Edizioni MAP Cross Communication - Anno 1, numero 3 free spirits at work Marketing Forum Car Sharing Corporate Blog Web 2.0 Intranet Wikipedia James Gosling Enzo Rullani Marco Stancati Bepi Hoffer iannovation wa rd free spirits at work 7th Floor è nato con un desiderio: dare espressione all’originalità della vita aziendale, riportando funzioni, procedure e pratiche quotidiane ai soggetti umani che le ideano e le realizzano. Crediamo in un genius loci specifico, che ha a lungo attraversato pittura, musica, cinema e letteratura, e ora si manifesta anche nelle relazioni professionali, nell’organizzazione e nelle pratiche quotidiane. Per questo abbiamo pensato a un Innovation Award particolare: non il tradizionale tributo al nuovo gadget tecnologico, né il pur necessario riconoscimento al politicamente corretto dell’impresa responsabile o culturalmente orientata. Vogliamo puntare al cuore del problema e premiare direttamente le persone che sono dietro i progetti più interessanti, la creatività espressa nella vita aziendale quotidiana, il contributo immateriale e spesso trascurato dei molti capitalisti personali, che operano negli spazi ovattati degli uffici post-fordisti. I moduli d’iscrizione saranno disponibili a partire dal mese di novembre sul nostro sito: www.7thfloor.it Il nostro staff è a vostra disposizione per ulteriori chiarimenti (tel 06.85356443; e-mail [email protected]) Interazioni Un canale diretto di comunicazione con le persone che ci leggono, ci criticano, ci spingono a continuare e magari ad allargare il panorama che ogni mese proponiamo dalle finestre di 7th Floor. Mens sana in corporate office Ho letto con interesse, sulle pagine delle riviste di settore e tra i blog della rete, le critiche e i commenti al nostro progetto editoriale. Mi hanno offerto diversi spunti di riflessione e qualche consiglio davvero niente male per la nostra ricerca di una rivista non convenzionale per il mondo corporate. Tuttavia ho l’impressione che la cattiva fama di cui soffre la parola ‘corporate’ offuschi lo spirito e le intenzioni di 7th Floor. Noi non ci sentiamo assolutamente milanoda-bere come qualcuno ha commentato; anzi, decisamente l’opposto. 7th Floor vuole essere un’alternativa alla comunicazione istituzionale del mondo d’impresa: noiosa, patinata e incartapecorita. Vuole scavalcare le barriere della competizione tra aziende e all’interno delle stesse. Vuole raccontare e condividere le storie di persone concrete e originali che vi lavorano, persone con un volto e un nome, esseri peculiari, creativi, non convenzionali, cercando di violare e scartare l’involucro patinato degli Uffici Stampa che filtrano e omologano le vicende. Intanto godetevi questo nuovo numero dedicato alla condivisione: aperto alle tecnologie ma anche attento alle inquietudini e agli squilibri che il lavorare in rete genera. A proposito, ci tengo a dirvi che lavorare in rete è la nostra esperienza quotidiana: anche 7th Floor prende corpo senza quasi contatto fisico: il timone è on line, gli archivi sono sotto licenza Creative Commons, le foto vengono dal Tajikistan, molti collaboratori da Linkedin.com o da Frappr.com. Eppure tutte queste parti in una suggestiva coralità asincrona partecipano al progetto e infine lo portano alla luce. Manca qualcosa? Sì, a volte. La rete avvicina, accelera e filtra; qualcosa crea attrito e qualcosa si perde. Ecco, ad esempio un silenzio, uno sguardo, un sorriso, un gesto semplice che ha quell’ineffabile capacità di smontare una tensione e un’arrabbiatura come per magia. Aspettiamo le vostre critiche e i vostri commenti! Andrea Genovese ([email protected]) Map - 7th Floor } Non è un caso che il board editoriale sia costituito principalmente da persone di formazione umanistica. Lo spirito editoriale è critico, ironico e provocatorio rispetto all’impostazione business school americana, tutta profitto e tecnologia. Il nostro è un lavoro partecipativo, che attraversa una fitta rete di collaboratori sparsi per il Paese - designer, giornalisti, manager, professori, artisti, professionisti -, tutte persone impegnate a riflettere sulle attuali logiche di organizzazione del lavoro, insoddisfatte dall’assenza di finalità propriamente umane nel modo di fare impresa oggi. È chiaro che per far questo noi dobbiamo stare sia dentro che fuori dal ‘sistema’. Non possiamo esimerci dall’attraversare righe e colonne della matrice capitalistica, altrimenti saremmo innanzitutto disinformati e poi poco credibili. Ma in questo mondo desideriamo essere portatori sani di un virus di dubbio, di un’anomalia, di una spezia esotica che contamini l’aria e porti a mettere in discussione le logiche con le quali ideare, fare, agire. Forse non ancora quanto vorremmo, ma ci stiamo lavorando sodo! La realtà non ridotta a cliché Trovo l’idea interessante. Basata, mi pare, sull’individuazione di un punto sensibile che accomuna i manager/specialisti, cioè il peso di fare un lavoro che appassiona. La passione ruba molte più energie di una qualunque professione ed è difficile dimenticarsela, pure quando non la si esercita (nel tempo libero, intendo). Mi sembra che i contenuti della rivista si collochino nel ridottissimo spazio che i suoi lettori/scrittori lasciano fra la realizzazione personale e la sfera personale. Uno spazio che sembra sempre sfumare e che, per quanto contenuto, viene sempre rimpinzato di libri interessanti, viaggi interessanti, dischi interessanti, programmi radiofonici interessanti. Per non dimenticare mai di avere un ruolo. Croce e delizia. Non so se ho indovinato e se mi sono spiegata, comunque non rileggo il paragrafo, perché quando vado sul filosofico mi faccio ridere e finisce che cancello tutto. Interessante anche l’idea di fare una free press, togliendo alla rivista l’etichetta alto-borghese del prezzo (che fa sempre un po’ Men’s Health). Molto bella la veste grafica. Però c’è qualcosa che non mi convince. L’intenzione di Abruzzese è raccontare i “mille piani di esperienza vissuta”, “l’Impresa di stare la mondo” liberandosi, quando si può, dai ritmi del tempo sociale. In realtà, mi pare che questa patina di esistenzialismo che avvolge le foto, gli articoli, il font faccia sprofondare ancora di più i personaggi raccontati (perché assomigliano davvero poco a delle persone) nella loro dimensione di professional. Sembrano un po’ in gabbia, come se non potessero essere altro che quello che il lavoro suggerisce loro di essere. E sono costretti nel cliché di uomini di successo pure quando parlano del più e del meno. A me sarebbe piaciuto di più uno stile scanzonato, lievemente cinico, alla ‘diotifulmini’. Ma davvero vogliamo credere che Giuseppedomingo (con chi dobbiamo prendercela per il nome? Coi genitori o col suo personal coach?) a 28 anni sopravvive al logorio della vita moderna pensando “all’amore in generale. Inteso come star bene. Love”? Manco Ghandi dopo due anni di digiuno se la sentirebbe di pronunciare simili aforismi. A questo creativo, così vestito da creativo da non poter essere altro che un creativo, suggerisco immersioni intensive nella realtà, con l’unico effetto collaterale di farlo sopravvivere al logorio della vita moderna pensando “al delitto in generale. Inteso come vendetta. Kaputt”. Non per fare la vittima…però non se po’ sentì. Cordiali saluti, Roberta Casasole 7thflo or free corporate magazine Anno I, numero 3 settembre/ottobre 2006 Aria nuova in azienda Ieri ho ricevuto un nuovo mensile che reputo decisamente interessante. Si chiama 7th Floor ed è un prodotto della MAP, un’agenzia di comunicazione romana, ed è il primo (almeno che io sappia) free press aziendale che non tratta solo argomenti focused sul marketing e sulla comunicazione (finalmente!!), ma vuole essere un approfondimento culturale (nel senso più allargato del termine) per tutti i settori ed i componenti di un’azienda. Questo secondo numero è interessante perchè è focalizzato sui viaggi fuori dai “soliti schemi”, e anche sulla comunicazione e sulla pubblicità; il bello di tutto ciò è che questa commistione di argomenti avviene in maniera che gli argomenti si amalgamino bene tra di loro senza sentire il “passaggio”. Io l’ho trovata una di quelle riviste che regalano momenti di svago lasciando però anche lo spunto per pensare, per una rivista aziendale (gratuita), non è poco. Aria nuova in ufficio! Andrea Signori marketingroutes.com Riuscirete a raccontare “l’uomo corporate”? Letto tutto d’un fiato in vacanza, lontano dal mondo aziendale, ho trovato l’idea del primo “free press per il mondo corporate”, molto gustosa e azzeccata. Anche quando siamo lontano Km dalla nostra scrivania o dagli attrezzi del mestiere, non riusciamo a mandare del tutto la testa in vacanza. A me succede sempre! Sarà colpa dei due telefonini sempre accesi - ufficialmente per la moglie “in carica” -, del Blackberry che - sia benedetto - mi permette di leggere le email anche nel bel mezzo di un digital divide “montano”. Progetto ed Edizione Direttore editoriale Direttore responsabile Direzione creativa progetto Art Director Vivere l’azienda è soprattutto uno stato d’animo, una predisposizione del proprio ego che non riesce proprio a staccare la spina, dalla propria corrente vitale, neppure per 15gg. Ecco perché una rivista che abbracciasse “l’uomo corporate” mancava, e ecco perché l’ho trovata una lettura interessante. Co ordinamento editoriale Photo editor Marketing e Comunicazione Consulenza editoriale Eppure qualcosa non torna: l’esperimento andrà infatti seguito attentamente per capire quali sono gli obiettivi reali. Quanto la rivista sarà davvero lontano dal leit motiv dell’house organ e dai luoghi comuni delle riviste di settore? Quanto la pubblicità la terrà per il collo, quando i numeri della sua diffusione comincieranno a languire e le rubriche a essere patinate? Quanto dell’Uomo aziendale, che prima di tutto è Uomo e poi dipendente, sarà davvero raccontato? Le interviste passeranno tutte al vaglio degli uffici stampa o si potrà parlare senza bavaglio dei problemi sociali e umani che attanagliano l’Impresa post-moderna tutto profitto bocconiano e poco squadra? lele dainesi leledainesi.com Abbiamo voluto inaugurare questo rapporto diretto con voi ospitando – senza commenti – alcune delle “recensioni“che ci sono pervenute. 7th Floor è scritto per chi si sente – usando un vocabolo molto in voga nei paesi anglosassoni – un maverick, ovvero colui che fonda il proprio lavoro e la propria vita su un principio: l’indipendenza di pensieri e di azioni. Finché durerà questo rapporto diretto tra la redazione e i lettori, finché sapremo raccontarci dal caffé mattutino (moka) al fine settimana (LogOut), 7th Floor avrà compiuto il suo dovere. Il tema del numero è la condivisione. Non è un caso che si apra questo spazio proprio all’insegna della partecipazione condivisa del giornale. Map Cross Communication S.r.l. via Lima, 22 00198 Roma 06.8535.6443 F. 06.8535.6507 www.00map.com - [email protected] Alberto Abruzzese ([email protected]) Andrea Genovese ([email protected]) Andrea Genovese Giuseppedomingo Romano ([email protected]) Stefano Marucci Alice Pedroletti ([email protected]) Studio Alikè - Milano Stefania Capaccioni ([email protected]) Tel. 06.8535.6443 Lucio D’Amelia Board di progetto Alberto Abruzzese, Andrea Granelli, Maria Grazia Mattei, Nanni Olivero, Andrea Pollarini, Enzo Rullani Consulenti di progetto Fabrizio Canevari, Stefano Diana, Manuela Romagnoli, Fabrizio Pascale Realizzazione grafica Francesca Malandra, Davide Grimoldi ([email protected]) Supervisione alla produzione Immagine di copertina Hanno scritto su questo numero Fotografie Pubblicità e iniziative speciali Prestampa Stampa Il contenuto e le opinioni espresse dagli autori e dagli intervistati non coincidono necessariamente con quelle di 7th floor. Domenico Paternoster ([email protected]) “Net” di Giuseppedomingo Romano as Stub43 Andrea Genovese, Enzo Rullani, Marino Masotti, Stefano Marucci, Idel Fuschini, Alessandro Bernardini, Mauro Lupi, Roberto Galoppini, Antonella Beccaria, Stefano Diana, Carlo Infante, Stefania Capaccioni, Marco Romagnoli, Manuela Romagnoli, Lucio D’Amelia, Francesco D’Orazio, Stefano Triulzi, Federico Spinetti, Matteo Catoni, Mario Vigna, Roberta Casasole, Marisa Orlando, Krasnapolsky, Francesca Pispisa Alice Pedroletti, Stefano Triulzi, Sham Shahrin MAP Cross Communication S.r.l. Sede Roma: via Lima, 22 00198 Roma (t. 06.8535.6443) La Cromografica srl - 912, v. Tiburtina - Roma (www.lacromografica.it) WebColor srl - loc. Le Campora - Oricola (Aq) (www.webcolorprint.it) 7th Floor può dare voce alle vostre idee, ai progetti o alle iniziative della vostra azienda. [email protected] Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive aziende. Nessuna parte del contenuto di questa rivista può essere pubblicato, fotocopiato, distribuito e diffuso attraverso qualsiasi mezzo, online e offline, senza il consenso scritto della MAP S.r.l. © MAP S.r.l. Roma 2006. Tutti i diritti riservati. Questa pubblicazione è in fase di registrazione presso gli organi competenti, Tribunale di Roma. Copia gratuita. 7th Floor può circolare nella vostra azienda ed essere letto da altri manager. [email protected] 7th Floor può essere un nuovo mezzo di comunicazione per i vostri prodotti e la vostra attività. [email protected] 7th Floor è una novità assoluta nel panorama editoriale attuale e un canale privilegiato per arricchire la comunicazione business (ma anche consumer in ambiente business). Contatta Map: [email protected] Tel. 06. 8535.6443 net work risvegli e transiti Andrea Genovese Genoves m3(moda/modi/mood) p. 1 14 l’auto(in)partecipazione Marino Masotti pause cercasi ercasi tribù p. 40 Francesco D’Orazio tattoo you too feed reader Stefano Diana tech news Stefania Capaccioni moka /login p. 10 insieme, ognuno per sé Enzo Rullani p. 1 18 soggettive p. 44 logout p. 53 seguendo eguendo il Falak sulla cresta dell’onda un amico a contratto Andrea Genovese Marco Romagnoli Stefano Triulzi internet, maneggiare con cura la potenza degli dei, l’impotenza dell’uomo i vini dell’Alto Adige Stefano Marucci web 2.0, istruzioni per l’uso Manuela Romagnoli Idel Fuschini tra sé digitale e società digitale intranet , cambia la mappa del intranet, potere informativo in azienda Lucio D’Amelia Alessandro Bernardini la comunicazione corporate, raccontata dal mondo corporate Mauro Lupi performing media Carlo Infante Matteo Catoni scusi, dov’è l’uscita? Mario Vigna codice binario Roberta Casasole straordinaria spettacoli, cinema, musica, libri... p. 50 Insieme, ognuno per sé Lavorare in rete, il segreto dell’auto-organizzazione di Enzo Rullani Enzo Rullani è uno dei più acuti osservatori della realtà economica dei distretti industriali italiani, e delle reti di impresa. Attualmente è professore ordinario di Strategia d’impresa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dopo aver insegnato presso l’Università di Verona e di Udine; ha tenuto un corso di dottorato presso l’Università Bocconi ed è stato visiting scholar presso il MIT di Boston (USA). La storiella è nota, anche se istruttiva. Ci dice di quanto spesso, nei contesti decisionali, si scambi il mondo reale per le proprie premesse teoriche e professionali, preferendo ragionare come se i ferri del mestiere bastassero – per definizione – a risolvere i problemi a cui vengono applicati. Ma gli economisti – e i “managers” che imparano da loro – sono davvero così? Ebbene sì. Ma non è colpa loro. Sono così finché vivono in un contesto che parte dal presupposto di non prendere il mondo come è – con la sua complessità naturale – ma di ridurlo a macchina. macchina Un grosso meccano in cui si possa usare il calcolo come mezzo unico, o quasi, di decisione. Supponiamo di avere un apriscatole ……. Ossia supponiamo che il mondo sia calcolabile. È la stessa premessa di chi, di fronte ad un problema, dice: c’è da scegliere? Datemi una stima precisa dei costi e dei ricavi associati al set (dato) di alternative possibili. Se il mondo in natura non è calcolabile, peggio per lui. Basta renderlo tale o far finta che lo sia. Restringiamo (arbitrariamente) il set dato di alternative e stimiamo, in qualche modo, le misure che mancano. Dopo di che ….. il problema svanisce. Il modo più semplice (e più banale) di usare U n ingegnere, un biologo e un economista sono naufragati in un’isola deserta, con un carico di carne e bevande in scatola che potrebbe bastare a farli sopravvivere a lungo. Ma, purtroppo, le scatole sono chiuse e non è facile aprirle senza farsi venire una buona idea in proposito. Dice l’ingegnere: proviamo a fare forza con questa leva e questa pietra appuntita. Ma non funziona. Dice il biologo: lasciamo corrodere il coperchio dal sale marino, sommato a questa sostanza acida che sta nella corteccia delle piante. Macchè, non funziona nemmeno questo tentativo. Ultima chance: tocca all’economista. Tutti gli occhi sono puntati su di lui, che – dopo averci pensato un bel po’ – la mette così: “Supponiamo di avere un apriscatole ….” 10 il cervello umano è quello di utilizzarlo come macchina per calcolare. Chiunque abbia esperienza di organizzazioni sa che la burocrazia ha un irrefrenabile tendenza a ragionare così, pensando se stessa e le persone da essa governate come macchine che, per funzionare, devono disporre di un mondo calcolabile. te ne chiederà conto, specie nel caso che le cose vadano male. Ma il contesto non è modificabile nemmeno se le variabili e i criteri sono quelli decisi dal mercato esterno, ossia da comportamenti che – essendo fuori della sfera del comando proprietario – la gerarchia organizzativa dichiara incontrollabili, dati. Qualcosa da prevedere e calcolare, come le traiettorie dei pianeti nel sistema solare, per scegliere la propria posizione. Ma quanta parte della nostra vita economica oggi assomiglia ad un sistema solare di questo genere? Il mondo è diventato complesso e imprevedibile, fuori controllo per le gerarchie che pure si affannano ad inseguirlo con ogni mezzo. E fuori portata per i mercati, che oscillano vistosamente tra massimi e minimi abbastanza caotici: basti pensare ai cambi e al petrolio, per avere l’idea di quanto poco, oggi, la produzione di valore si svolga in condizioni calcolabili. “Se il mondo in natura non è calcolabile, peggio per lui. Basta renderlo tale o far finta che lo sia” E’ razionale, è conveniente, è logico ci accade di dire ogni volta che questi calcoli indicano che la scelta A ci porterà più vantaggi della scelta B. E tutta l’attenzione di chi lavora, parla, pensa si concentra in questo dispositivo di calcolo. Usare la testa per calcolare i costi e ricavi di alternative date è il lascito filosofico che abbiamo ereditato dalla tradizione fordista, che piazza le persone a lavorare e decidere in un contesto da esse non modificabile. Non è modificabile se il contesto della decisione è definito dalla gerarchia organizzativa: ci sono sempre variabili e criteri che qualcuno ha deciso prima di te e sopra di te. te Non ti si chiede di decidere bene (a tuo giudizio) ma di rispettare quelle variabili e quei criteri: qualcuno Le persone e le imprese – specialmente le persone e le imprese senza potere – hanno imparato a fare senza apriscatole, immergendosi nella complessità crescente e cercando anzi di imbrigliarla. Lo hanno fatto sfruttando appieno le capacità della mente umana, che nella storia si è modellata sulla gestione della complessità e che solo da poco – in era moderna – ha cercato di ridurre l’arte del pensiero complesso a calcolo meccanico, iper-semplificato. 11 E lo hanno fatto mettendosi in rete. Nessuno ormai – da solo – ha le competenze, la visione e la capacità di assumere rischi che servono per esplorare la complessità, navigando in un mare dove la varietà, la variabilità e l’indeterminazione sono destinate ogni anno a crescere. E dove gli spazi del controllo e della previsione diventano sempre più ristretti e precari, dovendo essere difesi da un fiume in piena che continuamente minaccia di rompere gli argini. fissati da altri, ma spesso per cambiare le premesse del loro operato. O forse per cambiare il proprio capo, o il senso del proprio lavoro. Calcolare ed eseguire certo serve ancora. Ma non basta. Lavorare in rete è un’altra cosa. Lavorare in rete significa accettare di dipendere da altri che a loro volta dipendono da te. In questa condizione di interdipendenza c’è sicuramente materiale per un potenziale conflitto; ma c’è anche la possibilità di inventare significati, esperienze, regole che permettano alle persone di modificare il contesto della loro interdipendenza, facendolo evolvere in forme gestibili, utili, rispetto alle loro esigenze. Al contrario del mercato e della gerarchia, che rimandano a regole superiori, fissate da qualche autorità superiore, la rete è autoorganizzazione. E’ capacità di costruire Dunque, si lavora in rete, mobilitando una filiera di specialisti che, pur rimanendo autonomi l’uno dall’altro, si attrezzano per condividere la conoscenza, gestire progetti convergenti, usare alfabeti e significati comuni, fidarsi l’uno dell’altro. dell’altro E soprattutto si impegnano a rigenerare, ad ogni passo le ragioni e i vantaggi della loro relazione. In Italia lo abbiamo visto, con diverse accezioni, nei distretti industriali, nelle filiere di subfornitura, nei mestieri e nelle estetiche in cui si è sedimentata una capacità di condividere, di andare avanti insieme. Ma anche l’impresa post-fordista americana o giapponese ormai ragiona così: manda avanti unità di business autonome, creando una rete che consente di mantenerle coese, ma senza vincoli soffocanti. E lo stesso management è sempre più improntato all’idea del team, della condivisione di conoscenze e di responsabilità tra persone che continuano a ragionare ed agire con la propria testa. Non solo e non tanto per eseguire i programmi “Al contrario del mercato e della gerarchia, che rimandano a regole superiori, fissate da qualche autorità superiore, la rete è autoorganizzazione” la trama delle relazioni tra i soggetti che percepiscono l’interdipendenza come minaccia ma anche come risorsa possibile. La rete funziona se le 12 persone immaginano alternative che eccedono l’esistente, ci credono, le comunicano agli altri e li convincono della loro esistenza e validità. La rete è il sostegno del cantiere che costruisce il mondo in cui quelle persone andranno ad abitare, modificando insieme se stessi e i problemi che devono risolvere. “La rete è la premessa di una condivisione responsabile: non ci garantisce il risultato, ma ci dà delle responsabilità, ci impegna” Essere in rete significa dare agli altri il potere di cambiare il mondo comune in cui siamo chiamati ad abitare. E sapere che, in una certa misura, lo stesso potere lo abbiamo anche noi, nei loro confronti. La rete è una potente leva per trasformare la nostra reciproca debolezza in una forza potente: l’intelligenza collettiva che cambia, anche per nostra iniziativa, il contesto dei problemi su cui stiamo lavorando, aprendo nuove alternative che dipendono dagli altri e che gli altri 13 ci rendono accessibili. La rete è la premessa di una condivisione responsabile: non ci garantisce il risultato, ma ci dà delle responsabilità, ci impegna. La tecnologia, compresa la macchina da caffé, ci avvicina, provocando spesso qualche crash, più o meno involontario. Ma è l’intelligenza che – responsabilizzandoci - rende questo avvicinamento una condizione produttiva, capace di generare valore. Economico e non. Ma c’è differenza? “La tecnologia, compresa la macchina da caffé, ci avvicina, provocando spesso qualche crash, più o meno involontario” L’auto(in)partecipazione Car sharing, un’alternativa sostenibile ai problemi di mobilità di Marino Masotti Un’automobile trascorre la maggior parte della propria vita parcheggiata, e un’altra parte importante della sua esistenza è dedicata alla ricerca di un parcheggio. Quando viaggia è spesso semivuota, raramente è a pieno carico e quasi sempre è occupata dal solo conducente. dei rifiuti nel mondo ma sommandosi a quello di altri diventa un elemento importante. Certo si tratta di un contributo modesto rispetto alla complessità del tema del trasporto pubblico e privato: “Il car pooling e il car sharing non sono in grado, da soli, di dare una risposta ai problemi strutturali della mobilità – spiega Roberto Arosio, docente al Master in Trasporti dell’Università Bocconi di Milano – i numeri per il momento sono esigui e anche se dovessero crescere di parecchio non si arriverebbe a proporzioni paragonabili a quelle della massa dei pendolari”. E’ anche a causa di questo tipo di utilizzo, funzionale alle esigenze del singolo, ma poco razionale rispetto a una risorsa sempre più scarsa nelle ore di punta quale è la strada, che le città sono congestionate. In attesa che il ministro Antonio Di Pietro e i sindaci delle città italiane trovino i soldi per migliorare le strutture del trasporto i cittadini automobilisti si attrezzano per conto proprio e provano a risolvere un problema complesso e pesante come quello della mobilità con un approccio al tempo stesso easy e light: la condivisione. condivisione sono in molti casi soggetti pubblici ma non mancano anche privati che si stanno cimentando nell’impresa, una conferma che car pooling e car sharing possono anche essere servizi in grado di sostenersi e di portare profitto. Negli ultimi mesi, con il diffondersi del servizio, sono arrivate a queste società anche richieste di clientela business che chiede un tipo di servizio premium ed è disposta a pagare cifre più alte per prestazioni tagliate su misura: “Il car sharing non si può gestire come se fosse un servizio pubblico, deve adeguarsi alle esigenze di mobilità dei partecipanti, non è un caso che sia andato in crisi nelle città in cui è stato trattato come un’aggiunta alle corse degli autubus”, aggiunge Morrone. Tra i soggetti privati attivi nel settore c’è Muoversi. net, una società nata poco meno di un anno fa all’interno del Politecnico di Milano che organizza tra le altre cose, servizi di car pooling per i grandi eventi: “Abbiamo messo in piedi il servizio per i due concerti del Jamming Heineken Festival di quest’anno e dell’anno scorso – afferma Federico Bianchi, uno dei tre ex studenti che hanno fondato la società – si è trattato di allestire una spazio virtuale dove le persone senza auto e quelle senza compagnia per il viaggio potessero incontrarsi”. Al forum hanno partecipato centinaia di persone e nel caso del concerto dell’anno scorso si è arrivati alla formazione di 50 equipaggi. (Vedi nello spazio “la condivisione è anche un modo per pensare al proprio conto economico” “è necessario non rinunciare ad agire sui comportamenti dei singoli e incentivare ogni forma di utilizzo responsabile dell’auto da parte del cittadino” Se la gestione pesante è un affare che, per dimensioni e investimenti richiesti resta una prerogativa della politica e della mano pubblica, dall’altra parte, prosegue Arosio, è necessario non rinunciare ad agire sui comportamenti dei singoli e incentivare ogni forma di utilizzo responsabile dell’auto da parte del cittadino: “Sono due approcci che prendono atto dell’esistenza di costi ambientali, introducono un dato culturale importante nel rapporto con l’automobile e con il problema della mobilità”, conclude l’esperto. Condividere l’auto con altre persone (car sharing) e attrezzarsi per riempire la propria quando la si usa su un percorso fissato in precedenza (car pooling) sono due tra le ultime risposte arrivate da un mondo che si è accorto di essere diventato schiavo della mobilità. Non si tratta solo di un gesto di assunzione di responsabilità rispetto ai costi associati al proprio movimento, la condivisione è anche un modo per pensare al proprio conto economico: rinunciando al possesso si tagliano le spese fisse e si paga soltanto l’effettivo utilizzo. Il risparmio, soprattutto con il petrolio sopra i 60 dollari, non è poca cosa: per farsene un’idea si può andare sul sito Milano Car Sharing (www.milanocarsharing.it). Sono gli stessi operatori del settore a rendersi conto che la condivisione dell’auto, da sola, non è in grado di dare una risposta efficace al problema del traffico: “E’ solo una parte del servizio pubblico, un elemento che ha bisogno per poter funzionare, di una buona rete di trasporti: le città in cui ha avuto più successo sono proprio quelle dove gli spostamenti sono più facili”, afferma Nicoletta Morrone, che nel 2004 è stata chiamata da Lega Ambiente a lanciare su scala cittadina Milano Car Sharing, un servizio che oggi ha 850 utenti suddivisi tra 34 auto sparse in 15 garage. I 7500 italiani sparsi nelle 11 città italiane che si sono associati a un servizio di condivisione dell’auto risparmiano e contemporaneamente danno un piccolo aiuto al problema della congestione delle strade e dell’inquinamento: un po’ come capita con la suddivisione della spazzatura, un gesto di buona volontà che da solo non può risolvere il problema Dietro a queste iniziative, che per il momento sono cresciute quasi soltanto attraverso il passa parola, ci 14 15 accanto il racconto di un’esperienza di condivisione) Ai concerti non si va più in autostop. Da Milano a Imola a sentire i Metallica con 20 euro. Bianchi ci tiene a precisare che il car pooling è solo una delle risposte possibili al problema della mobilità e spiega che per poter funzionare c’è bisogno di grandi volumi di persone che si spostano in contemporanea verso uno stesso luogo: luogo “Noi pensiamo ai centri commerciali ma anche ai grandi eventi unici come i concerti o alle partite di calcio”. Il car sharing e il car pooling non sono soltanto elementi leisure che riguardano soprattutto il tempo libero delle persone, sono anche temi che competono alle aziende: il decreto Ronchi del 1998 ha infatti imposto alle società con più di 300 dipendenti di avere il mobility manager: un dirigente responsabile dell’organizzazione degli spostamenti casa-lavoro del personale. Il provvedimento avrebbe dovuto riguardare circa 4000 aziende ma in realtà si è arrivati alla nomina di 600 manager della mobilità, di questi, quelli che effettivamente hanno preso sul serio l’incarico e hanno elaborato un piano sono meno della metà. “E’ solo una parte del servizio pubblico, un elemento che ha bisogno per poter funzionare, di una buona rete di trasporti: le città in cui ha avuto più successo sono proprio quelle dove gli spostamenti sono più facili” “Durante il viaggio iniziammo a parlare, all’inizio di musica e poi anche di altro: un po’ in italiano, un po’ in inglese, un po’ in spagnolo.” Proprio per formare mobility manager l’Aci e la facoltà di Statistica dell’università “La Sapienza” di Roma hanno organizzato un master in “Gestione della mobilità sostenibile” che si concluderà entro il prossimo novembre e che prevede la partecipazione alla docenza di esperti di livello internazionale (http://w3.uniroma1.it/mobility/index.htm).” www.icscarsharing.it www.carsharingfirenze.it www.genovacarsharing.it/public/index.htm www.milanocarsharing.it “Mi ero allontanato da un po’ di tempo dal giro degli amici metallari più accaniti della mia zona e così, quando venni a sapere che i Metallica avrebbero suonato a Imola mi ritrovai senza compagni con cui andare al concerto” racconta Alberto, uno studente di 22 anni di Cassano (Milano). “Essendo un vero fanatico del gruppo avevo comunque deciso di andarci, anche da solo, affrontando la spesa del viaggio in un momento non troppo brillante da punto di vista delle finanze”. Visitando il sito dell’evento trovai l’indicazione di un sistema per abbattere i costi e per trovare compagnia, ciccai sul link che segnalava l’esistenza di un servizio di car pooling, in quel momento non sapevo si chiamasse così, e lasciai un messaggio di disponibilità a dare un passaggio da Milano. Attraverso Internet fui contattato da due ragazze messicane in Italia per motivi di studio e di seguito da un ragazzo turco, un fan anche lui dei Metallica, da qualche mese a Milano per seguire un master in economia. All’ultimo momento, e così arrivammo a cinque, si aggregò anche il fidanzato di mia sorella. Ci ritrovammo alla stazione della metropolitana di Gessate: Olga, Daniela e Koray erano lì ad aspettare. Partimmo con la mia Golf in direzione Bologna, all’inizio si parlava poco, figuriamoci, cinque persone di tre paesi diversi… Durante il viaggio iniziammo a parlare, all’inizio di musica e poi anche di altro: un po’ in italiano, un po’ in inglese, un po’ in spagnolo. In turco no. A Imola comunque eravamo amici. Ci ritrovammo tutti insieme sotto il palco e alla fine del concerto ci ritrovammo uniti nel tirare lì la notte. A casa, alla stazione di Gessate, arrivammo alle 9 del mattino, un po’ stanchi ovvio. Prima di lasciarci e di scambiarci i numeri di telefono saldammo i conti: 20 euro a testa, non male per un’andata e ritorno da Imola. E mi sono pure divertito. I GESTORI CAR SHARING Comune di Genova Paolo Caputo Genova Car Sharing SpA Piazza Dante 8/1 - 16121 Genova tel. 010 5761563 fax 010 5303662 [email protected] [email protected] Comune di Modena Silvano Cavaliere ATCM SpA Strada Sant’Anna 210 - 41100 Modena tel. 059 416925 fax 059 416850 [email protected] Comune di Roma Valdo Mastrangelo ATAC Spa Via Prenestina, 45 – 00176 Roma tel. 06 46953846 fax 06 46953831 [email protected] [email protected] www.bluecoast.biz www.carcityclub.it www.guidami.net www.muoversi.net Comune di Milano Sede Regionale Legambiente Lombardia Onlus Via G.Vida, 7 - 20127 Milano tel. 02 45475777 fax: 02 45475776 E-Mail: [email protected] Comune di Torino Carlo Barzan Car City Club Srl Corso Cairoli, 32 - 10123 Torino tel. 011 8137805-6 fax. 011 8137809 [email protected] 16 17 Sulla cresta dell’onda Marketing Forum 2006: una nave da crociera, a largo di Southampton, è il luogo ideale per fare business e creare nuovi contatti di Andrea Genovese Per quattro giorni, tra il 6 e il 9 settembre, alcune centinaia di manager e imprenditori inglesi e italiani si sono incontrati, scambiati informazioni, idee e tantissimi biglietti da visita. I rapporti di forza tra gli invitati inglesi e italiani rispecchiano l’andamento economico e il PIL delle rispettive nazioni: 350 uomini di MK inglesi - grandi aziende tipo Xerox, Pepsi, Lego, Electronics Arts, etc. di tutti i settori, finance, automotive, I&CT, media – contro 75 italiani - Poste Italiane, Microsoft, eBay, Fiat - non tantissimi direttori però molti brand manager, assistenti e collaboratori giovani. Loro sono i cosiddetti “delegates”: in sostanza gli invitati, i pesci grossi delle aziende. I paganti sono invece gli “exhibitor”, le piccole e innovative imprese di comunicazione che si mettono in mostra. Lo staff di Richmond Italia A Southampton, a circa un’ora da Londra, ancora abbronzati dal sole delle vacanze, ci siamo imbarcati su una splendida nave da crociera, direzione le bianche scogliere di Dover. L’occasione è un forum del marketing europeo, l’obiettivo è allargare il proprio net-work, ed eventualmente scoprire nuove aziende e fare qualche amicizia. Per noi di 7th Floor è la prima volta, siamo molto curiosi, anche se l’evento, organizzato da Richmond Italia e Richmond Events di Londra, è in realtà alla sua undicesima edizione. Il format sembra molto promettente: un incrocio tra un matrimonio e un convegno aziendale, una fiera di settore e un sistema di match/dating online. Tutto è organizzato come online nei migliori matrimoni, il placement a tavola è pianificato e rigoroso, a rotazione, tra pranzi, cene e colazioni, si incontrano e chiacchierano amabilmente direttori Marketing di multinazionali insieme a direttori creativi di agenzie di comunicazione. Il cuore del progetto è infatti un software di “accoppiamento”, o matching, che incrocia i profili aziendali e professionali, le preferenze, i budget e le competenze di ognuno ed elabora un’agenda di appuntamenti personalizzata e serratissima. “Un incrocio tra un matrimonio e un convegno aziendale, una fiera di settore e un sistema di match/ dating online.” Richmond Italia Dieci anni nel campo della comunicazione e nella progettazione di eventi business oriented, una forte determinazione nella creazione di network e marketing community ad alto livello. L’azienda riconferma, quest’anno accanto all’edizione anglosassone di Marketing Forum, l’impegno nella costruzione di efficaci strumenti e metodi di comunicazione integrata volti all’incontro tra domanda e offerta del mercato dell’advertising e della communication strategy. La sera è rigorosamente in smoking, come tradizione anglosassone vuole. Durante le danze, tra un boccale di birra, camerieri indiani (non tutti decidono di fare gli ingegneri a Bangalore) e hostess inglesi, complice un po’ di musica anni ottanta, è facile creare “legami emotivi” con la propria value chain o con i prospect customers! Scusate, ma l’inglese è d’obbligo in questi contesti (tra poco anche il cinese mandarino e l’hindi). 18 19 “L’obiettivo - spiega Pietro Cerretani (business & poject director) - è quello di creare una profonda contaminazione di saperi basata sul confronto e la relazione costante tra top manager dei più diversi settori, integrando grandi aziende e prestigiose agenzie, con l’innovativo metodo delle agende appuntamenti pre-organizzate, che consentono di costruire forti comunità di business e sinergie costantemente attive, per l’ideazione e lo sviluppo di ogni progetto”. Le conferenze e i laboratori, sparsi nelle varie sale della nave a tutte le ore del giorno sono mediamente interessanti, a seconda delle aree di competenza, dal branding all’advertising, dal marketing fino al product placement. Molto interessanti i laboratori creativi di Pasquale Diaferia (Brain Factory), “L’officina dell’impossibile” o “I luoghi dei nostri sogni” e i workshop dedicati all’investimento in cultura come asset strategico per l’impresa organizzati da Michela Bondardo (con Microsoft e il Gruppo Loccioni). Chisei/ hisei/ Mi chiamo Cristian Corotto, da qualche mese sono Brand Manager per eBay.it e questo nuovo incarico arriva dopo alcuni anni di esperienza lavorativa in giro per il mondo. In precedenza, ho lavorato a Chicago, Londra e Torino. Nonostante sia un ingegnere, prima di entrare in eBay, ero International Marketing Coordinator per il brand Alfa Romeo e ho trascorso più di due anni nel team di branding, co-marketing e licensing che ha rivitalizzato il marchio Fiat sul mercato italiano. Nella vita e nel lavoro ho sempre bisogno di agire, non mi spaventano i cambiamenti, anzi sono uno stimolo per non fermarsi. La cosa bella di vivere in molti posti è quella di avere amici di tutte le nazioni, idee e religioni, persone con le quali cerco sempre di rimanere in contatto, con le email, il cellulare, o internet. Per stare a mio agio in ogni posto del mondo, ho un segreto, porto con me la mia musica, è lei che mi fa sentire sempre a casa. Gli inglesi sono molto attivi e vitali, partecipano, ridono e applaudono ai diversi workshop che a noi francamente lasciano un po’ freddi, tipo “Marketer of the year” o “Are you a manager or a leader?”; più interessanti “Brand metrics” e “Neuro marketing research” – a proposito, le locandine dei film che andremo a vedere questo inverno sono realizzate anche grazie all’analisi delle risposte elettrochimiche registrate dalle macchine di Melissa Mullen della Twenty Century Fox di Los Angeles! Abbiamo incontrato diversi manager e creativi interessanti, due sono presenti in questo numero (Cristian Corotto brand manager di eBay Italia e Massimo Franzosi, responsabile Co-Marketing/Licensing FIAT) e altri verranno nei prossimi. dinamici e internazionali. Oggi, la comunicazione aiuta moltissimo, ho una grande rete di amici tutti collegati con Skype, così dovunque siano possiamo parlarci, rimanere in contatto e mantenere viva l’amicizia. e ovviamente con una grande fiducia nel coach e nei compagni di squadra. Darsi degli obiettivi è importante, poi si lavora per raggiungerli e se non si raggiungono… pazienza l’importante è sempre di aver dato il massimo. eBay è una azienda fatta di persone eccezionali con le quali condividiamo l’obiettivo di far crescere questo marchio sempre di più in Italia (più di 3 milioni di utenti registrati, io vorrei raddoppiarli!) di dare la possibilità a tutti di sviluppare la propria fantasia imprenditoriale, di comprare qualsiasi prodotto nel mondo e di collegare e far comunicare persone da tutto il globo, oggi eBay ha più di 203 milioni di persone. Chevedi/ C’è una bella espressione che dice “if you dream peanuts you will get monkeys” (se sogni noccioline avrai scimmie) mi sono sempre posto degli obiettivi a medio e a lungo termine anche ambiziosi, un po’ come fece Matthew Pinset (grande protagonista e galvanizzatore del Marketing Forum), che decise di gareggiare per le olimpiadi e le vinse, allenandosi tutti i giorni, per anni, sempre focalizzato su un unico grande obiettivo, La nuova edizione del Marketing forum, attraccherà il prossimo maggio a Milano, a Palazzo Mezzanotte, per una “due giorni” interamente dedicata al mercato Italiano, con i piedi per terra e senza il rollio della nave. chisei/ Sono Massimo Franzosi, classe ’65, segno zodiacale capricorno, piemontese d’origine ma lombardo d’adozione (sono pure tifoso del Milan), papà ingegnere e mamma casalinga, una sorella laureata in lettere (sicuramente la componente più intellettuale della famiglia) e una nipote dodicenne (promette bene anche lei al liceo classico). E poi, una laurea in economia aziendale alla Bocconi di Milano, un matrimonio fallito alle spalle, pochi amici fidati, una carriera promettente di giornalista abbandonata due anni fa per accettare la sfida di ridare lo smalto perduto a Fiat. Il vizio di scrivere non l’ho perso collaboro ancora con i miei vecchi (non in senso anagrafico, ovviamente) amici del mensile Mark Up e con la redazione del magazine Monsieur (unico nel suo genere). Tengo anche lezioni di brand management allo Ied di Milano e all’Università di Torino. Mi aiuta a confrontarmi con la realtà dei nostri giorni nonché con i top manager di domani (lo spero per loro, almeno). Alla fine del 2004 ho accettato con entusiasmo la proposta di Lapo Elkann, allora al marketing operativo di Fiat, di mettere le mie conoscenze al servizio di Fiat Auto. Detto, fatto. Il salto è di quelli da fare venire le vertigini e, nonostante non possa lamentarmi dei risultati conseguiti finora, la strada da percorrere è ancora lunga e piena di insidie, sia esterne sia, soprattutto, interne. Ma da buon capricorno, cocciuto e testardo, tengo duro, convinto possa contribuire a cambiare il mondo. In meglio, “ça va sans dire”. Chefai/ Lavoro a Torino nel team di Fiat Communication in qualità di responsabile worldwide licensing e comarketing. Insieme al mio team curo lo sviluppo di un’ampia gamma di prodotti che, seppure posti sotto l’egida dei marchi Fiat, Lancia e Alfa Romeo, più che all’automobile tout court rimandano a dei veri e propri life style. Felpe, sneakers, mp3 player, vino, orologi ecc. contribuiscono, infatti, ad ampliare la sfera di percezione dei nostri marchi al di là e al di fuori delle quattro ruote accrescendone, di fatto, il loro valore. Così, per realizzare quelli che, tra noi, chiamiamo oggetti di comunicazione, ci avvaliamo della collaborazione di imprese esterne selezionate. ancora il “barometro” dell’andamento dell’economia italiana. Certo fare il mio ingresso nel suo momento, forse, peggiore, in un contesto economico generale assolutamente sfavorevole, ha contribuito a far sì che la mia avventura assumesse all’inizio i tratti tipici di una mission impossibile. Ma proprio da questa considerazione, in sé banale, sono scaturite risorse ed energie fino ad allora impensabili. Almeno per me. L’obiettivo è, ora di far entrare FIAT nella graduatoria dei marchi che secondo la mia personalissima opinione rappresentano il top dei brand in questo momento: Nike, Oakley, Diesel, Ducati, Ralph Laurent. Rappresentano infatti dei benchmark per capacità di leggere il mercato, di sapersi innovare, di saper tenere e valorizzare le persone. Chevedi/ Difficile non essere orgoglioso di far parte di Fiat, un’azienda che ha legato la sua storia a quella del Paese, e che rappresenta “La nuova edizione di Marketing forum, attraccherà il prossimo maggio a Milano, a Palazzo Mezzanotte, per una ‘due giorni‘ interamente dedicata al mercato Italiano.” Chefai/ Lavoro all’interno del team di Marketing, e sono responsabile di tutte le attività di branding, così come delle iniziative speciali con partner esterni. Mi piace lavorare dove c’è allegria e voglia di fare, preferisco gli ambienti Massimo Franzosi, responsabile licensing e co-marketing FIAT Cristian Corotto, brand manager eBay 20 21 Le aziende danno i numeri di Marino Masotti “Murdoch cambia casa” casa Rupert Murdoch sta ristrutturando il suo appartamento nell’Upper East Side di Manhattan comprato due anni fa per 44 milioni di dollari ed in attesa che i lavori siano terminati vive provvisoriamente in un altro appartamento in Trump Park Avenue: a pagare l’affitto di 50.000 dollari al mese è la News Corp., la società media della quale detiene il 30% del capitale. “Un fondo azionario gestito secondo la Sharia” Investire soldi seguendo le regole della legge islamica può dare ottimi risultati: il fondo azionario “Amana Trust Growth” è gestito secondo i dettami della Sharia ed è anche uno dei primi nella classifica dei migliori rendimenti elaborata da Morningstar. Negli ultimi tre anni ha reso il 18,1% l’anno. A guidarlo è Nicholas Kaiser, un gestore di religione non islamica che si avvale di consulenti musulmani. Divieti: alcool, fumo, pornografia, società molto indebitate o con molti soldi in cassa, banche. ”Marte porta fortuna alla Lockheed” La Nasa ha assegnato alla Lockheed Martin l’incarico di costruire la nuova serie di razzi spaziali Orion destinati a riportare l’uomo sulla Luna entro il 2020 ed in seguito a spingersi da questa verso Marte. Il contratto può arrivare a generare ricavi per 8,1 miliardi di dollari. L’Ente spaziale americano avrebbe preferito la Lockheed a soggetti con maggiore pedegree nella corsa verso il cosmo come la Boeing perché ha dimostrato di saper tenere sotto controllo i costi meglio di altri. “Speculazioni finanziarie per 11/9” Nei giorni successivi all’11 di settembre del 2001, mentre le ruspe iniziavano a scavare tra le macerie del World Trade Center e le Borse precipitavano, un anomalo numero di società americane decidevano di concedere ai propri manager opzioni per acquistare azioni ai prezzi stracciati di quei giorni. Per i destinatari di questi piani di incentivazione detti “stock options”, più basso è il prezzo dell’azione al momento dell’emissione al diritto di acquisto, più alta è la possibilità di guadagnare nel momento in cui i titoli si riprendono e risalgono le quotazioni. Tra il 17 e il 30 di settembre del 2001 186 aziende americane quotate in Borsa, tra cui anche alcune con propri dipendenti uccisi negli attacchi terroristici della settimana precedente, approfittarono del crollo dei mercati azionari e della tragedia mondiale per emettere opzioni destinate a 511 manager, una corsa all’emissione di opzioni anomala, il doppio della media del mese di settembre negli ultimi 10 anni. ”Il titanio per le due ruote, un lusso che costa caro” Gli scandali del doping a Tour de France non raffreddano la domanda di biciclette, soprattutto dei modelli ipersofisticati da corsa o da escursione. Il boom di questi modelli extra lusso (costano più di 3000 dollari) ha contribuito a spedire su livelli record il prezzo del titanio, metallo utilizzato per produrre le leghe super leggere con cui fino a poco tempo fa si costruivano principalmente aerei e materiale per l’industria nautica. Le società minerarie non riescono da qualche tempo a tenere testa agli ordini in arrivo e nemmeno gli aumenti dei prezzi hanno portato a un rallentamento della richiesta. Alcuni grandi clienti del settore aeronautico sono riusciti a contrattare un blocco dei prezzi mentre i produttori di biciclette, che restano comunque una porzione minima del mercato (circa il 5%) sono stati costretti ad accettare altri aumenti. Autore della presenta truffa Hardy Rodenstock, a sua volta collezionista d’arte e grande concoscitore di vini, soprattutto di quelli d’epoca. Rodenstok si è specializzato nelle produzioni precedenti al 1945, anno in cui i vitigni di tutta Europa furono devastati dalla Filossera, prima di dedicarsi a questa attività e di cambiare nome (si chiamava Meinhard Goerke) era stato un organizzatore di concerti pop in Germania. ”I vecchi della new economy scelgono il nuovo” La prima ondata delle società Internet comincia già ad accusare i malanni dell’ingresso nell’era geriatrica: l’emorragia di personale. Una new wave di start up sta rubando cervelli e competenze ai colossi che hanno contribuito 10 anni fa a scrivere la Storia della Rete. Nel giro di pochi mesi da Yahoo! se ne sono andati parecchi manager di rango: uno degli ultimi è stato, all’inizio di settembre 2006, Gideon Yu, diventato direttore finanziario di You Tube, il sito di video frequentato ogni giorno da circa 100 milioni di visitatori, soprattutto teen ager. Nel corso dell’estate, ad accettare le lusinghe arrivate da SideStep (sito di viaggi) era stato il vice presidente della divisione shopping on line Robert Salomon. In precedenza a lasciare la società erano stati il Chief Product Officer Geoff Ralston e John Robinson, uno dei principali architetti software. Parola di guru “Internet, maneggiare con cura” James Gosling, l’inventore di Java mette in guardia sulle fragilità della rete di Stefano Marucci James Gosling, Gosling è a pieno titolo considerato il padre del linguaggio Java Java, dalle prime linee di codice fino all’ultima versione della Virtual Machine . Lavora alla Sun Microsystem dal 1984, e ne è uno dei vice presidenti. Ha programmato sistemi di acquisizione di dati dai satelliti, una versione di Unix per multiprocessori, diversi compilatori, programmi di posta elettronica. “Ho un rapporto catastrofico con la tecnologia: se passo sotto a un lampadario a gocce, si mette a piovere“ Woody Allen La Sun Microsystem ha organizzato la scorsa estate, e per la prima volta a Roma, un grande evento di comunicazione per e tra tutti coloro che utilizzano i loro programmi (il Java), i loro sistemi operativi (Solaris) o per chi avesse voluto incontrare una grande azienda che ha costruito il suo successo seguendo la filosofia dell’ open source . Sun Microsystem è davvero un’azienda fuori dall’ordinario: il blog aziendale è usato in maniera estensiva, tanto che il suo amministratore delegato, Jonathan Schwartz, ha usato il suo spazio digitale per annunciare il licenziamento di cinquemila dipendenti. Insomma una realtà è diventata parte del mito. In una sala gremita ci siamo ritrovati ad aspettare le parole di un guru, James Gosling, che tanto ha dato alla comunità internet, ai suoi programmatori e i suoi usufruitori. Poi potrò intervistarlo. Ascolto il suo intervento, riguardo i miei appunti. E decido di buttarli tutti nel cestino. Finalmente mi ritrovo faccia a faccia con lui. E il mito si trasforma in un signore in maglietta arancione, la barba curata e un po’ di pancetta. Il classico informatico che potresti trovare in un’azienda qualunque. Stefano Marucci – Il web 2.0 si fonda sul concetto di “rete sociale” (social ( social networking).). James Gosling costruisce networking con Sun le fondamenta dell’interattività tra gli utenti, considerati come sinapsi di un unico motore pensante . Cerchiamo di conoscere allora meglio la persona dietro la filosofia e la tecnica della nuova internet. I miei colleghi dell’ufficio stampa sorridono, ed io mi domando se apprezzano l’idea o si aspettano una qualche reazione da parte di Gosling. Lui non trattiene una smorfia… S.M. Dunque iniziamo da come James Gosling si “aggiorna”: stampa, televisione, internet. Qual è la sua interfaccia preferita verso il mondo esterno? James Gosling – [lunga pausa, sospiro] che domanda crudele! [sussurra] Non saprei [lunga pausa]. In realtà io evito sistematicamente qualsiasi contatto con il mondo esterno esterno. Il mio lavoro mi assorbe moltissimo e non coltivo 25 nessun tipo di interfaccia con la rete sociale, anzi uno dei miei principi è di non affogare nella rete. Il vero problema è che internet si è talmente adattata per essere una rete sociale che potresti ritrovarti a impiegare il 100% della tua vita non facendo altro che “social networking”. Quindi, in un modo o nell’altro io mi batto contro l’idea di interfacciarsi con questo aspetto di internet, se non altro per riuscire a continuare a lavorarci con la giusta prospettiva. Prendi per esempio i blog. Una grossa percentuale dei blog è semplicemente spazzatura, spazzatura ed è diventato un vero e proprio lavoro riuscire a trovare un articolo decente pubblicato su un blog. C’è molta gente che cerca di scrivere nel modo corretto un blog, e che riesce ad interfacciarsi nel modo giusto con gli utenti di internet, ma io non faccio parte di queste persone, non sono bravo a scrivere, né a raccontare. S.M. – Si può dire che le aziende generalmente hanno a disposizione una potenzialità tecnologica che non viene sfruttata, o che comunque la tecnologia corre più velocemente di quanto un’impresa sia in grado di ammodernarsi, nella sua struttura e nel modo di comunicare all’interno e all’esterno? J.G. – Si, Sun sicuramente è un caso straordinario, viviamo proiettati nel futuro già da qualche anno, e molti di noi si sorprendono quando vedono che molte delle cose che noi facevamo 10 anni fa iniziano ad essere implementate nelle altre imprese solo oggi. Molti dei miei colleghi ed io abbiamo lavorato nel mondo del networking da decenni, e io stesso mi sono trovato a raccontare aspetti del mio lavoro ad amici e che suonavano al tempo come un romanzo di fantascienza. S.M. – 7th Floor, come ti dicevo, è un S.M. – James, come si coniuga questo tuo rifiuto di interazione sociale, di partecipazione digitale e reale, con la necessità di viaggiare spesso e incontrare molte persone per il tuo lavoro? J.G. – Mettiamola così, cerco sempre di scegliere con cura con chi e quando relazionarmi. E’ facile lasciare che il mondo che ci circonda, e le possibilità di interagire con gli altri, finiscano per rinchiuderci in una specie di prigione. Ci sono tante persone che non hanno altra vita che all’interno dei loro blog, o nei blog dei loro amici. Io sono un ingegnere elettronico, sono felicemente sposato, ho dei figli e tutte queste cose sono più importanti per me che navigare tra i blog altrui. Fa caldo in questa stanzetta, nonostante l’aria condizionata. Fa caldo, e mi pare di capire che il mio tempo sarebbe già scaduto da molto. S.M. – Nel tuo lavoro ti sei trovato a conoscere e scontrarti magari con culture diversissime dalla tua e tra di loro. Si può però dire che internet sia diventata un linguaggio universale? J.G. – Bhè si. C’è stato un libro che mi ha cambiato la vita, è stato per me come uno spartiacque. Sarà stato 25 anni fa. E’ un libro sulla teoria dei giochi, “l’evoluzione della cooperazione” [in Italia “Giochi di reciprocità: l’insorgenza della cooperazione”, Feltrinelli 1985, n.d.g] del matematico Robert Axelrod. C’è questa teoria chiamata “il dilemma del prigioniero”, che è tutta fondata sull’interazione. Il libro è accessibile a tutti. E’ difficile generalizzare quelle che sono le sue riflessioni applicandole al modello di una società, ma si può dire che le sue teorie portano a pensare che se ci sono poche interazioni sociali la strategia migliore è lavorare per conto proprio. Ma quando le interazioni sociali sono frequenti, allora si raggiunge il maggior risultato attraverso la collaborazione. Quindi se mettiamo nella condizione di incontrarsi più persone possibili, non importa quale sia la loro strada o il loro modo di pensare, queste persone inizieranno a collaborare. E questo in fondo è internet, il luogo per eccellenza dove si possono incontrare persone, superando le barriere geografiche, politiche, e di pensiero. Internet è stato il collante durante la transizione dell’Unione Sovietica in Comunità degli Stati Indipendenti. Senza internet sarebbe avvenuto un colpo di Stato, perché i media erano già sotto controllo, e nessuno avrebbe saputo nulla. Ma attraverso internet la gente ha saputo, e si è potuto fermarlo. Come in Russia, in qualsiasi altro posto. S.M. – Grazie per il tuo tempo James, sono davvero felice di aver potuto chiacchierare con te. J.G. – Grazie a te, e buona fortuna a 7th Floor! giornale gratuito e al tempo stesso un luogo virtuale di incontri e condivisione per dirigenti e quadri di tutta Italia. Credi ci siano degli aspetti in comune tra l’idea di un free press e l’l’open open source?? source J.G. – Io credo che l’open source sia molto, molto più libero che un giornale gratuito [“freer than a free press” in inglese, n.d.r.] e comunque un giornale, per quanto abbia anche uno spazio web di condivisione, rimane meno interattivo, per via dei limiti della stampa. E poi penso all’attività di condivisione. Prendi anche un blog. Se scrivessi qualcosa di controverso, di sensazionale, potrei avere in poche ore centinaia di risposte al mio articolo, ma di queste il 99% sarebbero solo spazzatura, e perderesti molto tempo a cercare tra quelle le poche risposte convincenti… S.M. – Credo si possa dire che la vera sfida per il web 2.0 sia trovare il modo di filtrare il buono dall’inutile, in una rete che è sempre più ridondante e dispersiva? J.G. – Guarda, almeno la metà delle risposte in un qualsiasi blog sono fatte da persone che non hanno nemmeno letto l’articolo in questione, leggono il titolo e gettano un loro commento, per poi passare a un altro blog per imprimere una nuova impronta. Sono ateo delle risposte che ricevo, credo che si sentirebbero così quei fedeli di una qualche religione che scoprono il loro sacerdote ateo. S.M. – Mi pare di capire che non ci sia la consapevolezza della potenzialità del web 2.0 . Tutta questa interattività che la nuova piattaforma della rete ci mette a disposizione, alla fine, viene sprecata. Cosa manca? Cosa ci manca come utenti, progettisti e uomini di comunicazione per poter sfruttare a pieno questo potenziale che persone 26 come te hanno costruito e raffinato nel corso degli anni? Come si può raggiungere questa consapevolezza per entrare davvero in quella che hai definito “l’età della partecipazione?” J.G. – Ci sono esperienze significative come quella di slashdot.org che utilizza un gruppo di moderatori con determinate caratteristiche che possono fare filtro a tutto ciò che è indesiderato di internet. I moderatori di slashdot (http://slashdot.org/) scelgono le storie che interessano un certo tipo di utente, e lo mettono in grado di leggerle senza dover rovistare in mezzo alla spazzatura. [di nuovo una pausa, come a riascoltare cosa mi ha appena detto] Allo stesso tempo sono un po’ perplesso rispetto a un filtro umano che sceglie per me cosa leggere. Non lo so, spero che questa consapevolezza di far parte di una comunità responsabilizzi i suoi utenti di più nel futuro. * sun Sun Microsystem è un’azienda che nel 2005 ha fatturato 11,1 miliardi di dollari, e impiega oltre 35.000 persone in 100 paesi diversi, leader nella vendita di computer, accessori per comuter, programmi e servizi per l’information technology. Sun è l’azienda privata che più ha fatto per lo sviluppo dell’open source, donando tra le altre cose il codice sorgete del suo ultimo sistema operativo, Solaris 10. In Italia questa propensione alla condivisione ha creato il progetto Java Open Business, per promuovere una nuova generazione di applicazioni per le PMI italiane applicando il modello collaborativo proprio dell’Open Source. 27 java Java è un linguaggio di programmazione che ha visto la luce nei primi anni ‘90. Diversamente dagli altri linguaggi, Java non ha un suo linguaggio proprio, ma si complica in linee di codice che vengono poi lette dalla Java virtual machine. Il linguaggio, che si ispira al più noto C e C++, è stato pensato per manipolare con maggiore facilità gli oggetti. Contrariamente a quanto si pensa, è solo un lontano parente dello JavaScript utilizzato nelle pagine web Web 2.0: istruzioni per l’uso di Idel Fuschini Internet non deve essere considerato una semplice “rete di reti”, né un agglomerato di siti Web isolati e indipendenti tra loro, bensì la sintesi delle capacità tecnologiche raggiunte dall’uomo nell’ambito della diffusione dell’informazione e della condivisione del sapere. Queste sono le considerazioni alla base del “Web Web 2.0” 2.0 o “Internet Internet 2.0”, 2.0 che non è un punto d’arrivo, ma la partenza per nuove metodologie di sviluppo e applicazioni software, all’insegna della collaborazione tra diverse entità. La rete non subirà evoluzioni epocali. Sarà probabilmente più veloce e non più dipendente dal cavo, i linguaggi di sviluppo rimarranno pressoché gli stessi ed anche gli applicativi software funzionalmente non subiranno evoluzioni. In poche parole Web 2.0 non è una rivoluzione tecnologica. Internet diventerà “la rete dei servizi” alla quale ciascuno di noi potrà attingere per creare nuovi servizi da mettere a disposizione della “comunità della rete”. Ma vediamo adesso le potenzialità del web 2.0. Immaginiamo che una grossa azienda che fabbrica porte metta a © disposizione sulla rete il catalogo con relativo listino prezzi; poniamo anche che questo avvenga anche nel mondo dell’ idraulica, della pavimentazione, dell’arredamento etc. Ipotizziamo quindi che ciascun azienda del settore metta a disposizione, perché è nel suo interesse, questo tipo di informazioni. A questo punto potremmo immaginare un servizio terzo che permetta di utilizzare tutte queste informazioni. Un applicativo con un’architettura orientata al mondo dei servizi SOA, Service Oriented web (detta SOA Architecture) permetterebbe, tramite un software grafico, di progettare il proprio appartamento utilizzando come oggetti i prodotti che la rete ci offre ed avere in tempo reale un preventivo dei costi. Da ciò che può essere il web 2.0 a quello che già propone. I flussi RSS (abbreviazione di Really Simple Syndication, che tradotto liberamente potremmo chiamare distribuzione molto semplice) sono un formato di interscambio di informazioni, nati inizialmente per dare modo a siti di news e blog di distribuire e scambiare le proprie novità in uno standard semplice e veloce da interpretare. Le applicazioni dell’RSS si sono in realtà ampliate notevolmente, tanto il confronto tra siti Web 1.0 e Web 2.0 Web 1.0 DoubleClick Ofoto Akamai mp3.com Britannica Online Website personali domain name speculation pagine visitate cattura di pagine web publicazione content management systems cartelle (“tassonomia”) Web 2.0 Google AdSense Flickr BitTorrent Napster Wikipedia blogging ottimizzazione dei motori di ricerca costo per click web services participazione wikis tagging (“folksonomy”) 28 che qualsiasi tipo di informazione può essere distribuita in questo formato. Google attraverso il suo portale, utilizza questo formato per costruire una “home page personalizzata”, che contiene diversi oggetti web che aggregano in una singola pagina i contenuti esposti dai diversi siti. Tali oggetti sono stati sviluppati con la tecnologia AJAX (Asynchronous JavaScript and XML) che permette di gestire lo scambio dei dati tra il browser e i vari webserver separatamente dalla gestione della grafica della pagina stessa. Porta il web 2.0 nella tua azienda La new economy è ancora più nuova con l’avvento del web 2.0. La rivista Wired mette a disposizione dei suoi lettori un simpatico congegno, lo StartUp-O-Tron. E’ un algoritmo che permette di costruire un’azienda che sfrutta il potenziale dei nuovi strumenti partecipativi della nuova rete in pochi passaggi. Basta scegliersi il mercato di riferimento, le tecnologie del sito, i servizi che offre e le architetture da utilizzare. Alcuni esempi di questo tipo di applicazioni sono: Delicious (http://del. icio.us/) che consente di organizzare i bookmark in modo collaborativo tra tutti gli utenti del sito; Flickr (www. flickr.com) per la gestione di immagini; GoogleMaps (http://maps.google.com/) che conosciamo tutti. Ma l’esempio reale a mio parere più esaustivo, che illustra al meglio il concetto di Web 2.0, è housingmaps. com (www.housingmaps.com). Il sito fornisce informazioni riguardo appartamenti in affitto e in vendita divisi per classi di prezzo. Questo servizio sfrutta due siti: il già citato GoogleMaps ed un altro meno conosciuto craigslist (http://sfbay. craigslist.org/), che è un portale che fornisce anche in formato RSS le inserzioni immobiliari. Grazie a housingmaps.com possiamo, con pochi click, fare una ricerca di un appartamento e sapere graficamente dove è posizionato nella città. E’ un sito che si occupa di Foto sfruttando le tecnologie del Tagging e gli Rss per fare Ricerche in una Comunità -> Flickr.com E’ un sito di Mappe che sfrutta gli Rss e il Tagging per la Compravendita in un Portale -> Housingmaps.com E’ un sito di Informazione che sfrutta gli Rss e la tecnologia Ajax per fare Ricerche in Blog -> Googleblogsearch.com Lo StartUp-O-Tron è di proprietà della rivista Wired. L’articolo in questione è stato pubblicato sul numero di settembre 2006; gli autori sono Robert Cappes e Adam Rogers. Idel Fuschini è responsabile del Centro di Competenza Internet e Mobile della Wintec. 29 Intranet, cambia la mappa del potere informativo in azienda. che è il centro, cioè l’essere umano. Il tecnoentusiasta, sposa la tecnologia per se stessa. Si riempie anche fisicamente di tecnologia, è appesantito dalla tecnologia. Non ha più abbastanza orifizi nel quale schiaffare altri auricolari. Nella comunicazione nessun canale cancella quelli precedenti. I migliori successi li registriamo quando si fa un mix fra comunicazione calda e fredda. La comunicazione calda richiede un qualche rapporto fisico, addirittura un contatto. Nei momenti di crisi, è sintomatico vedere quanto ci si tocca fisicamente. Si sente la necessità di trasmettere il contatto, di essere anima e corpo. Quando si devono prendere decisioni gravi, importanti, allora il vecchio meeting, il vecchio ritrovarsi, il fare squadra, è ancora assolutamente indispensabile. So di vicende aziendali importanti, fusioni, licenziamenti prese tramite teleconferenza…beh insomma ho delle riserve in merito. Ne parliamo con Marco Stancati, responsabile comunicazione INAIL di Alessandro Bernardini Marco Stancati Stancati, oggi responsabile della Comunicazione dell`Inail dirige la struttura della comunicazione interna, esterna, internazionale, l`Ufficio stampa, il portale Internet, la Intranet aziendale e l`Editoria. È giornalista pubblicista, direttore responsabile della newsletter “Dati Inail”. Dal 2003 è docente di “Comunicazione interna ed Intranet” e dal 2005 anche di “Pianificazione dei media e comunicazione interna” presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell`Università “La Sapienza” di Roma. Alessandro Bernardini - Grazie di averci accolto. Parliamo di convivenza e condivisione. Cosa intende lei per condivisione della conoscenza aziendale? Marco Stancati - La possibilità di una conoscenza diffusa, tra tutto il personale, di quello che è il thesaurus, il patrimonio di conoscenza dell’azienda. Questo oggi è sicuramente reso possibile dalla tecnologia. In passato sarebbe stato sicuramente più complicato mettere questo patrimonio a disposizione di tutti quanti. A.B. - Lei è esperto di Intranet. Se dovesse spiegarlo a chi non ne sa nulla? M.S. - Immaginiamoci una Internet privata che viene condivisa da tutti gli appartenenti di un’organizzazione. Il vero valore aggiunto della Intranet sono le persone, cioè, la possibilità, di contribuire a costruire e a implementare la conoscenza aziendale. aziendale Se la leggiamo solo come un sistema per velocizzare l’informazione non ne sfruttiamo le potenzialità. Sarà solo un sistema più veloce per passare le informazioni che passavamo prima, sarebbe come sprecare un’occasione. Intranet è rivoluzionaria, rivoluzionaria perché cambia la mappa del potere informativo all’interno dell’azienda e costringe il manager - e quando dico manager parlo di chiunque abbia responsabilità di risorse umane e risorse strumentali – a svolgere il vero ruolo al quale non è però abituato: ricomporre le componenti organizzative del suo sistema. Accertarsi che l’informazione sia recepita nella maniera giusta, in relazione alle strategie aziendali. Intranet, lo costringe a fare il suo mestiere. E spesso si sente nudo e impreparato. Per molto tempo il manager ha detenuto l’informazione. Niente di nuovo: informazione uguale potere. Anche l’informazione più potere banalmente tecnica, voglio dire, oltre che quella istituzionale. Questo fatto lo poneva in una condizione di superiorità rispetto ai collaboratori. Perché decideva dove, come e quando e a chi elargire, gocce, molliche e pillole dell’informazione. Le nuove tecnologie, internet e in particolare Intranet, scavalcano le mediazioni, le intermediazioni, e questo ha provocato delle conseguenze non da poco, perché l’operazione informativa di base, può essere tranquillamente svolta da Intranet. Il manager si è sentito scavalcato. La struttura apparentemente non aveva più bisogno di lui. Più che mai invece. Perché a lui spetta di chiudere il cerchio comunicativo. Una scelta che si fa è quella di dire: “ti avverto che ti ho inviato informazioni. In un determinato luogo della Intranet ti colloco delle informazioni che tu puoi andare a prendere tutte le volte che vuoi”. E poi c’è la parte più bella: se è possibile tu me la devi migliorare. La devi integrare, portare il frutto delle tue elaborazioni, come wikipedia…. Rimane tutto come prima, ma è tutto più veloce. Un passo più avanti è già la Intranet di supporto ai processi operativi. Cioè io entro comunque nel mio universo lavorativo, lì trovo le mie utilities, le facilities. Terzo e più importante, al quale tutte le aziende dovrebbero aspirare, è la Intranet di knowledge management. Cioè la Intranet di gestione della conoscenza, quindi informazione strutturata. Condivisione della conoscenza. Diverso atteggiamento del singolo rispetto alla conoscenza aziendale. Consapevolezza. Passaggio successivo: knowing management. La partecipazione alla costruzione della conoscenza che è il livello più alto della Intranet. Pensiamo però cosa vuol dire. Da ex responsabile della formazione, mi sono reso conto che quello che la gente vuole è il riconoscimento di essere “individuo” e quindi creativo, anche se il dato economico è importante. A.B. - Proprio in questo senso i tecnoresistenti, hanno paura che le innovazioni possano spersonalizzare i rapporti all’interno delle aziende… M.S. - C’è un dato in più, i tecnoresistenti hanno paura di tutto quello che cambia il loro mondo, hanno paura per se stessi. E’ sintomatico che ogni volta che noi abbiamo paura di qualcosa ricorriamo alla memoria, a “come si stava meglio quando…”. In realtà c’è sempre bisogno del confronto. Solo così scatta il vero processo comunicativo. Se non è almeno a due vie non c’è comunicazione A.B. - Lei spesso parla di tecnoresistenti e tecnoentusiasti dei processi innovativi. Chi sono e come si comportano? A.B. - Non c’è però il rischio di perdersi? M.S. - Premetto subito che non è detto che io sia un fautore dei tecnoentusiasti. Possono essere più pericolosi. Il tecnoresistente, magari proviene da una cultura diversa, si arrocca. Molte volte ho sentito dire: “ma io provengo da una formazione umanista”. Spesso invece chi proviene da una cultura umanista, e quindi portato a porre l’uomo al centro del sistema, finisce per utilizzare meglio le tecnologie, dando l’importanza vera a quello M.S. - In che senso? A.B. - Di perdersi nel magma delle informazioni…. A.B. - Un po’ come nell’Open Source….. M.S. - Il concetto è quello. Andando per ordine: Intranet, concepita solo per la velocità, è una risorsa sprecata. 30 31 M.S. - Come no! Per questo uno dei comandamenti aziendali è che l’informazione deve essere sempre strutturata e che all’informazione segua un processo comunicativo vero. Tutti siamo prigionieri della società dell’informazione. Come gestire la dipendenza è il vero problema. Più che un problema aziendale credo che sia soprattutto un problema individuale. M.S. - E’ il problema di avvicinare le fasce deboli. Non esiste una soluzione valida per tutti. Ogni target ha il suo linguaggio. Faccio un esempio. Lavoratori extracomunitari. Fascia debole e fortissima allo stesso tempo. Io rimango ancora sconvolto dal fatto che non ci si renda conto che un lavoratore su quattro nel nostro Paese, è straniero. straniero Il nostro Paese di loro non può più farne a meno. Gli extracomunitari si infortunano il 50% in più degli italiani. Per motivi oggettivi, e quelli li possiamo individuare - perché fanno lavori più pericolosi - ma anche in quelli a parità di rischio. Perché c’è un problema di cultura, di lingua, informazione, di formazione. Spesso lavorano allo sbaraglio o a nero. Noi, il problema lo abbiamo affrontato nel modo più banale: abbiamo tradotto in 24 lingue i nostri opuscoli su come non farsi male. Problema: la distribuzione. Come faccio a farglieli avere? Difficilissimo. Il primo ostacolo da abbattere è la diffidenza. Mi devo accreditare, dire: “Io sto dalla tua parte. Abbiamo un interesse comune, che tu non ti faccia male. Anche se lavori in nero l’INAL ti indennizza, non è vero quello che ti dicono i ‘caporali’ per spaventarti”. Ti ricordi il caso del lavoratore rumeno bruciato dal datore di lavoro? L’INAL ha indennizzato la famiglia, pur essendo una cosa scoppiata fuori dall’ambito di lavoro a seguito di una rissa. Beh, questo è stato più importante di qualsiasi campagna comunicativa. Agli occhi della comunità rumena e non solo, noi siamo quelli che hanno indennizzato quell’uomo. Non c’è più diffidenza. Questo conta più di qualsiasi cosa. Il passaparola. Andiamo incontro ad una società multietnica. Queste persone stanno pagando il nostro sistema pensionistico. A.B. - Quale potenzialità della Intranet non è stata ancora sfruttata adeguatamente? M.S. - La capacità di tutti di portare nuova linfa al patrimonio di conoscenza aziendale. Se il valore aggiunto è la community, il dato mancante è la sua realizzazione. A.B. - Secondo lei esistono oltre la Intranet nuove frontiere comunicative a livello aziendale? M.S. - La nuova frontiera dovrebbe essere la razionalizzazione della multicanalità all’interno. La possibilità di passare lo stesso messaggio attraverso canali diversi. Come garantire all’essere umano non soltanto di essere informato, ma dargli la possibilità di vivere meglio sulla scorta di queste informazioni. Attualmente viviamo la bulimia dell’informazione. Ci dobbiamo curare prima psicologicamente come avviene per i bulimici. L’homo tecnologicus campa male. Passa più tempo a garantirsi la possibilità di utilizzare la tecnologia di quanto tempo non passi ad utilizzarla veramente. Il rapporto costo-benefici è alterato. C’è bisogno di tecnologia dal volto umano. A.B. - Jeremy Rifkin parla di “Era dell’accesso”. Come si possono aiutare le categorie sociali che non hanno accesso alle informazioni? Calo degli infortuni sul lavoro nel 2005 Un primo bilancio consuntivo indica una riduzione complessiva pari al 2,8%. Il dato è ancora provvisorio e non ufficiale ma, sulla base di esperienze storiche ormai consolidate, si stima un calo definitivo non inferiore a 2,5 punti percentuali. L’andamento premia soprattutto il settore dell’Agricoltura (-4,4%), il Nord-Est (-3,8%) e la componente maschile (-4%); quella femminile, invece, fa registrare un incremento di 0,5%. Corporate Blog Il nuovo volto della comunicazione aziendale di Mauro Lupi @ Ad Maiora Ogni giorno, trenta milioni di persone accedono ad Internet per aggiornare il proprio blog. Da casa o dall’ufficio, la giornata inizia aggiornando il proprio diario on line. Sempre più spesso questa finestra con il mondo ha a che fare con il proprio lavoro. Il blog aziendale rappresenta una forma di comunicazione strategica, che supera quella istituzionale perché aggiunge un elemento di partecipazione attiva e informale. Si stima che in Europa nascano circa 50.000 blog al giorno, un fenomeno che continua a crescere e modificare l’uso e la percezione della rete. Mauro Lupi Lupi, autore del primo CEO blog italiano, ha moderato il workshop a Roma “Alle aziende piace blog”. E’ presidente di Ad Maiora, vice presidente di IAB Italia, membro del consiglio direttivo di SEMPO e membro del comitato scientifico di Assodigitale. Collabora con IlSole24Ore, IULM e La Sapienza. www.maurolupi.it Fonte: www.inail.it/statistiche/DatiInail/osservatorio2006 32 33 Non è un caso, dunque, che a Roma si è tenuto il workshop “Alle aziende piace blog” nella Casa del Jazz. Una villa confiscata al boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti, in un progetto fortemente voluto dal sindaco Walter Veltroni, che intreccia cronaca nera, letteratura, musica e cinema e fa di questa bellissima villa la location ideale per parlare di futuro della comunicazione. Volendo osare nell’associazione con l’evento sui blog, potremmo cogliere simbolicamente il segnale di cambiamento forte che necessita la comunicazione aziendale. Un passaggio importante, nel quale le iniziative di marketing, PR e pubblicità vanno riconsiderate alla luce di alcuni elementi di rottura. Innanzi tutto la necessità di evolvere l’orientamento della comunicazione destinata a “target”, verso una deriva individuale, rivolgendola quindi alle “persone” e non più ai “consumatori”. Allo stesso tempo, queste persone (e qui sta il secondo nodo cruciale) acquistano sempre maggiore capacità conoscitiva e soprattutto diventano produttori di contenuti proprio attraverso i blog. E questi spazi personali online iniziano ad assumere forte rilevanza sia per numerosità che per influenza. Uno dei modi che le aziende hanno per adeguare la relazione con i loro mercati di riferimento, è proprio quello di cogliere queste nuove frequenze e sintonizzarsi su di esse, magari utilizzando loro stesse lo strumento dei blog, come il “” “Il blog è un sistema moderno per relazionarsi e dialogare con le persone, interne ed esterne all’azienda” “Il blog aziendale rappresenta una forma di comunicazione strategica” workshop romano ha dimostrato, mostrando cinque modi diversi di intendere un blog aziendale. sostituito l’area stampa del sito web. Stefano Hesse ha invece raccontato l’esperienza del blog italiano di Google Google, il primo dell’azienda in Europa. Per loro il blog è un modo per esprimere la voce delle persone dell’azienda e per stimolare feedback sui servizi e sulle iniziative di Google. Nella decisione di avviare il blog, ha inciso fortemente l’esperienza maturata da Hesse stesso nella gestione di un blog personale, riuscendo a realizzare un prodotto aziendale in linea con il mondo della blogosfera, pur dovendo allinearsi alle politiche della multinazionale in tema di struttura e contenuti. Sun Microsystems è una di quelle che fa sul serio: sono oltre 3.000 blog di dipendenti e manager, e ormai raggiungono un’audience superiore di dieci volte a quella sviluppata attraverso le PR tradizionali. Si tratta di blog di tutti tipi: da quelli esclusivamente personali a quelli più strettamente di business, come il popolare spazio dell’amministratore delegato, Jonathan Swartz. Una delle riflessioni che ha portato Simon Phipps di Sun, è che la fiducia verso l’azienda e le sue persone si sviluppa quando queste si raccontano nei loro blog attraverso le vicende personali o quando scrivono di argomenti non legati direttamente al proprio lavoro. Molto interessante anche il caso di SanLorenzo.com SanLorenzo.com, un’azienda che vende prodotti alimentari di qualità e che attraverso il supporto di Antonio Tombolino, ha trovato nel blog un sistema per avvicinarsi ai propri clienti anche attraverso iniziative originali, come l’invio gratuito di prodotti ai blogger che ne facessero richiesta. Patrizia Cianetti ha invece riportato l’esperienza del blog di Federico Minoli, l’amministratore delegato di Ducati Ducati. Il progetto è stato fortemente voluto dal manager che, a guardare la frequenza e la qualità dei suoi interventi online, sembra che ci abbia preso decisamente gusto. Dall’esperienza dei casi analizzati, emerge chiaramente che il blog non è solo uno strumento di comunicazione e benché meno un semplice tool tecnologico. È invece un sistema moderno per relazionarsi e dialogare con le persone, interne ed esterne all’azienda. Un modo di porsi con gli azionisti che, se ben fatto, sviluppa credibilità, fidelizzazione, consapevolezza. Più tradizionale è il blog di Samsung anche se l’iniziativa, caso ancora unico per la multinazionale coreana, sta producendo ottimi risultati. Gestito da Andrea Andreutti, web marketing manager italiano, il blog riceve centinaia di visite al giorno senza nessun supporto pubblicitario ed ha totalmente 34 Quali suggerimenti si possono dare ad un’azienda interessata a sviluppare un blog? Innanzitutto esprimere passione, ed essere “veri” (o, a dirla con le parole di Phipps di Sun, “essere credibili”). Un’altra caratteristica importante è quella di segnalare altri siti e blog, in linea con la legge non scritta che vige nella blogosfera secondo cui “link chiama link”. Da non dimenticare il fatto di puntare su obiettivi ben definiti: un blog può servire a parecchi scopi, ma occorre identificare solo quelli più consoni all’azienda e concentrarsi su questi. Due le principali ritrosie legate ai business blog: mancanza di tempo e paura dei commenti negativi. Sul fattore tempo, legato allo sviluppo periodico di contenuti, il suggerimento è quello di guardare i tesori nascosti che spesso si celano in azienda, specie quando si guarda il materiale prodotto dai singoli individui piuttosto che dall’ufficio comunicazione. L’argomento “commenti” è forse più di tipo culturale, partendo dall’assunto che se esistono valutazioni negative sull’azienda o sui suoi prodotti, queste verranno comunque fuori sui blog, proprio perché ormai fungono da amplificatore della “voce della gente”. Gestire commenti negativi sul blog aziendale non è semplice ma, come ha testimoniato l’esperienza Ducati, spesso le discussioni vengono ricondotte su temi positivi e costruttivi dagli altri visitatori del blog. In ogni caso, i benefici che derivano dallo sviluppare un rapporto trasparente e sinceramente interessato all’ascolto, superano in genere ogni possibile rischio derivante da un commento negativo. © Il blog, strumento di consenso politico L’Inghilterra è sempre stata in grado di dettare, spesso di imporre, nuovi stili, metodi e regole per la comunicazione. Patria degli spin doctor , ha cambiato le regole della politica e del rapporto con gli elettori. Un nuovo passo avanti, da quest’anno, è stato fatto dal partito conservatore e dai liberal democratici. Durante il congresso dei conservatori, numerosi parlamentari, attivisti, possibili candidati hanno raccontato le giornate, promosso i loro punti di vista, cercato in qualche modo di fare la differenza anche rispetto alla corrente maggioritaria del segretario Cameron. (conservativehome.blogs.com). I liberal democratici hanno invece costruito un portale per tutti i blog che “credono nella democrazia”. (www.libdemblogs.co.uk). Blair, alla fine degli anni ’90, rivoluzionò la politica con il New Labour, vincendo la scommessa. Ma il blog ufficiale del suo partito impedisce l’inserimento di commenti (www.thirskandmalton. blogspot.com). L’uso dei blog da parte dei conservatori e i liberaldemocratici farà la differenza per le prossime elezioni? E quanto aspetteremo prima che arrivi in Italia? 35 * Sun Microsystems Come una multinazionale si racconta attraverso le storie delle persone che vi lavorano. Oltre 3 mila blog che parlano di tutto: dal business sull’open source alla vita del proprio gatto. http://blogs.sun.com/roller/ Ducati Si chiama Desmoblog ed è curato direttamente dall’amministratore delegato di Ducati. Storie di moto, di circuiti e piloti, di persone, condite con tanta sana passione. http://blog.ducati.com Samsung Italia Il blog diventa lo strumento che razionalizza le news su azienda e prodotti, sviluppato però con una logica discorsiva, informale e arricchito di segnalazioni di interesse generale www.samsung-italia.net Google Italia Le persone di Google annunciano i nuovi prodotti, spiegano le funzioni più recenti, segnalano le posizioni di lavoro aperte. Ovviamente utilizzando il loro servizio blogger http://googleitalia.blogspot.com SanLorenzo.com Il sito dell’azienda è un blog, così come l’approccio al business segue i canoni della blogosfera: conversazione e genuinità, quest’ultima riferita anche ai prodotti alimentari venduti www.san-lorenzo.com Mauro Lupi - Ad Maiora Un blog che parla di comunicazione on line gestito da un manager di una new-media agency. Divulgazione e confronto, conditi con spunti di riflessione sull’evoluzione della Rete www.maurolupi.com Tils – Telecom Italia Learning Services Blog e non solo. L’informazione di Tils da e per i suoi dipendenti passa attraverso l’house organ “L’asterisco”, disponibile anche on line, vero snodo del traffico delle comunicazioni aziendali www.tils.com Prove tecniche di rete sociale La partecipazione creativa in due siti web di Roberto Galoppini e Antonella Beccaria “Quando una rete ha lo scopo di diffondere qualcosa che ha un valore per le persone come nel caso di una rete televisiva, il valore dei servizi è lineare. Se la rete consente transazioni tra nodi individuali, il valore aumenta al quadrato. Quando la stessa rete include la possibilità che gli individui formino gruppi, il valore è invece esponenziale” (Donald Reed) Le reti di utenti Internet stanno vivendo una seconda giovinezza. Il web 2.0 ha semplificato l’accesso a servizi e informazioni, enfatizzando il significato di queste ultime, fino al punto di personalizzarne per il singolo utente l’importanza ed il valore soggettivo. LinkedIn LinkedIn è un servizio di social networking specializzato nella creazione di reti sociali legate al business. Risultano ufficialmente iscritti al portale oltre 6 milioni di utenti, che utilizzano il sito per trovare lavoro, contatti ed opportunità di business, principalmente attraverso la rete dei propri contatti che si estende fino a tre livelli (secondo la “teoria del mondo piccolo”, di cui esistono evidenze empiriche come dimostra uno studio del 2001 della Columbia University, ognuno di noi ha al massimo sei “gradi di separazione” da una qualunque altra persona, ndr). curriculum come contattare head-hunter e addetti alla ricerca del personale, il tutto verificando ex ante la rete di relazioni che la persona è in grado di vantare. Alcune aree e funzionalità del sito sono ristrette a servizi a pagamento, ed il modello di business comprende la vendita di servizi premium a valore aggiunto ed un posizionamento di primaria importanza nell’area dei motori di ricerca verticali, area nella quale si nota un certo fermento; dal mese di aprile di quest’anno LinkedIn ha raggiunto la redditività, il venture capital che la segue è lo stesso di Google (Sequoia Capital) e l’amministratore delegato è Reid Hoffman, già vice presidente di PayPal. L’approccio di LinkedIn, noto come gated-access approach, prevede che un utente per essere in “contatto” (linked) con un altro utente deve già conoscerlo, oppure richiedere ad un terzo che conosce entrambi di presentare l’altro: lo scopo quindi è quello di favorire lo sviluppo di reti di fiducia. Le imprese utilizzano LinkedIn per fare ricerche, i fiducia candidati per scegliere manager a cui sottoporre il proprio Per sapere come funziona il sito, consigliamo il seguente articolo che descrive passo per passo come inserire il proprio profilo sul sito: http://www.apogeonline.com/webzine Radio Radicale Radio Radicale possiede un patrimonio unico in Italia in termini di archivi audio-video di sedute parlamentari e convegni. Il sito, che fa capo all’emittente diretta da Massimo Bordin è già on line da diversi anni e ha compiuto recentemente un passo ulteriore. Anzi, due. sono i principali: innanzitutto un blog personale all’interno del quale poter scrivere propri articoli, poi un bookmarklet per segnalare notizie da fonti esterne e i Feed RSS per importare automaticamente le novità pubblicate su sitifonti di riferimento. Inoltre un meccanismo di rating dei contenuti e di ranking degli utenti, che potranno essere votati dagli altri, contribuirà a una sorta di selezione degli articoli: i più apprezzati - e quindi maggiormente segnalati - guadagneranno una maggiore visibilità all’interno delle pagine e negli meccanismi di navigazione degli archivi. Diego Galli, responsabile del progetto web, ci ha raccontato che il patrimonio di materiali ed informazioni che si sta digitalizzando arriverà a comprendere documenti fin dal 1977. Ma la progettazione del nuovo sito, ancora in Rete in versione beta, ha voluto escludere a priori una fruizione dei suoi contenuti “uno a molti”. Interazione e informazione dal basso sono stati infatti i principi ai quali si è teso nei mesi scorsi. Infine, altri tre elementi vanno a completare il panorama del nuovo sito. Innanzitutto l’integrazione con l’enciclopedia Wikipedia, che potrà essere fruita e alimentata libera Wikipedia partendo da RadioRadicale.it. Quindi l’importazione delle immagini attraverso il sito di photo sharing Flickr sul quale viene creato il corrispondente gruppo “Fai Notizia”. Infine - come annunciato a fine 2005 - il ricorso alla licenza Creative Commons Attribuzione 2.0 con cui i contenuti del sito - laddove non diversamente specificato - possano essere riprodotti in parte o integralmente, modificati, utilizzati anche a fini commerciali con un unico vincolo: mantenere inalterata la paternità morale dell’opera. E il risultato è la sezione “Fai notizia” che si fonda interamente sul concetto di giornalismo partecipativo. Partendo dal modello che i blog vanno imponendo all’informazione mainstream, l’obiettivo della nuova iniziativa di RadioRadicale.it è quello di coinvolgere nella costruzione dei contenuti direttamente gli utenti utenti, intesi non come militanti o simpatizzanti, ma come cittadini di vario orientamento politico che vogliono esprimere la propria opinione. I quali hanno a disposizione una serie di strumenti per “fare” comunità e “costruire” informazione. Tra questi, tre www.linkedin.com http://it.wikipedia.org www.flickr.com http://creativecommons.org 36 37 performing l’angolazione dello sguardo sul territorio, coniugando la dimensione locale con quella globale. Il CarpeNoctem del TarantaVideoBlog Il diario partecipativo de La Notte della Taranta: la festa salentina che ha lanciato il format delle Notti Bianche di Carlo Infante Cogli l’attimo: carpe diem, dicevano i latini. Cogli il giorno. Chiaro ed ineludibile, almeno fino al 1879, l’anno dell’invenzione di Edison: la luce elettrica. Fino ad allora si “coglieva” solo nel giorno, mentre la notte era off limit: luogo e tempo di malfattori e stravaganti. Eppure sappiamo quanto la notte, che mi diverte definire La Metà del Tempo Rimossa dalla Storia, Storia sia teatro di vita, di passioni, di eventi extra-ordinari. E’ nella notte che nel Salento, per La Notte della Taranta (www. lanottedellataranta.it), si è pensato di agire in quella “metà del tempo”, per coglierne l’attimo notturno: carpe noctem. La Notte della Taranta è nata nel 1998 al Melpignano, un piccolo comune della provincia di Lecce e nell’arco di questi anni è diventato il più grande festival musicale dedicato al rapporto tra innovazione pop e tradizione popolare: tra musiche etniche e altri linguaggi musicali che vanno dalla world music al rock, dal jazz alla sinfonica contemporanea. Va detto, a questo punto, che l’evento salentino ha anticipato la Nuit Blanche parigina (2002) e le Notti Bianche veltroniane (2003) nonchè quelle Olimpiche in cui una Torino postindustriale ha amplificato la sua nuova vocazione di città culturale. E’ un dato che va ben oltre l’idea di promozione turistica per costruire un percorso Innovazione che può essere definito d’Innovazione Territoriale. Esiste infatti un’economia Territoriale del tempo libero. Roma con la sua ultima Notte Bianca ( è stato stimato un giro d’affari di 94 milioni di euro) lo ha dimostrato. E’ l’economia del Plaisir (come direbbe Abruzzese) o dell’Ozio Creativo (secondo De Masi). Fare della Notte uno spaziotempo pubblico significa conquistare La Metà del Tempo Rimossa dalla Storia, Storia farne un’occasione per inventare nuova socialità. E qui che s’innesta l’esperienza del blog come pratica di social networking capace di sostenere il tessuto connettivo delle relazioni sociali create in un evento, per estenderle nella rete, l’infrastruttura della Società dell’Informazione. E’ in questo senso, rilanciando il rapporto tra innovazione tecnologica e promozione del territorio, che si è caratterizzato un progetto che ha dato forma al carpe noctem 38 salentino nel web, attraverso un blog che ha tracciato un diario innervato di parole ed immagini. Nasce così il TarantaVideoBlog che ricrea online le emozioni de La Notte della Taranta dal 2005, creando allora uno dei primi videoblog (contribuì all’avvio della BlogTV di Nessuno. tv). L’idea dell’utilizzo di un videoblog si basa sulla ricostruzione, giorno per giorno, delle informazioniemozioni dell’esperienza sul campo, in un dribbling leggero tra flussi di parole e video. Nel 2005 l’interfaccia del TarantaVideoBlog www.performingmedia.org/vlog rappresentava una ragnatela posta sulla vista satellitare del Salento. Una ragnatela “tessuta” giorno per giorno sulla base dei video caricati. La penisola salentina vista dall’alto si rivelava poi con diversi toni di colore (scanditi dalla luce del giorno), secondo il momento in cui ci si connette (rilevando il clock del computer in rete), secondo la tradizionale divisione della giornata salentina: matinu, menzatia, mericiu, espira, sira e notte. La poetica del TarantaVideoBlog prende così forma dal desiderio di armonizzare prospettive globali e cultura locale. Una risposta alla globalizzazione che tende a omologare e a soffocare le particolarità a scapito di una standardizzazione del pensiero e dell’azione. Una poetica che si fa politica quando riesce a declinare la comunicazione multimediale con una capacità di amministrare la cosa pubblica attenta a progettare innovazione territoriale, per cambiare Sull’onda di questo assunto è nato il PerformingMediaLab/Salento che con il coinvolgimento di ragazzi dell’Università di Lecce (del corso di Performing Media) e dell’Accademia di Belle Arti ( attraverso Antonio Rollo, docente di Computer Graphics) ha sistematizzato l’azione, creando maggiore radicamento nel territorio, fino alla nuova edizione del TarantaVideoBlog 2006. Il PerformingMediaLab/Salento nasce per promuovere un social networking che possa fare dell’interattività una nuova forma d’interazione sociale e culturale, per esprimere una sorta di palestra di comunicazione interattiva: utilizzando una piattaforma collaborativa, ludico-partecipativa, attraverso cui sviluppare un’azione di “performing media” (performaregiocare i media) basate sull’evoluzione dell’esperienza dei blog. La novità del vlog di quest’anno www.performingmedia.org/lab/salento è stata quella di realizzare in ogni tappa del festival, un set supportato da un gazebo e un pulmino attrezzato con i computer connessi on line, per svolgere la funzione costante del diario di bordo dell’evento, pubblicando direttamente le impressioni dei partecipanti nella forma di una scrittura multimediale che espande il gioco delle visioni soggettive. Sul TarantaVideoBlog realizzato da Antonio Rollo, in collaborazione con ClioCom e MoviMedia, è attiva anche una mappa interattiva del Salento (iMap) per individuare la dislocazione geografica di tutti i luoghi in cui si svolgono gli eventi: una mappa che in uno sviluppo prossimo vedrà inserite sulla rappresentazione del Salento visto dal satellite, le animazione grafiche in Flash basate sulle immagini e i suoni raccolti nel vlog. L’aspetto principale del lavoro di quest’anno è stato comunque quello sul “social tagging”: dieci tag (parole chiave) hanno permesso di taggare (ancorare, marcare) i vari contenuti multimediali pubblicati. Il TarantaVideoBlog continua a tessere la sua rete, ponendo emergenze politiche e non solo poetiche, come è emerso nell’ incontro pubblico su Performing Media: il social networking per l’ Innovazione Territoriale svolto in un’area franca con connessione Wi Fi. In quest’ambito s’è posto il giusto accento ad un’esperienza che all’interno della manifestazione più importante dell’estate musicale mediterranea vede coniugare azione culturale, comunicazione multimediale e innovazione territoriale, interpretando e valorizzando le particolarità della Grecìa Salentina, dalle culture materiali alla lingua “grika”. Coniugando per davvero il globale del web con il locale delle comunità, al di là degli slogan di astratta intellettualità. [email protected] “Le parole d’ordine del TarantaVideoBlog Facce, Paesaggi, Politiche, Poetiche, Visioni, Mani, Cibo, Performing Media, Griko, Concerti. foto Luc Rabaey Su questi concept i ragazzi del PerfomingMediaLab hanno lavorato producendo cinquantadue video, diciotto tracce audio (di cui molte in podcast), oltre un migliaio di foto ( da cui è stato tratto un prototipo di interfaccia contestuale: un puzzle umano, una sorta di “geomorfologia facciale” che gioca l’idea di un’interfaccia composta di facce portatrici di storie). 39 Una smartcard contro l’inquinamento globale Tattoo you too Nasce il tatuaggio fai da te! di Stefano Diana Nell’icona della strepitosa vittoria ai Mondiali di calcio 2006, sul crocchio azzurro esultante svetta Cannavaro con Coppa tesa al cielo. Le cose che si vedono meglio del Capitano, e quindi della foto, sono: a) la Coppa d’oro, b) il grido felice, c) il grande tatuaggio sull’interno del braccio destro dove si legge, in fioriti caratteri gotici, il nome “Andrea”. Passando alla storia con tutto il blocco, la prova (c) consacra definitivamente il tatuaggio fra i segni del nostro tempo, insieme al grido, alla squadra e allo sport italiano di questa magica estate. Il poster più popolare che si possa immaginare, immortalando e diffondendo ovunque quella gloriosa epidermide indelebilmente inchiostrata, segna anche il culmine dell’epidemia tatuaria che negli ultimi cinque anni non ha mai smesso di dilagare. I tatuaggi se li fanno tutti, come ha dimostrato l’estate appena trascorsa. Ci sono tante di quelle ragioni, del resto. Negli primevi dell’uomo, quando il mondo era raccontato dai miti e non dalla scienza, il tatuaggio era una celebrazione e una sacra insegna portata addosso. Significava prima di tutto condivisione di una particolare veduta del mondo e appartenenza a una comunità. Il suo contenuto faceva riferimento a un incorruttibile insieme di simboli, di valori, di pratiche e di rituali profondamente intrecciati – una cultura, in una parola – che dava forma e sostanza all’intera esistenza umana all’interno di un gruppo ben definito. E oggi, oggi che il mondo è raccontato dalla scienza e dal gossip, come funziona? Funziona che ciascuno si sceglie il tatuaggio per conto suo dal catalogo universale dei simboli: cristiani, islamici, induisti, buddisti, pagani, wiccan, massoni, celtici, rune, il linguaggio segreto dei fiori, farfalle insetti serpenti, proteine famose, ritratti di grandi uomini, quello che ti pare. Il contenuto è un puro vezzo estetico, non vuol dire più niente davvero. Non significa più alcuna condivisione o coesione di gruppo, alcuna appartenenza; anzi, semmai entra in competizione con i tatuaggi degli altri: vinca il più bello, il più esteso, il più colorato. Sì, esiste del tatuarsi di massa una specie di flebile cultura: si condivide il fatto di portare un tatuaggio; però l’enorme diffusione della moda l’ha dilavata ormai del tutto. Non è più legato ad alcun complesso inviolabile e stabile di valori, bensì frutto di una scelta contingente, provvisoria, sradicata, divisa da ogni altra scelta di quel gran mucchio che la nostra splendida libertà ci richiede di fare ogni giorno. Detergente alla passiflora o all’aloe? Thai boxing o aikido? Botox o lifting? Pensione integrativa o assicurazione? Però il tatuaggio è una risposta che resta per sempre, e stride in mezzo alle altre risposte precarie con un’inconciliabilità che fa molto pensare. Come perdersi il sorriso di pensare, di fronte alla balda gioventù istoriata in spiaggia, ai vecchi che saranno un giorno con la pelle floscia tutta colorata e le immagini squagliate dal tempo 40 come Dalì viventi? Le cose vanno molto veloci e lontane, adesso, il tatuaggio sembrerebbe così inadatto a questi tempi; ma non sarà proprio per questo che è tanto desiderato? È il sogno di un freno a mano: fermate il tempo! E siccome capiamo benissimo questo sogno, non lo vogliamo ostacolare. Anzi. Visti tutti i rischi igienici del caso, consigliamo di far da soli. Chiunque può acquistare una tattoo machine – che prima di tutto è uno splendido oggetto tecnologico che fa pensare a un’arma di fantascienza concepita da H. R. Giger o Philip K. Dick – e imparare a usarla con un tutorial trovato in rete o con uno dei tanti manuali reperibili in libreria. In mezzo a impugnatura, armatura esterna, serbatoi per l’inchiostro e vari regolatori meccanici, campeggiano le bobine elettromagnetiche che servono a imprimere alle punte la percussione intermittente, e gli aghi che imbevuti di inchiostro per capillarità lo depositano nel derma dopo avervi scavato un alveo microscopico. Di contro all’omogeneità dei meccanismi, le marche sono parecchie e la scelta di fogge davvero ampia, con prezzi che vanno dai 65 ai 300 euro. Tra le tante, a noi sono piaciute più le preziose Mao Machines di fascia alta (285 euro), tutte contraddistinte da acciaio carbonato, fattura a mano, bobine trasparenti e alta risoluzione; e la misticosinuosa Sacred Heart in edizione limitata di Lauro Paolini, in ottone cromato e finiture smussatissime (290 euro su tattoo-machines.com). E se uno proprio proprio non ha il coraggio? Una scappatoia c’è: tatuaggi per il cellulare. Ti scarichi un tribale come wallpaper, ed è fatta. Del resto non siamo affatto lontani dalla verità che il cellulare sia ormai una parte del corpo. Una parte con un grande vantaggio: si può facilmente sostituire. di Stefano Diana a tecnologia molto avanzata che incorpora un chip e un minischermo flessibile. Pagando con la card, che sotto ogni altro aspetto è una normale carta di credito, ad ogni acquisto lo schermo dovrebbe informare il proprietario delle conseguenze ecologiche del suo acquisto e rendicontare il corrispondente esborso di ecocrediti. Alcuni hanno criticato questa proposta perché sembra spostare le gravose responsabilità dell’inquinamento sui singoli cittadini, laddove l’attenzione andrebbe concentrata sull’industria e sugli altri grandi inquinatori. Secondo noi, invece, l’idea è ottima per due ragioni. La prima è che di fronte a condizioni che destano ormai un allarme irreversibile e globale, e alle prese con dimensioni della popolazione umana che funzionano da eccezionale amplificatore degli effetti di diffuse pessime abitudini individuali, anche il comportamento dei singoli va assolutamente educato a una maggiore solidarietà con l’ambiente; e l’iniziativa di Miliband fa assumere allo Stato il ruolo positivo che gli compete in questa missione. La seconda ragione è che con essa si assegna d’autorità, finalmente anche agli occhi dei consumatori finora corteggiati e incondizionati, un valore misurabile all’aspetto ambientale degli scambi economici; e questo è un passo indispensabile nella direzione di un nuovo rapporto con l’ambiente che deve diventare necessariamente più consapevole per ciascuno. Niente più diritti senza doveri. Nel film-documentario The Corporation, un broker di materie prime racconta candidamente che tra i dati di trend che i professionisti della sua categoria ricevono ogni giorno, in base ai quali decidono se acquistare o vendere per conto dei loro clienti e incassare la commissione, non c’è nulla che riguardi l’ambiente; «quindi per noi semplicemente… non esiste!» È chiaro, come è chiaro che c’è sotto un errore strutturale. Purtroppo, come dice Ronald Wright nel suo recente Breve storia del progresso, «la nostra presenza è talmente colossale che non possiamo più permetterci il lusso dell’errore». Il ministro dell’Ambiente inglese, David Miliband, ha proposto un’idea per applicare al mondo consumer criteri esecutivi di salvaguardia dell’ambiente molto simili a quelli che nel Protocollo di Kyoto ci si sforza di far adottare ai Paesi più sviluppati, e al mercato dei diritti di emissione per le industrie che esiste in Europa. Miliband immagina che un’apposita agenzia governativa, una sorta di banca speciale, assegni ad ogni cittadino una certa dotazione di moneta che chiama “punti-carbone”. Questa valuta circola accanto a quella tradizionale, indipendentemente da essa, e serve esclusivamente per pagare il valore ecologico di un bene acquistato. Il costo dei beni in punti-carbone è proporzionale all’impatto sull’ambiente, diretto o indiretto: i beni più gravosi per le risorse naturali costano di più e quindi consumano più rapidamente il credito ricevuto. Ad esempio, per fare un viaggio in un’auto a benzina si spenderebbe molto di più che per farlo in treno. In questo modo lo Stato sarebbe in grado di tenere traccia dei comportamenti dei consumatori e di imporre delle regole al gioco: da una parte stabilire dei limiti ai punti spendibili e far pagare penali per il loro superamento, pertanto frenando le abitudini più inquinanti; dall’altra premiare i cittadini più virtuosi che potrebbero rivendere allo Stato i punti risparmiati. Veicolo di questa interessante politica, una smartcard 41 Chi ci protegge dalla libertà? Wikipedia, l’enciclopedia on line più cliccata al mondo ha blindato alcune delle voci più controverse Jimmy Donal “Jimbo” Wales, oggi quarantenne, coadiuvato dal suo fidato collaboratore Larry Sanger, è riuscito a trasformare un’idea semplice e un po’ bizzarra, in un progetto dai grandi numeri, confermando la logica secondo cui le idee che hanno enormi conseguenze sono spesso idee semplici!Il lungimirante Jimbo, con l’obiettivo di offrire ad ogni individuo accesso libero a tutta la conoscenza umana, gratuitamente e nella propria lingua, intraprese il suo promettente quanto allora inverosimile percorso. Serviva però uno strumento. Il modello dei wiki - software collaborativi e siti web dove è possibile modificare contenuti - diffuso qualche anno prima, ben si prestava allo scopo. Chi non conosce Jimmy Wales, avrà comunque capito ormai di cosa stiamo parlando. Si tratta di Wikipedia, la più grande, libera, gratuita e discussa enciclopedia on line, fatta dalla collettività, per la collettività. Il nome è nato come neologismo dalla fusione del vocabolo hawaiano Wiki che significa “veloce” e il termine “pedia” suffisso di enciclopedia che in greco significa “insegnamento”. Attraverso tale strumento, i navigatori avrebbero potuto offrire il proprio apporto intellettuale su qualunque argomento, mettendolo a disposizione di altri navigatori. Come in un grande puzzle, il grande mondo della conoscenza ha così cominciato a prendere forma sotto la mano di sconosciuti internauti che, con pazienza e devozione, tentativi ed errori, incastrano quotidianamente e “sapientemente” tante piccole sagome in un armonico insieme. In Wikipedia tutti possono spiegare il significato di di un’evoluzione nella tecnologia, ma di una trasformazione sempre più radicale dell’approccio alla Rete. L’esplosione di contenuti creati da utenti, poi riutilizzati e modificati si basa sul concetto di collaborazione, di interazione sociale, di condivisione dei dati. La distinzione tra Web 1.0 e 2.0 è un po’ quella che separa la nostra Wikipedia dall’Enciclopedia Britannica. Unilaterale quest’ultima e multidirezionale la prima. Nel Web 2.0, di cui Jimbo già alla fine del secolo scorso aveva colto l’essenza e presagito le innumerevoli potenzialità, i contenuti e le informazioni passano per l’interazione, si arricchiscono di apporti multiformi e seguono percorsi reticolari: dalla creazione alla pubblicazione su un sito, alla rielaborazione su un blog, alla divulgazione su un’enciclopedia collaborativa, all’identificazione di un social network, per un solo grande scopo: la conoscenza condivisa. Come si suol dire “Sapere, Fare, Saper Fare, Far Sapere”! L’acido desossiribonucleico dell’enciclopedia più cliccata di Stefania Capaccioni Un ingegnoso giovane, uno dei più importanti fenomeni sociali del web quindi una forma di “governo delle informazioni” indubbiamente diversa dalla democrazia. Riduzione della democrazia digitale o necessaria protezione dall’anarchia? Certo, qualunque sia l’indirizzo preso dall’enciclopedia collaborativa resta ferma la sua lodevole filosofia: condividere quanto più sapere possibile con l’intera umanità. una nuova voce o modificare quelle già esistenti, secondo un modello - neo e virtù allo stesso tempo - di progressivo arricchimento e accuratezza. Basta andare sul sito http://it.wikipedia. org per lasciarsi affascinare dalla semplicità con cui si può conoscere, contribuire, navigare tra link di informazioni o curiosità proprie di una tradizionale enciclopedia, ma anche di almanacchi, dizionari geografici e di attualità, nonché creare ex novo le più disparate voci enciclopediche. Questa libertà ha portato milioni di persone in tutto il mondo a consolidare un forte senso di appartenenza alla comunità wikipediana, in costante aumento ovunque. Oggi Wikipedia è diventata un colosso della rete che contribuisce considerevolmente alla circolazione del sapere; viene citata da più parti come fonte e ha una assidua presenza ai primi posti dei principali motori di ricerca. Se poi si considera che solo i primissimi risultati ottenuti dalle ricerche con tali motori vengono solitamente consultati, si evince quale sia l’importanza ricoperta da Wikipedia nell’attuale circolazione del sapere. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità Come spesso accade di fronte ai grandi fenomeni, però, critiche e polemiche non sono mancate. Un coro di voci più o meno autorevoli si è alzato più volte gridando “all’untore!” e giudicando le ambizioni di Wikipedia rischiose ed azzardate. Da più parti si sono sollevate voci tipo “come si può pretendere di costruire il sapere scientifico con il contributo di chiunque?” Inaffidabile, assolutamente non autorevole, fuorviata da pregiudizi 42 personali e soggetta a vandalismi di sorta: questi i colpi di accetta costantemente inflitti dai critici più aspri. La stessa Wikipedia riconosce la non autorevolezza dei contenuti nell’immediato, ma presenta questa lacuna come limite superabile grazie a un modello di Darwinismo Sociale: la possibilità di revisionare e correggere articoli, sarebbe in grado di far sopravvivere gradualmente solo le voci corrette. Il “punto di vista neutrale” inoltre, condizione ritenuta non negoziabile che gli enciclopedisti wikipediani devono rispettare per inserire i loro contenuti, aiuterebbe il raggiungimento dello scopo senza passare per infinite guerre a colpi di correzioni. Ma la delicatezza di questioni politiche, ideologiche e culturali mista a quella legge universale che vede “la procreazione infinita di alcune inconfondibili specie di esseri umani”, ha reso questo non sufficiente ed ha costretto Jimbo a correre ai ripari. Dopo alcuni atti vandalici compiuti su biografie di personalità più o meno in vista, Wikipedia ha deciso di blindare alcune voci, rendendone talune – come Cuba, Kosovo, diritti umani nella repubblica Cinese, Islam, Antisemitismo, elezioni 2004 nell’Ohio – totalmente non editabili ed altre – come Gay, Dio, Ku Klux Klan, 11/09, sesso – solo parzialmente modificabili. Wikipedia, per quanto imponente come fenomeno web, non esaurisce le tipologie di siti collaborativi in cui la condivisione di contenuti costituisce l’ossatura principale. Tale strumento rappresenta un bell’esempio di un’importante evoluzione dell’utilizzo della Rete da parte di internauti e tecnocrati, che vede da qualche anno il passaggio dalla semplice fruizione passiva alla partecipazione. Condivisione e collaborazione sono alla base di quella che ormai da qualche tempo viene definita “la nuova era di internet” altrimenti detta Web 2.0. Non si tratta © Per saperne di più: Wikipedia nacque nella sua prima versione – in inglese – il 15 giugno 2001. A tutt’oggi è pubblicata in 230 lingue in tutto il mondo con un numero complessivo di oltre 5 milioni di voci. Le sue edizioni più grandi sono, in ordine decrescente, quelle in lingua inglese, tedesca, francese, polacca, giapponese, olandese, italiana. Attualmente la versione italiana ha superato le 197.000 voci con una crescita media di 10.000 nuovi articoli al mese. Non mancano anche mini enciclopedie in dialetto: dal friulano al siciliano passando per il sardo e il romano, attive comunità che cercano di preservare e diffondere le tradizioni locali. Forse il modello di perfetta democrazia del sapere si è un po’ incrinato. Contatti: L’addetta stampa di Wikipedia Italia è Frieda Brioschi [email protected] l’addetta stampa della Wikimedia Foundation è Elisabeth Bauer [email protected] il fondatore di Wikipedia è Jimmy Wales [email protected] D’altronde qualcuno si chiede quale criterio guidi questo inasprimento; la scelta di alcune voci e non di altre già di per sé rappresenta un giudizio di valore, quindi una scelta soggettiva alla quale la comunità deve sottostare, 43 “” Roma Giorgio è un ragazzo di 15 anni. Terzo figlio di Roma. una coppia di immigrati africani, a 11 anni ha iniziato ad avere problemi di varia natura, che nel giro di un paio di anni hanno spinto i genitori a rivolgersi ad una struttura pubblica della propria città per avere un sostegno terapeutico. E’ iniziato così, poco più di due anni fa, il suo percorso di riabilitazione e il suo incontro con un compagno adulto. Quando iniziò il lavoro, Giorgio faceva da alcuni mesi psicoterapia, ed era un ragazzo difficile. Il suo malessere era caratterizzato da una grande passività. Nessun interesse, nessun hobby, niente amici, niente sport. Mai un’impennata di gioia o di rabbia. Alla base di questi comportamenti un grande conflitto di natura culturale tra la cultura italiana e l’ortodossia dei genitori alla propria cultura di origine. E’ cominciato così un percorso che, in affiancamento alla psicoterapia, si proponeva di riportare il ragazzo ad una vita sociale attiva e soddisfacente. Gli incontri con il compagno adulto erano due a settimana di circa tre ore l’uno. Col compagno adulto Giorgio ha iniziato a passare più tempo fuori di casa, ad esperire nuove situazioni in una modalità rassicurante. Lunghe passeggiate, sala giochi, cinema, mostre, fiere e luoghi molto frequentati, sempre alla costante ricerca di socialità. E poi grandi chiacchierate, volte a soddisfare curiosità, a mitigare paure ed incertezze in nome di una crescente complicità. Questo è stato per poco più di un anno l’asse portante del rapporto tra Giorgio ed il suo compagno. E pian piano la passività ha iniziato ad attenuarsi. Già dopo un mese iniziava ad essere Giorgio stesso a proporre cosa fare ad ogni incontro ed a decidere dove andare. I progressi sono stati molto lenti e graduali, ma c’è stata l’opportunità di consolidare costantemente ed empiricamente ogni passo avanti fatto da Giorgio con il terapeuta. E così certe sue ossessioni si sono attenuate fino quasi a scomparire e gioia, rabbia ed entusiasmo hanno rubato il passo all’astenia e alla passività passività. Con il suo compagno adulto si è confrontato alla pari. Ha imparato a vincere e a perdere. Ad avere pazienza, ad aspettare gli altri e ad avere fiducia in loro. E soprattutto nei propri genitori. Dopo un lungo cammino, ormai terminato, Giorgio vede la sua cultura di origine non più con rifiuto ma con interesse, manifestando l’intenzione di andare in viaggio a visitare i nonni e la città natale dei propri genitori. Oggi è un ragazzo sereno. Timido, ma con gli strumenti necessari a disposizione per affrontare con successo l’adolescenza che gli resta dinnanzi. Il compagno adulto Un modello possibile per il reinserimento sociale dei giovani di Marco Romagnoli Essere genitore significa affrontare un lungo percorso ad ostacoli. Avere un ruolo che si può interpretare secondo infiniti modelli, nessuno giusto davvero, nessuno sbagliato. E’ questione di relazione, di rapporti, di sottili equilibri basati spesso sul non espresso, sul non detto. E così può accadere che a metà del cammino, in quello che è forse il periodo più delicato della vita di un figlio, e cioè l’adolescenza, il nostro ruolo di genitore possa entrare in crisi. Ci confrontiamo con problemi di cui non sappiamo se essere causa o soluzione, vediamo un ragazzo in difficoltà e non troviamo il giusto canale di comunicazione. Ci chiediamo inevitabilmente se è tutto normale, se passerà o se si tratta di problemi gravi. Ci si mette in discussione come figura di riferimento e si cerca aiuto. Il principale supporto in queste situazioni è ormai da quasi un secolo lo psicoterapeuta. Certo, le cause dei problemi di un adolescente sono le più varie, e si va dalla patologia mentale vera e propria alla semplice difficoltà di crescere, di cambiare; ma una figura professionale di questo genere è l’unica a saperci indirizzare al meglio in un periodo in cui la navigazione è a dir poco a vista. Il terapeuta cura con l’approccio ed il metodo più appropriato i problemi di un figlio e al tempo stesso costituisce un valido supporto per i genitori. Ma la domanda che in queste pagine più ci preme fare è: “ee dopo”? La fase di riabilitazione di un adolescente, il reinserimento corretto nel contesto sociale di riferimento è una fase di cruciale importanza e il ragazzo vi si trova spesso solo. “Cinema, sport, passeggiate, lettura e videogiochi sono esperienze semplici la cui condivisione può rivelarsi estremamente utile e costruttiva” l’adolescente, durante o dopo il percorso terapeutico, individua gli strumenti necessari per relazionarsi con successo con il proprio mondo di riferimento, con i coetanei, i genitori, la scuola. Il compagno adulto rappresenta una “palestra sociale” attraverso il quale acquisire sicurezza e allenarsi per una corretta e totale riabilitazione. Al ritmo di un paio di incontri settimanali, l’adolescente ed il suo compagno riprendono una attiva esplorazione della vita attraverso le più comuni situazioni di vita sociale. Cinema, sport, passeggiate, lettura e videogiochi sono esperienze semplici la cui condivisione può rivelarsi estremamente utile e costruttiva. Il compagno adulto è infatti una figura matura che si trova a metà strada tra il ragazzo ed i propri genitori. E’ una figura solida e rassicurante, ma al tempo stesso diversa dall’immagine genitoriale. In un’età in cui il ragazzo può essere schiacciato dall’esigenza di perfezione o dal rifiuto conflittuale della strada indicata dai propri genitori, egli si inserisce semplicemente come un “modello possibile”. E rappresenta agli occhi del giovane uno dei tanti modi possibili in cui potrà evolvere con la crescita, stemperando le paure che le aspettative per il futuro possono creare. Si relaziona col ragazzo in modo paritario, allentando i timori e le insicurezze, come mezzo attraverso il quale sperimentare comportamenti e sentimenti (rabbia, amicizia, gioia, paura) che potrà poi riproporre correttamente con i propri coetanei. Nel rapporto con lo psicoterapeuta il compagno adulto si è rivelato efficace su due distinti livelli. Ad un primo livello egli con il suo apporto permette al E’ così che nacque circa venti anni fa una nuova figura professionale, studiata per affiancare prima e completare dopo, il lavoro dello psicoterapeuta: il compagno adulto. Figura dal nome poco accattivante, il compagno adulto è solitamente una persona matura, con un percorso umano e sociale rilevante e una formazione professionale che può essere di varia natura: sociologica, psicologica, o anche pedagogica. Il suo ruolo è perfettamente complementare a quello del terapeuta, ma al contrario di quest’ultimo non svolge la sua attività tra le mura di uno studio, bensì nella vita quotidiana del paziente. Gli incontri del ragazzo con il proprio compagno adulto rappresentano una continua condivisione di esperienze attraverso il quale “Gli incontri del ragazzo con il proprio compagno adulto rappresentano una continua condivisione di esperienze” 44 terapeuta di lavorare più proficuamente con il paziente. Lo esenta infatti dalla soddisfazione di tutta una serie di esigenze che la curiosità adolescenziale riverserebbe altrimenti sulla sua figura. I ragazzi infatti hanno grande curiosità ed il lavoro di natura teorica e simbolica tipico del terapeuta può risultare loro noioso e faticoso. Hanno bisogno di condividere interessi e soddisfare tutte le curiosità relative alla sua età: sulla vita, sull’amicizia, sull’amore o perché no anche sul sesso. Il compagno adulto subentra a soddisfare tutta questa serie di esigenze pratiche, configurando quindi un’ottimizzazione complessiva del lavoro di riabilitazione. Terapeuta e compagno adulto quindi. Teoria e pratica. Ad un secondo livello, il compagno adulto svolge il compito vero e proprio di reinserimento sociale. Spesso periodi di difficoltà nella crescita, che come abbiamo detto a volte portano alla ricerca di un sostegno medico, si concretizzano in una sorta di “mutismo sociale” dell’adolescente. Ore ed ore davanti ad internet o ai videogiochi, difficoltà a fare nuove amicizie, rifiuto della scuola o di praticare sport aumentano la distanza del ragazzo dal proprio mondo dei pari. Distanza che un adolescente che anche ha finito il percorso terapeutico può avere grande difficoltà a colmare. Qui si trova il cuore della professione del compagno adulto, qui si colloca la palestra sociale di cui abbiamo parlato. In una piccola zona dove il terapeuta non può arrivare e dove i genitori sono spesso ospiti non graditi, trova il suo posto il compagno adulto, che accompagnerà il ragazzo nella riappropriazione della propria vita e della propria adolescenza. “La fase di riabilitazione di un adolescente, il reinserimento corretto nel contesto sociale di riferimento è una fase di cruciale importanza e il ragazzo vi si trova spesso solo” 45 La potenza degli dei, l’impotenza dell’uomo Un caso di dipendenza da Internet di Manuela Romagnoli Asia è una ragazza di sedici anni. Molto bella, di una bellezza nascosta dall’incertezza di essere diventata donna. Capelli legati, niente trucco, jeans e felpa che coprono ogni sessualità, aggressività da capobranco. Apparentemente disinvolta, socievole, in realtà ritirata, schiva, dipendente da internet. Giorno dopo giorno la sua vita è scandita dal monitor che le permette l’accesso ad un mondo parallelo, nascosto, potente, al mondo degli dei. In internet c’è la sua vita virtuale, la sua seconda identità, quella scelta da lei, svincolata dalla crescita, dai cambiamenti del corpo, dalla timidezza. In rete Asia è diversa , si tramuta, diventa un uomo: un ragazzo più grande, brillante, amato. Per due anni lo ha fatto crescere, incontrare, baciare, dalle centinaia di persone che come lei si collegavano alla rete. Ha rinunciato a tutto per tenere in vita lui, il ragazzo che voleva amare ma che la vita con i suoi limiti assurdi ha fatto morire a diciotto anni. Perché affrontare il lutto, la colpa, perché accettare quello che non c’è più, potendo sostituirsi ad esso e magicamente tenerlo in vita? In compagnia di ‘complici inconsapevoli’ di un benevolo delirio, comparse di una società che rinuncia volentieri alla saggezza per l’onnipotenza infantile. Internet, il mezzo che ci ha permesso il più grande salto spazio temporale che si potesse sperare, seduce con le sua voce e con le sue possibilità. Ci permette di sperimentare l’anonimato, di spiare, di mettere a volte sotto scacco quella piccola coscienza morale che sostiene la vergogna. Ma tutto questo ha un rischio e un costo, il costo di navigare in un mondo fatto per gli dei, un mondo onnipotente. numero accettabile dei buchi sul corpo. Oggi è così. O peggio, al posto dell’intolleranza per l’immaturità dell’adolescenza si sostituisce il gusto per qualcosa che oggi si può fare, ieri no. E allora l’orecchino al sopracciglio, il tatuaggio sulla schiena, divengono simbolo di trasgressione, di libertà rubata alla moralità condivisa. Ma non potrebbe essere che quel tatuaggio nero sul collo, quel buco largo un centimetro che allarga il lobo dell’orecchio non stia lì a sancire un passaggio, lo stesso passaggio che i ‘grandi’ avrebbero, in altre culture e in altri tempi, operato per aiutare a crescere, per non tornare indietro e diventare? La crescita, la forza, il matrimonio, il lutto, la sessualità, la sottomissione, il sacrificio, un simbolo per ogni passaggio, per ogni individuazione, un simbolo visibile, sulla pelle, per tutti. Oggi non esistono riti di passaggio perché il concetto di passaggio e quindi di tempo lineare è stato sostituito dal concetto di tempo circolare e per questo ‘eterno’. Ripetizione, reversibilità, nuova occasione, seconda adolescenza. Sbagliare, cancellare, ripetere. Il suo personaggio, che tenendola incollata alla rete più di dodici ore al giorno le ruba la sua vita, non è solo un altro Sé, ma è l’esempio più evidente che la nostra società offre la soluzione al dolore, al lutto, alla rinuncia, offre l’elisir della vita eterna L’onnipotenza non è più prerogativa degli dei, e d’altra parte se rinunciare non porta più con sé nessun valore aggiunto, nessuna gratificazione, se l’impotenza non è assoggettata ad un ideale, non è condivisa, sancita dalla società e apprezzata, perché l’uomo dovrebbe assoggettarsi ad essa, comprenderla e tollerarla? Se un limite, un dolore, non è stato celebrato, visto, riconosciuto per quanto tempo potrà essere accettato se non per il tempo che da esso ne deriva un vantaggio? E soprattutto che limite è se posso superarlo? La potenza degli dei, l’impotenza dell’uomo. In questa visione del mondo accettare i propri limiti diventa un atto di coraggio, di dignità, di riconoscimento. Ma la cultura dei riti di passaggio, delle iniziazioni, della sottomissione alle forze naturali, è svanita tramortita dalla vertiginosa velocità con cui la scienza ha attraversato il ventesimo secolo. Padri che osservano svalutanti il piercing sulla lingua della figlia contrattando, con scarsa sopportazione, il 46 47 Percorsi di lettura Tra sé digitale e società digitale. di Lucio D’Amelia di squatters americani ed europei negli anni Novanta. Ma l’elemento cardine del sé digitale, permesso dall’evoluzione della rete, è la propria rappresentazione nel Web sotto forma di sito personale e, più recentemente, di blog. Granelli rimanda al suo sito personale (www.agranelli. net), attivo come archivio elettronico personale dal 1983 e presente su Internet dal 1995: in esso sono riversati quotidianamente pensieri, riflessioni, letture, giudizi che l’esperienza pratica suggerisce, costituendo una “memoria estesa” strutturata attraverso aree informative e attraverso associazioni con gli elementi preesistenti. Il ragionamento si svolge in due parti: nella prima si ricostruisce la grammatica dei network che permette alla società digitale di disegnarsi dal basso, senza un controllo centralizzato e pur tuttavia con una prospettiva di sviluppo, e si richiamano alcune tappe fondamentali del processo (dall’etica hacker ai giochi in rete Multi User Dungeon - MUD, da Google e Yahoo all’economia del dono, fino all’esplosione dei blog testuali o della condivisione audiovisiva su Flickr e YouTube). Nella seconda parte la riflessione verte sulle “cose che cambiano”: la conoscenza in primo luogo, e poi il sistema dell’informazione, l’equilibrio dei mercati, l’identità digitale e il mondo della politica. L’ostacolo alla costruzione del sé digitale, poi, non è rappresentato dai limiti di complessità e di sicurezza della tecnologia, ma dalle paure che tale rappresentazione innesca. La storia psicologica del “doppio” dimostra infatti che esso è assurto a emblema minaccioso in grado di ossessionare e annichilire l’io reale. “Gli esseri umani – scriveva nel 1999 Tim Berners-Lee in Weaving the Web – vivono in un equilibrio naturale tra la parte analitica e quella intuitiva del cervello. I grandi problemi analitici li risolveremo scatenando la potenza dei computer sui dati concreti della Rete Semantica. Invece, far scattare di livello l’intuito è difficile perché la nostra mente contiene migliaia di associazioni effimere nel medesimo tempo. Per facilitare l’interattività di gruppo, il Web dovrà catturare questi fili, i mezzi pensieri che nascono mentre lavoriamo senza deduzioni o logiche evidenti, e presentarli a un altro lettore come complemento naturale a un’idea informe. Funzionerà solo se ognuno crea link mentre naviga, perciò scrittura, creazione di link e navigazione devono essere totalmente integrati. Se qualcuno scopre un rapporto ma non crea link, lui ne saprà di più, ma il gruppo no”. Per quanto riguarda la conoscenza e il sistema dell’informazione, i cambiamenti sono dovuti al crollo delle barriere all’entrata: “non c’è più bisogno di sostenere costi enormi per diventare editori di testo, audio e video. E con il crollo delle barriere viene a mancare la selezione a monte delle voci” (p. 112). Un analogo fenomeno di disintermediazione avviene sui mercati economici, ora popolati da consumatori e utenti che non solo raccontano le loro esperienze e le pubblicano, ma producono (personalizzando i prodotti/servizi) e distribuiscono le risorse digitali (secondo la logica del peer to peer). Così, in due libri pubblicati di recente, si cerca di sistematizzare la considerazione dell’era digitale a livello del sé individuale e della struttura sociale. Tra gli autori di riferimento, in entrambi i casi, troviamo Derrick de Kerckove e Pierre Lévy, teorici rispettivamente dell’intelligenza connettiva e dell’intelligenza collettiva; il quadro espositivo spazia tra letteratura, psicologia, sociologia e politica, con un ruolo subordinato delle tecnologie dell’informazione. La maturità della dimensione di rete tende a (ri)fondare il discorso dell’identità e della struttura sociale alla luce del mondo virtuale e dell’always-on dei nostri giorni. Andrea Granelli (Il sé digitale, Guerini, Milano 2006, € 19,50), 19,50) manager e studioso delle innovazioni architetturali, esamina un’ampia letteratura dall’epoca classica greco-romana fino agli esiti del post-umano, per individuare l’emergere del sé digitale, a partire dal fenomeno della virtualizzazione individuale che non costituisce “una derealizzazione, ma un cambiamento di identità” (secondo gli insegnamenti di Lévy). Il Web nasce all’inizio degli anni Novanta per realizzare l’utopia di uno spazio che fosse al tempo stesso ipertestuale e ipermediale, informativo e interattivo, ma soprattutto relazionale e intercreativo. Una seconda citazione sempre dal testo di Berners-Lee del 1999: “La mia definizione di interattivo non comprende solo la possibilità di scegliere, ma anche quella di creare. Sul Web dovremmo essere in grado non solo di trovare ogni tipo di documento, ma anche di crearne, e facilmente. Non solo di seguire i link, ma di crearli, tra ogni genere di media. Non solo di interagire con gli altri, ma di creare con gli altri. L’intercreatività vuol dire fare insieme cose o risolvere insieme problemi. Se l’interattività non significa soltanto stare seduti passivamente davanti a uno schermo, allora l’intercreatività non significa solo starsene seduti di fronte a qualcosa di interattivo”. Non si tratta di una rivisitazione del mondo dei simulacri o di quello dei cyborg, cari rispettivamente a Philip Dyck e a William Gibson; né di una divagazione delle ricerche psico-biologiche, i cui esiti sono pure presenti nelle riflessioni dell’autore: per Granelli il sé digitale si configura come uno spazio sulla rete che è al tempo stesso “sintesi, strutturazione e organizzazione dell’informazione”, e comporta un processo parallelo e aperto al mondo dell’evoluzione dell’intera soggettività razionale ed emotiva. Il sé digitale si struttura a partire da una componente interna, presente secondo il fisiologo francese della percezione Alain Berthoz in ogni persona come “doppio mentale del corpo fisico” e alla base della capacità di decidere: attraverso questo schema siamo in grado di “cambiare punti di vista” e di guardare la realtà secondo prospettive originali e noi stessi sotto punti di vista diversi. Sono passati quasi 25 anni dai primi browser ipertestuali e più di dieci anni dal raggiungimento della “massa critica” per il salto di qualità della rete Internet. Il sogno è diventato realtà, al punto che si è parlato di un Web 2.0, ossia di una nuova fase della ragnatela mondiale, dopo le sbornie tecnologiche e finanziarie. Al punto che sono possibili prime riflessioni sui cambiamenti prodotti dalla nuova sfera connettiva sulle singole persone e sulle relazioni sociali. Come esperimento precorritore Granelli ricorda Luther Blissett, uno pseudonimo collettivo utilizzato da performer, artisti, riviste underground, operatori del virtuale e collettivi 48 L’identità digitale è legata alla presenza sulla rete attraverso i blog personali: così “un individuo privo di blog o non riconducibile a un blog tende ad essere percepito come portatore di un’identità debole” (p. 176); il suo posizionamento è legato al numero di relazioni che è riuscito a costruire e a mantenere, acquisendo una “reputazione” simile a quella dell’artigiano di precedenti epoche. Questi cambiamenti, infine, potranno avere un riflesso sul sistema della politica e della partecipazione democratica, perché abbattono le barriere culturali per la libertà di espressione, mettono a disposizione di tutti un patrimonio ingente di conoscenza per comprendere e controllare le scelte di indirizzo e di governo ai vari livelli. Il network digitale diventa un campo di azione anche per i politici di professione, modificando alla base le regole tradizionali della comunicazione politica. Il secondo libro (La società digitale, Laterza, Roma-Bari 2006, € 10) 10 ) prende le mosse da uno dei punti di arrivo di Granelli: Giuseppe Granieri (www.bookcafe.net/blog/), che ha pubblicato lo scorso anno, sempre per Laterza, un saggio di successo sui blog (Blog Generation), si interroga sugli esiti di un’architettura di rete che collega centinaia di milioni di persone per condividere la conoscenza e organizzarsi dal basso, fuori dei sistemi e degli ordinamenti tradizionali. © Granieri conclude la sua esposizione con 95 tesi di sintesi sulla società digitale (pp. 172-180), che sintetizzano in punti l’analisi svolta. Ne riproduciamo alcune particolarmente significative: “11. I network digitali non possono essere descritti come un medium o come una semplice infrastruttura, perché contengono al loro interno tutta la complessità di un sistema sociale. 12. Questo sistema sociale è quanto chiamiamo la società digitale. 25. La società digitale si nutre e si concretizza attraverso lo scambio delle informazioni e la costruzione delle relazioni. 72. La società digitale, centrata sull’attività dell’individuo in tutti i settori, stimola la partecipazione politica e aumenta le sue aspettative di essere ascoltato. 95. La società digitale è la più grande occasione di sviluppo che l’uomo abbia mai avuto. Abbiamo l’obbligo di provare, tutti insieme a sfruttarla nel migliore dei modi possibili”. 49 una realtà ‘altra’. Ma un’esperienza del genere richiede competenze organizzative, cognitive e disponibilità economica. In un contesto in cui la rivoluzione dei trasporti rende possibile l’estensione del viaggio alla massa, il problema diventa come renderlo accessibile al maggior numero di persone possibile, di qualsiasi background culturale ed economico. Cercasi Tribù “È proprio questa idea del viaggio come ‘esperienza mediata‘ che sta alla base della nascita del turismo moderno” La merce di scambio è l’esperienza di Francesco D’Orazio Ben Keene, appassionato di turismo d’avventura, e Mark James, esperto di comunità on line, hanno deciso di giocare a Civilization. Niente di strano, se non fosse che lo stanno facendo nella realtà. In un’isola sperduta delle Isole Fiji, e 25 minuti di barca dalla costa dell’isola più vicina, i due inglesi hanno trasformato una comunità virtuale in un’esperienza reale immersa nella giungla. Prendete l’idea dell’esilio esclusivo dal mondo moderno di The Beach, applicatelo ad un gruppo di persone che hanno già stretto relazioni interpersonali in rete in una comunità tipo Myspace o in un mondo virtuale sociale come Second Life; aggiungete il coinvolgimento che nasce dall’assunzione di un ruolo di gioco e dalla consapevolezza che la storia va avanti anche quando voi andate a dormire o non state fissando il monitor come in un MMORPG (massively multyplayer on line role playing game) tipo World of Warcraft; una volta messi insieme questi ingredienti scaraventate tutti su una vera isola tropicale deserta come ne Il Signore delle Mosche, o, meglio, in Lost, e otterrete Tribe Wanted. “Cercasi Tribù” è il nome di un progetto integrato (comunità on line, turismo estremo, web tv) che offre la possibilità a cinquemila persone sparse per il globo di entrare a far parte di una tribù e vivere su un’isola deserta presa in affitto dalla società titolare del progetto per tre anni. Chi vuole diventare membro della tribù si iscrive sul sito del progetto come Nomade, Cacciatore o Guerriero (tre livelli di membership da 120 a 360 Sterline), entra così a far parte di una comunità on line e ottiene il diritto di abitare sull’isola per un massimo di 3 settimane l’anno. Da quando la tribù si è riunita sull’isola, il 1° settembre 2006, il gruppo ha cominciato a prendere le prime decisioni: dal nome dell’isola all’elezione dei capi tribù, dalle infrastrutture di base che vanno costruite alle celebrazioni che il gruppo dovrà osservare. Chi abita l’isola viene filmato ma i contenuti vengono trasmessi solo sul sito del progetto e con accesso ristretto ai membri della comunità on line. Tribe Wanted è un ibrido che integra una serie di idee centrali nella realtà contemporanea: la socialità tribale, il turismo avventuroso, l’esposizione mediale dell’esperienza personale, la socialità della rete e la volontà di dare corpo a legami comunitari basati esclusivamente sulla condivisione di passioni e interessi. Ma che cosa stanno vendendo esattamente i due imprenditori britannici? E che cosa comprano gli aspiranti membri della tribù? Qual’è la merce di scambio? Un volo? No. Un pacchetto vacanza? No. Una capanna in riva al mare? No. L’accesso ad un isola tropicale 50 Thomas Cook allora riscrive l’idea del viaggio trasformandolo da atto immersivo immediato, cioè senza filtri tra viaggiatore e luogo, ad atto immersivo mediato da un ‘autore’, l’agente di viaggio, che organizza il rapporto tra viaggiatore e luogo, lo semplifica e abbassa il livello delle competenze logistiche, cognitive e della disponibilità economica richieste al viaggiatore. L’agente turistico di Cook è un demiurgo che decide quali elementi entreranno a far parte dell’esperienza dell’’altrove’ e quali no, un fabbricante di universi che costruisce una membrana tra viaggiatore e luogo più o meno sottile, a seconda dei casi, ma comunque avvolgente. È proprio questa idea del viaggio come ‘esperienza mediata’ che sta alla base della nascita del turismo moderno. Una logica che farà un salto ulteriore negli anni Cinquanta del Ventesimo secolo con il Club Mediterranée, la corporation francese che inventa la vacanza Total All Inclusive. Laddove Thomas Cook si pone come intermediario tra il luogo e il viaggiatore, il Club Med rimedia completamente il luogo del viaggio ricostruendolo nel villaggio, una realtà per così dire ‘aumentata’ che non è più il luogo originario ma un ibrido tra quel luogo e una sua ricostruzione tecnologica, cioè dotata di infrastrutture, servizi e spettacoli impiantati nell’ambiente originario con l’obiettivo di ridefinirne la forma abitativa. Con Tribe Wanted l’idea del turismo come esperienza organizzata fa un salto ulteriore. “L’agente turistico è un fabbricante di universi” che non è privata? Chiaramente no. La merce di scambio è l’esperienza. Quello che Tribe Wanted vende è un set di condizioni che garantiscono delle possibilità d’esperienza. “La merce di scambio è l’esperienza” La ‘vendita di esperienze’ ha una tradizione relativamente breve che ha origine proprio in Gran Bretagna a metà del Diciannovesimo secolo con l’invenzione del viaggio pubblico organizzato. Il 5 luglio 1841 parte l’Escursione di Thomas Cook da Leicester a Loughborough e ritorno (undici miglia); partecipano 570 persone che pagano uno scellino per un pacchetto che include il trasporto in treno (in terza classe, su carrozze scoperte e prive di sedili chiamate “vagonetti”), il pranzo e “uno spettacolo di gran gala”. L’idea di Cook è rivoluzionaria. Quando ha senso, il viaggio è un’immersione totale in 51 Se Thomas Cook e Club Med vendono ai loro clienti un’esperienza esplicitamente ‘mediata’ e quindi depurata del rischio dell’esperienza, Tribe Wanted nasconde la mediazione organizzativa e vende la simulazione del rischio del confronto non mediato con la realtà. Dal viaggio come immersione attraverso uno scafandro al viaggio come immersione con mute sempre più sottili che fanno percepire un gradiente maggiore delle stimolazioni dell’ambiente circostante. “Quello che tutte queste proposte hanno in comune è una nuova concezione del bene di consumo” Gli esempi in questo senso non mancano: dai corsi di sopravvivenza alle ‘cacce al tornado’, dal dark tourism, che esplora i luoghi che sono stati teatro di tragedie, stragi e calamità, al turismo nelle zone più pericolose del globo. Robert Y. Pelton ha pubblicato recentemente la nuova edizione di The World Most Dangerous Places, e su Comebackalive. com ha attivato il Dangerfinder, una mappa dei luoghi più pericolosi del mondo. Globaladrenaline.com offre una serie di viaggi avventurosi più o meno ‘estremi’ classificati per livelli di difficoltà che vanno dal “facile” all’“arduo”. La Incredible Adventures Inc. offre esperienze di vario tipo come volare su Mosca a bordo di un MIG 29 o addestrarsi per quattro giorni insieme alla squadra speciale anti-rapimenti di Seattle. La russa Armiya Tur (Army Tour) è specializzata in turismo militare. Per 3000 rubli potrete vestire per 48 ore i panni di una recluta in un campo di addestramento militare russo. I tutor sono veterani della guerra in Cecenia “che hanno molta esperienza e sono ansiosi di condividerla”. Quello che tutte queste proposte hanno in comune è una nuova concezione del bene di consumo: non più un prodotto, non più un servizio, ma un set di condizioni che offre delle potenzialità di esperienza. In una cultura basata sulla logica della mediazione, in cui tanto il rapporto col mondo naturale quanto i rapporti sociali sono sempre più articolati dalla tecnologia, la merce più preziosa è l’immediatezza. Che sia reale o simulata poco importa. Seguendo il Falak: La voce del destino Fotografie: Stefano Triulzi Testo: Federico Spinetti e Stefano Triulzi Traduzioni dal persiano: Federico Spinetti fino al 2002 nemmeno sapevo dove si trovava il Tajikistan, solo mi ricordavo di una guerra civile sanguinosa che lo coinvolse dal 1992 al 1998. Oggi dopo 3 viaggi nel paese, so che la repubblica del Tajikistan è uno stato indipendente nel cuore dell’Asia centrale, che è il terzo paese con più acqua dolce al mondo (dopo Russia e Canada) e che tra le sue alte montagne e le sue valli risuona ancora la voce del falak, falak letteralmente ” volta del cielo” o “destino”. “Il capitalismo genera il superfluo, e siamo noi i primi a essere superflui“ Hannah Arendt A introdurmi alla musica Falak fu un caro amico, Federico Spinetti etnomusicologo e professore all’università di Edmonton in Canada. Quando nel 2003 lo raggiunsi per la prima volta nella capitale, a Dushanbè, lui viveva da più di un anno frequentando musicisti, condividendone il quotidiano, e apprendendone la 53 lingua, il Farsì tajiko. Insieme partimmo, con Muhammadali Nurali noto poeta tajiko e Muhammadvali Hasanov, musicista di Falak, su di una UAZ, carica di benzina e wodka, per un viaggio verso sud, a ridosso del confine afgano nella regione di Kulyab, da sempre tra le aree più povere del tajikistan, che si stende tra pianura e ampie valli cinte dalle vette immense ai piedi del Pamir. Qui ancora regna la tradizione e l’impegno principale è il lavoro nella casa , la cura dei campi di frumento,degli alberi da gelso per i bachi da seta,l’ ingrasso delle pernici catturate, e accudire il poco bestiame. Il buon vivere della comunità, comunità così come l’economia stessa del villaggio, dipende non tanto dalla somma dei processi individuali o dalle sfere private, ma dall’intensa solidarietà comunitaria, del lavoro in collaborazione, da estese reti di legami familiari e di vicinato, dall’autorità degli anziani. A sud abbiamo viaggiato e soggiornato a lungo, accolti in ogni casa come amici e ospiti amati. “Benvenuto” era la parola più detta; detta l’ospitalità e uno dei doveri principe di un buon musulmano e i Tajiki a ragione si fregiano d’averla particolarmente a cuore. Queste aree rurali sono il bacino vitale della ricchissima tradizione musicale del sud. La musica viene eseguita in occasione si matrimoni, feste di circoncisione, in connessione al lavoro agricolo o per genuina passione personale nell’ambiente domestico o in compagnia di pochi intimi. Se tu verrai dinnanzi a me Se tu verrai dinnanzi a me quando ormai nella terra sarò sepolto “ benvenuto” io ti dirò, “benvenuto” ti dirò anche se dal sudario sarò avvolto. Il Falak (destino) è il genere di canto più diffuso nel repertorio popolare del sud; si racconta che in origine fosse eseguito lontano dal villaggio, nelle pause di lavoro in tempo di mietitura o in alto su un monte nella solitudine dei pascoli. Poesia popolare Canto di separazione per eccellenza, rivolgendosi al cielo come una preghiera il falak dà voce a profonda sofferenza, al dolore della lontananza da casa e dalle persone care, allo strazio dell’esilio, al senso della fragilità dell’esistenza. Destino, sulla ruota tua mi hai trascinato Ero di Kulyab, fino a Balkh mi hai trascinato Ero di Kulyab e dolce acqua bevevo là Dalla dolce acqua a quella amara mi hai trascinato Stefano Triulzi e Federico Spinetti hanno ideato un progetto multimediale (musica, foto, documentari) per preservare, divulgare e condividere le tradizioni popolari del Tagikistan. Questo viaggio condiviso è stato adottato dalla British Sound Library Archive che distribuisce il CD musicale. www.inthemiddleofasia.com Poesia popolare 56 57 I vini dell’Alto Adige Scusi, cusi, dov’e’ l’uscita? Per nulla comuni, ma fatti in comune La mente è come un paracadute: funziona solo quando è aperta di Matteo Catoni sommelier A.I.S. DK photography tardato a manifestarsi, perché alla fine i buoni propositi e le belle parole contano poco se nel bicchiere non si ha il necessario riscontro nel corso delle degustazioni. E’ opinione ormai diffusa che il primato nella produzione dei vini bianchi italiani spetti a questa regione che, anche nelle annate non di grazia, si attesta su una qualità produttiva ottima, dimostrando come l’impegno e la dedizione dei coltivatori attenti sia in grado di colmare le bizzarrie di un clima non sempre clemente. Basta assaggiare uno degli incredibili Gewurztraminer (vitigno di cui la località Tramin rivendica la paternità enologica) di queste zone per rendersi conto dell’imponenza e della sontuosità di questi vini. In particolare il Traminer Speziato (detto appunto Gewurztraminer), riconoscibile già dai suoi acini che presentano un’affascinante colore che spazia dal grigio al rosso bruno, facendo parte della ristretta schiera dei vitigni aromatici, è giocato inevitabilmente su dei sentori donati dalla sua varietà (riconducibili in questo caso alla rosa gialla). In questa zona però questo vino, grazie alla particolare conformazione del terreno in cui spesso il calcare la fa da padrone, riesce a sviluppare delle note minerali incredibili ed uniche che lo rendono facilmente riconoscibile ed apprezzabile. Non vanno inoltre trascurati prodotti che si ottengono da altre qualità a bacca bianca come il Pinot Bianco, lo Chardonnay ed il Riesling che trovano in questa regione una terra di adozione particolarmente vocata. Visitare la Strada del Vino dell’Alto Adige, perdersi nelle stupende vallate, rimanere affascinati dai colori e dai profumi di questa terra, per poi ritrovarli e riscoprirli nel bicchiere, è un’esperienza di cui nessuno dovrebbe privarsi. Nicolas Mt Jonathan J Mackintosh Quando immaginiamo l’Alto Adige il nostro pensiero si sofferma su paesaggi di montagna, su prati innevati, su cime maestose e valli incontaminate, e sicuramente questa regione, almeno a livello naturalistico, potrebbe essere descritta in questo modo. Al contrario, se cerchiamo di comprendere la situazione enologica di questa luogo, il quadro generale risulta più complesso, e sembra difficile afferrare la magia che sostiene la realtà delle cooperative vinicole altoatesine. Un semplice numero, appare in grado, in quest’occasione, d’illustrare al meglio l’attuale situazione: il 75% della produzione regionale proviene dalle Cantine Sociali, da una miriade di soci che scrupolosamente seguono le direttive dei Kellermeister (i responsabili enologi delle varie cantine) ed ogni anno forniscono delle uve incredibili per qualità e quantità. Il sistema cooperativo è tanto semplice quanto funzionale: ogni vignaiolo, a seconda dell’annata, del posizionamento del vigneto e dalla sanità delle uve, riceve un pagamento proporzionale alla qualità del prodotto che fornisce alla cantina. I parametri per giudicare le uve presentate dal vignaiolo vengono decisi dai tecnici dell’azienda e dai produttori, che divengono quindi garanti e controllori di loro stessi, creando una sana competizione che cerca in ogni stagione di incrementare la qualità della materia prima, parametro che rappresenta la vera e propria pietra angolare per la fattura del vino che verrà. Nel titolo si leggeva così lontano così vicino, ed è chiaro il significato di queste parole se si pensa all’Alto Adige come regione italiana è quindi territorialmente vicina, ma lontana per la realtà enologica che si è sviluppata, assolutamente priva del rovinoso e deleterio campanilismo che anima molte zone del panorama produttivo della nostra penisola. Condivisione è la parola che esprime al meglio lo spirito che anima le persone di quei luoghi; la volontà di muoversi nella stessa direzione, puntando sugli stessi sistemi di coltivazione volti alla qualità, essendo ben consci che in questa situazione l’unione tra le parti non rappresenta solo la somma delle stesse, ma quel quid in più che rende unico nel mondo questo territorio vitivinicolo. A conferma di tutto ciò le verifiche sul campo non hanno di Mario Vigna foto di Sham Shahrin Avete presente il tipico aspirante suicida sul cornicione, con la folla sotto che lo prega di rinsavire e tornare sui suoi passi? Beh, levategli quell’aria spaurita da “la faccio finita” e mettetegli una tuta, un paracadute e condite il tutto con un bel po’ di adrenalina da sport estremo: quello che otterrete è un BASE Jumper. che ti prende nel momento in cui sei in caduta libera, quando nuoti nell’aria e “l’infinito sembra ti circondi e colpisca da tutte le direzioni” come dicono i base jumper. Con il base jumping i tempi sono ridottissimi rispetto ad un lancio normale e “aprire la vela” al momento giusto, come si dice in gergo, è assolutamente fondamentale. Il termine BASE dice già tutto, infatti è un acronimo che sta per: B. Building (Palazzo) - A. Antenna - S. Span (Ponte) - E. Earth (Terra, Montagna), ovvero tutti i punti fissi da cui si può saltare, basta che siano ad un’altezza superiore ai sessanta metri. Il termine saltare poi forse è un po’ riduttivo, un Base Jumper direbbe “trovare una EXIT” ovvero un punto dal quale spiccare un volo come fosse una vera e propria uscita dal mondo. Tecnicamente se nella vita si salta da tutti e quattro i punti fissi della parola base allora si è ammessi nell’Olimpo di chi ha fatto un “base number”: il Club degli Angeli. Alcuni esponenti del Club degli Angeli, una sorta di community internazionale dei Base Jumpers, spiegano che il Base Jumping può apparire ad una prima occhiata come una specie di mix tra paracadutismo e bungee jumping, ma la realtà è molto diversa. Sebbene ci siano delle ovvie affinità ed avere un brevetto da paracadutista è un requisito essenziale, la filosofia del base jumper è sostanzialmente focalizzata sulla ricerca delle EXIT. Ognuno vuole trovare il proprio punto di stacco e poi godersi quel volo a duecentocinquanta orari fatto di paura, adrenalina e pensiero che frulla in testa per i circa 10-15 secondi tra il salto e l’atterraggio. Bisogna tener conto che per un salto spiccato tra i sessanta e i novanta metri di quota, il tempo dedicato alla caduta libera, ovvero prima di aprire il paracadute, non può andare oltre i due secondi, questo sempre se si vuole evitare di diventare dei budini. Il rischio dei più inesperti è quello di venire colti da quella smania di “non aprire il paracadute” Ritornando ad aspetti meno tecnici e più spirituali dicevamo che trovare la propria EXIT è la maggiore soddisfazione per un base jumper. E’ per questo motivo che essere il primo a buttarsi da un determinato punto non è come saltare per secondo. Il volo è uguale ma è come entrare in una città proibita dopo che qualcun altro l’ha già violata: sarà per sempre quest’ultimo che racconterà l’impresa e quello che ha scoperto. Legalmente parlando mentre negli States il base jumper è vietato e si possono addirittura rischiare accuse che vanno da “spettacolo abusivo” sino ad “istigazione al suicidio”, da noi non c’è alcuna normativa che vieti di per sé i salti, ovviamente nel rispetto delle proprietà private e statali e del necessario brevetto da paracadutista. Il Colosseo è salvo per motivi di altezza mentre la Madonnina del Duomo di Milano, con i suoi 108 metri di altezza, se non fosse per le navate sottostanti, uno di questi giorni avrebbe già potuto rischiare di trovarsi accanto un tizio in tuta e paracute, un po’ come è successo al Cristo Redentore nella foto. Ironia a parte se non soffrite di vertigini, se a teatro vi è sempre piaciuta più la galleria che la platea e se a volte le mura del vostro ufficio vi sembra che si stiano comprimendo sino a schiacciarvi allora state attenti: il prossimo in tuta e paracadute, che la folla ha scambiato per un aspirante suicida e che in realtà ha trovato la sua exit sul cornicione al 20 piano dell’ufficio, potrebbe essere uno di voi…Se invece non avete il brevetto da paracadutista ricordate che la fantasia resta il salto più bello che c’è 59 Legalmente parlando negli States il base jump è vietato e si possono addirittura rischiare accuse che vanno da “spettacolo abusivo” sino ad “istigazione al suicidio” e già solo l’immaginare di lanciarsi dalla Torre Eiffel come nei film di James Bond…un brividino per la schiena lo fa passare eccome! Giuseppe “Bepi” Hoffer è uno dei più famosi base jumper d’Italia. Ideando e curando il sito www.baseitalia.com, un vero e proprio vademecum per chi si avvicini al mondo base jump, Bepi Hoffer ha deciso di rendere merito ai luoghi della sua terra, il Trentino, rendendo partecipe la gente della bellezza di montagne come il Monte Brento che con il suo “becco d’aquila” e la sua parete “vertigine” è il trampolino ideale di ogni base jumper che si rispetti. E lui con i suoi 25 anni di paracadutismo e 10 di base jump è una delle massime autorità del luogo. Dopo vari tentativi abbiamo raggiunto Giuseppe “Bepi” Hoffer telefonicamente mentre si trovava in mare al largo della Croazia, .su una barca a vela Mario Vigna - Non mi aspettavo di trovarla su una barca, quanto piuttosto su qualche cima pronto a saltare… Bepi Hoffer - In realtà lo skipper è un’altra cosa che mi piace fare, soprattutto quando si unisce ad un’iniziativa di solidarietà come quella che porto avanti da qualche tempo: fare navigare in barca a vela disabili e malati psichici. Al momento siamo vicini le coste della Croazia ma il prossimo viaggio in programma è ripercorrere la rotta che fece Cristoforo Colombo ed arrivare sino a Cuba. Sarà una bella esperienza per tutti. M.V. - Complimenti, splendida iniziativa. Immagino che ora abbia un po’ meno tempo per buttarsi dal Monte Brento? B.H. - E’ così, ma non appena trovo l’ispirazione per un salto non me la lascio sfuggire. Sarà sempre una passione e sono anche lieto che in questi anni il numero dei Base Jumper sia progressivamente aumentato e che molti paracadutisti si siano fatti prendere dalla “filosofia della exit”. Molti però, e ci tengo a sottolinearlo, spesso tendono a confondere il termine “estremo” con “privo di senno”. Bisogna ricordarsi che se c’è l’estremo c’è anche il rischio di perdere la pelle quindi non ci si può improvvisare base jumper. M.V. - E’ per questo che ha proposto insieme ad altri base jumper di autoregolamentare l’attività di base jump sul Monte Brento? B.H. - Sì, chiaramente. Dopo aver visto gente perdere la vita ed altri andarci molto vicino io e gli altri paracadutisti trentini abbiamo ritenuto doveroso porre dei requisiti di sicurezza per i salti, nonché definire una sorta di albo degli istruttori dotati di quell’autorevolezza per organizzare i corsi ed accompagnare gli aspiranti base jumper nei salti. Deve essere chiaro che il base jumper non è uno che prende e si butta da un palazzo o una montagna senza valutare i molti aspetti che coinvolgono il lancio come ad esempio il clima e lo studio dei tempi massimi per l’apertura della vela. A buttarsi da una montagna si può passare da folli ma certo non da scemi. M.V. – Lei è stato il primo a gettarsi da un aereo ed atterrare “di precisione” sul Monte Bianco e sul Cervino. Brividi diversi rispetto al base jump? B.H. - Abbastanza. Specie il Cervino è uno dei miei ricordi più belli. Atterrare su una cima di una montagna con un paracadute è un qualcosa di “estremamente estremo” se mi passa il gioco di parole. Quando fai base dopo pochi secondi devi aprire il paracadute 60 e diciamo che l’atterraggio è la parte meno difficile, specie se sei un paracadutista esperto. Quando arrivi sulla cima del Cervino non puoi sbagliare, pochi centimetri in là c’è il vuoto e non hai un altro paracadute da aprire. Per me che sono uno scalatore nell’animo è stata un’emozione sfidare la montagna dall’alto. Nel base jump invece l’adrenalina è nel momento in cui sei sulla exit. Ne ho visti tanti arrivare in cima, guardare giù e riprendere la strada da cui erano saliti senza buttarsi. M.V. - Il base jump è uno sport costoso o alla portata di tutti? B.H. - Bè, certo non è come giocare a tennis o a calcio. Di per sé bisogna avere una lunga serie di lanci col paracadute alle spalle e questa già è una bella spesa da mettere in conto. Per quanto poi riguarda il base jump in sé e per sé, la spesa, come in tutti gli sport del resto, dipende da che livello uno voglia praticare. Faccio un esempio: quasi tutti all’inizio comprano un paracadute monovela con imbraghi e attrezzatura per i quali i costi si possono contenere intorno ai 2.500 euro. Io che oramai faccio salti anche da punti altissimi, con vari secondi tra il salto e l’apertura della vela, utilizzo un paracadute doppio ed una tuta alare. La spesa per tale attrezzatura è dai 6.000 euro in su. M.V. - Un’ultima domanda. Cosa cerca un base jumper? B.H. - Le posso dire cosa cerco io: precipitare a 200 km all’ora lungo la facciata di una montagna, il sibilo del corpo che cade nel vuoto, l’apertura della vela al momento giusto, la natura di cui posso godere mentre plano lentamente e la conquista del vuoto stesso. Adrenalina al mille per mille. sottoscala codice binario di Roberta Casasole L’interregionale Roma Termini-Ancona delle 16.14 è sempre in ritardo. Sempre. Non vale manco lo sforzo statistico, la media dei ritardi tende a infinito. Chi, come me, scende a Orte per prendere la Freccia dell’Alta Tuscia che fende l’aria fino alla stazione di Viterbo è destinato a perdere sempre la coincidenza. Sempre. E se scrollandoti di dosso la perniciosa rassegnazione del pendolare, ti azzardi a chiedere all’ufficio relazioni con il pubblico di Trenitalia perché la coincidenza non aspetti l’arrivo degli unici passeggeri che la frequentano, l’addetto ti dà una risposta dall’alto valore semiotico. Cioè che la parola “coincidenza” non esiste più nei codici ferroviari, ora i treni sono tutti uguali e tutti, democraticamente, indipendenti l’uno dall’altro. Un mese fa codesta coraggiosa scelta liberale ha inspiegabilmente scatenato le ire di viaggiatori nostalgici del ventennio in cui i treni non tardavano mai, tanto che hanno presentato formale denuncia ai vertici dell’azienda monopolista. Così un giorno accade l’incredibile. Appena salgo in carrozza sento che qualcosa non va. Cos’è questo senso di libertà che mi invade? Cos’è questa frizzante atmosfera che mi dà i brividi? Non mi sembra vero, è l’aria condizionata! Entro in uno scompartimento da sei e trovo un posto libero. Mi siedo e mi guardo intorno. Ero circondata da cinque tipi gessatomuniti, precisi, sicuri, belli dentro. Tanto da non sembrare diretti ad Ancona. Comincio ad ascoltarne i discorsi per cercare di capire chi siano e cosa facciano su questo torrido interregionale, ma non ci capisco niente. Parlano uno strano gergo fatto di numeri e misure. Poi l’illuminazione. Se non riesco a capire cosa dicano non possono altro che essere manager di Trenitalia. Quelli imputati per concorso di colpa nel conio di espressioni tipo Treno Trenitalia attestato ad altro treno in sosta - per dire che il tuo treno si trova in fondo in fondo al binario, dopo un altro parcheggiato sulla stessa corsia – Treno in ritardo per guasto al materiale rotabile - per dire che il tuo treno ha una gomma bucata (?) e non partirà. Quelli che hanno scelto Celentano per testimonial – affidabile e rassicurante proprio come un treno – in una storica campagna ormai usata dai docenti universitari di comunicazione come aneddotica da risveglio per studenti annoiati. I manager, dopo averla fatta accendere personalmente, stanno controllando che l’aria condizionata nei vagoni sia stata accesa e, alzando indianamente il dito indice al soffitto, convengono che lo è. Bugiardo d’un pendolare! Poi debbono verificare che questo interregionale bistrattato da tutti arrivi in orario. Dopo qualche minuto dalla partenza si accorgono che il treno è già in ritardo. Cosa fare? Dare ragione al pendolare infingardo, scrivendo nel rapporto che pure oggi la coincidenza salta, oppure agire per modificare la realtà come un buon manager deve fare? Uno dei cinque si alza. È il più prode. Va dal capotreno e dopo qualche minuto torna dicendo che l’ha fatto mettere a 93. Il treno, of course. Non so cosa significhi, ma un istante dopo vedo la velocità correre nei finestrini. Siamo al galoppo, andiamo forte. Alle 16.59 spaccate siamo a Orte e la coincidenza, linda e pinta, è lì che ci aspetta. Questo per dire che la differenza fra il manager e il pendolare (e consimili) è uguale alla differenza che passa tra 93 e 90. Misurabile sia in chilometri orari che in gradi. 61 Cinema a cura di Marisa Orlando Il diavolo veste Prada (The devil wears Prada) Regia: David Frankel Cast: Alexie Gilmore, Suzanne dengel Seigner, Colleen dengel Seigner, Valentino Carpio, Heidi Klum Sceneggiatura: Aline Brosh mckenna Data di uscita: Venerd ì 13 Ottobre 2006 Generi: Commedia, Drammatico Distribuito da 20th Century Fox Italia Il lungometraggio più atteso dai “fashionists” di tutto il mondo non poteva che nascere sotto il segno del pettegolezzo. Sembrerebbe, infatti, che l’autrice del romanzo da cui è stato tratto il film (Lauren Weisberger) si sia ispirata alla sua ex datrice di lavoro (Anna Wintour capo supremo di Vogue America), per il personaggio di Miranda Prestley la direttrice di un fashion magazine, dispotica e capricciosa con la quale dovrà vedersela Andrea, giovane ragazza di provincia, aspirante scrittrice. Tra vestiti di lusso, feste esclusive, cascate di flash e fiumi di champagne, il film sul ritratto dei vizi e le dissolutezze del mondo della moda a New York, e non solo, sarà diretto da David Frankel, regista del celeberrimo serial televisivo Sex & the City. Il cast quantomeno incuriosisce: la diabolica direttrice sarà interpretata da una sfavillante e grintosa Meryl Streep, la “Pretty Princess” Anne Hathaway vestirà i panni della giovane assistente, lo stilista Valentino sarà se stesso... Dvd in uscita Milano / Mediateca di Santa Teresa Meet the Media Guru: Golan Levin - 20 ottobre MGM Digital Communication organizza un incontroperformance con Golan Levin, discepolo di John Maeda all’Aesthetic and Computation Group del MIT Media Lab di Boston. Levin è considerato uno dei più importanti esponenti mondiali della media art, e presenterà il suo progetto di manipolazione e sinestesie di suoni e immagini. Il progetto è promosso da Forum Net Economy, Comune, Provincia e Camera di Commercio di Milano. www.meetthemediaguru.org Ben Harper and the Innocent Criminals Roma 13, Milano 15, Bologna 16 ottobre Dato l’enorme successo - di pubblico e critica - del tour italiano della scorsa estate, Ben Harper and The Innocent Criminals tornano in Italia con tre date. Il cantante ha promesso che presenterà i successi del nuovo album “Both Side of the Gun” assieme agli indimenticabili brani che lo hanno reso famoso. Elisa 28 ottobre Roma, Auditorium Parco della Musica L’impegno con l’Unicef, ma anche l’abbraccio della folla durante la vigilia della notte bianca, dove ha ricordato a tutti con il ritornello dei White Stripes chi fossero i campioni del mondo di calcio: queste le premesse per il concerto nel tempio della musica di Roma di Elisa. Roma / Teatro sala Umberto La Baita degli Spettri - dal 26 settembre al 22 ottobre Lillo e Greg, dopo le esperienze televisive e il programma radiofonico di Radio2 “seiunozero”, tornano a teatro con una commedia a metà tra il giallo e l’horror. Giocano con gli stereotipi, e mettono in scena alla fine dello spettacolo i “contenuti extra” come fosse un dvd di presunti errori e scene tagliate dallo spettacolo. Placebo 9 ottobre Milano, 25 novembre, 26 novembre Bologna Dopo aver festeggiato i primi dieci anni del loro primo, omonimo, album i Placebo suoneranno in Italia presentando alcuni brani del loro ultimo lavoro, “meds”. A giugno i Placebo annullarono due concerti italiani per l’infortunio del batterista della band. Milano / Teatro della Luna Jesus Christ Superstar - dal 19 ottobre al 5 novembre Sacro e profano. La parabola della musica rock che diventa la storia di Cristo e viceversa. Oltre due milioni di persone lo hanno già visto in tutto il mondo. Ora il capolavoro di Andrew Lloyd Webber sarà messo in scena interamente tradotto in italiano dalla Compagnia della Rancia. La regia sarà affidata a Fabrizio Angelici. Luciano Ligabue Dal 03 ottobre a Verona al 09 dicembre a Livorno Il rocker di Correggio continua il suo lungo tour – “nome e cognome tour/2006” – che, diviso in tre parti, ha già più volte attraversato l’Italia. Dopo i club e gli stadi, questi nuovi 24 concerti saranno tutti organizzati nei teatri. Roma / Auditorium The Andersen Project - dal 27 al 29 ottobre Nell’ambito del Romaeuropa festival, l’eclettico artista Robert Lepade porta a Roma una straordinaria lettura dello scrittore Hans Christian Andersen: due ore di intrattenimento che utilizza luci, suoni e le (ri)letture da La Driade e L’Ombra. www.ticketone.it www.greenticket.it www.blueskypromotion.it 62 Radio America Regia: Robert Altman Produzione: U.S.A. – 2006 Commedia/Musicale Durata: 100’ Cast: Garrison Keillor, Woody Harrelson, L. Q. Jones, Tommy Lee Jones, Kevin Kline, Lindsay Lohan, Virginia Madsen, Jonathan Mankuta, John C. Reilly, Maya Rudolph, Tim Russell, Sue Scott, Meryl Streep, Lily Tomlin Sceneggiatura: Garrison Keillor L’ultimo giorno di vita del glorioso programma “La voce amica della prateria”, istituzione radiofonica statunitense, è solo il pretesto per raccontare uno spaccato dell’America che non c’è più: quella degli slogan ingenui che propongono caramelle al rabarbaro e fagioli in scatola, della musica country che racconta storie d’amore e di fede, di cantanti vestiti da cowboy che scandalizzano il pubblico con battute scurrili. Robert Altman, massimo esponente del cinema corale, offre questo film come un delicato dedalo di generi (drammatico, sentimentale, giallo, western, supernatural movie) e se in The Company raccoglieva la sfida di filmare la danza, con Radio America scatena il paradosso del mezzo cinematografico che si sovrappone a quello radiofonico: del film che racconta la radio nel cui solco vive un vespaio di passioni come disturbi di frequenza alla messa in onda. Dvd da riscoprire Il Re e la Regina Regia: Arnaud Desplechin Produzione: Francia – 2004Drammatico/Commedia Durata: 150’ Interpreti: Emmanuelle Devos, Mathieu Almaric, Cathrine Deneuve, Maurice Garrel Sceneggiatura: Roger Bohbot – Arnaud Desplechin Arnaud Despechin, autore di straordinario spessore, in Rois e Reine, opera presentata alla rassegna veneziana del 2004, miscela strizzando l’occhio a Truffaut registri differenti (cinema, teatro, televisione, filmati di repertorio) mantenendo sempre equilibrio e tensione ammirevoli. Questo lungometraggio (denso e intenso) si sviluppa lungo due canali conduttori, due storie che seguono percorsi differenti, nella forma e nella sostanza. Le lacrime e i sorrisi, i dolori e le gioie, rotolano come sassi lungo il sentiero; a unire, a dare senso all’esistenza, solo il passato, nascosto e apparentemente dimenticato dietro morbidi sguardi. Dove la follia sembra insinuarsi senza pietà, i ricordi percorrono leggeri la quotidianità in disgregazione, per poi tornare prepotentemente nel presente con la forza travolgente della vita di un uomo e una donna uniti dall’inspiegabile destino di essere, loro e solo loro insieme, il Re e la Regina. 63 a cura di Francesca Pispisa a cura di Krasnapolsky, con la collaborazione di Alessandro D’Ottavi slint spiderland Casa discografica: Touch and Go Records, 1991 Antianti il tappeto dava un tono all’ambiente Casa discografica: Metatron Records, 2006 1991. Folle crescenti di giovani rockers iniziano ad agitarsi sulle note di Smells Like Teen Spirit, inseguiti da discografici pronti ad azzannare il fenomeno Grunge. Da un’altra parte, 4 ragazzi del Kentucky pubblicano nella generale indifferenza il loro secondo e ultimo disco, destinato negli anni a lasciare sul sentiero del rock una traccia non meno importante, per quanto assai meno segnalata dalle guide, di quella prodotta dal terremoto di Seattle. Gli Slint prendono l’hardcore di fine anni ’80, lo contaminano con la New Wave più decadente, ne frammentano le strutture ritmiche e armoniche, ne svuotano l’irruenza in un gioco di tensioni contrastanti, e approdano a un nuovo mondo sonoro, che qualcuno avrebbe poi battezzato post-rock. Spiderland contribuisce in maniera decisiva a fissare i canoni del genere, tra sospensioni catatoniche e furiose esplosioni. Le 6 canzoni, ripetono in gran parte un analogo schema compositivo, fondato sull’incedere di scarni e ossessivi accordi di chitarra, su arpeggi melodici e improvvise dissonanze, su controtempi e crescendo emozionali che sfociano in rabbiose deflagrazioni chitarristiche, per poi tornare circolarmente all’iniziale, malinconica e paranoica quiete. La voce sta al gioco, recitando in un sussurro testi visionari e laceranti, e sprofondando in drammatiche urla di dolore, fino al conclusivo grido I Miss You che chiude l’ultimo brano e la parabola degli Slint. Il tappeto dava un tono all’ambiente è il primo disco solista di Dade, bassista dei Linea 77, qui nascosto dietro lo pseudonimo di antianti. Solista è però definizione bizzarra per un’opera collettiva che rappresenta in un certo senso un esempio di produzione musicale open source. Nato 3 anni fa nella solitudine di un granaio, sviluppatosi attorno a spunti melodici e ritmici buttati giù da Dade nelle pause del lavoro con i Linea 77, il progetto ha vissuto la sua fase decisiva con la scelta di coinvolgere amici e conoscenti, spedendo loro quegli abbozzi di canzone. Con un’attitudine tipica della scena elettronica inglese e dell’hip hop americano, ma meno comune nel panorama italiano, Dade ha vestito gli abiti dell’autore-produttore, raccogliendo attorno a sé (ma con contatti prevalentemente telematici) Samuel e i Cor Veleno, Fabri Fibra e Miss Violetta Beauregarde, Caparezza e Gionata dei Super Elastic Bubble Plastic. Tutti chiamati a sviluppare, con testi e voce, il codice sorgente di Dade, e a rispedirlo modificato al mittente per il lavoro finale di arrangiamento e il missaggio. I molti ospiti hanno senz’altro aiutato Dade a dare forma a una ricca ed eterogenea ispirazione musicale. Il risultato è un disco capace di unire violenza hardcore e intimismo folk, invettiva hip hop e schitarrate surf, beats elettronici e aperture pop, con un approccio volutamente lo-fi e sperimentale che rappresenta il vero filo conduttore dell’album, e con un gusto fortemente giocoso e ironico che trova sfogo nei molti intermezzi parlati. Ultima nota di merito per il titolo, che cita l’indimenticabile capolavoro dei fratelli Cohen “Il Grande Lebovsky”. Sergio Caputo, Ne approfitto per fare un pò di musica (Live), Casa discografica: Warner, 1987 Chi l’ha detto che il Jazz debba essere una musica seriosa, complicata, zeppa di assoli, intellettuale e snob (sic)? La “Black Classical Music”, come amava chiamarla Nina Simome, nasce come musica di intrattenimento popolare, come musica leggera, divertente (!) e, soprattutto, come musica da ballare. Per quanto Arrigo Polillo possa alzare compulsivamente il sopracciglio, il disco di Sergio Caputo ha il pieno diritto di essere trattato in questa sede. Per fortuna il primo gesto di incoraggiamento arriva da GraceNote® CDDB che senza esitazione alcuna classifica Ne approfitto per fare un pò di musica (Live) come disco Jazz. D’altronde le frequentazioni di Sergio Caputo con l’ambiente Jazz tolgono ulteriormente e definitivamente ogni dubbio. In particolare, Ne approfitto per... suona molto swing, be-bop e latin, con delle – poi non tanto – sporadiche accellerate di swing da farvi credere per un attimo che qualcuno a vostra insaputa abbia cambiato il CD nel lettore. Il risultato è un piccolo capolavoro di musica, poesia e vitalità che ha il merito assoluto di ricordare che il Jazz è musica da godere, e basta. 64 Saggio sulla lucidità, di José Saramago Einaudi, pag. 290 Una città anonima in un Paese anonimo, uguale in tutto a qualunque città, di qualunque Paese, in Occidente. La città è una Capitale sonnecchiante e mediocre che sbandiera stancamente vassalli polverosi di libertà e democrazia. Un giorno qualunque di un’elezione qualunque succede l’impensabile: la popolazione intera si sveglia unita, forte e silenziosa. Un passa parola muto produce il più incredibile dei boicottaggi; è inaudito, folle, inconcepibile: è la paralisi. Il Governo è impietrito di fronte all’incalcolabile, imprevedibile rivoluzione: un diritto fondamentale nell’istante in cui è esercitato unanimemente annulla di fatto qualunque diritto. Il panico si impossessa della classe politica intera, che si cimenta dunque nelle arti sopite ma per secoli allenate, esercitate e mai scordate: repressione, spionaggio, fuga. La popolazione sembra rimanere impassibile, composta, discreta, di una normalità fuorviante. Il paradosso si fa giallo, una donna misteriosa, una forza positiva innaturale. La storia rimanda al passato, quattro anni prima, una malattia diversa eppure così simile si era già impossessata di quella stessa città. La dirigenza deve capire, e deve colpire. La mente è articolata, è reale ed è malata, il braccio è quello di sempre, un commissario, un ispettore, un agente. Questi ultimi vorrebbero capire, vorrebbero dipanare il mistero, vorrebbero fare la cosa giusta, vorrebbero davvero non essere solo braccio. Il finale ci lascia senza fiato perché avremmo davvero sognato di svegliarci, in un giorno qualunque di un’elezione qualunque, tutti così. Ma basta un pizzico dell’esasperante lucidità di questo libro per sapere che il finale sarebbe comunque quello, in ogni caso, con ogni mente e con ogni braccio. La scrittura di Saramago, Premio Nobel per la Letteratura nel 1998, è intensa, travolgente, virtuosa. Restiamo incollati alle pagine di questo romanzo-thriller straordinario e l’invito a riflettere si fa imperativo. Rwanda. La notte delle stelle cadute, di Roberto Mauri. Edizioni dell’Arco, pag. 85 Questo piccolo libro è un invito a ricordare quello che è sempre così facile scordare, un invito a conoscere quello che è sempre così facile non sapere. Non è difficile ricordare il Ruanda, la follia omicida che attraversò questo piccolo Paese dilaniandolo e arrivando fino ai nostri telegiornali nella primavera del 1994: 100 giorni e quasi un milione di morti. Un genocidio annunciato cui vollero restare indifferenti tutti, governi francese e belga, Nazioni Unite sollecitate disperatamente, il mondo intero. Ma il Ruanda esisteva prima di quel 6 aprile in cui dal cielo caddero tutte le stelle. Il Ruanda viveva prima di quell’inferno che ne ha per sempre devastato la storia. Di quel Ruanda ci racconta Roberto Mauri, di quel prima, accompagnando un bambino per un breve tratto. Clément ha poco più di otto anni e guarda il suo mondo, la sua casa, la mamma che vorrebbe e che non ha, la scuola, con gli occhi di un bambino qualunque. Un bambino africano però, che vive quindi, fin dalla più tenera infanzia, un’assurda combinazione di innocenza e maturità. Clément ama giocare come qualunque bambino, conosce e riconosce il dolore come qualunque adulto, inghiotte ingiustizia e impotenza come qualunque africano. E’ bello Clément, con i suoi amici Ziadi e Fils e Juste-de-Dieu, mentre fanno il tifo perché una zanzara non vinca e non si porti via Jasmine. Conosce la morte Clément. I bambini giocano nei bananeti mentre i padri bevono. Vanno a scuola senza uniformi tentando di compiacere “Madame”. Stanno a sentire diligentemente i dottori “Muzungu” senza capire di che parlano. E ascoltano distrattamente una radio gracchiante. E’ la “radio delle mille colline”, e sta dicendo che bisognerà ammazzare tutti gli scarafaggi, sterminarli nelle case, nelle scuole, nelle chiese. Un vecchio saggio spiega a Clément che c’è da aver paura, che gli scarafaggi sono in realtà tutti loro. Lo sapevano anche in Europa, e nel palazzo di vetro a New York, ma questo Clément non lo sa. E nel palazzo di vetro si è guardato da un’altra parte e Clément ci ha pensato e ripensato, ma come tutti noi? Si sono mai visti in Ruanda bambini con la faccia da scarafaggio? Work ork in the city, write in the city Questo è il racconto che abbiamo scelto per il numero autunnale di 7th Floor, dopo il bando del concorso del settimo floorilegio. Continuate a spedirci numerosi i vostri racconti da 1 cartella a [email protected] Tagli agli indispensabili C’è un odore stagnante qui dentro. Un misto di cenere fredda, idee già avute da altri e scarsa igiene personale. Sono solo le nove e mezza, ma sono tutti già schierati davanti alla macchinetta del caffè, il totem aziendale a cui sacrificare vecchie segretarie e giovani stagisti. Ci sono proprio tutti. Il manipolatore, il simpatico, l’ex-giovane di belle speranze ora frustrato di mezza età, il maniaco represso, l’antieroe. Ognuno con il suo omologo femminile. Passo sorridendo davanti a questa muraglia di finta efficienza e vera perizia odontoiatrica. Un giorno o l’altro mi devo decidere a chiedere il numero del dentista a qualcuno di loro. La scena è dominata da un enorme orologio, l’occhio del ciclope a guardia delle solerti attività che in quest’ufficio dovrebbero fervere. Già, “perché questa è un’advertising company e il nostro lavoro è tirar fuori il meglio dai nostri clienti, per trasformarlo in pubblicità di successo” – come ci ripetono i capi a ogni festa di Natale. Magari mentre qualche collega manda giù la sua ultima fetta di panettone aziendale, prima di iniziare l’anno nuovo da disoccupato. “Scelte dolorose, tagli indispensabili”, insistono i boss roteando lo sguardo sulla platea inerme. Tagli indispensabili. Ripeto queste parole tra me e me, tastando il coltello che ho preso stamattina in cucina, mentre mia madre cadeva in letargia davanti alla tv. Lo tengo nella tasca destra dei pantaloni, uno di quei modelli da cacciatore urbano con 10 scomparti inutili. Tagli indispensabili. Indispensabili per chi? “Per il bene dell’azienda” – così mi ha risposto il caporeparto annunciandomi che ho sei mesi per trovare un altro lavoro. “Coraggio, ci sono passato anch’io. L’importante è non abbattersi” – ha rincarato la dose il caporeparto. E’ un figliodiputtana sui 50, mani sudaticce, grumi bianchi ai lati della bocca e un’oscena stempiatura aperta sulla fronte come una scollatura su un seno avvizzito. Il bastardo si ostina a mascherarla con un complicatissimo riporto che parte dalla nuca per culminare in una specie di tirabaci nerastro e viscido. Chissà quanto ci metterà a farlo ricrescere dopo il mio taglio. Indispensabile. BeeDoll I percorsi dell’innovazione La Camera di commercio a Smau imPRESE NELLA RETE Da mercoledì 4 a sabato 7 ottobre 2006, dalle 9.30 alle 18.30. A Rho - Pero, Padiglione 8 • Una mappa interattiva per scoprire le iniziative della Camera di commercio di Milano sull’innovazione • Palazzo dell’innovazione: un progetto per Milano al via • www.impresalive.it: la tv per le imprese • Presentazioni multimediali • Due incontri: venerdì 6 ottobre - ore 11.30-13.00: “Innovazione come driver di crescita per le imprese: i progetti sviluppati della Camera di commercio di Milano” sabato 7 ottobre – ore 15.30-17.30: “Il forum della Net Economy: creatività e innovazione a Milano e provincia”