Domenica il reportage Gli archeo-enologi e la vigna di Noè La di DOMENICA 1 APRILE 2007 PAOLO RUMIZ la memoria Repubblica Borsalino, tanto di cappello GIANNI CLERICI e LAURA LAURENZI Totò segreto DISEGNO DI FEDERICO FELLINI A quarant’anni dalla morte del più grande comico italiano del Novecento, canzoni, lettere, poesie, appunti inediti spuntano dai cassetti e dai ricordi di casa De Curtis MARIA PIA FUSCO T i luoghi PAOLO D’AGOSTINI ROMA otò irridente Pulcinella, Totò severo gendarme, Totò pallido fantasma, Totò beffardo in frac e bombetta. Sono solo alcune delle preziose statuine in legno, con le braccia snodate, allineate sugli scaffali della libreria che corre lungo le pareti del salone di casa De Curtis. Più piccolo, in cristallo colorato, Totò cardinale, uno degli otto esilaranti personaggi di Totò diabolicus. Poi le testine, un numero incalcolabile di espressioni diverse, con sotto semplicemente la scritta «Totò». A coprire gli spazi, oltre a una statuina del “suo” sant’Antonio, decine di fotografie di diverse età, dal bambino con lo sguardo smarrito all’elegante principe della risata. Sono oggetti del passato ma anche recentissimi, anzi la produzione si è intensificata in occasione dei quarant’anni dalla morte. Ma ciò che più attira l’attenzione è il grande ovale appeso alla parete centrale, su cui è dipinto lo stemma di famiglia — De Curtis di Bisanzio, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna eccetera —, una colonna sormontata dall’araba fenice protetta da un leone. «Mio nonno era principe imperiale, tra gli antenati c’era l’imperatrice Teodora. E mia madre ha gli stessi titoli del nonno in quanto porfirogenita. Significa che puoi lasciare i titoli anche alle figlie. Sembra strano che mio fratello Antonio ed io abbiamo il cognome De Curtis, ma avendo solo una figlia femmina, mio nonno fece fare all’epoca un decreto presidenziale ad hoc, affinché il nome potesse continuare», spiega la nipote Diana. (segue nelle pagine successive) I ROMA l maltrattamento della lingua italiana («Parli come badi», «la pietra emiliana»), per non dire delle altre lingue («Noio volevàm savuàr l’indirìs»). La satira politica («e poi dice che uno si butta a sinistra») e in particolare la presa in giro della sinistra («Perbacco: la terra ai contadini, le ferrovie ai ferrovieri, i cimiteri ai morti»). L’una cosa abbinata all’altra quando si tratta del temuto e odiato invasore germanico: «Bitte!», ordina perentorio il tenente Kessler; «grazie, un bitter lo prendo volentieri», risponde Totò. La beffa antiautoritaria («Onorevole lei? Ma mi faccia il piacere»). Il nonsense lessicale («Imputato, che cosa ha da dire a sua discolpa?». «Alcune quisquilie e qualche pinzillacchera»). L’allusione sessuale («Lei con quegli occhi mi spoglia: spogliatoio!»), di tutti i tipi compresa quella omo: «Guavda che ti movdo», minacciato nel mezzo di una viziosa festa caprese. Vilmente gradasso coi deboli («Faccio un macello, spacco tutto, faccio un’ecatombe») e furbamente ossequioso coi potenti («Portiere si nasce!»), salvo trovare il modo di fregarli. L’esercizio vessatorio è di particolare soddisfazione se avviene a scapito delle tante “spalle” di lusso che da lui si facevano fare tutto: «Il mio nome è Beppa e sono signorina», enuncia cavernosa Tina Pica; «Lo credo bene», replica Totò capostazione in Destinazione Piovarolo. Invariabilmente pronto a esorcizzare la morte («Se ne vanno sempre i migliori: oggi è toccato a lui, domani toccherà a te...». Battuta presente tanto in La banda degli onesti che in I soliti ignoti). (segue nelle pagine successive) Il palazzo dei Gattopardi di Palermo STEFANO MALATESTA cultura Gozzano, postmoderno cent’anni fa PAOLO MAURI e FEDERICO RAMPINI la lettura Ritorno a Fès, la città delle città TAHAR BEN JELLOUN l’incontro Placido Domingo il “tenorissimo” LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 la copertina Memorie segrete “Nessuno mi ricorderà”, dichiarò il grande attore in un’intervista rilasciata poco prima di morire, il 15 aprile 1967. Quarant’anni dopo, il suo mito è invece più vivo che mai. Mentre si preparano una mostra e altre celebrazioni, la nipote Diana ci ha aperto la sua casa per mostrarci le carte inedite di un uomo “che non buttava mai nulla” Nei cassetti di Totò MARIA PIA FUSCO (segue dalla copertina) l tono è divertito. «Lo so che oggi certe cose sembrano stupidaggini, ma contano nel rispetto della memoria. Lui ci teneva molto al titolo. E nella vita si è comportato da principe, se l’è meritato». È lei, Diana De Curtis, che conserva e protegge la memoria del nonno, un compito in cui da sei anni sostituisce la madre Liliana. Malgrado la presenza di tante memorie, la luce che entra dalla grande terrazza sul verde cancella ogni ombra di malinconia del passato. «Viviamo tutti qui, mia madre, io, mio marito. E c’è anche lui, mio nonno, fa parte della casa, della nostra vita, per noi è vivo. Per me è naturale occuparmi di lui, è naturale parlarci, sentirlo vicino. Lavorarci è bello, perché la curiosità è grandissima, c’è sempre qualcuno, in Italia, ma anche negli Stati Uniti, in Francia, in Turchia, ovunque, che ci chiede di lui e allora, attraverso i libri e le mostre, cerchiamo di raccontare l’uomo proprio com’era». Chiudo in fallimento, nessuno mi ricorderà, disse Totò intervistato pochi giorni prima di morire, il 15 aprile 1967. Invece, quarant’anni dopo, è più vivo che mai nell’immaginario collettivo, se, come racconta Diana, «nella tomba di famiglia al Pianto, il cimitero di Napoli, la gente porta poesie e preghiere, gli chiedono favori, gli presentano la fidanzata, i bambini gli lasciano mezza gomma americana. La magia di Totò è proprio questa, nessuno pensa a lui come a un morto, e non è l’attore a cui pensano, ma una persona di famiglia, un nonno, un padre, un marito, un amico, un fratello». Diana De Curtis aveva dodici anni quando Totò è morto e nella sua memoria personale, più che l’attore, c’è Antonio, il nonno. «Sono stata abbastanza fortunata, i miei genitori si sono separati che ero ragazzina, in modo civilissimo, senza traumi, e poiché mio padre faceva il produttore ed era sempre in giro, nonno si prese la responsabilità dei due bambini. Si è occupato di noi e, pur facendo dieci film l’anno, trovava il tempo di accompagnarci alle feste, di interessarsi della scuola. Senza parlare dei regali che ci portava da fuori: quando tornava e apriva la valigia era sempre una festa. Mio fratello da piccolino aveva una delle prime Ferrari elettriche». E ricorda i riti: «Quando entrava, io e mio fratello dovevamo prendergli l’uno il cappotto l’altra il cappello e il saluto era un bacio in fronte. Era il massimo. Non c’erano abbracci o pacche o grandi gesti, non ci toccava. La balia tedesca che avevamo, anche lei attenta ai microbi, solo a lui permetteva di venire nelle nostre stanze: “Solo il principe sa trattare i bambini”, diceva». C’è un’unica cosa fastidiosa nel ricordo: «L’obbligo di portare sempre il cappello e di fare l’inchino ai grandi. Allora non lo sopportavo, poi mi sono resa conto che ritrovarsi una buona educazione è sempre utile. Ma non ho mai avvertito la mancanza di un’affettuosità I più esplicita, più fisica, perché nel suo sguardo, nel metterti una mano sulla testa c’era tutto. Mia madre ed io la sentiamo ancora quella mano sulla testa, sappiamo che c’è. Mia madre oggi ogni tanto ci litiga, quando qualcosa le va storto se la prende con lui, gli gira il quadro. “Ti metto in punizione, non ti accendo il cero”, gli dice». La madre, Liliana De Curtis, critica un po’ la dedizione di Diana al nonno. «Mi dice che sono pazza da ricovero: ogni volta che si avvicina o sono al computer e c’è un’immagine di Totò, o scorro gli incartamenti ed è sempre Totò. Ma per me è una scoperta continua. Come attore l’ho scoperto da adulta, come persona lo scopro ogni giorno, leggendo i suoi appunti, le poesie, gli scritti, le lettere. Se non fosse così mi annoierei e smetterei». Parlando con Diana, scorrendo con lei le centinaia di carte — lettere, poesie, appunti, canzoni, pagine di sceneggiatura, biglietti di treno, ricevute, certificati, una quantità enorme di documen- tazione araldica, la riproduzione del conio per le monete, fotocopie di locandine, annunci di ogni tipo — la grande sorpresa è la disparità tra Totò, il grandioso giullare dello schermo («inimitabile, ma se c’è un erede è Benigni, ha la stessa purezza della poesia del comico, il rapporto diretto con il pubblico, l’improvvisazione»), e Antonio De Curtis privato. «Ci sono sprazzi di follia nel suo carattere. L’eleganza della sua generosità, quando si faceva accompagnare dal- l’autista di notte a Napoli e metteva buste con i soldi sotto le porte dei bassi, o dava soldi a mia madre quando entrava in ascensore per non darle il tempo di ringraziare. È folle la meticolosità con cui teneva tutto e in quantità incredibile, i certificati di nascita in cinquanta fotocopie. Conservava tutto in modo maniacale. La cosa più incredibile è come abbia fatto a preservare il servizio da toilette d’argento e d’oro, con due bottiglie per il profumo, che gli aveva regalato Liliana Castagnola con le sue iniziali Le “pinzillacchere” di un genio comico PAOLO D’AGOSTINI (segue dalla copertina) e ostentazioni di ignoranza travestite dai modi affettati di chi la sa lunga («Adesso che siamo a Milano vogliamo andare a vedere questo Colosseo?»). L’onnipresente parodia («Tu bbona, io Tarzan») di tutto, compresa l’attualità. Ne è un concentrato Totò truffa ‘62, dove Totò non si priva di un travestimento da Fidel Castro e di uno da Kasavubu, ad avvenimenti cubani e congolesi freschi freschi. Sono le battute, alcune celeberrime e ripetute allo sfinimento dalle generazioni che da poco dopo la sua morte hanno rilanciato e mantenuto sempre alto e popoloso il suo seguito: molte che rimbalzano da un film all’altro ma in realtà provengono spesso dai palcoscenici di avanspettacolo e di rivista. Sono le battute la bussola per orientarsi nel superaffollato percorso cinematografico di Totò. Quelle che ogni spettatore attende con trepidazione per abbandonarsi, quando arriva il momento, all’apoteosi. «Ho carta bianca!», sbraita sempre più arrogante l’ufficiale tedesco occupante, fino a che — con gioia palese non solo nostra ma anche degli attori, a partire da Nino Taranto, che circondano Totò modesto ufficiale italiano nell’emergenza dell’8 settembre in I due colonnelli— esplode quel salvifico e liberatorio: «E ci si pulisca il culo!». Anche se probabilmente l’eventuale primo premio lo vincerebbe il dialogo del wagon lit tra il maestro Antonio Scannagatti e l’onorevole Trombetta, culminante nel fatidico «In galeeera, ti mando!». In Totò a colori, manco a dirlo. Tra la breve fase iniziale anteguerra e quella finale dei “registoni” come Pasolini, lodatissime dallo spettatore critico e colto, c’è l’oceano dei film, filmetti e anche filmacci annegati nell’indifferenza o nel disprezzo (non del popolo spettatore) e girati a raffica, in certi anni come il ‘50 o il ‘54 anche sette all’anno, che sono a dire la verità quelli immortali. Il ciclo vero e pieno del Totò da grande schermo inizia con il 1947 di I due orfanelli: «Chi dice che i soldi non fanno la felicità, oltre a essere antipatico, è pure fesso». Filosofia confermata di lì a pochissimo: «Si dice che l’appetito vien mangiando, ma in realtà viene a stare digiuni» (Totò al Giro d’Italia). Altre piccole perle di morale o di saggezza si aggiungono in Totò le Mokò(«Io sono integro e puro, sia di corpo che di spirito, non ho commesso peccati né di carne né di pesce») e in L’imperatore di Capri(«Sono un uomo di mondo: ho fatto tre anni di militare a Cuneo»). Sono questi, tra il finire degli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta, gli anni veramente trionfali. Quando, peraltro, Totò è ancora attivissimo anche in teatro. Stagione che tocca il suo apice in Totò Peppino e la malafemmina — l’altra palma d’oro, accanto a Totò a colori, alle battute indimenticabili — dove i fratelli Caponi, scarpe grosse e cervello fino, raggiungono Milano in pelliccia e colbacco per strappare il nipote studente Teddy Reno al gorgo della perdizione in cui lo sta trascinando l’attricetta Dorian Gray. Alla quale scrivono (Peppino scrive, Totò detta): «Signorina, veniamo noi con questa mia a dirvi — addirvi, tutta una parola... Punto, e un punto e virgola. Perché non si dica che siamo provinciali». L Repubblica Nazionale DOMENICA 1 APRILE 2007 stampate e una ciocca dei suoi capelli. La Castagnola era una soubrette bellissima, per lei si erano sfidati a duello nobili di tutta Europa. Lei si innamorò di Totò e per lui si suicidò negli anni Trenta. Conservare questo per tutta la vita mostra un animo tenero, romantico. Mia madre si chiama Liliana in memoria della Castagnola, che del resto riposa nella nostra tomba di famiglia. Nonno non buttava niente, neanche nei sentimenti». Il servizio da toilette, ciocca compre- IMMAGINI A sinistra, il ritratto di Totò disegnato da Pier Paolo Pasolini e una foto con dedica dell’attore con la moglie Diana e Aldo Fabrizi a Parigi nel 1949 Tutte le immagini di queste pagine sono state gentilmente concesse dalla famiglia De Curtis LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 LETTERE E FUMETTI In copertina, a destra e in alto, Totò in tre disegni di Fellini Sopra, copertine e pagine di Totò a fumetti, rari albi di cui l’attore curava la story-board In basso, due pagine di una lettera alla moglie Diana e l’originale firmato della poesia Statuina a Francesca sa, sarà esposto nella mostra che il 13 aprile verrà inaugurata a Roma a Palazzo Venezia. È solo una delle iniziative importanti che celebreranno i quarant’anni dalla morte. Un’altra sarà l’omaggio della Festa di Roma, che presenterà in anteprima un documentario realizzato da Diana De Curtis e Barbara Calabresi. «Sarà una sorta di album di famiglia, con documenti finora sconosciuti, come la raccolta di fumetti con protagonista Totò, che ne scrisse i testi e diresse la realizzazione; il suo primo provino cinematografico; manoscritti, lettere d’amore, poesie, canzoni». Una parte del documentario a cui Diana tiene molto è quella «dei luoghi, a partire dalla Sanità a Napoli, dove i nostri bambini, quelli dell’Oasi, l’istituto che abbiamo aperto nel rione, racconteranno l’infanzia di Totò come fosse uno di loro. Ci sarà meno miseria e qualche antenna Sky, ma la Sanità è rimasta la stessa dell’infanzia di nonno. Poi andremo a scoprire i luoghi delle sue vacanze, Viareggio, la Costa Azzurra, Capri, con la casa da cui con il cannocchiale spiava mia nonna in spiaggia. E i suoi teatri. Un tendone in mezzo a piazza Risorgimento è il primo posto dove ha recitato, e racconteremo la storia della caldarrostaia che gli regalò un cartoccio di castagne, poi, diventato Totò, lui la cercò e le comprò una merceria. Molti dei teatri sono rimasti gli stessi, il Politeama a Palermo, per esempio, o il Brancaccio a Roma». E poiché Diana De Curtis ha un passato di attrice — ha fatto perfino un film in inglese con Pavarotti, una rarità assoluta, Yes Giorgio, dove interpretava una suora novizia con Paola Borboni madre superiora — ricorda che quando recitava al Brancaccio Il bugiardo con Gigi Proietti, sua nonna Diana andò a trovarla e si commosse alla vista del palcoscenico, lo stesso di Totò. Lettere e poesie svelano la profondità del rapporto tra Totò e la moglie Diana. «Era una ragazzina di sedici anni quando la conobbe, entrambi era figli senza genitori, avevano molto in comune, si amavano in modo struggente. Ci sono tante leggende sulla canzone Malafemmena, in realtà è dedicata a mia nonna. Malafemmena non significa donna di malaffare, ma cattiva, che ti fa soffrire, non è una canzone per un flirt. La prova è che quando si separarono, nonno le regalò una casa. Nonna lo ringraziò, ma lui le disse: “Non devi ringraziarmi, l’hai pagata tu con i diritti d’autore di Malafemmena”». Anche Franca Faldini, l’altro legame forte nella vita di Totò «era giovanissima quando si sono incontrati, ma era più matura della sua età, molto posata, aveva un altro background. Secondo me con lei nonno si sentiva protetto, poteva affidarsi, sono certa che lei gli ha regalato una grande serenità, e lui ne aveva bisogno negli ultimi anni della sua vita». Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il reportage Grandi vecchi DOMENICA 1 APRILE 2007 Produce grappoli da trecento anni, le sue radici affondano per dieci metri nella fertile terra delle colline irpine ma l’origine di questo patriarca - come dimostra l’esame del dna - va collocata tremila anni or sono nell’Oriente dei racconti biblici La vigna di Noè e le sue sorelle PAOLO RUMIZ S TAURASI (Avellino) ul suo tronco abitano merli e scoiattoli, la sua base è coperta di edera e disseminata di violette. Le sue favolose radici affondano nella pancia dell’Irpinia per dieci metri almeno, in un prato coperto di fiori blu e papaveri. La pelle è quella rugosa e rinsecchita di un vecchio Navajo; il busto s’attorciglia a un palo di castagno e forma una scultura di ottanta centimetri di circonferenza. Poi, a due metri e mezzo di quota, il coriaceo gomitolo si dipana, diventa quattro braccia nodose che si piegano a novanta gradi, come capestri, e partono verso l’orizzonte disegnando una grande rosa dei venti. Quattro branche aggrappate a fili di ferro, da cui pendono piccole protuberanze legnose appena potate e pronte dar frutto. Per le trecentesima volta dopo trecento anni. Ne ha di vita in corpo il patriarca di Taurasi, la vite in servizio attivo forse più vecchia del pianeta, nata prima di Napoleone e della scoperta dell’Australia. Con alcuni “cugini” più piccoli della stessa zona, è anche l’ultimo rappresentante mondiale di una tribù antichissima, dal nome misterioso che viene da Oriente: sìrica. Il capolinea di tremila anni di cultura, genetica, gusto e migrazioni nella geografia eurasiatica fino al grande approdo chiamato Italia. Un “rosso” mitologico della Magna Grecia, arrivato sulla costa jonica da chissà quando e da chissà dove, forse dalle terre di Noè attraverso la Dalmazia, portato in Italia da chissà quali mercanti — parrebbe su navi elleniche degli iblei o degli intraprendenti focesi — e poi risalito fino alla terre fertili della Campania. Lo assedia un frastuono di cinciallegre e calabroni, un brulicare di vita scomparso nel Nord dei pesticidi, e tu ti chiedi dove stia il mistero di tanta forza. Il grande vecchio di Taurasi è sopravvissuto a tutto. Alla rivoluzione del clima, all’abbandono delle campagne e al dilagare della boscaglia. Alla fillossera che un secolo fa ha annientato i vitigni europei. Alla barbarie delle potature industriali che ha amputato e ucciso le piante più adulte. Alla tirannia degli enologi che ha prodotto vini perfetti e senz’anima. Testardo, ha tenuto duro contro tutto. La dittatura della genetica, che ha umiliato la geografia e il territorio; le monocolture che hanno portato un patrimonio autoctono inestimabile a un passo dall’estinzione; le infezioni epidemiche partite dai vivai industriali. Soprattutto contro il dilagare dei chardonnay e dei cabernet, che ha evirato la biodiversità italiana e cacciato le “stirpi” più rare in riserve indiane dimenticate. Irpinia, colline senza fine, fili di fumo che segnano qua e là i roghi dei giunchi della potatura. Abbaiare di cani, pale eoliche a distanza, sorgenti; il sole affoga nella bruma verso il Vesuvio e le prime luci si accendono sui villaggi di crinale. È qui che trovi il vecchio brigante e i suoi fratelli, nascosti tra le smagliature del terremoto, in un terreno poroso dove il piede affonda senza sporcarsi, mimetizzati tra viti di agliànico contorte come ulivi, protetti da querce, cachi, peri, ciliegi, salici, noci, mandorli, fichi e noccioli, in un piccolo podere sulla cima di un colle, sopra l’antica via Appia-Traiana. Qui, non in mezzo ai vitigni-reggimenti, alle file infinite di piante-reclute schierate su terre nude e senza fiori, carne da cannone da sacrificare in fretta sul campo del mercato. Il suo nome è sìrica, produce un rosso morbido e dolce, un sopravvissuto che si credeva estinto TRONCO Il “patriarca” della vigna di Atripalda a Taurasi ha un tronco di ottanta cm di circonferenza L’hanno trovato quasi per caso, qualche anno fa. C’era un’équipe che stava mappando le vigne dimenticate d’Italia. La guidava il trentino Attilio Scienza, professore di viticoltura all’università di Milano, per conto della casa vinicola “Feudi di San Gregorio”. La zona prometteva bene: terre fertili, cariche di vigoria, e una minuziosa topografia di vitigni autoctoni dai nomi arcani: fiano, agliànico, sciascinoso, mantonico, piedirosso, serpico e falanghina. Stavano lì, a marcare il territorio, a raccontare storie antiche come la biblioteca di Alessandria. Ma quando arrivarono al podere del signor Sabatino Di Jorio, gli esploratori capirono presto di aver di fronte qualcosa di inestimabile. Una vigna secolare, con in mezzo tre piante ancora più secolari. Roba mai vista prima. I vecchi mormorarono un nome, sìrica, e subito iniziarono scoperte mirabolanti. Si vendemmiò, e dai bicchieri emerse a sorpresa un gusto morbido, dolce, che si credeva estinto. Si esplorò il dna della pianta; si videro le affinità con l’agliànico, il lagrein e il teròldego; si appurò la presenza di componenti antiossidanti — e quindi anti-tumorali — sette volte più forti che in qualsiasi altro rosso. Si tagliarono dei tralci e si riprodusse la pianta attraverso barbatelle nuove da cui sono nati da poco i figli del grande vecchio. Solo alla fine ci si accorse di avere acchiappato per la coda un testimone del tempo, destinato alla cancellazione e all’oblio. Era come avere ritrovato gli ulivi del Getsèmani. Ma non era solo la biologia; era la storia e la geografia che si svelavano. La vite parlava come un libro aperto. Diceva di essere arrivata da un porto della Jonio chiamato Siri e di avere preso da quello il suo nome. Svelava tracce indelebili del suo passaggio sulla via Appia-Traiana, la marcava come una pietra miliare dopo un itinerario serpentiforme alto sulla valle del Busento, Potenza e la Lucania profonda. Raccontava favolosi itinerari centro-asiatici e illirici. Illuminava angoli sconosciuti della Magna Grecia. Diceva che la struttura a spalliera della vite era quella “a tennecchie” che i Sanniti avevano imparato dagli Etruschi di Capua, e diceva pure che quello sposalizio culturale fra uva greca e tecniche italiote poteva essere la spia di un innesto fra la pianta venuta da Oriente e viti selvatiche ritenute sacre in terra etrusca. La sìrica diceva soprattutto quello che la modernità omologante tendeva a dimenticare, e cioè che l’Italia, piantata in mezzo al Mediterraneo, era stata un favoloso laboratorio di contaminazione e di sopravvivenza delle specie. Racconta Attilio Scienza: «In zone antiche e promiscue, ai margini delle mode, si era salvato un arcipelago di biodiversità che non aveva eguali nel mondo», un patrimonio vitale che andava mappato in fretta e salvato dalla distruzione come gli animali dell’Arca dal diluvio. Centinaia di vitigni rari dimenticati in terre meno “nobili” come la Calabria interna, l’Etna, la Sardegna remota, il Molise o il Mantovano. Lontano dalle Langhe o dalle terre di Montalcino. Un po’ come il sagrantino di Montefalco, che stava letteralmente scomparendo e oggi, dopo un salvataggio acrobatico, ha raggiunto i vertici della qualità. Ma il patriarca irpino svelava anche il segreto della sua vecchiezza. Perché la sìrica aveva tenuto duro lassù mentre due chilometri in là altre piante erano state spazzate via dagli acàridi della fillossera? Lentamente, i conti tornavano. Dipendeva da quel terreno soffice, paludoso e vulcanico, dalla grana delle sabbie, abrasiva e ostica per gli insetti sterminatori. Si vide che un po’ tutta la Campania, L’ha scoperta un’équipe di enologi che stava mappando i vigneti autoctoni dimenticati d’Italia CAPOLINEA È il capolinea del viaggio iniziato tremila anni fa nelle terre di Noè e finito in Magna Grecia Repubblica Nazionale DOMENICA 1 APRILE 2007 grazie ai vulcani, aveva resistito alla pestilenza più a lungo di altre regioni e fra le due guerre aveva esportato uva in mezza Europa, dove le vigne erano in ginocchio. Anni di fertilità irripetibile, da cento quintali all’ettaro, cui seguì, nel dopoguerra, la quasi scomparsa della regione dal mercato del doc. Un’eclissi che oggi si rivela un vantaggio e consente di affrontare la modernità senza avere liquidato la manualità contadina. «È quasi soltanto a Sud — raccontano Pierpaolo Sirch e Marco Simonit, esperti friulani che apprezzano le terre tra Ofanto e Volturno — che la tecnica di potatura è rimasta corretta». Lo vedi anche dagli alberi sulle strade, o dai frutteti: nessuno, qui, si sogna di amputare rami più vecchi di due anni, quelli che faticano a cicatrizzare e spesso restano con le ferite aperte alle intemperie, ai funghi e ai parassiti. L’Italia, fa notare Marco Simonit, è una terra di vigne inestimabili dove l’operazione fondamentale — la potatura — è spesso affidata a personale avventizio e incompetente. «Si tranciano rami vecchi con la motosega, si lavora solo per far produrre, anche se questo va a scapito della longevità del vigneto. Il risultato è che la Francia, la Spagna o la Grecia lavorano, in media, su vigne molto più vecchie di quanto non faccia l’Italia, che pure è il Paese col patrimonio storico più straordinario del mondo. Da noi viti più vecchie di quarant’anni sono una rarità. Tutti, specie nel Centro-Nord, pensano ai concimi, al passaggio dei trattori, alla corretta palificazione, ai fili di sostegno, all’imbottigliamento. Il superfluo trionfa. Pochi pensano all’essenziale, costruire una longevità. Il bello è che sono convinti di saper potare e non accettano lezioni. Se poi chiedi come mai le loro viti crepano così giovani, alzano le spalle, danno la colpa al clima o ai fertilizzanti…». Ecco, la sìrica è anche questo: un monumento alla buona manutenzione, il frutto della cura di generazioni, una dedizione fatta di tempo, pazienza, attese, minuzia. Una sapienza mediterranea che ha lasciato testimonianze uniche. A Pantelleria, dove la coltivazione ad alberello ha preservato un patrimonio genetico che nessuna vigna clonata potrà mai costruire. In Francia, dove si fanno le feste della potatura per tramandare la sapienza dei vecchi, e dove nelle etichette si avverte il bevitore non solo dell’invecchiamento in bottiglia, ma anche della vecchiezza della pianta. O nel Priorato, sopra Barcellona, dove vigne centenarie crescono in campo aperto, rugose e contorte come le anime dannate nelle stampe di Gustavo Doré sulla Commedia dell’Alighieri. Antonio Minichiello, della “Feudi di San Gregorio”, mi accompagna in mezzo a piante venerabili, davanti alle quali sarebbe giusto far prostrare politici, scolaresche, manager, finanzieri d’assalto, tutti a chiedere scusa di cinquant’anni di sprechi e sviluppo cannibalico. Guardi la sìrica e capisci: gli alberi da frutto che la circondano hanno vaccinato il terreno, fornito una formidabile difesa contro le pestilenze da monocoltura, protetto i vitigni dalle contaminazioni globali. E poiché le piante da frutto, per millenni, non sono mai state solo cibo ma anche rito e comunione col sacro, ponte tra cielo e terra madre, ecco che la testarda longevità dei patriarchi irpini nasce anche dall’antico rispetto per la vecchiaia, vista come serbatoio di memoria vitale. È una superstizione che la moderna biologia conferma: nelle piante secolari si nasconde davvero la banca-dati della vita, un’esperienza in adattamento am- Molti vitigni rari, messi fuori mercato LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 RESISTENZA Ha tenuto duro contro tutto: infezioni, potature industriali, dittatura dei nuovi vitigni di moda dalle uve di moda, vengono riscoperti e tornano a produrre BENESSERE Il sìrica è un vino rosso ricco di antiossidanti in misura sette volte superiore agli altri rossi bientale, un codice d’accesso alla salvezza genetica che in tempi di disastro climatico diventa indispensabile all’umanità. «È proprio in questa vecchiezza la forza dei vitigni italiani, non nel giovanilismo sconsiderato che dilaga», s’accalora il professor Scienza. «È su questo che siamo unici al mondo, è su questo che diventiamo imbattibili rispetto ai vini sudafricani, cileni o californiani, prodotti di piantagioni recenti». Non vi è nulla di simile in Europa. Certo, in Alto Adige, in Slovenia o in Ungheria hai singoli esemplari anche più vecchi, ma sono viti protette, conservate in chiostri o nei cortili delle case, monumenti “in vitro”, isolati dalle vigne. Qui hai esemplari in campo aperto, un terra promessa inesplorata che si svela. Antonio Minichiello la sente come un rabdomante, è certo che se si potessero esplorare tutti i poderi verrebbero fuori altre sorprese. «Ho trovato un piedirosso ad albero, enorme… Si espandeva in orizzontale fino a formare un ombrello di centocinquanta metri di circonferenza, non bastavano i pali a tenerlo su. Ora lo hanno accorciato… non abbiamo ancora potuto valutarne l’età». Si commuove, Antonio, per questa sua terra grassa e mai stanca, serpeggiante di fontanili, dove tutto ha sapore, dalle melanzane alle conserve fatte in casa. Tramonta, l’ultima luce viola accarezza piante di broccoli, patate, aglio, finocchio e piselli, cresciute spontaneamente tra le vigne della leggenda. Ce n’è di strada da fare per scoprire il mistero italico di queste terre fertili e ondulate, inquiete, sismiche, punteggiate di luci fin sulle cime dei monti, le terre di Pitagora e Zenone, mitologico approdo dei Greci e fantastico laboratorio di contaminazione fra popoli italici, longobardi, etruschi, arabi, slavi, albanesi, normanni. Culture, sapienze manuali inestimabili che è possibile leggere sui rami di ogni albero. «Non mi importano i master post-laurea — brontola Simonit — qui c’è da ricostruire in fretta una manualità perduta per salvare un patrimonio. Persino la Turchia e la Georgia hanno scuole di potatura. L’Italia no… dobbiamo arrivarci in fretta. A che serve il biodinamico se manca il buon senso?». Ermete Realacci, presidente di Symbola, fondazione per le qualità italiane, è convinto di essere alla vigilia di una seconda rivoluzione dell’enologia, dopo quella salutare esplosa al termine dello scandalo-metanolo. È la rivoluzione che riporta in luce l’anima delle viti. «Il futuro del vino non sta nella perfezione — si infiamma Sirch — ma nel suo contrario! La perfezione fa emergere l’enologo. L’imperfezione svela l’anima del territorio, mette in moto la memoria, accende la fantasia, svela il genius loci. È come un amico, che lo ami quasi più per i suoi difetti che per le sue virtù». L’antropologo Lévy Strauss nel suo memorabile Il cotto e il crudo, ricorda che ciò che è buono «da mangiare» è pure buono «da pensare»: cioè ti alimenta culturalmente. Bere nutre anche l’anima. Basta dunque con lo schioccare di palati saccenti, con le bottiglie blasonate in défilée come altezzose modelle. «L’eccesso di tecnica ha annacquato l’identità, mistificato i vini, imbalsamato il gusto, impoverito la memoria del palato», protesta Attilio Scienza. La bontà di un vino non discende da un’autopsia o da una graduatoria a punti, ma da un insieme. Da una personalità, fatta anche di piccoli difetti. Se bere riesce a comunicare tutto questo, allora eccoci vicini all’anima della pianta, dunque al segreto della vita. È così che il vino assolve fino in fondo il suo compito. Ti riporta a Dio, come ai tempi di Noè. “Il futuro del vino non è nella perfezione È il difetto che svela l’anima del territorio e attiva la memoria” Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 la memoria Oggetti simbolo Celebra i suoi centocinquant’anni la fabbrica di Alessandria che al culmine del successo, negli anni Trenta del secolo scorso, osò fare concorrenza alla Stetson proponendo un modello per i mandriani del Texas. La lobbia di Al Capone, la bombetta di Hirohito, il cilindro di Fred Astaire, le tiare di alcuni papi sono tutti usciti da quello storico stabilimento piemontese Un cappello italiano nel far west M ercoledì il Borsalino compie centocinquant’anni. O meglio, compie centocinquant’anni la fabbrica dei cappelli più famosi del mondo, che fu fondata il 4 aprile del 1857. Il fascino della leggenda. Da un secolo e mezzo, con molti alti e bassi, in testa alla gente che conta. E soprattutto ai miti, alle icone del cinema, ai divi: uno per tutti Humphrey Bogart in Casablanca. Ma Borsalino non è solo il classico feltro, quello consacrato dall’omonimo film con Alain Delon e JeanPaul Belmondo, bensì ogni tipo di cappello, confezionato con la più elegante perizia: dal cilindro al panama, dalla bombetta al fez, alla bustina, alla feluca, dalla coppola al colbacco al nero, copricapo degli ebrei ortodossi e dei chassidim. È lungo l’albo dei testimonial eccellenti, che comprende pontefici e capi di Stato, principi dell’industria e del sangue, registi, pittori, artisti ma anche grandi gangster come Al Capone e personaggi entrati nella leggenda come Buffalo Bill. Nelle sale del Museo Borsalino ad Alessandria — duemila solo i pezzi esposti, più quelli nei magazzini — sono conservati alcuni di questi esemplari storici: dalla bombetta dell’imperatore del Giappone Hirohito a quella del cavalier Benito Mussolini, a uno dei ben duemila cilindri che lo scià di Persia ordinò per le celebrazioni dei duemilacinquecento anni dell’impero persiano a Persepoli. E ancora: il cappello di Tom Mix, quello di Charlie Chaplin, cinque tiare indossate dai papi. Il copricapo del Pandit Nehru e quello confezionato su misura per Ezra Pound, il charro in oro zecchino fatto fare per Pancho Villa, il morbido feltro di Robert Redford. Gorbaciov comprò il suo primo Borsalino in un negozio di Helsinki. Chamberlain, Truman, Churchill indossavano abitualmente cappelli made in Alessandria. Giuseppe Verdi voleva che il suo Borsalino fosse sempre di color nero. Humphrey Bogart pretendeva che fosse in castoro purissimo. I fotogrammi che testimoniano la fucilazione di Galeazzo Ciano mostrano un feltro che rotola, quello del condannato, e l’ingrandimento conferma che si tratta di un Borsalino. Danzava leggiadro con in testa uno dei suoi molti cilindri Borsalino Fred Astaire. Danzava e cantava con la sua mitica paglietta sotto braccio Maurice Chevalier: era una pa- glietta intessuta in quell’angolo del Piemonte. Si ritiravano in conclave extra omnes i cardinali con in testa il rosso galero, con nappe e trenta fiocchi, naturalmente made in Alessandria. Indossavano cappellini Borsalino le prime hostess delle linee transoceaniche Twa. E, mito nel mito, il panama: talmente fitto ma anche talmente flessibile, in fibre e germogli di Carludovica palmata, da potersi arrotolare e chiudere nella custodia di un sigaro. In panama vip e sovrani, star, presidenti, scrittori: Napoleone III e Theodore Roosevelt, Edoardo VIII d’In- ghilterra e Gustavo di Svezia, Gabriele D’Annunzio e Ernst Hemingway, Gary Cooper e Orson Welles. Giovanni XXIII ne ricevette uno in dono . Quasi tutti i panama più famosi e più fotografati erano Borsalino, oggi il tipo di cappello tornato più prepotentemente di moda. Nei primissimi anni Novanta l’azienda celebrò se stessa con una selettiva campagna autopromozionale che consistette nel regalare a cinquanta italiani importanti un pregiatissimo modello in pelo di lepre con le iniziali, all’interno, stampate in oro: nella lista il presidente della Re- pubblica Cossiga, il premier Andreotti, ma anche Gianni e Umberto Agnelli, Luca di Montezemolo, Federico Fellini, Umberto Eco, Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Ma è soprattutto all’estero che il marchio si era esteso, conquistando anche mercati poveri, da cui fiorivano gli affari migliori. Per esempio l’esportazione delle bombette nere per le contadine del Perù. Proprio dalle Ande venivano importati peli e materie prime di pregio che venivano lavorati ad Alessandria e tornavano in Sud America. Il fez marocchino più venduto in tutto il Maghreb nei primi decenni del secolo scorso recava il marchio Borsalino. In India spopolavano il siddara e la bustina, anche ricamata, provenienti dalla fabbrica di Alessandria. Negli anni Trenta l’azienda ebbe l’ardire di fare concorrenza alla Stetson del Texas producendo un cappello da cowboy marchio Borsalino. Riuscì per decenni a vendere centinaia di migliaia di bombette nella city: perfettamente british. Ma fu in Francia, all’avanguardia nella produzione dei cappelli, e non in Inghilterra, che il fondatore dell’azienda Giu- Confessioni e ricordi di un uomo cresciuto col capo coperto Quando mi feci fare un cranio di legno per essere ammesso al Queen’s Club GIANNI CLERICI arebbe certo troppo autocelebrativo chiedere che fosse pubblicata, tra le storiche immagini di questa pagina, la foto della mia cresima, scattata alla fine degli anni Trenta. Al di là del mio ben noto fascino, già avvertibile nell’età infantile, l’immagine rivela aspetti di costume sui quali mi trovo solo oggi a riflettere. Ancora in calzoncini corti, il soggetto non solo indossa, sotto la giacchettina, una cravatta a farfalla. Ma, quel che più sorprende, è un cappellino di tessuto leggero e morbido, a tesa larga e circolare. Qualcosa che la madre aveva ritenuto utile, ma che dico, indispensabile, alla solennità della cerimonia. In un’altra foto che celebra lo storico avvenimento, ai miei fianchi sorridono non solo la mamma in ovvia veletta, ma il papà con quel copricapo che Il Cappello da Uomo di Giuliano Folledore definisce a «maschettatura concava», e cioè con due rientri laterali sopra l’ala orientata verso il basso, spiovente. Al fianco di mio padre, l’anziano zio Pierre, mostro di eleganza noto anche per aver dissipato il patrimonio famigliare a Parigi, si segnala addirittura per una lobbia, con i risvolti di lucido raso rivolti verso l’alto. Non si creda che le immagini si riferiscano a famiglia aristocratica. Le connotazioni erano tipiche di una società medio borghese, nulla di più. Voglio solo dire che, in quei tempi, e poi su su, fino a tutti gli anni Sessanta, il cappello era parte addirittura ovvia di un abbigliamento maschile quotidiano. Frequente anche per i bambini, tenuto conto che era addirittura obbligatorio tra i boy scout dei tempi, quei finti soldatini chiamati balilla, che indossavano il fez, copricapo di curiose origini arabe adottato dal Partito Nazionale Fascista. Nel ripercorrere gli albi fotografici amorevolmente assemblati dalla mamma, mi ritrovo anche su un campo da tennis, il capo sempre coperto. In una foto indosso un berretto di tela a tesa lunga e rigida, mentre la cupola, la parte superiore, è floscia. Nell’altra ho in testa un basco, che avevo insistito ad ottenere, entusiasta per la leggenda del tennista francese Jean Borotra, soprannominato Le Basque Bondissant, che tradurrei Il Basco Salterino: uno dei famosi Quattro Moschettieri capaci di strappare, per la prima volta nella storia, la Coppa Davis agli americani. Fu quello il mio copricapo preferito, tanto da conservarlo nelle prime gare della nazionale, nell’immediato dopoguerra, nonostante le minacce di un capitano severo che non tollerava altro che il bianco, il colore del tennis. Al di fuori dello sport, non mancai invece di indossare un Borsalino, regalatomi per un anniversario, cappello del quale ero orgogliosissimo, tanto da portarmelo dietro anche all’Università: dove commisi, un giorno, S FOTO GAMMA LAURA LAURENZI Gli inizi furono in un cortile Poi il salto industriale importando da Manchester a fine Ottocento macchinari modernissimi OPERAI Dall’alto in basso: un’immagine dello stabilimento Borsalino di Alessandria risalente all’inizio del secolo scorso; Arnaldo Zulfarino, addetto al “bridaggio” cioè la lavorazione dell’ala del cappello; due operaie, che erano chiamate col nomignolo di “borsaline” la colpa di dimenticarlo, per non più ritrovarlo, alla riapertura del mattino seguente. Apparve subito impervio il recupero di una copia di quel tesoro, ma una gita a Parigi, per il torneo del Roland Garros, mi offrì una nuova chance di innamorarmi. In una vetrina di rue Saint Honoré campeggiava un modello a me sconosciuto, e irresistibile. Era di feltro beige, e aveva una cupola talmente morbida che si poteva adattarla con le dita, secondo gusto e necessità. Si chiamava Mossant, e, nel vantarne le qualità, il venditore mi garantì che avrei potuto indossarlo anche sotto la pioggia, senza procurare danno. Lo portai con orgoglio un paio di stagioni, ma il dono della mia prima decapottabile, una MG, gli fu fatale. Volò via, mentre ero in gara con un altro sciagurato, e secondo alcuni servì in seguito da copricapo a uno spaventapasseri, quei simulacri d’uomo che allora usavano, nei campi. La mia vita, e il mio cappello, avrebbero dovuto trasferirsi in seguito a Londra, nel corso di un tentativo di stabilirmi in quella città, quale vice del vicecorrispondente del Giorno. Già avevo partecipato al Torneo di Wimbledon, e ritenevo quindi che, per il Queen’s Club, meno periferico, sarebbe stato un onore avere un tennista par mio tra i soci. Era, mi informarono, indispensabile che un membro mi presentasse, ma come telefonai all’unico che conoscessi, il mio amico Lord Aberdare, fui un tantino sorpreso nel sentirmi dire che, per l’ingresso al Club, sarebbe stato meglio indossare il cappello. Dove trovarne uno adatto, domandai, per sentirmi rispondere: «Da Herrington, of course. Vai pure a mio nome». Mi recai quindi da Herrington e, non appena ebbi menzionato l’amico, mi si aprirono davanti porte e sorrisi, e fui guidato in una sorta di laboratorio, contiguo alla sala di accesso. Rimasi di fronte ad un anziano, gentilissimo signore, che tra mille scuse iniziò a misurare la mia scatola cranica, e ad annotarne chissà quali dettagli. Mi ripresi soltanto per capire che quelle misurazioni sarebbero servite a costruire una replica della mia testa, nella fattispecie in legno. E venni informato che, nel giro di una settimana, il mio cappello sarebbe stato pronto. Per il futuro, avrei potuto commissionarne quanti ne desiderassi, anche a distanza. Rimango ancora a chiedermi se fu grazie al cappello, o alle mie qualità di tennista, che fui felicemente ammesso al Queen’s Club. Posseggo ancora quel cappello, e me lo metto in testa, seppur molto raramente. Non dico non sia ancora perfetto, ma fu Lord Brummel ad affermare che l’uomo elegante non si fa notare camminando dall’Eros di Piccadilly a Trafalgar Square. Qui, mi guardano tutti, di sotto i loro atroci berrettini da baseball, e non mi va proprio. Repubblica Nazionale DOMENICA 1 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 PERSONAGGI CELEBRI Da sinistra a destra, una galleria di celebri possessori di Borsalino: Humphrey Bogart, Al Capone, Jean-Paul Belmondo, Alain Delon, il compositore Alfredo Casella, Ernest Hemingway, Gary Cooper, Winston Churchill, Yul Brynner, Warren Beatty, Anthony Quinn, Frank Sinatra seppe Borsalino, un ragazzo di sedici anni, decise nel lontano 1850 di trasferirsi a imparare il mestiere. Nel ’56, ottenuto il certificato di cui i cappellai girovaghi avevano bisogno per aprire un laboratorio, tornò a casa e nel ’57, in un cortile di via Schiavina ad Alessandria, gettò le fondamenta di una ditta che sarebbe presto diventata, per prestigio e qualità, la nu- Con il 1968 inizia un rapido declino: il pubblico maschile abbandona l’accessorio diventato “borghese” MANIFESTI In alto l’evoluzione del marchio Borsalino In basso, manifesti pubblicitari della “Antica Casa” Borsalino della prima metà del secolo scorso Dopo una lunga crisi il fatturato è tornato ad aumentare mero uno nel mondo. Per oltre un secolo la storia dell’azienda si sovrappone e si confonde con quella del cappello. Un nome proprio si sostituisce a un nome comune: in vari vocabolari della lingua italiana borsalino con la b minuscola è sinonimo di cappello; prodotto e marchio si identificano. Imparando dall’esperienza inglese il fondatore impresse una svolta industriale importando da Manchester macchinari moderni. La fase artigiana era alle spalle. Trasferitasi nel 1888 nella sede storica di corso Cento Cannoni, l’azienda sfornava cinquecentocinquanta cappelli al giorno che diventarono cinquemilacinquecento nel 1909. Oltre il sessanta per cento della produzione era destinato all’export. Nei ruggenti anni Venti si tocca il tetto dei due milioni di cappelli l’anno, un record destinato a dimezzarsi dopo la crisi del ‘29. Dieci anni più tardi l’azienda ottiene il brevetto di «fornitore ufficiale della casa del Re e Imperatore». Alla guida c’è Teresio Borsalino, che consolida un’altra tradizione di famiglia, quella legata alla filantropia e al mecenatismo, fortemente circoscritti ad Alessandria, vera città-azienda, diventata la capitale mondiale del cappello. È la Borsalino e la sua dinastia imprenditoriale, paragonabile solo a quella degli Olivetti di Ivrea, a costruire l’acquedotto, l’ospedale civile, il sanatorio, la casa di riposo, la rete fognaria. E a intraprendere in proprio una politica sociale all’avanguardia con l’istituzione di una cassa malattie, una cassa infortuni, una cassa pensioni, una colonia estiva per i bambini, cioè per i figli di impiegati e impiegate e delle operaie, le mitiche «borsaline». La fine della Seconda guerra mondiale segna una grande ripresa, con la creazione di una cinquantina di nuovi modelli l’anno. Ma il declino è in agguato. Il tramonto del cappello, simbolo del vestire borghese, reca la data fatidica del ‘68 ma è poi negli anni Ottanta che le vendite subiscono un crollo, al culmine di una lenta ma costante disaffezione. Addio feltri, addio lobbie, vecchie foto ingiallite dei padri e dei nonni. La Borsalino, i cui cappelli continuano a fare scuola nel mondo, smette di essere un mito e i passaggi di proprietà si susseguono assieme alle scissioni e alle vicissitudini aziendali. Negli anni di massima crisi viene ceduto lo stabilimento storico di corso Cento Cannoni, attuale sede dell’Università di Alessandria, facoltà umanistiche. Oggi la Borsalino conta in Italia centocinquanta dipendenti, sforna novantamila cappelli l’anno e nel 2006 ha avuto un fatturato di venti milioni di euro, con un aumento previsto del dieci per cento. La nuova strategia aziendale punta sulla diversificazione. Oltre ai rinomati cappelli che, dopo decadi di semi oblio, sono tornati in auge, Borsalino produce abiti e accessori, dai guanti alle giacche, dalle scarpe addirittura alle biciclette. Per i suoi centocinquant’anni l’azienda si autofesteggia con molte iniziative. Uno spettacolo teatrale, l’istituzione di una borsa di studio per una ricerca sul cappello Borsalino nella storia del cinema, la realizzazione di un’antologia di dieci racconti noir dedicati al Borsalino. E ancora: una mostra fotografica ad Alessandria sui più importanti cappelli storici, il lancio di un nuovo profumo denominato Panama, che viene presentato al Cosmoprof in questi giorni. Per l’anniversario viene poi proposta una collezione ispirata a un classico nato proprio nel 1857, il Virgilio Dorsè. I pezzi sono rigorosamente numerati, esattamente 1857 come l’anno di nascita, e riguardano quattro prodotti: il cappello, in versione arrotolabile, con l’ala bordata in seta; il berretto, e cioè una classica coppola gessata; l’abito monopetto a due bottoni ispirato all’eleganza di Cary Grant; e infine — come ti reinvento il cappello — il casco da moto color ardesia e blu, disponibile anche in versione da sera, foderato in raso di seta. Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i luoghi Sicilia perduta DOMENICA 1 APRILE 2007 Saloni, tappezzerie preziose, l’Isotta Fraschini nera in garage, una rete segreta di scale e corridoi per rendere invisibile la servitù. Siamo nella Palermo anni Venti e Francesco Alliata, principe bambino, esplora casa sua, Palazzo Villafranca. Oggi, a 87 anni, ricorda quei giorni Vita da Gattopardo nel palazzo-labirinto «P STEFANO MALATESTA PALERMO otevi essere andato a Timbuctù o in Patagonia, avere visto cose meravigliose e passato momenti unici. Ma quando, tornato a Palermo, salivi su per il corso e cominciavano ad apparire i balconi a petto d’oca del nostro Palazzo, il Palazzo Villafranca, allora l’emozione che era diventata più intensa, mano a mano che ci avvicinavamo a piazza Bologni, si trasformava in pura felicità. Solo in quel momento il viaggio che avevi appena fatto e la casa che ti aspettava prendevano un senso. E il senso era questo: tu appartenevi a quel luogo, non perché fosse imponente, o perché avesse le mura più spesse di tutti gli altri palazzi della nobiltà palermitana, o per i tre scaloni del palazzo, i cinque saloni, la lucentezza delle macchine parcheggiate nel garage, il modo con cui la gente ti guardava quando entravi o uscivi dal portone, e tutto il resto; ma perché quella dimora, così legata alla nostra famiglia, trasmetteva invisibili onde di affetto, che avevano il potere, appena la vedevi, di tranquillizzarti, di assicurarti che non c’era nulla da temere e che anche il futuro, come stava avvenendo per il presente, non avrebbe portato cambiamenti. Non solo per noi, ma per tutti quelli che ci vivevano». Francesco Alliata è nato qui, ottantasette anni fa, come suo padre, suo nonno, il suo bisnonno, e moltissimi altri Alliata, la famiglia siciliana più carica di titoli al tempo della monarchia. E se in questa mattina di marzo, gloriosa come una giornata di maggio, mi ha portato fino a piazza Bologni con la scusa di una passeggiata, non è per tessere un elogio del casato ma per lenire una ferita. Nel 1943 l’invasione della Sicilia da parte degli americani venne accompagnata da tremendi e inutili bombardamenti di Palermo (inutili perché si trattò di uno sbarco lubrificato dall’olio d’oliva locale) che rasero al suolo, insieme con le case popolari dei borghi marinari, alcuni tra i più rappresentativi palazzi dell’aristocrazia. Lo shock in una classe che si credeva immune dagli orrori della guerra, pensando che le altolocate amicizie internazionali avrebbero funzionato da schermo, fu immenso. Lo stesso Francesco aveva accompagnato la madre al porto, una delle aree più devastate, dove una loro carissima amica, Giovanna Lanza, piangeva disperata davanti alle macerie di una delle più belle ville di Palermo, progettata dal Basile. Il Palazzo Ugo-Salvo, accanto a Palazzo Villafranca, era stato in parte polverizzato durante i primi minuti dell’attacco aereo. Ed anch’io ricordavo perfettamente di aver visto, molti anni più tardi, nelle fotografie che testimoniavano quel periodo, una figura avvolta in un cappotto troppo grande che si chinava a frugare fra i resti di un palazzo. Era Tomasi di Lampedusa, l’aria totalmente disperata, che cercava qualche cosa, qualsiasi cosa tra le macerie del suo palazzo che potesse fargli ricordare un momento della sua vita passata. Mentre il Palazzo dei Villafranca aveva resistito a tutte le esplosioni e dopo la guerra era stato riaperto, anche se più sommessamente di prima. Ma da diciotto anni, per una di quelle storie di eredità che in Sicilia, terra affollata di cultori del causidico, prendono “C’erano due cortili e due campane: suonavano ogni volta che arrivava un ospite e ricordo uno scampanellio continuo” le dimensioni e le forme di un labirinto, è avvenuto un fatto che per Alliata ha avuto lo stesso risultato dei bombardamenti: il Palazzo gli è stato “sottratto”, questo è il verbo che ha sempre adoperato accennando al tentativo di sottrarre tutti gli oggetti preziosi contenuti nelle stanze al patto di prelazione stipulato tra tutti i membri della famiglia per evitare la dispersione del patrimonio. C’è voluto del tempo prima che Francesco capisse che era stato lui ad essere defenestrato dall’eden della sua infanzia, e quando ne ha avvertito fino in fondo le conseguenze ha cominciato ad adoperare la memoria in funzione taumaturgica, ricreando quello che non aveva più e scrivendo su Palazzo Villafranca un lungo, ironico e appassionato ricordo per Dimore storiche, una rivista dei proprietari di famose magioni andata subito esaurita. Infatti uno degli aspetti più paradossali dell’aristocrazia siciliana è il suo successo letterario, direttamente proporzionale alla velocità con cui quella società si è dissolta ed immensi patrimoni sono stati venduti. Questo dilapidare folle, questo scialacquare come riflesso pavloviano di un mondo che sa di essere destinato alla rovina si presta a infinite variazioni letterarie sul tema della catastrofe. Ma Francesco ricorda che questa attitudine non c’è mai stata nei suoi cromosomi, non è qualcosa di connaturato all’essere siciliani: «La nobiltà siciliana ha ereditato dai suoi antenati uno spagnolismo in cui l’apparenza, il fare bella figura, il parere molto più che l’essere avevano un’importanza suprema... Erano e si sentivano todos caballeros e in questa veste non si volevano occupare né della buona amministrazione né più semplicemente dell’amministrazione, dicevano di non voler maneggiare quel denaro che poi andavano reclamando quando si trattava di spenderlo. E preferivano vivere di vendita piuttosto che di rendita. Come la Spagna secoli prima aveva rinunciato a dare stabilità ai suoi successi militari cacciando gli ebrei e i musulmani, le uniche teste economiche e commerciali del Paese, così gran parte della nobiltà siciliana viveva in città lasciando le terre agli amministratori e preparando con le sue mani la rovina». «Naturalmente c’erano delle eccezioni come la nostra famiglia. Mia madre non volle mai uniformarsi a questo andazzo di sprechi e di lussi. Il motto della famiglia era “mavult principem esse quam videri”, bisogna essere principi piuttosto che sembrarlo. Mio nonno materno aveva addestrato la prima delle sue figlie a gestire il patrimonio costituito da immobili e terre, e quando morì mio padre fu lei come vedova del primogenito a prendere le redini degli affari, sollevando innumerevoli proteste da parte delle cognate e da parte dei cognati che la vedevano come l’ultima arrivata». «Fin da ragazzi ci venne chiarito che il privilegio non stava nel comportarsi in maniera stravagante e dispendiosa, ma nella possibilità che avevamo tutti noi di coltivare le belle arti, l’archeologia, la musica, la pittura. Il peccato maggiore era non far nulla, la terribile neghittosità di certi siciliani, e tutti eravamo sospinti verso quella che veniva chiamata un’operosità illuminata. Può sembrare paternalistico oggi, ma noi imparammo il dialetto siciliano perché nostra madre diceva: “Se non dialogate con i vostri contadini nella loro lingua essi vi considereranno estranei e non vi capiranno”. Mia madre lavorava anche di notte, dopo avere compiuto i doveri di padrona di casa, rinchiudendosi nel suo minuscolo studio, l’unica stanza ad avere il telefono che portava il numero 579. La chiamavano “la principessona” ma era un soprannome che stava ad indicare delle qualità morali. Era nobile in un senso che oggi si é perduto e non solo per il blasone, a cui certamente teneva, e che portava con sé oltre qualche privilegio anche molti ferrei obblighi. Come quello di essere generosa nei confronti degli altri, e spartana in famiglia». «La casa girava intorno a due cortili, quello di ponente e Repubblica Nazionale DOMENICA 1 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 TESORI FOTO PER GENTILE CONCESSIONE DI FRANCESCO ALLIATA In queste pagine alcune immagini di Palazzo Villafranca. Da sinistra, il particolare di uno dei soffitti; il salotto impero con il grande ritratto di Agata Valguarnera; il rivestimento interno della “portantina d’oro dei principi”; un’altra sala del Palazzo; il particolare di un decoro; il portone con l’arme inquartata del Serpotta; un particolare di un grande azulejo; lo scalone; l’affresco su un soffitto In basso, un dipinto della collezione e, ai lati, le cariatidi del palazzo quello di levante, dotati di due campane. Da qualche parte ho letto di un duca siciliano che aveva l’abitudine di suonare una campana ogni volta che intratteneva relazioni strette con una sua giovane compagna: uno scampanio diretto a tormentare la moglie sua vicina di casa, da cui si era separato. Nel palazzo Villafranca le campane venivano suonate per avvertire i proprietari che c’erano dei visitatori, e se penso per un momento alla mia infanzia rivedo come un film con una colonna sonora composta da uno scampanio continuo». «Gli abitanti stanziali del Palazzo erano i tre fratelli Alliata con le loro famiglie, la nonna Giuseppina, e naturalmente tutti gli addetti alla casa tra i quali uno dei principali era Totò La Pietra, il portiere, che durante la guerra diede prova di un tale attaccamento a questo edificio da restare sbalorditi. Quando io ero ancora ragazzo molte proprietà, come il “Firriato dei Villafranca” a Palermo — un parco di settanta ettari che da piazza Politeama arrivava a piazza Croci e dal mare saliva per un chilometro — era stato da tempo in parte espropriato (per costruire il tetro carcere dell’Ucciardone e per tracciare il viale della Libertà, sontuosa passeggiata cittadina) e per il resto venduto, così come il Castello di Villagonia, sulla spiaggia di Taormina, era stato espropriato per farne i dormitori dei ferrovieri. Ma avevamo ancora l’amatissima Villa Valguarnera a Bagheria, portata in dote da Agata, ultima del ramo primogenito dei Valguarnera, di cui esisteva un ritratto con ampia scollatura nel salotto giallo del Palazzo. Quando i suoi figli maschi cominciarono a crescere Agata fece coprire la scollatura con un merletto. A Bagheria io, giovanissimo, andavo per controllare le raccolte dei limoni, così come andavo a Santo Stefano di Briga, ad un’ora di tram da Messina, a vendemmiare nei terreni portati in dote da mia madre». «Ma il Palazzo stava al centro di tutto questo andare e venire ed era nostra residenza abituale. Una delle parti più spettacolari era l’infilata dei saloni: salotto rosa, quello giallo impero per le visite più intime, che stava accanto alla più grande camera da letto del Palazzo, dove tutti gli Alliata erano nati. Nel salone più grande si tenevano le serate musicali con la partecipazione di cantanti famosi come Maria Caniglia e Beniamino Gigli. Qualche volta anche mia madre ci cantava qualcosa e solo dopo insistenti richieste dei parenti accennava ad una romanza del Tosti. Come d’uso negli antichi palazzi nobiliari, non esisteva una vera e propria camera da pranzo, perché si apparecchiava la tavola in uno dei saloni, a seconda delle circostanze e del numero dei commensali». «Ma non ho contato il salone da ballo che aveva otto magnifiche, gigantesche porte. E lo studio, uno dei pochissimi ambienti del Palazzo che non avesse le pareti rivestite della seta verde “lampasso” delle nostre filande ma del cuoio di Cordoba martellato, per fare più onore ai quaranta stemmi che rappresentavano i nostri titoli nobiliari. Quella degli Alliata era una proprietà indivisa e altri locali molto frequentati erano la biblioteca e la sala da sera. Una volta anche le stanze adibite all’amministrazione erano affollate di ragionieri ed amanuensi che riempivano libri di conto con una bella scrittura a svolazzi, anche nelle partite doppie. Ma quando ci stavo io, a Palazzo erano già spariti tutti i documenti e i conti — dal 1300, dall’arrivo degli Alliata a Palermo, in poi — erano stati sistemati in contenitori di pergamena, custoditi in armadi alti cinque metri, dipinti di bianco con filettature d’oro, numerati da 1 a 34». «Questo era il nostro mondo di ogni giorno. Ma queste dimore storiche potevano essere ingannevoli come un iceberg in cui è visibile solo una parte del tutto, con la parte nascosta molto più grande. Non dovevo avere più di sette, otto anni quando, ritrovatomi in un’ala poco conosciuta del Palazzo, fui costretto a bussare ad una porta che avevo riconosciuto essere quella della stanza di mio zio, chieden- dogli di andare in bagno. Lui aprì una porticina interna e mi si parò davanti uno spazio immenso, pochissimo illuminato, costituito da passaggi da scale che davano su altre scale e via di seguito, come nelle Carceri d’invenzione del Piranesi. Questi passaggi erano percorsi da itinerari alternativi a quelli abituali per permettere ai camerieri, ai fornitori e a tutta la gente del Palazzo di portare le cose da servire senza essere avvistati in un continuo viavai. Qui si trovavano anche tutti i locali che funzionavano da depositi delle dotazioni del Palazzo: argenterie, porcellane, e poi mobili, divani, sedie, quadri non esposti, e montagne di biancheria. Tutta questa roba all’origine era stata catalogata e sistemata in armadi che avevano inchiodato dietro alla porta un elenco. Poi l’accumulo, per quanto ordinato, si era fatto incontrollabile e, quando da ragazzini giravamo alla scoperta del Palazzo, l’apertura di questi armadi costituiva uno dei momenti più affascinanti. Non sapevi mai cosa ti si rovesciava addosso». «La geometria del Palazzo non aveva un senso solo orizzontale ma anche verticale. Nei piani più alti e nelle soffitte regnavano calma e quiete, mentre mano mano che si scendeva cresceva il via vai che raggiungeva il suo culmine nelle cucine, dove transitavano, ai bei tempi, incessantemente legname, carbone, farina, quarti di bue, maiali, giare d’olio, contenitori di vino, casse di castagne, mandarini, ciliegie e pere, cassette di verdure e di pesce, sacchi di fave, lenticchie e ceci, pezze di formaggio da dieci chili, barattoli di caponate, peperoni, melanzane sott’olio, le acciughe di Sciacca ed il tonno. Queste vivande salate e vari formaggi, come il maiorchino ragusano e la tuma persa, per evitare che scomparissero in una notte portate via da topi particolarmente voraci, erano sistemati in mobili di origine spagnola chiamati “fresquera”, dotati di intelaiature con rete metallica per lasciar passare l’aria e impedire il furto nello stesso tempo. Accanto alla cucina c’erano le dispense che mandavano quell’odore così tipico di olio, fave, pesce conservato ed altro che si chiamava “riposto”. Ma ai tempi miei queste dispense erano ridotte ad una stanza non grande dove si conservavano pure i dolci per cui la Sicilia è famosa nel mondo, appunto dolci di riposto di media e lunga durata: bocconotti, conchiglie, seni di vergine, panzerotti, buccellati, gelati di campagna, pasticciotti, pietra fendola e trionfo della gola». «Nei cortili si aprivano i garage. Lo zio Alvaro aveva comprato un’Isotta Fraschini nera, un’auto allo stesso livello della Rolls Royce inglese, un’auto dannunziana come poche, che lo zio non fece mai uscire dal garage. La nostra era invece una Fiat modello 505 tutta verde, che veniva messa in moto con una manovella inserita sotto il radiatore. Per l’illuminazione dei fanali ci servivamo di un accumulatore, ma per evitare di uscire di notte dalla Palermo-Messina, una stretta strada sterrata e cosparsa di pietrisco, alzavamo una lanterna a petrolio. Per arrivare allo Stretto da Palermo ci voleva un giorno intero e a volte anche più. La macchina era stipata di valigie, scatole, vivande, copertoni, pezzi di ricambio. Si bucava mediamente due o tre volte durante il viaggio e, prima che lo chauffeur rattoppasse la gomma e fossimo in grado di ripartire, passava un tempo interminabile. Ma quell’andare precario e traballante, quelle automobili che sapevano più di carretti a mano, seppure di lusso, rimangono nella memoria come delle escursioni in cui quando le cose andavano male in realtà erano andate benissimo». “Le dispense della cucina mandavano quell’odore tipico di olio, fave, pesce conservato che si chiamava riposto” Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 Nell’aprile 1907 veniva pubblicato “La via del rifugio”, il suo primo libro. Dieci anni dopo la raccolta di reportage dall’India, “Verso la cuna del mondo” Un doppio anniversario che invita a ripercorrere la breve vita di questo autore che si attribuiva “poca voce” ma che ha attraversato il Novecento con successo crescente Guido Gozzano Il poeta di Nonna Speranza postmoderno cent’anni fa PAOLO MAURI l 1907, per Guido Gozzano, fu l’anno del debutto. Aveva, fino ad allora, pubblicato qualcosa in piccole riviste, ma solo ora tentava il libro. La via del rifugio uscì dunque ai primi di aprile, esattamente un secolo fa, per i tipi di Renzo Streglio, un editore di origine canavesana che aveva bottega nella Galleria Subalpina, in pieno centro di Torino. La madre di Guido, Diodata Mautino, partecipò alle spese o se le accollò in toto, è un particolare mai chiarito fino in fondo. Con la copertina disegnata da Filippo Omegna l’esile volumetto cominciava dunque la sua carriera e il «bel Guido» con lui. Italo Mario Angeloni fu il primo a scriverne sul Momento, il quotidiano cattolico di Torino, in una nota dedicata a tre libri di poesia, poi ci fu Francesco Chiesa e poi Francesco Pastonchi sul Corrieree diversi altri. Non ci fu invece la critica di Dino Mantovani, che allora teneva cattedra sulla Stampa. Una delusione? Sebbene ostentasse indifferenza il giovane poeta (aveva allora ventidue anni) era tutt’altro che disattento a quanto lo riguardava. Basta leggere, in una lettera all’amico Carlo Vallini, poeta anche lui e autore del poemetto Il giorno, la reazione ad una nota del Momento successiva alla recensione di Angeloni. Diceva, questa nota, che la Direzione del giornale per rispetto del pubblico doveva necessariamente dire «che tale volume è macchiato da tali immonde sozzure e turpitudini da doversi ritenere inutile qualsiasi ulteriore giudizio critico». Gozzano riceve il giornale a Camogli e scrivendo agli amici una lettera collettiva così reagisce: «Ah, il Momento! Merda. Com’è divino il mare», e dopo la digressione marina organizza il contrattacco e cerca commenti sul commento del quotidiano: «Mi si vuole far passare per un rinnegato! Ma — Cristo porco! — vi pare che ci sia in me la stoffa di un anticlericale?». Il 1907 è anche l’anno in cui la tubercolosi, che già si era manifestata anni prima, si acutizza: Gozzano è al mare per curarsi, la medicina impotente lo invita a cercare «bei cieli più tersi»: un calvario che lo porterà fino in India (come racconta in questa stessa pagina Federico Rampini) e si concluderà con la morte precoce a soli trentatré anni, nel 1916. Ma torniamo all’esordio: esile il libro lo era davvero. Erano state eliminate, su consiglio di un altro intimo amico giornalista e poeta, Mario Vugliano, le poesie meno originali. «La voce è poca» avrebbe scritto di sé Gozzano. In un memorabile saggio Eugenio Montale fece i conti: La via del rifugio conteneva esattamente ventiquattro poesie e altrettante ce ne erano nei Colloqui, la raccolta del 1911 che sarebbe stata il libro suo maggiore e definitivo. Se si considera che due poesie dei Colloqui, la celebre Nonna Speranza e Le due strade, figurano già nella prima raccolta con qualche variante, si vede bene quanto sia breve la via percorsa da Gozzano. Breve e, se mi si passa l’aggettivo, miracolosa. È proprio Montale a riconoscerlo: Gozzano attraversa D’Annunzio e se ne distacca, gli sopravvive proprio come si sopravvive ad una malattia. Ed è Gozzano stesso, letterato malato appunto di letteratura, a gioirne in versi e a ringraziare il buon Dio che poteva «invece di farmi gozzano / un po’ scimunito, ma greggio / farmi g (abriel) dannunziano: / sarebbe stato ben peggio!». E seguita: «Buon Dio e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva...». Il vezzo di nominare se stesso in versi, Gozzano lo ebbe dunque da subito: sicché si può dire che Guido Gozzano o meglio guidogozzano in tutte minuscole, è il vero personaggio della sua poesia, con uno scarto che ne fa un esempio abbastanza unico, a parte Dante, naturalmente. Ma quando dico “vero” non intendo dire “autentico” perché Gozzano ama il falso e il primo falso è il proprio alter-ego messo in versi: «Quello che fingo d’essere e non sono». La profondità della poesia gozzaniana sta tutta nel gioco che si instaura tra l’apparente e piana narrazione di un mondo provinciale e borghese (il I salotto di Nonna Speranza, la villa della Signorina Felicita) e la perfetta falsificazione del medesimo, che sola lo rende perversamente godibile. Gozzano vive dunque di “citazioni”, di estratti, di esibite malinconie e di improvvisi cambi d’abito, come quando dice «sì mi vergogno d’essere poeta» annunciando d’aver intravisto in sé la «stoffa del borghese onesto». Cita il passato con la grazia e l’ostentazione di un preraffaellita, ma va più in là: l’alto e il basso in lui si congiungono (è lo “shock” delle cose stridule che notò Montale, il gusto di accoppiare le statue antiche con i prodotti dell’orto, i porri e l’insalata). Immaginiamo di “girare” le scene che avvengono nel celebre salotto di Speranza con un ritmo più rapido: entrano gli zii «molto dabbene», la conversazione si fa cicaleccio, i frutti di marmo / protetti da una campana di vetro / cadono a terra. Non è quasi una farsa? In una lettera a Carlo Vallini, Gozzano immagina di tentar di chiavare Carlotta sul divano chermisi, ma non ci riesce perché teme l’arrivo degli zii. Goliardia? Gozzano, eterno studente in legge che non si laureò mai, anche se nella Signorina Felicitasi rappresenta già Avvocato, fu anche un goliarda e se ne tramandano le gesta innocenti, ma qui c’è di più. Non sembrano le scene messe in piedi da Gozzano dei teatri di posa? La recitazione è così perfetta che si teme lo stop del regista, ma recitazione resta. Gozzano finge tutto e si innamora della sua finzione. Sicché la critica meno accorta che si avvide solo dell’involucro esterno fece spallucce e si girò dall’altra parte, ma i lettori più fini a cominciare da Renato Serra intravidero lo spessore di una avventura poetica che non cessava mai di sorprendere. E solo così si spiega il successo ormai, s’è detto, secolare e le rinnovate letture che ogni generazione s’ingegna di aggiungere. Come dire: un’officina sempre aperta che dal volume di Calcaterra e dai lavori di Giovanni Getto approda al già menzionato saggio montaliano e all’exploit di Sanguineti, al Meridiano curato da Andrea Rocca e, ancora, alle indagini di Guglielminetti, Mondo, Contorbia, Zaccaria e della Masoero. Non cito che qualche nome: all’Università di Torino è attivo un centro studi intitolato a Gozzano e da decenni si fruga tra le sue carte, alla ricerca di qualche spicciolo in più. Montale si domandava che cosa i posteri avrebbero pensato di lui e si provava a rispondere. Definito crepuscolare da Borgese, Gozzano ha assunto le vesti di un classico e insieme del primo poeta che contrabbanda l’Ottocento in vesti novecentesche. Non mi stupisce affatto, in un recente studio di Giuseppe Zaccaria, vederlo diventare “postmoderno” con un vertiginoso aggiornamento, se non altro lessical concettuale, che tuttavia rende bene l’operazione, esibita, del riuso. Ricordate l’inizio di Totò Merumeni? «Col suo balcone incolto, le sale vaste i bei / balconi secentisti guarniti di verzura, / la villa sembra tolta da certi versi miei, / sembra la villa tipo, del Libro di Lettura». Smontare una poesia gozzaniana non è cosa da poco: si trova sempre un altro sottofondo: l’ironia è una forma di chiaroveggenza. Congediamoci da lui frugando nella soffitta di Villa Amarena, dove si aggirano i fantasmi del Passato. «Tra i materassi logori e le ceste / v’erano stampe di persone egregie; / incoronato delle frondi regie / v’era “Torquato nei giardini d’Este”. / “Avvocato, perché su quelle teste / buffe si vede un ramo di ciliegie?”. / Io risi, tanto che fermammo il passo, / e ridendo pensai questo pensiero: / Oimè! La Gloria! Un corridoio basso, / tre ceste, un canterano dell’Impero, / la brutta effigie incorniciata in nero / e sotto il nome di Torquato Tasso!». Pensava a se stesso? Può darsi. È allora che con gesto gozzaniano guarda dall’abbaino il panorama, deformato dal vetro: «Non vero (e bello) come in uno smalto / a zone quadre, apparve il Canavese». E rende per sempre “sua” la sua terra. Repubblica Nazionale DOMENICA 1 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 AUTORITRATTO AL FEMMINILE Qui accanto due fogli di una lettera in cui Gozzano si disegna in vesti femminili (dal libro Lettere a Carlo Vallini con altri inediti, a cura di Giorgio De Rienzo, Torino, Centro studi piemontesi, 1971). In basso, il poeta fotografato con la madre Nell’illustrazione al centro, Gozzano visto da Tullio Pericoli E la sacerdotessa-prostituta gli svelò i misteri indiani FEDERICO RAMPINI a bellezza e la grazia raggiunge nelle donne una perfezione forse eccessiva: si direbbe che avanzano a un passo di danza, avvicendando i piedi nudi e gemmati sulla stessa linea retta, il che fa ondulare le anche con un ritmo procace, mentre le braccia ignude, cerchiate di smaniglie, sono sollevate in alto ad equilibrare strane anfore di argilla variopinta o di rame». Guido Gozzano, autore di questo ritratto della femminilità orientale, era arrivato in India nel febbraio 1912 per una ragione improbabile: curarsi. I medici italiani gli avevano suggerito di andare nel Paese dei monsoni, infestato dalle epidemie, a cercare «un clima favorevole ai polmoni malati». Lo scrittore ne approfitta per inviare alla Stampa di Torino un diario di viaggio a puntate. La raccolta viene pubblicata dagli editori Treves nel 1917 con il titolo Verso la cuna del mondo. Gozzano giunge in India con le aspettative favolose che su quel Paese si erano stratificate in secoli di “fantasie orientali”. L’opulenta Golconda rivaleggiava con i luoghi delle Mille e Una Notte nell’immaginario degli italiani. Sull’induismo lo scrittore è impregnato dei pregiudizi dei missionari, ma impara a correggerli sul luogo. Dallo sbarco a Bombay all’esplorazione delle coste meridionali, Gozzano si libera di quello che credeva di sapere, si lascia trasportare dalla potenza dell’impatto con l’India. Pratica uno stile di scrittura sobrio, fatto di lievi tocchi impressionistici: gli consente di raccontare un viaggio intimo nelle proprie emozioni, e insieme di raccogliere con delicatezza i dettagli dei paesaggi, l’umanità, i costumi. Lo shock dell’incontro fra le religioni è uno dei motivi di spaesamento. Arrivato a Goa, ex colonia portoghese, Gozzano ricorda che «il cristianesimo fu predicato in questa parte dell’India da San Tommaso, qui dunque si pronunciava il nome di Cristo quando l’Europa era ancora pagana, è un pensiero che dà quasi uno sgomento d’esotismo estremo, di lontananza misteriosa nello spazio e nei secoli». Goa lo turba per le rovine imponenti della civiltà latino-cristiana dei colonizzatori, sfigurate dalla natura tropicale. «Sosto nella frescura ombrosa d’un frammento di volta a sesto acuto, rimasto in piedi per prodigio, poiché sorretto da un solo muro superstite. La mia nostalgia s’illude per un attimo d’essere in una chiesa diroccata della Romagna o dell’Abruzzo. Ma tre scimmie oscene — vero simbolo apocalittico di Satanasso — occupano il vano dell’abside, una frotta di pappagalli minuscoli corre sulle quattro ogive; non l’edera, non la lucertola amica animano la pietra morta, ma uno strano rampicante dai fiori sogghignanti, e i camaleonti diabolici, dagli occhi strabici». Non appena s’imbatte nei missionari percepisce la loro ripugnanza per i culti locali, che al cattolico sembrano intrisi di una sensualità morbosa. Eccolo in un tempio di Madurai nel Tamil Nadu: «Passa il corteo di Parvati portando in giro l’immagine della moglie di Siva; il feticcio, pupattola d’oro massiccio, dalla vita sottile, dai seni turgidi, dagli occhi d’onice incastonato sotto l’alta mitra ingioiellata, appare, dispare attraverso le cortine della ricca portantina. Accompagna la scena un rombo di tam-tam, uno stridìo discorde di trombe e pifferi, incutendo nell’anima del forestiero un senso di paurosa diffidenza, come un mistero tetro e grottesco. Ovunque nel tempio famoso è una profusione di tesori e l’incuria più laida. Un’infinità di lampade votive disegnano gli idoli colossali. Veramente non pensavo di trovare così intatta l’India favolosa, le forme imparate a conoscere fin dall’infanzia sulle incisioni e sui libri. È questa la terra di Brama? Di Brama l’ineffabile, colui che non dobbiamo nominare, se vogliamo che sia presente? Ma qui il nome divino è feticismo immondo, praticato da un popolo forsennato che ha ridotto le speculazioni astratte a un simbolismo pazzesco; un popolo che adora questi simboli e li ignora, un popolo che si genuflette, grida, invoca e non sa chi, non sa che cosa». Lungo il viaggio le resistenze di Gozzano verso le liturgie locali si attenuano, lasciano il posto alla simpatia. La spiritualità locale gli impone severi paragoni con l’Occidente. L’emozione più forte lo coglie a Benares sul Gange, il fiume sacro dell’induismo dove si celebrano anche i funerali. «Sono le sette, l’ora della preghiera mattutina. E tutto ciò che vive scende verso il fiume. Dalle scalette tortuose tra palagio e palagio scende una folla varia, densa, incessante; uomini, donne, fanciulli, vecchi, giovani fachiri, pellegrini. E tutti pregano e meditano. La mia barca passa loro innanzi, deve deviare per non urtarli, ma quelli mi fissano e non mi vedono. Il loro sguardo è al di là, la loro anima è perduta negli abissi dell’ineffabile. Strana città dove tutti credono! Perché molti di costoro non sono fachiri, né santi, né pellegrini. Sono uomini di venti, di trent’anni, vigorosi e sani: artigiani, mercanti, soldati, operai che risaliranno le scalee per riprendere la lotta consueta, che rientreranno nella vita, ma che ogni giorno, due volte al giorno, scendono nella morte, s’immergono nel fiume a colloquio con la propria anima, per prepararsi quotidianamente al trapasso inevitabile. Odioso confronto coi nostri uomini, con i nostri borghesi occidentali che ignorano ogni cosa dell’anima, deridono ogni scienza dello spirito». Gozzano incontra una figura oggi ufficialmente scomparsa perché fuorilegge, la Devadasis che pratica la prostituzione sacerdotale, «ancella di dio» di famiglia nobile istruita nello studio del sanscrito, dei poemi sacri, del canto e della danza. Arrivata alla pubertà «il fiore della sua bellezza deve essere raccolto da un protettore di stirpe nobile, un nabab che sarà legato a lei con un vincolo indissolubile». Questo legame inizia da parte della sacerdotessa «un tenor di vita che a noi parrebbe della più spudorata infedeltà. Poiché da quel giorno essa è addetta al culto di Ramba-Devi, la Venere del Paradiso d’Indra, attende a cerimonie non descrivibili, ed è offerta dal sacerdote a tutti quei devoti d’alta casta che pagano un obolo adeguato». Gozzano non si fa velo della morale cattolica. «Sono i venti secoli di cristianesimo che dinanzi a tali consuetudini ci fanno arrossire di pudore o sorridere di malizia. Noi non possiamo comprendere un culto erotico». Viene invitato a casa di un bramino ad assistere alla danza recitativa di una Devadasis, rimane affascinato dal movimento delle mani. «All’estremità delle braccia immobili, s’agitano con un movimento vertiginoso di rotazione e di distorsione che sembra sconvolgere ogni legge anatomica. Hanno un officio importantissimo: disegnare lo scenario e le didascalie. Sulla misera cortina di stuoia appare la reggia favolosa, la riva del Gange, il paradiso di Indra. La sola mimica della donna basta a rivelarmi che in quell’istante la regina agonizzante giunge sulla riva del fiume, scende nelle acque sacre. Il dolore, l’ansia, si tramutano in una gioia che fa del volto contratto un mistero di delizia. La morente rivive, invoca l’Eros dell’Olimpo bramano in una strofa erotica che certo non troverebbe veste decente in nessuna lingua europea, e la mimica si esprime con un’intensità che dà il brivido: brivido d’amore, brivido di morte. La donna arrovescia il capo, lo rialza; il suo volto è calmo, è uscita dalla ruota dell’esistenza, è giunta nel regno dell’impossibile: il non essere più, la grazia le è stata concessa nell’amplesso di Dio». Sotto l’Impero britannico l’India che visita Gozzano sembra segnata dal Kamasutra più che dal puritanesimo. Negli stessi anni Edward M. Forster sta scrivendo Passaggio in India, il romanzo dove la suggestione sensuale travolge una giovane inglese, convincendola di essere stata vittima di uno stupro, mentre visitava in preda al turbamento le mitiche grotte di Marabar. FOTO GRAZIA NERI «L La sua opera è come un’officina sempre aperta, rileggere e smontare oggi le strofe gozzaniane riserva ancora sorprese: il componimento è pieno di doppifondi, l’ironia è una forma di chiaroveggenza Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 la lettura Marocco nascosto È passato molto tempo, un grande scrittore misura con i suoi passi e i suoi sguardi la medina dell’antica capitale dove è nato. Un viaggio che incrocia la memoria e il presente, un arco di anni che ha trasformato questo dedalo-gioiello pulsante di vita e di storie in una vetrina dal cuore straziato e dall’anima assente Ritorno a Fès, città delle città TAHAR BEN JELLOUN È FÈS passato molto tempo prima che riuscissi a ritornare a Fès che, con i miei genitori, avevo lasciato nel 1955. Un bambino di dieci anni non può apprezzare le bellezze e il valore di una medina fondata nell’808 e che da allora non è cambiata. È come se, per imparare a leggere, ti dessero da decifrare un immenso manoscritto la cui bellezza e ricchezza non appaiono immediatamente. Non eravamo consapevoli di abitare in una città storica, culla dei principali elementi della cultura araba e musulmana. Ricordo una città dalle viuzze strette, con i quartieri definiti dalle corporazioni artigiane. Ricordo che le famiglie di Fès avevano un’alta opinione delle proprie origini e che le altre città del Marocco non potevano che essere sbiadite repliche della città delle città, Fès. Ho vissuto la mia infanzia in questa medina e non ricordo di essere stato molto felice. D’inverno faceva molto freddo, d’estate molto caldo. Tuttavia nella mia memoria sono rimaste le pepite di qualche ricordo. *** Fès, primavera 1951 Stamattina mia madre si è alzata molto presto. Fa le pulizie di casa. Mio padre è andato a fare la spesa al mercato. Mi ricordo che è uscito con due grosse sporte in mano. Mia madre è nervosa. Ha saputo soltanto ieri che il mio zio di Tangeri sarebbe venuto a passare qualche giorno di vacanza da noi. È un uomo esigente. Bisogna riceverlo come si deve. Non una nota stonata. Non una traccia di polvere. Si dice che sia maniacale, e lo stesso vale per sua moglie. Arrivano con tre dei loro bambini. Panico. È la prima volta che vengono a casa nostra. L’anno scorso hanno ospitato i miei genitori nella loro casa di Tangeri per quasi un mese. Mia madre è sola. Sale sulla terrazza e chiama la vicina migliore: mi aiuti? Puoi chiedere a Fdela di venire a darmi una mano? Ma certo, siamo vicine e amiche. Mio padre arriva seguito da un portatore, che a Fès chiamano zerzay. Ha comperato tutto ma ha dimenticato il coriandolo e lo zafferano puro. Ah, la rabbia di la mia madre quando se ne accorge! Hai dimenticato le cose più importanti! Mio padre cerca di placarla. Niente da fare, bisogna tornare al mercato, nel quartiere Rciff da Si Larbi, l’unico ad avere lo zafferano puro, non adulterato, mentre il coriandolo occorre andarlo a prendere a Benjbara. Il treno arriva a fine giornata. Fdela prepara il salotto e le camere. Per fortuna, il periodo del grande freddo è finito. I bambini dormiranno sui materassi del salotto, mio zio e sua moglie nella camera dei miei genitori, segno di grande ospitalità. Mio padre osa ricordare a mia madre che loro avevano dormito nella camera del figlio maggiore di mio zio, che studiava in Spagna. Mia madre protesta: io, quando ricevo qualcuno, ai miei ospiti offro il meglio, preferisco privarmi di qualcosa ma voglio che siano ricevuti nelle migliori condizioni e si trovino bene. I miei principi, la mia educazione sono così. Mangerò gli avanzi. Esageri, le dice mio padre. Faccio quel che faccio perché è la tua famiglia, è normale che sia nervosa e attenta al minimo dettaglio. Mio padre ha assoldato uno zerzay e un mulattiere. È andato alla stazione. Mia madre ha finito di preparare tutto e si riposa in un angolo del salotto. Si è assopita. Arrivano a tarda sera. Nessuna voglia di cenare. Mia madre è delusa. No, crolliamo dal sonno. Tutto il cibo cucinato è rimasto nelle pentole. Per fortuna che non era estate. Non avevamo un frigorifero. La mattina dopo, mio zio ha distribuito i regali. Un bel tessuto per mia madre, un taglio di flanella per mio padre, per me e mio fratello e una stilografica Parker e due vasetti di marmellata di fragole. Ah, la marmellata! Che sapore raffinato, con quei pezzi di frutti di cui non conoscevo l’esistenza, quel retrogusto ruvido e morbido allo stesso tempo, che cosa nuova e buona… Mia madre aveva nascosto i barattoli in cima alla credenza. La notte, mio fratello e io ci alzavamo e partivamo alla ricerca di quei vasi che contenevano il sapore del paradiso. *** Fès, febbraio 2007 Vista dal terrazzo dell’hôtel Palais Jamaï, la medina è una vecchia signora di un silenzio e di una calma sorprendenti. Se non ci fossero sullo sfondo le stratificazioni del fumo nero liberato dai forni dei vasai, verrebbe da credere che Fès fosse morta, di trovarsi davanti a una tomba fatta di pezzi accatastati uno sopra l’altro e di tetti ingombri — ahimè — di parabole e di antenne. La medina è un mistero muto. Non lascia trasparire nulla. Nessuna spiegazione, nessun segno che ti guidi sul percorso per comprendere la città e ciò che nasconde dietro le sue pietre e i suoi silenzi. Fès è lì, imperiale come dicono gli opuscoli turistici, indifferente al mondo diremmo noi, ma di un’indifferenza che deriva più dalla maestosità che da una volontà di essere al di sopra delle altre città. Per molto tempo i nativi di Fès sono stati convinti che la loro città fosse speciale e fuori portata, che le altre città non potessero essere che surrogati della città delle città. La medina è incustodita. È stata abbandonata. Quelli che l’hanno amata non ci sono più. Le famiglie si sono spostate verso l’uscita, dove i Francesi hanno costruito delle case. La chiamano “la città nuova”. Non è più nuova, ma sempre brutta, senza interesse. Quelle stesse famiglie si sono spostate ancora più lontano, a Casablanca, città degli affari, del commercio e dell’innovazione. Ci si è abituati ad assistere all’agonia della medina. Le pareti si sono crepate, le terrazze si sono infossate, le viuzze sono diventate strette. Pilastri di legno e di ferro tengono in piedi case stanche che minacciano di crollare. Dodici secoli di vita e l’assenza di manutenzione hanno finito per sfigurare una civiltà. È il tempo della sopravvivenza. Va tutto al rallentatore. I quartieri che portano il nome dei mestieri non hanno più rapporto con il significato originario. Si fa artigianato ma i turisti scarseggiano e la medina soffoca. Sono le ingiurie del tempo. Si tenta di rimediare, di apportare qualche correzione. Questo recente sussulto lo chiamano restauro. La pietra, il legno, il marmo e lo stucco vi si prestano, ma l’uomo, il bambino dei vicoli bui, il gruppo dei ricordi, le esalazioni di odori nauseabondi o di profumi sofisticati, tutto quello che costituisce il cuore di una città, come restaurarlo? Da che parte cominciare? È un’altra questione, una sfida difficile. Una città così carica di storia che vacilla sotto il peso di ciò che porta o di ciò che le fanno portare, un peso che varia secondo gli sguardi che l’attraversano. Cosa mostrerà a quell’americano fiero di aver osato fare il turista in un paese musulmano, un uomo che osserva la pietra e cerca in un libro la pagina corrispondente? Fès non mostra niente. Certo, espone i suoi mestieri più o meno ben fatti, vende i prodotti dei suoi artigiani e passa il tempo ad aspettare. Forse a un profeta verrà l’idea di fermarsi a Bab Mahrouk, una specie di risposta a Eboli, dove, almeno in un romanzo, sembra che Cristo si sia fermato. Bab Mahrouk! La Porta del Bruciato! Chi sarà stato l’infelice che ha dato questo nome a un posto così importante, in mezzo all’arteria più lunga della medina? Arrivando nel quartiere di Shrabliyen, dove lo Stato sta restaurando la moschea costruita nel 1206, sento delle grida. Un litigio. Alcuni curiosi tendono l’orecchio. Non capisco i termini della lite. Mi fermo e mi appoggio alla porta della bottega di un artigiano che vende graziose babbucce. Mi dice: si vede che sei di Fès, ma di quale quartiere, di quale epoca, di quale ramo? Uno di Fès si riconosce subito: l’eleganza, vecchio mio, e poi la presenza, la raffinatezza... come ti chiami? Ah, sei un jellouni, i tuoi antenati hanno dovuto lasciare la Spagna in fretta e furia, più di cinquecento anni fa! Di quale ramo? Siete fehri, touimi, o benjelloun dell’Andalusia? Tuo padre non è quello che aveva il deposito al Diwane, quel grande negozio di spezie all’ingrosso, erano due fratelli, di fronte alla piccola moschea... persone perbene, gente di qualità... oggi è meglio non andare vedere com’è diventato il loro negozio. Ci vendono plastica importata dalla Cina. Ah, questa Cina che ci invade delicatamente, in silenzio, vedi questi babbucce fatte a mano, certe volte ne trovo a un decimo del costo di produzione, semplicemente fatte in Cina, ma gli esperti non comperano la merce fabbricata in Cina alla bell’e meglio, vengono da me, non sono numerosi quelli che preferiscono la qualità e sono disposti a pagare il giusto prezzo! Me lo ricordo, tuo padre, non è mai stato alla Mecca, era l’unico a dire che il pellegrinaggio era diventato soltanto un pretesto commerciale. Siediti, che ti ordino un tè. Devo raccontarti la storia di queste urla. È la storia di una donna — non è delle nostre parti, voglio dire che non è una di Fès, qui dei dintorni, forse è di Fassjdid, la città nuova, il marito ha divorziato e l’ha lasciata con tre bambini. Succede sempre più spesso, con i tempi che corrono; prima non divorziava nessuno, si litigava ma non si abbandonava per la strada la madre dei propri figli. Il marito, un uomo di Fès, uno istruito, non andava più d’accordo con la moglie e soprattutto con la famiglia di lei che era sempre lì a metter becco nei fatti loro. Alla fine è scappato, ma si è comportato bene: le passa un buon mensile, è un uomo ricco. Le ha lasciato la casa e continua a provvedere alle necessità di tutti. È molto generoso e per nessuna ragione al mondo lascerebbe i suoi figli in condizioni di necessità, ma la donna, istigata dalla madre, è diventata insopportabile. Soffre, grida e vuole distruggere tutto. La sua sofferenza deriva dal fatto che l’ex marito si è risposato e la nuova moglie ha appena partorito. È gelosa da impazzire. Un giorno ha tentato di pugnalare la nuova moglie, ma qualcuno è intervenuto e il dramma è stato evitato. È accecata dalla gelosia. Ha buttato fuori di casa il figlio maggiore perché si è avvicinato al padre ed è diventato suo complice. Lo detesta, lo rinnega e l’altro giorno gli ha strappato tutti i vestiti e i libri. Ha perso la testa e vedeva suo figlio come il suo peggior nemico semplicemente perché andava d’accordo con la nuova moglie del padre. Qualcuno le ha consigliato di sporgere denuncia contro questo figlio che si è messo dalla parte sbagliata. Stamattina è fuori dai gangheri perché, appena ha sporto denuncia, il figlio è stato messo in prigione. Già, devi sapere che, in Marocco, se un genitore denuncia il proprio figlio, la parola del genitore non viene messa in discussione e il giudice non ha bisogno di testimoni per punire il figlio. È molto raro che succeda, qui da noi, ma la follia ha spinto questa donna a commettere l’irreparabile. Nella denuncia, redatta dal padre della donna, il ragazzo era accusato di aggressione all’arma bianca nei con- Era il 1951, lo zio di Tangeri mi regalò una marmellata di fragole: che cosa nuova e buona, con quei pezzi di frutto che non conoscevo... fronti della madre. È dovuta andare dal giudice a piangere tutte le sue lacrime davanti a lui per convincerlo a far rilasciare il figlio arrestato. Ha ritirato la denuncia e il giudice ha minacciato di farla perseguire per abuso di ricorso alla giustizia. Ecco perché è tutta la mattina che strilla. Nel frattempo, il figlio si è trasferito definitivamente a vivere dal padre. Vedi, all’epoca dei tuoi genitori queste cose non succedevano. Oggi, i giudici sono sommersi dalle domande di divorzio. Tutto sta cambiando e Fès non è più in Fès, poveretta, è cambiata molto, si è svuotata dei suoi abitanti, quelli che ne sono degni e la conoscono bene. Oggigiorno quelli che ci abitano sono stranieri, voglio dire contadini, brava gente ma ignoranti che non sanno dove stanno... è su Fès che si dovrebbero versare lacrime, non su un marito che se ne va… *** La fontana Nejjarine è stata restaurata. È su tutte le cartoline. Il ministero degli Habus sta restaurando la Qaraouiyine, la prima università araba e islamica al mondo fondata da una donna. Ci sono i lavori in corso anche in una parte del mausoleo di Moulay Idriss. Ma Fès è stanca, forse malata, e non sopporta più il peso del tempo. Questo patrimonio universale crolla sotto il peso dei suoi occupanti. Per restituirlo all’estetica e alla bellezza delle origini, occorrerà svuotarlo dei suoi abitanti, cosa impossibile e che nessuno desidera. Infatti Fès è anche gli uomini e le donne che la riempiono, che le infondono il suo soffio umano. Tra la pietra e la persona, la scelta è presto fatta: la persona. *** Dopo questa visita alla medina, esco dallo Rcif passando da Bab Sidi El Aouad e mi ritrovo su una piazza trasformata in parcheggio per automobili. L’asfalto si è mangiato una parte della medina, sul lato verso Bou Ajara. Nella mia infanzia le macchine venivano tenute a distanza. Arrivavano fino alla Batha o davanti alle porte principali della città, come D’estate, la siccità delle pietre si combina con l’ebbrezza della luce che scende nelle case senza tetto, case aperte sul cielo Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 FOTO CORBIS DOMENICA 1 APRILE 2007 Bab Ftouh, Boujloud, Bab El Khokha. Quando il marito di mia zia veniva a trovarci, lasciava l’auto all’entrata di Bou Ajara. Io correvo a vederla, a toccarla, ad annusarla. Adoravo l’odore di benzina che sprigionava. Per me era sinonimo d’evasione, di sogno, di viaggio e soprattutto di entrata in un altro mondo, il cosiddetto mondo moderno. La modernità, all’epoca, si definiva con oggetti e tecniche importati dall’Europa. Noi bambini della medina, vivevamo ancora nella Jahilya o quasi. Mio padre mi raccontava di come il figlio primogenito dei nostri vicini fosse riuscito, dopo una lunga lotta, a convincere il nostro vicino, un nazionalista piuttosto rigoroso, a lasciarlo andare in Francia per gli studi superiori. Il ragazzo, vestito in maniera tradizionale, un giorno partì per Casablanca dove prese una nave che lo condusse a Marsiglia, di là poi prese un treno e arrivò a Parigi dove il direttore del Politecnico lo stava aspettando, perché era il primo marocchino a iscriversi in quella scuola importante. Era curioso di vedere che aspetto avrebbe avuto questo giovane che arrivava da un paese vicino, protettorato francese, ma anche da una società rimasta praticamente nel medioevo. Era subito dopo la guerra. Il futuro studente del politecnico aveva dovuto lasciare Fès in jellabae séroual. Arrivato a Casablanca, si comperò un completo occidentale e passò dal parrucchiere a farsi tagliare la treccia, segno di appartenenza ad una vecchia tradizione. Un anno dopo, il giovane tornò a trascorrere le vacanze in famiglia. Il padre, fiero ma ansioso, gli chiese: come hai passato il mese di ramadan? Facevi tutte le preghiere? Aveva paura della contaminazione dell’occidente, paura di perdere il proprio figlio, paura che la lingua francese gli rapisse quel figlio che era stato tanto brillante negli studi della lingua araba. Aveva motivo di temere tutte queste cose. Citava l’esempio del figlio di un amico, partito per andare a studiare medicina a Bordeaux, che non soltanto perse la fede ma sposò una francese e rinunciò agli studi. Non osava più ritornare a Fès: si vergognava e non aveva il coraggio di affrontare l’ira del padre. LUOGO SACRO Fès, considerata il centro spirituale del Marocco, è stata fondata sul finire dell’Ottavo secolo da Idris I , discendente di Maometto. Il figlio Idris II la elesse capitale della sua dinastia nell’808 Rimase tale con alterne vicende per secoli fino a quando, sotto il protettorato francese, perse questo status in favore di Rabat In questa medina, molti uomini sono nati, hanno frequentato la scuola coranica, hanno lavorato duramente, non sono mai andati al mare ma non si sono mai lasciati sfuggire i piaceri della primavera: gite in campagna alle fonti termali di Sidi Harazem per gli uni, soggiorni terapeutici ai bagni di Moulay Yacoub per gli altri. Rituali che i bambini adoravano e che davano molto lavoro alle donne, perché si stava via per due o tre settimane, andando ad abitare in case senza comodità dove, per garantire un soggiorno felice alla famiglia, bisognava farsi in quattro. Oggi le due stazioni balneari sono state modernizzate e il rituale è stato abbandonato. L’acqua di Sidi Harazem viene imbottigliata e Moulay Yacoub è diventato un centro di cure per psoriasi e reumatismi. A Fès il mistero non c’è più. Si è spostato o forse è proprio scomparso. Quando ti dicono che il nome di Fès non ha alcuna ambiguità perché lo storico di Cordova Er-Razi (Decimo secolo) lo ha spiegato così: «Mentre facevano gli scavi per le fondamenta, portarono alla luce un piccone (fas) così fu chiamata madinat Fas (la città del piccone)», non si può non restarne delusi. «La Città del Piccone»! La Città delle città porta il nome di un attrezzo! La gente di Fès rifiuta, ovviamente, quella spiegazione. Per loro Fès non ha nessun bisogno di giustificare il suo nome. Non è una questione di logica. A Fès non si chiede conto di nulla. Fès è eterna, con la sua luce filtrata dai graticci di canne, con le sue pietre larghe e i profumi raffinati. La popolazione è cambiata ma i luoghi non si sono mossi. Attraversandoli, si scopre ogni volta un’impressione nuova o si rettifica la dimensione dei ricordi. Per me è un esercizio violento e necessario: la memoria mi raccontava una storia dopo l’altra, mi ILLUSTRAZIONE DI GIPI prendeva in giro, trasformava la casa della mia infanzia in un palazzo immenso, infondeva nel chiaroscuro dei vicoli una luce sublime, spingeva le pareti per allargare gli stretti passaggi in ampi viali inondati dal sole. Tra la Karaouiyine e il mausoleo di Moulay Idriss ci sono solo negozi. Prima, ogni strada era riservata a un commercio preciso: mercanti di candele, profumieri, venditori di babbucce, tessuti e ricami... oggi, le cose si mescolano e le botteghe artigianali hanno ceduto il posto ai bazar per turisti. La mia memoria si smarrisce, ci annega dentro come per non vedere come è cambiata la mia città. Non ricordo più i posti e le cose. Per ricostituire le tracce d’infanzia mi devo sforzare. «Si viaggia soltanto per conquistare o per farsi conquistare», scriveva André Suarès in Le voyage du Condottière. Quando torno a Fès sono spinto dall’idea di conquistare non la città ma un aspetto della città che mi è sfuggito molto tempo fa. Ho un bel girovagare, esplorare luoghi e persone, posso anche chiudere gli occhi e cercare in lontananza un profumo, un viso, un’emozione: non trovo nulla. Sconcertato, amareggiato e pieno di rammarico. Non sono più conquistato. Mi sento contraddetto e contrariato. Allora mi dico che dev’essere così per tutti, con la propria città natale. *** Anima ardente, spirito di una passione o di una nevrosi incurabile, Fès abita il cuore e la sensibilità di tutti coloro che ci sono nati. Il mondo si rivela lì, la vita si manifesta in un’evidenza contagiosa. Anche dopo che l’hai lasciata, non si assenta mai, rifiuta ogni tentativo di oblio, si erge nella memoria e non si lascia intaccare. Mi ricordo i giardini interni e quegli appartamenti quasi sospesi in mezzo agli alberi rigogliosi. Li chiamavano messryia, con una parola che probabilmente viene da Massr, l’Egitto. Ma per quale motivo? La messryiafungeva da rifugio per un ragazzo, un po’ come una garçonnière o un monolocale per studenti. D’estate, la siccità delle pietre si combina con l’ebbrezza della luce che scende diretta nelle case senza tetto, case aperte sul cielo, che ricevono più sole che pioggia, una siccità che malgrado tutto rende le case felici. Tutte le famiglie si conoscono, si osservano e si giudicano. Guai a colui che esce dal cerchio, a colei che prende la strada dell’avventura verso un paese straniero, che magari è poi la città accanto o la collina che la separa da Fès. A Fès, non ci si mescola con nessuno, si persevera nella stirpe, si coltiva l’origine, si affinano i legami, si canta insieme, si piange insieme, ci si sposa e non si divorzia. Quell’epoca è passata. Fès non è più un gioiello prezioso ed unico. Ormai è soltanto una vetrina dal cuore straziato, forse perfino dall’anima assente, disillusa, inconsolabile. Vedere la medina da una terrazza lontana, osservarla come una natura morta animata dalle piccole luci che disegnano finestre minuscole, lucernai dai quali passa la felicità. Si immagina che le piccole case siano felici, piene di bambini e di allegria. In arabo, quando si vuole augurare del bene a qualcuno, si dice «Dio riempia la tua casa». La solitudine non è gradita né ricercata. A Fès, l’individuo non esiste. Non è assolutamente riconosciuto. La prima domanda che ti fanno è: di che famiglia sei? Di quale ramo, precisamente? Ah, sei il figlio di... Ah, che famiglia, che Dio riempia eternamente la sua casa! Esiste invece la famiglia, la grande famiglia, quella che dà il senso alle cose, quella che disegna le linee e i percorsi, quella che decide e tiene le fila. Fès è stata per molto tempo un raggruppamento di grandi famiglie, quelle venute dall’Arabia, discendenti della stirpe del profeta, i chorfas, i nobili, e quelle espulse dall’Andalusia da Isabella la Cattolica. Queste ultime si sono mescolate: musulmani ed ebrei hanno vissuto insieme la tragedia. Alcuni ebrei si sono convertiti all’islam e questo spiega come grandi famiglie musulmane di Fès portino nomi d’origine ebrea: i Kohen, i Ben Chakroun, eccetera. Tutte le famiglie si conoscono, si rispettano, si osservano, talvolta si invidiano, si frequentano e naturalmente si sposano. A tenerle unite è soprattutto un codice di civiltà, leggi non scritte ma seguite con eleganza e naturalezza. Le feste rituali sono momenti in cui queste leggi entrano in gioco. Questo codice comprende anche quello dell’abbigliamento e quello delle spezie, cioè della cucina. La cucina di Fès è un punto d’orgoglio, come un vestito da cerimonia, un caffettano ricamato di fili d’oro e d’argento, una sorta di alchimia in cui l’arte della buona tavola è fondamentale. Per fare qualsiasi cosa bisogna prima sedersi attorno a un tavolo basso e rotondo. La cucina di Fès è la sorgente principale della cucina marocchina che ha il senso della diversità, dell’innovazione e della ricerca. Oggi che le grandi famiglie di Fès hanno lasciato la città, la sua cucina viaggia con loro attraverso il Paese. Traduzione di Elda Volterrani Il testo fa parte dell’opera Marocco Roman che l’autore sta preparando per Einaudi Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 D.A. Pennebaker girò nel 1965 il tour del “menestrello” in Gran Bretagna Nacque il primo rockumentario della storia, “Don’t look back” Quarantadue anni dopo, quel film-culto viene ripubblicato in cofanetto con rarissimi contenuti extra Il regista ottantaduenne ricorda quell’avventura a partire da quando il suo socio disse del musicista: “E chi è?” Dylan Bob Fotogrammi dai ’60 così nasce una rockstar “Accanto a lui c’è Joan Baez, la sua musa. Sono molti i momenti in cui compongono insieme, ma si intuisce una sorta di insofferenza verso di lei” GIUSEPPE VIDETTI l giorno in cui il manager Albert Grossman, varcò quella soglia, quarantatré anni fa, trovò esattamente lo stesso disordine. «Cercavo il signor D. A. Pennebaker», disse a Richard Leacock, il socio in affari del regista, «volevo proporgli di girare un film su Bob Dylan». «E chi è Bob Dylan?», rispose Leacock. Grossman non si scoraggiò, tornò il giorno dopo e chiese a Pennebaker in persona se voleva filmare il tour inglese del suo giovane pupillo. Pennebaker accettò e le quattro settimane di quella primavera del 1965 in cui con una sedici millimetri seguì ogni spostamento del menestrello in Gran Bretagna servirono a raccogliere le immagini per uno dei più acclamati esempi di cinéma verité e per il primo “rockumentario” della storia. Don’t look back, presentato in anteprima a San Francisco, non senza polemiche, il 17 maggio 1967, viene riproposto quarant’anni dopo in un cofanetto in vendita dal 20 aprile che contiene il film originale, un dvd di inediti, il flipbook del video-cult Subterranean homesick blues e il libro con i dialoghi pubblicato nel 1968 e mai più ristampato (Ed. Sony/Bmg, 152 minuti, 40 euro). Lo studio di Pennebaker, il regista che oggi ha ottantadue anni, è un cimelio da modernariato. Si trova in una palazzina prestigiosa dell’Upper East Side di Manhattan ristrutturata di fresco, ma l’interno dell’appartamento non tradisce nessun segno di modernità. È come entrare in un libreria antiquaria, lo stesso odore penetrante, la stessa inquietante penombra: ovunque vecchi libri, vecchi giornali, vecchie locandine, persino una macchina per scrivere che non dà l’idea di essere inutilizzata. Le cerniere dei vecchi armadi stanno cedendo sotto il peso degli sportelli, i cassetti fanno fatica a rientrare FOTO CORBIS I NEW YORK LE COMPAGNE Dall’alto, Dylan con Joan Baez nel 1965 e nel 1982; con la moglie Sara nel ‘69 nei binari consumati. Non ci sono televisori né computer in giro. Il tavolo da montaggio è lì davanti al maestro, devastato dai segni dei taglierini. Una volta si lavorava di lama e di nastro adesivo per creare le sequenze volute. Il digitale, con le sue comodità, è rimasto completamente tagliato fuori dall’universo Pennebaker. Le uniche novità sono il dvd di Monterey pop, che documenta le leggendarie performance di Otis Redding e Jimi Hendrix filmate dal regista nel ‘67, e l’anteprima del cofanetto Don’t look back. A nessuno dei due è stato ancora tolto il cellophane. Sul muro d’ingresso, mimetizzato tra immagini d’epoca, il manifesto di 101, il documentario sui Depeche Mode del 1989, l’unico suo contributo al pop contemporaneo. «Vede, io non sono mai stato attratto dalla celebrità», esordisce il regista, che nel 1993 ebbe una nomination all’Oscar per The war room, un dietro le quinte della campagna presidenziale di Bill Clinton. «A Grossman dissi subito sì perché Dylan era un signor nessuno con talento da vendere. Io ebbi la fortuna di filmare il momento in cui il cantautore di protesta stava per diventare una rock star. Credo che neanche Grossman, quel giorno che bussò alla mia porta, si rendesse conto di quanto repentino sarebbe stato il cambiamento di Bob Dylan di lì a pochi mesi, proprio a partire da quel tour che in Gran Bretagna scatenò un’isteria collettiva pari alla cosiddetta beatlesmania. Io ero totalmente ignorante in materia. Non intuivo che quello sarebbe stato l’ultimo tour acustico di Dylan, che la sua svolta elettrica, pochi mesi dopo, avrebbe causato un cataclisma nel mondo della musica. Vedevo solo che Dylan si annoiava a morte quando si trattava di salire ogni sera da solo sul palco, mentre noi restavamo a gozzovigliare nella green room. Nel mondo della musica succedono cose incredibili», racconta, «pensi che l’altra settimana ha suonato alla porta un ragazzo che è venuto fin quassù per farsi autografare una copia di Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, il documentario su David Bowie che girai nel 1973. Mi sono sentito un traditore mentre firmavo, perché io di rock non so un bel niente. Andai a Monterey, solo perché John Phillips dei Mamas and Papas mi disse: “Hai mai sentito parlare di quel Jimi Hendrix che brucia la sua chitarra alla fine dei concerti?”. Io ascoltavo e ascolto solo jazz e musica classica. I miei idoli sono Charlie Parker e le orchestre degli anni Trenta e Quaranta. Seguii il concerto di Bowie con interesse, perché anche in quel caso si trattava di una svolta nella vita di un artista. David voleva “uccidere” quel suo alter ego (Ziggy Stardust) che era diventato troppo ingombrante, e per farlo annunciò al pubblico che quello sarebbe stato il suo ultimo concerto». Il delirio e le lacrime che la dichiarazione scatenò quella sera all’Hammersmith Odeon di Londra sono perfettamente immortalati dalla camera a mano di Pennebaker. Nel 1965, quando incontrò il ventitreenne Dylan in un ristorante di New York e siglò l’accordo per la realizzazione di Don’t look back con una stretta di mano, il regista era ancora il biondo ragazzo “cool” al quale Bruce Weber avrebbe volentieri dedicato un servizio fotografico per Interview. Proprio alla Caesar Tavern del Greenwich Village, Pennebaker propose a Dylan di aprire il film con quello che molti considerano il primo videoclip della storia del rock: l’artista che canta Subterranean homesick blues, sfogliando cartelloni con le parole della canzone come fosse il suggeritore di uno show televisivo. «Bob fu entusiasta dell’idea», racconta il regista. «Buttammo giù degli appunti sul menu del ristorante, poi a Londra ci mettemmo alla ricerca di un angolo che assomigliasse il più possibile alla zona di New York in cui abitava Dylan, sulla Quarta Strada. Il posto ideale ci sembrò una viuzza sul retro del Savoy, l’hotel dove alloggiavamo. La scena fu girata l’8 maggio 1965, tredici giorni dopo essere sbarcati nel Regno Unito (nel dvd di inediti c’è anche lo stesso clip ripreso sul tetto dell’edificio). Nativo di Evanston, Illinois, Pennebaker produsse il suo primo documentario, Daybreak express, nel 1953: cinque minuti per raccontare, su musica di Duke Ellington, la storia di una sopraelevata della Terza Avenue che stava per essere demolita. Insieme a Richard Leacock e Robert Drew, girò all’inizio degli anni Sessanta una serie di documentari sui momenti cruciali della vita di gente comune e dei potenti d’America, come i memorabili Primary, realizzato in Wisconsin durante le primarie di JFK e Humphrey, e Adventures on the new frontier, girato alla Casa Bianca nelle prime settimane dell’amministrazione Kennedy. Albert Grossman (1926-1986), un talent scout che notoriamente pensava in grande, ritenne che fosse l’uomo giusto per testimoniare quel periodo cruciale della carriera di Dylan dopo aver visto un cortometraggio di Pennebaker su Timothy Leary, Timothy Leary’s wedding day / You’re nobody till somebody loves you. «Non ho mai voluto fare nessun altro cinema che questo», dice Repubblica Nazionale DOMENICA 1 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 FOTO GRAZ IA NERI IL COFANETTO Il 20 aprile la Sony/Bmg pubblicherà Don’t look back: 65 tour deluxe edition, un box che contiene il film originale girato da D.A. Pennebaker durante il tour inglese di Bob Dylan nel 1965 rimasterizzato in digitale, più un nuovo dvd di un’ora con materiale inedito e due libri. Tra i brani che Bob Dylan interpreta per intero nei vari concerti, ci sono classici come Don’t think twice, It’s all right, It’s all over now baby blue, It’s alright ma (I’m only bleeding), It ain’t me babe e If you gotta go, go now. Gli extra contengono performance audio inedite di Love minus zero / No limit, The lonesome death of Hattie Carroll e To Ramona Il dvd inedito si apre con una versione mai pubblicata di Subterranean homesick blues girata sul tetto di una casa londinese RIPRESE Nella foto grande, Bob Dylan con D.A. Pennebaker durante le riprese di Don’t look back, nel 1965. In alto a sinistra, due fotogrammi del film Sopra, Dylan in un altro docufilm girato da Martin Scorsese GLI ALTRI FILM JIMI HENDRIX Jimi Hendrix fu filmato da Pennebaker a Monterey nel 1967, con Otis Redding, per la sua opera Monterey pop Pennebaker. «Hollywood non è mai stato un miraggio per me. I film che io prediligo sono sempre legati alla realtà. Adoro il primo Fellini e soprattutto Rossellini e i maestri del neorealismo italiano. L’effetto che ho ottenuto con Don’t look back è inevitabilmente legato al fatto che Dylan non si sentiva filmato. Certo, a suo modo recitava, ma se in ogni scena avessi dovuto posizionare le luci e allertare truccatori e costumisti l’effetto verité sarebbe andato a farsi fottere. Soprattutto in quelle surreali conferenze stampa in cui i giornalisti che intervistavano Dylan sapevano di lui meno di quanto ne sapessi io». Nel documentario, Dylan è decisamente troppo hip per non essere consapevole che “L’occhio”, come lui chiamava Pennebaker, era in azione: sul palco sempre con giacca in pelle nera e rayban scuri, fuori scena con magnifici cappotti e attillati abiti neri da mod di cui aveva fatto incetta in un negozio di Newcastle. Quando il circo di Dylan sbarca nelle varie città inglesi, un altro circo, ancora più pittoresco, si mischia a quello del cantautore americano. Studenti, artisti locali, come Donovan e Alan Price, giornalisti in cerca di scoop e ragazze a caccia di autografi che aspettano per ore all’entrata degli alberghi. La prima conferenza stampa, a Londra, è assai comica. Dylan accoglie i giornalisti con in mano una gigantesca lampadina. Giornalista: «A che serve quella lampadina?». Dylan: «Sapevo che me l’avresti chie- DAVID BOWIE È del 1973 il film Ziggy Stardust and the Spiders from Mars su un concerto di Bowie a Londra BILL CLINTON Nel 1993 Pennebaker fu candidato all’Oscar per il film sulla campagna elettorale di Bill Clinton, The war room sto. Me l’ha regalata un amico cui tengo molto». Giornalista: «Qual è il tuo vero messaggio?». Dylan: «Avere la testa sulle spalle e non uscire mai senza una lampadina». Accanto a lui, per tutta la durata del tour, c’è Joan Baez, la sua musa, compagna dei primi anni, che era già una star della musica folk quando Dylan tenne il primo concerto nel Greenwich Village. Sono molti, nel film, i momenti in cui i due costruiscono la loro musica, con la chitarra e un pianoforte verticale, davanti alla camera di Pennebaker. Ma s’intuisce anche che Dylan incomincia ad avere una sorta d’insofferenza verso di lei. «La verità», racconta il regista, «è che Bob era già coinvolto in un’altra storia. Si era innamorato di Sara Lowndes, una ragazza madre che lavorava nel mio ufficio e aveva conosciuto prima della partenza per la Gran Bretagna. Questa era l’unica intimità che dividevo con Dylan. Ero a conoscenza che, all’insaputa di Joan Baez, aveva già lasciato il suo appartamentino sulla Quarta Strada per una più confortevole sistemazione nella stanza 211 del Chelsea Hotel con Sara, che presto sarebbe diventata sua moglie, e la piccola Maria di tre anni». Pennebaker dice che non è stata sua l’idea di frugare tra le vecchie pellicole. «Sono stati i miei collaboratori a farmi visionare filmati di intere canzoni che erano rimasti in archivio. E Bob ha accettato con entusiasmo di pubblicare quel materiale dopo averlo visionato». Ma la forza del dvd inedito sta nelle canzoni interpretate da Dylan, quei “talking blues” di denuncia eseguiti con la sola chitarra acustica che sono più potenti di mille rap contemporanei. Cosa uccide quella magnifica spontaneità che tutti i grandi artisti hanno agli esordi? «I soldi», dice secco Pennebaker, che è ancora un buon amico di Dylan e Bowie. E, per pudore, non sta lì a raccontare che l’anno dopo, nel 1966, la Abc sganciò un anticipo di centomila dollari per girare un documentario sul “Dylan elettrico” in tournée con gli Hawks. A quel punto Bob decise che avrebbe potuto dirigere il film da solo e chiese a Pennebaker una consulenza tecnica, insistendo sul fatto di girare in technicolor. I tempi di consegna non furono rispettati e il progetto naufragò. Dopo una timida anteprima a New York, nel ‘71, di Eat the document, questo era il titolo, sono rimaste in circolazione solo copie pirata. L’eroe della musica folk era ormai diventato il messia elettrico. Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 i sapori Settimana Santa Zuppa di pesce, baccalà mantecato, crostini di caviale, cappon magro, pasticcini di marzapane. A rileggere il menù quaresimale dell’Artusi si vede come il precetto abbia stimolato la creatività in cucina. E come il “digiunar mangiando” anticipi le nuove regole della dietetica LICIA GRANELLO «C he tu mugoli o che un tu mugoli, pan di legno e vin di nuvoli». Nelle vallate toscane del Casentino, dove un tempo la fame era regina, la Quaresima durava tutto l’anno. «Ti puoi lamentare o non lamentare, ma per sfamarti hai polenta di castagne e acqua», ricetta davvero striminzita e senza margini di manovra per regalare qualche brivido in più al palato. Per un tempo lunghissimo, la cucina quaresimale e quella figlia della miseria hanno coinciso. Facendo di necessità virtù, si appendeva l’aringa affumicata sopra la tavola e ci si strofinavano sopra le fette di polenta, illusione di sapore a zero proteine, interpretazione impeccabile del menù penitenziale. Un passo oltre la lotta quotidiana per mettere insieme il pranzo con la cena, la Quaresima invece si è tramutata in straordinaria occasione di tradurre nei piatti l’ingegno gastronomico. A partire dalla frittura, abile trucco adottato nei luoghi di massima celebrazione del precetto per mitigare le rinunce del digiuno prepasquale. In teoria, nessuna infrazione al divieto di utilizzare i peccaminosi grassi animali: si immergevano tocchetti di pesci e verdure in pastelle più o meno saporite — farina, rosso d’uovo, acqua ghiacciata, vino bianco, birra — cuocendo in abbondante extravergine portato a giusta temperatura. Se proprio bisognava rinunciare alle golosità della cucina invernale — quella di cui si abusava durante il Carnevale, carnem levare, togliere la carne subito dopo il giovedì grasso — almeno si consolava il palato con un piccolo inganno. Nasceva così dai tempora, i tempi quaresimali, l’amatissimo tempura, apparentemente importato Cucina Magro di Il buono della penitenza dalla cucina giapponese (che invece l’avrebbe adottato grazie ai missionari gesuiti). Appena più vicino allo spirito pre-pasquale, il passaggio in carpione: i bocconi infarinati, fritti, asciugati su carta assorbente, riuscivano purificati e redenti dalla copertura con una riduzione di cipolla, aglio, olio e salvia, con l’aceto, memoria del martirio cristiano. Altro modo di aggirare i precetti del digiuno, l’uso del pomodoro, per trasformare il magrore dei pesci essiccati — stoccafisso in primis — nella morbidezza untuosa degli umidi. Oltre le dispense povere e i monasteri, chi poteva permettersi il lusso di disarticolare la cucina quaresimale da quella della povertà, componeva menù di magro che lievitavano come un meraviglioso pan brioche (di magro anche lui!). Un elenco lunghissimo di piatti a dir poco golosi, assolutamente aderenti alla norma, quello pubblicato nel menù quaresimale di Pellegrino Artusi. Zuppa di pesce, baccalà mantecato (tra i latticini, pur considerati border line, il latte è quello più tollerato), gnocchi alla romana, ma anche crostini di caviale, cappon magro, anguilla arrosto, su su fino al trionfo dei dolci, dei pasticcini di marzapane al gelato di pistacchi. Sui fornelli dei ricchi, la sostituzione di carne e intingoli con pesci e verdure ha coinciso con lo stesso bisogno di depurazione primaverile che anima ancora oggi le prescrizioni medico-dietologiche di fine inverno. L’uscita dal tempo del freddo, la rinascita della natura dovrebbero indurre tutti a diminuire gli introiti calorici in favore di alimenti leggeri, diuretici, semplici, versione “terzo millennio” della cucina quaresimale. Siamo davvero così bravi? In realtà, quasi mai la rilettura laica e dietetica del digiunar mangiando che testimonia i quaranta giorni di digiuno, passione e morte del Cristo, va oltre qualche forchettata d’insalata in più o la sostituzione della cotoletta impanata con la finta magra mozzarella. L’urgenza della spesa di Pasqua non ammette distrazioni, se non per il rito del pesce del Venerdì Santo. «Mangiate e bevete senza parlare, in silenzio», scrivevano nei refettori delle abbazie. Addentando un maritozzo con la panna, tipico dolce della Quaresima in centro Italia, riesce perfino un sacrificio sopportabile. Biscotti quaresimali Agnolotti di magro Stocco e patate Pasta e ceci Torcolo (SICILIA) (PIEMONTE) (CALABRIA) (CAMPANIA) (UMBRIA) Nati come cibo votivo della Quaresima, vengono preparati con infinite varianti. Ingredienti base: mandorle, frutta candita, zucchero, uova, farina, impastati e modellati a mo’ di salsicciotti. Cotti, sfornati e decorati con granella di pistacchio La versione magra dei classici agnolotti con l’arrosto – utilizzato nella farcitura e come condimento – richiede la lessatura degli spinaci, poi tritati e insaporiti in tegame Quindi si uniscono ricotta, parmigiano, uova e noce moscata Una delle tante ricette legate alla spugnatura dello stoccafisso prevede la cottura del merluzzo in soffritto di cipolla ed extravergine, con aggiunta di salsa di pomodoro liquida, patate, peperoncino, olive, origano. Si usa per condire la pasta Il piatto di rigore nel primo giorno della Quaresima napoletana parte dall’ammollo dei ceci. Verso fine cottura, si aggiungono aglio, origano, sale, pepe, olio, poi le fettuccelle spezzate. Si possono passare parte dei ceci Il dolce della Quaresima di centro Italia è una ciambella lavorata con burro, pinoli tostati e pestati, zucchero, semi d’anice, uovo, un pizzico di sale e il bicarbonato a mo’ di lievito. Prima di infornare, si aggiungono uvetta e frutta candita Repubblica Nazionale DOMENICA 1 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 Riomaggiore (Sp) itinerari Valeria Martinetti è la versatile cuoca di “Gattò”, ristorante-atelier milanese. Il menù è costruito sulla rivisitazione “magra” della cucina mediterranea: olio e salse d’erbe per insaporire pesce e verdure Poppi (Ar) Mammola (Rc) Primo paese delle Cinque Terre partendo da La Spezia, è collegato al borgo di Manarola attraverso la Via dell’Amore a picco sul mare. La cucina è a base di pesce, verdure e salse di noci e basilico Costruita nel parco del Casentino, è patria di produzioni buonissime, dal prosciutto crudo ai legumi e ai cereali. La farina di castagne entra in molti piatti: per proteggerla dai tarli i contadini la pressavano in cassoni Arroccato sulle falde del Monte Seduto, è famoso per la lavorazione dello stoccafisso da più di un millennio. Grazie alla ricchezza minerale, le acque dell’Aspromonte restituiscono tutto il sapore al merluzzo disidratato DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE LOCANDA DALLA COMPAGNIA Via del Santuario 132 Tel. 0187-760050 Camera doppia da 100 euro colazione inclusa ALBERGO SAN LORENZO Piazza Bordoni 2 Tel. 0575-520176 Camera doppia da 70 euro AGRITURISMO CANNAZZI Contrada Cannazzi Tel. 0964-418023 Camera doppia da 50 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE CAPPUN MAGRU IN CASA DI MARIN Via Volastra 19, località Groppo Tel. 0187-920563 Chiuso lunedì e mart., menù da 25 euro L’ANTICA CANTINA Via Lapucci 2, tel. 0575-529844 Chiuso lunedì e martedì a pranzo menù da 25 euro IL MULINO Via Mulino 26 Tel. 0964-418072 Chiuso lunedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE NON SOLO VINO Via Colombo 180 Tel 0187-760558 MOLINO A PIETRA GRIFONI Località Pagliericcio 192 Castel San Niccolò, tel. 0575-572873 STOCCO MAMMOLESE Via Sigillò 5 Tel. 0964-418938 Gli astuti chef da Quaresima ‘‘ MASSIMO MONTANARI Chiesero a un fraticello del convento di Obdorsk: come è (...) da voi il digiuno? La nostra mensa, secondo l'antica usanza del romitorio, è questa: durante la Quaresima, stiamo a digiuno completo il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Martedì e giovedì si prepara per la comunità il pane di frumento, la frutta secca cotta col miele, le more di rovo o il cavolo salato e la farina di avena cotta. Il sabato, minestra di cavolo, pasta con piselli, polentina al sugo, il tutto condito con olio. La domenica, oltre la minestra di cavolo, il pesce secco e la polentina (...) La settimana della Passione, poi, cominciando dal lunedì mattina fino al sabato sera, per tutti i sei giorni, non si prende altro che pane e acqua (...) ‘‘ Da I FRATELLI KARAMAZOV di Fjodor Dostoevskij a «battaglia fra Quaresima e Carnevale», genere letterario di grande fortuna fra Medioevo e prima Età moderna, di cui troviamo il primo esempio in un testo francese del Duecento, mette in scena «i cibi di magro» e «quelli di grasso», che si combattono in armate contrapposte: da un lato i pesci, dall’altro le carni, spalleggiate da uova e latticini. I capponi arrosto si scontrano con i naselli, la passera e lo sgombro con la carne di bue, le anguille con le salsicce di maiale. Le verdure militano in entrambi i campi, dipende da come sono condite: i piselli all’olio di qua, quelli al lardo di là. La minuzia dei dettagli, il racconto circostanziato delle strategie di attacco e di difesa, fino alla vittoria di Carnevale e alla resa di Quaresima, che, pur di fare pace, si rassegna a limitare la sua presenza sul territorio a poche settimane l’anno, rappresentano in modo estremamente vivace le regole alimentari legate al calendario liturgico, che la Chiesa impose in Europa fin dal primo Medioevo: rinunciare ai cibi animali, in segno di penitenza, per alcuni periodi dell’anno (Quaresima anzitutto) e giorni della settimana, e nei giorni di vigilia prima delle principali feste. Ciò implicava una considerazione della carne come cibo per eccellenza, massimo desiderio alimentare: su questo, la cultura medievale non aveva dubbi. Nell’immaginario collettivo il grasso era il valore forte, il magro un semplice surrogato. I cibi “magri” (pesci e verdure all’olio, a cui si aggiunsero sul finire del Medioevo i latticini, che rimasero esclusi solo nei giorni di astinenza totale) acquisirono uno “statuto sociale” debole, subalterno. La dieta sostitutiva poteva anche essere squisita: ottimi pesci e verdure delicate potevano ben rimpiazzare la carne nei giorni stabiliti. Un’intera letteratura ironizza sulle prelibatezze che si spacciavano per pratiche di penitenza: Pietro Abelardo, nel Dodicesimo secolo, si chiede quale merito possa esservi nel rinunciare alla carne di tutti i giorni per acquistare pesci costosissimi e raffinati. Il fatto è che, appunto, si trattava di sostituti. La diffidenza che fino ai nostri giorni ha accompagnato i cibi “di magro”, a cominciare proprio dai pesci e dalle verdure, trova la sua spiegazione storica nel carattere costrittivo che per lungo tempo si è associato al loro consumo. La loro subalternità si rispecchiava anche nei tentativi, più o meno riusciti, di imitazione delle vivande “grasse”, un po’ come accade oggi in certi ristoranti vegetariani dove si replicano, nei nomi e nelle forme, vivande di “carne senza carne” che tradiscono un persistente senso di inferiorità culturale. Ciò non toglie che gli obblighi quaresimali abbiano, di fatto, aperto la strada ad attenzioni gastronomiche nuove. L’esempio più eloquente è quello della pasta, che si fa strada nei ricettari medievali e rinascimentali proprio come vivanda “di magro”: la molteplicità di preparazioni e di ricette che si elaborarono per rispondere agli obblighi liturgici aprirono capitoli nuovi nella storia della cucina e dell’alimentazione. Quando l’alternativa grasso-magro non fu più all’ordine del giorno, e le ricette di pesce e di verdure cominciarono a emanciparsi (non prima del Sei-Settecento) dal loro imprint quaresimale, la molteplicità di esperienze “obbligate” fatte nel tentativo di rendere appetibile anche la cucina di magro si rivelò un insospettabile investimento in termini di cultura gastronomica. L Polenta e aringa Bigoli in salsa Maritozzi Zuppa di Pesce Pansotti con salsa di noci (TOSCANA) (VENETO) (LAZIO) (EMILIA ROMAGNA) (LIGURIA) I pesci, squamati, deliscati, lavati e asciugati, sono unti con olio e avvolti in carta stagnola. La cottura ideale è sulla brace. Si possono consumare subito o dopo marinatura in extravergine. La polenta è di mais o di castagne, fresca o grigliata Gli spaghetti di Bassano, lavorati con farina e crusca – da cui il colore scuro – devono essere cotti molto al dente. Poi si spadellano con pepe e prezzemolo nella pentola della salsa, preparata sciogliendo le acciughe nel soffritto di cipolla Si parte da una ricetta povera come la pasta del pane (farina, acqua, sale, olio) ma arricchita di zucchero, uvetta, pinoli, uova e cedro tritato La doppia lievitazione, garanzia di leggerezza, permette la farcitura con panna montata Zuppa o brodetto, l’ingrediente base è il pesce fresco. Nella pentola di coccio si cuoce a partire dai pesci più consistenti fino ai delicati gamberi. Si intensifica il sapore con brodo fatto di teste e spine, pomodoro, vino e spezie La sfoglia si farcisce con un ripieno a base di erbe amare, borragine, bietole. Condimento: burro, parmigiano e la salsa, preparata pestando nel mortaio (il robot da cucina scalda le noci) gherigli, mollica bagnata nel latte, olio e aglio Repubblica Nazionale 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 le tendenze Modernariato Abiti metallici, tutine brillanti, occhiali specchiati, borse e scarpe che sembrano uscite dal supermarket di una surreale stazione lunare. Le ragazze sono pronte a trasformarsi nelle moderne eredi dell’eroina dei fumetti anni Sessanta, a cui gli stilisti s’ispirano per imporre un nuovo modello di seduzione femminile on usano navicelle spaziali. Per muoversi nel traffico impazzito delle grandi città utilizzano ancora le auto, ma come l’eroica Barbarella s’innalzano su super-zeppe anni Sessanta metallizzate e i loro tubini sono ricoperti di bolle dorate. Gli occhiali sono a fascia, come quelli filmici scelti dal genere androide. Le borse, color argento, bronzo, oro o in pvc trasparente, sono come i puri contenitori che hanno segnato la storia dello stile spaziale. Benvenute, nell’estate più futurista che si sia mai vista dagli anni Sessanta, quando si immaginava che le donne si sarebbero vestite con completini ricoperti da placche a specchio, con tute metalliche come quelle disegnate da Paco Rabanne e mini abiti plastici con oblò alla maniera di Pierre Cardin e Andrè Courrèges. Da allora sono passati quasi cinquant’anni, ma oggi Barbarella è di N GIOIE DA UFO Sembra un oggetto misterioso il bracciale lunare di Pianegonda. Questo gioiello, della linea Spy, è in argento e onice intagliato perfettamente al laser BAGLIORI DORATI PASSI TRANQUILLI È leggerissima l’intramontabile sneaker Olympia, della linea Hogan Ha un profilo sottile ed è realizzata in pelle metallizzata con stampa cocco e tessuto tecnico. Perfetta per le donne che amano camminare in città Borsa in pitone laminato con tracolla a catena d’oro lucido e microborchie La borsa di Roberto Cavalli è decorata con intrecci in nappa Si può portare con abiti di chiffon a fiori e sandali piatti oppure con jeans, camicia bianca e giacca donne Spaziali LAURA ASNAGHI nuovo tra noi, in tante varianti di look, tutte griffate dai grandi stilisti. Ma cosa ha spinto la moda a scegliere, anzi “riscegliere”, la strada dello spazio? «La terra non ci basta più, vogliamo la luna — scherzano i Dolce e Gabbana — e per rendere la donna più sexy, abbiamo giocato su corsetti metallici che esaltano le forme». La signora del futuro ha una dimensione stellare. E la conferma viene da Donatella Versace: «La nuova Barbarella ha grinta e carattere. E in lei si identificano le nuove generazioni che vogliono conquistare il mondo facendo leva sul loro coraggio, sulla loro dirompente femminilità e la loro capacità di prendersi il meglio dalla vita». I bagliori oro e argento di questa estate che Etro, Gucci, Louis Vuitton, Blumarine e Roger Vivier sfruttano per gli accessori e che Valentino, Armani, Fendi, Prada, Ferragamo, Missoni, Krizia, Biagiotti, Max Mara, Dell’Acqua, ma anche Iceberg ed Ermanno Scervino, usano a piene mani per gli abiti, sembra siano anche il segnale di una nuova femminilità, più forte e consapevole. «L’argento degli abiti non è solo una scelta cromatica — conferma Ennio Capasa di Costume National — è quasi il simbolo di una donna più libera da schemi, che sa essere essenziale e sensuale allo stesso tempo». La moda, dunque, come specchio dei tempi. «In giro c’è desiderio di fuga dalla volgarità imperante — spiegano Maurizio Modica e Pierfrancesco Gigliotti di Frankie Morello — ecco perché le donne hanno voglia di “travestirsi” come moderne Barbarelle ed essere rapite da un principe alieno che le trasporti lontano dal vortice della bellezza chirurgica e dell’alienazione mentale. L’abito con le piastre metalliche le protegge e le rende sicure». Estetica e sociologia si fondono. «Le interpretazioni del futuro espresse dagli stilisti — spiega Alberta Ferretti — altro non sono che la speranza di cambiamento, la volontà di una fuga in avanti rispetto a un mondo che viaggia veloce ma, allo stesso tempo, resta ancorato a vecchi problemi, sociali, politici, umanitari». Ma nella visione di Granfranco Ferrè, il sarto-architetto da poco chiamato alla presidenza dell’Accademia di Brera, «i bagliori metallici sono indispensabili per esprimere lusso e preziosità, glamour e seduzione. Irresistibili e magici, accendono un po’ tutto, ogni materia, ogni forma, ogni tipologia di abito e di accessorio: i capi da sera scivolati e morbidi sul corpo, le bluse arabescate, il pantalone in denim lunare e le borse in nappa tridimensionale traforata al laser». Il genere spaziale cattura anche Roberto Cavalli. «Negli anni Sessanta — dice — l’uomo, spinto dalla curiosità, ha cercato di capire come sarebbe stata la donna del futuro e come sarebbe cambiato il suo guardaroba. Oggi, la moda, con l’aiuto di film, videogiochi, Internet e libri di fantascienza, ha tradotto lo stile spaziale in un genere alla Blade runner, fatto di gadget futuristi mescolati a capi iperclassici. Un abbigliamento volutamente strong per affrontare meglio le mille sfide della vita». ICONA SEXY Una biondissima Jane Fonda indossa stivali argentei, mantella metallica e calze trasparenti nel ruolo di Barbarella Il film di Roger Vadim del 1968 la trasformò in un’icona sexy rimasta nella storia del cinema PIÙ CORAZZATA Anche l’abito bustier dei Dolce e Gabbana è dedicato alla nuova Barbarella. Sembra una corazzetta rigida ma in realtà è realizzato in pelle morbidissima spalmata di colore con effetti metallici STILE LIBERO Le ballerine di Tod’s con fibbia o laccetto sono chic ed estremamente femminili E in più sono anche versatili e si adattano a ogni stile SASSI D’ALTRI MONDI E’ realizzata con sassi di resina argentata su chiffon la collana lunare di Maria Calderara, stilistaarchitetto di Brescia, che crea gioielli da oltre vent’anni Repubblica Nazionale FOTO RUE DES ARCHIVES Torna Barbarella, l’estate è futurista DOMENICA 1 APRILE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53 TUTTI IN MASCHERA AVANGUARDIA SARTORIALE Occhiali a mascherina tecnologica realizzati da Allison per Romeo Gigli. È un modello unisex che protegge gli occhi in maniera panoramica Ci si può specchiare nella borsa a tracolla disegnata da Ennio Capasa per Costume National, la sua linea di moda che mescola elementi d’avanguardia alla sartorialità del Made in Italy DAMA DESNUDA Disegnato da Matthew Williamson il micro-abito di Emilio Pucci, il marchio che a maggio celebra i suoi primi sessant’anni con una grande installazione artistica a Firenze Ai piedi, sandali futuristi, in pvc e profili in pelle colorata, prodotti da Rossimoda A completare il look lunare contribuiscono i bracciali geometrici e la borsa a tracolla Con lei cambiò il costume Un libero amore da fantascienza LUCA RAFFAELLI C IMPRONTA MARZIANA È in lamé color alluminio con un inserto in oro la zeppa in capretto per l’estate, firmata Prada Anche le borse hanno un’impronta “marziana” COME I BEATLES GOLDEN LADY Ecco il bikini versione Barbarella di Yamamay È inserito nel catalogo illustrato da Milo Manara, il famoso fumettista italiano che ha lavorato anche con Fellini Le sue donne si ispirano alle pin-up Stivaletto estivo, in pelle argentata e fibbia-morsetto di Gucci, disegnato da Frida Giannini Si porta con pantaloni corti alla caviglia e stretti sulla gamba, come i Beatles negli anni Sessanta LAMINATA SOBRIETÀ Massimo rigore per la borsa spaziale di Jil Sander, da sempre emblema del minimalismo La borsa fa parte di un guardaroba con abiti e gonne dalle linee sobrie, realizzati in tessuti metallizzati Le scarpe, con tacchi di taglio architettonico, hanno inserti di metallo e vernice nera V-MAGAZINE Barbarella, l’eroina creata da Jean-Claude Forest e apparsa la prima volta sulla rivista francese V-Magazine nel 1962 IN SCIVOLATA SCATTI GLAMOUR Borsa da sera griffata Calvin Klein È la classica scatola metallica, pulita ed essenziale, con chiusura a scatto, color oro. La fodera interna in satin beige CONNUBI PLASTICI Con un connubio di acciaio e coni in plastica lucida nasce la collana futurista My Tetris di Tribe. Versatile e divertente, si può chiudere sul davanti oppure sul retro hi si ricorda, all’ombra dei Dico, che alla fine degli anni Sessanta (nel secolo scorso), c’è stata una rivoluzione sessuale? È stato allora che, improvvisamente, le donne dei fumetti sono passate da un ruolo secondario e castigato a quello di protagoniste. L’evento è coinciso con lo sdoganamento del fumetto come lettura adulta e politicamente impegnata. In Italia si ebbe con la nascita di Linus, nel 1965. In Francia tre anni prima, grazie a Barbarella. Creata da Jean Claude Forest, aveva fatto il suo esordio in V-Magazine, una rivista che in copertina aveva sempre mostrato anonime pin-up. Con quel personaggio disegnato era stato un boom, come si diceva allora e come capita alle cose che arrivano quando tutti le stanno attendendo. Barbarella vive in un lontano futuro — figlio delle speranze di quei tempi — in cui trionfa «l’armoniosa concordia universale dopo l’era barbarica della contestazione globale». Cioè, si può far l’amore liberamente e gioiosamente. Da giovane e bellissima terrestre, Barbarella gira per le galassie incontrando e amando gli strani abitanti di mondi altrettanto strani. C’è allegra ironia in tutto questo e anche nell’ingenuità con cui Barbarella vive le sue tante storie d’amore senza comprendere le sue capacità seduttive. L’amore è per lei uno dei modi più appassionanti per capire il mondo e le persone. E, da donna ultramoderna qual è, il romanticismo le è estraneo, così come la malizia che proprio la sua ingenuità produce. Forest avrebbe trovato ogni escamotage per mostrarla come mamma l’ha fatta, e avrebbe scritto dichiarazioni inedite per un personaggio dei fumetti. Come quella volta che, arrivata dopo un lungo viaggio in un lontano pianeta, Barbarella si permise di esclamare: «Farò l’amore con il primo che mi disseterà. Promesso». Non per smontare un mito, ma il livello delle storie e dei disegni non era poi così diverso da quello di alcune delle migliori protagoniste del pornofumetto italiano. La differenza è che Barbarella era francese, e faceva leva sui temi che sarebbero esplosi con il Sessantotto, non con il marketing sotterraneo e tutto italiano degli appassionati del fumetto onanista usa e getta. E così, proprio nel Sessantotto, Roger Vadim portò sullo schermo Barbarella in uno di quei film tratti dai fumetti che, visti oggi, fanno innalzare salmi di ringraziamento agli attuali effetti digitali (pare che De Laurentiis stia preparando, per il personaggio di Forest, un nuovo progetto cinematografico). Infatti, nonostante la buona volontà, è tutto così tanto di cartapesta da sembrare una recita scolastica. L’unica cosa bella, Jane Fonda a parte, sono i costumi (firmati da Jacques Fonteray e Paco Rabanne). E non a caso i titoli di testa partono con uno spogliarello di Barbarella in assenza di gravità. Si toglie una tuta da astronauta fatta più che altro di cellophane e di plastica trasparente: sembra più un impermeabile da motorino che una tuta per viaggi spaziali. Nei fumetti la nostra eroina può anche essere casual: talvolta porta anche jeans, o pantaloncini corti, o costumi interi. Ma si cambia continuamente, anche per potersi spogliare tra una vignetta e un’altra. L’indumento usato come arma seduttiva arriva nel fumetto italiano con Satanik e Valentina. La prima (nata nel 1964 da Magnus e Bunker, gli stessi di Kriminal e Alan Ford), riscattava la sua bruttezza con una magia chimica. Trasformatasi in bellezza assoluta, indossava una calzamaglia come quella dei supereroi, ma ampiamente scollata. Nella mano destra una sigaretta con un lungo bocchino. Ai piedi, ovviamente, scarpe con tacchi a spillo. Le stesse che ama la Valentina di Guido Crepax, nata con Linus: e sopra, spesso e volentieri, solo calze reggenti con giarrettiera. Per Gianfranco Ferré, gli abiti con bagliori metallici sono da sempre una grande passione Secondo lo stilista, l’oro e l’argento sono segno di lusso e di preziosità, e di seduzione In questa foto, l’abito da sera ha una linea che scivola morbida sul corpo Ferré ha disegnato anche pantaloni in denim metallizzato per celebrare il tema spaziale Repubblica Nazionale 54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 APRILE 2007 l’incontro È un artista al “grado superlativo”: bravissimo, attivissimo e soprattutto ricercatissimo. La sua voce, dal timbro miracolosamente preservato rispetto a quello degli amici-rivali, continua a estasiare le platee dei più grandi teatri d’opera del mondo. “Canto sempre come se fosse la prima e l’ultima volta, e il ruolo che mi rende più felice è quello che sto facendo al momento”, dice mentre continua a correre da un impegno all’altro tra gli Stati Uniti e l’Europa Tenorissimi Placido Domingo assima incarnazione odierna di una figura sempre più preziosa e rara, quella del Grande Tenore, Placido Domingo sta fremendo come un leone in gabbia. Farlo stare seduto per una conversazione generosa è un’impresa. Durante l’intervista (ottenuta dopo trattative di mesi, perché «il Maestro è sempre impegnato») parla di continuo al cellulare. S’alza, va in corridoio, torna, commenta, spegne finalmente il telefono. Ma come per tutti i genuini “workaholic”, anche per lui non lasciarlo acceso è un supplizio, così dopo qualche istante lo riaccende. Parte uno squillo e grida a qualcuno affettuosità in spagnolo. Esce, riappare, si risiede. Svela che là fuori, oltre la porta (siamo nel salotto del sovrintendente dell’Opera di Valencia, avveniristico teatro progettato da Calatrava), lo aspetta una troupe che gira un suo ritratto televisivo. Poi dovrà tenere una dotta conferenza destinata a un gruppo di studenti; poi ha fissato un incontro organizzativo per il concorso di giovani cantanti da lui fondato e presieduto; poi deve chiamare un assistente negli Stati Uniti dov’è alla guida di due teatri d’opera, a Washington e a Los Angeles; poi c’è da pensare al Don Giovanni di cui sarà direttore d’orchestra, lavoro in cui si prodiga con crescente convinzione e al quale pensa di votarsi a tempo pieno quando (quando?) smetterà di cantare; poi s’appresta ad affrontare l’ultima replica del Cyrano de Bergerac, l’opera di Franco Alfano di cui è acclamato protagonista qui a Valencia; poi, poi... Non c’è requie per Domingo, il tenorissimo che sfida ogni logica del tempo (ufficialmente è nato a Madrid nel ‘41, ma poi chissà). Il suo segretario arranca esausto ricordandogli ulteriori ap- vertito: attento, sei troppo giovane. Ma sapevo che Mario Del Monaco e Ramon Vinay lo avevano cantato alla mia stessa età. All’epoca avevo già un vasto repertorio, però fu in Otello che compresi più che mai a quale stadio di coinvolgente perfezione, nella lirica, può arrivare il connubio tra musica e teatro. Altro che pezzo da museo: il melodramma è un mondo vivo, che travolge, e che se offerto al pubblico nel modo giusto fa palpitare tutti, anche i più giovani». Sostiene che è la frenesia degli impegni a imprimergli la carica: «Se mi riposo mi arrugginisco, sono perso, inesistente. Canto sempre come fosse la prima e l’ultima volta, e il ruolo che mi rende più felice è quello che sto facendo al momento, che sia Otello, Cavaradossi, Don José, Hoffmann, Sansone, il Duca di Mantova, Parsifal o Il Primo Imperatore, titolo della nuova opera del compositore Tan Dun con cui ho debuttato in gennaio a New York, dedicata al primo imperatore della Cina e ambientata 221 anni prima di Cristo. M’infiammo, mi faccio catturare, m’identifico totalmente. Ora sono innamorato alla follia Altro che pezzo da museo: il melodramma è un mondo vivo, che travolge, e che se offerto al pubblico nel modo giusto fa palpitare tutti, anche i più giovani FOTO OLYMPIA M VALENCIA puntamenti. Placido no, lui non pare affatto stanco. Piuttosto è solido, solare, maestoso, quasi disumano nella vitalità senza crepe. La chioma è folta, il sorriso è sornione, attorno agli occhi sfoggia piccoli e seduttivi solchi di velluto. Neppure un’ombra di fragilità, non un sospetto di cedimento. Ha un magnetismo che conquista tutti, uomini, donne, fanciulle in vena di romanticismi, signore avide di eroi ottocenteschi, melomani raffinati e tifosi di calcio (è un fanatico del football, ama esibirsi in inni e brani popolari in occasione dei Mondiali e riferisce fiero che suo zio «era il portiere della nazionale spagnola, come anche il padre di mio zio, il mitico Ignacio Izaguirre»). Vorace di esperienze, è un fiume di energia dal prodigioso eclettismo espresso in oltre cento ruoli («per la precisione», specifica, «finora in palcoscenico sono stati centoventiquattro»). Persino in un mondo impietoso come quello della lirica resta tuttora inattaccabile da accuse d’invecchiamento: «In tutta la mia carriera mi hanno fischiato solo tre volte, e sono certo che le prime due, a New York, erano agguati preordinati. La terza volta accadde a Vienna per una Valchiria. Il mio segretario andò dallo spettatore che mi aveva contestato e chiese: “Perché te la prendi con Placido? Ha cantato stupendamente!”. E lui: “Ha sbagliato il testo tedesco in due passaggi”. Però, che pignolo». Non pago d’essersi imposto come il tenore più completo della storia della musica, un campione da Guinness grazie all’arco impressionante dei suoi ruoli, insuperabile nel combinare a una tecnica formidabile un talento teatrale così spiccato da far invidiare a sir Laurence Olivier la sua interpretazione di Otello, Domingo è entrato nel nuovo millennio col timbro ancora ricco e possente, denso di sfumature sensuali (ha le risonanze morbide del violoncello) e miracolosamente preservato rispetto a quelli di Carreras e Pavarotti, ai quali per anni s’è accompagnato nell’etichetta commercialmente superfortunata dei “Tre Tenori”. Ma c’è dell’altro: Domingo può essere anche un musicista ricercatissimo, che scava nelle partiture «accanendomi a sbrogliarne i segreti, i dettagli dietro le note e tra le righe», spiega. «Seguo i cambi di chiave paralleli ai mutamenti d’atmosfera e punto a colorare la voce a seconda della strumentazione». Attore consumato, non a caso è amatissimo dal cinema, aitante Don José nella Carmen di Rosi, trepido Cavaradossi nella Toscafilmata da Patroni Griffi, tormentato Moro di Venezia nel filmopera di Zeffirelli su Otello, ruolo che viene considerato il suo apice interpretativo. Quando lo fece per la prima volta in teatro, nel ‘75 ad Amburgo, si preparò con centocinquanta ore di prove. Il debutto fu un trionfo, con cinquantotto chiamate alla ribalta: «Avevo trentaquattro anni e in molti mi avevano av- di questo Cyrano, opera poco nota e trascurata, come altre che ho fatto rinascere: Fedora di Giordano, Sly di Wolf-Ferrari, L’Africana di Meyerbeer, Francesca da Rimini di Zandonai... Si credeva che Fedorafosse un’opera per il soprano, invece ho scoperto che l’aveva cantata Caruso, dunque ci doveva essere una parte interessante per il tenore. Quando l’ho interpretata mi faceva vibrare, piangere e soffrire come mi succede con Otello o con il wagneriano Siegmund». Se gli si chiede come fa ad agitarsi tanto in giro per il mondo, a gestire due mastodontici teatri americani e a cantare in continuazione, dice che lo sostengono una salute di ferro e una passione «radicata in me fin dall’infanzia che trascorsi in Messico, dove si trasferì la mia famiglia quando avevo otto anni». I genitori erano cantanti-attori «col teatro nel sangue. Avevano una compagnia di zarzuela, che è la forma originaria e più tipica del teatro musicale spagnolo, una specie di operetta. Da piccolo, nelle produzioni, cantavo ruoli di bambino; si davano due rappresentazioni al giorno, la domenica anche tre. Di sera, finito lo spettacolo, si provava per l’indomani. Allenavo la voce tutti i giorni, e intanto prendevo lezioni di pianoforte e armonia al conservatorio di Città del Messico, coltivando il sogno di fare il torero». Da ragazzo cantava come baritono, «al quale, nelle zarzuelas, toccano tradizionalmente le arie più belle. Solo lavorando molto sulla voce ho conquistato il registro di tenore». Il suo più utile apprendistato fu all’Opera di Tel Aviv, «dove feci dodici opere importanti in duecentottanta recite tra il 1962 e il ‘65. Ero pagato l’equivalente di trecento dollari al mese. Una palestra straordinaria». All’epoca già gli stava accanto la seconda moglie, Marta Ornelas, sposata dopo un primo matrimonio contratto da Placido quando aveva sedici anni, da cui gli nacque un figlio. Quello con Marta, dalla quale ha avuto altri due maschi, è un incontro vissuto come eterno e irrinunciabile, secondo prospettive coniugali molto latine e a dispetto della sua tenace fama di tombeur de femmes: «È una musicista magnifica. Per me è stata una costante fonte d’ispirazione e la vera regista della mia vita. Bravissima soprano, rinunciò alla carriera per starmi vicina ed educare i figli. Quando ci siamo conosciuti io ero troppo rude per lei, troppo dentro la zarzuela, troppo pucciniano. Marta coltivava sfere più raffinate: Mozart, Schubert, Wolf, Brahms... Cantava Lieder sublimi e non mi prendeva sul serio. L’ho dovuta corteggiare molto a lungo». Come direttore d’orchestra, Domingo racconta di avere avuto la fortuna d’ispirarsi a prestigiosi maestri del podio. Ha lavorato coi più grandi: «Karajan otteneva effetti sconvolgenti senza sforzo apparente. Chiudeva gli occhi e sul volto si percepiva la presenza interiore della musica. Rivedo ancora la sua mano sinistra che pareva afferrare i suoni e con- durli al cuore. Kleiber era dotato di un’immaginazione geniale che gli permetteva di trovare dimensioni nuove in ogni partitura. Il mio Otello gli deve molto. Negli ultimi anni dirigeva pochissimo, voleva fare musica solo a suo modo, e se non glielo consentivano non lavorava. Mi hanno diretto Abbado, Barenboim, Chailly, Giulini, Levine, Maazel, Mehta, Muti, Ozawa, Sinopoli, Thielemann... Ma chi mi ha segnato di più resta Kleiber. Forse lo ammiravo tanto perché sono il suo opposto, lavoro in modo compulsivo, sono un pazzo». Il conteggio dei suoi successi fa girar la testa: «Sono trentanove anni che vado in scena al Metropolitan di New York: vi ho fatto oltre seicento recite cantando e centocinquanta dirigendo. Al Covent Garden di Londra sono state circa duecento le mie recite, come alla Scala, dove nella stagione prossima porto questo Cyrano, opera magica e teatralissima, che tiene conto dei versi di Edmond Rostand. Anche all’Opera di Vienna ho cantato centinaia di volte, per non parlare di Salisburgo, Parigi, Chicago, Bayreuth...». Non riesce neppure a rammentare tutti gli impegni che ha nei prossimi mesi, tra una Valchiria a Washington e un Romeo eGiuliettasul podio del Met. Nella sua lista vertiginosa figurano anche prime assolute, perché gli piace commissionare creazioni del nostro tempo: «Interpreterò a Los Angeles Pablo Neruda in un’opera ispirata al film con Massimo Troisi Il Postino, e la musica sarà appositamente composta dal messicano Daniel Catan». Insiste nell’aggiungere nuovi ruoli al suo sterminato repertorio, «come la parte del baritono nel Simon Boccanegra di Verdi, in cui ho fatto sempre e solo quella del tenore. Non che io adesso voglia cambiare strada, ma ho ancora un gran bisogno di mettermi alla prova». Esprime un’ombra finalmente umana di commozione confessando: «Ogni giorno, quando mi sveglio, ringrazio Dio di farmi cantare». ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica Nazionale