoras, expondré las más representativas. Una desazón que nos unía a los promotores era la alta competitividad existente entre los debatientes de torneos universitarios. La competitividad entendida en el seno del torneo puede resultar positiva, pero sin lugar a dudas 104 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ no lo es fuera de este. Ver a equipos ya eliminados sin compartir palabras o ni siquiera conocerse y respirar una tensión, la mayoría de las veces impuesta por los preparadores, es innecesario más allá de cuando el crono se para. En este sentido es importante conocer la tradición del debate en España. La mayoría de los clubes de debate en España, jóvenes todos ellos, son de Universidades Privadas. Una de las razones que mueven a esa competitividad exagerada es la necesidad, por parte de las instituciones, formadores y alumnos, de distinciones. Distinciones que atestigüen una calidad o excelencia que normalmente la Universidad Pública (esta tendencia está cambiando) no necesitaba obtener para la captación de alumnos. Que el debate sea (o haya sido gestionado) fundamentalmente por Universidades Privadas, casi todas ellas de carácter religioso, ha determinado un modelo (muy endogámico) con ciertas características, una de ellas la competitividad, y dónde Con Acento marca un punto y aparte en el mundo del debate. Pero, ¿cómo combatir la tentación de competir y a la vez no perder el rigor del torneo? Con Acento es más que debate. Con Acento busca ofrecer a sus participantes una experiencia que les enganche al debate de por vida. Así, para fomentar vínculos de amistad, el reparto de habitaciones en el albergue es aleatorio, no pudiendo dormir juntos nunca dos integrantes de un mismo equipo. Algo tan exiguo al debate en sí (y que nos genera tantas críticas el primer día) es una apuesta para evitar stress, entrenamientos nocturnos, fomentar el conocimiento de otros compañeros y sobre todo, formar redes entre todos los participantes. Esta idea es repetida en todas las actividades que se realizan durante el torneo con la intención de convertirlo en una experiencia, como visitas a la ciudad o al parlamento, teambuildings, actividades de dinamización... Pero, si hablábamos de cambiar el modelo y el modelo era gestionado por centros de educación privada, algo indispensable es la gratuidad. Con Acento tiene coste cero para centros y participantes desde que salen de casa (la organización facilita hasta los billetes de tren con mejor combinación), alojamiento, comida, transporte… y por supuesto, todas la actividades y materiales gracias a nuestros patrocinadores. Así, tienen las mismas opciones de Con Acento 105 participar cualquier centro interesado o estudiante que conozca la actividad, requiriéndose para la inscripción únicamente una carta de motivación. Hoy por hoy, Con Acento es el único torneo en España totalmente gratuito para sus participantes. Sería difícil sin esta seña de identidad mantener el firme compromiso social que existe en Con Acento y que este trasmite. Desde los dos objetivos principales, que poseen un marcado carácter social hasta la elección de los temas a debatir (siempre dos, se sortea antes del comienzo de cada debate el tema que será debatido en esa ocasión) y que hacen posible la presencia de patrocinadores muy diversos y respetados (como puede ser la Universidad Pablo de Olavide, el Defensor del Pueblo Andaluz, instituciones públicas…) Los temas que se han debatido en las última edición han sido: ¿Favorece la globalización a los países subdesarrollados? Y ¿Justifican las medidas de seguridad los sacrificios de derechos civiles? La repercusión que el torneo ha obtenido ha superado con creces las expectativas, tanto sociales, mediáticas, como por instituciones, patrocinadores y participantes. Este compromiso del que hablábamos afecta directamente a uno de los pilares básicos de Con Acento: Extender el debate como herramienta educativa por los centros preuniversitarios de Andalucía. Así, los capitanes, siempre profesores de los centros correspondientes, se convierten en objetivos tan prioritarios como los alumnos, y desde la organización se presta un especial interés a su formación, antes, mediante el envío de guías de debate, manuales, videos, etc… Durante; en los feedbacks, y posteriormente, manteniendo un contacto con ellos y facilitando información y asesoramiento para generar estructuras de debate que permanezcan en el tiempo en los centros. La carencia que existe en el modelo educativo español de participación proactiva por parte del alumno es preocupante añadida al cambio de evaluación por competencias que establece el Espacio Europeo de Educación Superior hacen del debate una herramienta idónea, para valorar y potenciar competencias (Dominio del lenguaje verbal y no verbal, capacidad para improvisar, de síntesis, análisis, gestión del tiempo, autocrítica y honestidad, trabajo en equipo, capacidad crea- 106 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ tiva, empatía, superación de situaciones de stress, capacidad de investigación y uso transversal de los conocimientos y mayor facilidad comunicativa, como mínimo, según el estudio de A. Barco, miembro de la organización) y para los docentes a la hora de estructurar una participación de calidad y evaluable que motive al alumno, desde la investigación de contenidos, aplicación de las enseñanzas básicas y desarrollo como disposición transversal de los contenidos. Precisamente otra de las características principales del torneo son los feedbacks que se realizan tras los debates. Con Acento es una oportunidad para aprender al ser el primer contacto de todos sus participantes con el debate y los jueces y la organización son conscientes de ello. Así, los jueces motivan el resultado y aconsejan a los participantes al finalizar cada debate por un tiempo igual a la duración del debate. Por eso, uno de los criterios que priman a la hora de seleccionar los jueces es su capacidad pedagógica y la plantilla es el doble que la necesaria para dedicar el tiempo necesario a la formación, no sólo en feedbacks, sino en los espacios de tiempo libre que tienen los participantes dónde coinciden con los jueces. El progreso que experimentan los participantes desde su primer hasta último debate (3 como mínimo, 7 los finalistas) es algo que sorprende a los mismos debatientes, capitanes y público. La implantación en las aulas, objetivo del torneo, es total en el caso de los profesores en su docencia particular y son bastantes los centros que han comenzado a realizar torneos internos, formar otros docentes, incluirlo en los programas de asignaturas, etc. Por lo que una parte imprescindible de los feedbacks es asesorar a los docentes en como estructurar debates, diferentes opciones, como plantear los temas, motivar a los debatientes, evaluarlos, etc. El debate, es visto por los participantes, como una herramienta totalmente diferente a la que creían antes de acudir a Con Acento (el modelo televisivo es el referente) y sorprende su orden en las intervenciones, la profundidad que puede alcanzar, el respeto por el rival y la implicación que logra obtener. Así, y teniendo en cuenta que nos dirigimos a un público sin vicios generados por un modelo de debate, introducimos un nuevo factor a la hora de juzgar nuestros debates. Es por eso que decidimos valorar muy positivamente la búsqueda de consensos y puntos de encuentro con el equipo que defiende la postura contraria. Este factor a la hora de puntuar es totalmente innovador. Con Acento 107 Confundido muchas veces el debate, la defensa de posturas antagónicas, como un espacio dónde no caben datos comunes, argumentos válidos para reforzar una u otra postura en función del análisis que le acompañe, o incluso puntos aceptados por ambas partes. Con esto premiamos el acercamiento al otro, la búsqueda del consenso fruto del disenso y evitar debates paralelos, sin interactuación con la otra parte que poco producen, más que el espectáculo, al carecer de puntos de encuentro. Por último, el premio al ganador. Es fundamental que el premio no desvirtúe el espíritu con el que los centros acuden, y mejor aún, con el que los participantes salen del torneo. Por eso, el verdadero premio es participar en la experiencia, aprender divirtiéndose y pudiendo aplicar lo aprendido de forma inmediata, y “llevarse a casa” una ristra de amigos y contactos apasionados por el debate. A los ganadores, la organización les regala una beca para estudiar de forma gratuita el primer año en la Universidad Pablo de Olavide. Trazados por encima los principios que dirigen el torneo y nuestros caracteres diferenciadores, quisiera terminar con algunos aspectos prácticos de la gestión del torneo. No es el lugar, ni mía la intención, aunque si cualquiera de los presentes tiene curiosidad, de hablar de cifras y datos en detalles, pero sí repasar por encima el modelo de debate para que sirva de comparación. Con Acento tiene una duración de cuatro días y participan un total de 24 centros. Las solicitudes triplican el número de plazas disponibles (que la organización se está planteando en aumentar para la tercera edición) por lo que se establecen varios criterios a la hora de seleccionar a los participantes, manteniendo una distribución territorial equilibrada, un cupo mínimo de nuevos equipos, un ratio mínimo entre centros públicos y centros privados y una carta de motivación redactada por el capitán. Una vez seleccionados los equipos, se desvelan los temas de la edición como mínimo un mes antes del inicio del torneo, que siempre son dos. El transcurso del torneo se divide en una fase de grupos, dónde debaten todos contra todos, y una fase final o de playoffs dónde se clasifican los 16 mejores equipos. 108 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ Los debates, en los que se celebra sorteo para elegir el tema de entre los dos posibles y la postura que defenderá cada equipo, tienen una duración de 30 minutos, dividiéndose en cuatro intervenciones para cada equipo alternas; introducción (4´), primera refutación (4´), segunda refutación (4´) y conclusiones (3´). Durante las refutaciones está permitido, siempre bajo la concesión del orador, interpelar desde el equipo que no está en el uso de la palabra. El Jurado, formado por un Juez principal (miembro de la organización) y dos auxiliares (un exdebatiente ajeno a la organización con una trayectoria reconocida y un profesor universitario) delibera en torno a los siguientes ítems: 1. Responde a la pregunta de debate 2. Argumentos definidos 3. Argumentos variados 4. Adecuación del discurso al propio debate 5. Uso adecuado de los turnos 6. Pertinencia de las interpelaciones y agilidad en las respuestas 7. Actitud y coordinación del equipo 8. Rigor evidencias 9. Evidencias más variadas 10. Análisis de las evidencias 11. Recursos externos al orador 12. Naturalidad y expresividad 13. Dominio espacio y del tiempo 14. Dominio voz y silencios 15. Comienzos cautivadores y finales contundentes 16. Lenguaje variado y apropiado 17. Actitud respetuosa No obstante, a pesar de la puntuación obtenida en la hoja de ítems (ambos equipos pueden alcanzar el ítem en mayor o en menor grado, no son excluyentes), el jurado determina el ganador del debate en base a su impresión general, Con Acento 109 sirviendo la hoja de ítems para orientar y dirimir en caso de empates en la fase de grupos. Los criterios para clasificar a playoffs son el número de victorias, menor número de faltas graves o leves (falta leve es interrumpir al orador del equipo contrario sin su permiso o excederse del tiempo de intervención prolongadamente) Todos los debates son grabados para su posterior análisis y ayuda a la investigación por parte de la organización. Todos los debates se celebran en la Universidad si bien no todas las actividades se celebran, como hemos anticipado, en esta. La organización prepara multitud de actividades para fomentar la convivencia en la ciudad de Sevilla. En sus dos primeras ediciones Con Acento contó con financiación totalmente pública de diversas instituciones. Por último, no puedo olvidar el factor de éxito de Con Acento y que me toca aquí representar, su equipo humano. Con Acento es el fruto del trabajo de más de 20 personas, en su totalidad, estudiantes universitarios, que desarrollan la actividad sin ningún ánimo de lucro, más que por su afición al debate. Ellos han sabido configurar un clima de profesionalidad extrema, dónde la imagen es cuidada al detalle, los ritmos medidos al minuto y la atención al participante es extrema. No obstante, a pesar de esa profesionalidad que hace al participante observar la importancia del evento y aprovechar cada segundo, el equilibrio con la cercanía hace que los alumnos se sientan como en casa. Todo ello, sin más recompensa que la formación y las sonrisas de los debatientes. CLAUDIO FUENTES BRAVO CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico Abstract I dibattiti formativi praticati negli Stati Uniti e replicati con forza in America Latina rappresentano un approccio filosofico antropologico-relativista in quanto orientati all’uditorio e alla persuasione. Un approccio al dibattito che faccia riferimento ad un approccio critico razionalista deve invece confidare nella forza logica degli argomenti e orientarsi alla riflessione e alla risoluzione dei conflitti. Pertanto, per condurre gli studenti ad acquisire queste ultime capacità, è necessario un progetto di dibattito formativo che si distingua da quello antropologico-relativista e non ne perpetui gli errori. La presentazione di tale modello, in chiave pragma-dialettica, sulla scia di van Eemeren e Grootendorst e della Scuola di Amsterdam, sarà l’obiettivo di questo articolo. Il modello di dibattito da noi elaborato si differenzia da quello antropologico-relativista per due nuovi principi: lo scopo perseguito non è il trionfo personale quanto invece l’interesse dell’intera collettività che si propone di risolvere un conflitto; il modo di perseguire lo scopo è un processo da realizzare attraverso forme argomentative dotate di validità formale e informale, di rilevanza conoscitiva e/o di peso probatorio. In questo contesto le quattro fasi della discussione critica pragma-dialettica permetteranno di capire quando il dibattito soddisferà i requisiti della discussione critica e quando invece no. Per evitare che il dibattito si risolva in una discussione tra sordi è introdotta inoltre una terza squadra che migliorerà il flusso delle informazioni tra le due squadre antagoniste e limiterà il rischio che siano omesse informazioni rilevanti. Infine, rompendo definitivamente con la tradizione del dibattito retorico, i partecipanti non dovranno cercare l’adesione del pubblico ma sforzarsi di 112 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ presentare una proposta ragionevole per la risoluzione del conflitto di opinioni, impegnandosi anche, con uno sforzo metacognitivo, ad impugnare le loro stesse conclusioni. Solo introducendo e riservando un’ulteriore terza fase di riflessione sulle argomentazioni, proprie e altrui, emerse nell’incontro, il dibattito potrà dirsi e diventare veramente critico. 1. Diseñando situaciones argumentativas Tal como expresaran Jacobs y Jackson en Designing argumentation protocols for the classroom (2002), nuestro propósito fundamental en este manuscrito es “ampliar la pragma-dialéctica hacia una empresa de diseño1”. Aunque por razones que iremos mostrando a lo largo de este manuscrito, no sólo intentaremos ampliar la pragma-dialéctica, sino que además intentaremos integrar ésta a otros enfoques, que serían susceptibles de incorporar a un plan de diseño para dar cuenta de una situación argumentativa compleja. La línea de pensamiento que se sigue al identificar un discurso como diseñable –afirman Jacobs y Jackson (2002)- “(…) tiende cada vez más a la intervención activa en escenarios donde se da la argumentación – y el tipo de práctica que se deduce de la intervención motivada por la teoría, tiende cada vez más hacia una empresa de diseño disciplinado”. La capacidad de la pragma-dialéctica para el diseño se desprende básicamente de su visión procedimental (Jackson y Jacobs 2006; Jackson y Aackhus 2005). Así, para Jackson: La argumentación que se produce en todos los tipos de discurso como un método para reparar el desacuerdo, opera según procedimientos que son más o menos formales e invocados de manera más o menos explícita. Estos procedimientos definen roles de participación, formas permitidas de acción 1 Jackson define diseño en sentido general (2002, p. 106), como el empleo de conocimiento teórico para resolver problemas prácticos a través de la construcción de cosas o de la “construcción ingeniosa”. En el contexto de la argumentación los autores se refieren a la resolución de “problemas insolubles” en situaciones de conflicto. Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 113 comunicativa, y otras características tales como la concesión de la presunción a una u otra parte en una disputa. (Jackson 2002, p. 106) La situación argumentativa que abordaremos en este manuscrito es el debate académico2, y en relación con ella plantearemos una serie de consideraciones a partir de las cuales surgirán exigencias que intentaremos incorporar a una propuesta de diseño. En lo que sigue realizaremos un recorrido selectivo de enfoques teóricos que pondrán a prueba la consistencia de una situación dialógico-argumentativa como el debate, con los requisitos mínimos de su adecuación pedagógica. 2. Fundamentos para un enfoque crítico de debate académico El debate en términos generales es una práctica cultural signada por un ideal de razonabilidad, lo que genera, a su vez, una gran dificultad para converger en una definición del concepto mismo de razonabilidad (Hoppmann 2009; Zarefzky 2009). Lo razonable para los griegos –recordemos-, se erigió como un bien de discusión pública. Aún hoy persiste cierto consenso ilustrado que defiende esta juiciosa práctica, pero no siempre ha sido así. La historia de occidente, de hecho, se ha empecinado más tiempo en identificar lo razonable con aquello que se deduce a partir de verdades reveladas, aquello que se negocia únicamente por el mérito de las razones. En relación con lo anterior, van Eemeren y Grootendorst (2003) distinguen entre los enfoques descriptivos, en teoría de la argumentación, que favorecen una concepción antropológica, como es el caso de la lingüística y la etnografía, de los enfoques normativos que favorecen una concepción crítica, como ocurre en la lógica y los enfoques pragmáticos. 2 Según Freeley y Steinberg (2009), el debate es un proceso de interrogación y defensa, una forma de llegar a juicios razonados sobre una proposición. Los debates académicos tratan sobre una proposición con un interés académico (educacional) y es típicamente presentado por un profesor, un jurado o una audiencia que tienen incidencia directa en la decisión sobre la proposición. 114 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ Tanto la práctica del debate académico (Branham 2001; Freeley y Steinberg 2009; Snider y Schnurer 2002), como los enfoques dialécticos contemporáneos de la argumentación (Barth y Krabbe 1982; Lorenzen, 1978, 2000; Kuno Lorenz, 1978, 2009; van Eemeren y Grootendorst 2003, 2007) comparten supuestos “muy familiares” para racionalistas críticos y trascendentalistas pragmáticos. Como ejemplo de esta familiaridad leamos lo que dice Branham acerca del debate académico: Si el debate es “el proceso mediante el cual las opiniones son presentadas, apoyadas, disputadas y defendidas”, la ejecución de estas acciones a su vez requiere que los argumentos utilizados tengan ciertos atributos. Por ende, el verdadero debate depende de la presencia de cuatro características de la argumentación: 1) Desarrollo: Los argumentos son presentados y apoyados; 2) Confrontación: Los argumentos son apropiadamente refutados; 3) Extensión, a través de la cual los argumentos son defendidos tras ser refutados; y 4) Perspectiva: Los argumentos individuales son relacionados a la interrogante principal del debate (Branham 1991, p. 22) Si tenemos en cuenta los enfoques teóricos señalados hasta aquí, el componente crítico en una perspectiva dialéctica estaría dado por la voluntad compartida de resolver una diferencia de opinión. Por otra parte, el aspecto crítico de la voluntad de resolución sería externo, se incorporaría a través de un criterio adicional de razonabilidad, según el cual el procedimiento argumentativo debería orientarse. Un modelo de debate inscrito en una tradición dialéctica tendría que, en virtud de lo dicho, aspirar a alcanzar acuerdos basados en argumentos válidamente emitidos y no en razón de su éxito persuasivo. Lo que parece una obviedad, no lo es tanto, de momento que constatamos que la práctica de debate académico promueve la incorporación, y frecuentemente, la priorización de habilidades performativas verbales en desmedro de las cognitivas orientadas al análisis y producción de argumentos. Por otra parte, si además de suscribir una tradición dialéctica el debate académico pretende orientarse críticamente, su fin no debería ser otro que la búsqueda sistemática de la aceptabilidad de los argumentos que sostienen un punto de vista. Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 115 Hasta aquí, un buen lector de filosofía contemporánea podría encontrar en una propuesta dialéctica y crítica de fundamentación del debate académico familiaridad teórica con el pensamiento de Apel y Habermas. No obstante, las pretensiones universalistas de una fundamentación trascendental, parecen acercarnos más al racionalismo de Karl Popper y Hans Albert.3 “La actitud crítica, la tradición de la libre discusión de las teorías con el propósito de descubrir sus puntos débiles para poder mejorarlas, es una actitud razonable, racional. Hace un uso intenso, tanto de la argumentación verbal como de la observación, pero de la observación en interés de la argumentación... La exigencia de pruebas racionales en la ciencia indica que no se comprende la diferencia entre el vasto ámbito de la racionalidad y el estrecho ámbito de la certeza racional: es una exigencia insostenible y no razonable.” (Popper 1983, p. 75) La familiaridad que proponemos de un enfoque dialéctico y crítico del debate académico con el racionalismo crítico se puede revisar a la luz de la exposición que Albert hace del trilema de Münchhausen. “Si se pide para todo una fundamentación, entonces debe pedirse también para los conocimientos a los cuales se haya retrotraído la concepción por fundamentar, lo cual lleva a la situación con tres alternativas que son por igual inaceptables, o aparecen como tales: 1) un regreso al infinito, que no es realizable y por eso no proporciona fundamento alguno; 2) un círculo lógico en la deducción, cuando se recurre a enunciados que ya antes se habían mostrado como enunciados que requieren fundamentación, lo que tampoco conduce a un fundamento seguro porque es lógicamente defectuoso; y 3) una interrupción del procedimiento en un punto determinado, que si bien parece realizable en principio, implicaría sin embargo, una suspensión arbitraria del principio de la fundamentación suficiente”. (Albert 1973, p. 25) 3 No profundizaremos en esta prolífica y profunda discusión, esencialmente por razones de espacio. La discusión al respecto se encuentra abierta para la filosofía. Para quien quiera profundizar recomendamos la lectura de “La disputa del positivismo en la sociología alemana” (Adorno et al. 1972). 116 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ El racionalismo crítico sostiene la imposibilidad de una fundamentación última para la filosofía, pretensión que se esboza en oposición tanto del racionalismo clásico moderno como de la crítica trascendentalista kantiana del conocimiento4. En opinión de Appel (1987) el racionalismo crítico combina (1) el distanciamiento de un racionalismo que no ha reflexionado críticamente sobre la imposibilidad de auto-validación con (2) la afirmación de que el programa filosófico de fundamentación puede ser sustituido por un programa alternativo de crítica racional ilimitada. De manera intuitiva, estaremos de acuerdo con que un programa académico (educacional) de debate coincidiría (dado nuestro conocimiento del debate cotidiano) con la descripción de (o debería fundamentarse como) un programa de crítica racional ilimitada. Por otra parte, aunque de manera menos intuitiva, podríamos coincidir con la otra parte de la observación de Appel, que el racionalismo crítico (entendamos aquí debate académico) se distancia de cierto racionalismo (modelos retóricos de debate) que no ha reflexionado sobre su imposibilidad de validación. Por lo anterior, nos interesa en este manuscrito el enfoque problematizador del racionalismo crítico, y más aún, la salida planteada por Popper al trilema de Münchhausen a través de la aplicación sistemática de su criterio de contrastabilidad a los enunciados básicos de una teoría. La contrastabilidad, según su propuesta, determinaría el contenido empírico de teorías y enunciados en “grados de contrastabilidad”. En otras palabras, cuanto más y mejor puede ser sometido a contrastación un enunciado (sin llegar a ser falsado), tanto mayor es su contenido empírico. 4 Una crítica a los argumentos de Albert ha sido expuesta con profundidad por Apel en The Problem of Philosophical Foundations in Light of a Transcendental Pragmatics of Language (1975). Una visión más amplia de la disputa entre los racionalistas críticos y los miembros de la Escuela de Frankfurt, se puede revisar en un clásico imprescindible, La disputa del positivismo en la socialogía alemana (Appel, K. O. et al. 1972). En la misma línea de Appel, Cortina y Martínez (2008) sostienen que el profesor de Manheim se encontraría atrapado también en un “decisionismo dogmático”. En este sentido, los argumentos que defienden la opción de una racionalidad falibilista aparecerían tan arbitrarios como aquellos que son denunciados. Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 117 Al respecto, es relevante destacar la utilidad del concepto de proceso de contrastación en el diseño de instrumentos de evaluación de debates académicos. Si asumimos que “el contenido empírico” será un criterio para diferenciar la fuerza argumentativa de un argumento en razón de otro, entonces es fácil representar en un esquema el proceso dialéctico en el que intervienen pares de participantes entregando argumentos de defensa y de ataque a una proposición controversial. Para el racionalismo crítico una fundamentación última del conocimiento (incluyendo una de naturaleza pragmático-trascendental) es una quimera de la razón. La “voluntad de certeza” –dice Albert- es contraria a la “voluntad de conocimiento”. En definitiva, esta introducción pretende contextualizar la familiaridad del concepto de falibilismo con la práctica del debate académico. El debate cotidiano parece encarnar “en los hechos”, sin haber mediado consenso ni reflexión sobre una determinada praxis, lo que Albert llamó principio de preservación de la voluntad de conocimiento, es decir, que no haya ningún punto de vista posible que se sustraiga a la crítica racional. Las restricciones, las cláusulas a los puntos de vista debatibles, las sospechas sobre intereses, se correlacionan -la historia de las ideas está de nuestro lado- frecuentemente con la aparición de un discurso que reflexiona sobre los límites del conocer o del actuar. 3. Diálogo, debate y metacognición. Snider y Schnurer sostienen en Many Sides: Debate Across the Curriculum (2002) que “(…) en el mundo del debate, es un dogma fundacional que la competitividad motiva el logro intelectual” (Snider y Schnurer 2002, p. 8) No obstante, la competitividad en el mundo de la pedagogía ha sido recurrente y seriamente criticada, en especial por los autores que curiosamente el mismo Snider y Schnurer citan como referentes de su trabajo, a saber, Paulo Freire (2000, 2002) y Peter Mc Laren (1990, 1993, 2005). Más allá de la cita específica de Snider y Schnurer (2002), que a nuestro juicio exhibe cierta desorientación en la fundamentación del debate académico, 118 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ el texto completo de los autores aludidos parece querer fundamentar los beneficios de la práctica del debate académico a partir de un listado de testimonios y opiniones. No ocurre algo muy diferente en otros reconocidos autores de texto en el ámbito del debate académico, a saber, Freeley y Steinberg (2009) y Branham (2001), por citar algunos connotados. En los libros de texto, aún concediendo que se trataría de manuales que intentan meramente guiar la práctica y no reflexionar sobre los fundamentos, no se evidencia un interés por considerar estudios científicos sobre los efectos positivos y especialmente negativos del uso del debate en contextos educativos5. Digamos de paso, que la literatura al respecto es abundante y accesible para cualquier investigador precavido6. La fundamentación de la práctica del debate académico en estos manuales de texto suele dar paso a la persuasión testimonial sobre sus beneficios, por medio de giros retóricos que suponíamos debían ser superados por la práctica de la herramienta que se quiere enseñar. Una referencia muy socorrida en los manuales de texto que tratan sobre debate académico y en muchos casos, la única que se explicita, es el monumental estudio de Matlon y Keele (1984) “A survey of participants in the national debate tournament, 1947-1980”. De cualquier manera, el estudio de Matlon y Keele, siendo una investigación que ilustra con precisión el impacto positivo del debate académico en la vida laboral de los participantes, no entrega datos relevantes para responder el listado de aspectos negativos que el debate produciría o alienta 5 Destacamos la necesidad de referirse a los aspectos negativos ya que son frecuentemente omitidos. Un ejemplo es el listado de Firmin (2007). 6 Los siguientes son estudios en relación con el debate que Firmin (2007) destaca en Using Debate to Maximize Learning Potential: A Case Study: (1) Examen de posiciones opuestas de una cuestión (Mooney 1991; Ingalls 1985), (2) promoción de la igualdad de género y la promoción de las perspectivas feministas (Elliot, 1993; Bruschke & Johnson 1994, y Haffey 1993), (3) promoción de los valores liberales de arte en el currículo (Rohrer 1987), (4) mejora de habilidades de los estudiantes de comunicación (Garrett, Campana, y Schoener 1996), (5) superación de miedos (Gersten 1995), (6) participación activa del estudiante en el proceso de aprendizaje (Crone 1997), (7) habilidades de pensamiento crítico (Colbert y Biggers 1987), y (8) empoderamiento de los estudiantes a asumir la responsabilidad de su propio aprendizaje (Frederick 1987). Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 119 según datos del estado del arte en la investigación de estrategias dialógicas de aprendizaje. Al respecto, parece relevante decir algo sobre las observaciones de algunos autores relevantes como Kuhn (2008), quien sostiene que el examen de lados opuestos de un problema no siempre conduce a los argumentadores a dejar sus posiciones originales. Esto es importante para nosotros toda vez que lo que importa en el debate es el desarrollo del pensamiento crítico (ligado íntimamente al concepto de revisión de creencias) y no del pensamiento dogmático. Como una muestra de las críticas más recurrentes al debate, veamos un resumen que presenta Eyzaguirre et al. (2003): (1) confrontacionalidad (como actitud negativa frente al otro, no como cualidad crítica de análisis, es decir, como contrastabilidad); (2) inflexibilidad del punto de vista, (3) falta de apertura a la revisión de creencias; (4) falta de actitud cooperativa en la resolución del conflicto argumentativo; (5) propensión a desarrollar un clima hostil hacia la contraparte; (6) restricción para la co-construcción de conocimiento; (7) restricción de la discusión a una única proposición por debate. El informe de Matlon y Keele es moralmente neutro. Es decir, podría ser el caso que el debate pudiera impactar positivamente en la obtención de trabajo o en la promoción a mejores puestos dentro de una empresa, pero ignoramos qué tipo de habilidades son las que permiten estos logros y si esas habilidades son aceptables moralmente para un plan curricular o si esas habilidades son prioritarias en un sistema educativo. En lo que sigue, consideraremos las críticas planteadas y propondremos un diseño de debate que nos permita comenzar a superarlas, puesto que un debate, cualquiera, no sólo el debate académico, es un tipo de diálogo. Para determinar qué tipo de diálogo es el debate y cómo podríamos rediseñar sus características en orden a obtener un modelo adecuado a las exigencias de una herramienta de apoyo a procesos educativos, usaremos la clasificación de Rabossi (2002). Este autor distingue entre diálogo y situación dialógica, definiendo a su vez, siete elementos constituyentes de esta última: (1) Un diálogo es una secuencia textual producida por quienes participan en una situación dialógica y, 120 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ (2) Una situación dialógica es un proceso dinámico en el que in- teractúan los siguientes componentes: a. dos o más participantes con capacidad para producir e inter- pretar proferencias lingüísticas, b. un lenguaje común a los participantes y un bagaje adecuado de conocimiento mutuo, c. secuencias de actos de habla producidos por los participantes, d. intervenciones pautadas de los participantes, e. uno o varios tópicos o temas que dan identidad a la situación y permiten fijar la relevancia de los actos de habla de los participantes, f. una meta o resultado posible, no dialógico, que los participantes se proponen alcanzar de manera cooperativa, y g. conjuntos mínimos de cánones, generales o específicos, que regulan el desarrollo y las exigencias participativas de cada tipo de situación dialógica. Las letras a, b, c, d, e y g, representan características verificables en cualquier diálogo-debate, no obstante el componente f, exhibe una característica privativa de situaciones dialógicas cooperativas y críticas, que no encontramos en un diseño de debate tradicional. La categorización de la situación dialógica de Rabossi nos permite cotejar la presencia de todos los elementos estructurantes del diálogo-debate crítico, uno a uno, con la clasificación teórica, destacando los dos últimos (i) presencia de una meta colaborativa y (ii) dotación de un conjunto mínimo de cánones. Ambos elementos entregan un matiz diferenciador al debate como actividad dialógica, reglamentada, estructurada, crítica, cooperativa y no meramente competitiva. Con respecto a lo anterior, los distintos tipos de debate practicados en Estados Unidos y que se han replicado con fuerza en Latinoamérica desde inicios de la década de 1990, como Cross Examination Debate Association, CEDA, Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 121 NDT Debate (Policy Debate) y Parliamentary Debate, entre otros, representan modalidades competitivas –que de acuerdo con van Eemeren y Grootendorst (2003) se identificarían con un enfoque filosófico antropo-relativista orientado a la audiencia, la persuasividad y la prescripción de la conducta. Un diseño de debate que declara su filiación a un enfoque filosófico crítico-racionalista se define en oposición a las características anteriores, y es esencialmente un enfoque orientado a la reflexión y no a la prescripción conductual, y confía en la fuerza lógica de los argumentos y plantea la posibilidad de análisis de una controversia de opinión a través de la reconstrucción estructurada de sus etapas, orientándose fundamentalmente hacia la resolución del conflicto. 4. Características ideales del debate académico como modalidad dialógica Lo dicho hasta aquí respalda la necesidad de proponer un sistema de debate académico que supere ciertas características negativas para contextos educativos. Para cumplir con la exigencia anterior, necesitamos, en primer lugar -usando la conceptualización de Rabossi (2002)- adaptar la situación inicial y la meta del diálogo-debate a las necesidades de una modalidad dialógica híbrida que llamaremos debate-crítico. Para esto, deberíamos sustituir la situación inicial característica de un diálogo-debate tradicional, a saber, la competencia abierta de puntos de vista por la existencia de tesis u opiniones divergentes relativas a un tema o problema común; y sustituir además, la meta perseguida característica de un diálogo-debate tradicional, a saber, obtener el triunfo de mi posición sobre la del otro, por exponer su tesis sobre un tema o problema común, ofrecer argumentos razonables a su favor, evaluar la tesis de la contraparte, criticarla, y tratar de persuadirla de los méritos de la tesis propia. Los detalles de esta hibridación será nuestro próximo objetivo en este manuscrito. Las características especiales del diálogo-crítico aportan al concepto tradicional de debate un par de nuevos principios, estos son, (1) respecto de la cate- 122 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ goría meta perseguida: no debe prevalecer el triunfo personal o el interés propio por sobre el interés colectivo que se relaciona con la resolución del conflicto, y (2) respecto de la categoría modo de alcanzar la meta: se debe persuadir a la contraparte apelando sólo a formas argumentativas evaluables, únicamente en términos de validez formal o informal, relevancia cognoscitiva y/o peso probatorio (Rabossi, 2002) En este contexto, el modelo pragma-dialéctico para una discusión crítica (van Eemeren y Grootendorst, 2003), que define claramente las etapas de una discusión crítica, es muy útil para distinguir cuándo una interacción dialógica cumple con los requisitos de un debate-crítico y cuándo no lo hace. Sin embargo, como es claro, para validar la utilización del modelo pragmadialéctico de una discusión crítica, debemos aceptar antes la analogía entre discusión crítica y debate crítico. En principio, ambos conceptos son intuitivamente equivalentes en sus presupuestos y complementarios en sus efectos para el diseño de un modelo de diálogo-debate. El modelo de discusión crítica se puede definir como un dispositivo teórico que tiene como objetivo ex-post reconstruir una situación argumentativa concreta, a partir de sus partes fundamentales y el debate crítico se puede entender como un modelo teórico que regula ex-ante una situación argumentativa para que se conduzca bajo los criterios que lo definirían como un diálogo crítico. Un punto de partida para diseñar un modelo de debate académico con las características que nos hemos propuesto, es considerar referencialmente el modelo ideal de resolución de disputas de van Eemeren y Grootendorst (2003) compuesto de cuatro etapas, las que corresponden a las cuatro fases de una discusión crítica, y cotejarlo con la experiencia concreta en debate-académico escolar en Chile, que podemos obtener de las opiniones de docentes y estudiantes, extraídas de los Informes Técnicos de Evaluación del Torneo Nacional de Debates 2002, 2003, 2004 y 20057. Este ejercicio nos permitirá definir con precisión aspectos relevantes para el diseño de un modelo de diálogo-debate crítico. 7 Los informes de evaluación citados fueron elaborados por Paulina Chávez y entregados al Ministerio de Educación de Chile en el contexto del Programa de Debates Estudiantiles coordinados por la Unidad de Transversalidad del MINEDUC y el actual Centro de Estudios Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 123 5. La reconstrucción de discusiones críticas Etapa de confrontación: Se establece que existe una disputa. Un punto de vista se presenta y es puesto en duda. Esta exigencia presenta limitaciones en el ejercicio de un ejercicio de debate académico con niños y adolescentes (específicamente de aquellos establecimientos educacionales calificados en situación de riesgo social o bajo rendimiento académico), y podría explicarse, entre otras factores más complejos de delimitar (sociales, educacionales y económicos), por el concepto de “déficit interpersonal” descrito por Hidalgo y Abarca (2000). Los estudiantes referidos, en situación de debate, muestran grandes dificultades para expresar claramente sus puntos de vista a no ser que haya sido claramente expresado el conflicto de opinión por sus profesores. Los estudiantes además, exhiben falta de confianza en sus propias elaboraciones argumentativas, lo que se suma a que la mayoría de los profesores entrevistados frecuentemente no confía en las capacidades y compromiso de sus estudiantes (Chávez, 2003). La construcción autónoma de razones para sus puntos de vista es poco frecuente entre los estudiantes. Es una práctica común entre los estudiantes dejar en manos de sus profesores la elaboración de sus argumentos, cuando esto es requerido para la preparación de un debate (Chávez, 2003). En los referidos informes, Chávez, en varios momentos, reporta la dificultad que presentan los actores del programa de debate MINEDUC 2002-2005,8 con la expresión enunciativa de un conflicto de opinión. Se valora, en ese mismo documento, la necesidad de poner a disposición de los participantes, un dispositivo didáctico que de la Argumentación y el Razonamiento (CEAR) de la Facultad de Psicología de la Universidad Diego Portales. Este programa contempló (1) la capacitación en argumentación y debate de estudiantes y profesores del sistema de establecimientos subvencionados de Chile entre la tercera y la octava región, en su mayoría liceos de capitales regionales, y (2) la organización en el año 2005 de un Torneo Nacional de Debate. 8 Programa de debates patrocinado por el Ministerio de Educación de Chile entre los años 2002 y 2005 y ejecutado por el actual Centro de Estudios de la Argumentación y el Razonamiento. 124 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ facilite la expresión proposicional de los “conflictos de opinión” de manera clara y consistente. Los objetivos que surgen de la consideración de la descripción de la etapa de confrontación, enfrentada a las limitaciones de la práctica concreta serían los siguientes: 1. Desarrollar, potenciar y/o estandarizar (según haga falta) las habilidades sociales y comunicacionales generales de los estudiantes que participarán de un programa de debate. 2. Proveer una estructura proposicional estandarizada para expresar los conflictos de opinión en un debate. Etapa de apertura: Se toma la decisión de intentar resolver la disputa por medio de una discusión argumentativa reglamentada. Una parte toma el rol de protagonista, lo que significa que está preparada para defender su punto de vista por medio de la argumentación. La otra parte toma el rol de antagonista, lo que significa que está preparada para desafiar sistemáticamente al protagonista a defender su punto de vista. Los estudiantes se muestran mayoritariamente proclives a que un programa de debates exhiba protocolos y reglas de funcionamiento, versus un programa que no los exhiba u otro que tenga una regulación más laxa (Chávez, 2003). El respeto de los protocolos del debate académico, como las regulaciones de rol y tiempo de discurso, aseguran en opinión de los docentes asesores un orden en la exposición de argumentos, además de permitir una evaluación justa, más acertada y eficiente (Chávez, 2003). Las nociones de protagonista y antagonista que aporta el modelo pragma-dialéctico nos permiten entender una dinámica distinta de la interacción argumentativa que permitiría en un modelo de debate-crítico, evitar los vicios argumentivos característicos del debate académico tradicional. Por otra parte, esta nueva dinámica facilitaría la implementación de una modalidad de evaluación que se basaría en la preeminencia del discurso argumentativo del protagonista o –dicho en jerga del debate aca- Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 125 démico- discurso afirmativo (gracias a que define un universo de discusión o un conjunto de razones como referencia obligada para la contraargumentación) y obliga al antagonista a una defensa sistemática e inevitable (críticamente hablando) de las razones efectivamente expuestas del protagonista. Objetivos que surgen de la consideración de la descripción de la etapa de apertura confrontada a las limitaciones de la práctica concreta: 1. Valorar la existencia de protocolos y reglas de regulación de rol y turno en el diseño de un debate. 2. Implementar un sistema de evaluación que de cuenta del dinamismo de un modelo de debate y que reduzca la probabilidad de arbitrariedad y error en la valoración de los jueces. Etapa de argumentación: El protagonista defiende su punto de vista y el antagonista, si tiene más dudas, requiere de él o ella más argumentación. Debido a su rol fundamental en la resolución de la disputa, la etapa de argumentación es considerada a veces como la "verdadera" discusión. Un problema corriente de los debates académicos escolares, debido al tipo de debate que se practica, es que los participantes evitan la interrogación directa, la confrontación de datos u objeciones. Frecuentemente, lo que se observa –en opinión del público asistente a un debate académico tradicional-, es un verdadero debates de sordos (Chávez, 2003), dado que ninguna de las partes refiere directamente lo que la otra ha establecido como una razón que defiende su punto de vista. Para evitar esta anomalía del diálogo-debate, es necesario establecer mecanismos que aseguren la calidad del intercambio argumentativo de los participantes. Un mecanismo interesante de aplicar en el diálogo-debate es la incorporación de un tercer actor en la discusión, a saber, un equipo investigador. La inclusión de un equipo investigador que se sume a las bancadas afirmativa y negativa, tradicionales, mejoraría el flujo de información en el debate, evitando la omisión de información relevante y poniendo a disposición de las partes los argumentos centrales a la discusión. Agregaría 126 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ también un poco de incertidumbre al intercambio argumentativo haciéndolo más espontáneo. La incorporación de este tercer actor al debate implicaría la concreción de un elemento que la teoría argumentativa asume como fundamental: la existencia de tres puntos de vista posibles a partir de un conflicto de opinión: positivo, negativo y neutro. Objetivos que surgen de la consideración de la descripción de la etapa de argumentación confrontada a las limitaciones de la práctica concreta: 1. Asegurar la calidad del intercambio argumentativo en el formato de debate. 2. Incorporar una bancada de investigación a las bancadas tradicionales, afirmativa y negativa, y considerar la existencia de tres puntos de vista en el debate. Etapa de conclusión: Se establece si la disputa ha sido o no resuelta, basándose en que se ha retirado el punto de vista, o la duda referente al punto de vista. El protagonista puede adoptar un punto de vista opuesto a su punto de vista original. También puede debilitar o alterar su punto de vista original, o bien adoptar un punto de vista cero. Esta es –típicamente- una exigencia teórica que con dificultad puede ser cumplida en los debates concretos. De hecho es una exigencia que no se observa en los debates académicos tradicionales (CEDA, NDT, Parliamentary Debate). Incorporar los conceptos descritos por el modelo teórico para la etapa de conclusión al debate que intentamos configurar, implicaría un aporte muy relevante desde una teoría dialógica de la argumentación a la práctica del debate académico. El debate, en el diseño que estamos configurando, para respetar la propuesta del modelo ideal de resolución de disputas de van Eemeren y Grootendorst (2003), tendría que cerrarse sin una obligación de rol en la defensa de un punto de vista. Los participantes de un debate, deberían entonces, ocuparse en –rompiendo con la tradición retórica del debate académico- cerrar el debate, ya no intentando ganar la adhesión de la audiencia, Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 127 sino esforzándose por hacer una propuesta razonable para la resolución del conflicto de opinión. Esta adaptación culmina por diferenciar un enfoque de debate orientado a la persuasividad de un enfoque de debate orientado a la resolución. Derivadamente, la distinción que acabamos de hacer nos permite aclarar otra diferencia, la persuasión responde naturalmente a un interés prescriptivo y la resolución a un interés reflexivo (crítico). La reflexividad, entendida como la acción que un agente racional realiza cuando se vuelca sobre sus propias operaciones cognitivas para valorarlas, actúa para su corrección con determinados fines, para su adecuación con el contexto o simplemente para contemplarlas. El factor reflexivo que incorpora el diálogo-debate es el que le da el nombre de crítico y lo distingue de un diálogo-debate tradicional. Crítico es otro nombre (ligado a la tradición filosófica) para denotar la acción reflexiva que un agente racional vuelva sobre sus operaciones cognitivas. En el ámbito de la psicología contemporánea se ha denominado a éste mismo fenómeno metacognición. El cambio de rumbo en la comprensión del debate académico, que desplazamos desde una tradición retórica antropo-relativista, hacia una concepción dialógica crítica racionalista, involucra un impacto no sólo en el diseño de una modalidad para la práctica del debate, como hemos visto, sino también en la filosofía de fondo, en los presupuestos cognitivos a la base de nuestras afirmaciones, que afectan a su vez la comprensión que tendremos de los procesos de aprendizaje o de construcción de conocimiento, que dicho sea de paso, no pueden desligarse del diseño de un modelo de debate adecuado a los fines declarados y actualizado en relación al estado del arte en filosofía de la mente y psicología de la cognición. Al respecto leamos a Leitão (2008): “La extensión del campo de reflexión del individuo desde fenómenos hacia afirmaciones acerca de fenómenos (cogniciones) [se puede entender] (…) como un proceso de diferenciación entre niveles de semiotización del pensamiento. Tal diferenciación puede ser teóricamente descrita como una transición desde el plano cognitivo (en el cual se produce conocimiento sobre 128 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ los objetos del mundo) hacia un plano metacognitivo de funcionamiento psicológico (donde se reflexiona acerca de los fundamentos y límites del conocimiento producido)” (Leitao, 2008, p. 113) En definitiva, un principio fundamental para el diseño de un modelo de debate adecuado y actualizado, como hemos dicho, deberá incorporar un momento metacognitivo, es decir una etapa en donde los participantes puedan volverse sobre las argumentaciones realizadas y desde un contexto distinto, juzgar lo hecho con la libertad de revisar sus creencias e impugnar sus propias conclusiones si el caso lo amerita. En resumen, los objetivos que surgen de la consideración de la descripción de la etapa de conclusión confrontada a las limitaciones de la práctica concreta: 1. Incorporar un cierre del debate sin obligación de rol. 2. Orientarse sin equívocos a la resolución del conflicto de opinión y no la persuasión del jurado o la audiencia. 3. Incorporar un espacio o momento de metacognición que permita la crítica del proceso dialéctico, revisando creencias e impugnando conclusiones se fuese necesario. 6. Aportes de un enfoque dialógico cognitivo al diseño de un modelo de debate En los últimos años nos hemos interesado en la investigación realizada en torno al enfoque dialógico-cognitivo de la psicología, como una manera de complementar el trabajo multidisciplinar en torno a la práctica y aplicación del debate en la educación que habíamos desarrollado desde hace 8 años. A la discusión sobre los fundamentos y a la consideración de los reportes cualitativos acerca de la práctica del debate realizados por Chávez (2003), debíamos agregar la consideración de los estudios de la dialogicidad desde una perspectiva psicológica y cognitiva. Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 129 En este ámbito en particular, nos interesamos en los trabajos centrados en el estudio del vínculo entre habilidades argumentativas y desarrollo del pensamiento y construcción de conocimiento (Leitão, 2000; Kuhn, 1992; Billig, 1987). Creemos que este enfoque, en particular los trabajos de Leitão (2000, 2004, 2008), nos permiten cubrir los intersticios que nuestro discurso teórico hasta aquí aún no ha logrado cerrar. La dialecticidad inherente a la interacción argumentativa promovería un tipo de aprendizaje “socio-constructivo”, es decir, que enfatiza más el procesamiento de los contenidos de manera de comprenderlos o de incorporarlos al sistema conceptual de una persona más que memorizarlos y repetirlos (Larraín, 2006). El punto de vista de la argumentación como una práctica social que implica la negociación de la divergencia, implica un énfasis en la argumentación como un proceso generador de procesos cognitivos colaborativos que favorecen la construcción de perspectivas de los participantes. En franco contraste con la postura clásica de Piaget (1997), que sostuvo que la solución del conflicto cognitivo se alcanza mediante la aplicación de mecanismos de regulación interna, la resolución es vista por Leitao como un proceso afectado por las demandas específicas de las situaciones argumentativas. El enfoque cognitivo-dialógico de Leitao profundiza desde una perspectiva empírica el potencial excluyente de la argumentación para poner en marcha procesos de cambios de perspectivas. La teoría de la argumentación ha asumido este principio desde siempre aún cuando no nos había dado pruebas de su prevalencia en situaciones reales. Esta situación, es necesario decirlo, ha comenzado a cambiar. Leitão (2008) ha propuesto un procedimiento analítico diseñado para captar procesos de revisión de creencias en la argumentación que nos ha sido muy útil en el diseño de un modelo crítico de debate. El procedimiento analítico de Leitao se basa en una unidad de análisis conformada por tres componentes: argumentación, contra-argumentación y respuesta. A cada uno de estos, le corresponden funciones generales y específicas, es así como la función discursiva la podemos apreciar en el establecimiento de la argumentación; la función 130 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ psicológica o cognitiva, en la instalación del proceso de revisión de creencias; y la función epistémica, en la (trans)formación del conocimiento. La exposición de estas dimensiones se puede resumir de la siguiente forma (Leitao, 2008): 1. El primer elemento, el argumento, permite identificar el punto de vista sobre el cual la argumentación es establecida y las ideas con las cuales el proponente lo justifica. Desde el punto de vista del funcionamiento cognitivo del individuo, el argumento crea un punto de referencia en relación al cual el proceso de evaluación (y eventual transformación) de perspectivas defendidas puede, o no, instalarse en las fases posteriores de la argumentación. Desde un punto de vista epistémico, el argumento captura una organización momentánea de conocimiento del individuo sobre un tema determinado. 2. El segundo componente, el contra-argumento, captura la existencia en el discurso de las voces de oposición que introducen la dialecticidad inherente a la argumentación. La presencia del contraargumento, a nivel del funcionamiento cognitivo representa para el discurso la alteridad, que permite al individuo evaluar su posición inicial en virtud de la contraposición. A nivel epistémico el contraargumento desencadena el proceso de revisión de creencias. 3. Finalmente, el tercer elemento, la respuesta, es definido como la reacción –inmediata o remota– a la oposición por parte del proponente. Su presencia en la argumentación marca la toma de conciencia del individuo de las concepciones que se contraponen a sus posiciones y la forma como a éstas reacciona, refutándolas o incorporándolas (parcial o completamente) a sus propias posiciones El tercer elemento de la unidad de análisis propuesta por Leitão nos da una pista de lo que podríamos considerar, desde una perspectiva dialógico- Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 131 cognitiva, propiamente, crítico. Una acción en un sujeto puede ser identificada como crítica cuando exhibe algún grado de modificación epistémica, esto es, una nueva organización del conocimiento del argumentador como resultado de la confrontación entre perspectivas. La comparación entre la formulación inicial del argumento y la reformulación de éste, en respuesta a los contra- argumentos, es el recurso analítico que permite capturar eventuales cambios de posiciones inicialmente defendidas (Leitão, 2008). Las unidades de análisis de Leitao tienen una función distinta al uso que estamos sugiriendo para el debate. Si para Leitao se trata de un conjunto de categorías que nos permiten captar los procesos de revisión de creencias, para nosotros se trata de un conjunto de criterios que nos pueden guiar en la construcción de un modelo de debate crítico. En cierto sentido, usamos los resultados de una perspectiva descriptiva de la argumentación, para fines normativos, para la obtención de un diseño argumentativo. La consideración de las unidades de análisis de Leitao, a nuestro juicio, sugiere una dirección a seguir, una respuesta a cómo organizar las partes de un debate, de manera tal que el diseño promueva entonces las tres competencias básicas de la interacción argumentativa: discursiva, cognitiva y epistémica. Por otra parte, el aspecto crítico, ahora ya rigurosamente definido, como parte de la función epistémica, debe tener una relevancia especial en el diseño de un debate académico. 7. Propuesta general de diseño para un modelo de debate crítico El modelo estaría compuesto de tres etapas (argumentación, contraargumentación y cierre de resolución), en cada parte participan tres bancadas9, de 9 Entidad compuesta de un conjunto de agentes que asumen un rol argumentativo (punto de vista) según cierta estrategia de juego. 132 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ tres debatientes10, cada uno con un turno de tres minutos para la exposición alternada de argumentos11 y contraargumentos12. Sumado a los tres minutos se contempla la adición de dos minutos para realizar y responder a una pregunta de la contraparte y la adición de un minuto para realizar y responder a una contrapregunta de la contraparte. Es importante recordar que cada bancada defiende un punto de vista diferente del punto de vista de su contraparte. Los puntos de vista son, o afirmativo, o negativo o neutro (éste último, para efectos de este diseño lo llamamos de investigación). La controversia de opinión se representará a través de una estructura proposicional compuesta de cuatro partes que respetan la gramática castellana y al mismo tiempo destacan conceptos de lógica modal y pragma-linguística. Un ejemplo de controversia bien construida es la siguiente: “Se debe permitir el aborto terapéutico en Chile”. En esta proposición distinguimos, un indicador modal deóntico (se debe), un verbo que refleja una cierta intención ilocutiva de la oración (permitir), un tema (el aborto terapéutico) y un contexto que equivale al complemento circunstancial de lugar de la gramática española (en Chile). Cada una de estas partes nos indica distintas funciones características. El indicador modal, el tipo de debate al que nos enfrentamos y el paso relativo de los argumentos; el verbo, lo que debemos probar y derivadamente el tipo de estrategia que debemos seguir; el tema, lo que debemos investigar; y el contexto, la delimitación del tema de investigación. 10 Agente epistémico autónomo inteligente y activo que tiene un rol dentro de un equipo de trabajo. 11 Un argumento es una estructura lógico-lingüística formada por un conjunto de asunciones (p.e. información a partir de la que se puede obtener una conclusión) y una conclusión que puede ser obtenida por uno o más pasos de razonamiento. Las asunciones funcionan como soporte de los argumentos, y su conclusión usualmente es llamada pretensión. 12 Un contraargumento es una estructura lógico-lingüística que dado un argumento A1, un contra-argumento se define como un argumento A2 tal que o A2 es una refutación para A1 o A2 es un debilitamiento para A1. Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 133 8. Conclusiones En este ensayo proponemos lineamientos generales para el diseño de un modelo de debate que hemos llamado “debate crítico”. El concepto de diseño argumentativo lo hemos obtenido de Jackson (2002). El modelo que proponemos es fruto de la consideración de una serie de enfoques teóricos acerca de la argumentación que contrastados a resultados de la práctica concreta nos sugieren ciertas modificaciones al diseño tradicional de la práctica del debate. Hemos realizado algunas críticas a la forma habitual de fundamentar el debate en libros de textos estadounidenses. Nos referimos a los más populares y los más representativos. Validamos una serie de críticas al debate tradicional que surgen de autores relevantes (Billig, Kuhn, otros). Creemos que un buen diseño debería intentar superar las objeciones presentadas. Un aspecto central de este manuscrito es la consideración de la perspectiva cognitiva dialógica de Leitao, de quien decimos que ha guiado y complementado nuestro trabajo teórico en los últimos años. Damos cuenta de la adaptación que hacemos de su modelo de análisis para guiar nuestro diseño. De la contrastación de la experiencia concreta con debates escolares y las exigencias que la consideración del modelo de resolución crítica de van Eemeren y Grootendorst (2003) derivamos una serie de principios para el diseño. El primero de ellos se distingue de los anteriores y lo analizamos por separado. Los siguientes están dispuestos en un cuadro comparativo que nos permite correlacionar de qué elemento del diseño se trata y el aspecto de la teoría al que corresponde. - Desarrollar, potenciar y/o estandarizar (según haga falta) las habilidades sociales y comunicacionales generales de los estudiantes que participarán de un programa de debate. Si ponemos atención, este principio es muy cercano a uno de los principios que Habermas (1987) propone para la formación de un diálogo ideal en la Teoría de la acción comunicativa. Este principio recuerda al teórico de 134 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ la argumentación la relevancia de las variables culturales y socioeconómicas que afectan la producción discursiva. Las diferencias en el capital léxico, la desigualdad en el nivel de competencia social y comunicativa, por nombrar algunas, pueden generar distorsiones enormes en los efectos de la aplicación de un programa de debate en el contexto educativo. Elemento del debate Etapas del debate Correspondencia con aspecto de la teoría Modelo analítico de Leitao Argumentación Desarrollar función discursiva Contraargumentación Fortalecer el papel de la alteridad en la construcción de conocimiento, en la producción de acuerdos y en la construcción discursiva, etc. Cierre de resolución Reforzar la función metacognitiva. La revisión de creencias. Presencia de tres bancadas (afirmativa, negativa y neutra) Clasificación de puntos de vista según teoría pragmadialéctica. Cierre de debate sin obligación de rol Orientación a la reflexión (no a la prescripción de la acción). Puntos de partida de la teoría pragmadialéctica de la argumentación. Obligación de turno Tradición dialéctica argumentación. de la Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico Cierre resolutivo Estructura proposicional para la representación de la controversia de opinión Sistema de evaluación dialéctico 135 Orientación a la resolución de las controversias (no a la persuasión de la audiencia). Puntos de partida de la teoría pragmadialéctica de la argumentación. Elementos de pragmática lingüística, lógica informal, lógica modal y gramática de la lengua española. Evaluación de argumentos basada en criterio comparativo. Fuerza argumentativa (cogency). Elementos de lógica informal. BIBLIOGRAFIA Adorno, T. et al. 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CATERINA BOTTECCHIA “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento formativo Abstract I vantaggi didattici di “Palestra di botta e risposta” possono essere riassunti in due categorie fra loro interdipendenti: da un lato la partecipazione al torneo di disputa contribuisce al raggiungimento stabile degli scopi della formazione liceale e dall'altro consente di superare molte difficoltà che gli insegnanti di frequente accusano e alcuni difetti di comunicazione del quotidiano processo di insegnamento-apprendimento. Nell'articolo si propongono esercizi ed attività utili alla preparazione degli studenti impegnati nel torneo di disputa e riflessioni sulla ricaduta didattica dello stesso torneo, un'ottima opportunità per i ragazzi di oggi, che vivono in una società in continua e rapidissima evoluzione. Premessa Scopo di queste pagine è presentare le nuove riflessioni suscitate in me dalla prosecuzione dell'attività relativa al percorso didattico “Palestra di botta e risposta”. Alla luce della mia esperienza didattica come docente di filosofia e storia e della mia partecipazione come formatrice e giudice al torneo di disputa filosofica, ho potuto rafforzare la mia convinzione della straordinaria validità di questo progetto formativo che è andato coinvolgendo un numero sempre crescente di classi e docenti, nonché un pubblico sempre più numeroso (comprendente studenti delle scuole partecipanti al torneo, ma anche docenti e famiglie). Mi sembra si possano riassumere i vantaggi didattici derivanti da quest'attività in due categorie fra loro interdipendenti: da un lato la partecipazione al torneo di disputa contribuisce in modo sostanziale al raggiungimento degli scopi che la formazione liceale si propone e dall'altro consente di superare 140 Caterina Bottecchia agevolmente molte difficoltà che gli insegnanti di frequente accusano e alcuni difetti di comunicazione che possono rendere meno fluido il quotidiano processo di insegnamento-apprendimento. L’obiettivo di questo lavoro non è spiegare in che cosa consista questo percorso didattico (si veda, a questo proposito, il capitolo L'argomentazione nella scuola de La svolta argomentativa, volume indicato in bibliografia) o giustificarne la riproposizione ai licei, ma mostrarne nuovi punti di forza ed indicare alcuni modi per collegarlo in modo più stretto alla ferialità didattica. Il torneo di disputa filosofica e la quotidiana attività didattica Un confronto onesto tra gli spunti teorici offerti dai testi di didattica - o dai corsi di formazione - e la pratica non può che far constatare al docente la difficoltà di motivare e coinvolgere gli studenti per un tempo prolungato coltivando in loro la pazienza e la disponibilità a rivedere o correggere il proprio lavoro. Chiunque insegni sa quante energie vadano disperse nel tentativo di educare alla costanza, alla precisione e all'impegno e quanta delusione tale dispersione comporti. La disputa, che verte spesso su questioni che si collocano a fianco o al di là dei contenuti disciplinari normalmente affrontati nelle ore di filosofia, consente di acquisire in modo stabile obiettivi che, purtroppo, spesso sono solo momentaneamente raggiunti. La variazione degli stimoli, indicata dagli esperti come una delle strategie funzionali a catturare l’attenzione dei discenti, unita alla dimensione ludica del torneo, ridesta la curiosità e l'interesse di tutti i ragazzi, agendo su di loro come propulsore motivazionale e facendoli desistere da facili rinunce. E, ancora, il fatto che l'attività proposta non si esaurisca in un unico episodio, ma implichi, fin dalla fase eliminatoria, una serie di incontri con squadre diverse, impone di mantenere alti il controllo e l'impegno, pena l'inadeguatezza o la sconfitta in un incontro successivo. Non servono molte parole del docente perché i ragazzi si rendano conto che aver vinto (o perso) una disputa su tre “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 141 della fase eliminatoria non li qualifica (o squalifica) immediatamente, perché vogliano tornare ad analizzare il dibattito per individuare i propri punti di forza e debolezza e trovare margini e strategie di miglioramento! Il ruolo dell'insegnante in questa fase consiste nel controllare l'attività spontanea degli studenti, intervenendo a colmare le eventuali lacune nell'assegnazione e nello svolgimento dei compiti: ad esempio, può consigliare a qualcuno di costruire una griglia di osservazione o valutazione da utilizzare per ripensare all'incontro già effettuato o per seguire quelli venturi, anche di altre squadre; può esortare uno o due studenti a raccogliere le osservazioni della giuria, a confrontarle con le impressioni della classe e a tenere una breve relazione in cui siano evidenti gli aspetti positivi e quelli da migliorare; può formare piccoli gruppi di lavoro, il più possibile eterogenei, che si concentrino ciascuno su un problema particolare e ne cerchino la soluzione. Tra tutti i vantaggi che i piccoli gruppi offrono dal punto di vista didattico mi limito a menzionarne uno qui particolarmente rilevante: lo scambio di spiegazioni e comunicazioni si fa più fitto e richiede un livello molto alto di riflessione e metacognizione. Dal canto suo l'eterogeneità dei gruppi costringe ciascuno studente ad esplicitare certi sottintesi solitamente da lui considerati condivisi universalmente e pertanto indiscutibili. Un'altra possibilità per il docente è riprendere i discorsi proposti in fase di replica dalla propria squadra per stimolare gli studenti ad analizzarne la pertinenza alla luce delle mosse effettivamente compiute dagli interlocutori, valutarne la chiarezza e la solidità, immaginare varianti e ipotesi alternative con cui compararli. È abbastanza semplice predisporre esercizi, che possono anche essere facilmente valutati e le cui ricadute didattiche vanno ben oltre il torneo, come per esempio la riscrittura di un discorso in un numero minore o maggiore di parole, oppure la stesura di una versione più chiara o più convincente, o, ancora, più mite o più aggressiva del medesimo testo. Un altro esercizio fattibile consiste nella scrittura di almeno tre brevi testi diversi a partire dalla medesima scaletta o mappa concettuale: si stimolano i ragazzi a esplorare e, all'occorrenza, sfruttare meglio la ricchezza della lingua italiana, li si esercita 142 Caterina Bottecchia a variare la disposizione delle parti del testo, si suggerisce loro la possibilità di scegliere e soprattutto di individuare dei criteri di scelta. Si può chiedere ai ragazzi di leggere una fonte, o anche un intervento tratto da una disputa, selezionando i contenuti rilevanti in riferimento a obiettivi diversi; gli studenti possono essere allenati a riconoscere e denominare alcune fallacie o a muovere obiezioni (nel caso di discorsi effettivamente tenuti diverse da quelle già mosse) o a neutralizzarle. Dunque il docente che accompagna una squadra nel torneo di disputa filosofica, oltre all'opportunità di assegnare ruoli differenti a chi effettivamente pronuncia i discorsi, ha quella di assegnare compiti personalizzati di diversi tipi per tutti i discenti anche in altri momenti: l'intera classe può essere direttamente coinvolta in queste attività, sia che partecipi al torneo con una squadra variabile, sia che la mantenga fissa. La disputa vera e propria, così come la sua preparazione e la sua revisione, mette i ragazzi di fronte ad un compito autentico; il sapere che qui risulta efficace e vincente non può essere ricondotto ad una serie di contenuti appresi in modo mnemonico o rigido, ma è invece riorganizzato in maniera personale, sfruttato in modo creativo ed efficace in relazione agli obiettivi di volta in volta differenti che l'allievo si trova davanti. “Palestra di botta e risposta” promuove le capacità e corregge i limiti di ciascuno, favorisce lo sviluppo di un sapere elastico, che intreccia conoscenze e competenze in un insieme adattabile ed effettivamente adattato al contesto, rivelandosi un percorso che risponde a tutti i requisiti che, secondo gli esperti dell'OCSE e del Consiglio sul Quadro europeo delle qualifiche e dei titoli per l'apprendimento permanente, ma anche secondo gli studiosi, sono propri di un buon percorso didattico. Vi sono anche altri vantaggi; mi limito ad indicarne alcuni: l'obiettivo comune - migliorare per vincere le sfide successive ed eventualmente il torneo - aiuta gli studenti anche ad appianare i contrasti; l'attività cooperativa dei piccoli gruppi promuove l’empatia e facilita il raggiungimento del (piccolo) traguardo di cui ciascun gruppo avverte la responsabilità; l'acquisizione di nuove competenze sociali, ma anche filosofiche, tramite la cooperazione, anziché tramite l'obbedienza ad un superiore, modera l’individualismo e la “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 143 competitività, valorizza le risorse degli “spiriti divergenti” e nel contempo ne placa la carica dirompente per il gruppo. Le nuove indicazioni ministeriali per l'insegnamento della filosofia confermano la rilevanza della discussione razionale e delle capacità argomentative ai fini della maturazione della capacità di giudizio critico e dello sviluppo della riflessione personale, che presuppongono quella disposizione all’approfondimento che l'attività di disputa filosofica consente di coltivare1: l'attitudine a problematizzare i contenuti conoscitivi, ma anche le proprie credenze ed i propri valori, prima acriticamente assunti come ovvi, è infatti notevolmente stimolata dal progetto. La natura del nostro dibattito, che, pur non demonizzando la retorica e non escludendo la mozione degli affetti, richiede vengano offerti all'interlocutore argomenti plausibili a sostegno delle tesi in cui ci si riconosce, impedisce l'adesione incontrollata o superficiale a posizioni predeterminate. La disputa educa al rispetto della diversità, insegna la responsabilità delle parole, palesando il nesso inscindibile tra retorica, logica ed etica, e ripetutamente induce gli studenti a porsi con passione la domanda “perché?” e a tentare di rispondere in modo onesto e convincente, facendo vivere loro un'esperienza autenticamente filosofica. Alcuni topici, estremamente interessanti, hanno richiesto ai ragazzi di integrare e far interagire conoscenze e competenze provenienti da ambiti diversi: anche questo esercizio si rivela fruttuoso e coerente con le già citate indicazioni ministeriali che raccomandano di orientare l'attività didattica alla comprensione delle “radici concettuali e filosofiche [...] dei principali problemi della cultura contemporanea”, nonché all'individuazione dei “nessi tra la filosofia e le altre discipline”2. 1 “La conoscenza degli autori e dei problemi filosofici fondamentali dovrà aiutare lo studente a sviluppare la riflessione personale, l’attitudine all’approfondimento e la capacità di giudizio critico; particolare cura dovrà essere dedicata alla discussione razionale, alla capacità di argomentare una tesi, riconoscendo la diversità dei metodi con cui la ragione giunge a conoscere il reale, e all’importanza del dialogo interpersonale”. (Bozza Indicazioni Nazionali Licei , 12 marzo 2010). 2 Bozza Indicazioni Nazionali Licei , 12 marzo 2010. 144 Caterina Bottecchia Nonostante i ragazzi, soprattutto nelle prime esperienze di disputa, incontrino ancora difficoltà a compiere quest'integrazione, sia i risultati raggiunti dagli stessi studenti già alla fine del percorso, sia quelli emersi uno o due anni dopo la partecipazione al torneo ci incoraggiano a continuare in questa direzione. Sono infatti decisamente aumentati nei ragazzi che hanno partecipato al progetto l'interesse per questioni filosofiche, politiche e sociali, la proprietà di linguaggio, l'abilità di selezionare rapidamente le informazioni utili per rispondere ad un'obiezione o ad una domanda, ma anche le capacità metacognitive e, conseguentemente, l'autocontrollo nelle situazioni di prova. Non è sembrato casuale, a noi docenti impegnati a vario titolo nel progetto e riuniti per la riflessione e la verifica del percorso, che gli studenti che si sono cimentati nella disputa ottenendo i progressi maggiori abbiano sostenuto degli eccellenti colloqui in sede di esame di stato e abbiano affrontato con successo la terza prova scritta. A volte è difficile per noi insegnanti realizzare percorsi e prove di verifica interdisciplinari: i tempi sono sempre più stretti, lo studio di alcuni autori - imprescindibili sia secondo le indicazioni ministeriali vigenti sia secondo quelle indicate come ipotesi per il futuro - richiede già di per sé una fatica enorme ai ragazzi, abituati a brevi percorsi obbligati, risposte semplici e sicure. “Palestra di botta e risposta” fa emergere la profondità e la poliedricità della filosofia, dal momento che permette di valorizzare aspetti meno noti del pensiero dei filosofi del passato e di far vedere gli stessi filosofi sotto una luce diversa agli studenti, ma offre anche la possibilità di lavorare davvero in modo interdisciplinare, aprendo interessanti finestre sui dibattiti filosofici attuali e mostrando come essi mantengano vivo il dialogo con le altre discipline. La particolarità e la complessità delle questioni dibattute non di rado costringono i ragazzi a rompere l'isolamento tra le varie discipline e riescono ad abbattere il muro tra scuola e mondo, contribuendo concretamente allo sviluppo del senso civico: nella fase di ricerca del materiale infatti gli studenti si interrogano su questioni a cui prima non avevano mai pensato, interpellano docenti diversi da quello di filosofia, ma coinvolgono anche le famiglie ed altre agenzie educative o fonti di informazione, e scoprono frequentemente l'esistenza o lo “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 145 scopo di istituzioni prima per loro sconosciute. La partecipazione al torneo di disputa filosofica contribuisce così anche a diminuire la distanza che a volte si è costretti a registrare tra l'istituzione scuola e le altre istituzioni ed agenzie educative e mira alla costruzione di un sapere non più avvertito dai ragazzi come estraneo ed inutile, ma armonicamente collegato con la loro personalità e la loro vita extrascolastica presente e futura. È per questa ragione che mi è sembrato importante sottolineare fin dall'inizio la presenza tra il pubblico, non solo alla finale, di alcuni familiari dei ragazzi ed è in quest'ottica che vanno comprese le scelte di organizzare il torneo in incontri aperti al pubblico e di far disputare la finale in un'aula prestigiosa dell'università, invitando le autorità civili. Il torneo di disputa prevede l'incontro tra docenti di scuole o età diverse e, conseguentemente, favorisce il confronto e l'utilissima condivisione di informazioni, esperienze didattiche, strategie e convinzioni metodologiche. Anche i ragazzi conoscono studenti di altri istituti e si mettono in discussione, aprendo i propri orizzonti, arrivando talvolta a valutare in maniera diversa se stessi, i propri insegnanti, i compiti ed i carichi di lavoro quotidiani. Per molti studenti che hanno effettivamente disputato l'esperienza del torneo è stata orientante: se c'è chi, approfondendo una questione, ha scoperto una grande passione per una scienza o un insieme di problemi, se c'è chi ha capito di volere proseguire gli studi frequentando filosofia all'università e se c'è chi invece ha compreso di preferire intraprendere una strada completamente diversa, tutti hanno imparato a conoscersi meglio e hanno potuto operare una scelta più consapevole. I diversi ruoli e compiti richiesti dalla partecipazione alla disputa hanno agevolato docenti e studenti nella predisposizione e nello svolgimento di percorsi personalizzati; il ricorso alla posta elettronica, oltre a facilitare e ad accelerare notevolmente le comunicazioni, ha evitato la discontinuità nel tempo del lavoro di redazione e revisione dei testi, garantendo la possibilità di conservarne e confrontarne le diverse versioni, e la puntualità delle correzioni, elemento tutt'altro che trascurabile dal punto di vista didattico. Le regole del torneo, poche ed apparentemente semplici, sono per lo più formulate non in modo negativo, ma in modo descrittivo, cosicché i ragazzi 146 Caterina Bottecchia sanno non tanto cosa non si può fare, ma, fattore ben più importante, cosa si può fare e in che modo lo si può fare. Inoltre, durante la preparazione e la revisione degli incontri di disputa, così come durante la disputa vera e propria, i ragazzi ricevono, dai docenti e dai pari, tutti i tipi di aiuto essenziali per il processo di apprendimento: indicazioni verbali, ovviamente accompagnate da segnali paraverbali e non verbali, ma anche dimostrazioni di “come si fa” che vengono spontaneamente imitate. Così, nel corso del torneo di disputa progressivamente il supporto che il docente deve fornire ai ragazzi diminuisce (o diventa più raffinato), ad ogni tappa gli studenti sono più autonomi e lo dimostrano correggendosi ed avvicinando per approssimazioni successive il proprio comportamento a quello di oratori esperti, capaci non solo di individuare un piano strategico, ma anche di applicarlo, segnalando la propria padronanza della situazione con un contatto visivo più ampio e costante con interlocutori e pubblico. La percezione di non avere più bisogno del continuo aiuto del docente e di non necessitare più di compiti facilitati da qualcuno di più esperto è per i ragazzi chiarissima e, comprensibilmente, li gratifica. Ma si tratta di una gratificazione che hanno meritato in pieno – di questo gli studenti sono pienamente coscienti – e che corrisponde ad una loro effettiva crescita e dunque ha un valore incommensurabilmente più alto di quello della gratificazione che consegue ad un bel voto “preso per caso”. Anche dal fatto che le prestazioni degli studenti sono sottoposte non alla valutazione dei docenti della classe, ma a quella della giuria, riconosciuta come esperta e soprattutto imparziale dai ragazzi, derivano importanti vantaggi. Prima di emettere il suo verdetto, la giuria propone una valutazione complessiva delle due squadre ed individua per ciascuno dei disputanti criticità su cui lavorare e eccellenze, o almeno punti di forza, da coltivare: dunque la valutazione della giuria è sempre formativa, è ricca di consigli ed indicazioni potenzialmente utili per i ragazzi. Al docente è offerta l'opportunità di confrontare il proprio metro di valutazione con quello della giuria ed eventualmente di aggiustarlo, di notare qualche difetto o pregio che aveva trascurato, di ricevere nuovi spunti di ri- “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 147 flessione e stimoli per la propria attività didattica e la costruzione di prove di verifica più significative. È accaduto spesso che le valutazioni degli insegnanti siano state confermate dalla giuria: in caso di risultati positivi i discenti si sono sentiti più sicuri e hanno accresciuto la loro fiducia nel professore, in caso di risultati negativi il verdetto della giuria, ignara dei risultati scolastici dei vari partecipanti al torneo, ha consentito di superare la resistenza di alcuni studenti che, nonostante gli sforzi del docente, non comprendevano o addirittura rifiutavano valutazioni negative, precludendosi così la possibilità di migliorare. Non di rado, qualche giorno dopo lo svolgimento di un incontro di disputa, studenti fino a quel momento irrimediabilmente convinti di subire in modo del tutto ingiustificato una valutazione troppo bassa hanno avvicinato il proprio docente ammettendo “Prof. aveva ragione” e cominciando un dialogo che ha aperto la strada a considerevoli progressi: spesso questi studenti si sono mostrati capaci di darsi autonomamente obiettivi per migliorare e di assumersi le responsabilità conseguenti in termini di impegno e disponibilità ad accettare correzioni e suggerimenti. La struttura della disputa facilita il riconoscimento dei progressi personali: ciascuno nota, con il passare del tempo, come aumentino in coloro che intervengono nel dibattito, magari svolgendo sempre lo stesso ruolo, la padronanza della situazione e la scioltezza, ma anche l'abilità nel costruire un certo tipo di discorsi, nel sollevare critiche o nel rispondere a un attacco. Utilissime a questo proposito si rivelano le registrazioni o le riprese degli incontri di disputa che consentono di riascoltare o rivedere anche più volte e a casa i vari interventi e di raffrontarli. Anche tra coloro che non sono chiamati a interloquire con gli avversari si possono notare miglioramenti sia nella rapidità e precisione nello svolgimento di esercizi come quelli indicati più sopra, sia nella capacità di valutare autonomamente le prestazioni di chi discute e di schierarsi a favore dell'uno o dell'altro dei contendenti. Il percorso proposto, che, scandito in tappe, dura quasi un intero anno scolastico, non premia lo studio dell'ultimo momento o diretto solo al “bel voto”; al contrario, pur non negando il valore dell'intuizione e dello spirito 148 Caterina Bottecchia di iniziativa, manifesta quanto siano importanti per una buona prestazione, e persino per l'improvvisazione, la conoscenza dei contenuti, la perseveranza ed il labor limae. Questo risultato mi sembra particolarmente interessante non solo per quei discenti che restano delusi per lo scarto tra l'impegno che profondono e gli esiti delle loro prove non sempre brillanti, ma anche per quegli studenti che, più curiosi e veloci degli altri, spesso in classe si annoiano o si distraggono, perdendo una parte delle spiegazioni tradizionali e svolgendo, qualche volta, per la noia o per la fretta, un lavoro impreciso, in cui molte loro potenzialità rimangono inespresse. La partecipazione al torneo di disputa filosofica fa poi sperimentare come in filosofia non ci sia “la risposta giusta”, ma si diano “diverse buone risposte”, non ci sia un'unica strada obbligatoria, ma si aprano diverse direzioni possibili. In ogni caso la prevedibilità e la controllabilità della disputa sono decisamente inferiori rispetto alla normale pratica didattica: i ragazzi sono davvero messi alla prova in queste situazioni e sviluppano naturalmente la capacità di governarsi al meglio in condizioni che trovano complesse o inaspettate. Sappiamo bene quanto alcuni studenti all'esame di stato trovino difficile affrontare l'imprevisto (prove ministeriali, domande inattese, commissari esterni che hanno un modo di porsi diverso da quello degli insegnanti conosciuti fino a quel momento...); altri, nel corso del primo e a volte anche del secondo anno di università, lamentano di non riuscire a prevedere o comprendere le domande degli esami con la stessa facilità con cui al liceo riuscivano a prevedere le richieste dei docenti. Non possiamo dimenticare che è parte del nostro compito di insegnanti di liceo preparare i ragazzi all'esame di stato e all'università: la disputa ci consente di migliorare anche in questo ambito, rendendo i discenti più duttili e promuovendo la loro capacità di fronteggiare gli imprevisti. Appare superfluo sottolineare l'importanza della flessibilità e della correlata capacità di far fronte all'imprevisto dal punto di vista educativo in generale e in modo particolare per i ragazzi di oggi, che vivono in una società multiculturale, in continua e rapidissima evoluzione, e che potrebbero essere chiamati, in professioni o contesti nuovi –e che noi non siamo nemmeno in grado di immaginare con precisione! – a far dialogare creativamente conoscenze e “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 149 competenze provenienti da ambiti diversi. È nostro dovere di educatori e docenti impegnarci affinché gli studenti possano imparare a confrontarsi con gli altri sapendoli ascoltare e senza imporre acriticamente le proprie visioni e, nel contempo, senza scadere nell'indifferenza e nel relativismo. Dobbiamo inoltre compiere ogni sforzo per sviluppare nei ragazzi l'elasticità che sicuramente può aiutarli in un mondo tanto mutevole. Sarà difficile che le loro comunicazioni, forti dell'esperienza della disputa, si trasformino in un completo fallimento: tra le condizioni imprescindibili di uno scambio comunicativo efficace e persuasivo vi sono proprio, da un parte, la capacità di ascolto e l'impegno a non fraintendere intenzionalmente l'interlocutore, dall'altra, l'impegno alla chiarezza e all'onestà, la padronanza del contenuto, la precisa percezione di chi sia il destinatario e la consapevolezza degli scopi della comunicazione, la capacità di adottare uno stile ed un comportamento che rispecchino la propria personalità, ma siano anche adeguati agli interlocutori, al contenuto e allo scopo della comunicazione, tutti ingredienti fondamentali anche della buona disputa. Conclusione Penso si possa concludere riassumendo quanto emerso e affermando che questo progetto ha dimostrato di valere perché propone ai discenti una possibilità di crescita vera e ai docenti una sfida autentica. Secondo i pareri più autorevoli, infatti, un apprendimento è qualificato positivamente se è attivo, cioè se il soggetto dell'apprendimento è consapevole e responsabile del proprio percorso, costruttivo e collaborativo (cioè sviluppatosi in una dinamica di interazione sociale): abbiamo visto come “Palestra di botta e risposta” presenti queste caratteristiche. Inoltre, in un buon processo di apprendimento svolgono un ruolo essenziale i processi motivazionali e il linguaggio, mediatore del pensiero, ma anche costruttore di conoscenze, proprio come accade nel nostro percorso. Infine, gli esperti non mancano di sottolineare l'importanza di proporre ai ragazzi compiti autentici e contestua- 150 Caterina Bottecchia lizzati, come è di fatto ciascun incontro di disputa, e la necessità di istituire un circolo virtuoso tra conoscenza, esperienza e successiva riflessione. A sua volta l'insegnamento è efficace e significativo nella misura in cui integra le nuove conoscenze con le conoscenze pregresse dello studente, è attivo e situato, ma anche capace di promuovere la consapevolezza del processo di costruzione della conoscenza nello studente. Un insegnamento efficace oggi non può prescindere dalla combinazione e dall'integrazione di diversi approcci alla realtà e diverse rappresentazioni della stessa. Un buon insegnante mira a provocare la creatività dello studente e non gli chiede la semplice ripetizione o la mera riproduzione, è aperto a diverse analisi dei contenuti culturali e a più soluzioni agli stessi problemi. Il docente impegnato nel torneo di disputa filosofica è chiamato ad essere proprio così ed a non concepirsi come erogatore di conoscenze, ma invece ad acquisire quella “professionalità estesa” il cui tratto distintivo è la disponibilità ad una verifica costante del proprio lavoro. BIBLIOGRAFIA Castoldi, M. (2009), Valutare le competenze, Carrocci Editore, Roma. Cattani, A. (2008), Come dirlo?, Loffredo University Press, Napoli. Cattani, A. Cantù P. Testa, I. Vidali, P. (a cura di), (2009), La svolta argomentativa, Loffredo University Press, Napoli. D'Agostini, F. (2010), Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino. De Monticelli, R. (2006), Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Bollati Boringhieri, Torino. Fabio, R. A. Mecenaro, M. Tiezzi, P. (2003), Gestire la classe: metodologie strutturali, professionali e individuali, Franco Angeli, Milano. Gensini, S. (2006), Fare comunicazione, Carrocci Editore, Roma. Ligorio, B. (2003), Come si insegna, come si apprende, Carrocci Editore, Roma. Martini, S. (a cura di), (2001), Materiali per un laboratorio di Didattica della Filosofia, CLEUP, dispensa per la SSIS. Rey, B. (2003), Ripensare le competenze trasversali, Franco Angeli, Milano. “Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 151 Trombino, M. Archivio degli esercizi di filosofia reperibile sul sito www.ilgiardinodeipensieri. com Vidali, P. (2009), Insegnare la filosofia come argomentazione, reperibile sul sito www.argomentare.it/didattica Bozza Indicazioni Nazionali Licei, 12 marzo 2010. ROBERTO FALDUTI Palestra di botta e risposta al microscopio: considerazioni teorico-pratiche e analisi di una disputa Abstract L'articolo prende le mosse da alcune considerazioni preliminari sulla valutazione degli incontri di disputa filosofica del progetto “Palestra di botta e risposta” che coinvolge ormai da cinque anni molti studenti dei licei della provincia di Padova e, da quest'anno, del resto del Veneto. Vengono in seguito riassunte alcune osservazioni, condotte su un'ampia casistica di dispute, sull'approccio all'argomentazione, gli argomenti più usati, le fallacie e gli errori più frequenti, l'uso delle fonti da parte degli studenti. Nella sezione successiva viene proposta la trascrizione integrale di una disputa esemplare, corredata da un commento “tecnico” e tuttavia semplice ed accessibile: dai turni di prologo a quelli di argomentazione e replica, fino all'epilogo e alla proclamazione della squadra “vincitrice” da parte della giuria. 1. Considerazioni preliminari Tentare un'analisi di una o più dispute svoltesi durante gli ultimi tornei "Palestra di botta e risposta" è un'operazione che si è rivelata più difficile, e soprattutto più problematica, del previsto. La difficoltà deriva dal fatto che è impossibile pensare di poter analizzare il materiale grezzo a disposizione solo trascrivendolo e "vivisezionandolo" per scomporlo negli usuali moduli funzionali e per applicare le consuete categorie logico-retoriche che riserviamo solitamente all'analisi di testi argomentativi. Certo, anche tale operazione è necessaria e senz'altro fattibile: ma non si può mai dimenticare, durante l'analisi, che ci si trova di fronte a un tipo di testo che ha caratteristiche del tutto peculiari rispetto a qualunque altro testo argomentativo. Si tratta infatti di dispute fra studenti, organizzate per fini soprattutto 154 Roberto Falduti didattici, regolate secondo un protocollo e inserite nel contesto di un torneo che prevede incontri eliminatori, semifinali, finali ecc. È naturale che durante il lavoro di trascrizione e analisi delle dispute ci si trovi a ritornare e a riflettere su alcuni nodi teorici (ed epistemologici e pratici) che riguardano la definizione di quest'attività specifica. Non è certo questa la funzione di questo breve saggio, tuttavia mi sembra ineludibile l'accenno e il riferimento, per quanto rapido, ad alcuni di questi nodi problematici. Il primo, che è stato oggetto di riflessione fra quanti hanno contribuito all'ideazione e alla realizzazione di questo progetto, è: come definire, come classificare la tipologia della nostra attività? Che cosa "fanno" gli studenti che affrontano questa attività? La denominazione di Torneo di disputa filosofica è sembrata la più adeguata. In effetti, la scelta della definizione di campo (disputa filosofica ) è importantissima per le implicazioni che comporta per chi affronta l'attività e anche per chi la deve giudicare e/o analizzare. Adelino Cattani ha fornito una argomentata e esaustiva distinzione fra diverse situazioni dibattimentali1; io, per brevità, cito una definizione sintetica e recentissima di Franca D'Agostini: Si ha una disputa “quando A e B difendono rispettivamente p e non-p ed entrambi mirano ad avere ragione [...] la disputa è definibile come controversia quando A e B cercano di prevalere, convincendo uno o più 'terzi' che l'altro contendente ha torto. La controversia è dunque una disputa a tre termini, con due opponenti e un terzo giudicante2 Si tratta del nostro caso. Sarebbe dunque più giusto definire la nostra attività come Torneo di controversia? Non credo che questa eventuale precisazione sia importante. È importante invece mettere in rilievo la presenza di un terzo giudicante, nel nostro caso una giuria formata da tre esperti, di cui due sono chiamati a valutare la qualità, quantità, pertinenza e fondatezza delle argomentazioni, il terzo a valutare tutto ciò che riguarda l'actio (vocalità, gestualità ecc.): in pratica, due giudici per quello che si dice e un giudice per il come lo si dice. 1 Cattani 2001, pp. 61-84 2 D'Agostini 2010, pp. 181-182 Palestra di botta e risposta al microscopio 155 Ecco il secondo nodo problematico ed ecco perchè mi si è presentato durante il lavoro di analisi delle dispute: cosa valuta la giuria e come lo valuta? Avendo fatto parte della giuria per la valutazione di molte dispute e trovandomi ora a riascoltare (e dunque inevitabilmente a ri-valutare) le registrazioni delle stesse, ho potuto notare una significativa differenza fra l'analisi a posteriori (fra l'altro si potrebbe differenziare ulteriormente fra l'analisi effettuata su registrazioni audio-video, solo audio, o su trascrizioni) e la analisi-valutazione da me stesso effettuata sul momento, "a caldo", in cui comunque avrei dovuto valutare gli stessi parametri (qualità, quantità e pertinenza delle argomentazioni). Si tratta solo di diversi "tempi di reazione"? La differenza riguarda solo la rapidità con cui si è costretti a valutare in tempo reale (rapidità che potrebbe far sfuggire qualche aspetto dell'argomentazione, magari qualche aspetto fallace) e la ponderazione con cui si può riconsiderare il tutto in ambiente neutro, laboratoriale? Credo che questa spiegazione sia plausibile ma non esauriente: sono convinto che nella valutazione della giuria che si occupa di quello che si dice sia prevalente, molto più di quanto si possa ipotizzare, l'aspetto retorico anche quando si dovrebbe valutare quasi unicamente l'aspetto logico dell'argomentazione. Non vorrei che questa distinzione "elementare" fra aspetti logici e aspetti retorici, qui utilizzata in maniera volutamente semplificatoria, venisse fraintesa: per intenderci, e per semplicità, dirò che in una disputa ciò che un'eventuale giuria che si occupa di quello che si dice dovrebbe valutare è né più né meno che la qualità (bontà) degli argomenti addotti dall'una e dall'altra parte. Ovvero quello che la più recente letteratura riguardante l'approccio di tipo argomentativo (per differenziarlo dall'approccio unicamente logico-formale e dall'approccio unicamente retorico) è concorde nell'affermare come derivante dalla correttezza (validità più verità) unita alla persuasività degli argomenti3. La mia conclusione è che nella valutazione "a caldo" della giuria (e si tratta pur sempre di una giuria esperta) prevalgano gli aspetti a volte "dimenticati" o considerati meno importanti dalla 3 Per approfondire la questione (cruciale) della valutazione/valutabilità degli argomenti si rimanda a D'Agostini 2010, che dedica un'intera sezione del suo libro alla questione (pp. 6999) giungendo peraltro a conclusioni diverse da quelle da me esposte 156 Roberto Falduti teoria dell'argomentazione, quali il delectare e il movere, spesso relegati nell'ambito del puro dominio retorico nel senso stretto del termine; insomma, che la persuasività dell'argomento si lasci intendere prima della sua correttezza, e a volte anche indipendentemente da essa. Tale conclusione non vuole né sminuire la competenza della giuria né tantomeno inficiare la validità del progetto didattico, al quale credo fermamente (e argomentatamente!) e del quale ho in diverse sedi illustrato le virtù, ma semplicemente sfiorare (senza addentrarvisi) la vexata quaestio sulla fiducia nella capacità "naturale" di giudicare la bontà o meno di un argomento da parte di cosiddetti agenti razionali, intorno alla quale, come si è capito, le mie posizioni non sono del tutto ottimiste. Il problema è fra l'altro strettamente legato ad altre fondamentali questioni oggetto di dibattito nella letteratura contemporanea sull'argomentazione, quali la natura e la definizione delle fallacie argomentative (questione che non sfioreremo nemmeno, anche se alcune considerazioni derivanti dal riscontro più frequente di alcune fallacie in sede di disputa studentesca potrebbero essere oggetto di un altro interessante tipo di studio) e ancora di più i rapporti che la teoria dell'argomentazione intrattiene con la retorica e la definizione dell'ambito delle competenze dell'una e dell'altra (ammesso che sia possibile, appunto, una netta delimitazione). In conclusione, nonostante il nostro protocollo di dibattito, cioè il format usato nei nostri incontri, sia stato giustamente definito come avente una modalità di valutazione "primariamente logica ma anche retorica"4, la mia esperienza di giudice e il lavoro di analisi successivo sul materiale registrato mi portano ad aumentare il valore di quel ma anche, se non addirittura ad avere la tentazione di rovesciare i termini. Un altro nodo problematico che riguarda da vicino la valutazione (e l'analisi) delle dispute è quello delle regole del confronto. Inutile ricordare che la letteratu4 Mi riferisco ad un saggio di prossima pubblicazione di Manuele De Conti, in cui il format da noi utilizzato è messo a confronto con altri orientati più sul versante "logico" che "retorico". Palestra di botta e risposta al microscopio 157 ra sull'argomento è vastissima e qualificata: da Grice a Van Eemeren, passando per Habermas e Apel5. Prendendo come riferimento il famoso "decalogo" di Van Eemeren e Grootendorst, a tale proposito mi sembra di poter affermare che nei nostri incontri si è data particolare rilevanza alla regola 1 e 2 (che riguardano sostanzialmente il diritto di chiedere ragioni e il dovere di fornirle da una parte e dall'altra); alla 3 e alla 10 (che riguardano sostanzialmente l'esatta definizione della materia del contendere e il dovere di riferirvisi in modo non ambiguo: tale richiesta di precisione si concretizza nel nostro caso già dal prologo della disputa, attraverso il chiarimento di eventuali termini ambigui, la spiegazione della questione dibattuta, fino alla definizione completa dello status quaestionis)6. L'ultima osservazione riguarda ancora la particolarità del nostro protocollo (format). Manuele De Conti ne ha in questo volume spiegato la provenienza e le particolarità e lo ha messo a confronto con altri consimili. Io mi limito ad aggiungere ciò che appare in sede di valutazione e di analisi, e cioè la vicinanza, pur nelle ridotte dimensioni, alla dispositio classica : l'esordio, che serve a preparare il campo della disputa (e l'uditorio), corrisponde al primo intervento di prologo; la narratio e la confirmatio, che possono corrispondere ai due turni di argomentazione; la confutatio, che corrisponde alla fase di replica; infine l'epilogo-peroratio, in cui il delectare ma soprattutto il movere assumono una parte predominante, quando non ci si limita a una semplice recapitulatio. 2. Osservazioni sul percorso di dispute Prima di procedere all'analisi di un caso esemplare di disputa, desidero anticipare alcune conclusioni a cui sono giunto esaminando una casistica molto più vasta di quella qui riportata. Ho individuato alcune linee di fondo che 5 Una rassegna esaustiva e una discussione critica delle varie posizioni si trova in Cantù e Testa 2006 6 Per la formulazione completa delle regole di Van Eemeren si veda Cantù e Testa 2006, pp. 88-89 158 Roberto Falduti hanno caratterizzato le dispute fra studenti in questi anni, e ritengo che le più importanti da mettere in luce siano quelle qui sotto elencate. 1) La prima riguarda la convinzione, supportata dal riscontro dei progressi notati nei gruppi di disputa che hanno partecipato ad almeno 3-4 incontri, che la consapevolezza dei meccanismi che regolano la persuasione aumenti effettivamente in seguito alla pratica argomentativa. 2) La seconda riguarda la grande utilità del momento di botta e risposta vero e proprio, che non tutti gli altri protocolli prevedono, o almeno non con un ritmo così serrato. 3) Queste due prime osservazioni non sono solamente una constatazione empirica di "buon funzionamento" del meccanismo di disputa, ma sono strettamente legate ad uno di quei nodi teorici cui avevo fatto cenno in precedenza: infatti lo sviluppo delle due abilità sopra descritte rappresenta il principale "antidoto" contro lo strapotere persuasivo della parola. Se infatti, come nota Olivier Reboul, un discorso retorico ha le caratteristiche (che sono anche quelle che lo rendono "pericoloso") di essere non parafrasabile in maniera compiuta e di essere, in maniera più o meno completa, chiuso, cioè di tendere verso l'esclusione di repliche, "alla non-parafrasi si può opporre il criterio di trasparenza: che l'ascoltatore sia il più possibile consapevole dei mezzi attraverso cui si modifica la propria credenza; il fascino e la poesia del discorso non possono con questo dirsi eliminati, ma tenuti sotto controllo. Alla chiusura si può opporre il criterio di reciprocità: che la relazione tra l'oratore e l'uditorio non sia asimmetrica, che l'uditorio abbia diritto di replica. Questi due criteri non rendono certo l'argomentazione meno retorica, la rendono più onesta"7 4) Una terza osservazione riguarda la progressiva scomparsa, nel corso del "consolidamento" del progetto di disputa (in questi anni una piccola "memoria storica" degli incontri effettuati si è venuta a for7 Reboul 1996, p. 111 Palestra di botta e risposta al microscopio 159 mare nel ricordo di studenti e docenti e nel piccolo archivio del sito internet) di quello che io considero il difetto principe nella pratica argomentativa: l'uso di argomentazioni ad hominem / ad personam invece che ad rem. Dopo il riscontro di qualche caso nelle prime dispute degli anni scorsi, la pratica dell' "avvelenamento" è stata dimenticata e non è più, per ora, riapparsa in maniera significativa negli incontri più recenti. In questo caso l'azione dei docenti, dei formatori e dei giudici è parsa particolarmente incisiva e anche a questo proposito non si tratta di constatare il semplice "buon funzionamento" del meccanismo di disputa, se è vero che “la consuetudine dello spostamento ad personam diventa un abito retoricoargomentativo condiviso, che non sorprende più, e non viene valutato come errore [...] l'avvelenamento è diventato di uso comune, una sorta di assuefazione generale"8. Lo stesso Schopenhauer, nel suo noto libretto che cataloga gli stratagemmi di cui servirsi per vincere per fas et nefas un confronto dialettico, indica il ricorso all'argomentazione ad personam come il sommo "male" e la matrice di tutte le perversioni argomentative, mettendone allo stesso tempo in luce l'efficacia9 (per constatare quanto venga utilizzata, per esempio nel dibattito politico di casa nostra, basta accendere la televisione su un qualsiasi canale o aprire un quotidiano a caso ad una pagina a caso...) 5) La quarta osservazione riguarda la progressiva scomparsa delle cosiddette fallacie esecutive, che invece erano presenti, anche se non di frequente, nei primi anni di disputa. Le fallacie esecutive sono perturbazioni - volontarie, anche se più o meno palesi - del normale svolgimento dello scambio dialettico dovute a gesti, atti, variazioni del tono della voce, velate "minacce" ecc. che mirano ovviamente a mettere l'interlocutore in uno stato di disagio o a distogliere l'atten8 D'Agostini 2010, p.114 9 Schopenhauer (trad. it.) 1991, p. 27 e p. 64 160 Roberto Falduti zione dell'uditorio e della giuria dall'argomentazione razionale. Ovviamente la giuria interviene immediatamente solo nei casi di palese violazione del protocollo (per esempio nel caso di invasione del turno di parola altrui), ma scoraggia il ricorso a questi tipi di pratiche (argomentando con opportune spiegazioni al termine dell'incontro, quando si tirano le somme sull'andamento del confronto). I casi che si erano verificati saltuariamente consistevano nel chiaccherare o commentare ironicamente mentre l'interlocutore stava argomentando, nel rivolgersi all'interlocutore con tono minaccioso o comunque irriguardoso, nel cercare di far apparire l'interlocutore ridicolo. Anche in questo caso, non si tratta solo di rallegrarsi per il "buon funzionamento": è chiaro che il rispetto consapevole delle regole argomentative e soprattutto la comprensione di esse (che citavo come uno dei nodi teorici importanti nel capitolo precedente) comporta una ricaduta importante non solo sul piano educativo ma anche su quello euristico ed epistemologico. 6) Stranamente (o meglio, stranamente per me, in quanto non sono riuscito a formulare una ipotesi davvero credibile al riguardo) si è verificato nel corso degli anni un sempre minor ricorso anche agli argomenti esecutivi, altrimenti detti ad lapidem, che possono essere considerati come il lato buono delle pratiche sopra descritte. Si tratta di affermare qualcosa, o rispondere a un'affermazione, non mediante parole ma mediante un'azione; o comunque, durante le nostre dispute, di accompagnare l'argomentazione con un'azione. È evidente che il confine fra un buon argomento esecutivo e l'eccessiva teatralità di un gesto, o addirittura la fallacia esecutiva, è labile e l'effetto sull'uditorio può essere di aumento dell'attenzione, di persuasione, di meraviglia, ma può altresì risultare controproducente. Quindi, nell'ottica difensivista del "primo non prenderle", si potrebbe considerare che il rischio di indispettire l'uditorio funga da notevole deterrente. Può darsi che per tale motivo il ricorso a questo tipo di pratica si sia diradato nel corso delle edizioni del tor- Palestra di botta e risposta al microscopio 161 neo. Cito invece come esempi due argomenti esecutivi a mio parere molto originali che si sono verificati negli anni precedenti: nel corso di una disputa sul tema (assai originale anch'esso) "È appropriato utilizzare gli episodi dei Simpson nell'insegnamento della filosofia?" gli studenti della squadra del Liceo "Tito Lucrezio Caro" di Cittadella si sono presentati al pubblico (e agli interlocutori) mascherati e travestiti come i personaggi della serie televisiva... Ancora, durante la finale del torneo dell'anno 2007/2008 sul tema "L'applicazione sistematica e continua della tecnologia nell'educazione dovrebbe sostituire il sistema delle lezioni in presenza" un alunno della squadra del Liceo "Tito Livio" di Padova, dovendo difendere la posizione contro, si è ad un tratto avvicinato ad alcuni docenti presenti in sala e li ha invitati risolutamente ad alzarsi, dicendo: "La vostra presenza, a quanto pare, non è più necessaria, siete obsoleti...ecco la vostra liquidazione – l'alunno ha tirato fuori dalla tasca qualche monetina – e fuori dall'aula!" 7) La quinta osservazione riguarda invece i più frequenti errori in cui gli studenti incappano nel corso delle dispute. Mi pare di poter affermare, in linea generale, che la fallacia più frequente che è dato di osservare sia il non sequitur, cioè il caso in cui, in un'inferenza, la conclusione non deriva dalle premesse. Si tratta di una fallacia oltremodo insidiosa in quanto, se nelle sue forme più grossolane è molto facile da individuare, a volte si presenta ben mascherata. Oltretutto, questa fallacia è in certo modo amplificata dall'impianto dialogico della disputa: infatti, il risultato di questo errore è quello di produrre una diversione dal tema principale; se tale slittamento non viene immediatamente individuato dalla controparte, che anzi magari si incammina anch'essa durante il botta e risposta sulla strada sbagliata, si rischia di allontanare la disputa dal tema esatto e di rimanere impaniati per tutta la fase di interlocuzione su un punto morto, o addirittura di compromettere irrimediabilmente la base sulla quale era stato costruito l'approccio al tema in questione. Questo tipo 162 Roberto Falduti di incidente si è verificato più volte nel corso delle nostre dispute. Cito ancora Franca D'Agostini: "Nelle discussioni non è sempre facile individuare il non sequitur e a volte lo stesso interlocutore è portato a sbagliarsi e a difendere tesi che in realtà non voleva sostenere. Un tipo di non sequitur si chiama infatti falsa pista, indicando con ciò che si induce il proponente ad avviarsi su una strada diversa da quella che intendeva percorrere"10 8) Strettamente legata a questo tipo di fallacia è quella derivata dall'uso di una terminologia troppo vaga. La sesta osservazione riguarda proprio questo problema, più volte verificatosi nei nostri incontri, e la soluzione che spesso gli studenti sono stati bravissimi ad individuare. Il problema non è solo dei nostri disputanti, ma è uno dei problemi più importanti del linguaggio comune, che a volte investe persino il linguaggio filosofico e anche scientifico in senso stretto. La preoccupazione socratica del definire bene "che cos'è" è alla base del ragionamento dialogico: senza accordo preliminare sul significato dei termini e senza assicurazione reciproca sulla stabilità semantica da mantenere durante tutto il corso dell'interlocuzione non si può procedere a una reale disputa (si parla infatti, in questi casi, di dispute apparenti). Peraltro, proprio dalla strutturale vaghezza di alcuni termini, ad esempio di alcuni predicati che comunemente si usano per descrivere la realtà, nasce l'esigenza, per evitare la contraddizione, di affinare l'ingegno nella sottile arte del distinguo. Posso dire che nel corso dei tornei ho riscontrato in alcuni studenti grandi miglioramenti nell'uso del distinguo. L'individuazione di una contraddizione reale nelle conseguenze della tesi sostenuta da una delle due squadre porterebbe, per il meccanismo della reductio ad absurdum, all'immediata confutazione e alla conseguente affermazione di verità, per il principio del terzo escluso, della tesi della squadra opposta. È dunque giocoforza tentare di separare con cura 10 D'Agostini 2010, p.117 Palestra di botta e risposta al microscopio 163 i concetti quando si è chiamati a rispondere su una predicazione vaga. E se, come la tradizione filosofica vuole, conoscere è giudicare, cioè attribuire predicati a un soggetto, si comprende bene che questo addestramento alla precisione e a separare le contraddizioni apparenti da quelle reali ha una portata ben più vasta di quella che riguarda la dimostrazione di bravura e destrezza durante il torneo. 9) La questione della vaghezza e/o della precisione è affrontata dai disputanti fin dal prologo, dove di solito gli studenti provvedono a fornire le prime definizioni, indispensabili per poter procedere. Per inciso, intorno alle classificazioni e alla, mi si perdoni il calembour, definizione di definizione11 si cela il solito problema gnoseologico ed epistemologico dell'esatta conoscibilità del reale, o della verità. Mi spiego: io, nonostante nelle righe precedenti abbia difeso strenuamente la ricerca della precisione, sono convinto che qualsiasi definizione, tranne (forse) quelle matematico-geometriche in cui il definiens e il definiendum sono assolutamente identici e intercambiabili, sia una argomentazione e frutto di una argomentazione. "Qualunque definizione è un argomento, poichè impone un certo significato, in realtà a scapito di altri"12. Abbandonando la questione che non rientra nel campo d'indagine di questo scritto, accontentiamoci di richiedere agli studenti - questo sì possiamo farlo - se non altro di argomentare le loro definizioni, così come chiediamo di rendere note le loro fonti. 10) La settima osservazione riguarda l'uso delle fonti, delle citazioni e l'uso dell'argomento ad auctoritatem. Questa pratica si è rivelata da subito molto usata nel corso dei nostri incontri di disputa, e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di studenti liceali che spesso possono utilizzare come "mattoni" per costruire le proprie argomentazioni anche materiali che provengono dalle loro recenti 11 Si veda a tal proposito Iacona 2005, p.15 e soprattutto p.82 e sgg. 12 Reboul 1996, p.191 164 Roberto Falduti o recentissime attività curricolari. Corroborare la propria argomentazione con la presentazione di dati e di opinioni illustri è pratica consueta e in molti casi non solo corretta e auspicabile ma indispensabile. Ciò che in questi anni i formatori e i giudici hanno sempre ricordato agli studenti è: le fonti devono essere sicure e controllabili; questo suggerimento è stato accolto e non si riscontrano più citazioni provenienti da fonti sconosciute (come un generico "trovato in internet") o non controllabili. Seconda raccomandazione: in caso di uso dell'argomento ad auctoritatem, attenzione a citare l'autorità giusta, cioè quella il cui parere conta veramente in quel caso, l'esperto, il competente. Attenzione anche a non considerare questo tipo di argomento come risolutivo nel tentativo di dimostrazione. La citazione dell'auctoritas serve a rafforzare la propria posizione, non a rendere veridica una tesi13 Non sempre questa corretta modalità d'uso dell'argomento è stata applicata dagli studenti nel corso di questi anni. Dai riscontri da me effettuati risulta che l'approccio alcune volte sia ancora errato in entrambi i sensi: sia nella scelta della auctoritas adatta, sia soprattutto nel voler usare l'auctoritas come "sostitutivo" dell'argomentazione sul tema. Questo uso, in particolare, va combattuto per due motivi. Uno di ordine pratico-strategico, e cioè che il nostro format prevede tempi piuttosto stretti e non ci si può permettere di rubare tempo prezioso all'argomentazione per inserire citazioni che non hanno valore dimostrativo e spesso neanche persuasivo. Il secondo motivo è più "serio" e riguarda il rischio del consolidarsi di un habitus mentale (di cui purtroppo vedo molti esempi fra i miei studenti) che "delega" ad altri il compito di pensare: il ricorso all'auctoritas in questo caso esime dal ricercare, a proprio carico e con propria fatica, prove e controprove. Pigrizia e viltà, come ci ha ricordato Kant, sono 13 Per la distinzione fra uso corretto e scorretto dell'auctoritas, si veda Boniolo e Vidali 2002, p.91 e p.114 Palestra di botta e risposta al microscopio 165 sempre in agguato, alleate dell'eterodirezione e nemiche dell'autonomia. I nostri studenti, ormai quasi tutti naturaliter maiorennes, devono ricordarlo sempre. 11) L'ottava e ultima osservazione riguarda l'uso di un argomento molto frequente nella casistica esaminata. In questo caso non si tratta né di rallegrarsi per miglioramenti ed atteggiamenti positivi degli studenti né di interrogarsi sul persistere di inclinazioni ad errori di argomentazione. L'argomento di cui parlo è infatti un argomento da sempre considerato debole quando non addirittura sbagliato, ma è usatissimo in tutti i campi in cui si ha a che fare con il linguaggio naturale: l'analogia14. La casistica è vasta e comprende una gamma di argomenti analogici che va dalla comparazione piuttosto rigorosa, in quanto vorrebbe essere simile alla misurazione (confrontare il noto con l'ignoto attraverso una misurazione comparativa non era forse la definizione di conoscenza data da Cusano?) fino alla metafora condensata e ardita. Perchè questo argomento è così usato nell'ambito delle nostre dispute e, fra l'altro, "funziona", nel senso che è ben recepito dal pubblico che assiste ai confronti, dagli interlocutori (che spesso ribattono con un argomento consimile) e anche dalla giuria? Senza scomodare i trattatisti cinque e seicenteschi, da Emanuele Tesauro a Baltasar Graciàn, che magnificavano l'efficacia (anche gnoseologica) della metafora, si può ipotizzare che l'argomento analogico "funzioni" nell'ambito delle nostre dispute proprio perchè rappresenta a volte uno scarto rispetto all'argomentazione logico-razionale e, nel breve tempo dei turni di argomentazione concesso dal nostro format, crea una "accensione" del pensiero analogico preceduta magari da una sensazione di decentramento, che, più l'analogia è peregrina, più si avvicina alla maraviglia teorizzata dai barocchi. sgg. 14 Fondamentale la trattazione di Perelman e Olbrechts-Tyteca (trad. it) 1966, p. 392 e 166 Roberto Falduti 3- Analisi di una disputa Propongo qui di seguito la trascrizione quasi integrale, inframmezzata dal mio commento, della disputa fra le squadre del Liceo Classico "Tito Livio" e del Liceo Classico "Concetto Marchesi" di Padova, valevole come incontro di semifinale del torneo del 2008/2009. Ho scelto di presentare una disputa nella quale non ho fatto parte della giuria, per evitare di appesantire il commento con le considerazioni relative allo "scarto" fra valutazione in tempo reale e valutazione "al microscopio" di cui ho parlato nelle considerazioni preliminari. Ho scelto inoltre di trascrivere quanto più possibile fedelmente le argomentazioni degli studenti, intervenendo per eliminare soltanto elementi caratteristici del parlato (pause, lapsus, esitazioni o ripetizioni), senza alterare il nucleo sintattico e argomentativo delle frasi. Una precisazione: i turni di parola sono esattamente speculari e di uguale durata; la disparità di lunghezza riscontrabile nelle trascrizioni dipende ovviamente dalla diversa velocità di eloquio dei parlanti. TEMA: È CORRETTO CHIAMARE "SCIENZE" LE "SCIENZE UMANE"? Squadra Pro: Liceo Classico "Tito Livio" Squadra Contro: Liceo Classico "Concetto Marchesi" PROLOGO PRO – La nostra squadra sostiene la tesi secondo la quale è corretto chiamare "scienze" le scienze umane. Il topico che oggi discutiamo è stato oggetto di un dibattito durante il corso di tutto il XX secolo, che ha visto contrapporsi due scuole di pensiero: quella neopositivista e quella sostenitrice della teoria della falsificabilità. Che cosa si intende per "scienze"? Noi intendiamo per scienza un sapere che è in grado di spiegare in modo coerente il mondo e che cerca di individuare connessioni fra cause ed effetti. Il topico ci mette di fronte al compito di Palestra di botta e risposta al microscopio 167 dimostrare che gli studi che riguardano l'uomo sono da considerarsi scienze. L'opinione comune è solita considerare come scienze solo le scienze naturali... ma non è proprio a causa di questa convinzione che in alcuni periodi storici solo le scienze sono state considerate in grado di rispondere correttamente agli interrogativi dell'uomo? Non credete che la nostra vita quotidiana non sia guidata dalle scienze ma piuttosto da una continua libera scelta che si configura come un'interpretazione? CONTRO – "È corretto chiamare "scienze" le scienze umane? No, noi sosteniamo il contrario. Vediamo il perchè: quelle che vengono chiamate scienze umane sono a tutti gli effetti "studi" e non scienze. "Scienze" sono solo quelle che si avvalgono di un metodo rigoroso di tipo galileiano atto a formulare leggi universali. Per quanto riguarda le discipline umanistiche, applicar loro il termine di "scienze" serve solamente a tentare di "nobilitare" questo tipo di studi. Anche gli argomenti che trattiamo in questa disputa sono soggetti a interpretazioni, non seguono leggi universali. Ora andiamo a considerare la storia etimologica del termine "scienza". Il termine scienza nasce nell'antica Grecia, con Platone, e corrisponde al sostantivo epistéme. Ma è nel Seicento che la scienza si evolve nel senso in cui tutti la intendiamo oggi: scienza galileiana, che si avvale di un metodo sperimentale e prevede anche la formulazione di una legge universale. Nel 1884 Ampère faceva un distinguo fra applicazioni noologiche e applicazioni cosmologiche, in cui le prime corrispondono agli studi umani. E sempre nell'Ottocento abbiamo una terza variabile, cioè la Storia, intesa come evoluzione sociale, da cui poi nascerà la Sociologia. In conclusione, possiamo distinguere fra scienze galileiane, dove possiamo riscontrare l'uso di un metodo proprio, e studi umani, dove possiamo riscontrare l'uso di un metodo improprio, modellato sulla base di quello galileiano. Due interventi di prologo scanditi secondo la più classica visione funzionale dell'esordio. In particolare quello della squadra Pro è costruito secondo lo schema: enunciazione della questione – sottolineatura della rilevanza della questione – definizione dei termini (il termine scienza). In più vi è l'espediente 168 Roberto Falduti di sottolineare come la posizione da difendere sia "più difficile" perchè contraria alla doxa. In tal modo si cerca di compensare la probabile considerazione della squadra avversaria come più svantaggiata (chi sostiene la posizione contro ha l'onere della prova a proprio carico, anche se in questo caso la questione è stata presentata in forma interrogativa). Si termina con due interrogative retoriche, che chiamano subito in causa l'uditorio aprendo immediatamente il canale di comunicazione con gli astanti. Il prologo della squadra Contro si presenta come meno schematico e forse un po' più farraginoso, come se qualche passaggio inferenziale si fosse "perso per strada", dando l'impressione della giustapposizione piuttosto che della concatenazione soprattutto nella digressione storica. È però da notare come da subito si sia tentato di portare la discussione a proprio favore mediante l' uso del distinguo: non si possono chiamare scienze perchè "scienza" in senso proprio vuol dire questo, e quell'altro è un uso improprio del termine... anzi, se ne suggerisce uno in alternativa, più preciso: studi umani, mutuato dal latino studia humanitatis. Il ricorso all' auctoritas, invece, è contestabile: si tratta del parere di uno scienziato "galileiano" e quindi di una fonte autorevole ma "partigiana". Nonostante in questo caso nessuno dei due interventi di prologo contenga una anticipazione di cosa diranno i due argomentatori successivi, si può intravedere già dalle definizioni la linea strategica che terranno in seguito le due squadre. I TURNO DI ARGOMENTAZIONE PRO – L'opinione comune ritiene che la scienza sia infallibile. Ora, consideriamo l'esempio del caso Morgan: questo noto scienziato riteneva che i caratteri ereditari trasportati dai geni si presentassero sempre mescolati nello zigote, e per questo vinse anche un premio Nobel. Molti scienziati successivi dimostrarono invece che c'è la possibilità che alcuni caratteri vengano trasmessi inalterati di generazione in generazione. Dunque, questo esempio ci fa Palestra di botta e risposta al microscopio 169 capire che ciò che connota la scienza non è la sua certezza ed assolutezza. Allora vogliamo chiederci: che cos'è che rende una conoscenza semplice, di dati svincolati fra loro, una conoscenza scientifica? Cos'è che fa di una conoscenza una vera scienza? Bene, ciò che connota la scienza è la ricerca dei rapporti di causa-effetto tra i fenomeni. Questo è comune sia alle scienze naturali, scienze esatte, che procedono al reperimento di leggi per spiegare il funzionamento della natura, sia alle scienze umane, scienze dello spirito, che da un dato individuale o da un fatto storico tentano di pervenire a una spiegazione. Ciò che connota la scienza, quindi, non è il metodo. Il metodo è uno strumento per la ricerca del rapporto causa-effetto, e di metodi sappiamo bene che nella storia se ne sono susseguiti molti. Nemmeno l'oggetto, in quanto questo distingue semplicemente una scienza dall'altra. In conlusione quindi, le scienze umane, in quanto caratterizzate dalla ricerca di rapporti di causa-effetto come le scienze naturali, sono da definirsi scienze. DOMANDA (CONTRO) – Ci puoi spiegare meglio cosa intendi quando dici che la ricerca del rapporto causa-effetto è ciò che connota la scienza e ancora come tu possa vedere nel metodo solamente uno strumento e non la parte principale della scienza? RISPOSTA (PRO) – La tesi secondo cui la scientificità di una disciplina si connota per la ricerca dei legami di causa-effetto è una tesi di Weber. E anche noi vediamo che questa è una modalità costante che l'uomo applica rispetto ad ogni disciplina. Non possiamo dire che sia il metodo a connotare una scienza, in quanto il metodo è una cosa che è cambiata... è cambiata nel tempo. Noi lo consideriamo lo strumento che serve a ricercare i legami di causa-effetto. CONTRO – Per motivare pienamente il nostro "no" a poter definire scienza gli studi umani dobbiamo fare un importante distinguo, quello fra le scienze dei tempi di Platone ed Aristotele e le scienze galileiane. Queste due definizioni che a un primo sguardo possono sembrare sovrapponibili, in 170 Roberto Falduti realtà sono molto diverse fra di loro. Partiamo dalla cosiddetta epistéme. Che cos'era? Un ragionamento dimostrato, argomentato a parole. I vertici dei ragionamenti di questo tipo sono i teoremi di Euclide, che sono stati appunto dedotti razionalmente. Con la nascita del metodo scientifico, nel Seicento, la conoscenza diventa sperimentale, matematizzata e pratica. Il ragionamento non basta più da solo, serve un esperimento e la sua continua messa in pratica per poter arrivare a formulare una legge universale. Ora, ed è questo il punto cruciale della nostra argomentazione, le scienze galileiane mettono in rapporto l'uomo con la natura e le sue realtà oggettive. Facciamo un esempio: un sasso che cade. Qualora un giorno dovessimo dimostrare che l'insieme di leggi e di formule, come la legge di gravitazione di Newton, fossero fallaci, perchè frutto dell'interpretazione dell'uomo, il sasso cadrebbe comunque sempre nello stesso modo. Non così si può dire degli studi umani che si occupano delle opere umane: in quel caso è l'uomo che studia l'uomo e ne dà un'interpretazione. Gli esempi più importanti che avvalorano la nostra tesi sono la filologia e la psicologia. DOMANDA (PRO) - Non ci sono domande da parte della squadra pro Il primo turno di argomentazione è lineare e si inserisce nel solco lasciato presagire dagli interventi di prologo. La squadra Pro apre con un esempio atto a confutare l'opinione comune: si ribadisce dunque l'allontanamento dalla doxa fallace e lo si fa mettendo in luce come un solo controesempio serva a "smontare" una falsa opinione. Ma l'esempio è ben scelto? Forse un caso più comprensibile (diciamo pure più facile, alla portata di tutti) sortirebbe maggior presa sull'uditorio. Le conclusioni sono però molto chiare e l'argomentazione "scorre" in maniera consequenziale, con tutti i passaggi e i nessi logici ben visibili e ben esplicitati. La domanda rivolta dalla squadra Contro ha una funzione "esplorativa", cioè consiste in una richiesta di chiarimenti. Le domande rivolte all'argomentatore possono infatti svolgere una duplice funzione: o quella, diciamo cooperativa, di richiedere ulteriori chiarimenti per poter meglio comprendere la tesi dell'interlocutore, oppure quella, chiamiamola competitiva, di smascherare Palestra di botta e risposta al microscopio 171 subito una falla nel ragionamento appena concluso e quindi mettere in difficoltà l'interlocutore. In questo caso però la domanda non fa che richiedere una ripetizione di ciò che è stato appena detto: si tratta di una scelta strategica o semplicemente del tentativo di occupare il turno di domanda senza passare la mano? L'argomentazione della squadra Contro è basata su un solo argomento, evidentemente considerato forte, che è la definizione di scienza galileiana, cioè sperimentale. Viene inoltre introdotta la dicotomia natura-oggettività/uomosoggettività per rafforzare la propria argomentazione e poi un esempio, semplice e comprensibile. Attenzione, però: la dicotomia in questione non rappresenta esattamente l'oggetto del contendere, e quindi la tesi che la squadra Contro è tenuta a negare. Se dunque si tratta, come io ho in buona fede per ora ipotizzato (la presunzione di innocenza vale anche nel campo argomentativo) di un semplice tentativo di rinforzo della propria posizione, rimaniamo nel campo del lecito. Se invece si trattasse del tentativo di spostare la confutazione verso questo nuovo elemento, sostituendolo all'oggetto del contendere, allora si configurerebbe la fallacia dell'uomo di paglia (nella letteratura anglosassone, strawman) che consiste nel "presentare una tesi apparentemente simile a quella che si vuole negare, ma meno ragionevole, quindi disfacendosi di questa nuova tesi pretendere che anche l'altra sia da considerarsi non vera"15 Seguiamo il resto della disputa per sapere come andrà a finire... Per concludere invece l'analisi dell'intervento della squadra Contro, rimane solo da dire che l'accenno alla filologia e alla psicologia come controesempi cade, per ora, nel vuoto e crea nell'uditorio l'aspettativa che venga ripreso successivamente. II TURNO DI ARGOMENTAZIONE PRO – Incomincerò prendendo in esame l'astronomia e le scoperte che si sono susseguite in questo campo nel corso dei secoli. Tutti sanno che siamo 15 D'Agostini 2010, p. 126. Su questa fallacia si veda anche la sintetica e chiara definizione di Boniolo e Vidali 2002, p.106 172 Roberto Falduti passati, per esempio, dalla teoria tolemaica a quella copernicana. Non era forse ritenuta esatta e valida la teoria di Tolomeo, che poi è stata confutata? Prima di essere confutata, non era ritenuta una risposta valida alle esigenze e alle domande proprie di quel momento storico? Questo ci porta ad ammettere che anche i risultati dati dalle scienze naturali sono da collocarsi in un determinato contesto storico. Infatti, da cosa deriva la formulazione di una teoria? Dipende dai mezzi, dagli strumenti a disposizione dell'uomo, dipende dalla mentalità e dall'ambiente socio-culturale. La scienza, quindi, rappresenta una risposta valida in un dato momento storico, ed è garanzia di una validità non assoluta. Inoltre non consiste solo nella pura dimostrazione, ma anche nella spiegazione. Ora, anche le scienze umane sono da collocarsi in un contesto storico: quindi, ciò che accomuna scienze naturali e scienze umane è proprio questo configurarsi all'interno di un contesto storico. Quindi, viene meno quel carattere di universalità che presupponeva che le scienze umane fossero in uno stato di minorità rispetto alle scienze naturali. Ogni congettura può venire confutata. Ciò ci consente di affermare che è corretto chiamare "scienze" le scienze umane. DOMANDA (CONTRO) – Hai giustamente detto che si è passati dalla teoria tolemaica a quella copernicana e che quella tolemaica è stata confutata. Ma la natura non cambia. Non è che ai tempi della teoria tolemaica c'era la Terra al centro e che poi ci si è messo il Sole... c'è sempre stato il Sole, al centro, con i pianeti che gli giravano intorno... RISPOSTA (PRO) – Ma certo... però la scienza è fatta dall'uomo. Noi non mettiamo in dubbio l'oggettività della natura, ma quella della scienza. E quindi abbiamo dimostrato che la scienza non è oggettiva e assoluta ma storicamente determinata. CONTRO – Procederò a confutare la tesi, appoggiando quello che hanno detto prima i miei compagni, accingendomi alla critica del positivismo, che tentò di ricondurre sotto l'accezione di scienza gli studia humanitatis. In Palestra di botta e risposta al microscopio 173 particolare fu Comte, l'inventore della sociologia, che definì quest'ambito di studi come la "nuova scienza", dicendo che la costruiva per "conoscere al fine di prevedere, per poter controllare". Quella di Comte e dei positivisti non è nient'altro che una pretesa, dal momento che fra gli studiosi di studia humanitatis e gli scienziati delle scienze galileiane ed esatte intercorrono almeno tre principali differenze: la prima riguarda la materia studiata, la seconda il metodo utilizzato, e la terza infine, fondamentale, il risultato. Per cominciare, da una parte le scienze galileiane analizzano la natura, mentre dall'altra gli studia humanitatis studiano l'uomo, con tutte le differenze che ciò comporta, quindi la soggettività. Negli studia humanitatis è l'uomo che si pone di fronte all'uomo stesso, anche con la problematicità che il rapporto fra microcosmo umano e macrocosmo esterno comporta... La seconda differenza è quella del metodo: sarebbe pretestuoso applicare il metodo galileiano agli studia humanitatis, dal momento che mancherebbero il linguaggio matematico e l'esperimento. La differenza sostanziale sta poi nel risultato: se da una parte si ottiene una legge di tipo deterministico, necessitante, sotto la quale si può ricondurre la gamma della casistiche, dall'altra si può ottenere tutt'al più una legge di tipo probabilistico, influenzata dalla soggettività umana. Infatti, per citare Gibran nel Profeta, "l'uomo è un mare senza confini né fondo" La seconda argomentazione della squadra Pro si apre con un esempio molto più "facile" e fruibile di quello utilizzato nel primo intervento, e bisogna dire che l'effetto è più chiaro. Se nel precedente capitolo mi ero soffermato a parlare del grande uso, nell'ambito delle nostre dispute, dell' analogia, appare chiaro da questa trascrizione che anche l'esempio è molto usato dagli studenti. Del resto, si tratta di un argomento frequentissimo nell'argomentazione comune, ma che non è disdegnato neanche dall'argomentazione filosofica, che ha una lunghissima tradizione, ben valorizzato da Aristotele nella sua Retorica. Perelman e Olbrechts-Tyteca lo associano all'analogia fra i cosiddetti argomenti fondanti la struttura del reale16, intendendo con ciò che questi argomenti, più 16 Perelman e Olbrechts-Tyteca (trad. it.)1966 174 Roberto Falduti che fondarsi sulla struttura del reale, quasi la creano, la costruiscono, mettendo in luce dei legami fra le cose a volte non immediatamente visibili. Da questo esempio deriva l'affermazione secondo cui le scienze naturali e le scienze umane sono accomunate dalla storicità (potremmo quasi dire: dall'essere soggette al tempo, al divenire) e quindi dalla falsificabilità delle loro conclusioni. In questo caso la squadra Pro, che si era dichiarata contraria alla doxa "del volgo", si dimostra invece sicuramente imbevuta dell'opinione largamente en-doxa nell'epistemologia novecentesca (l'esempio è di Khun, alcuni termini usati sono chiaramente popperiani ecc). Forse, in questo caso, avrebbe giovato avvalersi dell'autorità di queste fonti esplicitandole. Un altro elemento, che avrebbe potuto essere sfruttato ulteriormente, viene solo accennato: è l'argomento secondo cui anche le scienze naturali non consistono di sola dimostrazione, ma anche di argomentazione (credo che sia questo il senso da attribuire al termine spiegazione usato, forse in maniera imprecisa, nel corso dell'intervento). Evidentemente il tempo non ha consentito di sviluppare appieno le potenzialità dell'argomento (che a mio parere sarebbe potuto risultare decisivo). La domanda rivolta dalla squadra Contro appartiene alla seconda categoria di domande, quelle che avevamo definito in precedenza competitive. L'intento è infatti quello di mettere in difficoltà l'argomentatore. La risposta è in questo caso precisa e smaschera il tentativo di confondere l'oggetto del contendere (si conferma l'ipotesi dell'uomo di paglia che avevo avanzato in precedenza...) La seconda argomentazione della squadra Contro parte dal dichiarato intento di procedere per via di confutazione e cita come oggetto di tale confutazione le teorie positiviste e in particolare quelle di Comte, che hanno tentato di avvalorare la tesi che la squadra intende negare. Le teorie di Comte sono in realtà solo accennate, ma le tre "differenze" fra scienze naturali e studia humanitatis sono allineate con ordine e l'argomento risulta essere persuasivo. Ogni argomento è attaccabile (altrimenti non sarebbe un argomento): si potrebbe ribattere che anche l'uomo fa parte della natura, che anche sulle cose umane è possibile praticare esperimenti, che anche le scienze naturali conducono all'acquisizione di un sapere probabilistico. Vedremo se queste opportunità verranno sfruttate o meno in fase di replica. Da notare la scelta di aver fin dal Palestra di botta e risposta al microscopio 175 prologo definito studi umani o studia humanitatis ciò che nella stessa presentazione della questione veniva definito scienze umane: l'uso del termine non è stato mai contestato dalla squadra avversaria ed è diventato a mio parere un punto di forza della squadra Contro, che usandolo di continuo ed esclusivamente ha trasmesso un'impressione di compattezza e coerenza rafforzata dalla reiterazione. Certo la squadra avversaria potrebbe muovere l'accusa di usare un linguaggio pregiudizievole, o di fornire una definizione pregiudizievole (non abbiamo ricordato prima che ogni definizione è in realtà un argomento?) o addirittura ipotizzare la fallacia di petitio principii (presupporre ciò che si intende dimostrare), ma per il momento non lo fa. Ho scelto di non trascrivere la domanda rivolta dalla squadra Pro perchè non apporta novità nell'andamento del dibattito e perchè attraverso i due esempi di domande della squadra Contro ho già esplicitato le due funzioni (cooperativa e competitiva) che può avere l'interrogazione all'interno delle nostre dispute. FASE DI REPLICA Durante la fase di replica l'ordine dei turni di parola viene invertito: si comincia dunque dalla squadra Contro I TURNO DI REPLICA CONTRO – Vorrei iniziare rilevando una piccola incongruenza nella vostra argomentazione. Voi avete sostenuto che il metodo scientifico cambia nel corso della storia, segue l'evoluzione dell'uomo e del suo ambiente culturale. Non è esatto, perchè da quando nel Seicento Galileo ha posto le basi del metodo scientifico, queste sono rimaste invariate. Potete guardare in qualsiasi libro di fisica. Altro appunto: vorrei affermare che il metodo scientifico rappresenta lo spirito della ricerca scientifica. Nella vostra argomentazione lo avete presentato come un accessorio. Avete definito la scienza come la ricerca 176 Roberto Falduti dei legami causa-effetto, ma avete sminuito il metodo galileiano che è alla base della ricerca scientifica. Poi, nella vostra argomentazione non ho rilevato nessuna definizione di quelle che voi chiamate "scienze umane". Vi siete solo preoccupati di criticare l'astronomia, le scienze naturali. E, visto che per voi la scienza è soggettiva, avrei due domande da porvi: perchè gli aerei volano? Domanda numero due: potreste prevedere che cosa sto pensando in questo momento? Visto che per voi la psicologia è sicuramente una scienza, fa parte delle scienze umane no?... allora ditemi esattamente quello che sto pensando in questo momento... DIFESA PRO – Rispondo alle domande... È chiaro che un aereo vola. Noi non abbiamo voluto mettere in dubbio la realtà, ma la posizione dell'uomo rispetto alla realtà. Noi riteniamo che sia l'uomo che fa la scienza. Il modo in cui l'aereo vola non può cambiare, il modo in cui spiego che l'aereo vola può cambiare. Per quanto riguarda la seconda domanda, non posso sapere cosa stai pensando adesso, però quando avrai compiuto un'azione, potrò risalire alla causa, potrò spiegarmi perchè l'hai fatto. PRO – Comincerei col dire che parlare di concezione galileiana della scienza dopo tutti i dibattiti che ci sono stati durante l'Ottocento e il Novecento... è un po' antiquato... Partiamo dal punto sulla sperimentazione. La sperimentazione galileiana è finalizzata alla verificabilità. La verificabilità è stata contestata dalla tesi sulla falsificabilità di Popper. Per citare le sue parole, "mille esperimenti non provano una tesi, ma basta uno per falsificarla". In secondo luogo, un esperimento presuppone una congettura fatta dall'uomo, un'ipotesi formulata in precedenza, che ha come caratteristica proprio quella della falsificabilità, perchè proprio l'esperimento stesso potrebbe falsificarla. Inoltre, dobbiamo sottolineare come anche il risultato di un esperimento abbia bisogno di un'interpretazione dell'uomo. Poi, avete parlato della matematizzazione e del metodo matematico. Io posso dirvi che le scienze umane usano il metodo statistico, se quello della quantificazione è il problema che voi ci ponete. Ma non sta scritto da nessuna parte che il metodo quantitativo debba essere il me- Palestra di botta e risposta al microscopio 177 todo delle scienze. Piuttosto, esse devono averne uno. Se il metodo fosse solo quello matematico, né la medicina clinica né la biologia sarebbero scienze. Per finire: il sasso che cade. Certo, il sasso cade sempre nello stesso modo, ma non è il sasso che cade a rappresentare la scienza, ma il modo in cui l'uomo lo conosce. In sostanza si torna al problema dell'oggettività. Pensiamo a Kant: la centralità del soggetto conoscente. Noi conosciamo in base alle nostre strutture conoscitive. La scienza non vuole essere lo specchio della realtà, ma tentare di spiegarla all'uomo. Innanzi tutto, si noterà come, rispetto ai turni di argomentazione, i turni di replica siano costruiti giocoforza "a caldo", modellati su quanto è stato detto dagli interlocutori. Per quanto si possa in sede di preparazione alla disputa cercare (e a volte ci si riesce molto bene) di prevedere quale potrà essere il nucleo argomentativo dell'avversario, ci sarà sempre qualcosa destinata a sfuggire, e un buon intervento di replica deve invece ribattere punto su punto l'argomentazione contraria. A farne le spese è, a volte, la costruzione strutturale dell'intervento, che si presenta meno armonico e meno delineato nelle sue parti, e anche il registro linguistico adottato, che inevitabilmente tende a "scendere" di livello. In effetti si ha l'impressione di giustapposizione di diverse obiezioni, più che di una ponderata replica, nel primo intervento della squadra Contro, in cui fra l'altro la domanda secca "Perchè gli aerei volano?" è un tentativo di riproporre lo spostamento dell'oggetto del contendere (l'uomo di paglia si fa sempre più minaccioso...) La difesa della squadra Pro è puntuale (ci vuole una bella prontezza di riflessi per non lasciarsi spiazzare dalle due domande "ad effetto") Il turno di replica della squadra Pro è ottimo nella prima parte, fra l'altro espresso con un registro linguistico adeguato. Si scoprono le carte: viene citato espressamente Popper; è buono l'artificio di non spiattellare il ricorso all'auctoritas in sede di argomentazione ma di farne valere il peso in sede di replica. Nel finale invece si ritorna a cadere nella trappola tesa dall'uomo di paglia: con la ripresa dell'esempio del sasso che cade si scivola nella questione dell'oggettività della scienza, che non è la tesi da discutere. Comprensibile la 178 Roberto Falduti citazione di Kant, ma pericolosa... non è proprio la demarcazione fra ciò che può essere definito come scienza e ciò che non ne ha diritto uno degli obiettivi della speculazione kantiana? II TURNO DI REPLICA CONTRO – Voi avete concluso il vostro primo intervento dicendo che la vita dell'uomo non è guidata dalla scienza ma è frutto di un'interpretazione. O chi lo ha detto non sapeva bene cosa stesse dicendo, o ci ha dato fortemente ragione: infatti noi abbiamo sostenuto che quelle che voi chiamate "scienze umane" siano il risultato di una "libera" interpretazione. Poi: voi continuate a parlare di infallibilità o meno della scienza. Il problema non è questo, perchè la tesi da dimostrare è un'altra. Comunque, la nostra professoressa E.F. biologa, la nostra insegnante di scienze, ha sempre affermato che la biologia è esatta al 97 per cento... Poi avete parlato, nel secondo intervento, di astronomia con un excursus piuttosto vago, parlando di Tolomeo e Copernico e dimenticando fra l'altro Keplero... Poi avete basato il collegamento fra scienze naturali e scienze umane sul fatto che sono dipendenti dal contesto storico... sinceramente mi sembra un po' debole. Ultimo punto, voi dite che il metodo è solo uno strumento, noi sosteniamo che il metodo è il fondamento. DIFESA PRO – Volevo dire che noi non abbiamo mai tirato fuori la questione dell'infallibilità della scienza, al massimo lo avete fatto voi. Parlando di oggettività, universalità, matematizzazione, siete stati voi a tirar fuori questa questione. Segue una fase piuttosto frammentata di scaramucce verbali che non è agevole (né utile) trascrivere, fin quando la giuria interviene e decreta il passaggio al turno di parola successivo. PRO – Nel vostro secondo turno di argomentazione avete detto che ciò che distingue le scienze naturali dalle scienze umane sono la materia, il metodo e il risultato. Per quanto riguarda la materia, cioè l'oggetto di studio, avete Palestra di botta e risposta al microscopio 179 detto che le scienze naturali studiano l'universo, tutto ciò che ci circonda. Bè, a dieci centimetri da me c'è un altro essere umano, anche lui fa parte dell'universo e ha la dignità di oggetto di studio. Per quanto riguarda il metodo, penso che nessuno possa dire con certezza che l'unico metodo scientifico sia il metodo galileiano. E comunque, per esempio, la psicologia sperimentale usa il metodo galileiano e fa parte delle scienze umane. Per quanto riguarda il risultato, avete detto che la scienza per essere tale deve portare a un risultato universale... universale vuol dire che va bene sempre, in ogni tempo e in ogni luogo. Successivamente però avete accolto la nostra affermazione secondo la quale la scienza va calata in un preciso periodo storico. Allora: o è universale, o va calata nel contesto storico... DIFESA CONTRO - Bè, se tu un giorno riuscirai a mettere a punto un metodo migliore di quello galileiano per le scienze come l'astronomia, la fisica ecc, dimostrando che è più vicino alla realtà di quello galileiano, che voi avete definito "antiquato", quello da domani sarà il nuovo metodo scientifico e, con i mezzi che abbiamo a disposizione oggi, sarà il più vicino alla realtà. Noi stiamo solo dicendo che oggi, allo stato attuale, quello che definisce la differenza fra una scienza e una semplice "materia di studi" è il metodo galileiano. Non stiamo dicendo che tutto ciò che non è scienza sia privo di logica o campato in aria; anche la psicologia che citavi prima è una cosa serissima ma non è una scienza galileiana. PRO - Ma se tu sostieni che un giorno potremo ipoteticamente trovare un metodo che sostituirà quello galileiano e ci farà arrivare a una conoscenza ancora più certa, come puoi sostenere tuttora l'oggettività della ricerca delle scienze naturali? Non so se esista un certo più certo del certo... La seconda replica della squadra Contro è viziata da un atteggiamento lievemente provocatorio. Lo si nota, oltre che dal tono, dal contenuto di uno dei termini della disgiunzione ("O non sapeva cosa stesse dicendo..."). Fra l'altro, la disgiunzione è discutibile. L'argomento della disgiunzione o dilemma è a volte 180 Roberto Falduti usato nel corso delle nostre dispute; ne abbiamo un altro esempio poco dopo. Si tratta di un argomento considerato molto forte per via della sua forma "logica" (si rifà al principio di non contraddizione e al principio del terzo escluso) ma è molto facile che si cada nella fallacia di falsa disgiunzione, che consiste nel creare una "falsa dicotomia di due opzioni contrapposte, che non esauriscono tutte le alternative"17 . Un momento veramente singolare è quando la squadra avversaria viene accusata di aver volontariamente spostato la discussione sul tema della oggettività della scienza: la responsabilità dell'allestimento dell'uomo di paglia è stata addirittura rovesciata sull'avversario! Una retorsio in piena regola (ovviamente fallace). Per finire, vengono espressi giudizi di disapprovazione sulle argomentazioni dell'altra squadra, senza però spiegare il perchè siano da considerare negativamente. Si potrebbe quasi configurare un tentativo di replica ad hominem invece che ad rem, in quanto la replica non viene rivolta contro l'argomento (non c'è traccia di controargomentazione) quanto piuttosto contro la persona che l'ha pronunciato. La difesa della squadra Pro è pronta, ma il risultato finale è che la disputa "degenera" verso la scaramuccia (è la parte che ho omesso di trascrivere) e il tranello-provocazione ha sortito l'effetto che forse era quello desiderato. La seconda replica della squadra Pro ha il pregio di essere ordinata e di replicare punto per punto, specularmente, al secondo turno di argomentazione degli avversari, anche se le espressioni contestate agli avversari vengono riformulate in modo leggermente distorto. Anche in questo caso non si tratta di un comportamento cristallino, ma non so quanto si tratti di un atteggiamento volutamente fraudolento o quanto invece sia dovuto agli effetti che la "perturbazione" precedente ha causato sull'andamento della disputa. Si osserva spesso nel corso dei nostri incontri, infatti, come il momento cruciale in cui si decidono le sorti della disputa (o anche in cui più facilmente si perde il bandolo della matassa) sia proprio la fase di replica con la successiva interlocuzione botta e risposta: è in questo frangente che si rischia la diversione, la perdita della lucidità argomentativa, lo stallo su argomentazioni secondarie e 17 Cattani 1995, p.135 Palestra di botta e risposta al microscopio 181 la ridondanza; si rischia anche di scadere nella lizza eristica e di abbandonare l'argomentazione razionale. Ma è proprio questa la fase della disputa che serve più di ogni altra come addestramento a contrastare queste abitudini negative. La successiva difesa della squadra Contro e la ripresa della squadra Pro non spostano sostanzialmente l'asse della discussione. Interessante l'uso del calembour e dell'ironia; ma siamo davvero ad una fase di stallo e attendiamo la recapitulatio finale per "mettere ordine". EPILOGO CONTRO – Concludendo, io e la mia squadra, alla domanda "è corretto chiamare 'scienze' le scienze umane", rispondiamo: no. Riteniamo che una scienza, per essere così chiamata, deve essere supportata dalla matematica, che è la base irrinunciabile per il metodo scientifico, che ne può garantire la certezza dei risultati. Le materie umanistiche quali la psicologia e la filologia non hanno questa base. Hanno un metodo, anche se voi non avete ben chiarito quale, avete solo fatto presente che basta che ci sia un metodo. Bè allora anch'io posso inventarmi un nuovo metodo per tradurre le versioni... ma io non ho nessuna base per garantire che il mio metodo sia quello corretto. Noi pensiamo che solamente la matematica possa dare questa base di certezza. Pensiamo a Freud: per la sua interpretazione dei sogni, non utilizza un metodo scientifico. Possiamo definirlo un metodo pseudo-scientifico, infatti non avendo una base matematica non arriva a conclusioni certe e oggettive, ma soggettive e condizionate dalla persona e dal periodo storico in cui si trova. Kant afferma che la scienza "offre il tipico esempio di verità universale e necessaria, che pur derivando dall'esperienza e nutrendosi di essa continuamente, presuppone alla propria base alcune certezze immutabili che fungono da pilastri, e da garanti di verità ". I vostri interventi non hanno portato alcun argomento a favore delle scienze umane, ma hanno solo tentato, a mio parere senza riuscirci, di sminuire l'universalità delle scienze naturali. Ah, noi non parliamo di "certo e più certo"... noi parliamo di certo o sbagliato. Il giorno in cui 182 Roberto Falduti verrà dimostrato che il metodo galileiano è sbagliato, solo allora un nuovo metodo rappresenterà una certezza. PRO – Buon giorno a tutti, sono Camilla, del liceo scientifico Tito Livio... Abbiamo sviluppato un'argomentazione secondo la quale le scienze umane sono da considerarsi "scienze" a pieno titolo. I nostri interlocutori hanno portato una definizione di scienza che a noi sembra un po' riduttiva, in quanto l'hanno circoscritta a quella basata sulla matematizzazione, la formalizzazione, la deduzione. A noi sembra che, dopo la rivoluzione epistemologica di Popper e di Kuhn, si possano considerare scientificamente valide le conoscenze che possono definirsi adeguate in un certo momento storico. Adeguate, non universali. Universali vorrebbe dire che sono al riparo dallo spazio e dal tempo, cioè si sottraggono a quella che potrebbe essere la loro falsificabilità nel futuro... Poi, i nostri interlocutori hanno sostenuto che le scienze umane non possono essere vere scienze perchè studiano l'uomo... noi sosteniamo che proprio per questo possono giungere a conclusioni ancora più valide. Che cosa l'uomo può conoscere meglio dell'uomo stesso e delle cose che egli stesso produce? È la famosa frase del filosofo Vico: "verum ipsum factum", e questo è proprio l'ambito di studio delle scienze umane. A questo punto la disputa è conclusa. A chi sarà assegnata la palma del vincitore? Invito i lettori a formulare un'ipotesi anticipando quello che verrà svelato nelle prossime righe: sarà interessante confrontare la propria opinione con quella della giuria. Ovviamente bisogna cercare (e non è facile) di non farsi influenzare dalla propria convinzione in merito alla questione dibattuta: anche la giuria è conscia della difficoltà derivante dal compito di valutare soltanto il modo con cui le opposte posizioni sono state sostenute. Il risultato finale si è ottenuto sommando i punteggi attribuiti da ciascuno dei tre giudici in base a parametri precedentemente stabiliti e successivamente dividendo per un coefficiente che determinasse un risultato espresso in decimi: con il punteggio di 7,22 contro 7,19 (uno scarto dav- Palestra di botta e risposta al microscopio 183 vero minimo) è risultata vincitrice la squadra Contro (Liceo Classico "C. Marchesi"). Il responso della giuria coincide con quello da voi espresso? Se così non fosse, sarebbe la conferma che "La natura stessa dell'argomentazione e della deliberazione s'oppone alla necessità e all'evidenza, perchè non si delibera dove la soluzione è necessaria, né si argomenta contro l'evidenza. Il campo dell'argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui quest'ultimo sfugge alle certezze del calcolo."18 BIBLIOGRAFIA Aa.Vv. (2010), La svolta argomentativa. 50 anni dopo Perelman e Toulmin, Loffredo, Casoria (NA) Boniolo, G. e Vidali, P. 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(trad. it 1991), L'arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, Adelphi, Milano 18 Perelman e Olbrechts-Tyteca (trad. it) 1966, p. 3 SENOFONTE NICOLLI Non di sole parole. Disputa filosofica e comunicazione non verbale La cosa più importante nella comunicazione è ascoltare ciò che non viene detto" (Peter Drucker) La verità dipende dalla dimostrazione? Cogliere il bello è una capacità innata o acquisita? È l’uomo misura di tutte le cose? Esiste una storia o ci sono più storie? È corretto negare l’espressione di opinione a chi nega l’Olocausto? La religione è la più grande barriera all’integrazione? La realtà è razionale? I problemi filosofici sono problemi irrisolvibili? La scuola deve preparare al lavoro? La felicità si può descrivere? L’assassinio di un dittatore può essere giustificato? La democrazia è la migliore forma di governo? Onestà e lealtà vanno sempre di pari passo? È corretto definire l’uomo “animale razionale”? Queste sono solo alcune delle domande impegnative e avvincenti da cui sono partiti gli studenti delle scuole superiori per sviluppare le loro dispute filosofiche. Lo hanno sempre fatto coinvolgendosi in maniera competente, appassionata e appassionante. E, tuttavia, la loro attenzione era prevalentemente rivolta all’elaborazione dei contenuti; meno al modo con il quale essi venivano espressi. Gli studenti sembravano non avere sufficiente consapevolezza delle 186 Senofonte Nicolli loro modalità comunicative, soprattutto quelle non verbali. Come se, in qualche modo, anche il loro corpo non parlasse. Il corpo, invece, parla. Eccome. E lo fa in modo molto più eloquente delle parole che usiamo per descrivere i nostri pensieri. Uno dei luoghi comuni più diffusi in termini di comunicazione è quello che questa passi prevalentemente per il verbale. Può sembrare che a comunicare siano soltanto le parole, che siano solo queste a trasferire i concetti del nostro pensiero. Le parole non sono, invece, l’unico mezzo che ci permette di comunicare efficacemente; in realtà trasmettiamo pensieri anche attraverso gesti e atteggiamenti del nostro corpo. Approfondendo la conoscenza di questa forma di linguaggio possiamo arrivare ad utilizzarlo per comprendere meglio i messaggi che ci vengono trasmessi dalle altre persone, così come per persuaderle per ottenere ciò che desideriamo. Bisogna, infatti, tenere presente che noi siamo responsabili dell’esito della comunicazione; una gestione consapevole della gestualità, della prossemica e di alcuni segnali, può permetterci di migliorare la qualità della relazione. Il linguaggio verbale è quello a cui tutti pensiamo quando sentiamo la parola comunicazione, eppure essa rappresenta solo il sette per cento della comunicazione stessa. Le parole, quindi, incidono solo in maniera marginale durante un discorso. Imparare, invece, a rendere coerente la comunicazione verbale e quella non verbale consente di essere più persuasivi e chiari. Conosciuta anche come linguaggio del corpo, la comunicazione non verbale svolge importanti funzioni nel comportamento sociale dell'uomo. Quando dobbiamo farci un'idea di una persona, per esempio, facciamo riferimento, oltre a quello che dice, ai segnali non verbali che ci manda: il tono di voce, la mimica del volto, i movimenti, i gesti. Il linguaggio del corpo, conosciuto come "comunicazione non verbale", ha perciò un peso decisivo in tutti gli scambi comunicativi. Si pensa che il corpo sia determinante in almeno il settanta per cento (fino al novanta per cento) del messaggio trasmesso. Ciò significa che le nostre parole colpiscono l’attenzione in misura minore di quanto possiamo pensare. Le parole, dunque, rappresentano solo una piccolissima fetta della comunicazione che si alimenta, in gran parte, di cose non dette, di toni di Non di sole parole. Disputa filosofica e comunicazione non verbale 187 voce e gestualità. È perciò importante prestare attenzione a ciò che si dice, ma anche a ciò che si fa. Il trentotto per cento della comunicazione passa, piuttosto, attraverso il tono, il timbro, il volume e l’inflessione della voce. Questo significa che se vogliamo farci capire dobbiamo assolutamente alternare il tono della voce in base ai concetti che si stanno esprimendo. Se non lo facciamo, se continuiamo a parlare con il solito tono di voce, rischiamo di fare perdere interesse e attenzione per le nostre parole. L’utilizzo dei toni della voce è il primo importante segnale di comunicazione. La capacità di persuasione percepita da chi ascolta varia in relazione a velocità di esposizione, volume del discorso, assenza di esitazioni, sottolineature tonali. E’ chiaro, cioè, che la vivacità e la presenza di segni paralinguistici sono in grado di aumentare la forza e l’efficacia del messaggio verbale. Il linguaggio paraverbale possiamo definirlo il valore aggiunto alla comunicazione verbale. Infine, ben il cinquantacinque per cento della nostra comunicazione passa attraverso l’atteggiamento non verbale, chiamato anche il “linguaggio del corpo”: il contatto con gli occhi, i movimenti del corpo, delle mani, i supporti visivi. In questo caso si coinvolgono anche tutte quelle persone che hanno, come sensi più sviluppati, quelli visivi. Per questo è bene sempre guardare le persone, scambiare con ognuna di loro lo sguardo, fare in modo che si sentano coinvolte, fargli capire che ci teniamo che capiscano quello che vogliamo comunicargli. "Guardami negli occhi, capirò se ti interessa ciò che dico”. Occorre poi sapersi muovere. Usiamo soprattutto le mani: per accompagnare le parole, i toni, le cadenze, per rilevare dei passaggi importanti. Gesticolare aiuta a pensare meglio, a concentrarsi, a fissare nella memoria concetti importanti. Chi fa uso dei gesti, mentre comunica, ottiene risultati migliori: i gesti sono fondamentali per trasmettere pensieri e conoscenza. Le frasi più ricordate sono, infatti, quelle accompagnate da gesti significativi. Non si gesticola, del resto, solo per farsi capire meglio, ma anche per aiutare se stessi, quando si spiegano concetti difficili. È dimostrato che il settanta - ottanta per cento dell'informazione arriva al cervello attraverso quello che vediamo, a conferma di quanto la gestualità sia una componente importante, se non 188 Senofonte Nicolli fondamentale, della comunicazione. L'istinto che ci porta a gesticolare è fra i più radicati: gesticolano anche le persone che parlano al telefono; gesticolano i bambini piccolissimi; gesticolano i non vedenti quando parlano con altri non vedenti. Le mani sono per gli esseri umani ciò che la bacchetta è per un direttore d'orchestra. Tanto vale assecondare l'istinto e lasciare che sia il corpo a parlare per noi, o con noi. La comunicazione verbale e non verbale, per quanto diverse nella loro modalità di espressione, si integrano e si rafforzano a vicenda, influenzando la comprensione del discorso. Esse avvengono contemporaneamente e hanno un aspetto in comune molto importante: così come possiamo migliorare l’uso del linguaggio scegliendo di volta in volta le parole, possiamo anche usare, in modo consapevole, la comunicazione non verbale per dare forza al nostro messaggio e aumentare la valenza comunicativa. Per comunicare a trecentosessanta gradi occorre provare a “toccare” tutti i sensi e trasmettere le informazioni attraverso tutti e tre i canali d’accesso: uditivo, visivo, cinestesico. Ogni volta che ciascuno di noi parla è come se si mettesse sul palcoscenico. Siamo nudi di fronte al nostro interlocutore perché sveliamo una piccola parte di noi stessi, anche se non vogliamo o non ne siamo consapevoli. Perché è proprio il corpo che aggiunge valore informativo al messaggio stesso. Ecco perché l’uso consapevole della comunicazione non verbale ci rende più coinvolgenti, più affascinanti. Per comunicare non basta accontentarsi di avere trasmesso ciò che volevamo dire: se veramente vogliamo comunicare efficacemente con gli altri, dobbiamo mettere il destinatario nella situazione di capire ciò che noi gli abbiamo comunicato. Potremmo affermare che tutti possono comunicare, ma non tutti sanno farsi capire. Da ciò deriva che saper comunicare è un’arte. Un’arte che si può imparare. Se si impara a comunicare in modo efficace, vale a dire con un’attenta scelta delle parole e un controllo della comunicazione non verbale, avremo in mano gli strumenti per persuadere e convincere. Questo è vero poiché la comunicazione è un’impresa di relazione, la cui riuscita si misura sulla base del grado d’interesse e di coinvolgimento dell’interlocutore. Non di sole parole. Disputa filosofica e comunicazione non verbale 189 Il linguaggio non verbale fa parte di noi: è la cultura che ce lo fa a volte dimenticare. Riappropriarsi della capacità di "capirlo e parlarlo" significa recuperare qualcosa che forse abbiamo semplicemente dimenticato. Ho chiesto una volta ad un bambino di sei anni cosa voleva dire per lui comunicare. Mi ha risposto così: “Per parlare. È utile quando chiedo alla mamma la merenda. Ma non sempre me la vuole dare. Invece, se le sorrido, poi lei me la dà lo stesso”. ALBERTO RIELLO La parola e il gesto “La parola, da sola, non basta ad esprimere un’emozione, un’intuizione, un concetto; quando questi sono pregnanti, la parola ha bisogno di farsi corpo. Ed è il teatro il luogo privilegiato in cui è possibile una simile esperienza; in esso la parola “si fa corpo” attraverso la mimica, il gesto, il movimento, l’uso consapevole e mirato della voce, il simbolo materializzato visivamente e spazialmente (Rosita Paganin, La scatola della memoria). Sono un teatrante e come tale ho un’inclinazione a “fare” più che a “dire”. Il mio contributo in questa pubblicazione è legato proprio alla mia esperienza teatrale e cioè di operatore teatrale nelle scuole. Nei laboratori teatrali è fondamentale il lavoro sul corpo, sulla gestualità e sull’ascolto di se stessi attraverso un vero e proprio training attoriale. L’obiettivo è di recitare e interpretare il testo teatrale facendolo risuonare dentro se stessi. Ma per far questo bisogna conoscersi, decifrare la gestualità, bisogna saper “riflettere” con tutto il corpo. L’esperienza teatrale consente di godere della connessione tra mente e corpo, superando quindi il diffuso dualismo tra queste due dimensioni e coinvolgendo l’intera persona. Stimola gli studenti ad assaporare il testo, a “riflettere” su quanto si dice, ad uscire dal ruolo passivo di consumatore della parola e assumere quello di protagonista, che riesce a dare forma, coerenza e autenticità alla parola stessa sino ad esprime emozioni. 192 ALBERTO RIELLO Il gesto degli altri, ovvero manipolazioni di pensieri illustri Mi cimenterò in una breve incursione nel “gesto letterario”, ovvero nella percezione che del gesto hanno avuto alcuni grandi scrittori. Si tratta di un collage di libere manipolazioni destinate a costruire un personaggio immaginario in uno spettacolo. Io sono un sognatore e l’abitudine di sognare mi ha portato a conoscere i gesti con i quali ognuno rivela se stesso, la morfologia della propria psiche. (Pessoa, Il libro dell’inquietudine) Attraverso i gesti, riconosco le idee malvagie, riconosco ciò che in noi cerca di illuderci. (Pessoa, Il libro dell’inquietudine) Ma non è tutto, i gesti svelano anche da dove si viene;, … i napoletani, in particolare, dirigono con le mani orchestre invisibili: Io dico che se ci fosse un premio Nobel per la gestualità la vincerebbe un napoletano… non c’è dubbio che abbiano inventato il linguaggio del corpo più poetico del mondo… (Desmond Morris, L’occhio nudo) Una cosa, poi, che un accorto osservatore sa bene è che i gesti non rispettano le frontiere degli Stati moderni; infatti, la maggior parte dei gesti simbolici sono molto più vecchi dei confini politici attuali, considerato che alcuni confini di gesto europei risalgono a più di duemila anni fa! Trovo commovente che il nostro corpo sia più fedele ai suoi gesti che alle patrie bandiere (Galimberti, Il corpo); Ci sono gesti espressivi, gesti repressivi; soprattutto gesti repressivi. (Galimberti, Il corpo) Del resto, se dal momento in cui è apparso sul globo terrestre il primo uomo sono passati sulla terra circa 80 miliardi di esseri umani, è difficile supporre che ognuno di loro abbia il proprio repertorio di gesti. E’ aritmeticamente impossibile. Quindi, senza il minimo dubbio, al mondo ci sono molti meno gesti che individui, perciò il gesto è più individuale dell’individuo; come dire: molta la gente, pochi i gesti... In effetti, il gesto non è un’espressione dell’individuo, una sua creazione, perché nessun uomo è in grado di creare un gesto del tutto originale e che La parola e il gesto 193 appartenga a lui soltanto; né tantomeno, lo si può considerare come un suo strumento. Al contrario, sono i gesti che ci usano come i loro strumenti, i loro portatori, le loro incarnazioni. (Kundera, L’immortalità) Le norme culturali e sociali propongono o impongono cure e pratiche corporee commercializzando prodotti di bellezza, yoga, massaggio, sport. Così il corpo, apparentemente esaltato, viene invece ridotto a prodotto di consumo, a merce d’acquisto. L’inflazione del consumo corporeo non implica necessariamente l’ascolto, che al contrario viene spesso mistificato. Si moltiplicano gli specialisti nelle cui mani il soggetto frammentato mette il proprio corpo, invece di farsene carico. Questa realtà non può non influire nel rapporto culturale degli educatori e genitori con i bambini. Di contro, nella scuola vige la supremazia della parola, che riduce il corpo al silenzio; a scuola non bisogna muoversi quando si parla, quando si legge, quando si ascolta: il corpo cessa così di essere il luogo privilegiato per vivere il sapere. In questo panorama di falsi opposti, dal canto mio, il problema non è tanto quello di rivendicare i poteri del corpo contro l’importanza della parola quanto quella di trovare un linguaggio carnale, luogo stesso di origine della parola e per dirlo con M. Lodi: “per non sacrificare nessuna delle competenze vitali del processo di crescita del bambino”. Si pone una domanda: non sarebbe necessario per qualsiasi insegnamento un percorso di espressione corporea come strumento di formazione pedagogica? Le persone che lavorano o hanno lavorato attraverso l’espressione sembrano essere più consapevoli del proprio linguaggio corporeo e quindi maggiormente in grado di presentire la creatività dei propri studenti e di tollerare l’imprevisto (aspetti sempre presenti nella scuola). In quest’ottica sto lavorando per un progetto dell’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto che ha come obiettivo principale l’educazione al teatro. Il mio lavoro si concentra soprattutto sulla formazione degli insegnanti nei vari aspetti del teatro. L’ utopia è quella di far in modo che l’insegnante in classe (o in uno spazio meno condizionante) “agisca il pensiero” e dall’azione faccia nascere il pensiero. 194 ALBERTO RIELLO L’obiettivo è di apprendere e trasmettere conoscenze “dilettando”, perché, per dirla con Bertold Brecht: “La profondità della conoscenza e dell’impulso corrisponde alla profondità del piacere”. GIULIO ZENNARO Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica come esperienza didattica Abstract La Palestra di botta e risposta mette a disposizione della didattica e dell’educazione due preziose risorse: il dialogo e l’argomentazione. La disputa privilegia il dialogo come metodo e l’argomentazione come regola, all’insegna del “mai imporre, ma sempre spiegare e proporre all’assenso”. Quattro sono in particolare gli aspetti valoriali dell’attività di disputa: 1. l’essere una sfida e una competizione regolamentata che favorisce la crescita dei partecipanti; 2. l’allenare ad apprendere dai propri errori e dalle sconfitte; 3. il privilegiare negli studenti l’attività di ricerca rispetto alla ripetizione mnemonica; 4. l’indurre nella classe un atteggiamento di cooperazione efficace volta a raggiungere un obiettivo comune. Comune deve esser anche il punto di partenza, che può utilmente essere cercato nell’insieme dei diritti umani condivisi da tutti. La disputa filosofica mette a disposizione della didattica e dell’educazione due preziose risorse: il dialogo e l’argomentazione. La disputa è stata per gli studenti partecipanti del Liceo “Marchesi” di Padova l’occasione pratica per imparare a ragionare e a dialogare, più che una riflessione teorica sul ragionamento e sul dialogo. Su questi due aspetti essenziali della formazione della ragione la disputa ha permesso di sviluppare delle competenze, non solo delle conoscenze: ci siamo collocati nella dimensione del fare e dell’essere senza disgiungerla dalla dimensione del conoscere. Nella disputa gli studenti hanno avuto la possibilità di fare esperienza di quelle conoscenze che andavano acquisendo mano a mano nello svolgimento del corso di filosofia. È stata veramente una palestra di argomentazione dialogica. Vorrei sottolineare innanzitutto alcuni fattori metodologici e pedagogici che la disputa ha permesso di sviluppare in quanto sfida ad un apprendimento 196 Giulio Zennaro non ripetitivo, ma eminentemente rielaborativo e creativo di forme e percorsi che non possono appiattirsi sulla manualistica e non possono rinchiudersi in una ripetizione di un puro sapere consolidato. La nostra esperienza di disputa filosofica è stata una esperienza che, pur con tutti i limiti che ha ogni esperienza concreta, ha permesso a chi ne è stato protagonista di fare un percorso di crescita molto interessante, di cui dettaglio alcuni aspetti. Questa crescita si è manifestata nell’aspetto della sfida e della competizione regolata: essa impone un autocontrollo e una finalizzazione delle energie e della aggressività verso obiettivi etici, non solo conoscitivi. Impone cioè una finalizzazione etica alle proprie competenze e conoscenze, in quanto non si può umiliare l’avversario, ma si deve difendere la tesi con argomenti razionali. Quindi il comportamento è indirizzato alla relazionalità comunicativa mediata dalla razionalità e non a prevalere sul terreno della forza, per quanto verbale. Fin dall’inizio, per gli studenti che hanno partecipato, questa è apparsa come una difficoltà con cui fare i conti: porre un freno alla aggressività, così come la giuria in vari modi sottolineava, per collocarci su un piano di comunicazione personale di sé non istintuale ma mediata dalle opportunità comunicative. Il dovere cercare di controllare il proprio impeto polemico ha costretto tutti a un lavoro su di sé, di controllo della propria aggressività, lavoro che spesso a scuola non viene fatto perché manca la motivazione adeguata. La palestra di botta e risposta ha sfidato tutti al controllo della propria vis polemica, permettendo di migliorare la propria capacità di comunicazione di sé e l’efficacia della propria espressività. Il controllo della propria istintività, quindi, non è un soffocamento dell’io, delle sue potenzialità, ma, se adeguatamente motivato e bilanciato razionalmente, è un efficace metodo che aiuta alla vera e più autentica espressione di sé. Questa è una lezione importante che è stata appresa nella palestra di botta e risposta, ma andrebbe estesa a tutta l’esperienza di studio, di lavoro e di vita. Un secondo importante aspetto che l’esperienza della disputa ha messo in evidenza è stato il valore dell’imparare dai propri errori, dalle sconfitte. Gli studenti non si sono fermati a recriminare di fronte alla sconfitta, ma hanno voluto capire i motivi della minore efficacia della prova, capire dove avevano sbagliato per correggersi e migliorare la propria performance. Normal- Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica come esperienza didattica 197 mente, nella esperienza quotidiana della didattica, una performance negativa viene spesso censurata e non efficacemente razionalizzata, così che non diventa trampolino per nuove e più elevate prestazioni. Veramente, imparare dai propri errori e fare delle proprie debolezze un punto di forza è il dinamismo più autentico dell’apprendimento e dell’educazione: la disputa ha messo in evidenza la sua efficacia nella didattica. La disputa è stata una palestra di metodologia di apprendimento efficace, così come Popper teorizza nella scienza con il metodo per “tentativi ed errori”. Se concepiamo la nostra ragione non come un contenitore in cui mettere quante più cose possibile, ma come una bussola, un faro che illumina il cammino e che serve per orientarci nei problemi della conoscenza e della vita, allora la conoscenza per “tentativi ed errori” è parte integrante dell’apprendimento: è possibile, quindi, fare degli errori non una occasione unicamente di debolezza e di lamento, ma una opportunità di forza, in quanto possibilità di continuo affinamento delle proprie capacità. Un terzo aspetto della esperienza è stata la grande capacità di lavoro e l’autonomia che la disputa ha permesso di mettere in gioco, una volta che gli studenti hanno accettato la sfida di essere protagonisti. Gli allievi impegnati hanno assunto lo studio preparatorio come una questione propria, una sfida su di sé, così che non era necessario continuamente stimolarli a studiare, a impegnarsi, perché lo accettavano autonomamente. Insomma, la disputa è stata una vera palestra di scuola, nel senso di una vera esperienza di lavoro culturale, come dovrebbe essere sempre lo studio. Gli studenti si sono applicati a studiare gli argomenti, a documentarsi, per capire e entrare dentro le questioni proposte nel topico. Non hanno ripetuto schemi appresi mnemonicamente, ma sono, in un certo senso, diventati ricercatori, cercando e trovando le risposte alle questioni poste dal topico. Essi hanno realizzato potenzialmente un modo di fare scuola efficace ed efficiente, dove le energie della persona sono indirizzate allo scopo non per input esterni, ma per una forza di convinzione interiore, autonoma. Ciò rappresenta un modello della dinamica dell’apprendimento: un lavoro sul proprio conoscere che parte dalla sfida della disputa e che si muove per una forza interna, autonoma. È un io che si muove per scelta personale e traduce in un lavoro il proprio desiderio. 198 Giulio Zennaro Un altro interessante aspetto da sottolineare è la cooperazione e l’unità per raggiungere insieme un buon obiettivo. Gli studenti coinvolti hanno messo in moto un aspetto essenziale di un vero processo di apprendimento: si impara meglio insieme, dialogando reciprocamente per individuare le migliori strategie di lavoro e di conoscenza. Gli incontri preparatori sono stati dei veri laboratori, gruppi di lavoro cooperativi in cui si praticava la comunicazione tra pari come forma di apprendimento induttivo. La competizione non è stata distruttiva, ma costruttiva all’interno del gruppo: tutti erano tesi alla realizzazione dello scopo comune, un vero esempio di cooperazione efficace. Bisognerebbe tradurre questo elemento di collaborazione all’interno delle dinamiche laboratoriali delle nostre classi, condizionate spesso dalla prestazione formale e da un apprendimento individualista e competitivo. La forza del vero apprendimento è il dialogo, con il quale si condividono degli obiettivi e ci si sforza di raggiungerli insieme. La disputa filosofica esalta anche il valore critico e razionale delle argomentazioni, favorendo nello studio della filosofia l’esercizio della razionalità critica. Gli studenti hanno potuto sperimentare il gusto della dimostrazione caratterizzato dalla coerenza interna e dal rapporto con la realtà e l’evidenza. Ciò ha permesso di pensare senza schemi rigidi e imposti dall’esterno come stereotipi e preconcetti. La disputa ha aiutato a smascherare le contraddizioni in cui cadevano gli avversari quando usavano argomentazioni scorrette, schematiche o mnemoniche. Alla base di tutto questo sta il riconoscimento della natura profondamente semplice e universale della ragione che è di tutti e da tutti riconoscibile. Nel mettere in moto la ragione, che è criticità e intelligenza della realtà, si scoprono le contraddizioni in cui cadono gli avversari e, attraverso domande adeguate, le si volge a proprio favore e nello stesso tempo si risponde alle obiezioni degli avversari. Occorre sottolineare, anche, che il paradigma dei diritti umani ha guidato il percorso argomentativo degli studenti impegnati nella disputa filosofica permettendo così di non perdere mai l’orientamento, anche nei topici più difficili. È vero che bisognava, per vincere, anche assumere posizioni a cui non sempre gli studenti erano pienamente d’accordo (ad esempio, sull’opportunità Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica come esperienza didattica 199 o meno di, come recitava un topico, “rinchiudere gli animali negli zoo”), ma, nello stesso tempo, i diritti umani costituivano una guida che permetteva loro di individuare nei distinguo non tanto dei cavilli ma delle possibili interpretazioni riduttive del topico da evitare; per rivendicare alla fine un punto di vista integrale che sempre ha come punto di riferimento profondo l’insieme di valori dell’uomo che chiamiamo diritti umani. Il riferirsi ad essi ha permesso di evitare gli stereotipi e i luoghi comuni in quanto i diritti umani sono sentiti come valori corrispondenti alle esigenze dell’io e implicati, perciò, nelle varie argomentazioni. Questo riferimento assiologico ha impedito di assumere posizioni ciniche o nichilistiche, ma ha sempre spinto a confrontare con se stessi le affermazioni da trovare per difendere la propria tesi e vincere la disputa. Vincere non è mai stato a prezzo della verità: questo ha reso personali e convincenti le posizioni sostenute, ha permesso di spiegare la loro razionalità interna e impedito di assumere pose estreme o artefatte. Tutto a vantaggio della spontaneità e della naturalezza. Questo è un grande esito della razionalità critica che è stata fatta propria e dispiegata nella tenzone. E perché non partire da questa esperienza per mettere in piedi un laboratorio di pensiero e di metodo razionale argomentativo per aiutare i giovani studenti ad imparare questo metodo, partendo dalla peer education? Gli studenti più esperti nella disputa hanno fatto da tutor ai loro compagni indicando anche a loro quanto hanno appreso in questa esperienza. È questa la scoperta della vera modalità di filosofare e della capacità di comunicare e di persuadere gli altri, non con la forza, ma con gli argomenti e le ragioni. La filosofia come maieutica che un maestro, che può anche essere un quasi coetaneo, come nella scuola di Barbiana, aiuta a fare emergere il pensiero libero che c’è in ognuno e che spesso non emerge per condizionamenti e paure. Il dialogo come metodo. L’argomentazione come regola: mai imporre, ma sempre spiegare e proporre all’assenso. La disputa è stata l’occasione di un dialogo come incontro di diversità che non si sconfessano ma che, riconoscendosi, si accettano e si confrontano. Il dialogo esige il confronto di due diversità, non per sopraffarsi reciprocamente, ma per scoprire che nella diversità c’è un aspetto affascinante della realtà e dell’uomo che non ho ancora scoperto. Quindi, nel confronto 200 Giulio Zennaro aperto io posso uscire non solo vincitore, come vuole la regola della disputa, ma, soprattutto, ricco di una meta-esperienza, quella della scoperta dell’altro, della sua ricchezza, della sua umanità. Così la mia non è una posizione rigida, ma una ricerca dell’essere attraverso la diversità fattami scoprire dal tu. Scopro che nella dialettica delle posizioni, se queste sono riflessi dei valori umani che io sperimento, io posso scoprire quello che da solo non posso scoprire: che siamo tutti implicati nell’essere e tutti attingiamo alla stessa fonte di valore e di significato, pur nella diversità delle sfumature. Nell’esperienza della disputa abbiamo potuto aprirci alla attualità e scoprire come la razionalità sviluppata nella filosofia è una guida, insieme ai diritti umani, al nostro difficile orientarci nel mondo. Non è poco questo apprendimento per dei giovani in una età di crisi come quella che viviamo. La disputa è stata una grande esperienza di scuola nuova e di protagonismo: una interrogazione sotto forma di disputa assume un interesse e una energia sconosciute. Vale la pena sperimentare. Quello che risulta è un diverso modo di intendere l’apprendimento e la sua verifica.