Il «Viaggio in Dalmazia» Verso la metà del 1770 un anonimo opuscolo di otto fitte paginette richia mava, a Venezia, l'attenzione dei «buoni e cortesi Cittadini» cui era specificatamente diretto su uno dei più antichi e nel contempo dimenticati possedimenti della Repubblica: le isole e la fascia costiera estese dall'Istria all'Albania, territori dopo tre secoli ancora quasi sconosciuti per la Dominante, come conseguenza di un'atavica situazione di abbandono e di endemica povertà che, tolto il regolare prelievo di soldati, ne decretava lo scarso interesse economico e commerciale, rendendole viceversa terre di brigantaggio e di pirateria, con pochissime città degne di nota e miseri villaggi scarsamente popolati da abitanti dediti a una pesca per nulla remunerativa o ad arcaiche forme di agricoltura, e falcidiati ancora, in pieno Settecento, da epidemie di peste e di vaiolo. Manifesto e questionario allo stesso tempo, le Notizie preliminari credute necessarie per servire di direzione a viaggi tendenti ad illustrare la storia naturale e la geografia dette provincie aggiacenti all'Adriatico, e particolarmente dell'l-stria, Morlacchia, Dalmazia, Albania ed isole contigue intendevano divulgare e propagandare i metodi e le finalità di una spedizione scientifica che nel maggio dello stesso anno si dirigeva verso l'isola di Cherso e Osero (ora Lussino) allo scopo - si dirà in seguito nel Saggio di osservazioni, puntuale resoconto dei risultati conseguiti - di «andar riconoscendo quanto vi fosse di vero nelle meraviglie, che si dicevano dell'estensione delle ossa fossili pell'isole della Liburnia, e pelle coste della Dalmazia...». Mente ispiratrice e attivo organizzatore dell'impresa, destinata ad allargare ben presto i propri obiettivi, era Alberto Fortis, un ex-agostiniano da poco ricondotto alla condizione di abate, conosciuto a Venezia principalmente per essere uno dei redattori, insieme alla giovanissima Elisabetta Caminer e a suo padre Domenico, de «L'Europa letteraria», il periodico nel quale Gianfranco Torcellan riscontra giustamente «la prima nota d'inquietudine illuministica nella cultura pubblicistica veneta della metà del secolo», in virtù del suo tono «spregiudicato e fiero nell'annun-ciare le novità più importanti della cultura francese, nel discutere quelle della nuova scienza italiana, nell'attaccare senza remissione i rigurgiti o le espressioni della retorica letteraria, della pedanteria accademica, dell'oscurantismo ecclesiastico». Di quegli articoli polemicamente pungenti era responsabileproprio il trentenne Fortis, giunto all'attività giornalistica dopo un intenso periodo di studi imperniati prevalentemente sulla geologia e le scienze naturali, discipline nelle quali godeva pure di considerevole fama, estesa anche oltralpe. Nel viaggio a Cherso lo accompagnavano due studiosi di prestigio, come il medico Domenico Cirillo, suo coetaneo, già da qualche tempo professore di botanica nell'Università di Napoli, in seguito sostenitore della Repubblica partenopea e suo martire, nel 1799, a fianco di Mario Pagano; e l'inglese John Symonds, storico delle età moderne, successore l'anno dopo di Thomas Gray alla cattedra di Cambridge, ma qui coinvolto piuttosto per la sua viva passione, e conseguente competenza, in fatto di agricoltura. Assieme a lui un altro inglese che, seppur costretto all'ultimo momento a rinunciare all'impresa per motivi di salute, non abdicava al suo ruolo di mecenate e di avido ricercatore di notizie su quel paese pressoché ignoto, richiedendo imperiosamente ai partenti dettagliate risposte su varie questioni specifiche. Era costui il famoso John Stuart, conte di Bute, precettore e poi per un triennio, dal 1760 al '63, primo ministro di Giorgio m, successivamente caduto in disgrazia per il suo presunto filofrancesismo e costretto a ritirarsi nei propri possedimenti, dove aveva ripreso con energia i giovanili studi letterati e scientifici, occupandosi in eguai misura di architettura, agricoltura e botanica, e soprattutto finanziando di continuo con larghezza di mezzi le ricerche e le spedizioni di numerosi amici. La piccola comitiva mostrava dunque al momento della partenza una gamma di curiosità sufficientemente variegate, ma tuttavia complementari e orientate prevalentemente in senso naturalistico, anche se non va dimenticata la ricerca antiquaria ed epigrafica, pur essa intensamente attuata, non senza risvolti interessatamente collezionistici che vedevano l'attiva partecipazione del Nostro, più tardi sostenitore della teoria di lasciare lapidi e oggetti archeologici nel luogo stesso del ritrovamento. Agli aspetti folclorico-letterari era inoltre particolarmente attento il mecenate Stuart, entusiasta sostenitore dell'Ossian di Macpherson e del suo traduttore italiano, Melchiorre Cesarotti, e oltremodo interessato a ottenere dal Fortis la trascrizione di genuini esempi della «poesia popolare» dalmata, cosa puntualmente realizzata con il Canto di Milos Cobilich e di Vuko Brancovich, un testo che ripropone pari pari le aberrazioni ossianiche, visto che anche qui siamo di fronte a un rifacimento letterario ricalcato su temi popolari. La spedizione si trattenne a Cherso un paio di settimane, impiegate a compiere ricerche sui fossili e sui minerali, e per quanto riguarda il Fortis, a stringere rapporti con i locali che del resto egli, unico del gruppo, aveva già avuto occasione di incontrare in precedenza, visitando fugacemente nel '65 Pola e i dintorni. Successivamente i viaggiatori percorsero la costa occidentale dell'lstria, passarono per Cittanova e per le grotte di Bertoniglie, dove restarono impressionati dallo spettacolo delle poderose stalattiti, simili a pilastri di cattedrali gotiche, e fecero infine ritorno per mare a Venezia. La doverosa descrizione delle esperienze compiute toccò ovviamente all'abate padovano, non solo per una maggior confidenza con le belle lettere, ma anche per essere il più interessato a divulgare i risultati conseguiti, come colui che in più ampia prospettiva guardava alla storia naturale e civile e alle condizioni attuali delle terre dalmate. Nel Saggio d'osservazioni sopra l'isola di Cherso ed Osero, uscito verso la fine del 1771 e dedicato allo Stuart, troveremo infatti, secondo un'acquisita consuetudine dei libri di viaggio, capitoli riguardanti la toponomastica e la storia dell'isola e delle sue città e paesi, dall'antichità più remota in poi, con gran spiegamento di fonti e di etimologie, ma poi, invece di passare alla peregrina esposizione di «curiosità» locali, si esplorano con metodo scientifico la qualità del terreno, le coltivazioni praticate e i relativi prodotti, la flora, la fauna, la pesca, le caverne e le voragini, i fossili, i marmi e gli strati geologici, per concludere con un paragrafo sulle antiche iscrizioni presenti nell'isola e con il «canto popolare» sopra accennato. Si manteneva in tal modo fede, e in maniera «enciclopedicamente» esaustiva, alla promessa formulata nelle Notizie preliminari di non mettere per iscritto alcuna informazione «prima di aver visitato ciascun paese, per verificare tutto ciò che riguarda la fisica costituzione della terra, dell'acqua, e de' viventi...»; dunque informazioni volte in prevalenza a soddisfare gli interrogativi posti dalle scienze naturali, ma accanto ad esse altrettante rispondenti a esigenze d'indagine storica, letteraria e antiquaria, le stesse ribadite qualche decennio prima dalla precedente generazione di intellettuali, quella dell'Arcadia erudita, impersonata a Venezia da Apostolo Zeno. Quest'ultimo tipo d'interessi veniva soddisfatto specialmente nella parte dedicata alle epigrafi romane e bizantine, capitolo tormentato che il Fortis, non sentendosi all'altezza del compito, ma non volendo allo stesso tempo deflettere da rigorosi criteri di scientificità, richiese a lungo al latinista padovano Giuseppe Gennari, decidendosi a scriverlo in prima persona solo dopo ripetuti rifiuti, per non tardare oltre la stampa dell'intero Saggio. D'altra parte storia e scienza non gli apparivano in termini oppositivi, ma, secondo una visione tipica del pieno illuminismo e insieme raccordata con un recente passato arcadico, come le facce di una medesima medaglia, dove le due vicende, quella civile e culturale e quella geologico-naturalistica, finivano per congiungersi: penetrare negli strati del terreno o percorrere a ritroso le tappe del progressivo incivilimento di un paese erano insomma due modi complementari per ricostruire integralmente la «storia» passata, gradino indispensabile sul quale appoggiare l'analisi e la comprensione dello stato presente. Nel suo articolato comporsi il Saggio non rappresenta allora il frutto occasionale di impressioni di viaggio particolarmente suggestive, bensì delinea i percorsi di un «progetto» che il Fortis andrà arricchendo e intensificando negli anni, e che già qui appare sufficientemente strutturato. Non è un caso che le pagine del libro siano organizzate esattamente secondo le schede proposte nelle Notizie preliminari, a conferma della unitarietà che lega insieme le varie fasi del suo lavoro, congiungendo lo scienziato allo scrittore e al riformatore. All'inizio sta il convincimento - già acquisito, a questa altezza cronologica, nella coscienza europea, assai meno in quella italiana - dell'importanza delle scienze naturali, accanto alle discipline storico-filologiche, non solo quale elemento caratterizzante del nuovo sapere, ma anche come presupposto necessario per attuare innovazioni utili all'avanzamento sociale ed economico di una nazione; insieme la necessità di una loro divulgazione attraverso nuovi strumenti; i giornali e i periodici, ad esempio, forse i più adatti per agilità di dettato e rapidità di diffusione a raggiungere un vasto uditorio. Il passo successivo porta dal piano culturale generale a quello dell'applicazione pratica, identificato per Venezia con la grande ipotesi riformistica riguardante la Dalmazia, presentata nei suoi risvolti metodologici nelle Notizie preliminari, e nelle conclusioni, dedotte dai dati raccolti, nelle pagine del Saggio, del Viaggio in Dalmazia, e infine della memoria Della coltura del castagno. Testi sempre più ricchi di proposte concrete e insieme accorata richiesta di necessario e doveroso intervento da parte dello Stato, che ci si aspettava sostenuto in questa azione da un'opinione pubblica resa istruita del problema e favorevole, avendo compreso il comune vantaggio, alle soluzioni delineate in quegli studi, accessibili per scrittura e per linearità d'analisi a chiunque, mediamente acculturato, si riconoscesse nella parte progressista. Primo atto di una duratura passione, il viaggio a Cherso prelude a una esplorazione più impegnativa, che verrà attuata a partire dal luglio del 1771 e che fornirà i materiali per il Viaggio in Dalmazia. La sostenevano ancora degli inglesi, a ribadire da una parte il rapporto privilegiato, ai limiti della fascinazione, che per buona parte del secolo intrecciano con Venezia consoli, mecenati, collezionisti e uomini di cultura anglosassoni, con alla testa Joseph Smith e John Strange, e dall'altra le difficoltà viceversa incontrate dal Fortis nel far convergere sulla Dalmazia l'attenzione della classe politica e dei «buoni e cortesi Cittadini» veneziani. Nella circostanza il protettore e compagno di viaggio più illustre era Lord Frederick Augustus Hervey, vescovo anglicano di Londonderry, appassionato naturalista noto per la sua eccentricità e per le aperte simpatie verso i cattolici irlandesi, insufficienti tuttavia a fugare i malevoli sospetti avanzati da ambienti ecclesiastici circa l'ortodossia religiosa del suo accompagnatore e amico italiano. I viaggiatori si incontrarono a Pola e da lì proseguirono per Rovigno; quindi, dopo un'interruzione dovuta al precipitoso accorrere a Napoli alla notizia dell'eruzione del Vesuvio, si recarono a Spalato e Traù percorrendo l'entroterra costiero, per poi risalire attraverso Scardona e Zara, e approdare infine a Venezia. Questa volta l'eco suscitata dalla spedizione parve agli inizi confortante. Mentre ancora il Fortis stava riordinando e rielaborando i suoi disparati appunti, alcuni patrizi tra i più aperti alla ventata innovatrice - Giovanni Ruzzini, Filippo Farsetti e Carlo Zenobio, gli stessi ricordati con grande onore nella prefazione al Viaggio — lo incitavano a completare gli studi intrapresi, finanziando nell'autunno del '72 un nuovo viaggio - dagli esiti assai modesti per la cattiva scelta del periodo - al ritorno dal quale giungeva, gratificante, un incarico ufficiale dalla Serenissima, tramite la Deputazione straordinaria alle Arti. Andrea Memmo, divenutone presidente agli inizi del '73 e dato sollecito avvio, tra gli altri, a un progetto di sviluppo della pesca, convinceva il Senato ad affidare all'abate un incarico di studio per l'area dalmata, per cui nel maggio dello stesso anno lo troviamo di nuovo sul piede di partenza, col preciso compito di individuare i modi per razionalizzare l'esercizio di questa attività e smuovere gli ostacoli che avevano fino ad allora impedito il libero commercio del pesce fresco con la capitale, costringendo i pescatori a un povero, asfittico, mercato di contrabbando e la Repubblica alla onerosa importazione di prodotto conservato dai paesi nordici. Il lavoro del Fortis, nonostante l'irregolarità degli aiuti fornitigli, fu al solito puntuale ed entusiasta, e lucide e precise le conclusioni che ne risultarono, affidate ad apposite relazioni per il Senato dove però, al pari di altre importanti proposte avanzate nello stesso arco di tempo, tutto si arenò e rimase lettera morta. Non era servito che egli si fosse concentrato totalmente sul problema, rinunciando per esplicito patto ad eseguire commissioni per conto di altri - il che irritò molto i suoi abituali finanziatori inglesi - e limitando la sua esuberanza conoscitiva a pochi incontri con gli amici dalmati: la stagione del riformismo, appena cominciata dopo anni di preparazione, mostrava già preoccupanti incrinature, né bastava a vivificarla l'energico operare di Andrea Memmo, colui che tra entusiasmi e delusioni meglio riflette a livello politico la parabola dell'illuminismo a Venezia. Verso la metà del secolo si erano infittiti i richiami alla necessità di un rinnovamento intellettuale, di un dibattito più spregiudicato e aperto ai valori laici e razionalisti che proponesse prioritariamente una nuova moralità civile, ritenuta sufficiente da sola a smuovere, ammodernandole, le rigide e invecchiate strutture della società veneziana. Su questa linea si erano mossi, pur con diversità di esperienze e di linguaggio, Gasparo Gozzi e Carlo Goldoni; ora, a metà degli anni Sessanta, dopo un premonitore momento di pausa, pareva che il cammino potesse essere ripreso, compiendo il decisivo aggancio con la classe politica, da parte di una generazione educata a principi illuministici dal magistero di Carlo Lodoli e sul punto di accedere, se non altro per ragioni di età, alle più alte cariche di governo. Con maggior decisione di altri Andrea Memmo, fidando nel tacito consenso di Andrea Tron - il più potente in quel momento dei patrizi veneziani, suo maestro e protettore - si impegnava nel tentativo, partendo da settori apparentemente marginali quali la revisione dei cerimoniali e la riorganizzazione della posta, per toccare subito dopo, all'aprirsi del nuovo decennio, uno dei punti nevralgici dello Stato, ossia la riforma delle Corporazioni d'arti e mestieri, chiave di volta per sanare la cattiva situazione economica, da lui perfettamente diagnosticata nel 1772 in quattro memorabili scritture al Senato. L'entusiasmo e le speranze di successo furono però di breve durata: la tenace, sorda resistenza della parte più conservatrice dell'oligarchia veneziana finì per prevalere, e mentre il deluso Memmo riversava nell'edificazione del Prato della Valle a Padova le sue utopie illuministiche e inseguiva inutilmente fino al fatidico '89 il miraggio del dogado, si andava vanificando il patrimonio di idee e di suggerimenti messo assieme negli stessi anni da un economista come Giammaria Ortes - gli Errori popolari sopra l'economia nazionale escono nel '71, Della economia nazionale, il suo capolavoro, nel '74 - o da un tenace propugnatore delle nuove tecniche come Francesco Griselini - il «Giornale d'Italia spettante alla scienza naturale, e principalmente all'agricoltura alle arti ed al commercio» è avviato nel '64, il Dizionario delle arti e de' mestieri nel '68, II gentiluomo coltivatore nel '69 — o, forse più modestamente, dall'agronomo Antonio Zanon o dall'avvocato Giovanni Scola o dal medico Pietro Orteschi con la loro intensa e variegata attività pubblicistica, sempre rivolta però a temi concreti del progresso civile. Intellettuali di diversa levatura, legati dalla comune provenienza piccolo nobiliare o borghese, com'è per la gran parte degli illuministi italiani, ma principalmente dal convincimento, esteso ai milanesi, ai toscani, ai napoletani, di dover utilmente affiancare e indirizzare, senza cortigianerie, con la forza dei loro studi elevati ormai al rango di professioni, i rispettivi monarchi verso la rapida realizzazione della mitica «pubblica felicità». In questo quadro di precarie aspettative, si inseriva perfettamente il Viaggio in Dalmazia, con quel suo sommesso richiamo a Venezia perché non abdicasse ai propri doveri di buon governo che affiora in ogni capitolo. L'accurato scandaglio compiuto sul filo della storia confermava al Fortis l'esistenza di un secolare vincolo con la Dalmazia e lo convinceva del giudizio negativo con cui andava valutato l'atteggiamento fino ad allora tenuto dalla Repubblica, pronta a spremere il poco che si poteva da quelle contrade, per poi abbandonarle a se stesse e alla loro atavica miseria. Ora occorreva cambiare ottica, valutare i domini al di là dell'Adriatico e i loro abitanti senza alcuna tentazione colonialistica, e puntare invece a un loro riscatto, fiduciosi che questo si sarebbe presto tradotto in un vantaggio per l'intero Stato, come dimostravano i dati ambientali ed economici da lui raccolti: terre suscettibili di nuove e soddisfacienti produzioni purché coltivate con moderno raziocinio, e genti arretrate eppure nient'affatto incivili, dotate invece di generosa sensibilità e con le quali si poteva instaurare appunto un rapporto di collaborazione e reciproco rispetto. Tutto questo nel Viaggio in Dalmazia si coglie per sottili trame e per allusive esemplificazioni; il libro non vuole essere \mpamphlet, né il suo autore, anche volendo, avrebbe potuto usufruire a Venezia di libertà di penna volteriane, ma il lettore attento poteva cogliere tra le righe questo spirito nuovo che si voleva suscitare, e valgano a illustrarlo due passi, quello, nella prima lettera, relativo al lago della Vrana, bilanciato tra la denuncia di secolari errori e abbandoni e un preciso progetto di risanamento; e quello, nel penultimo capitolo, in cui si rende omaggio alla generosa, semplice ospitalità del voivoda di Coccorich, l'«onorato vecchio» Pervan, che senza essere mai stato nelle città aveva tuttavia sviluppato dei suoi talenti, compositore in gioventù di poesie amorose ed eroiche, e saggio signore del luogo negli anni successivi. Quando finalmente, nei primi mesi del 1774, lo stampatore Milocco pubblicava l'opera, ripartita in due eleganti tomi, le aspettative di esiti rapidi e concreti stavano dunque affievolendosi e se questo non indurrà né ora né poi il Fortis a rinunciare alla sua fede riformistica, un'ombra di incertezza traspare dal tono eauto della stessa lettera dedicatoria: Sicuro di non avere risparmiato insistenza o sfuggito disagio per corrispondere all'oggetto della mia missione, io mi sento animato dalla speranza che l'Eccellenze Vostre sieno per accogliere begninamente l'omaggio d'un divoto suddito, quantunque la debolezza dell'ingegno e la scarsezza delle cognizioni possano perawentura averlo reso meno perfetto di quello che sarebbe d'uopo egli fosse per comparire degnamente dinanzi a Loro. Se dalla pubblicazione di questa fatica mia non altro vantaggio presentaneo si ottenesse che la sostituzione de' marmi dalmatini (de' quali servivansi, pell'architettura non meno che pegli usi più nobili della statuaria, i Romani), a quelli che a caro ed oggimai indiscreto prezzo annualmente ci vendono i forastieri, io stimerei che i miei nobilissimi mecenati potessero sentire la compiacenza d'aver reso, nella scoperta di quelle antiche lapicidine, un servigio non lieve alla nazione. Che se poi dagli esami diligenti intorno all'indole e allo stato attuale de' laghi, delle paludi, de' fiumi; dalle notizie de' prodotti naturali di quel vasto paese e dalle indicazioni tendenti ad aumentarli, a migliorarli, a renderli più utili allo Stato; dalla scoperta di qualche nuova cosa che sfuggì finora alle ricerche de' naturalisti, ne derivassero de' vantaggi sensibili al pubblico patrimonio, al commercio nazionale ed alle arti, allora i generosi promotori della mia spedizione goderebbero con incontrastabile titolo la qualificazione d'ottimi patrioti, ed io gusterei pienamente della interna contentezza che inonda l'anima del suddito utile, a cui ben più che alla fama d'erudito e scienziato deve ogni bennato uomo aspirare. Arricchito dalle incisioni di Giacomo Leonardi tratte dai disegni che Angelo Donati, accompagnando il Fortis, aveva schizzato dal vero, il libro registrava le esperienze del viaggio compiuto con Lord Hervey e trattava, ripartendoli equamente tra i due volumi, dei Contadi di Zara e Sebenico, e di Traù e Spalato, indagando in maniera sistematica su territori assai più vasti di quello esplorato nella spedizione a Cherso. L'organizzazione dei materiali risultava comunque analoga a quella attuata per il Saggio, e, una volta ripartita la regione in porzioni più piccole, riproponeva quasi modularmente il «questionario» del 70, applicato però con maggiore elasticità, fondendo meglio tra di loro i vari piani della ricerca. Superato ogni schema di tipo antiquarioclassificatorio, il discorso fortisiano, memore dell'esperienza giornalistica, procede così con vivacità e scioltezza, senza per questo rinunciare alla precisione e alla serietà scientifica, certificate da una robusta serie di riferimenti bibliografici, che dimostrano altresì il livello di aggiornamento rispetto alla più recente produzione europea. E, come s'era rilevato per il Saggio, pure qui lo spazio riservato alle discipline umanistiche è considerevole, con un peculiare interesse alla locale storia letteraria, agevolato dalla possibilità di rintracciare a Sebenico, tra Quattro e Cinquecento, alcuni ragguardevoli scrittori, le cui vite e opere venivano delineate in un apposito paragrafo, punteggiato di riferimenti ai fitti rapporti intrattenuti da costoro con Venezia. Anche la Dalmazia aveva quindi avuto momenti di vivace fioritura culturale, purtroppo trascorsi ma ripetibili in una situazione diversa dall'attuale, e quale esempio di quel sapere umanistico l'abate pubblicava, in appendice al primo tomo, l'inedito Iter Buda Hadriano-polim di Antun Vrancic, racconto in latino del viaggio compiuto nel 1503 attraverso il mondo slavo e balcanico dal più illustre di questi letterati, al quale nel suo breve profilo era stato riservato il posto di gran lunga più ragguardevole. Tra passato e presente, tra scienza e letteratura, si articola parimenti la problematica linguistica, affrontata nel Viaggio in Dalmazia in termini sincro-nicamente e diacronicamente diffusi. Quasi ad ogni città, o villaggio o rudere scatta l'indagine toponomastica o etimologica; di ogni oggetto d'uso, abito, cerimonia o reperto naturalistico vengono forniti il nome slavo e quello italiano, a costruire una ragnatela che, nonostante le etimologie esibite non reggano più a un riesame critico, va apprezzata per lo sforzo sotteso di voler eliminare diaframmi spaziali e temporali e riconoscere piuttosto elementi di identità tra due popoli, all'interno di una secolare unità culturale romano-adriatica. Su altro piano, sensibilità a questioni di lingua significava operare delle scelte relativamente alla veste stilistica da dare al libro. La lezione galileiana, o se si preferisce, per restare a Venezia, sarpiana, rappresenta un evidente punto di riferimento e la lingua del Fortis procede rapida ed essenziale, come si conveniva al tema scientifico, priva di quegli orpelli da lui stesso criticati sulle pagine dell'«Europa letteraria» e in sintonia con l'idea emergente di una letteratura di cose e non di parole, basata non tanto sull'osservanza delle forme retoriche quanto sui contenuti, che pochi anni prima da Milano il gruppo del «Caffè» - i Verri, Beccaria, Frisi, Longo, la punta più avanzata dell'illuminismo italiano — aveva sostenuto con maggior forza e chiarezza di altri. Riguardo all'architettura interna del libro, ovvia la forma della lettera, allusiva alla «memoria» scientifica venata di implicazioni pratiche, di gradevole lettura e offerta al vasto pubblico, piuttosto che al ponderoso trattato specialistico a destinazione accademica: in testa ad ogni lettera nomi di destinatari illustri, accuratamente scelti a rappresentare nel loro insieme l'universo scientifico e politico cui l'abate intendeva rivolgersi, quello dove riteneva di trovare miglior udienza e plauso, e magari un prestigioso riconoscimento, puntualmente deluso nei fatti. Invano, a partire dal 74, premette ripetutamen-te per ottenere la cattedra di biologia presso l'Ateneo patavino, senza però riuscire a sconfiggere l'ostilità della parte ecclesiastica dello Studio, che continuò a ritenerlo in odore di eresia e che nel '79 per voce di Pietro Barbarigo, e sorda alle raccomandazioni di Andrea Tron, poneva fine a queste aspirazioni. Il massimo risultato conseguito in tale ambito restò alla fine l'ascrizione all'Accademia patavina, propiziata dal Cesarotti che vi vedeva, errando nelle conclusioni, il primo passo per entrare nella cittadella universitaria. Al di là delle attese deluse, l'opera sulla quale si fondavano principalmente le speranze del Fortis - il Viaggio in Dalmazia appunto — si colloca tra gli esempi più significativi del viaggiare scientifico settecentesco, grazie al suo procedere originalmente interdisciplinare e alla preoccupazione di accompagnare sempre la descrizione di un habitat naturale con quella degli uomini che lo popolano, avvicinati con generosa disponibilità, senza alcuna iattanza. Sono queste peculiarità a diversificarla dal modello proposto da Giovanni Targioni Tozzetti nelle monumentali Relazioni d'alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali e gli antichi monumenti di essa (1768-792, in 12 tomi), dove una massiccia esibizione libresca si sovrapponeva ai dati dell'osservazione naturalistica, relegando sullo sfondo gli spunti riformistici che pure vi erano diffusi; per altro verso si discosta anche dal celeberrimo Viaggio alle due Sicilie e in alcune parti dell'Appennino di Lazzaro Spallanzani (1792), corrispondente e amico del Fortis, ma di lui più severamente «scienziato», così assorto nello studio dei fenomeni della terra da intravedere solo di rado gli uomini che la abitano. Una certa parentela si può invece instaurare con le Lettere odeporiche di Francesco Griselini ( 1780), simili per gamma di interessi al Viaggio, e però dettate da uno spirito diverso, ai limiti dell'avventuroso e dell'esotico, mirate a ingraziarsi, anche dilettandoli, nuovi potenziali protettori austriaci, con i quali intrattenere un rapporto che, ancora nutrito agli inizi di idealità riformistiche, sconfinerà presto nella dipendenza del funzionario dal monarca. Manca insomma alle Lettere quella cornice di «pubblica utilità» patriottica tipica del Fortis: assenza comprensibile se si pensa alla loro data di composizione, avvenuta dopo la partenza da Venezia del Griselini, un altro illuminista spinto a ricercare altrove rispondenza concreta a proposte rimaste inascoltate in patria. Tramontata la troppo breve stagione dei lumi, questa «cornice» verrà subito dimenticata, mentre cresce rapidamente l'apprezzamento per un altro aspetto del Viaggia, da parte di un pubblico pronto a scorgervi, sull'onda del recupero sensistico tardo settecentesco, l'archetipo di un diverso modo di intendere il viaggiare: quello pittoresco del Giornale del viaggio d'Inghilterra negli anni 1787-88 di Carlo Castone della Torre di Rezzonico o quello patetico e pittoresco del Viaggio sul Reno e ne' suoi contorni di Aurelio de' Giorgi Bertola (1795). Accadde così che il libro venisse letto negli anni successivi quasi soltanto per la componente roussoviana che indubbiamente presentava e che il romanticismo recepì volentieri, alimentando un fenomeno di «morlacchismo» ispirato appunto dalla lettera «De' costumi de' Morlacchi», conclusa dalla trascrizione e traduzione della «Canzone dolente della nobile sposa d'Asan Agà», espressione allo stesso tempo del forte sentire di popoli rimasti allo stato primitivo e delle loro capacità poetiche, a comprovare anche per quella sperduta contrada la consistenza del teorema ossianico. In virtù di questo capitolo, significativamente dedicato al conte di Bute, il Viaggio in Dalmazia, in un contesto culturale che andava mutando in dirczione preromantica, conobbe un rapido successo in tutta Europa, superiore a quello registrato a Venezia, e fu subito tradotto in tedesco, francese e inglese. La parte sui Morlacchi, agevolata dalle indubbie compiacenze letterarie cui il Fortis, pur resistendo alle pressioni estremizzanti dello Stuart — il quale avrebbe voluto vedervi un patente parallelismo con la natia Scozia e con la poesia di Macpherson - aveva accondisceso, godette inoltre di una fortuna particolare, che si diparte dalla traduzione della ballata procurata da Goethe e accolta da Herder nei suoi Volkslieders, per inoltrarsi successivamente nell'Ottocento con una serie di derivazioni collocabili nella scia di quell'ideale ritorno alla natura delineato da Young e Rousseau, e proseguito dal Bernardin de Saint-Pierre di Paul et Virginie (1784) e dallo Chateaubriand di Atala (1805). Si può cominciare, nel 1788, da Les Morlaques di Giustiniana Wynne contessa di Rosenberg, compagna ad Altichiero dell'irrequieto Angelo Querini, un romanzo tradotto prima in tedesco (1790) che in italiano (1798) dove l'ispirazione fortisiana traspare chiaramente, pur optando poi l'autrice proprio per la celebrazione insistita dell'autenticità primordiale. Cesarotti lodò il libro e Goethe lo lesse, così come lo conobbe con tutta probabilità Madame de Staél, viste le suggestioni misteriosamente barbariche e selvagge ispirate alla protagonista di Corintie (1807) dalla visione della lontana Dalmazia, intravista con buona dose di immaginazione dal Campanile di S. Marco. Attorno ai Morlacchi si aggirò variamente anche Charles Nodier, sia con la figura del generoso Jean Shogar (1818) - anch'egli parte di un mito che corre per l'Europa primottocentesca, quello del brigante buono e giusto - sia con Smarra ou les démons de la nuit, un racconto del 1821, spacciato per traduzione dallo slavo, con cui si apriva la strada al filone del vampirismo. Sempre a metà tra finzione letteraria e squarci di documentazione folclorica, il morlacchismo troverà il suo epigono in Mérimée, che nel 1827 proponeva con Guzla una raccolta apocrifa di canzoni dalmate, bosniache e croate: ibrido ponte lanciato verso un altro modo, ugualmente intessuto di idealità popolareggianti ma scientificamente assai più probante, di affrontare il tema, qual è quello storicofilologico impersonato da Nicolo Tommaseo con i Canti toscani, corsi, greci, illirici, editi a Venezia tra il 1841 e il '42. Nel capitolo dedicato ai Morlacchi il Fortis si era mosso in realtà in una dirczione riconducibile più a quest'ultima che non ad altre, e se vi sentiamo circolare una partecipazione passionale e personale nel descriverne le tradizioni e i costumi di vita, ciò accade non tanto perché qui prenda letterariamente il sopravvento l'amico e ammiratore del Cesarotti ossianico, che pure vi ha buona parte, ma piuttosto perché è questo il punto dove lo scrittore esprime con sincerità il suo affetto per una terra e delle genti che nel corso degli anni aveva imparato a conoscere a fondo, lingua compresa. Si tolgano pure dal conto i legami sentimentali intrecciati a un certo punto a Ragusa o l'indubbia enfasi con cui riferisce, inorgogliendosi, l'epifonema rivoltagli da un morlacco mentre salta agilmente e pieno di entusiasmo tra i macigni della Cettina alla cascata di Duare («Gospodine, ti nissi Lanzmanin, tissi Vlàh!» «Signore, tu non se' un Italiano-poltrone, tu se' un Morlacco! ») restano sempre la stima e la duratura amicizia che fin dal primo viaggio l'avevano legato a intellettuali e studiosi dalmati, dal letterato Matija Sovic, prezioso informatore sulla lingua e la cultura chersine durante la spedizione all'isola, al medico raguseo Giulio Bajamonti, l'autore del curioso Morlacchismo di Omero, più volte suo accompagnatore nelle esplorazioni e fonte inesauribile di indicazioni relative alla storia, abitudini, credenze e canti popolari, dei quali fu tra i primi raccoglitori. Ottimi rapporti personali, ai quali si contrappongono le reazioni «ufficiali» all'immagine che il Fortis aveva dato della Dalmazia, nel complesso nient'affat-to favorevoli, spesso per una mancata comprensione anche da parte slava delle sue argomentazioni e degli insormontabili limiti entro cui si era mosso. Si innescò anzi una serrata polemica - alla quale Venezia si mostra totalmente indifferente ed estranea originata dalle Osservazioni sopra diversi pezzi del «Viaggio in Dalmazia» (1776) di Ivan Lovric, ventiduenne letterato e studente di medicina a Padova che puntigliosamente confutava i dati forniti sul corso della Cettina e sulle consuetudini dei Morlacchi, criticando le scelte fortisiane in fatto di poesia popolare, e si impegnava con il capitolo sulla «Vita di Stanislav Socivica» ad approfondire il fenomeno del brigantaggio, oltre a stigmatizzare in termini assai più aspri di quelli usati nel Viaggio l'attività del clero cattolico e di quello ortodosso, e ad additare nell'assegnazione della terra in proprietà ai contadini l'unica via per un miglioramento, che però ai suoi occhi nessuno dei cattivi governi insediati nell'area slava - Austria, Venezia e Impero ottomano - voleva perseguire. A contrastare l'opuscolo si mossero, con lo stesso disordine e animosità dell'accusatore, alcuni dalmati, e soprattutto, con un Sermone parenetico al signor Giovanni Lovrich (1777) uno sconosciuto Pietro Sklamer chersino, nome sotto il quale potrebbe celarsi lo stesso abate, ma che potrebbe parimenti riferirsi a un suo amico. Di fronte al frammentismo pedante del Lovric, ben più meditate e incisive dovettero però apparire le Riflessioni sopra lo stato presente della Dalmazia, che Pietro Nutri-zio Grisogono, di Traù, aveva pubblicato a Firenze nel '75, segnando un momento decisivo per la nuova classe politica e intellettuale dalmata — Baja-monti, Michiel Vitturi e, nell'opposto campo conservatore, Gian Luca Gara-gnin, l'arcivescovo di Spalato in merito al grado di consapevolezza delle disperate condizioni di vita in cui versava la regione. Anche il Fortis, come s'è visto, aveva insistito su questo aspetto, ma qui il problema, rifiutata ogni tentazione letterario-roussoviana era esposto nella sua crudezza, «spogliato - nota ancora il Torcellan - d'ogni spirito di sorpresa o di convenzionale stupore, nudamente visto e sofferto dall'interno di quella terrificante realtà di miseria e di abbandono sociale e politico». Questa volta la risposta, aspra, risentita e un po' incerta, venne data in prima persona, con la Lettera al nobil signor conte Kados Antonio Michieli Vitturi (1776) e ancora il Nostro polemizzava col Grisogono a proposito dei successivi attacchi contenuti nelle Notizie per servire alla storia naturale della Dalmazia (1780), mostrando però alla fine, con il discorso Della coltura del castagno, di aver utilmente recepito quelle obiezioni. Ad ogni modo era stato il Viaggio in Dalmazia a richiamare l'attenzione della nascente «scuola» fisiocratica dalmata sull'urgenza della questione, e questo resta nel concreto il risultato più importante raggiunto dal libro, dato che nemmeno le decise prese di posizione di costoro riuscirono a innescare interventi riformistici da parte di qualcuno dei tre Stati che si dividevano la regione. Le polemiche e le critiche non affievolirono però l'amore e l'interesse del Fortis per la Dalmazia, e nel '79 egli si spingeva ancora fino al confine turco, sostando a Ragusa. L'impressione che ne ricavò, per quanto ne sappiamo dalle lettere scambiate con gli amici del luogo e dalle notizie giunteci intorno a un perduto capitolo sulla città scritto, in francese, per una mancata seconda edizione del Viaggio, fu del tutto diversa da quella riportata nel resto del paese. Qui, grazie a una situazione ambientale più favorevole e a un'agricoltura assai meno arretrata, la vita scorreva con una certa agiatezza e il livello culturale della locale aristocrazia era senz'altro soddisfacente, tale da indurlo a ricercare le conversazioni nei salotti delle famiglie eminenti: i Sorgo, i Bassegli, i Giorgi-Bona. Nell'ultimo caso si giunse anche a un risvolto amoroso seriamente imbarazzante con Maria Giorgi-Bona, gentildonna maritata alla quale indirizzò ardenti omaggi poetici e la cui presenza alimentò certe propensioni del maturo abate a trasferirsi definitivamente in quella città. Non se ne fece nulla e anzi, dopo il 1783, deluso dal raffreddarsi di questa relazione, nonostante l'intervenuta vedovanza di lei, non tornò più a Ragusa, così come, dopo il '91, non tornò più in Dalmazia, dove nell'arco di un ventennio aveva finito per recarsi dodici volte. Nel frattempo Spalato aveva tributato uno dei più sinceri riconoscimenti alla sua attività, affidandogli nel 1780 il discorso inaugurale della Società economica, per il quale il Fortis scelse di parlare Della coltura del castagno da introdursi nella Dalmazia marittima e mediterranea, occasione per ribadire il proprio convincimento sulla necessità di collegare strettamente ricerca naturalistica e sviluppo civile. Considerato Pinaridimento del terreno dovuto alla sua natura carsica, suggeriva l'incentivazione del castagno, l'albero più adatto, a suo avviso, per arginare la grave erosione e recuperare vasti terreni a bosco; i prodotti ricavati sarebbero stati di grande utilità, sia per l'alimentazione che per l'utilizzo del legname, e da queste nuove risorse agricole sarebbe derivato un sicuro benessere per le nuove generazioni. Nei confronti della Dalmazia era una sorta di ultimo messaggio, mentre già era impegnato su un altro fronte, quello napoletano e calabrese che lo avrebbe assorbito per il successivo decennio, con lo stesso alternarsi di speranze, con ancor più aspre battaglie e in fondo con un identico bilancio di delusioni, le stesse patite dal riformismo illuministico un po' dappertutto in Italia, dalla Milano di Giuseppe n alla Toscana post-leopoldina, alla immobile Napoli dei Borboni, a Venezia, arroccata in un sistema oligarchico nel quale non si poteva più riconoscere, com'era stato fatto nei secoli precedenti, la forma perfetta di governo. Restando al Fortis, la prova più evidente dell'incomprensione che aveva circondato il suo progetto dalmata resta affidata a una pagina delle Memorie inutili (1797-98), dove Carlo Gozzi, partendo dai dati di una modesta esperienza personale, giungeva a conclusioni diametralmente opposte, ironizzando tra le righe sulle analisi dell'abate e riportando la questione tutt'al più sul piano morale. Forse inconsapevolmente, egli finiva così per confermare non tanto le ragioni della predominante parte conservatrice, di cui si fa portavoce, quanto l'ampiezza del solco che la divideva dal minoritario, ma ai nostri occhi genialmente innovativo, gruppo degli illuministi: Molti avranno già scritte e stampate relazioni di maggior conseguenza, e l'abate Alberto Fortis, uomo di vasto intelletto, d'ardire eguale ed instancabile nelle osservazioni e scoperte dette solide ed utili, ha fatte negli abitanti, ne' mari, ne' monti, ne' laghi, ne' fiumi e nelle campagne di quelle provincie delle scoperte utilissime e considerabilissime. Sono stampate e ognuno può leggerle e crederle, come l'hanno lette e credute degli altri. Mi fu detto ch'egli abbia inventariate delle gran maraviglie e progettate delle maniere di prodotti e di barili di merci, che si possono trarre da quel pezzo di mondo, ch'egli giudica abbandonato in una stomachevole trascuratezza. Tali progetti hanno un'effigie vezzosa, che piace a parecchi innamorati della novità delle scoperte, e non importa che sieno in gran parte falsi e in gran parte non eseguibili, perocché in ogni età v'è una scienza dettata da un fantasma detto «moda», il quale si è sempre divertito sull'umana volubilità, sull'umana avidità, sull'umano capriccio. I viventi dell'età nostra si persuadono e s'allegrano facilmente, ad un semplice fantastico disegno dell'opulenza, del lucro e degli agi de' nostri corpi, passando sopravia a tutto ciò che giova agli spiriti e a' cuori per fermarli ne' limiti della temperanza, della moderazione, della verità e del dovere. È una tavoletta il dire che, senza il balsamo della educazione morale, l'opulenza e gli agi sono soltanto veduti da chi non li possiede in chi li possiede e guardati con occhio d'invidia, di rancore e coll'animo di pirata; e che chi gli ha in possesso non vede e non crede giammai di possederli, facendo un vergognoso abuso di quelli. Non credo che l'abate Fortis, del di cui intelletto si deve avere molta stima, si sia degnato di ricordare, che per indurre la Dalmazia e l'Albania veneta a tutto quel bene che potrebbero dare coll'industria, sarebbe necessario incominciare dallo spargere poco a poco con insistenza sul costume e sul pensare un'efficace buona morale, che apparecchiasse i cervelli, gli animi e i cuori alla ragione e all'obbedienza. Con questo studio preliminare e indefesso, dopo il corso d'un secolo e mezzo, si potrebbe forse verificare la decima parte de' lusinghieri progetti. (Memorie inutili, p. i, cap. ix). Vita e opere di Alberto Fortis Se il momento più intensamente «dalmata» di Alberto Fortis, incastrato esattamente al centro della sua vita, è quello che, grazie al Viaggio in Dalmazia, ne consacra la fama di naturalista e di etnologo, non esaurisce però il panorama di un'attività di studio e di esperienze letterarie straordinariamente intensa. Nato nel novembre del 1741 a Padova e battezzato col nome di Giovanbattista, il Fortis apparteneva a una famiglia di piccola nobiltà, decaduta a modeste condizioni di vita. Mortogli prematuramente il padre, il secondo matrimonio della madre, donna intelligente e colta, gli apriva ancor bambino ben maggiori possibilità, essendosi ella accasata con il conte Capodilista, membro di una delle più ricche casate della città, e in contatto con prestigiosi esponenti della scienza universitaria, frequentatori nella sua casa di un vero e proprio salotto culturale, dove attorno al Cesarotti era facile ritrovare i vari Toaldo, Sibiliato, Strafico e Antonio Vallisnieri junior. In questo ambiente l'indirizzarsi del giovane agli studi, e a quelli naturalistici in particolare, pare quasi un esito scontato, contraddistinto però sin dall'inizio dalla spontaneità di una forte passione, quasi una vocazione si potrebbe dire visto l'entusiasmo col quale, sotto la guida di Giovanni Arduino colui che in area veneta orienterà le propensioni collezionistiche del primo Settecento verso la scientificità sistematica di metà secolo - percorre i colli del Vicentino e del Padovano, studiando i misteri della terra e progettando un poema geologico «De' cataclismi sofferti dal nostro pianeta» su cui ritornerà più volte, senza mai stenderlo e limitandosi poi a descriverne il disegno complessivo e a pubblicarne alcune ottave nell'«Europa letteraria». Nel frattempo la posizione di agiatezza raggiunta dalla madre stentava a tradursi in benefici effetti per il figlio, che anzi veniva avviato al Seminario e vestiva a sedici anni l'abito agostiniano, assumendo il nome di Alberto. Ma la mancanza in lui di una reale vocazione si manifestò quasi subito, creando le premesse per anni di tormentoso conflitto intcriore: lungo le tappe che da Padova lo porteranno a Verona, a Bologna e infine a Roma il polo d'attrazione del Fortis rimarranno sempre le scienze naturali, avidamente apprese in crescente contrasto con il senso di fastidio provato di fronte ai doveri impostigli dallo stato regolare. La Roma di Clemente xm diverrà ben presto il punto di scontro di queste tensioni, destinate ad accentuarsi visibilmente non appena il ventenne frate fu preso sotto la propria protezione dal padre Antonio Agostino Giorgi, illustre esponente della Congregazione De propaganda fide e sinceramente disposto ad assecondare la sua sete enciclopedica di sapere. Fu il Giorgi, celebrato studioso di lingue orientali, a permettergli lunghe ore di studio nella Biblioteca Angelica, della quale era Prefetto, ma congiuntamente altri pedagoghi meno accorti premevano perché l'indubbia, vivace, intelligenza del padovano fosse messa a disposizione dell'Ordine, ed egli con opportuna preparazione ne divenisse il teologo ufficiale, dedito a difenderne l'ortodossia. Agli stessi anni, mentre venivano radicandosi nel Fortis un severo spirito critico nei confronti della decadenza della Chiesa e l'avversione per il dilagante fanatismo religioso, risalgono anche i primi contatti, sempre a Roma, con studiosi slavi come Benedikt Stay e Rajmund Kunic, cui va aggiunta la grande ammirazione per il geografo dalmatino Ruggero Boscovich, maestro sommo di quel poetare scientifico che per il momento pareva catalizzare ogni sua ambizione letteraria. A.d eccezione di un breve periodo vicentino, ricco di esplorazioni mineralogiche quasi un anticipo delle repentine fughe che compenseranno nelle terre di Arzignano le delusioni, sempre più frequenti, della maturità - l'inquieto soggiorno romano durerà quasi ininterrottamente fino al 1767, quando finalmente, con la promessa di un posto di bibliotecario prospettatagli dal Vescovo di Vicenza, poteva tornare nel Veneto: l'acquisto di una nuova libertà gli costava un'insanabile frattura con gli agostiniani e lo avviava verso un futuro incerto, tanto più precario quando, vanificatesi le prospettive vicentine, se ne veniva a Venezia nel settembre dello stesso anno. Seguirono mesi di affannose e disparate occupazioni, quelle tipiche degli abati sparsi per l'Italia settecentesca. Per un breve periodo fu censore librario al servizio dei Revisori alle stampe, per dedicarsi poi alla traduzione, volgarizzando svogliatamente il iv libro dell'Eneide, e approdare infine all'effervescente mondo giornalistico, collaborando tra il '67 e il '68 con Francesco Griselini alla compilazione del «Giornale d'Italia», il periodico che aveva accolto nel '65 i suoi esordi saggistici, quei Pensieri geologici scaturiti dal primissimo viaggio in Istria e già animati dagli entusiasmi dell'esploratore, naturalista e antiquario assieme, di fronte a un paese nuovo, ricco di suggestioni per il progettato poema scientifico. Un dissidio redazionale poneva bruscamente fine a questa collaborazione e segnava il passaggio al «Magazzino italiano», titolo quanto mai emblematico per un giornale eterogeneo e diseguale, dove tuttavia non mancavano spiragli illuministici e, per quanto riguarda il Fortis — e sempre che siano davvero suoi gli articoli attribuiti con felice intuizione da Berengo e Venturi - occasione per ripetuti, significativi interventi sull'avventura corsa di Pasquale Paoli. Affermazione di libertà alimentata dalla coscienza popolare, prodigioso progredire da uno stato primitivo a una struttura civile in grado di gareggiare in modernità con quella inglese, avvisaglie di una prossima fioritura delle scienze e delle arti: tutto questo l'abate vedeva nell'eroica insurrezione della Corsica, entusiasmandosi al punto di avviare nel '68 contatti in vista di un suo trasferimento nell'isola a collaborare col nuovo Governo, presto sfumato di fronte al precipitare della situazione e a nuovi impegni giornalistici assunti a Venezia. Questo stesso anno registra infatti la cessazione del «Magazzino italiano» e il decisivo incontro del Nostro con Domenico Caminer, gazzettiere di lunga esperienza prima con gli Albrizzi, quindi come prosecutore nel '62, insieme a Girolamo Zanetti, della «Gazzetta veneta» avviata da Gasparo Gozzi, ed ora pronto a dar vita a un periodico tutto suo col quale si apriva, come s'è detto, una nuova fase della vivace pubblicistica veneziana, nel suo insieme una delle voci più nuove e moderne dell'intero Settecento italiano. In effetti «L'Europa letteraria» - tale il titolo della nuova testata - pur restando fedele ai canoni consolidati dei giornali di informazione bibliografica, prendeva in esame con recensioni e brevi estratti tradotti opere di Voltaire, Rousseau, Helvetius, D'Alembert, Bayle, segno tangibile di apertura al pensiero illuministico e di volontà di dialogare con i maggiori intellettuali europei, diffondendone il pensiero e discutendone le opere. Il merito di questo taglio innovatore non andava di certo al Caminer, abile e scaltro giornalista sollecito a fornire al suo pubblico un'ampia messe di notizie letterarie, antologizzando pezzi tratti da diversi giornali italiani ed esteri, ma parimenti attento a evitare ogni polemica e dibattito approfondito, convinto, come dichiarava nell'«Europa letteraria» del febbraio 1769 (pp. 83-84), che «un giornalista deve con una spezie d'analisi dare un'idea del libro su cui ragiona, e lasciare a' leggitori il formarne giù-, dizio». Degli articoli più battaglieri era invece responsabile proprio il Fortis, e insieme a lui la giovanissima figlia di Domenico, Elisabetta Caminer, appena diciassettenne eppur pronta a proporsi nell'arco di un trentennio quale simbolo del giornalismo «illuministico» tra Venezia e Vicenza, redattrice abituale delle note relative alle novità letterarie francesi, con particolare riguardo al teatro. L'abate si riservò ovviamente gli interventi su temi scientifici, pur non disdegnando puntate su argomenti letterari e qualche volta anche filosofici e artistici. La riproduzione animale, le acque minerali, le marne e la fertilità della terra, il possesso dei terreni e la loro redditività, l'emblematica crociata a favore dell'innesto del vaiolo, sono oggetto di altrettanti «estratti», ma ad essi vanno accostati quelli, parimenti incisivi, nei quali, prendendo spunto da opere storiche o teologiche, scaglia decise frecciate antimonastiche o dileggia acremente ogni sorta di superstizione. Nel complesso i due redattori, tra i quali si intrecciò presto un legame sentimentale sfociato alla lunga in una salda amicizia, si facevano promotori di uno spirito critico tutto volteriano e le lodi a Voltaire, come segnala opportunamente Marino Berengo, risuonano dappertutto, accompagnate da una propaganda sempre più convinta a favore dell'Enciclopedia, specie delle varie ristampe e traduzioni che entrando in quegli anni massicciamente nel Veneto, sembravano in grado di soppiantare in maniera definitiva le vecchie forme del sapere. Viceversa queste scelte attiravano però ironici commenti da parte degli spiriti moderati, rafforzando le diffidenze di Domenico Caminer e convincendolo in breve dell'avvenuto stravolgimento del suo giornale. La rottura col Fortis avviene già a metà del '69, poco prima della definitiva restituzione di quest'ultimo al secolo a seguito di una bolla di Benedetto xiv, e porta a un suo rapido disinteresse nella gestione dell'impresa, ove sulla sola Elisabetta gravava ora il peso di sostenere la bandiera illuministica, cosa peraltro che ella fece con sufficiente energia, per consegnarla agli inizi del '74 al «Giornale enciclopedico», diretta prosecuzione dell'«Europa letteraria». Attorno alla nuova testata troveremo una Caminer fatta più esperta, la corroborante novità di Giovanni Scola, dedito ad articoli giuridici ed economici, e ancora l'abate, con il suo Viaggio in Dalmazia fresco di stampa e tuttavia alla vigilia di definitive delusioni riguardo alle aspettative dalmate; pronto comunque a riprendere puntigliosamente la penna, facilitato in questo dalla ridotta ostilità manifestata ora dall'anziano Domenico, il quale finirà per cedere anche ufficialmente ad Elisabetta, nel '77, una dirczione che nei fatti ella aveva tenuto fin dall'inizio insieme allo Scola. Su loro iniziativa il periodico aveva subito assunto una diversa fisionomia: le recensioni dell'«Europa letteraria» erano diventate veri e propri articoli originali di critica militante, s'era ampliata la rosa degli argomenti trattati e accresciuto l'elenco degli scrittori illuministi presi in esame, grazie agli sguardi attenti rivolti dal Fortis e dallo Scola alla schiera degli intellettuali riformisti italiani, che in varie parti della penisola s'era da qualche tempo messa in moto con gli scritti e, dove possibile, con iniziative pratiche. Al primo spettano gli articoli a favore dei Saggi politici di Francesco Mario Pagano, del Discorso sulla maremma di Siena di Sallustio Antonio Bandini e degli scritti di Francesco Longano; al secondo quelli, parimenti decisi, a sostegno di Pietro Verri e Antonio Genovesi. Nel frattempo le condizioni economiche del Fortis mutavano radicalmente a seguito della concessione da parte della madre dei poderi di Arzignano, nel Vicentino, che lo liberava finalmente da congenite ristrettezze, permettendogli di trattare con maggiore libertà i consueti protettori e di intraprendere con rinnovato entusiasmo altri progetti. Così, mentre con lo stampatore Milocco rilevava nel 76 dal Griselini il «Giornale d'Italia», organizzava diversamente il proprio lavoro di ricerca e riprendeva vigore in lui l'aspirazione a dare agli studi uno sbocco pratico in dirczione riformistica, magari ampliando la visuale al di là dei disattenti confini Veneti. Deluso in patria, compiva l'anno dopo un viaggio in Svizzera insieme ad Angelo Querini, al pari di lui irriducibile illuminista, a visitare il geologo De Saussure, il botanico Haller, il fisiognomia) Lavater e il grande Voltaire; con l'appoggio del conte di Firmian tentava una mappa mineralogica della Lombardia, e analoghe iniziative promuoveva in Toscana, nell'isola d'Elba e nel Lazio. Alla fine Napoli sembrò l'ambiente più adatto per condurre a esiti positivi questi propositi, e a metà del 1780, partendo emblematicamente dalla Dalmazia, si diresse nella città partenopea, invitato dai docenti dell'Università, tra i quali quel Domenico Cirillo che gli era stato compagno nel viaggio a Cherso e Osero. L'iniziale indeterminatezza in cui era avvolta questa ennesima avventura svanì ben presto, non appena conobbe Melchiorre Delfico, che gli divenne presto fedele amico, procurandogli la carica di mineralogista di Corte: con il suo determinante apporto l'abate procedeva a un censimento sistematico delle risorse minerali del Napoletano, allo scopo di utilizzarle per migliorare l'economia di uno Stato povero ed arretrato, e individuava rapidamente una grossa nitriera naturale nei pressi di Molfetta, sufficiente da sola a soddisfare l'intero fabbisogno del Regno. Il clamoroso risultato innescava però una violenta reazione da parte di un ristretto gruppo di appaltatori del nitro artificiale, che vedevano nella scoperta, trionfalmente comunicata al sovrano nel 1780, la fine di cospicue rendite lucrate sulle spalle degli affamati contadini. Il contrasto fu duro, senza esclusione di colpi, e annoverò tentativi di corruzione operati nei confronti del Fortis, dispute scientifiche fondate su pretestuose perizie a lui sfavorevoli e ripetute accuse di millanteria. Il battagliero naturalista non si tirò indietro e ribattè colpo su colpo, ma dovette soccombere davanti alle esasperanti eccezioni e lungaggini dei suoi awersari, ben più astuti nel condurre una lotta dai toni nettamente conservatori e oscurantisti. Dopo aver invano sperato anche a Napoli, come a Padova, in una cattedra universitaria che il sincero appoggio del Delfico e di Gaetano Filangeri non riuscirono a ottenergli, tornava al Nord nell'83 e, sempre accanto a Elisabetta Caminer e al marito di lei Antonio Turra, subentrava allo Scola nella dirczione del «Giornale enciclopedico», ora «Nuovo giornale enciclopedico», per riprendere però abbastanza presto la strada del Sud, verso la Puglia e la Calabria, ad osservare e studiare quei desolati territori. Frutto del viaggio saranno appunto, nell'84, le Lettere geografico-fisiche sopra la Calabria e la Puglia, uscite in poche copie a Napoli e diffuse solo in seguito, con la ristampa viennese del 1786. Il libro è quasi il pendant del Viaggio in Dalmazia e d'altronde le regioni che vi erano descritte, seppur eredi di una civiltà millenaria, si presentavano in condizioni poco diverse da quelle della costiera slava, e bisognose pur esse di energici interventi da parte di un Governo centrale anche qui latitante. I continui richiami del Fortis a queste urgenze, le ripetute fiammeggianti polemiche e i frequenti scoramenti con relativo ritirarsi nella sua casa di Arzignano, sui colli Berici, o in quella della madre a Galzignano, sugli Euganei, saranno il motivo conduttore di tutto il decennio 1780-90, durante il quale lo vediamo alternare periodi di studio nel Veneto con caparbie incursioni nel regno di Napoli, a inseguire ancora l'abolizione degli appalti del salnitro con una fitta serie di scritti, riassunti magistralmente nella conclusiva memoria Del nitro minerale, che l'amico Delfico pubblicava, nell'87 a Napoli, quale amaro epilogo dell'annosa questione. Le sconfitte patite nel Meridione d'Italia ad opera di una struttura statica nei suoi privilegi e refrattaria alle riforme, lasciavano un vivo segno anche nelle pagine del «Nuovo giornale enciclopedico», dove nell'aprile del 1789, l'anno della rivoluzione francese, in una corrispondenza alla Caminer scriveva: Che orribile stato di cose sotto principi e ministri di stato per ogni titolo rispettabili ed eccellenti! Che predominanza nella sciagura nazionale d'una legislazione informe e contradditoria, d'una costituzione mostruosa, sopra le loro buone intenzioni! Ed è forza di sciagura, non di mala indole, come alcuno volle far credere: bisogna vivere anni nel regno di Napoli, e viaggiarvi, per ben conoscere la nazione. Prammatiche e paglietti: ecco le due fonti del male, ecco i due vasi di Pandora, da' quali escono tutti i guai di queste belle contrade. Il ritorno definitivo nel Veneto avverrà nel '91, e da qui in poi la vita del Fortis scorrerà in una rinnovata stagione di intensi studi, inframezzata da bagliori di impegni pubblici, spesso connessi ai tumultuosi anni di fine secolo Gran parte del suo tempo era dedicata ora al serrato dibattito, intavolato con Domenico Testa, Vincenzo Bozza e Giovanni Volta, sulla natura dei fossili di Bolca, oppure alla confutazione delle presunte scoperte di Basile Terzi - un rozzo abate che pretendeva di aver trovato sui colli Veneti cave di marmo e carbone - condotta come sempre col rigore scientifico del geologo «professionista». Contemporaneamente guardava però con attenzione agli avvenimenti di Francia, respirando di riflesso le speranze di libertà e rinnovamento che parevano scaturire di là, e ne discuteva con l'amico Dolomieu in una fitta corrispondenza, animata dalla speranza che anche a Venezia ci si potesse finalmente incamminare su quella strada. In questo senso tra il '93 e il '94 faceva uscire per un anno e mezzo «II genio letterario d'Europa», un nuovo periodico col quale intendeva contrapporsi alle «Memorie per servire all'istoria letteraria e civile» del conservatore Francesco Aglietti. Vi collaborarono eminenti rappresentanti della cultura di fine secolo, dal Toaldo all'Amoretti, al Barbieri, con la probabile aggiunta del piemontese Giambattista Vasco: da parte sua il Fortis vi prospettava ancora una volta l'opportunità di riformare il quadro politico, piuttosto che stravolgerlo, e inneggiando alla rivoluzione americana, rimeditava con maggior cautela su quella francese, additando in un'intelligente redistribuzione delle ricchezze e nella diffusione delle nuove conoscenze tecnico-scientifiche la via più adatta per realizzare una società migliore. Nel frattempo confortava anche nel privato la sua battaglia di idee col gesto, e quando ebbe individuato ad Arzignano una ricca torbiera, non si limitò a darne un'accurata descrizione in un opuscolo Della torba che trovasi appiè de' Colli Euganei (1795) indirizzato all'Accademia di Padova, ma regalò quel suo appczzamento allo Stato perché ne traesse vantaggio. La risposta dell'agonizzante Repubblica fu quanto mai ottusa quando si pensi che invece di organizzare il razionale sfruttamento del giacimento, si preferì indagare sulle attività dell'abate e sospettarlo di giacobinismo. Nei febbrili mesi che seguirono i sospetti parvero confermati dai suoi se-ambi epistolari, e il Fortis, fiutato il pericolo, si sottrasse appena in tempo agli Inquisitori di Stato riparando in Francia, insieme all'amico raguseo Michele Sorgo, nel 1796, l'anno in cui moriva Elisabetta Caminer. Il mondo del Direttorio e l'immagine reale del dopo rivoluzione lo lasciarono presto deluso e mentre a Parigi perdeva per errati investimenti i suoi averi, tornava a vagheggiare in uno scritto De la toscane, apparso anonimo nel '98 ma certamente da attribuirgli, il riformismo leopoldino e le ipotesi politiche ed economiche del dispotismo illuminato. I contatti con un ambiente circostante segnato da continui, rapidi cambiamenti venivano fatalmente sfilacciandosi e se sul piano personale gli anni francesi sono contraddistinti per lui da attestazioni di stima decretategli da Accademie e circoli culturali, dall'altra parte non ritrovava più interlocutori disposti a consentire con i suoi schemi illuministici. Tra opposti fronti di restaurazione conservatrice e di giacobinismo rivoluzionario, guardati entrambi con forte sospetto, il Fortis parve ritrovare per un attimo il filo di un discorso interrotto con l'affermarsi del sistema napoleonico. I ponderosi tomi dei Mémoires pour servir a l'histoire naturelle et principalement a l'oryctographie de l'Italie et des pays adjacents, editi nel 1802 a coronamento di tanti anni di appassionata ricerca, gli valsero infatti l'incarico di prefetto della Biblioteca dell'Istituto di Bologna, e la nomina poi a segretario dell'Istituto Nazionale Italiano. Trasferitesi conscguentemente a Bologna, vi trascorse però gli ultimi mesi di vita dedicandosi a minute occupazioni di biblioteca: giunte troppo tardi, queste cariche non potevano più servirgli per avviare progetti di pubblica utilità; erano solo il riconoscimento di una vita spesa coerentemente nella devozione alle scienze naturali e nel profondo credo del loro ruolo determinante per il progresso umano. Proprio a Bologna il Fortis moriva nell'ottobre del 1803. GILBERTO PIZZAMIGLIO