LE FOTOGRAFIE DEI MIGRANTI
Album, Collezioni, Mostre e Musei
I
dati riferiti all’emigrazione italiana nel mondo attestano la residenza all’estero di oltre cinque
milioni di persone.
La metà circa di questi
nostri connazionali è insediata nelle Americhe (in
prevalenza America Latina
-1 milione e ottocentomila
circa-; nel Nord America mezzo milione circa- e 13
mila soltanto in Centro
America). L’altra metà risiede in Europa (oltre due
milioni). Nel continente
australiano sono, invece,
circa seicentomila italiani;
altri ancora vivono in
quello africano e pochi in
quello asiatico.
È stato calcolato nel
1987 dall’Istat che in 111
anni di emigrazione si sono diretti dall’Italia verso
altri continenti 12 milioni
e mezzo di persone, mentre altri 14 milioni si sono
stabiliti nei Paesi europei.
Tra il 1866 e il 1987 hanno lasciato il suolo italiano
26 milioni 706 mila e 581
individui.
Questa è, in cifre, la storia di mezza Italia in cammino alla ricerca di nuove
terre e di lavoro: dalle insospettabili regioni del
Nord a quelle del Mezzogiorno. Un grande esodo e
una migrazione che hanno
interessato anche altri
popoli europei, propagati-
si oltreoceano dal continente nel corso del XIX e
XX secolo.
Si sono imbarcati muniti dell’agognato passaporto
sui piroscafi reclamizzati e
superaffollati dell’epoca,
da tutti i porti possibili
d’Italia e d’Europa (Napoli, Genova, Marsiglia, Amsterdam ecc.) con nome e
cognome ricamati su vestiti e biancheria da nonne,
madri, zie, fidanzate e
mogli in attesa della “chiamata”.
Una volta approdati e
sbarcati in America, ognuno ha avuto il proprio cartellino numerato, con il
nome, una lettera dell’alfabeto e una cifra. Altri simboli, scritti dai medici che
li visitavano, ne attestavano le malattie, ne disponevano ulteriori visite o li
avviavano al reimbarco.
Soltanto dopo il fatidico
interrogatorio sulla mancanza di un precedente
contratto di lavoro all’emigrante si aprivano le
porte del “nuovo mondo”
e la sua tessera veniva marcata con il timbro “admitted”.
Negli anni, una nuova
folla di emigranti italiani,
valige di cartone e bagagli,
affollò le stazioni di partenza di Milano e dei centri
europei di arrivo (Parigi,
Bruxelles, Zurigo, Friburgo
ed altri) nuove mete di
lavoro.
La rivoluzione silenziosa
dell’emigrazione, nel ciclo
più che secolare di quella
italiana (dall’Unità fino
all’integrazione europea),
ha interessato quasi tutte
le nazioni industrializzate
o in via di sviluppo.
Sino agli anni Trenta del
XX secolo è prevalsa quella transoceanica; nel secondo dopoguerra quella
verso l’Europa.
Nella graduatoria dei
Paesi che hanno accolto il
maggior numero di emigranti italiani spiccano gli
USA, la Francia, la Svizzera, l’Argentina, la Germania, il Brasile.
Le regioni italiane di
maggior esodo: il Veneto,
la Campania, la Sicilia, seguite da Lombardia, Piemonte, Friuli e Calabria.
Se nella prima fase dell’emigrazione di massa (dall’unità d’Italia alla prima
guerra mondiale) sono state
soprattutto i fattori economici a determinare l’esodo,
nel periodo compreso tra le
due guerre mondiali, si
sono aggiunti quelli politici
e i condizionamenti del
regime fascista.
Nel secondo dopoguerra
sembra siano prevalsi fattori culturali mediati dalle
comunicazioni di massa e
da una mobilità accelerata
— 127 —
di Giuseppe Settembrino
conseguente alle diverse
fasi dello sviluppo e all’andamento del mercato
del lavoro.
Si è sviluppato anche, rispetto all’emigrazione, una
vera e propria strategia dei
nuclei familiari che ha
operato -come è stato osservato da padre Gianfausto Rosoli 1- in precisi
ambiti temporali e spaziali
sia in relazione alle motivazioni (sociali, economiche, politiche, religiose)
dell’espatrio sia agli stessi
processi di integrazione
nei Paesi di accoglienza.
Al di là di ogni discussione, resta il fatto che la
vicenda migratoria si consuma e si snoda tra pubblico e privato in una storia e in una memoria che
appartiene ai singoli, alle
famiglie, alle comunità,
alle singole etnìe, alle
nazioni. Una memoria
lunga, incisa nel vissuto
dei singoli, dei centri, dei
paesi, delle generazioni
delle diverse nazionalità,
che sollecita nuove forme
di appartenenza tra i popoli, essendo le stesse comunità degli emigranti un
importante veicolo del
pluralismo etnico e di un
rinnovato senso di appartenenza.
Sulla scia di un più coinvolgente e innovativo modello interpretativo attento
alle motivazioni personali
della scelta migratoria si
sta sviluppando anche un
nuovo approccio storiografico al tema dell’emigrazione, con l’introduzione e la
ricerca di nuove fonti e
raffronti nel patrimonio
documentario: dai diari
alle testimonianze orali,
allo studio delle trasformazioni linguistiche2 e comunitarie, alla fotografia.
Si sa che la fotografia, da
tempo, ha ottenuto il riconoscimento della sua valenza documentaria sul
piano storico, così come
altre discipline, quali l’etnoantropologia, hanno
usato l’immagine fotografica e la pellicola per documentare ambienti e luoghi, realtà esistenziali, vita
quotidiana dei singoli, dei
gruppi, delle famiglie, delle comunità, delle etnìe.
In Italia e in Europa sul
finire del secolo XIX si cementava l’unione tra fotografia e scienze umane in
campo antropologico da
parte di criminologi (Cesare Lombroso), funzionari di polizia (Umberto Ellero) di prefetti francesi
(Alpfonse Bertillon) con
l’uso di foto segnaletiche
già adottate, anni prima,
per agitatori politici, rivo-
luzionari, briganti, arresti
di massa.
In campo medico le foto
di Guillaume e Oscar Rejlander ritraenti espressioni
tipiche del volto umano
vennero utilizzate nei suoi
studi da Charles Darwin3.
In Italia i lavori del presidente della Società Fotografica Italiana, sen.
Paolo Mantegazza, accentuavano l’espressione del
dolore, così come quelli
del neuropsichiatra Augusto Tamburrini, a conferma della tendenza tutta
europea di un approccio
fotografico antropologico,
che privilegiava in senso
medico le diverse patologie o il ritratto esotico,
vagamente etnografico.
Lo sviluppo e il successo
in Europa e in USA dei
ritratti e delle scene di vita
familiare avevano per lo
più una funzione celebrativa e memorialistica dei
diversi ceti sociali.
Negli Stati Uniti la funzione democratica della
fotografia trovò esplicazione nel sociale, imboccando la strada dell’analisi
delle condizioni di indigenza e povertà delle classi
subalterne e quella dell’indagine sociale.
Fu la strada intrapresa
dal danese Jacob Riis
(1849-1919), giornalista
del “New York Tribune”.
In un opuscolo del 1890
How the other half lives
(Come vive l’altra metà)
abbinò alla descrizione
degli slums di New York
illustrazioni, fotoincisioni
e disegni ricavati da fotografie; due anni dopo collaborò (con criminologi,
sociologi e operatori di
politica sociale) all’indagine sociale sulla vita quotidiana di quella metropoli,
pubblicando, in quel volume collettaneo, Darkness
and daylight, or lights and
shadows of New York life
(Tenebra e giorno, ovvero
luci e ombre della vita di
New York) numerose illustrazioni che gli meritarono, anni dopo, la proclamazione di “padre della
fotografia sociale americana”.
Nelle foto di Jacob Riis,
eseguite tra il 1888 e il
1896 (molte sono entrate
a far parte del Museum of
the City of New York),
ancora rivivono le condizioni di vita di Mulberry
Bend e si accampano le
baracche e le case abitate
dagli italiani a Jersey, Roosevelt e nei pressi di Baxter Street e di Pictures Row.
Negli interni delle case
emerge una umanità sofferente di madri e bambini
Brooklyn, New York. “Annual outing, L. Schiavone & Bonomo bros., to their employees, all fun for a day”. (Nickerbocker Photographers, 1937)
(Collezione privata Donato Imbrenda)
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italiani e la vita misera di
straccivendoli e di ragazzi
della Little Italy, che a piedi nudi si scaldano al tepore dei vapori che fuoriescono sul marciapiedi da
una tipografia di Mulberry
Street. E ancora venditori
di verdura, venditrici di
pane, intere famiglie italiane addette alla lavorazione
di cravatte e pantalonaie
documentano il lavoro
nero e sottopagato svolto a
domicilio nelle case degli
emigranti e l’attività artigianale di calzolai e straccivendoli nelle anguste e
superaffollate baracche
degli slums in cui si ammassano uomini e cose.
Nelle foto di J. Riis
esplicito è l’intento di ricerca e di documentazione, nutrito da una sensibilità sociologica. Realizzate
con la fotocamera Detective e con il lampo al magnesio, fanno emergere
dall’oscurità, a cui erano
destinati, gli individui colti nel loro ambiente, attirando in tal modo l’attenzione del pubblico e del
governo americano sulle
condizioni di vita di quelle
masse diseredate.
Foto “calde”, -nella dichiarata intenzionalità di
una vera e propria presa
sociale- possono considerarsi quelle di Lewis Wickner Hine (1874-1940).
Laurea in sociologia, ma
con radici operaie, iniziò a
pubblicare reportages sui
portuali e sui minatori per
la rivista Charity and
Commons. Nominato successivamente fotografo
ufficiale del “National
Child Labour Committee”, si dedicò a produrre
immagini soprattutto sul
lavoro minorile. È rimasta
famosa una sua foto che
ritrae una giovane tessitrice (1910), eloquente testimonianza del lavoro minorile nell’industria agli
inizi del secolo.
Anche le immagini di
L.W. Hine, scattate tra il
1905 e il 1915, sono entrate a far parte del Museum of City of New York.
Tra queste fanno ancora
capolino le donne italiane
con i propri bambini a
Ellis Island e quelle degli
immigrati italiani con passoporto e documenti in
mano. Emblematica è la
foto di Anna Scichilone
con i propri figli alla ricerca dei bagagli. Hanno un
taglio decisamente sociale
e documentario quelle
riferite alle famiglie alloggiate nelle case popolari di
New York e ai diversi
mestieri praticati da uomini e donne immigrati: dal
venditore di bevande fresche, alle donne che trasportano sacchi di stracci,
ai lavoranti di fiori a domicilio; da quelle che sfaccettano i diversi lavori
svolti dai minori (consegna di pacchi, strilloni e
venditori di giornali a
mezzanotte sul ponte di
Brooklyn) a quella del
gioco a soldi tra i ragazzi
sui marciapiedi.
L. W. Hine curò in modo particolare la componente emotiva e sociale
dell’immagine, badando
anche a fare “buone fotografie” e, dunque, all’estetica. Egli occupa un posto
di rilievo nell’ambito della
fotografia. Proprio per la
sua attività di denuncia fu
il maestro dei maggiori
fotografi sociali americani
degli anni Trenta e Quaranta, tra cui quel Roy
Styker promotore del progetto fotografico finanziato dalla “Farm Security
Administration”. Al fine
di documentare ulteriormente il rapporto tra fotografia e sociologia occorrerà ricordare anche che
negli anni in cui operarono J. Riis e L. W.
Hine apparvero tra il 1896
ed il 1916 sull’«American
Journal of Sociology»
— 129 —
diversi articoli corredati da
foto (un totale di 244
fotografie) su aspetti sociali poco noti al grande pubblico. All’interno di quei
contributi si segnalano le
immagini di Charles Bushnell, che trattò i temi
dell’ambiente di lavoro,
della vita quotidiana dei
lavoratori fuori dalla fabbrica e dei provvedimenti
posti in essere dalle aziende per migliorare il tenore
di vita e il tempo libero
dei lavoratori. Altri contributi fotografici, apparsi
sullo stesso giornale di
sociologia, documentano
invece (fino al 1915), la
vita nelle baraccopoli di
Chicago, grande centro
industriale americano.
Oggi, gran parte delle
immagini riferite agli emigranti sono affluite nel
museo newyorkese dell’immigrazione di Ellis
Island 4 . Lì si svolgono
anche mostre sulle singole
nazioni coinvolte nel processo migratorio, come
quella sulla emigrazione
italiana nel mondo, curata
da un pool di studiosi ed
esperti del centro studi
emigrazione di Roma -dei
padri Scalabriniani- che ha
consentito al grande pubblico di entrare nel merito
dell’emigrazione italiana,
Nel corso della mostra è
stato possibile anche con-
sultare, attraverso personal
computers collocati nel
museo, una banca dati di
cinquecentomila nomi di
emigrati transitati per Ellis
Island. Un modo intelligente e coinvolgente di
socializzare le informazioni
sulle generazioni di emigrati approdati in America.
Ha ritrovato un proprio
spazio, dunque, “una delle
pagine più vive, feconde
ed attuali della storia contemporanea italiana, troppo spesso sottovalutata o
rapidamente dimenticata”,
come ha avuto modo di
sottolineare padre Gianfausto Rosoli, curatore della rassegna e del testo
“Una valigia piena di America”5 in cui sono contenuti, tra l’altro, gli interessanti “Appunti per una
classificazione tipologicoiconografica delle fotografie dell’archivio degli scala-
briniani sull’emigrazione”,
stilati da Alberto Manodori6. Il testo consente di
avere una visione d’insieme del fenomeno migratorio e di entrare nel merito
delle diverse tappe dell’emigrazione verso le Americhe, lungo il viaggio ed i
percorsi di vita dei migranti, delle loro esperienze di lavoro, comunitarie e
religiose in terra straniera.
Altra mostra sui fenomeni migratori nella storia
della società italiana «Macaronì e vu’ cumpra’» (patrocinata dal Consiglio Nazionale per l’Economia e il
Lavoro e sponsorizzata
dalla Società Umanitaria
Fondazione P. M. Loria), è
stata curata da Emilio Franzina (Università di Verona)
e Mara Tognetti (Università
di Milano), con un catalogo di Ada Lonni7 (Università di Torino).
Nei 35 pannelli espositivi si delinea il percorso
storico dei movimenti migratori, ma anche l’intreccio, fra passato e presente,
dei problemi relativi all’emigrazione, alle antiche e
nuove intolleranze xenofobe. Vengono poste, così,
in evidenza le analogie tra
i due aspetti del fenomeno
in una sorta di immagini
in parallelo tra l’emigrazione italiana all’estero e
gli stranieri giunti in
Italia. Ne emerge, -come è
stato scritto da Stefano
Grossi su “La Repubblica”- un continuum storico
sociale in cui il fenomeno
migratorio, lentamente e
gradatamente, cambia di
forme e di protagonisti. È
una storia collettiva e personale di emigranti e
immigrati raccontata attraverso documenti e fotografie.
Quanto alla fotografia e
alla necessità di rivisitare,
anche attraverso questi documenti, la storia dell’emigrazione su scala regionale e, dunque, della specificità dell’emigrazione
lucana, la strada da compiere è ancora lunga.
Negli anni Ottanta la
Regione Basilicata ha avviato i progetti fotografia e
multimediale, tesi a recuperare, tra l’altro, una memoria fotografica storicizzata presso archivi e collezioni private. Nel prosieguo della ricerca, mirata
sugli studi fotografici sono
emerse professionalità di
alto livello operanti nelle
due provincie lucane9. La
Zug, Svizzera (1971): emigrati italiani e di altre nazionalità (Ungheria, Jugoslavia, Francia, Turchia, Spagna, Svizzera) in una fabbrica di orologi e materiali elettrici.
(Collezione privata Enrico Manna)
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regione ha istituito una
apposita struttura, il Mediafor, avviando corsi di fotografia in collaborazione
con istituti di ricerca universitari. Alcuni risultati di
quella esperienza sono confluiti nell’utile testo “Lezioni di Fotografia”8, che
pone in evidenza, come la
fotografia abbia un’ampiezza di significati che
producono altre riflessioni.
La fotografia andrebbe letta correttamente, -raccomandano i professori universitari Lello Mazzacane e
Alberto Baldi- entro un
sistema di relazioni tra i
ruoli sociali reali e quelli
attribuiti dall’obiettivo del
fotografo. Può non essere
sufficiente ai fini del reperimento fotografico, la ricerca sul campo, se una
foto non è databile in
modo certo o non è possibile l’identificazione del
luogo o del personaggio ritratto, così come è importante annotare se si tratta
di una foto di posa o di
una istantanea. Sono avvertenze ancora oggi utili
per una proficua e valida
ricerca sul piano scientifico.
Questo numero sull’emigrazione contiene immagini e foto, antiche e
moderne, di collezioni private (Adamo, Amedeo,
Ancarola, Casella, Falcone,
mons. Giambersio, Imbrenda, Laurino, Lisanti,
Manfredi, Manna, Mazzeo,
Sabia, Saessano, Schirone,
associazione culturale “Il
racconto” di Albano di Lucania (Pz), associazione
Pro-Loco di Monticchio
Bagni (Pz) e l’archivio di
“Basilicata Arbëresche”). È
il risultato, anche sotto
questo aspetto esemplificativo, delle potenzialità di
ricerca fotografica in ambito regionale.
Note
1
Una VALIGIA piena di
America: Antiche immagini
fotografiche dell’emigrazione
italiana nelle Americhe, [Roma] Biblioteca Casanatense,
1992;
2
J. GIOSCIO, Il dialetto lucano di Calvello, Stuttgart, F.
Steiner: 1985.
J. Gioscio, figlio di emigrati
calvellesi in Australia, professore universitario, è prematuramente scomparso
all’età di 35 anni. A lui l’amministrazione comunale di
Calvello (Pz) ha intitolato la
Biblioteca comunale di quel
centro;
3
C. DARWIN, L’espressione
dei sentimenti nell’uomo e negli animali, Torino: 1878;
I. CHERMAYEFF, Ellis Island. An Illustrated History of
the Immigrant Experience, [di
I. CHERMAYEFF, F. WASSERMAN, M. J. SHAPIRO].
New York: Macmillan Publishing Company, 1991. 287
p. ill.
In Europa la sede della miniera dismessa di Beringen (Limburgo-Belgio) è stata trasformata in museo “MijnStreekmuseum”, come testimoniano le immagini inserite in questo numero della rivista “Basilicata Regione Notizie”;
5
Una VALIGIA..., op. cit.;
6
Una VALIGIA..., op. cit.;
7
A. LONNI, Macaronì e vu’
cumpra’, numero speciale de
“Il Calendario del Popolo”;
4
Zug, Svizzera: gruppo di emigrati italiani in formazione. (1962)
(Collezione privata Enrico Manna)
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8
M. CRESCI, L. MAZZACANE, Lezioni di fotografia, Roma-Bari, Laterza: 1983. Cfr.
inoltre L. MAZZACANE, A.
BALDI, Specchio di donna ,
[Foggia]: Cappetta editore; J.
Keim, Breve storia della fotografia, Torino, Einaudi 1976;
9
Tra questi citiamo: Maimone (Trecchina), De Carlo
(Ruoti), Florenzano (Tolve),
Martoccia (Laurenzana),
Palmieri (Lavello), Giambrocone e Giocoli -padre e
figlio- (Potenza), Saluzzi
(Acerenza), D’Alessandro e
Caruso (Pisticci), Fotografie
del Progresso F. P. Festa, M.
Bruni, M. Campanaro, F. P.
Loperfido, G. Silvano, M.
Appio,
F. Scalcione,
(Matera).
Safi, Marocco: donna in costume. (Settembre 1997)
(Collezione privata Italia Falcone)
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di Giuseppe Settembrino - Consiglio Regionale della Basilicata