Turi Grasso
CRESPELLI DI COSCIENZA
In copertina: David Alfaro Siqueiros,
La nostra immagine attuale, 1947
Turi Grasso
CRESPELLI DI COSCIENZA
PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA
I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento totale o parziale
(comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati per tutti i Paesi
PREFAZIONE
Questa modesta silloge di racconti, attingendo alla cultura di uno dei
Paesi della democrazia occidentale (reale), si muove dentro le
ipocrisie, le inefficienze, le incapacità, i lassismi, le deliberate mancate
volontà, le parassitarie profezie «illuminate», incentivati a prosperare
dai fiduciari del regime al fine di precostituirsi gli alibi alla sin
troppo intelligibile pratica ordinaria d’inesauribile arroganza.
Il manovriero pool di camarille spadroneggianti, ammannisce le
pastette del potere con la candida ricotta dell’illusione confessionale
e l’appetitosa acciuga del raggiro politico solidamente supportato dai
media, prima di rosolarle nella friggitoria del plagio e lasciarle
regolarmente e perfettamente assimilare dalla marea di succubi
disciplinati, come fragranti crespelli di coscienza.
Non a caso, di riflesso sul proscenio internazionale, i discepoli
della violenza s’imbaldanziscono, e nonostante le attese, ahimè
frustrate, del grande abbraccio, in virtù del quale, l’unanime
approvazione delle Nazioni a difesa del diritto doveva garantire la
legittimità finalmente senza il ricorso alle armi, la terapia per la pace
rimane la guerra!
L’industria delle carneficine, sabotatrice di varianti ad essa
nocive, continua a imporre ai gendarmi della Terra spediti
interventi mercenari verso ghiotte imprese di vampirismo, previa
propaganda di unici strumenti efficaci di giustizia.
Che strani animali siamo, noi uomini attuali! E a quanta
recondita tristezza ci tocca sobbarcarci mercé i nostri propri
crespelli di coscienza!
L’autore
Acireale, 28 gennaio 1991
A Giusi
G.C.B. 90-58-90
I1 signor Licciardello, bancario poco più che trentenne,
infaticabile lavoratore, squisito con i clienti, viveva la sua mansione
con serena accettazione ed ammirevole diligenza. A differenza dei
colleghi era lui a dominare il lavoro e non viceversa, per cui non gli
accadeva di consultare infinite volte l’orologio per spingere lo
scorrere del tempo, ed anzi all’ora di smontare si meravigliava della
rapidità con la quale si fosse esaurita la giornata di fatica.
Contrariamente alle velenose insinuazioni dei colleghi di voler
impressionare i superiori per facilitarsi la carriera, il signor Licciardello
non ci pensava affatto, anzi a scanso d’equivoci dopo aver firmato il
foglio di servizio, lasciava che fossero i suoi stessi denigratori a civettare
con i funzionari, perché lui con un saluto generalizzato, prendeva
congedo in fretta.
Era chiaro dunque che anche per l’impiegato modello il momento
della separazione dall’ufficio veniva accolto con un senso di
liberazione. Non solo liberazione, ma bisogna aggiungere con gioia,
perché diventava il momento più bello della giornata: l’ineffabile
momento del ricongiungimento con la propria famiglia. Sapeva di
trovare a casa una dolce e bella moglie e un furfante di ragazzino molto
sveglio. Di Cinzia era innamoratissimo, di Innocenzo succube felice. Per
questo all’uscita dall’ufficio diventava impaziente di raggiungere presto il
proprio tesoro, di cui era gelosissimo al pari di un collezionista di gemme
verso le pietre più preziose possedute. E a volte gli capitava di dovere
sobbalzare dietro lo sportello quando impegnato in un’operazione
contabile gli sembrava di aver colto di sfuggita la figura longilinea,
elegante e charmante di Cinzia con Innocenzo alla mano che per un
qualsiasi motivo avrebbero potuto andarlo a cercare in banca. Lui le
aveva raccomandato, in caso di sopravvenuto bisogno, che lo si
raggiungesse telefonicamente, e sperava ardentemente che la consorte si
conformasse ai suoi desideri, anche se doveva ammettere che a ribaltare
certe cadute di umore fosse bastata un’apparizione flash di lei e del
discoletto e che addirittura le ipotetiche periodiche improvvisate
avrebbero potuto rivelarsi ottimi espedienti profilattici contro
l’insorgere della tristezza, soffocata eroicamente per dar po sto ai
cortesi sorrisi da dedicare alla clientela. Però dopo avrebbe dovuto
affrontare la lubrica curiosità simulatamente complimentosa dei colleghi
e a questa voleva sottrarsi ad ogni costo perché conosceva i commenti
che ne sarebbero scaturiti in sua assenza secondo la prassi vigente degli
uffici dove gli impiegati lavorano in ammucchiata e dove la presenza
femminile è scarsa e di modesta seduzione. In questi posti il gusto per
il triviale non ha da invidiare o forse ha da far invidia al porto o alla
caserma. Esiste una gara delle fantasie a sfornare le più prelibate
chicche della sconcezza. Viene istituito un registro delle conoscenti e
clienti desiderabili con le annotazioni per ognuna oltre che dei
connotati di tutti i particolari presunti quali cultura, carattere, età,
misura e qualità delle forme, cadenza del mestruo, impegni
sentimentali, condiscendenza all’amplesso di simpatia o di favore...
Inoltre periodicamente viene eletta una regina che la si gode in tutte le
pose e con tutti gli artifizi prima che la corona passi ad un’altra ignara
succeditrice. Ma pur se il signor Licciardello la laboriosità preferiva
all’indolenza, ed alle affabulazioni erotiche non prestava attenzione,
tuttavia ne veniva coinvolto dai colleghi con insistente martellamento
di mezze frasi, tanto esaurienti per loro quanto misteriose per i clienti e
che lui per compiacerli salutava con un accenno di complice sorriso di
facciata che non convinceva, poiché in effetti in cuor suo avvampava per
Cinzia.
Erano già due mesi che la signorina Badalà la faceva da star
incontrastata. Quando entrava la prosperosa ragazza, seguendo la
madre, una comune cliente con un piccolo conto corrente acceso con
lo scopo di farsi accreditare lo stipendio di impiegata, come se dalla sua
persona si propagasse un’onda telepatica, succedeva che gli sguardi degli
impiegati appuntati sulle carte si volgessero in sintonia in direzione di
lei, ed anche dalla scrivania più periferica dello spazioso salone partiva
un devoto inchino mentre nell’ambiente si diffondeva un sussurrio
gravido di sensualità. Chi aveva poi la fortuna di dovere cambiare
l’assegno, durante l’operazione, in deroga al trattamento di formale
gentilezza riservato al cliente ordinario, non badava ad espansivit à e
galanteria, gradite sia dalla signora che prendeva per sé le velate
allusioni ad essere desiderata e la ringalluzzivano, sia dalla figlia che si
schermiva con non placato orgoglio. Conservate le banconote nella
borsetta, la madre offriva la mano all’impiegato tradendo un
impercettibile brivido di piacere nel sentirsela stringere, mentre quello
fissava fermo la ragazza e salutava ossequioso -Arrivederla signora,
buongiorno signorina- e sembrava desse la consegna del silenzio in
quanto svaniva il sussurrio e gli occhi si appuntavano sui tafanari ben
pronunziati ed articolati delle due donne dirette verso l’uscita. Chi la
visuale per un motivo qualsiasi avesse ostruita, con un pretesto
aggirava l’ostacolo per non perdersi assolutamente lo spettacolo. A
questo punto il rito si esauriva per le ammaliatrici clienti, mentre una
appendice riservava agli impiegati. A turno, uno di loro, con tono serio
e l’aria di ricordargli una pendenza si rivolgeva al solito collega
-Licciardello, per favore, devi controllare se la pratica G. C. B.
repertata al numero 90-58-90 si conformi alla nota in calce del
contratto
-Credo concordi con la nota supposta- Rispondeva
sbrigativamente e con un pizzico di sarcasmo l’interpellato e
concludeva mentre dentro il recinto gl’impiegati tutti sbruffavano a ridere
e gli altri presenti non capivano -Comunque adesso controllerò
-Ne dubitiamo che concordi- Ribatteva l’altro con quasi le lacrime
agli occhi.
-Ed io vi assicuro che aderisce alla perfezione- Replicava
seccato il Licciardello.
G. C. B. erano le iniziali di Gran Culo Badalà, e il numero 9058-90, le misure anatomiche immaginate. Il resto delle battute
chiarito il messaggio in codice, diventava facile a capirsi. Questa
sceneggiata seguiva puntualmente la visita delle Badalà per mezzo delle
quali era deciso che si dovesse provocare il Licciardello reo, per
mancata partecipazione al turbamento generale e recidivo a non
lasciarsi coinvolgere dalle conversazioni a luci rosse per abituale
ritrosia, sospetta di motivi al momento misteriosi.
Come si è detto la litania si protraeva da due mesi e siccome la
visita in banca delle Badalà mediamente era settimanale, già per
quasi dieci volte il signor Licciardello aveva dovuto subire la tiritera.
Ma lui era saldo nel sentimento verso la moglie e solo due volte
cedette alla curiosità: la prima storse la bocca trovando lo spettacolo
volgare, la seconda ammise che la brava figliola si portasse appresso un
bel pezzo di natura. Provò vergogna d’essere sceso al livello dei
colleghi, e lievemente girando sullo sgabello si toccò il nodo della cravatta
ed una sbirciatina di disprezzo lanciò alla volta di quelle ossessionate
vittime d’immaginifica lussuria. Però dopo quella volta constatò che la
sua mente si concedeva arbitrarie rivisitazioni delle sporgenze flessuose
della signorina Badalà. Avvertì del disagio misto a spavento e decise di
scacciare con risolutezza gli sporchi pensieri. Ma siccome malgrado
l’impegno essi irrompevano sfrontati, allora il signor Licciardello
cominciò a dare preoccupazioni a sé ed alla dolce Cinzia che soffriva
senza poter intuire. Solo Innocenzo non se ne dava pena, tanto lui i
genitori li teneva in pugno, e non era avvezzo a superflui
sentimentalismi cosicché andava subito al sodo e contemplando
l’espressione mesta del padre, spiegava alla madre -Oggi in banca
papà s’e rotto le palle
La madre subito lo sgridava, sapendo però ch’era tempo sprecato.
L’innamorato coniuge aveva perduto anche l’appetito e
deperiva di fronte al pericolo che l’incanto della sua relazione
matrimoniale potesse frantumarsi. Sapeva che la colpa dell’attuale
infelicità non era da attribuire alla signorina Badalà fino allora risultata
a lui innocua bensì ai triviali colleghi che con i loro continui spot
pubblicitari avevano finito per indurlo in tentazione. E mentre delle
proterve intromissioni della pubblicità televisiva si vendicava con
successo tramite il telecomando o non acquistando i prodotti raccomandati
dalle campagne promozionali, nei confronti dei fianchi della signorina
Badalà succedeva che al più fermo impegno ad evitarli corrispondesse
una spavalda presenza, senza che vi fosse poi telecomando liberatore di
sorta. Pur tuttavia il signor Licciardello non demordeva dal ripetersi
che lui e sua moglie si amassero troppo per temere delle incrinature,
anche se da un po’ di tempo non poteva non ammettere che il sentimento
perdesse ardore a causa d’uno spiffero sempre più impertinente.
Bisognava correre ai ripari, ma trattandosi di dover agire su un campo
molto delicato e misterioso come quello della psiche, non era facile
trovare l’esatta medicina. In sostanza si trattava di cloroformizzare un
desiderio diventato fissazione, pressoché inappagabile -O monti
sorgenti dai lombi...- Recitava sulla falsariga dell’illustre cantore
-Preziose rotondità, aggraziate da ridenti fossette: rosei, virginei,
vellutati glutei!- Delirava e rivisitava con fecondi spruzzi
d’immaginazione il sommo bene inguainato negli attillati indumenti, per
finire con il sospirare sconsolatamente.
II signor Licciardello era preoccupato perché tali viaggi farneticanti
si facevano più frequenti, e se per caso la moglie fosse arrivata a
scoprirne l’ispirazione tutta la sua dolcezza in chissà cosa si fosse
trasformata. Non parliamo poi se ne fosse venuto a capo Innocenzo,
quella peste di ragazzo, frutto di scellerata scelta ad impartirgli un tipo
di educazione totalmente permissiva. Nonostante ciò l’ossessione gli
suggeriva di dare attuazione ai sogni! Ma come? Si ripeteva -Posso
presentarmi da quella gran ficona e dire: signorina, sia gentile, mi
permetta una tastatina leggera leggera. Ad un tratto ebbe un lampo di
genio. L’avvicinarsi di carnevale gli suggerì la brillante trovata.
Lei abitava in uno dei nuovi quartieri residenziali ancora non
illuminato, per cui nelle palazzine, al calar delle ombre le lampade
accese qua e là per i vani, languivano simili a fiochi lucignoli sparsi
nella fitta oscurità. Questo era un punto a favore per l’attuazione del
piano. Un altro lo coglieva dall’insensibilità del sesso forte verso la
disagevole situazione, che per non sacrificare qualche partita a scopa,
briscola, o tressette, con eccessiva leggerezza si esimeva di accompagnare
le proprie donne al rientro delle sporadiche uscite serali, forzatamente
anticipato dagli impegni culinari. Infine con la selezione che il clima
ancora freddo operava, trattenendo a casa le anziane, lui era davvero a
cavallo! La tranquillità del luogo e un briciolo di fortuna gli avrebbero
dato l’eccezionale occasione di diventare intraprendente e pronto ad
osare! E non da volgare palpeggiatore, così da rischiare in una
malaugurata identificazione, di ritrovarsi in tribunale o quanto meno
sulla bocca di tutti, in particolar modo dei suoi scellerati colleghi! E
proprio qui sta la formidabile intuizione: si sarebbe calato, sotto lo sponsor
di carnevale, nella parte di un licantropo libidinoso. Non pose tempo in
mezzo ad avviare la mostruosa macchinazione. La sera si recava nella
zona di operazione: avvolto nel buio ululava dai punti cardinali così da
preparare gli abitanti, poi, per qualche minuto si godeva la calma
sovrana del quartiere a tratti interrotta da fuggevoli scalpiccii sullo
sterrato, prima di ritirarsi dalle prove ogni volta più soddisfatto.
Il sabato mattina, alla fiera, da un giovane africano dal sorriso
smagliante provò un paio di lenti colorate al posto delle sue, bianche e
da miope. Il giovane, brunito più dell’ebano, compiaciuto scuoteva il
capo e ripeteva, intramezzandovi un accattivante sorriso -Bono cugino,
bono- Senza mercanteggiare sul prezzo, le acquistò nonostante
affiorasse un improvviso presentimento di fatalità. In una bancarella scelse
un berretto dai colori sgargianti, in un’ altra una sciarpa. Andò a posare
tutto nel cofano della macchina. Restava da completare
l’equipaggiamento di manovra con un vecchio cappotto, smesso da
tempo. Provò pure un brivido godereccio da sadico.
Ululò durante la pennichella pomeridiana e per dissolvere le
preoccupazioni della moglie, dovette imputare all’onirica angoscia,
arrossendo un poco, un’ inventata, pesante digestione.
Ululava da diverse sere, la maschera era lesta ad uscire in piazza, ed
il signor Licciardello doveva decidersi. Per di più con grande sorpresa si
accorse che lei non era affatto spaventata dal minaccioso refrain, anzi nel
rincasare, più fiera e sicura che mai rallentava l’andatura, quasi con
aria di sfida. Il falso licantropo cercò di sfruttare la situazione
favorevole, però le fibre invece di acquistare in ardimento,
infiacchivano da fare schifo! Provò con un cognac al bar. Non essendovi
abituato, gli parve di prendere fuoco. Si recò in macchina ed effettuò il
travestimento deciso a passare all’azione. Si sentiva confuso, pur
nondimeno avanzava a grandi passi verso l’incognito destino.
Nell’euforia il canto sgorgava possente dell’empito d’una passione, in
quel momento sconfinata! Non ci vedeva molto, le nuove lenti
mostravano vuoti tremolanti, si muoveva come un automa, pur se
fortemente determinato. Nascose la bocca dentro la sciarpa, tirò giù al
massimo la visiera, andò incontro all’ombra che aspettava di fronte.
Sentiva una volontà spingerlo contro la sua che voleva frenarlo. Stava in
mezzo al litigio furioso e camminava con passi di piombo, fino a che
riuscì a fermarsi a pochi metri da lei che decisamente irritata lo
apostrofò nell’unico modo che non doveva -Eunuco d’un lupo
mannaro! -Eunuco io?- Gridò il Licciardello, nello slanciarsi addosso a
lei e afferrandole le tanto agognate chiappe. Non ebbe il tempo di
apprezzare l’inusitato coraggio che già lo malediceva. Sembrava una
donna mal gonfiata d’aria, nelle cui forme flaccide le mani affondavano,
invece d’essere dall’immaginato turgore precluse a trovare la presa.
Intanto lei smaniosa il viso strofinava su quello del gabbato
ardimentoso, pungendolo maledettamente. Il signor Licciardello cercò
di svincolarsi energicamente dalla ferrea morsa. Ma solo dopo vari,
disperati e vani contorcimenti, durante i quali volarono via berretto ed
occhiali, ella si decise a scostarlo vigorosamente dalla faccia regalandogli
un ruzzolone, e dandogli del frocio, la vedova, maliarda madre, gli voltò
le spalle con disprezzo.
Il disonorato licantropo si presentò alla moglie con una troppo
sdolcinata affettuosità che immancabilmente desta sospetti, ignaro del
segno all’occhio sinistro che glieli fece avvampare.
-Cosa ti sei fatto, caro?
-Dove, mia colomba?
-Qui- Gridò lei incollerita, ficcandogli un dito nell’occhio con
l’effetto di far rilucere un cielo zeppo di stelle e di farlo ululare di
dolore -Ah, è cosi!- Continuò, e riallacciando quel verso duro a
morire alla cattiva digestione inventata ed alle prime voci che s ’erano
sparse sulla presenza nella zona di... d’un licantropo, gli sferrò un
preciso diretto nell’altro occhio.
Il poveretto riprese a ululare mentre Innocenzo comparve in
pigiama sulla soglia della cucina -Che ha papino da lamentarsi?Chiese scoppiando a ridere nel vedergli l’orbita cerchiata -Ha preso un
pugno in un occhio?- Continuò tra le convulsioni.
Il padre disfatto indicò due con le dita, mentre quello si
scompisciava dalle risate. Poi ballando con le mani alzate iniziò ad
intonare -Che bello, che bello! Ma che ha fatto, mamma?- Chiese ad un
tratto.
-Il lupo mannaro- Rispose lei senza esitare.
-Che stronzooo!- Esclamò il manigoldo sgranando gli occhi per
la meraviglia -Questa la racconterò a Celestina- Concluse con affettato
cinismo.
Celestina era una bambina più grandicella che abitava nel palazzo di
fronte e la sua straordinaria dote consisteva nel saper diffondere una
notizia con maggior penetrazione dei mass-media più popolari.
-Ti ammazzoMinacciò
severamente
il
bancario,
rappresentandosi la scoperta dell’accaduto da parte dei colleghi.
-La fava- Rimbeccò il discolo, vastasu.
Che impudente, pensava il signor Licciardello, dovendo subire ahimè!,
e cercò di prendere il mostriciattolo per il verso giusto -Se fai il
disubbidiente il topino non ti lascia più il soldino
-Del topino me ne fotto, caro papino- Rispose per le rime
Innocenzo.
-Adesso basta!- Intervenne la madre che la scenetta aveva goduto
intensamente fino a quel momento -Torna a letto, ne parliamo domani
-Va bene- Approvò Innocenzo -Buona notte, allora- Augurô
prima di lasciarli e si mise a sussurrare -Celestina, domani ti porterò
un prelibato bocconcino, Celestina
I coniugi sprofondarono nel più pernicioso tra gli imbarazzi, quello
muto. Come se potessero rimbalzare per andare a colpirli, si sentivano
trafitti per tutto il corpo dagli sguardi bassi appuntati sul pavimento!
L’angustiato marito schiarì più volte la gola nel tentativo di rompere
il ghiaccio, inutilmente. Dovette chiudere gli occhi allo stesso modo di
chi si vota al suicidio prima del gesto disperato, per dare la stura ai
particolari della minchioneria commessa e all’acidume che essa gli
aveva portato dentro.
-Ah!- Fece lei mentre il compagno recuperava fiato da sembrare un
sub uscito dall’apnea quasi scoppio -Qui mancano le chiappe, le natiche, i
glutei! Io sono diventata una scopa, vero maritino mio?- Per la
fermezza con la quale voleva protestare, le parole rimasero strozzate,
e ne venne fuori una sibilante espirazione.
A quel punto il signor Licciardello, rimbaldanzito, si avvicinò
a lei e le prese una mano.
Cinzia la ritrasse subito, schermendosi -Vattene, se non ti basto
più- Gli spiattellò peggio di una torta in faccia.
-Hai ragione di essere incavolata- Ammise di nuovo mansueto il
marito -Con tanta donna tranquillamente a disposizione, andarsi a
cercare in mezzo ai pericoli le ire di una viragine, non è minchioneria?Sospirò suadente.
Ma lei colse la sfumatura e replicò -Perché non ti sei accorto di
avere a che fare con la madre. E se invece fosse stata l’altra?Insistette.
-Doppia
minchioneria.
Perché
avrei
distrutto
per
sempre
l’idealizzazione di quel particolare anatomico della donna,
irresistibilmente attraente sol fino a che non lo si profana
-Con ciò vuoi dirmi che continuerai a pensarci!
-Cosa vale l’innocente gusto estetico dell’ammirare, quando si è
guariti dal desiderio di toccare? E poi ho le mie ricchezze da amministrare,
inestimabili ricchezze
-Sfottiamo, pure!
-Ti risulta che io sfotto?
-Allontanati!
-Perché gioia, non ho forse pagato abbastanza, per ciò che ho fatto?
-Mi dài fastidio!
-Davvero? Guardami in faccia
-Davvero, davvero...- Ripeteva confusa lei, strascicando nel
caratteristico modo femminile di dire il contrario di ciò che si desidera.
I loro corpi si avvinghiarono in inscindibile blocco sussultante
d’ineffabili spasmi.
II mattino seguente Innocenzo con grande gioia inneggiò alla
scoperta degli effetti provocati sul collo della madre dalla vendetta che
il genitore si era concessa in contraccambio al devastante diretto
ricevuto.
-Il cravattino, il cravattino!
-Quale cravattino?- Chiese Cinzia perplessa.
-Hai il cravattino. Due succhiotti grossi come due fragole!
-Innocenzo è ora di finirla con queste sconcezze!
-Finirla di dirle o di farle?
-Innocenzooo!!!- Gridò spazientita l’irrisa, volgendosi all’artefice
con occhi fiammeggianti di rimprovero.
-Ebbene, ho commesso un altro delitto? Ci medicheremo a vicenda
-Sei, sei, sei...
-Sei per tre fa diciotto
-Diciotto- Ripeté Innocenzo estremamente divertito - Oh, Celestina,
sentirai che notizie!- Promise felice.
Il fatto della minacciata divulgazione, esigette una tregua. Padre e
madre presi dalla stessa preoccupazione di nascondere i loro pestaggi
a tutta la città, trovando il modo di zittire quel manigoldo di figlio,
dovettero rinfoderare i coltelli. Avviarono con Innocenzo lunghissime
trattative che si risolsero con l’impegno d’indossare tutti e tre allegorici
costumi per quelle sere, in modo che i guasti coperti dal trucco non
impedissero loro di uscire, e garantendosi, il briccone, di poter riversare
per le strade la tanto programmata baldoria. Pretese un costume da
lupo mannaro, e riscuoteva enorme successo col suo fideistico ululare
di lupacchiotto sdentato, facendo presagire un futuro campione meno
imbecille del padre. Questi per ovvie esigenze dovette affidarsi al
soggetto di clown triste, con l’immancabile lacrimone pendente, e
sarebbe riuscito pure a divertirsi immensamente a recitare la meritata
parte del pagliaccio, se la moglie ricorsa a nascondere le fragole sotto
una spumeggiante gorgiera, fiorita dalla camicetta da cavallerizza, non
avesse continuato, invece che lasciarsi impietosire dal supplichevole
sguardo e abbandonare il maestoso ancheggiare di puledra selvatica, a
sfoggiare un portamento talmente ammirato da farlo diventare triste
sul serio, morso dalla gelosia.
Il signor Licciardello dovette subire sino all’ultimo giorno, atterrito
dalla visione scorticatrice di una generale metamorfosi dei maschi in
lussuriosi lupi mannari lesti ad attaccare il fondo schiena della moglie. Era
febbricitante, Carnevale gli aveva riservato un bello scherzo. Il lacrimone
decise a staccarsi: cadde, risorse e giacque... Si svegliô con il sale di
pianto in bocca e gli occhi asciutti. Gli si era addormentato il braccio
a causa che la circolazione non arrivava alla mano, chissà come finita
schiacciata dal più delizioso e prezioso dei pesi. Mancava poco all’ora
consuetudinaria di levarsi dal letto. Il bancario delicatamente si accostò
a Cinzia che debolmente si lamentò nel sonno. Sulla nuca le pose un
bacio d’amore, poi la scosse piano ed alla rinnovata protesta di lei, le
disse che doveva farle una confessione.
-Di cosa si tratta?- Chiese la moglie meccanicamente.
-Ti amo tanto!
-Per dichiararti, non potevi aspettare l’ora della sveglia?
-Ma cara, e già tempo di alzarsi. Bisogna accudire Innocenzo per
la scuola
-E già- Mormorò lei, volgendo al marito il viso pestato dal riposo.
Il signor Licciardello ne baciò le labbra con casta dedizione.
Quella mattina in ufficio il rinato bancario guardava i colleghi
dall’alto in basso. Si sentiva felicemente realizzato. Si diresse al suo
tavolo. Si sedette. Sistemò alcune carte davanti a sé, e si umettò le
labbra cercando il sapore dell’ultimo bacio dato alla moglie prima di
uscire e che lo avrebbe corroborato l’intera mattinata, poi si mise a
lavorare di lena, sommerso da incomprensibili, compassionevoli sguardi.
CABBALA
Sulla piazza centrale, quel flusso di gente agitato, scomposto e
irrompente, proveniente da una piazza più piccola, attraverso una
strada corta e stretta al gran numero di coinvolti premuti da
macchine a clacson spiegati, si sparpagliò con un senso di promettente
liberazione.
Alla testa, una vigilessa longilinea correva ad ampie falcate,
sventolando un braccio e pareva avesse fretta a prendere il comando
di una fortezza da altri espugnata, incarnando uno spirito di colore
rivoluzionario in una città assolutamente refrattaria a simili slanci
libertari.
Gli uomini sembravano risoluti; le donne invece, maggiormente
sentimentali, piangevano e gridavano, scosse da sconforto e paura.
Alcune saracinesche di negozi produssero uno schianto più
violento del solito nel toccare la soglia, mentre alle spalle del luogo
precipitosamente evacuato, al mercato ittico ed ortofrutticolo, i negozi
restarono apparentemente incustoditi, poiché i titolari si
allontanarono il più possibile senza tuttavia allentare la vigilanza
sulla loro mercanzia.
Chi giungeva dalle vie vicine chiedeva il motivo dell’inusitato
trambusto, ricevendo in risposta dagli interpellati vaghi accenni o
espressioni di ignaro stupore.
Ma dopo i primi minuti di sbandamento gli astanti si resero conto
che un’autocisterna piena di benzina aveva preso fuoco, non si sa
come sul retro, mentre in un rifornimento pubblico stavano
preparandola a depositare parte del carico. Un fumo nero e denso si
era levato oltre le costruzioni a minaccia di una presunta catastrofica
esplosione che il pronto impiego degli schiumogeni dello stesso
rifornimento per fortuna riuscì ad evitare.
Con lo schiarire del fumo i curiosi presero coraggio e si
avvicinarono all’ormai placato autocarro grondante e pezzato d’una
grossa macchia di bruciato.
L’apprensione sull’emozionante spettacolo presto finito, si sciolse
in un vocio confuso di commenti, al di sopra del quale, per via
dell’occasione ritenuta molto lusinghiera, si distinse la
raccomandazione di una persona anziana all’amico che stava
prendendo congedo -Nella giocata non dimenticare il 90
-Bé certo- Assicurò l’altro - Lo spavento c’e stato
SIA FATTA LA VOLONTA’...
Donna Carmela ferveva per tre cose: la casa, la chiesa, e la
sistemazione per il figlio. Nella prima si sentiva regina, nella chie sa
la più umile dei sudditi, a causa della terza, naufraga. Aveva
cinquant’anni ben portati ed era d’indole gaia, offuscata però talvolta
da un labile tratteggio di tristezza. Lo sporadico cadere in
sovrappensiero dipendeva dall’apprensione per il figlio ancora in cerca
di impiego, e dai chili di ciccia in più che si riprometteva di eliminare
non appena psicologicamente avesse trovato la forza di mettere in atto
piccoli accorgimenti dietologici salvavita. A prendere in considerazione il
primo motivo, ne restava disorientata senza intravedere soluzione alcuna,
per quanto riguardava il secondo, prometteva a mo' di marinaio, sia al
marito prima che lo perdesse travolto da un pirata della strada, sia a se
stessa, che però giustificava con la tentazione cui era soggetta durante
la preparazione delle più prelibate vivande al figlio Enrico, significato
del suo esistere. Così quando la gonna stentava ad abbottonare, subito
si portava le mani ai fianchi a stringere il cuscinetto di grasso aumentato
di volume, e si rivolgeva a quella delle tante Madonne dalla quale aveva
preso il nome, perché la soccorresse -Oh, santa vergine del Carmelo,
aiutami a mettere giudizio! Che ci posso fare, se sono una gran
panzara?- L’atto di umiliazione dichiarato alla patrona la risollevava
di morale e per un buon periodo si risparmiava di amareggiarsi del
peccato di gola. Anzi quando il figlio prima di uscire di casa la mattina le
chiedeva cosa avesse intenzione di preparare per il pranzo, lei allegra lo
rassicurava -E’ un segreto, vedrai che la sorpresa non ti dispiaceràEd il giovane, anche lui buongustaio, prendeva congedo contento che ad
aspettarlo a tavola ci sarebbero stati un primo al ragù e le costolette di
maiale. Enrico era un ragazzo ben piantato, ma asciutto in quanto
smaltiva compiutamente, aiutato da una pratica sportiva quasi
giornaliera: giocava a tennis, a basket e a foot-ball, d’estate nuotava e
remava, si spostava preferibilmente in bicicletta. I giorni gli erano
scivolati come l’olio, e senza accorgersene si stava avvicinando ai
trent’anni con un lavoro tante volte promesso, ma ancora da arrivare.
Aveva già partecipato a diverse campagne elettorali come attacchino e
distributore di propaganda politica, malgrado ciò, prima per motivi di
precedenza ai clienti più anziani, poi per il blocco delle assunzioni nel
settore pubblico, stava di fatto che era rimasto all’asciutto, e il suo
aduggiato avvenire cominciava a pervaderlo d’angoscia.
Enrico disoccupato, la madre casalinga, vivevano della congrua
pensione del defunto ex dipendente regionale, quindi, come si usa dire
da queste parti per i privilegiati del potere, da figlio della gallina
bianca. Inoltre avevano da attingere a qualche piccolo risparmio, potutosi
effettuare nel periodo in cui la campagna portata in dote dalla signora
Carmela rendeva bene. Ma da un bel pezzo ormai il rubinetto agricolo
s’era seccato, l’inflazione aveva galoppato, le esigenze del giovane
erano cresciute, il gruzzoletto in banca andava assottigliandosi. Così un
giorno dopo essersi fatta coraggio, poiché al suo Enricuccio voleva
evitargli la pur minima contrarietà, col suo solito piglio bonario, la
signora Carmela, decise di mettere in discussione la questione
-Enricuccio, ho pensato che è tempo di affrontare con te, che ormai sei
grande e fai le veci della buonanima di tuo padre- Si segnò con
commozione -un problema che sta per diventare spinoso: il nostro
bilancio familiare. Tu sai come i tempi siano cambiati e come con
meno entrate premino maggiori spese. La campagna è diventata passiva,
io purtroppo sono una buona a nulla casalinga, tu disoccupato cronico
alla mercé di farabutti insensibili verso un povero orfano di padre.
Avevamo quattro soldi ed abbiamo già cominciato a metterci sopra le
mani, così che presto finiranno, ed allora sì che comincerà a scarseggiare
anche il mangiare- Si umettò le labbra e le si accese un pochino di più
l’abituale, florido colorito, mentre zitta aspettava un segno di
Enricuccio.
Questi conoscendo i sentimenti della madre riguardo alla
proposta che aveva da fare, esitò un po’ prima di decidersi ed infine
datasi una nuova posizione sulla sedia si liberò d’un fiato dell’amaro
consiglioVendiamo
la
campagna
-Oh, santa vergine del Carmelo!- Esclamò lei con un sussulto
-Cosa ne potremmo ricavare oggi? Quattro soldi. Lo sai che di
cambiali la gente ne ha già tante per mettersene altre sulle spalle
-Lo sapevo. Sei troppo affezionata alla terra
-Anche questo è vero, non lo nascondo. Quella terra me la sento
nel sangue. I tuoi nonni, pace all’anima loro- Si segnò ancora con
commozione –L’hanno lavorata con tanta fatica. Lì ci sono nata e
cresciuta. Tuttavia non è solo questo, te lo giuro. Adesso ce la
toglierebbero per pochi spiccioli, mentre che cambiando le cose,
ricordati che non tira sempre un vento, quel pezzo di terra può
rappresentare un’assicurazione per il tuo incerto futuro
-Che altro possiamo fare, allora?
-Avevo pensato che ci si potrebbe trasferire lì. Tutto sommato è a
pochi chilometri da dove ci troviamo. La casetta c’è, e con modica
spesa le potremmo dare il giusto decoro. Avremmo la possibilità di
allevarci qualche bestiola da pentola- Ammiccò e sorrise -Curare gli
alberi da frutta al momento abbandonati, coltivare verdure e ortaggi,
cose insomma che magari non ci farebbero risparmiare, ma che alla
salute certo non dispiacerebbero- Con la lingua inumidì le labbra
ricavandone un senso di benessere e soggiunse -Quello che sicuramente
risparmieremmo è buona parte della pensione che dalle tasche del
padrone di casa, potremmo trasferire benissimo in cucina- Ammiccò
un' altra volta e attese.
Il giovane non sapeva che pesci pigliare. Già da tempo
immaginava di dover sentire un giorno simili discorsi che in verità
erano gli unici a garantire la conservazione di un relativo benessere.
Certo non era il suo ideale vivere in campagna; gli sembrava di doverle
sacrificare qualcosa della sorveglianza alla raccomandazione per
l’impiego, delle relazioni con gli amici, degli impegni sportivi e più in
generale di tutte le abitudini acquisite, e però rendendosi conto pure
della contropartita in benefici, tanto per non mostrarsi del tutto
disarmato insinuò -Saremo dimenticati dal mondo
La madre capì dalla debole osservazione di essere riuscita nel
progetto e tranquillizzò il figlio -Chi vuole Cristo se lo va a pregare
Così in breve tempo i due si ritrovarono in campagna, un
limoneto con una significativa appendice di bosco, in una di quelle
contrade tranquille che ad un qualsiasi abitante di città parrebbe un
angolo di mondo fuori dal mondo! Si circondarono presto di un ricco
assortimento di animali domestici e di allevamento, creando
un’atmosfera impregnata dell’armonia d’una natura esultante e della
felicità da loro goduta.
Era un piccolo paradiso, per la donna in particolar modo, che in
ogni tenera vibrazione del suo essere vi ravvisava un premio celeste alla
sua fortemente radicata fede, per mezzo della quale, possedendo una facile
suggestione ed una fantasia illimitata, durante le preghiere appassionate,
volte a sollecitare un lavoro ed una buona moglie per Enricuccio, era in
grado di sublimarsi all’occorrenza, sino a trasumanare ed intrattenersi de
visu con la divinità più alta.
Il figlio in fatto di religione si trovava all’opposto rispetto alla
pia genitrice, così che vedeva nella fonte in cui la signora Carmela si
accostava insaziabilmente, la sorgente di tutte le sciagure umane, e
molte censure specie sui costumi dei tempi moderni, in particolar
modo riguardo le libertà tra i due sessi, che la tradizionalista madre
tacciava di peccato, per lui si rivelavano truffaldine in quanto
miravano a defraudare per pura idiozia, il genere umano della vera,
unica, assoluta felicita dell’esistenza! Non che fosse un dissoluto, ma
quel suo convincimento, disingannandolo poco alla volta glielo
avevano inoculato nelle varie esperienze, ipocritamente definite
sentimentali, le partner a lui soggiaciute, perché sistematicamente queste
avevano arrossito di falso pudore dinanzi al piacere, proprio a causa
dello scopo da concretizzare, che con la sorniona colpevolezza del
cuore e dell’amore, conduceva dritto dritto al matrimonio!
Certo in ogni relazione troncata la signora Carmela aveva preso le
parti dell’onorata, onesta, giudiziosa mancata nuora sotto il sorriso
schernitore del giovane passato per impenitente scapestrato, trovando
la poveretta un po’ di consolazione la sera dopo cena in camera sua,
quando in occasione delle preghiere si metteva in rapporto con Dio e
piangente lo implorava che le fosse fatto il miracolo perché il figlio
mettesse la testa a posto, sposasse, lei diventasse nonna con tanti
nipotini... Si alzava sollevata da sotto le ascelle dal suo ascoltatore, e
timorosa volgeva lo sguardo verso il magnifico ospite che dopo averle
ricordato distintamente -Sia fatta la mia volontà!- Svaniva
lasciando un aroma vagamente soffuso d’incenso. Dopodiché la pia
donna si metteva a letto e la candida anima consegnava ai mistici sogni
ristoratori.
Avvenne che un bel giorno Enricuccio si presentasse in casa con
una avvenente figliola, snella, bionda, con occhi azzurri, ma giù di
spirito, cupa e nervosa. Alla presentazione la signora Carmela ebbe un
afflusso di preoccupazione verso la ragazza, poiché credé, che il
colpevole della malinconia dipinta sul leggiadro viso dovesse essere il
figlio per un suo solito accostamento da pappagallo questa volta carico di
complicazioni, infatti dopo uno sguardo furtivo le parve che anche il
giovane se ne stesse in apprensione. In verità lui era addolorato della
sofferenza interiore della speciale amica.
La jeune fille chagrine non era altri che la ginnasiale che lo aveva
infocato nell’anno del suo diploma di maturità con una cotta
eccezionale soffocata da un mancato coronamento per l’irrefutabile
avversione del pretendente verso i fiori d’arancio. Così tutto era sfumato,
le tribolazioni dei primi tempi si erano assopite più facilmente per il
trasferimento di lei dietro i genitori in continente, ma la ferita del
cuore del giovane non si era chiusa completamente pur non avendo
trovato difficoltà a consolarsi con diverse pollastre. Ora il destino,
dopo circa dieci anni, li aveva voluti fare incontrare (solo casualmente
in quanto lei per un breve periodo di ferie alloggiava presso una zia in
una frazione a mare per smaltire... ) ambedue abbastanza cresciuti, maturi
di esperienza, e perché no, ancora reciprocamente innamorati. Fu una
piacevole sorpresa non priva di rimpianti. Già dai convenevoli, affiorò
sia la
complicità della piacente impiegata, sia l’insoddisfazione
dell’adattato pseudo agricoltore. Per diradare l’imbarazzo fu
concordata la visita in campagna. In effetti il rimedio parve
funzionare e già dalla prima volta la ragazza ne trasse gran beneficio,
e le stesse sembianze di tristezza non ci misero molto a svanire
definitivamente ed a restituirle l’allegria del vero carattere. Ella fu
letteralmente conquistata dalle faccende degli animali: la divertente
andatura delle chiassose oche, lo sparpagliarsi dei porcellini d’India in
cerca d’un rifugio non appena infastiditi da curiosi avvicinamenti, lo
scorrazzare allegro d’un candido capretto sotto lo sguardo vigile di
mamma capra, l’arruffarsi senza conseguenze di un cane lupo bastardo e
di due grossi gatti a testimonianza d’una amicizia imposta e vissuta
con diffidenza, il coccolare dei loro pulcini da parte delle pazienti
chiocce, il signoreggiare dei prepotenti galli, l’instancabile rodio dei
conigli, il saltellio dei ladri passeracei intenti a rubare qualche chicco di
miglio... ed il miscuglio delle voci del vario e vivace gregge
canzonato dallo gracchiare della ghiandaia o infilzato dal fischio del
merlo. Ella rideva con esultanti gridolini di gioia per le scenette più
simpatiche che andava scoprendo!
La padrona di casa riprese a preoccuparsi indovinando per
esperienza cosa produce la riconquistata serenità di vita delle donne
specie in favore di colui che ne è stato l’artefice. E di questo discusse
la sera durante le preghiere con la divinità ottenendo la solita risposta
a tutte le sue interrogazioni -Sia fatta la mia volontà!
Nei giorni seguenti le visite si intensificarono diventando più
lunghe, presenziando la mensa e soprattutto caricandosi di affetto. Ma
la sera nel rendiconto della giornata l’infervorata genitrice otteneva
dal suo raccomandatario la solita, laconica dichiarazione -Sia fatta la
mia volontà!- Inutilmente cercava di esporre le trascorse gherminelle del
figlio, la risposta era sempre la stessa. Lei allora una sera cercò di far
notare al benigno ascoltatore, visto che s’era compiuta sempre la sua
volontà, che il figlio non avesse niente da rimproverarsi dei trascorsi
spassi con le ragazze, anzi che si era comportato bene ed i rimproveri di
lei erano stati persino fuori posto; ma fu subito scoraggiata a
continuare in quanto, aumentando di mezzo tono la voce l’Assoluto
ribadì -Sia fatta la mia volontà!- La donna si strinse nelle spalle,
allargò le braccia affettando una smorfia di sorpresa, senza esser disposta
però a desistere dal vigilare sulla nuova situazione, decidendosi anzi a
vagliare gli indizi che il rapporto tra i due giovani lasciasse trapelare
ed approfondirli per capire dove la nuova avventura potesse condurre.
Scartò tentazioni troppo sentimentali e generose e quel felice filar del
tempo dei due giovani le si mostrava invece come il frutto di una intesa
più completa. Inoltre la ragazza era proprio appetibile nonché ghiottone
Enrico, e poi c’era la vecchia storia che reclamava una diversa
reinterpretazione rispetto alla prima volta, lo sfavillar di certi sguardi
ed una significativa trasformazione del casanova! Bisognava saperne di
più. Cominciò a spiare con molta circospezione. Ed un pomeriggio, fece
centro! Inoltratasi per la campagna sulle orme dell’affiatata coppia ad
un tratto dopo pochi passi nel bosco dovette fermarsi per aver udito un
lamentevole ansimare. Lentamente e con cautela spesa ad attutire i
passi sopra il frascume, prudente a scostare le ramaglie basse mentre i
sospiri ingrossavano e si mescolavano or a tribolate esclamazioni or a
soddisfatte approvazioni, finalmente scorse il groviglio dei due corpi
nudi. Pur avendola temuta quella scena, trasalì lo stesso di fronte
all’irruenza della natura, riuscendo a trattenersi in tempo dal tradirsi e
gridare. Avvampò scandalizzata, volse gli occhi al cielo e sospirò
soffocante -Sia fatta la volontà di Dio!- Ritornandosene indietro
clandestina.
Più tardi i tre conversavano, parecchio disinvolti i giovani, un
po’ impacciata la vedova, che dovette affidarsi a tutta la sua arte di
recitazione per non destar sospetti. Le parve un secolo arrivare a chiudersi
nella sua stanza ed evocare come di consueto la sacra apparizione.
Mortificata per quanto successo sotto i propri occhi, lei impotente, si
fece pietosa dinanzi il maestoso simulacro, temendo un poco, ma
rinfrancandosi subito per via della misericordia dell’Ente supremo che
con ferma intonazione le ricordò -Sia fatta la mia volontà!- Lei ringraziò
di tutto cuore e con gli occhi arrossati di devozione riprese a pregare.
Intanto i giorni erano volati, come sempre quando si vive
felicemente: la vacanza della ragazza stava per esaurirsi ed il giovane
improvvisamente divenne intrattabile. La madre penò parecchio,
prima di ottenere una spiegazione su quel cambiamento repentino.
L’innamorato era deciso a consumarsi nella sua fiamma e a seguirla.
Questo confessò con grande sforzo per il dolore di doversene
staccare, alla genitrice non del tutto quietata per l’improvvisa
tempesta sentimentale del suo ragazzo, alla quale, malgrado la sua
esperienza di donna sposata, le era stato dato di assistere sbigottita
per l’impetuosità. Ed ora che finalmente conosceva il motivo, che
peraltro ne aveva auspicato la realizzazione, lei senza esitare dimostrò
piena approvazione -Basta che sia una cosa seria, hai la mia
benedizione, non solo, ma mi fai tanto felice!
Il giovane, sapendo i principi della madre, titubò un pochino prima
di decidersi a chiarire, buttando lì di colpo -Andremo a convivere
-Ah, ah, vedi, quanto sei al solito briccone! Perché non fare le
cose pulite? Vuoi costruirti una famiglia? Sposati!- Risentita lei
rimproverò al figlio, conoscendo le inclinazioni di questi per certe
istituzioni.
-Anche volendo, lei non può
-Come non può?
-E’ già sposata
-Oh santa vergine del Carmelo! E allora cosa significa?
-Che adesso che avrei acconsentito al matrimonio non possiamo.
Lei vive con i genitori. Sta avviando le pratiche per il divorzio.
-Aspettate...
-Non vogliamo
-E’ comodo comportarsi da animali
-Ma se ci vogliamo bene, se tutto è ormai deciso, se già viviamo
more uxorio...
La signora Carmela trasalì a sentire quella frase, ebbe un gemito di
freddo, però subito si riprese vedendo davanti a sé la scena del bosco
che stranamente adesso non la turbava più di tanto mentre
l’innamorato non si risparmiava certo ad incalzarla -La questione è solo
di forma... Noi a chi dobbiamo dar conto? L’importante, non è
trattarsi l’un l’altro con rispetto, cooperare, volersi bene, amarsi
insomma?
La poveretta presa alla sprovvista non sapendo che obiettare
mentre mentalmente recitava la veneranda frase -Sia fatta la volontà
di Dio!- Rispose -Ci debbo pensare, presto ti saprò dire- Sentiva che le
motivazioni, una volta che c’era la disponibilità a sposarsi, erano giuste,
ma ora nell’impossibilita dell’attuazione, desiderava informarsi bene più
tardi con Sua Maestà prima di mettersi a letto. Finalmente arrivò il
momento di ascoltare la solenne sentenza. La donna piangeva e quasi
balbettava davanti il giudice amoroso, raccontò confusamente i fatti e
sussultò dinanzi al verdetto.
-Questo non sarebbe secondo la mia volontà, e perciò è peccato!
Ancor più implorante la sincera fedele iniziò a perorare in favore della
coppia, impietosamente francobollata dall’inflessibile interlocutore.
-Si vogliono bene
-Non è un buon motivo
-Lei è già sposata
-Peggio che andar di notte!
-Ha avviato le pratiche per il divorzio
-Il matrimonio è indissolubile
-Ma le parti in causa sono pienamente d’accordo
-Però io non voglio
Negli occhi della interceditrice il pianto ingrossava, inoltre
accaloratasi per la disperata impresa di ottenere clemenza, lei
inghiottiva male, sbuffava, e per poco non soffocava invano. In un
momento di riuscito dominio, disfatta domandò -Che devo fare?
-Prendi le distanze
-Oh, Santa vergine del Carmelo! E’ mio figlio, non posso
-Ho potuto io assistere al sacrificio ben più grande di mio figlio?
Tu sei una divinità... Io una povera donna- Confessò esausta. Era
decisa e traboccante d’umanità. Ora la cattolica osservante un po’
scossa nella fede si sentì turbata dal consigliato comportamento disumano
da prendere, e al momento di udire l’arcinota frase che l’elevato
confessore aveva cominciato a pronunciare prima di partirsene, portò
le mani a tapparsi le orecchie. Quindi pensando ad una onesta felicità
che da giudiziosi era soltanto da benedire con coraggio sillabò -Si-a
fat-ta la vo-lon-tà lo-ro!
I TOPI
Per la figlia del capomastro Camillo Musmeci, il primo
approccio con il topo fu molto divertente. L’occasione si presentò a
seguito dell’infortunio del padre subito in una caduta costatagli la
frattura della tibia ed escoriazioni sparse sull’intera parte destra della
persona battuta a terra, mentre su una traballante impalcatura era
intento ad eseguire dei controlli sulla buona esecuzione del lavoro
effettuato. L’incidentato, appena con l’aiuto della stampella fu in
grado di trascinarsi l’ingessatura, la mattina per la passeggiata, a turno
prese a farsi accompagnare da una delle quattro figlie. Nella disgraziata
congiuntura il capomastro stava assaporando il primo periodo di ferie
della sua vita, poiché fino ad allora di gingillarsi non ne aveva voluto
proprio sentire. Quel giorno di primavera era toccato a Donatella.
Il sole giocava tra spezzoni di nuvole erranti! Al parco comunale le
panchine erano stipate di pensionati intenti a cicalare e ad assorbire il
salubre tepore. Appena l’azzoppato sedette su una panca riparata e
libera, la bambina si mise a correre per i viali assicurando il genitore
che sarebbe stata attenta a non procurarsi ruzzoloni come aveva fatto
lui. Donatella sempre vispa ed allegra in sintonia con il carattere
aperto ed amorevole era felice di scorrazzare in libertà. A un certo punto
tornò trafelata dal padre invitandolo a seguirla -Papà vieni, vieni, guarda
quant’e grazioso, dolce, tenero
-Gioia, non mi fare alzare, lo sai che faccio fatica- Protestava il
genitore debolmente, sia perché sapeva che era inutile non
accondiscendere al piccolo demonio, sia perché nei suoi confronti era
troppo cedevole. Sapeva che la figlia gli fosse molto attaccata e che di
lui ne avesse fatto un maestro e un modello da copiare, inoltre possedeva
una fresca intelligenza ed una curiosità ad apprendere che le sorelle non
avevano, perciò si fece tirare per mano e condurre lungo un vialetto
dove un topo si crogiolava su una chiazza di sole
-Tutto lì- Le disse deluso -Mi fa' susiri ppi 'nsurgi? Ma tu lo sai
quanto danno ci produrrà quel grazioso, dolce, tenero animale?
Praticamente cercherà di metterci sopra i denti su quanto a noi serve
-Un topolino così bellino, non può fare i dispetti che tu dici! Guarda
quant’e delizioso, sembra di peluche
-Se continua a stare allo scoperto le delizie finiranno tra le
mascelle di un gatto
-No, questo no, non lo voglio. E cosi grazioso!- E presa dalla paura
d’una probabile perdizione assegnata all’insicura, piccina creatura, la
paladina fece sentire la sua presenza.
La bestiola, essendo nata da poco e non avendo ancora assorbito
bene l’istinto, non badando al pericolo, con grande spasso della
bambina che la seguiva da presso per proteggerla, si mise a trotterellare
lungo il viale.
Dopo quell’esperienza, per un certo tempo Donatella diventò
prevenuta nei confronti dei gatti. Immaginava la scena del banchetto con
una preda innocente e si rattristava della loro cattiveria, fin quando una
domenica in campagna non ebbe a rivedere le posizioni di condanna.
Quel giorno, munita di uno stelo di caprinella all’apice adattato a
cappio era andata a caccia di lucertole, piccoli coccodrilli come era
usa a chiamarle. La giocherellona, appostata sui muri a secco, sporgeva
lentamente la testa a controllare che dalle fessure il piccolo sauro facesse
capolino e appena individuato il riparo con la sua presenza, all’ingresso
vi calava il nodo scorsoio adeguatamente allargato a non insospettire,
aspettando che l’animaletto si affacciasse di nuovo, per tirare e farlo
prigioniero. Poi conducendolo al guinzaglio ci giocava un pochino e
quando le pareva che l’ostaggio cominciasse a soffrire per lo spavento
lo liberava di buon grado, senza minimamente venirle in testa di
seviziarlo come aveva avuto raccontato da certi ragazzacci. Stancatasi
di quel tipo di svago si occupò a rincorrere le farfalle o a scoprire tra le
fronde degli alberi qualche nido o a raccogliere dei fiori di prato, finché
non dovette arrestarsi di fronte ad uno spettacolo orribile: un topo
stava divorando un piccolo coccodrillo. Scappò via gridando ed
all’accorrere del padre, gli si gettò tra le braccia. Da quel giorno pure
per lei il grazioso, dolce, tenero amico, divenne il famigerato, schifoso
roditore.
Un’altra volta, ormai grandicella, Donatella ebbe ad assistere ad un
fatto ripugnante. In un cassonetto della spazzatura un uomo frugava tra
i rifiuti. Ad un tratto accusò un moto brusco come se avesse preso la
scossa e nel ritirare il braccio un topo gli corse per il corpo dandosi a
precipitosa fuga. La ragazza non riuscì a trattenere un grido di terrore
che sortì l'effetto di far girare verso di lei l’uomo investito affatto
tranquillo ed anzi per rassicurarla sventolando con l’atra mano la
bottiglia ormai vuota, si abbandonò ad un’ebete risata da ubriaco. A
seguito dell’episodio alla signorinella l’avversione per i topi diventò
totale e il solo sentirli nominare le procuravano un senso di angoscia. Ma
il futuro per un capriccio di persecuzione doveva riservarle sorprese
ben più gravi.
L’amabile adolescente era cresciuta, come accennato, estroversa, cordiale,
leale, quindi un po’ ingenua e un grande ascendente subiva dal padre.
Infatti in famiglia era l’unica ad essere interessata alle argomentazioni
ideali, sindacalistici e politici nei ricorrenti, amari sfoghi dell’edile
minacciato dalla crisi del settore, a stare attenta ai telegiornali dai quali
aveva imparato tanti nomi e volti di persone importanti, ed ad interrogarsi
sull’illimitata sequela di violenze sfornata quotidianamente dal video. Si
ripeteva che nel mondo c’era troppo odio e prepotenza e lei si compiaceva
di appartenere alle categorie dei semplici ed altruisti. Finita la scuola
dell’obbligo in virtù della più vivace intelligenza riconosciutale rispetto alle
sorelle aveva iniziato ad imparare lavori di merletto presso una parente
pratica.
Le due sorelle più grandi frequentavano un corso di cucito, la più
piccola era stata iscritta al magistrale ed il pomeriggio per qualche ora
aiutava in casa la madre impegnata da mane a sera a dare decoro alla casa e
ai sei componenti della famiglia.
L’abitazione, un decrepito immobile ereditato da una zia in
contropartita dell’ospitalità ricevuta negli ultimi otto mesi di malattia, era
stato ristrutturato dal padre al ritorno dell’ordinario lavoro giornaliero. Il
valente capomastro sfruttando un cortiletto interno aveva ricavato quattro
spaziosi vani più gli accessori e già pensava alla sopraelevazione di un altro
piano però con due miniappartamenti da assegnarli in dote man mano che le
figlie sposassero. Il signor Musmeci era un infaticabile lavoratore che non
conosceva né ozio, né vizi, né svaghi. Con il frutto del suo lavoro aveva
tirato su la numerosa famiglia dignitosamente, un’abitazione s’era
infranchita ed altre aveva avviate. Per la dote alle figlie aveva permesso alla
moglie di accumulare qualche cassa di biancheria, e un piccolo risparmio per
ogni evenienza sfavorevole aveva costituito in una libretta. Uguale operosità
pretendeva dai familiari, riservando per tutti come giorno d’evasione la
domenica, spesa in qualche gita in macchina o più facilmente nella passeggiata
sulla via principale della città che gli dava, rendendolo felice, modo di
pavoneggiarsi in mezzo a cinque donne, tutte belle. Ed il riscontro che le
sue gemme fossero preziose gli proveniva da un interessamento assiduo di
corteggiatori. L’onesto uomo notava, capiva, abbozzava ed attendeva che
qualche bravo giovane si decidesse a venire allo scoperto, perché lui da
persona concreta non avrebbe mai indulto a escamotage sotterranei. Su
questo punto era inflessibile e guai a disobbedire, si sarebbe strappato
l’occhio piuttosto che chiuderlo. Alla piccola glielo aveva detto chiaro e
tondo che sarebbe andata a scuola fino a che avesse dimostrato di volersi e
sapersi comportare.
Ma la terzogenita, Donatella, di notevole avvenenza, maggiormente
risaltabile per quel tratto di autenticità nel carattere, era anche la più
vulnerabile, a causa della fiducia riposta nel prossimo. Da qualche settimana i
suoi spostamenti venivano seguiti da un giovane mai visto prima,
all’apparenza beneducato e timido, pur se sfoggiava una certa eleganza e un
baffetto civettuolo. La ragazza lo trovò interessante, ma contrariamente alla
sua natura, presentì gli avvertimenti minacciosi del padre, quindi indossò
l’abito dell’imperturbabilità, finché il corteggiatore non le accennò un saluto
che lei ricambiò con un significativo mezzo sorriso.
I due fecero in fretta a scoprire il grande amore ed a perdere, lui
l’affettazione di esitanza, lei la verginità.
Così l’ingenua sentimentale cominciò a conoscere una lunga serie di
avversità, scaturite da un nobile atto di coraggio e patite come una
maledizione. A seguito dell’avanzata maternità non più nascondibile e non
partecipabile ai genitori che per essere maturata al di fuori del ma trimonio
non l’avrebbero mai accettata, la ragazza prese la fuga con il seduttore
forestiero, finendo inghiottita da un gorgo di sventure cosi dure da sentirsi,
nella circostanza che normalmente rende felici, la più infelice del mondo.
Marcello se l’era portata ad occupare un abituro del quartiere più
malfamato della sua città, dove l’acquiescente promiscuità tra topi e
persone, di fronte al sudiciume morale della comunità della zona, aveva
perduto ormai la capacità di disgustare la nuova arrivata. Questa era stata
la prima, terribile avvisaglia, mitigata nei primi tempi dal sostegno d’una
buona compagnia del giovane che si mostrava affettuoso, nel provvedere alle
necessità con larghezza, nell’ingegnarsi per quel che potesse ad ingentilire
l’ambiente domestico, nel portarla a passeggio, cercando insomma di
addolcirle gli obbrobri del vicinato ai quali la poveretta era costretta ad
assistere incredula. Di contro avevano cominciato a frequentare una coppia
sfacciatamente equivoca che il compagno le raccomandava come
fidatissima. La situazione imputridiva lentamente e più si aggravava più si
faceva rada la presenza in casa del convivente che cercava di giustificare
con il lavoro intrapreso di commesso viaggiatore.
Marcello rientrava spesso sovrappensiero, a volte sembrava assente ed
alle lamentele della gestante riguardo le ristrettezze, rispondeva svagato che
non poteva farci nulla se le loro condizioni economiche allo stato attuale
erano troppo deboli e che se non fossero gradite le sue capacità di guadagno
doveva pensarci prima, facendo un’altra scelta, visto che lui il lusso non glielo
sapesse procurare.
-Non cerco il lusso, ma la decenza- Controbatteva la compagna,
avvilita.
-La decenza, cara, costa soldi che io non ho, ne tu hai portato- Le
ricordava allora l’altro, divenendo cinico.
La ragazza ingoiava amaro, abbassava gli occhi e al vedersi la pancia
grossa desisteva dal contrattaccare, anzi restandosene in angustia, smetteva
di parlare per pensare alla casa abbandonata, al clima di serenità perduto,
alla madre, alle sorelle, al padre soprattutto, e ne provava un ulteriore grande
dolore. Il rapporto di freddezza instauratosi, spronava il dichiarato agente di
commercio ad assentarsi maggiormente da casa e a fargli prendere
l’abitudine di non rincasare tutte le sere a causa di pretestuose, lontane
trasferte. Rimasta intere giornate sola a casa la disgraziata riceveva spesso la
visita dell’amico fidato di Marcello, che per suo incarico, almeno così
quello diceva, provvedeva all’indispensabile e con malcelata malvagità
nello sguardo si dichiarava sempre a disposizione. Mai che fosse la donna a
renderle visita, forse troppo occupata da disdicevoli faccende. E fu in una
di queste visite del mal digerito ospite che la partoriente fu trovata attaccata
dalle doglie e con la sollecitudine del caso accompagnata al più vicino centro
di ostetricia. Il facile parto regalò una meraviglia di maschietto in ottima
salute.
Marcello si mostrô molto disponibile alla scelta del nome, ed acconsentì
alla proposta che il pargolo venisse chiamato Camillo. Alla convivente
sembrò un segno di buona intenzione al cambiamento, e nell’amplesso ci
metteva più passione.
Una mattina prima di levarsi dal letto sull’avambraccio interno sinistro del
compagno Donatella scorse una macchia bluastra ed alla sua curiosità di
sapere le fu raccontato che il giorno prima il giovane aveva aderito
all’invito da parte di un cliente di riguardo di donare il sangue durante una
raccolta della C.R.I. presso l’ambulatorio mobile installato sulla piazza del
paese dove si trovava per rappresentanza. La donna capì l’intenzione di
Marcello a turlupinarla come già aveva fatto con il dichiararle, lui
sprovvisto di macchina, di avere intrapreso il lavoro di commesso
viaggiatore. Forse da parte sua c’era l’oscuro disegno di condurla pian piano
a capire certi progetti apertamente innominabili. Bastava che la giovane
madre si guardasse attorno per non potere non convenire di essersi messa con
uno scavezzacollo dedito all’ozio. La casa, l’ambiente, gli amici, la sua
stessa posizione di amante o di chi sa che cosa, la superficialità da parte
del compagno sia di sentimento che di responsabilità e l’indifferenza per
Camillo, convergevano in un’unica indicazione di allarme.
Intanto Marcello continuava a stare fuori di casa e il suo amico diventava
più invadente ed impudente fino a tentare di violentargli la compagna che,
scampata all’energumeno sol perché al suo basso ventre una volta tanto la
fortuna l’aveva aiutata a mettere a segno una ginocchiata, al rientro dello
scioperato non mancò di esigere una spiegazione -Voleva violentarmi
-Chi?
-Il tuo amico
-E’ impossibile. Quello ti ha come una sorella. Avrai frainteso. Non
devi fare la prevenuta. Piuttosto cerca di essere gentile con lui
Non reggendo ai nervi e sopraffatta dal pianto, Donatella smozzicò
-Cosa vi siete messo in testa, che volete da me?
-Ma niente, ti dico, c’e stato un equivoco di sicuro
Era inutile continuare a discutere, e se la sventurata tenesse a non
impaludarsi senza ritorno, doveva trovare la forza di fuggire.
A toglierla d’impaccio fu un insperato avvenimento. Erano
trascorsi pochi giorni dalla baruffa relazionale con il risultato che i due
non si parlassero e la notte dormivano dandosi le spalle. Ancora era
buio. Mancava poco ad albeggiare. Bussavano alla porta. Marcello
capi. Saltò giù dal letto. Si guardò intorno smarrito. Non trovò rifugi,
né spazi di fuga. Era stato colto in gabbia. Non aveva scampo. Infilò i
pantaloni. Senza dare la voce si diresse alla porta. Aprì. Si ritrovò con
la canna d’un mitra e una pistola puntate. Entrarono quattro agenti. Due
ispezionarono i locali e due badavano al ricercato. Sopraggiunse un
maresciallo che per pura formalità chiese al catturato se le generalità
annunciate corrispondessero alle sue, e senza aspettare conferma lo
invitò a vestirsi e a seguirli. Poi il sottufficiale si avvicinò al letto e
domandò alla donna chi fosse. Donatella rimase con tanto d’occhi
sgranati senza rispondere. Il convivente ne fece le veci dichiarando
-Un’amica
-E quello?- Volle sapere ancora il capo drappello, indicando
Camillo
-Nostro figlio- Riconobbe il reo sospetto.
-Allora signora- Ordinò il maresciallo alla giovane ancora strabiliata
-Anche lei deve seguirci. Si prepari, per favore
Donatella obbedì alle istruzioni col cuore in gola. Sulla volante,
riuscendo ad emettere un tremolante fil di voce, chiese ai poliziotti -Di che
cosa è sospettato?
Quello alla guida rispose -Uso e spaccio di stupefacenti. Rapina a
mano armata. Avviamento alla prostituzione
L’infelice si sentì gelare il sangue e strinse al seno Camillo.
Prima del rilascio a Donatella le fu consentito di scambiare qualche parola
con il delinquente. Non perse tempo a chiedergli -Sono vere le accuse?
Quello tirando fuori dalla tasca le ultime banconote che possedeva
e mostrandogliele, domandò a sua volta -Credi forse che piovano dal
cielo?- Poi gliele porse spiegando -Penso che qui non mi servano per il
momento, a te possono tornare utili per le immediate necessità. Però
sarà bene che diventi furba, non c’e futuro per gli imbecilli. Mi
occorreranno molti soldi per l’avvocato, se non vuoi che mi tengano
qui. Va da quel mio amico, potrà aiutarti, basta che sii gentile con lui.
La mia salvezza dipende da te.
La giovane donna guardò con disgusto il miserabile che tutto
preso dalla preoccupazione per la sua sorte, non una sillaba aveva
pronunciato non soltanto per lei, ma nemmeno per quella del figlio. Le
sembrò viscido e schifoso più di un verme, come viscosi le parvero i
soldi che teneva in mano e con un empito di collera glieli buttò in
faccia. Quindi senza pronunciar parola si girò per allontanarsi, lasciandosi
alle spalle suppliche di aiuto lanciate al vento.
Donatella aprì gli occhi constatando di trovarsi dentro una baracca
senza sapere come. Ricordava soltanto che uscita dal commissariato
aveva evitato di passare da casa per non incappare in spiacevoli incontri,
d’avere preso un treno e di sentirsi oltremodo spossata. Attorno a lei
vigilavano preoccupate donne di mezza età e più anziane. Dall’uscio
facevano capolino visi sporchi di bambini, anche questi in
apprensione, muti e con gli occhi dilatati. Camillo giaceva al fianco
della madre. Sembrava trovarsi a suo agio, sgambettava e sorridendo
alle astanti comunicava con loro lanciando strilli gioiosi.
-Dove sono?- Chiese disorientata l’estranea.
-Tra amici- Le fu risposto in coro, e le simpatiche facce, passata
l’inquietudine, erano diventate raggianti di calore umano.
-Piuttosto come ti senti ora, figliuola?- S’informò quella che
sembrava la più vecchia per colpa della bocca avara di denti.
-Dove sono?- Insistette a chiedere dalla rete metallica senza
materasso in cui si trovava distesa la soccorsa, e d’istinto con una mano
toccò Camillo che le giaceva accosto il lato sinistro. Poi aggiunse
- Cosa mi e successo?
-Davi i numeri. Eri impaurita e molto provata- Le comunicò la
solita vecchia, mentre pian piano le altre per aggiungere ognuna
qualcosa produssero il chiacchiericcio di routine.
I bambini s’intrufolarono tra le donne e con i loro giubili per
Camillo accrebbero la confusione.
Donatella capitata in una comunità di gente povera, affabile, generosa
ed operosa, dopo essere stata complimentata per la bellezza, la
giovane età e la socievolezza del piccino, fu rassicurata della fruibilità
dello squallido casotto, che al rientro degli uomini avrebbe subito quei
ritocchi indispensabili per un riparo meno insicuro, nel frattempo le
vecchie le avrebbero procurato qualcosa di arredamento e di stoviglie,
infine tutti si sarebbero interessati a cercarle un’occupazione. Certo la
figlia del capomastro Musmeci che tanto le mancava ma che non le
era consentito riabbracciare per aver violato principi indiscutibili,
allevata nel decoro e nella rispettabilità mercé i sacrifici
dell’infaticabile lavoratore, una volta caduta nel precipizio, andava
scoprendo come non vi fosse più speranza di venirne fuori. Era entrata
a far parte dell’umanità emarginata e del tutto ignorata prima della
sciagurata decisione di seguire il bellimbusto. Stava pagando il prezzo
della sua franchezza e lealtà, nonché della sua debole natura
sentimentalista. E quell’anno circa vissuto come in mezzo a continue
allucinazioni, il tempo aveva steso gli stoloni dai quali poter continuare
a germogliare e a dare frutti avvelenati. Il nuovo ricovero era più
fatiscente del precedente, originariamente in legno s’era ridotto in una
serie di rattoppi di sudici laminati e compensato. L’acqua senza garanzia
di potabilità, bisognava andarla a prendere alla fonte pubblica; nelle
fogne in più tratti scoperti vi guazzavano aggressivi ratti. Pensò come
sarebbe potuto uscire quell’ambiente suppurato dalle mani dell’artista
della cazzuola, suo padre, e fremette d’amore. Pensò pure alla
cassapanca della biancheria fine, di lino, quanto utile le sarebbe stata
in quella evenienza di assoluta indigenza, invece di restare conservata
sotto lucchetto; vide la sua quota dividersi in tre parti, quante le
sorelle, e ne fu contenta. In compenso ora, a differenza di prima, la
miseria era dignitosa. Di solito i maschi partivano per la campagna se
avevano trovato un ingaggio, e se no, seguivano le donne in città a far
pulizie: sia i primi che le seconde avevano da rintuzzare la concorrenza
degli immigrati di colore. Donatella fu accolta in società da due addette
alla pulizia di scale. Il lavoro pesante sebbene non fosse allenata alla
fatica, ed il modesto ricavo bastevole alle primarie necessità, non la
turbavano più di tanto. Il rovello incessante consisteva nel pensiero a
Camillo e nel terrore che si compisse il deprecato evento d’un assalto
d’immonde bestiacce, pur se era stato preso in carico durante l’assenza
di lei dalla collettività, vigilato a turno dalle donne e non mollato un
istante dalla più grandicella dei ragazzi, Concetta di nove anni, che
aveva trovato nel marmocchio un insperato, meraviglioso giocattolo.
Solo quando rientrava, l’apprensiva ragazza madre si acquietava con un
sospiro di sollievo. Distribuiva ai piccoli le leccornie comprate per loro
e prendeva in braccio la deliziosa creatura a godersela fino all’ora di
preparare il pranzo. Concetta era invitata a restare, fra i tre s’era
costituito un feeling perfetto, mentre gli altri bambini si allontanavano
a malincuore richiamati dai genitori. Il piccino veniva sistemato di nuovo
dentro la carrozzella-culla tempestata di bubboli che su richiesta, a
seguito delle occasioni di lieto evento, era a disposizione del vicinato.
Concetta riprendeva servizio di sorveglianza e solo quando la zuppa
fumava dentro i piatti, i tre si mettevano a tavola, con Camillo
accomodato sul grembo della genitrice a succhiare la pappina dal
biberon.
Pur tuttavia, con tutte le attenzioni prese, lo scenario diventò
raccapricciante: su una sconfinata spianata una miriade di topi e un
gruppo di personaggi, parte a lei noti attraverso i mass-media e parte
sconosciuti, circondavano la sfortunata ragazza madre.
La prima serie era composta da cinque elementi: un gobbo
dall’aria mistica, la faccia, capovolto triangolo isoscele, e le orecchie a
sventola, un grassone molto noto come ricattatore, con l’aspetto di culo
dalla cui fessura era emerso il naso, una sorta di psiconevrotico sempre in
preda a convulsioni, un compassato ed allisciato recitatore, un allegro,
sbuffante macroftalmico. Tranne gli ultimi due, gli altri portavano le
lenti. Alla seconda schiera appartenevano scienziati e collaboratori che si
riconoscevano dai camici bianchi e fosforescenti e dalle suppellettili
baluginanti di un laboratorio allo scoperto in mezzo alle quali costoro
cooperavano. Donatella apparteneva alla comitiva senza un qualsiasi
senso logico e pratico, capitata lì a caso come per la precedente
sistemazione.
La radunata oceanica di roditori tumultuava con strida che l’udito
degli umani mal sopportava, finché non apparve una tribuna gremita dai
rappresentanti. Uno di loro dall’asta in cui era appesa trasse una specie
di sonagliera che scuotendola servì a placare l’animosità dei convenuti.
Iniziò a parlare un autorevole esponente della muridità -Graziose topine,
gentili murini, ho l’onore di avviare i lavori di questo sesto raduno
internazionale- L’applauso prodotto con le zampe anteriori e le strida
di prima coprirono l’esitante voce dell’oratore, che per riottenere il
silenzio, alla sonagliera preferì il segnale di chiusa dei direttori
d’orchestra -Comincio subito col ribadire che le nostre più grandi
sventure ci derivano dalla nostra subalternità fida e gradita a questi
stronzi- Indicò il centro dell’assise -Che per ringraziamento ci
riserbano le più gravi umiliazioni e le più crudeli sevizie. Con tutto ciò
mossi da alto senso di solidarietà li seguiamo ovunque e questa nostra
assidua frequentazione, questo gravoso vivere promiscuamente, ogni anno
in autunno ci regalano il contagio di terribili epidemie influenzali. Data
la mia veneranda età, le pestilenze alle quali miracolosamente sono
sopravvissuto sono ben sei che qui in ordine di tempo vi elenco:
incestopatia, pedofilia, omosessopatia, drogalessi, mafiotite, e quella in
corso intelligentite. Degenerative le prime tre, quarta e quinta maligne,
molto perniciosa l’ultima, cui il virus dell’intelligenza, pur accendendo
una fiammella dentro i nostri cervelli, non sappiamo dove possa
arrivare a condurci, tenuto conto di quali misfatti arrivano a macchiarsi in
suo nome quei miserabili. E allora la parola d’ordine è profilassi per
l’applicazione della quale abbiamo abbozzato un piano di cui l’insigne
ispiratore qui presente ve lo saprà esporre meglio di me. Cedo la parola
Un subisso di applausi, fischi ed urla esplosero come un uragano.
Donatella ansante più che se avesse corso a perdifiato si volse a
guardare gli altri ostaggi. Al gobbo gli si era appuntita la cifosi per
essersi stretto nelle spalle, aveva intrecciate le mani e con le pupille
volte in cielo la sua espressione appariva più ieratica. Più spavaldo s’era
fatto invece il ricattatore che portandosi le mani ai fianchi, da
simpatizzante delle dittature guardava in cagnesco. Lo psiconevrotico
mulinava le braccia con sensibile sforzo segnalato da continui tic
nervosi. Il campione di sussiego rimaneva al di sopra della situazione.
Al macroftalmico, i bulbi stavano per schizzargli fuori dalle orbite, le
labbra carnose gli si erano allungate e se si fosse potuta rimpicciolire la
persona avrebbe potuto prendere posto senza sfigurare tra gli
accerchianti. Gli scienziati se ne stavano attenti ad ascoltare con le
braccia conserte.
II nuovo oratore agitò la sonagliera, schiarì l’esile vocina ed iniziò
-Leggiadre topelle, egregi muridi, musculi, flavicolli, milleri, dicruri,
apodemi, sorecini, colleghi delle chiaviche, grazie per essere venuti da
ogni dove. L’evento è di portata storica. Cercherò di essere il più
succinto possibile. Come accennato da chi ha aperto i lavori,
l’intelligentite galoppa. Questo cosa significa? Che impensabili
orizzonti si aprono dinanzi a noi. L’intelligenza non è più esclusiva
prerogativa dell’uomo. Purtroppo è approdata all’isola dell’infelicità
un’altra specie: la nostra. Oggi ci è dato raggiungere il più alto grado
di evoluzione conosciuta.
Donatella cominciò a sudare. Aveva letto nell’inserto scientifico
del giornale che la domenica il signor Musmeci si permetteva e che
portava a casa per impiegare la prima metà della giornata di relax
sprofondando in una stentata lettura che assorbiva a bassa voce, di
teorie sull’evoluzione delle specie, alcune bizzarre, altre seducenti.
Ricordava il nome di un certo Darwin che faceva discendere l’uomo
dalla scimmia. Però secondo quella indicazione, tutt’al più avrebbe
dovuto essere la scimmia a poter ammalarsi di intelligentite. Ebbe un
attimo di perplessità per il presentarsi di un’associazione d’idee
riguardante l’eventualità che la gran calca apparentemente formata dagli
indegni roditori in effetti fosse composta da scimmiette miniaturizzate.
II cospicuo sforzo d’immaginazione le rese le tempie doloranti. Invano la
giovane cercò sollievo dai compagni di prigionia perché il primo gruppo
aveva accentuato le pose già prese, mentre tra gli scienziati i più per lo
sgomento s’erano portati le mani a comprimere la brizzolata cesarie
mentre che l’oratore aizzava -Ma arriviamo secondi e i precursori gelosi
della loro superiorità non vorranno dividerla con altri, quindi lo
scontro sarà inevitabile e, non è per ambizione, che io penso si debba
prendere l’iniziativa. Con l’organizzazione e l’iniziativa abbiamo già
vinto una volta e definitivamente contro i gatti, gli eterni nemici ridotti
a darsi a precipitosa fuga appena ci scorgono da lontano. Contro gli
umani abbiamo un’arma micidiale, sicuramente vincente: questa!Sporse più che poté il bacino in avanti e con la mano mostrò il basso
ventre -Un risibile pisellino del quale aitanti esseri con tanto di
membro hanno una matta paura. Noi diffonderemo la leptospirosi
come l’aria diffonde l’ossigeno, tranne che quei signori, si fa per dire, i
bioingegneri…- Indicò gli scienziati che già dimenavano il capo per la
disperazione -…non decidano di acconsentire alle nostre proposte. Loro ci
conoscono in tutte le fibre per i martiri infertici attraverso la
vivisezione, loro apporteranno le modifiche genetiche che consentano
l’attuazione delle nostre richieste. Ci darete una struttura di un metro,
una complessione solida e longilinea, ovviamente gli arti bene
sviluppati e la posizione eretta che per grande muridità meritiamo più
di voi portatori di pessima umanità, meritevoli soltanto di tornare alle
quattro zampe e forse meno, visto come siete bene allenati a strisciare.
Adornerete tutto con un po’ di grazia sostituendo le vibrisse con un
baffetto alla Marcello
-Schifosi voi e lui- Gridò Donatella con gli occhi rossi di furore
Le prime file della ressa ondularono in procinto di avventarsi sulla
temeraria prigioniera, ma desistettero al cenno di attendere partito dai
notabili
della tribuna. L’oratore in un accesso d’ira ammonì
-Smorfiosetta, sono finiti i tempi in cui, tuoi coetanei, per gioco dopo
averci cosparso di benzina ci davano fuoco per godersi la nostra folle
corsa e lo scoppio finale. Quant’è falso Iddio, se la glaciazione ha
potuto con i dinosauri, la leptospirosi estinguerà voi!- Poi si rivolse al
sociologo che gli stava accanto e lo pregò di esporre le sanzioni.
-Emeriti ospiti, purtroppo ho l’ingrato compito di chiarire il
rischio che correte a non ubbidirci. Noi non abbiamo interesse a
sbarazzarci di voi, pur se alla natura è indifferente ad avere l’uomo o
il topo come amministratore delle proprie ricchezze, a patto che non le
si comprometta il patrimonio. Ma voi ci servite per servirci. Dunque se
saprete ascoltarci, la vostra sarà un’aurea dipendenza. In fin dei conti
cosa vi chiediamo? Di anticipare risultati che il processo di evoluzione
una volta ingranato ci darebbe più lentamente nel tempo: un po’ di altezza
e un po’ di peso in più, qualche pelo in meno, una migliore fattezza del
labbro superiore, e da decidere ancora un ridimensionamento o la totale
eliminazione della coda. Ah, prima che me ne dimentichi, una più
stretta aderenza dei sessi. Come vedete, bazzecole!- Dalla platea montò
un vocio di rimprovero -Allora, per l’ultimo punto fate in modo che
disponga il gusto individuale. Se tutto questo accetterete, noi ci
conformeremo al principio del do ut des e vi manterremo dal momento
che i ruoli si sono invertiti, diversamente, ai vostri sabotaggi
risponderemo con la crudeltà che vi distingue. Non provate ad
avvelenare le derrate, morirebbero solo gli assaggiatori scelti tra di voi.
Contro i gas abbiamo acquisito l’immunità nelle cloache. L’artiglieria è
inutile contro i professionisti dell’imboscamento. L’atomica
produrrebbe tabula rasa per tutti. Comunque l’unica pena che
applicheremo per ogni prevista o futuribile norma infranta, sarà la
viviscorticazione.
I risoluti soggiogatori, scambiata la minaccia per un invito,
mostrarono i denti e imbaldanziti avanzarono di pochi saltelli, mentre
gli ostaggi dopo aver tremato ed essersela fatta addosso, otturavano il
naso con le dita. Ma il deciso intervento del sociologo, furioso
scuotitore della sonagliera, ricostituì la tregua -Colleghi stiamo trattando.
Deontologia e diplomazia vogliono che non sia esercitata violenzaAnnunciò che per quanto gli concernesse aveva finito e invitò a parlare
il politico.
-Arroganti omuncoli, voi vi starete chiedendo da dove vi sia caduta
questa tegola: dall’altare che avete innalzato all’ozio. Voi animali
apparentemente operosi, invece amate molto, l’ozio
-Non è vero- Intervenne audacemente Donatella - Mio padre si
sente malato quando non fa niente
-Tu sta’ zitta- Impose il bel nutrito ratto -Le eccezioni
confermano la regola. Eppure non dimenticare che il tuo signor amato
babbo protestò per essere stato scomodato a causa di un topolino.
Inoltre mettiti bene in testa che senz’essere invitata, non hai diritto a
parlare. Non ci sono sconti per te. Ci hai girato le spalle e ci detesti anche,
sol perché ci hai sorpreso a cercarci da mangiare. Forse che tu non ti
alimenti?
-Vergogna, aggredire una minuscola lucertola, poi un ubriaco e
forse già pensate a Camillo, un lattante indifeso
-Voi invece rinunciate alla carne tenera, ingordi sbafatori di filetti,
fese e cosciotti
-Noi delle specie amiche non mangiamo né la tenera, né la dura
-Quali sono le vostre specie amiche?
-Ad esempio i cani, i gatti...
-E i cinesi?
-Aggredite allora i cinesi
-E i baresi?
-Aggredite pure i baresi, ma gli altri, gl’innocenti…
-E perché soltanto loro e tu no, visto che non ci hai citato tra le
specie amiche?
-Ma siete stati voi a dichiararvi amici nostri
-Adesso non più, ormai sono aperte le ostilità. Comunque non
sviare il discorso. Si diceva dell’ozio. A causa di tale vizio capitale
avete creato tanto disordine. Dall’ozio e per l’ozio prospera la
prepotenza. L’ozio infiacchisce, pretende sempre più comodità e da
condizione bramata, di esso ne avete fatto un premio per il conseguimento
del quale l’intero genere umano concorre con mezzi leciti e non. E’
chiaro che i gaudenti dell’ozio per mantenersi han bisogno di coloro
che oltre alla propria svolgano un supplemento di operosità per i
perdigiorno, i quali per imporsi e giustificare l’ignavia hanno inventato
una serie di pseudo attività: ecclesiali, burocratiche, giuridiche, di
ordine pubblico, che a noi ci fanno semplicemente ridere ed hanno
istituito un sacro regolatore truffaldino: il denaro, sostituto legale della
ricchezza, facilitandosi e legittimando lo scopo perverso. Tanto denaro,
tanta più ricchezza, tanto più potere, tanti più ozi. Il denaro essendo
anonimo non interessa come si guadagni, né da dove lo si prenda, e
siccome siete dotati di una spaventosa inventiva volta al male, siete
riusciti a costruire e a far valere il più grande schermo all’ingiustizia: la
democrazia, sistema entro il quale tutti gli assurdi debbono convivere
con la pretesa d’una quieta normalità. Infatti un sistema politico che
dovrebbe servire il popolo si vanta di privilegiare proprietà ed
iniziativa privata, cioè a dire l’interesse dei singoli all’interesse della
comunità che con eclatante contraddizione in termini, fieramente si
autodefinisce democratica. Inoltre si fa scudiero dell’eredità, premiando il
violento o fraudolento raggiungimento del possesso dei beni col farne
beneficiare la discendenza più lontana. Ovviamente con la garanzia
delle forze dell’ordine e l’avallo d’una giustizia eufemisticamente
uguale per tutti. Simili principi hanno fatto presto ad ammorbare
l’esistenza umana. Gli uomini più rapaci, più insaziabili, più ambiziosi,
più inumani, meschini, velenosi, corrotti, malvagi, hanno preso le redini
in mano per condurre la situazione generale nelle abominevoli
roccaforti entro le quali piegarla ai loro sinistri voleri- Lanciò uno
sguardo di ripulsa all’indirizzo del gruppo dei più noti e li tacciò di
impostori, prima di iniziare un crescendo. -Hanno capovolto in
schiavitù rigida, estenuante e ineluttabile l’ideale più naturale, quale
il lavoro ingegnoso, operoso, gratificante, e con il negarlo, abbrutirlo,
appesantirlo e sfruttarlo ne han fatto la loro miniera, cancellandone il
desiderio ed accendendone la necessità, al punto che, la stragrande
maggioranza, lamentandosi di occupare il posto sbagliato, non
congeniale, insopportabile, alienante, ambisce nello stesso tempo agli
straordinari, finendo con il faticare anche per i riposati cronici che
tuttavia consumano. Da noi chi non lavora non mangia, al contrario
che da voi dove tutti gli scopritori, gli inventori, gli scienziati, gli
artisti, i benefattori, in genere quasi di regola per l’intera loro
esistenza, hanno dovuto soffrire disagi, umiliazioni, vessazioni, a
beneficio dei parassiti, sfruttatori e magnaccia. Solleticando la
vanagloria, con una serie di desideri nocivi a voi stessi, avete provveduto
ad incentivare lo sfruttamento. L’accettazione dell’automobile come
status simbol vi ha imposto il soffocamento delle città ed il rifiuto a
spostarvi a piedi vi sta condannando all’atrofizzarsi degli arti inferiori
destinati a scomparire come capitato alla coda, che per la perdita della
quale vi ritrovate privati di un sacco di atti funzionali. Sempre per la
vanità non vi fermate nemmeno al pericolo di estinzione di alcune
specie di animali. Le vostre puttanelle non contente degli scintillii
dei preziosi e del giornaliero inceronarsi non sanno rinunciare alle
pellicce, comprese le nostre della razza più pregiata, la muschiata. La
curiosità e gli affari attraverso i veicoli d’informazione sempre più
sofisticati e veloci vi rendono ogni giorno più nevrotici e tanto più
tempo risparmiate, quanto più impazzirete per la difficoltà a saperlo
impiegare in modo gradevole. State affogando nell’insoddisfazione,
nella noia e nella disperazione. Voi vi chiederete, dopo un così feroce
vilipendere, come mai aspiriamo a sostituirvi: ce l’impone lo spirito di
conservazione. Purtroppo ormai cotti nella follia avete oltrepassato la
misura a causa del produrre a favore di un esasperato consumismo. Con
la chimica, i rifiuti, lo smog, la radioattività, state avvelenando terre,
acque e cieli. State desertificando il mondo con la deforestazione. Quel
che rimane cercate di distruggerlo a causa della concorrenza e per il
profitto dei soliti vip con guerre spaventose. Siamo giunti in un punto
in cui l’equilibrio della natura è messo in serio pericolo. I segnali
sono tanti, e voi al fine di ignorarli per non volere rinunciare alle
cattive abitudini non fate che portarvi le mani avanti agli occhi, ed al
rischio di perdervi non v’importa di coinvolgere le altre specie.
Questo non ci sta bene, anche se fino adesso ci siete stati utili,
beneficio ampiamente ripagato da parte nostra con l’affezione e la
fedeltà, prova ne è la nostra vita nomade al vostro seguito dovunque
tranne sui cieli, dove il mal d’aereo ci procura la nausea, il vomito, la
diarrea. Però, come dicevo, per il bene di tutti bisogna intervenire. E’
tempo di rattoppargli il buco all’ozono, alleggerire l’effetto serra,
fermare l’aumento della temperatura, impedire lo scioglimento dei ghiacci
e l’ingrossare dei mari finalizzato ad invadere le terre e provocare un
secondo olocausto di proporzioni inimmaginabili entro il quale la nostra
sterminata popolazione rivierasca non troverebbe scampo. No, nobile,
caro uomo, fin quando il consumismo ci procurava prosperità, transeat,
ma di fronte alla pretesa di suicidio di massa ci opponiamo con tutte le
forze, perché la vita è bella e noi non ci siamo affatto stancati a viverla.
Certo non avremmo voluto arrivare a tanto, ma il pericolo è troppo
incombente. E come per le epidemie trascorse, avremmo atteso anche
stavolta la conclusione senza fiatare se non fosse stata messa in gioco
la nostra vita. Noi non possiamo restarcene buoni di fronte al
pericolo della nostra stessa estinzione e ritenendo di appartenere ad
una specie delle più operose, tutti insieme gridiamo «E allora, e allora,
il potere a chi lavora!»
L’atmosfera era tesa, l’inno risuonava come colpi di maglio, la
smisurata massa ribolliva furente. Di fatto il raduno era finito. La
tribuna si stava svuotando. I roditori continuavano a delirare. Gli
ostaggi attendevano rassegnati, tranne il gobbo che aveva preso
l’iniziativa d’applaudire, sperando di fare colpo ed aver salva la vita.
Ora lo slogan scemava. Le pupille delle bestiacce sfavillavano di odio
all’indirizzo degli ostaggi. Da un momento all’altro si prevedeva
l’ultimo atto e invece sul lato sinistro del pulpito si aprì un corridoio
attraverso il quale un ratto canuto e zoppicante avanzava, e la cui vista
serviva ad ammutolire. Calò un gelido silenzio. Lentamente il filosofo salì
sull’arengario ed iniziò il discorso -Cari, carissimi sorelle e fratelli, anzi,
figli miei, ho ascoltato attentamente coloro che mi hanno preceduto ed
ho sofferto parecchio prima di decidermi a parlare. Lo avrei evitato se
non mi fossi reso conto dell’imminenza di una strage inutile
Il gobbo districò le dita delle mani che dopo gli applausi s’erano
intrecciate di nuovo in pugno per pregare, e mostrò le palme ai feroci
carcerieri come a dire -Sentite? Non è il caso, lasciateci andare- Il
ricattatore, mani ai fianchi, dilatò i polmoni, lo psiconevrotico lampeggiò
di tic turbinando le braccia per lanciare il suo messaggio muto,
l’azzimato sporse un sorriso affettato, il macroftalmico sbuffò come
una locomotiva, Donatella continuò a sudare e a tormentarsi, gli
scienziati ripresero la posa a braccia conserte, frattanto il filosofo
iniziava la relazione -Sono molto vecchio e quindi, in pegno alla mia
perorazione, non posso nemmeno offrirvi la vita ormai senza valore- Si
alzò un vociare di protesta che il sofo spense agitando con sforzo la
sonagliera, poi riprese calmo -Nella mia lunga esistenza, ne ho passate
di cotte e di crude, perché il mio alto senso di muridità mi ha impedito
sempre di ricorrere alla violenza, eppure sono ancora quiL’assemblea tornò a rumoreggiare e il sapiente tornò a fare ricorso
all’attrezzo per imporre il silenzio -Se mi permettete, voglio proporvi
il sunto di ciò che si è detto. Si è accennato al nostro senso di solidarietà
verso la specie umana, pur a costo di umiliazioni, sevizie, epidemie,
una solidarietà per giunta verso l’animale ebbro di distruzioni, ma che
tuttavia ha fatto la nostra fortuna. Per eccesso d’imparzialità si è evitato
di riferire però sul danno che procuriamo loro per ricavarne il nostro
mantenimento: il cacio ci piace, così pure l’olio, le mostarde, i
fichisecchi, e i farinacei e i cereali, e ogni sorta di commestibile e non,
da mettere sotto i denti o per sfamarci e per diletto
Gli ascoltatori topi a quelle parole s’inquietarono, invece gli umani
approvavano con ritrovata fede di scamparla. Il patriarca all’occorrenza
debolmente si affidava allo strumento sedatore -Oggi con l’intelligenza,
voi sostenete, si aprono nuovi orizzonti e l’unica idea che vi domina è
quella di scambiare la muridità con l’umanità e di calarvi dentro i suoi
ridicoli involucri, senza scandalizzarvi di doverne raccogliere il
patrimonio culturale che tanto avete criticato- Il malessere della platea
riprese a rumoreggiare ed il vecchio saggio supplicò -Lasciatemi dire,
per favore. Allora, io chiedo, quale linea di demarcazione rimarrebbe
tra noi e loro, quando il desiderio di copiarli è così grande? Cosa il
topo conserverebbe in più dell’uomo, se già nel momento stesso in cui
ci sentiamo potenziali uomini, ci meravigliamo si scoprire un’alta
percentuale di loro da tempo topi, senz’essere noi in grado di rilevare
gli opportuni distinguo, perché ormai annullati a causa della cosiddetta
intelligenza, che ipso facto ci ha condannato a perdere
irrimediabilmente l’ultimo pezzetto di muridità, al quale l’uomo è stato
sempre refrattario: l’inclinazione all’amore non ipocrita verso il
prossimo?- Il dissenso ingrossava e ogni volta più stanco l’oratore faceva
ricorso all’attrezzo ammansante -A parte l’aspetto etico della questione
che dovrebbe impedire di accettare o di servire ciò che si disprezza, a
parte la matematica certezza che si diventerebbe copie esatte degli
accusati perché contro natura non si può andare, quale garanzia abbiamo
che la fiammella accesasi nei nostri cervelli abbia lunga durata e che in
caso contrario al momento dello spegnersi la specie oggi reclamata
nostra schiava, a causa della dipendenza da noi, non si ritrovi regredita
dal presente grado di evoluzione? E in simile deprecabile eventualità
cosa succederebbe alle due specie, ve lo siete mai chiesto?
Il gruppo dei personaggi famosi coi gesti del mimo esprimevano
piena solidarietà al vecchio ratto, gli scienziati convenivano anche
loro con secchi assensi di capo, mentre l’adunata era sul punto di
esplodere e Donatella continuava a sudare e ad ansimare tra i tormenti.
Con le ultime energie l’oratore soffiò sulle corde vocali per
chiedere di concludere. Gli fu permesso malvolentieri -So che la
religione dei sogni è inattaccabile, so che il destino e ormai tracciato e
so che la vanità farà il suo corso. Lo ripeto, non ho più tempo davanti a
me per vedere il dopo muridità. Per il bene di tutti voglia il futuro
sconfessarmi in toto. Che il nuovo stato non vi accechi di odio, di
potere, di crudeltà, di affari, di rendite o di profitto. Che non
prevalgano la millanteria, la viltà e l’ipocrisia denominate democrazia
e che soprattutto per la miserabile brama della lussuria non venga
profanata l’operosità e non abbia corso lo sfruttamento, l’abbrutimento
del lavoro e la piaga obbrobriosa dell’ozio coatto. Solo se tali auspici si
scioglieranno positivamente potrete vincere la noia, l’insoddisfazione, la
disperazione e dove l’uomo ha appestato, voi sarete all’altezza di
bonificare e di salvare la vita animale e vegetale sull’intero pianeta,
altrimenti condannata e spegnersi per sempre.
Ricominciarono gli schiamazzi e da più punti, delle voci gridavano
-A morte!- Il ferale aizzamento prendeva corpo in un fermento
generale espresso dalla smania dei disgustosi belligeranti pronti ad
attaccare, saltare più in alto che potessero, di saettare attraverso le
pupille sprazzi di odio, e galvanizzarsi a mostrare i denti. Il filosofo,
poveretto, inutilmente si affannava ad implorare -Violenza no, violenza
no- Teneva con le zampe anteriori la sonagliera, agitandola con folle
disperazione.
I mondani e gli scienziati si strinsero in mucchio improvvisamente
sommerso come uno scoglio dall’onda di marea. Il colpo fu sordo e
secco accompagnato da un allarmante tintinnare di bubboli. Agli strilli
strazianti di Camillo, addentato nelle teneri carni da un ratto grosso
quanto un coniglio, Donatella, saltata su dalla sedia ad accorrere, con
quanta più attenzione poté impiegare in un simile frangente, atterrita,
ma decisa risparmiò all’inerme pargolo ben più intensa sofferenza di
quanta già ricevuta. Dal soffitto il feroce incursore s’era tuffato dentro
la carrozzina nello strettissimo spazio di tempo in cui l’infelice madre,
appoggiata la testa sul tavolo e assopitasi per un crollo di sfinitezza,
prima di prendere e portare a letto con sé l’innocente creatura, aveva
assistito in un attimo di disorientamento preconscio alla condanna a
rosicatura estintiva che il genere umano s’era auto inflitta in gloria dei
suoi irrinunciabili pervertimenti.
SORTE D’UNA SCISSIONE ADONESTATA
Il Circolo Universitario, istituzione quasi sessantenne, importante
punto di riferimento per Acireale, palestra di amicizia schietta e
gioconda, dispensario antiangustia, antiuggia ed antinvecchiamento, si
spacca!
La grata polifonia apportata da varvasapi, salapuzi, agnostici, capziosi
e trasgressivi si scompone in un’accozzaglia di stonature, purtroppo
destinate a sublimare ed a cristallizzarsi, senza che le componenti
sociali riescano a ritrovare la perduta armonia.
Sin d’ora è bene operare una rapida zumata sulle distinzioni
caratteriali degli iscritti al sodalizio in questione, che illuminerà il corso
dell’esposizione.
Varvasapiu o onnisciente, è il saggio, colui che sa, il conoscitore, la
rivelazione personificata, il senatore, il primus inter pares, il padre
della patria. Di norma è ipocritamente modesto o affettatamente in
sussiego a seconda che alle domande poste la risposta giunga con una
già di per sé eloquente alzata di spalle accompagnata da un’amabile
smorfia del viso a ribadire la fatuità di quisquilie, oppure con compassata
esposizione, fin quando il postulante non si azzardi a confutare, poiché in
una simile spiacevole evenienza, per quanto riguarda il primo tipo,
l’avversatore resterebbe fulminato dal silenzio divenuto supponente e
sottolineato da un gesticolare incazzato delle mani, invece che dal
secondo, verrebbe investito da un torrente di presuntuose ciance. Di
solito costoro appartengono alla terza e passa età, da mezzo secolo
fedeli, e nei momenti di difficile pace sono loro in qualità di capi storici
a prendere il comando.
I salapuzi, la maggioranza, potrebbero essere definite le forbici del... se ci
si trovasse in un luogo meno distinto e colto, mentre che qui per rispetto
alla nobiltà dell’ambiente possiamo chiamarli trescanti, e anche simpatici,
velleità permettendo.
Gli agnostici, gl’incontaminati, i puri, rispecchiano la percentuale
esistente nell’ambito mondiale.
I capziosi, per fortuna una esigua minoranza come i trasgressivi,
sono gli incontinenti incalliti, che si possono contare sopra le dita di una
mano è la loro dissolutezza è scandalosa...
Si dice che il comandare sia meglio del fottere, e parrebbe
assurdo che questo venisse scavalcato dal potere, specie in un sodalizio
dove i soci si sono distinti sempre per la demotivazione a gestirlo e lo
spiccato interesse invece verso l’arte amatoria del tipo Kamasutra.
Però non smaltiti, lontani malumori più personali che sociali di
qualche utilitarista di tre cotte verso elementi di presidenza passata e
presente sono finiti con l’inacidirsi ed inacidire gli amici più prossimi,
generando una tensione fino allora sconosciuta al Circolo Universitario,
entro le pareti del quale si era andati d’amore e d’accordo, tralignata in una
situazione simile a quella raccontata da Sallustio e Cicerone. Così ha
inizio un’intricata ed esplosiva vicenda intessuta di viltà ed arroganza
da una parte e di strana e rassegnata sottomissione dall’altra, aggravata
da una concomitanza non indifferente che fa da detonatore: lo sfratto
dalla sede sociale, esecutivo, definitivo, reale, uno sfratto in piena
regola, ben diverso da quello minacciato da tanto tempo e fino ad allora
evitato.
Da quando l’immobile locato al Circolo Universitario, dalla vedova
madre era passato in eredità a due figli, un prete e un funzionario alla
Regione, per gli affittuari non vi fu più tregua a causa della discordia
sorta tra i nuovi proprietari per la spartizione del canone d’affitto. Lo
scontento era il palermitano, che entrato in possesso della parte pregiata
dell’immobile in virtù dell’esposizione sulla via centrale d’un
profondo salone con annessi i servizi igienici, richiestissimo da una
banca non presente sulla piazza, per aprirvi una succursale, e da esercizi
commerciali, non accettava di spartire alla pari con il prete a cui erano
invece toccate le sue rimanenti stanze, con apertura sulla stretta
traversa, via Marzulli. Dapprima il defraudato cercò di rivalersi sui
locatari chiedendo un aumento da capogiro, la triplicazione della sua
metà, e non essendo per poco riuscito a fare breccia su quel fronte,
cominciò a minacciare da un lato lo sfratto, e contro il fratello la
divisione legale dei locali con l’interdizione alla comunicazione dei vani
e all’accesso ai servizi igienici, previa autorizzazione a murare la porta
di transito e con il risultato di mandare in tilt lo stesso rapporto fraterno.
Come si è accennato il corto circuito sulla serenità del Circolo
Universitario ebbe origine da un disgraziato negozio privato tra due soci
molto amici: una riconferma dell’eterna storia che cui havi pena di carni
di l’autri, ‘i so si li mangiunu li cani. E siccome i due godevano di una
certa rappresentatività, tanto che uno era il presidente del sodalizio, e
l’altro un seguito catalizzava per simpatia, la frizione restò a covare
sotterraneamente. Più il rapporto d’amicizia s’affraliva, più
s’insinuavano le schermaglie, solitamente unilaterali. Cosicché
essendo l’integrità del presidente inattaccabile, cominciò ad affiorare
sulle bocche di un costituendo nucleo di oppositori all’esecutivo, il
termine autoritarismo, e proprio in un ambiente dove il disimpegno
alla conduzione era stato pressoché generale, tanto che al rinnovo delle
cariche sociali succedeva che i soci quasi si supplicassero tra loro al fine
di accettare la candidatura, e i convertiti venivano regolarmente eletti per
acclamazione.
Tuttavia
si
discuteva
di
assolutismo
ed
antidemocraticità. Già sul nascere la denigrazione indubitabilmente
pretestuosa invece del danno sperato sortì il sollazzo, e poiché l’insuccesso
ringalluzzisce i pertinaci che se son anche facce toste si infanatichiscono,
bisognava lanciare qualche altra crociata che servisse lo scopo:
l’immoralità del sostentamento del Circolo con i proventi del “macao”.
Il “macao”, si sa, nelle festività di fine anno è così diffuso che dai
primi agli ultimi della scala sociale li si ritrova impegnati a
parteciparvi. Lo si esercita in casa tra parenti, in circoli tra amici, in
bische tra giocatori ed infine anche nei casinò tra i mondani. E’ la
migliorata condizione economica che per l’occasione pretende di
essere esibita. L’amore per questo gioco e la sua diffusione sono talmente
grandi che se il Governo, sempre in caccia di fondi, mettesse
un’imposta di famiglia sul baccarà, rimarrebbe sorpreso dalla facilità
d’incassare per la prima volta senza rammaricamenti o proteste da parte
dei contribuenti. Pertanto tentativi di repressione sono inutili e dannosi
come quando il commissario ammonì severo, quell’anno in cui i soci del
Circolo Universitario, pur di non rinunciare alla ludica seduzione,
allegramente consentirono a farsi tosare, presso la sede di una società
sportiva locale, da bari professionisti. Dappertutto, dove le carte del
baccarà si tengono ormai come una sacra suppellettile, escluso tra
familiari e solo nel caso in cui il gioco rimane circoscritto a loro, è
prassi pagare la percentuale sulla dotazione del banco. E se così non
fosse, come potrebbe essere valido il detto «Il giocatore buona fine non
ne ha mai fatto»! Accanto ai perdenti dovrebbero trovarsi pure dei
vincitori, anche se pochissimi. Invece l’unica a vincere nel lungo
termine e la casa che tiene il gioco. Quindi la percentuale, specie al
Circolo Universitario riscossa in misura molto attenuata, non offriva
appigli. Rimaneva l’aspetto morale: il sostentamento del sodalizio con
i proventi del gioco! Però non si capiva come mai a scagliare l’anatema
non fossero obiettori di coscienza, bensì entusiasti organizzatori o
protagonisti dell’iniziativa in contestazione, in questo caso i
cosiddetti “ludi”. Poteva esser sopraggiunta una crisi vocazionale,
è umano, com’è umano il prendere le distanze da parte di coloro che
hanno subito la defaillance, invece del continuare a mangiare la
minestra sulla quale ci si sputa. Ma, si sa, che ciò che richiede la
coerenza, è disatteso dal pretesto.
Per rincarare la dose fu presa di mira anche la cena di
ringraziamento ai collaboratori del “Numero Unico”, l’opuscolo satirico
grottesco, che in occasione del carnevale, il Circolo Universitario
pubblica da tempi tanto remoti, quando in virtù d’una fresca
originalità era di gran successo, ad oggi ridotto ad una compiacente
rassegna di propaganda politica mista allo sfogo di frustrazioni le più
svariate. Attorno alla cena montò un enorme polverone culminato in una
ridicola, meschina e tracotante lettera aperta con chiusa minacciosa,
intitolata "La misura e colma!", esemplare modello di istruzione ed
avviamento alla maleducazione. A parte l’ingiustificato allarme per
"una richiesta di aumento della quota sociale" che avrebbe dovuto
sembrare normale agli zelatori della chiusura del rubinetto "ludi", qui
per imporsi, il pretesto si aggrappa al falso. Si chiedeva alla
Presidenza “di quali argomenti amichevoli o non, ha di bisogno al
fine di comprendere ed assimilare, una volta per tutte, il sacrosanto
principio che i soldi del Circolo non si sperperano in gozzoviglie". Non si
sapeva di quale Circolo si parlasse, visto che la cassa di quello
universitario per l’intera operazione di pubblicazione del “Numero
Unico” non aveva registrato movimenti di sorta, e non si capiva dove i
protestatari avessero trovato il coraggio per la gratuita censura sol
perché volenterosi collaboratori s’erano concessa una cena guadagnata
esclusivamente da loro stessi con l’impegno alla realizzazione di un
atteso, pur se monotono opuscolo. A consegnare tali detrattori in braccio
allo squallore avrà agito forse il senno di colpa scaturito dai diversi
fallimenti registrati nelle iniziative da loro condotte pro Circolo
Universitario, o l’avvilimento per non poter pesare in seno alla
comunità quanto avrebbero voluto, cioè in misura invertita rispetto al
25% delle ultime elezioni alle cariche sociali, racimolato con
instancabile imbonimento all’elettore mai registrato prima. Comunque il
pretesto protesta, recrimina, insolentisce, ma per conto o in vece di
cosa o di chi?
Improvvisamente era venuta sete di potere all’ormai
ideologizzato e gerarchizzato partito dell’irrisione alla socialità e
della stima preconcetta verso coloro che non avevano voluto aderirvi,
fatti diventare pertanto taddi di cucuzza. La sete di potere s’era fatta
violenta con l’avvicinarsi dello sfratto esecutivo. Non si davano pace
di dover sloggiare da locali che ritenevano gli unici adatti nella città ad
ospitare il Circolo Universitario, esprimendo per la verità un’impressione
largamente condivisa pur tra i soci che valutavano la situazione
ponderatamente e non come loro da tartarughe impazzite per minacciata
perdita del clipeo. L’avevano detto chiaro e tondo di accondiscendere a
qualsiasi aumento del canone di affitto a patto di restare, e l’avevano
detto tanto forte che il palermitano l’aveva ben sentito e non aveva
perso tempo ad avanzare richieste che all’indirizzo suo, non poche
scurrilità avevano generato sulla bocca della gran parte dei soci ancora in
senno. Però gli intransigenti non deflettevano ed al massimo,
conservando le due stanze del prete, indulgevano al trasloco presso un
locale che si stava liberando sull’isolato accanto, anche se piccolo e
scomodo.
Dunque l’erede rivendicatore forte della scoperta che il
gruppetto lanciato alla conquista del potere fosse disposto a sobbarcarsi
a qualsiasi sacrificio pur di non sloggiare, e confortato dall’acquiescenza
di qualche varvasapiu giocherellone in preda a chissà quali fumi, provò
a chiedere ai locatari all’incirca una cifra congrua per una villa del
Palladio. Fece dei tentativi sbalorditivi per precisione di combaciamento
tra la richiesta e il patrimonio contante del Circolo Universitario, di
alleggerire la cassa di questo in modo che lui, vendicati gli insulti,
condannasse il sodalizio breviter, sic et simpliciter al disarmo
definitivo. Però la soverchia ingordigia da superlungimirante, anche se
incoraggiata dalla lucida saggezza del magnanimo confidente, risultando
troppo esagerata per l’incredibile pretesa di spoliazione, fece fallire il
diabolico escamotage.
Da quel momento fu guerra ai ferri corti: i locatari dovevano
sloggiare senza alcuna possibilità di mediazione. Diplomaticamente i
messaggeri di pace ebbero sbattuta la porta in faccia. La famiglia rea
di essere stata meno autolesionista di quanto la si considerasse (ed in
passato quel quanto lo aveva saputo dimostrare eccellentemente!),
doveva scontare la sfacciata presunzione! Bisognava solo attendere
l’autorizzazione dell’esecuzione dello sfratto.
Nelle more dell’evento la situazione all’interno della famiglia
degenerava spaventosamente. Germogliarono, fiorirono, lussureggiarono
due coscienze. E’ bene puntualizzare: due coscienze, e non due aspetti di
un’unica coscienza. Le due conseguenti dottrine dettavano, una, di
preparare il trasferimento con rassegnazione ma dignitosamente
constatando l’abisso tra la richiesta del palermitano e le possibilità di
cassa, l’altra, di conservare a qualsiasi costo gli splendidi locali.
Accordo unanime esisteva invece nel proposito di resistere e
disturbare legalmente in un caso in cui eccetto le proroghe elargite
dall’Esecutivo, in virtù della sua tradizionale saldezza, sicurezza e
competenza, tutto tornava, tranne per le teste di... uovo, categoricamente
sfavorevole. Comunque tra uno slittamento e l’altro dell’ingiunzione
di sfratto, la restituzione dei locali subì un notevole ritardo, utile
soltanto al prosperare della zizzania. Furoreggiò la canzone Smoke
gets in your eyes e l’ambiente finì per diventare un alveare impazzito
dal troppo fumo. L’armonia, la fratellanza, lo zelo si dissolsero in un
turbine di bassi sentimenti. S’inalzarono gli Avogadori... Inverecondi
disertori! Arrivò il giorno della visita dell’ufficiale giudiziario prima
del 2001 come qualcuno aveva vaticinato con buona approssimazione
relativamente all’eternità, senza che si fosse raggiunto un accordo
interno malgrado si fossero manifestati diversi slanci di generosità,
però travisati e frustrati a bella posta dagli irriducibili.
Il giorno dello sfratto, provvisoriamente si finì tutti nelle due
stanze del prete, con grande tronfiezza e felice imporporarsi del
palermitano per aver potuto far scontare così alla controparte la colpa
di non aver voluto essere perdutamente «fagiana» e per l’imminente
pioggia di milioni pronta a scrosciare per lui dal prossimo, rapido,
contesissimo contratto. La porta si comunicazione venne chiusa con
catenella e lucchetto, poi murata come promesso, però il vincitore,
fattosi clemente agli sconfitti permise per qualche settimana il deposito
del biliardo e di alcune masserizie nel salone.
Bisognava adoperarsi per rimediare allo stato di disagio forzato. In
questo frangente, nell’altro isolato il “club dei nobili” lottava alla
disperata per la sopravvivenza, ormai però condannato ad
abbandonare i locali. Codesta sede era piccola, poco più della metà di
quella che la famiglia d’intellettuali era in procinto di lasciare e che
essa conosceva per averla agli albori del casato occupata in verità
scomodamente, pur essendo allora aggregata al altro locale attiguo,
passato nel tempo a bottega, assieme al quale contava quasi il doppio
degli attuali metri quadri. Tuttavia anche se così decurtati, i locali
tanto preziosi erano gli unici che si prestassero molto
approssimativamente nei due isolati ad ospitare la «Cultura», e la
copiosa prole era disposta ad accettare di dimorarvi a turno nel caso si
fosse riusciti a locarli, precludendosi nelle grandi festività la possibilità
delle riunioni al completo. Perciò si fecero i tentativi di
accaparramento, falliti per le richieste da visionario del proprietario,
evidentemente contagiato da un certo tipo di malattia diffusosi nella
zona. Crudelmente il destino impose la diaspora...
A questo punto cominciano i colpi di scena a sorpresa. Le due
coscienze dopo inenarrabili travagli si irrigidirono, la famiglia si
disunisce, e gli scissionisti riescono ad assicurarsi nientemeno che i
locali del secondo isolato, sì, proprio quelli del proprietario contagiato e
niente affatto visionario in quanto il prezzo era lievitato per la concorrenza
occulta promossa da una delle due fazioni della stessa famiglia contro
l’altra!
La sorpresa più clamorosa venne dal Superlungimirante dalle mire
proprio grosse! che dopo aver goduto da folle le peripezie della famiglia
spaccata e sofferto il disfacimento delle sue cieche illusioni, in quanto lo
stanzone ormai sgombro da un pezzo restava vuoto: ritira l’anatema ed
incarica un proprio ambasciatore di offrire agli sfrattati l’ampio vano
incomprensibilmente rimasto ancora sfitto.
Era successo che sbolliti gli entusiasmi e svanito lo sportello
bancario, agli esercizi commerciali il luogo era sembrato caotico,
rumoroso, asfittico, già da tempo declassato, sciatto, fuggito. Inoltre i
locali, con tutte le ristrutturazioni immaginabili non riuscivano a non
destare l’impressione di fondaco, o di stalla, destinazioni del resto avute
alla nascita in un passato non molto remoto, per cui stentava un
pochino a sedurre pur con richieste economiche più abbordabili.
A parte la difficoltà a concludere, il palermitano era stato
condotto al ripensamento dalla meditazione della rottura dei rapporti
con il fratello prete abbastanza ricco ed in cattiva salute, e dalla
scoperta che un altro locatario così cucivuli quale il Circolo
Universitario, puntuale pagatore sulla fiducia in contanti, disponibile a
congrui aumenti sempre a bon e bon'è, generoso bonificatore del locale,
e senza alla rescissione del contratto alcun diritto alla liquidazione, non
aveva dove andarlo a pescare. Cosa da far agitare nella tomba i genitori
che trent’anni prima avevano avuto sì gran fortuna! E poi delle stupide
provocazioni triviali da dove mai avevano potuto trarre la forza di
disturbare gli affari? Di contro atterriva al cospetto di un nuovo
cliente, che per quanto ineccepibile, aveva da richiedere per esigenze
di contabilità quietanza dell’intero importo versato, destinandone
automaticamente metà al fisco, e il diritto conservava alla liquidazione.
Occorreva rimediare. Ma era arrivato tardi, poiché le due fazioni già
avevano provveduto: gli scissionisti, una ventina in tutto, ottenuto un
leggero sconto sull’esosa offerta fatta prima, s’erano accordati con il
proprietario dell’ex club dei nobili, l’altra fazione quasi centocinquanta,
si era domiciliata...
Da qui comincia il teatrino per la città, non che prima ne fosse
stata privata, aveva dovuto accontentarsi di notizie di seconda mano
spesso adulterate, dilatate, non rispondenti per difetto, tanto che
barbieri, sarti, macellai, pescivendoli, verdurai, panificatori, pensionati,
nonché professionisti di tutte le arti cominciavano col «si dice...» e
concludevano chiedendo incerti «sarà vero?». Pero a divorzio
avvenuto, come del resto ci si aspettava da depositari dell’istruzione,
cominciarono ad apparire documenti scritti, veri e propri capolavori al
fiele redatti con la bava, e pubblicati su un giornale specializzato ad
abbagnaricci lu pani. Non si sa da dove provenivano, poiché se
richiesto in camera caritatis gli scismatici negavano, senza che però
sentissero il dovere di sconfessarli pubblicamente, visto che si trattava
d’ingiurie, e visto che gli avvocati, le persone meglio abilitate a
capirlo, non mancassero tra di loro. Con alto senso di coraggio e di
responsabilità, tirata la pietra avevano nascosto la mano, e c’era da
vergognarsi degli isterismi prodotti dal naufragio dei loro propositi
lanciati all’arrembaggio. Infatti appalesatesi le riserve mentali a colpi di
preterizioni e prolessi, le presunte facili prede diventarono inespugnabili e
bastò lo stesso cozzare dei mancati conquistatori per mandarli a picco.
L’avevano studiata davvero fine e gli avversari avrebbero potuto catturare
se con un po’ più di diplomazia avessero saputo tener camuffata meglio
l’intenzione piratesca.
Era andata bene la propaganda sulla sacralità dell’ubicazione
tradizionale della sede sociale che per l’ufficiatura dei «ludi»
prometteva un tranquillo svolgimento vigilato da angeli custodi
regolarmente pagati, senza che alla memoria degli ingenui
catechizzandi s’affacciasse, riguardo quel rito l’immoralità recitata in
altre occasioni dai mistificatori, e senza che saltasse loro alla vista lo
sfruttamento dei locali da parte degli stessi come studio privato. Per chi
obiettava c’era invece una risposta di riserva consistente nella preziosa
facoltà che l’ampio marciapiede all’ingresso del Circolo in estate potesse
venire trasformato in un invidiato salotto ovviamente non per loro che alle
conversazioni preferivano il lavoro a tavolino! Inoltre la cortesia delle
delucidazioni era proporzionale alla caratura dei richiedenti risultante
dal ruolo che ognuno ricopriva nello svolgimento dei «ludi», cosicché,
grazie alle critiche mosse a certe fonti di sostentamento del sodalizio,
alta considerazione era riservata ai banchieri, cordialità ai puntatori,
ruvidezza ai polacchi, e l’epiteto di taddi di cucuzza ai non partecipanti.
Ma la certezza di riuscire nei loro piani li rese avventati ed arroganti.
Ormai pretendevano gestire il potere, e poco gl’importava del mancato
carisma verso la schiacciante maggioranza della comunità: tanto i soli
a contare erano i soci scelti, sempre dal punto di vista dei «ludi» e in
sintonia con la coerenza; tutti gli altri potevano benissimo non starci e
dimettersi, anzi avrebbero fatto loro un gran favore! Cosi non appena
la decisione dello sfratto fu irreversibile, non persero tempo a giocare
al rialzo dell’offerta contro la Presidenza del Circolo per l’accaparramento
della sede dell’ex “club dei nobili”, in modo che vinta la gara essendo
loro a portare i locali, avrebbero potuto dettar legge. In effetti
ottennero il successo, ma a prezzo di un’indignazione cosi generale da
restare con le pive nel sacco. E i meglio corteggiati, i gladiatori più
indomiti, sui quali maggiormente avevano fatto affidamento, non solo
voltarono loro le spalle, ma diventarono i paladini più fedeli della
Presidenza e della grande sala reperita in uno dei punti più centrali
della città. La nuova sede era capiente a contenere biliardo e
frequentatori senza che l’uno escludesse gli altri o viceversa, era
ubicata in zona frequentatissima a causa dell’ufficio postale centrale e
di un fortunato market alimentare, dirimpettai. Offriva buone
possibilità di parcheggio ed era inserita in un quartiere di tutto rispetto,
referenze codeste, prima ridicolmente travisate dai catiliniani e poi
regolarmente vilipese: una manna per il settimanale e per gli esercizi
pubblici dove non si parlava d’altro!
Sull’onda di tale isterismo illusionista, sulla facciata accanto
l’architrave dell’ingresso dell’ex “club dei nobili”, una volta sede dei
goliardi, ed ora dei secessionisti, la vecchia scritta di Circolo
Universitario ripulita dalle scorie del tempo riapparve con in testa
l’apposizione dell’aggettivo qualificativo «nuovo». Fu festeggiata
un’inaugurazione in grande stile partecipata e benedetta dal vescovo,
grande armonizzatore, da sindaco ed assessori ed allietata da aperitivi,
pasticcini e champagne. Certo non si badò a spese, in un ambiente di
nababbi sostenitori, assi della millanteria esibita nel pagare le salate
rette mensili con nonchalance alla faccia dell’antica preoccupazione
sofferta nel vicino passato dell’unione per l’aumento della quota
sociale, quando questa era irrisoria, e culminata nel fine sottolineare di
alcuni, che volendo, quei locali li avrebbero potuti comprare!
In città si aspettava che l’aggettivo introdotto nella vecchia
denominazione del sodalizio mostrasse le qualità promesse. Ci si
prefigurava una cospicua frequentazione di giovani, un’ininterrotta
serie di coinvolgenti iniziative e soprattutto una ventata di allegra
goliardia che riportasse alla «straordinaria, magnifica bolgia»
letterariamente con grande nostalgia ricordata da Vito Finocchiaro.
Invece il bluff fece un tale fiasco sul nascere, che il fattorino
trovandosi solo tutto il giorno come in una prigione e non credendo di
dover scontare pena alcuna, si fece autorizzare a poter ospitare qualche
amico suo che gli tenesse compagnia. Ogni tanto un socio settantenne
che la vicinanza della sua abitazione con la nuova sede e le difficoltà
motorie che lo affliggevano avevano fatto diventare strenuo sostenitore
della causa degli scissionisti riposava su una sedia accostata ad uno
stipite della soglia a mo’ di cariatide. Per il resto se il televisore non
stesse a recitare a se stesso si scorgeva il nero tetro minaccioso della
profondità del vano. Non passò molto che dai pochi iscritti che fossero
qualcuno si defilasse per ricondursi ai vecchi amici. Rimasero davvero
in pochi. Le cariche sociali ruotavano con il sistema di scinni Masi e
acchiana Brasi. Con tutto ciò i superstiti pur con il travaso a senso
unico a loro sfavorevole non demeritarono in misericordia: stabilirono
un termine entro il quale avrebbero accolto senza mene burocratiche
coloro che dall’altro fronte un ripensamento avessero avuto, mentre che
a data scaduta, i presunti interessati avrebbero avuto da rifare domanda e
attendere che venisse istruita e accolta dietro nullaosta. Vista l’accoglienza
del messaggio da parte dei destinatari, s’erano ridotti a cantare al vento!
L’unilaterale susseguirsi di rodomontate provocatrici, frustrate
sistematicamente perché non raccolte da chi avrebbe dovuto, lasciava
immaginare una rivalsa spettacolare sulle pagine dell’imminente
Numero Unico, che goliardicamente avrebbe potuto lavare le onte, e
invece l’insospettato tabù imposto dalla redazione dell’opuscolo su
pressione della Presidenza del Circolo Universitario «antico» che
informalmente parecchi tentativi di riconciliazione aveva promosso,
risultò sciocco o cinico a seconda se in buona o malafede. Ci furono in
città sorpresa e sconcerto per il mancato cuculiamento dei fatti di casa
sull’annuale rubrica acese dell’umorismo. I lettori in preda a bulimia
si sentirono traditi dalla mancata abbuffata ed i monumentali
crittogrammi e l’imperitura “lineetta” ormai diventata cucuzza proposti al
posto degli scoop traditi e tanto attesi si rivelarono tosto, pane per
agelasti. Era stato come voler raccogliere frutti da un albero senza
radici, voler far centro con una carabina senza mirino, voler vincere un
torneo con un cavallo di razza oppiato, o come presentare
un’intelligenza senza cervello, una loquela senza parola, una virilità
senza... Insomma un Numero Unico senza scandalo è un babà senza rum,
e per gli acesi lo scandalo clou del 1988, specie dopo i divertenti
vaneggiamenti dei «nuovi» universitari, restava lo scisma.
Comunque il declino del Nuovo Circolo Universitario si
aggravava di mese in mese: scomparve la cariatide, richiamata a
miglior vita; altri soci si defilarono ulteriormente, tra questi per impegni
sentimentali uno di quelli che avrebbe potuto comprare l’immobile, il
fattorino fu licenziato. Cominciò una lenta agonia. Ora solo alla
categoria degli invisibili, ai quali è dato poter violare una saracinesca
serrata, era concesso cogliere la lussureggiante vita sociale del
sodalizio o eccezionalmente agli iperolfattivi in grado di captare gli
aromi di giocondità alitanti dai locali chiusi.
Il Circolo Universitario «vecchio» era invece venuto fuori dalla
degenerazione o rigenerazione (come veniva indicata dai trasgressivi
che ritenevano la defezione la più grande fortuna mai capitata in un sol
colpo) con una vitalità sorprendente, corroborata dalla perdita dei
soci arroganti e sofistici, in virtù della quale forse, parecchi elementi
nuovi furono incoraggiati ad iscriversi, innalzando il numero dei soci
alle duecento unità. La sede ingrandita con il congiungimento al salone
attiguo occupato dal “club dei cinefoto amatori” amichevolmente e
gentilmente ceduto per trasferirsi un paio di porte più indietro, divenne un
accogliente salotto per tutti.
Una delle istituzioni più care alla città era riuscita ad evitare un
probabile dissolvimento stimolato da una piccola schiera di incauti
consiglieri ed inguaribili utilitaristi sprezzantemente avventuratisi a
scrivere una pagina di storia tutta da dimenticare, che ridimensionati
di numero, di spocchia e di risorse, erano destinati ad abbandonare presto
gli unici locali ritenuti da loro idonei ad ospitare un decoroso Circolo
Universitario, per trasferirsi chissà in quale Tebaide e tentare forse
ancora una ultima fondazione da battezzare: Nuovissimo Circolo
Universitario!
IL PRESIDENTE DELLA REGIONE
La professione è la pelle dell’individuo. Secondo la propria
attitudine, quella reputata più congeniale, l’uomo la sceglie tra la
varietà delle attività e la indossa per lo più definitivamente per l’intero
arco di tempo in cui lavorerà, in quanto non essendogli consentito di
entrare in letargo, quando vorrà per incapacità, incostanza o fatalità
cambiarla, o se vorrà premuto dalla vanità e dall’ambizione, lo dovrà
fare con grande tormento. In previsione di ciò le scrupolose attenzioni
spese alla sua cura procurano ammirazione, fascino, successo, come ad
una bella donna i non lesinati unguenti adatti ad illuminarle l’epidermide.
Ed il principio vale dai mestieri più umili alle più prestigiose
professioni, nei quali chi meritatamente si afferma viene additato ad
esempio ed apprezzato dai meno accreditati, divenendo la
personificazione della professione par excellence.
Enunciata la regola viene fuori l’eccezione: infatti per la
professione più insigne, delicata e quanto mai complessa, la politica, alla
quale vi dovrebbero accedere nel pieno della maturità solo gli ingegni
più fini, altamente umanitari e inappetenti al lucro, i termini della
proposizione addirittura si capovolgono fino all’affermazione
dell’antiregola.
Tuttavia non sarebbe male indagare se i personaggi che
andremo ad incontrare non abbiano sfruttato concomitanze
promettenti per cavallerizzi dello sbaraglio facile, quali la territorialità
con i conseguenti abitanti, ambiente e cultura, o se più
ponderatamente non abbiano voluto sacrificare preesistenti
professioni, unicamente affascinati da una missione di servizio verso gli
elettori.
Ci troviamo in una ricca cittadina siciliana sclerotizzata dal clero
tra indigeni reazionari amanti della sopraffazione o meglio del disimpegno
civile e della sbornia epidemica di servilismo: ingredienti appropriati alla
prosperità del tipo di potere cieco, ottuso ed arrogante, approvato e
benedetto dalla curia vescovile locale. Qui si sono combattute le più
divertenti campagne elettorali tra candidati dello stesso partito, la D.C.,
partito maggioritario ad abundantiam, qui si è fatto credere dalla
salda formazione politica quel che si è voluto, qui, ancora i notabili
dello scudo crociato hanno bagordato impunemente e a spese d’una
stoica e narcotizzata collettività.
Elemento costante di tanto successo è stato, come già accennato,
l’impegno clericale svolto nelle cento e passa parrocchie della pressoché
clonata Vaticano, sorretto dapprima, dai grandi e piccoli agrari sin quando
poté funzionare il ricatto sui contadini, dopo, da semplici promesse
regolarmente disonorate, ma ohibò sorprendentemente efficaci: non per
niente nelle amministrative per esempio, dei quaranta candidati di
lista, non badando a spese di propaganda, nessuno si nega con
candida faccia tosta la segreteria elettorale personale, gremita di
postulanti, impazienti di farsi prendere per i fondelli.
Nel dopoguerra i proprietari terrieri, numerosissimi nella città,
avvalendosi della loro massiccia influenza delegarono a farsi
rappresentare elementi dell’alta borghesia e nobili di dubbio blasone.
Però con l’ingrossare del ceto medio serpeggiò lo scontento. I1 popolo
bramava un proprio rappresentante. Nelle campagne dopo che gli
ordini dei datori di lavoro diventarono inviti e raccomandazioni, i
braccianti agricoli ubbidendo al sentimento di rivalsa, decisero di
voltar loro le spalle. Il momento fu saputo cogliere con tempismo da
giovani rampanti che con un blitz spezzarono la continuità elitaria
della dirigenza, accentrando e consolidando il potere nelle proprie mani.
Si affermò il regno dell’onorevole Aleppo, giovane dottore in legge,
dinamico, impetuoso, passionale, con la cultura settaria del
nepotismo, sbavante proporzionalmente alla sua ascesa in un
clientelismo volto esclusivamente a premiare con l’impiego pubblico, sua
dote di fascinazione, dapprima gli innumerevoli luogotenenti, poi gli
amici e ancora gli amici degli amici, tutti fanatici declamatori del
venerabile aforisma «Non si muove o cade foglia che Aleppo non lo
voglia!». Passerà alla storia come divertente oratore, abile, specie al
plurale, ad ingenerare discordie tra le flessioni di sostantivi ed aggettivi,
e manager perfetto di opere incompiute. Ma era stato condizionato
dall’essersi fermato nella carriera politica ad assessore della Regione.
Invece il collega di partito più insigne, anch’egli dottore in legge,
l’onorevole Grassi Bertazzi, snob magniloquente, in prima battuta
deputato alla Camera e successivamente senatore, forse per eccessiva
ansia d’insuccesso, non mise mano a niente, così che i suoi meriti, e non
è cosa da poco, consistono nel non aver inferto ferite alla città. Ma in
compenso controbilanciò la riluttanza al management pubblico con le
soddisfazioni in quello privato e con l’appassionato amore per gli
eventi culturali, culminati ad ospitare nel luogo onorato dai suoi natali
l’ambita esposizione di una delle più antiche motrici ferroviarie.
Intanto al Comune limitrofo scalpitava un intrepido giovane
diplomato, il D’Agostino, organizzatore di grandi spettacoli pirotecnici
e sportivi. Aveva l’idea fissa della contestazione all’on. Aleppo e in
occasione di un comizio di questi resterà a patria memoria la
movimentata, protestataria incursione a passo di bersagliere, del
troppo focoso rivale al comando di un reggimento di suoi sostenitori.
Aveva intuito che doveva sfondare in quella direzione e se la
scomparsa prematura non gli avesse precluso l’azione la sua stima si
sarebbe dimostrata esatta.
Et venit verbum, l’homo politicus, l’onorevole Rino Nicolosi,
presidente della Regione per tutte le stagioni! Lungi dal peccare in
vanità, ambizione, brama di potere, si uniformò alla traccia lasciata dal
D’Agostino e non perse tempo a scendere in tenzone aperta con il
collega on. Aleppo, il quale ebbe la peggio nei confronti dell’uomo nuovo
presto amato più di un nume tutelare. D’altronde da alacre
pacificatore delle desinenze, per il maturando Presidente della
Regione che parlava come la musica dodecafonica, più la gente non
capiva, più era logico che salisse la sua fama di uomo democratico,
intelligente, preparato, colto, straordinario. Inoltre la meritata
acquisizione della brillante reputazione era corredata da una gran
mole di saggi etico-economico-politico-sociali ormai nati dal profondo
acume e meticolosamente dosati a mo’ di preparati galenici, però
costretti a reclamare la liberazione dalle teche del suo cervello per
correre ad indicare alle moltitudini, e decisi a restarsene in rivolta,
finché all’extraoberato autore i frenetici impegni di rappresentanza non
gli avessero lasciato il tempo di spalancar le ante! In virtù di ciò catturò
la simpatia dei giovani intellettuali, lasciandoli sognare con l’eterna
attesa di una sicura sistemazione sempre da venire. In contrade intrise
di misticismo era inevitabile che si guadagnasse l’altare, anche gli
onn. Aleppo e Grassi Bertazzi, il D’Agostino al Comune di
appartenenza, avevano avuto reso l’onore, ma logoratisi e stancatisi i
primi due di fare miracoli, l’altro dipartitosi, erano stati declassati,
nonché trascurati, specie in concomitanza dell’ascesa di un
intercessore di notevole carisma che era riuscito a fare epoca.
Tutti avevano compiuto l’atto di sottomissione di solerti baciatori
dell’anello pastorale del vescovo, tutti avevano fatto il giro delle
sacrestie e lasciato lauti contributi, tutti si erano adoprati a difendere gli
interessi dei preti, ad ascoltarne i consigli e a seconda dell’importanza,
misurata dai voti conseguiti nell’ambito della parrocchia, a soddisfare
raccomandazioni di impiego pubblico per parenti o fedelissimi baciapile,
ma l’on. Nicolosi aveva saputo diffondere il culto della personalità, ed
anche il suo eloquio ormai sgorgava paraclito. Non aveva seguito corsi
o studi speciali rispetto agli altri dirigenti di partito. Infatti ad
eccezione di un collega meno eminente che a detta del padre dopo il
diploma aveva intrapreso gli studi per sindaco, evidentemente con scarso
profitto poiché non riuscì mai a diventarlo, l’on. Nicolosi così come gli
altri capi locali della D.C. in politica c’era arrivato non tanto per caso,
ma con la precisa determinazione di conseguire senza tanti affanni
un’elevata condizione sociale, sorretta da una considerevole fortuna
patrimoniale che l’intrapresa avventura prometteva di non lesinare ai
più spregiudicati lancieri scesi in agone. Ma la sua non era stata una
scelta di calcolo o un fuoco di ambizione, come già vagamente accennato.
Ottimo studente al liceo e all’università, dove la laurea di chimica
aveva conseguito con la lode e l’aveva fatto diventare grosso
dirigente d’una importante industria farmaceutica, sposato con una
aristocratica di fresca prosapia, aveva di che ritenersi pago della propria
consolidata affermazione sociale. Sennonché un improvviso rapimento
di vocazione lo indusse ad abbandonare la professione senza av vertire
nel cambiar pelle il tormento della lacerazione, anzi nell’indossare la
nuova guaina un senso di benessere lo pervase sino alle midolla
rivitalizzandogli l’essenza sopita del suo vero elemento. Una celeste
rivelazione esplosa come un sole rischiarante un’intera isola!
-Il Presidente della Regione- Affascinati esclamavano con orgoglio i
concittadini nelle rare e brevi apparizioni in pubblico del loro pupillo o
quando da lontano vedevano le due macchine di scorta proteggerlo negli
spostamenti o trovandosi a passare davanti casa sua notavano i due agenti
dei carabinieri sorvegliare il portone d’ingresso. Tanto entusiasmo non
se l’erano conquistato né l’on. Aleppo nel periodo d’incontrastato
dominio, né l’on. Grassi Bertazzi pur avendo ricoperto più volte
prestigiose cariche di sottosegretario. Le donne poi, specialmente le
ferventi cattoliche, erano state sedotte forse dal suo viso scavato ed
olivigno ritenuto effetto di una macerazione e travagliata
interiorizzazione delle sofferenze umane, sicché mosse da vera fede
sentenziavano -Gesuzzu 'ncelu e Rinuzzu 'nterra- E avevano ben donde
dal fargli proselitismo, poiché qualsiasi questione pubblica alitava della
sua tutela. Inoltre aveva promesso di porre rimedio ai pastrocchi combinati
da inetti amministratori ed anche laddove per decenni non si erano
potute trovare risorse e volontà di agire. Ed al persistere di mancate
intenzioni, introvabili finanziamenti o difficoltà tecniche avrebbe
sopperito con miracoli.
Già un primo colpo di bacchetta magica lo aveva dato allo stadio
di calcio. Negli ultimi tempi si stava interessando di pallone ma a
differenza dell’on. Aleppo e dell’on. Grassi Bertazzi che la tifoseria
avevano sfruttato a fini elettorali in momenti per loro difficili, il
demiurgo invece, a dileguamento di ogni sospetto, si era rivolto
all’ambiente sportivo, dalla posizione di forza dopo aver sfondato in
politica, e questo fu molto apprezzato dai nuovi interlocutori. Con
scarso successo, da anni la società sportiva le aveva provate tutte per
fare attecchire l’erbetta sul terreno di gioco dopo averlo rivoltato
sottosopra. Questa volta per l’inverdirlo ci avrebbe pensato lui, il
Presidente della Regione in persona, promettendo, visto che il
campionato era ormai alle porte, di rimediare in tempi strettissimi per
cui l’attesa spasmodica non sarebbe stata delusa. L’operazione scattò
subito e le più moderne conoscenze scientifiche vennero applicate sotto
lo sguardo vigile e sopra il brusire dei convincimenti dei passivi
sportivi che inquieti a turno presenziavano ai lavori. Poveretti
faticarono parecchio ad ammuttari i travagghi ccu ll’occhi prima che
giungesse il momento culminante della semina. Fra creduli, scettici ed
agnostici non mancarono persuasione, critiche, sfottò , scommesse... In
città non si parlava d’altro che d’erbetta, sino a che un bel mattino, a
meno d’una settimana dalla semina, senza segnale alcuno, solo con il
sistema formicolare dell’andirivieni, una gran folla si accalcò sulla
piazzetta sovrastante lo stadio e parte in strada intralciò il traffico,
spiegando agli automobilisti preoccupati per ipotetici eventi nefasti
che allo stadio stava spuntando l’erbetta! Vi furono grida, applausi,
urrà, qualche lacrima di commozione e un titubante ma diffuso
riconoscimento di prodigio, che portava ad esclamare -Nicolosi sei il
meglio che si possa immaginare!- Tenerissimi germogli avevano fatto
capolino a macchie di leopardo quasi a comporre un’incipiente
borraccina visibile soltanto a chi la vista avesse acuta. In quel
frattempo l’onorevole non se n’era rimasto con le mani in mano ed
aveva messo a segno un colpo grosso al mercato dei giocatori: aveva
acquistato su semplice richiesta due fuoriclasse che i dirigenti della
società, di cui il presidente era il trombato on. Aleppo, non erano
riusciti ad accaparrarsi nemmeno a costo di grandi sforzi finanziari.
Com’era facile per il Presidente della Regione dispensare
prodigi! Eppure ci sono sempre gli scontenti, i bastian contrari, gli
invidiosi, le nullità... quelli che vogliono tutto in una volta e tirano in
ballo sempre le cose importanti, o le ferite lasciate ad incancrenire!
Era di domenica. Nella chiesa dei cappuccini la messa aveva
bruciato le prime battute. Ligio al dovere confessionale, arriva l’on.
Nicolosi seguito dalla scorta. Per incanto si libera il primo banco per
far posto all’illustre ospite ed al suo seguito. Due file dietro cominciano
dei borbottii dosati per giungere all’udito del fresco arrivato.
Un’anziana signora parlotta all’orecchio della figlia -E’ arrivato il
miracoliere. Gesuzzu ‘ncelu, Rinuzzu ‘nterra- Si sente qualche -Ssst!- La
figlia arrossisce, senza che la genitrice si scoraggi a continuare -Il
padrone della città. Lo sai cosa sta costruendo, e u puvireddu paa?- A
questo punto un agente fa per muoversi verso la disturbatrice, ma il
principale lo ferma per un braccio ricordandogli -Siamo in
democrazia, lasci che la gente parli, è un suo diritto- La donna sente,
crede di subire un oltraggio, si tira appresso la figlia, si segna
portandosi la mano alle labbra e si accinge ad uscire, seguita dagli
sguardi urtati dei presenti.
La costruzione cui in chiesa aveva fatto riferimento la pettegola era
una villa che il pio personaggio da lei tacciato miracoliere stava
facendosi costruire su un terreno a terrazze dominante il panorama
delle borgate marinare del Comune, e che pareva predestinato ad un
incantevole sancta sanctorum. Il casamento a più piani abbondava di
vani, l’esterno lo stavano rivestendo con materiale lavorato
artigianalmente e già si adoperavano ad ordinare il giardino. Quattro
palme adulte apparvero da un giorno all’altro. Provenivano,
trasportate su un mai supposto, lunghissimo TIR, chissà se costruito
per la bisogna, nientemeno che da Palermo. In città il fatto si
commentava velenosamente, naturalmente dai pochi invidiosi, perché la
stragrande maggioranza portava un gran bene al Presidente della
Regione da augurargli fervidamente per l’avvenire più luminosi
traguardi.
Dal corso principale della città, volgendosi a tramontana, dove
uno squarcio di cielo spezzava la cintura delle costruzioni e dove veniva
naturale alzando lo sguardo godere una sensazione di salubre
ossigenazione mentre si era costretti ad inalare i gas di scarico dei
veicoli, adesso ci s’imbatteva con l’esposizione a sud della nascente
costruzione e questo non faceva che incoraggiare i denigratori a fare
del sarcasmo, in particolar modo quando si ritrovavano in gruppetto.
-Vedi- Diceva uno -Rinuzzu ha provveduto anche a mitigarci
l’inverno. Ci ha eretto il riparo contro i gelidi spifferi della
tramontana, pur rischiando di incamerarli lui.
-Poveretto si buscherà la broncopolmonite per noi, altro che
santo!- Intervenne un secondo.
-Non si diventa santi senza spirito di sacrificio- Proruppe un terzo
-E niente santi, niente miracoli; non a caso le ville piovono dal cielo
senza che siano state meritate: una al "Cervo", una alla "Spinusa".
-Un’altra villa alla "Spinusa?”- Chiese il primo sorpreso di non
saperlo.
-Sì, un’altra villa. Che c’e di male se ha l’estro di collezionare ville?
C’e chi colleziona francobolli, chi monete, chi pacchetti di sigarette
vuoti, e chi ville. Forse deve chiedere il permesso a te?
-Figuriamoci, chi sono io? Umile cittadinuzzu! Solo, che non sapevo
avesse sì nobili gusti. Alla "Spinusa" hai detto?
-Alla "Spinusa", alla "Spinusa", lì sotto!
-Bah, non si vede indizio alcuno!
-Non si deve vedere niente, nemmeno l’ombra. C’è, ma non si
vede. Non per niente i miracoli quando li compie, li compie a dovere.
E’ ben mimetizzata e si nota solo dal mare
-Non è che stia pensando a un riparo per naufraghi? Ma poi lì, si
può costruire?
A quella domanda l’amico rispose con lo sguardo, muto restando
-Perché al "Cervo", sì?- Riprese dopo l’eloquente silenzio -Avrebbe
potuto costruire chicchessia? Comunque si parlava di miracoli, e non
c’è da stupirsene. Pensi forse che l’abbian tutti la capacità di procurarsi
in men che si dica delle palme così adulte? Pensate che significa in una
notte far spuntare dal terreno ben quattro palme, forse più vecchie di
noi
-Un tocco di esotico non guasta- Commentò il dianzi stupito
-Specie in certi tipi di habitat. Ma palme quanto si vuole, secondo
me, il miracolo più miracolo resta la realizzazione delle ville. Devono
costargli un occhio della testa!
-Con i forzieri della Regione che schiattano di soldi, cosa volete che
siano due ville!- Insinuò quello della broncopolmonite.
-Cosa c’entra il costo o lo stipendio! Qui è la precedente professione
di chimico, superlativo chimico! E’ la pietra filosofale scoperta, che fa
la differenza. A parte che poi quando in gioco c’è un santo, sia esso il
più negletto, nel luogo ov’è patrono o padrone, detto tra di noi, non gli
manca mai un tesoro costituito dai devoti- Spiegò l’ultimo agli altri
due, e con mordace intenzione sentenziò -Comunque il vero
straordinario in questo caso è la pratica di dulia esercitata ante mortem,
poiché il tesoro lo si è donato al santo, con il ben preciso patto imposto
dai fedeli di poterlo godere nel corso della vita terrena!
IN QUEL PRIMO TRATTO DI VIA RODOMONTE
Via Rodomonte è una strada relativamente giovane d’una
trentina d’anni, nata in periferia lentamente diventata centro. E ’
una via come tante altre coetanee soffocata tra due alti muraglioni ad
alveare.
Noi ci riferiremo al primo tratto, un centinaio di metri, provan do a
districarci in mezzo a piccolo-medio-borghesi, indaffarati a spingere la
ruota del progresso.
La carreggiata sembrerebbe stretta, e i marciapiedi esigui, solo
apparentemente, poiché l’abusivo posteggio ai due lati, sulle banchine,
e la doppia fila smentiscono l’ingannevole impressione! I passi carrai
vanno ignorati per non interrompere le barriere veicolari dispiegate a
bella posta a protezione della parte bassa delle facciate dei palazzi dagli
urtanti graffiti in voga.
I pedoni si contendono con le macchine il viottolo rimasto sgombro.
Chi stenta a deambulare emigra in altri quartieri o si infligge gli arresti
domiciliari. Però, in conseguenza e a compenso di ciò, l’ambiente si
conserva giovane, colorito, esuberante! e diversamente dalle altre
strade del centro città dove tanta comodità di poter comodamente
parcheggiare la si sogna invano, qui ne traggono beneficio anche gli
utenti della via di fronte, come il ragioniere che espone sempre la sua
elegante berlina in doppia fila in modo da ben risaltare, o l’impiegata
che la doppia fila la sceglie, rinunciando deliberatamente alla casuale
disponibilità della prima per non perdere nemmeno l’attimo ad
allontanarsi durante le pause del lavoro, evitando intelligentemente di
mortificare il suo vivere intenso, o il pescivendolo che magistralmente
ovvia alla lunghezza del furgone baciando con l’anteriore le vetrine del
negozio di mobili senza mai romperle, prova della sua indiscutibile
perizia, o il geometra che va e viene preso da misteriosi pensieri
sentimentali!
Degli operatori di via Rodomonte, appresso l’esposizione dei
mobili, il calzolaio, il più fresco arrivato, per non turbare l’armonia
preesistente spesso si adatta a posteggiare sul marciapiede, riuscendo
abilmente a calcolare il millimetro, dato che ad occhio nudo nessuno
scommetterebbe un centesimo che lì sopra ci fosse spazio sufficiente per
un parcheggio completo.
Continuando dallo stesso lato, dopo una galleria d’arte e un ufficio
di assicurazioni, assediate da uno sciame di motorini, seguono una
saletta flipper, una paninoteca ed infine una serie di negozi i cui
clienti in quanto a rango non sfigurano da arrischiarsi ad andare in giro
senza una confortevole automobile.
Il tratto di fronte inizia con la casa nana di soli due piani, che per
via della sua rachitica statura sembra essere condannata a perpetua
derisione da parte degli aitanti edifici che la circondano!
Appresso vi sono ubicati: un negozio di videocassette di cui è
titolare un’amazzone da safari di città, che arriva sempre in tenuta
casual, sfoggiata sulla sua aggressiva fuoristrada; il centro d’igiene
mentale, un reparto day hospital, al primo piano d’un edificio a sette
esclusivamente abitato da famiglie e quindi per le norme vigenti
operante in sede inidonea, ma tuttavia sostenuto dalla solidarietà di due
condomini dello stesso stabile, un alto funzionario ed un impiegato al
massimo livello di carriera della U.S.L. locale, che diversamente dal
presunto ed imponderabile opportunismo sospettato dai vicini, è solo
per grande senso d’umanità acquisito in seno alle strutture di
debellamento delle sofferenze, pur di evitare sicuri disagi ai già
disgraziati infermi, rifiutando di aderire con firma all’azione legale
mirata allo sgombero del reparto neuro, insediato illecitamente in un
immobile a destinazione d’uso esclusivamente abitativo, di fatto ne
procrastinavano lo sfratto, incuranti di trascurare gli interessi di casa
propria in beneficio, ripetiamo, di un commendevole spirito di
abnegazione, ormai incrollabile malgrado le frequenti lamentele
manifestate, al momento di ritrovarsi in mezzo alle sozzure o di fronte
ai danni arrecati da incolpevoli autori ai servizi comuni dello stabile; e
codesti inattesi, ricorrenti sfoghi di disapprovazione se non si fosse tenuto
conto della forte inclinazione altruistica posseduta dai due neutrali
burocrati, davano adito a pensare più che ad una transitoria debolezza
umana quale in effetti era, all’intento di spronare gli altri condomini,
dopo aver perdonato loro l’indole magnanima che li inchiodava a non
agire, insistiamo, per benignità d’animo, a passare decisi a vie di fatto. E
proprio a causa della capziosa interpretazione da parte degli
immancabili scettici tra i condomini, cui tanta coscienza puzzava di
vile pretesto, ogni iniziativa si arenò sulle plaghe dell’indifferenza,
specie a seguito dell’inesorabile parola d’ordine del cavaliere, il
mangiacristiani del palazzo: -O tutti, o nessuno!
A tale mini ospedale ogni addetto, pur se abitante dietro l’angolo,
arriva con la sua bella macchina da sistemare. E qui bisogna dar risalto
ad un fatto che ha dell’incredibile. Le auto, si sa, sempre le stesse,
solito tipo, colore, targa, finiscono per diventare le protesi motorie
irrinunciabili dei proprietari, perciò tra quelle metodicamente presenti
in una qualsiasi zona, di ognuna nel vicinato si conosce senza fallo
l’appartenenza. In virtù di tale sicurezza non si riusciva a capire come
mai un impiegato potesse arrivare in ufficio con due macchine, visto che
due delle vetture parcheggiate appartenessero alla stessa persona. La
cosa si protrasse per più di un mese. In seguito quando fu risolta, si
venne a sapere che lo stesso proprietario avesse penato parecchio prima
di venirne a capo a causa della sua ostinazione a non voler ricorrere a
compromessi. Quindi doveva trovare il modo di rettificare la stortura
da solo, e poiché era riuscito ad immaginare due sole ipotesi, quella del
traino o l’altra del trasporto sulla tettoia, e nessuna delle due ricordava
avere attuata per dare origine all’imbroglio, mancò poco che non ci
perdesse la testa, finché non gli sovvenne... Si precipitò
dall’involontario, responsabile collega e gli disse con acrimonia -Tu mi
hai cacciato nei guai, e tu mi tirerai fuori. Domattina favorirai venirmi
a prendere a casa, come mi ci hai voluto accompagnare lo scorso mese- E
girando sbrigativamente sui tacchi, lasciò il collega allibito per un po’
prima che questi riuscisse ad inquadrare la vicenda e potesse riderci
sopra, esclamando -A furia di praticare coi zoppi, si finisce per zoppicare!
Più avanti seguono una scuola guida, rigorosa ad accettare solo allievi
che arrivino in motocicletta e posteggino sul marciapiede, l’officina di
moto ed un’autocarrozzeria ipotecarie di un buon tratto ancora di
marciapiede e margine di strada utilizzati a laboratorio. Il carrozziere
sembra corroborarsi con le frequenti visite della vigilessa moglie in divisa,
peraltro bene addestrata al rispetto della libertà dei cittadini e
particolarmente comprensiva riguardo le difficoltà oggettive di lavoro
del marito a causa delle ristrettezze di spazio!
Per finire, la macelleria, la barberia ed il bar, esercizi pubblici, si sa,
nei quali gli avventori sia per farsi lisciare che per ricevere le salsicce o
il cannolo hanno assoluto bisogno della macchina, lì davanti creano una
confusione bell’e immaginabile.
In altezza, appartamenti fino a molto in alto, eccezion fatta per la
casa nana, vergogna!
Gli abitanti, lo ripetiamo, sono borghesi confessi o in pectore a
diversi livelli: volenterosi artigiani, tronfi impiegati, discreti
professionisti, comuni commercianti a volte di denaro, paramilitari e
militari delle varie armi, le mogli impegnate nel lavoro d’ufficio e di
casa, i figli negli studi interminabili o nella perenne attesa d’una
sistemazione clientelare. Vi abita pure un giudice tra due presidi,
dislocati quasi uno di fronte all’altro, di cani feroci e tonanti. Alto di
statura ha l’andatura altera, la cera intellettuale ed impassibile, lo
sguardo distante, requisiti questi che fanno da garanzia alla sua
funzione al di sopra delle parti. Vi abita il cognato del comandante dei
vigili urbani, che certo non fa onore all’acquisita eminente parentela:
un arcigno professore, forse di educazione civica, reso ancor tetro dal
sofferente claudicare per via di presunte verruche, segnalatore per la
zona dell’ora esatta: alle 8,20 infatti ogni mattino scolastico
puntualissimo dà il primo prolungato colpo di clacson, invito alla figlia a
farsi accompagnare a scuola, facendone seguire altri perentori,
disperati, folli, prima che l’indocile educanda si convinca a
raggiungerlo. Vi abita il signor Arcidiacono, un misantropo indecifrabile
per professione ed età. Sembra coetaneo del magistrato, ha la stessa
complessione fisica, uguali umori imposti non dall’ufficio come per il
primo, ma dalla sua selvatichezza, cammina un po’ più spedito per
la fretta di raggiungere il suo angolino e nascondervisi. Vi abitano
vecchietti, vedovi, divorziate, disoccupati, un personaggio, molto
particolare. Costui, un tipo balzano, si mostra alle ore più intime,
sempre di sorpresa e mai distintamente, tanto da non farsi individuare,
però si deduce che abita nella zona descritta perché è ai rionali che
con le sue imprevedibili intromissioni dà adito a far parlare di sé. Perciò
il detto tratto di strada oltre che di ospitalità, di concordia e d’allegria,
palpita anche di mistero.
L’anno volgeva alla fine, i ragazzi stavano per entrare in vacanza ed
il quartiere echeggiava di scoppi come nessun altro, scoppi assolutamente
indispensabili perché perfezionavano il ritmo dell’armonia giornaliera
fatta di suoni di clacson di ogni tonalità. Per il fatto che tutto il
movimento si svolgesse nel viottolo sopracitato era inevitabile che il
passaggio delle vetture venisse sottolineato da un colpetto di
segnalazione d’una qualche difficoltà e siccome il traffico era ininterrotto,
la musica non subiva pause, e le note si arrampicavano sul sottofondo
della prova delle marmitte alleggerite proveniente dall’officina
motociclistica, rafforzato spesso dal cortese invito a sgombrare un
passo carraio o dall’invito ai tranquilli clienti della doppia fila a
consentire l’ingresso nella via d’un mezzo pesante, o dalla accorata
preghiera dei conducenti dei bus perché li lasciassero transitare lungo
l’adiacente trasversale, e l’intasamento conseguente invitava ad
aumentare il fiato alle trombe, al quale si mescolava quello dei cani
felici di trovare in tal guisa l’occasione per svagarsi. II frastuono giungeva
all’ebbrezza con gli scoppi dei petardi che oltre all’effetto per se
stessi apportavano il contributo degli antifurti sollecitati a scattare,
creando magistralmente i momenti di acme della sinfonia. Quindi la
gente aveva di che sublimarsi: i vari elementi si fondevano in concerto
regalandole una contagiosa sarabanda! Lì c’era vita, linfa, esaltazione,
musica, una musica totalizzante in quanto esorbitava i confini del
suono per impadronirsi delle proprietà del colore, dell’olfatto, del
tatto, del palato... di tutti i sensi insomma. Ne veniva fuori il
compendio dell’autoaffermazione completa. E guai ai disturbatori del
tripudio generale, che pur se latori della notizia della vincita ad una
lotteria nazionale, non sarebbero stati perdonati, nemmeno dai
fortunati beneficiari. II frastuono era stato studiato in ogni particolare,
gradazione o sfumatura; era stata ricavata un’animata scala diatonica
atta a soddisfare compiutamente a seconda dei desideri dei fruitori,
trasformandosi le tonalità in melodie, profumi, chicche, splendori,
erotismi. I botti, poi, slanciandosi in alto con scie spumeggianti,
si
intersecavano tra di loro e formavano grossi petali d’azzurro
tempestati dagli scoppi di abbaglianti corolle spargendo il profumo dello
zolfo aromatico più che l’incenso e gustoso al pari del miele. Gli
allarmi degli antifurti conducevano ad agonizzanti rapimenti di piaceri
sessuali, lungamente in ascesa prima della resa al godimento finale. Gli
abbai perentori esaltavano i sensi di potenza dei fortunati utenti,
facendoli sentire in quei momenti ultori di tutte le ingiustizie umane.
Le grida dei clacson, erano grida di gioia, moine delicate od
appassionate, baci or pudichi, or voluttuosi, fuggevoli o intensi a seconda
dell’esecuzione e della durata, e perciò popolavano folle di bambini
esultanti o affetti cari o generose amanti impegnate a stringere ma ni,
carezzare capelli, baciare bocche... Solo il misantropo si sentiva
scombussolato, avvilito, spaurito come se avesse perso considerevoli
preesistenti conforti subendo una crisi d’identità, in un ambiente
diventatogli ostile, e segretamente recalcitrava. Da uomo interiore, nel
senso che conversava spesso con la propria coscienza, articolando le
labbra, ma badando a non farne uscire suono alcuno, sì da farsi
commiserare dalla gente, si poneva dilemmi di questo tipo: se fosse
giusto che a morire dovesse essere il cane o il padrone. L’emozione
era forte, da subire un violento tumulto nello scegliere tra le uniche
due soluzioni che gli avrebbero potuto restituire la tranquillit à.
Auspicare la morte dell’animale era terribilmente ingiusto, poiché la sua
chiassosa autenticità era completamente incolpevole. Il decesso del
padrone era di sicuro più giusto, ma alquanto disumano. D’altronde
costui quale rispetto aveva avuto verso il vicinato, tenendolo sotto
bombardamento per l’intero arco delle 24 ore? Era doloroso. Le
autorità competenti non intervenendo, si macchiavano delle
responsabilità di consegnare gli animi dei cittadini a sentimenti tanto
brutali, e diveniva d’obbligo caricarsi di rancore violento contro gli
innumerevoli arroganti lasciati prosperare. Per questo era tentato di
augurare ai fracassoni delle due ruote di trovare presto il fatale muro,
la paralisi della manina ai petulanti del clacson, e la perdita ai
consumatori dei botti. Erano anatemi pesanti, imposti dalla barbara
situazione, e però essendo fondamentalmente tenero di cuore, finiva con
l’abbracciare la soluzione apocalittica, senza eccezione, lui compre so,
dello sprofondamento dell’intera città a beneficio di abitanti
presumibilmente più civili del futuro rinascente centro urbano. Ma aveva
appena liquidato la faccenda quando lo assaliva il dubbio che, come per
le piante, potesse essere il luogo a formare siffatti cittadini e quindi a
decidersi rinviava sine die.
Turbato da un tale rodio, aveva avviato qualche passo falso, nel
senso che non aveva ponderato sufficientemente prima di compierlo,
né aveva stabilito fin dove volesse arrivare e se fosse stato in grado
all’occorrenza di lasciar perdere senza farsi troppo coinvolgere. Aveva
spedito al sindaco una raccomandata d’indignazione per la caotica
situazione, dimenticando che con le sue fisime pretendesse minacciare
la «licenza» degli altri, della quale il primo cittadino era il custode più
indefesso, dal momento che per la sua generosa tolleranza finiva per
essere premiato con una valanga di voti nelle amministrative. II signor
Arcidiacono non si rendeva conto del meccanismo quanto mai semplice
per governare brillantemente l’ordine disorganizzato. Bastava non
intervenire negli abusi, così che in una comunità dove essi
rappresentano la norma, la maggior parte dei cittadini vivesse nel
coinvolgimento morale ed all’atto d’una testimonianza responsabile non
si lasciasse minimamente sfiorare dall’idea di non votare candidati
D.O.C. Infatti in risposta al suo scritto votato al sarcasmo, l’illustre
destinatario non perse tempo a farsi sentire telefonicamente, assicurando
col candore d’un cresimando che su qualcosa sarebbe intervenuto -Sì, in
effetti ha ragione, regna un po’ di lassismo ed è doveroso cercare di
correggerlo. Lei ha fiducia nelle istituzioni?- S’informò poi con simulata
innocenza stimolata dal tono irridente delle righe ricevute dall’acido
interpellante, il quale in rispetto a pura formalità non poté che asserire
-Sì, certo. Diversamente non saremmo qui a parlare
-Bene, allora non ci sono problemi. Vedrò che cosa si potrà fare.
E’ chiaro che non ci si possa aspettare tutto in una volta. La lista e
davvero lunga
-La prego di dare priorità al cane- Raccomandò il signor
Arcidiacono con fervore.
-Al cane? Quale cane?- Si sentì dall’altro capo, segno
dell’attenzione prestata alla lettera, del buon accoglimento e della
volontà ad interessarsene.
-Ah, già, il cane!- Poi fece finta di ricordarsi il primo cittadino,
avendo invece sbirciato in fretta tra le righe del foglio tenuto a portata
di mano.
A conversazione finita, il signor Arcidiacono presentì di essere
stato gabbato. Aspettò che trascorressero alcune settimane prima di
esclamare -Merda di sindaco!- Poi sospirando per alleggerire la tensione,
ammise che un primo cittadino industre, in tutta legalità, sì da farsi
costruire la propria casa sul mancato cortile ricreativo delle scuole
elementari ne ha da saltar fossi, altro che poter permettersi di perdersi
nelle quisquilie sottopostegli da una querula animella di udito fine.
Dunque si dispose a pensare all’atto successivo da compiere. In questo
mentre passando davanti l’autocarrozzeria s’era preso un bel getto d’aria
compressa in faccia dall’apprendista che stava spolverando l’abitacolo
d’una macchina. Alle 8,20 in punto ogni mattina continuava ad incassare
il saluto schizofrenico del professore. La strada restò tappezzata di veicoli.
Il frastuono si levava alto, ingrossato da intermittenti crisi isteriche
consumate nel mini ospedale, e sfondato dal feroce abbaiare del
mastino che non si concedeva soste: di tutti i nemici era il più
agguerrito. Il misantropo lo rilevava le volte che lo incontrava durante
la passeggiata con il padrone, il quale stentava a trattenerlo dallo
slanciarsi addosso, e pareva esser condotto lui dall’animale. Quando il
bestione incontrava i suoi simili li minacciava con voce di tuono. Sulla
terrazza, da giudice severo, era pronto ad emettere la sentenza per
ogni infrazione consumata sulla via, e siccome il comportamento civile
era tenuto in odio dalle persone, l’animale non aveva tregua a lanciare
abbai di condanna. L’illuminato cane aveva ragione, anche se il giusto
intervento ossessionava. Era stato insediato sulla terrazza del
palazzetto, adiacente al condominio in cui alloggiava il signor
Arcidiacono, costruito da un parvenu. Questo proprietario, un forestiero
arricchitosi attraverso il matrimonio per aver sposato una donna con i
soldi molto più grande di lui, una sorta di scugnizzo che la raggiunta
agiatezza aveva affrancato dalla forma non riuscendo a scalfirlo nella
sostanza, tant’e che a rimedio della frustrazione coniugale
l’arrampicatore sociale non aveva esitato a confortarsi con una
compagnia parecchio straziante per il vicinato abituato peraltro con alto
senso di superiorità ad assorbire a denti stretti, mentre il maleducato
dominava ed anzi durante la passeggiata con visibile orgoglio esibiva al
guinzaglio il maestoso cane! Inoltre la situazione era non poco originale
per il fatto che i soli abilitati a difendersi dalle molestie fossero i
componenti della sensibile famiglia alla quale apparteneva il tremendo
animale che per essere zittito bastava ricevesse il semplice comando di
ritirarsi tra le pareti domestiche. Ma il signor Arcidiacono non ci stava,
era debole di nervi, e quel senso di sudditanza ad uno scugnizzo nonché al
suo cane era davvero inaccettabile -Bella roba!- Si ripeteva continuamente
-Un quartiere intero schiavo d’uno scugnizzo e del suo cane.
Dipendiamo dalla loro misericordia- Stabilì di presentare un esposto
alla P.S.. Comprò un foglio di carta da bollo e si recò al
commissariato ad esporre le sue lagnanze.
L’appuntato che lo ricevette ascoltò pazientemente, assentendo con
il capo e senza smettere di fissare per un istante il viso dell’uomo fatto
accomodare di fronte a lui, incuriosito forse dai segni di una malcelata
eccitazione. Quando, dopo che il signor Arcidiacono terminato con un
sospiro di liberazione il lungo discorso fatto d’un fiato, la parola toccò al
militare, questi assunse una espressione conciliante e chiese
-Pensa che possa essere infetto da rabbia?
-Chi io?- Sparò lì il signor Arcidiacono, senza minimamente
riflettere al senso della domanda.
-No, di certo- S’affrettò a chiarire il poliziotto prima di cedere ad
uno scoppio di risa che dovette soffocare prontamente visto l’effetto
irritante prodotto sull’espressione facciale del querelante, e con artificiosa
serietà spiegò -Sa, in quel caso la cosa dipenderebbe dall’ufficio igiene
del Comune
-Non c’entra il Comune, io sono qui per le molestie- Chiarì
seccamente il signor Arcidiacono.
-Quand’è cosi, è affare nostro- Assicurò il sottufficiale e notato
nell’altro il rilassamento dell’espressione con la comparsa d’un
sorrisetto ironico gli chiese se per caso non volesse aggiungere qualcosa. Il
signor Arcidiacono preso quasi alla sprovvista dalla decisa intromissione
in pensieri che gli sembravano irriguardosi verso un tutore dell’ordine,
trasalì arrossendo debolmente e fattosi coraggio, schiarì la voce
uscitagli in falsetto, accingendosi ad aprirsi -Stavo pensando che a
nessuno è dato poter fare tutto quel che si voglia, per ovvie ragioni di
rispetto verso il prossimo. Invece che questo cane, bontà del suo
padrone, non è soggetto ad alcuna limitazione: nelle 24 ore del giorno e
della notte decide lui quando e quanto farsi sentire. C’e da concludere
allora che l’uomo la civiltà tanto amara per lui l’abbia costruita a
dimensione di certi cani? Come vede sono sciocchezze- Concluse il signor
Arcidiacono arrossendo stavolta anche nei panni.
-Chissà non abbia ragione!- Rispose serio l’appuntato, venendo
subito al sodo -Comunque sia, non sarebbe male se in quest’azione lei
trovasse alleati pronti a firmare
-Ci avevo pensato anch’io. Solo che conosco poche persone e
queste stesse hanno altro per la testa. E poi la molestia può esserci con
una firma e mancare con cento. Non le pare?
-Ah sì, sì- Ammise l’appuntato di fronte al cambio d’umore
dell’altro e aggiunse con indifferenza -Bisogna stendere quattro
parole su un foglio di carta da bollo da lire 5.000
-L’ho portato con me. Se lei cortesemente volesse aiutarmi
II signor Arcidiacono dietro dettatura del sottufficiale riempì mezza
paginetta di formule stereotipe, e prima di consegnarla, rilesse e fu
assicurato d’esser convocato dopo che fosse stata sentita l’altra parte,
quindi salutò e si allontanò con un inafferrabile senso di delusione.
Gli sembrava d’aver fatto da zimbello ad un rappresentante
dell’ordine pubblico. Giù per le scale borbottò -La rabbia... Io... II
cane... Lo scugnizzo... La civiltà!- Negli immediati giorni a venire non
smise di pensare al sottufficiale con quel tratteggio d’ironia stampato
sul volto come se gioisse a prendersi gioco del prossimo e appena il
mastino irrompeva nella sua rievocazione con abbai selvaggi,
scombussolato interiormente brontolava -Alleati… le firme… in un
caso di molestia così oggettivo e flagrante!- E finiva per inghiottire il
rospo, confortandosi con la convocazione a seguire. Ma, man mano che i
giorni passavano senza sortire effetto ed anzi il cane gli sembrava più
risoluto e lo scugnizzo più arrogante, cominciò ad intuire d’avere
bruciato le 5.000 lire della carta bollata, come prima, i soldi della
raccomandata al sindaco, e gli riaffiorava in mente la domanda di
quest’ultimo, procurandogli il sapore della beffa -Lei ha fiducia nelle
istituzioni? -Rispondendosi -Istituzioni per cani!
I giorni diventarono settimane e le settimane mesi e sui fronti del
porco comodo individuale la vita splendeva di rigoglio. Solo il signor
Arcidiacono viveva nello sconcerto; cominciava a pensare che la gente
ce l’avesse con lui e quindi limitava le uscite da casa all’indispensabile,
decisione che gli procurava maggiori tormenti. S’impose di tornare al
Commissariato a chieder notizie dell’esposto, ma fu trattenuto da una
coincidenza. Una sera, rincasando, mentre il mastino scorrazzava come
una furia sulla terrazza e protestava perentorio, nell’androne incontrò il
cavaliere, il pensionato brontolone e mangiacristiani del condominio.
Costui non perse l’occasione per esibire la consueta lezione di civismo
-Proprio qui doveva venire a cascare!
-II cane?- Chiese il signor Arcidiacono con aspettazione, ma
timidamente per essere disabituato ai contatti umani.
-Il cane è il padrone- Spiegò il cavaliere col suo fare aggressivo,
completando -Uno screanzato cafone sprovvisto della benché minima
dose di educazione. S’e messo in testa di farci impazzire
Il signor Arcidiacono incoraggiato dalla circostanza propizia
piovutagli, propose allo zelante censore un’azione comune -Cavaliere,
io ho già presentato un esposto alla P.S. e siccome ha avuto fiasco sono
intenzionato a querelarmi questa volta presso i carabinieri, con la
speranza di trovarli più seri dei questurini. Ora, stavo pensando che se
lei volesse unirsi a me, forse la cosa prenderebbe più slancio
-Non credo ce ne sia bisogno: a sporgere querela basta una sola
persona- Rassicurò il commediante atteggiando la flaccida faccia ad un
vile sorriso.
Il signor Arcidiacono incassò la lezione di solidarietà civica con un
tic di stizza alla palpebra sinistra, e bramando di restare solo
immantinente, pur dovendo fare le scale a piedi, rinunciò all’ascensore
e salutò con freddezza. Entrato in casa si sfogò portandosi le mani al
basso ventre -Tieni, cavaliere del cazzo, te la tolgo io la patata dall’acqua
bollente! Stai per diventare pazzo? Rallegramenti!- Rise di cuore e
giurò che dopo quella testimonianza da cornuto non avrebbe più preso
alcuna iniziativa anche se continuava a recalcitrare segretamente. Lo si
intuiva dal meccanico arrotar dei denti quando fuggevolmente
appariva dietro una finestra per lanciare l’anatema che quasi si sentiva
rimbombare nelle orecchie -Figli di madre puttana e padre magnaccio
Il magistrato rimaneva inappuntabile al di fuori delle fazioni. Al
professore pareva che le sofferenze del camminare gli si sciogliessero in
danza, con movenze da fauno. Il personaggio particolare cominciava ad
adoprarsi. Prediligeva la scarsità di luce, i leggeri chiarori, le dense
penombre, i momenti di rilassamento e di sopore del suo prossimo, le
intemperie, l’interruzione dell’energia elettrica, dai quali si sentiva
spronato ad avviare le sortite. Con ciò non bisogna pensare che fosse un
vampiro o un licantropo o più generalmente un vigliacco, anzi al contrario
lui sapeva di essere onesto, coraggioso, generoso, e se era portato a
comportarsi a quel modo era solo per eccesso di riservatezza, una
riservatezza che gli consentisse anche un certo anonimato tanto che chi
si fosse già imbattuto con lui non era in grado di ricavarne un identikit
sicuro. Gli davano la statura del giudice e del misantropo. La voce non
la si poteva comparare in quanto, il primo si era convinti che tranne in
tribunale non parlasse, per non far pesare la sua autorità e coloro che
avessero potuto fare il confronto non sapevano cosa fosse una pretura,
l’altro non spiccicando parola con alcuno per naturale avversione
verso la specie umana era altrettanto controverso. Le cose dette
palesavano una certa profondità di pensiero, sintomo ch’erano state
parecchio ruminate, e un po’ di severità e di laconicità non discordanti
dalla personalità o professionalità di entrambi gli imputabili suggeriti
dagli eventi. Ma per il misantropo almeno erano, riguardo il
contenuto, sicuramente spropositate. La fisionomia vacillava entro
confini dell’indeterminatezza a causa delle precauzioni usate e quindi
non escludeva i due modelli, perô, il magistrato lo si sapeva casa e
lavoro e gli orari strambi delle avventure lo tagliavano assolutamente
fuori dal giuoco, così che gli alibi degli unici due personaggi
incriminabili per la loro eccessiva riservatezza accrescevano il mistero
della vicenda. La nascita del bambino Gesù aveva portato letizia. Negli
animi delle persone regnava un senso di completa sicurezza che
s’irradiava dai loro visi con effusioni di spensierata amabilità. Anche il
frastuono attingeva all’atmosfera di festa divenendo più gagliardo e
icastico. Ebbri procacciatori di vertigini, tutti gli elementi
pulsavano entusiasmo: le onde sonore si propagavano in una soffice,
eterea, diafana dimensione di beatitudine. L’unico a soffrire era il
misantropo: ogni afflusso di gioia colto nei gesti di chicchessia, il suo
viso rifletteva con livide contrazioni muscolari e tale manifesta
debolezza lo rendeva sicuramente reo se non si fosse registrata la netta
discordanza tra il suo sentire ed il dire del non ancora individuato
personaggio.
Nei giorni seguenti ci si mise il cielo a rimescolare le carte, scaricando
tanta acqua da mettere paura e innescando una reazione a catena
negativa per la perpetuazione dell’armonia.
Non bastava il mancato LA del professore a causa delle vacanze di
fine anno, incrudeliva pure il bagnato, così che con l’assenza della
circolazione da diporto, diradando le macchine e di conseguenza gli
intasamenti, il prezioso apporto dei clacson svigoriva; l’officina delle
motociclette ebbe una notevole defaillance, cosa più grave la
scomparsa dei petardi indusse gli antifurti alla svogliatezza, i cani a
languire, la gente ad intristire... mentre che il misantropo se la godeva.
Eppure l’insocievole uomo, nella migliorata condizione di vivibilità
esclusivamente per lui, dovette subire un incidente espiatorio. Aveva
rincasato, bontà del maltempo, eccezionalmente esultante, però l’ombrello
scolava abbondantemente, e siccome messo piede in casa la prima cosa
che facesse era quella di correre nella sua stanza a turarsi le orecchie
con tappi di cotone, poiché quelli di cera gli raggelavano il condotto
uditivo, o con cuffia, o con entrambi, anche quella volta, solo per
abitudine e non per necessario rimedio in quanto come si è accennato la
sonora gazzarra si era di molto affievolita, parapioggia appresso, non perse
tempo a ricorrere al palliativo. Logicamente il corridoio si bagnò
alquanto, e compiuta l’operazione di automatico attutimento acustico,
accortosi della sconsideratezza cercò di rimediarvi col correre verso il
portaombrelli, scivolando purtroppo, ma per fortuna cavandosela con un
leggero bernoccolo alla testa procuratogli dallo stipite della porta in
cui l’aveva sbattuta. Tuttavia non diede peso all’incidente, poiché la
contropartita della nuova situazione era totalmente a suo favore! Lo si
vedeva più spesso dietro i vetri delle imposte, aveva perso il ghigno
abituale, si stropicciava le mani per la soddisfazione e le labbra articolava
in una specie di inno ambrosiano. Ringraziava il cielo e lo pregava che non
la smettesse con i rovesci, anzi che la pioggia scrosciasse con veemenza,
trasformasse le strade in letti di fiumi, capaci di sradicare le case e spianare
certi posti maledetti. Era contento, glielo si leggeva nello sguardo
galvanizzato ed in più la tristezza del quartiere agonizzante ai suoi
piedi lo inorgogliva inverosimilmente! Travolto dal buon umore
arrivava a ridere di ogni disagio capitato in istrada a chiunque per via
delle intemperie.
Però i nemici non demordevano, anzi sfruttavano tutte le occasioni
per tenersi allenati e per la divulgazione del sacro costume.
Un giovane padre con il suo bambino, di cinque anni circa, aveva
preferito sostare sotto un balcone aspettando che il fiume d’acqua
defluisse per il tempo che lo portasse a contrarsi. Il pargolo scorse in un
cantuccio d’una vetrina del negozio dei mobili un mozzicone di petardo
già esploso. Avvezzo all’incruento ordigno fu preso dalla smania di
attivarlo, credendolo ancora efficiente. Il padre gli teneva dietro
divertito. Estrasse l’accendino dalla tasca, raccolse la minicartuccia
bruciata e l’accostò con aspettazione alla fiammella. Il ragazzino seguiva
rapito ogni minimo movimento, ispezionando da vicino con occhi
dilatati e preparati alla sorpresa dello scoppio. E quando fu il genitore a
generare il botto con la bocca, il piccolo pur saltando di sbigottimento,
rimase deluso, ma più deciso a provare lui stesso in condizioni meno
sfavorevoli.
Il misantropo che aveva seguito l’evolversi da dietro la finestra,
commentò -E’ in tirocinio un altro grassatore della tranquillità altrui.
Un altro figlio di puttana
I giorni intanto continuavano a scorrere bagnati consegnando i
vivaci abitanti di via Rodomonte all’inquietudine, al nervosismo,
all’ansia, avvertiti al polso con pesanti martellamenti intervallati da
preoccupanti extrasistoli.
L’enigmatico personaggio non si risparmiava ad apparire ove potesse
per alleviare almeno il generale senso di abbattimento. Le sue fugaci
improvvisate servivano ad accendere emozioni che potessero attenuare il
vuoto di felicità perdute. Ripeteva -Passerà, passerà. Non si può trattare
di diluvio universale: è già avvenuto. Vedrete, tutto si aggiusterà.
Bisogna pazientare ancora qualche giorno: fatevi forza!- Erano parole
gentili, promettenti, feconde.
Certo gli inconvenienti non si contavano. Nelle case si era
cominciato a litigare spesso, perché il timbro normale della voce
risuonava in quel silenzio quasi esclusivo carico di sgarberia. Di colpo
tutti si accorsero che i loro partner a tavola ruttassero e spetazzassero con
disinvoltura, a letto russassero, la mattina in bagno scaracchiassero
senza ritegno. Ci si svegliava con una leggera emicrania da alienazione,
e bastava solo il malumore del risveglio a guastare il resto della giornata!
L’incoraggiatore si faceva in quattro per visitare quanta più gente
potesse. Preferiva avere a che fare con il gentil sesso. Non tornava
più di una volta nello stesso posto. Peccato che sfruttasse tutti gli
accorgimenti idonei a non palesarsi, ma la sua galanteria lo rendeva
amabile e l’accortezza usata nelle visite era motivo di rammarico.
Le donne ci misero poco ad invaghirsi e non di rado lasciavano
gli usci socchiusi con la speranza di allettare il visitatore ad entrare
nelle loro case. Le più giovani, le vedove, le divorziate, si
agghindavano, s’imbellettavano, si profumavano. Nel vestirsi e nello
spogliarsi usavano una raffinata civetteria e i loro letti erano caldi di
voluttuosità. Non perdevano d’occhio i tendaggi, gli armadi e i ballatoi: i
cuori palpitavano propiziatori di fortuna. Però quando era toccato a
qualcuna l’agognato incontro era finito sempre che per la pretesa di
familiarizzare troppo, l’ospite molto abile nelle ritirate sparisse
immantinente, con grande disappunto della sprovveduta cacciatrice.
II misterioso personaggio era diventato ormai un idolo del sesso
debole. Di lui se ne parlava con appetitosa ammirazione, e i cuori
sobbalzavano di suggestione nell’inventarselo lì davanti. Ovviamente
era colmo d’ogni virtù e bellezza e dal compiacimento generale
risultava completamente perfetto. Quanti sospiri aveva provocato,
quante invenzioni bugiarde, quante invidie immotivate! S’era creata
un’ampia cerchia di rivali delle quali ognuna faceva capire d’essere
diventata la prediletta. E le occasioni del fantasticare, mancando le
quotidiane distrazioni inibite dal maltempo, non si potevano contare.
L’assenza corposa degli elementi del frastuono riconduceva alla dolce
evenienza d’un
probabile
provvidenziale
incontro
con
l’incarnazione d’una promessa rigogliosa: l’esuberante briosità della
strada in quei giorni estinta, trasformata in ossessiva, insopportabile
placidità
per fortuna alleviata dall’aleggiante presenza del
comprensivo auspice.
Il misantropo gongolava da dietro la finestra alla quale sembrava
appiccicato assumendo pose da predicatore -Vi sentite sfinire con le
teste merdose, le vene annacquate d’orina... Vi mancano i botti, lo
scoppio, la liberazione delle tensioni che non riuscite a smaltire
perché siete frustrati e plagiati... Vi hanno trasformato in numeri,
massa, maggioranza, gregge... Vorreste voi stessi esplodere, ma non qui
per favore, evitatemi la cloaca... Meno male che le vostre madri praticano
la nobile arte e i vostri padri sono affermati magnacci cosi che non
manchino i soldi per i botti, perché non si vive di solo pane... Che non
abbiate infermi in casa e non vi salti una mano o perdiate un occhio,
tanto da scoraggiarvi a soccorrere post infartuati, spastici,
arteriosclerotici, neuropatici, bambini, vecchietti sempre immersi nella
paura... Che muoia l’umanità sofferente e non rompa la mincbia... Viva il
grande disegno d’incretinimento generale... Abbasso l’intolleranza...
Gloria alla vostra affermazione... Bombaroli vicini e lontani riunitevi
in un’isola disabitata e date fondo alla vostra bravura con ordigni
veri: dinamite, tritolo, bombe al plastico... Dimostrate chi siete...
Vigliacchi gli attentatori alla vostra
libertà liberticida... Emeriti
prepotenti vi prego agite a rimuovere il mortorio che c’e fuori, non
badate a maledizioni ed insulti o all’ospedale dietro l’angolo: è gente
invidiosa, barbara e incolta, cinici delinquenti che aspirano a turbare
la soddisfazione di vivere... Avete dalla vostra le forze dell’ordine
pagate dai contribuenti perché vi proteggano, vi guidino e vi
indichino... Voi siete il sale della terra, gli epigoni dei grandi, la civiltà...
Il signor Arcidiacono non lo si era mai visto allegro come in quella
occasione, certo non era della stessa classe del giudice che rimaneva
inappuntabile per qualsiasi circostanza. Era il solo a gioire di contro ad
una schiacciante maggioranza di intristiti, donne a parte che si
riconfortavano con la segreta speranza di arrivare a mettere a segno
l’ ineffabile sogno anche di toccare solo l’indefinibile visitatore.
La curiosità cresceva con l’incapacità a soddisfarla, e la stizza a non
riuscirci e a dovervi rinunciare si sovrapponeva all’angoscia che
l’infittire della piovosità provocava con l’inibizione dei più comuni
segni di vita nell’intero quartiere apparentemente evacuato.
L’impreveduto paraclito s’impegnava a fondo, appariva e spariva
entro l’alone di promettenti sensazioni svanite dallo stallo assegnato
dalle precipitazioni piovose. Finì che il carisma del rubacuori andò ad
incrinarsi maggiormente per la sua sfuggevolezza che si sa non viene
perdonata dalle donne anzi... cosicché la reazione esorbitò ogni
immaginazione.
Ormai snervata la gente corse ad approvvigionarsi di botti ed i
negozi che per il timore di rilevanti rimanenze avevano striminzito i
prezzi quasi a quelli di costo, finirono per centuplicarli, realizzare
guadagni incredibili, ed esaurire le scorte sotto l’imperversare della
richiesta.
S. Silvestro aveva vigilato sulla situazione, da una settimana non aveva
smesso d’intercedere più in alto, ce l’aveva fatta, grazie anche all’atto
di fede dimostrato dai devoti con la corsa all’approvvigionamento di
munizioni, riuscendo in quell’ultimo giorno dell’anno, in cui la
moltitudine è decisa ad accanirsi per liquidarlo ed affrettarsi verso il
definitivo traguardo, a parare il cielo d’indaco, ad asciugare le
costruzioni specchianti di pulito, a ridare linfa alle strade, suoni, profumi,
colori, a colmare il vuoto e risollevare il morale.
Ricomparve il rivolo schiumoso dell’autocarrozzeria e dove qualche
leggero avvallamento lo permettesse si depositava in bianche chiazze di
soffice panna, il coro dei motorini montò l’armonia perduta, i cani
instancabilmente ritmavano, le macchine in tappeto emisero tutte le
note, le esplosioni con grazia contribuirono ad allietare!
Quant’era bello S. Silvestro, era proprio un Apollo, non per niente le
donne avessero sospirato invano, ed ora a miracolo compiuto, veniva
venerato con morbosa passione.
La sera sulla volta inchiostrata aveva appuntato dei grossi dia manti
e una luna eccezionalmente euforica.
Con largo anticipo sul previsto cominciarono ad echeggiare botti di
rara potenza. In pochi minuti il complesso sonoro si attivò completamente.
Per comunicare bisognava possedere la pratica dei sordomuti.
Non vi furono soste. Gli abitanti della zona produssero il
massimo sforzo. Dalle finestre aperte dei balconi, grossi lampiridi
volavano per andare a schiantarsi sul selciato con possenti boati. II
fumo saliva compatto aggrovigliandosi in una cappa di caligine.
Grandi, vecchi e bambini sfaccendavano in preda a sfrenato baccano.
A stento ogni tanto si percepiva la successione dei colpi d’un caricatore
di revolver svuotato. Il tempo si era fermato in un infinito anelito di gioia
Quella notte non ci fu notte, solo una valanga di bagliori e scoppi.
Gli appartamenti inoperosi erano quello del giudice
inequivocabilmente serrato e l’altro del misantropo con una serranda
alzata che gli consentisse di scrutare dall’ombra. L’uomo era in preda
ad irrequietezza che controllava per non dare soddisfazione agli altri
del vicinato. Cresceva la convinzione che ce l’avessero tutti con lui. Se
ne stava alla distanza reputata sufficiente a non essere scorto in mezzo ai
continui abbagliamenti. Ogni tanto, pur preparato, sobbalzava. Di fronte
il suo punto di osservazione i balconi sfornavano senza sosta spezzoni
incendiari. Lui immaginava le espressioni dei lanciatori: li vedeva
quasi folli non darsi pace. Scorgeva i loro volti avvampanti sformati dai
deliri, li toccava consegnati dalla sua immaginazione, li voleva prendere a
schiaffi, ma ne aveva pena a vederli di già sofferenti dagli eccessi di
abbrutimento. I tratti serrati in smorfie di sopportata gioia, gli occhi
esorbitanti e rossi come pomodori, la bava alla bocca! Ad intervalli
si stropicciava le mani di piacere per saperli prossime vittime della
loro stessa sconsideratezza. Il fumo esalante dalle strade gli sembrava
prodotto dai loro cervelli andati in corto circuito, e rideva perfino con
gridolini bagnati di lacrime. Poi saltava tenendosi i pantaloni per la
cinghia convinto che stessero per scivolare ed andava a battere per la
soddisfazione i pugni in una parete. Non di rado faceva boccacce e segni
di una certa allusione triviale. S’abbandonò a risate immerse in un
flusso di pianto gioioso. Non provò a mettersi a letto perché sicuro di
non potere chiudere occhio.
Rannicchiato su una poltrona il signor Arcidiacono fu svegliato
dalle castagnole elargite dal sindaco alla cittadinanza, lui compreso, per
augurarle l’ingresso dell’anno nuovo. Era infreddolito, tuttavia
sopportando bene il rigore invernale, fu contrariato solo dal brusco
risveglio. Saltò all’impiedi. Di colpo in testa gli si ravvivarono gli
anacamptici bollori quotidiani del quartiere. Corse verso l’uscio. Si
precipitò giù per le scale. Appena fu in istrada il primo malcapitato che
gli venne a tiro lo tempestò di pugni inveendo -Vai a cacare davanti al
prodomo del palazzo di città, tanto lì troverai altra merda. Suona il
clacson così tua figlia capisce che deve scendere... Accelera, prova la
marmitta, posteggia sul marciapiede, versa i liquami per strada, spara un
botto, fai insomma il tuo Cristo! Lo capisci che siamo tutti a briglia
sciolta? Di cosa hai paura? Che ti possono fare? Chi interviene qui? Da
qualsiasi lato ti giri vi abitano agenti dell’ordine pubblico, e che
succede? I fatti ci sono, mancano le firme: le ammazza fatti. Invece
che senza firme nessuno sa che i cani, anzi meglio gli scugnizzi
rompono i coglioni, anche se la civiltà è dalla loro, che l’autocarrozzeria
infetta la strada, l’officina la rintrona, che le macchine ti stirano di
ferro, che tutti amano la maleducazione, e che debbo essere io a
protestare, a ribellarmi, a incivilirti, mentre il cavaliere rischia di
diventare pazzo. Il cavaliere del cazzo, il cavaliere in groppa al cazzoSbuffò a ridere, e rifacendosi subito serio si mise a gridare a
squarciagola -Cavaliere del cazzooo!
Frattanto erano accorse persone. Con difficoltà riuscirono a bloccare
l’energumeno che ora piangeva a dirotto. Arrivò un’autoambulanza.
Gli infermieri lo imprigionarono in una camicia di forza. Lo caricarono a
bordo e a sirene spiegate il furgone si allontanò.
In quel trambusto il giudice uscito di casa si trovò a passare mentre
la piccola folla esterrefatta commentava l’accaduto. Non ebbe la
minima curiosità ad informarsi. Procedette senza nemmeno guardare
con la solita andatura autorevole. Lui era la legge che si occupa di
corpi di reato in un’aula, e non dei pettegolezzi della strada.
Parecchi giorni ancora si parlò di quel signore single che nel quartiere
da una ventina d’anni era conosciuto solo di vista. Chi mai avrebbe
potuto immaginare una reazione del genere? Dopo tanto discuterne tutti
convennero in testa il cavaliere, il professore, il carrozziere, il meccanico,
l’amazzone, il calzolaio, i padroni dei cani, il barbiere, il macellaio, i
negozianti, che in fin dei conti il poveretto fosse un disadattato. Il
funzionario ed il burocrate dell’U.S.L. aggiunsero che per fortuna quando
l’avrebbero dimesso avesse da curarsi a due passi da casa. Solo il
magistrato si mantenne imparziale.
Presto sull’avvenimento calò il sipario: non se ne parlò più per la
fretta dei frequentatori di via Rodomonte a riconsegnarsi all’armonia
disturbata dalla sceneggiata di un povero folle.
STAIU MURENNU, STAIU MURENNU!
I disturbi si presentavano puntualmente quattro cinque ore dopo
il pranzo e per uno spazio di tempo ancor più lungo gli tenevano
compagnia fino a notte alta, quando, ormai sfibrato dal dolore sotto lo
sterno, diffuso alla regione del fegato e riflesso alla schiena,
insperatamente si addormentava in una delle diverse pose imposte dai
contorcimenti e cambiate continuamente.
Sei mesi prima attraverso l’endoscopia l’ulcera duodenale del signor
Spampinato appariva cicatrizzata, facendolo sospirare di sollievo per il
trionfo della ranitidina! Ora i dolori si ripresentavano con intensità,
persistenza ed espansione più scoraggianti. Non c’era dubbio d’un nuovo,
serio guasto.
II medico apri l’indagine con una serie di enzimatici per regolare la
digestione, ottenendo qualche rutto in più, e culminati con un nuovo
violento attacco che pretese nottetempo il ricorso al pronto soccorso,
dove una donna molto superficiale come medico di guardia dopo aver
appreso dal sopraggiunto che soffriva di ulcera, candidamente gli
chiese perché non la togliesse, e solo su richiesta del sofferente, che al
momento lei avrebbe dovuto lenirgli il dolore, ordinò all’infermiere di
iniettargli un analgesico, prima di tornarsene difilato a letto senza alcun
interesse per l’esito della puntura.
Il mattino dopo, appena sveglio, il signor Spampinato saltò giù a
terra, e sebbene si sentisse lo stomaco maltrattato e la testa pesante
fece toilette in fretta per correre dal medico e invitarlo a puntare sulla
bile. L’esame radiologico mostrò una colecisti esclusa. Occorreva
proseguire con l’ecografia e chissà quanti altri accertamenti non
mutuabili, per i quali oltre l’onere finanziario troppo gravoso per un
semidisoccupato, che saltuariamente nei periodi delle scadenze
importanti lavorava presso il fratello consulente commerciale, e che
durante l’anno curava in proprio qualche contabilità di poco conto, si
richiedeva una lunga peregrinazione nel capoluogo di provincia, ove
prosperano più di preziose miniere, i laboratori attrezzati delle
sofisticate apparecchiature. Andirivieni inevitabili per prendere le
istruzioni necessarie alla preparazione dell’esame, per sottoporsi, per
ritirare il risultato, se non si fossero presentate altre fasi intermedie.
II signor Spampinato pensò all’ospedale come miglior risolutore di
tante lungaggini, snobbando la prevenzione dei conterranei verso la
struttura sanitaria, alla quale vi si rivolgono solo se conciati male, per
eccesso d’ingiustificata paura o inspiegabile senso di vergogna, e
ripromettendosi di sfatare la nota prevenzione verso il ricovero
convenzionato temuto a causa delle disfunzioni del settore pubblico. Lui
era dell’avviso che il recarvisi fiduciosi, possibilmente coi propri piedi, e
ben caricati psicologicamente, valesse a contrastare la malattia quanto la
terapia, né riusciva a scorgere un solo beneficio a curarsi in casa,
accontentandosi di più esigue sollecitudine e perizia, rispetto agli ospedali,
e inoltre per questione di principio voleva evitare lo studio privato dei
baroni della medicina che a suo dire qui nel sud gli davano l’impressione
di stare alla posta come briganti. Tali motivazioni lo spinsero a farsi
rilasciare dal medico una richiesta di ricovero.
L’indomani di buon mattino si presentò in uno dei due più grandi
nosocomi del capoluogo di provincia, ma poiché correvano lavori di
ristrutturazione, tranne per casi disperati, l’accettazione era sospesa.
Quindi su consiglio di un impiegato ne raggiunse un altro, dopo lunga
passeggiata voluta fare a piedi.
Al pronto soccorso fu invitato ad attendere che dai reparti fosse portato
il foglio con la disponibilità dei letti. L’angusta saletta frigida a causa
della corrente d’aria dell’androne, risucchiata attraverso la porta
spalancata dal tiraggio di un accesso aperto sul cortile interno situato di
fronte le stanze dell’ambulatorio e accosto al posto di pubblica
sicurezza, era arredata da tre panche chiazzate di vecchia verniciatura
grigia insufficienti ad ospitare tutti, per cui i più anziani ai quali si
cedeva volentieri il posto, erano gli unici a beneficiarne. Quelli del
luogo sospiravano. Sbuffavano d’impazienza e di stanchezza coloro
che provenivano con scomodo viaggio da ben distanti Comuni.
L’attesa snervante e senza frutti cominciò a produrre vivaci
proteste: una giovane ingaggiò un violento alterco col medico di
guardia; l’agente di servizio s’affacciò dalla porticina, diede uno sguardo
svogliato, poi forse abituato a scenette del genere tornò a sedersi dietro il
tavolo senza profferir parola. Un astante consigliò la protestatrice a
calmarsi -Finirà per farla allontanare
-A cui, a mia?- Rispose lei, fissandolo con sguardo felino –
Ccu’ntimpuluni u ‘bbattu a panza all’aria- Dopo un po’ fu chiamata ed
indirizzata ad un reparto -Bisogna diventar maleducati- Commentò
questa volta in lingua, prendendo un vecchietto sotto braccio e
avviandosi impettita.
Il signor Spampinato continuò a sorbirsi le lamentele di un signore
ancora giovane, alto e scarnito, presentatosi tre giorni consecutivi con
una richiesta di ricovero urgente senza successo -Ho paura di rivolgermi
al mio principale che è onorevole- Diceva -Ed è nel consiglio di
amministrazione di questo ospedale. Quello lì butta all’aria mezzo
mondo se ne sapesse un tanto
L’ascoltatore assorbiva quasi irritato, poiché il rifugio nella
raccomandazione del personaggio per ottenere un diritto non lo
tollerava in quanto fonte di tutti gli arbitri elevati a norma, e quasi
ineluttabili per le popolazioni meridionali.
Intanto erano trascorse un paio d’ore ed erano rimasti in pochi,
essendosene andata spazientita la maggioranza. Ad intervalli il medico
affacciava la testa ad osservare la situazione, cogliere il numero dei più
tenaci e la ritirava frettolosamente, attento a non causare il minimo
rumore per sfuggire alla vista dei disattenti e ridurre il pericolo di
qualche rappresaglia. In uno di questi timidi sopralluoghi dopo che la
faccia del signor Spampinato gli fu diventata familiare e la sua si
turbò d’imbarazzo gli si avvicinò, lesse sulla ricetta i motivi della
richiesta del ricovero e con la penna sul retro vi segnò tre nomi, due di
medici, l’altro della segretaria. Poi l’invitò a dirigersi all’istituto di
patologia speciale chirurgica dell’università, battezzato clinica del
prof. ... dal tempo quando il chirurgo di fama internazionale vi
prestava servizio, e tuttora così intesa, nonostante l’illustre scienziato
da tempo l’avesse disertata per dedicarsi alla propria al servizio e con
beneficio dei privati.
L’uomo di principio andò confortato di essere approdato nella
famosa clinica universitaria, e già prefigurava prestazioni super!
I medici erano in sala operatoria. Quindi un giovane in camice
nero, invalido civile, il fattorino a cui si era rivolto, lo accompagnò alla
segreteria. Attento a produrre il minore rumore possibile, cautamente
aprì la porta di un’aula dove si stava tenendo lezione e che bisognava
attraversare per qualche metro prima d’imboccare uno stretto corridoio
e raggiungere gli uffici. In punta di piedi il ricoverando seguendo la guida
si presentò alla segretaria signora Eturco, una donna dalla pronuncia
artificiosamente smaccata.
-Mi manda il pronto soccorso- Esordì -Dovrei parlare con i medici
Ambigio o Vanilte
-Sono in sala operatoria
-Sì, lo so, mi è stato detto, perciò vengo da lei. Ho bisogno di un
posto letto
-Deve attendere che finiscano gli interventi. Sono loro che
dispongono dei letti
-Ce ne vorrà per molto?
-Non saprei quando si sbrigano. Se crede può attenderli là- E
gl’indicò il corto corridoio che a metà s’apriva ad uno sgabuzzino
basso e rettangolare, occupato da una fotocopiatrice, da scaffali pieni
di scartoffie, da un tavolo, una sedia, e destinato a laboratorio del
fattorino.
Dopo un quarto d’ora fu raggiunto dall’amico dell’onorevole. Si
tennero compagnia parlando piano per non disturbare la lezione
esemplificata da diapositive proiettate su un telo bianco, fino a che il
nuovo arrivato spintosi sulla soglia a curiosare, finì per farsi assorbire
dagli insegnamenti del cattedratico. Quando questi concluse ed in
fretta si accomiatò, reclamato dal seguente dei suoi innumerevoli impegni
quotidiani, gli studenti sgombrarono l’aula, e non pochi camici bianchi
si radunarono nella prima stanza, oltre il corridoio, a confabulare
allegramente, le lancette dell’orologio avevano oltrepassato la prima metà
del quadrante, e niente si risolveva.
Un medico chiaramente più zelante s’informò con il fattorino del
motivo della presenza dei due estranei, quindi facendosi avanti, con molto
senso di comprensione trovò il modo di por fine all’estenuante attesa.
Una persona gentile la si trova ovunque, pensava il signor Spampinato
mentre gli stringeva la mano e lo ringraziava calorosamente nel
salutarlo. Avrebbe chiamato telefonicamente l’indomani mattina,
come aveva avuto suggerito e chiesto di lui, per avere una risposta più
precisa di quando sarebbe dovuto tornare per occupare un letto. Prese
la strada di ritorno soddisfatto, pur con la perdita di tanto tempo, e
sebbene camminasse speditamente verso la fermata dell’autobus non
riuscì ad arrivare a casa all’ora di pranzo. Affamato ingurgitò la pasta
divenuta collosa, e le polpette gelatinose, dimenticando l’esigenza del
gusto, preso da un’altra ben più importante: quella di sentirsi pago per
essersi assicurate prestazioni ad alto livello, ed esserci riuscito senza
raccomandazioni.
Il giorno dopo all’ora convenuta chiamò la segreteria. La voce
della signora Eturco lo informò che il dottor Grattoro era fuori sede per
svolgere un incarico che lo avrebbe tenuto impegnato sino al pomeriggio,
ed esaudendo la curiosità del richiedente aggiunse, che il giorno avanti
sapeva di doversi assentare. Il signor Spampinato memore della
cortesia del sanitario non volle credere ad una dimenticanza
intenzionale e chiese alla segretaria se la situazione fosse migliorata. Ella
gli rispose che al momento al reparto non vi erano posti disponibili.
Per l’assegnazione in ogni caso si doveva rivolgere ai medici che aveva
avuto indicati in astanteria, e che il dottor Grattoro era assolutamente
ininfluente. Dunque era stato diplomaticamente allontanato forse come
turbatore della prassi delle raccomandazioni e per averli irritati col suo
semplice presentarsi e con la pretesa di ottenere facilmente una
accettazione invece un pochino complicata. Dopo un momento di
sbigottimento abbassò la cornetta assalito dalla stizza e nello stesso
tempo col proposito di andare sino in fondo.
Il deciso apostolo civile l’indomani di buon mattino era dietro la
bussola sorvegliata da un portiere tutto nervi, vociferante ed
implacabile a rintuzzare i tentativi dei parenti di varcare il posto di blocco
e dirigersi verso i loro cari. La calca era fremente; tutti avevano un
valido motivo per entrare, ma nessuno l’autorizzazione scritta dal
medico che serviva da lasciapassare ed alla quale il portiere faceva
costantemente richiamo. Mentre aspettava che il bailamme si fosse
quietato per chiedere di uno dei due medici, dall’interno sentì porgere
un saluto al dottor Vanilte, perciò subito il signor Spampinato chiese
al portiere di potergli parlare. Quello riferì ed ottenuto un assenso lo
fece passare dicendogli di aspettare sotto le scale che tra poco sarebbe
tornato dal reparto. Osservò un camice bianco prima di spalle mostrargli
un largo tondo di calvizie sull’occipite, poi di profilo, per avere presa la
rampa superiore, il folto baffo rossiccio dominare sul labbro delicato.
Quando il dottor Vanilte fu di ritorno gli disse del suo bisogno di
ricovero. Il medico allargando le braccia gli parlò di sovraffollamento
tale, che un barellato del pronto soccorso aspettava in corridoio che
si liberasse un letto. Avrebbe dovuto telefonare l’indomani e chiedere
di lui per avere notizie fresche. Poco a poco il paziente postulante si stava
sfiduciando della struttura pubblica, comunque fece quest’altro
tentativo. La signora Eturco gli chiamò il medico che appena inquadrò
con chi stava parlando si scusò di non poter dare una risposta perché
non si era ancora recato sopra e quindi non sapeva se dimissioni erano
in corso. Per saperne di più avrebbe dovuto richiamare fra un’oretta.
Puntualmente allo scadere del termine fissato il nemico delle
raccomandazioni riprovò. La segretaria era stata incaricata di riferirgli
che c’era il tutto esaurito, quindi lo si rimandava a provare il giorno
successivo. L’ostinato uomo cominciò a sentire odore di canzonatura,
ma a quel punto voleva vedere fin dove si sarebbero spinti. L’indomani
alla solita ora si premurô a ripresentare telefonicamente la richiesta.
Questa volta rispose una voce femminile nuova. I dottori Ambigio e
Vanilte erano in sala operatoria, la signora Eturco gliela avrebbe
chiamata da lì a momenti. II signor Spampinato rimase un bel pezzo a
sentire scandire gli scatti della teleselezione, fino a quando decise di non
bruciare altri soldi inutilmente e riattaccò. Riprovò ancora più tardi ma
dava sempre occupato. Alla fine quando l’apparecchio si sbloccò nessuno
andò a rispondere. Aveva un diavolo per capello. Dopo un prolungato
andirivieni nella sua stanza per placare la stizza si sedette sul letto a
meditare le azioni che doveva intraprendere per farsi giustizia.
Innanzitutto avrebbe richiamato l’indomani per svergognarli come
meritavano, poi sarebbe andato a consigliarsi con i carabinieri sul da farsi.
La voce melliflua della segretaria parve avere un sussulto
nell’apprendere che era ancora lui, e forse il tono sostenuto della
presentazione la mise sull’avviso di prevenire le brutte intenzioni -E di
nuovo lei? Buongiorno- Salutò con quel caratteristico tono snob -Mi
spiace che non sia ancora riuscito a trovare. Ma lei non è in intesa con
il dottor Vanilte?
-Signora, io sono un cittadino italiano con una prescrizione di
ricovero del medico curante per accertamenti alla colecisti. Io non conosco
il dottor Vanilte più di quanto una qualsiasi persona che si possa
incontrare per strada. Sono stato quasi una settimana menato per il
naso, perché mi rifiuto di credere che in questo spazio di tempo non si
sia reso libero alcun letto
-Sa, il fatto è che nell’ultimo periodo l’affluenza dei barellati è
stata alta. Comunque visto come stanno le cose, non è il caso che si
scomodi oltre, può lasciarmi il suo recapito telefonico, e sarò io ad
avvisarla quando potrà venire
-E ci voleva tanto per prendere un simile accordo?
-Glielo ripeto credevo fosse in comunicazione con il dottor
Vanilte
-Anche il primo giorno quando sono stato mandato dal pronto
soccorso?
-Mi scusi, ma non penso tale particolare. Comunque stia tranquillo,
non ci sono problemi, mi farò sentire io, speriamo domani, d’accordo
allora?
-Mi auguro che non debba ricorrere a spiacevoli rimedi
-Non ce ne sarà bisogno, stia tranquillo, arrivederla- Concluse
spocchiosa in sommo grado la segretaria.
-Arrivederla- Masticò pensieroso tra i denti il poveretto, che non
capiva se cambiasse la tattica e si continuasse a giocare troppo
superficialmente con la sua salute, in tal caso era deciso a ricorrere in
ogni sede a pretendere il suo diritto. Per saperlo c’era da aspettare.
La paura che la chiamata potesse non trovarlo lo trattenne in casa
la prima mezza giornata, come altrettanto il giorno dopo. Intanto il
nervosismo cresceva al pari della meraviglia che lo stato di agitazione non
gli procurasse nuovi attacchi. Al terzo giorno finalmente, ad un’ora in
cui non sperava verso le undici, la voce della signora Eturco più
carezzevole del solito per la buona notizia che gli portava, dall’altro
capo del filo lo pregava a far presto a presentarsi al reparto poiché di
fronte ad un barellato non avrebbe potuto conservargli il posto. Era una
corsa tra disgraziati nel quadro vergognoso di una assistenza sanitaria
decotta. Il signor Spampinato preso dal disgusto fu sul punto di
rinunciare, ma la percezione di poter fare il favore ai padroni della
pubblica struttura in quel momento prevalse sulla tentazione di
rivolgersi ad un altro nosocomio meglio organizzato, ammesso che ce ne
fossero nel sud, per cui rintracciato il fratello, lo pregò di
accompagnarlo con la macchina, per arrivare il più presto possibile.
Prese posto alla stanza F letto 4, sotto la finestra. Il materasso a
molle impunturato a rombi era ancora spoglio, in più punti abbrunito di
macchie di sangue che a guardarle davano un senso di disgusto. Un
infermiere venne a rivestire l’indecente giaciglio con bigie, lise
lenzuola e una vecchia coperta, lasciandogli da guanciale, introvabile
suppellettile, solo la federa. Le rimostranze del nuovo ricoverato
seguirono l’infermiere per il corridoio mentre si allontanava allargando le
braccia in segno d’impotenza, e per fortuna furono colte da un
ricoverato di un’altra stanza che un cuscino dimenticato sopra gli
stipetti indicò e invitò a prendere. La matricola con la mente ritornò ai
vecchi tempi della caserma dove era inevitabile l’arte di arrangiarsi, che
nella nuova situazione riscopriva di grande attualità!
Un po’ sconsolato si mise in tenuta di degente, poi cercò di
sistemare alla men peggio le sue cose sotto lo sguardo attento d’un
nonnino dirimpettaio. Nel frattempo s’era fatto mezzogiorno, e il carrello
delle vivande apparve sulla soglia per la distribuzione del rancio. A
causa che l’ospedale non passava le stoviglie, l’ignaro ospite dovette
ripiegare su un panino imbottito di spezzatino e rinunciare al primo.
Certo non mancavano le novità per restare sbalorditi e a poco a poco il
fiducioso paladino dell’U.S.L. cominciava a convincersi che le sorprese
lì non potessero contarsi. Consumato il parco pasto e più affamato di
prima, prese una sigaretta e l’accendino e si avviò per il corridoio verso
l’uscita, meditando tra una boccata e l’altra, sull’ambiente in cui si era
cacciato. Arrivò fin giù nell’atrio indeciso se arrendersi al senso di
desolazione che gli premeva energicamente dentro o affidarsi al tenue
filo di speranza che le insufficienze organizzative potessero essere
compensate da una buona assistenza professionale.
Iniziava il mese di aprile di un anno in cui inconsuetamente la
primavera tardava a rallegrare la natura. Il sole schermato da
un’umida foschia stentava a filtrare spandendo per l’atmosfera una luce
malaticcia mal sopportata dal suo umore. Quindi preferì tornare
indietro anziché inoltrarsi per il piccolo giardino dalle neglette aiuole.
Fatte le scale si fermò nell’anticamera al primo piano, dove per ognuna
delle pareti profonde due grandi finestre carpivano le tinte del cielo
circoscritto in un rettangolo dal girare delle ali dell’edificio per i primi
tre lati, e per il quarto dalle fronde degli alberi che abbastanza alti per
la loro vicinanza impedivano alla vista di spaziare lontano. Oltre la
bussola un corridoio mostrava le stanze del reparto uomini e donne a
seconda che si prendesse a destra o a sinistra; di fronte a queste una
finestra e la scala di servizio con ascensore. Appena il corridoio girava, la
stanza della caposala, quella dei medici con una piccola farmacia, un
telefono appeso per uso interno, una bussola e poi i servizi, una nicchia
con una madonna ed immagini di santi vari collocate dai devoti, un
ballatoio con i bidoni dei rifiuti, una stanza, l’armadio, due altre
stanze, la prima delle quali dissestata e adibita a deposito di rotte
suppellettili. In fondo una finestra centrale s’affacciava su un
agglomerato di casupole dagli spioventi tetti di tegole, in parte
diroccate o sfondate, in parte ancora abitate da povera gente avvezza
ai disagi, e il quartiere, uno dei più vecchi della città, circondato da
minacciosi giganti di cemento consumava la sua disperata agonia in
attesa di essere divorato da fameliche ruspe. Un lamento gli arrivò
smorzato ed indistinto; cresceva in vigore e comprensibilità man mano
che lui si addentrava nel corridoio. Veniva dalla sua stanza ed era lo
sfogo amaro di tante angustie misto alla spasmodica animazione di
dolore dai quali il nonnino cercava di svincolarsi con tutte le forze che
riusciva a raccogliere. E siccome malgrado gli ottantaquattro anni, la
malattia, e l’ormai lungo periodo di sofferenza, era di forte fibra, gli
veniva consentito di trovare stupefacenti energie, capaci di
sorreggerlo per molte ore di seguito, senza bisogno di riposo, di giorno
e di notte in una ossessiva trenodia. Era un ripetere più volte in tremula
cantilena -Staiu murennu, staiu murennu- fin quando non faceva salire la
voce di mezzo tono iniziando un crescendo con altre allarmanti
partecipazioni: -Mi srappa ‘a panza, non pozzu orinari, non pozzu
risistiri- E dopo aver chiuso con implorazioni d’aiuto al personale
-Dutturi ‘nfirmeri- Riprendeva daccapo l’espressione e la tonalità di
partenza, senza speranza di pause. Né la presenza del familiare di
turno addetto all’assistenza sortiva effetto lenitivo, anzi la maggiore
attenzione ricevuta provocava una dilatazione delle querimonie come
su un bambino la disponibilità a prendere in considerazione le sue bizze
non fa che moltiplicarle. L’intendimento era quello di preoccupare il più
possibile il parente, sensibilizzarlo ed impietosirlo al massimo, per
cercare di assicurarsi meglio, che non fosse dimenticato ed abbandonato
al suo destino. Perciò con le vive e penetranti pupille scrutava
continuamente in profondità le espressioni suscitate dalla presentazione
dei patimenti in coloro che lo assistevano adattandoli con sapiente
regia al raggiungimento d’un manifesto turbamento nei loro cuori.
Questa tattica poterono scoprire gli altri della stanza,
dall’aggravamento immediato e sistematico della crisi ogni qualvolta
gli giungesse la visita, ed il signor Spampinato dovette convenirne in
seguito appurandone la validità.
Nel primo letto una persona anziana, da dieci giorni supina, dopo un
intervento d’urgenza di colecisti e di pancreas, giallo sino al cranio,
intorno al quale lanosi e candidi capelli giravano a ferro di cavallo,
compostamente rassegnato alle gravi condizioni che gli aveva procurate
un terribile male del quale ne ignorava l’esistenza, borbottava ogni tipo
d’improperi per l’interminabile lagna del nonnino. Nel secondo invece
un quasi ottuagenario con una faccia dai lineamenti tracciati apposta
per spaventare non s’accorgeva di nulla, nemmeno dell’affettuosa
vigilanza dell’unico figlio, impegnato com’era a dibattersi nelle grinfie
della morte, a seguito d’una emorragia gastrica. Nel terzo un
contadinello svagato e prudente in attesa d’essere liberato da un gozzo
non troppo vistoso quanto danneggiatore, specie alla memoria, si
limitava a scuotere di tanto in tanto la testa più per dispiacere che per
disapprovazione. L’ancora fresco arrivato dinanzi a tante testimonianze
di disperate lotte per la vita, pur al momento in buona salute, sentiva la
vitalità suggestionarsi ed abbandonarlo ad una sofferenza di tutte le
membra, come preso da un contagio misterioso. L’ambiente in cui era
stato sistemato non era il più idoneo a favorire la tranquillità psicologica
tanto importante per una eventuale preparazione a qualsiasi operazione
chirurgica, anche la meno complicata, e sebbene avesse concluso sempre,
le volte che aveva esaminata la probabilità di necessario intervento, di
sottoporsi senza porre tempo in mezzo, convinto e deciso, sentiva adesso
affiorare qualche titubanza promossa dal precario stato di salute degli
altri. Non era paura, presentimento o sfiducia, ma forse un inconscio
senso di scaramanzia insorgeva a seguito che ogni aspettativa di buon
funzionamento, dal giorno in cui s’imbatté in quell’ospedale, era andata
regolarmente delusa.
Erano le cinque del mattino, faceva ancora buio pesto quando
rinunciò a cercare di riassopirsi dopo una notte dormita a spezzoni,
interamente soffusa dai lamenti del nonnino che non volle concedersi
pause come una cicala ben riparata. Si alzò e barcollante si diresse ai
servizi. Quattro gabinetti in tutto, più uno chiuso a chiave ad uso del
personale, sporchi e maleodoranti ai quali vi si doveva adattare
obbligatoriamente prendendo attente precauzioni e nelle presenti
circostanze il signor Spampinato sognava quanto bello sarebbe stato per
le necessità fisiologiche del momento trovarsi in campagna sotto le
fronde di un albero come, specialmente in primavera, gli accadeva ai
vecchi tempi della fanciullezza. Ai lavandini la situazione era ancora
più grave, poiché succedeva che lì fossero sciacquati pale e pappagalli
mancando di farfallina il rubinetto del pozzetto dove essi venivano
svuotati, per cui era frequente trovarvi stampate sugli incavi schifose carte
geografiche. Il quadro igienico era completato dalla biancheria macchiata
d’ogni genere di sozzura, che in esubero dal cassone che doveva
contenerla, restava parecchi giorni ammonticchiata all’aperto a lievitare
germi, prima che venisse portata in lavanderia. Nauseato il mattiniero
degente andò a prendere una sedia per poggiarvi il necessario agli
impegni igienici che esaurì con una serie di acrobazie senza toccare alcuna
superficie all’infuori del rubinetto. Il disagio fu compensato dall’assoluta
tranquillità dell’ora. Il dormitorio montava il solito concerto di sospiri,
sibili, risacche intramezzati da spezzoni di parlato cifrato. Nella sua
stanza la voce rotta del nonnino continuava a supplicare
indifferentemente alle proteste dell’itterico che gli dava del
rimbambito mentre il contadino si tirava la coperta sopra l’orecchio,
l’altro vecchio a tratti smaniava implorando la madre ad aiutarlo, e
veniva rimproverato dal figlio irritato di vedersi scavalcato, dopo due
giorni e due notti d’ininterrotta assistenza dalla nonna trapassata da
decenni. L’assegnatario del letto 4 s’era disteso supino, immergendosi
a cercare oltre i vetri della finestra, nell’intensità del cielo che iniziava
a schiarire prodigiosamente, la concentrazione per sopportare e pensava
quanto contino le sofferenze umane nel regolare scorrere della vita
dell’universo. Osservava nascere il mondo senz’accorgersene,
l’avanzare della luce a scoprire delicatamente i contorni delle cose ed i
freschi colori ridare gaiezza a tutto. La notte s’era rifugiata nel ricordo
e lo stato attuale era troppo bello per consentire che se ne fosse distolti
dal goderlo, perciò a malincuore rispose al saluto degli addetti alle
pulizie.
Per le stanze risuonava un ritornello seguito da una risata
perfettamente modellata al diabolico che l’infermiere dei prelievi,
brioso e rubicondo simpaticone, dedicava a quanti la sua visita
attendevano
-Non c’e preda che resista, col mio
charme io l’attiro, del succhiare son
l’artista, il più celebre vampiro, ahahahah!
Quando arrivò dal signor Spampinato, questi stando al gioco, gli
porse il collo con sottomissione. II paramedico lo riprese drastico
-Svergognato, i maschi li colpisco al braccio- In un batter d’occhio poi
compì il prelievo senza fare avvertire alcunché, da vero artista!
Due carrelli tintinnanti d’attrezzi e medicine fecero capolino sulla
soglia della stanza. Con il primo un infermiere leggermente
anchilosato sul lato destro, ma morbosamente attaccato al lavoro da
non volersi mettere in pensione, s’occupava impacciato nei movimenti al
ritiro ed alla sostituzione delle borse sanitarie piene di liquidi organici
espulsi per via artificiale, con l’altro un suo collega molto più giovane, una
sofisticata barbetta e l’aria da filosofo, consegnava le terapie mattutine ai
pazienti prendendo istruzioni da un apposito memo randum.
Poi arrivò la colazione, più tardi un infermiere con la prenotazione
dell’elettrocardiogramma e la radiografia al torace. Il presunto ammalato
di colecisti fu contento di notare la solerzia espressa per gli esami e si
riprese un pochino dallo scoramento di prima, convincendosi che in
pochi giorni avrebbe avuto chiaramente specificato lo stato della sua
salute, e ci credé maggiormente quando mentre si avviava per i
laboratori, vide davanti l’ascensore aspettare una barella con sopra
steso il signore che gli aveva fatto compagnia il primo giorno al pronto
soccorso, già preparato per l’intervento chirurgico. Gli fece un cenno
d’augurio stringendo con la propria la mano dell’altro chiusa in
pugno. Quello benché insonnolito dalla preanestesia lo riconobbe e gli
sorrise sereno.
Appena il signor Spampinato si sbrigò degli esami, tornò nella
stanza ad attendere la visita dei dottori, sopraggiunta poco dopo e
condotta da un terzetto. Il più importante dei tre individuabile per età,
una fissa collocazione centrale fra i suoi aiutanti, la marcata preceden za
rispettata dagli altri, l’iniziativa d’interrogare e un’ostentata boria, gli
chiese a chi appartenesse. Il signor Spampinato lo guardò dritto in faccia
come se avesse ricevuto i numeri, allora l’interrogante riprese quasi
indulgendo al legittimo stupore -Chi l’ha mandata qui?
-Il pronto soccorso
-Ah!- Fece l’altro con sorpresa -Beh, cosa si sente?
Il paziente gli raccontò delle notti bianche e gli porse le lastre della
colecisti e la risposta alla gastroscopia fatta di recente, che si era
portate appresso. Il capo equipe lesse soltanto le conclusioni, lo volle
visitare, infine concluse ch’era necessario rifare la colecistografia con
doppia dose del triiodato a compresse, e se neanche questo secondo
tentativo facesse vedere qualcosa, com’era prevedibile, s’imponeva una
colangiografia. Dietro richiesta gli spiegò di che si trattava, poi si volse
verso il nonnino che lo chiamava implorandolo col braccio tremante
-Vossia a stari calmu.
-Iu non ci ‘a fazzu
-Bisogna aspettare che si sblocchi! Non possiamo fare niente in
queste condizioni
Il figlio dell’anziano dall’aspetto truce, riferendosi al nonnino, con
la mano destra fece il segno della morte. L’ignaro ammalato grave
esplose.
-Non riesco più a sopportarlo. E’ tutta la notte che fa così.
Dottore di questo passo io mi aggravo
-Ha ragione, deve avere pazienza
-Pazienza, pazienza! Ne ho forse avuta poca fino adesso? Portatelo in
un’altra stanza
-Vediamo, vediamo- Aggiunse il medico prima di uscire quasi
scappando per scrollarsi l’impiccio, lasciando il protestatario al colmo
dell’amarezza.
La moglie cercava di consolarlo e lo pregava di star calmo e siccome
era di quei tipi che insistono quando dovrebbero stare zitti, una donna
che esternava l’affetto con la petulanza, non faceva che esacerbare
ulteriormente l’irritazione del marito, procacciandogli così, specie per gli
organi colpiti dal male, un tossico supplementare.
Nel pomeriggio un’altra equipe passò la visita. Erano tutti giovani,
ma a colpo s’intuiva chi era la guida per quel tratto d’autorità che il più
insignificante atteggiamento portava scolpito. Si fermarono al primo
letto, il capo dottor Criomi, dopo una serie di scrupolosi controlli e di
domande mostrò soddisfazione al malato per il recupero che lentamente
effettuava e che sapeva più di condotta rincuorante che di vero riscontro
positivo. Col figlio dell’anziano mammulinu, fu di poche parole -Bisogna
ancora attendere- Poi indicando il contadino si consultò con gli altri
-Questo non è nostro?!- E riferendosi al signor Spampinato -E
questo?- II dottor Vanilte che era al seguito rispose di sì. L’ammalato
raccontò di nuovo dei disturbi, mostrò gli esami, ed ottenne le stesse
risposte: colecistografia con doppia dose di preparato di contrasto ed
eventualmente la colangiografia. II nonnino s’era appisolato per
sfinimento e prima che compissero l’imprudenza di svegliarlo, con un
filo di voce tirato fuori faticosamente, dal primo letto arrivava la
raccomandazione di lasciarlo continuare a dormire -Per favore,
dottore, tutta la notte e la mattinata non ha fatto che lamentarsi senza una
pausa. Non potrebbe spostare lui o me in un’altra stanza? II recupero
che dovrei fare lo distrugge lui
-Non ci sono posti liberi, ma alla prima occasione, provvederemoGli promise il giovane chirurgo, poi si rivolse alla nuora dell’assopita
cicala che aveva smesso di lavorare a maglia -Anche per lui bisogna
attendere- Quindi con la stessa speditezza di come era entrato si
accomiatò seguito dai collaboratori e lanciando un metallico saluto.
Da critico osservatore il signor Spampinato notò che la fretta ad
uscire era un fattore comune e pensò con cattiveria che far capire d’esser
attesi con impellenza da diversi compiti non delegabili era un modo per
dimostrare la loro grandezza.
I medici dileguatisi che furono dalla vista, prese parola l’opprimente
signora col tessere ogni tipo d’elogi per il giovane aiuto primario. A
suo dire era bravissimo, e in assenza del professore impegnato in
convegno negli Stati Uniti aveva fatto fronte alle necessità del reparto
con grande abilità. Era stato lui ad operare d’urgenza il marito, un
intervento disperato alla colecisti ed al pancreas, di cui l’iniziale piccola
speranza di sopravvivenza si stava tramutando ogni giorno di più in
una felice realtà di scampato pericolo. Era stata una fortuna che
nell’ospedale dove era ricoverato prima non s’erano decisi ad intervenire
perché sicuramente glielo avrebbero ammazzato il suo caro, ed altrettanta
fortuna era stata quella di essersi interessato il compare di suo figlio
amico intimo del professore ad attuare il trasferimento ed evitare un
decesso per mancato soccorso; tutto ciò era stato attuato a precipizio
il giorno prima della partenza del luminare, che lo aveva pure visitato
potendo al suo delfino lasciare le istruzioni necessarie a render possibile
il miracolo. Troppo bravo il maestro, tanto che aveva una clinica privata!
Il discepolo era sulla buona strada. Continuava sottolineando
l’interessamento assiduo dei due verso il marito, l’uno controllandolo
accuratamente e spesso, l’altro prendendo notizie per telefono.
Riconobbe al compare, uomo ben ammanicato politicamente, l’influenza
determinante il trattamento di riguardo e parve fremere d’orgoglio. Poi
rivolse elogi al consorte, il quale, solo con la grande forza di volontà
aveva potuto resistere tanto tempo quasi immobile senza un lamento od
una imprecazione, invece che... concluse accennando coi gesti del capo e
della mano al letto del nonnino ed alla sua cantilena, evitando cosi di farsi
sentire dalla nuora che continuava tranquilla a sferruzzare a testa china
senza ascoltarla. Anche i presenti l’avevano seguita poco non per
scortesia, ma soprattutto per il suo assommare alla velocità narrativa
una voce stridula e un facile panegirico sfociante in fastidioso
scilinguagnolo.
Col calare della sera, oltre le diciannove, prima di cena, contenuta
in preconfezionati e divisa molto tardi per un ospedale, il corridoio e le
stanze cominciarono a brulicare d’amici e parenti in vena di coccole,
creandosi presto un’atmosfera da fiera: i bambini schiamazzavano
rincorrendosi tranquillamente, i grandi assiepati intorno ai letti
facevano vivace salotto. Malgrado fossero state prese le pre cauzioni di
spalancare la finestra del corridoio, la porta del balcone coi bidoni dei
rifiuti, e qualche fessura delle finestre delle stanze si lasciasse aperta,
spesso si sentiva mancare l’ossigeno, avvelenato regolarmente dal fumo
delle sigarette. La ressa indugiava sino a tarda ora, padrona assoluta
della situazione poiché se prima si vedeva raramente qualcuno del
personale, in questo spazio di tempo scompariva del tutto.
Mentre il signor Spampinato se ne stava appoggiato con i gomiti sul
davanzale e la testa sporgeva fuori a cercarsi frizzanti inalazioni, suo
fratello gli poggiò una mano sulla spalla -Chi si lamenta nella tua
stanza?- Gli chiese. Ormai l’accoramento del nonnino al ricoverato gli
si era sparso dentro tutta la persona da sentirlo anche quando era
spento o dove esso non arrivava per la distanza, per cui lo viveva in
presenza immanente senza badare a stacchi e a riprese, e lo considerava,
come il rumore per un’officina, una specifica ed inevitabile caratteristica
dell’ambiente, giungendo ad assorbirlo insensibilmente.
-Ah, già, c’e un lamento. E’ il nonnino- Rispose, prendendone atto
-Andiamo- Continuò -Togliamoci dalla bolgia. Al largo possiamo
conversare meglio- Il ricoverato esternò lo stato d’animo conformato
alle impressioni ricevute. Così poté sfogarsi per le troppe disfunzioni
incallite, ma rassicurare il fratello sulla volontà di sopportazione tanto
più che per il suo programma le cose andavano bene. Aveva iniziato
con gli esami preliminari e presto sarebbe passato a quelli più attinenti
al malanno. Lo pregò di non spendere troppo tempo a venirlo a trovare,
togliendolo ai bambini ed alla moglie. Davvero non c’era motivo.
S’impegnò ancora d’informare per telefono delle novità, così pure di
chiedere qualsiasi cosa gli bisognasse, e che come per l’acquisto dei
piatti, fosse complicato provvedervi direttamente. Dopo molte
insistenze a non intrattenersi oltre lo convinse a rincasare. Era
l’ossequio del principio della brevità delle visite, il solo valido ad
evitare la presente, ingiustificata baraonda, a spingerlo a sacrificare il
piacere dell’affettuosa compagnia.
La notte ripropose gli stessi motivi della precedente: qualsiasi
espediente come la bambagia nelle orecchie risultò vano per riuscire a
concedersi un placido riposo. Quando dopo le pulizie, arrivò la figlia
della cicala, la moglie dell’operato più gialla del marito scaricò le
rimostranze al pari d’una mitragliatrice. Tra le due donne s’accese un
diverbio per fortuna presto sedato dalla rievocazione dei motivi che
l’avevano procurato, in fin dei conti pietosi, mentre il paziente
dall’ aspetto feroce ad intervalli implorava -Matri biddissima, salvami
tu- Appena le signore conclusero le scuse d’obbligo per un incidente del
genere ove le buone ragioni per la protesta valgono quanto quelle della
difesa poiché spetterebbe ad una migliore organizzazione non dare
motivo a simili scontri, il signor Spampinato si rivolse al nonnino
-Vossia deve riposare ogni tanto
-Iu non ci ‘a fazzu. Staiu murennu...
-Vossia fa morire noi
-Dutturi, ’nfirmeri, staiu murennu!
In effetti era una situazione imbarazzante per tutti, un po’ meno
per chi potesse allontanarsi dalla stanza anche se dalla perdita di sonno
era ridotto ad una candela spenta. II signor Spampinato si mise a
conversare con la figlia, una donna di mezza età abbastanza sensibile da
restare dispiaciuta sinceramente dell’incolpevole persecuzione del
genitore nei confronti del resto dei ricoverati della stanza. Ella
raccontò a mezza voce il triste destino degli ultimi anni di vecchiaia
d’un uomo vissuto sempre in dinamica laboriosità, e a contatto con la
natura. Suo padre infatti sino a due anni prima curava una mezzadria
con più amore che per la sposa perduta di recente. Coltivava ogni
tipo di verdure, ortaggi, legumi che, recandosi in alcuni quartieri in
bicicletta, vendeva direttamente ad affezionati clienti. Inoltre conduceva
un piccolo commercio di olio. Comprava la produzione di modeste
partite di ulivi a blocco sugli alberi, sobbarcandosi alla raccolta, e
controllando sia il raccolto sia la frangitura, a fine campagna
realizzava un buon gruzzoletto di guadagno. Era straordinario
osservare un uomo della sua età arrampicato sulla scala ad abbacchiare le
cime più alte! E non c’erano feste od inviti a pranzo per qualsiasi
ricorrenza che lo potessero distogliere eccezionalmente dall’instancabile
attività. La casetta indipendente con piccolo orto annesso, comprata in
contanti per avversione delle cambiali, e l’intelligente cane bastardo
che vi montava la guardia, restavano gli unici interessi ad attrarlo oltre
e dopo il lavoro. Con brusca sterzata, improvvisamente la salute lo
condusse a dover accettare un regime di vita completamente opposto.
L’arteriosclerosi lo assalì inopinatamente. Di colpo dovette abbandonare
tutto: il lavoro, la casa, la bicicletta, il cane. Per quest’ultimo quando
il ricordo tornava, si vestiva di patetico, perché per non abbandonarlo
a se stesso, non avendo trovato chi lo accogliesse, fattosi coraggio
dopo diversi tentativi lo soppresse con una fucilata e andò, rorido di
lacrime inarrestabili, a seppellirlo in una fossa scavata dietro la casa. Gli
pesava come un omicidio: quello sguardo rassegnato, quasi comprensivo,
era sicuro, diceva quando ne parlava, di non poterlo mai dimenticare.
Cominciò a rotazione l’ospitalità per due mesi presso ognuno dei figli.
Ne aveva sette: cinque maschi e due femmine. Di tutti solo una per
espresso divieto del marito non poté prendere l’impegno. Quindi il
vecchio veniva sballottato da un posto all’altro, in ambienti
completamente diversi e caratteristici del centro città, della marina,
della campagna, e a casa della narratrice situata in mezzo al verde,
nella periferia ovest nei pressi del grande negozio di abbigliamento
all’ingrosso della ditta..., si sentiva più a suo agio. Lei avrebbe
voluto fare di più e se i disturbi del padre fossero stati di altra natura,
forse i familiari glielo avrebbero consentito. Però di fronte
all’ossessionante sinfonia diurna e notturna, aveva dovuto arrendersi. La
pensione serviva a ripagare la prole del sostentamento. I beni ed il
contante delle librette del genitore lentamente ingrassate dall’esser
stato frugale sempre e presumibilmente vicini a passare in eredità per la
vetustà della nascita combaciante con quella del secolo, rendevano più
caritatevoli gli animi dei figli, delle nuore e del genero ospitale,
cosicché due mesi l’anno di generosa abnegazione spettanti ad ogni
famiglia volavano quasi, nonostante la natura della malattia creasse
enormi fastidi. Inoltre dall’avvicendamento delle nuore ad assisterlo
durante il giorno in ospedale in rappresentanza dei figli che si
vedevano di rado e fugacemente a causa delle loro attività troppo
impegnative, l’incomodo traspariva abbastanza attenuato. Il lamentarsi a
cantilena era noto dal tempo dei primi attacchi e non di rado durava
molto. Il voler stare poi sempre coricato anche per prendere i pasti forse
aveva contribuito a procurargli l’attuale blocco intestinale. Ricoverato
d’urgenza quattro giorni addietro, i chirurghi non si erano voluti
prendere la responsabilità di aprire. Si aspettava che qualcosa
succedesse dopo la preoccupante costipazione che durava ormai da quasi
due settimane, e per intanto un sondino lo spurgava dei tossici liquidi
che le flebo oltre ad alimentarlo giorno e notte producevano durante
l’opera di lavaggio.
Nel corso del racconto, il nonnino era stato vigile a cercare di
carpire il contenuto degli argomenti. Aveva capito d’essere il centro
della confabulazione ed era contento che l’ascoltatore mostrasse
interesse. Lo si intuiva dagli sguardi teneri che le pupille di natura
provocatoriamente aguzze lanciavano per l’occasione. La commozione
dovette essere tanto grande da arrivare a predominare lo
sconvolgimento fisico, placarlo, e procurargli la condizione per
assopirsi. II viso spiccatamente ellittico s’era ricomposto in serena
espressione. Il colorito bruno sul quale le rughe scivolavano quasi senza
segnarlo, rimediava al formarsi dell’impressione di scheletro che le
sporgenze della fronte, degli zigomi, del mento, rimarcate dall’ultimo
dimagramento, seguito all’interrotta alimentazione, avrebbero
sicuramente suggerito. Due ampie anse disegnate sulle parietali
ricacciavano alla sommità del cranio parte dei radi capelli cenere in un
ciuffetto somigliante ad una cresta inargentata. Respirava con la bocca,
calmo e regolare, e a causa dell’assenza dei denti quando le labbra
risucchiava sembrava ingoiare assieme all’aria i baffi sghembi che però
subito respingeva nella fase di espirazione. Nella tranquillità del
riposo i lineamenti distesi riproponevano la fisionomia di un vecchio
di bell’aspetto, e dal risalto delle coperte si capiva ch’era di buona statura
poiché il letto occupava da capo a piedi.
Nel pomeriggio arrivò accompagnata dal fratello la nuora del vecchio
dal viso asimmetrico, duro ad arrendersi. I due parlottarono con il
figlio con fare persuasivo fino a che ricevettero l’assenso alle loro
proposte di trasferire il moribondo all’ospedale della loro città. Quando
la barella seguita dal figlio e dalla moglie uscì dalla stanza, il parente
acquisito spiegò -Mio cognato non vuol capire che è finita per suo
padre; spera ancora nonostante l’agonia lo stia spegnendo. Per
convincerlo a partire da qui abbiamo dovuto assicurarlo che il nostro
ospedale è ben all’altezza della situazione in cui versa quel poveretto.
Durante la strada mi tocca fare il resto!- Sospirò rassegnato e alzando
una mano in segno di saluto, andò a raggiungere lo sconsolato
gruppetto. Il resto era il tragico responso ricevuto dal colloquio con i
medici e l’invito a portare presto a casa il congiunto, poiché era in
fase di coma irreversibile e la clinica ci teneva troppo ad evitare che
accadessero decessi tra i ricoverati.
Nella stanza furono attraversati da un moto di sgomento spontaneo
provocato dalla solidarietà che si stabilisce tra i colpiti diretti o indotti
dalla sofferenza, la sola capace a sublimare la natura umana logorata
dall’egoismo.
In serata al signor Spampinato furono consegnate dodici compresse
da prendere due ogni cinque minuti. L’indomani ad apertura del
laboratorio fu il primo a sottoporsi alla radiografia che confermò il
risultato già noto. Il dottor Arfrere, persona gentilissima, uno dei
giovani medici del volontariato, il più assiduo e il più disposto a
rendersi utile su al reparto l’informò che avrebbe dovuto sottoporsi alla
colangiografia e che c’era da attendere per i molti prenotati all’esame,
pur presentando una richiesta d’urgenza come intendeva fare per
riuscire ad accorciare i tempi; frattanto si poteva programmare una diretta
epatica e una gastroscopia di controllo. Anche l’aiuto primario durante il
giro delle visite confermò che bisognava attendere poiché per
quell’esame assistito dall’anestesista la clinica faceva fronte alla
domanda degli altri nosocomi della città. II dott. Arfrere gli fece
presente che lo avrebbe richiesto con urgenza e che nel frattempo come
concordato lo mandava a compiere gli altri due accertamenti. Quello parve
esser sollevato dall’intervento del collega e cercò di mascherare
l’imbarazzo con un sorrisetto d’incoraggiamento mal riuscito e servito
solo a rafforzare l’impressione che si andasse per le lunghe, forse
deliberatamente per essere piovuto l’intruso degente in quel letto senza il
beneplacito d’alcun padrino o una condizione di salute da loro ritenuta non
allarmante.
L’aspirante all’ambita colangiografia aveva preso l’abitudine d’andare
a trovare nella stanza C il coetaneo conosciuto al pronto soccorso.
Non tanto convinto osservava il lesto recupero che i parenti notavano
da un giorno all’altro nonostante l’intervento di vaste proporzioni
durato quasi otto ore. Il signor Spampinato non conosceva l’entità del
danno, non glielo aveva chiesto per discrezione, tanto meno osava adesso
dopo essere stato informato della lunga azione chirurgica. Però lo
trovava ulteriormente dimagrito, sembrava quasi spolpato e sebbene
conservasse un buon colorito a guardarlo affioravano preoccupazioni.
Comunque la cieca fede nella riuscita dell’intervento aiutava l’operato
a migliorare psicologicamente e lo teneva abbastanza contento per
essersi tolto il pensiero. Se non fosse stato per il cruccio di non avere
ricevuta la visita del soverchiamente stimato e servito datore di lavoro,
onorevole ed amministratore del nosocomio, era interamente
tranquillo, poiché per il resto dell’area sentimentale non aveva di che
lamentarsi in quanto non gli mancava il calore della moglie, dei figli, di
altri parenti, degli amici, sempre numerosi accanto il capezzale. Una
sconfinata ammirazione nutriva per la dottoressa che lo aveva operato e
lo teneva sotto diretto controllo con eguali premure d’una madre verso
il figlio, e di conseguenza un gran bene diceva del funzionamento del
reparto. Sull’ultimo punto più il tempo scorreva più il signor
Spampinato ne dissentiva essendo le prove contrarie assai numerose e la
ragione molto chiara. Trattandosi di istituto di prima patologia speciale
chirurgica e propedeutica clinica dell’università era facilmente
spiegabile l’interesse e lo zelo di tanti praticanti per le carni da
macello, lasciando in second’ordine e trascuratezza chi rimanesse
lontano
dall’appuntamento
operatorio
o
peggio
mostrava
nell’eventualità di non poterlo evitare di preferire rivolgersi altrove. Il
signor Spampinato apparteneva a questi ultimi, lo aveva fatto capire da
qualche battuta, servita a tramutare la disapprovazione per il suo
intrufolarsi mal digerito in sicura irritazione dell’equipe che non trovando
al momento il modo di liberarsi di lui infliggeva l’unica punizione
praticabile, consistente nel lasciarlo ad aspettare. Insomma lo si ripagava
con una guerra dei nervi, che lo inducesse a gettar la spugna e a
dimettersi volontariamente. Certo era questo l’evento sperato, ma
avevano fatto i conti senza l’oste poiché l’apologista del diritto restava di
diverso avviso.
Con il permesso del nonnino i degenti della stanza F si svegliarono
paghi d’avere finalmente riposato bene. Non sapevano se non lo
avessero sentito perché fosse crollata la resistenza all’insonnia o perché
quello una tregua avesse regalato. Un regalo comunque lo aveva
approntato. S’era tolto il sondino e attorno al suo letto, il liquido sparso
dal tubicino, aveva formato un lago. Il caso volle che quella mattina si
svegliasse male l’ausiliario delle pulizie e con la scusa di trovare troppi
parenti per le stanze si rifiutò di compiere il lavoro. Né ci fu protesta
che valse prima su di lui direttamente e dopo presso un medico, meno
ancora lo stato di emergenza causato dall’infetto ristagno. Si ebbe
un’unica risposta, quella di riferire all’assente direttore. Le mosche,
suonata l’adunata, vi trovarono succulento ristoro, raccolte lì in festosa
bisboccia, fin quando il severo addetto alle pulizie capendo la situazione
d’insalubrità si convinse a compiere il proprio dovere.
Prima di pranzo due infermieri vennero alle mani per certe
discordie sui turni di servizio, e la fortuna che i visitatori abbondassero
sempre, permise d’effettuare la separazione dopo che era stata
prodotta soltanto un’esigua graffiatura al collo di uno degli azzuffati.
Verso le diciotto furono consegnate alla suora di turno le dodici
compresse per la colecistografia da far prendere al nonnino nelle rituali
modalità. Fu un’impresa faticosa, poiché il vecchio rifiutava d’ingoiarle
sia intere, sia rotte in pezzetti, infine triturate, sputandole
sistematicamente. L’impasse fu superato con dello zucchero mescolato
alle pillole bene sfarinate. Il tentativo riuscì con giubilo dei parenti,
senza poter pensare minimamente che tutto potesse diventare inutile il
giorno dopo a causa della mancata disponibilità per l’intera mattinata di
una barella necessaria al malato per recarsi giù in radiologia. Il signor
Spampinato sentì ribollirgli il sangue dentro e invano protestò con
infermieri, caposala, dottori, ottenendo da ognuno il solito gesto delle
braccia spalancate. Così si dovette procedere ad una nuova
somministrazione per poco meno sfortunata in quanto a distanza di
ventiquattro ore si erano riproposti gli stessi problemi del giorno
avanti, fugati solo in extremis. Tornato dall’esame e risistemato nel
letto, libero di sondino dall’ora in cui se l’era tolto e di flebo
staccatagli la mattina dell’impiastro per essersi fatto gonfiare il
braccio e non più reinserita per strafottenza, il nonnino aveva
abbandonato il piagnisteo come se la liberazione da quelle soggezioni lo
avesse trasformato. Sembrava addirittura rinvigorito dal discorrere
infervorato con la figlia e appena questa gli mostrò il limone che aveva
promesso di portargli i suoi occhi brillarono di bramosia. Ella ne tagliò
una fettina per lungo, la sbucciò sottilmente, gliela porse e ne promise
altre a patto che dopo succhiate fossero restituite. II vecchio fu
ubbidiente con le prime due, anzi sollecito a riconsegnarle bene
spremute e prendere in cambio la seguente succosa ed allettante. La
terza la trattenne a biascicarla in bocca con l’intenzione di mandarla giù
affiorante nello sguardo interrogativo, seguito dalla richiesta verbale,
dopo che s’era fatto sentire, colpa dell’interruzione dell’alimentazione
parenterale, lo stimolo della fame -Iu ma calassi
-Per l’amor di Dio, no- Intervenne la figlia, poggiandogli la
mano a paletta sotto il labbro inferiore aspettando che la sputasse
fuori.
-Megghiu ca ma calu- Insisteva il genitore supplicando.
-Non ti arrischiare- Replicava lei spaventata -Non vorrai farti aprire
per una stupidità- Concluse.
Dopo un tira e molla durato un bel pezzo, il ringalluzzito genitore si
convinse a desistere dal pericoloso inghiottimento, però volle rifarsi con
una serie di altrettanto assurde richieste presentate nella già troppo nota
intonazione -Mu mangiassi ‘mmuzzucuni ‘i pani, macari duru!
-La figlia ribatteva che di pane negli ultimi due anni non ne aveva
voluto sentire parlare. Ma lui s’impuntò ostinato e a tratti rivolto al signor
Spampinato modificava leggermente il ritornello -Amicu, mu dati
‘mpezzu i pani?
-All’invocato faceva tenerezza l’implorazione con la tremula mano
dalle scarne, lunghe dita, e malgrado una volta lanciata da
arteriosclerotico non la smettesse più, lui non gliene voleva affatto. Dal
primo letto protestò bestemmiando tra i denti il supino zafferanato con
l’aureola di cotone sul lucido cranio. In quel momento entrarono i
medici ed il nonnino si rivolse a loro ancora più incalzante -Dutturi,
facitimmillu dari ‘mpezzu ‘i pani
Il dottor Criomi mentre iniziava il controllo al suo operato che
gorgogliava come mosto in fermentazione -Un colpo di legno in testa
se non vi state zitto- Gli rispose. Poi volgendosi a guardarlo dietro le
repliche insistenti da disco incantato sbottò verso i colleghi indicando il
condotto penzolante della flebo -Deve campare d’aria quel poveretto?E di nuovo rivolto al nonnino che continuava a supplicarlo con
aumentata eccitazione –L’avete buttato via il pezzo di pane, quello è il
vostro pane- Gli ricordò severamente e non si diede più pensiero di lui
dedicandosi esclusivamente al controllo del primo. Lesse gli ultimi
dati appuntati sulla cartella, scostò leggermente la medicazione, fece
qualche domanda e concluse che le cose procedevano regolarmente. Da
dove si trovava chiese chi vi fosse al secondo letto. Gli fu risposto che si
trattava d’una appendicite operata d’urgenza a tarda sera dello stesso
giorno nel quale s’era reso libero il letto. Passò oltre con lo sguardo
mormorando -Quello non è nostro- Al signor Spampinato disse che
doveva aspettare ed al nonnino che doveva smettere di piagnucolare,
prima di fare dietrofront e lasciare i degenti con un saluto risonante.
In quei giorni gli episodi da barzelletta abbondavano.
Un giovane preparato per una appendicite, digiuno dalla sera, due
clisteri, lo tengono sulla corda sin oltre l’ora di pranzo prima che
qualcuno pensasse di informarlo che l’intervento era rimandato a data
da destinarsi.
Con il paziente condannato all’attesa il pasticcio si verificò per la
diretta epatica. Il sabato pomeriggio il dottor Arfrere l'aveva
informato che per il lunedì era stato prenotato l’esame, ed inoltre lo istruì
sui preparativi da compiere. Fu premura dell’interessato la domenica
sera sul tardi, all’ora usuale per i clisteri, presentarsi all’infermiere
anziché attendere di essere chiamato. La risposta fu che per lui non vi
fosse prescritto nulla. Allora pensò d’aver capito male. Pur nondimeno il
lunedì mattina appena montò il turno andò di nuovo ad informarsi se
avesse una prenotazione alla radiologia. Niente. Pregò l’infermiere a
guardar bene; niente. Anche se poco convinto a quel punto non gli
restava che andare a fare colazione. Diretto ai lavandini per
sciacquare la tazza annerita di orzo, si sente chiamare per ricevere il
foglio della prenotazione da consegnare al tecnico del laboratorio. Si
precipitò a scendere giù a chiedere se dovesse essere digiuno e con
l’intestino sgombro. Gli fu risposto di sì, e consigliato dal momento
ch’era presto, di farsi fare un clistere subito e ripresentarsi tra un paio
d’ore. Ovviamente era di servizio l’infermiere emiparetico. Quello fu
contento di rendergli il servizio. Uscì dalla ritirata violentato
dall’incerto entrare della cannula, e inzuppato d’acqua poiché l’invalido
mentre si arrabattava urtò l’asta di legno dov’era appeso il contenitore
colmo che dall’oscillazione perse due dita della soluzione precipitata
con l’echeggiare d’una pacca sul sedere del ricevente.
Al nonnino successe di peggio. Dopo circa diciotto giorni di
costipazione una sera dopo la partenza della nuora avvertì lo stimolo
ed il bisogno di evacuare. Il signor Spampinato con sollievo per
l’inusitato avvenimento andò a chiedere una pala all’infermiere. Questi
assicurò che andava a cercarla e l’avrebbe portata. Intanto il bisogno si
faceva impellente e l’attrezzo non arrivava. Il poveretto spasimando
ripeteva -Nun ci ‘a fazzu cchiù a tènila- Il signor Spampinato
s’interessò una seconda volta per il reperimento dell’utensile igienico,
senza esito. Appena tornò nella stanza e vide che il sofferente si
contorceva, lo persuase ad abbandonare la resistenza ed a sgombrare nel
letto. A fatto compiuto il vecchio voleva piangere di vergogna perché
per l’intera sua vita era quella la prima volta che gli succedesse una cosa
simile. Il disgraziato apparteneva alla fascia di umanità inerme,
abbandonata e disprezzata. I presenti erano troppo assorbiti dalle loro
situazioni personali. Quindi l’episodio del trascurato vecchio pur se
disgustoso diventava impertinente e fastidioso, un avvenimento in cui
all’oltraggiato protagonista non restava altro che vergognarsi e
piangere, ed era mortificante, per chi ancora nutrisse un poco di
dignità, assistere ad una manifestazione di indifferenza totale verso
qualsiasi sfregio fosse stato arrecato. Inoltre se l’umiliato degente
dall’incidente ne fosse uscito morto, medici, paramedici, e finalmente
liberatisi dalla pastoia pur se relativa e lieti in cuor loro di diventare
eredi, i parenti tutti ne avrebbero parlato, data l’età, come di un decesso
naturale. Altro che rimorso di negligenza, o dolore per la liberazione da
un’anticaglia umana! Il signor Spampinato pervaso da un moto di
solidarietà ed amicizia, lo rassicurò di non avere colpa e di avvertire
telefonicamente la figlia perché venisse a cambiarlo. L’arrivo della
congiunta precedette quello della pala. Lo zelante compagno di stanza
andò su tutte le furie prendendosela col filosofo barbetta.
-Ma cosa vuole?- Rispondeva quello alle sue legittime rimostranze Qui manca la qualsiasi, dalle siringhe al cerotto, dal cotone al laccio
emostatico, non di rado gli stessi medicinali, di cosa ci vuole
incolpare a noi?
-E non provvede nessuno? Il consiglio di amministrazione, il
direttore, gli stessi medici non protestano?
-Il consiglio di amministrazione, ovverossia i politici! Il direttore o
il primario con università, clinica e studio privato, convegni,
pubblicazioni e chissà quante altre incombenze, lei lo vede appresso a
simili inezie? I medici, poi- Continuò sogghignante -A quelli interessa
solo ed esclusivamente poter disporre dei letti; tra loro sono stati ai ferri
corti per difendere le personali proprietà, proprietà sì, perché ogni
capoccia i letti li ha in proprietà.
-Lo avevo capito- Confessò il protestatario.
-E allora- Proseguì con decisione l’altro -Continuiamo a tirare
avanti così, finché dura. Mi ascolti, qui vige la regola del si salvi chi
può. A parte che molte cose mancano perché gli stessi pazienti se le
portano appresso una volta dimessi
Cosa doveva replicare l’illuso contestatore di fronte a tanta
incivile desolazione? E mentre muto aspettava di sprofondare per la
vergogna, un infermiere uscì da una stanza con una pala in mano e
canticchiando ripetutamente -U picu, 'a pala-Trovava il coraggio di
scherzare sopra un così barbaro trattamento, mentre si dirigeva a
svolgere l’opera di salvataggio, ormai fuori tempo massimo.
Intanto il signor Spampinato aveva fatto la gastroscopia
confermante il risultato della prima, e invece attendeva ancora di poter
sottoporsi all’esame più specifico ed importante, il contadino era stato
liberato dal gozzo, per il nonnino avevano deciso di intervenire, il
giovane militare del secondo letto era pronto ad essere dimesso.
Si cominciava a parlare del rientro del primario e il ricoverato in lista
d’attesa per la colangiografia stava in agguato col risoluto proposito d’una
sfuriata per così assurde lungaggini, enormemente costose considerato
l’ammontare dell’importo giornaliero di degenza, e ingiuste verso i
tanti bisognosi di ricovero costretti ad estenuanti e a volte rischiose
attese.
Al ritorno dalla sala operatoria il nonnino fu collocato in un’altra
stanza. Il viso portava l’impronta della morte. Per operarlo il chirurgo
aveva voluto il consenso dei parenti dopo averli avvisati del pericolo
che correva a causa dell’età e delle condizioni in cui versava. Ad
operazione compiuta prese tre giorni di prognosi riservata, ma già
l’indomani al convalescente gli si affacciò l’abituale colorito. Al suo
letto la manovella per alzare lo schienale non funzionava, e benché la
prima raccomandazione fosse stata quella di farlo stare seduto e
muovere le gambe, per due giorni consecutivi non potendosi trovare un
poggia spalle, se ne restò supino ed immobile. Inoltre il sondino era
stato applicato male e non aspirò più sino ad asciugare. Il viso riprese il
pallore allarmante e se aspettavano ancora a non rimediare, la vita lo
avrebbe abbandonato costretta a doversene fuggire da perseguitata. Il
terzo giorno il signor Spampinato lo trovò sereno, riposato e di buon
umore. Anche a seguito dell’ultimo attentato fisico s’era ribellato
gagliardamente alla prospettiva d’una fine anticipata che per pura
trascurataggine gli si stava assegnando. Al visitatore volle raccontare gli
episodi più significativi della sua esistenza. Lucido e piacevole, con
voce esile ed esitante, la semplicità della saggezza, conduceva la
narrazione in modo avvincente. Per l’aggraziata esposizione della sua
personalità indipendente, laboriosa, integerrima e ricca di generosa
umanità, l’amico d’avventura lo ripagava con una attenzione piena di
commozione, procurandogli grande felicità. Se non fosse stato per il
rumore in testa, così chiamava i disturbi dell’arteriosclerosi, non
avrebbe abbandonato la campagna, la bicicletta, la casa, il cane, poiché
la forte fibra gli consentiva di soddisfare una inveterata abitudine e
genuina passione. II cruccio degli ultimi tempi era quello di sentirsi come
un cavallo brado a cui abbiano imposto il morso. Con le espressioni
semplici, guarnite da gesti delicati, carezzevoli sguardi e amabili sorrisi
le vicende acquisivano l’innocente trasparenza di limpide acque e
somigliavano a tanti laghetti montani, preservati da qualsiasi
inquinamento. La conversazione dovette interrompersi per
l’annunciata visita del primario.
Gli infermieri si accertarono più volte che per le stanze non vi
fossero, oltre il caso eccezionale, parenti, e riprendevano chi si
attardava ad allontanarsi invitandolo sbrigativamente a raggiungere gli
altri al di là della bussola. Vi fu un supplemento di pulizia, diretta a
raccogliere con scopa e paletta le cicche giacenti lungo i margini del
corridoio. Nel controllo di un certo ordine, sistemarono i copri letti più
indisciplinati, gli sgabelli o le sedie ai loro posti; insomma si diedero da
fare perché la facciata reggesse all’ispezione del generale. Questi, un
ometto di mezza età, brizzolato, due baffetti civettuoli, lenti
leggermente colorate sorrette da una montatura dorata, entrò
portandosi dietro uno sciame di camici bianchi compenetrati della
ragguardevole fortuna.
Cominciò col chiedere sul decorso post-operatorio dell’ammalato di
tumore. Il dottor Criomi esponeva particolareggiatamente la condotta
perseguita ed i risultati ottenuti ricevendo un riconoscimento di buon
lavoro nel trovarlo d’accordo punto per punto. Quando s’informò
compiutamente si rivolse al paziente ed alla moglie solo tronfia
dell’accordato privilegio a poter assistere e niente preoccupata del
significato della concessione -Quel che occorreva è stato fatto. Adesso
bisogna star tranquilli ed aver fiducia. E lei…- Concluse rivolto al
malato -…non trascuri di muover le gambe di frequente- Poi si spostò
ai successivi letti e sentito che tanto il militare quanto il contadino erano
vicini ad esser dimessi, avanzò verso il letto 4 tirandosi dietro il
codazzo come se i componenti fossero legati invisibilmente l’un l’altro e
l’assieme portasse incollato alle spalle.
Al signor Spampinato arrivò alle narici un leggero aroma di colonia.
Appena il congressista domandò di lui, lo spazientito degente era partito
sparato a rapportare, subito zittito però dall’indice della mano destra
del professore portato alle labbra in segno di ordinarne lo sbarramento. II
capo ascoltò i collaboratori, lesse i referti degli esami, poi aprì il dialogo
con nella voce la tipica inflessione d’un paesino della provincia -Cosa si
sente?
-Da quando sono ricoverato nessun disturbo
-Lei ha un’ulcera: bisogna toglierla
-Non è un’ulcera cicatrizzata?
-Bisogna toglierla lo stesso
-E’ un’ulcera cicatrizzata- Ripeté l’ammalato, sottolineando ed
opponendo un netto rifiuto al consiglio, e forse al desiderio del
luminare di poter offrire ai numerosi tirocinanti uno spettacolare pezzo
di bravura di simultaneo, doppio intervento.
II chirurgo dissimulò bene la botta incassata e riprese conciliante,
quasi paterno atteggiando un fastidiosissimo sorrisetto accattivante –C’è
anche una colecisti esclusa, dovrà fare una colangio
-Era di questo che volevo parlarle. Vede, professore, me lo sento
dire dai primi giorni di ricovero, e a due settimane quasi compiute non
s’e arrivati ancora a nulla. Questo esame mi sembra sia un’utopia:
tutti ne parlano senza che arrivi. E sta finendo che invece di curarmi, i
qui presenti dottori vogliano farmi ammalare di nervi- Spiattellò tutto d’un
fiato il parcheggiato ammalato di colecisti.
-La colangiografia è un esame fattibilissimo, per il quale purtroppo
vi sono molte richieste e quindi bisogna avere la pazienza di attendereConcluse il cattedratico indugiando sull’ultima parola con la precisa
intenzione di darle il massimo risalto.
-Allora debbo dedurre che tredici giorni non bastino perché
giunga il proprio turno. Nel frattempo lo Stato paga, chi ha bisogno di
ricovero urgente aspetta, e l’interessato all’esame scoppia. Perché non
si rimedia con il regime del day hospital?- Lo interrogò stupidamente il
ribelle, capendo subito il passo falso compiuto dallo sguardo ambiguo,
sbiadito da un viscido sorriso falsamente comprensivo, che il barone
della medicina gli lanciò con l’infingimento di venirgli in aiuto -Lei
vorrebbe farlo da esterno questo esame? Sempre a carico della cassa
mutua?
-E me lo chiede?- Lo interruppe con gioia il signor
Spampinato
-Bene- Prosegui il maestro rivolgendosi al dott. Vanilte
-Allora pensate a dimetterlo. Le appronti la necessaria relazione dei
dati occorrenti al dottor... per la colangio, così che eviti altra perdita di
tempo- Poi di nuovo al ricoverato -E’ sistemato- Concluse con una
smorfia significante l’avvenuta risoluzione d’uno stallo mercé l’autorità
del suo buon ufficio, e senza aspettare d’esser ringraziato, si volse
all’ultimo arrivato, un angiolitico divorato dal prurito.
Il folto gruppo visto anche di spalle mentre usciva, non mostrava
alcun artificio, sicché il procedere strettamente compatto dipendeva
dalla diligenza degli allievi a non permettere che dell’eminente docente
andasse dispersa parola.
Il giorno dopo il dimissionato ripose le cose nella valigia con
meticolosa cura tanto per ingannare il tempo mai cosi pigro ad avanzare
come per l’occasione. Quando il dottor Vanilte andò a portargli un
foglietto compilato e l’indirizzo dello studio privato fremette di
contentezza. Si accordarono che a cose fatte sarebbe tornato a
comunicare il risultato e a concordare sulla base di esso la via da
seguire. L’uomo finalmente libero ringraziò e tornò di corsa nella
stanza a prendere la valigia, salutando calorosamente i rimanenti ed
augurando tanta fortuna. Passò dal nonnino che in quel momento in
balia delle turbe alla testa forse rivivendo gli spaventi delle ultime
settimane si aggrappava all’arcinoto -Staiu murennu- trovandovi
conforto. La vista dell’amico non lo distolse affatto dall’accorato
appello. Il signor Spampinato ricordò che in quelle circostanze non
era l’amabile vecchietto in normali condizioni, e lasciò alla nuora
l’incarico di salutarglielo.
Nella stanza di fronte invece l’uomo operato dalla dottoressa per la
quale stravedeva era in ottima forma e già pensava al giorno delle
dimissioni. Si lasciarono con grande senso di solidarietà ed amicizia.
L’entusiasmo teneva sollevata la valigia del fuggiasco,
alleggerendola di peso. Scese le scale, fece l’interno, salì ancora scale,
senza sentirla gravare. Ma per strada cominciò a tirare il braccio con forza
crescente sino a farsi caricare in spalla. Per l’intera galoppata verso la
fermata dell’autobus il signor Spampinato non fece che attirare,
bagnato di sudore com’era a causa d’un sole pungente, commiserevoli
sguardi della gente a disapprovazione della stolidità mostrata nel
continuare ad indossare capi invernali, specie impegnato nella dura
fatica di facchino e con un simile caldo. Non bastava la sofferenza
provata, passava anche per balordo, senza considerazione alcuna, ma
forse meritatamente dal momento che dal ricovero non era riuscito ad
ottenere altro che un impreparato svernamento!
A casa, dal colloquio con la madre, il paladino della sanità pubblica
si rese conto dell’inutile gran perdita di tempo e un moto di stizza lo
attraversò come spiedo rovente. Era al punto di partenza, con la
complicità del medico della mutua che non gli aveva saputo indicare
il giusto esame per giunta mutuabile al quale sicuramente si sarebbe
sottoposto prima di optare per il ricovero, evitando la squallida
disavventura. Però questo non giustificava l’esasperata lentezza di
procedere degli ospedali. Bah, ormai era meglio guardare avanti e
seppellire lo sgradevole ricordo! Ma ad un tratto gli si ripresentò
davanti l’espressione beffarda del primario congressista americano,
specie nel momento in cui dichiarò d’averlo sistemato, e presentì
d’essere stato gabbato in qualche modo. Era in tempo a telefonare al suo
medico, a quell’ora lo avrebbe trovato ancora in ambulatorio. Infatti
così fu. Gli espose il nuovo programma ed il sospetto d’essere stato
preso in giro fu sciolto positivamente -Ma quando mai, la
colangiografia non è esame che la cassa mutua autorizzi. Ci può
dormire sonni tranquilli!- Gli assicurò il suo medico. Il gabbato
disilluso per maggior sicurezza il giorno seguente si recò alla sede
dell’U.S.L. locale, parlò con il sanitario addetto alle autorizzazioni e gli fu
riconfermata, sull’intero territorio nazionale, l’inesistente convenzione
dell’ente pubblico con i privati riguardo alla colangiografia. Non c’era
dubbio, l’insigne maestro aveva dato agli allievi anche una lezione di
come liberarsi di un rompiscatole. Fu tentato di andare a dar a quel
minuto vigliacco di fronte agli stessi allievi una lezione sui rischi che si
corrono ad essere mascalzoni. Ma più proficuo per lui era l’impegnarsi a
rattoppare la salute, prima che ricomparissero i tremendi disturbi -A
certi volgari padr’eterni qualche carezzina non avrebbe fatto male- Si
ripeté tra sé, mandando giù il rospo con notevole sforzo di volontà e
mettendosi subito alla ricerca d’uno studio locale attrezzato all’uopo.
II tentativo non diede frutti per cui ripiegò su quello consigliatogli
alle dimissioni dall’ospedale.
C’era tutta un’organizzazione massonica da rispettare. Consegnò al
radiologo il foglietto rilasciatogli dal dott. Vanilte. Quello lo scorse
cogitabondo, dunque gli chiese perplesso -Lei è diventato giallo qualche
volta?-No- Rispose un po’ frastornato il signor Spampinato per il pericolo
che avrebbe potuto correre e rivedendo il compagno di stanza supino sul
letto.
-Allora non capisco perché non partire con l’ecografia. Lei è mandato
dalla clinica... Bene, io quasi ogni sera mi sento con il professore.
Chiederò a lui. Anzi facciamo una cosa, proviamo a rintracciare il dottor
Vanilte. Vediamo se lo troviamo al reparto- Mentre attendeva risposta
alla cornetta spiegò al cliente le ragioni per cui al caso suo s’adattasse
meglio l’altro esame.
-Ma allora…- Intervenne questi -…come mai da ricoverato
nessuno ne ha parlato?
-Perché l’apparecchio dell’ecografia in clinica non ce l’hannoRispose asciutto il radiologo.
-E perché in questo gioco di supporto alle carenze delle attrezzature
pubbliche, ai privati potesse piovere oro- Pensò subito il povero
bisognoso di accertamenti. Nel frattempo il radiologo cominciò a
parlare con il dottor Vanilte. Ebbero un breve scambio di vedute e
tante, tante affettuosità. Orbene con l’interessato d’accordo si poteva
fare l’ecografia. Dipendeva dalla sua scelta come se si fosse trovato in
un negozio e avesse da accordare la preferenza ad un articolo piuttosto
che ad un altro.
-Dottore- Riprese sarcastico il signor Spampinato -Cosa vuole che
ne sappia; io ero andato lì per prendere istruzioni e non certamente per
dare pareri.
-Ascolti me, lei ha bisogno dell’ecografia- Tagliò corto l’altro.
Dopo pochi giorni l’ammalato poté sapere che la cistifellea, silente,
aveva cominciato a produrre da lungo tempo un’apprezzabile calcolosi,
per la quale l’unico rimedio restava l’asportazione.
Il signor Spampinato non pose tempo in mezzo, questa volta
rispettando l’ortodossia vigente per il buon fine dell’assistenza
sanitaria, a sottoporsi a visita presso lo studio privato del primario
chirurgo dell’ospedale della sua città, uscendone infatti premiato con il
ricovero assegnato per l’indomani.
Già al terzo giorno di degenza con prassi ordinaria effettuò la
colangiografia; al quinto fu liberato dall’incubo in agguato. Aveva
dello straordinario come tutto si presentasse facile, semplice, possibile.
Stavolta aveva imboccata la strada giusta, o meglio quella obbligata, di
rivolgersi in questi casi alla persona risolutiva con la benedizione di
qualche banconota di grosso taglio.
Di tanto in tanto ricordava l’esperienza precedente, si rabbuiava in
viso e si sentiva ribollire di sdegno pensando all’impossibilità per un
pubblico ospedale a non diventare un baraccone da circo, nelle mani
di certi istrioni. Per fortuna l’orrendo ricordo era legato ad un altro
gradito, anche se i contorni portassero a rievocare scenette crudeli, ma
nello stesso tempo e per altro verso, pur nel rispetto del protagonista,
troppo comiche per poter evitare i moti del riso, malgrado nocivi ai
punti di sutura della fresca ferita. Sentiva pure il lugubre ritornello e
si chiedeva se quel paventato presentimento ossessivamente
partecipato non avesse finito per compiersi. Continuò a pensare al
nonnino con tanta benevolenza e per molto tempo ancora.
Agli ultimi di agosto il signor Spampinato fu invitato dal fratello a
tenergli compagnia in un giro di visite a grossi clienti -Non hai deciso
ancora di ricominciare a guadagnarti la vita? So che c’e un gran caldo e
che forse preferisci andare al mare. Noi dovremmo spingerci sino alla
periferia alta del capoluogo, nella zona di... E’ un magazzino di
abbigliamento all’ingrosso e se ti va di fare acquisti ci puoi trovare la tua
convenienza.
L’invitato a sentire sia la località, sia il magazzino di
abbigliamento non ebbe esitazioni ad accondiscendere a patto che il
commercialista, se le circostanze l’avessero richiesto, e un po’ di
fortuna l’avesse accompagnato, non si rifiutasse a sacrificargli meno
di mezz’ora, che però non occorse poiché dopo posteggiata la macchina
e mentre i due si dirigevano al negozio, un certo avvenimento ne
vanificò l’importanza.
Sulla stessa strada in lontananza risuonarono delle urla. Le lanciava
una barcollante figura smilza impegnata con le braccia levate a fuggire
da una donna che l’inseguiva. Per capirne di più i fratelli aspettavano che
la scenetta si avvicinasse. Ma la donna raggiunse il vecchietto quando
cominciavano a delinearsi le loro fisionomie, cinse con un braccio la vita
sottile dell’indocile forsennato e sempre sbraitante lo costrinse a seguirla.
II signor Spampinato non ebbe dubbi, e guardò il fratello con
espressione allusiva non raccolta. Aveva le lacrime agli occhi per la
gioia di saperlo scampato alle recenti insidie. II commercialista lo
osservava interdetto in attesa di ricevere una spiegazione. Allora il
signor Spampinato declamò -Nonnino, vecchio leone, l’hai fatta in
barba ai circensi! Staiu murennu, staiu murennu, non è altro che una
garanzia scaramantica! E’ poco, se ti dico d’essere felice all’averti
ritrovato, e al sentire quel mantra di ancora fresca memoria anche il
congiunto ricordò sbigottito, ma dubitava a credere, dichiarando -No,
ti sbagli, a quell’età superare un intervento agli intestini e riprendersi
a quel modo, mi pare troppo
-Vedi- Argomentò l’altro -II nonnino scampando agli attentati pre e
post-operatori ha dimostrato di possedere una fibra per arrivare ai
cent’anni e forse più. Inoltre la sua di sicuro collaudata cantilena gli porta
fortuna. Chissà che non ne porti anche a noi- E in sintonia i due, sotto
lo sguardo perplesso di qualche passante, ridestarono la commovente
lamentazione del vecchio -Staiu murennu, staiu murennu!
ZIA TECLA
- Eh, sulu 'a vicchiania mi potti futtiri!- Zia Tecla se lo ripeteva a
mezza voce mentre con le gambe legnose stentava sull' acclive basolato
collegante al centro della città, la fossa dentro la quale sonnecchiava il
suo quartiere. Se lo dichiarava con l'orgoglio della nubile illibata,
alludendo, senza imbarazzo alcuno e a riprova dell'autenticità di
carattere, al significato letterale del motto di per sé scherzoso, e lo
partecipava a quanti, uomini e donne, le si rivolgevano per esprimerle
solidarietà sulla fatica che andava compiendo. Adesso alla spossata
vecchia sarebbe piaciuto, piuttosto delle due stanzette linde e
profumate come una bomboniera site proprio all'inizio da dove si
partiva l'erta, disporre di più modesta dimora, un pochino più in su,
all'incirca a metà salita. Si rimproverava la sventatezza di aver
gradito fino a non molto tempo addietro lo statu quo, grazie alla
capacità di assorbire meglio, congratulandosi con se stessa
dell'impresa, non appena arrivata sulla sommità, e gioiendo al pensare
che al rientro lo stesso tratto di strada rovesciato avrebbe ripagato la
sopportabile stanchezza del mattutino scollinare con la contentezza
della discesa. Infatti nel rincasare era particolarmente allegra sia per
l'agevole andatura, e sia anche a ricompensa dell'operato della giornata.
Tutto vedeva sorriderle persino il duro e scheggiato selciato e se avesse
incontrato solo un'unica persona con la quale s'era potuta compiacere di
reciproca benevolenza, l'euforia la conquistava come se si fosse
abbracciata con l'intero vicinato. La mattina partiva presto per
l'abitazione del dottor Grisallo, un funzionario dello Stato, e rientrava
all'imbrunire quando la casa gli aveva rassettato di tutto punto. La
dipendenza dai Grisallo datava dalla sua fanciullezza.
Il Grisallo nonno era un ricco agricoltore. Aveva un figlio
solo,ingegnere. Il giovane professionista, colpa degli impegni
sentimentali, con l'arrivo del fidanzamento aveva ridotto di molto la
sua presenza tra le pareti domestiche. La nuova situazione aveva
creato i soliti problemi del figlio unico. Inoltre la madre era sofferente di
cuore e il padre, avendo sposato grande, già vecchio. Tenevano una
domestica a mezzo servizio e dovevano accontentarsi in quanto non erano
riusciti a trovare un'inserviente a tempo pieno o meglio ancora ido nea
alle aspettative e disposta a stabilirsi da loro. Era una questione di
compagnia e di utilità per eventuali, improvvise emergenze. L'esigenza
venne soddisfatta dall'ingegnere a seguito d'una visita in una delle tante
campagne di famiglia.
Tecla, la più piccola dei cinque figli dei coloni, era ancora una
ragazzina, ma già si vedeva l'indole docile e servizievole d'una valente
collaboratrice domestica, inoltre la naturalezza dell'uso del vossia
garantiva amorevolezza e senso di attaccamento in virtù dei quali
sarebbe diventata senza dubbio una persona fidata. Guardava il
padroncino con ammirazione e simpatia. E l'ammirazione travalicava
l'ascendente personale essendo alimentata in buona dose da una
motivazione più generale fondata sugli abitanti della città, visti come
esseri superiori. Per una della sua condizione occorreva molta fortuna
per conquistarsi la città, un mondo affascinante di gente benestante,
elegante e che parlava in lingua, di bei negozi dalle magiche vetrine,
di vetture d'ogni tipo e soprattutto dotato di strade asfaltate sulle
quali si poteva gironzolare un giorno intero senza doversi ritrovare
immancabilmente impolverati da capo a piedi. Cosa non avrebbe dato per
vivere in una confortevole stanzetta, magari sospesa in alto entro uno
di quegli austeri palazzi, dai balconi dei quali sarebbe stato così facile
dominare anche per una come lei? E chissà quanti ne avesse di già
costruiti l'affascinante signore che aveva davanti, così al cospetto di
quel nume civico, la sua testolina macinava sensazioni inebrianti, per
certi versi intelligibili dall'animazione mal dissimulata dei suoi sguardi
timidi e sottomessi. Inoltre, rispetto ai fratelli, la maggior cura a tenersi
in ordine, da sola rappresentava un buon indizio delle aspirazioni
covate. E fu per lei una folgorazione di felicità apprendere il
trasferimento in casa Grisallo, dopo che i genitori s'erano fatti
convincere dall'ingegnere.
L'entusiasta ragazzina ci mise poco ad entrare nelle grazie della
piccola famiglia, nonché della domestica. Nella grande casa aveva avuto
assegnato un comodo vano tutto per lei, collegato da un campanello
elettrico con il soggiorno e la stanza da letto della padrona. Ma
l'accessorio risultò inutile in quanto la semplice forosetta per via
dell'esercizio del naturale senso servizievole ne precorreva l'uso.
La piena soddisfazione della signora rendeva felice Tecla che
reputava un grande onore pendere letteralmente dalle labbra della
benefattrice, una donna, al contrario del taciturno ed ombroso
marito, colta ed espansiva che non disdegnava la conversazione e la
burla.
L'ingegnere nel notare il piacere della madre a trovarsela d'attorno,
fu contento dell'affidamento dell'ancella, alla quale non smetteva di
raccomandare la reperibilità alla bisogna ed il rifiuto alla tentazione
d'imboscarsi. Il giovane professionista, con la dolcezza di carattere
ereditata dalla madre, era riuscito ad affinare la fisionomia
trasmessagli dal padre, facendole perdere quella patina severa e
scostante, dissoltasi nelle fattezze dell'amabilità. Era sempre carino
con Tecla e non mancava di portarle di tanto in tanto qualche
regalino per disobbligarsi dell'impegno che la nuova ospite profondeva
a servizio della madre e della casa.
I pensierini gentili riempivano di gioia e di commozione insieme
l'umile cuore della ragazzina che ogni giorno di più sentiva di appartenere
a quella famiglia forse più che alla propria di origine, e a parte
l'inclinazione a sapersi ben disciplinare alle attese dei signori, nel
servizio cercava l'ineccepibilità al fine di cementare meglio la
relazione in corso ed esser sicura di poter continuare a camminare sui
soffici tappeti della casa, a suo dire, meravigliosa. E slanci di generosa
abnegazione dedicava anche alla domestica, aiutandola e a volte
risparmiandola ai lavori più improbi, esorbitando dalle incombenze del
suo ufficio che proprio in quella direzione, per la tenera età,
prevedevano espressi divieti. Colta sul fatto e rimproverata si scusava
con la signora adducendo ch'era denàmeca, cadendo nella rete della
mite oppositrice pronta a dar sfogo alla lepidezza col ricamare un giorno
intero sulla parola comicamente pronunciata. Erano ricorrenti le
occasioni del genere tanto che Tecla, resasi conto delle difficoltà ad
apprenderlo, aveva deciso di smettere a servirsi ancora dell'italiano,
ovviamente, data la sua refrattarietà all'orgoglio, incappandoci con
immutata frequenza. Con la fidanzata
dell'ingegnere era
particolarmente sollecita, sia per rispetto al suo mecenate, sia in
omaggio alla bellezza della giovane donna che non di rado la inchiodava
ad ammirarla imbambolata per qualche minuto e non finiva mai di
elogiare.
Intanto Tecla cresceva in mezzo agli avvenimenti lieti e funesti di
casa Grisallo: i fidanzati si erano sposati, era nato già il maschietto e
stava per avere festeggiato il primo genetliaco, quando i lineamenti
burberi sulla faccia dell'agricoltore si distesero definitivamente. La
signora sempre più provata resisteva aiutata dalle gioie procuratele dal
nipotino. Con l'avvento della guerra la famiglia si era trasferita nella
campagna da dove, ormai signorina da marito, la sognatrice della città
s'era allontanata giovanissima. Con l'occasione Tecla aveva modo di
frequentare giornalmente i vecchi genitori, la sorella che con il
marito erano rimasti gli attivi coloni del fondo, i nipotini. Inoltre a
seguito del ritiro della domestica imposto dai disagi dell'emergenza tutto il
peso della conduzione delle faccende di casa era caduto sulle sue spalle e
lei felice di reggere il timone bruciava denamecità a profusione, spesso
corroborando con le note di qualche canzonetta infiorata dalle
caratteristiche inflessioni vernacolari che tanto divertivano la signora
attenta ad apprenderle per poi esibirle in presenza della foggiatrice, e
ricavarne un supplemento di svago.
L'infaticabile sgobbatrice colmata dal benvolere dei padroni aveva
raggiunto una perfetta serenità di vita che la faceva sentire
sommamente appagata e priva di aspirazioni femminili. Non che trascurasse la
persona, anzi s'impegnava a difenderla, ma attraverso la genuinità e la
semplicità a lei congeniali. Sul tema dell'amore era agnostica, non
sapendo cosa potesse ricevere in più rispetto a ciò che aveva, forte
della considerazione filiale nutrita sia verso i nipoti, sia verso il piccolo
Grisallo, e della simpatia particolare verso l'ingegnere donata e goduta
su un talamo spirituale. Non era una bella ragazza:
prosperosa e un po'
atticciata aveva la carnagione bruna, un viso comune e una lunga treccia
nera penzolante sulla schiena. Però i frequenti sorrisi carezzati dalla
luce della bellezza dell'animo ne magnetizzavano i contatti con il
prossimo. E durante una perlustrazione d'una pattuglia di tedeschi
inquieti, accolta in casa con timorosa cortesia, un ben pasciuto
sergente di pelo rosso e colorito latte le aveva ap puntato addosso
uno sguardo insistente e non si era risparmiato a complimentarla.
Appena il drappello si congedò, non mancarono i commenti
faceti della signora alla quale lei rispondeva che il flaulain riferito
al sergente così da loro etichettato, sembrava più una mozzarella
vestita da soldato che un soldato rassomigliante ad una
mozzarella, e iniziava a canterellare «A ccui cci abbamba...» mentre
l'altra si abbandonava a ridere di cuore.
Malgrado la preoccupazione costante della guerra e le ristrettezze
conseguenti pareva che nella campagna la padrona avesse trovato il
rimedio alla malattia, tanto da apparire rifiorita e sentirsi me glio in
forze. S'era abituata alle sporadiche incursioni aeree, ai bombardamenti
dal mare ed alle notizie luttuose e tranne un paio d'ore di riposo
pomeridiano, il resto della giornata lo passava appresso al nipote che in
casa o sull'aia, al pari d'un caprettino giocherellone ed impetuoso, sfuggiva
a qualsiasi tentativo d'esser fermato nella corsa. S'intratteneva in dolci
conversazioni con il figlio e la nuora, e non meno piacevolmente a
mettere in celia Tecla onorata e contenta di prestarsi, e tenuta in conto
di una seconda figlia dall'anziana, amabile donna. Tuttavia al ritorno
nella casa di città, a guerra finita, lei non era più, stroncata da poco da
un'improvvisa e inesorabile crisi cardiaca.
La famiglia Grisallo cadde nello sconforto più cupo. Tecla indossò
e portò le gramaglie oltre ogni dovere e consuetudine. Più volte durante
la giornata la tristezza d'animo condensando, le si scioglieva in caldi
lucciconi di rimpianto per l'amica perduta. A mitigare la costernazione
contribuì l'avvento del secondogenito che trovò in Tecla una governante
d'eccezione apprensiva e premurosa come sarebbe stata, se ancora in
vita, l'impagabile defunta.
Ormai il solco della vita della scampata contadina era stato inciso
profondamente e lei lo riempiva dell'alacre e gratificante applicazione
quotidiana pregna di devozione verso il diletto benefattore e i suoi
familiari. Era diventata la colonna della famiglia: si alzava di buon
mattino, preparava la colazione, usciva per la spesa, al ritorno attendeva al
bucato ed alla casa fino a mezzogiorno, ora in cui passava in cucina a
preparare, quindi apparecchiava, serviva, pigliava i bocconi tra un vai e
vieni, sparecchiava, rigovernava e riprendeva le pulizie della casa da
dove aveva lasciato, a volte stirava e immancabilmente prima che si
arrivasse a cena trovava il tempo di giocare con i signorini,
coinvolgendoli in un buffonesco divertimento. La signora a tratti
aiutava: le era consentito per le faccende più leggere, invece che per le
restanti a seguito delle proteste di Tecla si trovava esonerata d'autorità.
Quando qualcuno della famiglia cadeva in malattia, l'infaticabile,
serena lavoratora, diventava ansiosa, la notte dormiva a sobbalzi poiché
il pensiero di andare a controllare rifiutava di assopirsi. Una così totale,
quasi disumana dedizione verso dei non consanguinei impedì all'esemplare
serva la percezione dell'invecchiamento. Senza accorgersene ingrinzì ed
imbigì: la treccia ormai stanca di ciondolare se ne stava acchiocciolata
in crocchia sulla sommità del capo come un rudere sommerso da
ragnatele. I padroni diventarono vecchi. II grande dei figli era già
sposato ed aveva la moglie incinta.
Un giorno l'ingegnere chiamò Tecla nello studio. La docile donna
per l'emozione della convocazione che riteneva un ambito onore ebbe
il cuore in agitazione fin dopo varcata la sacra soglia ed essersi
accomodata con inusitato ruolo di importanza al di qua della
scrivania, quasi di fronte al padrone. II generoso signore la informò che
aveva in mano l'occasione di regalarle una casetta da lui progettata e
sorta dalle macerie dell'ultimo conflitto in una zona che sapeva a lei
gradita. Gliela donava a titolo di riconoscenza per l'attaccamento alla
sua famiglia.
Tecla colta alla sprovvista e in preda ancora al turbamento di
prima, all'atto di rispondere si confuse e sbuffò, infine riuscendo ad
organizzarsi si oppose fermamente -Vossia non nni farà nenti, picchì iu
n'ha fattu autru ca 'u mo' duviri
-E’ una cosa da niente, non mi costerà poi tanto
-U sacciu quantu cci costa, chiddu ca perdi di uscarici..
-Se una volta sono io ad aver lavorato per te, tanto di piacere. Tu
meriti più di questo
-E iu 'nsistu a riurdarici ca 'zzoccu vossia ha fattu ppi mia, va oltri
’i mo meriti
-Allora l'accetterai a titolo di liquidazione
-Mi sta dicennu ca mi n'agghiri?
-Ma no, sciocca, qui sei a casa tua. Però è chiaro che con
l'invecchiare diminuisce la fiducia nella vita, ed io ci voglio pensare a
tempo a lasciarti sistemata
-Vossia mi voli cummòviri ppi forza; pari ca a mia cu sapi cchi mi
manca, eppoi vossia sti discursi srèusi da saluti non mi la fari- Le si erano
arrossati gli occhi di pianto.
-E va bene, ho sbagliato a porre la questione. Però tu sei testona.
Per gratitudine, no. Dovere nemmeno. Allora sarà per imposizione. Io
sono il padrone...
-Ma vossia è 'mpatruneddu bonu...
-Soverchieria o no, andrai a vedere la casa e poi, presto, molto
presto, mi riferirai se ti piace
-Ma cchi sta scappannu 'u sceccu?
-Questo è tutto, non ti debbo dire altro, ti puoi allontanare-Concluse
seccato l'ingegnere.
Tecla si alzò stupita di vedere per la prima volta e per colpa sua sul
bel volto del padrone i segni duri dell'ostilità. Mogia, mogia si avviò
verso la porta, ma in un momento di rivolta si girò quasi a gridare
all'ingegnere che se n'era rimasto pensieroso -Iu non ci vaiu
E invece ci andò e l'affare si concluse sebbene in quel periodo la
sensibile donna sprofondasse nello sgomento. Era la prima volta che le
era stata posta davanti agli occhi l'eventualità di potere essere
sganciata. Lei non era mai stata sfiorata dall'assurda fantasia di
un'esistenza separata dai Grisallo e quindi di fronte ad un simile
pericolo, dall'abituale senso di tranquillità si levarono dense le nebbie
dell'angoscia. Si arrovellava come potesse esser vero, e pur trattan dosi
d'un teorema assolutamente elementare, non vi riusciva a cau sa che la
ragione non era in grado di prevalere sul sentimento.
Presto le preoccupazioni del padrone mostrarono le scaturigini: una
malattia incurabile lo stava divorando e lui con eccezionale forza
d'animo ne custodiva il segreto fingendo ad arte. I1 calvario dello
sfortunato uomo durò pochi mesi nei quali la casa fu attanagliata da un
lugubre silenzio indisturbato grazie all'incrollabile volontà del martoriato
di restare muto al supplizio al fine di lenire il dispiacere ai suoi cari.
Come inebetita Tecla girava per la casa, versando lacrime. Dal
compimento della tragedia non passò molto che venne a mancare
anche la signora.
L'infelice domestica cominciò a sentire le parole dello scomparso
ronzare nelle orecchie e ad accorgersi dell'efficacia della ragione. Inoltre,
andando ad abitare la sua proprietà costruita sotto le direttive del
donatore che da inguaribile romantica aveva tenuta sfitta per timore di
profanare la sacralità del dono, capì quanto senso di sicurezza
procurasse ad una donna sola 'u rizzettu, a parte il fatto che alla
moglie del nuovo datore di lavoro, il primogenito dell'ingegnere per lei
più prezioso di un figlio, le andavano a genio una presenza ed una
collaborazione meno impegnative, sebbene già un marmocchio ruzzasse
in casa e conosceva quali contributi Tecla fosse in grado d'apportare in
simili congiunture. I primi tempi della nuova organizzazione di vita la
buona donna patì le antiche nostalgie, soprattutto l'ingegnere le
sembrava aleggiasse nell'ambiente, apparendole ora florido ora malato,
ma sempre con espressione benedicente. Lei affraliva e chiudendo gli
occhi aspettava da un momento all'altro che l'invisibile mano dell'amato
scomparso la carezzasse, poi rientrando in sé si decideva a raccontargli i
fatti della giornata.
I colloqui diradarono man mano che lei entrava nelle grazie del
quartiere e cominciava a diventare per i vicini 'a 'zza Dèghila,
un'amena amica sempre affettuosa e generosa. Le nuove relazioni servirono a sciogliere l'amaro epilogo d'un passato irripetibile, le immagini ad
esso appartenuto, escluso il collage degli affetti troppo radicati. Tecla
non esistette mai sola neanche a seguito dell'invisibile invecchiamento e
del conseguente esonero a prestare fatiche. Il giorno della messa in
quiescenza, dal burocrate fu convocata nello studio ed alle avvisaglie di
discorsi sindacali si premurò ad interrompere il proponente -Figghiu miu,
grazie a to' patri iu cci haiu cchiossài di chiddu ca m'aggiuva, mai ca na
quarantacinc'anni mi fici spenniri na lira. Li sordi s'an'accucchiatu ca non
cci nnaiu cchi farimminni, e cca reggia ca mi desi, e 'a pinsioni ca ora
percepisco, t'haiu cuntatu 'u fattu
II burocrate chiariva che quei discorsi erano fuor di posto, in
quanto i frutti del suo lavoro erano stati più che meritati e lui sarebbe
stato male finché non avrebbe estinto il debito di gratitudine verso di
lei, solo formalmente, poiché intrinsecamente sarebbe rimasto in
obbligo a vita.
-Ma picchi m'ata cumplicari 'a vita? Iu fimmina montana ccu
esigenzi di parruccheri, maesri di biddizza e custureri, d'aneddi, pinnenti,
cullani e bracciali, d'abberghi, risturanti e viaggi di lussu, haiu di cchi
spirari! Figghiu miu iu vaiu avanti ppi via d'occa ovu duru, pastina e
lattuchi, 'n fazzulettu 'ntesta e 'u sciallu supra 'i spaddi!
-Un giorno ne beneficeranno i tuoi nipoti- Controbatteva il
burocrate.
-I mo' niputi, cui canusci? Unni mai s'ana fattu vidiri? I mo' niputi
sunu i figghi to'!- Dichiarô commossa lei.
-Però, zia Tecla, ci sarà di certo, non dico una necessità, ma un
desiderio, un capriccio, qualcosa che ti procuri un pizzico d'in teresse?
Messa alle strette ed indecisa la vecchia sommessamente balbettò
-'Na nnicchia
-Suvvia, zia Tecla, sii seria qualche volta
-Sulu 'a nnicchia mi manca, 'u rizzettu du cimiciaru, ed è cosa ca ci
mettu prestu riparu.
Il dottor Grisallo dovette superare molte resistenze prima di prenderla
sul serio e accertatosi che la donna non stesse scherzando affatto,
acconsentì a diventare donatore del loculo.
Ormai 'a zza Dèghila credeva di avere fugato tutte le preoccupazioni
esistenziali, e passava le giornate a chiacchierare con le comari del
quartiere o in visita presso gli ultimi datori di lavoro a trovare i so'
carusi e rimanendo a pranzo con loro, o dal medico della mutua ad
intrattenersi con l'infermiera e gli altri assistiti non dimenticando mai
una volta di tessere il panegirico dei Grisallo, e allontanandosi senza
un consulto o una ricetta, appena finito il repertorio del suo ironico
novellare. Si poteva dire che l'allegria non l'abbandonasse, se di tanto in
tanto non le sovveniva l'affare della nicchia lasciato ancora in sospeso. Il
prezzo d'acquisto era stato interamente versato, il contratto firmato, ma la
comunicazione della consegna tardava a venire, e siccome imbrogli e
speculazioni di carattere cimiteriale in città erano abbondati, a lei
restava di che inquietarsi. I termini della consegna erano scaduti di
parecchi anni ed alle infrequenti visite all'ufficio competente riceveva
l'invito d'obbligo di pazientare. Quella mattina era stata presa d'una
smania particolare di vedere adempiuto il contratto forse suggestionata
dai capricci del suo stato di salute. Che stava male lo constatava
inequivocabilmente dal supplemento di fatica che le veniva richiesto
nell'affrontare la salita. E però la finalità della missione che andava a
compiere e l'immancabile scorta di humor bastavano a salvarla dallo
scoramento e a dipingerle sulle labbra un sorrisetto autoderisorio nel
chiedersi -Comu mi potti futtiri 'a vicchiania
Il destino volle che non trovasse l'ufficio, essendo stato trasferito.
La poveretta era sfinita, ma strinse i denti e riprese con ostinazione la
sofferta marcia. Arrivò alla nuova sede che non si reggeva, tuttavia
coraggiosamente affrontò l'impiegato che disinvolto le ricordava -Le
abbiamo detto l'ultima volta che per la consegna l'avremmo informata
tramite posta
-Ma l'ultima vota fu cchiù di 'n'annu e mmezzu arreri, e ppi comu
funzionanu i servizi 'na criaturedda po' pinsari ca 'a cumunicazioni si
persi
- Non in questo caso, signora
-Signurina, prego
-Mi scusi, signorina. Sia paziente, signorina, d'altronde il tempo vola
-E 'a pacenzia no, ccu 'sti spustamenti d'uffici e 'a strata di
tagghiari? Ccu cui na pigghiamu? Su 'i tempi muderni ca ni cunnannunu
a furriari tunni. Fussi statu quann'eru denameca, ma ccu 'sta testa leggia e
'sti duluri nall'ossa, ca da caminatura a genti cci paru 'mbriaca!
-E va bene, gioia, non si perda d'animo
-A va, ca macari 'u pitittu di moriri faciti passari
-Signurinedda se riusciamo a tanto tutti santi e biniditti!
-E inveci cifiri maliditti siti, ca v'accaniti puru contru l'unica spranza
di libirazioni ddu puvireddu!
Avvilita come non mai, la nubile vecchia, fece dietrofront e
barcollante si guadagnò la strada: era al limite del collasso. Doveva
assolutamente riposare e invece lei credette che a continuare
alleggerisse di peso. Si sentiva una piuma e provava una gran felicità a
volteggiare come una libellula. Però la città era terribile con il caos, i
rumori e gli scarichi velenosi delle auto. Cominciò a confondersi e ad
avvertire un senso di nausea. La danza si scompose, le ali si irrigidirono e
la libellula si arrese all'avvitato precipitare, accasciandosi esanime sul
marciapiede.
Nelle due stanzette linde e profumate come una bomboniera,
furono trovati una libretta bancaria, periodiche comunicazioni
riguardanti il deposito di B.O.T. e dentro una busta un biglietto con
su scritto il nome d'un notaio della città. Il testamento portava la data
del giorno dopo il suo ritiro in pensione ed eleggeva eredi universali i
due figli del defunto ingegnere Grisallo.
...la fine del mondo...
Turi aveva passato da un pezzo la settantina. Riguardo all’età era
geloso e riservato pur se in maniera diversa da una bella e
inappagata donna incalzata dagli sgarbi del tempo, conscia della fase
di appassimento dentro la quale va struggendosi. Lui era soltanto
geloso senza subire frustrazioni poiché sconosceva il confronto con lo
specchio in quanto lieto della pienezza dello spirito si affidava alla vita
come un bambino alle braccia materne, e quindi il ricordargli il tempo
vissuto equivaleva a procurargli un crudele disincanto. Altro che
vivere nel pieno della vecchiaia: il personaggio si conservava giovane e lo
aveva saputo essere in tutte le stagioni. Materialmente, a parte un corpo
prestante ed una piacevole fisionomia mediterranea, aveva avuto
assegnati ristrettezze e sacrifici nei quali si era temprato con pazienza,
buona lena, coraggio e grande senso d’indipendenza, e dai quali
scaturivano i suoi ideali, esemplari per fierezza e fedeltà. Viveva da
solo in una vecchia casetta d’un antico quartiere. La condizione di single
più che scelta, subita, inizialmente per necessità e in seguito per
alcuni condizionamenti psicologici contratti nel lungo periodo di
assistenza alla madre, ormai non gli pesava affatto, in virtù d’una piena
autonomia, che con un lungo esercizio di laboriosità l’aveva arricchita
di parecchi valori utili ad un vivere solitario. Fuori dalle pareti
domestiche conosceva più gente lui che un parroco di campagna entro
i confini della propria parrocchia, Questa sua larga popolarità scaturiva
principalmente da due elementi: primo, dal suo essere accanito
comunista della vecchia guardia, in un ambiente atrocemente
reazionario, e secondo, dal lavoro di venditore di ciambelline
cosparse di sesamo e gelati davanti il parco comunale, fino a quando
la concessione municipale non avanzò pretese da razziatori. I due
elementi ovviamente si intrecciavano, prova ne era che presso i banchi
frigoriferi oltre i clienti del sorbetto s’avvicendassero quelli delle
baruffe ideologiche. Nascevano simpaticissimi, arroventati dibattiti
infarciti di problematica comparata socioeconomicopolitica storica ed
attuale tra 1’Est e l’Ovest europei, nei quali a turno, si può asserire
per tutto il giorno, i provocatori sostenendo la parte del diavolo
cercavano invano di demolire il mito del comunismo, per nulla offesi, anzi
divertiti dai coloratissimi appellativi scoccati dall’indomito militante
rosso con rauca voce a quel modo ridotta oltre che dall’eccessivo
sgolarsi, da una cronica faringite, strascico del vizio del fumo ormai da
tempo smesso.. Con l’andare degli anni Turi, divenuto
affettuosamente Turazzu era cresciuto come personaggio e fungeva da
catalizzatore per gli intellettuali locali della politica di Sinistra che si
davano appuntamento la sera sul tardi, lì, davanti l’ingresso del
Belvedere senza tuttavia accedervi, per avventurarsi sino a notte alta,
con cognizioni di causa, nelle astruserie ideologiche. Quel posto
costituiva una specie di salotto all’aperto arredato soltanto con due
sgabelli adibiti a sostenere la pila degli 'nciminati, le croccanti
ciambelline, e rimasti sgombri dopo la vendita, destinati ai notabili
avvezzi ad intrattenere con la loro forbita parlantina un nutrito ed
attento uditorio disposto a semicerchio e pendente dalle loro labbra.
L’accolta prendeva linfa da quelle sacrosante parole, Turazzu compreso,
fino a che non si fosse deciso di smobilitare o per andare a consumare
la pizza qualora ancora i nottambuli avessero trovato aperto da qualche
parte o per una passeggiata lungo il corso principale che serviva, man
mano che si fossero avvicinati alle loro abitazioni, ad assottigliare la
schiera assonnata ed in preda agli sbadigli. Turazzu per prendere la
parola in comitiva aspettava che i soggetti da silurare si fossero già
sganciati, e non per viltà ma per una specie di rispetto timorato a causa
non tanto della sperequazione del suo grado d’istruzione con quello
degli amici da bersagliare, quanto per la differenza di caratura tra le
professioni e l’affermazione sociale, e siccome il dissenso si manifestava
contro gli appartenenti al socialismo riformista, quasi sempre il commento
riguardava le stesse persone ed era composto dalle stesse parole -Cchi
cazzu cci 'ncucchia, avvoltoio borghese!- Dimenticando che anche la
sua circospezione ad esprimersi non travalicava affatto i confini d’un
piatto conformismo. Per i tre quarti dell’anno, grazie alla clemenza del
clima isolano, Turazzu, specie nelle ore del passeggio lo si trovava
sicuramente presente allo stesso posto come un monumento vivente
in esercizio nelle stesse pose finalizzate a strapazzare con una focosa
tiritera, accentuata dai gesti accusatori della mano, gli immancabili
scherzosi provocatori. E siccome tale attività si protrasse per più di un
decennio con immutabili modalità, la cerchia di conoscenze dilatò
all’inverosimile. Fin qui in un giudizio sommario sembrerebbe dal rilievo
d’una peculiarità del suo carattere, la selvatichezza, che il soggetto
fosse elemento da tenere alla larga. E invece proprio la sua popolarità
chiarisce come fondamentalmente possedesse apprezzabili qualità.
Invero, fatte salve le intransigenti convinzioni d’altronde conseguenti
alla tribolata esistenza e indulgendo ad un innato fondo di furbizia, per
il resto l’uomo era di straordinaria affidabilità. Onesto, educato,
affettuoso, persona onorante ed onorabile dell’amicizia, Turazzu era
benvoluto e con quanti fosse entrato in più stretta confidenza veniva
riguardato da familiare, mai da inferiore poiché l’alto senso
d’indipendenza nutrito non l’avrebbe consentito a chicchessia, ed i
tentativi avviati sconsideratamente da parte di qualche aristocratico,
puntualmente si ritrovarono ad essere demoliti esplosivamente. Dunque
per quanto raramente un amico si ricordasse di lui, in virtù delle
numerosissime salde relazioni, gli capitava spesso ricevere dei
pensierini come specialità casalinghe, prodotti campagnoli, o dei
servizi specie quando serviva una macchina da avere a disposizione.
Dal giorno in cui s’era messo in pensione si ritrovò con un
notevole avanzo di tempo libero dopo avere sbrigato le faccende
domestiche. Gli anni aumentavano senza intaccare l’esuberanza che
gli consentiva or con l’uno, or con l’altro, or in gruppetto a
passeggiare lungo il corso principale o nel parco per ore ed ore
instancabilmente. Pur essendo il più cresciuto lasciava volentieri la parola
agli altri, ed ormai le baruffe ideologiche s’erano fatte più rade venendo a
mancare la postazione fissa. Pur nondimeno quando gli capitava tener
dietro a servi del capitale non gli dispiaceva riprender con foga la
sassaiola di spassosi insulti, quali: avvoltoio, sciacallo, fango, feccia,
atti a stimolare divertite risate. Quindi, malgrado avesse conservato lo
stato di celibe le occasioni di solitudine erano davvero inesistenti come
del resto il rimpianto di aver sacrificato il matrimonio per meglio
accudire una longeva vecchietta che durante il periodo di una lunga
vedovanza non si era persa d’animo di fronte alla miseria nel tirare su i
suoi due ragazzi, presto diventati orfani di padre.
Turazzu era il primogenito e non mancò occasione per dimostrare
l’alto senso di responsabilità che sin da giovane seppe addossarsi. Con il
lavoro saltuario sempre più difficile da trovare durante il fascismo, sia
per il periodo poco felice riguardo ad attività, sia per l’innamoramento
rosso contratto giovanissimo, contribuiva al magro reddito familiare. E
così durante la guerra, rimasto solo con la madre, in quanto il fratello
minore era stato chiamato alle armi, ebbe un bell’ingegnarsi per portare
un pezzo di pane a casa.
Finito il conflitto le cose non migliorarono di molto. Il fratello
tornato dalla prigionia fece presto ad innamorarsi, a volersi sposare ed
a generare figli a iosa a dispetto della precaria condizione econo mica
delle famiglie vecchia e nuova.
Turazzu non si perse d’animo, sopravvissuto agli stenti della guerra,
nel periodo della ricostruzione si adattò a vari lavori; poi fu la volta
dell’emigrazione in continente fino a quando l’amata vecchietta non
ebbe bisogno di un’assistenza più impegnativa, che lui non le fece
mancare.
L’altro figlio annaspava per suo conto in seno alla nuova famiglia
ed oltre a ciò, debole di polso, veniva tiranneggiato da una moglie dal
cuore duro. Era stato assunto da netturbino, ma i guai restavano per la
fretta avuta nel procreare.
La vecchietta restando sola ed abbandonata costrinse Turazzu a
lasciare la grossa industria dolciaria dove s’era sistemato, e ad
adattarsi a vendere i prodotti che prima confezionava. Infatti sulla
fiducia, il vecchio datore di lavoro, gli mise a disposizione due capienti
banchi frigoriferi per mezzo dei quali con la parsimonia un po’
naturale e un po’ acquisita dalle circostanze avare, l’accanito
comunista ebbe modo di fronteggiare una situazione familiare invero
critica, non solo, ma nel tempo la simpatia riscossa, il successo del
prodotto preconfezionato nella patria della gelateria pregiata ed il
punto di vendita sempre affollato, gli consentirono anche di aprire
una libretta di risparmi. In un certo senso aveva risolto i problemi più
assillanti, rimandando senza scadenza alcuna il pensiero del matrimonio.
Cominciò a vivere intensamente quel tipo di esistenza. Si sentiva
realizzato e soddisfatto, e ogni sentimento nuovo rispetto alla abituale
disposizione d’animo aveva vita breve in quanto sublimando,
confluiva nell’unico ben radicato ed egemone, rafforzandolo e
nobilitandolo e dal quale erompeva un mare pieno di sicurezza in cui
lui meglio di un pesce vi guazzava a proprio agio sotto lo sguardo
fioco ed amoroso di quella vecchietta rinsecchita e malaticcia, sirena
assoluta del suo cuore. E fu con una esplosione di gioia che se l’abbracciô
forte al petto per comunicarle che i sudati risparmi stessero
trasformandosi in una casetta tutta per loro, come fu con un crollo di
forze quando tra le braccia dovette assistere atterrito al mite trapasso.
Le restò fedele per incapacità a saperla sostituire, infatti ogni
futura, papabile compagna non riuscì mai a raggiungere la soglia
dell’abnegazione in quanto gli si era essiccata nel momento della
perdita della madre. Cosicché l’esemplare figlio ormai avanzato negli
anni, restando solo si organizzò a difendersi dalle scorrerie del tempo,
cavandosela per certi versi con eroismo, fino a che un nemico
inclemente, un carcinoma alla prostata, non lo segnasse duramente.
S’era ritirato da poco dall’attività. Alle prime difficoltà nell’orinare,
da soggetto di solida salute, che anche di fronte al più piccolo
malessere si mette in allarme, non perse tempo a precipitarsi all’U.S.L.
locale. Col solito fare da faccendone espose i suoi malanni ai medici che
conosceva per farsi consigliare, e un passo dopo l’altro si trovò
ricoverato in un reparto urologico di un grande ospedale del capoluogo.
Gli venne effettuata la resezione. Dopo dimesso passava le giornate a
raccontare alla lunga schiera di amici ignari di quanto successo
mirabilia dell’intervento chirurgico subito. L’avevano rimesso bene e
si sentiva fortunato di averla scampata a buon mercato. Era tornato ad
orinare quasi regolarmente. Per le feste natalizie, in occasione degli
auguri, portò una bottiglia di spumante al giovane specialista che lo aveva
visitato alla U.S.L. del quale ne era diventato grande amico e che grazie
a questi era stato fatto ricoverare al reparto giusto. In primavera
ritornarono i disturbi, e il poveretto si scosse meravigliato che il tanto
decantato intervento avesse dato esiti fallimentari: corse
precipitosamente per un controllo al reparto chirurgico e dalla bocca del
primario apprese, dopo essere stato dallo stesso visitato, che fosse
occorsa la sua opera a riparare la cattiva funzionalità.
L’ammalato quasi non si dispiacque del nuovo ricovero, perché stavolta
ad interessarsi della sua salute sarebbe stato il professore in persona! Al
solito sbrigò le cose senza avvertire alcuno e fu la prolungata assenza
da corso Umberto ad insospettire. Quando riapparve raggiante al
passeggio, molti si dolsero con il redivivo e per il nuovo intervento e per
l’averlo avuto nascosto. Lui rassicurava dicendo ch’erano fesserie, che la
prima volta un aiutante spratico aveva appena scalfito la parte da
rimuovere, mentre adesso finalmente con l’impegno del primario, un
professore preparatissimo, aveva risolto definitivamente e brillantemente
il disturbo, grazie anche alla sua solida salute di base. Faceva notare
che fosse un tipo forte, che non avesse avuto mai niente, non essendosi
mai trascurato seguendo un modello di vita salubre e spensierato e che
tale dimestichezza con l’igiene gli permettesse di non accorgersi
nemmeno di aver subito due operazioni in un lasso di tempo così
breve. Agli amici illustrava la terapia da seguire, faceva leggere i
foglietti illustrativi delle medicine e chiedeva un parere; tranquillizzato
che fosse passava ad informarsi di quanto successo in giro durante il
ricovero e di colpo dimenticava le recenti disavventure. Era tornato a
sentirsi giovane, aveva tanta fiducia nella vita e nelle persone, solo un
cruccio lo tormentava: l’avversione ingiustificata della cognata,
nonostante lo zelo da lui dimostrato nel cercare di sfruttare le amicizie
per trovare ai nipoti una pur modesta occupazione magari saltuaria, e
qualche volta con successo. Tuttavia restava inviso alla cognata, forse
per il carattere in apparenza troppo rude, ma più verosimilmente per la
preoccupazione che lui potesse esercitare un influsso deviante,
naturalmente per le di lei pretese, sul marito ormai completamente alla
sua mercé. Tale donna era una generalessa, in famiglia teneva tutti in
pugno, nemmeno lontanamente intendeva rischiare il comando, inoltre
temeva che un’apertura verso il cognato rimasto celibe ed inoltrato
nella terza età le comportasse delle incombenze, poi adesso dopo i
primi segnali di decadimento fisico, si sarebbero potute creare nuove
esigenze in particolare volte a trovare un conforto sia affettivo che
pratico, e lei non si sentiva minimamente disponibile a venirgli incontro.
Anzi in famiglia era stata molto esplicita con il marito e ogni tentativo
di sabotaggio, peraltro fiacco da parte di questi s’era infranto nel muro
dell’intransigenza.
Turazzu parlava spesso con gli amici più intimi di simile crudeltà nei
suoi confronti e sfogandosi dava del cannilavari al fratello con grande
pena al cuore, e chiamava troia la cognata senza il minimo scrupolo.
Quindi nelle feste capitali che la tradizione affida al calore delle
famiglie riunite, avveniva che lo scapolo un invito a pranzo lo ricevesse
da qualche amico senza che con i suoi parenti si sentisse affatto -Non lo
merito- Protestava ora cupo, ora aggressivo -Quella troia mi mette tutti
contro. Mai che le mie nipoti, le femmine, caiorde, dopo che
quest’estate ho trovato loro un lavoro stagionale alle Terme, si fanno
vedere a casa mia, ad informarsi se avessi bisogno di un qualcosa, della
pulizia della casa, della lavatura di un indumento sporco. Figurarsi, con
l’educazione ricevuta dalla troia e da quel cannilavari di mio fratello.
Lui non ci ha colpa, e una vittima! Solo mia nipote acquisita, la moglie
di Orazio, nel mio piccolo l’ho aiutato spesso 'u carusu, bravu carusu,
specie quando si è ritrovato disoccupato. Sua moglie- Dicevo -Mi vuole
bene più che se fossi uno zio diretto; si interessa a me affettuosamente,
e le volte che mi viene a trovare vuole sfaccendare per forza,
invitandomi spesso anche a casa sua
Questi sfoghi, specie nell’ultimo periodo, si facevano sempre più
frequenti, poi di colpo, a seconda i gusti dell’ascoltatore passava alle
varie critiche della sezione locale del partito, dove tacciava i dirigenti di
nepotismo e dove vedeva u puparu tenere e muovere i fili delle
marionette. Agli inviti a partecipare ai congressi, rispondeva -A parte
il fumo che non sopporto, in mezzo a quel fango non ci voglio stare
proprio. Lì c’e fango, c’e la feccia!- Tanta risolutezza gli derivava
forse da qualche favore non resogli e a suo giudizio possibile. I
democristiani erano invece sciacalli ed avvoltoi. Se i confini si
allargavano, apriti cielo con i socialisti italiani, i capitalisti, gli
americani, il papa. L’Eden restava l’Unione Sovietica con il
comunismo, tant’è che lui ci si era recato, percorrendo in treno la
transiberiana, ed anche i paesi fratelli aveva visitato da quando in estate
aveva preso l’abitudine di spendere parte del fruttato dei BOT per un
viaggetto organizzato. Al rientro certo se ne parlava per mesi e mesi
delle verifiche compiute in quei paesi: l’assetto sociale, il tenore di
vita goduto, le bellezze femminili, paesaggistiche ed artistiche,
l’ospitalità, il calore umano, la generale soddisfazione delle
popolazioni a dispetto della schifosa propaganda del capitalismo
imperialista. E quanta passione ci metteva a rintuzzare le divertite
provocazioni di avversari politici che in fondo l’avevano in simpatia.
Però negli ultimi tempi anche della sua patria ideale, a causa d’un
rinnovamento che riteneva esorbitante, ne parlava con preoccupazione e
concludeva che il mondo stesse per finire.
Recentemente aveva partecipato ad un soggiorno turistico organizzato
per la terza età non abbiente dall’assessorato alla solidarietà sociale, e
siccome già in partenza vi aveva preso parte con diffidenza per via del
colore politico sfoggiato dall’organizzazione, non smise di
comportarsi sdegnosamente per i dieci giorni della gita tenendo gli
accompagnatori nell’inquietudine, una volta per la stanza, un’altra per
i pasti, un’altra ancora per gli spostamenti che giudicava manchevoli.
Con le pillole e la puntura mensile si compiaceva di come tenesse
ben regolato il mingere ed andava fiero del ritrovato getto vigoroso,
anche se qualche volta nel vaso da notte prevalesse un intorbidamento
costituito da residui di piccoli grumi che a detta dei medici non era
preoccupante. In effetti non temeva quasi più la malattia e ad essa
pensava con sempre meno apprensione. D’altronde di anni ne erano
trascorsi. II passeggio al corso Umberto in mezzo agli amici, di solito
intellettuali, lo svagava e lo teneva tranquillo. Ma improvvisamente nel
constatare sopravvenute difficoltà, la serenità fu infranta. Con
l’incrollabile fede di dover recuperare, grazie al vigore fisico che lo
accompagnava, cominciò a nutrire dubbi sulla preparazione dei medici
a cui si era affidato e sulla possibilità di trovarne all’altezza qui nel
sud, malgrado l’assicurazione degli amici ai quali avesse chiesto,
concordi nel ritenere che la specializzazione urologica, qui in
provincia, fosse rinomata. Ma Turazzu ormai s’era convinto a quel
modo e in cuor suo si rideva degli sprovveduti consiglieri, mentre
segretamente preparava propri piani.
Scomparve nel periodo in cui si svolgeva la gita degli anziani
dell’anno dopo quello in cui lui vi aveva preso parte, tanto che gli
amici pensarono che anche quella volta Turazzu vi avesse aderito, ed
invece al mancato rientro con gli altri, appresero dal fratello del col po
di testa. Riapparve all’improvviso dopo quasi un mese. Tornava da
Bologna bell’e operato da un professore di fama in un ospedale da
favola. Era andato e venuto da solo con il treno e questo dimostrava,
secondo i propri convincimenti, che lui disponesse ancora di sufficienti
energie. Però il viso sciupato, i1 colorito convalescente, l’incedere
insicuro e le mani un pochino tremanti producevano una brutta
impressione. Ma il convalescente era soddisfatto anche se parlava a
fatica, tanto sapeva di doversi riprendere. Gli avevano dato un nuovo
medicinale spray da inalare e questo bastava a dimostrare il divario
clinico tra gli ospedali locali e gli altri del continente, specie della
Regione rossa per eccellenza.
A quanti gli rimproverassero l’avventura in treno da solo dopo un
intervento chirurgico, rispondeva che a parte quei controllabili fastidi
alla prostata come la “caduta d’escare” per niente preoccupante a
quanto gli avevano spiegato, specie per lui portatore di un fisico forte
era azzardo da potersi permettere. E non è che si debba pensare che
cercasse d’illudersi, niente affatto, ne era fermamente convinto. E forse
codesta convinzione radicata nella sua mente meglio di una quercia gli
dava la carica di sentirsi bene anche quando stava male e di non
accorgersi di chiari segnali che purtroppo contraddicevano le sue rosee
previsioni. Così il senso di diffusa fiacchezza, l’intermittente
febbriciattola, il costante deperimento, l’insospettata inappetenza, il
leggero tremolio diventavano sintomi interconnessi d’una transitoria
flessione di salute.
In occasione della convalescenza ottenne dall’assessorato alla
solidarietà sociale la disponibilità per ben tre volte la settimana d’una
collaboratrice domestica. E come al solito pieno d’entusiasmo
raccontava agli amici lo sbalordimento per il senso di pulizia di quella
brava donna, nonché dell’affettuosità nei suoi confronti, tanto che, anche
a causa dell’avvilimento subito nella relazione con i parenti, pensava
sempre più spesso a voler premiare la disinteressata fatina ed eleggerla
erede della casetta.
Lo sgravio del lavoro domestico contribuiva ad accrescere la forza
dello spirito per cui Turazzu si votò alla fede della guarigione con tanta
convinzione che parlandone riusciva a sentirsi veramente in recupero
anche se l’ascoltatore si convincesse del contrario. Pertanto
l’autosuggestione addolciva il devastante trascorrere dei giorni
particolarmente spietato con lui perché impregnato dell’inesorabile
anche se lenta malattia.
Per quasi un anno l’uomo attese paziente senza cogliere gli sperati
miglioramenti, tuttavia continuava a sopportare ed i più piccoli
sollievi li coglieva gioiosamente come primi fiori primaverili. Era stato
costretto a ridurre le passeggiate e a riposare spesso sulle panchine del
parco, ogni tanto avvertiva dei dolori alla schiena e quando ciò
accadeva prendeva il bus di città e rincasava, tuttavia conservava
ancora la combattività nel conversare, la fede nell’ideologia, la
solidarietà per il movimento rivoluzionario. E pur stando male, in
occasione della sciagura del terremoto in Armenia, non aveva
dimenticato di spedire un contributo in denaro.
Ma lentamente qualcosa dentro si stava sfaldando. Avvertiva un calo
d’intensità delle passioni, un progressivo disamorarsi, un lento
abbandonarsi all’indifferenza. Solo per il progetto in corso di
aggiustarsi la bocca, parlandone, si accalorava in quanto il dentista
nell’estrargli i denti corrosi gli aveva promesso una protesi da attore,
appena le gengive si fossero rasciugate ed avessero permesso di
prendere l’impronta. Nel frattempo aveva effettuato delle analisi
cliniche e queste denunciavano un’anemia, che su prescrizione medica
aveva cominciato a curare con dei ricostituenti.
Una sera dopo parecchie settimane che non si vedevano si sentì
confidenzialmente chiamare alle spalle -Avvoltoio- Si girò, accogliendo
con un sorriso al solito furbo, Tonio Greco, un compagno molto
amico e con il quale soleva confrontarsi quando capitava l’occasione
sugli avvenimenti nel mondo sotto la luce degli interessi del Socialismo.
Turazzu informò tosto l’altro sull’esistenza delle ultime analisi, ne
ascoltò i consigli, e dopo passarono alla solita, ampia panoramica, in
riferimento alle continue novità che giungevano da Mosca, accolte con
molta diffidenza. I1 giovane vecchio concluse che il mondo stesse per
morire, rimanendo scettico all’assicurazione dell’amico che cercava di
fargli capire che sono gli uomini ad avvicendarsi. Ad un tratto Turazzu
disse all’ascoltatore -Debbo darti una bella notizia. Sai, mi sono
riappacificato con mia cognata. Mi è venuta a trovare a casa insieme a
mio fratello e due figlie; mi ha abbracciato, ci siamo baciati... Ora a
turno, ogni giorno, viene immancabilmente un mio nipote ad
informarsi di me. Li ha messi tutti in riga. Sai, è una donna in gamba.
Mi sono sbagliato sul suo conto. Domenica scorsa sono stato a
pranzare da loro...- Raccontava con gli occhi lucidi. Tonio si
congratulò, espresse contentezza per la ritrovata armonia, ma appena
restò solo ebbe dei presentimenti poco rassicuranti. Infatti pochi
giorni dopo gli fu comunicato che l’amico era stato ricoverato in
seguito ad improvvisi malori.
La cognata aveva fiutato l’imminente tracollo, forse aveva saputo
anche attraverso l’incauta pubblicità, della tentazione del parente di
donare la casetta ed aveva stabilito ch’era tempo di agire.
Al reparto di medicina generale Tonio trovò l’amico, seduto su di
una sedia a rotelle, provò un immediato spavento dileguato
dall’espressione rassicurante del viso del malato che attorniato da
visitatori riusciva a scherzare. Salutò il nuovo arrivato con un abbozzo
di sorriso sdentato, caratterizzato dalle pieghe che aveva preso il viso
scavato. Gli altri che erano andati assieme, colsero l’occasione per
congedarsi; i due rimasero soli a conversare.
Già Agosto stava per finire, faceva caldo e il poveretto parlava a
fatica -Questo tempo mi abbatte di più- Diceva con voce stanca -Sai,
ho avuto una manifestazione di affetto commovente. Sono venuti tanti
di quegli amici che non ci credevo. Ho accumulato una montagna di
biscotti
-Turi, io non ho portato niente, perché prima volevo vedere cosa
ti mancasse
-No, no, non devi portare niente, per favore. Ho più di quanto mi
occorra
-Io l’ho appreso qualche ora fa, e subito sono volato. Come va?
-Ricordi quei dolori? Non mi facevano dormire la notte. Si erano
attaccati all’inguine- Mostrò il punto con la mano, più accentuatamente
tremante. Dalle braghe dei pantaloncini due scarne cosce destarono al
visitatore un profondo senso di pena. Quindi riprese fiducioso -Qui
sono riusciti a togliermelo il dolore e mi hanno assicurato che poco
per volta mi tireranno su- Si era alzato dalla sedia. Volle camminare
lungo il corridoio. La persona parecchio smagrita, vacillava
sensibilmente. Tonio l’aveva preso sottobraccio, ma la mano
soccorritrice fu allontanata perentoriamente -Ce la faccio ancora- Disse
con tono quasi risentito. Poi chiese -Che novità ci sono?
-In casa nostra stanno rimettendo tutto in discussione, anche
Togliatti. E’ arrivata la moda della detogliattizzazione. All’Est
cominciano a fare capolino l’iniziativa e la proprietà private
-Si va verso il capitalismo, allora. Una rivoluzione inutile!
-Mi auguro che non si debordi dal Socialismo
-Sono sempre più convinto che stia per arrivare la fine del
mondo!
In quel momento apparve il professore Dario Privitera, un amico
particolarmente caro al ricoverato, in compagnia d’una persona tutta
cerimonie che chiunque l’avrebbe data per arabo. Era il fratello di
Turi. Oltre alle cerimonie questi esibiva un conversare echeggiante
qualsiasi cosa gli altri dicessero, che accompagnava con una vivacità
unica dello sguardo e una mimica servile della minuta persona.
Quando fu presentato a Tonio, disse di conoscerlo da lunghissimo
tempo, evidentemente scambiandolo per qualcun altro poiché quella
era la prima volta che i due s’incontrassero. Con il professore
Privitera invece, Tonio c’era stato compagno di scuola alle
elementari.
S’era fatta l’ora di pranzo, l’addetto stava iniziando il giro delle
camere spingendo il carrello tintinnante delle vivande. Quando fu il
turno di Turi, questi non sapeva decidersi sulla scelta del secondo per
via della mancanza dei denti: il pollo l’aveva già biascicato un paio
di volte e ne era nauseato, le polpette le trovava scipite, per la
bistecca sorgevano più seri problemi. Tonio lo incoraggiô a prendere la
bistecca assicurandogli che gliela avrebbe tagliata lui a pezzettini
piccoli piccoli.
-A pezzettini piccoli piccoli- Ripeté il fratello mostrando la
bianca protesi della bocca in un sorriso di approvazione.
-Non la mangio lo stesso, l’appetito non mi accompagna- Chiarì
Turi svogliato.
-Ti devi sforzare- Intervenne il professore.
-Ti devi sforzare- Fece eco il fratello con lo stesso sorriso di
solidarietà.
Tonio propose all’arabo, mentre aveva preso a tagliare in
minuzzoli la bistecca sottile e tigliosa, che a mezzogiorno almeno il
secondo glielo facessero arrivare da casa; con quanti erano in famiglia,
una volta per uno il sacrificio non avrebbe nemmeno pesato. Sarebbe
stato di sprone per il congiunto a farlo mangiare, ed anche la de genza
sarebbe stata vissuta meno malinconicamente. II professore assecondava
il ragionamento del compagno delle elementari con parole di rincalzo
che l’arabo meccanicamente ripeteva con smorfie di assenso. Turazzu
a un certo punto ingiunse al fratello a stare zitto, trattenne a Tonio il
braccio impegnato a tagliare assicurandogli che la quantità già pronta,
poco più di mezza bistecca, sarebbe bastata per due pasti. Prese il
posto dell’amico, che protestava per la scarsa alimentazione con cui
l’infermo tirasse avanti, e di malavoglia iniziô a mandar giù
cucchiaiate di pastina. L’arabo intanto avvolgeva in due fazzoletti di
carta la mezza fetta di carne rimasta intera per portarla a casa ai
ragazzi, cioè i nipotini, come lui stesso accennò. I due estranei si
guardarono significativamente negli occhi e quando furono in istrada
accennarono alla provvista di biscotti che il congiunto avrebbe fatto e
commentarono le sole probabilità rimaste a Turazzu di ricevere un bel
niente dai parenti!
Tonio si recò spesso all’ospedale ed ogni volta portava all’amico un
frullato di frutta per il duplice motivo di saperlo gradito e vederlo non
raggiungibile dall’incettatore. S’incontrava spesso con il professore e
assieme cominciarono a vagliare la situazione del dopo dimissioni. Già
alcuni medici davano segno d’impazienza a tenere occupato un letto
destinabile a qualche loro cliente. Il primario era in ferie. D’altronde gli
accertamenti molto negativi per la salute del ricoverato denunciavano
senza dubbio alcuno una metastasi alle ossa e dopo tale sentenza il
reparto aveva assolto il suo compito. Infatti Dario scomodando una sua
conoscenza influente aveva ottenuto che il poveretto fosse ancora
tenuto in ricovero per l’intera settimana, e in quello spazio di tempo si
sarebbe dovuta trovare la sistemazione dell’ammalato già allo stadio
finale, poiché il restare solo in casa non era più condivisibile.
I parenti l’avevano detto a chiare lettere di non potere ospitare,
ognuno per propri validi motivi, il convalescente a casa loro, pur
tuttavia Turazzu insisteva che se ne sarebbe andato a convivere con il
fratello, forse dietro l’illusione di avere guadagnato di fresco la
simpatia della cognata. Il professore e Tonio commentavano sconcertati
la sensibilità specie dell’arabo che passava per cannilavari ma che in
fondo dovesse possedere un pizzico di cinismo. Il nipote del cuore
Orazio sembrava invece credibilmente contrito delle difficoltà
oggettive a poter accogliere lo zio.
In quei giorni era andato a trovare l’ammalato Nuccio Ciancillo, un
soggetto ben piantato, atletico e giovanile malgrado i quasi sessant’anni,
uno di quei visi puliti che invoglia ad andare a farsi confessare da lui,
con un timbro di voce perfetto per declamare ed un sorriso pronto per
tutte le occasioni, politicante transfuga per convenienza, ricco di
chiacchiera quanto vuoto di sostanza, che appreso il problema non
mancò di farsi avanti per risolverlo brillantemente. Il personaggio era
munifico di promesse. Le distribuiva a destra e a manca per propiziarsi
dei crediti di riconoscenza da riscuotere nelle Amministrative per la sua
elezione a consigliere, in passato sempre sfortunata. Pur tuttavia
essendo un tipo tenace, passava le giornate in quei luoghi ove
facilmente avesse potuto far dono del suo amore al prossimo. E dove
meglio che in un nosocomio avesse più possibilità di vendere fumo?
Spronato da tali calcoli visitava di frequente il luogo di sofferenza e
forse ne sapeva più dell’ufficio accettazione riguardo ai ricoverati.
Inoltre la naturale invadenza ed il lungo esercizio lo facilitavano ad
entrare in relazione con quei soggetti ancora non conosciuti e che a suo
giudizio per i presunti orientamenti politici, potessero tornargli utili.
Dunque fu nel pieno delle sue funzioni che seppe di Turazzu e al solito da
gran superficiale assicurò di interessarsi a farlo accogliere, con il
relativo contributo dell’assessorato all’assistenza sociale, nel gerotrofio
di S. Venerina. Avrebbe sbrigato ogni cosa lui e per l’intanto,
raccomandandolo, descrisse quel posto con una dovizia di qualità da far
sembrare all’ascoltatore di vedere un’oasi incantata. Si accordarono che
la mattina delle dimissioni fosse andato a prendere l’infermo lui stesso
e lo avrebbe accompagnato di persona alla deliziosa casa di riposo.
Venerdì sera il primario rientrato di fresco dalle ferie ebbe il pensiero
di andare a fare il giro nel reparto. Volle sapere le condizioni dei
ricoverati e al caso Turazzu obiettò rigidamente la prolungata degenza,
ordinando senza indugio le dimissioni per il lunedì.
L’ammalato faccia a faccia con l’improcrastinabilità della degenza fu
preso dallo sgomento. Fin’allora fidando nel tempo aveva fatto più
discorsi sulla futura sistemazione per cercare di sondare le effettive
possibilità di scelta, ma adesso, nell’imminenza dello sfratto,
disperatamente cercò di aggrapparsi all’unica soluzione che gli stesse a
cuore, vista sfumare l’ospitalità dal fratello, dichiarando chiaro e tondo
sia all’arabo che al professore -Non vado in nessun pensionato. Me ne
torno a casa
-Sì, a casa- Accordò quasi contento il cannilavari.
-A casa, quale?- Chiese drastico Dario.
-A casa mia, alla “Santicella”
-Alla “Santicella” Convenne il cannilavari senza esitazioni.
-A casa tua, alla “Santicella”, a fare che? A restare solo senza un
sostegno di qualsiasi natura?- Incalzò con irritazione il professore.
-La signora dell’assistenza sociale mi manderà di nuovo la
collaboratrice, e poi, magari faranno a turno, ci saranno loroControbatté deciso Turazzu, indicando il congiunto.
-Sì, ci saremo noi- S’affrettò a rassicurare quello con un
sorriso sfrontato.
-Bene- Ammise il professore -Visto che c’e il pieno accordo,
certo non sarò io a turbare la pace familiare
Il sabato sera Tonio ebbe raccontate dal professore le ultime
decisioni e ad andare in collera fu un tutt’uno.
-No, Dario, la cosa non va. Lui alla “Santicella” non ci andrà
-Ma arrivati ad un certo punto che possiamo farci noi?
-Come che possiamo farci, noi non lo permetteremo. Tu capisci a
quale fine lo si voglia destinare? A farlo morire solo come un cane
-I medici gli hanno dato non più di due mesi
-Peggio ancora. Quel filisteo d’un arabo ritenuto ‘ncannilavari
ingenuamente, perché invece secondo me sa il fatto suo, come può non
essere disponibile a dargli per un periodo cosi limitato ospitalità nella
propria casa, specie ora che i figli si son quasi tutti sposati?
-Sarà la moglie a vietarglielo
-No, te lo dico io. Ormai sa di prendere sempre tanto, e quel che
c’e rimane a lui. Chissà come lo hanno messo in croce il disgraziato per
sapere la posizione finanziaria. E poi sappi che non c’è niente di più
compromettente per se stessi del dimostrare il proprio amore ad un
prossimo che non sa amare, poiché inevitabilmente questi vorrà
sfruttarlo per il suo solo tornaconto, impietosamente senza limiti e
rimorso alcuno. No, no, noi dobbiamo impegnarci perché il trapasso sia
il meno disumano possibile. Domattina vado io a trovarlo e vedrò cosa si
potrà fare ancora
-Senti io sono impegnato, tienimi informato per favore. Io comunque
lunedì mattina ho promesso di trovarmi in ospedale per le undici
assieme a Nuccio Ciancillo
I due si separarono con una gran pena al cuore e la sensazione che
avessero da combattere invano.
Tonio arrivò portando il solito frullato di frutta che l’amico gradì
moltissimo e mandô giù quasi tutto d’un fiato invogliato più per la
freschezza che per il gusto, e benché mancasse poco all’ora di pranzo.
C’era già il fratello e per il tempo che Turazzu mandò giù la ristoratrice
bibita non fece altro che esprimere con ogni tipo di gesto appropriato
soddisfazione come se a dissetarsi fosse lui.
Appena il riconfortato ebbe finito, Tonio venne subito al nodo
-Dario mi ha riferito che non vai a S. Venerina
-No, vado a casa
-Ma a casa dove, da tuo fratello?- L’arabo ebbe un sobbalzo e
atteggiò un vile sorriso.
-No, alla “Santicella”- Corresse il dimissionando con un senso di
ritrovata vitalità e l’intenzione a lanciare la sfida.
-No, Turi, tu alla “Santicella” non ci andrai
L’arabo che dietro il tono deciso del congiunto si sentiva
inorgoglire di riflesso, a quella imprevista risposta si oscurò in viso e
per un attimo guardò in cagnesco Tonio ricambiato con impassibile
senso di sicurezza mentre portava le spiegazioni -Turi, purtroppo la tua
malattia comporta una lunga convalescenza durante la quale ti puoi
trovare ad aver di bisogno
-Con me ci sarà sempre qualcuno di loro
-Sì, qualcuno di noi- Si premurò ad assicurare il pedissequo
ripetitore con simulata dolcezza.
-Questo non basta- Obiettò fermamente Tonio -Se hai bisogno di
una puntura?
-Mia moglie le sa fare- Con aria di vittoria garantì l’ipocrita fratello.
-Anche le endovenose?
-Quelle no
-A parte l’endovena, conoscerebbe il medicinale che la situazione
richiedesse?
-Questo no
-Quelle no, questo no, che altro sì?
L’uomo parve confondersi, ma si riprese con faccia tosta
-Chiamerei il medico
-II medico risponde che passerà appena finito l’ambulatorio. E se
è urgente?
-Allora deve lasciare l’ambulatorio e venire subito- Ribatté
rimbaldanzito quello.
-D’accordo, fin quando lo si trovi, ma se di sera, o la linea dà
occupato, perché ai medici quando gli gira, staccano il telefono,
oppure di notte, un giorno festivo? Sì, c’e la guardia medica, ma
codeste sono cose che il primo novizio qualsiasi può affrontare?
-Io posso chiamargli il più bravo professore
-Sì, non lo nego- Stavolta Tonio malgrado le parole dette lo
guardò dubbioso e chiese ancora -Dove lo va a pescare, se è il momento
di per sé ad essere poco propizio? Fa arrivare un’autoambulanza per
affidare il poverino ad un pronto soccorso il più delle volte
impreparato o mal funzionante. Cioè a dire metterebbe suo fratello in
balia del caso per l’ostinazione ad assecondare in un simile frangente un
capriccio, piuttosto che adoperarsi a convincere quella testa dura che
in un pensionato qualsiasi, tali rischi non esisterebbero quasi- Guardò
l’amico che ascoltava attento e prosegui chiedendogli -E poi mi vuoi
dire, per favore, cosa ti impedirebbe una volta che non ti ci troveresti a
tornare sui tuoi passi?
L’interpellato tentennò il capo per un tempo parso interminabile ai
due interlocutori che attendevano ansiosi e muti, poi si decise a rompere la
suspence -Va bene, ci vado nel pensionato, basta che sia direttamente da
qui, perché se sosto a casa anche per un giorno, ci resto
-Perché se va a casa...- Aveva cominciato la faccia tosta a ripetere,
troncato però bruscamente da Turazzu.
-Tu sta’ zitto, che non conchiudi
-Va bene, va bene- Accettò l’uomo ubbidiente come un cane che al
rimprovero del padrone si accuccia.
Tonio sospirò di sollievo e s’impegnò che l’indomani mattina si
sarebbe trovato lì per il disbrigo di quel che occorresse. Però prima volle
essere garantito che non ci fossero ritirate strategiche e cercò di essere il
più esplicito possibile -Vedi, Turi, da quel che sto capendo il signor
Nuccio Ciancillo mi pare che si sia perso, come volevasi dimostrare
-Assicura per bocca di Dario che domattina alle undici sarà qui
-Ma alle undici è già tardi per pensare di risolvere tutto per S.
Venerina
-Vuol dire che lui sa
-Sarà, però in ogni caso, se come prevedo, dovrò essere io a
sistemare la cosa, esigo che tu ti impegni a rispettare i patti e non ti
tiri indietro, perché dopo che eventualmente vado a scomodare le
persone, non voglio fare la figura del peppennappa. Non ci debbono
essere ripensamenti. Intesi?
-Non ci debbono essere ripensamenti- Riconfermò il pertinace
doppiatore assalito dallo sguardo furente del fratello per farlo star zitto
e dopo averlo più volte tacciato di cannilavari e messo formalmente in
angustia, Turazzu assicurò l’amico con un solenne -Ci vado
La sera per Tonio non ci fu verso d’incontrarsi con il professore per
riferire il successo ottenuto. Quando si mise a letto non sapeva che
pesci prendere pensando alla precisa condizione che l’ammalato aveva
posto, e siccome l’occasione non si fosse dovuta perdere, decise che
l’indomani di buon’ora si sarebbe recato all’assistenza sociale
dell’assessorato.
Tonio fu già sul posto prima che gl’impiegati entrassero a prendere
servizio. Era un po’ irritato per via dell’abituale insofferenza verso la
burocrazia, ma l’affetto per l’amico prevalse tosto. Accennò la
questione al funzionario che conosceva il soggetto in discussione e nei
suoi confronti era mal disposto per le complicazioni alle quali aveva
dovuto sobbarcarsi a causa sua l’anno prima durante il soggiorno
turistico offerto dall’assessorato agli anziani non abbienti. Pur tuttavia
senza entusiasmo il burocrate spiegò cosa il Comune era in grado di
offrire e a quali condizioni. Innanzitutto S. Venerina non era da
prendere in considerazione. -Il gerotrofio con il quale siamo
convenzionati è quello di Aci S. Antonio
-Aci S. Antonio- Osservò perplesso Tonio -Spunteranno fuori dei
problemi per farglielo accettare. Ma mi scusi come mai in città ha
aperto, a me dicono, un ottimo pensionato, e...
-Ancora non si è fatta la convenzione. Il consiglio comunale dovrà
decidere nella prossima sessione. Passeranno sicuramente dei mesi
-Intanto il malato come al solito se ne va. E a S. Venerina, perché
no?
-Mi spiace, al momento, è solo Aci S. Antonio
-Stante così le cose, procediamo per Aci S. Antonio
-Il richiedente ha una brutta malattia, vero?
-Purtroppo
-E ancora ricoverato?
-Lo dimettono oggi, più tardi. E lui vorrebbe trasferirsi
direttamente...
-Ci vogliono documenti di accompagnamento, passerà qualche
giorno, l’iter è inevitabile- II funzionario si alzò dalla poltrona, andò
alla porta, l’aprì e chiamò ad alta voce. L’assistente sociale che fu lì in
un baleno, fu informata che si trattava del caso Di Maria e le chiese
col tono di aspettarsi la risposta voluta, circa i documenti di
accompagnamento per l’accettazione al pensionato di Aci S. Antonio.
-Sì, purtroppo si sa le carte hanno la precedenza, ci vorranno un
paio di giorni -C i s p i a c e - S ’ i n t r o m i s e i l f u n z i o n a r i o - D o v r à
p a z i e n t a r e solo due giorni. Intanto se vuole, la signora Fichera potrà
spiegarle la situazione.
Tonio seguì l’assistente sociale in un’altra stanza e provò con un
po’ d’impaccio a forzare la mano -Vede, signora, il caso è davvero
penoso. Quest’uomo è praticamente solo, perché i parenti non ne
vogliono sentire. E’ molto malato
-Questo lo so, conosco il Di Maria, è venuto tante volte da me,
gli ho assegnato anche una collaboratrice domestica, ma lui è
incontentabile, ha da lamentarsi sempre, non è per niente accomodante,
sa cosa gli ha fatto vedere alla gita? Soltanto lui aveva da pro testare
in continuo. Il dottore, la persona con la quale abbiamo chiacchierato poco
fa, è tornato avvilito
-Lo so, signora, la docilità di carattere non l’ha mai posseduta,
però adesso è molto malato
-E questo è un problema in più, appena il medico lo vedrà! Se lo
riceverà? II Di Maria è stato qui qualche mese fa e già gli si leggeva in
faccia il male. Comunque noi il tentativo lo faremo ugualmente ed io
voglio venirvi incontro
-Grazie, signora, il fatto è che il mio amico lo ha sottolineato
chiaramente che se passa da casa, non si smuoverà e nelle
condizioni in cui si trova, certo il lusso di restare solo non può
permetterselo. Né si può sperare dai parenti, perché in quanto a
sensibilità pare che non ne posseggano affatto. A questo punto io mi
chiedo: davvero in uno dei paesi più ricchi del mondo l’umanità ha
cosi poco valore?
-Ma perché pensarci all’ultimo momento?
-Perché finora c’e stato un continuo balletto di promesse subito
dopo smentite
-Senta, io posso risolvere il problema dei documenti in quanto
con la vecchia pratica ho il necessario occorrente e posso rinnovare
tutto d’ufficio. Rimane il fatto dell’accettazione, né qui o in
provincia, o nella regione, esistono reparti attrezzati per malati finali.
Io ci provo; ora stesso, lei presente, telefono al gerotrofio e che Dio ce
la mandi buona!
Detto fatto, la signora Fichera compose il numero all’apparecchio
telefonico, ebbe la linea, e cominciò ad esporre il caso, rispondendo ad
una sfilza di domande riguardo al ricovero, ai disturbi alla prostata,
all’autonomia fisica del cliente da accettare, alle dimissioni dal
nosocomio nel giorno in corso, etc. etc. Posata la cornetta rassicurò
Tonio che con grande apprensione pendeva dalle sue labbra -Ce
l’abbiamo fatta, speriamo che il medico, che tra l’altro è il titolare,
trovandoselo davanti si convinca positivamente. Ed ora le spiego le
condizioni. Innanzitutto le consegno questo modulo da restituire
compilato e firmato dal richiedente, non necessariamente oggi. Poi,
prima che me ne dimentichi, il signor Di Maria dovrà portarsi dietro
la biancheria occorrente per la persona e per il letto, coperte e
guanciale esclusi. L’aspetto finanziario glielo spiego praticamente,
tranne che lei voglia entrare nel dedalo della formazione del
contributo
-No, la prego, grazie, non sono affatto curioso
-La retta a carico nostro è poco meno di settecentomila lire
mensili che va integrata fino ad un milione dall’assistito, in più noi
ci riserviamo di essere rimborsati della metà di pensione percepita dal
signor Di Maria. Ma questo in un secondo tempo, per adesso non
preoccupiamocene. Da parte mia ho finito. Il signor Di Maria è atteso
al gerotrofio per la mattinata di oggi. Buona fortuna e tanti auguri
Tonio quasi non credeva agli eventi. Aveva appianato le difficoltà
burocratiche, quindi ringraziò e salutò la cortese assistente, avviandosi al
nosocomio con gran fretta per la soddisfazione di portare la positiva
notizia. In istrada, all’uscita d’un bar, incontrò il funzionario che
tornava dal far colazione. Gli fu richiesto l’esito.
-Abbiamo aggirato lo scoglio e forse siamo riusciti a procurare una
fine dignitosa ad un essere umano repulso
-Sì, però dica al signor Di Maria di finirla d’attaccar bottoni, perché
questa volta lo buttiamo fuori a calci nel sedere
Tonio allibì di fronte a tanto disprezzo, rispondendo con
automatismo per le rime -Per favore, si risparmi i calci nel sedere, che
tra l’altro non li meriterebbe nemmeno per lei, se alla spigolosità del
carattere volesse privilegiare l’autenticità di un animo retto. E che forse
lei è troppo preso dalle cerimonie del suo ufficio per riuscire a conservare
il gusto per una umanità semplice. E poi mi permetto di ricordarle che
dal momento che lei non sta regalando proprio nulla, eventualmente non
tocca a lei decidere
-Mi scusi, io volevo dire...- Fece per giustificarsi il burocrate
rimasto spiazzato.
-Lasci perdere. Almeno in certe occasioni la divisa da superuomo
la lasci appesa alla gruccia. Non è un avvenimento mondano in
discussione, ma la sorte di un moribondo. Si riguardi- Tonio lasciò il
funzionario impalato e riprese l’andatura di carriera con i nervi a fior
di pelle e un groppo di pianto alla gola.
Trovò l’amico in compagnia del fratello, della cognata, il ritratto
della compunzione, e del nipote più caro. La donna fu presentata a
Tonio che facendo finta di non accorgersi della mano da lei offerta per
essere stretta, si limitò a pronunciare accompagnando con un cenno del
capo la formale parola di cortesia. Stavano aspettando la cartella
clinica, Nuccio Ciancillo e il professore. Tonio si premurò a comunicare
che aveva sistemato le cose, e volgendosi all’interessato gli disse che gli
era stato accordato Aci S. Antonio.
Turazzu si mostrò profondamente deluso e pronunciò con voce fessa
-Aci S. Antonio?
L’arabo chiese quando si dovesse presentare.
-Oggi stesso, appena si va via da qui
-Veramente noi avevamo pensato di portarcelo a casa; almeno un
giorno si stava assieme
-Senta, il ferro si stira quand’è caldo, e poi non vi mancheranno
le occasioni, se ci tenete, potete andarlo a prendere quando vi pare,
non è mica un recluso- Concluse Tonio sconcertato di quella recita
d’ipocrisia e tornando all’amico, s’informò, prevedendo storie e
risentendosene dopo l’impresa condotta con la signora Fichera e
l’alterco con il burocrate -Perché, cosa c’è che non va ad Aci S.
Antonio?
-Eravamo rimasti per S. Venerina- Aggiunse a spiegazione
della delusione provata il dimissionato.
-Il Municipio non ha stipulato convenzione con S. Venerina.
L’unico posto verso il quale possiamo avere un contributo è Aci S.
Antonio. Diversamente torna tutto a tue spese
-E allora?- Domandò l’altro dando l’impressione di essere
orientato a non accettare.
-Allora, il discorso è semplice: prendere o lasciare. Io da parte mia
ho fatto quel che si potesse. Adesso tocca a te decidere, però sappi sin
d’ora che il sottoscritto non potrà aiutarti oltre
-S. Venerina sarebbe stata un’altra cosa
-Ma scusami, tu ci sei stato?
-No, ma mi hanno detto che li c’è un ampio giardino. Si ha modo
di svagarsi. C’è un bell’ambiente
Nel frattempo era arrivato Dario. Si dispose ad ascoltare assieme
agli altri, mentre Tonio si stava spazientendo -Senti Turi, a questo
punto la cosa comincia a sembrare un’imposizione, anzi peggio,
sembra che io invece di aiutarti, ti voglia truffare e un qualcosa me ne
venga in tasca
-No, non sarebbe giusto ed io non lo penso minimamente. Io
comprendo quello che stai facendo per me e ti ringrazio, però sapevo di
dover andare a S. Venerina
-Turi, io non so che cosa ti hanno potuto raccontare di S. Venerina,
so soltanto che il Comune non lo passa, inoltre non capisco le
difficoltà che hai ad andare a vedere ad Aci S. Antonio. Non è che ti
si conduca in un carcere ammanettato; dopo aver visto puoi sempre
rifiutare. Comunque io non ti posso obbligare
Ci fu una pausa d’imbarazzo. Il professore intervenne a rimediare
-Allora Turi, che facciamo, lo prendiamo un consiglio una tantum?
L’interpellato guardò l’amico con una espressione di sofferenza
mista ad una implorazione di aiuto e poi mutandola in rassegnazione si
decise ad accettare -Va bene, ci vado
L’arabo voleva dire qualche cosa, ma incontrato lo sguardo del
fratello non ci tentò nemmeno ed esibì invece un viscido sorriso di
compiacimento. La moglie continuò a restare impassibile testimone
come un blocco inanimato.
-Allora- Riprese Tonio -Mi devi firmare questo foglio. Per il resto
pensano a tutto loro- Intanto che lo zio firmava con tremula mano, Orazio
ricevuta da un infermiere la cartella clinica, la consegnò al professore,
chiedendo se si potessero preparare al trasferimento. Il professore la
esaminò, contrasse un istante la faccia, quindi riferì che c’erano dei
medicinali da farsi prescrivere dal medico. L’ammalato quasi
demotivato, ricordò che il suo medico ricevesse i giorni dispari di
mattina, e quindi, saltando quel giorno, se ne sarebbe parlato il
mercoledì. Tonio volendo evitare qualsiasi pretesto di ripensamento
propose al professore nel frattempo che gli altri si preparassero alla
partenza e visto che Nuccio Ciancillo tardasse ad arrivare, di fare un
salto loro due e andare a procurarsi le medicine prescritte. Con gli altri
si sarebbero ritrovati giù all’ingresso del nosocomio.
In istrada Tonio aggiornò l’amico degli ultimi avvenimenti:
ironicamente commentò lo slancio amoroso dell’arabo di volere almeno
per un giorno a casa il caro congiunto -Così lo avrebbero torturato per
conoscere l’ammontare dell’imminente eredità- Spiegò all’altro che ne
chiedeva il motivo.
-Miseria umana- Sospirò il professore disgustato.
Di ritorno trovarono la comitiva già disposta in macchina e
all’impiedi accanto lo sportello di guida Nuccio Ciancillo con un
amico. Appena furono raggiunti dai due, il politicante sentenziò
pomposamente -Turi, per me Aci S. Antonio non è posto che fa per te.
La persona ch’era insieme a lui subito controbatté -Ma che dici
Nuccio, io di recente ho avuto una zia ospite a S. Venerina e ci hanno
fatto vedere cose... Mille volte meglio, Aci S. Antonio
-Tu sta’ zitto- Gli ingiunse il chiacchierone. Poi ti spiegherò- E
salutando si allontanò tirandosi per un braccio chi tanto imprudentemente
lo aveva contraddetto.
Quando Tonio fu in macchina con il professore a seguito dell’altra
che faceva da battistrada verso la località da raggiungere non seppe
resistere a commentare la dichiarazione del Ciancillo -Hai sentito
Dario, quell’animale a sembianze d’uomo? In una circostanza simile e
dopo quanto si è sudato per convincere Turi, come può mettergli una
simile pulce nell’orecchio?
-Cose da pazzi!
-No, te lo dico io cos’è: il grande uomo politico si è sentito
scavalcare, perciò arriva con il suo porco comodo e se si fosse dovuto
cominciare ad avviare le cose aspettando lui, a quest’ora cosa avremmo
in mano?
-Lascia perdere è solo un fanfarone, lo conoscono tutti ormai
-In questo caso è risultato più mascalzone che fanfarone
-Pazienza!
-Piuttosto la cartella clinica ce l’ho io in tasca, e quando ce la
chiederanno, diciamo che è ancora da ritirare. E’ meglio essere prudenti
al massimo, perché se quelli leggessero ora la diagnosi ci farebbero fare
immediatamente dietrofront! Per il momento l’importante è che lo
accettino, appresso si vedrà. Non dimentichiamo di avvertire anche il
nipote perché non si tradisca.
Al gerotrofio la comitiva fu ricevuta dalla segretaria; quasi
subito arrivò il medico, un uomo di mezza età rubizzo e pasciuto. Ci
furono le presentazioni ed essendo la linda saletta poco spaziosa per
fare accomodare tutti, ad eccezione dell’infermo gli altri rimasero
all’impiedi. Il medico iniziò l’anamnesi del malato alla quale
rispondeva l’interessato con stridula voce. Appena passò allo stato
attuale di salute, prese il professore a rispondere per evitare che gli altri
ingarbugliassero la vicenda. Così i sospetti del medico riguardo il
fegato del paziente per via del colorito olivastro furono fugati, altre
curiosità soddisfatte e venne dichiarata solo un’ipertrofia prostatica già
operata. Alla richiesta della cartella clinica gli fu risposto che gli
sarebbe stata consegnata, appena ritirata. Con tutto ciò il medico anche
se assicurato dell’autonomia fisica del pensionante da accettare,
tentennava il capo in segno d’indecisione. Ad un tratto invitò Turi
a salire su una bilancia accostata ad una parete. Lo strumento segnalò
cinquantadue chili. Normalmente l'uomo ne aveva pesato sempre intorno a
settanta. II medico palesò un cenno d’insoddisfazione, poi volgendosi al
paziente chiese gli effetti personali: aveva deciso di accettarlo. La
segretaria si adoperò ad adempiere le formalità di rito, mentre gli
astanti tiravano un sospiro di sollievo, tranne la cognata che pareva
insensibile all’esito positivo del ritiro. Appena la segretaria ebbe finito
di prendere appunti, a Turi fu chiesto se avesse pranzato, e poiché era a
stomaco vuoto e a quell’ora la mensa del gerotrofio si stava popolando
di commensali, fu invitato a raggiungere anche lui la sala. Il disorientato
vecchio salutò gli amici dopo averli ringraziati e farsi promettere che li
avrebbe rivisti presto e accompagnato dal fratello e dalla torpida cognata
si accomiatò.
II medico direttore e titolare conducendo gli altri all’uscita li
informò che senza ombra di dubbio il malato soffrisse di un carcinoma
alla prostata. Chiarì anche che miracoli non se ne potessero fare, li
rassicurò che l’avrebbero curato e concluse -Fin quando tirerà, sarà
tanto di guadagnato- I tre, simulando, scossero il capo in segno di
spiacevole sorpresa e tranne Orazio che doveva aspettare i genitori, si
congedarono dal capo.
Tonio pregò il giovane di seguirlo in macchina perché aveva da
dargli qualcosa. Appena svoltarono l’angolo trasse di tasca la cartella
clinica e gliela consegnò, raccomandandogli di far passare del tempo
prima di esibirla al direttore. Era fatta. I due amici si guardarono in
segno d’intesa con soddisfazione per l’insperato risultato raggiunto in
mezza giornata di continue preoccupazioni.
La sera Tonio incontratosi con il professore riceve l’incredibile
notizia -Turazzu si trova alla “Santicella”- Infatti all’ospizio non aveva
voluto toccare nemmeno cibo, volendosene tornare con i suoi dopo che i
due amici si erano allontanati.
-Andiamo a vedere di cosa si tratta- Propose Tonio indispettito.
-Al momento è con il mio collega Castro. Saranno andati a
Zafferana
-In quelle condizioni? E’ una grossa responsabilità
-Che ti posso dire, quando si vuole strafare...
-Speriamo bene
-Sì, però da come stanno andando le cose è tempo di prendere le
distanze
-No, Dario, io non mi arrendo. Se non ci fosse stato il caso
umano di mezzo, per qualsiasi altro motivo l’avrei già mollato, ma
come sai si tratta di una vera e propria tragedia, e costi quel che co sti
non possiamo tirarci indietro. Bisogna cercare in tutti i modi di
alleviarla
-Sono d’accordo anch’io, pur se a volte la pazienza viene messa a
dura prova. Comunque propongo di andarlo a trovare domani mattina
Quando fu aperto ai due, l’arabo stendeva della biancheria da lui
stesso risciacquata ad asciugare nel cortiletto calato tra le due stanze
spaziose e buie e il buco comprendente gabinetto e lavandino. Il
fratello giaceva sconsolato su una poltrona e nella penombra del vano
il viso produceva un’impressione spettrale. Alla vista degli amici si
scosse e assunse una posizione più composta.
-Siamo di nuovo a casa- Esordì il professore.
-Mi dovete scusare, ma quello non era posto per me. Non per
disprezzare, però c’era gente che ti metteva addosso ancora più
malinconia, per non parlare delle stanze- Espresse a giustificazione del
precostituito disegno di fuga, prendendo a pretesto un’inidonea
compagnia, quella di gente peraltro più giovane e sana di lui, ed i
locali che non aveva nemmeno visitato.
-Invece che qui ti trovi meglio- Ironizzò Dario -Tanto meglio
che ieri sera, ritrovandoti solo mi hai tempestato di telefonate, oltre
quelle fatte a Nuccio Ciancillo
-Sì, non ho potuto rintracciarlo
-Si vede che non era in casa- Osservò Tonio con della cattiveria.
-Io ci debbo parlare. Voi me lo dovete cercare. Lo dovete mandare
qui. Dovete aiutarmi, io i soldi non li guardo
-I soldi non li guarda- Rimarcò l’arabo che finora aveva osservato
con occhi pieni di malizia, forse per il senso di colpa avvertito per aver
lasciato la notte il fratello solo, lui che dopo le dimissioni dal
nosocomio si era dispiaciuto di dover rinunciare alla gioia di accogliere il
congiunto in casa per un giorno.
-Turi, noi non possiamo fare più' niente, io te lo avevo anche detto,
qui i soldi non c’entrano...- Chiariva Tonio.
-Mi dovete mandare Nuccio Ciancillo- Implorava disperato
l’irriconoscibile vecchio come se parlasse del solo capace salvatore.
-Va bene, lo cerco io e te lo mando- Promise il professore
-Però sono curioso di sapere cosa potrà risolvere il Ciancillo
-Mi farà entrare a S. Venerina
-A S. Venerina- Sottolineò il fratello con leggerezza.
-Ti vuoi stare zitto una volta per sempre- Gli intimò Turi prima di
riprendere mentre il rimproverato farfugliava qualcosa d’incomprensibile
-I soldi non mi interessano
-Quand’è così, potevi dirlo prima, invece di firmare inutilmente
questo pezzo di carta- Gli rispose Tonio sventolandogli il documento che
aveva estratto dal portafoglio -E senza che ci avresti fatto fare un sacco
di inutili manovre
-Mi dovete scusare. Io vi sono grato e vi ringrazio, però mi dovete
aiutare. Dovete credermi non è per disprezzare, quelle persone così
taciturne e le stanze... io sono abituato...
II professore lo interruppe seccato -Per favore, Turi, tu non le hai
conosciute, non ci hai parlato, in quanto alle stanze non le hai nemmeno
viste, dal momento che sei quasi scappato appena ce ne siamo andati
noi, perciò cosa ne puoi sapere?
-Te lo giuro Dario, non era posto per me. Fammi parlare con Nuccio
Ciancillo. Io vado a S. Venerina, pago
-Sì, paga, non è un problema di soldi- Fece eco l’altro dopo aver
saltato per lo sconcerto a sentire le condizioni di esborso.
-Che ci si può fare contro l’ignoranza- Ripeteva Tonio all’amico
mentre erano diretti all’assessorato ad avvertire quanto meno ch’era
andata ogni cosa a monte, e aggiungeva -A parte la cattiva esperienza
con lo stesso personaggio che a promettere è un padreterno, come vedi la
pulce ha funzionato perfettamente. Mascalzone!
-Senti- Ribatteva il professore -Io ho deciso di desistere,
effettivamente con Turi era difficile trattare quando stava bene,
figuriamoci adesso. Guarda che io l’ho avuto ospite dove ho
insegnato l’ultimo paio d’anni. E’ troppo camurriusu.
-Camurriusu o no si deve sistemare, perché quando entrerà nel vero
calvario, e purtroppo sarà inevitabile, tranne che se ne vada prima, cosa
che io auspico con tutto il cuore, ma molto improbabile, perché come
lui stesso ama dire, a parte la prostata non ha mai avuto un
raffreddore, motivo di più per aspettarsi maggiori tormenti, specie
nella fase finale, durante la quale come lo si può lasciare abbandonato
peggio di un animale? Capisci Dario perché io non desisterò qualsiasi
grattacapo me ne possa derivare?
-Hai ragione, l’orgoglio in questi casi non conta nulla
Nei locali dell’assessorato, manco se avesse avuto l’appuntamento,
c’era il Ciancillo che stava parlando al telefono. I due se ne
rallegrarono dell’ottima coincidenza e appena si rese libero gli
spiegarono gli ultimi sviluppi della vicenda.
-Certo che ci vado- Espresse quello con un tono di
autocompiacimento e guardando Tonio compassionevolmente -Però
dovete dirmi dove abita
Il professore sospirô e con molta pazienza, per aver lasciato la
“Santicella” pochi minuti prima, si offerse di accompagnarlo.
-Per Turi questo ed altro, e senza perderci tempo- Dichiarò il
Ciancillo con spocchia.
Tonio che di simile brodo non aveva mai voluto berne, tirò fuori dal
portafoglio il modulo firmato, lo consegnò umilmente allo spaccone
dicendogli che potesse essergli utile, e lo pregò di riferire alla signora
Fichera.
L’intraprendente personaggio non venendo meno alla sua innata
spavalderia per la circostanza ancora più sfrenata per rifarsi del precedente
smacco subito proclamò -Penso a tutto io
Turazzu, pover’uomo, visse i giorni più brutti della sua esistenza. S.
Venerina, la terra promessa, gli venne interdetta causa il precario stato
di salute e malgrado i buoni uffici del profeta. I1 fratello si adattò, per
non scomodare l’imperturbata consorte, a preparare alla men peggio il
pranzo all’infermo, che sia per lo scarso appetito consentitogli dalla
malattia, sia per lo stato di crollo psicologico in cui versava, finiva per
respingerlo, preferendo alimentarsi esclusivamente con il latte. Di
conseguenza cresceva l’indebolimento fisico aggravato dall’insorgere
di una lucida agripnia tormentata da dolori alla schiena che le supposte
non riuscivano più a lenire. Giaceva sulla poltrona come un oggetto
buttato lì a caso, gli arti completamente abbandonati, la testa
arrovesciata da un lato, lo sguardo fisso nel nulla. Lo si sarebbe
creduto immerso nell’ipnosi, se ogni tanto non avesse ripreso
coscienza per formare un numero telefonico all’apparecchio tenuto
accosto su un tavolinetto logoro. Non trovava mai la persona cercata e
dopo aver raccomandato all’altro capo che fosse riferita la sua
richiesta di un abboccamento, riponeva la cornetta sconsolatamente
per riconsegnarsi all’interrotto, penoso straniamento della solitudine.
Mancò poco che la mente finisse per non reggere più, e per fortuna al
quarto giorno gli fu trovato un posto nel gerotrofio da poco funzionante
nella città. La retta mensile, un milione, era ad esclusivo carico del
pensionante, comunque il traffichino aveva promesso che dal Comune
gli avrebbe fatto accordare un unico contributo di un milione e mezzo.
L’ospizio offriva locali ampi, ben puliti ed ancora poche presenze.
Il nuovo arrivato accettò la sistemazione di buon grado e lo si colse
dai risultati ottenuti con l’inizio di una buona ripresa sia fisica che
psicologica.
Lo andava a trovare spesso il nipote più caro, anzi dei parenti era
l’unico ad interessarsi fattivamente alla grave situazione. Orazio aveva
la statura del padre, della madre la robustezza, originale pareva il
carattere improntato ad una bonaria sincerità. S’incontrava spesso
con il professore e Tonio e i tre si compiacevano reciprocamente della
ritrovata serenità dell’infermo accompagnata da un’apprezzabile
ripresa di vigore. Infatti Turazzu arrivò ad elogiare il posto, il personale,
il cibo, l’igiene, ad ammettere l’idoneità della soluzione alle sue
esigenze, facendo provocatoriamente il parallelo con Aci S. Antonio, a
incuriosirsi di nuovo agli eventi più eclatanti della quotidianità, a
muovere qualche passo con fiducia. Trepidante aspettava i giorni che
sapeva che andavano a trovarlo ed era lieto di chiacchierare, dare
disposizioni e a volte scherzare. Non mancava di chiedere notizie sul
contributo straordinario che tardava a concretizzarsi. Con Tonio
commentava il nuovo corso dell’URSS di Gorbaciov per continuare a
diffidarne e concludere che si avvicinava la fine del mondo. Soprattutto
la visita del Papa non riusciva a mandarla giù. E confessava -Vedi, io
credo in un Dio, ma non agli sciacalli che lo predicano- E come tutte le
altre volte quando aveva affrontato la questione aggiungeva -Non per
niente giro alla larga dalle loro tane per quanto belle l’abbiano fatte
costruire: è più facile che da astemio entri in un’osteria che da
credente in una chiesa- Poi passava a commentare gli avvenimenti di
casa comunista italiana e riferendosi al segretario s’indignava -Questo
avvoltoio cosa ha in mente di fare? Che ne sa lui del significato della
parola comunismo? Non ha messo ancora le penne e pretende
considerazione dai vecchi compagni, i veri compagni! Te lo dico io: il
mondo sta morendo- Sentenziava con la foga di chi si sente tradito.
La parentesi di relativa
tranquillità fu di breve durata ed a
scompaginarne l’equilibrio fu proprio il sentirsi meglio dell’infermo.
L’uomo abituato agli aromi della libertà, adesso assomigliava ad un
uccello con le ali tarpate. In quel luogo gli sembrava appartenere ad
un allevamento forzato che non accettava, ed era proprio quella specie
di addomesticamento che lo facesse andare su tutte le furie: il dipendere
completamente dagli altri, lui che era stato sempre autosufficiente,
cavandosela benissimo. Si chiedeva instancabilmente perché dovesse
rinunciare alla passeggiata con gli amici, alle lunghe, oziose, piacevoli
chiacchierate, agli spunti battaglieri contro politici, preti, beghine, ad
inebriarsi del respiro affannoso della città, e soprattutto a non dar
conto a chicchessia di alcunché. Cercò di far capire le proprie ragioni
dicendo agli amici che a parte un diffuso ma leggero infiacchimento,
superabile con una buona cura ricostituente, per il resto stava
benissimo, quindi avrebbe potuto cominciare a preparare il rientro alla
“Santicella”.
Il professore obiettava deciso –Quand’è cosi perché tanta fretta?
Aspetta di recuperare completamente
-Io sto già bene, solo un po’ di debilitamento dovuto alle
disavventure...
-Che torneranno per ripresentarsi
-Allora uscivo dall’ospedale, oggi è diverso, avverto di essere in
forma. Mi ristabilirò completamente
-Oggi in più c’è il problema del riscaldamento. L’umidità comincia a
produrre danno. Immagino in quegli stanzoni a casa tua quant’è
confortevole soggiornarci
-Mi adatterò come mi sono adattato sempre
-Quando avevi meno problemi e non c’era il dolore alla schiena.
Il discorso continuava a lungo senza un accordo soddisfacente. Il
ribelle capì che aveva da cambiar tattica, gli amici che mai si sarebbe
arreso. D’altronde il primo aveva l’entusiasmo, ma aveva pure le
perplessità. Certo la fede nella guarigione non era in discussione, pur
tuttavia restava insicuro come un naufrago alla vista d’una scialuppa
che non riuscisse ad agguantare e cercava invano una parola di conforto
che lo sostenesse e lo rinvigorisse, e poiché questo non arrivava dal
suo prossimo a lui affezionato, passò a comportamenti di rappresaglia.
Cominciò a lamentarsi di tutto: del personale, del vitto, della
negligenza ad essere curato. Non si dava pace del contributo che non
arrivava e Tonio, preso dalla curiosità, decise di andare a trovare la
signora Fichera.
L’assistente sociale a vederlo parve risentita e non ne fece mistero
confessandolo appena si arrivò ad una chiarificazione. Per il Di Maria
non c’era in sospeso nessun contributo, né se n’era mai parlato. II
Ciancillo non aveva consegnato neanche il modulo firmato. Inoltre
l’impiegato presente nella stanza spiegò che l’assessorato non avesse
alcuna convenzione prefissata con ospizi di sorta e non avesse
pregiudiziali sulla scelta fatta dall’utente in quanto contribuiva con
uguale somma per qualsiasi istituto. Dopo di che all’interrogante gli
fu consegnato un altro modulo da far firmare per aprire la pratica del
contributo con il gerotrofio ospitante l’assistito. L’autorizzazione non
era retroattiva e della somma versata per i due mesi trascorsi non si
poteva recuperare nulla.
Tonio usci dall’ufficio sconcertato di come la politica sfruttasse
per il suo fine di potere tutte le situazioni anche le più penose senza
riguardo per alcuno. Infatti Aci S. Antonio e S. Venerina essendo
affiliati il primo alla D.C. e il secondo al P.S.I. erano divenute
bandiere da difendere per i due scagnozzi delle due fazioni che si
erano conteso il cliente regolarmente con il coltello tra i denti. Per di
più il Ciancillo, per vendicarsi dell’affronto subito dal primo venuto,
in qualità di grande amico del bisognoso, a questi aveva fatto perdere
una somma considerevole, lasciandolo imprecare inutilmente
-Quell’imbroglione non si è fatto vivo una sola volta- Ammetteva
amaramente e chiedeva ai visitatori se lo avessero visto, raccontando in
aggiunta come ancora aspettasse l’importo del rimborso per spese
sanitarie sostenute, dal lontano giorno in cui lui mentre tornava dal
richiedere la somma anticipata, imbattutosi con lo sciacallo ed a
seguito dell’offrirsi di questi a rendersi utile, informatolo della
faccenda, fosse stato letteralmente scippato del mandato di pagamento,
con l’allettante scusa di avere risparmiata una superflua perdita di
tempo. Praticamente la vittima aveva rispettato una certa consuetudine
riguardo alla povera gente che anche se furba, rimane debole allo scintillio
della lusinga, e finisce spesso per ricadere nella rete.
Con una piccola pausa servita a cogliere l’impressione dei presenti,
poi l’indomito malato ricordò di non poter masticare e mise il nipote
in croce per farsi promettere di essere accompagnato dal dentista e
siccome non volle accondiscendere ad una protesi mobile, né
l’odontoiatra nella nuova condizione del cliente era disposto a rubargli
i soldi e a prendersi la responsabilità d’un lavoro contrario ad ogni
etica professionale, attraverso i più vari espedienti la vicenda fu tirata
per le lunghe.
Tali implacate tensioni servirono a condurre l’infermo sulla soglia
della disperazione e la malattia a progredire. Smagriva visibil mente.
Dal letto si alzava solo per i pasti, perché gli veniva ordinato. Aveva
accantonato la “Santicella” per mettersi in testa un’impresa ancora
più onerosa: voleva recarsi a Bologna per un controllo e quando
arrivavano gli amici, li supplicava tremante sia nella voce che nei gesti,
perché lo facessero uscire -Aiutatemi. Se non volete farmi morire,
fatemi uscire da qui- Arrivava a piangere -Qui è un inferno, voi non
potete immaginarlo. Se hai bisogno di qualcuno ti spunta secondo la
sua comodità, il mangiare fa schifo, non mi curano affatto. Mi stanno
facendo morire- Rimarcava tra i singhiozzi e assalito dal tremore
riprendeva -Lì, non immaginate che posto! Non avrei bisogno di
nessuno. Un ordine, una pulizia, un interessamento! Mi rimetteranno a
posto. lo non ho niente, solo la prostata e un po’ di debolezza. Qui mi
fanno morire- Concludeva sospirando. Era una pena starlo a sentire, e
lui contava proprio su tale sentimento per cercare di fare presa sugli
ascoltatori. Purtroppo non aveva ancora voluto capire, sebbene qualche
allusione alla lontana gli venisse di frequente lanciata, allusione ad una
convalescenza molto lunga. Era forse un inconscio rigetto totale
dell’evenienza d’una malattia inguaribile che gl’impediva di prenderne
atto, e se per qualche tempo fosse stato un bene saltare a piè pari la
gravità della propria crudele sorte così che ad esserne fiaccato fosse
stato solo il corpo mentre che con lo spirito gli fosse rimasta la forza di
combattere, ora, diventava pericoloso continuare a non sapere per le
tragiche incognite a cui potesse andare incontro e affrontarle da
impreparato. Però nessuno trovava il coraggio per parlarne ed anche
Tonio che per via dell’affetto nutrito verso il condannato, si
tormentava della sua pusillanimità, all’idea di provarci, sgomento deviava
-Devi cercare di non cadere nell’ossessione di questa idea. Per
affrontare un viaggio del genere ci vogliono delle forze che al
momento non ci sono
E il nipote rincarava -Tu lo sai zio, che per alzarti ti si deve aiutare
-Statti zitto- Lo rimproverava il derelitto -Mi faccio aiutare perché
non ne ho voglia
-Comunque sia- Ribatteva il giovane -Chiamiamo lo specialista più
in gamba che c’e e lo facciamo venire qui
-Non è la stessa cosa- Gli gridava l’altro, con il fiato che si
ritrovava.
-Turi- S’intrometteva ancora Tonio -II fatto è che hai perso
interesse per la qualsiasi cosa ed il pensiero è impegnato sempre nella
stessa direzione. Riprendi ad ascoltare la televisione, la radio, a leggere
il giornale, a seguire quello che sta avvenendo nel mondo
-Te l’ho detto, il mondo sta morendo, presto ci sarà la fine del
mondo. io ho deciso di pensare esclusivamente alla mia saluteRispondeva con sostenutezza, e se non fosse stato per la seconda parte,
la frase suonava di lugubre presentimento.
Era arrivata l’ora del pranzo, l’inserviente entrò nella stanza avvisando
che fra cinque minuti si serviva, dunque che si alzasse perché a letto
non glielo avrebbero portato.
II nipote tirò giù la coperta. Apparve una larva avvolta negli indumenti
di lana. Per non lasciare il disperato senza una speranza Tonio invitò
per il giorno dopo il giovane a casa sua per telefonare e prendere
appuntamento all’ospedale di Bologna.
II giovane arrivò puntuale. Tonio chiarì quel che avesse programmato
-Fino a una settimana fa potevo essere d’accordo che suo zio provasse
la sua presunzione completamente. Tanto, bene che fosse andata,
sarebbe arrivato alla stazione di partenza per convincersi di rinunciare,
ma oggi non sono più dello stesso avviso dopo lo spettacolo offerto ieri
per alzarsi dal letto. Purtroppo, ma per un verso è meglio cosi, Turi non
sopravvivrà a lungo. Noi intanto al punto in cui siamo, dobbiamo cercare
di continuare a saperlo illudere, per questo ho preferito che se ne parlasse
oggi e lontano da lui per non insospettirlo e per organizzare bene il
piano. Io ho pensato di riferire che abbiamo preso l’appuntamento per
una data da stabilire. Che so, facciamo il venti, prima di Natale? Ci
sono quasi tre settimane, e mi creda, da come è ridotto può anche non
arrivarci o tutt’al più in condizioni tali che la cosa cadrà da sé. In
ogni caso dovesse essere reclamato il viaggio nell’imminenza della
scadenza, con gli scioperi programmati in tutti i settori non sarà
difficile convincerlo a credere in uno spostamento dell’appuntamento
imposto dall’ospedale di Bologna. Che ne pensa?
-Sì, forse è la soluzione più giusta. Ci sono altre cose delle quali
volevo parlarne con lei. Noi non sappiamo se è proprietario di un loculo
-Chi, suo zio? Con quella indistruttibile fede che si ritrova verso
la vita? Non penso proprio. A me non ne ha mai parlato. Comunque
può informarsi all’ufficio competente. Certo a lui non si può chiedere
-Dio ce ne liberi. Vede, io cerco d’interessarmi come meglio
posso. Non si deve dire che mio zio sia stato abbandonato
-Però suo padre lo avrebbe potuto tenere in casa
-Mio padre ha già settant’anni. A quell’età come avrebbe potuto
accudire un malato che indossa i pannoloni? gli si debbono cambiare più
volte al giorno
-Suo zio peserà poco più di quaranta chili
-Sì, lo so. Se lo porterà a casa gli ultimi giorni
-Ah! Comunque ho qualcosa da ricordarle. Turi ha dei titoli in
banca. Non ne conosco l’ammontare, in ogni caso qualsiasi cifra
fosse, è stata raggiunta a stille di sangue, sarebbe proprio un furto
farsela assottigliare dallo Stato
-In banca ci siamo stati io, lo zio e mio padre, e ci hanno detto che
c’e intestato anche papà
-Suo padre avrà firmato, allora
-Che io sappia, no
-Senta, ascolti me, la chiarisca bene questa faccenda. Ripeto sarebbe
un furto bell’e buono
-Sì, m’informerò, grazie
-Un’ultima cosa ancora. Faccia pure un salto all’assessorato
all’assistenza sociale e veda cosa si può fare per il recupero dei soldi
già spesi per la retta. Anche quelli a confronto degli spaventosi
sprechi di denaro pubblico a cui assistiamo tutti i giorni, assumono le
modalità di un furto. Per il resto qualsiasi cosa occorra, sono qui a
disposizione. Ho intenzione di non andare a trovare più Turi, non
riesco ad affrontare ulteriori spolpamenti
-Capisco- Ammise Orazio gonfio nell’animo.
I due si salutarono con grande commozione, infondendosi e
augurandosi coraggio reciprocamente.
Mestamente Tonio aspettava la liberatoria, ferale notizia ed
invece arrivò dopo una settimana la chiamata per telefono del professore.
-Senti, bisogna far qualcosa, Turi è ormai al lumicino. La direzione
del gerotrofio protesta contro l’insensibilità dei parenti a non portarselo a
casa
-Orazio mi aveva assicurato che il padre, gli ultimi giorni,
avrebbe compiuto l’atto di carità
-Da come stanno le cose, fino adesso pare che non se ne danno
per intesi
-Allora cerchiamo di rintracciarlo questo branco appostato di iene
-Non possiamo andare a vedere di persona?
-Io avevo detto al nipote che non me la sentivo più di assistere ad
un cosi atroce supplizio
-Anch’io avrei voluto evitare
-E sia, passami a prendere a casa, per favore, e vediamo come la
possiamo aggiustare
II moribondo russava a bocca aperta e con gli occhi semichiusi;
saltuariamente si riusciva a capire qualche parola: invocava la madre,
il fratello, la cognata, i nipoti. Sebbene i due non producessero il
minimo rumore ad un tratto il delirante avvertì la presenza e si sforzò
a riprendere coscienza -Non mi alzo più- Farfugliò con la bocca secca
-Portatemi all’ospedale, voglio riprendere a camminare. Qui non
mangio... Fa schifo... Prendo il latte e basta... Mi hanno detto che mette in
forze quel liquido dolce, come si chiama?
-I1 miele?
-No, deriva dal miele, ed è un ottimo energetico
-La pappa reale?
Assentì con il capo, perché ormai s’era stancato ad emettere anche
quei suoni confusi.
-Se andiamo a comprarla, tu la prendi?
Smosse di nuovo il capo. Le smorte pupille si animarono debolmente
di desiderio, soddisfatto con delusione quando inghiottì la miscela dei
due flaconcini.
-Ha un brutto sapore
Nel frattempo arrivarono i parenti, portando anche loro una confezione
di pappa reale. Tonio trasse a parte il nipote per informarsi delle
intenzioni -Non vi pare che non ci sia da aspettare oltre per portarvelo
a casa?
Intanto si era avvicinato l’arabo ed aveva cominciato ad esibire
pretesti per temporeggiare. Tonio senza cerimonie lo invitò a stare
zitto. Orazio con imbarazzo riferì -Anche la direzione ce lo ha consigliato.
Vede, tutto cade sulle mie spalle. Domani debbo andare ad informarmi per
il loculo
-Il loculo- Ripeté il padre.
-Gli ho comprato il vestito per la bara- Riprese il giovane, tirando
Tonio per un braccio e fuggire il genitore -Mio padre non capisce
niente, cambia discorso, e le cose stanno ferme sempre allo stesso
punto. E’ un brutto vizio
-Sì, un viziaccio! Comunque signor Di Maria il tempo stringe,
siamo quasi giunti al capolinea
-Solo che lì, alla “Santicella”, debbono ancora pulire, ordinare, ci
vuole qualcuno che lo sorvegli, tutto io non posso fare
-Davvero mi vuol convincere che i pochi giorni che restano sono
gravosi al punto da non bastare un esercito di parenti?
-Ma chi, quali parenti, sono solo io!
-E va bene, anche per una sola persona, quali sono le difficoltà a
vigilare un essere ormai del tutto inerte? Se ha bisogno qualcosa, anche
per respirare... Si predisporrà ogni cosa con i consigli del medico
affinché il più umanamente possibile possa finalmente finire di dar
disturbo. Vede, in questa vicenda c’è stata una cattiva volontà
generale. Prima se lo sarebbe dovuto portare a casa suo padre. Poi è
venuta fuori la “Santicella”. All’ultimo momento non si trova il
tempo di preparare la stanza. Ognuno dei parenti ha qualcosa da fare
per rimandare. E perché secondo lei, se non per lavarsene le mani?
-Da parte mia, domani entrerò in ferie
-E domani pomeriggio al massimo, chiamate la Misericordia e
toglietelo da qui. Che almeno in assenza di braccia abbia a chiudere gli
occhi tra care mura!
-Domani pomeriggio sarà alla “Santicella”. Promesso
Rientrati nella stanza dell’infermo, attorno al letto, per il
sopraggiungere di altri visitatori, s’era creata un po’ di confusione. Si
rievocavano gli eventi vissuti insieme al Turazzu sano, che ora
malgrado privo di energie non disdegnava approvare con abbozzi di
sorrisi spenti, e la gioiosa chiacchierata sapeva tanto di congedo.
Tonio si avvicinò al capezzale dell’amico per comunicargli quanto avesse
concordato.
-Mi dovete ricondurre all’ospedale, lì mi faranno camminare di
nuovo- Sussurrò il gracilissimo vecchio in un rauco soffio.
-Per adesso meglio a casa. Non ti preoccupare, ci sarà sempre
qualcuno accanto a te. Non sarai abbandonato
Tutti ebbero una parola di conforto. La cognata s’impegnò a
preparargli i pasti ed alle proteste di rinuncia del parente per non
disturbarla, fece scorrere qualche lacrima, contravvenendo
artificiosamente alla naturale imperturbabilità e completo disinteresse
affettivo.
L’indomani pomeriggio Tonio telefonò alla ”Santicella”: nessuna
risposta dall’altro capo. Allora chiamò alla casa di riposo: il moribondo
non aveva ancora traslocato e giaceva senza conforto, sebbene anche
loro dai parenti avessero avuto comunicato che in giornata l’avrebbero
portato via.
Il mattino del giorno dopo Tonio si recò alla “Santicella”: tutto
chiuso. Telefonò a casa dell’arabo inutilmente. Aspettò il pomeriggio
per riuscire a rintracciarlo ed apprendere che il congiunto, detto con
somma tranquillità, al solito si trovasse al gerotrofio. Tonio quasi
infuriato chiamò alla casa del nipote dalla promessa tradita. Trovò la
moglie, la quale giustificò il non avvenuto trasferimento per impegni
del marito in altre faccende.
Lo zelante amico si mise in cerca del professore, e rintracciatolo si
sfogarono insieme a lanciare i più pesanti improperi all’indirizzo di
familiari tanto snaturati.
Dario ripeteva -Ed ora che si può fare?
-Purtroppo niente- Rispose sovrappensiero l’altro -Non ci resta
che attendere. Noi non possiamo prendere le spoglie di quei bastardi.
Turi vuol vedersi circondato da loro. Né in questi terribili momenti
possiamo svelargli a che punto è giunta l’indifferenza di quei cani nei
suoi confronti. Ora più che mai lui deve continuare a credere d’essere
amato come vorrebbe. Ha già dovuto inghiottire troppi bocconi
amari, e se il più amaro riesce a compiacerlo, non saremo certo noi a
guastarglielo
Dopo una settimana, il professore e Tonio lo trovarono in
dormiveglia con l’ago della fleboclisi all’avambraccio. Rasato di
fresco, i baffi alla circassa sembravano un grosso cornicione
all’ingresso d’una profonda galleria costituita dalla bocca aperta per
respirare. Appena percepì la presenza delle sagome dei visitatori ebbe
un sussulto e a fatica spiccicò le palpebre pesanti per verificare con
sguardo appannato l’impressione ricevuta. In segno di buona
accoglienza emise un suono rauco ed inarticolato. Poi si sforzò a farsi
comprendere per chiedere di suo nipote Orazio. Da sotto la coperta
spuntarono le ossa d’una mano: le lunghe ed esili dita erano diventate
innocui artigli. Dal polso, velati di sottilissima e brunita epidermide, il
radio e l’ulna si partivano scarnificati -Stiamo preparando il viaggio per
Bologna- Pronunciò fiocamente, ma con un guizzo di gioia nella voce
e nelle pupille. Entrò un inserviente, si avvicinò al letto a chiedere
all’infermo se avesse bisogno di qualcosa. II vecchio ebbe un
repentino cambiamento, sfoderò un imprevedibile vigore dalle segrete
riserve per indurre l’ausiliario a cambiargli il pannolone. Quello gli
fece una carezza in viso e lo rassicurò -Più tardi, adesso non è il momento
-Al solito avrò un bell’attendere
L’uomo in camice gli carezzò ancora la grigia mandibola e
accingendosi a lasciarlo aggiunse -Dopo la flebo.
Turi minacciò l’inserviente mentre si allontanava, poi si fece tenero
nell’espressione e rivolgendosi agli amici confessò -Mi vogliono tutti
bene. E’ stato lui a rasarmi, ma io so disobbligarmi, qualche
banconota gliela faccio scivolare nella tasca del camice
Frattanto giunse uno dei parecchi nipoti. Reggeva un sacchetto di
carta con dentro un uovo, a suo dire fresco fresco, e un grappolo di
uva. La flebo stava per finire; alla chiamata col campanello si presentò
una giovane tutto fare, un tipo molto simpatica per la naturale
spigliatezza. Al malato gli dava del tu e questi lo gradiva moltissimo. Al
solito, Turi con gesti severi indicò il servizio da compiere. La ragazza,
prendendoli per la punta, iniziò ad agitare i piedi al paziente fino a che
questi non smise il simulato cipiglio, sorridendole. Solo allora
l’improntata infermiera estrasse l’ago dalla vena, la coprì col solito
batuffolo di cotone inzuppato d’alcool e per farglielo trattenere gli
piegò normalmente il braccio, ma l’infermo ebbe un gemito di dolore.
La ragazza alla vista dell’involucro di carta sopra il comodino
chiese cosa contenesse ed alla risposta ottenuta, molto educatamente
rimproverò il donatore -Per favore non portate cibo. Lui è un cliente
speciale ed all’alimentazione dobbiamo pensarci noi. L’uovo non
sempre può prenderlo. L’hai preso ieri, vero?- Si rivolse al malato che
la guardava torvo senza darle risposta -Allora- Riprese lei -Questo
lo prenderai domani
Turi con la mano le ingiungeva di avvicinarsi a lui e la ragazza
senza muoversi chiedeva -Vuoi la carezza... Un bacio... Mi corico con
te?... Non può essere- Alzò la mano sinistra a mostrargli la vera,
promettendogli -Per Natale ti presenterò mio marito- E uscì allegra
com’era venuta.
-Brava figliola. Mi vogliono tutti bene- Rimarcò Turi divertito e
con la parlata sdentata divenuta più comprensibile pregò gli amici di
restare fino a che giungesse Orazio e partecipasse loro il programma
per Bologna.
Tonio con un pretesto invece chiuse la visita e dopo averlo baciato
per porgergli gli auguri delle festività di fine anno lo salutò. Così pure
fece Dario. In macchina Tonio espresse con occhi rossi all’amico il
proposito di evitare ulteriori visite -E’ troppo a terra
-L’altro giorno l’assorbente era sporco di sangue
-Se non fosse stato per questo disgraziato incidente, sarebbe
campato cent’anni. Hai visto ancora quanta fede ha nella vita?
-Meglio così, d’altronde
-Il suo sospirato viaggio a Bologna
-Gran bella scusa, comoda al nipote per lasciarlo consumare
all’ospizio. Non avranno trovato l’accordo sulla futura spartizione
-Certamente. Sta lì il senso del continuo far pesare «debbo pensare a
tutto io»
-Anche lui come gli altri
-Ed io lo avrei dovuto aspettare per vedermelo ancora tra i piedi.
Guai a chi di loro si farà avanti dopo la dipartita. E lo stesso saluto deve
finire
-Miserabili esseri!
Era entrato il nuovo anno e malgrado il sofferto proponimento di
esimersi da altre visite all’amico, Tonio di fronte alla negligenza di
parenti snaturati, facendosi forza si accordò con Dario di andare a
controllare insieme. Pioveva e tirava vento: era una serata proibitiva.
Turi al solito riposava con la bocca spalancata. Appena fu accesa la
luce della stanza ebbe un po’ di travaglio ad orientarsi dopo avere
spiccicato le palpebre. Dal soffio emesso dalla bocca la voce stentava
ad articolarsi. Era molto contento di rivedere gli amici: lo provò un
sorriso di sofferenza. Però subito si fece supplichevole -Fatemi
uscire da qui. Aiutatemi- Pronunciò con parole smozzicate -Portatemi
alla “Santicella”
-Con la tempesta che c’e fuori?- Chiese affranto il professore
-Tu non immagini nemmeno, cosa c’è fuori. Qui almeno la stanza è
riscaldata. Alla “Santicella” in questo momento si congelerebbeAggiunse desolato Dario.
-Allora mandatemi la signora Fichera. Lei preparerà il viaggio a
Bologna- Espresse ansimante.
-Ma come ci dovrai arrivare a Bologna?- S’informò Tonio,
sbalordito della fissazione dura a svanire.
-In treno, in cuccetta
-Però lo vedi che non ti puoi muovere
-Allora in autoambulanza
-Ci vorrà l’elicottero per una tale distanza. Sii paziente ancora un
poco- Lo pregò con strazio l’amico.
-Da un momento all’altro dovrebbe venire Orazio. Mi deve
portare dal dentista
-Giusto oggi, con un tempo simile- Commentò il professore.
Turi comprese le preoccupazioni dei visitatori, si sforzò a sorridere e
cambiò discorso -Berrei qualcosa di fresco
-I1 solito frullato?- Domandò Tonio.
L’altro assentì con il capo aggiungendo -Con le ciliegie
-A gennaio, le ciliegie dove le trovo? Sarà al solito a base di pere,
mele, banane, latte e un’aggiunta di gelato di fragola. Turi abbassò
di nuovo il capo contento.
-Ci assentiamo un quarto d’ora- Avvisarono i due prima di
allontanarsi.
Sull’ascensore commentarono lo stato di confusione mentale in cui
versasse l’infermo, fatta salva la fissazione per il viaggio a Bologna.
A Tonio sceso dalla macchina, nel breve tratto per raggiungere il
bar, la spoglia dell’ombrello, risucchiata dal vento sferzante, gli si
trasformò in imbuto. Sotto le intemperie, automaticamente gli venne
di pensare al trasferimento dell’ammalato dal dentista, alla “Santicella” o
peggio ancora a Bologna. Provò quasi sollievo delle avversità
meteorologiche utili a far rassegnare l’amico ad aspettare, anche se ai
suoi parenti avessero offerto un ottimo alibi a trascurarlo.
Ora, mentre Tonio scartava l’involucro, Turi raccontava al
professore di essersi alzato la scorsa notte, di aver fatto pochi passi e di
essersi rimesso a letto per non forzare troppo, concludendo che quella
fosse la prova delle sue riserve di vigore. Se non bluffava, l’aveva
sognato, perché al momento di essere sospinto delicatamente sui
cuscini per suggere la bevanda, si lamentò per un dolore al costato,
chiarendo senza ombra di dubbio che la breve passeggiata notturna non
fosse altro che un parto di fantasia.
I due si accomiatarono promettendo dietro le insistenti
implorazioni di aiuto da parte dell’amico, ormai con la mente vacillante,
che si sarebbero prodigati a farlo uscire dall’ospizio, distrutti in cuor
loro dal sentimento di totale impotenza.
Purtroppo l’unico, grande, ultimo desiderio del condannato dalla
spietata malattia non poté avere esecuzione per la netta chiusura alla
sua umana aspirazione da parte di parenti sordi, impazienti solo della
liberazione dell’eredità sospesa.
Un pomeriggio grigio e uggioso, nella stanza, alla luce d’un
crepuscolo disperante che illividiva le suppellettili, immerso nella più
completa solitudine, stremato, il vecchio più volte premette il
pulsante del campanello. Dopo un po’ la gaia infermiera che gli dava
il tu, gli si presentò, canterellando. Turi la guardava come invaghito.
-Che c’e, amore mio?- Gli chiese la ragazza con la solita verve.
Il vecchio emise deboli sbuffi incomprensibili. La ragazza avvicinò
l’orecchio alla bocca del malato ed incerta ripeté la parola che credeva
di aver percepito -Vuoi una pesca?
Quello fece segno che la giovane avesse azzeccato.
-Te la vado a prendere in Brasile. Torno subito- Ma quando fu di
ritorno portando su di un piattino mezza pesca sciroppata trovò il
vecchio con la testa riversa da un lato. Protestò con voce squillante
-Ci hai ripensato? Ti prendi gioco di me? Guarda, che la riporto
indietro- Minacciava mentre gli si avvicinava, finché non capì e
scoppiò a piangere.
La fine del mondo era sopraggiunta! Quell’uomo rude, sfrontato,
scontroso, fintamente autoritario se n’era andato timidamente, alla
chetichella, senza un gemito od un rincrescimento, consegnandosi al
sonno definitivo come al ristoro preparatore del viaggio verso il quale
mai gli si fosse assottigliata la brama. La fiducia nella guarigione gli
aveva raddoppiata la durata della crudele convalescenza pronosticata
dai medici. Per quanto fosse un uomo navigato e molto avesse dovuto
soffrire per via delle innumerevoli infamie di cui i tempi correnti sono
prodighi dispensatori, nel profondo dell’animo era rimasto un
incorreggibile ingenuo specie verso i parenti che di sentimenti
conoscevano solo quelli occorrenti per le compere al mercato.
La camera ardente era stata approntata in uno stretto locale del
gerotrofio. Il morto indossava il vestito nuovo comprato dal nipote e
sembrava lieto della festa che presto si sarebbe consumata a sue
spese. Forse l’unico moto di riprovazione lo ebbe dentro la bara al
momento di essere caricato sull’auto del trasporto funebre il primo
pomeriggio del giorno dopo il decesso, mentre stava per essere
condotto in chiesa. Il feretro vacillò un poco ed il nipote nel cercare di
ristabilire l’equilibrio della cassa, urtando uno degli spigoli si procurò
uno strappo alla manica del giaccone in pelle.
Il giovane ingiunse alla moglie, appena la vide arrivare in chiesa
con altri congiunti, di farsi riaccompagnare a casa in macchina da uno
dei cognati e portargli una giacca da sostituire a quella indossata con
lo strappo alla manica in modo da poter presenziare alla cerimonia con
tutto il rispetto dovuto verso il pregiato defunto. La consorte già in
uggia per l’incomodo di presenziare acconsentì di malavoglia dopo
aver fatto rilevare al marito che di fronte alla scarsità di presenze
avesse poco da sfigurare.
Tonio aspettava sulla via con l’ombrello aperto al riparo d’una
pioggia sottile e stanca per rendere l’ultimo saluto all’irriducibile
“cornpagno”. Osservava la solerzia dei parenti impiegata per l’unica
cosa che la volontà del trapassato non avrebbe acconsentito, e mentre
bara in spalla i nipoti varcavano il suolo inviso all’impotente ospite gli
parve udire un accorato appello di questi a girare al largo dalle tane
degli sciacalli. Per l’impossibilità di impedire l’arbitraria decisione,
costernato l’amico si strinse nelle spalle e si allontanò con le lacrime
agli occhi, mentre il rito ecclesiastico con la violenza della sua
funzione iniziava ad accanirsi sulla condizione di una libera coscienza.
INDICE
Prefazione
……….
G.C.B. 90-58-90 ………
Cabbala
……..
Sia fatta la volontà ………
I topi
……
Sorte d’una scissione adonestata ……...
Il Presidente della Regione ……
In quel primo tratto di via Rodomonte ……..
Staiu murennu, staiu murennu!
……...
Zia Tecla
……..
…la fine del mondo…
…….
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