1 LA CAPITANATA Rivista quadrimestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia Direttore: Franco Mercurio Segretaria di redazione: Maria Adele La Torretta Redazione e amministrazione: «la Capitanata», viale Michelangelo 1, 71100 Foggia tel. 0881-791621; fax 0881-636881; e-mail: [email protected] «la Capitanata» è distribuita direttamente dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Per informazioni e per iscriversi alla lista delle persone e degli enti interessati rivolgersi a «la Capitanata», viale Michelangelo 1 71100 Foggia, tel. 0881-791621; fax 0881-636881; e-mail: [email protected] “LA MAGNA CAPITANA” BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA è un servizio della Provincia di Foggia Presidente: Carmine Stallone Direttore: Franco Mercurio, [email protected] Authority catalografica: Gabriella Berardi, [email protected] Authority editoriale: Elena Infantini, [email protected] Authority logistica: Gino Vallario, [email protected] Authority informatica: Antonio Perrelli, [email protected] ilDock: Centri di documentazione: Enrica Fatigato, [email protected] Emeroteca: Franco Corbo, [email protected] Fondi antichi e speciali: Antonio Ventura, [email protected] Sala Narrativa: Annalisa Scillitani, scillitani @bibliotecaprovinciale.foggia.it Sala Consultazione: Maria Altobella, [email protected] Sala Ragazzi: Milena Tancredi, [email protected] Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono elementi simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente e futuro senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla Biblioteca Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e da loro gentilmente donato. Red Hot: Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000. _______________ LA CAPITANATA RASSEGNA DI VITA E DI STUDI DELLA PROVINCIA DI FOGGIA _______________ 20 _______________ Salute e Società _______________ Ottobre 2006 4 Indice Salute e Società p. 11 Lettera aperta di Edoardo Beccia 15 Cardiologia oggi a Foggia di Natale Daniele Brunetti e Matteo Di Biase 17 I consultori familiari: una risorsa preziosa per le nostre comunità di Antonio Bucz 23 I confini sconfinati delle neuroscienze nel terzo millennio di Ciro Mundi 27 Ausl Fg/1: una programmazione sanitaria a dimensione della gente. Gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale di Gaetano Fuiano 1. Introduzione 2. Descrizione generale dell’azienda 3. Analisi dei bisogni 4. Malattie di particolare rilevanza sociale 5. Il metodo e gli strumenti 6. Gli strumenti operativi principali 7. Alcune priorità 8. Obiettivi, azioni ed interventi nelle attività generali, di assistenza ed in quelle di supporto 75 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale. Progetto europeo per l’educazione sul cancro cervicale di Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg 1. Introduzione 2. Obiettivi del consorzio europeo per il cancro cervicale 3. Funzioni del programma educativo (CCP Ed program) 4. European cervical cancer association (ECCA) 5 5. Situazione globale sul cancro cervicale (www.eccce.org) 6. Cause del cancro cervicale (www.eccce.org) 7. Notizie sull’HPV (www.eccce.org) 8. Prevenzione del cancro cervicale (www.eccce.org) p. 97 I progressi della chirurgia negli ultimi quarant’anni di Costanzo Natale 1. Evoluzione storica 2. Dove va la chirurgia? 3. Arte e Chirurgia 103 Chirurgia pediatrica a servizio del bambino e dei suoi genitori di Maria Nobili 105 Nascere troppo presto oggi. La realtà di Foggia di Giuseppe Rinaldi Giuseppe Mazzini e la democrazia in azione Auditorium Biblioteca Provinciale “la Magna Capitana” 20 dicembre 2005 113 L’eredità di Mazzini all’umanità e il ruolo dell’Italia di Giuliana Limiti 117 Giuseppe Mazzini e la cultura inglese: testimonianze dall’epistolario di Giuseppe De Matteis 127 L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti di Michele Finelli 139 Giuseppe Mazzini Uomo Universale di Carlo Gentile di Angelo Manuali 145 Mazzini e l’Europa sud-orientale nella storiografia degli ultimi trent’anni di Antonio D’Alessandri 6 Saggi p. 159 La Carta costituzionale delle relazioni sindacali di Domenico Della Martora 165 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo di Filomena Della Valle 181 Profilo di uno scrittore di razza: Domenico Lamura di Giuseppe De Matteis 189 La Biblioteca Comunale di Lucera di Dioniso Morlacco 199 Paradigma metodologico di lettura poetica di Luigi Paglia 221 Le attività creditizie a Foggia di Sabina Stefania Samele 1. Premessa 2. Strutttura dell’indebitamento 3. I debiti 243 Le compagne del 23 marzo 1950 a San Severo di Maria Teresa Santelli 253 La diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana di Gaetano Schiraldi 1. La cristianizzazione in Puglia 2. La comunità cristiana di Lucera: la tradizione petrina 3. Le prime fonti scritte sulla comunità di Lucera 4. Le leggende sui primi quattro vescovi di Lucera: Basso, Pardo, Marco, Giovanni 267 “Da proletari a possidenti”. Un progetto di sviluppo in età liberale di Carmen Sferruzzi Siniscalco 275 Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento di Bruno Vivoli 1. Rodi e il suo territorio 7 2. La produzione principale: l’agrumicoltura 3. Le esportazioni dal porto di Rodi Attività della Biblioteca 289 Fonti sonore e musicologia: alcune riflessioni di Grazia Carbonella Recensioni 299 Giuseppe De Matteis, Vincenzo Cardarelli - un sogno: lo stile assoluto di Grazia Stella Elia 303 Luigi Paglia e i suoi due volumi su Giuseppe Ungaretti di Domenico Grassi Gli autori 8 Salute e Società 10 Edoardo Beccia Lettera aperta di Edoardo Beccia Carissimo, la tua mia chiama in causa pur non essendo indirizzata a me e mi trovo costretto a risponderti non volendo farlo. Mi piace infatti ricordare le nostre radici comuni in sala Manzoni quando qualcuno ci insegnava: “Riprendi tuo fratello in privato e se non ti ascolta fallo poi in pubblico”. Il tuo dar risalto a questa tematica e in questo modo, mi fa prendere posizioni in un momento di grande riflessione e tormento per una decisione non facile, non presa e ancora tutta da valutare, che mi sarebbe piaciuto discutere con te forse guardandoci negli occhi. Da sempre nel nostro gruppo prima di prendere una decisione eri quello che ci diceva: “Esaminiamo gli aspetti negativi della situazione”. Spesso quando devo decidere ripenso alla tua frase e all’insegnamento che contiene. Però poi decido. Perché non decidere è anche una decisione e troppo spesso lasciamo che gli altri decidano per noi. Nel mio percorso di conoscenza del problema, personale innanzitutto, ma anche pubblico in quanto relatore, sono stato a visitare la centrale di Porcari in provincia di Lucca. Nel salutare il responsabile dell’ufficio ambientale del comune, che era stato a Troia come turista e che conosceva bene la zona, a cui avevamo rivolto tante domande di tipo tecnico e non e a cui avevamo più volte chiesto, ma senza risposta, se era opportuna per noi la centrale, ci ha detto: “Tanti auguri, buon lavoro e soprattutto siate artefici del vostro destino”. La frase mi è rimasta nella mente e ancora mi martella ed è il mio dubbio. I miei ricordi sono andati agli oracoli delfici che agli speranzosi guerrieri in partenza dicevano “Sul tuo scudo tornerai” e lo scrivevano sul coccio senza virgole. E c’era chi lo leggeva come un presagio positivo (per il tuo scudo, per la tua abilità guerriera, tornerai) e chi invece lo leggeva come un presagio negativo (tornerai sopra il tuo scudo come feretro di trasporto, ultimo onore per il guerriero). Era tutto in una virgola. Qual è la decisione giusta per il nostro destino? Non per noi ma per i nostri figli? Ti assicuro che non è facile la scelta. E questo fardello è il compito di chi è stato chiamato ad amministrare. 11 Lettera aperta Se domani il Signor FIAT ci dicesse: “Metto a Troia una fabbrica di auto per mille posti di lavoro”, tu mi scriveresti? Ne dubito. Perché mille posti di lavoro non si discutono. Eppure anche una fabbrica non inquinante con tutto lo spostamento dei suoi operai sai quanto inquina? E rifacendomi sempre ai comuni insegnamenti e se i posti di lavoro fossero cinquecento?, e se duecentocinquanta e se cento e se… Allora la nostra coscienza “ecologica” esiste o è in continuo compromesso? Come verrei giudicato come amministratore se rinunziassi ad un opportunità di quel genere? È un discorso teorico il mio, speculativo, ma con te posso farlo, dura lex, sed lex. La coscienza ecologica è coscienza. Tu ci inviti a riflette su un apparecchio di condizionamento. Hai ragione. Ci rifletto ma ti domando dopo che insieme ci abbiamo riflettuto, hai buttato via il tuo condizionatore? Hai chiuso il tuo telefonino?Hai spento il frigorifero? No di certo. Eppure sai è come quel medico nostro comune amico che entrava in reparto con la sigaretta in bocca e parlava di gastroscopia fumando. L’esempio è la migliore dimostrazione di credere in quello che si dice. Tra l’altro forse è l’occasione per invitarti a venire più spesso a Troia dove il condizionatore non è “necessario”, ma poi dovremo discutere cosa è necessario. E così come mi spieghi cosa significa vocazione del territorio. Quando sono stato a Porcari mi sono trovato a 20 Km da Lucca, una città stupenda, a 40 Km da Pisa che non devo decantare, a 30 Km da Livorno e da tutta la costa della Versilia. Mi risulta che sia una località turistica, non a vocazione turistica che è un’ipotesi, ma una realtà turistica. Eppure è una tra le zone più industrializzate d’Italia. Se guardiamo la nostra tradizione, la nostra “vocazione” era la pastorizia e i tratturi ce lo ricordano. Fortunatamente di strada ne abbiamo fatta. In Italia, ma aggiungerei nel mondo, non so se esista un’area a vocazione industriale. Non esiste per nessuno questo tipo di vocazione ma diventa una necessità. Importante è coniugare necessità e volontà, opportunità e futuro, onori ed oneri, vantaggi e danni. È l’equilibrio delle scelte che fa la saggezza. Siate artefici del vostro futuro. Mi ricordo delle foreste brasiliane. Sono uno dei polmoni del mondo. Ci ribelliamo quando le tagliano perché ne viene meno un qualcosa per la nostra salute ma non ci battiamo perché migliorino le condizioni di vita di quei popoli. Non possiamo fare discorsi a senso unico. Dobbiamo parlare di federalismo solidale. Questo sarebbe un discorso che mi piacerebbe fare con te. Io mantengo il mondo pulito e tu mi dai da mangiare. Anch’io ho bisogno del tuo sviluppo. È troppo comodo che qualcuno goda dei benefici inquinando il mondo (ed usi telefonini, condizionatori, auto, frigoriferi) e costringa gli altri a fare ecologia. Nel mondo villaggio il mio vento vale quanto la tua acqua, i miei alberi valgono quanto le tue ciminiere, i tuoi soldi valgono quanto i miei paesaggi. Possiamo fare questi discorsi? 12 Edoardo Beccia Allora anch’io avrei la libertà delle mie scelte e non sarei tra l’incudine dello sviluppo e il martello dell’inquinamento. Giorni fa sono stato al primo Convegno della Rete delle Città Sane a cui il nostro comune partecipa. È stato ribadito un concetto che tu ed io già conoscevamo: l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) dice che la salute non è assenza di malattie è invece il benessere psicofisico. Però aggiunge che i parametri per valutare il benessere psicofisico sono la casa, il lavoro, la famiglia, ecc. Se ho l’aria e non ho il lavoro non ho salute. È chiaro sto radicalizzando il problema, ma devi sapere che 18 (dico diciotto) aziende trevigiane stanno aspettando di sapere se attiviamo la centrale per scegliere il nostro PIP, perché in quel caso il costo dell’energia sarà inferiore. Anche turismo, anche agricoltura, ma non solo. Non vorrei che una mia scelta oggi costringesse domani mio figlio ad andare a vivere a Milano e a mettersi a Milano la mascherina per camminare nelle strade, mentre qui non c’è problema di mascherina e non ce ne sarebbe comunque anche con la centrale. Vediamo anche un altro aspetto. L’apertura di una centrale a basso (non voglio dire nullo) inquinamento potrebbe voler dire chiusura di impianti a maggior inquinamento. Anche questo è federalismo solidale. Sono un amministratore e come tale ho avuto dei beni da far fruttare e di questo risponderò. Saprò trasformarmi in politico se riuscirò a vedere oltre i bisogni contingenti della mia gente e predisporre il loro futuro. Sono un cittadino, non un tecnico. Per vedere più lontano dei giganti diceva il mio vecchio professore di filosofia basta salire sulle spalle dei giganti. Gli esperti sono i nostri giganti. Facciamoci illustrare la realtà ma poi salendo sulle loro spalle guardiamo più lontano e soprattutto decidiamo noi il nostro futuro. Sai, Celle San Vito, con cui confiniamo come territorio ha già deciso che se noi rifiutassimo farebbe sua l’idea della centrale. E noi? A volte penso che se proprio dovessi operarmi sceglierei te per questo. Vale anche per altre decisioni difficili e penose. Se proprio dobbiamo farle scegliamo chi, come, dove, quando, con che limitazioni, con quali rimedi, con quali accortezze e soprattutto con quali onestà mentali o non per evitare il massimo possibile di danni. Anche questo può significare coscienza ecologica, forse più difficile da maturare ma sicuramente sofferta e consapevole. E comunque ti assicuro abbiamo dato una disponibilità agli studi di fattibilità. Siamo attenti a tutti i suggerimenti, vogliamo parlare ed ascoltare, senza pregiudizi. Ma piacerebbe che i pregiudizi fossero messi da parte da tutti. Quando anni fa si parlava di pale eoliche si diceva che portavano pazzie nelle pecore. Ancora oggi, sui giornali di pochi giorni fa, si diceva che è colpa delle pale se non piove. Non facciamo ricadere tutte le colpe su ciò che non ci piace. Abbiamo 13 Lettera aperta la serenità e l’onestà mentale di un confronto senza rete ma fatto veramente per l’interesse di tutti. Sempre al convegno delle città sane ci hanno illustrato i profili di salute. Le città più all’avanguardia hanno convocato dei forum di cittadini per decidere la città che vedono nel futuro. E hanno inviato i gruppi, le aziende, i sindacati, le associazioni. In termine tecnico vengono definiti i portatori di interessi. Ho obiettato, ma chi sente i disoccupati organizzati a Napoli? Chi ascolta i barboni di piazza Grande a Bologna? Chi fa discorsi di ecologia è spesso chi ha già il pane e vuole il dolce. Facciamo i nostri piani regolatori prevedendo strade larghe e parchi. Eppure i nostri vecchi costruivano centri storici con strade strette per mantenere il calore dell’inverno ed evitare il caldo d’estate e per non fare molta strada a piedi. Le strade larghe ci costringono a riscaldare e a raffreddare i nostri immobili con grande dispendio energetico. E i percorsi aumentano e ci vogliono le macchine. Chi ha ragione? Io no so quale sia la verità, ma so per certo che il problema non si risolve eliminandolo. Non si toglie l’inquinamento non facendo le centrali ma poi lasciamo le automobili. Si parla di multifattorialità e di equilibrio. Importante è non saccheggiare la terra ma utilizzare con equilibrio ciò che abbiamo. Importante è far convivere le esigenze e trovare insieme le soluzioni. È facile dire di no. E poi? Sappiamo dire no veramente a tutto? Io no di certo e credo che se rispondessimo tutti con sincerità la risposta sarebbe comune. La sfida è cambiare gli stili di vita. Ti aspetto per aiutarmi in questa difficile impresa. Sempre tuo con immutato affetto. 14 Natale Daniele Brunetti, Matteo Di Biase Cardiologia oggi a Foggia di Natale Daniele Brunetti e Matteo Di Biase Alla rapida crescita che ha caratterizzato negli ultimi anni la realtà culturale e sociale foggiana, è corrisposto un altrettanto dinamico sviluppo di quella medica in generale e cardiologica in particolare, sia a livello scientifico che assistenziale. L’innesto corroborante dell’esperienza universitaria su una vivace tradizione locale ha contribuito ad allargare il respiro, la consapevolezza professionale e gli ambiti operativi di una attività già fortemente connotata da uno stretto rapporto con il suo territorio. Negli ultimi anni l’attività assistenziale della Cardiologia Universitaria degli Ospedali Riuniti di Foggia si è completata con tutte le più aggiornate procedure diagnostiche ed interventistiche che la moderna cardiologia offre per la cura del paziente cardiologico. A Foggia, è possibile sottoporsi ad esame coronarografico, l’esame che, mediante l’iniezione di mezzo di contrasto nelle arterie che irrorano il cuore, consente al cardiologo di individuare i soggetti con stenosi coronariche e di completare la diagnosi di coronaropatia. Inoltre a Foggia è possibile anche trattare in maniera risolutiva molti di questi pazienti con ischemia cardiaca, andando ad intervenire a livello delle placche aterosclerotiche delle coronarie con tecniche di angioplastica coronarica percutanea, il cosiddetto “palloncino”, che, se possibile e correttamente effettuato, consente di evitare in molti casi l’intervento di by-pass coronario con una procedura di pochi minuti, condotta in anestesia locale, con il paziente sveglio e collaborante. Sono decine e decine ormai i pazienti foggiani della provincia che si sono giovati di tale trattamento senza fastidiosi trasferimenti fuori provincia o addirittura fuori regione. Oggi a Foggia è possibile non solo effettuare tutte le procedure di diagnostiche più avanzate di elettrofisiologia, quella branca della cardiologia che si occupa di aritmie e disturbi dell’attività elettrica del cuore, ma anche essere sottoposti ad impianto di pace-maker, con una esperienza più che pluriennale e con una casistica tra le maggiori a livello nazionale. Si eseguono, inoltre, impianti di defibrillatore cardiaco, un sistema salvavita capace di interrompere mediante apposita stimolazione o scarica elettrica le aritmie che mettono a rischio la vita di alcuni pazienti (tachicardia/ fibrillazione ventricolare). Foggia è poi all’avanguardia nazionale per le procedure, sempre di elettrofisiologia interventistica, di ablazione percutanea mediante erogazione di radiofrequenza. Tali procedure, con un’attenta selezione dei pazienti e se correttamente effettuate, possono risolvere in maniera semplice ed indolore per il paziente, ma al contempo quasi sempre definitiva, molti casi di aritmie, dalle più rare tachicardie parossistiche alla ben più comune fibrillazione atriale. Alla realtà locale, ma anche nazionale che vede un generale invecchiamento 15 Cardiologia oggi a Foggia della popolazione, un aumento dei soggetti affetti da patologie cardiologiche croniche, degli anziani bisognosi di assistenza continuativa o addirittura domiciliare, la Cardiologia Universitaria degli Ospedali Riuniti di Foggia viene incontro con ambulatori dedicati precipuamente all’assistenza del paziente con scompenso cardiaco o con programmi, ben rari a livello nazionale, anche in realtà almeno apparentemente o presuntamente più avanzate, di assistenza cardiologica specialistica domiciliare. Il cardiologo cura a casa il paziente con scompenso cardiaco cronico quando l’ospedalizzazione potrebbe essere ancora necessaria, ma al momento non indispensabile. Cardiologia e assistenza dei familiari si incontrano quindi in un connubio che cura il paziente nel miglior modo possibile nel miglior luogo in cui ciascun paziente vorrebbe essere assistito: a casa. E ancora non bisogna dimenticare la silenziosa e diuturna, ma non per questo meno encomiabile ed imprescindibile, attività dell’Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC), il cui lavoro senza pause ha salvato, con un trattamento rapido e qualificato dell’infarto o dell’angina pectoris, la vita di un numero di uomini e donne di Capitanata che è impossibile quantificare. Una struttura quindi fortemente radicata nella realtà in cui vive e opera, a cui tale realtà foggiana deve molto non solo a livello assistenziale, ma anche a livello formativo e culturale. La Cardiologia Universitaria degli Ospedali Riuniti di Foggia è infatti oggi non solo sede di Cattedra della giovane, vivace e in grande crescita Università degli Studi di Foggia, ma anche sede di Scuola di Specializzazione in Cardiologia e del Dottorato di Ricerca in Fisiopatologia dell’Apparato Cardiovascolare, uno dei pochi in cardiologia d’Italia: fucina quindi dei futuri cardiologi del territorio, ma anche dei futuri ricercatori in cardiologia. Il salto di qualità culturale è testimoniato dalla sempre maggiore spinta propulsiva esercitata dalla cardiologia foggiana a livello di cultura cardiologia locale, nel senso di una diffusione sempre più capillare sul territorio della linee guida delle società scientifiche nazionali ed internazionali, ma anche dal crescente e lusinghiero numero di pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali. Crescita assistenziale, quindi, tecniche avanzate, procedure moderne, fermento culturale… Un panorama dunque tutto rose e fiori? Non solo: molto ancora c’è da fare, molto ancora si può e si deve fare. Un’assistenza cardiologica qualificata e completa non può prescindere da una stretta e continua integrazione con la cardiochirurgia, ambito medico-chirurgico in cui la realtà foggiana ha ancora grossi margini di crescita. Al momento, la Cardiologia Universitaria degli Ospedali Riuniti di Foggia ha reso inutili i tristi viaggi della speranza cui erano costretti molti pazienti della nostra realtà fino a pochi anni fa; tutto ciò è purtroppo invece ancora tristemente necessario per chi ha bisogno di un intervento di by-pass coronarico. Molto ancora c’è da fare e si deve fare in termini di riduzione delle liste di attesa, ancora purtroppo troppo lunghe per chi ha bisogno di un elettrocardiogramma, di un’ecocardiografia o di una visita cardiologica. L’obiettivo, quindi, è stato e sarà quello di curare il paziente cardiologico con le metodiche più aggiornate e con i migliori standard di qualità senza costringerlo a viaggi in altre città o altre regioni. 16 Antonio Bucz I consultori familiari: una risorsa preziosa per le nostre comunità di Antonio Bucz I consultori familiari sono nati più di 30 anni fa per dare concrete risposte alle nostre popolazioni in termini di salute, assistenza sociale e sanitaria all’infanzia, a singoli, uomini, donne, coppie e famiglie, ed hanno sempre vissuto e sono cresciuti con poche risorse umane e scarsi finanziamenti pubblici. Rappresentano, tuttavia, per l’intera comunità nazionale una grande risorsa, che va conservata e potenziata per le generazioni future. Istituiti con la Legge quadro n°405 del 1975 ed inseriti nel Sistema Sanitario Nazionale (Legge n°833/78) con tempi e modalità differenti da regione a regione, i consultori familiari hanno incontrato contemporaneamente grandi difficoltà e grandi potenzialità. Su di essi si sono riversate tematiche quali la procreazione responsabile, i rapporti interpersonali e familiari, la tutela della gravidanza, la sessualità, la contraccezione, la salute del bambino, il sostegno agli adolescenti ed ai giovani, l’affidamento e le adozioni nazionali ed internazionali, il sostegno alla coppia ed alla genitorialità, la mediazione familiare. Ostacoli di natura burocratica, carenze finanziarie, vastità di compiti, genericità di contenuti ed interpretazione culturale da dare ad essi, hanno completato le difficoltà del funzionamento dei consultori. Accanto ai nuovi bisogni socio-sanitari avanzavano di pari passo le carenze e i ritardi delle istituzioni. Eppure, nonostante queste contraddizioni, il consultorio come servizio socio-sanitario, è riuscito a diventare un luogo sicuro dove affrontare tali problematiche. Il lavoro svolto in tanti anni è ormai un patrimonio che appartiene a tutti e dovrà sempre più essere rivolto verso l’intera comunità per sollecitarne la crescita. Nella regione Puglia il primo riferimento è la Legge regionale n. 30 istitutiva del servizio consultoriale e che reca la data del 5 settembre 1977. Successivamente – nel 1979 – sono stati definiti gli ambiti territoriali, i bacini di utenza, e naturalmente, le città sede dei consultori. Vediamo la seguente tabella: 17 I consultori familiari: una risorsa preziosa per le nostre comunità Come si può facilmente notare la sola fase di implementazione del servizio ha richiesto un notevole numero di anni. Il consultorio ha subito profonde trasformazioni istituzionali con passaggi di competenze dallo Stato, alle Regioni, ai Comuni, alle Unità Sanitarie Locali. Per quanto riguarda i bacini di utenza c’è da rilevare che nel 1979 c’era un consultorio ogni 38.000 abitanti, nel 1983 c’era un consultorio ogni 27.000 abitanti, nel 2005 un consultorio ogni 21.000 abitanti. Nel 1979 la Regione Puglia stanziava per i consultori familiari la cifra di lire 4.509.360.000, nel 1985 la cifra stanziata toccava lire 9.360.000.000. Pertanto la quota assegnata a ciascun consultorio è passata da lire 21.680.000 + 595 pro capite per abitante del 1979, a lire 48.000.000 del 1981, a lire 65.000.000 del 1985. Non molto dissimile è la situazione in provincia di Foggia per quanto riguarda l’apertura e il funzionamento dei consultori. Sono occorsi infatti molti anni per l’apertura dei servizi previsti. Dal 1° gennaio 1982 sono state trasferite alle U.S.L. le funzioni in materia dei consultori già di competenza dei comuni. Nella stessa data le U.S.L. della provincia di Foggia erano 11. Attualmente esistono 3 aziende U.S.L. : - FG/1 con sede a San Severo FG/2 con sede a Cerignola FG/3 con sede a Foggia 18 Antonio Bucz Ogni azienda è suddivisa in distretti. Il distretto è l’articolazione territoriale dell’organizzazione sanitaria dove vengono date risposte in modo unitario e globale alla domanda di salute e costituisce punto di riferimento socio-sanitario. Obiettivo generale del Distretto è l’unitarietà e globalità della risposta ai bisogni di salute espressi dalla popolazione attraverso l’integrazione dei servizi e delle risorse presenti nel territorio, perseguendo obiettivi di efficienza organizzativa, economica e di collocazione delle risorse. DATI SUI CONSULTORI A CURA DEL MINISTERO DELLA SANITÀ (RILEVAZIONI REGIONALI) ANNO 1976 ANNO 1978 ANNO 1980 ANNO 1982 ANNO 2005 N. 124 N. 396 N. 1.029 N. 1.456 N. 2151 DATI SUI CONSULTORI DELLA PROVINCIA DI FOGGIA ANN0 ANNO ANN0 ANN0 ANN0 19 1976 1978 1980 1982 2005 N. N. N. N. N. 1 2 10 18 32 I consultori familiari: una risorsa preziosa per le nostre comunità REGIONE PUGLIA NUMERO CONSULTORI FAMILIARI Dicevamo all’inizio delle difficoltà e delle potenzialità che esprimono i servizi consultoriali in contemporanea, rappresentati nel primo caso dai campi di attività della prevenzione e della promozione della salute che avevano bisogno di una programmazione nazionale e regionale che purtroppo è mancata, e nel secondo caso sono state rappresentate dalle offerte attive per le popolazioni bersaglio, come per le grandi campagne per la prevenzione dei tumori della sfera genitale femminile rivolte alle donne in età compresa tra i 25 ed i 65 anni. Inoltre è opportuno ricordare come le maggiori difficoltà sono derivate anche dalla carenza di completamento degli organici e dalla mancanza in molti casi di quei requisiti minimi strutturali e tecnologici previsti per le strutture. Lo stesso posizionamento dei servizi consultoriali nel territorio, relegati in aree poco visibili e male pubblicizzati, non ha favorito una adeguata conoscenza tra le popolazioni. È opportuno, quindi, perseguire una azione di rilancio dei consultori familiari attraverso strategie di intervento che prevedano la capacità di utilizzare adeguati studi sociologici ed epidemiologici per individuare gli obiettivi che si intendono raggiungere. Occorrerà infine adeguare i servizi consultoriali agli standard normativi previsti dal PROGETTO OBIETTIVO MATERNO INFANTILE che evidenzia lo sviluppo di tre progetti strategici ed operativi che dovranno riguardare le nostre popolazioni. I tre progetti sono: 1. Percorso nascita 2. Adolescenti 3. Prevenzione dei tumori femminili 20 Antonio Bucz Pertanto nella nostra Regione e nella nostra provincia la popolazione bersaglio alla quale sono rivolte queste strategie operative saranno: - donne e coppie nella realizzazione concreta del desiderio di maternità e genitorialità - adolescenti in via di formazione - donne di età compresa tra i 25 ed i 64 anni Nel PROGETTO OBIETTIVO MATERNO INFANTILE è opportuna l’integrazione dei servizi sia in ambito distrettuale (secondo livello) che sovradistrettuale (terzo livello). In conclusione si può affermare che i consultori familiari rappresenteranno per il futuro un sicuro riferimento per la tutela e la promozione della salute come valore per tutte le nostre comunità. 21 22 Ciro Mundi I confini sconfinati delle neuroscienze nel terzo millennio di Ciro Mundi Negli ultimi decenni, i progressi scientifici nell’ambito delle neuroscienze hanno determinato una profonda ridefinizione dell’intero corpus disciplinare che non ha similitudini in altri settori di ricerca ed applicazione delle discipline mediche. È, finalmente, possibile ‘vedere’ le strutture principali del Sistema Nervoso (SN) grazie al sorprendente sviluppo delle grandi macchine neuroradiologiche (TAC, RMN, Spettroscopia RMN) ed all’applicazione, in Neurologia, delle ricerche più avanzate nel campo della medicina nucleare (SPECT, PET). Inoltre, la Neurofisiologia dispone di metodiche per studiare l’attività del SN, centrale e periferico, che consentono, grazie alla digitalizzazione, di valutarne, con sempre maggior precisione, il funzionamento; la Neuropsicologia ha aperto nuovi scenari nell’ambito dello studio delle funzioni corticali superiori; quelle funzioni proprie della corteccia cerebrale che rappresentano la massima integrazione di tutte le altre funzioni del SN. Tutte queste indagini, il cui utilizzo dovrebbe essere prescritto, esclusivamente, sulla base di protocolli convalidati, medicina basata sull’evidenza, ci consentono di studiare la morfologia normale e patologica del SN , di valutarne le funzioni fisiologiche e patologiche, la risposta alla somministrazione di farmaci, le modificazioni del metabolismo cerebrale; ed, ancor più stupefacente, di individuare le aree del cervello che si ‘attivano’, si ‘incendiano’, in occasione di stimoli suscitanti emozioni (piacere, dolore, rabbia, ecc...) o di complesse prestazioni (calcolo, lettura, scrittura, interpretazioni di immagini, ecc...). Sapevamo, da molto tempo, che il SN, ed il cervello in particolare, era costituito da molti organi in un solo organo. Il cervello è strutturato in parti specializzate per funzioni (linguaggio, motilità, sensibilità, ecc...). Non sapevamo, ed ancora oggi non lo sappiamo del tutto, come queste parti si integrano per esplicare, simultaneamente, tutte quelle funzioni che ci permettono di vivere al meglio e cioè di ricavare un soggettivo senso di benessere nell’adattamento con l’ambiente circostante. Ambiente come insieme di variabili infinite che si modificano, assumendo significati e significanti soggettivi imponderabili, nella coniugazione individuale del rapporto uomo/ambiente che costituisce il vissuto, l’esperienza, la cui stratificazione mnesica informa e determina il comportamento che, a sua volta, inscrive ulteriori tracce nei circuiti neuronali. Il percorso tortuoso in questo labirinto conduce al segreto della simultaneità che resta, ancora oggi, uno dei punti più affascinanti della ricerca sul cervello e l’intero SN. In altri termini, concordiamo sulla visione del cervello come regista dell’intero organismo umano e delle sue relazioni, ma uno dei punti cruciali è: esiste un regista all’interno del cervello, 23 I confini sconfinati delle neuroscienze nel terzo millennio o, al di là di esso, che opera la regia complessiva del cervello stesso? La mente è una mera funzione cerebrale, al pari di tante altre, o, è la superfunzione che delinea, nel corso dell’intera vita individuale, il principium individuationis, sfuggente ed affascinante, mimetico, a volte irrintracciabile, di ognuno di noi. Il dibattito in proposito è serrato e si arricchisce, continuamente, di nuovi stimoli che illuminano zone, sino a poco tempo fa, ritenute non solo oscure ma, addirittura, inesplorabili. Peraltro, è un dibattito che si è articolato per l’intero secolo scorso, a partire dalla contrapposizione, tra Golgi e Cajal, entrambi premi Nobel per la medicina nel 1906 per le ricerche in Neurologia. Camillo Golgi, ‘l’architetto del cervello’, grazie ai suoi innovativi sistemi di colorazione delle cellule nervose, visibili così per la prima volta, immaginò il cervello come struttura fisiologicamente unitaria, diffusa; una rete, senza soluzione di continuità, che funziona simultaneamente e metabolizza i dati nel suo insieme; una macchina che pensa in blocco (Teoria reticolare). Ramon Cajal, di contro, propugnava la teoria del neurone : il cervello è un immenso puzzle di cellule elementari, ciascuna delle quali svolge individualmente il suo compito, certo in comunicazione con le altre, ma secondo percorsi particolari e diversi per ogni singola operazione mentale. Oggi, potremmo tentare di unificare le posizioni usando l’immagine di Paolo Mazzarello, curatore, a Pavia, delle celebrazioni di Camillo Golgi per il centenario del Nobel: “non c’è rete senza nodi , non ci sono nodi senza rete”. Di strada, da allora ne è stata percorsa molta: l’ampliamento degli studi di genetica e di neurochimica, hanno gettato nuova luce su molte, una volta inspiegabili, malattie neurologiche tra certezze (Corea di Huntingthon, Distrofia muscolare, ecc…) e probabilità (Sclerosi laterale amiotrofica, ecc... ) ipotizzando terapie non solo farmacologiche ma anche geniche. Senza dubbio, la profilassi educativa eugenetica e la diagnosi precocissima hanno di molto abbassato l’incidenza di gravi malattie altamente invalidanti, a prognosi infausta. Nonostante tutto, la domanda che ritorna, non eludibile, è: l’enorme ampliamento delle conoscenze fisiologiche e fisiopatologiche ha determinato un reale miglioramento delle capacità di cura e di possibilità di guarigione delle malattie neurologiche? Tale quesito investe, oggi, come riflessione metodologica ed epistemologica, qualsiasi branca della medicina; nel caso specifico della neurologia, la domanda, e, di conseguenza, le risposte possibili assumono connotati di peculiare complessità. Del resto, la sfida alla complessità è uno dei presupposti della ricerca in neuroscienze che assume il maggior livello di criticità nell’applicazione, in vivo, dei possibili strumenti di cura sapendo che non sappiamo, sino in fondo, come questi modificano il cervello (organo), le sue funzioni normali e/o patologiche e/o la sua principale funzione o superfunzione (la mente). Si perviene, così, alla chiave di volta dell’intero sistema: il rapporto mente/cervello. Su questo tema, spesso eluso, si articola, quantomeno, la confluenza di saperi specialistici afferenti alla medicina, alla psicologia ed alle scienze umane. La questione potrebbe essere liquidata, in perfetto stile positivista, mettendo in campo considerazioni lineari, di causa ed effetto, rifuggendo quindi dalla complessità. Consapevoli di questo, tuttavia, da questa tipologia di considerazioni non possiamo prescindere, poiché anche la complessità più inestricabile discende da quesiti semplici. La constatazione, incontestabile, che esistono soggetti privi di facoltà mentali (amenza) con un 24 Ciro Mundi cervello anatomicamente integro, mentre non esistono soggetti con funzione mentale in assenza di cervello (anencefalia) potrebbe farci concludere che la funzione mentale è esclusivamente legata al cervello e che le alterazioni della funzione sono da ricercare nelle alterazioni della struttura (cervello) che esprime suddetta funzione. Enfatizzare questo principio, in epoche anche recenti, è servito soltanto a creare un improprio spartiacque tra organicisti (in genere i neurologi ed una parte degli psichiatri con il loro insufficiente armamentario semeiologico e neuropsicofarmacologico) e psicoterapeuti dediti alla psicologia dinamica, ed alle psicoterapie derivate, che pubblicamente aborrivano gli psicofarmaci, camicia di forza chimica, per prescriverli, ineluttabilmente, con dovizia, nel drammatico confronto con la malattia mentale, specialmente nei suoi stati di acuzie. Il progresso repentino delle neuroscienze ha spiazzato, seppur in forme e modi diversi, gli uni e gli altri. I neurologi hanno, a fatica, dovuto imparare che molti dei cosiddetti disturbi funzionali non sono da negligere solo perché non hanno il riscontro di un’alterazione organica (es. la fatica nella Sclerosi multipla). Gli psichiatri hanno imparato che la plasticità neuronale, la neurochimica aiutano a spiegare il funzionamento del cervello e che, quanto più si conosce il cervello tanto più si conosce la sua funzione/superfunzione che è la mente. Questo reciproco riconoscimento, fortunatamente, è nei fatti: sia nell’ambito della ricerca in Neuroscienze, sia nell’ambito operativo clinico. Non è più il tempo di stabilire primati. Lo stato dell’arte ci consente di affermare che qualsiasi alterazione, d’organo e/o di funzione, del complesso mente/cervello si inscrive nelle nostre storie personali, sul nostro vissuto, sul nostro psichismo, ed a sua volta, tutto questo, si inscrive nel nostro cervello determinando una traccia, spesso irrintracciabile, che, però, sarà parte integrante del funzionamento del cervello da quel momento in poi, caratterizzando le nuove strategie di adattamento. Molte, inevitabilmente, sono le questioni che rimangono aperte. Ne citeremo alcune. Le possibilità di cura sono notevolmente ampliate, mentre le possibilità di guarigione, restitutium ad integrum, sono praticamente immutate. Se è abbastanza comprensibile che malattie dovute ad una lesione del SN possono essere curate ma non guarite, poiché, allo stato attuale, la lesione non può essere ricondotta ad integrum, diventa più difficile capire come risulti altrettanto difficile guarire malattie in cui non si rintraccia alcuna lesione (forme di ansia che perdurano tutta la vita, depressioni cicliche ecc...). Quindi, sono aumentate le possibilità di cura, molto poco le possibilità di guarigione. È necessario, pertanto, un ripensamento sulla distinzione, troppo semplicistica, tra malattie organiche e malattie funzionali. In un’ottica nuova, al posto di quella per cui le malattie organiche esistono veramente, perché derivate da una o più lesioni, mentre quelle funzionali sono dovute solo a suggestione del paziente o, peggio, alla sua scarsa volontà di guarire, come se la volontà stessa non fosse una di quelle funzioni complesse, alterate dallo stesso meccanismo che altera gran parte delle funzioni di relazione con sé e con l’altro da sé. Scrive Francesco Barale nella introduzione al monumentale dizionario Psiche (Torino, Einaudi, 2006): “Grazie allo sviluppo della ricerca biologica e tecnoscientifica siamo alle soglie della realizzazione di un sogno: una spiegazione virtualmente integrale e scientificamente rigorosa dello psichismo umano. Que25 I confini sconfinati delle neuroscienze nel terzo millennio sto non vuol dire, pena un riduzionismo antico, che i correlati nervosi sono l’unico livello di comprensione legittimo dell’esperienza mentale, normale e patologica, Indubbiamente, nessuna discussione seria può ormai prescindere dalle conoscenze sulla materia della mente (sul substrato organico)”. Questa considerazione è pienamente condivisibile; tenta di riunire, senza alcuna assimilazione, le diverse articolazioni delle Neuroscienze, affrontando le questioni più ostiche da molteplici angolazioni, tendenti alla convergenza, fondate sulla insostituibile esperienza clinica. Ed è proprio l’esperienza clinica a sorprenderci, allorquando verifichiamo che un soggetto affetto da esiti di ictus cerebrale (malattia organica) riesce a sviluppare strategie di adattamento, spesso, più efficaci di quelle di un soggetto affetto da crisi di attacchi di panico (disturbo funzionale). E curare non significa, di fatto, concorrere, in alleanza con il paziente, a raggiungere il maggior grado di adattamento possibile? Con strumenti adatti a modificare l’assetto patologico, qualunque ne sia l’origine. L’obiettivo primario dei terapeuti, medici e non, resta quello di curare, nella speranza fondata di poter anche guarire, constatando la eventuale guarigione, con serenità di mente, anche quando questa si verifichi attraverso strade che la scienza non prevede. Quest’ultima considerazione è uno dei frutti del clima neuropsichiatrico che ha influenzato la ricerca e la pratica delle Neuroscienze anche in ambito pugliese. Eugenio Ferrari, per molti anni direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Bari, esplorava la frontiera del Sistema Nervoso Vegetativo quale interfaccia fondamentale del rapporto uomo/ambiente. Nella medesima Clinica, negli stessi anni, il compianto Francomichele Puca indirizzava i suoi studi principalmente sul sonno e sulle cefalee tracciando interessanti profili psicopatologici nelle forme di cefalea cronica. A Foggia, la Neurologia è stata animata, per circa quarant’anni, da Bruno Scillitani, recentemente scomparso; già negli anni Sessanta pensò alla Neurologia articolata in settori di interesse anche per le patologie di confine: alcolismo e farmacodipendenze, medicina psicosomatica, neuropsicologia, neurofisiologia, nel tentativo di tenere ancorata la Neurologia alla “grande madre” della Medicina Interna (di cui Stefanutti era stato insigne clinico proprio a Foggia) operando affinché il sapere specialistico, soprattutto negli anni di frenetico sviluppo, non frantumasse la visione unitaria dell’individuo e non inducesse i neurologi a considerarsi depositari dei segreti del cervello e della mente. Nel terzo millennio gli allievi di questi Maestri che, attualmente, operano (a Bari, Foggia ed altrove) nel campo delle Neuroscienze, in postazioni universitarie ed ospedaliere, non possono che sviluppare quest’imprinting scientifico ed esistenziale, diventando testimoni didattici nel confronto con i più giovani ai quali è sempre più necessario rammentare che il rapporto medico/paziente non può essere sostituito, o schermato, da alcun esame mirabolante. La responsabilità della diagnosi, del prendersi cura, non sono derogabili e si articolano su protocolli scientifici e creatività individuale per trasformare la distanza tra chi sa (il medico) e chi non sa (il paziente) in alleanza per suscitare tutte le parti sane in contrasto con le parti ammalate nella consapevolezza di muoversi, entrambi, sul crinale, entusiasmante e scoraggiante, di uno sconfinato confine. 26 Gaetano Fuiano Ausl Fg/1: una programmazione sanitaria a dimensione della gente. Gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale di Gaetano Fuiano 1. Introduzione “Una sanità che vada a casa della gente, una sanità programmata e pensata per prevenire e coinvolgere gli utenti e gli operatori, una sanità per far vivere meglio e dare dignità alla persona […]”. Si potrebbe sintetizzare così l’obiettivo di fondo di questi primi otto mesi di attività della nuova direzione generale. Le linee future dell’Ausl FG/1 contenute nel piano di programmazione triennale (Piano Attuativo Locale, detto anche PAL) ha fatto di questa Azienda sanitaria una delle prime a dotarsi di un indispensabile strumento programmatico di politica sanitaria come, appunto, è un PAL. Ed è proprio la programmazione la parola chiave: una programmazione con obiettivi, strategie, risultati e verifiche che sappia armonizzare le esigenze della sanità locale con la politica della salute nazionale e regionale. Una programmazione sottoposta a seria e rigorosa verifica attuata anche dalla Conferenza dei servizi che si terrà tra circa un anno con lo scopo di monitorare le attività svolte e lo “stato di salute” dell’Azienda. Obiettivo fondamentale della “politica aziendale” dell’Ausl sanseverese è la prioritaria necessità del contenimento della spesa sanitaria, una migliore razionalizzazione delle risorse e soprattutto una politica di prevenzione che equilibri la domanda di prestazioni sanitarie e la fuga, detta “mobilità passiva”, verso altre strutture sanitarie, anche extra regionali. Su una popolazione di 216 mila abitanti sono circa 180mila (pari al 60%) i cittadini che scelgono di farsi curare fuori dalle strutture sanitarie di quest’Azienda. Situazione che impone un rilancio di servizi qualitativamente superiori e dotati di prestazioni e strumentazioni tecnologicamente all’avanguardia. Nell’ottica della prevenzione, e quindi, anche del contenimento della spesa è previsto l’imminente avvio di una serie di screening preventivi sul cancro della mammella, del collo dell’utero, delle malattie cardiovascolari, del diabete, del colon-retto, del melanoma, delle malattie del cavo orale, del tumore della prostrata e della vescica…che interesseranno capillarmente la variegata popolazione dei comuni facenti parte dell’AUSL FG/1. Predisposto anche il Piano delle Vaccinazioni e della prevenzio27 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale ne degli incidenti domestici e della sicurezza stradale. Un più organizzato e capillare rapporto con il territorio è una delle mete del programma della direzione generale attraverso un maggiore dislocamento dei servizi sanitari e qualificazione di quelli già esistenti. Per quanto possibile saremo noi a portare la sanità nelle case della gente. Obiettivo, quest’ultimo, che non prescinderà da un maggiore coinvolgimento delle amministrazioni locali. Nell’ambito della prevenzione e dello stesso contenimento della domanda il ruolo del medico di base deve essere rivalutato ed improntato a maggiore corresponsabilità e coinvolgimento nella sensibilizzazione ed educazione sanitaria dei cittadini. La riduzione delle liste di attesa sarà un ulteriore obiettivo messo in cantiere dall’attuale dirigenza dell’Ausl FG/1. Altre importanti novità sono l’adozione del Piano dei lavori pubblici, il Programma Triennale dei fabbisogni del Personale, il Piano Aziendale di Formazione e Aggiornamento anche ai fini dell’ECM (Educazione Continua in Medicina). Particolare attenzione sarà posta sulla formazione del personale finalizzata ad una maggiore umanizzazione della sanità locale e ad un equilibrio tra la priorità del diritto all’assistenza dei cittadini e dei diritti dei lavoratori. Questi primi mesi di gestione da parte della nuova direzione sono stati impegnati per investire in potenziamento e riqualificazione di strutture ed attrezzature. Per l’ospedale di San Severo sono stati aggiudicati 11milioni di euro per il completamento dei tre piani superiori del nuovo ospedale,1,2 milioni di euro per implementamento delle attrezzature e 1,8 milioni di euro per l’ampliamento della struttura interna di radiologia per attività intramoenia. Appaltati anche i lavori della struttura mortuaria. A Vico del Gargano 1,2 milioni di euro per il completamento del Presidio ospedaliero, 122mila euro per acquisto attrezzature a Vieste, i presidi di San Paolo di Civitate, San Marco in Lamis e Rodi Garganico saranno dotati presto di nuovi mammografi ed ecografi. Previsti ancora lavori di ristrutturazione dell’Area di degenza della Psichiatria Ospedaliera di San Marco in Lamis e messa a norma e acquisto attrezzature per la stessa struttura sanitaria. A Torremaggiore sono stati appaltati lavori di ristrutturazione e completamento per i Poliambulatori, la struttura mortuaria e la residenza sanitaria per le persone anziane. Dopo questa breve e sommaria descrizione che vuole sintetizzare i primi passi e i primi risultati avviati ed ottenuti nell’Ausl FG/1, pur se in maniera schematica, si sintetizzano alcune parti fondamentali del PAL con lo scopo di dare le coordinate di base su cui si muove la politica sanitaria nell’ASL sanseverese e, nel contempo, fornire elementi di riflessione sulle problematiche socio-sanitarie del nostro territorio. Dopo una presentazione generale dell’Azienda e l’analisi dei bisogni si passerà a schematizzare il metodo e gli strumenti con cui si attuerà il programma. In seguito si sono scelte alcune grosse problematiche considerate urgenti nella scaletta delle priorità individuate. 28 Gaetano Fuiano 2. Descrizione generale dell’azienda L’Azienda Unità Sanitaria Locale Foggia 1 di San Severo occupa la parte nord della Provincia di Foggia e della Regione Puglia. I limiti territoriali dell’Azienda sono definiti dal litoraneo costiero adriatico e, per la parte non costiera, sono comuni con le Aziende Usl Fg/2 e Fg/3 e con la Zona Sanitaria 4, di Termoli, dell’Azienda Sanitaria Unica Molisana. L’Ausl FG/1 è stata costituita nel 1995 accorpando la quasi totalità dei Comuni e del territorio delle ex Unità Sanitarie Locali di Torremaggiore (Usl FG/1), San Severo (Usl FG/2), San Giovanni Rotondo (Usl FG/3), Vieste (Usl FG/4); è composta attualmente da 20 Comuni suddivisi in 3 distretti sociosanitari. Il 1° gennaio 2005 la popolazione dell’Ausl risulta essere di 215.928 abitanti, di cui 105.723 maschi (pari al 49,0%) e 110.205 femmine (pari al 51,0%); i nuclei familiari sono 76.506, il numero medio di componenti per famiglia è 2,8. La superficie totale dell’Ausl è di 2.644.440 kmq, con una densità pari a 82 abitanti per kmq. La media della popolosità è di 10.796 abitanti per comune, compresa tra i 413 abitanti delle Isole Tremiti ed i 55.717 abitanti di San Severo. La densità abitativa media nel territorio dell’Asl FG/1 (82 ab./kmq), compresa tra i 25 abitanti/kmq di Rignano Garganico ed i 278 abitanti/kmq di Rodi Garganico, è bassa rispetto alla media nazionale (189 ab./kmq), alla media del sud Italia (190 ab./kmq), della Regione Puglia (208 ab./kmq) e della Provincia di Foggia (96 ab./kmq). (Tab. 1-7) 29 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Tab.1: Popolazione suddivisa per Comune, per sesso, numero famiglie e numero medio di componenti per famiglia* * Famiglia: insieme di persone legate da vincolo di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune (anche se non sono ancora iscritte nell’Anagrafe della popolazione del comune medesimo). 30 Gaetano Fuiano Tab. 2: I Comuni dell’Ausl Fg/1 (Popolazione, Superficie in kmq, Abitanti/kmq, Altitudine*) Ausl FG/1 *L’altitudine è calcolata in metri sul livello del mare ed è riferita al principale luogo di raccolta della popolazione, di norma la piazza del municipio o della chiesa parrocchiale principale o del mercato. La media dell’altitudine indicata per l’Ausl ha ovviamente valore puramente indicativo. 31 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Tab. 3: Abitanti Tab. 4: Superficie in Kmq 32 Gaetano Fuiano Tab. 5: Abitanti per Kmq Tab. 6: Altitudine comuni Ausl FG/1 in metri s.l.m. 33 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Tab. 7: Densità abitativa e numero abitanti per Comune 34 Gaetano Fuiano Tab. 7: Densità abitativa e numero abitanti per Comune 35 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale 1.1 Aspetti geografici Il territorio dell’Ausl Fg/1 occupa parte della subregione del Gargano (14 Comuni: Apricena, Cagnano Varano, Carpino, Ischitella, Lesina, Peschici, Poggio Imperiale, Rignano Garganico, Rodi Garganico, San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis, San Nicandro Garganico, Vico del Gargano, Vieste), e parte della subregione del Tavoliere (5 Comuni: Chieuti, San Paolo di Civitate, San Severo, Serracapriola, Torremaggiore); l’arcipelago delle Isole Tremiti geograficamente è classificato nella subregione del Gargano. Il territorio dell’Asl si presenta per lo più pianeggiante e collinare, con alcune zone considerate montuose; in effetti nel territorio del Comune di San Giovanni Rotondo sono localizzati cinque tra i maggiori rilievi della Regione Puglia [Monte Calvo (1.065 m s.l.m.), Monte Nero (1.014 m s.l.m.), Monte Castellana (985 m s.l.m.), Monte Calvello (949 m s.l.m.), Coppa Romitorio (948 m s.l.m.)]. Il territorio dell’Asl è attraversato da due corsi d’acqua di bassa portata: il fiume Fortore ed il torrente Candelaro, nei quali confluiscono vari corsi d’acqua minori (i torrenti Staina, Radicosa, Rovello). Vi sono inoltre due laghi, il lago di Lesina, lungo circa 22 km ed esteso per circa 51 kmq, ed il lago di Varano, lungo circa 10 km ed esteso per circa 60 kmq (quest’ultimo, per estensione, è il settimo dei laghi italiani). Ambedue i laghi sono salmastri, situati a poca distanza dalla costa e sono separati tra loro da una piccola asperità, il cosiddetto Monte Elio (260 metri s.l.m.). Molto esteso è lo sviluppo costiero; a Marina di Chieuti e di Lesina e lungo le coste del promontorio del Gargano fino a Vieste, sono localizzati numerosi insediamenti turistici di tipo sia alberghiero (alberghi, locande, pensioni) sia extraalberghiero (campeggi, villaggi turistici) che durante il periodo estivo causano un aumento esponenziale della popolazione. Particolarmente nella stagione estiva, l’arcipelago delle Isole Tremiti, formato dalle isole di San Domino, San Nicola, Capraia e dallo scoglio di Cretaccio, è meta giornaliera di moltissimi turisti […]. a) I distretti I 20 comuni che costituiscono l’Ausl Fg/1 attualmente sono suddivisi in 3 distretti: • Distretto 1, con sede a San Severo, comprende i comuni di Apricena, Chieuti, Lesina, Poggio Imperiale, San Paolo di Civitate, San Severo, Serracapriola, Torremaggiore, per un totale di 107.388 residenti; • Distretto 2, con sede a San Marco in Lamis, comprende i comuni di Rignano Garganico, San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis, San Nicandro Garganico, per un totale di 60.927 residenti; • Distretto 3, con sede a Vico del Gargano, comprende i comuni di Cagnano Varano, Carpino, Ischitella, Isole Tremiti, Peschici, Rodi Garganico, Vico del Gargano, Vieste per un totale di 47.613 residenti. 36 Gaetano Fuiano La popolosità media dei distretti è di 71.976 abitanti, compresa tra i 47.613 abitanti del distretto 3 ed i 107.388 abitanti del distretto 1. L’estensione territoriale media dei distretti è di 881,48 kmq, compresa tra i 671,67 kmq del distretto 3 ed i 1.218,06 kmq del distretto 1. Il rapporto tra abitanti e superficie varia tra i 71 abitanti/kmq del distretto 3 e gli 88 abitanti/kmq del distretto 1 […]. 3. Analisi dei bisogni L’analisi della relazione tra domanda ed offerta è basilare per la individuazione degli obiettivi da prefissare. Attualmente è possibile individuare con precisione le principali cause di ricovero della popolazione dell’Ausl FG/1. Uno studio effettuato negli anni scorsi nell’Ausl FG/1, basato sull’analisi delle esenzioni ticket, evidenziò le seguenti come le più frequenti patologie nella popolazione dell’Ausl Fg/1: • • • • • • • patologie dell’apparato cardiovascolare diabete mellito neoplasie malattie epatiche patologie del sistema nervoso malattie renali patologie dell’apparato respiratorio Le malattie cardio e cerebrovascolari, i tumori, il diabete mellito, le malattie epatiche sono incluse tra le principali patologie che il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000; un patto di solidarietà per la salute, il Piano Sanitario Nazionale per il triennio 2003-2005 e il Piano Sanitario 2002-2004 della Regione Puglia, propongono di contrastare in quanto causa delle più frequenti situazioni patologiche che colpiscono la popolazione italiana e che provocano il maggior carico di decessi e di disabilità o malattia prevenibili attraverso interventi di prevenzione primaria e/o secondaria. b) Attuale domanda di ricovero Dal 1996 al 2004 si sono verificati 376.559 ricoveri, sia ordinari sia in day hospital, di cittadini residenti nei venti comuni dell’Ausl FG/1, con una media annua di 53.794 ricoveri. Nel periodo esaminato il tasso medio di ospedalizzazione (numero ricoveri per 1.000 abitanti) è stato di 247,1 ricoveri/1.000 abitanti, con valore minimo 224,6 nell’anno 2003 e valore massimo 263,7 nell’anno 2000. Nell’anno 2004 il tasso di ospedalizzazione è stato di 233,5 ricoveri per 1.000 abitanti. (Tab. 8) 37 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Tab. 8: Tasso di ospedalizzazione nei comuni dell’Ausl Fg/1, anni 1998-2004 Nel periodo 1998/2004 nelle strutture ospedaliere dell’Ausl FG/1 i ricoveri sono stati 142.126 (37,7%), in altre strutture ospedaliere pubbliche e private della Regione Puglia i ricoveri sono stati 184.321 (49,0%), nelle strutture extraregionali 50.112 (13,3%). (Tab. 9) 38 Gaetano Fuiano Tab. 9: % ricoveri di residenti nell’Ausl Fg/1 in strutture aziendali e non, anni 1998-2004 Negli ultimi anni, in media, il numero dei ricoveri di residenti nei comuni dell’Ausl FG/1 nelle strutture aziendali ha rappresentato circa il 38% del totale, nelle strutture non aziendali intraregionali ed extraregionali circa il 62%. Relativamente agli importi, quelli realizzati nelle strutture aziendali hanno rappresentato circa il 30% del totale, invece quelli realizzati nelle strutture non aziendali intraregionali ed extraregionali circa il 70%. c) Cause principali di ricovero Nella tabella seguente (Tab. 10) sono elencati i ricoveri avvenuti in quattro anni (2000-2003) suddivisi per MDC. La principale causa di ricovero è dovuta alle malattie e disturbi dell’apparato cardiocircolatorio, che ogni anno rappresentano circa il 13% dei ricoveri totali (nella popolazione al di sopra di 45 anni rappresentano il 19,1%, negli ultrasessantacinquenni il 20,6%). 39 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Tab. 10: Ricoveri avvenuti in quattro anni (2000-2003) suddivisi per MDC 40 Gaetano Fuiano Nella tabella 11 sono elencati i ricoveri avvenuti in quattro anni (2000-2003) suddivisi per MDC; i ricoveri sono inoltre stati suddivisi in tre grandi aggregazioni secondo se avvenuti nei Presidi Ospedalieri dell’Ausl FG/1, in altri Presidi Ospedalieri o Case di cura dell’Ausl FG/1, in Presidi Ospedalieri o Case di cura extraregionali. Tab. 11: Ricoveri avvenuti in quattro anni (2000 – 2003) suddivisi per MDC 4. Malattie di particolare rilevanza sociale a) Malattie cardiovascolari La mortalità per cause riconducibili alle malattie del sistema circolatorio è 41 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale circa il 43% e rappresenta la prima causa di morte nella popolazione generale. Suddividendo per fasce di età, le malattie del sistema cardiocircolatorio rappresentano la prima causa di morte in termini assoluti nella popolazione con età pari o superiore a 65 anni; nella classe di età 45-64 anni sono la seconda causa di morte dopo i tumori, mentre nella fascia di età 15-44 anni rappresentano l’11-12% delle cause di decesso. Nell’Ausl FG/1 i ricoveri per malattie cardiovascolari rappresentano circa il 13% (nella popolazione al di sopra di 45 anni sono il 19,1%, negli ultrasessantacinquenni il 20,6%). È in corso il monitoraggio dei nuovi casi di infarto acuto del miocardio che si sono verificati nella popolazione dell’Ausl FG/1 dal 1998 al 2004. Inoltre rappresenta una notevole problematica per l’Ausl FG/1 il numero di ricoveri (600-800) che ogni anno sono di competenza dell’area di chirurgia vascolare. Le malattie cardiovascolari hanno una eziologia multifattoriale e la coesistenza di più fattori aumenta il rischio di esito infausto della malattia. I fattori di rischio modificabili possono essere favorevolmente influenzati mediante azioni dirette alla variazione dello stile di vita e delle abitudini alimentari, ricorrendo, ove necessario, ad adeguati trattamenti terapeutici. Nella popolazione con età compresa tra 35 e 69 anni (nell’Ausl FG/1 circa 91.000 abitanti), secondo l’Istituto Superiore di Sanità il 26% degli uomini ed il 35% delle donne è iperteso (pressione arteriosa uguale o superiore a 160/95 mmHg oppure sotto trattamento specifico); il 16% degli uomini ed il 9% delle donne è in una condizione a rischio (PA sistolica 140-159 mmHg, PA diastolica 90-95 mmHg); nella fascia di età indicata (35-69 anni) il 18% degli uomini ed il 16% delle donne ha ipercolesterolemia (≥240 mg/dl), mentre il 33% degli uomini ed il 25% delle donne è in condizione di rischio (valore colesterolemia tra 200-239 mg/dl); il 49% degli uomini ed il 63% delle donne non svolge alcuna attività sportiva durante il tempo libero; il 33% degli uomini fuma circa 20 sigarette/die, il 17% delle donne fuma in media 12 sigarette/die; il 16% degli uomini ed il 34% delle donne è obeso; l’8% degli uomini ed il 9% delle donne è diabetico, mentre il 7% degli uomini ed il 5% delle donne è in condizione di rischio per il diabete. In sintonia con i Piani Sanitari Regionale e Nazionale, gli obiettivi dell’Ausl sono di contrastare le malattie cardiovascolari tramite azioni di: • promozione di programmi di educazione sanitaria finalizzati alla eliminazione o riduzione dell’abitudine al fumo, nonché alla riduzione del soprappeso e dell’obesità attraverso un’adeguata attività fisica ed una sana alimentazione; • individuazione ed attuazione di percorsi diagnostico-terapeutici per il trattamento di ipertensione, ipercolesterolemia, diabete; • sviluppo della riabilitazione cardiologica anche attraverso l’individuazione ed l’attuazione di linee guida che garantiscano l’efficacia, l’efficienza e l’appropriatezza delle prestazioni da erogare. 42 Gaetano Fuiano b) Malattie cerebrovascolari L’ictus è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie ed è causa, nel 35-40% dei pazienti, di grave invalidità residua. In Puglia si verificano ogni anno circa 8.000 nuovi ictus, nell’Ausl FG/1 si verificano in media 400 nuovi casi di ictus per anno. Ad incidenza costante, correlata anche con il progressivo invecchiamento della popolazione, è stimabile che entro il 2008 vi sarà un incremento dei casi di ictus di circa il 25-30% (nell’Ausl FG/1 sono prevedibili 450550 nuovi casi per anno). L’ictus cerebrale è una delle patologie più onerose sia in termini di qualità della vita per il paziente e la famiglia sia in termini di costi per la società. Nell’assistenza di un caso di ictus, la spesa ospedaliera per la fase acuta incide solo per il 20% dei costi totali. Per contrastare le malattie cerebrovascolari occorre promuovere interventi mirati di prevenzione, di cura per la fase acuta e post-acuta di malattia e di riabilitazione. c) Disordini cognitivi e del comportamento La demenza è una malattia cronica invalidante, caratterizzata dal diffuso deterioramento delle funzioni cognitive. Le due più frequenti cause di demenza sono la malattia di Alzheimer (50-70% dei casi) e la demenza vascolare (10-20%); a queste, che sono da considerarsi demenze degenerative irreversibili, occorre considerare anche alcune condizioni dementigine secondarie (1-10%), potenzialmente reversibili, su base metabolica, strutturali ed infettive, che devono essere prontamente riconosciute e trattate per impedire la progressione del deficit cognitivo. La demenza, nelle sue varie forme, è in continuo aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione. La prevalenza della demenza è stimata essere tra il 5-10% nei soggetti età ≥ 65 anni, e tra il 30-40% nei soggetti con età ≥ 85 anni. L’attesa nell’Ausl FG/1 è di 1800-3600 nei soggetti con età ≥ 65 anni e di 1100-1500 considerando i soggetti con età ≥ 85 anni. I disordini del movimento (il particolare morbo di Parkinson, tremore essenziale e distonie, sindromi con spasticità ed incoordinazione motoria) sono un gruppo di patologie ad alta incidenza destinate ad aumentare a causa del progressivo invecchiamento della popolazione. La prevalenza stimata nell’Ausl FG/1 è di 120-500 casi di morbo di Parkinson e di circa 110 casi di distonia. La sclerosi multipla è la causa più frequente di invalidità con spasticità, ad esordio giovanile. Nell’Ausl FG/1 la prevalenza stimata è di 175-200 casi, mentre l’incidenza attesa è di 4-6 nuovi casi per anno. Metà dei pazienti affetti da sclerosi multipla dopo dieci anni di malattia non è autonoma. Patologie come demenza, disordini del movimento, sclerosi multipla impongono l’adozione di percorsi diagnostici e terapeutici specifici per la fase acuta, mentre, per la fase cronica, occorre una efficiente rete che permetta l’integrazione tra assistenza ospedaliera e territoriale ed il coordinamento dei livelli di assistenza sociale e sanitaria. 43 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale d) Tumori Dall’inizio della seconda metà del secolo scorso i tumori rappresentano una delle maggiori cause di morte nel mondo. Ogni anno nel mondo si ammalano di tumore maligno circa 8 milioni di persone. Secondo le stime della World Health Organization (WHO) tale cifra tenderà nei prossimi anni ad aumentare a causa anche dell’incremento demografico, dell’allungamento della vita, del miglioramento delle condizioni sanitarie che ha ridotto la frequenza di altre malattie mortali (infezioni, malnutrizioni, eccetera). I tumori colpiscono ogni fascia di età, ma si manifestano più frequentemente con l’avanzare degli anni. Alcune malattie neoplastiche hanno incidenza e prevalenza geografica a causa di fattori ambientali: clima, virus o altri agenti patogeni, stili di vita e particolari attività lavorative. In Puglia la mortalità per tumori è di circa il 26%; i tumori sono la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari nella popolazione generale, la prima nella fascia di età tra i 45-64 anni. Nell’Ausl FG/1 è in corso il monitoraggio dei nuovi casi di tumori maligni verificatisi nella popolazione dal 1998 al 2004. Ogni anno tra i residenti nell’Ausl FG/1 si verificano oltre 1.000 nuovi casi di tumore; ogni anno oltre duemila residenti nell’Ausl FG/1 sono costretti ad uno o più ricoveri per una patologia neoplastica. La situazione attualmente evidenziata sembra sovrapponibile alle medie di popolazioni con caratteristiche generali simili. La lotta ai tumori dovrà necessariamente prevedere azioni preventive di: • promozione di programmi di educazione sanitaria finalizzati alla favorevole modificazione degli stili di vita (abolizione/riduzione del fumo, riduzione del consumo di alcol entro limiti accettabili) e delle abitudini alimentari; • prevenzione nell’ambito della esposizione a rischio in ambiente di lavoro; • attuazione dei programmi di screening e delle linee guida per l’approfondimento diagnostico. e) Diabete Il diabete mellito è la più diffusa ed importante malattia metabolica presente in Italia e nel mondo occidentale e, con le sue complicanze, rappresenta uno dei maggiori problemi sanitari; la sua prevalenza è in continuo aumento. Le due principali forme di diabete sono il tipo 1 (prevalentemente dell’età infantile-giovanile) ed il tipo 2 (caratteristico dell’età adulta-senile); quest’ultimo si associa spessissimo ad altre condizioni come obesità, ipertensione, dislipidemia, che concorrono a definire la cosiddetta “sindrome metabolica”. L’aumento della frequenza del diabete, in particolare del tipo 2, è legato anche alle variazioni degli stili di vita (soprattutto alimentari), all’aumento della sedentarietà, all’allungamento della vita media. In Italia la cura del diabete assorbe circa il 7% della spesa sanitaria complessiva; la maggior parte di essa è legata alla cura delle complicanze. Infatti il vero e principale costo, umano ed economico, del diabete mellito è rappresentato attualmente dalle com44 Gaetano Fuiano plicanze tardive (coronariche e cerebrovascolari, oculari, renali, neuropatie e vascolupatie periferiche). Soprattutto nel diabete di tipo 2 le complicanze coronariche e cerebrovascolari rappresentano la prima causa di morte e di ricovero per la popolazione diabetica. La mortalità per eventi cardiovascolari nel diabete è nettamente aumentata. La retinopatia diabetica è la prima causa di ipovisione o di cecità in età lavorativa. Il diabete è la prima causa di insufficienza renale terminale con necessità di dialisi. Nel diabetico le lesioni periferiche neurologiche e vascolari rappresentano una rilevante causa di morbilità e di ricovero. Uno studio di prevalenza effettuato nel 2002 aveva permesso di individuare circa 7.000 pazienti diabetici tra i residenti nell’Ausl FG/1. Il diabete rappresenta la principale causa di retinopatia, insufficienza renale cronica e di cardiopatia ischemica. Nel mondo, in Italia ed in Puglia, il numero dei pazienti affetti da diabete mellito è in continua crescita. Attualmente nella popolazione dell’Ausl FG/1 è stimabile che il numero di diabetici possa essere compreso tra 9.000-12.000. Occorre attuare programmi di educazione alla salute ed informazione sanitaria ed occorre intraprendere azioni per la corretta gestione terapeutica e la prevenzione delle complicanze. f) Malattie allergiche e del sistema immunitario Le malattie allergiche e del sistema immunitario sono in continuo aumento. È ipotizzabile che in Puglia circa 700.000-1.000.000 abitanti possano essere affetti da una forma, più o meno severa di malattia immunoallergica, con costi sociali, in termini di assistenza diretta ed indiretta, che sono da considerarsi inferiori solo a quelli dei tumori e delle malattie cardiovascolari. Nell’Ausl FG/1 l’ipotesi attesa è di 38.000-55.000 pazienti affetti da una qualsiasi forma di malattia immunoallergica […]. 5. Il metodo e gli strumenti a) Dalla programmazione alla riorganizzazione delle attività L’introduzione di principi e di criteri di razionalità degli interventi a tutela della salute, l’obbligo di esercitare le azioni di tutela applicando norme di diritto privato e la necessità di renderne la realizzazione economicamente compatibile con le risorse disponibili, non fa venir meno la collocazione dell’attività dell’Azienda nel novero di quelle proprie delle Amministrazioni pubbliche, con connesso obbligo di osservanza di altri principi cardine: di prevalenza del fine pubblico, di trasparenza, imparzialità e legalità nell’attività gestionale. Nel rispetto di tali principi e criteri, si vuole realizzare, attraverso una effettiva partecipazione delle comunità interessate e degli organismi di rappresentanza degli utenti, la progettazione o programmazione delle attività aziendali di tutela della salute, nonché la riorganizzazione dei processi assistenziali e del contesto ope45 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale rativo deputati a renderli, con garanzia della eticità delle funzioni corrispondenti e di equità ed universalità di accesso ai servizi e prestazioni essenziali di assistenza sia sanitaria e sia, per la competente parte di integrazione, di interesse sociale. La necessità di coniugare obiettivi di tutela della salute e di compatibilità economica dell’azione complessiva, determina l’obbligo che quest’ultima sia oggetto di puntuale programmazione. Da ciò deriva che la programmazione sia realizzata in un nuovo contesto di organizzazione dove la visione per “settori di competenza” venga sostituita da una che privilegi le attività con particolare attenzione ai relativi risultati ed esiti. Ciò per far sì che “la visibilità” sia solo conseguenza di azioni positive concrete, spostando, così, l’interesse dalla cultura “dell’apparire” a quella “dell’essere”. b) La programmazione delle attività Nei dieci anni precedenti, la gestione dell’Azienda non è stata mai sostenuta da una effettiva programmazione triennale, e neanche annuale, delle attività, ossia non è stato mai predisposto e concertato (con i soggetti rappresentativi delle comunità locali e degli utenti), né approvato, un Piano Attuativo Locale (P.A.L.) della programmazione statale e regionale di tutela della salute. La programmazione è strumento essenziale per capire qual è lo stato di bisogno, cosa e come si deve fare per soddisfarlo nel massimo interesse degli utenti e dell’Azienda. Non a caso, la prima parte del presente Piano contiene un’analisi del contesto generale interessato, con riferimento al Territorio, alla composizione della popolazione, ai bisogni di salute di questa, determinabili dalle analisi epidemiologicostatistiche. La programmazione contenuta nel presente P.A.L. trae fonte dai vincoli, indirizzi ed obiettivi delle fonti di programmazione sovraordinate all’Azienda e progetta una coerente serie di azioni, positive e possibili, per conseguirle, oltre a definire i corrispondenti “indicatori” per la verifica dei risultati. Gli obiettivi e le azioni del Piano sono anche sintetizzati in apposite matrici operative che vengono utilizzate quale strumento snello di supporto al generale processo di pianificazione (o programmazione) e controllo direzionale, da attivare “effettivamente” nell’Azienda. Nel corso del periodo di riferimento ed in occasione dell’attivazione del processo di budget, saranno definiti i premi di azione positive già richiamate, per sintesi. Il periodo di riferimento del presente Piano è il triennio 2006-2008, ma, dallo stesso, è anche desunto il programma annuale delle attività ed azioni. Coerenti con gli obiettivi di realizzazione di queste, saranno formati (nella stesura definitiva o “di assestamento”, anche a seguito dell’intervento del prossimo Documento di Indirizzo Economico e Funzionale che la Giunta regionale emanerà), sia il bilancio pluriennale, sia quello annuale (2006) economico preventivo. Per la data di effettiva definizione dei bilanci aziendali saranno già pronti ed operativi i Piani Territoriali di Attività (P.T.A.) riguardanti i singoli distretti sanita46 Gaetano Fuiano rio-sociali dell’Azienda, che dovranno prevedere le azioni di coerenza necessarie per l’applicazione dei Piani di Zona utili alla integrazione sanitario-sociale, già definiti, pur in assenza dei presupposti (per l’Azienda) Piani Territoriali di Attività. Notevole interesse viene dato alle relazioni operative con l’Università degli Studi di Foggia, sia per gli aspetti della formazione degli operatori e sia per possibili integrazioni di interesse assistenziale. Ulteriore interesse di integrazione e collaborazione è previsto con l’IRCCS “Casa Sollievo della Sofferenza” e con altri soggetti, pubblici e privati, costituenti punti di “offerta” di attività di assistenza sanitaria. Con questi l’Azienda intende promuovere intese, accordi e contatti che non possono prescindere dall’aspettativa di garanzia di prestazioni di buona qualità tecnico-professionale, ma anche di agevolazioni e facilitazioni di accesso e di ospitalità degli utenti residenti nell’ambito territoriale dell’Azienda, presupposti che la Direzione Generale ritiene elementi essenziali di una esigenda “qualità totale” non inferiore a quella che dovranno garantire, per prime, le articolazioni di attività a gestione diretta dell’Azienda stessa. A tali fini uno degli strumenti di monitoraggio sarà l’attività istituzionale della struttura aziendale di verifica dell’appropriatezza dei ricoveri, nonché quelle dei sistemi di controllo direzionale e di monitoraggio continuo della qualità, nonché della struttura statistico-epidemiologica. I Piani aziendali sono definiti dopo aver realizzato la partecipazione delle (ed alle…) istituzioni locali (comuni), delle organizzazioni di tutela e di rappresentanza (in sanità) degli utenti, delle associazioni ed organizzazioni del volontariato e delle organizzazioni sindacali degli operatori, nonché del Collegio Sindacale dell’Azienda. Il processo di formazione dei Piani contempla la preventiva e diretta azione propositiva dei Direttori e dei Responsabili di attività dell’Azienda, prima ancora che i piani stessi assumano la forma di “proposta”, oggetto della fase di “partecipazione” richiamata nel precedente accapo. 6. Gli strumenti operativi principali a) La pianificazione dell’organizzazione Perché sia effettiva l’aspettativa dei migliori esiti possibili, rivenibili dalla programmazione aziendale, è necessario ripensare la complessiva architettura organizzativa aziendale, nonché la connessa articolazione degli “uffici” dirigenziali e delle responsabilità di attività ed azioni. Ma, prima della progettazione fisica del sistema di organizzazione, occorre ripensare anche il modello organizzativo in atto. Allo stato, il modello di organizzazione utilizzato dall’Azienda USL FG/1 è un ibrido che si compone della coesistenza di due forme classiche (ormai sorpassate) di organizzazione del lavoro: il cosiddetto modello Tayloristico ed il modello Weberiano. Al primo è possibile far afferire la esistenza di tutta una serie di atti generali e disposizioni interne, anche nelle forme di regolamenti, di particolareg47 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale giate discipline di attività, che sono stati assunti dalla Direzione aziendale con l’obiettivo di ottenere la migliore performance tecnico-professionale, nelle attività, solo attraverso l’applicazione di tali rigide regole operative, che, però, limitano la possibilità di valutazioni critiche da parte degli operatori.La maggiore frequenza o presenza di tale modello è riscontrabile nella organizzazione delle attività di gestione amministrativa. Più frequente è, invece, la utilizzazione (riscontrata) di un modello di tipo Weberiano nelle strutture sanitarie, molte delle quali hanno basato l’organizzazione interna, oltre che sulla rigida osservanza di linee guida, anche su una gerarchia piramidale forte dei ruoli, con verosimile finalità di massimizzare la efficienza interna: obiettivo non utile se non è finalizzato a realizzare un completo intervento di azioni che si avvalgano dell’apporto integrato di tutte le professionalità interessate, a garanzia della migliore qualità totale possibile. È, però, vero che, in alcuni casi (sia a livello di articolazioni ospedaliere e sia a livello di organizzazioni sanitarie territoriali), è riscontrabile una significativa maturità di innovazione organizzativa delle attività di assistenza, che ha privilegiato l’elevazione del livello di specifica competenza professionale degli operatori dell’articolazione operativa, ma che ha, anche, favorito e ricercato una relazione ed una integrazione di azioni con le altre articolazioni aziendali, anche territoriali, che hanno assunto un ruolo di intervento, preventivo o successivo, in ordine al problema trattato: hanno rivolto, cioè, il proprio interesse solo all’intero processo operativo (nei casi rilevati di assistenza sanitaria) relazionandosi e condividendo i problemi di salute degli utenti con gli altri operatori sanitari del territorio. La Direzione Generale dell’Azienda vuole privilegiare ed applicare quest’ultimo modello di finalizzazione dell’organizzazione all’intero processo operativo (organizzazione che privilegia l’attività e gli esiti di questa) e non, invece, un modello che prospetta una organizzazione che fonda l’interesse sul miglior risultato conseguibile dallo specifico settore operativo (organizzazione “settoriale”), non utile per affrontare, come si è detto, globalmente i problemi ed i bisogni di salute di una moltitudine di persone, quale è la popolazione, stabile ed occasionale (vacanziera, ecc...), dell’ambito territoriale della Ausl FG/1. La scelta operata è, quindi, verso una organizzazione per “processi operativi”, ossia per azioni complete, anche se, per il tempo necessario all’acquisizione della “cultura” gestionale innovanda, sarà necessario procedere con gradualità, portando ad esempio anche i risultati (migliori) raggiunti da quelle articolazioni operative e servizi aziendali che già si sono avviate (invero, per autonoma scelta dei corrispondenti Direttori o Responsabili di attività) verso il nuovo modello, assegnando a questi anche una funzione di “facilitatori” della diffusione di tale cultura della innovazione. La riprogettazione dell’organizzazione aziendale e dell’articolazione delle “responsabilità” operative sarà, infine, funzionale alla applicazione dei piani di attività e di intervento contenuti nel presente P.A.L., a tali fini utilizzando anche gli strumenti e le occasioni offerte dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro del 48 Gaetano Fuiano personale dipendente e del personale non a rapporto di impiego, quali i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta, gli specialisti ambulatoriali, attori dei processi di cure primarie e (com’è per i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta) di governo principale dei problemi di salute dei singoli utenti. b) La pianificazione delle attività assistenziali Orientare (e spostare) l’organizzazione fisica, dall’interesse al risultato della sola struttura operativa, verso quello privilegiante i processi operativi (attività ed azioni) realizzati, consente l’applicazione anche di un diverso e (per il contesto dell’Ausl FG/1) nuovo modello operativo, che aggiunge alla gestione clinica dei problemi di salute, anche la responsabilità di guidare i diversi interventi di tutte le strutture sanitarie coinvolte, integrandoli verso il miglior risultato esprimibile dalla complessiva organizzazione aziendale, gestendo, così, l’intero processo (“modello divisionale” dell’organizzazione) finalizzato al bisogno di salute da soddisfare. Il modello operativo che si intende realizzare è composto da un insieme di Percorsi Aziendali di Cura ed Assistenza (P.A.C.A.), progettati, approvati ed applicati come strumenti operativi di riferimento per classi e tipi di patologie: ad elevata incidenza numerica (frequenza), ovvero a grado elevato di impegno assistenziale unitario, oppure che si riferiscono a fasce di età e di utenti a particolare rischio di morbilità, ecc.. Dei P.A.C.A. approvati sarà formata una apposita banca di processi e di dati, che saranno resi disponibili alla conoscenza di tutti attraverso il “portale aziendale della comunicazione”. Funzionali e propedeutici alla realizzazione degli interventi nei P.A.C.A. sono la progettazione e la condivisione dei “protocolli diagnostico-terapeutici” e dei “percorsi diagnostico-terapeutici”. I protocolli diagnostico-terapeutici sono delle indicazioni di comportamento alle quali gli operatori sanitari possono far riferimento (e, quindi, sono soggetti ad una valutazione critica, caso per caso), tenendo, cioè conto che ogni problema di salute ha una sua particolarità. La Direzione Generale dell’Ausl FG/1 ritiene di rilievo strategico la piena collaborazione di tutti gli operatori e, pertanto, conferisce ruolo di puntuale direttiva, rivolta a tutti gli attori di processo, alla necessità di pervenire alla concertazione e condivisione di protocolli terapeutici unici. Questi devono essere il frutto di scelte congiunte sulle migliori pratiche clinico-diagnostiche e di trattamento erogabili dal “sistema” aziendale e predisposti da commissioni composte da: • medici di medicina generale (o pediatri di libera scelta, quando occorra); • specialisti sanitari e medici ambulatoriali, ospedalieri e medici specialisti dei servizi diagnostici interessati; • operatori delle professioni infermieristiche e tecnico-sanitarie, ciascuno secondo la specifica competenza; • farmacisti dipendenti dell’Azienda. 49 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale L’obiettivo è di garantire che a qualsiasi livello di intervento ed in qualsiasi parte del territorio dell’Azienda, ogni operatore sanitario affronti il problema di salute secondo quanto già concordato, condiviso ed espresso con un linguaggio unico ed omogeneo per tutta l’Azienda. Il “linguaggio” da utilizzare deve essere il “migliore esprimibile”, nel periodo interessato, dalla complessiva organizzazione. Il percorso diagnostico terapeutico è una parte dell’intero percorso di cura e di assistenza ed ha un ruolo significativo in quest’ultimo, in quanto è il risultato di un sub-processo di organizzazione delle attività e delle prestazioni sanitarie necessarie per risolvere uno stadio del problema di salute assunto “in carico”. Esso è tanto significativo che può richiedere la integrazione di interventi di più operatori e servizi assistenziali. Per diverso aspetto, il percorso diagnostico-terapeutico può riferirsi ai gradi di intervento realizzabili in uno stesso livello (per esempio, l’Ospedale), pur se implicanti integrazioni di attività anche di diversi livelli di assistenza (per esempio partecipazione del medico di medicina generale nel percorso di assistenza ospedaliera). Si conferma che, sia i protocolli e sia i percorsi diagnostico-terapeutici devono essere progettati ed intesi come “strumenti operativi” di riferimento, essendo rimessa alla valutazione responsabile degli operatori la necessità di operare “scostamenti” da quelli tipo (in relazione a specificità del caso), purché siano quelli più appropriati, secondo i dettami delle conoscenze scientifiche di cura e di assistenza. L’indirizzo operativo che la Direzione Generale dell’Ausl FG/1 vuole rendere è che, se la pratica clinica da applicare è derivata da apposite linee guida delle società scientifiche di ogni singola disciplina e, in maniera più adeguata, dai protocolli concertati e condivisi dagli attori di processo, il percorso diagnostico terapeutico ci dice anche come deve comportarsi la parte interessata di organizzazione aziendale, nel caso specifico e nell’ambito delle possibilità di intervento che essa può offrire. In questo senso la progettazione (concertazione e condivisione) del percorso diagnostico terapeutico, a cui si fa riferimento, deve intendersi come lo sviluppo degli interventi essenziali di cura della patologia e delle possibili complicanze della stessa, insieme alla definizione temporale delle attività necessarie, dei luoghi in cui devono essere rese e degli operatori chiamati a renderle: lo strumento da progettare deve essere utile per definire cosa si fa durante il percorso, chi lo fa, come, dove e quando farlo. Invero, raramente un qualsiasi problema di salute può essere risolto con l’intervento di un solo livello essenziale di assistenza, inteso come area di offerta: ordinariamente, il primo livello interessato è quello di assistenza territoriale (salve, eventualmente, le emergenze-urgenze) e cioè, la prima assunzione in carico del problema di salute è del medico di medicina generale o del pediatra di libera scelta; eventualmente, può passare a quello specialistico o polispecialistico territoriale, oppure al livello di assistenza ospedaliera, ma, sempre, il case deve ritornare all’attenzione del medico di medicina generale o del pediatra di libera scelta, che hanno stabilmente in “carico” la salute del Cittadino interessato. 50 Gaetano Fuiano È così che il problema di salute richiede l’integrazione di più livelli essenziali di assistenza, ovvero, di più gradi di intervento: in ognuno di questi potrebbe, però, progettarsi ed applicare un continuum di percorso diagnostico-terapeutico, cioè di utilizzo anche gli esiti del propedeutico percorso già seguito dal paziente. Non solo, ma i livelli di intervento necessari potrebbero non essere presenti nella Azienda USL FG/1 e la direttiva della Direzione Generale è che, in questi casi, devono essere individuati a monte, eventualmente contrattati e disciplinati, appositi rapporti o relazioni con i centri di offerta esterni verso i quali “orientare” il paziente. Secondo quanto previsto dalla programmazione sanitaria nazionale e regionale, la scelta operativa è quella di integrare i percorsi diagnostico-terapeutici con tutti i possibili soggetti erogatori e di rendere sequenziali gli interventi nell’ambito di quello generale ed unitario che si muove intorno al problema di salute, tanto da presentarsi come un percorso aziendale o interaziendale di cura ed assistenza. La direttiva di progettare ed applicare i Percorsi Aziendali di Cura ed Assistenza (P.A.C.A.) non corrisponde soltanto a criteri di razionalizzazione degli interventi sanitari e, quindi, ad obiettivi di maggiore economicità, ma, soprattutto, ai principi e codici etici, di garanzia della salute dei Cittadini, fatti già propri dalla programmazione statale e regionale e, quindi, da quella aziendale. Il P.A.C.A. è un modello operativo che, nel prossimo triennio, deve essere prima sperimentato e poi applicato a regime e deve guidare la gestione del problema di salute di pazienti che presentano una stessa tipologia di malattia. Il vantaggio per l’interesse pubblico che la Direzione Generale dell’Ausl FG/1 attende nell’applicazione di percorsi assistenziali è di migliorare continuamente attività ed azioni, utilizzando uno strumento gestibile dinamicamente e che consenta di mirare a risultati ottenibili dalla applicazione di una metodologia condivisa di lavoro programmato ed integrato. La responsabilità di un percorso individuale assistenziale deve essere affidata all’operatore sanitario che più di ogni altro ha ruolo determinante nel processo. Invero (e come si è già detto), il primo contatto della persona ammalata è con il proprio medico di medicina generale, che approccia il problema secondo le sue possibilità di intervento e può risolverlo direttamente o può avviare il Paziente presso un livello di intervento che dispone di maggiori possibilità diagnostico-terapeutiche, seguendolo durante questa transizione. Tale secondo livello può essere costituito da strutture specialistiche o polispecialistiche territoriali: il problema di salute può essere positivamente risolto ed il paziente può essere rinviato alla attenzione del medico di medicina generale, che lo ha sempre in carico, oppure può essere avviato al livello successivo per il trattamento (eventuale) di competenza. Questo livello può essere (per esempio) quello ospedaliero: anche qui il problema può essere risolto positivamente, allora il Paziente torna all’attenzione del proprio medico di medicina generale (che deve rimanere in relazione con i medici ospedalieri), oppure può non risolversi (con la conseguenza 51 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale che il Paziente potrebbe non essere sopravvissuto) o, ancora, il problema di salute potrebbe essere stato risolto per una parte e potrebbe essere necessario avviare il Paziente ad un trattamento riabilitativo o di cure per stati di cronicità. Anche in quest’ultimo caso la decisione viene presa d’intesa, tra medico di medicina generale, medici ospedalieri e medici o dirigenti sanitari del centro di riabilitazione o per trattamenti a stati di cronicità. Dopo questo livello di intervento assistenziale, il Paziente ritorna al medico di medicina generale che ha avviato il percorso. Insomma, il sistema attribuisce la continuità del carico del Paziente al suo medico di medicina generale, che lo segue durante tutto il percorso di cura ed assistenza, ed a cui il Paziente stesso ritorna dopo il completamento del ciclo di trattamento. La funzione che il medico di medicina generale (o il pediatra di libera scelta) assume per il proprio assistito, è quella classica del case manager. È chiaro che non è detto che il Paziente debba seguire tutte le tappe del percorso, in quanto, o direttamente il medico di medicina generale, o uno dei livelli di intervento intermedi del ciclo (reinvestendo la “assunzione in carico” del medico di medicina generale, ossia la informazione e il consenso di questi) possono propendere di avviarlo direttamente al livello ritenuto più appropriato per il caso (ad esempio, direttamente ad un ospedale, oppure ad un centro di riabilitazione, se questo non è direttamente usufruibile nella stessa struttura che sta realizzando il proprio percorso diagnostico-terapeutico). Il processo che si applica consente di raggiungere, al meglio possibile, più di un risultato: 1. agevola l’utente, orientandolo verso il trattamento più appropriato per la soluzione del problema di salute; 2. evita duplicazioni di interventi dello stesso tipo, elimina quelli inutili o superflui, sia diagnostici e sia terapeutici, con gli effetti di: • limitare i “rischi” connessi alla “moltiplicazione” ingiustificata di indagini diagnostiche; • garantire massima appropriatezza alle prescrizioni terapeutiche, contribuendo, così, alla politica di riduzione dei tempi di attesa ed alla riduzione dei costi di intervento e favorendo, altresì, le politiche di reinvestimento di conseguenti economie o, perlomeno, di più oculata allocazione di risorse (maggiore efficacia allocativa di queste); 3. consente al “sistema” aziendale di non perdere “traccia” del Paziente e, più ancora, di avere il monitoraggio degli “esiti” dei complessivi interventi applicati intorno al problema di salute trattato. Nel grafico che segue sono rappresentate le sequenze o le fasi di un percorso di cura ed assistenza, con la evidenziazione degli effetti degli esiti di trattamento (non viene, ovviamente rappresentato l’effetto del decesso del paziente). 52 Gaetano Fuiano PERCORSO DI CURA E ASSISTENZA Le relazioni e le azioni che nel sistema aziendale si realizzano sono, per il percorso di cura ed assistenza, sia di interesse progettuale (a monte), sia di tipo applicativo-gestionale. Quelle del primo tipo, oltre alla concertazione e alla condivisione dei protocolli e dei percorsi diagnostico-terapeutici, riguardano anche la partecipazione degli attori di processo: 53 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale • nella formazione di prontuari terapeutici (farmaci) e dei dispositivi medico-chirurgici; • alla definizione di metodiche e di stili della “comunicazione” con i Pazienti e con i loro familiari. In fase di applicazione e gestione del processo, i soggetti attori applicano tutte le tecniche e scelte necessarie alla realizzazione del principio della condivisione del trattamento e del problema di salute affidato (in carico) a loro, secondo le migliori conoscenze ottenibili con le evidenze scientifiche ed in possesso del gruppo di operatori. Tutte le fasi di processo sono oggetto di continuo monitoraggio e verifica, al fine di valutare ogni ipotesi di cambiamento finalizzato al miglioramento continuo della qualità totale del processo stesso e, soprattutto, degli esiti di salute fatti conseguire. I percorsi aziendali di cura ed assistenza, come si è già precisato, oltre che poter essere distinti secondo la frequenza o il grado di impegno della malattia da trattare, sono ovviamente da considerarsi come “riferimento” per gli operatori o attori di processo. Gli scostamenti che dovessero essere necessari in corso di applicazione possono significare o nuovi comportamenti connessi a sopravvenute complicanze cliniche, oppure “opportunità” di intervenire per migliorare. Il governo clinico-gestionale della classe di malattia, pertanto, lo detiene il Gruppo dei professionisti (o delle professionalità) attori del processo. Il Gruppo Operativo di Processo (G.O.P.) svolge la funzione di disease management ed è coordinato da un Direttore o da un responsabile di processo, appositamente incaricato dalla Direzione Generale dell’Azienda. Dovendosi raggiungere risultati di condivisione nella progettazione di protocolli e percorsi, il Gruppo deve operare in modo da garantire l’evidenziazione e l’esame della opinione di tutti i partecipanti (categorie di professionisti, attori di processo) e la tecnica che la Direzione Generale dell’Azienda suggerisce è quella (molto semplice) dei “gruppi nominali”; essa si realizza con le seguenti modalità: • posto l’argomento, ognuno può rendere una proposta, sia per gli aspetti clinico- scientifici e sia per gli aspetti gestionali; • riunite le proposte, il Gruppo valuta le stesse e procede, attraverso una selezione (per eliminazione in successione continua, di quelle ritenute meno complete o valide), alla scelta della soluzione migliore, che può anche essere composta dalla integrazione di elementi contenuti in più di una delle proposte presentate; • la soluzione definitiva rappresenta, effettivamente, il frutto della partecipazione di tutti e risulta patrimonio assistenziale/gestionale di tutto il Gruppo e, quindi, unanimemente condivisa. La Direzione Generale dell’Azienda opererà per ricercare ogni forma di facilitazione della piena e leale collaborazione con, e all’interno, di ciascun gruppo. L’insieme dei protocolli e dei percorsi definiti diventa patrimonio scientifico 54 Gaetano Fuiano e gestionale che la Direzione Generale, continuamente, rende disponibili ad operatori ed utenti, attraverso la costituzione della citata banca dei dati e dei processi operativi e la realizzazione di una rete (informatica) di comunicazione a cui possono avere accesso gli operatori interessati (attori di processo), con tutte le garanzie di tutela della privacy degli assistiti.[…] 7. Alcune priorità a) Tempi e liste di attesa Quello della riduzione dei tempi (e delle liste) di attesa costituisce uno degli obiettivi prioritari della legislazione e programmazione, statale e regionale, rispondendo sia al principio etico di equità degli accessi alle occasioni di assistenza e sia a quello di qualità degli esiti di qualsiasi attività, azione e prestazione con riferimento all’appropriatezza anche temporale degli accessi stessi. In tutte e due le finalità considerate, è convincimento della Direzione Generale dell’Azienda che il problema debba essere affrontato secondo una diversificazione, per priorità, di bisogno di assistenza sanitaria (diagnostico o terapeutico) e cioè attivare un metodo secondo il quale l’utente sia (anche attraverso una puntuale educazione svolta dal “sistema” Azienda e, prima di tutti, dai M.M.G. e P.L.S.) avviato ad una “attesa” che può prevedere anche tempi differenti di accesso, in relazione alle possibili conseguenze che, per il suo problema di salute, può avere un “ritardo od una accelerazione” del trattamento sanitario da egli atteso. Uno degli strumenti principali di informazione sul metodo e di “educazione” degli utenti è costituito da apposito capitolo da prevedere nella Carta dei Servizi dell’Azienda. Il modello che si vuole attivare fonda, cioè, sulla considerazione delle diverse priorità ed urgenze - gravità di intervento, connesse alle domande di prestazioni. La gestione delle liste d’attesa già attivata nell’Azienda ha tenuto prevalentemente conto dell’ordine temporale (o cronologico) di prenotazione degli utenti e della formazione di una lista unica d’attesa. Si considera subito che tale sistema, non solo risulta inappropriato perché non contiene nessun intervento che possa far diminuire il numero di accessi immediati, ma neanche “etico” in quanto potrebbe privilegiare (solo perché temporalmente prenotata prima) una prestazione non immediatamente necessaria (per esempio di routine in un processo di indagine preventiva periodica) ad una che sarebbe più urgente perché connessa a “dubbio” diagnostico per patologia di evidente gravità ovvero di follow up da realizzarsi secondo rigide cadenze, solo perché prenotata dopo della prima. L’occasione per progettare il nuovo metodo è data proprio dal processo di formazione dei percorsi di cura ed assistenza. È nel corso delle scelte condivise (dai vari “gruppi di percorso”) per la formazione dei protocolli e dei percorsi, che può raggiungersi l’intesa per disciplinare che (ai fini dei tempi d’attesa) i Centri Unici di 55 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Prenotazione, provvedano a formare più di una lista, in relazione alle citate priorità e gravità che sono indicate dai medici prescrittori (almeno quelli dell’Azienda) secondo quanto concordato e condiviso proprio in occasione della progettazione e formazione di protocolli e percorsi diagnostico-terapeutici. Il risultato che può ottenersi sarebbe comunque utile a soddisfare la domanda secondo il “grado” di bisogno e la nuova impostazione ha possibilità di successo dipendente, in larga parte, dall’efficacia e continuità dell’azione di “educazione” agli accessi alle prestazioni sanitarie, che i citati medici prescrittori realizzeranno nei confronti (verso) gli utenti. Perché questa azione di “educazione” possa essere foriera di comportamenti consenzienti da parte degli utenti, è anche necessario definire, comunque, dei tempi massimi entro i quali rendere anche le prestazioni incluse nelle liste di “non urgenza e gravità” dei casi. È a questo punto che deve essere esaminata la possibilità di adeguare l’ “offerta”che l’intera rete aziendale può garantire. Di massima sono utilizzabili più soluzioni: • assegnare ad una articolazione aziendale (preferibilmente per area territoriale) il compito di soddisfare le prestazioni “non urgenti” e non connesse a “gravità” di casi, mentre tutti gli altri punti di offerta (e, primi, quelli a maggiore dotazione di risorse) sono deputati a soddisfare le liste “di priorità” d’accesso; • prevedere, per questo, il vincolo di “apertura di attività” (dei servizi) per non meno di dodici ore giornaliere continuative (secondo il bisogno effettivo), articolando opportunamente gli orari di lavoro del personale, tanto che si eviti una (non giustificabile) concentrazione di operatori in alcune ore diurne (per esempio quelle mattutine) e si eliminino i “tempi morti o di non attività” effettiva; a tali ultimi fini, costituisce puntuale direttiva del Direttore Generale utilizzare al massimo l’impegno del personale, per cui, ove (ordinariamente, nello stesso ambito cittadino) fosse necessario, si dovrà procedere a diversa assegnazione, logistica e di presidio, di articolazione operativa e di personale, previo (ovviamente) rispetto delle relazioni sindacali, tenendo conto della qualificazione professionale di ciascun operatore. Deve tenersi, cioè, conto del fondamentale principio, costituente anche interesse pubblico, secondo il quale l’operato di ognuno deve essere funzionale al perseguimento degli obiettivi dell’Azienda, essendo altresì chiaro che l’assunzione di personale (salvo casi specifici) avviene nella funzione o qualifica o profilo e non nel “posto”; solo dopo la verifica ed applicazione di tutti questi presupposti, ove vi siano necessità prestazionali residue, può essere attivato l’istituto di “prestazioni aggiuntive” da richiedere agli operatori interessati, secondo quanto previsto dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CC.CC.NN.LL.): a questi ultimi fini, costituisce vincolo di comportamento, per tutte le articolazioni aziendali, il divieto di impiegare in prestazioni aggiuntive tutti quegli operatori (compresi i Direttori di struttura) che, nel normale orario di lavoro, non siano costantemente e direttamen56 Gaetano Fuiano te (cioè con frequenza ordinaria individuale) impegnati a rendere prestazioni dello stesso tipo di quelli da rendere negli orari e/o quote (prestazionali) aggiuntivi. Quest’ultimo vincolo costituisce direttiva specifica del Direttore Generale, con tutte le conseguenze previste per legge e dai Contratti Collettivi di Lavoro: non esiste possibilità di alcuna deroga. Utilizzando le occasioni offerte dall’applicazione dei percorsi aziendali di cura e di assistenza, individuando interventi di riorganizzazione delle attività e delle articolazioni operative aziendali ed adeguando anche le dotazioni di risorse complessivamente necessarie, in conclusione, si dovrà pervenire alla formazione di raggruppamenti per gradi di necessità e d’urgenza, attraverso i quali accogliere le prenotazioni e gestire le conseguenti liste d’attesa. Poiché alla formazione delle lungaggini dei tempi di attesa possono contribuire anche quei casi in cui, ad accettata prenotazione, l’utente, senza preavvertire almeno 24 ore prima o senza giusto motivo, non si presenti per ricevere la prestazione chiesta, l’Azienda (con la stessa logica con cui è impegnata a rimborsare l’utente quando non sia stata in grado di garantirgli la prestazione già prenotata e questi sia stato costretto a rivolgersi ad altro soggetto erogatore della stessa) procederà ad avviare azioni di risarcimento (nel limite tariffario della prestazione) nei confronti degli utenti inadempienti, perché il comportamento di questi determina un ritardo (danno) nei confronti di altri utenti che non hanno potuto accedere a quelle prestazioni nel giorno considerato. Perchè possa raggiungersi il risultato generale di soddisfo nel bisogno, la Direzione Generale emana l’indirizzo di associare, ai normali orari di lavoro degli operatori interessati, una quota di eventuali orari aggiuntivi (che saranno utilizzati solo in caso di effettiva necessità) e di accettare le prenotazioni di un numero ulteriore di utenti in corrispondenza delle prestazioni che possono essere rese negli orari aggiuntivi programmati. La nuova metodologia di progettazione e gestione dei tempi e liste di attesa è, ovviamente, soggetta a miglioramento continuo della qualità, secondo la tecnica descritta nell’apposito precedente paragrafo del presente P.A.L. b) L’educazione ed il consumo dei farmaci Il consumo dei farmaci origina un notevole costo per l’Azienda (che pure è attestata ad un livello inferiore a quello medio unitario di obiettivo regionale), per cui devono essere implementate tutte le azioni possibili, perchè si determini una ulteriore regressione dei costi, nel limite di quelli effettivamente necessari. Anche in questo campo, la metodica di organizzare le attività sanitarie nell’ambito di tutte le occasioni offerte dall’utilizzazione dei percorsi di cura ed assistenza è utile a favorire le azioni di condivisione, tra i tutti i medici prescrittori, degli stessi trattamenti terapeutici e facilita, quindi, anche la corrispondente educazione degli utenti, in una condizione di garanzia della massima appropriatezza (esprimibile dal “sistema”) e di efficacia dei trattamenti terapeutici. Conseguentemente, anche il consumo di risorse (costi) tende ad essere “quello effettivamente necessario”. 57 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Perché tali circostanze si verifichino, è necessario l’impiego di altri strumenti ed interventi, previsti sia dal livello istituzionale regionale e sia da quello dell’Azienda. In particolare, è attivo nell’Azienda un primo sistema di verifica delle prescrizioni, quali – quantitative farmaceutiche, dei medici di Medicina generale, dei pediatri di libera scelta e degli altri medici prescrittori. In aggiunta a quello regionale, la Direzione Generale dell’Azienda ha approvato altri due interventi di analisi e verifica sulla correttezza scientifica delle stesse prescrizioni e sulla distribuzione dei farmaci per dosi unitarie. Il primo intervento è, non solo di guida e supporto ai medici prescrittori, ma anche di diretto beneficio per gli utenti: infatti è finalizzato a verificare direttamente (per ogni singola prescrizione) eventuali effetti negativi dell’interazione di più farmaci ed è di ulteriore specializzazione rispetto a quello regionale; l’intervento ha interesse sia territoriale (soprattutto) e sia ospedaliero. L’innovazione principale, ma che ha valenza fondamentale e non si limita ad interventi meramente burocratici, è che il sistema aggiunto dall’Azienda utilizza un software dedicato che gestisce in proprio, con applicazione di coerente professionalità, il quale consente di avere in tempo reale (e non quando il consumo è già stato realizzato) le eventuali negative o nocive interazioni tra farmaci. L’Azienda vuole estendere, attraverso la propria rete informatica, la disponibilità del sistema ai medici prescrittori, in maniera tale che quella realizzata dal proprio dipartimento farmaceutico non assuma la funzione di un mero controllo (peraltro necessario), quanto, invece, una reale collaborazione con gli stessi medici prescrittori, lasciando ad essi la gestione degli strumenti idonei a migliorare la qualità totale e la soddisfazione degli utenti. L’obiettivo del secondo intervento è quello che la struttura di Farmacia ospedaliera rifornisca quotidianamente la terapia di ogni singolo ricoverato, diminuendo drasticamente la quantità di farmaci “dispersi”, ma soprattutto il rischio di errori di terapia e superando in tal modo lo stoccaggio in reparto delle multiconfezioni tradizionali ed i relativi problemi di gestione. È tuttavia prevista la fornitura di scorte minime di farmaci per far fronte alle urgenze ed ai cambi eventuali di terapia determinati da un’imprevista modifica dello stato di salute del singolo ricoverato. Il risparmio relativo atteso da questo intervento è previsto nella misura del 10% dei consumi medi attuali. Oltre a questa iniziativa, la Direzione Generale ha già dato direttiva per la revisione del Prontuario Terapeutico Ospedaliero modificandone il riferimento verso un Prontuario Terapeutico Aziendale, ricostituendo l’apposita commissione in cui sono stati inseriti sia i rappresentanti dei medici di Medicina generale, sia (per quanto di competenza) dei pediatri di libera scelta e sia degli specialisti ambulatoriali. La Commissione renderà nei prossimi mesi il nuovo Prontuario. Analoga iniziativa è stata assunta, dalla Direzione Generale, per quanto riguarda il Prontuario dei dispositivi medico-chirurgici. La combinazione delle azioni sopra indicate è finalizzata ad una significativa razionalizzazione della funzione farmaceutica, territoriale ed ospedaliera, ma so58 Gaetano Fuiano prattutto ad un miglioramento qualitativo certo dei trattamenti farmacologici da garantire agli utenti. c) Il sistema direzionale Il presente P.A.L. della programmazione nazionale e regionale in materia sanitario-sociale rappresenta il presupposto fondamentale dei processi direzionali da attivarsi nell’Ausl FG/1. Il Sistema Direzionale è finalizzato a sviluppare il senso di appartenenza aziendale ed a rendere indirizzi e chiarezza operativa ai dirigenti delle strutture, ai programmi di attività delle articolazioni dell’Azienda in ordine a quello che si deve fare per realizzare le azioni, generali e specifiche, facendoli diventare i principali artefici della pianificazione delle attività, che essi stessi devono, poi, realizzare. Mancando un precedente documento di programmazione aziendale, la Direzione Generale ha già chiesto a tutti i Direttori e Responsabili di attività una relazione sullo stato dell’arte di queste, sulle prospettive di sviluppo della domanda, sulle azioni proponibili per farvi fronte e sui risultati che si prospettano conseguibili, sulle potenzialità e carenze attuali rispetto al raggiungimento dei risultati attesi, nonché sulle risorse necessarie per conseguirli (con la evidenziazione anche di quelle già disponibili e di quelle che, invece, dovrebbero essere integrate). Questa è stata l’impostazione direzionale propedeutica anche alla definizione del presente P.A.L., dei Piani Territoriali di Attività, dei Piani di Zona (almeno per quanto riguarda la parte di realizzazione implicante attività aziendali), nonché dei Piani di attività ospedaliera: tutti quanti questi Piani devono essere finalizzati anche alla realizzazione dei percorsi di Cura ed Assistenza dell’Ausl FG/1. Funzionali a questi sono anche i Piani delle attività di supporto che definiscono e realizzano anche le risorse necessarie per il raggiungimento degli obiettivi generali aziendali e di quelli specifici dei P.A.C.A. attivati o attivabili nel periodo di riferimento. Come indicazione (non esaustiva) i principali piani di supporto sono costituiti da: • programma triennale di fabbisogno di personale e piani annuali di assunzioni dello stesso; • programma triennale e piani annuali dei lavori pubblici; • programma triennale e piani annuali di fabbisogno di beni e di servizi; • programmi triennali e piani annuali di investimenti in tecnologie ed attrezzature (non previste già nel programma di lavori pubblici). Dalla riorganizzazione generale dell’Azienda si dovrà passare alla ridefinizione dell’architettura delle “responsabilità”, a tali fini utilizzando sia gli strumenti resi disponibili dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro del personale (in rapporto di pubblico impiego e non), sia dai corrispondenti Contratti Integrativi Aziendali e sia dalla legislazione e programmazione, statale e regionale, vigenti e/o attive nel periodo di riferimento. Strumento corrispondente è la graduazione degli incarichi 59 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale (o uffici) dirigenziali, da definire previo rispetto delle relazioni sindacali previste dagli stessi CC.CC.NN.LL., nonché dai contratti collettivi degli operatori sanitari in rapporto di “convenzionamento” (interno) con l’Azienda. Completata l’articolazione delle “responsabilità” e la graduazione delle stesse, la Direzione Generale definirà anche il Piano Aziendale dei Centri di Funzione Essenziale (C. F. E.), dei Centri di Responsabilità (C. di R.) e dei Centri di Costo (C. di C.). Ai primi corrispondono i “livelli essenziali di assistenza” (e, pertanto, sono tre) ai quali afferiscono i risultati di tutte le attività realizzate e nei quali affluiscono i costi impiegati per renderle. I Centri di Funzione Essenziale costituiscono, pertanto, lo specchio dei risultati complessivi di governo della salute realizzati nell’Azienda in un determinato periodo di riferimento. I Centri di Responsabilità costituiscono articolazioni operative e di attività ai quali si fa corrispondere la funzione gestionale e che, pertanto, sono posti sotto la diretta responsabilità dei Dirigenti: per ogni C. di R. va fatta l’assegnazione, appunto, di un “responsabile”, tenuto conto, anche delle necessità che i CC. di RR. devono essere articolati in maniera corrispondente e/o coerente con il sistema di graduazione degli incarichi dirigenziali (e, quindi, degli “uffici” dirigenziali), per cui nel sistema direzionale aziendale sono previsti CC. di RR. di 1°, di 2°, di 3°, ecc… livello, a cui si fa corrispondere la responsabilità (o Direzione) di Distretti, Dipartimenti Territoriali, Presidio Ospedaliero (1° livello), piuttosto che degli altri Dipartimenti aggreganti attività (2° livello), oppure di strutture complesse o di programmi dipartimentali di attività, organizzati anche nella forma di strutture semplici a valenza dipartimentale (3° livello). Le ulteriori articolazioni interne di questi ultimi mantengono la stessa codifica del C. di R. al quale afferiscono, ma assumono una identificazione come Centri di Costo (C. di C.) ove siano ritenuti dalla Direzione Generale, interessanti per le analisi dei risultati, dei costi e dei rendimenti. L’Azienda, cioè, nel suo complesso, viene considerata come un sistema unitario e principale, che ha come obiettivo il perseguimento di una mission ed il raggiungimento di obiettivi di attività e di risultati. Per questi si articola in sottosistemi funzionali (livelli essenziali di assistenza) e sottosistemi operativi (attività delle diverse strutture o articolazioni operative). Gli obiettivi sono identificati nel presente P.A.L. e specializzati nei piani e programmi di attività, nei Piani Territoriali di Attività (P.T.A.), nei Piani di Attività Ospedaliera (P.A.O.) e nei Piani (funzionali) dei Dipartimenti Territoriali (P.D.T.). Agli obiettivi aziendali devono farsi corrispondere le azioni pianificabili dai Dirigenti (Direttori e/o Responsabili), le quali devono essere definite previa contrattazione con la Direzione Generale. Nella contrattazione devono essere specificati i risultati attesi, da misurare attraverso l’individuazione di indicatori o parametri di verifica prefissati e condivisi, (tra la Direzione Generale e i Dirigenti interessati), contemporaneamente o (meglio) contestualmente alla assegnazione di mezzi e di risorse necessari per la realizzazione delle stesse azioni. Il processo che si realizza, così, è quello di budgeting, ossia della responsabilizzazione dei dirigenti stessi sul raggiungimento di risultati, sull’utilizzo di risorse 60 Gaetano Fuiano o di fattori “della produzione”, a mezzo dell’assegnazione di budget, di obiettivi, di beni, di servizi, di investimenti, ecc. Il processo di budget si realizza annualmente (ordinariamente) prima del mese di gennaio dell’anno di riferimento, sulla base anche degli obiettivi generali e strategici che l’Azienda predefinisce, nel P.A.L. o negli aggiornamenti annuali dello stesso, entro la fine dell’anno precedente e che vengono partecipati (assegnati) ai Dirigenti (Direttori e/o Responsabili) perché possano essere di temporaneo (o unico) riferimento sino alla definizione degli obiettivi specifici che avverrà con l’approvazione e condivisione del budget annuale della corrispondente articolazione strutturale e/o di attività. Nell’Azienda è costituito un “Comitato di budget”, formato dal Direttore Sanitario, dal Direttore Amministrativo, dal Direttore del Controllo Direzionale e di Gestione e da un rappresentante del Collegio di Direzione dell’Azienda. Con quello di budgeting si avvia il “processo direzionale” che si articola in più fasi, che sono comunque relazionate e finalizzate anche a consentire la verifica e la valutazione dei risultati delle attività e delle azioni, da parte dell’apposito organismo di controllo interno dell’Azienda che (non essendo influente il nomen) i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro del personale identificano con il Nucleo di Valutazione Aziendale. I controlli interni sono resi attraverso analisi, preventive e successive, della performance conseguita, nelle attività rese dalle singole articolazioni aziendali e CC. di CC., che risulta essere anche parte essenziale dei risultati riferibili al Direttore o Responsabile del C.d.R. ovvero dei CC. Di CC. interessati. Le analisi misurano il livello di conseguimento degli stessi risultati in relazione agli indicatori di verifica fissati; alle scelte operative (di attività assistenziali e gestionali) effettuate ed al grado di consumo delle risorse umane, finanziarie e materiali (aspetto economico) in relazione ai risultati, procedendo anche attraverso l’esame degli scostamenti rispetto ai livelli attesi; alla eventuale presenza di elementi ostativi (ovvero di “condizionamenti esterni” e/o di cause non dipendenti o “non controllabili” dai Dirigenti interessati) che abbiano potuto compromettere il pieno conseguimento dei risultati; alle possibili responsabilità del Direttore o Responsabile dell’articolazione strutturale e/o di attività interessata ed, infine, ai possibili rimedi, realizzabili attraverso le stesse fasi mirate al “miglioramento continuo” della qualità totale (descritto in precedente parte del presente P.A.L.). Questo controllo è definito “direzionale”, perché attraverso apposite comunicazioni periodiche (report trimestrale) rende la possibilità (ai Direttori o ai Responsabili delle articolazioni strutturali e di attività) di apportare interventi correttivi alle azioni in corso (ciclo del miglioramento continuo), così fungendo anche da orientamento per le iniziative o scelte gestionali successive. Tutto il sistema direzionale aziendale contempla processi condivisi e relazioni tra le diverse articolazioni dell’organizzazione aziendale e comprende anche la valutazione dei risultati conseguiti dai singoli Dirigenti. Dal sistema direzionale è effettivamente realizzata tutta la fase di attività gestionali che supportano la mission di periodo dell’Azienda, in quanto è finalizza61 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale to a sviluppare anche il senso di appartenenza aziendale ed a rendere indirizzi e chiarezza operativa ai Dirigenti in ordine a quello che si deve fare per realizzare i programmi generali e specifici aziendali, facendoli diventare i principali artefici della pianificazione delle attività, che essi stessi devono, poi, realizzare. In ogni caso, il sistema direzionale dell’Azienda tiene conto della coerenza con le corrispondenti linee guida regionali. d) Il sistema della comunicazione e della partecipazione Per progettare servizi appropriati e di qualità con un razionale impiego di risorse, per dare trasparenza alle attività e alle caratteristiche dei servizi erogati è d’obbligo, per l’Azienda sanitaria, informare e ricevere informazioni, Per questo è indispensabile che l’intero sistema aziendale dell’Ausl FG/1 interiorizzi la “cultura dell’informazione e della comunicazione” intesa come: • gestione dei dati; • gestione della documentazione; • informazioni e relazioni con l’ utenza interna ed esterna. Le scelte di programmi o di interventi specifici, che hanno effetti sulla salute, trovano nella comunicazione tra le parti coinvolte, la soluzione più efficace dal punto di vista etico e strategico. Una buona comunicazione consente, infatti, di creare all’esterno un livello di attesa controllato circa i servizi erogabili e di sviluppare all’interno motivazione, coinvolgimento, senso di appartenenza. Inoltre, alcuni obiettivi dei PSN e del PSR Puglia, (che pongono grande attenzione alla promozione di comportamenti e di stili di vita per la salute, all’uso appropriato dei servizi sanitari, all’integrazione socio-sanitaria, alla continuità dei percorsi assistenziali, alla tutela dei soggetti deboli), richiedono servizi sempre più orientati verso un “modello a rete” e sempre più attenti al miglioramento dei “processi e dei percorsi assistenziali”. La necessità di elaborare e di programmare un piano di comunicazione è, di conseguenza, un bisogno indispensabile. A tali fini si dovrà rendere chiarezza per distinguere a chi è rivolta la comunicazione, con quali mezzi si vuole comunicare e quello che si deve trasmettere perché si realizzi il massimo di conoscenza in maniera assolutamente trasparente. In questa prospettiva l’Ausl FG/1, definita la programmazione e pianificata l’attività, intende rivolgere alla popolazione, sistematicamente, la comunicazione, nel modo seguente: • assicurandosi il coinvolgimento e la partecipazione di tutti gli operatori interni; • trasmettendo all’esterno il messaggio efficace, relativo a come intende porsi rispetto ai possibili utilizzatori; • dotandosi di un sistema informativo/informatizzato quale strumento per l’azione comunicativa capace di reggere l’attività interna e di generare le informazioni necessarie per le verifiche di qualità dalle quali, successivamente, nasceranno le occasioni di miglioramento e le possibilità di azioni per l’adeguamento delle politiche e della pianificazione; il sistema infor62 Gaetano Fuiano mativo deve essere tale da permettere una effettiva rete di informazioni tra tutti gli operatori dell’Azienda. e) La Comunicazione esterna - La Carta dei Servizi La Carta dei Servizi dell’Ausl FG/1, emanata dalla Direzione Generale con la consultazione delle categorie professionali e delle associazioni di tutela rappresentative dell’utenza, illustra e specifica, in modo chiaro, comprensibile ed esauriente: • l’Azienda Ausl FG/1 ed i suoi principi fondamentali • le strutture e i servizi forniti con esplicita dichiarazione di: • obiettivi e standard per la qualità; • impegni e programmi; • modalità di accesso alle prestazioni; • meccanismi di tutela e di verifica. Della Carta dei Servizi sarà resa ampia diffusione, anche via Internet, previa pubblicazione sul Sito Web Aziendale. Per dare continuità di messaggio rispetto alla Carta dei Servizi, ciascuna struttura dovrà garantire ulteriore informazione all’utente (anche nei momenti in cui esso si trova all’interno della struttura) con: - modalità esplicite di erogazione delle prestazioni; - informazione alla persona e ai familiari sullo stato di salute; - l’identificazione del responsabile di ogni attività; - l’indicazione dei tempi e dei luoghi per dare l’informazione; - coinvolgimento degli utenti nel percorso assistenziale attraverso il consenso informato e la partecipazione alla definizione di quello individualizzato. La comunicazione efficace (umanizzata) si dovrà fondare anche sull’attenzione, da parte di ogni struttura, a comprendere/conoscere il paziente affidato, i suoi bisogni, le sue aspettative, la percezione che ha del servizio erogato e come intende migliorarlo. Per favorire l’interscambio comunicativo ed orientare l’utenza, sarà completata la rete organizzata di UU.RR.PP./ACCOGLIENZA su tutto il sistema di valutazione della soddisfazione dell’utente e del gradimento delle prestazioni ricevute, della segnalazione di eventuali disservizi (reclami) e delle conseguenti risposte al cittadino contribuirà al conseguimento del miglior risultato possibile, nel massimo interesse del cittadino e dell’Azienda. Analogamente saranno previste forme di confronto con gli organismi rappresentativi dell’utenza ed in particolare delle sue fasce più deboli, attraverso lo sviluppo del ruolo di “partecipazione” del Comitato Misto Consultivo. 63 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale f) Relazioni con il pubblico – Ufficio Stampa La Direzione intende affrontare in termini progettuali ed operativi la revisione dei compiti e del funzionamento dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP) dell’Azienda. La normativa dettata in materia delinea una visione di questo rapporto profondamente innovativo, centrato sulla creazione di un sistema di comunicazione ampio ed articolato, basato sul principio generale della massima trasparenza delle attività e, più in particolare, sul principio della conoscibilità dell’azione e della organizzazione aziendale. La comunicazione è divenuta, come si è già detto, uno dei campi in cui si realizza un passo importante anche nella transizione verso un modello di rapporto con i cittadini basato sulla efficienza ed efficacia dell’azione di gestione e sulla qualità delle prestazioni erogate, cosicché risulta decisivo il ruolo dell’URP sia nei confronti degli utenti, che hanno bisogno di informazioni o viceversa formulano richieste e suggerimenti, sia come strumento interno alla stessa Azienda, per realizzare una circolazione di informazioni e di conoscenze tra le diverse articolazioni ed attività, per contribuire a rendere più fluida e coordinata l’azione di queste. La diffusione sempre più crescente di nuove tecnologie consente di progettare e realizzare un sistema di comunicazione a due direzioni che permetta di raccogliere sia le segnalazioni su tutto ciò che riguarda il funzionamento dell’Azienda e sia di stimolare direttamente, attraverso opportuni strumenti, le manifestazioni di valutazione sulla qualità dei servizi e l’esplicitazione delle esigenze degli utenti. In sostanza si attribuisce all’URP il ruolo di aprire un canale di comunicazione istituzionalizzato non solo verso il cittadino utente, ma anche dal cittadino verso l’Azienda, con il compito di verificare il livello di soddisfazione per le prestazioni ricevute e di raccogliere ed elaborare proposte che l’utente ritiene di far pervenire alla stessa Azienda. Si tratta di rendere veramente fruibile la logica di catena del valore della qualità. L’importanza dell’ascolto dell’utente o del cittadino e della valorizzazione delle sue esigenze, costituiscono la motivazione di base del completamento degli elementi della qualità e l’URP deve essere lo strumento che raccoglie la voce dei cittadini e la valorizza sia acquisendo i messaggi che essi inviano spontaneamente, sia organizzandosi per promuovere la rilevazione delle opinioni, dei bisogni, dei suggerimenti che da essi provengono. Si tratta in buona sostanza di rendere applicativa la logica della “soddisfazione dell’utente” applicata dalle aziende più attente ai temi della qualità dei servizi erogati. La direttiva del Ministro della Funzione Pubblica 7/2/02 e gli atti di programmazione regionale realizzati sulla attività di comunicazione delle aziende sanitarie oltre ad istituzionalizzare gli URP e l’Ufficio Stampa, (quest’ultimo mancante presso l’Azienda) pongono l’accento sulla necessità che un valido sistema di distribuzione delle informazioni orientate verso l’esterno, cioè i mass-media e i cittadini-utenti, deve necessariamente partire da un’efficiente comunicazione, tra tutte le articolazioni aziendali, atta a garantire un flusso informativo organizzato e pianificato. A questi ultimi fini, risulta indispensabile la costituzione di una rete di 64 Gaetano Fuiano referenti di tutte le strutture aziendali, fornitori e garanti dell’informazione e di un sistema di redazione interna (back office). La costituzione di questa rete di referenti deve essere formalizzata e la sua attività deve essere pianificata; pertanto, è necessario stabilire: • modalità di trasmissione delle notizie dei referenti alla redazione; • modalità per inserimenti e/o modifiche dirette dei referenti, soggetti primari della comunicazione interna, attraverso l’utilizzo della rete informatica; • scadenze per l’aggiornamento dei dati; • calendario di incontri per verificare il gradimento dei prodotti, per concordare interventi migliorativi. La redazione interna raccoglie, rielabora, aggiorna ed archivia le informazioni ricevute, le elabora per renderle adatte ad essere inserite in una banca dati attraverso la creazione di schede notizia, le quali devono contenere ogni informazione utile e necessaria per garantire una efficace erogazione dei servizi e creare spazi e modalità di partecipazione dei cittadini-utenti alle scelte che orientano le politiche sanitarie aziendali. L’URP deve perseguire azioni tese a rilevare, raccogliere e segnalare, alla direzione strategica, le aree di criticità nella qualità percepita dall’utente. Inoltre deve proporsi per interventi cosiddetti di “Assistenza URP” con i quali agevolare l’accesso alle articolazioni di attività assistenziali interne, nonché ad altri centri di offerta, anche regionali e nazionali, di anziani, invalidi, soggetti portatori di handicap, nonché garantire l’aiuto necessario nella gestione a domicilio di anziani, rimborsi di cure e pratiche varie, ecc. L’attività di informazione sull’accesso si dovrà sviluppare in modo capillare tramite la rete dei referenti URP e la rete dei punti informativi. La rete dei referenti URP deve essere costituita da personale dipendente individuato presso ogni struttura che in aggiunta alla loro specifica attività garantiscono un apporto costante al sistema di comunicazione interno ed esterno. La rete dei punti informativi deve riguardare, in modo principale, ogni stabilimento ospedaliero, ogni distretto e ciascuna struttura sanitaria dislocata sul territorio dell’azienda. A questi ultimi fini la Direzione ritiene di assoluta necessità l’assegnazione di dipendenti che costituiscano costante riferimento per gli utenti e stabiliscano “punti di ascolto”, quale interfaccia informativa, presso ciascun stabilimento ospedaliero di San Severo, Torremaggiore e San Marco in Lamis, presso ciascuna sede di distretto, nonché presso le UDT di San Nicandro Garganico, Vico e Vieste. Gli addetti ai punti informativi seguiranno un percorso atto a conseguire una significativa formazione relazionale e svolgeranno tale funzione nell’ambito dei compiti dei profili professionali di appartenenza. In generale, la formazione degli operatori volta al miglioramento del loro rapporto con l’utenza sarà un impegno costante che la Direzione Generale intende perseguire nel periodo di mandato e costituisce priorità assoluta nel PFA (Piano Formativo Aziendale) per il triennio 2006/2008. 65 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale Inoltre è necessaria che venga predisposta la “Guida alla degenza”, un breve opuscolo informativo da distribuire ai pazienti durante la degenza in ospedale. A tal proposito dovrà essere elaborato un questionario di rilevazione della soddisfazione dei degenti che hanno avuto accesso di ricovero presso gli stabilimenti ospedalieri dell’Azienda, con esecuzione nel periodo settembre/dicembre dell’anno. Il questionario dovrà acquisire informazioni sulla qualità delle relazioni interpersonali con il personale ospedaliero, l’informazione fornita, la percezione sull’esito delle cure e la qualità percepita dei principali aspetti organizzativi. Il questionario deve essere inviato al domicilio dell’Utente-Paziente che si sentirà libero da possibili condizionamenti che potrebbe subire nel caso che la somministrazione del questionario venisse proposta durante il periodo di ricovero, Un supporto fondamentale per la riuscita di tale iniziativa, può essere rappresentato dall’azione di coinvolgimento delle associazioni di volontariato e dei volontari del Comitato Misto Consultivo. In linea con lo sviluppo delle forme di partecipazione attiva della cittadinanza promosso dalla Regione, l’Azienda renderà parte coerente le azioni ed interventi sopra evidenziati con l’applicazione a regime del sistema di audit civico, di cui al successivo paragrafo. g) La Comunicazione Interna Essa, oltre a garantire la comprensione, la condivisione e la diffusione degli obiettivi aziendali e di ciascuna articolazione, contribuisce al coinvolgimento, alla motivazione, all’aumento del senso di appartenenza e di integrazione di tutti gli operatori coinvolti. L’informazione deve riguardare: • tutte le notizie che devono essere diffuse tra i vari operatori affinché i contenuti siano un patrimonio di conoscenze comuni, uniforme ed omogeneo per tutti; • tutte le informazioni che derivano da incontri programmati fra i vari attori della rete, a tutti i livelli (riunioni/integrazione); • la conoscenza acquisita nei gruppi di miglioramento (valutazione delle criticità); • la conoscenza acquisita nei gruppi di ricerca; • la conoscenza acquisita attraverso la gestione dei dati. La regolare e sistematica comunicazione all’interno dovrà necessariamente prevedere puntuali e trasversali momenti di coordinamento, d’ integrazione e di condivisione (riunioni ordinarie). La circolazione delle informazioni dovrà essere garantita dalla Rete Intranet Aziendale. La comunicazione assumerà, così, un ruolo strategico e di integrazione acquisendo forti potenzialità organizzative, di gestione, di omogeneizzazione delle attività, di risultati specifici e complessivi. È evidente che l’interscambio comunicativo, a tutti i livelli intenso e perma66 Gaetano Fuiano nente, si configura come direttiva per tutti e non dovrà rimanere solo ad un livello puramente teorico: le “aspettative” generate nell’utenza dovranno trovare riscontro puntuale nell’operatività quotidiana dei professionisti (credibilità), pena l’incoerenza dei messaggi forniti ed il disorientamento dei potenziali fruitori del servizio (utenti interni ed esterni). h) La partecipazione L’azienda deve porre al centro della propria azione l’individuo ed i suoi diritti alimentando, tra gli operatori interni, la cultura di “Azienda al servizio dei cittadini” in quanto protagonisti della riuscita delle strategie aziendali. In tale ottica la presenza e l’impegno delle associazioni di volontariato e di rappresentanza dei cittadini assolvono ad un ruolo fondamentale ai fini del raggiungimento degli obiettivi di umanizzazione del servizio e di efficacia delle prestazioni rese. L’Azienda, inoltre, deve promuovere la partecipazione dei cittadini mediante la sottoscrizione di Protocollo d’intesa e/o accordo con le stesse associazioni, stabilendo modalità ed ambiti di collaborazione di queste con le strutture sanitarie aziendali, con particolare riferimento: • alla tutela degli utenti, attraverso la pratica attuazione del regolamento di pubblica tutela e la costituzione della Commissione Mista Conciliativa; • alla rilevazione del gradimento dei servi e la qualità percepita da parte degli utenti, attraverso la realizzazione di indagini di gradimento; • al costante confronto sull’adeguamento delle strutture e delle prestazioni alle esigenze degli utenti; • all’umanizzazione ed accoglienza dei servizi. Necessita, dunque, consolidare il rapporto tra l’Azienda e le citate associazioni per la tutela degli utenti, attraverso la istituzione del “Comitato Misto Consultivo”, formato da rappresentanti delle associazioni che aderiscono al “Protocollo di intesa”, con il compito di verificare, con cadenza mensile, gli impegni assunti nella Conferenza dei Servizi e lo stato di attuazione della Carta. Fondamentale sarà l’apporto che il Comitato darà alla preliminare fase preparatoria per la realizzazione della Conferenza dei Servizi. Per potenziare la partecipazione dei cittadini attraverso le istituzioni che li rappresentano è necessario che la Conferenza dei Sindaci, quale organismo rappresentativo di tutte le amministrazioni locali dell’ambito territoriale dell’Azienda, provveda, in particolare, alla necessaria partecipazione per l’impostazione dei piani programmatici attraverso motivate valutazioni e proposte di bisogni generali . Particolarmente significativo è il ruolo della Conferenza dei Sindaci nella fase programmatoria necessaria per la realizzazione del sistema integrato di interventi in materia socio-sanitaria, quale facilitazione del ruolo di diretta partecipazione dei Comuni nel governo della sanità sul territorio. Completamento e garanzia di tutte le richiamate modalità di “comunicazione e partecipazione” sono rappresentate dalla applicazione del sistema di valuta67 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale zione partecipata delle attività realizzate dall’Azienda attraverso il metodo di audit civico, al quale il Governo regionale intende dare grande risvolto ed adesione completa, ai fini del perseguimento dell’obiettivo strategico di miglioramento degli esiti degli interventi e della qualità totale, tenendo conto del parere-bisogno espresso liberamente dai cittadini destinatari della funzione di tutela della salute. Al fine di rendere concreti gli esiti di miglioramento continuo della qualità totale, gli obiettivi ed i risultati di analisi e conoscenza derivanti dal modello-sistema di audit civico assumono fondamentale importanza. Già nel presente P.A.L. sono state previste molte azioni che sono coerenti con gli obiettivi di audit civico, che non sono state oggetto di una mera (o sterile) elencazione, ma sono invece parte “unitaria ed integrata” nel complessivo modello di organizzazione delle attività aziendali di tutela della salute. In linea con la metodica di audit civico, vari sono stati i problemi di particolare interesse per i cittadini (come, per esempio, il fenomeno della eccessiva migrazione o mobilità sanitaria verso le altre Aziende o verso altre Regioni, il potenziamento dell’offerta specialistica diagnostico-terapeutica; la applicazione di un sistema aziendale innovativo di organizzazione delle attività assistenziali, anche ai fini del miglioramento dei tempi o delle liste d’attesa, ecc.), ma soprattutto il potenziamento dell’assistenza ai malati oncologici (diagnostica, terapeutica, riabilitativa e per cronicità), che è assolutamente coerente e che determina, pertanto, migrazione sanitaria di quasi tutti i pazienti e, poiché trattasi di patologie anche ad elevato coinvolgimento sociale, anche dei parenti. Per questi motivi ed ai fini dell’interessamento per le azioni da monitorare con audit civico, il “problema concreto vissuto come urgente dalla comunità locale” è quello della “più completa possibile risposta alla domanda di assistenza per patologie oncologiche”, che, peraltro, trova notevole risalto tra le “azioni” previste nel presente P.A.L.. i) La formazione Le risorse umane sono fondamentali per l’organizzazione e per la sua corretta gestione; pertanto le modalità di formazione/aggiornamento e di inserimento/ addestramento del personale saranno particolarmente curate sotto tutti gli aspetti e per tutto il personale che opera ad ogni livello. Ciascuna articolazione o struttura dovrà proporre, entro il mese di ottobre di ogni anno, un piano di formazione/ aggiornamento del personale per l’anno successivo (da finalizzare anche alla interiorizzazione della politica e della metodologia individuata dalla Direzione Generale nel presente documento), indicando il referente. Devono essere altresì normalizzate (in procedure) le modalità per favorire l’inserimento/affiancamento del personale di nuova acquisizione. La formazione del personale deve essere realizzata con il diretto governo dell’Azienda, evitando qualsiasi forma di “esternalizzazione” dei compiti di individuazione dei bisogni e di predisposizione degli appositi piani. La formazione deve riguardare tutti gli operatori dell’Azienda, compresi i MMG, i PLS e gli specialisti ambulatoriali interni. 68 Gaetano Fuiano l) Formazione/Aggiornamento ECM Dovrà essere prevista esclusivamente in relazione alle linee strategiche dell’Ausl FG/1 e ponendo particolare attenzione alla formazione di quei professionisti che sono in relazione diretta con l’utenza. I programmi di formazione saranno approvati dalla Direzione Generale con appositi piani, triennali ed annuali, nei quali sarà previsto anche il finanziamento, di massima, dei singoli eventi. Principio generale è che la formazione deve avvenire in loco, utilizzando prioritariamente le esperienze interne (espresse in occasione della formazione dei protocolli e percorsi assistenziali dei quali si è più volte accennato nel presente P.A.L.) alle quali associare, secondo una programmazione condivisa dell’Ausl, anche massime esperienze scientifiche e professionali di livello nazionale ed internazionale, favorendo collaborazioni con Università e con altri Centri di riconosciuta valenza scientifico/assistenziale e scientifico/gestionale. La scelta di privilegiare la formazione presso le sedi operative dell’Azienda risponde sia alla necessità di far formare, a parità (se non in ulteriore economia) di costi, un maggior numero di operatori interessati agli stessi processi operativi e sia alla circostanza che le eventuali pratiche clinico-terapeutiche o gestionali, siano realizzate come “nuova produzione aziendale”. La realizzazione degli eventi sarà affidata ai Dirigenti responsabili, ciascuno per le proprie competenze, (direttori di strutture, infermieri coordinatori, ostetriche coordinatrici, ecc...) con le seguenti modalità: • calendarizzazione degli eventi programmati; • individuazione di strumenti e risorse interne per far fronte/collaborare alle esigenze formative; • individuazione di chiari criteri di selezione/avvicendamento del personale da formare; • individuazione degli indicatori/attività per misurare/valutare l’efficacia (impatto) degli interventi formativi. Gli obiettivi di sviluppo della formazione devono essere funzionali alla realizzazione delle priorità appresso elencate: • mission e obiettivi generali e per la qualità dell’Azienda e delle articolazioni operative di questa; • progettazione ed applicazione di protocolli diagnostico-terapeutici, di percorsi diagnostico-terapeutici, di percorsi di cura e di assistenza; • sviluppo delle buone pratiche assistenziali e comportamentali; • sviluppo della cultura di dipartimentalizzazione delle attività; • il miglioramento delle conoscenze scientifiche e delle pratiche da applicarsi nei vari processi assistenziali; • modalità di apprendimento per l’uso appropriato di strumenti, attrezzature e dispositivi disponibili per l’erogazione di attività e prestazioni; • modalità per la conoscenza e l’applicazione delle norme di sicurezza relative ai rischi specifici che si presentano sul posto di lavoro. Le attività di addestramento devono essere programmate tenendo ben presenti fattori quali: i tempi necessari al raggiungimento dei requisiti e delle abilità 69 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale richieste; l’individuazione di personale esperto per l’affiancamento, il turn over e il numero del personale da formare. Tutte le attività di qualificazione e di addestramento devono essere dimostrabili attraverso un archivio nominativo/banca dati in cui risultino raccolti i documenti che rendono oggettiva e trasparente l’acquisizione della qualificazione e il suo mantenimento nel tempo. Il ricorso alla formazione presso Centri di offerta esterni all’Azienda assume un’occasione residuale e sarà così prevista: A) Formazione coerente con gli obiettivi aziendali; • se avviata a seguito di domanda individuale, dovrà essere preventivamente autorizzata dalla Direzione Generale ed ha carattere di eccezionalità. L’autorizzazione della Direzione Generale comporterà solo la concessione di assenze dal servizio retribuite ordinariamente secondo i contratti individuali di lavoro di ciascun operatore, senza alcuna ammissibilità di remunerazione di eventuali attività eccedenti (prolungamenti di orari, ecc...) e neanche di scomputo su orari di lavoro dovuti per attività ordinaria (ad eccezione di quelli “consumati” durante l’attività di formazione). I costi di iscrizione, di viaggio e di permanenza restano a completo carico degli operatori richiedenti; • se avviata direttamente dall’Azienda, saranno garantiti agli operatori interessati la concessione di autorizzazione per l’assenza dal servizio ordinario, il carico all’Azienda dei costi di iscrizione, viaggio e soggiorno, con esclusione di ogni ipotesi di remunerazione aggiuntiva. B) Formazione non prevista dagli obiettivi aziendali: È quella movimentata a domanda individuale e comprende anche la partecipazione a convegni di categoria: non è previsto alcun concorso dell’Azienda, neanche per quanto concerne la concessione di autorizzazione all’assenza dal servizio e la conservazione di ordinaria remunerazione. La possibilità di partecipare è subordinata all’utilizzazione di congedo ordinario, ovvero all’utilizzo di orari di lavoro prestati in eccedenza a quelli minimi dovuti, regolarmente e/o preventivamente autorizzati dalle Direzioni di appartenenza. In generale i Contratti Collettivi Aziendali Integrativi (di quelli nazionali) di lavoro, definiranno la materia dei principi connessi alle attività di formazione: quanto sopra indicato costituisce direttiva di riferimento, emanata dal Direttore Generale. 8. Obiettivi, azioni ed interventi nelle attività generali, di assistenza ed in quelle di supporto a) Stato attuale e riequilibrio economico dell’azienda La situazione economica di partenza è negativamente segnata da uno squilibrio economico per l’anno 2005 che si prospetta (perché non si può avere ancora 70 Gaetano Fuiano certezza di sopravvenienze passive che quasi quotidianamente si sono appalesate negli ultimi tre mesi dell’anno 2005) tra 33 e 35 milioni di euro. La Direzione Generale ha già avviato una serie di interventi che riducono o eliminano solo costi superflui (in questi ultimi tre mesi sono stati risolti rapporti “di fatto” di servizi e provviste ritenuti non necessari ed anche contratti già affidati, per complessivi e 3.000.000,00 circa a valere sull’anno 2006) ed ha presentato una proposta di riequilibrio economico che fonda in larga parte su maggiori trasferimenti (assegnazioni) da parte della Regione e per il resto punta su una riduzione delle “perdite” realizzabile proprio con la eliminazione di costi per finalità non essenziali. In particolare il finanziamento regionale deve tenere conto di almeno due condizioni che motivano una utilizzazione di parametri aggiuntivi di finanziamento: il primo è costituito dalla eccezionalità del bisogno assistenziale delle popolazioni del Gargano Nord, non solo per la particolarità della situazione orografica, ma anche perché per 6 mesi all’anno la popolazione vacanziera triplica quella ordinaria stanziale; il secondo è connesso alla vicinanza di una vasta area con Regione limitrofa, circostanza che origina mobilità passiva sia per motivi connessi a distanze chilometriche a dispersione di interi centri abitati e sia perché non è stata mai “portata” effettivamente assistenza nell’area territoriale interessata. b) Obiettvi, azioni ed interventi In ogni caso, la situazione economica dell’Azienda non determinerà riduzione di attività assistenziali, le quali, invece, avranno lo sviluppo necessario e coerente con gli strumenti della programmazione sanitaria nazionale e regionale, secondo quanto indicato nelle allegate schede di individuazione di: obiettivi prioritari, azioni programmate, interventi ed indicatori relativi. Dagli obiettivi, azioni ed interventi così indicati avranno avvio e fonte i “piani di azioni” o “programmi e progetti di intervento”, nonché i programmi territoriali di attività. A questi fini i presente P.A.L. costituisce il documento di avvio del processo direzionale e strumento di riferimento per la contrattazione di budget con le articolazioni di attività (Centri di Responsabilità), poiché solo contrattando e concertando azioni specifiche, risorse adeguate da impiegare, tempi e modalità di verifica dei risultati, sarà possibile realizzare i “piani di azioni” di cui sopra. Per le attività sanitarie la metodologia organizzativa ed operativa da applicare è stata fissata nel precedente capitolo II. Per quanto riguarda le attività generali e di supporto valgono le direttive e la pianificazione seguenti. La programmazione delle attività amministrative, tecniche professionali dell’Azienda del triennio 2006/2008 trae, necessariamente, gli spunti iniziali dalla verifica dello stato dell’arte della vigente organizzazione aziendale, per proiettare e sviluppare una politica di implementazione organizzativa nella quale, da un lato trovino una maggiore valorizzazione e conferma le situazioni che determinano punti di forza facilmente rilevabili attraverso i reports di produzione, dall’altro una più incisiva azione di riqualificazione dei punti di debolezza e/o di criticità orientata a 71 Ausl Fg/1: gli obiettivi triennali del Piano Attuativo Locale recuperare risorse e spazi funzionali al fine di determinare le condizioni migliori possibili per il successo della missione aziendale. L’Azienda dovrà conseguire, per le attività amministrative tecniche e professionali gli obiettivi di organizzazione fondati sulla logica dipartimentale, così come previsto per le strutture e servizi sanitari e territoriali, nel pieno rispetto di quanto stabilito dal D.Lgs. n.502/92 e s.m.i. In tale ottica corrispondono ad esigenze di razionalizzazione e maggiore funzionalità organizzativa, anche in considerazione dell’elevato grado di complessità delle funzioni riservate all’Azienda, la previsione della costituzione di dipartimenti aggreganti attività. In modo particolare, tutte le strutture e servizi, nel triennio di riferimento della presente programmazione dovranno obbligatoriamente perseguire il raggiungimento dei seguenti obiettivi specifici: 1) garanzia della tempestività e correttezza dei flussi informativi interni e, soprattutto, verso l’esterno e verso la Regione; 2) rispetto della normativa, recepita nell’Atto aziendale, in base alla quale i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi di governo mentre la gestione amministrativa, tecnica ed economico-finanziaria è attribuita ai dirigenti, i quali per il conseguimento degli obiettivi loro assegnati dovranno, oltre che rendere applicative le linee guida e gli indirizzi stabiliti dalla Direzione strategica negli atti di programmazione aziendale, improntare i rapporti al conseguimento dei principi di legittimità degli atti, dell’efficienza, efficacia ed economicità della gestione; 3) contribuire, vigilando e ponendo in essere le azioni necessarie, al perseguimento dell’obiettivo di garantire l’equilibrio economico della gestione; 4) realizzare nei procedimenti amministrativi il pieno rispetto della normativa dettata nelle relative materie, finalizzando ogni comportamento al conseguimento degli obiettivi di trasparenza dell’azione amministrativa, di partecipazione e di miglioramento dei rapporti con l’utenza; 5) osservare politiche per la razionalizzazione e l’impiego ottimale delle risorse umane. L’obiettivo primario che questa Direzione intende perseguire nel corso del proprio mandato, è rappresentato dalla introduzione e graduale realizzazione di politiche e metodiche organizzative di carattere innovativo per l’Ausl FG/1, riguardanti sia l’aspetto della programmazione e sia quello della gestione. Ovviamente la prima leva che occorre azionare è quella della più importante risorsa posta a disposizione dell’Azienda e, cioè, il personale (a qualunque titolo impiegato). Pervenire alla determinazione di azioni che mirino ad ottenere un razionale ed ottimale impiego di risorse umane costituirà l’obiettivo costante della Direzione Generale, motivata dalla reale convinzione ed assoluta necessità di valorizzare le professionalità, esistenti, che vorranno effettivamente impegnarsi a fare il proprio dovere ed a lavorare con senso di appartenenza 72 Gaetano Fuiano all’Azienda, all’uopo applicando le migliori conoscenze professionali possedute. È intenzione della Direzione Generale garantire il successo di queste azioni attraverso un sistema di premiazione dell’impegno profuso dagli operatori, dirigenti compresi, chiarendo in modo inequivocabile che saranno “premiati” solo quelli che meritano sulla base della evidenza del lavoro che fanno. Questi istituti normo-economici saranno ridisciplinati nel pieno rispetto degli istituti contrattuali a questi fini previsti e delle relazioni sindacali, con la garanzia che anche la Direzione Generale deve fare la sua parte (impegni). La contrattazione collettiva nazionale di lavoro, sia dell’Area dirigenziale e sia di quella del personale di comparto, ha ormai consolidato la disciplina di tali istituti, della retribuzione di risultato di produttività, prevedendone la destinazione al conseguimento degli obiettivi di miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia di attività ed azioni realistiche. Più in particolare perché si raggiungano tali obiettivi è necessario che il processo programmatorio, quello riferibile ovviamente al lavoro delle singole strutture, diventi uno degli aspetti fondamentali per la individuazione di strategie di migliore organizzazione e di nuove metodologie di lavoro. È richiesto che il lavoro discenda da adeguati processi programmatori, che meglio rispondono alle esigenze del buon andamento, in quanto solo attraverso la programmazione può pervenirsi al controllo ed alla verifica dei risultati. Dovrà realizzarsi un effettivo processo di formazione di tutti gli operatori delle strutture per la costruzione di un nuovo modello operativo che privilegi una organizzazione fondata sulla realizzazione di processi operativi ed obiettivi dedicati, sicuramente più avanzata ed efficiente rispetto a quella attualmente esistente. La dirigenza è chiamata ad utilizzare tutti gli istituti previsti dalla contrattazione collettiva di lavoro che possano favorire una spinta motivazionale del personale dipendente che dovrà sentirsi parte attiva ed integrata nel sistema “Azienda”. A tale scopo il Dirigente, anche attraverso una specifica scheda da sottoporre a ciascun operatore, dovrà misurare il grado di soddisfazione di quest’ultimo ad operare nella attività e/o servizio di assegnazione, al fine di meglio comprendere gli eventuali stati di disagio lavorativo. A questi ultimi fini, particolare oggetto di valutazione del dirigente costituirà la capacità dimostrata dallo stesso nel motivare, guidare e valutare i collaboratori e di generare un clima organizzativo favorevole alla produttività attraverso una equilibrata assegnazione di adempimenti e di lavoro, oltre alla gestione degli istituti contrattuali, con particolare riferimento all’attribuzione di quote di trattamento accessorio per produttività. Evitare in modo assoluto il ricorso alle proroghe contrattuali: ciascun direttore e/o dirigente responsabile è chiamato a porre in essere e realizzare tutti i procedimenti necessari ad evitare proroghe di contratti di forniture di beni e prestazioni di servizi, di rispettiva competenza gestionale, oltre i tempi di scadenza. 73 74 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale Progetto europeo per l’educazione sul cancro cervicale* di Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg 1. Introduzione Nel 2000 veniva istituito dalla Commissione Europea il Consorzio Europeo per il Cancro Cervicale, al fine di intraprendere una valutazione costi/benefici dei protocolli di screening del cervicocarcinoma basata sulle nuove tecnologie, quali la citologia in fase liquida, i test per l’HPV (Human papilloma virus), le terapie antivirali e i vaccini per l’HPV. Successivamente, il Consorzio ha istituito un secondo organismo: il Consorzio Europeo per l’Educazione sul Cancro Cervicale (ECCCE), al fine di condurre un programma pan-europeo di educazione pubblica strutturato in modo da essere di complemento alle sue attività di tipo accademico. Tale progetto, denominato “Cervical Cancer Public Education Programm” (CCPEd, EC contract n.QLG4Ct-2001-30142), è stato interamente finanziato dalla Comunità Europea, sviluppato in due anni (inizio giugno 2002), a supporto di un altro programma di ricerca europeo già in fase avanzata di sviluppo: “Development of Mathematical Models of Novel HPV-based Cervical Cancer Screening Protocols for Evaluation of the project Health and cost benefits”. L’intenzione primaria del programma educativo è di informare il pubblico in generale, i medici, nonché gli amministratori pubblici responsabili delle scelte di politica sanitaria sulle cause del cancro cervicale e sulle nuove tecnologie che possono essere applicate per la prevenzione di questa malattia, portando alla fine ad una riduzione di questa patologia sia a livello nazionale che europeo. 2. Obiettivi del consorzio europeo per il cancro cervicale I membri dell’ECCCE sono costituiti da ricercatori nel campo della prevenzione del cervicocarcinoma, della sanità pubblica e dell’HPV, i quali abbiano un *(CCPEd, EC contract n.QLG4-Ct-2001-30142) (www.eccce.org) 75 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale interesse nel verificare che l’informazione generata dalla loro attività di ricerca sia appropriatamente interpretata e divulgata in modo da accrescere la consapevolezza dell’impatto di nuove tecnologie sulla prevenzione di questa malattia. L’ECCCE riconosce il valore di sforzi educativi professionali che siano coordinati ad un livello europeo in modo da assicurare che l’informazione sia tradotta in una terminologia appropriata per l’audience selezionata, che messaggi consistenti siano convogliati in tutta Europa e che tali messaggi siano trasmessi regolarmente a tutte le parti interessate. È inoltre nell’interesse dell’ECCCE di assicurare che l’informazione sia divulgata in un modo accurato e responsabile, ciò che si può ottenere meglio attraverso un programma educativo coordinato utilizzando canali di comunicazione prestabiliti e sicuri, che non siano accondiscendenti al sensazionalismo. 3. Funzioni del programma educativo (CCPEd program) Si possono individuare sei funzioni primarie del programma educativo dell’ECCCE: 1. Raccogliere informazioni rilevanti sullo screening, prevenzione o trattamento del cervicocarcinoma in Europa. 2. Riassumere e tradurre le informazioni in una terminologia appropriata per l’audience selezionata. 3. Acquisire una migliore comprensione delle esigenze informative dell’audience di destinazione, particolarmente le prospettive delle pazienti riguardo alla colpocitologia anormale ed al cancro cervicale. 4. Definire i messaggi di educazione sanitaria adatti all’audience di destinazione. 5. Diffondere l’informazione a livello nazionale ed europeo. 6. Supportare l’evoluzione strutturale attuale dei programmi di screening del cervicocarcinoma esistenti senza sminuirne i benefici che hanno, a tutt’oggi, apportato. Uno schema delle attività di prevenzione del cancro cervicale in Europa è riportato nella Figura 1. Raccolta di Informazioni Importanti Il programma educativo si avvale dei partner dell’ECCCE per la presentazione dei risultati delle loro ricerche. Inoltre, i partner comunicano all’ECCCE i risultati raggiunti, in Europa e altrove, da altri gruppi di ricerca per includerli nelle pubblicazioni elaborate dal programma. Dato il ruolo preminente ricoperto dai rappresentanti dell’ECCCE nell’ambito della comunità scientifica internazionale rivolta allo studio del cervicocarcinoma, costoro sono legittimati ad individuare ricerche affidabili che possano essere importanti per la prevenzione e lo screening del cervicocarcinoma. Va precisato che il programma di formazione viene divulgato alla comunità scientifica mondiale qualora vi sia la volontà di in76 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg viare contributi o altre informazioni importanti direttamente all’ufficio responsabile del programma. L’ECCCE, inoltre, fa affidamento sull’impegno che le organizzazioni commerciali profondono nel contribuire a sostenere l’attività di prevenzione del cervicocarcinoma in Europa. Molte di queste compagnie stanno intraprendendo vasti programmi di ricerca sui loro prodotti, che potrebbero incidere marcatamente sull’evoluzione delle strategie di prevenzione del cervicocarcinoma. L’ECCCE cercherà di ottenere da queste organizzazioni commerciali le informazioni scientifiche più aggiornate nell’intento, dopo il vaglio dei partner dell’ECCCE, di utilizzarne i risultati all’interno dei propri messaggi educativi. Sintesi delle Informazioni Tutti i risultati scientifici presentati al programma vengono valutati, innanzitutto, sotto il profilo della loro affidabilità ed obiettività da parte dei partner dell’ECCCE. In seguito, i risultati più affidabili sono sintetizzati e tradotti in una terminologia adatta all’audience. Tali sommari sono controllati dai membri dell’ECCCE per garantire che l’informazione sia accurata, e vengono visionati da rappresentanti dell’audience stessa per garantire che la terminologia sia appropriata. Le versioni approvate sono poi tradotte nelle lingue dei Paesi destinatari e pubblicate. Comprensione della prospettiva femminile L’ECCCE si avvale di suoi membri, di gruppi di pazienti, di associazioni benefiche, ecc., per acquisire una conoscenza approfondita del livello di attenzione prestato dalle donne nei confronti del cervicocarcinoma e delle loro reazioni in seguito a referti di citologia cervicale anormale, di infezione da HPV, o di cancro del collo dell’utero. Tale informazione potrà, così, essere utilizzata per garantire che gli intenti perseguiti dal programma raggiungano effettivamente i bisogni conoscitivi e le esigenze delle donne, principali destinatari del messaggio. Definizione dei Messaggi di Educazione Sanitaria L’ECCCE si avvale della competenza dei suoi membri, dei gruppi di pazienti e delle società di beneficenza per definire un messaggio educativo appropriato ad ogni tipo di audience; messaggio che viene, poi, usato per sostenere tutte le comunicazioni e le pubblicazioni. Diffusione dell’informazione È estremamente importante che l’informazione distribuita dall’ECCCE sia appropriatamente trattata e supporti gli obiettivi nazionali di salute pubblica. Pertanto l’ECCCE si avvale dell’esperienza dei suoi membri al fine di identificare uno o due giornalisti in ogni Paese partecipante che abbiano dimostrato una solida comprensione dei temi riguardanti il cancro cervicale in Europa. Lavorando assieme, l’ECCCE tenterà di instaurare una relazione a lungo termine per favorire una buo77 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale na divulgazione e una migliore comprensione dell’argomento. Inoltre, l’ECCCE stabilirà connessioni con gruppi di supporto dei pazienti neoplastici, associazioni benefiche contro il cancro, enti professionali medici, amministratori della sanità pubblica e politici; organizzazioni e soggetti, questi, da porre sulla lista di distribuzione come destinatari delle pubblicazioni del programma. Infine, l’ECCCE ha costituito il sito web www.eccce.org, disponibile in 11 lingue europee (Figura 2), che agisce quale risorsa centrale per il materiale informativo prodotto e come punto centrale di comunicazione per tutte le parti interessate nella prevenzione del cervicocarcinoma. Gli elementi inclusi nel sito web sono: 1. Sommari di pubblicazioni di ricerche di rilevante interesse con i link per la versione integrale degli articoli (laddove sia acquisito il permesso da parte dell’editore). 2. Sommari di progetti di ricerca in corso sul cancro cervicale (epidemiologia, screening, prevenzione, terapia e vaccini). 3. Aggiornamenti sui programmi di prevenzione del cancro cervicale nel mondo. 4. Una raccolta di pubblicazioni dall’ECCCE disponibile per l’utenza. 5. Un’area dedicata ai medici di base che contiene: - protocolli aggiornati sull’uso di nuove tecnologie di screening del cervicocarcinoma, inclusi citologia in fase liquida e test per l’HPV; - una bacheca virtuale intesa a promuovere il dibattito sull’uso appropriato di nuove tecnologie per lo screening/prevenzione del cancro cervicale. 6. Un’area dedicata ad aggiornamenti sullo sviluppo di terapie per l’HPV che contiene: - resoconti sui progressi di terapie sperimentali; - una bacheca virtuale intesa a promuovere il dibattito sull’uso appropriato di terapie contro l’HPV. 7. Un’area dedicata ad aggiornamenti sullo sviluppo di vaccini per l’HPV contenente: - resoconti sui progressi di vaccini sperimentali; - una bacheca virtuale intesa a promuovere il dibattito sull’uso appropriato di vaccini per l’HPV. 8. Link per altri siti web di interesse rilevante. 9. Link per modelli on-line di screening cervicale. Risultati previsti Il programma educativo pubblico dell’ECCCE si propone di ottenere i seguenti risultati: 1. Maggiore consapevolezza pubblica del ruolo dell’HPV nello sviluppo del cancro cervicale. 2. Maggiore comprensione pubblica dei potenziali benefici per la salute derivanti dalle nuove tecnologie per lo screening del cancro cervicale, dalle terapie virali e dai vaccini per l’HPV. 78 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg 3. Maggiore comprensione da parte dei medici e delle rispettive associazioni professionali dell’uso clinico delle nuove tecnologie e prodotti per lo screening e la prevenzione del cervicocarcinoma. 4. Maggiore sensibilità dei soggetti responsabili della politica sanitaria del potenziale beneficio per la salute pubblica derivante dall’uso di nuove tecnologie e prodotti per lo screening e la prevenzione del cervicocarcinoma. 5. Assicurare che nuove tecnologie, terapie o strategie di prevenzione siano pienamente tenute in considerazione nell’istituzione di politiche di screening cervicale in Europa. 6. Supportare il completamento di pratiche più efficaci di prevenzione del cancro cervicale. Le Figure 3-8 riportano gli opuscoli attualmente disponibili per le pazienti, sul sito del Consorzio Europeo per l’educazione sul Cancro Cervicale (www.eccce.org). 4. European cervical cancer association (ECCA) I partner dell’ECCCE si sono riuniti due volte (28 febbraio e 24 ottobre 2003) a Lione, dove è stata stabilita la sede attuale dell’ufficio centrale dell’ECCCE. In tali occasioni è stata proposta, ed è in fase avanzata di realizzazione, l’istituzione della European Cervical Cancer Association (ECCA) con sede in Lione, emanazione del consorzio, a cui affluiscono i partner e che si rivolge a tutti gli altri soggetti scientificamente coinvolti a livello europeo nel settore. L’obiettivo dell’ECCA è quello di continuare a perseguire, ben oltre la durata dell’attuale progetto, la promozione e la diffusione dei progressi scientifici nell’ambito della prevenzione, diagnosi e trattamento della neoplasia cervicale in tutta l’Europa. 5. Situazione globale sul cancro cervicale (www.eccce.org) Dati essenziali 1. Nel Mondo • 2° più comune cancro nelle donne nel mondo. • 500.000 nuovi casi di cancro cervicale diagnosticati ogni anno 230.000 decessi per anno. • in alcune regioni è il più comune cancro femminile, superando anche il cancro della mammella. 2. In Europa • 60.000 nuovi casi ogni anno. • quasi 30.000 decessi ogni anno. 79 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale Incidenza (numero di nuovi casi per 100.000); Mortalità (numero di decessi per 100.000) - Fonte Globocan 2000. 3. In Italia Incidenza Mortalità Italia Europa occidentale Tutta l’Europa 9.05 9.34 13.48 2.42 3.91 4.98 4. Screening / No screening La significativa diminuzione del cancro cervicale osservata negli ultimi cinquant’anni nei Paesi industrializzati è dovuta ai programmi di screening e ai progressi nel trattamento degli stadi precoci della malattia. Nel mondo, 80% dei cancri cervicali si presenta in regioni dove non c’è screening. • Finlandia (con un programma di screening organizzato dal 1965), 60% di diminuzione dei decessi per cancro cervicale. • Gran Bretagna, 60% di diminuzione nei decessi per CC tra il 1987 ed il 2000 quando fu introdotto lo screening organizzato. • USA, 40% di diminuzione dei decessi per cancro cervicale dall’inizio degli anni ’70 con lo screening volontario. 80 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg Nell’Europa dell’Est, con pochi programmi di screening efficaci, il numero di casi annui di cancro cervicale è in alcuni Paesi fino a 10 volte più alto che nell’Europa Occidentale. Legenda: in grigio chiaro: incidenza; in grigio scuro: mortalità 5. Successo del trattamento precoce Approssimativamente il 95% dei trattamenti per malattia agli stadi iniziali risulta efficace. Impatto sociale Il cancro cervicale ha un rilevante impatto sulla società: • La bassa età d’insorgenza (la più alta incidenza è tra 40 e 55 anni) significa che la maggioranza dei casi si presenta quando molte donne hanno ancora impegni sia familiari che lavorativi. • L’età media di insorgenza per il cancro cervicale è più bassa rispetto ad altre neoplasie e ne risulta che il numero totale di anni di vita persi è più alto. Conseguentemente, l’impatto del cancro cervicale sulla società nel complesso è notevolmente importante. 6. Cause del cancro cervicale (www.eccce.org) Oggi molto si conosce sulle cause del cancro cervicale. a) Un cancro di origine virale HPV è presente in più del 99% dei casi di cancro cervicale. Sulla base di queste osservazioni, gli studiosi ora considerano questo virus come una causa necessaria del cancro cervicale. HPV causa il cancro cervicale attraverso la produzione di proteine virali che interferiscono con il normale funzionamento delle cellule cervicali. 81 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale Tuttavia, la maggioranza delle infezioni da HPV si risolvono spontaneamente senza alcun effetto. Le ragioni per le quali solo alcune infezioni progrediscono non sono attualmente note. b) Diversi stadi di sviluppo Si ritiene che il cancro cervicale si sviluppi lentamente, con la comparsa del carcinoma da 10 a 15 anni dopo l’infezione iniziale da HPV e solo se l’infezione persiste durante tutto questo periodo di tempo. Tutto, quindi, comincia con una infezione da HPV che l’organismo non riesce ad eliminare. Il virus allora causa delle alterazioni nelle cellule cervicali. All’inizio, queste alterazioni non sono gravi, ma col passare del tempo, cominciano a peggiorare ed alla fine risultano nello sviluppo del cancro. Dall’inizio della infezione da HPV sino a quando si sviluppa il cancro, le cellule cervicali attraversano un numero di stadi che possono essere riconosciuti come alterazioni cellulari su un Pap test. In rapporto al grado di anormalità ritrovato sullo striscio, la paziente sarà indirizzata ad un appropriato follow-up o trattamento. Tuttavia, questo processo può essere bloccato se il sistema immunitario elimina il virus. In questo caso, qualsiasi alterazione ritorna alla normalità; condizione confermata dal Pap test, se effettuato periodicamente e con regolarità, così come consigliato dai ginecologi. c)http://www.ecccecervicalcancer.org/contents/B3_CauseOfCervicalCancer/ index.asp?lang=it - top Fattori di rischio addizionali 1. Fumo Le donne che hanno una infezione da HPV e che fumano hanno una probabilità quasi doppia di sviluppare il cancro cervicale rispetto alle non fumatrici. Questo rischio aumentato è causato da un effetto diretto di agenti chimici ritrovati nel fumo 82 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg di sigaretta su certe cellule della cervice (cellule di Langherans) che fanno parte del sistema immunitario dell’organismo e che lo aiutano a respingere l’infezione da HPV. Il fumo indebolisce queste cellule. Tuttavia, in donne che hanno smesso di fumare, tali cellule sembrano ritornare alla normalità senza alcun trattamento. 2. Indebolimento del sistema immunitario Le donne con un sistema immunitario indebolito non possono facilmente liberarsi dell’infezione da HPV. Questo spiega perché il cancro cervicale è più comune in: • donne con HIV e AIDS; • donne che assumono farmaci che deprimono il sistema immunitario, ad esempio donne che hanno avuto un trapianto d’organo. Una dieta povera può ugualmente essere un fattore di rischio, poiché non supporta i nutrienti necessari per mantenere il sistema immunitario forte e sano. 7. Notizie sull’HPV (www.eccce.org) È oggi riconosciuto che l’HPV sia una causa necessaria del cancro cervicale. a) HPV, un virus molto comune HPV è un virus molto diffuso. La maggioranza degli uomini e delle donne hanno un’infezione da HPV in un qualche momento della vita. È usualmente trasmesso durante i rapporti sessuali ed il virus è così comune che contrarlo è considerata una normale conseguenza dell’inizio dell’attività sessuale. Sicché è maggiormente comune in giovani uomini e giovani donne, che tendono ad essere più attivi sessualmente. L’HPV può essere trovato ovunque nell’area genitale. Pertanto, il profilattico non previene efficacemente l’infezione, benché possa ridurne il rischio. Ci sono più di 130 tipi di HPV, raggruppati in 3 categorie primarie che infettano: • la cute e talora causano verruche. • l’area genitale associati allo sviluppo di conditomi. • l’area genitale associati allo sviluppo del cancro cervicale. b) Infezione da HPV e cancro cervicale L’infezione da tipi di HPV che possono portare al cancro cervicale non causa nessun sintomo evidente e la maggior parte delle donne eliminerà il virus senza neanche sapere di essere state infettate. In un piccolo numero di casi il virus produrrà alterazioni delle cellule cervicali determinando un Pap test anormale. In un numero ancora minore di casi, l’HPV 83 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale persisterà ed eventualmente porterà al cancro cervicale. Tuttavia, si ritiene che il cancro cervicale necessiti di molti anni per svilupparsi (10-15 anni) e che ciò avvenga qualora l’organismo non elimini il virus durante tutto questo periodo. Poiché l’infezione da HPV può persistere per molti anni senza alcun sintomo, non è possibile definire quando l’infezione sia stata contratta. c) HPV nello screening cervicale Dato che l’HPV è stato identificato come causa necessaria del cancro cervicale, testare la sua presenza potrebbe rappresentare un prezioso strumento di screening del cancro cervicale in donne oltre i 30 anni d’età (al di sotto di questa età l’infezione è troppo comune perché il test abbia una utilità). Un certo numero di studi ha dimostrato che, raffrontato alla citologia cervicale, il test dell’HPV ha: • una più alta sensibilità (scopre più malattie clinicamente rilevanti). • un più alto valore predittivo negativo (dà maggiore garanzia che la malattia non sia presente). Tuttavia, tale più alta sensibilità e il più alto valore predittivo negativo sono accompagnati da una minore specificità ed un minore valore predittivo positivo. Stime preliminari indicano che il test dell’HPV potrebbe essere conveniente dal punto di vista economico all’interno di un programma di screening. In molti paesi europei si sta indagando se il test dell’HPV debba essere usato per lo screening primario, o in associazione con il Pap test o in sua sostituzione. Negli USA, il Pap test in combinazione con il test dell’HPV è oggi approvato per lo screening del cancro cervicale in donne sopra i 30 anni d’età. d) HPV nel follow-up e nel trattamento Oltre allo screening, ci sono molti altri usi del test dell’HPV in supporto ai programmi di prevenzione del cancro cervicale. e) Per selezionare pazienti che necessitano o meno del trattamento Una piccola ma importante proporzione di donne con un risultato di Pap test equivoco potrebbero avere delle alterazioni cellulari cervicali che dovrebbero essere trattate. Il test dell’HPV può aiutare ad identificare quali donne necessitino di essere seguite o meno. La ricerca negli USA ha definitivamente dimostrato che donne con Pap test equivoco: • se HPV positive, sono a più alto rischio di avere una malattia cervicale che richieda terapia e dovrebbero essere mandate ad uno specialista; • se HPV negative, hanno una bassissima probabilità di avere un substrato patologico e possono essere seguite in modo conservativo. Molti paesi Europei usano già il test dell’HPV in questo modo. 84 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg f) Follow-up dopo trattamento Il test dell’HPV potrebbe essere usato nel follow-up delle donne che sono state trattate per precursori del cancro cervicale o anormalità del Pap test al fine di valutare il successo del trattamento. Di nuovo: • un test dell’HPV negativo fornisce un alto grado di sicurezza che il trattamento abbia con successo rimosso la malattia; • un test positivo indica che un follow-up più ravvicinato sia la scelta più sicura. g) HPV e vaccinazione L’origine virale del cancro cervicale suggerisce anche la possibilità di fare una vaccinazione: • per prevenire l’infezione (vaccino profilattico) in prima istanza; • oppure come immunoterapia una volta che l’infezione sia già instaurata (vaccino immunoterapeutico). Una grande mole di ricerca è in corso sui vaccini per l’HPV. I risultati preliminari dei vaccini profilattici sono estremamente incoraggianti. Se fossero confermati in studi clinici successivi, la prospettiva di una vaccinazione di massa per prevenire il cancro cervicale potrebbe diventare una realtà in un ragionevole futuro. Al contrario, i risultati dei vaccini terapeutici a tutt’oggi sono stati deludenti. 8. Prevenzione del cancro cervicale (www.eccce.org) La prevenzione del cancro cervicale si basa su efficaci programmi di screening combinati con il trattamento di ogni alterazione cervicale significativa identificata. Tuttavia, per essere efficace, la prevenzione del cancro cervicale deve essere parte di una più complessiva politica sanitaria con una forte componente educativa al fine di creare una consapevolezza tra le donne della malattia e dei benefici dello screening. Tecniche di screening 1. Pap test (striscio cervicale) Storicamente, il primo metodo di screening del cancro cervicale, la tecnica dello striscio di Papanicoalou, si basa su un esame al microscopio delle cellule cervicali prelevate con la tecnica dello striscio cervicale. Inventato da Georges Papanicolaou, questo metodo consente l’identificazione di alterazioni cellulari che indicano il possibile sviluppo di un cancro cervicale. Il suo uso nello screening ha portato ad una significativa diminuzione del numero di casi di 85 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale cancro cervicale, laddove questi programmi siano stati efficacemente applicati. Tuttavia, il Pap test fu inventato più di 50 anni fa. Negli ultimi 10-15 anni, le nostre conoscenze sul cancro cervicale e sulle sue cause sono progredite e oggi si ritiene che l’efficacia dello screening potrebbe essere migliorata attraverso l’applicazione di tecnologie più nuove. 2. Test dell’HPV La ricerca scientifica dimostra che il test dell’HPV potrebbe fornire tre differenti tipi di benefici: • più alta sensibilità nell’identificazione più precoce della malattia, mentre è ad uno stadio più facilmente curabile; • più lungo periodo tra una visita di screening e l’altra, forse 5 anni o più; • riduzione del costo dello screening in modo da indirizzare fondi su altre priorità sanitarie; Il test dell’HPV è oggetto di numerose ricerche e studi clinici in molti paesi Europei. Se i risultati di questi studi confermano la sua utilità, il test dell’HPV sarà parte integrante dei programmi di screening cervicale. Nel frattempo, lo screening basato sul Pap test fornisce la migliore protezione disponibile contro il cancro cervicale. Trattamenti precoci di prevenzione 1. Trattamento precoce per prevenire lo sviluppo del cancro Un risultato di Pap test anormale indica che vi è un rischio aumentato di poter sviluppare un cancro cervicale, ma una gestione efficace può pressoché eliminare questo rischio. Queste modificazioni spesso scompaiono da sole e un trattamento spesso non è necessario. Quando il Pap test è anomalo è indicata l’esecuzione di un esame più ravvicinato della cervice, chiamato colposcopia, per decidere se è richiesto un trattamento e quale sia il trattamento più adeguato. Se una qualsiasi anomalia è evidenziata sulla cervice uterina in corso di colposcopia, un piccolo campione di tessuto (biopsia o curettage endocervicale) può essere prelevato. Il risultato della biopsia o del curettage aiuterà a migliorare l’accuratezza della diagnosi. Se la presenza di anormalità delle cellule cervicali è confermata, può essere indicato un trattamento per rimuoverle e prevenire la loro evoluzione. Trattamenti precoci sono altamente efficaci e la grande maggioranza delle donne trattate non avrà ulteriori problemi. Generalmente, tali trattamenti non intaccano la capacità di procreare della donna. Il trattamento sarà tanto più efficace, quanto sarà precoce. Questo spiega perché è importante seguire strettamente le raccomandazione del vostro medico. 86 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg Molte tecniche possono essere usate per il trattamento. Tutte sono ugualmente efficaci quando scelte con appropriatezza. 2. Opzioni di trattamento • LEEP, LLETZ o ansa diatermica Questo è il trattamento più comune e più semplice usato oggi. Questa procedura utilizza una piccola ansa di metallo che è riscaldata dal passaggio della corrente elettrica e quindi usata per rimuovere il tessuto anormale. La procedura può essere praticata in ambulatorio, prende solo pochi minuti ed è effettuata con anestesia locale per cui non dà dolore. • Criochirurgia Durante questa procedura, una piccola sonda di metallo raffreddata al di sotto della temperatura di congelamento è utilizzata per congelare le cellule anormali. Tale procedura può anche essere eseguita in ambulatorio è non causa quasi nessun fastidio. • Vaporizzazione laser Questo metodo usa un raggio laser per riscaldare le cellule anormali in modo che evaporino. Ciò è eseguito con anestesia locale e perciò non fa male (http:// www.eccce-cervical-cancer.org/contents/B5_Prevention/index.asp?lang=it - top). • Conizzazione Questo termine si riferisce alla rimozione delle cellule anormali con il taglio dalla cervice di un pezzo di tessuto a forma di cono. Ciò può essere fatto usando l’ansa diatermica il laser o un bisturi speciale. 3. Dopo il trattamento Dopo il trattamento, ci si può aspettare un certo sanguinamento e perdite per circa 3-4 settimane. In questo periodo: • usare assorbenti, non tamponi interni • evitare esercizio fisico eccessivo • non avere rapporti sessuali finché il sanguinamento non sia completamente cessato e poi usare il profilattico per un altro mese mentre la zona è in corso di guarigione. Questi trattamenti hanno usualmente un alto tasso di successo e la maggioranza delle donne non avranno più ulteriori problemi. Tuttavia, un piccolo numero di donne continuerà ad avere Pap test anormali e potrebbe richiedere un altro trattamento. In tali circostanza è bene sottoporsi a regolari visite di controllo ginecologico sino a quando il vostro medico non vi dirà che non sono più necessarie. Dopo di ciò, potrete continuare il vostro screening periodico normale. La maggior parte delle donne che richiede trattamento per alterazioni cellulari 87 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale cervicali avrà avuto un’infezione da HPV. Usualmente, il virus scompare dopo il trattamento. Nuove ricerche hanno mostrato che se l’HPV è ancora presente dopo alcuni mesi dal trattamento, un ulteriore trattamento potrebbe essere necessario. Nel futuro, perciò, il test dell’HPV potrebbe essere usato per il follow-up delle donne dopo che siano state trattate. 4. Il vaccino - Nuova speranza per il futuro Vaccini per prevenire l’infezione da HPV (vaccini profilattici) sono oggi oggetto di numerosi studi clinici in larga scala. I risultati preliminari indicano che sono molto efficaci contro i tipi di HPV presenti nel vaccino. Correntemente, la varietà di tipi presenti è limitata e necessita di un ampliamento al fine di dare una protezione efficace. Se questi studi preliminari saranno confermati da ulteriori studi clinici, la prospettiva di vaccinazioni di massa per prevenire il cancro cervicale potrebbe divenire una realtà in un ragionevole futuro. Al momento, i dati della ricerca indicano che un vaccino per prevenire l’infezione da HPV per essere efficace deve essere somministrato alla popolazione prima che sia esposta al virus. Nella maggior parte delle società europee, questo può essere fatto in modo affidabile solo con una vaccinazione di preadolescenti e il pensiero corrente è che i programmi di vaccinazione dovrebbero essere indirizzati a ragazze di 11-12 anni e possibilmente anche ai ragazzi. Se ciò fosse confermato, i vaccini profilattici non potranno fornire protezione agli adulti che siano stati esposti all’HPV. Ciò significa che lo screening cervicale rimarrà il miglior metodo di protezione contro il cancro cervicale per le donne adulte, sebbene i nostri figli o nipoti saranno vaccinati e potranno non necessitarne più. Figura 1. Pratiche di prevenzione del cancro cervicale più efficaci in tutta Europa (www.eccce.org). 88 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg Figura 2. Home page del sito web dell’ECCCE (www.eccce.org). Figura 3. Questo opuscolo riassume le conoscenze attuali sul cancro cervicale e spiega come una semplice iniziativa, lo striscio cervicale di screening, possa aiutare ad evitare questa malattia e salvare vite umane (www.eccce.org). 89 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale Figura 4. Lo screening cervicale è un modo semplice per evitare il cancro cervicale. Questo opuscolo risponde a dubbi che ogni donna potrebbe avere sullo screening cervicale: perché essere sottoposte a screening, quando e come venga fatto lo screening, chi dovrebbe andarci, ecc… (www.eccce.org). 90 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg Figura 5. Il cancro cervicale è causato da certi virus del gruppo HPV. Questo opuscolo riassume le conoscenze attuali sul ruolo dell’HPV nello sviluppo di questo cancro e spiega come il test per l’HPV possa essere usato per migliorare lo screening ed il follow-up delle pazienti. Si discute anche del ruolo potenziale di un futuro vaccino contro l’HPV nel prevenire il cancro cervicale. (www.eccce.org). 91 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale Figura 6. Alterazioni minori sullo striscio cervicale sono quelle modificazioni che non rappresentano ancora uno stadio precanceroso o canceroso, ma potrebbero progredire in tale direzione. Questo opuscolo spiega cosa significhi per un esito del genere e riassume cosa sia necessario fare per minimizzare il rischio di sviluppare il cancro cervicale (www.eccce.org). 92 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg Figura 7. Ci sono molti possibili esiti anormali della citologia cervicale. Questo opuscolo spiega i termini medici usati dai professionisti sanitari, cosa significano, cosa bisogna fare per minimizzare il rischio di sviluppare il cancro cervicale (www.eccce.org). 93 Il consorzio europeo per l’educazione sul cancro cervicale Figura 8. Se si ha un esito anormale dello striscio, è opportuno essere seguiti da un ginecologo. In alcuni casi il ginecologo potrebbe decidere che sia necessario un trattamento per ridurre il rischio di sviluppare il cancro cervicale. Questo opuscolo descrive i vari trattamenti che possono essere usati (www.eccce.org). 94 Pantaleo Greco, Luigi Nappi, Maria Matteo, Ugo Indraccolo, Piergiorgio Rosenberg 95 96 Costanzo Natale I progressi della chirurgia negli ultimi quarant’anni di Costanzo Natale 1. Evoluzione storica Quarant’anni di chirurgia sono un breve arco di tempo, un piccolo periodo storico. Ma per chi lo ha vissuto intensamente, per chi ha contribuito ad aggiungere tessera su tessera, giorno dopo giorno, questo piccolo periodo storico rappresenta l’essenza di una vita, qualcosa per cui si possa dire che è valso la pena di vivere. Tante cose sono cambiate da quando, oltre quarant’ anni fa, sono entrato per la prima volta in una sala operatoria, timido e compunto, come quando si entra in un tempio durante una cerimonia solenne. Era quello che ancora oggi io definisco il tempio antico, nel quale si apprezzava un’atmosfera quasi religiosa, in cui i gesti erano solenni e si respirava un’aria come di mistero, di suspence, di santità. Sulla parete bianca, al lato della camera operatoria, era scritto “Silentium”, in latino, perché si potesse sottolineare l’importanza di ciò che si stava facendo all’interno. Il rito operatorio cominciava con il lavaggio delle mani con acqua e sapone e poi con la disinfezione mediante immersione in una bacinella contenente alcool per un tempo che era inversamente proporzionale alla esperienza dell’operatore. Oggi si usa l’esaclorofene e i tempi si sono molto ridotti. Le sale operatorie erano rigorosamente bianche, e bianchi erano i camici, i guanti di cotone, le maschere tipo odalisca, i teli per coprire il paziente. La sala operatoria di quarant’anni fa aveva un odore particolare, che talvolta mi sembra di risentire, e che non so dire se fosse di acido fenico o di lisoformio o di formolo. L’arredo, estremamente spartano, era rappresentato da un tavolo operatorio, dal tavolo della suora ferrista, dalla lampada scialitica sospesa ma più spesso a stativo, dai cestelli della biancheria in un angolo; solo più tardi entrò l’elettrobisturi, guardato con occhio sospetto e usato con titubanza. Gli attori di quel teatro erano: il chirurgo, l’aiuto, l’assistente, la suora ferrista e la suora anestesista che somministrava al paziente etere solforico o cloroformio attraverso la maschera di Esmark. In questo tempio celebrava una sola persona, il chirurgo (assistito da 2-3 persone): personaggio straordinario, dotato di capacità eccezionali, chiamato da un volere superiore ad una grande missione. Egli era capace di grande intuito diagnostico con scarse indagini strumentali; con pochi ferri e con una anestesia artigianale 97 I progressi della chirurgia negli ultimi quarant’anni doveva affrontare grandi temi chirurgici, con la coscienza di intraprendere una avventura incerta, spesso fatale. Il primo grande progresso fu l’avvento dell’anestesia con la scoperta dei barbiturici: nacque la figura dell’anestesista che oggi si avvale di farmaci moderni, di apparecchi di anestesia sofisticati con respiratori, e di un assistente di anestesia. Maggiori strumenti diagnostici contribuirono a rendere più sicura la chirurgia. Nell’ospedale di via Arpi l’ambiente chirurgico non era molto diverso, eppure in quella sala operatoria, alla fine degli anni ’60, cominciammo a porre le basi per il futuro sviluppo. Ormai i tempi erano maturi per fare il passo di qualità e ciò coincise con il trasferimento del nostro Ospedale nell’attuale sede di viale Pinto, il 16 settembre 1969. Qui ci accolse uno splendido reparto operatorio con due nuove sale costruite con criteri moderni e dotate di apparecchiature all’altezza dei tempi. Eravamo agli inizi degli anni ’70 e da poco era stato realizzato da Christian Barnard il primo trapianto di cuore. Le sale operatorie cominciarono ad affollarsi: all’equipaggio chirurgico si aggiunse quello anestesiologico e, dove si eseguiva la cardiochirurgia, il gruppo della macchina cuore-polmoni, con cardiologi, tecnici, infermieri circolanti. Io stesso, che a quell’epoca mi ero dedicato prevalentemente alla chirurgia toraco-polmonare dopo un lungo staging a Zurigo, cominciai ad impiantare i pace-maker cardiaci. Portai perciò in sala operatoria un apparecchio radiologico preso in prestito da Ortopedia, monitor, defibrillatori e cardiologi. Il vecchio tempio si era trasformato in una fabbrica frenetica dove operavano in parallelo equipaggi multipli che si muovevano, parlavano, esigevano. Gli stessi strumenti chirurgici diventarono più numerosi e di varia tipologia. Furono introdotte le suturatici meccaniche e le protesi vascolari. Nel tempo la tecnologia è progredita e nelle sale operatorie, oltre all’elettrobisturi, sono entrati il bisturi ad ultrasuoni, gli strumenti per la coagulazione ad argon e quelli a radiofrequenza. I dispositivi per l’anestesia sono diventati macchine complesse con monitor che consentono di visualizzare minuto per minuto tutti i parametri vitali. Sofisticati apparecchi radiologici ed ecografi entrano spesso nelle nostre sale operatorie per ulteriori esigenze diagnostiche intraoperatorie, specie in corso di interventi sulle vie biliari, sul fegato, sul pancreas e in chirurgia vascolare. Se un chirurgo di quarant’anni fa entrasse oggi in una delle nostre sale operatorie non saprebbe più dove mettere i piedi. Lo sviluppo della tecnologia ha consentito un progresso notevole in tutti i campi della chirurgia. Ormai ogni paziente può essere studiato dettagliatamente e la maggior parte degli interventi è standardizzata, ogni atto è previsto, ogni pericolo può essere scongiurato. Nella moderna chirurgia, non vi sono più spazi preclusi, né età impossibili. Gli anni ’80 sono stati caratterizzati dal progresso delle tecnologie diagnostiche: endoscopia, tomografia computerizzata, angiografia digitale, ecografia. 98 Costanzo Natale In questo decennio raggiungono il massimo sviluppo i trapianti di organo. La tecnologia diagnostica e operatoria, con la standardizzazione degli interventi, ha consentito la realizzazione di filmati di interventi chirurgici per fini didattici. Ciò ha portato alla demitizzazione della chirurgia: ciò che un tempo era quasi un segreto nel chiuso della sala operatoria, oggi viene portato fuori e messo a disposizione di tutti. Negli anni ’90 abbiamo assistito alla crescita dell’endoscopia che da diagnostica è diventata anche operativa consentendo di evitare alcuni interventi chirurgici, ed alla nascita della laparoscopia. Quest’ultima è una metodica che consente di guardare nella cavità addominale introducendo in essa un’ottica che, per mezzo di una telecamera, trasmette le immagini su un monitor. La introduzione di sofisticati strumenti chirurgici, attraverso piccole incisioni, ha reso così possibile eseguire molti interventi chirurgici senza aprire l’addome. Questa metodica, che noi abbiamo introdotto nel nostro servizio nel 1991, ci ha consentito di eseguire numerosi interventi laparoscopici sulle vie biliari, sul giunto cardio-esofageo (specie per il reflusso gastro-esofageo), sul colon e sul retto (anche per neoplasie maligne), sulla milza, sul surrene. A Foggia in particolare, in questo arco di tempo, siamo passati da via Arpi ad un moderno complesso ospedaliero con uno sviluppo della chirurgia a buon livello nazionale, con la insistenza della Facoltà di Medicina e Chirurgia, con ventisei scuole di specializzazione fra cui quella in Chirurgia Generale. Un’oculata gestione delle strutture edilizie, con la costruzione di un nuovo plesso assistenziale e con la realizzazione della sede del triennio biologico della Facoltà di Medicina, potrà assicurare la nascita di una cittadella Ospedaliero-Universitaria con un unico recinto e con ingresso monumentale su viale Pinto. 2. Dove va la chirurgia? L’eccessivo sviluppo della tecnologia ha contribuito a demitizzare la figura del chirurgo? In verità oggi una più profonda valutazione del paziente consente una migliore programmazione dell’intervento che risulta quasi sempre più standardizzato. Il chirurgo di oggi è sicuramente un uomo più eclettico che deve essere in grado di affrontare le procedure tradizionali accanto a quelle più innovative quali le procedure incruente della chirurgia vascolare e quelle mini-invasive della endoscopia e della laparoscopia. Dal 1850 al 1885 la vecchia chirurgia, povera e incerta, da mestiere è diventata arte grazie alla scoperta dell’antisepsi e dell’asepsi, con risultati prodigiosi e straordinari. Nel secolo successivo, di conquista in conquista, una chirurgia ormai matura, grazie all’audacia dei chirurghi non ha avuto più spazi preclusi né età impossibi99 I progressi della chirurgia negli ultimi quarant’anni li. Essa è passata dal ruolo di chirurgia infetta alle più audaci demolizioni, alle più ardite ricostruzioni, al trapianto. Il progresso più recente ha portato ai prodigi della chirurgia teleguidata e della miniaturizzazione con la microchirurgia. Parallelamente i biologi, entrando nell’infinitamente piccolo, sono giunti alla manipolazione genetica. Ma dove va oggi la chirurgia? E quali sono le sue prospettive per il futuro? Nell’evoluzione della medicina certamente alcune indicazioni chirurgiche si contraggono come, ad esempio, gli interventi per l’ulcera gastro-duodenale confinati ormai solo alle complicanze della malattia; ma altre si dilatano. In cardiochirurgia si riducono le sostituzioni valvolari per una maggiore prevenzione e un migliore trattamento del reumatismo articolare acuto; altresì si riducono i by-pass coronarici per una diagnosi più precoce delle stenosi coronariche che si avvalgono sempre più della angioplastica. Analogamente, in chirurgia vascolare le rivascolarizzazioni tradizionali si sono ridimensionate a favore delle angioplastiche e della chirurgia endovascolare. Il prolungamento dell’età media della vita porterà sempre più ad un aumento di incidenza dei tumori e delle malattie degenerative. I primi rappresentano il grande spettro del momento e sinceramente tutti speriamo in un prossimo maggiore apporto della biologia molecolare per migliorare lo standard di guarigioni. Le malattie degenerative rappresentano il grande campo di studio e di applicazione della chirurgia del domani, soprattutto attraverso lo sviluppo della chirurgia dei trapianti. Ma quali prospettive possono avere i trapianti di organo se il donatore deve essere un omologo cadavere vivente? Vera pietra miliare nella storia della biologia e della chirurgia è stato il trapianto di fegato di babbuino eseguito da Starzl nel 1992 (il paziente è deceduto dopo 60 giorni per sepsi da citomegalovirus). Le vere prospettive, il luminoso domani della chirurgia possono derivare dalla etrocompatibilità (attraverso i tentativi della ingegneria genetica di creare cellule antirigetto) e dalla possibilità di realizzare organi con la utilizzazione di cellule staminali. 3. Arte e Chirurgia Certamente la Medicina (disciplina più antica) ha creato più occasioni di ispirazione artistica attraverso il pathos, l’ansia, la sofferenza, la cura. Deve passare più tempo perché il dolore, l’attesa, l’incertezza, la speranza rappresentassero valida cornice di opera d’arte per la Chirurgia (disciplina giovanissima). È classica l’opera che raffigura Theodor Billroth mentre opera nell’Auditorium dell’Allgemeine Kraukenhaus a Vienna nel 1889. Momenti di arte sono l’eloquenza delle mani del chirurgo che si esprimono 100 Costanzo Natale sempre in silenzio. Stile e tecnica trovano spesso nelle mani il loro punto di migliore incontro. In chirurgia, dove non arriva la luce arrivano le mani supportate dal cuore e dalla mente. Mente, cuore e mani fanno di un chirurgo un uomo-chirurgo; mente e mani fanno di un chirurgo un buon professionista. Le mani del chirurgo sono le messaggere operative di un pensiero che è la somma di coscienza, conoscenza e dottrina. L’anagrafe delle mani di un chirurgo non sempre va di pari passo con l’anagrafe della sua vita. E quelle mani continuano ad interpretare lo stesso ruolo anche nella moderna chirurgia attraverso la robotica e la chirurgia teleguidata. Ma il rapporto tra il chirurgo e un traumatizzato è un rapporto inconscio e da questo rapporto deriva la chirurgia così come deriva l’arte, sfera candida e vergine delle emozioni. Gian Battista Vico sostiene che “i primi popoli furono i fanciulli del genere umano e fondarono dapprima il mondo delle arti; poscia i filosofi che vennero lunga età appresso e in conseguenza i vecchi delle nazioni fondarono quello delle scienze, onde fu affatto compiuta l’Umanità”.1 La visione religiosa dell’arte trova certamente un parallelismo nell’azione del chirurgo, fatta di solennità dei gesti, di grazia delle manovre, di finalità dell’opera. I tempi di un atto operatorio possono richiedere: manualità di artista, tocchi di ricamo, carezza di un pennello. Talvolta il gesto eroico che sa di violento, viene eseguito con misura ed equilibrio, proprio come il colpo di mazza di uno scultore. Alla fase cruenta della demolizione, segue il momento della ricostruzione dove l’opera del chirurgo assurge ad espressione artistica, dove deve inventare le modalità della riparazione e, con gesti misurati, conseguire il ripristino più vicino dello status della forma e della funzione. Innumerevoli sono le proposte e le realizzazioni, dall’estetica alla funzione. Mi piace solo ricordare lo splendido Atlante di Chirurgia di Valdoni (mirabilmente disegnato da Fornasari), sfogliando il quale ho pensato alla possibilità di realizzare una storia dell’arte della Chirurgia. Il progresso ci ha certamente abituati ai prodigi, ma ancora oggi è concepibile una chirurgia senza un rapporto fra malato e chirurgo, senza una carezza fra operatore e paziente? La professione del chirurgo non è un mestiere, ma un’arte che va dal sentimento all’estetica. Alla mia età sento ancora il fascino assolutizzante di quest’arte, nel cui culto ho vissuto. Non ne ho mai sentito il peso ma soltanto, talvolta, la fisiologica fatica… Tempora mutant et in illis mutant animi nostri. Non incontriamo più le vecchie suore senza orologi e senza stipendi, ideale superiore, abnegazione superiore alla nostra. 1 Giambattista VICO, Autobiografia. Poesie. Scienza nuova, a cura di Pasquale Soccio, Milano, Garzanti, 1983 (I grandi libri Garzanti). 101 I progressi della chirurgia negli ultimi quarant’anni I chirurgi del passato erano forse burberi, prepotenti, superbi, ma… nella loro anima, erano piccoli, poveri, grandi uomini; spesso tristi e isolati a consumare nel silenzio il dolore di numerosi insuccessi. E il chirurgo di oggi? È un uomo umanamente ridimensionato e tecnologicamente enfatizzato. Ma è ancora un piccolo essere, dotato da Dio di notevole resistenza fisica, perché le sue mani non hanno diritto di tremare. Ma dietro quelle mani che mai tremano, c’è un cuore che trema, c’è un cuore che ama. 102 Maria Nobili Chirurgia pediatrica a servizio del bambino e dei suoi genitori di Maria Nobili La nostra Struttura Complessa a direzione ospedaliera, diretta dal dott. Francesco Marinaccio, è attiva ormai da un ventennio. Nel corso di questi anni ha subìto un sempre più crescente processo evolutivo. Il raggio di azione della struttura abbraccia un vasto bacino d’utenza provinciale, regionale ed extraregionale. Presso la nostra struttura è possibile eseguire la correzione chirurgica di malformazioni neonatali, grazie alla sinergia con diverse figure di riferimento che vanno dal ginecologo, al chirurgo pediatrico, al neonatologo. Il chirurgo prende in carico, già durante la gravidanza, il bambino, seguendo la sua malattia in utero, instaurando un rapporto di fiducia con i genitori che affideranno il neonato al chirurgo, in alcune patologie, già dopo poche ore dal parto. Abbiamo infatti corretto circa 30 atresie dell’esofago (malformazione non molto frequente, in cui l’esofago non si sviluppa completamente e spesso si associa ad un’anomala comunicazione con la trachea). Abbiamo ricostruito 25 ernie diaframmatiche (assenza completa di una parte di diaframma con risalita in torace dell’intestino). Abbiamo inoltre corretto numerosi difetti della parete addominale, malformazioni intestinali rare, interventi di salvataggio in emergenza in neonati di peso molto basso, 700 gr., affetti da enterocolite necrotizzante (NEC) o occlusione intestinale, in altri tempi condannati. Lavorando in stretta collaborazione con la terapia intensiva neonatale, abbiamo raggiunto traguardi ragguardevoli, garantendo ai piccoli, ed ai genitori, la qualità che troppo spesso si cerca altrove, con immani disagi e viaggi della speranza. Noi, da sempre, ci occupiamo dei bambini fino ai 16 anni, garantiamo la cura di patologie chirurgiche sia in elezione che in urgenza, oltre il 30% della nostra attività si occupa di bambini affetti da patologie acute e traumatiche. Eseguiamo endoscopie digestive ed urinarie, ed interventi in laparoscopia con degenza breve ed ottimi risultati estetici e funzionali. Accanto alla qualificata attività chirurgica, il nostro reparto offre un ottimo comfort alberghiero; inoltre è dotato di spazi per attività ludiche e ricreative. Il punto di forza maggiore è, però, il rapporto costante che si crea tra gli operatori ed i pazienti. La disponibilità dei medici e del personale rende anche le situazioni più difficili, sopportabili, ed anche l’accettazione della malattia da parte di genitori, parenti ed amici, rende il bambino più sereno e “paziente”. 103 104 Giuseppe Rinaldi Nascere troppo presto oggi. La realtà di Foggia di Giuseppe Rinaldi In questi ultimi anni è cambiata molto la storia della medicina perinatale: si sono ampliate le conoscenze e sono migliorate le tecniche di assistenza ai neonati piccolissimi, permettendo così la sopravvivenza anche a quei neonati che la legge italiana considera prodotto abortivo. Il reparto di Terapia Intensiva Neonatale di Foggia (UTIN) si prende cura in particolare, infatti, del neonato piccolissimo nato pretermine, condizione ormai abbastanza frequente nei paesi industrializzati dove si sono modificate le abitudini di vita e di lavoro, è cambiata la società in cui domina lo stress e tutto ciò che può predisporre ad un maggior rischio di parto pretermine. Almeno un terzo delle nascite pretermine rimane senza una causa conosciuta, altre volte questa è attribuibile a patologia materna o prettamente ostetrica, altre all’età materna, alla classe sociale o alla situazione psicologica che si ha alle spalle. Anche il ricorso sempre più frequente alle tecniche di procreazione assistita porta spesso al concepimento di neonati prematuri, spesso frutto di gravidanze gemellari multiple. La sopravvivenza di tali neonati è strettamente correlata all’età gestazionale e, in secondo luogo, al peso alla nascita. Infatti è dimostrato largamente che per una stessa età gestazionale la prognosi è migliore per i neonati con peso alla nascita maggiore e, invece, nel caso di neonati con peso identico alla nascita, la prognosi è migliore per quelli con età gestazionale più alta, con ridotta mortalità e minor rischio di outcomes neurologici. Si discute frequentemente, specie in questi ultimi tempi, sul limite di vivibilità che pare corrisponda ad una età gestazionale uguale o maggiore di 24 settimane e con peso alla nascita uguale o maggiore di 500 gr., anche se sporadicamente in letteratura sono segnalati casi che oltrepassano questi limiti. Nel nostro reparto negli ultimi anni è ulteriormente migliorata l’assistenza al neonato piccolissimo, grazie soprattutto ai progressi effettuati nella fisiopatologia respiratoria e cardiocircolatoria, alle nuove ed evolute tecniche di ventilazione artificiale, come la ventilazione sincronizzata e la ventilazione ad alta frequenza, e all’uso di Surfattante (sostanza prodotta da alcune cellule polmonari), responsabile della maturità e della elasticità polmonare, fondamentale per la respirazione neonatale. 105 Nascere troppo presto oggi. La realtà di Foggia Inoltre la nostra attenzione è rivolta anche ai nati a rischio, nati con infezioni pre e postnatali, in quanto il nostro centro fa parte del Gruppo di Studio delle Infezioni Ospedaliere, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità. Anche la nascita di un bambino con cardiopatia congenita può sconvolgere l’equilibrio familiare, per cui siamo in grado di effettuare valutazioni in tempo reale con videoregistrazione e videocollegamento con la Cardiochirurgia e Cardiologia del Policlinico di Bari. Considerando poi l’importanza che oggi assume sempre più la diagnosi precoce per la prevenzione di eventuali patologie, è possibile già da parecchi anni effettuare presso la nostra UTIN esami di screening ecografici, come l’ecografia delle anche per la diagnosi precoce di displasia delle anche, e l’ecografia renale per lo studio delle vie urinarie ed il riconoscimento di uropatie malformative, che saranno poi seguite in un programma di follow-up sempre presso il nostro centro. Se è vero che per i neonati piccolissimi è aumentata la sopravvivenza, è pur vero che va rivolta molta attenzione alle patologie a breve e a lungo termine a cui potranno andare incontro. A breve termine entrano in gioco diversi fattori di rischio legati alla prematurità stessa, quali l’asfissia perinatale, l’ipotermia, il distress respiratorio, l’enterite necrotizzante, le infezioni, la broncodisplasia e le gravi lesioni cerebrali come l’emorragia cerebrale e la leucomalacia. In questi ultimi casi l’ecografia cerebrale, eseguita direttamente al letto del paziente, ci permette di fare diagnosi precoce e di seguirne l’evoluzione nel tempo. Se invece ci riferiamo alla qualità della vita futura dei piccolissimi, il problema diventa più complesso perché riguarda sia la loro crescita staturo-ponderale sia lo sviluppo psicomotorio, oltre alla considerazione delle sequele iatrogene rappresentate da cicatrici, aggressioni acustiche e visive e ambientali responsabili nel tempo, a volte, dell’alterazione del ritmo sonno-veglia o di altri disturbi di adattamento e comportamento. Il destino di questi neonati a rischio viene seguito con controlli seriati di valutazione sia del danno cerebrale, avvalendoci di esami strumentali ecografici, sia dell’indice di intelligenza che, tramite controlli di test psicometrici programmati nel nostro ambulatorio, vengono svolti dalla nostra equipe formata dai medici e dalla psicologa che, già durante la degenza in reparto, si erano dedicati alla loro assistenza. Negli ultimi anni i neonati ricoverati presso il nostro centro vengono nutriti con latte materno che sappiamo essere fondamentale per la loro crescita, permettendo così di rinforzare quel legame madre-bambino che col parto prematuro sembra spezzarsi bruscamente, ridando così serenità ed equilibrio al sistema neurovegetativo sia della madre che del neonato. A tale proposito da anni è stata creata una Banca del latte materno rifornita non solo dalle mamme dei neonati degenti, ma anche da mamme volontarie da domicilio, grazie alla sensibilizzazione a tale problema. Anche la tecnica della marsupio-terapia da parte della madre e del padre è diventata ormai una realtà in aggiunta alle misure antistress che mirano a protegge106 Giuseppe Rinaldi re i piccoli da stimoli visivi e acustici troppo forti; e inoltre particolare attenzione viene posta oggi nel ridurre al minimo il dolore del neonato, adottando tutti quegli espedienti medici che completano quel processo di umanizzazione che ci sforziamo di adottare per i nostri piccoli pazienti. Inoltre la nostra UTIN già dal 1983 iniziò, insieme ai centri pilota in Italia di Roma e Udine, l’esperienza del Trasporto Neonatale: la lunga pratica accumulata negli anni ha portato il centro di Foggia ad essere coinvolto in un progetto obiettivo finanziato dal Ministero della Sanità nel 1988, tanto che dal 1991, con decreto regionale, è stato riconosciuto al nostro centro il Servizio di Trasporto e di Emergenza Neonatale. Col tempo si è creato uno scambio culturale con i centri afferenti che ha permesso, nell’ultimo decennio, una concentrazione delle gravidanze a rischio con aumento del numero di trasporti in utero. Grazie poi al costante aggiornamento critico e alla continua revisione dell’assistenza neonatale, vari centri universitari, centri di ricerca farmacologica e biomedica, laboratori di epidemiologia e biostatistica ci hanno permesso di partecipare a trials assistenziali e di ricerca. Insomma si tratta di un reparto, quello UTIN di Foggia, caratterizzato ogni giorno da impegno, collaborazione, assistenza che cerca di essere sempre più all’avanguardia, ma è anche un reparto che vive di calore, di emozione, di legami con questi prematuri che, appena nati, e nati troppo presto, si trovano come su una “zattera di salvataggio ma in un mare in tempesta”, e ogni giorno tocchiamo con mano quanto sia grande la responsabilità che abbiamo nei confronti di questi piccolissimi che si affacciano alla vita e di cui dobbiamo prenderci cura con tanto amore. 107 Il 20 dicembre 2005, in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, si è tenuto a Foggia, presso l’Auditorium della Biblioteca Provinciale, il Convegno “Giuseppe Mazzini e la democrazia in azione”, organizzato dall’Associazione Culturale “Icaro”. Se ne pubblicano in questo numero della rivista «la Capitanata» gli interventi più significativi 110 Giuseppe Mazzini e la democrazia in azione Auditorium Biblioteca Provinciale “la Magna Capitana” 20 dicembre 2005 112 Giuliana Limiti L’eredità di Mazzini all’umanità e il ruolo dell’Italia di Giuliana Limiti Un anno prima di morire (1871) Giuseppe Mazzini presentò, con la data del 9 febbraio, la pubblicazione dal titolo La Roma del popolo, per ribadire il suo programma mai abdicato. Roma era diventata la capitale d’Italia dopo il 20 settembre del 1870 e Mazzini era carcerato dalla Monarchia nel carcere di Gaeta. Roma era stata in un certo senso profanata perché dopo l’esperienza della Repubblica Romana del 1849 che aveva innalzato la volontà popolare per la prima volta espressa con l’elettorato universale maschile, con la proclamazione dei principii di nazionalità, di collegamento europeo e universale, rifacendosi alla tradizione storica e agli istinti popolari e alla funzione della Terza Roma che la prospettava nel futuro dell’umanità con una missione specifica. La pubblicazione della Roma del popolo significava innalzare di nuovo la bandiera di quarant’anni prima non soltanto per ricordare un periodo breve ma splendido di gloria e di promesse segnato dall’eroismo della migliore gioventù d’Italia, ma per riaffermare l’antica fede repubblicana che partiva dalla storia di Roma e dalla sua missione da compiere nel mondo legata alla progressione storica che la chiamava a diffondere per la terza volta ai popoli una parola d’incivilimento e di unità morale che rimane come legato alle generazioni italiane ancora oggi da realizzare. Dalla Roma dei Cesari uscì l’unità d’incivilimento comandata dalla forza all’Europa. Dalla Roma dei Papi uscì una unità d’incivilimento comandata dall’Autorità a gran parte del genere umano. Dalla Roma del popolo, scrisse Mazzini, uscirà quando voi sarete, o italiani, migliori che oggi non siete, l’unità d’incivilimento accettata dal libero consenso dei popoli, all’umanità. Ribadì Mazzini questa fede che ci sostenne fra durissime prove la vita, è tutt’ora la nostra. Roma la concepiva come il Santuario della Nazione, la città sacra d’Italia, il centro storico dal quale si svolsero e si dovranno svolgere le missioni di unificazione italiana legate alla iniziativa nel mondo. In questi due termini di unità nazionale e di iniziativa d’incivilimento all’estero è racchiuso tutto il programma della citata pubblicazione. Mazzini impostò il problema di come passare dalla sfera delle idee a quella dei fatti e quindi sollevò la questione del “metodo” e delle istituzioni capaci di 113 L’eredità di Mazzini all’umanità e il ruolo dell’Italia attuare le riforme necessarie per condurre alla via del progresso, in nome del dovere e del diritto vivente in ogni popolo ed in particolare nel popolo italiano destinato ad essere antesignano del processo di unificazione morale e civile dell’umanità. L’istituzione sola capace di realizzare tale unione è la Repubblica; il mezzo per portare il popolo a dare sostanza all’istituzione è l’educazione. Per questo rivendicava di combattere ogni autorità che non si fondasse sul libero e illuminato consenso popolare in grado di accompagnare sulla scia del progresso l’unione di tutti i popoli dell’umanità a realizzare il principio religioso e politico del “Dio è Dio e l’umanità è il suo profeta”. Mazzini dettò la sua dichiarazione di fede: Noi crediamo in Dio: In una Legge provvidenziale data da lui alla Vita: Legge, non d’espiazione, di caduta e di redenzione per grazia d’intermediari passati o presenti fra Dio e l’uomo, ma di Progresso, Progresso indefinito fondato e misurato sulle opere nostre: Nell’Unità della Vita, fraintesa, secondo noi dalla Filosofia dei due ultimi secoli: Nell’Unità della legge per ambe le manifestazioni, collettiva e individuale, della Vita: Nell’immortalità dell’io, che non è se non l’applicazione della Legge Progresso, rivelata innegabilmente oggimai dalla tradizione storica, dalla scienza e dalle aspirazioni dell’anima, alla Vita manifestata dall’individuo: Nella Libertà senza la quale non possono esistere responsabilità, coscienza e merito di progresso: Nell’Associazione successiva e crescente di tutte le facoltà, di tutte le forze umane, come unico mezzo normale di progresso collettivo e individuale ad un tempo: Nell’unità del genere umano e nella eguaglianza morale di tutti i figli di Dio, senza distinzione di sesso, di colore o di condizione e da non interrompersi se non dalla colpa. Il pensiero di Giuseppe Mazzini è ancorato all’avvenire dell’umanità, fondato sul concorso attivo di tutti i suoi membri, uno sviluppo libero e armonico delle proprie facoltà, al concepimento e al compimento della propria missione nell’universo con il concorso attivo di tutti i suoi membri, liberamente associati per la soluzione del problema sociale. Il fine dell’umanità è la unità delle famiglie umane nel loro viaggio nella vita e tale fine si può raggiungere a “mille vie” schiuse al progresso. Non quindi omologazione, ma rispetto per la varietà delle espressioni di identità nella libertà, nell’uguaglianza, nella fratellanza. Tale visione rende gli uomini forti dei diritti e consapevoli dei doveri. Tale equilibrio di diritti e di doveri è espressione della legge morale universale che scaturisce da un solo Dio, da un solo padrone, la sua legge, da un solo interprete di quella legge, l’umanità. La fratellanza che ne scaturisce porta all’amore reciproco, alla tendenza a fare in modo che l’uomo faccia agli altri quello che vorrebbe si facesse da altri per lui. Tale sillogismo fa cadere privilegi, arbitri, egoismi, considerati violazione della fratellanza, per questa ragione l’istituzione della Repubblica è vista come essenza stessa del metodo per arrivare a quel fine e per Mazzini Repubblica significa educazione. Nessun’altro pensatore politico ha affidato all’educazione una funzione così 114 Giuliana Limiti alta. Mazzini parlava anche a nome di tutti i popoli o individui oppressi su qualunque punto della terra essi abitassero. Tramite l’educazione la Repubblica consentiva il superamento dell’odio di classe, di razza, dell’agnosticismo o del municipalismo, del nazionalismo, del comunismo, della ricerca del benessere edonistico, in nome di valori morali, di un principio superiore. La fondamentale priorità del problema educativo richiedeva un lavoro profondo, umile, doveroso, ma di sicuro avvenire, consci che la impreparazione delle masse ad esercitare consapevolmente il suffragio universale avrebbe impedito alla Repubblica di estrinsecare la sua natura di istituzione educativa. Per questo lottò ed ammaestrò i suoi amici a combattere l’indifferenza per la politica e per la gestione pubblica. Dai suoi operai voleva una elevazione del livello intellettuale e morale. Ad essi sono dedicati I doveri dell’uomo. Tramite l’educazione era convinto che la rivoluzione politica che sognava comportava anche successivamente la rivoluzione religiosa. Una educazione politica desiderava che preparasse le moltitudini a condividere le idee di umanità che costituivano la finalità della rigenerazione individuale e collettiva di ogni popolo e di ogni individuo. Una rivoluzione religiosa che poteva accompagnare un popolo che si fosse già costituito. Sotto questa dimensione si opera in Mazzini una sintesi sociale, della filosofia che diventa religione per l’adempimento dei destini umani nell’ottica della legge data da Dio all’umanità per cui libertà, uguaglianza e fratellanza costituiscono la missione speciale che coopera alla missione generale dell’umanità. Non meraviglia quindi che tale impostazione sia stata recepita dal Presidente degli Stati Uniti Wilson e presentata, proprio con riferimento a Mazzini, per la realizzazione della Società delle Nazioni. Ma per far questo occorre che si superi lo stridente contrasto tra le finalità dell’umanità e la prassi di corte e di corruzione delle istituzioni internazionali legate ad una rappresentanza dei governi e non dei popoli, organizzati secondo burocrazie cieche e avide anziché tramite i migliori rappresentanti delle missioni dei singoli popoli che dovrebbero arricchire il patrimonio culturale e politico dell’umanità. Roma ha questa missione e deve rendersene conto. La sua storia e il legato risorgimentale della Repubblica Romana del 1849 e di Giuseppe Mazzini l’obbligano a non lasciar cadere questo sogno di una nuova religione umanitaria veniente dall’Italia. 115 116 Giuseppe De Matteis Giuseppe Mazzini e la cultura inglese: testimonianze dall’Epistolario di Giuseppe De Matteis Il XIX secolo è considerato uno dei più ricchi e travagliati della storia europea: vide fiorire il Romanticismo, con tutte le sue diverse connotazioni, strettamente legate alle situazioni storico – politiche e sociali dei vari Paesi europei. In Italia il Romanticismo assunse una veste diversa e coincise con il Risorgimento, contribuendo con e per esso alla creazione di un Regno Italiano Unito. Questo secolo segnò, infatti, in Italia l’atto di nascita della Nazione ad opera di illustri “padri fondatori” quali Cavour, diplomatico e statista, Garibaldi, il protagonista dell’azione; ma il vero ideologo del movimento patriottico fu Giuseppe Mazzini, a cui la storia non ha reso giustizia, perché, costretto all’esilio per lungo tempo, è stato, suo malgrado, un protagonista nascosto. Pochi altri italiani sono stati considerati come Mazzini, la personificazione cioè di virtù tipicamente italiane: la generosità, l’eroismo, l’onestà. Mazzini è stato il personaggio storico italiano più ammirato in Inghilterra, tanto è vero che le migliori biografie dedicate a lui sono state proprio quelle scritte da alcuni noti studiosi britannici: dalle prime, opere di due donne che in vita gli erano state legatissime, Emily Ashurst Venturi e Jessie White Mario; a quelle di Balton King e di Gwillim O. Griffith. In Italia per vari decenni ha dominato, ai danni del Mazzini, un grave pregiudizio ideologico: poco amato dagli storici di area liberal – moderata, dopo la seconda guerra mondiale, Mazzini non ha riscosso molta simpatia, neppure tra gli studiosi di formazione marxista, che hanno spesso posto in scarsissimo rilievo il contenuto spiritualistico del credo mazziniano e la sua avversione per il socialismo scientifico. In molti si sono chiesti e si chiedono ancora, specie in occasione di questo secondo centenario della nascita, se gli italiani amano veramente Mazzini. Giuseppe Galasso, ad esempio, in un articolo apparso il 27 febbraio del 2005, Mazzini, chi è costui, sul «Corriere della Sera», ha affermato che “l’Italia ingrata si dimentica del Mazzini: anche questo bicentenario della nascita appare sottotono”; e, sempre l’autorevole storico partenopeo, aggiunge, in un altro articolo apparso sul «Corriere della Sera» (19 ottobre 2005) che in Mazzini si è sempre visto (al contrario del popolarissimo Garibaldi, l’uomo d’azione, e del Cavour, il “grande tessitore” della politica italiana, cioè del117 Giuseppe Mazzini e la cultura inglese: testimonianze dall’Epistolario l’unità e del regime di libertà in Italia) qualcosa di severo e di triste; sempre i doveri prima e sopra i diritti, coerenza ed unità di pensiero e di azione, spirito di sacrifico, la vita come impegno morale totale, la solidarietà sociale come valore fondante […]. Figurarsi se, col discredito dell’idea nazionale dopo il fascismo e, ancora più negli ultimi decenni, si poteva avere un Mazzini più popolare e più amato di prima. Eppure il mazzinianesimo non è mai sparito dalla scena storica. Ha alimentato, dopo la grande spinta al Risorgimento, un movimento riformatore molte volte distintosi per la sua qualità nell’Italia Unita. Ha mantenuto viva la fiaccola dell’idea della Repubblica, anche quando la vittoria della monarchia fu definitiva e irreversibile. Egli è stato all’origine della prima grande stagione italiana del movimento operaio e sindacale, dell’associazionismo cooperativo e mutualistico, delle leghe artigiane. Né solo in Italia, perché nel sorgere della Prima Internazionale socialista, nel 1864, fu considerato l’antagonista di Marx. Lasciò un nome di apostolo dell’indipendenza e della libertà di tutti i popoli […] fino all’India e all’Indonesia. E lo stesso nome ha lasciato negli annali dell’idea della democrazia, impostando, tra l’altro, il problema arduo ma decisivo dell’etica e della solidarietà sociale. Nonostante ciò, è come se gli studiosi fossero andati in senso inverso a quello della fama del personaggio, cioè nell’opinione e nella cultura corrente l’icona mazziniana perdeva sempre più colore e nettezza […]. In tempi, come i nostri, almeno uno dei punti di fondo delle idee mazziniane, cioè l’etica della solidarietà sociale, pare – conclude il Galasso nell’articolo sopra citato – si stia avviando a diventare sempre più un caposaldo della discussione e della vita politica e civile; e ciò fa pensare che il nome di Mazzini ha probabilmente più frecce al suo arco di quanto si potrebbe credere”; certo è che quest’uomo in Italia è risultato sempre più scomodo; ebbe rilievo piuttosto fuori dal nostro Paese, perché egli comprese bene “il valore etico e politico della nazionalità, credette alla fratellanza dei popoli ed auspicò per primo l’unione dell’Europa. In tutto il programma politico mazziniano è evidente l’approccio pedagogico alla questione nazionale: egli fu un grande educatore del popolo, e l’educazione resta sempre un elemento indispensabile per dare vita ad una vera nazione. Mazzini fu, insomma, il teorico che diede corso e vigore ad un autentico sentimento patriottico italiano. Fin da giovane scrisse e lesse moltissimo, soprattutto autori francesi, attribuendo alla letteratura la capacità di oltrepassare le frontiere politiche e costruire così una comune coscienza europea. Fu grande lettore ed estimatore di autori come Dante, Foscolo, Byron, nei quali scorse i profeti di un’Italia unita e repubblicana, e dunque dimostrò di prediligere scrittori impegnati a portare avanti un messaggio sociale e politico. Di Dante in una lettera Mazzini scrisse: “Imprime se stesso, le sue tendenze, le sue aspirazioni nell’universo che percorre”; e, sempre a proposito dell’Alighieri, aggiunse: “Dante spinge alla missione, al dovere dell’azione, alla sofferenza, al martirio”.1 1 Giovanna ZAVATTI, Perché e nonostante, Milano, Edizioni Aries, 2000, p. 109. 118 Giuseppe De Matteis Fin da giovane si adoperò ad inseguire i suoi nobili ideali: la libertà individuale, l’indipendenza dal dominio straniero, il sentimento patriottico. Costretto a trascorrere buona parte della sua vita all’estero necessariamente i suoi contatti con l’Italia furono prevalentemente di natura epistolare; “è, anzi, fu proprio l’epistolario mazziniano a costruire la spina dorsale di tutti gli studi più importanti intorno a questo grande uomo”.2 Tutto ciò che Mazzini fece nel corso della sua vita non lo fece né a scopo di lucro, né per cercare ed ottenere il plauso del prossimo o il consenso immediato: egli agì sempre e senza mai stancarsi, spinto solo dal desiderio di far progredire l’Umanità. Non si stancò mai di incitare, stimolare chi lo ascoltava, ma cercò anche di rincuorarlo e rassicurarlo. Ciò che più gli importava era agire sulle coscienze e sul pensiero. Solo dopo molti anni (circa trenta) di lotte, di sogni, di speranza lo scopo della sua vita poté realizzarsi, ma egli non mutò e continuò a vivere in povertà. Hamilton King, in proposito, traccia un ritratto dell’esule Mazzini molto esauriente, sottolineandone, oltre le qualità fisiche, anche quelle peculiari del suo carattere. La donna descrive Mazzini, incontrato per la prima volta nel 1864, come un uomo di mezza età che sembrava più alto di quanto in realtà non fosse a causa della sua magrezza ed eleganza: i capelli brizzolati e folti, nonostante avesse la fronte alta. Per quanto attiene alle qualità morali, la King giudicava Mazzini un uomo di straordinaria purezza, nel senso di scorgere in lui qualcosa di trascendente. Prima di parlare del soggiorno mazziniano in Inghilterra come esule, credo sia opportuno accennare al pensiero politico e religioso del Mazzini. È risaputo ormai che, alla base del suo pensiero politico, Mazzini pone la religione, una religione tutta sua, che è sentimento morale, forza eterna della politica. La concezione democratica del Mazzini non concepisce le classi, ma il Popolo, categoria molto ampia, che può essere politica, sociale, economica e che deve tendere al miglioramento delle condizioni umane e morali della società. Da qui l’attenzione particolare e di grande rilevanza data dal Mazzini all’educazione. Egli sostiene che è necessario il ricorso alla rivolta armata, qualora il governo risulti dispotico ed assolutista e respinge la crudeltà punitiva, la pena di morte e il duello: l’assassinio è considerato da lui una vera assurdità. Pur accogliendo le istanze di giustizia sociale, che sono alla base del socialismo marxiano, Mazzini rifiuta la lotta di classe e la violenza come mezzo di lotta politica. La nazionalità mazziniana va intesa come nazionalità dei popoli, affratellati da un intento comune. Mazzini non è un nazionalista, ma un patriota, perché il suo patriottismo sottintende il rispetto dei diritti dell’umanità. Egli parla e difende l’identità nazionale, che prescinde dalla biologia e dalla razza delle popolazioni. Gli elementi costitutivi dell’Italia, sempre secondo il suo pensiero, sono la lingua e soprattutto le tradizioni storiche, con un forte senso della comunità; non è concepibile per Mazzini la frantumazione dell’Italia in tanti “staterelli” o aree regionali e provinciali. 2 Michele FINELLI, Il prezioso elemento, Verrocchio, Pazzini, 1999, p. 16. 119 Giuseppe Mazzini e la cultura inglese: testimonianze dall’Epistolario Va anche osservato che il Mazzini, al primato della Francia in Europa, oppone sempre l’iniziativa italiana. Importante è in lui il concetto di libertà, che non è un fatto materiale ma è un sentimento, una conquista morale, rappresenta cioè il senso della propria dignità e dei propri diritti. Ogni individuo, infatti, ha diritto alla propria libertà, la quale si conquista con la consapevolezza di assolvere ai problemi sociali: diritti e doveri devono convivere e solo in questo senso si contengono gli individualismi egoistici. La vita per Mazzini è una missione e come tale deve essere guidata dalla legge del dovere, cosicché anche l’Unità d’Italia diventa per lui un vero e proprio dovere religioso. Per quanto concerne l’istruzione, essa deve essere obbligatoria e gratuita per tutti. Della religione cristiana il Mazzini apprezza l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio; deplora il clero, perché si è allontanato spesso dallo spirito evangelico, simpatizzando per forme deteriori di “modernità” e perché è allineato con il dispotismo del papato (non a caso egli dimostra grande simpatia per il trattato politico dantesco De Monarchia). Mazzini rispetta, però, le altre fedi religiose: egli è un panteista che vede Dio in ogni cosa; non è né cattolico, né cristiano e persegue solo un obiettivo da raggiungere: il progresso morale dell’uomo e dell’umanità, auspicando una rivoluzione sociale e politica che vada di pari passo con una rivoluzione religiosa e morale.3 Va, infine, osservato che il Mazzini, pur di raggiungere il suo obiettivo, cioè l’unificazione dell’Italia, continuava a propendere per la Repubblica e non guardava con simpatia né alla Monarchia, né al Socialismo, né al Comunismo. La triste esperienza dell’esilio mazziniano comincia nel 1831, con la condanna a morte in contumacia, a Marsiglia, dove egli dà vita alla “Giovine Italia”: legge molti scritti politici contemporanei, soprattutto in lingua francese, e scrive moltissime lettere. Conosce ed ama Giuditta Sidoli, dalla quale relazione si dice fosse nato un figlio, morto ancora bambino.4 La sua espulsione dalla Francia avverrà nel 1833; si rifugia a Ginevra, dove organizzerà varie spedizioni militari. Nel 1834 lo troviamo a Berna e qui creerà l’associazione “Giovine Europa”, con la quale si auspicava che in futuro le libere nazioni si sarebbero unite per creare una Repubblica Federale Europea. La “Giovine Europa” non perseguiva un intento pratico, ma morale. Mazzini maturerà bene in Svizzera il suo pensiero e il suo programma politico: a Berna, pur essendo attanagliato da forte malinconia e depressione, si rende conto di aver conquistato una profonda fede religiosa e un senso del proprio dovere e della propria missione; contemporaneamente matureranno nel suo pensiero e si concretizzeranno sia la sua profonda fede religiosa che le sue convinzioni politiche. La Svizzera accoglierà l’esule Mazzini dopo il suo lungo soggiorno in Inghilterra, un po’ prima cioè della morte; in Svizzera, anzi, egli conobbe la grande amica Sara Nadham, un’italiana di Livorno che il Mazzini aveva già avuto occasione di conoscere a Londra. 3 4 G. ZAVATTI, Perché e nonostante..., cit., p. 100. Cfr. Salvo MASTELLONE, Mazzini e la “Giovine Italia” (1931-1934), Pisa, Nistri-Lischi, 1960, vol. II. 120 Giuseppe De Matteis Nel 1836, all’età di 31 anni, Mazzini fu espulso dalle autorità federali della Svizzera e raggiunse, dopo circa sei mesi di fughe e nascondimenti, l’Inghilterra, dove riuscì finalmente a respirare un’aria di libertà e serenità. Al primo impatto con la capitale inglese, Mazzini non ebbe buona impressione della città, perché la trovò sporca, umida e appiccicosa; gli inglesi bevevano molto gin, dimostrando d’essere schiavi dell’alcool. Unico aspetto affascinante della capitale londinese era, agli occhi di Mazzini, la nebbia che gli ricordava i Canti di Ossian. In Inghilterra la vita era più cara delle altre città europee: “i sigari, ad esempio, costavano almeno tre volte di più della Svizzera e costosissimi erano anche gli affitti delle case”.5 Mazzini, comunque, sbarcò bene il lunario a Londra, scrivendo articoli (15 circa) sulla società e sulla politica inglese, apparsi su «Le Monde», di Parigi, guadagnando discretamente; continuò, intanto, a lamentarsi delle abitudini inglesi: troppo pratici, dominati dalla filosofia utilitaristica, trascurano i sani principi morali, i doveri, la religione e la morale. Mazzini pose molte attenzioni alla politica estera inglese e criticò l’imperialismo inglese in Cina, con la pena di morte; notò con disappunto il grande divario tra ricchi e poveri, ammirando invece la partecipazione popolare alle manifestazioni pubbliche (i comizi, le petizioni, la tolleranza); ma Mazzini apprezzò soprattutto la preparazione politica degli inglesi e la loro pazienza sconfinata, anche se non poche riserve dimostrò di avere per l’isolazionismo inglese e per lo scarso interesse degli stessi verso i popoli stranieri. Mazzini ammirava però degli inglesi la libertà di stampa, le loro idee repubblicane e il loro dissenso religioso. Censurava, inoltre, i politici inglesi che si sentivano padroni, mentre era più giusto che si sentissero “servitori del popolo”, considerando le tristi condizioni di vita dei bassifondi londinesi specie di molti emigrati italiani. Per questo fenomeno di indigenza di grandi masse di persone, Mazzini pensò ad una scuola per emigrati italiani e, come rovescio di medaglia, evidenziò varie altre pecche della vita londinese d’allora: le grandi distanze da percorrere da un capo all’altro delle città; il clima pessimo e il caos insopportabile che costringevano spesso il Mazzini a restare tappato in casa e a desiderare solo di far ritorno in Svizzera. Tuttavia a Londra il Mazzini ebbe modo di apprezzare alcuni aspetti della città e degli inglesi. Da qui egli ebbe modo di incrementare vari contatti culturali con poeti e scrittori allora famosi non solo in Inghilterra, ma in tutto il mondo: Elisa Fletcher, ad esempio, che presentò il Mazzini al poeta Thomas Campbell, per distoglierlo dal suo isolamento; a questo scopo Campbell procurò al Mazzini uno speciale permesso per studiare nella biblioteca del British Museum, dove Mazzini conobbe l’esule Antonio Panizzi, carbonaro, condannato anche lui a morte. Mazzini fu costretto, come si è già osservato, a industriarsi nel modo migliore a Londra, per poter sopravvivere: scriveva articoli e traduzioni. Stuart Mill lo invitò a scrivere qualcosa sulla letteratura italiana contemporanea e Victor Ugo gli chiese un saggio su John Kemble da pubblicare 5 Giuseppe MAZZINI, Epistolario (lettera alla madre del 13/01/1857). 121 Giuseppe Mazzini e la cultura inglese: testimonianze dall’Epistolario su «Monthly Cronicle». Nel 1851 Mazzini rientrò in Italia, dopo diciassette anni di assenza. Andò successivamente in Svizzera e da qui a Londra nel 1851, dove restò parecchi anni, comprendendo che solo lì poteva trovare un po’ di pace, tranquillità e sincerità di rapporti con persone ed intellettuali che lo apprezzavano molto; qui non smise mai di occuparsi delle vicende politiche dell’Italia: riorganizzò la rete cospirativa della “Giovine Italia” e della “Giovine Europa”, alimentando senza tregua il suo progetto repubblicano. D’ora in poi considererà Londra e l’Inghilterra tutta la sua seconda patria, perché si sentiva più compreso e al sicuro. Solo nel 1857 egli raggiunse segretamente e per poco tempo l’Italia, per poi ritornare a Londra, dove restò fino al 1871, allorché lasciò definitivamente l’Inghilterra per l’Italia, prima a Genova, poi a Pisa, dove morì nel 1872. Bello il ritratto che traccia di lui e della sua casa a Londra, piena di libri e canarini, King Hamilton: egli era confidenzialmente chiamato da lei e da altri amici il Signor Ernest e le sue missive erano così indirizzate, anche se la Polizia sapeva benissimo che si trattava del famoso esule italiano. Fu la frequentazione che egli ebbe, a cominciare dal 1838, con Thomas Carlyle, che spinse il Mazzini, col tempo, a innamorarsi di Londra e a ritrovare il suo buonumore. Mazzini, sollecitato da Carlyle, si trasferì a Chelsea, vicinissimo all’amico; pur essendo su posizioni diverse, i due diventarono grandi amici e condivisero insieme la condanna contro l’utilitarismo e la dilagante ricerca della felicità individuale. Ogni settimana, il venerdì per la precisione, Mazzini si recava a casa di Carlyle e qui ebbe modo di stringere amicizia anche con la moglie di Thomas, Jane Welsh Carlyle. “Io non l’amo, mamma – confessava Mazzini a sua madre – se non come sorella. È, comunque, una donna eccezionale”. E, fu proprio grazie a Carlyle che Mazzini riuscì ad allargare i contatti con la società bene di Londra, conoscendo molti scrittori, poeti, e a superare la noia e la malinconia. Conobbe Lady Byron, Dickens e i coniugi Taylor, ricco industriale quest’ultimo, radicale e rappresentante della scuola liberale di Manchester. Ma a Londra Mazzini ebbe anche nemici e dovè a Taylor se, spesso, su «Morning Chronicle» fu difeso. Conobbe anche la scrittrice inglese Emily Ashurst, la quale, con un cospicuo gruppo di amici, appoggiò l’azione politica del Mazzini sia in Italia che in Inghilterra. In casa Ashurst Mazzini trovò pace, accoglienza ed amicizia sincere e venne definito da essi un “angelo”. Anche la famiglia Natham soccorse Mazzini in quest’ultimo periodo di vita, sia economicamente che moralmente: egli conobbe ancora Harriet Hamilton King, nota poetessa che fece di lui un idolo come poeta, mistico sognatore, profeta, maestro religioso, santo, insomma, un misto di ascetismo, di dolcezza e di forza. Molti furono anche gli scrittori inglesi che si ispirarono al Mazzini: Charles Swinburne, Tennyson e Wordsworth. Mazzini fu molto corteggiato ed amato dalle donne: ebbe grande ammirazione per George Sand, con la quale ebbe una lunga corrispondenza epistolare. Di grande interesse sono anche i rapporti tra Mazzini e la realtà politica inglese del tempo, perché egli esercitò una grossa spinta, col suo credo politico, all’evoluzione del liberalismo inglese e al processo di formazione dei leaders radicali e del movimento operaio; Maddison, infatti, leader del “New Unionism” (anni ‘80), affermava: 122 Giuseppe De Matteis Se dovessi menzionare l’autore che […] mi ha più influenzato, questi dovrebbe essere Mazzini, specie col suo saggio sui Doveri dell’uomo. Egli ha plasmato il mio pensiero politico, economico, religioso, ottenendo la mia più piena approvazione”. E, dal dibattito aperto alla Camera dei Comuni, venne fuori una nobile immagine dell’esule piemontese: “Il Signor Mazzini, tenuto in grande considerazione nel suo paese, è un valente scrittore di idee liberali e un entusiasta della causa della libertà. Da sette anni vive in Inghilterra […]. Egli è un uomo di lettere ed il suo intento è quello di diffondere la cultura”.6 E, ancora, il deputato Bowling osservava: “Il Signor Mazzini non ha avvicinato nessuna persona [in Inghilterra] senza lasciare la più favorevole impressione della sua intelligenza e della sua insospettata moralità.7 Nel 1851 giunsero dall’Italia al Governo britannico proteste per la permanenza a Londra di Mazzini, elevate dal Papa, dall’Austria, dalla Prussia e dalla Russia. Anche Napoleone ne chiese l’espulsione, ma intanto sui giornali inglesi continuavano i consensi e gli elogi per Mazzini, considerato da tutti un “ospite di riguardo”, un rappresentante eletto della popolazione di Roma, uno che prendeva veramente a cuore la causa dell’Italia. Tutti, anche chi dissentiva da lui, ne ammirava l’integrità, la schiettezza e la perseveranza, anche se la Regina Vittoria e il cardinale Wiseman lo definirono “spietato apostolo dell’assassinio”. Mazzini trovò, comunque, molti appoggi ed aiuti in denaro proprio tra numerosi amici inglesi, che lo ritenevano leale, di forte personalità, cordiale, amabile, affettuoso, gentile, allegro, di buon umore, saggio e di acuta intelligenza. Mazzini sentì la connessione tra etica artistica ed etica sociale, esattamente come i romantici inglesi della prima generazione (1790 - 1830). Nel Romanticismo inglese, è bene ricordarlo, si fa strada la concezione secondo cui i grandi uomini, i cosiddetti geni, rappresentano una incarnazione del soprannaturale, giungendo ad identificare il tipo più alto di individuo con Colui che aveva un destino, una missione da compiere. A questo proposito Wordsworth, il noto autore di Lirical Ballads, afferma che le sue poesie dovevano essere giudicate sui generis rispetto all’intera altra produzione poetica britannica, perché ognuna ha uno scopo degno, in sostanza il didatticismo come missione del poeta. Wordsworth, teorico della pedagogia poetica romantica, si avvicina molto al nostro Mazzini “educatore”: entrambi si dedicarono ad aiutare il prossimo; ed entrambi, sul piano politico, dichiararono il loro anticlericalismo, il loro ateismo, con frequenti incursioni teiste e panteistiche. Nella seconda metà dell’Ottocento, insomma, l’Italomania in Inghilterra era giunta al culmine. Byron, ad esempio, dichiarerà, che dell’Inghilterra egli ama “la penna e la libertà di usarla”, ciò che anche Mazzini amava di quell’isola; non a caso, infatti, egli celebrò tanto il valore politico della poesia che il valore poetico dell’azione; non, dunque, arte per arte, in Mazzini, ma arte per la vita. Da qui scaturisce la vicinanza così naturale del Mazzini con le figure poetiche di Goethe, di Byron, di Dante e di Foscolo. 6 7 Giuseppe MAZZINI, Scritti, Edizione Nazionale, Imola, Galeati, 1906-1943, vol. XXVI. Andreina BIONDI, Mazzini uomo, Bresso (Mi), Edizioni Tramontana, 1969, p. 196. 123 Giuseppe Mazzini e la cultura inglese: testimonianze dall’Epistolario In comune con Byron, ad esempio, Mazzini ha anche la convinzione dell’importanza di non aver vissuto invano, vicinissima al concetto oraziano del non omnis moriar. E proprio su Byron e Goethe il Mazzini scrisse un saggio, pubblicato nel 1847 nel noto suo libro Scritti letterari di un italiano vivente. Mazzini è assai grato ai due poeti per avere aiutato la causa della emancipazione intellettuale e per aver risvegliato il sentimento di libertà nella mente degli uomini, combattendo i giudizi aristocratici ed incrementando il sentimento di uguaglianza. E ancora, Mazzini evidenzia quanto sia stretto il rapporto tra il pubblico, il poeta e l’importanza del “genio”, capace di interpretare le aspirazioni dell’umanità. C’è, dunque, affinità tra Byron e Mazzini: stessa vita grama, stesse tribolazioni e ambasce, s tessa concezione di vita e stessi ideali da perseguire e realizzare; Mazzini, anzi, alla fine del suo saggio citato pocanzi, sente il dovere di esprimere a Goethe la sua profonda stima e gratitudine per aver recepito tanti buoni messaggi dal suo insegnamento e dal suo splendido esempio di vita, anzi di eroicità di vita: egli, genio ed eroe, spentosi per la causa dell’indipendenza greca proprio in quel paese. Va anche ricordato che Mazzini, approdato in Inghilterra nel 1837, fu colpito dalle molte pubblicazioni a carattere popolare allora esistenti, dalle biblioteche circolanti (si pubblicavano allora i romanzi a puntate e Dickens raggiungeva la sua piena affermazione come scrittore con il romanzo Oliver Twist). La “Scuola di Londra”, inaugurata nel 1841, rappresenterà un esempio luminoso dell’impegno profuso dal Mazzini nel diffondere la cultura, ma anche la sua ferma convinzione della funzione comunicativa assegnata alla democrazia, un’idea felicissima da cui scaturiranno poi le istanze pedagogiche e civili comprese nel noto libro mazziniano dei Doveri dell’uomo, del 1860. E, a chiusura di questo nostro discorso, non possiamo non ricordare l’indefessa attività degli ultimi anni di vita del Mazzini: l’ “Unione degli operai italiani”, ad esempio, del 1840, una fondazione ideata con l’intento di promuovere la stampa di un giornale e di una scuola per adulti; il primo numero di questo periodico, che uscì nel mese di novembre 1840, era intitolato «L’Apostolato popolare» e denunciava all’opinione pubblica la condizione di povertà e di disagio della classe operaia del momento; nel secondo numero dello stesso giornale, Mazzini ritornava su questo argomento che gli stava a cuore, affermando che solo “il progresso e la democrazia possono permettere l’innalzamento del popolo”; nel numero terzo dello stesso giornale, apparso nel novembre 1841, Mazzini annunciava con gioia l’apertura della “Scuola di Londra”. Successivamente nacquero altri due periodici scolastici, «Il Pellegrino» e «L’educazione», sempre per iniziativa del Mazzini; e, di lì a poco, a Londra, nel 1847, comparve la “Lega Internazionale dei Popoli”, un’associazione che aveva lo scopo di fornire un’esatta rendicontazione, diffondendone i contenuti, delle reali condizioni politiche ed economiche degli altri paesi europei in quel periodo. La lega nacque, dunque, per scopi umanitari, rivolti alla crescita della popolazione: fu fondata per fini di pace, basati sul diritto e garantita dalla giustizia. Mazzini auspicava addirittura, con lungimiranza, la realizzazione di un mercato comune europeo. Nel 1847 Mazzini fondò ancora un’ “Associazione Nazionale” e “Un fondo Nazionale”; nel 1851, infine, fu ideata e creata sempre da lui l’Associazione “Amici 124 Giuseppe De Matteis dell’Italia”, con la quale si rivendicava coram populo l’unità e l’indipendenza dell’Italia. Come “appendice” a questo nostro discorso, crediamo sia opportuno tracciare un breve itinerario del ricco patrimonio epistolare lasciato dal Mazzini: è il modo migliore per potersi avvicinare al suo pensiero. Le lettere sono depositarie di una varietà di argomenti (politica, letteratura, educazione, religione, aspirazioni dell’autore, ecc...); una corrispondenza esemplare è quella tra Mazzini e Maria Algoult (quarantasei missive in tutto), l’affascinante contessa parigina, reduce dalla tempestosa relazione con Franz Liszt, scrittrice che firmava le sue opere con il nome maschile di Daniel Stern.Ci sono poi, le lettere alla madre, morta nel 1852, la persona certamente più vicina e più cara al Mazzini: tra loro perfetta era la consonanza di affetto, la confidenza, la comprensione. Queste lettere finirono quasi tutte nelle mani della sorella del Mazzini, che amava pochissimo il fratello e che le fece sparire. Un altro importante epistolario è quello tra Mazzini e la famiglia Ashurst, che per Mazzini costituì una seconda famiglia. Anche queste lettere furono sempre distrutte dalla Signora Emily (Madame Venturi). Il quarto gruppo di lettere è quello tra Mazzini e Hamilton King, mentre il quinto gruppo (che vanno dal 1847 – 1853) è tra Mazzini e George Sand, scrittrice molto amata e stimata dal Mazzini: entrambi erano ammiratori di Byron. Tutti gli scritti e l’Epistolario del Mazzini sono raccolti nell’Edizione Nazionale decretata nel 1905 (centenario della nascita del Mazzini). La cura dell’Opera omnia fu affidata ad una speciale commissione che curò fino al 1943 i cento volumi dell’Edizione Nazionale (Imola, Galeati, 1906 – ’43): Scritti letterari, 5 volumi; politici, 30 volumi; Epistolario, 58 volumi; in più: 8 vol. di Appendice e un altro volume ancora che comprende sia scritti letterari che politici. In sostanza, tutto l‘Epistolario mazziniano comprende: lettere di natura politica, lettere sentimentali e lettere ideologiche. Le Lettere politiche: si veda quella ad Aurelio Saffi, ad esempio, del 29 maggio 1849, dove Mazzini chiede al triumviro Saffi di provvedere ad alcune importanti questioni. Vi sono, poi, lettere che danno testimonianza degli intensi contatti del Mazzini con gli ambienti rivoluzionari polacchi: Marjan Langiewiez, polacco, naturalizzato svizzero, partecipò alla Spedizione dei Mille e, fuggito poi a Londra nel 1864, ebbe lì stretti contatti con il Mazzini. Temi di natura politica sono presenti anche nelle lettere Mazzini – Agoult: Mazzini condanna il socialismo e disprezza chi considera l’uomo come un animale sì razionale, ma orientato solo alla ricerca del benessere personale; e anche sul comunismo Mazzini esprime idee contrarie in alcune missive indirizzate ai suoi familiari: “[i Comunisti] vogliono – egli osserva – abolire la proprietà, mettere tutto nelle mani del governo, e fare in modo che il governo, dando non so quante ore di lavoro a tutti, distribuisca in natura, cioè non in denaro, il bisognevole a tutti. Questo è pensiero irrealizzabile, assurdo, che distruggerebbe qualsiasi stimolo all’attività dell’umanità”. A Mazzini, in pratica, non interessava un’Italia unita politicamente e libera dallo straniero, se essa deve essere un’Italia materialistica, schiava di interessi immediati e di una visione riduttiva della vita. Mazzini riversò in queste sue lettere politiche tutta la sua passione, l’entusia125 Giuseppe Mazzini e la cultura inglese: testimonianze dall’Epistolario smo, la tenacia per sostenere la causa della libertà della sua patria. Per questo diventò bersaglio della stampa londinese («Times»), che sferrò una serrata critica al suo pensiero e alle sue opere. Le Lettere sentimentali: Mazzini lamenta le sue esigue condizioni economiche come esule a Londra, la vita carissima della città e i disagi degli alloggi. Sono lettere che egli invia prevalentemente ai suoi familiari (dal 1837 al 1843 come si è detto), soprattutto alla madre, dove si lamenta del cattivo clima (pioggia, fango, umidità) di Londra, esprimendo tutta la sua nostalgia per il cielo azzurro dell’Italia e della Svizzera; un altro gruppo di lettere sono dirette alla Sand e qui il Mazzini racconta l’episodio della morte di Giacomo Ruffini; in un’altra bella missiva Mazzini confessa il suo amore per la Sand, manifestando grande sensibilità. Ma, traboccante di confidenze personali e passioni è anche l’epistolario tra Mazzini e la contessa Agoult: Mazzini la definisce “amica e sorella di Dante” e presto diventerà l’interlocutrice privilegiata delle conversazioni letterarie e culturali con il Mazzini. In altre lettere alla Agoult tornano i problemi di salute del Mazzini (egli ha dolori allo stomaco che lo intristiscono, facendolo innervosire e impedendogli di scrivere). Le ultime lettere del Mazzini sono piene di malinconia e di rammarico; bella è soprattutto quella del 1871, quando Mazzini sta per abbandonare l’Inghilterra. Il terzo ed ultimo gruppo riguardante le Lettere ideologiche tratta del programma pedagogico mazziniano. Mazzini scrive su questo argomento otto articoli, apparsi sul «Giornale del popolo» londinese dal 1846 al giugno 1847. Tradotti da Salvo Mastellone, col titolo di G. Mazzini, pensieri sulla democrazia in Europa, rappresentano una sintesi dell’idea della democrazia mazziniana, il cui compito è di migliorare la condizione morale dell’uomo e consentirgli di comunicare con gli altri suoi simili (è chiarita bene qui la funzione comunicativa assegnata alla democrazia e la necessità di creare un programma pedagogico che non si rivolga alle classi, ma al popolo, in una visione più ampia, più spaziata, più ecumenica). Mazzini intendeva abbattere le barriere o ogni forma di steccato e far diventare uguali tutti, perché “ogni ineguaglianza porta con sé – egli scriveva – una quantità proporzionale di tirannia”. In una lettera alla King Mazzini afferma che l’azione è lo scopo principale della vita e che la rassegnazione dev’essere l’ultima spiaggia. Pensiero ed azione coincidono solo in Dio, essere perfetto; ogni pensiero in Lui è creazione, ciò non può accadere con noi uomini, perché siamo esseri imperfetti. Bellissima è anche la missiva inviata alla Fletcher (Londra, aprile 1837, Epistolario). L’impegno sociale e morale del Mazzini è ribadito, infine, anche in altre lettere indirizzate alla Agoult. È, però, nella istituzione scolastica italiana di Londra che si concretizzeranno le aspirazioni del Mazzini. E, a tal proposito, si consiglia la lettura delle missive dirette a sua madre e gli ottimi e recenti due volumi del Finelli.8 8 Il prezioso elemento... cit.; cfr. anche Michele FINELLI, Il monumento di carta, Verrocchio, Pazzini, 2004. 126 Michele Finelli L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti di Michele Finelli Il primo gennaio del 1851 Giuseppe Mazzini scriveva all’amica Emilie Ashurst: “La mia idea non è che un’incessante attività per essa; ma un’attività che, all’infuori di pochi casi, è consistita in uno o due milioni di lettere, biglietti, istruzioni, dimenticati, perduti, bruciati”.1 Di questa “incessante attività” i volumi dell’Edizione Nazionale delle opere di Giuseppe Mazzini rappresentano l’originale testimonianza. Allo stesso tempo, essi rappresentano senza dubbio anche una delle più imponenti operazioni editoriali mai realizzate nel nostro paese. Tra il 1906 ed il 1943, per i tipi di Galeati, tipografia imolese, e sotto la paziente supervisione dello storico romano Mario Menghini, furono dati alla luce ben centosei volumi: sessantaquattro di Epistolario, trentuno di Politica, cinque di Letteratura e sei di Protocollo della Giovine Italia .2 Ad essi ne vanno aggiunti altri undici, usciti nel secondo dopoguerra, sempre per conto della Galeati: quattro di Indici, cinque di Zibaldoni Giovanili e Zibaldone Mazzini e Foscolo, due di Lettere di familiari ed amici a Mazzini.3 Per chi studia Mazzini, l’Edizione Nazionale rappresenta un passaggio necessario. Con un pizzico di paradosso, Giuseppe Monsagrati ha osservato che le difficoltà che si incontrano nello studiare un personaggio come Mazzini non nascono “dalla penuria ma dall’abbondanza delle fonti”,4 e che proprio l’opera omnia costituisce un primo, difficile scoglio per lo storico. Nel 2001 è partita la mia attività di editing degli Scritti mazziniani nell’ambito della loro informatizzazione, e dell’Edizione Nazionale ho cominciato a conoscere nei dettagli la struttura, in un rapporto quotidiano con gli scritti mazziniani, tuttora in corso, che mi sta portando alla lettura completa delle opere del patriota genovese. Al fascino di questa attività si accompagna la sensazione di cimentarsi in un’attività fuori dal comune, se solo pen- 1 Giuseppe MAZZINI, Scritti editi ed inediti, Edizione Nazionale, Galeati, Imola, 1906-1943, vol. XLV, p. 119. Ibid., vol. CVI. D’ora in poi abbreviati in S.E.N., Scritti Edizione Nazionale. Di questi centosei volumi, sessantaquattro sono di Epistolario, trentuno di Politica, cinque di Letteratura e sei di Protocollo della Giovine Italia. 3 G. MAZZINI, op. cit., Nuova Serie, voll. XI, così ripartiti: Indici, voll. IV; Zibaldoni Giovanili e Zibaldone Mazzini e Foscolo, voll. V; Lettere di familiari ed amici, voll. II. A questi va aggiunto il recente Giuseppe MAZZINI, L’età rivoluzionaria e napoleonica. Note ed appunti, a cura di Lauro Rossi, Roma, Carocci, 2005. Questo volume è il VI della Nuova Serie dell’Edizione Nazionale dei suoi scritti. 4 Giuseppe MONSAGRATI, Mazzini, Firenze, Giunti-Lisciani Editore, 1994, p. 118. 2 127 L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti siamo al numero complessivo delle pagine, circa 40.000. Ad un interesse strettamente filologico per l’opera, se n’è affiancato uno di natura più storiografica, sfociato nella pubblicazione del volume Il monumento di carta, titolo non casuale.5 Ho infatti cominciato a chiedermi come fosse nata e gestita un’operazione editoriale certamente fuori dal comune, e che riguardava un personaggio come Mazzini che fino a quel momento aveva risentito dell’ostracismo delle istituzioni e della cultura ufficiale. La cosa che maggiormente mi ha stupito è stata la bibliografia deficitaria, se comparata al significato politico ed al valore scientifico dell’opera, sull’Edizione Nazionale: essa è sostanzialmente riconducibile a quattro articoli.6 Un paradosso del resto frequente in una storiografia ipertrofica come quella mazziniana, che sovente ha ignorato l’approfondimento di tematiche dalle vaste potenzialità, considerando i centosei volumi un patrimonio acquisito. Per me invece hanno rappresentato un grande stimolo, poiché in tale progetto avevo la possibilità di far incontrare le due direzioni di ricerca che fino a questo momento hanno caratterizzato il mio percorso di studi: mi riferisco alla pedagogia laica mazziniana ed alla costruzione del consenso e di una memoria nazionale nell’Italia post-unitaria, concentrando la riflessione sugli strumenti che Mazzini utilizzò per una concreta diffusione della cultura, ispirato dai suoi frequenti riferimenti all’editoria popolare e dall’impegno profuso dai più stretti collaboratori perché dopo la morte le sue opere continuassero ad essere pubblicate. Alla costruzione del consenso nell’Italia post-unitaria è invece collegato un altro mio interesse, relativo alla scarsa incisività di Mazzini nella memoria collettiva del paese. Perché, come osserva Roland Sarti, “tra le figure dei ‘Padri della Patria’ quella di Mazzini è la più sfuggente?”7 Parte della risposta risiede nella disorganicità del suo pensiero, ma anche nel modo in cui le istituzioni ed i mazziniani stessi gestirono l’immagine del patriota dopo la morte, puntando più sulla diffusione dei suoi scritti che sulla realizzazione di un monumento nazionale. L’Edizione Nazionale ha rappresentato la chiave di lettura per entrambi i problemi. Se da un lato rappresenta la più completa espressione di un modello di cui lo stesso Mazzini 5 Michele FINELLI, Il monumento di carta. L’Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini, Verrochio, Pazzini, 2004. 6 Una bibliografia sull’Edizione Nazionale è sostanzialmente riconducibile agli articoli seguenti: Giovanni FERRETTI, La Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini, estratto dalla «Nuova Antologia», XX (1942), agosto, Roma, Società anonima La Nuova Antologia; Armando LODOLINI, Gli archivi di stato e l’ “opera omnia” di Giuseppe Mazzini. (Osservazioni e proposte), estratto dalla «Rassegna Storica del Risorgimento», Roma, Libreria dello Stato, 1950, fascicolo I-IV; Ermanno LOEVINSON, L’Epistolario di Giuseppe Mazzini, estratto dalla «Nuova Antologia», Roma, 1909; Lajos PÀSZTOR, Osservazioni sull’Edizione Nazionale degli Scritti di Mazzini, estratto dalla «Rassegna Storica del Risorgimento», Roma, Libreria dello Stato, 1953, fascicolo I. A questi lavori, non proprio recenti, va aggiunto il prezioso contributo fornito dalla pubblicazione di Mario SCOTTI-Flavia CRISTIANO, Storia e bibliografia delle Edizioni Nazionali, Milano, Silvestre Bonnard Editore, 2002, nella quale ampio spazio viene dedicato all’opera omnia mazziniana. 7 Roland SARTI, Giuseppe Mazzini e la tradizione repubblicana, in Maurizio RIDOLFI (a cura di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 56. 128 Michele Finelli aveva dato vita nel 1861 cominciando a pubblicare i suoi Scritti editi ed inediti presso l’editore milanese Gino Daelli,8 dall’altro simboleggia il monumento che lo stato unitario, piuttosto tardivamente, gli tributò. Per quale ragione lo stato monarchico finanziò a partire dal 1904 la pubblicazione dell’opera omnia mazziniana, ma abbandonò il progetto di monumento nazionale a Mazzini, approvato dal parlamento nel 1890? Ho dunque collocato l’Edizione Nazionale nel periodo storico in cui è nata e si è sviluppata, verificando come intorno ad essa si siano mossi gli attori politici che intorno a Mazzini hanno combattuto una battaglia sotterranea ma intensa. Nathan, avvicinando Mazzini alla monarchia, cercava consensi e legittimazione per il suo progetto dei “blocchi popolari”, antagonista a quello di Giolitti, che alla fine uscì vincitore. Elemento determinante per compiere le ricerche, data l’esiguità di materiale bibliografico sull’Edizione Nazionale è stata la presenza, ad Imola, dell’archivio della cooperativa “Galeati”. Al suo interno è conservata la documentazione relativa all’opera: materiale pubblicitario, documenti amministrativi, corrispondenza. In particolare ho concentrato la mia attenzione sulle persone che alla realizzazione dell’opera dedicarono la loro vita: i già citati Ernesto Nathan e Mario Menghini, nonché Ugo Lambertini, direttore tecnico della tipografia. A Nathan va ascritto il merito di aver raccolto gli autografi mazziniani e di aver creduto fino in fondo alla realizzazione dell’opera, a Menghini e Lambertini quello di averla realizzata materialmente. Ciò conduce in presenza di un altro grande paradosso dell’opera omnia mazziniana: a fronte della sua vastità e degli sforzi che essa richiedeva, vi lavorarono solo due persone. A fianco di questi personaggi offrirono il loro contributo altri esponenti della politica e della cultura italiana: Andrea Costa, Vittorio Emanuele Orlando, Giosuè Carducci, Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Il loro nome si accostò all’Edizione Nazionale non solo per ragioni culturali, ma anche per esigenze politiche. Il decreto istitutivo dell’ Edizione Nazionale, promulgato da Vittorio Emanuele III nel marzo del 1904, rappresenta il risultato di manovre politiche cominciate circa dieci anni prima, con la nomina nel 1897 di Ernesto Nathan a Gran Maestro della Massoneria, e trovò sicuramente fertile terreno nel rinnovato clima politico e sociale che grazie a Zanardelli e Giolitti si respirava nel paese all’inizio del secolo. Di Ernesto Nathan, a parte rare eccezioni,9 si è parlato troppo poco, ridu- 8 Giuseppe MAZZINI, Scritti editi ed inediti, Edizione Daelliana, Milano, Firenze, Forlì, Roma, 1861-1904, voll. XX. I primi sette dall’editore Gino Daelli tra il 1861 ed il 1864, l’ottavo, nel 1871, dal libraio milanese Levino Robecchi; i restanti, dopo la morte dell’esule furono redatti a cura della “Commissione Editrice degli Scritti di Giuseppe Mazzini”. L’edizione fu chiamata Daelliana dal nome del primo editore. 9 Si vedano i lavori di Anna Maria ISASTIA, ed in particolare Ernesto Nathan, Un mazziniano inglese tra i democratici pesaresi. Appendice di documenti a cura di P. D. Mandelli, Milano, Francoangeli, 1994 e le curatele di Ernesto NATHAN, Scritti Politici, Foggia, Bastogi, 1998; Gran Maestro della Massoneria e Sindaco di Roma. Ernesto Nathan il pensiero e la figura a 150 anni dalla nascita, Atti del Convegno (Roma, 11-12 novembre 1995), Roma, G.O.I., 1998; Romano UGOLINI, L’educazione popolare di orientamento mazziniano a Roma, in L’associazionismo mazziniano, pp. 121-141; La famiglia Nathan e l’istruzione popolare a Roma, in «La Critica Sociologica», 1997, 121, pp. 80-91; Ernesto Nathan tra pragmatismo e realtà, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2003. 129 L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti cendo la sua azione politica alla fortunata ed innovativa esperienza amministrativa romana, cominciata nel 1907. In realtà la politica dei “blocchi popolari”, risultata vincente a Roma, nell’intento di Nathan doveva diventare un modello di politica nazionale da contrapporre alla gestione giolittiana del potere. Cosa c’entra Mazzini in tutto questo? Secondo Nathan, un Mazzini istituzionalizzato ed inserito finalmente tra i “Padri della Patria” avrebbe senza dubbio sdoganato i repubblicani e legittimato proprio la politica dei “blocchi popolari”. Come ha ben evidenziato Romano Ugolini, Nathan fu mazziniano nella formazione morale, ma garibaldino in quella politica: egli preferiva cioè “la figura di Mazzini ‘ispiratore’ su quella del ‘cospiratore’, fornendo quindi un’immagine che poteva entrare nella coscienza nazionale priva di quei connotati di parte che, di fatto, lo avrebbero caratterizzato negativamente agli occhi dell’establishment liberale”.10 Del resto Nathan non fu mai un repubblicano ortodosso, e neppure un antimonarchico. Egli infatti vedeva nella monarchia un elemento propulsivo per il progresso civile del paese, nel re un arbitro imparziale ed autorevole della lotta politica. Per arrivare a far finanziare l’opera omnia mazziniana dallo stato, Nathan seguì una politica graduale. Il 29 dicembre del 1900 egli raggiunse con l’allora ministro della Pubblica istruzione Gallo un’intesa per la donazione dei manoscritti mazziniani (di cui aveva l’esclusiva) allo Stato, in modo che dopo la sua morte fossero custoditi nella biblioteca “Vittorio Emanuele” o nel costituendo archivio “dove possa in futuro essere stabilito, con disposizione legislativa, che siano raccolti e conservati i cimeli del Risorgimento italiano”,11 mentre nel 1903 vinse la sua sfida più importante, quella dell’adozione scolastica dei Doveri dell’uomo come testo di educazione civica nelle scuole elementari e medie del Regno. Ad affiancarlo in questa battaglia culturale, l’autorevole personalità di Giosuè Carducci e il ministro della Pubblica istruzione del governo Zanardelli, Nunzio Nasi. Impegno culturale, certo, ma anche politico, se consideriamo la comune appartenenza massonica dei tre. Per Nathan non fu affatto facile: oltre alle reticenze delle istituzioni egli dovette vincere quelle dei repubblicani ortodossi, Colajanni su tutti, che non accettarono i tagli all’edizione scolastica dei Doveri dell’Uomo, poiché cassavano i passaggi in cui Mazzini si esprimeva apertamente a favore della repubblica.12 Da cosa fu motivato l’atteggiamento di Nathan? Egli era consapevole del fatto che “sacrificare” Mazzini costituiva un’operazione rischiosa, ma credeva fortemente nella politica dei “blocchi popolari”, che secondo lui avrebbe consentito alla sinistra riformista di governare autonomamente il paese senza essere risucchiata dal “trasformismo” giolittiano e avrebbe garantito, come in ogni stato realmente liberal-costituzionale, alternanza di governo. Per quanto concerne Giolitti, la sua posizione restò piuttosto defilata, avendo egli lasciato la regia dell’ope- 10 Romano UGOLINI, L’organizzazione degli studi storici, in Cento anni di storiografia sul Risorgimento, Atti del LX Congresso di Storia del Risorgimento Italiano (Rieti, 18-21 ottobre 2000), Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 2002, p. 95. 11 Alessandro LEVI, Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan, Firenze, Tip. Ariani, 1927, p. 91. 12 Napoleone COLAJANNI, Preti e socialisti contro Mazzini, Roma, Biblioteca della Rivista Popolare, 1903. 130 Michele Finelli razione al ministro della Pubblica istruzione Vittorio Emanuele Orlando. Del resto Giolitti apparteneva ad una classe dirigente giovane, emotivamente slegata dalle battaglie risorgimentali e post-unitarie, e quindi in grado di affrontare con minori implicazioni sentimentali il confronto con Mazzini. Pragmatico e realista come Nathan, voleva governare, e si rendeva conto che nell’ambito del suo progetto politico mirante a tagliare le estreme ed in cui aveva già coinvolto socialisti riformisti e radicali, una rivalutazione di Mazzini avrebbe freddato le velleità repubblicane, che del resto non rappresentavano un pericolo concreto per l’equilibrio politico istituzionale del paese. Vittorio Emanuele III, rappresentante della monarchia combattuta da Mazzini, merita un discorso a parte. Senza dubbio la sua firma in calce al decreto istitutivo dell’Edizione Nazionale era un atto dovuto, ma ciò non significa che il re non cogliesse l’opportunità mediatica offerta da tale operazione. Ispiratosi più al modello del nonno che a quello del padre, il giovane re desiderava risultare il sovrano di tutti gli italiani, e patrocinare la pubblicazione delle opere di Mazzini equivaleva a risaltare la sua modernità ed apertura. Inoltre la lealtà di Nathan, di cui era amico, verso l’istituto monarchico, costituiva per lui ulteriore elemento di garanzia politica. Non è un caso che il 22 giugno 1905 spettò a Nathan, in presenza del re, la commemorazione ufficiale per la celebrazione del centenario della nascita di Mazzini.13 Restano da analizzare tre aspetti, solo in apparenza secondari, che ci dimostrano come intorno alla memoria di Mazzini si stesse giocando una importante partita politica. Uno è relativo alla scelta del presidente della commissione ministeriale che avrebbe dovuto seguire la realizzazione dell’opera, l’altro è legato alla casa editrice cui sarebbe stato assegnato l’appalto per la stampa dei volumi, mentre il terzo riguarda Mario Menghini, curatore dell’opera. Per quanto concerne la presidenza della commissione, Vittorio Emanuele Orlando, Ernesto Nathan e Mario Menghini fino all’ultimo cercarono di convincere Giosuè Carducci ad assumerla. Il ministro della Pubblica istruzione scrisse così al poeta nel febbraio del 1904: “Maestro, mentre l’arte apparecchia a Giuseppe Mazzini l’immagine votiva, decretata per mirabile consenso di Governo e di Ordini rappresentativi, cui un’altra manifestazione di volontà diede anticipata conferma, ho pensato che un altro monumento, la magnifica mole di grandezza e di sapienza civile da lui medesimo eretta, abbia una riconoscente consacrazione in una completa edizione nazionale delle opere di lui. […] Ora, dopo il giudizio sereno della storia, dopo l’augusto e memorando esempio di giustizia resa alla virtù animatrice di Giuseppe Mazzini , mal si ritarderebbe un atto di reintegrazione doverosa, al cui altissimo significato ardisco sperare che Ella non ricuserà una singolare conferma, accettando la presidenza della Commissione che alla divisata edizione nazionale attenderà devotamente”.14 Carducci rifiutò a causa delle precarie condizioni di salute. Furono Ernesto 13 Ernesto NATHAN, Giuseppe Mazzini. Discorso tenuto il 22 giugno 1905 nell’Aula Magna del Collegio Romano, Roma-Torino, Roux e Viarengo, 1905. 14 A. LEVI, Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan..., cit., p. 97. 131 L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti Nathan e Mario Menghini ad insistere. Il primo, il 17 marzo del 1904, pochi giorni dopo l’emanazione del decreto: “Se voi non potete contribuire al lavoro quotidiano, potete determinare i criterii su cui deve procedere, vegliare sull’andamento […] Caro amico, non abbandonateci; siate con noi a dirigere e a consigliarci a fin di compiere insieme l’atto di solenne onoranza al Maestro comune […]. Menghini ed io avremo a piacere ed onore il venire a Bologna da voi”.15 A Nathan Carducci rispose che declinava perché non era “uomo di decoramentazione, da far figura e non lavoro”.16 Toccò a Menghini l’ultimo tentativo, nell’aprile del 1904: “Perché non accetta? Se me ne fa scrivere un cenno, io farò sapere all’Orlando che giova insistere. Pensi, professore, dove si può cadere! Con Lei saranno il Fiorini, il Mazzatinti, e il sottoscritto”.17 La risposta, più concisa di quella data a Nathan, aveva lo stesso tono: “Io fui avvezzo a lavorare quanto potevo: e non fo l’uomo decorativo”.18 È indubbio infatti che la presidenza affidata all’anziano poeta, impossibilitato per ragioni di salute ad onorare un impegno così gravoso, avrebbe assunto un valore di garanzia politica, accontentando i repubblicani e gli ambienti massonici, che da Carducci si sarebbero sentiti ben rappresentati e tutelati, la famiglia reale, e più in generale i moderati e i non mazziniani, che difficilmente potevano mettere in dubbio lo spessore del poeta. Sfumata la presidenza super partes, si decise di conferire l’incarico al ministro della Pubblica istruzione in carica. Anche la scelta della “Galeati” si ispirò a scelte di natura politica. In verità, la stampa dell’opera omnia mazziniana non doveva sembrare molto appetibile, dato che “due licitazioni pubbliche erano andate deserte”,19 ma la cooperativa ottenne l’incarico grazie alle pressioni di Andrea Costa, deputato del collegio di Imola, che nel 1900 si era battuto per la fusione delle quattro tipografie esistenti sul territorio in un’unica cooperativa tipografica per rispondere alla crisi del mercato.20 Esigenze di collegio da un lato, ed omaggio alla figura di Mazzini, il cui pensiero era stato determinante per la sua formazione politica, spinsero dunque Andrea Costa a muoversi in questa direzione. C’è un altro particolare da non sottovalutare: l’amicizia tra Costa ed Ernesto Nathan. I due fin dal 1890 avevano collaborato alla politica dei “blocchi”, candidandosi nella stessa lista alle elezioni nel collegio di Pesaro, ed entrambi erano massoni. Quale fu invece il ruolo di Mario Menghini, che a Mazzini dedicò tutta la sua vita? Senza Menghini 15 Ibid., p. 98. Ibid. 17 Torquato BARBIERI (a cura di), Giosue Carducci-Mario Menghini. Carteggio (ottobre 1888-aprile 1904), Modena, Mucchi Editore, 2000, p. 185. 18 Ibid., p. 186. 19 Appunti sulla Cooperativa Galeati e sulle opere mazziniane, in Biblioteca Comunale di Imola, Archivio Galeati, B. 15, fasc. 2. 20 A questo proposito cfr. Aurelio ALAIMO, Le cooperative tipografiche in Italia e le origini della Galeati di Imola (1890-1903), in Un tipografo di provincia. Paolo Galeati e l’arte della stampa tra otto e novecento, Catalogo della mostra, a cura di Marina Baruzzi, Rosalba Campioni, Vera Martinoli, Imola, Editrice Cooperativa Marabini, 1991 e Nazario GALASSI, Vita di Andrea Costa, Milano, Feltrinelli, 1989. 16 132 Michele Finelli oggi non avremmo un’Edizione Nazionale così imponente e completa. Romano, collaboratore di Carducci, che lo presentò a Nathan agli inizi del Novecento, studioso di letteratura e storia, Menghini rinunciò a prospettive di carriera più gratificanti all’interno della Pubblica amministrazione o nell’università, per portare a compimento l’opera omnia mazziniana, cui lavorò anche dal letto di casa, fino alla morte, avvenuta nel 1945. Nonostante ciò, ad eccezione di alcuni articoli commemorativi, o a rapidi cenni in biografie mazziniane, l’attenzione prestata a Menghini è sempre stata limitata.21 Il suo nome, e non potrebbe essere altrimenti, è sempre stato associato all’opera mazziniana, ma nessuno si è mai sforzato di andare oltre una valutazione scientifico-storiografica del suo impegno. In questo modo l’impressionante lavoro compiuto da Menghini è stato ridotto ad una fatica ai più incomprensibile e ad un estenuante lavoro di redazione e meticolosa ricostruzione storica, che difficilmente spiegano, da sole, la sua dedizione all’Edizione Nazionale. Leggendo infatti le centotrentaquattro lettere inedite che tra il 1911 ed il 1943 Menghini indirizzò alla “Paolo Galeati”, il primo dato che appare evidente è che egli non si limitò a curare semplicemente l’aspetto editoriale dell’opera, ma gestì i difficili rapporti tra la casa editrice, la commissione ed il ministero della Pubblica istruzione al fine di tenere in vita l’edizione mazziniana. La sua opera di mediazione fu determinante nel 1921, quando con la crisi del primo dopoguerra sembrava che il ministero volesse sospendere il finanziamento dell’Edizione Nazionale, e nel 1933, quando fu stipulato il quarto ed ultimo contratto tra la società ed il ministero. Il 22 febbraio del 1939 faceva notare al Lambertini che “dopo di aver dato tutta la mia vita all’edizione mazziniana, che dicono e scrivono monumentale, sono ridotto a lavorare per arrotondare la mia modesta pensione”,22 segno che la passione dello storico era accompagnata da una frustrazione vissuta con grande dignità. Ho cercato allora di capire da dove provenisse tale attaccamento nei confronti dell’Edizione Nazionale, perché oltre alla competenza ed al talento c’era in Menghini una forte 21 Mario Menghini, (Roma, 3 maggio 1865-Roma, 12 febbraio 1945), fu l’infaticabile curatore dell’opera omnia mazziniana, cui dedicò quarantacinque anni della sua vita. Allievo e collaboratore di Carducci, fu presentato ad Ernesto Nathan, promotore dell’edizione mazziniana, proprio dal poeta. Uomo poliedrico e di grande cultura, non ridusse la sua attività di ricerca al solo Mazzini. Dal 1923 fu direttore del Museo del Risorgimento di Roma, di cui riorganizzò la Biblioteca, mentre con Giovanni Gentile diresse l’importante collana di “Studi e Documenti di Storia del Risorgimento” per i tipi di Le Monnier. Era anche responsabile della sezione di Storia e Moderna e Contemporanea dell’Enciclopedia Italiana diretta da Gentile e Treccani, Enciclopedia nata su un’idea che lui stesso aveva sviluppato nel primo dopoguerra con Ferdinando Martini. A ciò si accompagnava una frenetica attività di pubblicazioni: centocinque sono le sue opere censite nel Sistema Bibliotecario Nazionale. Per una sua biografia essenziale si rimanda a Cristina ARCAMONE BARLETTA, Ricordo di Mario Menghini, in «Accademie e Biblioteche d’Italia», Roma, gennaio 1955; CECCARIUS (G. Ceccarelli), In ricordo di Mario Menghini, «Il Tempo», 12 febbraio 1955; Alberto Maria GHISALBERTI, Mario Menghini, «Strenna dei Romanisti», Roma, Staderini, 1955, pp. 222-231, poi ristampato in Alberto Maria GHISALBERTI, Attorno e accanto a Mazzini, Milano, Giuffré, 1972, pp. 115-122; Giuseppe MARTINOLA, Un amico del Ticino, Mario Menghini, «Il Corriere del Ticino», 6 luglio 1955; Emilia MORELLI, Mario Menghini, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XLII (1955), fascicolo IV (ottobre-dicembre), pp. 663-664, mentre per il ruolo da lui avuto nello sviluppo dell’Enciclopedia Italiana, cfr. Gabriele TURI, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, il Mulino, 1980. 22 Lettera di Mario Menghini ad Ugo Lambertini del 22 febbraio 1939, in Archivio Galeati, B. 17, fasc. 94. 133 L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti componente passionale. Sono stati di aiuto Walter Maturi, il quale ha sottolineato come Menghini “non era solo uno studioso esemplare, […] ma era anche un mazziniano di stretta osservanza”,23 e Alberto Maria Ghisalberti, che collegava le origini della passione di Menghini per Mazzini ed il Risorgimento ad un suo zio materno, il Rubicondi, che “aveva fatto le schioppettate a Roma, nel ‘49, tra i legionari polacchi”.24 Lo storico romano era dunque un mazziniano. Discreto e riservato, esplicitò la sua ammirazione per Mazzini in due lettere indirizzate a Giosuè Carducci. La prima risale al 13 marzo del 1901. All’epoca stava curando l’Epistolario mazziniano voluto da Nathan presso l’editore Sansoni; in essa descriveva con entusiasmo la sua attività: “Ho scritto a Casalini che le mandi i fogli del Mazzini. Sono contento che l’epistolario vada a genio a Lei. D’altri non curo, dopo il suo giudizio. Ella vedrà che figura ne balza fuori. Che continuità di pensiero politico! Che lezione per certe coscienze di velluto che fingono di tenerla in disparte”25 La seconda invece reca la data del 5 giugno 1902. Menghini si occupava dell’edizione scolastica dei Doveri dell’Uomo, probabilmente ancora ignaro dei tagli che il Nathan vi avrebbe apportato, e chiedeva a Carducci una piccola prefazione: “Ci pensi, professore, e me ne dica. Nessuno, più di Lei, ha il diritto di condurre dinanzi ai giovinetti il decalogo italiano come ammonimento alla generazione che sorge tra l’epopea del Risorgimento d’Italia, e il putridume, nato da questo Risorgimento, e impostosi al nostro popolo”.26 Fu dunque anche la sua fede in Mazzini a guidarlo per quarant’anni. In una situazione che lui stesso definì di “putridume”, aveva notato i tentativi di appropriazione di Mazzini da parte delle istituzioni e delle forze politiche. In silenzio, comprese che l’unica cosa da fare davvero per onorare Mazzini era mantenere l’integrità dei suoi scritti e conservarli per il futuro. E lo fece con estrema correttezza e professionalità, dopo che il 30 novembre 1906, con un decreto ministeriale era stata ufficializzata la sua posizione di segretario della commissione. Nelle introduzioni ai centosei volumi, esaminate e lette con attenzione, non emerge alcuna presa di posizione politica, ed è risaputo che Menghini non volle mai apporre la sua firma in calce all’introduzione dei volumi perché il lavoro della commissione, organo puramente formale, non sfigurasse. Ultime considerazioni vanno dedicate alla struttura dell’opera e ad eventuali limiti editoriali. Tecnicamente parlando, un’Edizione Nazionale è “la pubblicazione di un’ opera omnia di un autore in edizioni condotte secondo i più rigorosi criteri della filologia moderna, fondate sulla ricognizione di tutte le stampe o i manoscritti conosciuti”,27 sostenuta, e questo è l’elemento che la rende nazionale, non da un ente privato, ma dallo stato. La redazione dell’opera è affidata ad una commissione composta di studiosi, esponenti della cultura e rappresentanti 23 Walter MATURI, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962, p. 680. A. M. GHISALBERTI, Attorno e accanto al Mazzini..., cit., p. 120. 25 T. BARBIERI, Giosuè Carducci-Mario Menghini. Carteggio..., cit., p. 177. 26 Ibid., p. 181. 27 M. SCOTTI-F. CRISTIANO, Storia e bibliografia delle Edizioni Nazionali..., cit., p. 9. 24 134 Michele Finelli del governo. Quella di Mazzini fu la terza Edizione Nazionale ad essere messa in cantiere, dopo quelle di Galilei e Machiavelli, ed il patriota genovese fu il primo italiano contemporaneo a ricevere tale onore. Ma quale criteri furono seguiti dalla commissione per allestire ed impostare un lavoro così impegnativo, soprattutto se si tiene conto della prolificità di Mazzini? L’impianto di base è stato quello disegnato da Mazzini con la già citata edizione Daelliana delle sue opere, con la divisione degli scritti in Letterari e Politici. In realtà, attraverso un esame più attento si può comprendere come questo sia l’unico punto in comune tra le due opere. La Daelliana infatti non voleva essere la raccolta completa delle opere mazziniane, ma una selezione, compiuta prima dallo stesso Mazzini e poi da Aurelio Saffi, in base alle esigenze del momento politico, senza alcuna attenzione riposta all’ordine cronologico del materiale. Ciò costituiva un grande limite poiché non dava ai volumi quell’uniformità e continuità che era fondamentale per gestire una produzione disorganica e di difficile controllo come quella di Mazzini. La prima esigenza della Commissione regia era dunque quella di razionalizzare il lavoro utilizzando criteri rigidamente storiografici. Il primo fu quello di rispettare la cronologia degli scritti mazziniani: per tale ragione il primo volume della serie è di Letteratura , “essendo gli scritti letterari prioritari di data rispetto ai politici nella produzione giovanile del Mazzini”.28 Altro caso di organizzazione del materiale è dato dall’accorpamento negli stessi volumi di scritti che nella Daelliana si trovavano in ordine sparso: un esempio è costituito dagli articoli pubblicati da Mazzini nell’“Apostolato Popolare”, che la commissione raggruppò interamente nel XXV volume, mentre nella Daelliana furono pubblicati nel V e nel VI, senza alcun ordine. Ma c’era un altro problema, ben più rilevante, con cui si dovevano fare i conti, ed era quello dell’abbondanza e della indeterminabilità del materiale mazziniano in circolazione. Il vincolo previsto dal decreto di edizione completa delle opere, implicava, una volta verificatane la veridicità, la pubblicazione di tutti gli inediti di cui la commissione fosse venuta in possesso, soprattutto lettere. Il primo contratto tra la “Galeati” ed il ministero della Pubblica istruzione, risalente al 1905, stabiliva le dimensioni dell’Edizione Nazionale in un numero di quaranta volumi. Il calcolo si rivelò ben presto in difetto, perché oltre a sottovalutare il fatto che anche gli Scritti politici sarebbero aumentati, non si tenne conto delle lettere. È stato infatti l’Epistolario a costituire la reale differenza tra le due edizioni, facendo lievitare nettamente il numero dei volumi. La scelta di non pubblicare le lettere di Mazzini all’interno della Daelliana era abbastanza ovvia. Quando partì la pubblicazione dell’opera il patriota era ancora in vita, e quindi avrebbe avuto poco senso; secondariamente c’erano difficoltà oggettive nel reperire le sue lettere, sparse in tutta Europa e in mezzo mondo, e che lui stesso chiedeva ai suoi corrispondenti di distruggere per evitare che fossero scoperti i suoi piani insurrezionali. Nel 1909, quando fu licenziato il primo volume di Epistolario, 28 Ibid., p. 55. 135 L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti la commissione possedeva più di ottomila lettere: nuovi autografi mazziniani venivano direttamente scoperti dalla commissione o pubblicati in svariate raccolte da altri studiosi. Curiosamente, però, proprio nell’introduzione al primo volume delle lettere, la commissione spiegava che “pure avendo formata una numerosa raccolta di lettere, le quali, tra edite ed inedite, superano ormai l’ottavo migliaio, avrebbe assai di buon grado differito la pubblicazione di questo primo volume dell’Epistolario, e continuato invece ad allargare ed approfondire le sue ricerche, se non avesse dovuto tenere conto delle impazienze degli studiosi; i quali, più che negli scritti di argomento politico e letterario, intendono con ragione di vedere, nella corrispondenza epistolare, rappresentare il sorgere e lo svolgersi graduale dell’azione e del pensiero mazziniano”.29 Curiosamente, perché se la commissione avesse deciso di raccogliere tutte le lettere di Mazzini, l’Edizione Nazionale non sarebbe mai stata portata a termine. L’ammontare di autografi mazziniani incideva pesantemente sull’andamento dei lavori, anche perché il solo Menghini era capace di muoversi con agilità nella complessa scrittura mazziniana, che pure gli creò numerosi grattacapi. Le lettere di Mazzini rappresentavano un ostacolo per due ragioni di fondo. La prima legata alla qualità della carta: i fogli, sottilissimi, facevano trasparire l’inchiostro da una parte all’altra della pagina, creando problemi di lettura. La seconda, ben più consistente, era la scarsa propensione di Mazzini ad apporre la data nelle sue lettere. Raramente indicava il giorno, mai il mese e l’anno. Per stabilire la data Menghini finì per utilizzare come principale parametro il timbro postale, mentre in caso di assenza del timbro, fece ricorso agli avvenimenti storici descritti nelle lettere. Per tale ragione le date su cui vi era assoluta insicurezza furono accompagnate con un punto interrogativo, mentre quelle più attendibili, di cui non v’era però esatta certezza, vennero chiuse tra due parentesi quadre. Il fatto che quasi tutte le date siano tra parentesi, indica comunque che le difficoltà poste dalle lettere di Mazzini, erano, e sono, insuperabili. Per valutare l’impatto dell’ Epistolario sull’opera nel suo complesso basta pensare che sui 106 volumi pubblicati tra il 1906 ed il 1943 ben sessantaquattro sono di lettere: cinquantotto più sei di appendice, contenenti gli autografi che andavano ad integrare le annate già pubblicate. Tra edite ed inedite, la maggior parte, presero posto nei volumi Edizione Nazionale 10.860, circa un quarto di quelle stimate in circolazione. Di fronte a questa mole di lavoro, svolto dai soli Menghini e Lambertini, è chiaro che sorgessero innanzitutto problemi nella consegna dei volumi da parte della casa editrice. Al primo contratto, quello che prevedeva appunto la pubblicazione di quaranta volumi tra il 1905 ed il 1914, se ne aggiunsero altri tre: uno dal 1915 al 1923, uno dal 1924 al 1932, ed uno dal 1933 al 1941. Non è questa la sede per entrare nei dettagli, ma è indubbio che la Galeati non possedesse i mezzi per far fronte a questa operazione editoriale, sul cui rallentamento incise anche la Prima guerra mondiale. A più riprese, gli stessi dirigenti del- 29 S.E.N., vol. V, p. VII. 136 Michele Finelli l’azienda, espressero i loro dubbi sull’ Edizione Nazionale.30 Da parte loro, le istituzioni non fecero nulla per cessare questo rapporto, ed anzi furono prima Benedetto Croce e poi Giovanni Gentile, con la “benedizione” di Benito Mussolini, a mantenere in vita un’operazione visibilmente in perdita. Inoltre, la scelta della casa editrice di venderla per abbonamenti, si rivelò perdente: chi è che poteva aspettare quarant’anni per completare un’opera? Da un punto di vista strettamente filologico, la struttura dell’opera resta impeccabile. Non deve certo stupire se essa sia piena di refusi di stampa o che una stessa lettera possa essere stata riprodotta due volte. Siamo in presenza di limiti fisiologici giustificabili, se consideriamo che stiamo parlando complessivamente di più di quarantamila pagine, corrette letteralmente a quattro mani da Menghini e Lambertini. Se ci fu un errore commesso da Menghini, è stato a mio parere quello di aver sovraccaricato eccessivamente le introduzioni dei volumi e le note a piè di pagina. Per quanto concerne le prime, alla descrizione dei singoli saggi, articoli, scritti presenti nel volume, vengono presentati brani inediti, differenti versioni di testo, lettere indirizzate a Mazzini dai suoi corrispondenti, al punto che non è errato ipotizzare la possibilità di ricavare singoli volumi dal materiale presente nelle introduzioni. Per quanto concerne l’impianto delle note, rigoroso, completo ed efficace, esso si rivelò eccessivo quando piuttosto che rimandare semplicemente alla fonte o ad un volume, riportava per pagine e pagine un intero documento. È il caso delle lettere di George Sand a Giuseppe Mazzini: Menghini non si limitò a indicare il testo di riferimento, ma le trascrisse nella loro interezza, andando quindi a gonfiare il numero delle pagine ed il lavoro di correzione delle bozze. Con questo contributo non potevo certo esaurire gli argomenti affrontati nel Monumento di Carta, ma ho cercato di sottolineare l’elemento di contraddizione che a mio parere ha segnato sin dalla nascita l’Edizione Nazionale, che ha certamente fallito nel suo scopo principale, quello di avvicinare Mazzini agli italiani. A scapito dell’immagine di perdente, triste e menagramo, Mazzini, personaggio ingombrante e scomodo rispetto agli altri “Padri della Patria”, ha influenzato la storia politica del nostro paese più di quanto si creda. Tutti i leader politici e le forze politiche dell’Italia liberale prima, e gli stessi fascisti successivamente, hanno dovuto fare i conti con lui, non solo perché come sosteneva ironicamente Arcangelo Ghisleri ognuno ebbe, “anche se finì ministro del re, qualche breve rapporto con le congreghe mazziniane”,31 ma perché Mazzini era parte integrante della storia politica italiana. Crispi, Nathan, le diverse anime del repubblicanesimo, Gentile, inconsapevolmente lo stesso Vittorio Emanuele III, crearono un Mazzini a loro immagine; il Mazzini pragmatico e disposto a collaborare con la monarchia di Crispi e Nathan non era molto diverso da quello dei liberali; quello dei mazziniani ortodos- 30 A questo proposito, cfr. Alfredo GRILLI (a cura di), Paolo Galeati e un sessantennio di vita cooperativa (1900-1960), Imola, Cooperativa Tipografico Editrice “Paolo Galeati”, 1960. 31 Lettera di Arcangelo Ghisleri a Terenzio Grandi del 12 giugno 1916, in Lorenza GRANDI (a cura di), L’intransigente e l’idealista. Arcangelo Ghisleri-Terenzio Grandi. Carteggio (1904-1938), Torino, Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, 1992, p. 60. 137 L’eredità di Mazzini: l’Edizione Nazionale degli Scritti si era rimasto antiparlamentare quando i repubblicani riformisti volevano cominciare a combattere dal parlamento le battaglie per la laicità dello stato, mentre il Mazzini di Gentile era il “profeta” di un Risorgimento che secondo il fascismo finì il 28 ottobre 1922, con la marcia su Roma. Ma esiste un Mazzini a cui tutti gli italiani possano unanimemente rapportarsi? Di questa contraddizione l’Edizione Nazionale è lo specchio. Voluta dallo stato più come atto dovuto che per sincero omaggio, si trasformò col tempo in un gigantesco monumento di carta la cui diffusione non giovò all’immagine del patriota, e costò notevoli sacrifici umani ed economici a chi vi lavorò. Per la Galeati rappresentava una perdita, ma la tipografia non poteva liberarsene per non rinunciare ad altre commesse statali, mentre lo stesso ministero avrebbe probabilmente smesso di finanziarla senza il continuo interessamento di Menghini, e successivamente, di Giovanni Gentile. Io ho voluto inquadrarla nella vicenda politica del nostro paese per riflettere sulla mancata metabolizzazione della figura di Giuseppe Mazzini da parte della cultura italiana, metabolizzazione auspicabile. 138 Angelo Manuali Giuseppe Mazzini Uomo Universale di Carlo Gentile di Angelo Manuali Sono grato al Circolo Culturale “ICARO” e al suo Presidente Giancarlo Roma per avermi dato l’opportunità di parlare di Carlo Gentile e del suo libro su Giuseppe Mazzini. E ciò perché egli è stato mio maestro e amico fraterno, oltre che prezioso collaboratore, sia come curatore che come autore di varie opere da me stampate nella Bastogi Editrice Italiana. Tutti quelli che hanno conosciuto Carlo Gentile conservano di lui un ricordo indelebile per le sue doti umane, per la sua cultura e il suo impegno di docente e di educatore. Nel 1994, a dieci anni dalla morte, ebbi a pubblicare, come testimonianza e atto di devozione alla sua memoria, un libro intitolato “Carlo Gentile. Una vita per la cultura”, in cui raccolsi alcuni scritti di amici ed estimatori, tra cui quelli dall’on. Armando Corona, che nel 1984 era Gran Maestro della Massoneria del Grande Oriente d’Italia e dello storico Prof. Aldo Alessandro Mola, oltre a un commovente testo poetico e ad un brano esoterico dello stesso Gentile. Di quel libro mi piace riportare un brano tratto dallo scritto del dott. Ciro Mundi, attuale vicesindaco di Foggia: Del periodo risorgimentale non studiò solo le figure mitiche, Mazzini e Garibaldi, ma anche, e soprattutto, i cosiddetti minori seguendo un preciso metodo di indagine storiografica che vuole i personaggi minori quale più veritiera espressione umana del periodo storico in esame in quanto ne mettono più facilmente in risalto le ombre. In questa ottica vanno visti i saggi su Giuseppe Ricciardi, Vincenzo Lanza, Giuseppe Libertini, Francesco Saverio Salfi ed altri. Gli ideali risorgimentali non furono vissuti da Carlo Gentile con il distacco dello storico ma trasfusi nell’impegno civile quotidiano: partecipò in prima linea alla battaglia per l’abbattimento della monarchia; quale membro della Lega Internazionale per i Diritti dell’Uomo, organismo affiliato all’O.N.U., tenne manifestazioni in ogni parte d’Italia contro la temuta abrogazione della legge sul divorzio. Per contrastare, libero da patteggiamenti politici e vincoli partitici, la violazione sistematica dei diritti civili nei paesi a regime totalitario, aderì ad Amnesty International. Il suo operato politico fu improntato al rigore morale: repubblicano da sempre, fu chiamato dal suo partito a far parte del Consiglio Nazionale dei Probiviri. 139 Giuseppe Mazzini Uomo Universale di Carlo Gentile Ed io aggiungo che fu socio attivo dell’AIDO, dell’AVIS e dell’ENPA, nonché amico e collaboratore di Aldo Capitini nel movimento non violento e nelle prime marce per la Pace di Assisi. Ma fu anche un grande esoterista e Gran Maestro Onorario della Massoneria. Autore di ben 47 pubblicazioni e di moltissimi articoli, fu infaticabile operatore culturale, con conferenze incontri e dibattiti, pronto a impegnarsi, anche come zoofilo, ovunque c’era da proteggere e difendere i valori e la sacralità della vita. A riconoscimento del suo valore e del suo impegno civile, sociale, umano e culturale, l’Amministrazione Provinciale di Foggia ha promosso un convegno di studi su di lui, con la conseguente pubblicazione degli Atti e la Civica Amministrazione gli ha dedicato una piazza. Un bel monumento funebre consente di rendergli omaggio nel cimitero di Foggia. Veniamo ora al libro oggetto di questa relazione. Nel 1972, in occasione del primo centenario della morte di Giuseppe Mazzini, la Giunta della Massoneria del Grande Oriente d’Italia, volendo partecipare alle celebrazioni nazionali, commissionò a Carlo Gentile un libro che raccontasse e documentasse i rapporti tra il grande Apostolo e la Massoneria. Carlo Gentile fu felicissimo di questo incarico e si dedicò con grande impegno alla stesura del volume. Nacque così Giuseppe Mazzini Uomo Universale, che poi alcuni anni dopo fu da me ristampato con la Bastogi, accanto a quello su Giuseppe Garibaldi. Il libro inizia dalla morte di Mazzini, l’oscuro esule “Signor Brown”, avvenuta il 10 marzo del 1872 a Pisa. Appena si diffuse la notizia, a Genova, presieduto da Michele Barabino, Gran Maestro Aggiunto del Grande Oriente d’Italia, fu costituito un comitato massonico che accompagnò a Staglieno il feretro con sopra la sciarpa di Maestro Libero Muratore. E a Pietro Corini, conservatore delle spoglie mortali del fratello Giuseppe Mazzini, i liberi muratori liguri offrirono una medaglia che mostrava Mazzini sul letto di morte con la sciarpa del 33° grado di Rito Scozzese (il massimo grado della iniziazione massonica) con accanto il compasso e la squadra, simboli specifici della Libera Muratoria. Da questi primi atti, immediatamente successivi alla morte, sembrerebbe pacifico e acclarato che Mazzini appartenesse alla Famiglia massonica. Di certo tale appartenenza era evidente per i massoni genovesi. A ciò va aggiunto che il Grande Oriente d’Italia commemora i defunti il 10 marzo, proprio il giorno della morte dell’Apostolo. Carlo Gentile non si accontenta di tutto questo e, con l’impegno del ricercatore, inizia una lunga indagine, per rintracciare i documenti e le testimonianze che confermino e certifichino i rapporti realmente intercorsi tra Mazzini e la Massoneria. Prima di affrontare con Gentile la questione, però, è necessaria una breve ricostruzione storica. 140 Angelo Manuali La Massoneria moderna, nata in Inghilterra nel 1717, si è diffusa negli anni successivi in tutta Europa e poi nel resto del mondo. La prima Loggia sul continente europeo fu fondata a Parigi nel 1725. In Italia, a Firenze nel 1735, dove assunse atteggiamenti anticlericali e perfino rivoluzionari, subendo condanne sia dai prìncipi che dalla Chiesa Cattolica. Con l’avvento di Napoleone, dopo un primo periodo di diffidenza reciproca, le cose cambiarono radicalmente e la gran parte delle Logge entrarono nell’orbita francese, tanto che molte di esse furono messe all’obbedienza del Grande Oriente di Francia. Dopo il 1815, a seguito della sconfitta definitiva di Napoleone e la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna, l’attività massonica dovette essere ufficialmente interrotta a causa delle repressioni poste in atto dai nuovi governi. Solo nel 1859, dopo le vicende del Risorgimento, ricominciò l’attività massonica a opera soprattutto dei patrioti ex combattenti, spesso divenuti anche membri di governo. Molti di essi, come lo stesso Garibaldi, vedevano infatti la Massoneria alla base della politica nazionale. L’8 ottobre del 1859 venne costituita a Torino la Loggia Ausonia al fine di realizzare una Comunione massonica, il Grande Oriente d’Italia (G.O.I), indipendente dalla Francia e dalle altre obbedienze straniere, filo-cavouriana e quindi filomonarchica, la quale avrebbe dovuto avere a suo Gran Maestro lo stesso Cavour. Con la morte del Cavour si cercò di rimediare al problema con la nomina di Costantino Nigra, ambasciatore del Piemonte in Francia. Ma quest’ultimo era solo un apprendista, primo grado della iniziazione massonica, per cui la sua nomina era irregolare, perché ci voleva almeno il terzo grado, quello di Maestro. Nigra, per non creare difficoltà alla Famiglia, rinunciò all’incarico. Al suo posto fu allora nominato Filippo Cordova, in contrapposizione a Garibaldi, con la prevalenza quindi dei liberali- monarchici sui democratici-repubblicani. Nel frattempo era stato costituito il Grande Oriente di Palermo, di orientamento repubblicano, il quale, nel 1862, in concorrenza con il Grande Oriente d’Italia, conferisce la Gran Maestranza a Giuseppe Garibaldi. Nel 1863 il Grande Oriente d’Italia indice un’assemblea costituente che però non viene riconosciuta dal Grande Oriente di Palermo. Nel successivo 1864, viene indetta a Firenze una nuova assemblea del Grande Oriente d’Italia, nel corso della quale viene offerta la Gran Maestranza a Garibaldi. Inaspettatamente Garibaldi accetta, nella speranza che combinando le due cariche si potesse realizzare l’unificazione della Massoneria italiana. Ma non fu così. Criticato da una parte e dall’altra, decise di dimettersi da entrambi gli incarichi. In data 2 giugno 1867 il Grande Oriente d’Italia, che aveva trasferito la sua sede a Firenze, nuova capitale provvisoria del Regno, convoca una nuova assemblea legislativa a Napoli. Un mese prima Garibaldi aveva inviato al Supremo Consiglio della Masso141 Giuseppe Mazzini Uomo Universale di Carlo Gentile neria di Palermo un’importante lettera nella quale manifestava il convincimento che l’unità massonica avrebbe tratto a sé l’unità politica dell’Italia ed esprimeva il desiderio di un’assemblea costituente nazionale. Il Supremo Consiglio non aderì alla richiesta e rispose di non poter partecipare all’assemblea che nel frattempo era stata convocata a Napoli. Garibaldi allora ruppe gli indugi e aderì definitivamente al Grande Oriente d’Italia. E con la lettera del 21 settembre, da Firenze, dichiarò “di appartenere ad una sola Massoneria Italiana e Umanitaria, rappresentata dal Grande Oriente eletto nell’assemblea di Napoli”. Tornando ora al Giuseppe Mazzini di Carlo Gentile, dobbiamo rilevare che in realtà, come dallo stesso ampiamente documentato, Mazzini non fu mai iniziato ritualmente in una Loggia, a differenza di Garibaldi, anche se ebbe ed accettò vari riconoscimenti onorari e fu considerato unanimemente fratello massone. Una iniziazione “sulla spada” cioè con una procedura eccezionale, la ebbe nel carcere di Savona da parte del marchese Passano. Lo stesso Mazzini ne parla, scherzandoci un po’ sopra. Di certo comunque c’è, come ho già detto, a testimonianza del suo prestigio e alto apostolato, che la Massoneria italiana commemora i defunti il 10 marzo di ogni anno (giorno della sua morte) e che sia in Italia che all’estero vi sono varie Logge a lui intestate. E nella Gran Loggia di New York è inciso, tra i nomi del grandi massoni, quello del Gran Maestro Giuseppe Mazzini. Ma quali sono stati i reali rapporti tra lui e la Massoneria? Fondamentale è a riguardo il 1866, anno in cui Mazzini fonda la “Alleanza Repubblicana Universale”, una sorta di para-massoneria repubblicana. Da quel momento i rapporti con i singoli massoni, molti dei quali erano suoi sodali, e con le comunioni massoniche, furono ben più intensi, soprattutto sul versante palermitano, che era quello a lui più vicino e verso cui cercava di indirizzare i fratelli massoni, distogliendoli dal Grande Oriente d’Italia. Mazzini infatti mirava alla trasformazione della Massoneria in una società politica, parallela, possibilmente confedera all’Alleanza Repubblicana. Nella lettera a Federico Campanella (SEI LXXXV, Epistolario, LIII, p. 311) Mazzini ricorda “che non tocca a noi uomini dell’Alleanza Repubblicana di fondare Logge, ma di lavorare a che le Logge già fondate o che da altri si fondano, si riannettano a Palermo”. Nella lettera a Maurizio Quedrio (Londra, 4 luglio 1868) scrive: “Tento di trasformare o di compromettere la Massoneria. È elemento numerico forte e inclinato da qualche tempo a venire a me. Cerca di farla ridiventare repubblicana, come già in Sicilia”. In un’altra lettera, a Federico Campanella (28 luglio 1868) scrive: “Anche la Massoneria Piemontese va ponendosi in contatto con me. Ciò a cui dobbiamo tendere è disfare il Grande Oriente di Firenze e trasformare più sempre quello di Palermo”. Da queste posizioni “settarie” di Mazzini nascono i contrasti con Garibaldi, che invece era per l’unificazione massonica senza pregiudiziali politiche. Il contra142 Angelo Manuali sto era ormai insanabile. L’influenza di Mazzini sulla Massoneria siciliana fu determinante per la rottura tra Garibaldi e il Grande Oriente di Palermo. Per cui dal Supremo Consiglio partì per Mazzini il brevetto di 33° (cioè del trentatreesimo grado del Rito Scozzese), che era la condizione per diventare Gran Maestro del Grande Oriente di Palermo. A questo punto Mazzini è messo di fronte a una decisione importante. Egli, come precisa Carlo Gentile, non escludeva “di poter assumere l’altissima carica, ove Garibaldi gli lasciasse completamente il campo libero, ma sempre sulla linea della repubblicanizzazione dell’Ordine, in una maniera, cioè, che gli permettesse di conciliare massoneria ed alleanza in una formazione, anche federativa, ma con crismi comuni definitivi, di logge rivoluzionarie”. Alla fine però la risposta fu negativa. Egli, infatti, il 9 luglio 1868 rispose così da Londra al Supremo Consiglio: “Sento profondamente nell’animo l’onore che mi fate, e mi dorrebbe quanto non so dirvi il dispiacervi. E nondimeno: non credo di potere addossarmi l’alto incarico che mi affidate. È ufficio di coscienza e voi più che altri siete capaci d’intendere le mie ragioni… La parte nella quale io posso essere più utile allo sviluppo delle cose, è quella piuttosto di un membro influente in una associazione, d’intermediario fra tutte per armonizzarle nella conquista del fine comune; apostolato esplicito, chiaro, non vincolato da formule o simboli, del principio repubblicano che dev’essere l’anima di tutti... Lasciatemi, fratelli, alla mia parte indipendente. Lasciate che io possa parlare del vostro santo scopo ad altri, senza ch’io sembri vincolato a farlo.” Per i massoni del Grande Oriente di Palermo, però, è come se avesse accettato, tanta fu la sua influenza e tanti furono a seguire i rapporti con il Supremo Consiglio e l’Oriente di Palermo. Il 17 luglio successivo, infatti, egli scrive al Campanella: “Per ragioni lunghe a dirsi, e dopo aver pensato e ripensato, è meglio che io non sia Gran Maestro dell’Oriente Palermitano. Sii tu quello. Quanto alla tendenza prospettata è come se lo fossi io. E quanto al da proporsi, prometto di aiutarti: fra poco farò di scriverti lungamente in proposito… Intanto dall’Oriente di Firenze m’hanno scritto: li suppongo ingiusti. Comincio del resto a aver mano nelle Logge di Piemonte e vedrò di trarne partito. Accetta dunque; è il mio serio consiglio”. Come rileva Carlo Gentile “Mazzini non ha accettato la grande maestranza perché, in quel momento, doveva avere le mani libere per parlare massonicamente anche con gli altri gruppi italiani, dei quali non era impossibile riuscire ad impadronirsi direttamente o indirettamente...” Ma ormai il tempo e le circostanze politiche lavoravano a favore dei Piemontesi, specie dopo la Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870. Giuseppe Mazzini moriva il 10 marzo del 1872 e il successivo 23 marzo a Roma si riuniva l’assemblea costituente della Massoneria, determinando il prevalere del Grande Oriente d’Italia, anche se, per una sorta di rivalsa del destino, i Grandi Maestri furono nel succe143 Giuseppe Mazzini Uomo Universale di Carlo Gentile dersi degli anni repubblicani e mazziniani: da Adriano Lemmi a Ernesto Nathan. Per la Repubblica, però, si doveva aspettare ancora per altri 74 anni. 144 Antonio D’Alessandri Mazzini e l’Europa sud-orientale nella storiografia degli ultimi trent’anni di Antonio D’Alessandri Nel 1972, in occasione del centenario della morte di Giuseppe Mazzini (18051872), si tenne a Genova, dal 24 al 28 settembre, il XLVI Congresso di storia del Risorgimento italiano sotto gli auspici dell’omonimo Istituto. I risultati di quelle giornate di studio e riflessione sulla figura dell’illustre Genovese furono pubblicati due anni dopo nel volume degli atti, che costituisce un momento fondamentale della storiografia mazziniana. Tale affermazione, per quanto riguarda il tema specifico di questo articolo, mi sembra senza dubbio valida per l’importante sezione dedicata a Mazzini e l’Europa orientale1 che raccoglie i contributi dei partecipanti al gruppo di lavoro coordinato da Angelo Tamborra,2 che già nell’introduzione mise in luce i punti fondamentali delle approfondite ricerche presentate dai singoli studiosi in quella occasione. Limitando l’analisi ad un’area ben definita dell’Europa dell’Est, ossia quella meridionale, compresa tra l’Adriatico e il mar Nero, e tra il Danubio e la penisola ellenica, in questo intervento si cercherà di svolgere alcune considerazioni su quanto la storiografia abbia prodotto sul tema dei rapporti tra Mazzini (e il mazzinianesimo) e le popolazioni dell’area balcanica negli ultimi trent’anni.3 Il punto di partenza è proprio il citato volume del 1974, in particolare due saggi ivi contenuti: ˇ Pirjevec), dedicato agli slavi dell’Austria e della quello di Giuseppe Pierazzi (Joze 1 Mazzini e il mazzinianesimo, Atti del XLVI Congresso di storia del Risorgimento italiano, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1974, pp. 285-485. 2 Angelo Tamborra (1913-2004) è stato in Italia il fondatore della storia dell’Europa orientale come disciplina autonoma nell’ambito dell’ordinamento universitario, studioso dai molteplici interessi e autore di moltissimi studi (ancora oggi fondamentali) sugli stati, la cultura e le popolazioni dell’Oriente europeo. I suoi vasti interessi di ricerca comprendevano la storia del Risorgimento e delle relazioni internazionali, quella del pensiero politico e religioso. Fra le sue monografie si ricordano in particolare Cavour e i Balcani, Torino, ILTE, 1958, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920), Milano, Vallardi, 1971 e Chiesa cattolica e Ortodossia russa. Due secoli di confronto e dialogo. Dalla Santa Alleanza ai giorni nostri, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1992. Per un profilo dell’uomo e dello studioso si rimanda a Francesco GUIDA, Angelo Tamborra, in «Rassegna storica del Risorgimento», XCI (2004), 4 (ottobre-dicembre), pp. 601-605. 3 Per maggiori indicazioni bibliografiche riguardanti la storiografia recente sui rapporti tra Risorgimento italiano ed Europa centro-orientale, si veda la sezione curata da Francesco GUIDA, L’Europa centro-orientale, in Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2001, Firenze, Olschki, 2003, vol. III, pp. 1833-1860. 145 Mazzini e l’Europa sud-orientale nella storiografia degli ultimi trent’anni Turchia,4 e quello di Stefan Delureanu sulla Romania.5 Come sottolineato dallo fl stesso Tamborra nell’introduzione, le popolazioni slave meridionali (in particolare serbi e croati) e romene si rivelarono particolarmente sensibili e ricettive della predicazione mazziniana.6 In effetti sono proprio questi due popoli che hanno attirato maggiormente l’attenzione della storiografia specializzata in tale argomento. Le motivazioni sono di vario tipo e non tutte sono riconducibili agli interessi dei singoli studiosi, come ha rilevato recentemente Francesco Guida.7 All’epoca in cui si colloca l’azione politica e la riflessione teorica di Mazzini, sia gli slavi del Sud sia i romeni erano divisi fra la dominazione ottomana e austriaca, pur esistendo forme di autonomia politica concesse a queste popolazioni dai governi turco e asburgico.8 La lotta contro la dominazione austriaca era dunque un elemento comune fra italiani, serbi, croati, romeni. Era quindi piuttosto naturale che, nei suoi disegni politici, Mazzini auspicasse l’unione e il coordinamento del moto nazionale italiano con quello dei popoli del Sud-est europeo. Affinché ciò avvenisse, era tuttavia necessario avere degli interlocutori in quelle regioni. Questo fu uno dei problemi più seri per il Genovese: l’allacciamento cioè di legami seri e stabili con i democratici di quelle popolazioni alle quali guardava con speranza e ottimismo. Non fu infatti casuale che con la progressiva affermazione della diplomazia ufficiale piemontese nei Balcani (a partire dalla missione Cerruti in Serbia nel 1849),9 i patrioti di quelle zone recepissero con maggiore speranza e fiducia i segnali e gli incoraggiamenti che provenivano da questa piuttosto che dagli emissari e inviati di Mazzini. In sostanza era necessaria un’élite politica di orientamento democratico con la quale avviare un programma di azione comune. Mentre con i romeni ciò avvenne già all’indomani del biennio rivoluzionario 1848-‘49, nel caso degli slavi balcanici contatti diretti e di un certo rilievo furono stabiliti solo a partire dagli anni Sessanta allorquando dei 4 Giuseppe PIERAZZI, Mazzini e gli slavi dell’Austria e della Turchia, in Mazzini e il mazzinianesimo…, cit., pp. 301-412. Si veda anche, dello stesso autore, Il pensiero e l’azione di Mazzini e Tommaseo nei confronti dei popoli balcanici (1830-1874), in «Revue des études sud-est européennes», 1976, tomo XIV, 2, pp. 283-287. 5 fl Stefan DELUREANU, Mazzini e la Romania, in Mazzini e il mazzinianesimo…, cit., pp. 413-479. 6 L’introduzione di Tamborra era apparsa poco tempo prima degli Atti citati, anche in un’altra pubblicazione. Si veda Angelo TAMBORRA, Mazzini e l’Europa orientale, in «Il Veltro», XVII (1973), 4-6 (agosto-dicembre), pp. 577-588. 7 Francesco GUIDA, Mazzini nella visione dei contemporanei e degli storici del Sud-est europeo, in Pensiero e azione: Mazzini nel movimento democratico italiano e internazionale, Atti del LXII Congresso di storia del Risorgimento italiano, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 2006, p. 505. 8 Esisteva ad esempio un Principato autonomo di Serbia nella regione a sud del Danubio con un proprio governo ma posto sotto l’alta sovranità ottomana. I Principati di Valacchia e Moldavia si trovavano in una situazione molto simile, ma, a differenza della Serbia, erano sottoposti anche al protettorato della Russia, in virtù delle disposizioni del trattato di Adrianopoli del 1829. Sulle vicende storiche delle popolazioni balcaniche nel XIX secolo si veda il ricco volume di A. TAMBORRA, L’Europa centro-orientale nei secoli XIX-XX (1800-1920)…, cit., e il profilo di Francesco GUIDA, La Russia e l’Europa centro-orientale 1815-1914, Roma, Carocci, 2003. 9 Si vedano Stefano MARKUS, La missione del console Marcello Cerruti nel 1849, in «Rassegna storica del Risorgimento», XXXVIII (1950), fasc. I-IV, pp. 287-304 e Pasquale FORNARO, Risorgimento italiano e questione ungherese (1849-1867). Marcello Cerruti e le intese politiche italo-magiare, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995. 146 Antonio D’Alessandri movimenti di tendenza spiccatamente democratica e repubblicana, influenzati profondamente dall’ideologia mazziniana, si affermarono nel Principato di Serbia e in Bulgaria (rispettivamente l’Omladina e la “Giovine Bulgaria”), secondo quanto fl osservato da Stefan Kieniewicz.10 Un recente studio di Stefan Delureanu ha gettato invece un po’ più di luce sui rapporti tra Mazzini e gli esuli romeni nell’ambito del Comitato centrale democratico europeo, fondato a Parigi nel luglio del 1850 e con sede a Londra.11 Per quanto riguarda invece la Grecia, l’impatto del mazzinianesimo fu piuttosto limitato, come è stato dimostrato in uno studio di Giuseppe Monsagrati, che ha fatto chiarezza su alcuni personaggi e momenti dell’emigrazione italiana in Grecia. Se da una parte alcuni esuli, come i fratelli Paolo e Carlo Fabrizi, al corrente della predicazione mazziniana, cercavano (Paolo in particolare) di farsene promotori in vista di una probabile ripresa della lotta per la nazionalità, dall’altra, sia nelle Isole Ionie che nella Grecia continentale, è stato rilevato il “carattere globalmente negativo di un quadro che non presenta elementi tali da consentire l’elaborazione di prospettive serie di lotta”.12 Questa lettura del contesto politico ellenico e corfiota in particolare, fondata sostanzialmente sulla testimonianza diretta della primavera del 1835 contenuta in alcune lettere di Emilio Usiglio (fratello di Angelo – uno dei fondatori della Giovine Italia – e inviato di Mazzini in Grecia al fine di porre le basi della Giovine Grecia), è stata a sua volta criticata da Silvio Pozzani secondo il quale “lo sconfortante panorama descritto dall’Usiglio è evidentemente esagerato e non corrisponde alla realtà effettiva, e deriva probabilmente dalla “lente deformante” delle difficoltà di ambientamento nell’isola [Corfù, n.d.r.] dei fratelli Fabrizi, Paolo e Carlo, amici dell’Usiglio”.13 Al di là dell’ambiente politico delle Isole Ionie (all’epoca sotto il protettorato britannico) anche Pozzani ha però ammesso una certa difficoltà di penetrazione delle idee mazziniane nel Regno ellenico (pienamente indipendente) a causa dell’ostilità del governo del re Ottone, che aveva espulso l’Usiglio nel 1835 e poi definitivamente nel 1837, causando così il naufragio del progetto della Giovine Grecia anche se mai “venne meno nel Genovese – conclude Pozzani – l’attenzione per la nuova Grecia e le relazioni intrattenute, anche in seguito, con attivi e fervidi elementi del mondo politico ellenico dovevano contribuire a produrre ulteriori sviluppi nei rapporti fra Risorgimento greco e Risorgimen- 10 fl Stefan KIENIEWICZ, La pensée de Mazzini et le mouvement national slave, in Mazzini e l’Europa, Roma, Accademia dei Lincei, 1974, p. 122. 11 fl Stefan DELUREANU, I democratici romeni e il Comitato Democratico Europeo (1850-1857), in Mazzini e gli scrittori politici europei (1837-1857), a cura di Salvo Mastellone, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2005, tomo II, pp. 583-597. 12 Giuseppe MONSAGRATI, Frammenti di vita d’esilio. I fratelli Fabrizi e le Isole Ionie (1831-1838), in «Bollettino della Domus Mazziniana», XXXVI (1990), 1, p. 27. Per ulteriori informazioni biografiche sui fratelli Fabrizi, si rimanda alle rispettive voci a cura dello stesso autore nel Dizionario biografico degli italiani, vol. XLIII, pp. 801-816. 13 Silvio POZZANI, La Giovine Europa e la Giovine Grecia, in «Bollettino della Domus Mazziniana», XXXVII (1991), 1, pp. 58-59. 147 Mazzini e l’Europa sud-orientale nella storiografia degli ultimi trent’anni to italiano”.14 Il pensiero di Mazzini sulla Grecia era peraltro già stato illustrato quasi un decennio prima nelle sue linee essenziali dallo stesso autore in due saggi, scritti all’indomani della fine della dittatura del regime dei colonnelli e dopo la firma dei trattati di adesione della Grecia alla Comunità europea.15 Si tratta di un’appassionata carrellata delle vicende che videro impegnati su un comune fronte per la democrazia, nel corso dei secoli XIX e XX, italiani e greci, fino a giungere alla fine della dittatura militare nel 1974 col ritorno alla democrazia della Grecia che, con referendum, scelse la repubblica.16 Completano il panorama degli studi recenti dedicati ai rapporti tra Mazzini e il mondo ellenico, due importanti lavori a firma di Giuseppe Monsagrati e di Antonis Liakos. Nel primo, l’autore mette a fuoco un problema molto importante della storiografia mazziniana, ma che fino a quel momento ancora non era stato affrontato in maniera sistematica, quello, ossia, dell’influenza della cultura greca sulla formazione intellettuale del giovane Mazzini. Scarsamente interessato allo studio della Grecia classica, il Genovese vedeva invece nella storia della lotta per l’indipendenza del popolo ellenico nel XIX secolo, il seme di una nuova epoca, nella quale i greci, finalmente liberatisi del peso schiacciante delle glorie dell’antichità, erano così in grado di soddisfare i loro bisogni reali, primo fra tutti quello di libertà e di istituzioni libere.17 Il pensiero di Mazzini sul mondo ellenico e i tentativi volti a stabilire rapporti di collaborazione politica e di alleanza con i patrioti greci è stato ricostruito anche da Antonis Liakos, in un importante volume dedicato alle relazioni tra Italia e Grecia nel XIX secolo, dove queste tematiche sono opportunamente inquadrate nell’ambito del sincronico processo di formazione dello Stato nazionale in Grecia e in Italia.18 In uno studio apparso nel 1996, lo stesso Liakos ha infine fornito un’interessante lettura dei moventi alla radice della difficile affermazione del mazzinianesimo presso i greci. Secondo questo studioso, mentre in Italia le idee di Mazzini fecero presa su quella parte della classe popolare composta da artigiani, operai qualificati e da chi esercitava una professione liberale, nella società greca invece, per la 14 Ibid., p. 60. Secondo Giuseppe Tramarollo, sebbene Mazzini progettò una Giovine Grecia “gli abitanti delle Isole Jonie non risposero, perché privi di ogni idea nazionale, ai tentativi di Emilio Usiglio, mentre i Greci del continente erano probabilmente troppo fieramente nazionalisti: le “eterie” avevano suscitato il filellenismo europeo ed infiammato il primo patriottismo proprio del Mazzini adepto carbonaro”. Giuseppe TRAMAROLLO, L’europeismo di Mazzini, in «Bollettino della Domus Mazziniana», XXX (1984), 1, p. 13. 15 Silvio POZZANI, Mazzini e la Grecia moderna, in «Il Risorgimento», XXX (1978), 1-2 (giugno), pp. 76-80 e ID., Risorgimento greco e Risorgimento italiano, in «Nord e Sud», XXVII (1980), 9 (gennaio-marzo), pp. 167-176. 16 Su queste vicende si rimanda a Richard CLOGG, Storia della Grecia moderna, Milano, Bompiani, 1998, pp. 189-206. 17 Giuseppe MONSAGRATI, Mito e realtà della Grecia nella formazione intellettuale di Giuseppe Mazzini, in Studi Balcanici, pubblicati in occasione del VI Congresso internazionale dell’Association Internationale Études Sud-Est Européennes (AIESEE) (Sofia, 30 agosto-5 settembre 1989), a cura di Francesco Guida e Luisa Valmarin, Roma, Carucci, 1989, pp. 155-179. 18 Antonis LIAKOS, L’unificazione italiana e la Grande idea. Ideologia e azione dei movimenti nazionali in Italia e in Grecia, 1859-1871, Firenze, Aletheia, 1995. 148 Antonio D’Alessandri maggior parte fatta di contadini, ciò non era potuto accadere. Il ceto popolare e quasi esclusivamente rurale della Grecia era invece legato alla cultura ortodossa e, quindi – scrive Liakos – “il nazionalismo popolare fu orientato, specialmente a partire dalla seconda metà del XIX secolo, verso la religione e le idee conservatrici, e di conseguenza chiuso a quel tipo di nazionalismo democratico-popolare impersonato da Mazzini”.19 Strettamente connessa alla questione ellenica, è la concezione mazziniana dell’Albania. Secondo il Genovese infatti il popolo delle aquile era parte della Grecia, il cui assetto territoriale doveva essere il seguente: “L’Ellenia (Grecia) con l’Epiro, la Tessaglia, l’Albania, la Macedonia, la Rumelia, sino ai monti Balcani, e inclusa Costantinopoli”.20 Tale convinzione, ribadita anche in altri scritti, si radicava nell’idea che la lingua albanese fosse una variante dialettale dell’idioma greco: “Ellenica – dacché l’Albanese non è se non un dialetto Greco misto di vocaboli slavi e romani – è l’Albania”.21 Bisogna inoltre precisare che il risveglio nazionale albanese fu un fenomeno tardivo rispetto a quello delle altre popolazioni balcaniche e iniziò a dare le prime significative manifestazioni solo negli ultimi tre decenni del secolo XIX e, come noto, la morte colse Mazzini nel marzo 1872. Egli dunque non fece in tempo ad assistere alle prime rivendicazioni del movimento nazionale albanese, le quali, peraltro tenacemente preparate e stimolate dalle ricerche di alcuni intellettuali negli anni precedenti,22 presero l’avvio solo dopo il congresso di Berlino (1878). La più importante di queste manifestazioni fu la Lega di Prizren, attraverso cui le tribù e i clan unirono le loro forze per opporsi alle decisioni del congresso in merito al trasferimento di territori (albanesi) dell’Impero turco a Montenegro e Grecia. La resistenza opposta dai maggiorenti albanesi alle decisioni prese a Berlino riguardanti il loro territorio non ebbe successo ma li rese più coscienti della loro nazionalità.23 Alla luce di queste considerazioni, non deve stupire che nella storiografia (italiana e internazionale) non abbiano trovato spazio contributi specifici su Giuseppe Mazzini e l’Albania. Una situazione totalmente diversa si riscontra invece nel caso romeno, come peraltro è già stato accennato. I numerosi studi firmati da Stefan Delureanu si configurano come un punto di riferimento indispensabile per tutti coloro che si occupano dei rapporti tra mazzinianesimo e Romania. Dopo ilflgià citato ampio studio 19 Antonis LIAKOS, Mazzini e la Grecia, in Il mazzinianesimo nel mondo, a cura di Giuliana Limiti, con la collaborazione di Mario di Napoli, Francesco Guida, Giuseppe Monsagrati, Pisa, Istituto Domus Mazziniana, 1996, vol. II, p. 258. 20 Lettera di Giuseppe Mazzini a Jessie M. White Mario, Londra, 23 marzo 1857, in Edizione nazionale (d’ora innanzi EN), Imola, Galeati, 1931, vol. LVIII, epistolario vol. XXIV, p. 43. 21 Giuseppe MAZZINI, Missione italiana. Vita internazionale [1866], in EN, vol. LXXXVI, politica vol. XXVIII, p. 9. 22 Si pensi, ad esempio, agli studi albanesi Girolamo De Rada (1814-1903), risalenti già al 1834, e a quelli di Demetrio CAMARDA, Saggio di grammatologia comparata sulla lingua albanese, Livorno, Vignozzi, 1864 e di Dora D’ISTRIA, La nationalité albanaise d’après les chants populaires, in «Revue des deux mondes», vol. LXIII, XXXVI (1866), 15 maggio, pp. 382-418. Sul De Rada ancora molto utile è Michele MARCHIANÒ, L’Albania e l’opera di Girolamo De Rada, Trani, V. Vecchi, 1902; si veda anche Francesco ALTIMARI, Gli esordi letterari in lingua albanese di Girolamo De Rada, in «Microprovincia», 2003, 41, pp. 24-50. 149 Mazzini e l’Europa sud-orientale nella storiografia degli ultimi trent’anni del 1974 apparso in occasione del congresso di Genova (1972), l’autore ha continuato a proporre contributi finalizzati al chiarimento di specifici aspetti di tale questione. Si apprende dunque da questi lavori come la funzione dei Principati romeni nel pensiero mazziniano sia stata subalterna fino al 1848, poiché essi erano visti in un rapporto di dipendenza dall’Ungheria, centro di una futura confederazione danubiana, attorno alla quale sarebbero dovuti orbitare.24 Tale situazione muterà all’indomani del biennio rivoluzionario, quando Mazzini, convinto della necessità di riorganizzare il movimento democratico e rivoluzionario dell’Europa, riproporrà il progetto di unione delle nazioni fondando il Comitato centrale democratico europeo, nel quale, come si è accennato, troverà posto anche un rappresentato rome25 ˇ Sarà proprio a costui che, alla morte di Mazzini, toccherà no, Dimitru Bratianu. l’onore di ricordarlo sul giornale «Românul» (Il Romeno). L’elogio funebre è stato tradotto in italiano e pubblicato dallo stesso Delureanu in uno studio apparso nel «Bollettino della Domus mazziniana».26 L’attenzione verso le fonti originali, soprattutto inedite, è un altro tratto distintivo dei lavori di questo studioso, al quale va dunque riconosciuto il merito di aver scoperto, utilizzato e pubblicato documenti quasi del tutto ignorati dagli storici, ma di notevole interesse, poiché in grado di fare luce su specifici aspetti del pensiero e dell’azione di Mazzini nei riguardi dei romeni e dell’Europa danubianobalcanica in generale. A questo proposito, di grande importanza è il tema della penetrazione delle idee mazziniane nei Principati prima della rivoluzione del 1848. In un articolo ricco di spunti e informazioni, Delureanu ha dimostrato che essa avvenne attraverso molteplici modalità: “dalla lettura dei testi mazziniani a quella della stampa democratica, dai contatti con l’emigrazione polacca e italiana a quelli con i marinai delle navi a bandiera sarda […], che più di frequente approdavano ai lidi del Basso Danubio, facilitando l’incontro fra i democratici di ogni nazione”.27 La funzione della stampa nel far conoscere al pubblico dei Principati danubiani Mazzini e le sue idee è stata studiata in maniera approfondita da Alberto Basciani.28 23 Stavro SKENDI, The Albanian National Awakening 1878-1912, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 1967, pp. 31-87. 24 Stefan fl DELUREANU, I romeni nel pensiero e nei programmi d’azione di Mazzini, in «Archivio Trimestrale», XI (1985), 4 (ottobre-dicembre), p. 792. Articolo reperibile anche negli Atti del Colloquio 150 ans depuis la fondation de la société “Giovine Europa”, in «Revue roumaine d’histoire», tomo XXIV, 1985, 4 (ottobredicembre), pp. 323-329. Si veda anche l’articolo di Dan BERINDEI, Les Roumains et Giuseppe Mazzini, in ibid., pp. 313-322. 25 fl Stefan DELUREANU, I democratici romeni e il Comitato Democratico Europeo (1850-1857)…, cit. 26 fl Stefan DELUREANU, Un protagonista romeno della democrazia mazziniana: Dimitru Bratianu (1818ˇ 1892), in «Bollettino della Domus Mazziniana», XXXIX (1993), 2, pp. 152-160. 27 fl Stefan DELUREANU, Il mazzinianesimo nell’Europa orientale prima del ’48: il caso della Romania, in «Archivio Trimestrale», XII (1986), 1 (gennaio-marzo), p. 62. 28 Alberto BASCIANI, Mazzini nella stampa romena dell’Ottocento, in Il mazzinianesimo nel mondo…, cit., fl vol. I, pp. 259-327. Si veda anche di Stefan DELUREANU, Il Risorgimento italiano nella stampa romena, in Saggi di storia del giornalismo in memoria di Leonida Balestreri , Savona, Tip. Priamar, 1982 (Quaderni dell’Istituto mazziniano, II), pp. 319-329. 150 Antonio D’Alessandri Attraverso l’analisi dei giornali romeni dell’epoca, egli ha ricostruito le modalità attraverso le quali il Genovese era presentato ai lettori, a partire dal febbraio 1834 fl Albina Româneasca, diede notizia della spedizione in quando il giornale di Iasi, Savoia. Alla luce di queste ricerche è corretto dunque affermare che, nonostante contatti diretti tra Mazzini e i patrioti romeni risalissero soltanto al periodo dopo il 1848 (tema sul quale si deve peraltro registrare anche un contributo di Cornelia Bodea),29 la diffusione delle sue idee e di notizie che lo riguardavano si riscontra già a partire dagli anni Trenta del XIX secolo. In questo modo, “la fede e la terminologia mazziniana conquistarono l’opinione romena, le idee promosse da Mazzini presero corpo in organizzazioni simili alla Giovine Italia e al Partito d’Azione”, ha scritto Delureanu.30 Sintesi e al tempo stesso simbolo di questa tendenza, è lo storiˇ co e uomo politico Nicolae Balcescu (1819-1852), il quale, nonostante non abbia mai incontrato personalmente Mazzini, è stato “il Romeno più profondamente familiarizzato con la dottrina mazziniana, da lui coerentemente professata sul piano dell’elaborazione teorica ed in quello dell’esperienza storica”.31 Una significativa parte della produzione scientifica di Delureanu è infine dedicata ai programmi d’azione concepiti non solo da Mazzini ma anche da Garibaldi e i suoi collaboratori nell’area centro-orientale e, naturalmente, nei Principati danubiani.32 In questo contesto, particolarmente interessante è una lettera inedita di Mazzini al romeno Eugen Carada, conservata presso la Biblioteca dell’Accademia romena di Bucarest e pubblicata dallo studioso con una breve introduzione nella quale egli mette in luce la parte tutt’altro che secondaria svolta dal Carada nelle cospirazioni e nei tentativi mazziniani di fondere le aspirazioni italiane con quelle dei popoli dell’Europa centro-orientale, in particolare nel vasto piano mazzinianogaribaldino-sabaudo che doveva coinvolgere nel 1864 mezza Europa.33 L’illustre Genovese esortava i romeni alla concordia, ad intendersi con i greci e gli slavi della Serbia e ad organizzare un contatto regolare con i romeni della Transilvania, del Banato, della Bucovina, della Bessarabia. Bisognava cercare l’intesa con gli ungheresi e non si doveva discutere di questioni in quel momento inutili (il riferimento era alla questione transilvana contesa da magiari e romeni), che rischiavano di crea- 29 Cornelia BODEA, “Interferenze” rivoluzionarie romeno-mazziniane dopo il 1848, in Risorgimento: Italia fl CIRSS-Editura Anie Romania 1859-1879. Esperienze a confronto, a cura di Giulia Lami, Milano-Bucaresti, ma, 1992, pp. 235-242. 30 S. DELUREANU, Il mazzinianesimo nell’Europa orientale prima del ’48: il caso della Romania…, cit., p. 49. 31 SflTEFAN DELUREANU, Mazzini e Balcescu, in «Il pensiero mazziniano», XXXIII (1978), 9 (25 settembre), p. 51. 32 Si vedano i seguenti contributi: Progetti d’azione di Mazzini e di Garibaldi nell’area centro-orientale europea (1859-1866), in «Archivio storico sardo», XXXIV (1983), 1, pp. 177-188; Mazzini e Garibaldi tra progetto e azione nell’area centro-orientale (1859-1870), in «Revue roumaine d’histoire», tomo XXII, 1983, 2 (aprile-giugno), pp. 159-168; Il mondo romeno di fronte a Mazzini, a Garibaldi e all’impresa dei Mille, in «Archivio Trimestrale», IX (1983), 3 (luglio-settembre), pp. 567-576. 33 fl Stefan DELUREANU, “Consigli di un fratello”: una lettera inedita di Mazzini al repubblicano romeno Eugen Carada, in «Bollettino della Domus Mazziniana», XXXVIII (1992), 1, pp. 109-112. 151 Mazzini e l’Europa sud-orientale nella storiografia degli ultimi trent’anni re di nuovo una spaccatura fra le nazioni a beneficio dell’assolutismo degli imperi (asburgico e ottomano). “Ce sont là les conseils d’un frère, rien de plus”, concludeva affettuosamente Mazzini. fl L’itinerario di studio e di ricerca di Stefan Delureanu è, a mio avviso, il dato più significativo della storiografia dei rapporti tra Mazzini e l’Europa sud-orientale negli ultimi trent’anni, non soltanto per l’ampiezza della produzione, ma anche per i nuovi spunti di riflessione offerti al lettore, che nei suoi scritti è altresì sicuro di trovare numerose indicazioni e suggerimenti per svolgere ulteriori ricerche originali. Mi sia permesso auspicare una raccolta e una complessiva rielaborazione e sistemazione dei numerosi scritti di questo autore dedicate a Mazzini e la Romania che darebbero vita a un volume di sicura qualità.34 Di valore consistente, sebbene quantitativamente minore rispetto al caso romeno, è la produzione scientifica concernente un altro gruppo di popolazioni a cui Mazzini prestò particolare attenzione, ossia gli slavi balcanici. I contributi più significativi concernenti le popolazioni jugoslave sono quelli dello studioso serbo Nik‰a Stipãeviç e di Tatjana Krizman Malev. Il primo, autore di un volume fondamentale per la storia dei rapporti tra l’Italia e la Serbia nel XIX secolo, ha ricostruito in maniera accurata il rapporto personale e ideologico tra Giuseppe Mazzini e Vladimir Jovanoviã (1833-1922).35 Il Genovese ebbe un’influenza determinante sul pensiero di questo personaggio, figura chiave della Serbia della seconda metà dell’Ottocento, ed esponente di punta del raggruppamento liberale, che chiedeva riforme radicali in senso democratico del sistema politico del Principato. L’ideologia politica dei liberali serbi degli anni Sessanta, raggruppati intorno all’associazione culturale studentesca dell’Ujedinjena omladina srpska (Gioventù serba unita), all’incirca l’equivalente serbo della Giovine Italia, presenta notevoli punti di convergenza col pensiero mazziniano. In Jovanoviã e nella sua cerchia, Mazzini aveva finalmente trovato il punto d’appoggio per le proprie iniziative rivoluzionarie, nonché degli interlocutori attenti alla sua predicazione, i quali, fino ad allora, gli erano mancati. Infatti nel Principato di Serbia non esisteva una borghesia illuminata che potesse fare proprie e tradurre in azione politica le idee mazziniane e dunque, fino alla fine degli anni Cinquanta, come ha osservato ancora Stipãeviç in un altro studio, il mazzinianesimo rimase un’utopia.36 34 Un segnale positivo in questa direzione è un recente volume edito sotto gli auspici dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli: Stefan DELUREANU, Risorgimento italiano e Risorgimento romeno, Napoli, La città del sole, 2005. Per un compendio delle principali questioni si vedano dello stesso autore Mazzini e i mazziniani romeni nel Risorgimento centroeuropeo e balcanico, in Il mazzinianesimo nel mondo…, cit., vol. II, pp. 155-227 e Il mazzinianesimo romeno nel Risorgimento e nella democrazia europea, in Italia e Romania nell’Europa moderna, a cura di Gianfranco Giraudo e Francesco Guida, in «Letterature di frontiera», VII (1997), 2, pp. 21-30. 35 Nik‰a STIPãEVIç, Dva preporoda. Studije o italijansko-srpskim kulturnim i politi ãkim vezama u XIX veku, Beograd, Prosveta, 1979, pp. 105-169. 36 Nik‰a STIPãEVIç, Serbia e Italia nel XIX secolo, in «Quaderni giuliani di storia», XXI (2000), 1, p. 12. 152 Antonio D’Alessandri Nell’ambito dei recenti studi su Mazzini e l’Europa orientale, un ruolo di primo piano è stato rivestito dai due volumi (peraltro già citati qui in più occasioni) dal titolo Il mazzinianesimo nel mondo, curati da Giuliana Limiti, la quale, nell’introduzione, ha sottolineato “come il termine “mazziniano” viene ovunque ad identificare, ora positivamente, ora polemicamente, quella parte politica rivoluzionaria che si rifà alla democrazia e al radicalismo repubblicano”.37 Attraverso le ampie ricerche contenute in quei due volumi, è stato fornito un importante contributo alla ricostruzione dell’influenza mazziniana nell’evoluzione democratica di vari Paesi del mondo. Per quanto riguarda l’Europa sud-orientale, si è precedentemente data fl notizia dei saggi di Alberto Basciani (nel primo volume) e di quelli di Stefan Delureanu e di Antonis Liakos (apparsi entrambi nel secondo); restano ora da ricordare quelli rispettivamente di Ljubinka To‰eva Karpowicz, della già menzionata Tatjana Krizman Malev e infine di Krumka ·arova e Ludmila Genova dedicato alla Bulgaria. Mentre la prima ha tracciato nel suo scritto una panoramica del pensiero e dell’influenza di Mazzini fra i serbi,38 la seconda ha invece esteso l’analisi anche alle popolazioni croate, arricchendo così questo scenario con una complessiva analisi del rapporto tra l’illustre Esule e le popolazioni jugoslave nel loro insieme, della cui integrazione egli fu peraltro un precursore. Apparso in un momento in cui la Jugoslavia si avviava ormai inevitabilmente alla sua completa dissoluzione, il saggio della Krizman Malev ripercorre alcune fasi del processo di integrazione delle varie popolazioni slave del Sud attraverso l’opera e il pensiero di Giuseppe Mazzini.39 Completa il quadro degli studi dedicati al tema oggetto di questo articolo, l’ampio e originale studio di Krumka ·arova e Ludmila Genova dedicato al movimento nazionale bulgaro nelle sue relazioni col mazzinianesimo. L’attenzione limitata della storiografia nei riguardi di tale questione si spiega in parte (ma non del tutto) con il relativo ritardo col quale si ebbero contatti diretti fra Mazzini ed esponenti del movimento nazionale bulgaro (1869). Nonostante il Genovese fosse ben noto ai rivoluzionari e presente sulla stampa locale, l’assenza, nei luoghi dove Mazzini viveva, di una consistente emigrazione bulgara che invece era tale in Romania, Serbia e Russia, pesò molto sui suoi rapporti con questa popolazione. Attraverso la stampa e i politici del Principato di Serbia (assai interessanti sono le pagine dedicate dalle due autrici al rapporto tra Jovanoviã e Karavelov) molti bulgari vennero in contatto con le idee di Mazzini. Nei primi mesi del 1869 fu poi creata la Giovine Bulgaria, i cui adepti divennero in seguito membri del Comitato Centrale rivoluzionario bulgaro (ovvero il partito rivoluzionario) che diresse la lotta nazionale di questa popolazione fino al 1876 (ossia alla crisi che condusse poi alla formazione di 37 Giuliana LIMITI, La presenza di Mazzini nel mondo, in Il mazzinianesimo nel mondo…, cit., vol. I, p. IX. Ljubinka TO‰EVA KARPOWICZ, Mazzini e il Risorgimento serbo (1848-1878), in Il mazzinianesimo nel mondo…, cit., vol. II, pp. 513-567. 39 Tatjana KRIZMAN MALEV, Mazzini e il processo d’integrazione nazionale dei popoli jugoslavi, in Il mazzinianesimo nel mondo…, cit., vol. I, pp. 329-383. 38 153 Mazzini e l’Europa sud-orientale nella storiografia degli ultimi trent’anni uno Stato bulgaro indipendente nel 1878). Scrivono la ·arova e la Genova che “la teoria politica di Mazzini arriva ai bulgari per via indiretta, non come risultato di contatti personali e di azioni coordinate e simultanee contro gli Stati oppressori, la Turchia per il popolo bulgaro e l’Austria per gli italiani. Ma proprio per questo il caso bulgaro è una testimonianza della grande importanza delle idee di Mazzini per l’Europa, per ogni movimento nazionale e per tutti i movimenti insieme”.40 L’influenza mazziniana sui patrioti bulgari, esaminata anche in una serie di parallelismi tra l’Esule genovese e il rivoluzionario Vasil Levski (1837-1873), non ultimo quello dell’appellativo di “apostoli della libertà” attribuito al secondo sull’esempio del primo, è stata oggetto di un interessante saggio della studiosa Kirila Vâzvâzova Karateodorova.41 Modesta dunque è stata finora la produzione storiografica recente riguardante i rapporti tra Mazzini e la Bulgaria, soprattutto se la si paragona a quella relativa alle relazioni con i romeni. In conclusione, possono tuttavia essere svolte alcune riflessioni complessive, cioè valide per tutta l’area in questione ma che assolutamente non vogliono avere carattere definitivo. Ad esempio il ruolo degli emissari e degli inviati di Mazzini nei Balcani come già segnalato più di venti anni fa da Emilia Morelli,42 ancora è tutto da chiarire. In proposito sarebbero necessarie lunghe e accurate indagini in loco tese ad accertare l’effettiva e reale consistenza della presenza mazziniana fra serbi, croati, bulgari, bosniaci, romeni, greci. Molto è stato fatto ma probabilmente ancora molto si potrebbe fare. Un tentativo di sistemazione delle ricerche finora disponibili su Mazzini e l’Europa orientale per operare una sorta di riduzione al minimo comune denominatore della credibilità scientifica dei materiali fin qui prodotti sul tema, è stato effettuato da Francesco Guida, il quale ha concluso che “se Mazzini fu un ideologo le cui idee furono comprensibili e condivisibili in qualsiasi Paese, in particolare il suo pensiero era adatto alla condizione di quei popoli che non avevano potuto ancora, nel secolo XIX, realizzare un proprio Stato nazionale”.43 Proprio a partire da questa riflessione, che è forse il dato inoppugnabile che finora la storiografia specializzata ha dimostrato con abbondanza di dati, sarebbe opportuno che nuove e originali ricerche prendessero le mosse con l’obiettivo di chiarire il più possibile da un lato l’effettiva incidenza del mazzinianesimo sull’evoluzione democratica delle popolazioni dell’Europa orientale e, dall’altro, il suo retaggio ideale e politico.44 Proprio l’eredità mazziniana nella storia, nella 40 Krumka ·AROVA – Ludmila GENOVA, Il movimento nazional-rivoluzionario bulgaro e le idee di Mazzini, in Il mazzinianesimo nel mondo…, cit., vol. II, p. 365. 41 Mazzini e Levski: Apostoli della libertà, in «Quaderni giuliani di storia», XVII (1996), 1, pp. 39-47. 42 Emilia MORELLI, Mazzini. Quasi una biografia, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, p. VIII. 43 Francesco GUIDA, Idea di nazione e questione delle nazionalità nel pensiero di Giuseppe Mazzini, in «Cuadernos de Historia Contemporánea», 2001, 23, p. 175. 154 Antonio D’Alessandri politica e nella cultura è un ulteriore immenso campo di indagine sul quale davvero si potrebbero ancora svolgere ricerche di grande spessore.45 Il messaggio di Giuseppe Mazzini fu infatti interpretato e assimilato attraverso modalità differenti in vari momenti storici, talvolta implicando anche degli sviluppi negativi di certo non imputabili a colui che ne fu l’ispiratore (si pensi ad esempio al fanatismo dell’appartenenza nazionale). Questo lascito ideale si dimostrò particolarmente fecondo per le popolazioni dell’Europa orientale, che seppero ricavarsi un loro posto nella storia anche in nome e sotto l’influenza degli ideali che già erano stati di Mazzini molti decenni prima: “Ritemprare la nazionalità e metterla in armonia coll’Umanità: in altri termini redimere i popoli colla coscienza d’una missione speciale fidata a ciascuno d’essi e il cui compimento, necessario allo sviluppo della grande missione umanitaria, deve costituire la loro individualità e acquistare ad essi un diritto di cittadinanza nella Giovine Europa che il secolo fonderà”.46 Parole indiscutibilmente profetiche. 44 Recentemente è stata proposta una visione molto interessante dell’eredità politica di Mazzini, sulla quale peraltro si potrebbe discutere a lungo. Secondo questa interpretazione, il Genovese elaborò una “geopolitica della libertà” di ispirazione democratica, seppur non esente da qualche incoerenza (soprattutto per quanto riguarda l’omogeneità etnica delle nazioni – presupposta da Mazzini – che non teneva nel giusto conto le minoranze). Le linee generali di tale “geopolitica della libertà” sarebbero continuate ad essere presenti a lungo nella politica estera italiana verso l’Europa centro-orientale. Si veda Bianca VALOTA, Giuseppe Mazzini’s “Geopolitics of Liberty” and Italian Foreign Policy toward “Slavic Europe”, in «East European Quarterly», XXXVII (2003), 2 (giugno), pp. 151-166. È bene osservare che di “geopolitica democratica”, a proposito delle pagine mazziniane dedicate alla nuova carta d’Europa, aveva tuttavia già parlato Cosimo Ceccuti alcuni anni fa. Si veda Cosimo CECCUTI, L’Ungheria negli scritti di Mazzini: le tentazioni della geopolitica, in Le relazioni italo-ungheresi nel secolo XIX, «Rassegna storica toscana», XXXIX (1993), 2 (luglio-dicembre), pp. 231-242. 45 Alcuni suggerimenti di un certo interesse, in particolare sull’eredità mazziniana nell’area adriatica, nel volume Mazzini e il mazzinianesimo nel contesto storico centroeuropeo, a cura di Gizella Nemeth, Adriano Papo e Fulvio Senardi, Duino Aurisina (TS), Associazione culturale italoungherese “Pier Paolo Vergerio”, 2005. 46 Giuseppe MAZZINI, Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa [1834], in EN, vol. IV, politica vol. III, p. 180. 155 156 Saggi 158 Domenico Della Martora La Carta costituzionale delle relazioni sindacali di Domenico Della Martora La più consistente correzione dei conti pubblici mai realizzatasi, 93 mila miliardi di vecchie lire, viene varata alla fine del 1992 con la finanziaria del 1993 del Governo Amato. Una manovra dura, ma necessaria, pari al 5,8 % del Prodotto Interno Lordo (P.I.L.). Il debito pubblico che nel 1982 era pari al 64 % del P.I.L., in quelle drammatiche giornate risulta essere al 110,8 %. Il deficit si colloca sopra il 10 % del prodotto interno lordo. Il conto di un decennio di gestione senza regole della finanza pubblica è servito. È il decennio della cosiddetta “finanza allegra”. La “maximanovra Amato” è stata preceduta in luglio da una stangata di 30 mila miliardi di lire (è compresa, tra l’altro, l’odiosa patrimoniale del 6 per mille sui depositi bancari). La finanziaria del ’93 contiene tra le misure ormai storiche il blocco dei contratti pubblici e delle pensioni di anzianità, la tassa dello 0,75 % sul patrimonio netto delle società di persone e di capitali, il congelamento dello scatto di contingenza per i pensionati, il blocco del fiscal drag, la minimum tax per i lavoratori autonomi. Per dare respiro strutturale alla manovra si aggiungono quattro leggi deleghe: pubblico impiego, sanità, previdenza e finanza locale. Nei primi mesi del ’93 il Presidente Scalfaro chiama l’allora Governatore della Banca d’Italia Ciampi a traghettare il Paese nel difficile passaggio alla cosiddetta seconda Repubblica. Ha inizio il consolidamento del risanamento. Buona parte dei risparmi sono affidati al “pacchetto Cassese”, che prende il nome del ministro della Funzione pubblica. Senza ombra di dubbio, possiamo però affermare che il contributo decisivo al risanamento, Ciampi lo raggiunge con l’accordo del 23 luglio 1993. La Carta costituzionale delle relazioni sindacali di Gino Giugni, illustre giuslavorista e ministro del Lavoro, definisce questo accordo. Un risultato straordinario, frutto di un lavoro lungo e complesso che è iniziato con la disputata abolizione della scala mobile ratificata dal “miniaccordo” del dicembre 1991 durante il Governo Andreotti. In questi anni i partiti politici non sono più in grado di assolvere alla loro 159 La Carta costituzionale delle relazioni sindacali funzione cardine di mediazione sociale. Il sindacato deve ricoprire ruoli e spazi lasciati liberi dalle organizzazioni politiche. Storicamente nei momenti di emergenza il sindacato è sistematicamente chiamato a dare il proprio contributo alle risoluzioni delle crisi, spesso deve pagare prezzi non indifferenti in termini di consensi, ma accetta comunque la sfida lanciata da Ciampi dando inizio alla stagione della concertazione. Quale modello politico di gestione concordata dei processi economici e sociali, la concertazione è figlia sia della concezione “lamalfiana” della politica dei redditi, sia dell’idea di un sistema contrattuale basato sull’inflazione programmata concepita dall’economista Ezio Tarantelli. La riduzione del conflitto sociale è in questo periodo la sfida più impegnativa. Ogni organizzazione sindacale, in relazione alla propria identità, fornisce le sue risposte. La componente più operaista, figlia del conflittualismo degli anni ‘70 e ‘80 non ha gli enzimi per metabolizzare quella politica e non può di conseguenza rinunciare all’identità antagonista. Il sistema di regole su cui si basa la concertazione non può appartenere a quella specifica realtà del mondo del lavoro. Non hanno, al contrario, alcuna difficoltà ad appoggiare quel modello le associazioni riformiste. Le parti sociali con questa nuova impostazione partecipano concretamente alle sessioni di politica economica: a giugno, in occasione della preparazione del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (DPEF) e a settembre con la presentazione della finanziaria. Mutuando la terminologia dalla prassi tedesca possiamo dire che il sindacato viene chiamato a “cogestire” la politica economica e sociale del nostro Paese. Il modello di confronto che ha come obiettivo il risanamento si fonda sul controllo del Tasso di Inflazione Programmata (T.I.P). La nuova politica economica è legata alla dinamica salariale; la crescita del salario non è più, quindi, una variabile indipendente, ma diventa funzione di una decisione di politica economica congiunta, rapportata al tasso di inflazione programmata. Questa decisione è parte della più ampia manovra della politica dei redditi che si prefigge anche il controllo dei prezzi e delle tariffe. Il sindacato deve, in qualche modo, nel contesto della politica contrattuale, controllare la dinamica salariale. Il modello simbolicamente potrebbe essere immaginato a forma piramidale. Al vertice si colloca il tasso di inflazione programmata che sostiene il sistema contrattuale; nel mezzo, e alla base la politica dei redditi. La concertazione si può immaginare come una sfera che contiene il tutto. L’accordo sostituisce il metodo negoziale al sistema degli adeguamenti automatici. Ogni automatismo è la negazione dell’essenza dell’accordo stesso. Il fine è quello di evitare una ripresa della rincorsa tra prezzi e salari. 160 Domenico Della Martora Il protocollo si occupa, quindi, delle procedure di rinnovo e stipulazione dei contratti prevedendo la “vacanza contrattuale” in caso di non rispetto dei tempi. Si tratta però di un rimedio poco efficace, ma che riesce a produrre ottimi risultati nel triennio 1993/’95; tre anni che fanno registrare risultati significativi sul fronte dell’inflazione e del risanamento. Il simbolo di questa nuova stagione è rappresentato dal contratto dei metalmeccanici del 1994, firmato senza far ricorso ad un’ora di sciopero. La crisi della concertazione comincia a manifestarsi nel 1998. Ancora una volta, il contratto dei metalmeccanici fa da cartina di tornasole. Il convincimento della necessità di apportare delle modifiche al patto rende molto sofferta la stipula del nuovo contratto con numerose ore di sciopero. Intanto il Governo D’Alema, nella stessa legislatura, sostituisce quello di Prodi. È di questo periodo la firma del “Patto di Natale”, da cui però non si hanno i risultati sperati. Nel maggio del 1999 il barbaro assassinio del professor Massimo D’Antona, consulente del ministro del lavoro Bassolino e tre anni dopo quello di un altro riformista, il professor Marco Biagi, autore del Libro Bianco, ad opera delle Brigate Rosse, riportano il Paese in un clima di tensione e di paura. Nel 2001 torna alla guida del Paese un governo di centrodestra. È eloquente il suo biglietto di presentazione: sostituzione della concertazione con il dialogo sociale e modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Quest’ultimo, in particolare, è diventato il simbolo, l’emblema del conflitto, della sospensione della concertazione. Dopo diversi scioperi unitari, la CGIL di Sergio Cofferati sceglie la via solitaria, inasprendo ulteriormente il conflitto sociale. Qualsivoglia messa in discussione dei diritti fondamentali dei lavoratori, sostiene la CGIL, non permette nessun tipo di discussione. Al contrario, CISL e UIL ritengono necessario discutere ed accordarsi proprio per evitare che le tutele possano subire un ridimensionamento. Con la firma del “Patto per l’Italia” si punta ad evitare proprio questo: la reale modifica dell’art. 18. Due gli obiettivi perseguiti: non causare ulteriori danni e non rischiare di peggiore la condizione dei lavoratori e il rilancio di una politica anticiclica. Ogni buon sindacato che voglia fare il suo mestiere, non può abbandonare la ricerca di un denominatore comune tra interessi diffusi e interessi collettivi e generali, specie in considerazione delle gravi emergenze contingenti. L’abbandono della concertazione e la sua sostituzione con il dialogo sociale più volte sostenuto dai rappresentanti del Governo Berlusconi, specie nelle occasioni di presentazione del Libro Bianco di Biagi, porta con sé un inevitabile corollario. Senza concertazione non c’è più politica dei redditi e di conseguenza la politica contrattuale è ridotta ad un libero confronto tra due parti senza alcun parametro di riferimento. L’errore di fondo del Governo di centrodestra è molto probabilmente la con161 La Carta costituzionale delle relazioni sindacali vinzione che la concertazione sottende un diritto di veto il cui esercizio da parte di uno qualsiasi dei contraenti impedirebbe la realizzazione delle riforme. In realtà il Protocollo del luglio del ’93, non solo non prevede ma neanche sottintende, alcuna unanimità per procedere alla stipula degli accordi. L’eventuale accettazione di un diritto di veto è frutto di una scelta di opportunità politica che, di volta in volta, il Governo è libero di assumersi. La pratica concertativa, dobbiamo prendere atto, ha avuto la sua massima affermazione con i governi di centrosinistra. Non sappiamo se ciò sia la conseguenza di una sorta di affinità politica o invece di valutazioni squisitamente politicoelettorali. Il dialogo sociale si traduce in una sorta di mero intrattenimento nel corso del quale sono semplicemente comunicate dal Governo alle parti sociali le scelte già predefinite. Occorre, invece, che venga riempito di contenuti e di regole se si vuole che diventi uno strumento di partecipazione per accordi di politica economica e sociale. Peculiarità caratterizzante della concertazione è la sua concreta attuazione nelle due sessioni di politica economica: a giugno per il varo del DPEF ed a settembre per la presentazione della legge finanziaria. Occorre riavviare un sistema di relazioni sindacali trilaterale e poco importa se bisogna definirlo concertazione o dialogo sociale. È importante, invece, fissare un obiettivo da perseguire e precisare dei contenuti. Concertazione o dialogo sociale svuotati di argomenti e senza obiettivi da conseguire sono dei meri contenitori vuoti. Attualmente, però, l’obiettivo prioritario non è più quello del risanamento che dovrà essere sostituito con quello dello sviluppo. Il tasso di inflazione programmata non ha più motivo di essere il centro della politica salariale; occorre introdurre altri punti di riferimento. Sul piano del sistema contrattuale vanno individuate altre forme più efficaci di ripartizione della ricchezza prodotta anche in funzione dei cambiamenti imposti sia dalla globalizzazione sia dalle spinte localistiche. Alla politica dei redditi va accompagnata una politica per gli investimenti e per le infrastrutture. Solo l’effettivo coinvolgimento di tutte le forze sociali può realizzare l’obiettivo dello sviluppo, così come è stato conseguito quello del risanamento. Larizza sostiene che “la politica dei redditi si può fare solo con la concertazione, se la concertazione è in crisi, lo è anche la politica dei redditi. Se salta la concertazione, saltano i riferimenti macroeconomici, salta la compatibilità e si ritorna alla contrattazione basata solo sui rapporti di forza senza un parametro di riferimento universale. Qualcuno avrà più dell’inflazione reale qualcuno avrà l’inflazione reale. Se c’è chi vuole che in Italia si ritorni ad un livello di inflazione alta, basta che decide di abbandonare la concertazione e quindi la politica dei redditi. A questo punto possiamo pure uscire dall’Europa”. 162 Domenico Della Martora La concertazione sta attraversando una crisi profonda dovuta ai cambiamenti politici ed economici nazionali ed internazionali. Il Governo perde sempre più il potere di tenere sotto controllo i prezzi dei servizi erogati a causa del decentramento della politica tariffaria. Inoltre le imprese devono confrontarsi con il mercato globalizzato ed è difficile che possano tener conto degli interessi nazionali. La politica dei prezzi dei carburanti e quella dei premi delle assicurazioni, ad esempio, non potranno mai simultaneamente e automaticamente sposare la logica del mercato e quella degli interessi nazionali. Occorre, però, aspettarsi che se in molti campi l’unica logica riconosciuta è quella del mercato, questa potrebbe essere applicata anche in altri. Non si può pensare che da una parte si fanno le tariffe che si vogliono e dall’altra si tengano bloccati i salari all’inflazione programmata. Gli attori sociali non possono e non debbono esaurire le loro energie in sterili contrapposizioni antagoniste. La concertazione, quale strumento di condivisione degli obiettivi, è indispensabile per la crescita della competitività. Ma la competitività non è una vocazione naturale della natura umana, è una necessità. Solo se gli obiettivi sono largamente condivisi un team, una comunità, un Paese possono essere più competitivi. Se però domina la tendenza allo scontro può voler dire che non vi è piena contezza della negatività del conflitto sociale. Per riportare il Paese ai livelli competitivi che gli competono e ridistribuire la ricchezza prodotta in modo più equo occorre che ci sia una nuova primavera della concertazione. Va da sé però che non è possibile traslare, sic et simpliciter, nel 2004 la concertazione del 1993. L’impianto strutturale e valoriale non deve cambiare, le regole ed i contenuti vanno adeguati al nuovo scenario politico, economico e sociale. Occorre fare i conti con le politiche europee da un lato e con il decentramento regionale dall’altro. 163 164 Filomena Della Valle Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo di Filomena Della Valle Nella sua esclusività artistica ed umana, Leopardi è stato a lungo oggetto di numerosi studi critici che hanno condotto gli studiosi a sposare varie tesi, a scindersi tra loro e a darne le più disparate e contrastanti interpretazioni. Sebbene siano trascorsi quasi due secoli dalla morte del poeta, Leopardi continua ad essere “materia viva” d’indagini ed investigazioni esegetiche, mostrando quanto, sia i denigratori che i cultori del leopardismo, ruotino ininterrottamente intorno all’universo leopardiano e quanto la critica continui, indarno, ad arrovellarsi sulla millenaria diatriba che vuole, da un lato Leopardi padre spirituale del pessimismo, dall’altro, seppur in misura più contenuta, un Leopardi paladino della speranza, dell’ottimismo. Le prime avvisaglie che hanno condotto la critica a giungere alla nefasta conclusione di un Leopardi pessimista, si riscontrano proprio tra i contemporanei del Recanatese, la cui grave pecca fu quella di metterne in dubbio l’equilibrio psico-fisico, oltre ad attribuire erroneamente, alle affezioni organiche ed alle imperfezioni corporee, la sua ideologia pseudo-dissacrante. Dunque, troppo a lungo il Leopardi è stato bersaglio prediletto di una critica accecata da logori cliché ed impegnata in un’astiosa campagna denigratoria. Tuttavia, è doveroso puntualizzare, contro quanti hanno voluto scorgere e quanti si ostinano tuttora a vedere nel Nostro, un’insignificanza letteraria, contrassegnata dall’idea preconcetta di un poeta, spregiatore dell’esistenza umana, che basta immergersi nella sconfinata produzione critica condotta sul Nostro, nonché nei numerosi convegni internazionali, promossi nell’intento di caldeggiarne la presenza nelle più disparate aree culturali, per poter riscontrare quanto non solo il Recanatese abbia sopravvissuto alla deformazione patologica che ne fecero alcuni critici, ma anche come la grandezza leopardiana, vada al di là dell’esperienza letteraria. Contro quanti ne vilipesero la memoria in un’astiosa campagna denigratoria, culminata nel tacciare il poeta di temperamento nevropatico e stato morboso, l’impronta leopardiana europea e mondiale costituisce la chiara testimonianza di come l’animo leopardiano abbia saputo scuotere le coscienze letterarie più recalcitranti, lasciando un segno indelebile non solo della sua levatura artistica, ma anche della sensibilità con cui legge ed interpreta l’esistenza umana. Dunque, seguendo questo percorso di contrasti e riconciliazioni critiche, una delle più autorevoli voci esegetiche del panorama culturale italiano è l’emerito leopardista Emilio Giordano, il quale, si fa portavoce della leopardistica italiana 165 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo otto-novecentesca, ponendo l’accento non solo su quanto il leopardismo sia un movimento letterario a tutti gli effetti, ma anche come l’universo leopardiano costituisca un vero e proprio fenomeno di studio, sempre più all’avanguardia e con l’intento di riportare in luce la magnificenza artistica di un autore che ha saputo scuotere le coscienze letterarie, lasciando, a distanza di anni, che si parli ancora di sé. Purtroppo, malgrado i vani tentativi compiuti da abili critici nel discostarsi da una linea d’indagine preconcetta e pregiudiziale verso il Recanatese, così come farà l’ermeneuta Giordano, ci si trova ancora a dover combattere contro l’emergere di quella critica antileopardiana, corrosiva e misoneista, che tende ad escludere, dal suo campo d’indagine, la modernità del Leopardi, ma che, alla luce del sentito riscontro leopardiano, è costretta a tornare sui propri passi. In tal senso, tra i molteplici protagonisti dell’esegesi leopardiana del nostro secolo, emblematico ed imprescindibile, oltre che di grande prestigio, è il ruolo rivestito dal direttore del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, on. prof. Franco Foschi, il quale, oltre a promuovere le più disparate iniziative culturali, curando gli aspetti tecnici ed organizzativi che tali manifestazioni richiedono, ha dato vita allo sviluppo della leopardistica nel mondo, contribuendo personalmente ad approfondire un filone di studio innovativo e, per alcuni versi anche ostico, vista la grand’eco internazionale che il Leopardi ha avuto, toccando anche alcune aree culturali profondamente differenti dalla realtà italiana. Unitamente agli sconfinati contributi esegetici, ispirati all’opera del Leopardi, nel corso degli anni, la tradizionale manifestazione che mira a celebrare l’anniversario leopardiano, dapprima confinata alla città di Recanati e vissuta in misura più contenuta, in seguito vera e propria espressione propalatrice della leopardistica mondiale, ha intensificato la nascita di una sentita vocazione, presso estimatori e detrattori del leopardismo, a farsi portavoce della fortuna critica del Nostro. È proprio in nome di mostre, convegni, dibattiti e quant’altro, che si è verificato un sentito riscontro della materia leopardiana anche presso i mass media, A tal riguardo, il bicentenario della nascita del Leopardi ha costituito un evento in cui, alcuni giornalisti, hanno puntualmente menzionato e pubblicizzato le varie manifestazioni organizzate e, soprattutto, hanno colto l’occasione per ricordare l’attualità della filosofia leopardiana. Interventi critici, inserzioni, articoli, interviste, corredano la giornalistica e saggistica testimonianza di quanto la materia leopardiana non sia soltanto un pretesto per riempire pagine di giornale o volumi, in onore del suo bicentenario, ma costituisca qualcosa di ben più alto: la modernità di un’artista la cui fama e grandezza letteraria aleggiano ancora nell’aria lasciando un segno indelebile nell’anima di ogni cultura. E se il Leopardi a soli 39 anni, abbandona inderogabilmente la vita, la sua levatura artistica ha intrapreso un lungo cammino in cui, seppur i sentieri percorsi a volte appaiono ostici e fatiscenti, ha già ampiamente mostrato di aver raggiunto le aree più vaste della nostra dimensione, cristallizzandosi per sempre nel tempo. Pertanto, benché l’Italia costituisca la culla del leopardismo, la fortuna critica e letteraria del Leopardi non è relegata e legata esclusivamente all’ambito culturale 166 Filomena Della Valle italiano, bensì trova un suo sentito riscontro, anche presso la critica d’oltralpe. A tal riguardo, nell’ambito del processo esegetico leopardiano in Europa, l’attenzione rivolta al Nostro investe, non solo zone europee in cui la conoscenza leopardiana è stata agevolata dalla vicinanza geografica al nostro paese, o ancora, da un interessamento nutrito dal Leopardi stesso verso alcuni territori internazionali, ma anche culture o paesi in cui, le motivazioni storico - politiche che ne hanno determinato una chiusura culturale, tuttavia non hanno compromesso l’avvento del leopardismo. Una prima testimonianza della difficoltà ad aderire ed interpretare il tanto dibattuto tema del leopardismo, proviene dal mondo iberico, in cui, seppur le voci critiche leopardiane risultano molteplici ed accreditate, ciò non ci esime dal prendere coscienza di quanto Leopardi abbia fatto fatica ad affermarsi in questo territorio, pur riscontrando quanto sia tangibile l’eredità leopardiana nella cultura ispanica. Tra i molteplici interventi esegetici, atti a testimoniare quanto il Nostro abbia costituito un vivo richiamo per alcune grandi personalità del clima letterario spagnolo, un ruolo preminente è quello svolto da Roberto Paoli. Il critico, nel saggio La filosofia poetica di Unamuno e Leopardi,1 rileva quanto Unamuno, al di là della partecipazione alla visione etico-filosofica leopardiana, veda nel Nostro un’imprescindibile modello di aedo, come testimoniano i primi componimenti del poeta spagnolo in cui affiora la lezione stilistica leopardiana. Quanto alle corrispondenze ideologiche ed artistiche tra il Leopardi ed Unamuno, un altro notevole studio è quello condotto da Vicente Gonzàlez Martìn, Presenza di Leopardi nell’opera di Miguel de Unamuno,2 in cui, l’esegeta, alla luce dei numerosi riferimenti che lo stesso Unamuno farà del Leopardi all’interno delle sue opere, illustra i punti salienti del lascito leopardiano e l’ammirazione che il poeta spagnolo nutriva per il Nostro. Una ricca testimonianza di come il Recanatese si sia affermato nella cultura iberica, ci viene fornita dai diversi contributi critici di Maria de las Nieves Muñiz Muñiz.3 La nota leopardista dedica un nutrito studio4 alla notevole risonanza lirica leopardiana in Spagna, incentrando la sua disamina prevalentemente intorno alle 1 Roberto PAOLI, La filosofia poetica di Unamuno e Leopardi, in La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore, Atti del Convegno (Trento 9-10 dicembre 1988), a cura di Anna Dolfi e Adriana Mitescu, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 161-168. Lo stesso saggio, è presente nell’introduzione all’edizione italiana di Miguel DE UNAMUNO, Poesie, a cura di Roberto Paoli, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. XCIX-CVI. 2 Vicente GONZÀLES MARTIN, Presenza di Leopardi nell’opera di Miguel de Unamuno, in Leopardi e la cultura europea, Atti del Convegno internazionale dell’Università di Lovanio (Lovanio 10-12 dicembre 1987), a cura di F. Musarra, S. Vanvolsem, R. Guglielmone Lamberti, Leuven University Press/Roma, Bulzoni Editore, 1989, pp. 279296. 3 Cfr., Maria DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ, Leopardi nella cultura spagnola e Bibliografia leopardiana in lingua spagnola, in «Studi leopardiani», 1991, 1, pp. 25-30, 31-47. 4 Maria DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ , Tradurre “L’Infinito” (intorno ad alcune versioni spagnole dei “Canti”leopardiani), in La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore..., cit., pp. 127-160; cfr. Leopardi nella cultura spagnola, in Giacomo Leopardi nel mondo, Atti dell’incontro internazionale (Macerata 2 ottobre 1991), Firenze, Leo S. Olschki, 1995. 167 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo diverse traduzioni spagnole delle opere leopardiane, particolarmente dell’Infinito, che se da un lato rivelerebbero le molteplici incongruenze traduttive, frutto di una minimizzazione del pensiero leopardiano e di una scarsa conoscenza dell’opera zibaldoniana, dall’altro testimonierebbero la costante peculiarità del leopardismo di valicare i confini nazionali ed approdare nella cultura ispanica, tanto da rappresentare un punto focale della leopardistica europea. Ma tra i propalatori della leopardistica novecentesca, interessati all’accoglimento della materia leopardiana, un ruolo di rilievo è quello svolto dall’esegeta Angel Chiclana, il quale, nell’intervento al Convegno internazionale di Lovanio del 1987, argomenta circa il leopardismo spagnolo, approntando una relazione degna di nota, seppur contraddistinta da una certa vena polemica. La sua disamina, Leopardi nel mondo ispanico,5 volta a mostrare quanto l’eco leopardiana abbia una forte ripercussione nel milieu culturale iberico, prende corpo seguendo due indirizzi differenti: da un lato il critico analizza i prodromi di un avvicinamento leopardiano alla cultura spagnola, dall’altro rileva come il mondo ispanico abbia accolto Leopardi ed il leopardismo. Interessante campo d’indagine, in cui il critico s’immerge, è l’individuare le rilevanti affinità fra il poeta spagnolo Nicasio Alvarez Cienfuegos ed il Recanatese. Tuttavia, quanto Leopardi sia legato alla cultura iberica si evidenzia non solo da questo suo accostamento al poeta madrileno, ma anche dalle riflessioni affidate allo Zibaldone. Il relatore, in ogni caso, ricorda quanto l’ammirazione espressa dal Nostro sulla cultura iberica derivi dall’accostamento ad un saggio del gesuita spagnolo Francisco Xavier Llampillas, di cui lo stesso Leopardi ne ammette l’approccio. Ciò che il Chiclana riscontra non è, però, una piena condivisione delle argomentazioni del gesuita da parte del Nostro, ma una vera e propria riproduzione delle sue teorie, pur non omettendo quanto Leopardi sia persuaso da un “sincero entusiasmo”.6 A questo punto si ha la sensazione che il critico abbia un atteggiamento eccessivamente polemico verso il Recanatese e che si limiti a riscontrare esclusivamente gli influssi iberici colti dal poeta, senza considerare come questi li faccia autenticamente propri. Del resto, Leopardi non ricalcherà mai pedissequamente le orme di altri intellettuali, ma piuttosto si discosterà, spesso, persino dalle tendenze culturali della sua epoca, a tal punto da inimicarsi la critica contemporanea e postera. Oltretutto, la dichiarazione dell’ermeneuta è incongrua e contraddittoria, poiché non si può asserire che il Nostro si sia lasciato suggestionare da contributi critici di intellettuali spagnoli e, poi, porre l’accento sul “sincero entusiasmo” che circoscrive le dichiarazioni leopardiane. Dunque, concordemente al relatore, si può indubbiamente notare come Leopardi abbia accolto il lascito dell’autore madrileno Cienfuegos, ciò nonostante non gli si può attribuire un’integrale e particolareggiata imitazione di tutti i fautori della cultura letteraria iberica. 5 6 Angel CHICLANA, Leopardi nel mondo ispanico, in Leopardi e la cultura europea..., cit., pp. 125-138. Ibid., p. 131. 168 Filomena Della Valle È nel sincronismo degli eventi storico-letterari d’entrambe le nazioni, la Spagna da un lato e l’Italia dall’altro, che è possibile intravedere una concomitanza di opinioni tra il Leopardi ed altri intellettuali, e non come vorrebbe il Chiclana da un’eventuale mancanza di personalità del Nostro che lo condurrebbe a sposare pappagallescamente qualunque causa. In effetti, sarà proprio la sua forte personalità letteraria, oltre che un’acuita capacità cognitiva, a spingerlo verso scelte che vanno controcorrente. L’impronta leopardiana ed il retaggio culturale del Nostro nell’ambiente letterario ispanico costituiscono un’altra fase del lavoro critico del Chiclana, il quale premette, senza indugio, quanto il nostro portentoso poeta fosse misconosciuto dai suoi coevi iberici. Dunque, il leopardismo si radica e prende forma molto lentamente in Spagna, ma non per questo non darà i suoi proficui frutti. Tuttavia, la causa del protratto sviluppo del leopardismo nella penisola iberica, ha una sua radicazione storica: il dispotismo di Fernando VII, il quale disciplina direttamente tutti i rapporti sociali su posizioni di rigido assolutismo. L’esilio per letterati, intellettuali e persone colte, costituisce una sorta di allontanamento dalle scene europee tanto da determinare, successivamente, la pochezza degli scambi culturali, utili alla promozione degli studi leopardiani ed alla diffusione del leopardismo in tutte le sue espressioni. Dunque, se inizialmente si può cogliere un minimo, o quasi inesistente interessamento al retaggio culturale leopardiano in Spagna, le molteplici testimonianze critiche, tese a divulgare e promuovere la leopardistica iberica, mostrano quanto il XX secolo costituisca il periodo di maggior diffusione del leopardismo. Indipendentemente dalla portata dell’eco leopardiana e dai tempi necessari per la sua affermazione in Spagna, il Nostro riesce, in ogni caso, ad affermarsi, penetrando nella cultura moderna e lasciando un segno indelebile del suo inconfondibile patrimonio poetico. A differenza di alcune zone europee in cui la leopardistica novecentesca, muove a stento i suoi primi passi, l’ambiente culturale francese mostra, invece, un sentito trasporto verso il Leopardi, da cui ne deriva un sostenuto interesse, testimoniato anche dai molteplici lavori esegetici dedicati al Nostro. Il critico Nicolas Serban, rappresenta, a tal riguardo, un iniziatore della leopardistica francese, esaminando nel volume Leopardi e la Francia,7 il biunivoco e, per tanti versi, contrastante rapporto tra il Nostro e la cultura romanza. Fonte imprescindibile del leopardismo ottocentesco in Francia, il lavoro di Serban costituisce il punto di partenza della disamina condotta da un’altra eccellente leopardista, Anna Dolfi. La studiosa, nel lavoro Nicole Serban: un caso di fortuna leopardiana in Francia,8 oltre ad attingere al contributo del critico francese, ai fini di rilevarne l’interes- 7 8 Nicolas SERBAN, Leopardi et la France, Paris, Champion, 1913. Cfr. La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore…, cit., pp. 91-100. 169 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo se leopardiano, conduce un innovativo studio su un’altra opera del Serban, Leopardi sentimental, in cui, questi, delinea un ritratto psicologico del Nostro che, a parere della Dolfi, non è privo contraddizioni. Sulla stessa linea d’indagine, s’inserisce il saggio di Alberto Frattini, Nuove postille al “Leopardi et la France” di Nicole Serban ,9 nel quale, lo studioso, testimonia quanto il volume di Serban abbia costituito per i critici francesisti, un modello critico a cui attingere, per poter cogliere le analogie e le contraddizioni tra il Leopardi ed il mondo culturale francese. Tra gli interventi che testimoniano il grande lascito leopardiano in Francia, si può annoverare la disamina condotta da José Lambert, il quale, tra le pagine del lavoro Leopardi et les interactions entre traditions et traductions au XIX siècle,10 spiega le motivazioni che hanno condotto il Recanatese a godere di ottima fama nell’ambiente francese, riconducendo i meriti del Nostro alla sua abilità filologica e traduttiva, anche se non desiste dal metterla in dubbio. Mentre, Michèle Dehilage, ripercorrendo le orme della critica leopardiana francese, nella relazione Quelques lignes de force dans la réception de Leopardi en France au XIX siècle,11 delinea un Leopardi poliedrico nella sua attività poetica, mostrando come, il Nostro, sia stato colto, dalla critica e dal mondo intellettuale, nelle sue più profonde sfaccettature artistiche. Nell’ambito della leopardistica francese sembra però doveroso approfondire il lavoro critico condotto dall’emerita studiosa Anna Dolfi, la quale tra i vari saggi dedicati al Nostro, propone un esempio di leopardismo francese, nella relazione Leopardi e il pensar filosofico di Madame de Stäel.12 La rassegna svolta dall’emerita studiosa Anna Dolfi, si focalizza su un punto fondamentale: quanto Leopardi abbia attinto all’opera Corinne di Madame De Stäel, riportandone esplicitamente un passo nelle annotazioni alle Operette morali, oltre che sentiti rimandi nello Zibaldone. L’ideologia filosofica della scrittrice francese sembra costituire il sostrato di una taciuta complicità sentita dal Nostro. Tuttavia, al di là di un sentimento di comunione, nato dalla constatazione di una donna la cui bellezza corporea gli è negata, contrariamente all’avvenenza della sua sensibile anima, ciò che sembra muovere il Leopardi verso l’autrice francese è la singolarità delle sue opere. In un clima culturale in cui la letteratura sembra perdere la propria consistenza, aderendo per lo più alle tendenze in voga, a disegni precostituiti, o ad inserirsi entro schieramenti ideologico-classistici, Leopardi aveva già ampiamente mostrato con la sottovalutata pubblicazione delle Operette, quanto un’artista dovesse seguire la propria ispirazione, rischiando a volte di risultare demodé o, addirittura 9 Ibid., pp. 101-107. In Leopardi e la cultura europea..., cit., pp. 313-318. 11 Ibid., pp. 487-492. 12 Ibid., pp. 191-205. 10 170 Filomena Della Valle tacciato dalla critica del tempo. Pertanto, in Madame De Stäel, il Nostro vede germogliare una sorta di sovvertimento letterario di cui egli stesso se ne era fatto propugnatore, dichiarando in merito: “V’è qualche secolo che, per tacere del resto, nelle arti e nelle discipline presume di rifar tutto, perché nulla sa fare”.13 Sarà proprio la lettura del romanzo stäeliano a suggerire al Leopardi un’apertura ideologica, un ampliamento di vedute, che lo condurrà ad una visione meno radicalizzata della cultura moderna, in cui possono finalmente coesistere componenti contrastanti che, tra l’altro, caratterizzeranno l’iter poetico leopardiano: classicismo e romanticismo da un lato, poesia e filosofia dall’altro. In realtà, come asserisce la valida leopardista, richiamando alla memoria un passo dello Zibaldone, lo stesso Leopardi conferma quanto le opere stäeliane lo abbiano destato alla cultura filosofica, di cui se ne sente ambasciatore. Ma sarebbe opportuno rilevare come l’influsso della De Stäel non sia totalizzante, in quanto Leopardi già promulgava l’esigenza di un cambiamento letterario, o quanto meno non aveva esonerato i suoi contemporanei da aspre critiche, prima ancora di prendere posizione all’interno della secolare polemica tra classicisti e romantici, di cui la De Stäel se ne era fatta portavoce. Ebbene, malgrado l’asserzione dell’esegeta sia ampiamente documentata e non dia adito ad equivoci di sorta, bisogna chiarire come, in ogni caso, non si verifichi una ‘stäelizazzione’ dell’ideologia leopardiana, che nasce sempre da profonde meditazioni introspettive e, in quanto tale, mantiene salda la propria originalità. Di là dalla condivisione filosofica di alcuni aspetti esistenzialistici, probabilmente Leopardi trova proprio in Madame De Stäel quel valido punto di appoggio che non era stato in grado di fornirgli la sua contemporaneità, quel “secol morto” 14 che aveva appiattito la cultura, stagnandosi in moduli e suggestioni letterarie che provenivano dall’estero, a discapito di quei geni poetici nazionali che avrebbero cambiato la storia della cultura italiana. Leopardi fu uno di loro, ma ne pagò caramente il prezzo. Quanto il leopardismo costituisca una presenza costante nella cultura europea, approdando anche in Belgio, è attestato dal critico Walter Geerts, il quale, ripercorrendo il panorama critico italiano del Novecento e focalizzando la sua attenzione intorno ad autorevoli cultori della materia leopardiana, quali Sinisgalli e De Robertis, mostra quanto il leopardismo non abbia confini storici, geografici, generazionali, religiosi, politici o sociali, ma solo la necessità di approdare nella cultura moderna, senza soggiacere a classificazioni od estenuanti analisi di sorta. Per quanto concerne il leopardismo fiammingo, l’approccio olandese verso il Leopardi, affiora molto più tortuoso rispetto ad altre aree culturali, tant’è vero che ne vengono scandagliate le cause in una scrupolosa e competente relazione del critico Minne Gerben De Boer, La fortuna di Leopardi in Olanda.15 13 Giacomo LEOPARDI, Pensieri, XI. Giacomo LEOPARDI, dai Canti, Ad Angelo Mai, 1820, v. 4. 15 In Leopardi e la cultura europea... cit., pp. 151-178; cfr., La fortuna di Leopardi in Olanda, in Giacomo Leopardi nel mondo…, cit. 14 171 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo Innanzitutto, bisogna rilevare come l’atteggiamento culturale fiammingo, pur ripercorrendo la ritrosia irlandese, trovi i suoi presupposti non in una posizione geografica sfavorevole, o in un certo settarismo culturale, ma in vere e proprie difficoltà tangibili. Infatti, come mostrerà l’esegeta De Boer, il timido accostamento al Nostro deriva fondamentalmente da difficoltà cognitive ed interpretative della lirica leopardiana. Inoltre, puntualizza quanto il leopardismo nel territorio olandese sia stato ostacolato dall’assenza di fonti che ne possano ricostruire l’iniziale approdo, scarni cenni al poeta ed un lavorio esegetico a volte molto deludente e oltremodo dilettantesco. Per De Boer l’Ottocento è un secolo lacunoso, in cui oltre ad una versione teutonica dei Canti di Kannegiesser, risalente al 1837, non si reperiscono altre fonti. Se il XIX secolo sembra mostrare una carente adesione al leopardismo, il Novecento risulterà più proficuo, grazie all’incremento dei viaggi nel nostro paese e ad una vocazione all’interpretazione poetica. Tra le personalità di maggior rilievo che accolgono il leopardismo agli inizi del Novecento, il De Boer annovera Van Eyck e Bloem. Appartenente alla stessa generazione sarà il poeta Keuls, che viene encomiato dall’ermeneuta fiammingo in quanto esperto di lingua italiana ed abile traduttore dei Canti leopardiani. In realtà, dopo le sue versioni si avranno delle creazioni estemporanee: pseudo-traduzioni poco edificanti e addirittura, in alcuni casi, frutto di un accecato dilettantismo. La conseguenza prevedibile è una serie di traduzioni ex novo, che denigrano la maestria leopardiana e ne appiattiscono le penetranti vibrazioni dell’animo. Alcuni esempi fornitici dal De Boer ci mostrano quanto il messaggio leopardiano venga completamente distorto. È il caso del poeta Jan Eekhout, il quale, fa del toccante canto A se stesso un compendio propagandistico in cui è messa in prima linea la personale eticità protestante, rendendone inaccettabile la versione. Altrettanto inammissibile è la trasposizione di Valkhoff del Passero solitario, che mostra come anche le iniziative personali possano deturpare la musicalità dei versi leopardiani, susseguiti da una fredda definizione tecnico-scientifica: il Monticola cyanus. Non si può attribuire una denominazione ornitologica ad un poema in cui è chiara l’allusività del titolo ed il rimando autobiografico. Il Passero solitario altro non è che l’alter ego leopardiano, dunque, scevro da qualsiasi tentativo di classificazione zoologica. Nel corso del Novecento, in Olanda, oltre ad un nutrito interesse per la versificazione poetica, si diffonde anche un profuso accrescimento degli italianisti, tra i quali degno di nota, è Frans van Doren. Lo studioso riesce a promuovere un approfondimento del leopardismo, fino ad ora relegato all’apprendimento biografico dell’artista e, solo in parte, della sua attività poetica. Così, nell’intento di rendere note anche altre opere del Recanatese, si dedicherà alla traduzione della Palinodia al marchese Gino Capponi e dei Pensieri, opera quest’ultima, che contrariamente a quanto accade per i Canti, di cui non se ne tradurrà mai l’intera raccolta, sarà integrale. 172 Filomena Della Valle Il leopardismo in Olanda penetra attraverso due settori, generico l’uno, più specifico l’altro, ossia, il percorso letterario e quello accademico, che ne regolano lo sviluppo condizionandone, in alcuni casi, l’esito. Nel suo percorso letterario il Leopardi, intorno al 1880, raggiunge l’acme nelle vesti di aedo dell’ideologia pessimistica europea, ruolo da cui si riscatterà nel secolo successivo. Il Novecento, infatti, lo vede rivalutato da un lato ed imitato dall’altro, avendone comprovata la fama di gran versificatore. Dunque, in entrambi i periodi, il leopardismo in Olanda sopraggiunge come eco di un’espressione culturale ed internazionale preesistente e non come fenomeno autonomo. Come asserisce il De Boer, è in questa situazione e nel mancato riconoscimento della levatura europea leopardiana, che vanno ricercate le cause di un superficiale accostamento del mondo intellettuale fiammingo verso il Nostro. Per quanto concerne la sfera accademica, l’ermeneuta sostiene come anche questo percorso abbia ritardato il leopardismo e ne abbia vincolato l’accrescimento. L’ambiente universitario non è stato in grado di concedere al poeta recanatese una giusta collocazione e di percepirne l’importanza, in quanto il dipartimento di linguistica straniera è rimasto troppo a lungo relegato nel proprio mondo. Pertanto, se la lirica leopardiana risulta una materia difficilmente verseggiabile, lo si deve non solo ad un limitato approccio alla nostra lingua, o agli ostici ricorsi trecenteschi della poesia leopardiana, ma anche all’assenza di una totale compenetrazione tra due settori che dovrebbero costituire il presupposto per l’ampliamento dei propri orizzonti culturali e lo sviluppo intellettuale di un paese progredito. Nel momento in cui il mondo letterario e quello accademico, smetteranno di essere spazi circoscritti ed elitari, acquistando coscienza della necessità o della propensione ad una migliore collaborazione, sopraggiungerà un accrescimento della materia leopardiana ed il popolo fiammingo non sarà più costretto ad ignorare le opere del Nostro o ad interrogarsi su cosa sia lo Zibaldone. Del resto, la cultura è patrimonio appartenente ad ognuno di noi e non la si può confinare all’interno di una stretta cerchia sociale o ad istituzioni formative che, a volte, sembrano smarrire la propria natura. Ben altro aspetto assume l’ellenismo leopardiano ed il leopardismo ellenico, di cui si fa degna scrutatrice la studiosa greca Margherita Dalmàti, la quale, riscontrando quanto l’amore che il Nostro nutre per le lettere classiche e la conseguente dedizione all’antichità, siano smisurati, traccia un attento profilo del grecismo leopardiano e constata l’entusiastica adesione degli intellettuali ellenici alla materia leopardiana. Nell’indagine esegetica Giacomo Leopardi-uno dei greci. (La fortuna di Leopardi in Grecia)16 condotta dalla ricercatrice, si evince come la sua analisi prenda corpo dai componimenti di stampo civile-patriottico per poi dirigersi agli idilli, in 16 Ibid., pp. 139-150. 173 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo cui emergono chiaramente componenti tematiche, ma anche metrico-stilistiche che il Leopardi emula sapientemente dalla classicità. L’equilibrio, l’eleganza, l’armonia dei suoi versi costituiscono un chiaro richiamo a quel mondo vetusto tanto declamato e decantato non solo nei suoi componimenti poetici, ma in particolar modo, in quella sorta di compendio che dietro la nomenclatura di Zibaldone, racchiude perle di saggezza, emozioni, levatura intellettuale, autobiografismo, inclinazione culturale… e così via. Ed è proprio in questo ambito che va indicata e non ricercata, vista la diretta e chiara esposizione del poeta, la magnificazione del mondo ellenico, di cui, il Leopardi, ne ammira ogni espressione artistica e se ne fa portavoce. Dunque, se gli idilli leopardiani rappresentano l’epitome di contenuti sviluppati anche nell’area culturale ellenica, lo Zibaldone inneggia, con il suo profluvio di riferimenti, al grecismo leopardiano. Infatti, se da un lato la patria, la natura, l’amore, la morte, la fugacità d’ogni cosa, esprimono tematiche tipicamente elleniche, dall’altro lato, le riflessioni che si annidano nello Zibaldone, mostrano il mito del grecismo in Leopardi. Per quanto concerne l’accrescimento del leopardismo in Grecia, le prime testimonianze risalgono al periodo della morte del poeta, nel 1837, di cui se ne fa menzione in un quotidiano locale. Dunque, il percorso del leopardismo ellenico appare molto lento ed impalpabile, malgrado ci siano stati cenni, traduzioni, e brevi recensioni sul poeta Recanatese. Un contributo più tangibile proviene dal versatile letterato Panayotis Kanellopoulos. Di diretta filiazione leopardiana sarà la sua opera Storia della Cultura Europea, in cui affiora il precostituito disegno del Recanatese di un’opera variegata, pronta ad accogliere ogni sorta di notificazione letterarioculturale, ma anche scrigno di riflessioni. La matrice zibaldoniana è chiaramente visibile, anche se la differenza principale risiederà nella destinazione dell’opera: didattico-pedagogica per il cultore leopardiano e, quindi, indirizzata principalmente agli studenti, mentre, di validità universale nella progettazione del Leopardi. Lo Zibaldone costituirà, dunque, una primaria fonte d’ispirazione e tale rimarrà, in quanto l’intima essenza che trapela dalle pagine leopardiane, cede il posto ad una figurazione molto più schematica e formativa in Kanellopoulos. Del resto, si può trarre spunto dalla cultura leopardiana e tentare di ricalcarne le gesta letterarie, ma senz’ombra di dubbio non ci si può ispirare ai moti d’animo del poeta, che in quanto tali, restano unici nel loro genere e, fortunatamente, scevri da qualsivoglia tentativo di emulazione. Ed è proprio questa la nota distintiva leopardiana, che, di là da ogni schematizzazione letteraria riesce con il suo percorso emotivo a penetrare in ogni tipo di cultura, se pur contraddistinta da comprensibili ed inevitabili differenze rispetto alla propria ascendenza culturale. Lì dove fiorisce la culla del sapere umano, il trasporto che si alimenta verso il Nostro, costituisce un’ulteriore attestazione di quanto possa essere indiscutibile la grandezza letteraria del poeta, rendendone le opere moderne e valide nel corso del tempo. Quanto il leopardismo abbia costituito un tratto distintivo nell’ambiente culturale anglofono, è attestato da svariati saggi critici che mirano a cogliere non 174 Filomena Della Valle solo la centralità del pensiero leopardiano, ma intendono anche diffonderne la maestria poetica, tramite un cospicuo lavorio traduttivo. A tal riguardo, il più noto ed autorevole leopardista, nonché divulgatore del lascito leopardiano nei paesi anglosassoni è Ghan Shyam Singh, il quale, fin dal suo primo lavoro critico, Leopardi and the Theory of Poetry.17 manifesta una totale dedizione alla poetica del Nostro, che va concretandosi, nel corso degli anni, nella pubblicazione di diversi studi critici di carattere comparatistico, aprendo definitivamente le porte al leopardismo anglosassone. Dunque, i primi germogli del leopardismo in area anglofona, trovano un loro riscontro nell’opera singhiana Leopardi e l’Inghilterra,18 a cui seguiranno Leopardi e i poeti inglesi 19 e “Canti” by Giacomo Leopardi.20 Sebbene il leopardismo abbia oltrepassato i confini nazionali, varcando a volte persino la chiusura mentale di alcune aree europee e, si sia affermato come vero e proprio movimento letterario, occorre sottolineare come assuma peculiarità differenti, a seconda del clima culturale in cui penetri. È il caso dell’Inghilterra in cui, come asserisce il Singh nella relazione La fortuna di Leopardi in Inghilterra,21 l’ascendenza leopardiana ha trovato conferme ed approvazioni in questo territorio, soltanto negli ultimi tempi. La carenza di esperti italianisti da un lato e le difficoltà legate all’attività di trasposizione dell’opera leopardiana dall’altro, hanno, in qualche modo, contribuito a diffondere per molto tempo un timido leopardismo, meno sentito rispetto ad altre zone europee. Ma, alla luce di tali difficoltà, il Singh pone l’accento su come, in ogni caso, si sia affermata la presenza del Nostro, grazie anche alla caparbietà che ha contraddistinto i traduttori leopardiani, i quali, dinanzi alla perfezione prosodica della poesia del Leopardi e, nonostante le asperità rilevate durante la trasposizione, non hanno desistito, dando vita ad una cospicua quantità di traduzioni, che tuttora sono esemplari imprescindibili per chi si accinge ad uno studio più approfondito dei versi leopardiani. È proprio nell’ambito dell’attività traduttiva che il Singh si propone di scandagliare non solo l’impatto del traduttore con le barriere stilistico-formali dei testi leopardiani, ma anche il dilettantismo che, in alcuni casi, ne contraddistingue il lavoro, dando vita a componimenti del tutto avulsi dal testo originale. Una pertinente esemplificazione dell’analisi in questione, si può riscontrare nello studio esegetico “A se stesso” in lingua inglese,22 in cui il Singh conduce un’ocu- 17 GHAN SHYAM SING, Leopardi and the Theory of Poetry, Lexington, University of Kentucky Press, 1964. GHAN SHYAM SING, Leopardi e l’Inghilterra, Firenze, Le Monnier, 1968. 19 GHAN SHYAM SING, Leopardi e i poeti inglesi, Influenza di Giacomo Leopardi nella letteratura inglese, Ancona, Transeuropa Libri, 1990. 20 GHAN SHYAM SING, I “Canti” di Giacomo Leopardi nelle traduzioni inglesi, prefazione di Mario Luzi, presentazione di Franco Foschi, Ancona, Centro nazionale di studi leopardiani-Transeuropa, 1990. 21 GHAN SHYAM SING, La fortuna di Leopardi in Inghilterra, in Giacomo Leopardi nel mondo…, cit. 22 GHAN SHYAM SING, “A se stesso” in lingua inglese, in La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore…, cit. 18 175 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo lata disamina del criterio traduttivo applicato ad uno dei componimenti che, unitamente all’Infinito, appare il più singolare ai fini della trasposizione. Innanzitutto il leopardista rileva quanto sia labile la linea di demarcazione tra testo originale e testo tradotto, a tal punto che, nella trasposizione, qualora il traduttore riproduca fedelmente ogni parola, rischia di far cadere il componimento nella totale insignificanza, perdendo quelle sfumature lessicali proprie ad ogni lingua e per le quali, spesso, non esiste un termine corrispondente. Oltretutto, appare problematica anche la soluzione opposta, ovvero, la deliberata interpolazione di vocaboli o espressioni che, se rendono gran merito all’estro del traduttore, d’altro canto si discostano completamente dal testo primigenio, precludendo al lettore la possibilità di cogliere non solo la versificazione dell’autore tradotto, ma persino il suo universo ideologico. Entrambe queste soluzioni si riscontrano nella scelta traduttiva del componimento A se stesso, dando risultati limitanti e, solo in casi esigui, rispettando la matrice leopardiana. A tal riguardo è doveroso ricordare come sull’argomento si è espresso il Leopardi stesso, affidando allo Zibaldone fitte e nutrite riflessioni degne di essere prese in considerazione e che riguardano la “difficoltà o impossibilità di ben tradurre, a ciò che perde un libro nelle traduzioni le meglio fatte, all’assoluta impossibilità, e contradizione ne’ termini, dell’esistenza di una traduzione perfetta […]”. 23 Quanto mai veritiera è l’asserzione in cui il Nostro chiarisce: La perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p.e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile […] .24 Probabilmente risulterebbe necessario che, di là dal testo leopardiano sottoposto a traduzione, si rivisitassero alcune sezioni dello Zibaldone, le quali non solo fornirebbero ai traduttori valide direttive ai fini di una trasposizione quanto più vicina all’originale e che ne conservi l’ideologia di fondo, ma renderebbero al Nostro il merito di essere accreditato anche come esperto filologo. Tuttavia, al di là del nutrito corpus di traduzioni, atte a testimoniare il crescente fascino verso il mondo del Recanatese, sarà proprio il Singh a diffondere la risonanza leopardiana nella cultura inglese. Una prima testimonianza di come l’influsso leopardiano sia stato avvertito dai poeti inglesi della seconda metà dell’Ottocento, viene fornita dall’opera Leopardi e Matthew Arnold: i miti e le delusioni dell’età romantica,25 in cui, l’analisi del Singh, prende corpo individuando i punti di contatto esistenti e riscontrabili, nel- 23 Giacomo LEOPARDI, Zibaldone, 3954. Ibid., 2135. 25 In «Italianistica», 1980, 1 (gennaio-aprile), pp. 7-18. 24 176 Filomena Della Valle l’analogia concettuale tra il Bruto minore leopardiano ed il poema arnoldiano Empedocles on Etna. La presenza di Leopardi presso la cultura anglo-americana e la sua persistente e crescente modernità divengono il prediletto campo d’indagine del Singh, il quale, si ripropone di ampliarne i confini con il lavoro esegetico Melville and Leopardi,26 attraverso la comparazione con lo scrittore newyorkese, in cui, il leopardismo, attecchisce nel suo più famoso romanzo: Moby Dick, or the White Whale (1851). Dunque, il lascito leopardiano nella cultura anglo-americana, ha preso corpo nel corso dei secoli, nutrendosi sempre più dell’imprescindibile lezione del Nostro, il quale, amava ampliare i propri orizzonti culturali, dissetando la sua incontenibile sete di conoscenza in un costante ed accurato interesse per la cultura d’oltralpe. Leopardi, in più occasioni, esalterà il mondo anglosassone, dichiarando nello Zibaldone: L’Inghilterra in dispetto del suo clima, della sua posizione geografica, credo anche dell’origine de’ suoi abitanti, appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale che al settentrionale. Essa ha del settentrionale tutto il buono (l’attività, il coraggio, la profondità del pensiero e dell’immaginazione, l’indipendenza, ec. ec.)senz’averne il cattivo. E così del meridionale ha la vivacità, la politezza, la sottigliezza […] raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a cui non si trova simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità e fecondità d’immaginazione, e simili buone qualità […]. 27 Se, quindi, già nel 1821, il Nostro, esprimeva chiaramente nel passo zibaldoniano la sua ammirazione per la cultura inglese, mostrando di conoscerne le peculiarità, non si può certo dire lo stesso per ciò che concerne il mondo anglosassone, per il quale il Leopardi era un perfetto sconosciuto. Ma sarà proprio la sua grandezza letteraria da un lato, e “la profondità del pensiero”28 anglosassone, di cui parla lo stesso Leopardi, dall’altro, a rendergli merito e a far maturare una sentita coscienza leopardiana nel mondo anglosassone, in cui Leopardi è divenuto un imprescindibile classico letterario a cui attingere costantemente. Altro campo d’indagine in cui cogliere l’eco leopardiana è l’Irlanda, di cui il critico John C. Barnes, nel suo studio esegetico La fortuna di Leopardi in Irlanda,29 ci fornisce uno scrupoloso esame della mancata popolarità leopardiana nell’oasi gaelica, verificata rispetto ad altre nazioni europee e, della minima partecipazione che il mondo intellettuale irlandese alimenta verso il Nostro. Al di là di scarni cenni attinenti all’isola e, presenti nello Zibaldone, il Leo- 26 In «Rivista di Letterature moderne e comparate», 1980, 1 (gennaio-marzo), pp. 23-37. Giacomo LEOPARDI, Zibaldone, 1043. 28 Ibid. 29 John C. BARNES, in Leopardi e la cultura europea... cit., pp. 39-50. Cfr. Leopardi e l’Irlanda, in La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore..., cit., pp. 273-280. 27 177 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo pardi sembra escludere qualsiasi approfondimento relativo alla cultura irlandese e, d’altro canto, l’intellettualità irlandese non si mostra proclive ad accogliere il notevole lascito culturale leopardiano. Il primo segno costruttivo di un interesse maturato verso il Nostro risale al 1882, anno in cui si tiene una conferenza sul Leopardi presieduta da Owen O’Ryan, a quell’epoca docente di lingue e letterature straniere al Queen’s College di Corke. Accanto ad Owen O’Ryan, altro rilevante estimatore del Nostro è Tom O’Neill, il quale, non discostandosi dalla metodologia esegetica del Singh, propone interessanti saggi comparativi, nei quali il Leopardi viene esaminato in parallelo ad altri grandi artisti di fama mondiale. Un esempio ci deriva dalla ponderata dissertazione Ungaretti tra Leopardi e Góngora, nella quale, dopo aver ricordato l’interesse e l’approccio critico profusi dall’Ungaretti per il Nostro, volge a collazionare il componimento leopardiano A Silvia, con quello ungarettiano Tu ti spezzasti. Come argomenta il Barnes, il componimento lirico A Silvia si mostra maggiormente accreditato e prescelto dagli intellettuali del territorio irlandese, rispetto agli altri. Ciò è comprovato da vari tentativi di traduzione per mano di differenti appassionati alla materia leopardiana, come ad esempio quello del Synge, tra i pochi studiosi irlandesi dediti alla letteratura estera. Eppure, non lo si può considerare un ossequiente chiosatore leopardiano, in quanto dà una trasposizione incompleta del sonetto A Silvia, soffermandosi alle prime tre strofe, ed oltretutto propina ai lettori, una libera versione in prosa che, di conseguenza, non risulta conforme all’originale. Più felice sembra essere la traduzione del ‘grande idillio’ portata a termine da Desmond O’Grady, in cui si scorge non solo la volontà di divulgare la grandezza letteraria del Leopardi nel mondo inglese, ma anche la competenza critica e traduttiva. Quella di O’Grady sarà una traduzione, a differenza della precedente, fedele al modello leopardiano, pertanto, in grado di far comprendere più adeguatamente la poetica del Nostro e la sua vicenda personale. Il Barnes non dimentica di annettere nel suo novero lo studioso Creagh, il quale, ha fornito del Leopardi un’analisi cospicua e completa rispetto ai suoi conterranei. Egli, infatti, ha indirizzato i suoi studi dedicandosi alla traduzione dell’ultimo Leopardi, prediligendo la traduzione letterale, nonostante le varie difficoltà a cui ha dovuto far fronte che, però, gli hanno fatto guadagnare l’ammirazione della critica. Inoltre, la stima e l’approvazione derivatagli, nascono dalla diligenza con la quale correda le sue traduzioni di postille chiarificatrici. Innovativa, invece, appare la metodologia traduttiva del poeta irlandese Eamon Grennan, il quale, proponendo una lettura assolutamente rivoluzionaria dei ‘piccoli idilli’, entra nel computo di Barnes. Il relatore, infatti, passando in rassegna alcune tra le più famose liriche leopardiane, attonito, segnala la versione inusitata dell’Infinito propostaci dal verseggiatore irlandese. Innanzitutto, Grennan parafrasa il titolo del capolavoro leopardiano dandone una qualificazione grammaticale ed usando, per la traduzione in inglese, un aggettivo non consono e non corrispondente letteralmente al titolo originario del componimento. “Infinitive” è un aggettivo uti178 Filomena Della Valle lizzato esclusivamente per indicare un tempo verbale: l’infinito, appunto. In realtà, una traduzione più fedele avrebbe richiesto l’impiego della formula grammaticale: “The Infinite”. Naturalmente, il Barnes vuol vedere nell’approccio traduttivo del poeta irlandese l’innovazione e l’ingenuità, ma, forse, si potrebbe riscontrare anche un pizzico di superficialità, che deturpa un’icona della letteratura italiana e mondiale quale l’Infinito. La lirica leopardiana ha in sé qualcosa di mistico, di magico, d’inspiegabile, e se da un lato si può riconoscere al Grennan il merito di aver tentato di diffondere l’incanto del componimento, dall’altro si deve prender coscienza della faciloneria e, per alcuni versi, anche del dilettantismo con il quale affronta il suo proposito esegetico, riconducendo la lirica leopardiana ad un tempo verbale. Il Grennan, sembra peccare di presunzione, volendo cogliere del capolavoro leopardiano un banale modo verbale e, trascurando, il profluvio di significati ed emozioni che vi si annidano verso dopo verso. Ma al di là del lavorio traduttivo dell’opera leopardiana, quello evidenziato dal Barnes è uno pseudo-leopardismo irlandese, che trova in Beckett, Singh e Creagh figure isolate e, se assistiamo ad una carenza di leopardisti pronti ad occuparsi dignitosamente del Leopardi, ciò dipende dalla ritrosia culturale che dilaga in Irlanda. Tra le ragioni principali di tale isolamento culturale s’individuano, sicuramente, un certo esclusivismo per la propria cultura ed una posizione geografica penalizzante. Inoltre, il Barnes suggerisce un’innovativa chiave di lettura, atta a chiarificare il deliberato allontanamento culturale irlandese dall’Europa: la tardiva indipendenza, raggiunta solo recentemente, ovvero, nel 1922. Così, il riconoscimento dell’isola come stato indipendente, avvenuto ufficialmente nel 1937, è senz’altro una concausa all’avversione per qualsiasi movimento culturale che si agiti al di fuori dei confini irlandesi. Fortunatamente, ci sono ancora artisti che, pur coltivando interesse per la propria cultura, non si negano la possibilità di ampliarne i confini. Processo, quest’ultimo, che ha luogo attingendo proprio dal Leopardi, fonte inesauribile di sapere che, si estrinseca nella costante e tenace esigenza di accostarsi, durante l’intero arco della sua vita, a tutte le espressioni intellettuali. La labirintica ed infinita produzione critica leopardiana, regala singolari sguardi, tesi a cogliere, un leopardismo ormai dilagante, i cui tratti distintivi percuotono, e scuotono, le coscienze di estimatori, denigratori, cultori della materia leopardiana, o di chi, in un incontro del tutto fortuito, si è trovato coinvolto nell’universo leopardiano e ne è rimasto esterrefatto. In un vertiginoso panorama di saggi critici nazionali, europei ed anche intercontinentali, a poco a poco, è accresciuta la tendenza a chiedersi l’identità del ‘gran dispregiatore della vita’ o del pessimista per eccellenza, e, in questa direzione, una certa critica, ha, lungamente, fornito tutti gli elementi per risolvere i numerosi interrogativi, placare la sete di curiosità, e, in alcuni casi, approfittarne anche per propagandare opere quanto mai controverse. Dal primo recensore leopardiano, Giuseppe Montani, il quale si occupò del 179 Vibrazioni leopardiane nel Novecento europeo Leopardi pubblicando articoli sulla rivista «Antologia» nel lontano 1827, fino al 1947, anno in cui appaiono interessanti studi critici del Binni e del Luporini, affiancati, nel 1953, dal De Sanctis, che ne segue le orme metodologiche, proponendo una nuova chiave di lettura dell’opera leopardiana, nessuno, per oltre un secolo e mezzo, si è interrogato sulla vera essenza del Recanatese, oltre che sulla sua stessa ideologia. Eppure, Leopardi non è stato soltanto un grande artista, ma anche un grande uomo, aspetto, quest’ultimo, parso alla critica del tutto marginale, ed in alcuni casi, ancora oggi, si tende a prescindere dalla biografia leopardiana; testimonianza imprescindibile di quanto sia proprio nell’animo leopardiano che bisogna sondare, per cogliere quel distinto segno di vita, quel soffio vitale che si espande nel dolore e nella leopardiana capacità percettiva del palpitio più profondo dell’esistenza umana. Dotato di una sensibilità oltremodo acuita, ma senza la quale non avremmo mai potuto leggere versi sublimi, come quelli dell’Infinito, Leopardi percorre interamente il sentiero della propria vita. Dunque, appare evidente quanto l’universo leopardiano sia oltre l’esperienza letteraria: è dall’anima che nascono i palpiti del Leopardi e, successivamente, prendono corpo nei suoi versi, e dall’anelito alla vita che scaturiscono i moti, le speranze disilluse, la tendenza a carpirne i più intimi segreti, consegnati poi, alle pagine delle sue liriche, è nel bambino prima e nell’uomo poi, che si evidenzia un’incolmabilità affettiva, racchiusa, a volte, in versi suggestivi e toccanti. Tutto questo è nell’intima essenza di un uomo, e non nella vena poetica di un artista. Leopardi non guarda il mondo attraverso i vetri, dimenticando la vita, ma vive, esiste e continua ad esistere nei cuori e negli animi di coloro che, condividendone la medesima sensibilità, ne hanno fatto un credo di vita. Senza esagerazione alcuna, lettori sempre più invogliati a cogliere la grandezza letteraria del Nostro e, soprattutto, le grandi verità consegnate ai suoi versi, si accingono a carpire l’universo leopardiano, dal quale, vengono non solo sfamati, ma anche dissetati dalla freschezza delle sue fluenti parole, per chi attinge dalla fonte e chi della fonte sa far l’oceano della propria esistenza. 180 Giuseppe De Matteis Profilo di uno scrittore di razza: Domenico Lamura di Giuseppe De Matteis Ricordo, a distanza di cinque anni dalla sua morte, con profonda stima e grande amicizia, la figura e l’opera di Domenico Lamura di Trinitapoli (FG). Egli è scomparso il 30/7/2001, all’età di novanta anni, lasciando un vuoto incolmabile nel campo culturale e letterario della Puglia e della Daunia in particolare. Negli anni della sua permanenza a Roma (1934-‘40), come studente alla Facoltà di Medicina, egli ebbe contatti e frequentazione con l’allora assistente spirituale della FUCI, Giovanni Battista Montini, e con altri autorevoli esponenti della cultura cattolica italiana. Tornato a Trinitapoli, esercitò con amore ed impegno la professione di medico, iniziando un’intensa attività di giornalista-pubblicista, specie all’ «Osservatore romano». Nel 1943 scrisse la sua prima opera d’ispirazione religiosa: Noi poveri, capitolo compreso nel volume Appello ai fratelli più ricchi, a cui collaborarono anche Giorgio La Pira, Igino Giordani, Luigi Moresco e Fausto Montanari. Negli anni 1944-’45 fu anche Sindaco di Trinitapoli, esplicando in pieno una corretta ed operosa azione civile, affiancata ad un laicato consapevole della propria vocazione anche nella comunità cristiana del proprio popolo. Il Lamura ha rappresentato per la Puglia (e per la Capitanata in particolare) una delle voci più autorevoli della civiltà culturale e letteraria nazionale. Di lui l’«Osservatore romano» (3/8/2001) ha scritto: “Dalla penna di Domenico Lamura è scaturita, in prosa e in versi, un’importante testimonianza del meridione cristiano e contadino, con una ricchissima complessità di temi, illuminata sempre dalla luce del Vangelo. Esperto conoscitore e sensibile interprete della realtà meridionale, egli l’ha spesso descritta con stile passionale e a tratti rugoso. Le sue opere, animate da profonda ed autentica ansia religiosa, colgono, nell’esperienza di ogni uomo, il volto del Cristo sofferente”. Oltre a questo autorevole giudizio, altri importanti profili sono stati espressi nella stampa nazionale sul Lamura: da Goffredo Bellonci a Raffaele Ciasca; da Vincenzo Terenzio a Lorenzo Bedeschi; da Tommaso Fiore a Piero Bargellini; da Bonaventura Tecchi ad Enzo Panareo; da Leonardo Cruciani a Nicola Carducci; da Fortunato Pasqualino ad Alfredo Massa; da Mario Sansone a Michele Palmieri; da Michele Abbate a Francesco Bruno; da Ottavio di Fidio a Domenico Lattanzio; da Leonardo Sacco a Nino Palumbo; da Cristanziano Serricchio a Michele Dell’Aquila; da Giuseppe De Matteis a Donato Coco, ecc.. Sue poesie e brani della sua narrativa sono presenti ormai in molte antologie di poesia e narrrativa italiane contemporanee. 181 Profilo di uno scrittore di razza: Domenico Lamura Il medico - poeta e scrittore - Lamura iniziò la sua attività dagli anni cinquanta in poi, pubblicando varie opere, ormai ampiamente conosciute ed apprezzate dalla critica ufficiale: Falciata spiga (sua prima raccolta poetica, con prefazione di Goffredo Bellonci, Roma, Fratelli Palombi, 1947); Terra salda (narrativa, Foggia, quaderno ETP di Capitanata, 1952, 1958 e 1981); Il cenciaiolo pagatore (narrativa, con prefazione di Lorenzo Bedeschi, Coletti, Roma, 1955, 1964 e 1987); Allegria di un carro merci (poesia, con prefazione di Tommaso Fiore, Cosenza, Pellegrini, 1968); Adamo e la terra (romanzo, con presentazione di Michele Palmieri, Bari, Adda, 1969: Premio “Gargano”, 1970); La saggezza di John Spencer (racconti, con presentazione di Mario Sansone, Bari, Adda, 1980); Il lamento per Aldo Moro e altre poesie (poesia, con prefazione di Ottavio Di Fidio, Bari, Adda, 1981); Il dialogo dei ladroni (poesia, con prefazione di Giuseppe De Matteis, Bologna, 1989). Terra salda è una raccolta di meditazioni, osservazioni varie e cenni storici sul Tavoliere che intende mettere in luce il fatto umano concreto. L’intonazione generale del libro presenta aspetti di eticità quasi di sapere biblico. Vi campeggiano, infatti, la Puglia antichissima dei pastori; le stagioni sempre uguali dell’assolata e sitibonda nostra terra; l’estraneità, da parte dei re, imperatori e dei loro annosi conflitti bellici, alla storia della povera gente. L’arco di tempo di questa storia raccontata egregiamente dal Lamura comprende gli ultimi due secoli della vita del Tavoliere, quando cioè alcune famiglie di contadini, alla fine del Settecento, decisero di lavorare quell’arida terra. Da questa indagine scaturisce una prosa realistica asciutta, essenziale, che riscopre usi, costumi, tradizioni, mentalità, fede della popolazione della Daunia, accennando e fornendo a volte, con estrema puntigliosità, note di statistica e osservazioni economiche davvero importanti per capire il nostro Sud. Lamura era fermamente convinto, infatti, che per intendere in pieno la “triste” realtà del nostro meridione è necessario rifarsi alla “vita concreta” di quei contadini, di quegli umili “pionieri” (avrebbe detto il Manzoni), che li seguirono e che diedero vita a quel “western contadino del Tavoliere” come lo chiamò lo stesso Lamura. Il Cenciaiolo pagatore è la biografia del sacerdote di Trinitapoli Giuseppe Maria Leone, visto dal Lamura come l’artefice della rinascita religiosa, che avvenne nel sud Italia, dopo la crisi seguita all’Unità. I frutti di questa rinascita l’Autore li vedrà realizzati dal gran proliferare di alcuni ordini religiosi che si adoperarono in tutti i sensi nella fondazione del Santuario di Pompei e delle annesse istituzioni di opere pie per opera dell’avvocato Bartolo Longo e per opera anche dell’instancabile padre Leone. È questa un’opera di parenetica religiosa, a favore delle ragioni della fede e della Chiesa, in sostanza. Di Adamo e la terra va subito osservato che è un libro scabro, severo, che descrive la disperata situazione del contadino del Tavoliere pugliese. Il racconto non presenta toni pietistici o drammatici o, anche, sentimentali. Tutto è teso, invece, ad esprimere sentimenti reali, con forme e umori dialettali, talvolta. Il Lamura pare senta molto l’influsso del Verga maggiore, che sa dare forma alla nuda realtà dei fatti, delle persone e della religiosità e che ha anche grande considerazione e rispetto della misera condizione umana. Protagonista del romanzo è la famiglia 182 Giuseppe De Matteis Croce, insieme al Tavoliere: Lamura tesse la storia di tre generazioni di questa misera famiglia contadina, tutta dedita al lavoro, alla procreazione dei figli e alla loro cura e, infine, alla morte. Si può affermare che l’Autore si sia ispirato, in questa storia, con una sua memoria linguistica, narrativa ed etnica, al grande esempio dei Malavoglia del Verga. Belle sono le descrizioni degli ambienti umani e naturali di questo libro, fotografati con lo sguardo genuino, autentico del contadino verace. Lo stile è discorsivo e comunicativo, specie verso la fine del racconto. La saggezza di John Spencer. Vengono narrate in questo romanzo, sull’onda della memoria, le vicende di Trinitapoli fra gli anni della seconda guerra mondiale (1939-‘45) e del dopoguerra anche; inoltre, l’Autore parla di episodi della sua vita militare e di quella professionale. Manca qui il linguaggio espressivo e pregnante di Adamo e la terra per far posto all’intrusione dell’ammaestramento morale e dell’apologia ecclesiastica. Tutta la storia presenta, comunque, scorci felici e di buona fattura, specie il brano di prosa La fabbrica. Lamura iniziò assai presto ad avvicinarsi alla poesia. Nel 1947, presso Palombi di Roma, pubblicò una bella ed agile plaquette, Falciata spiga, con un’entusiastica prefazione di Goffredo Bellonci, allora considerato uno dei più importanti lettori ed interpreti della poesia italiana del Novecento. Questo critico intuì subito la fine sensibilità lirica del Lamura, la sua natura umile, che si nutriva però dei validi valori della rassegnazione e della fede. Il Bellonci sottolineò i toni domestici e l’ascendenza crepuscolare del dettato poetico lamuriano, osservando anche di trovarsi davanti ad una materia poetica densa e precisa, pur palesando che il Lamura era un poeta ancora alla ricerca di un proprio linguaggio, in fieri dunque. Bellonci evidenziava la poetica delle piccole cose, di gozzaniana memoria, e notava con piacere come il linguaggio del Lamura rivelasse forti e robuste influenze della tradizione letteraria (Leopardi, Manzoni, Pascoli, Carducci): da qui, dunque, l’individuazione di un primo parto poetico del Lamura sostanziato di freschezza e di commozione. Con la seconda silloge poetica, Allegria di un carro merci, c’è la rivelazione in Lamura di una sensibilità religiosa e sociale, con un linguaggio intenso, vicino alla poesia moderna e contemporanea (Saba, Ungaretti, Montale, Quasimodo), ma anche di poeti religiosi ed ermetici (Eliot e Rilke). I sentimenti di Allegria risultano decisamente più concreti ed umani rispetto a Falciata spiga. La religiosità del Lamura appare in questa nuova silloge davvero come “partecipazione umana”, sociale e religiosa. Sono venti poesie, che testimoniano l’autentico e sincero suo atto di fede nella vita. La bella prefazione a questa raccolta è firmata da Tommaso Fiore, grande meridionalista pugliese. Lamento per Aldo Moro ed altre poesie, con note critiche di Ottavio Di Fidio e di Renato Dell’Andro, è il titolo della terza silloge poetica del Lamura, dove si registrano con chiarezza la tensione morale, politica e psicologica della Nazione italiana nei giorni della prigionia e dell’assassinio di Aldo Moro. Oltre al senso dell’orrore e della paura, si evidenzia anche nel volumetto la bella visione della campagna romana, dolce e distesa e, in senso più spaziato, la prospettiva storica, ossia la violenza e la sua vittima innocente (Moro) vista come storia; ma Lamura mette in 183 Profilo di uno scrittore di razza: Domenico Lamura evidenza, anche, il valore altissimo e profondo dell’amore. L’importanza di questa raccolta poetica risiede nel fatto che l’esistenza dell’io non è individuale, ma diventa partecipe di una vita universale e forma un unicum col granello di terra, i silenzi stellari e il filo d’erba: il tutto modulato in un canto disteso, che equivale al messaggio che il Lamura vuole suggerire al lettore. Nell’ultima sua raccolta poetica, Il dialogo dei ladroni, notiamo subito che il centro poetico e religioso di questo poemetto dialogico tra Dismas e l’Altro, cioè i due ladroni che saranno crocifissi come Gesù e moriranno, è il momento della confessione di Dismas, in cui c’è lo scontro fra la sua iracondia infanticida (o assenza di Cristo) e la sua meditata e palpitante costrizione (o viva presenza di Cristo). Il vero dialogo o dialettica drammatica – osserva Lamura – è nel cuore di Dismas, fra il prius e il posterius del suo spirito. Questo dialogo fra i ladroni segna, a mio avviso, uno dei più vivi risultati poetici raggiunti dal Lamura. L’ultima opera, a carattere narrativo, del Lamura è stata: Venne a Napoli il giovane studente. Storia di Bartolo Longo (La giovinezza), Pompei, 2000. Lamura ricostruisce, con questo suo libro, la storia della giovinezza di Bartolo Longo dalle radici di Latiano in Puglia dove era nato nel 1841. In questo libro salta subito agli occhi il desiderio di Bartolo Longo di indipendenza e di giustizia: la spedizione dei Mille in Sicilia accende in Longo un travolgente entusiasmo per l’unificazione d’Italia. Egli nel 1863 va a Napoli per frequentare la Facoltà di Legge all’Università e segue le lezioni di Luigi Settembrini, Bertrando Spaventa e del Tommasi. L’anticlericalismo di Spaventa offusca un po’ la mente del Longo, ma egli alla fine riesce ad imboccare la strada giusta nella ricerca del vero, nel bisogno di Dio e questo dissidio interiore lo spinge verso la spiritualità. Cominciano le sue frequentazioni con altri personaggi importanti mossi dagli stessi interessi morali e religiosi, come Vincenzo Pepe, Crocefissa Capodieci e Caterina Volpicelli, e si avvicina sempre più ai sacramenti della confessione, alla celebrazione eucaristica, dedicandosi soprattutto ad opere di apostolato religioso. Egli intende, in quell’epoca di irreligiosità ed anticlericalismo imperanti, riscoprire l’eredità cristiana nella crisi sociale del suo tempo. Crea, in collaborazione con Pepe, padre Ribera, Radente e Leone, scuole, convitti, case di lavoro, strappando alla povertà ed indigenza molte persone: visita i bassifondi, aiuta i diseredati e frequenta l’Ospedale degli Incurabili. Intuisce bene che nella carità cristiana c’è la restaurazione sociale e l’aristocrazia del cattolicesimo. Bartolo Longo nel 1871 diventa terziario domenicano con il nome di fra’ Rosario. D’ora in poi, studierà e farà opera di carità con sempre maggiore impegno e dedizione: fonda il Santuario della Madonna di Pompei, aiuta gli orfani e i figli dei carcerati. Con quest’opera Lamura conferma ancora una volta le sue doti di saggista e narratore ma anche di grande conoscitore dell’animo umano. Egli, anche nel giudizio della critica italiana contemporanea, è riconosciuto come narratore e lirico sensibilissimo, che ha saputo individuare con chiarezza l’autentico sentire spirituale nel mondo della fede e della religiosità. Per Terra salda e Il cenciaiolo pagatore Lamura ebbe ripetutamente il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio. È, però, con il Il dialogo dei ladroni 184 Giuseppe De Matteis che il Lamura ci ha offerto la dimensione della tragedia dell’uomo d’oggi, del suo “feroce egoismo che lo rende sordo al grido di dolore degli altri” (De Matteis). La drammaticità della rappresentazione è evidente e potente e l’Autore sa offrirci, con questo testo teatrale, un’esatta e variegata conoscenza della moderna speculazione filosofica su questo problema, avvicinandosi al pensiero di Kierkegaard, Camus, Nietzsche e Maritain. Tutta l’ispirazione artistica del Lamura è sostanziata di un notevole rigore etico-religioso e di alta ed accesa significatività poetica, soprattutto di quella cristiana (la luce salvifica di Dio), sorretta costantemente da un senso di fiduciosa speranza e da una salda fede. Domenico Lamura è stato, infatti, uomo di grande fede cattolica e di nobili ideali umani: egli merita d’essere sempre ricordato, soprattutto per il suo impegno umano e sociale, testimoniato come medico e come scrittore, come hanno saputo fare i grandi autori della nostra letteratura nazionale, specie il Manzoni, che il Lamura indicava sempre come “Maestro” impareggiabile di cultura, umanità e perfezione stilistica. Il linguaggio asciutto, pregnante ma fortemente raziocinante del Lamura ci ricorda, infatti, proprio il Manzoni. La scrittura di Lamura è sobria e comunicativa, è curata con scrupolo artigianale, è sottesa da forti sollecitazioni e fremiti moralistici, da attivo e combattivo sentimento religioso cristiano. Egli è stato uno scrittore fortemente legato alla dolente realtà della propria terra e della propria gente; perciò anche il suo linguaggio è teso alla chiarezza, alla concretezza, alla purezza. Anche dopo un quinquennio dalla sua morte, noi sentiamo il dovere di ricordare ancora questa nobile figura di intellettuale meridionale, esprimendo il nostro cordoglio e la nostra convinzione piena e sincera che egli ci ha lasciato, come eredità, il segno della sua rettitudine e della sua saggezza. Due esempi della poesia di Domenico Lamura: LE ULTIME TEGOLE Mi dicono che quest’ultime tégole, condominio del passero, presto le abbatteranno. Povera terra cotta, vissero anch’esse, da quando, ed è tant’anni, dal fornaciaio appresero come grembo a incavarsi, pei nati della donna e della pàssera. E vecchie e gialle, s’allegrano ancora se piove, e sanno il giro delle stelle, e le nuvole e la luna. E vedo che qualcuna 185 Profilo di uno scrittore di razza: Domenico Lamura un suo ditale di terriccio accatta, granello su granello, per accogliere seme d’erba lontana. Argilla anch’io, io che sono a me stesso malessere e problema, nella tua mano ch’io m’incavi, o Dio; e che méscoli il fiato col granello di terra che tu chiami al lavoro, e col tumulto d’àtomi che ferve nei silenzi stellari: col fiato d’erba effimero di tetto, cui procuri una cruna, e le grandi foreste ch’àgiti e allevi, come il cuore dell’uomo. Da: Lamento per Aldo Moro e altre poesie, Bari, Adda editrice, 1981. FALCIATA SPIGA Dagli ultimi. Uliveti spunta la luna e pura ombre tacite pasce all’adusta pianura, e imbianca l’aia. E il venticello si risente a mezzo della notte come un bambino, e con lieve calpestio vien per l’aia, scalzo e odorato di stelle in fiore e di grano falciato. E gli uomini con alito d’angelo tocca: ciascun si riconforta che in palmo d’ombra d’umile tettoia della stagion dell’opere s’attardi a conversare. E avvien che in cuore 186 Giuseppe De Matteis dell’eterno io ragioni, Per la strada che la luna dipana, cigola un carro e pare mi lasci, mentre lento lontana, una falciata spiga d’uman dolore. Da: Falciata spiga, Roma, Fratelli Palombi editori, 1947. 187 188 Dionisio Morlacco La Biblioteca Comunale di Lucera di Dionisio Morlacco Se le opere, i monumenti, le pubbliche istituzioni possono considerarsi, a ragione, segni e momenti del progresso di una città, dello sviluppo socio-culturale di un popolo, questo è tanto più vero quando si viene a parlare della Biblioteca “Ruggero Bonghi” di Lucera, che costituisce una significativa pagina di storia e di civiltà della città, a scrivere la quale hanno contribuito uomini di sicura ed ampia cultura, di provata rettitudine, di grande amore di patria. La Biblioteca Comunale di Lucera rappresenta l’ultima fase dello sviluppo nel tempo di quella prima Biblioteca Civica che fu fondata nel 1817, col patrimonio librario del marchese Giuseppe Scassa, patrimonio in precedenza arricchito dallo stesso con l’acquisto presso un libraio napoletano della libreria del letterato Paolo Rolli.1 Sulla data della fondazione è necessario, però, fare una precisazione: nel 1817 la biblioteca nacque solo come dichiarazione d’intento, cioè come espressione di volontà, perché la sua sistemazione materiale e la sua apertura avvenne solo alcuni anni dopo. Alla morte dello Scassa,2 poiché anche la sua “libreria” pervenne per eredità alla famiglia De Nicastri, il marchese Gaetano De Nicastri (nipote dello Scassa), per favorire lo spirito di rinnovamento civile e culturale della città - avviato già sotto la dominazione francese - e per contribuire all’elevazione dei concittadini, nella nuova situazione politico-culturale venutasi a determinare a seguito della restaurazione, “con un gesto di squisita sensibilità e di spirito culturale e civile”,3 volle destinare l’eredità libraria dello Scassa alla creazione di un luogo di cultura, dove i lucerini potessero trovare “il comodo di approfondire nelle Scienze e rendersi utili a loro stessi e alla Patria” - nella quale in passato non erano mancati fermenti culturali (si pensi all’Accademia di Antonio Muscettola) ed elette figure (Pietro Ranzano, Domenico Caropresa, i fratelli Lombardi, i Bonghi, ecc...). Ne avrebbero tratto 1 Poeta italiano (Roma 1687-Todi 1765). Compiuti gli studi sotto la direzione di Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), nel 1715 si recò a Londra, dove divenne precettore dei figli di Giorgio II. Qui si adoperò a diffondere la cultura italiana (Dante, Tasso, ecc...). Scrisse diversi testi per melodrammi e tradusse (1735) il Paradiso perduto di Milton. Tornato in Italia nel 1744 si ritirò a Todi, paese della madre, dove morì. In poesia fu poeta dell’Arcadia ben prima del Metastasio. 2 Il Conte Berardo Candida Gonzaga, nella sua ponderosa opera sulle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, scrive che la morte dello Scassa fu dovuta ad avvelenamento 3 Giuseppe TRINCUCCI, La biblioteca “R. Bonghi“ di Lucera, Lucera, Tip. Ed. C. Catapano, 1977 (Quaderno della Pro-Loco di Lucera, 3). 189 La Biblioteca Comunale di Lucera profitto quanti, desiderosi di apprendere e di sapere, non disponevano però dei mezzi per farlo: pensiamo ai volenterosi giovani dei ceti meno abbienti, cui non arrideva la fortuna economica di potersi pagare gli studi, mentre nelle dimore magnatizie e negli studi professionali ricche biblioteche si stagliavano sulle pareti. Fu così che nell’assemblea decurionale del 16 marzo 1817 il sindaco Onofrio Bonghi4 dava conto della volontà del cav. De Nicastri, e il decurionato, intieramente penetrato da un tratto sì segnalato di gratitudine, e beneficenza, reso a gran vantaggio de’ cittadini, nell’atto che infinitamente ringraziava esso prelodato Signor Cavaliere, che vieppiù immortalava il suo nome, al tempo stesso pensava alla conservazione di tale Monumento Pubblico ed affinché si fossero dati quei passi giusti e regolari che si convenivano onde situarla in uno dei locali de’ Conventi soppressi, donati da S. M. D. G. al Comune, e quant’altro fosse stato necessario per far consolidare sì giovevole stabilimento, si veniva tale decurionato medesimo a formare una deputazione permanente, che, d’accordo col Sig. Sindaco, potesse fare quanto si conveniva. Quindi, essendosi proposto dallo stesso Sig. Sindaco il Sig. Cav. D. Gaetano De Nicastro, Can. D. Francesco da Paola Lombardi,5 D. Giambattista Gifuni e D. Potito Bonghi, i medesimi ad unanimità dal decurionato rimasero eletti e confermati membri della Commissione comunale per la pubblica Biblioteca. L’Intendente Pignatelli, principe di Monteroduni, approvava incondizionatamente sia la generosità del De Nicastri che l’operato del decurionato. Circa due anni dopo, nell’assemblea del 28 febbraio 1819, dopo aver precisato che le spese necessarie per il trasporto e per la sistemazione dei libri sarebbero ricadute sul fondo dello stato di variazione del 1819, e dopo aver dichiarato “che l’impiego di Bibliotecario era un posto d’onore, da darsi a culto cittadino, attaccato al benessere della Patria”, i decurioni, con voto segreto, designavano all’unanimità Filippo Antonio Lombardi quale bibliotecario e Pasquale Pastore quale commesso della medesima biblioteca. Figura eletta di sacerdote, Filippo Antonio Lombardi - che si ritroverà come Maestro di economia rurale nel Liceo (1820) - era subentrato allo scomparso (23.4.1817) fratello Francesco da Paola - “rapito dal miasma corrente nel più forte della sua età” - nella Commissione per la biblioteca; e, benché avesse rinunciato a far parte della Commissione provinciale della Pubblica Istruzione, pure non pochi e importanti incarichi ricoprì con onore, tra cui quelli di Ispettore 4 Archeologo e collezionista di una ricca serie di monete normanne e sveve, ebbe il merito di avere per primo riconosciuta la moneta onciale di Lucera. Fu sindaco di Lucera dal 1808 al 1819, anno in cui ospitò Keppel Craven, Ufficiale dello Stato Maggiore dell’esercito del Regno Unito. 5 Il Lombardi era membro di altre deputazioni, tra cui quella delle Scuole primarie di ambo i sessi, dei mobili e riattazioni del Palazzo della Corte Criminale e Tribunale di 1a Istanza di Capitanata e quella incaricata della costruzione del Camposanto. 190 Dionisio Morlacco delle scuole primarie della Capitanata e di Rettore del Convitto “Carlo Antonio Broggia” nel 1824.6 Il 31 maggio 1820 l’amministrazione comunale stanziava, finalmente, 150 ducati per il “traslocamento della pubblica biblioteca dal Palazzo del fu Sig. Marchese Scassa nella parte di S. Francesco all’uopo preposta” e per gli adeguamenti “di fabbriche e legnami” occorrenti. L’anno dopo (14 ottobre 1821), dovendosi provvedere alla successione del Lombardi - rinunciatario - il decurionato cittadino fece pervenire - secondo le disposizioni allora vigenti - all’Intendente di Capitanata una terna di “uomini probi e degni”: Can. D. Luigi Nocelli, il Sac. D. Tommaso Vigilanti e D. Antonio Longhi. Rispettando l’ordine di preferenza indicato, l’Intendente Biase Zurlo nominò bibliotecario il Can. D. Luigi Nocelli. Due anni più tardi (28.3.1823) il re Ferdinando I con suo rescritto volle assegnare dei fondi per l’incremento dell’istituzione culturale lucerina, per manifestare così la sua benevolenza verso la città e il suo apprezzamento per la nuova biblioteca. E fu questo, certamente, un atto particolare verso Lucera del re “lazzarone”, perché “il governo borbonico non prese mai iniziative per la formazione di nuove biblioteche o per potenziare le attività culturali”.7 Nel 1824 alla scomparsa di Gaetano De Nicastri, principale artefice con la sua donazione della nascita della biblioteca, il figlio cav. Pasquale venne chiamato a prenderne il posto nella Commissione, con il placet dell’Intendente Zurlo. E la Commissione venne così ad essere costituita dal sindaco Alfonso Ciaburri, Pasquale de Nicastri, Giambattista Gifuni, Filippo Lombardi e Potito Bonghi. Il cav. Pasquale De Nicastri si adoperò concretamente alla realizzazione del desiderio del padre.8 L’anno dopo la Commissione provinciale di Pubblica Istruzione - nella quale non mancava la qualificata presenza lucerina - rispettando la disposizione dell’Intendente, che prescriveva il differimento delle rilegature dei libri, deliberava di “aumentare la biblioteca con nuovi acquisti” (innanzitutto dalla libreria Borel di Napoli). A questo punto non si sa se la biblioteca venisse già aperta al pubblico negli anni che intercorsero tra il suo insediamento in S. Francesco e la sua inaugurazione, che avvenne solo il 30 maggio 1831, “per solennizzare il fausto giorno onomastico di S. M. Ferdinando II Re del Regno delle Due Sicilie”, che solo pochi giorni prima 6 Il decurionato chiese all’Intendente prov. che a Filippo Lombardi fossero trasmesse le cariche già tenute dallo scomparso Francesco da Paola, cosa che fu possibile solo per le cariche conferite dal comune, mentre per le altre occorreva l’autorizzazione delle superiori autorità. 7 G. TRINCUCCI, La biblioteca “R. Borghi” di Lucera…, cit. 8 Il gesto encomiabile e liberale del marchese solo più tardi fu fatto segno al comune apprezzamento con una iscrizione che doveva essere incisa su una lapide, che non vide mai la luce: “Al Marchese don Pasquale De Nicastri - perché con tutti i suoi libri aveva fondato nell’anno 1817 questa biblioteca - per il comune uso dei cittadini - il Senato e il Popolo di Lucera - geloso custode e conservatore di tanto tesoro - ogni anno con grande sollecitudine e zelo - affinché non si obliasse il ricordo di - un cittadino sì benemerito della Patria - e degli studi e affinché l’esempio di - sì notevole munificenza ingenerasse nel - futuro imitatori - con obbligo morale - non disgiunto da titolo d’onore ebbe cura di porre questa iscrizione nell’anno 1882”. 191 La Biblioteca Comunale di Lucera (17 maggio) era stato a Lucera, accolto con entusiasmo dal popolo, compiaciuto per la venerazione che il sovrano dimostrava verso S. Maria Patrona e per la sua preferenza accordata ai prodotti della terra di Capitanata, le cui fiere era solito frequentare. L’inaugurazione, alla presenza del vescovo di Lucera, Mons. Andrea Portanova, del bibliotecario Can. D. Luigi Nocelli e dei membri della Commissione per la biblioteca, avvenne nel corso di una pubblica Accademia letteraria, per la quale “D. Luigi Nocelli tenne il discorso inaugurale, parlando della importanza della biblioteca e di questo nobile istituto culturale, indicando in quella di Lucera uno ‘stabilimento singolare in Provincia di cui può andar superba Lucera’”.9 Per la cui continuità, dell’Accademia appunto, negli anni successivi lo stesso can. Nocelli avanzò presso il sovrano “una supplica umiliata”, tale che fu “accordata al Bibliotecario e Protonotario Apostolico Signor D. Luigi Canonico Nocelli con Sovrano Rescritto de’ 18 Febbrajo 1832”,10 e così ogni anno - fino al 1847, come attestano i documenti della biblioteca stessa - essa ebbe regolare svolgimento. Di queste pubbliche manifestazioni culturali restano i preziosi e introvabili libretti (messi a stampa dall’editore Coda di Napoli e poi da Scepi di Lucera), in cui furono raccolti le prolusioni, i testi poetici e di prosa dei partecipanti. Testi per la maggior parte celebrativi della figura del Re, non solo in lingua italiana, ma anche in latino, e perfino in greco, a dimostrare il grado di cultura dei partecipanti, i quali erano in gran parte esponenti del clero, professori del Liceo e del Seminario, ed anche alunni di questi istituti.11 Della cerimonia dell’inaugurazione, che fu un avvenimento molto importante per la vita della città ed avvenne, come detto, con l’Accademia del 1831, si legge nella cronaca di Saverio del Pozzo: “La città si vide la sera spontaneamente tutta illuminata. In Piazza Duomo venne eretto un arco trionfale con una gran statua 9 TRINCUCCI, op. cit. “Dopo un triennio di regno caratterizzato da misure innovatrici che fecero pensare a una sua possibile evoluzione in senso liberale, imboccò invece decisamente la via dell’assolutismo più gretto e reazionario”; cfr. Enciclopedia Rizzoli-Larousse, alla voce Ferdinando II di Borbone. 11 Tanto per farsi un’idea del livello culturale dei partecipanti vogliamo segnalare i temi svolti nelle prolusioni: Origine della Pubblica Accademia di Capitanata e sua importanza nella storia della cultura, di D. Luigi Nocelli (1832); Discorso intorno l’origine, progressi, ed utilità dell’Eloquenza, di Biagio de Benedictis, Giudice della G. Corte Criminale di Capitanata (1833); Sull’origine e contagio della Poesia tanto per la Società Civile, quanto per le Scienze, e per le belle Arti, di Francesco Pellegrini, Professore di Eloquenza del R. Collegio di Lucera (1834); Sulla utilità che apporta la lettura della storia, di Vincenzo Del Pozzo (1835); Della connessione tra la Filosofia teoretica e l’Eloquenza di D. Felice Terzulli, Professore di Logica, metafisica etica, diritto di natura e matematica sintetica nel R. Collegio di Capitanata (1836); Utilità delle passioni dell’uomo, di Angelantonio Scambellari, Vicerettore del Collegio (1841); L’integrità della vita e la conservazione della stessa è un prezioso dono della natura, di Felice Terzulli (1842); La giustizia come fonte della felicità dei popoli, di Domenico Frisari, Giudice (1843); Sui vantaggi della pace, del Can. Michele Castrucci (1844); La virtù nell’infortunio, di Francesco Di Giovine, Avvocato e Giudice supplente (1845); Se l’amore sia il principio di ogni dovere sì teologico che etico e sociale, di Giuseppe Forleo, Professore del Liceo (1846); L’influenza della religione sul buon ordine sociale, del Can. Raffaele Nocelli (1847). Tra i nomi più rappresentativi della cultura lucerina del tempo figuravano i professori Tommaso Vigilanti, Leonardo Del Vecchio, Gaetano Vigilanti, Benvenuto Spano, Giuseppe Moffa, Matteo Perrucci; e anche Orazio Antonio Lepore, Mattia Spano, Carlo Summonte, Achille Bonghi, Luigi Goffredo, Giambattista Albarella; tra gli alunni Nicola e Ignazio Gifuni, Nicola De Peppo, Giulio Cassitto, Domenico Miraglia, Alfonso De Giovine, Vincenzo Cavalli, Raffaele Santollino, Nicola Renzulli, Domenico Cairella, Vincenzo e Raffaele Perrucci, Luigi della Martora. 10 192 Dionisio Morlacco equestre, e un obelisco venne piantato su un giardino pensile. Sia sull’arco, come sulla base della statua e sull’obelisco erano eleganti iscrizioni in latino. La città fu svegliata dal suono delle campane, dallo sparo dei mortaretti e la banda passò per le strade della città. Finalmente alle ore quattordici d’Italia (circa le ore dieci) tutte le autorità si riunirono presso il palazzo vescovile, per portarsi poi nella Cattedrale dove si celebrò una messa solenne. Solo più tardi venne inaugurata la biblioteca con la recita di componimenti poetici di letterati locali e con “un nobile discorso inaugurale”, pronunciato dal Bibliotecario Luigi Nocelli sull’utilità delle pubbliche biblioteche, e su quanto poteva offrire la nuova istituzione culturale lucerina, dotata di ben 4231 volumi registrati. “La sera venne acceso un fuoco artificiale, mentre nel palazzo comunale fu data una festa da ballo con l’intervento di tutte le autorità del Comune e della Provincia, festa che durò fino alle ore 5 del giorno seguente”. Circa dieci anni dopo (17.12.1840), allo scopo di assicurare una maggiore tutela del prezioso patrimonio culturale, si rese necessario assegnare alla biblioteca un custode (Giuseppe Siliceo), al quale venne aggiunto come coadiutore tal Francesco Caravano, che alla morte del Siliceo (3.4.1860), gli subentrò, preferito agli altri due della terna proposta: Pasquale Rinaldi fu Giuseppe e Raffaele Russo fu Pasquale. Intanto, non scemava il costante impegno della civica amministrazione, sia per la conservazione del patrimonio librario, attraverso la rilegatura e l’acquisto di necessarie suppellettili, sia per l’accrescimento dello stesso: nel 1841, ad esempio, si provvide all’acquisizione del fondo del napoletano D. Giacomo Castrucci; sia, infine, per conservare l’efficienza dell’ambiente (con interventi riparatori dei tetti, porte, vetrate, ecc...), pure si cominciava ad avvertire la necessità del trasferimento della biblioteca in più ampi locali. Necessità che veniva riconosciuta pubblicamente in consiglio comunale; nel 1842, infatti, si dichiarava “essere necessario di provvedere al locale della Biblioteca Comunale, perché quello nel quale attualmente trovasi è esposto a borea ed i libri soffrono nel deterioramento. Considerato che lo stabilimento della detta Biblioteca merita tutta l’attenzione del Collegio (Consiglio Comunale) per i preziosi monumenti che conserva […] venga (pertanto) elevata perizia per la spesa necessaria non solo (a realizzare “una stanza di Compagnia, onde rendere più comoda la sala da ballo, affinché le persone invitate nelle feste potessero avere massimo comodo nei divertimenti”), ma ancora per la Biblioteca, la quale per maggior comodo del pubblico dovrebbe occupare l’intero quarto del palazzo comunale verso la parte di levante”.12 Il progetto dei proposti lavori di adeguamento della casa comunale per un migliore funzionamento degli usi amministrativi, che comprendevano anche il locale per la biblioteca, fu eseguito dall’architetto Achille Cavalli (2.6.1844); nel frattempo si rese urgente (5.7.1846) sistemare nella stanza della Biblioteca “una tela dipinta […] - forse un telone colorato - onde impedire che la polvere, cadendo dal tetto, rovinasse i libri, restaurare armadi e scaffali”. Si deve presumere che tali lavori di adeguamento della casa comunale si svolgessero con 12 Deliberazione del 10.8.1842. 193 La Biblioteca Comunale di Lucera molta lentezza; difatti solo una decina d’anni dopo si effettuò il passaggio della biblioteca nei nuovi locali. E tuttavia ancora nel 1854 i libri si trovavano ammassati e depositati in una stanza. Ora che il locale per tale pubblico stabilimento letterario trovasi già pronto (sottoposto alla sala da ballo del Comune), fa d’uopo che i libri tutti vengano con ordine rinchiusi nei rispettivi scaffali affinché si assicuri la loro conservazione, ed anche perché possa aprirsi alla pubblica lettura. E siccome per siffatta laboriosa operazione vi occorrono delle spese sia per trasporto dei libri nel suo proprio locale, sia per la rimessa nei proprj scaffali, e per tutt’altro che all’oggetto potrebbe bisognare, così la spesa in parola può prelevarsi dal proprio fondo segnato all’art. 90 dello stato variabile in corso, destinato per manutenzione del cennato stabilimento. Il decurionato trovando giusta e regolare la proposizione del Sindaco non potendosi ulteriormente tener chiuso uno stabilimento che onora il Comune, che bisogna alla gioventù studiosa, e poiché avvi in Lucera un Bibliotecario nella persona del Can. D. Luigi Nocelli, ad unanimità si avvisa sarà riordinata la Biblioteca dal Bibliotecario D. Luigi Nocelli con l’assistenza del Cancelliere Comunale D. Vincenzo Guerrieri cui si darà un compenso in vista del lavoro compiuto (24.10.1860). Il 9 maggio 1864 il Can. Luigi Nocelli rinunciava all’incarico di bibliotecario. Il consiglio comunale con votazione segreta procedeva alla nomina del successore nella persona di Francesco Del Buono - latinista, già professore di retorica nel Real Collegio e poi professore ordinario di lettere latine e greche nel Liceo lucerino onorato patriota della vendita carbonara lucerina Virtù Premiata, che aveva partecipato al moto napoletano del 1820 ed era andato esule in Grecia.13 Come vice bibliotecario fu designato Filippo Nocelli (23.10.1866), al quale poi nel 1866 venne ad aggiungersi un secondo vice bibliotecario, Alfredo Giannone. Siccome l’Accademia Ferdinandea era cessata da tempo, il nuovo bibliotecario, memore del beneficio culturale di quei convegni cui anch’egli aveva partecipato, fondò una nuova Accademia Letteraria. Ma la direzione della biblioteca di Del Buono non durò molto, perchè alla sua morte (1866) con lo stesso procedimento consolidato il consiglio venne ad eleggere (11.5.1868) il barone Giambattista d’Amelj (12 voti), il quale, non molto dopo, richiese, per motivi di salute, l’assistenza di un coadiutore, che gli fu assegnato nella persona di Emmanuele Cavalli (30.5.1869). Nel 1869, in seguito alla soppressione dei beni ecclesiastici, circa 2000 volumi, provenienti dalle biblioteche delle Congregazioni religiose, confluirono in quella comunale, che venne così ad incrementarsi notevolmente. Erano libri appartenuti agli ordini dei Cappuccini, dei Mannarini, dei Minori conventuali, dei Minori osservanti, dei Riformati. Un ricco patrimonio di edizioni rare e di preziosi testi dal contenuto non solo religioso, ma anche laico e scientifico, e soprattutto testi classi- 13 A lui si deve il recupero del testo della lex lucerina o lex de luco sacro; scrisse Racconti e novelle per i giovani, Vocabolario di voci e di maniere erronee, Principi generali di grammatica, Fioretti grammaticali. 194 Dionisio Morlacco ci. L’applicato di segreteria Francesco Di Giovine fu delegato al riordino di detti libri e alla compilazione del relativo catalogo, e per questo lavoro straordinario gli furono assegnate 200 lire. Alle dimissioni del barone D’Amelj (27.5.1872) la nomina a bibliotecario ricadde sull’avv. Filippo Nocelli (con 13 voti),14 che ebbe per coadiutore l’avv. Michele Dandolo. Qualche anno dopo (1875) il patrimonio della biblioteca assommava già a 9000 volumi. Essa aveva acquistato una tale importanza per la frequenza degli studiosi da meritare tutta l’attenzione e la cura dei pubblici amministratori. “E perché questa via di progresso in cui trova si possa vieppiù sviluppare ha bisogno di un personale scientifico che ne secondi le ambizioni municipali, stante che ora non vi sono che un custode e un aiutante, che si prestano pel mantenimento materiale del locale ed alle occorrenze. Propone perciò crearsi un posto di Direttore con l’annuo assegno di 360 lire”. Si passò poi alla nomina (1.12.1875) del nuovo Direttore e riuscì eletto all’unanimità Vincenzo Del Pozzo. Un fatto eccezionale si verificò nel 1883, quando la biblioteca restò chiusa per alcuni mesi per consentire di svolgere le verifiche disposte all’accertamento della frode commessa da parte del Consegnatario Economo (A. P.) della biblioteca, verificata la quale, l’assessore delegato alla P. I. Guglielmo Paolucci chiese ed ottenne (30.10.1883) l’esonero dall’impiego dello stesso; il consiglio rifiutò tuttavia l’azione giudiziaria di rivalsa verso lo stesso per il danno arrecato e quantificato in 513 lire. Il 17 dicembre 1883 l’assemblea consiliare, elevando lo stipendio del Consegnatario Economo a lire 1200 annue, accresceva i suoi compiti “con l’obbligo di eseguire tutti i lavori dell’Ufficio Comunale che gli si fossero affidati”, e lo assimilava all’impiegato di segreteria. Procedeva poi all’elezione del nuovo Consegnatario: con 14 voti su 17 votanti veniva designato Michele Romeo. E perché l’acquisto dei libri fosse più ragionato si proponeva la costituzione di una commissione di persone distinte nel ramo letterario, scientifico e giuridico, da rinnovare per metà ogni anno, che inizialmente venne ad essere composta da Generoso Bozzino, Ariodante Mambelli, Michele Dandolo e Matteo Perrucci. Al rinnovo, mentre Generoso Bozzino veniva confermato, Michele Dandolo veniva sostituito da Raffaele Nicoletti. Due anni dopo lo stipendio del Consegnatario - che era stato confermato il 25.1.1886 - veniva portato a 1400 lire, ma gli si riduceva la sfera dell’impegno, togliendogli quello di segreteria: “oggi le condizioni della biblioteca affatto mutate non consentono che il Romeo assolva altri obblighi oltre quelli del proprio ufficio di bibliotecario” (31.10.1887). Nel 1888 il Romeo chiedeva la nomina a vita, e poiché aveva sempre tenuto lodevolmente l’ufficio, la sua richiesta fu accolta con 10 14 Filippo Nocelli (1833-1912) insigne civilista e magistrato, benemerito sindaco di Lucera dal 1872 al 1876, consigliere e deputato provinciale, fondatore e direttore della «Gazzetta di Capitanata» che, in opposizione al giornale progressista «Unione», vide la luce il 3 gennaio 1880 e fu “il primo periodico di una certa importanza e diffusione. Presidente per molti anni del Circolo “Vittorio Emanuele II”, fu candidato al Parlamento nel 1882 opposto al foggiano Serra, ma non riuscì eletto per broglio elettorale. Nel 1886 dovette soccombere di fronte alle forti personalità di Salandra e del Pavoncelli. 195 La Biblioteca Comunale di Lucera voti favorevoli e 3 contrari. Il 9 dicembre 1889 si procedeva al rinnovo della Commissione per la biblioteca: Generoso Bozzino, Eugenio Pitta, Raffaele Nicoletti e Matteo Perrucci. Nel 1893 si ripresentò urgente il problema dei locali, perché l’umidità della biblioteca pregiudicava fortemente la conservazione dei libri, attaccati anche dai tarli. L’umidità, tra l’altro, costituiva grave pregiudizio alla salute dei lettori. Il locale, inoltre, non era abbastanza illuminato e difettava di aria, e questo accresceva il bisogno di altro locale più adatto allo studio e alla conservazione dei libri; per di più esso era diventato ormai angusto, poiché vi si andavano raccogliendo anche i reperti preromani, romani e medievali, primo nucleo del futuro museo (inaugurato nel 1905). Il cav. Dandolo riferiva che “i libri facevano pietà, attesa la continua umidità delle pareti, fra le quali erano tenuti […] oltre alla migliore conservazione dei libri s’imponeva la tutela della salute di chi si recava a studiare”. La soluzione fu ravvisata nella contemporanea possibilità di acquistare e adattare alcuni locali della famiglia Testa, confinanti con la casa comunale; “le case suddette hanno i migliori requisiti per essere destinati ad uso della biblioteca, sia perché hanno l’esposizione a mezzogiorno, ed i vani possono essere dotati di aria e di luce, sia perché sono lontane dal rumore delle vie interne […] constatata anche la convenienza del prezzo: 9550 lire”. La discussione, incentrata su questa soluzione e sull’ammontare della spesa, andò avanti per parecchi consigli comunali e vide la presenza vivace di molti consiglieri, con pareri discordi tra quelli che appoggiavano la proposta del sindaco Giuseppe Cavalli (Michele Dandolo, Francescopaolo Persico) e quelli (Agerico Colasanto, Costantino Venditti) che vi si opponevano, proponendo la costruzione “di un locale di pianta”. Polo del disaccordo era, ovviamente, il costo complessivo dell’opera: oltre la somma necessaria per l’acquisto si prevedevano altre 3000 lire per i lavori di adeguamento. Acquisiti infine i locali di Testa, fu affidato (1895) all’ing. Emanuele Landino la stesura di una relazione tecnica riguardante la ristrutturazione dei nuovi locali, per destinarli ad uffici comunali (Archivio, Ufficio sanitario, ecc...), mentre per la biblioteca l’orientamento pareva essere quello della costruzione di un nuovo locale, da realizzarsi nel giardino del Comune in aderenza ai locali Testa. Epperò trovandosi a Lucera “un ottimo costruttore tecnico, tal Michele Vacca di Bari”, egli, insieme con l’amico Antonio Nicoletti, volle visitare il palazzo comunale, la biblioteca e i locali Testa, e, pregato di esprimere un parere sulle opere da farsi, incontrandosi la sera col sindaco a teatro, “non esitò ad affermare che era più conveniente e meno costoso adattare il fabbricato Testa, e coordinare nello stesso tempo l’architettura interna del Palazzo comunale a quella del prospetto principale”. In tal modo si ottenevano “ampi e adatti locali per la biblioteca”, e, mettendo in comunicazione il piano superiore del palazzo comunale con la casa Testa, i vani superiori di questo potevano destinarsi ad uffici comunali. Accolta tale soluzione, il Vacca fu incaricato di redigere il progetto che comprendeva anche un locale per il museo, ma poi accantonato. La spesa complessiva era stimata intorno alle 44 mila lire. Messo ai voti in consiglio comunale, il progetto 196 Dionisio Morlacco fu approvato con 17 voti contro uno. I lavori di adattamento furono aggiudicati all’imprenditore Raffaele Follieri (con delibera consiliare del 19.9.1896, resa esecutiva il 6.11.1896 e registrata in Lucera il 25.11.1896 col n. 237). I lavori, che furono previsti in due anni, subirono qualche rallentamento, perché nel corso della loro esecuzione sorsero alcune controversie con i confinanti (Testa, Folliero, Di Gioia), risolte alla buona con scambievoli concessioni; non così, invece, fu la controversia con Matteo Giannini, il quale aveva un finestrino per luce di tolleranza nel muro confinante col Comune. All’avvenuta occupazione del muro, il proprietario pretendeva l’indennizzo “non solo nel valore della metà del muro, ma anche del danno che gli sarebbe derivato dalla parziale chiusura del finestrino”, per la qualcosa chiedeva la somma di 2000 lire. Non essendosi addivenuto ad un accordo, la giunta autorizzò il sindaco a stare in giudizio contro il Giannini e, per evitare la sospensione dei lavori, fu proposta dal Nicoletti l’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità, sia del diritto della luce di tolleranza che del muro al quale addossare la fabbrica. Nella primavera del 1902 la nuova sede della biblioteca era pronta e l’ing. Celentani Ungaro di Foggia ne eseguiva il collaudo (15.5.1902), dopo di che si autorizzava acnhe lo svincolo della cauzione dell’impresa. Intanto nel marzo del 1901, dovendosi rinnovare la commissione di vigilanza sulla biblioteca, al fine di assicurare un migliore funzionamento della struttura, era stato elevato il numero dei componenti da tre a quattro: Michele Dandolo, Raffaele Nicoletti, Luigi Candida e Eugenio Pitta. Quattro mila volumi, posti l’uno sull’altro nei locali del Teatro, attendevano i nuovi scaffali e la riparazione dei vecchi. L’anno dopo, però, l’assessore Girolamo Prignano veniva a riferire “che nei nuovi locali della biblioteca i libri erano stati già collocati parte negli scaffali di nuova costruzione, parte nei vecchi convenientemente sistemati, sicché dovunque vi era ordine e simmetria, e ben poteva dirsi che la nuova biblioteca era riuscita degna di una grande città - difatti il Primo Presidente della Corte d’Appello di Trani, visitandola, ebbe a dire che Lucera possedeva un ‘tesoro’ ” -. E siccome non si poteva pretendere che il Consegnatario Economo della biblioteca prendesse e rimettesse a posto i libri, che venivano chiesti per la lettura giornaliera, e che periodicamente li spolverasse, perché tale lavoro era proprio di un bidello, vi era necessità di un bidello, cosa del resto “non nuova, perché nei vecchi locali della biblioteca fu sempre tenuto in servizio un bidello, il cui stipendio fu temporaneamente cancellato dal bilancio quando, morto colui che ne esercitava le funzioni, e crollata una sezione dei pavimenti di quei locali, si dovettero accatastare in diversi punti libri e scaffali”. Si rendeva quindi indispensabile l’istituzione di un posto di bidello, per il quale si poteva stabilire uno stipendio annuo di 540 lire. Dopo il trasferimento della biblioteca nel nuovo e più moderno locale (1904) - la cui sala di lettura fu nobilitata col mosaico imperiale romano rinvenuto in Piazza Nocelli nel 1899, postovi per pavimento - essa fu intitolata a Ruggero Bonghi, secondo i voti del consiglio comunale del 23 ottobre 1895. In questa nuova sede la 197 La Biblioteca Comunale di Lucera biblioteca cominciò a vivere il periodo più fulgido della sua storia e della sua crescita, contrassegnata dall’aumento dei giornali locali, delle riviste specializzate per settore (storico, giuridico, scientifico, ecc...), di opuscoli vari, nonché dalla raccolta e conservazione di manoscritti provenienti dai privati, e soprattutto di ricchi fondi di biblioteche private, quali Bonghi, Iliceto, Nocelli, Bozzini, Gifuni, Prignano, Persico, Uva, Pitta. Solo pochi anni dopo (1908) Gaetano Conte scriveva che la biblioteca di Lucera contava già 20 mila volumi. Reggeva allora l’istituzione, con molta dignità e onore, Alfonso De Troia, valente studioso di archeologia e numismatica, autore di studi e ricerche, al quale subentrerà più tardi l’emerito storico Giambattista Gifuni, il direttore per eccellenza, che si renderà sommamente meritevole per il suo instancabile e prezioso impegno, durato tutta la vita, nella continuità dell’acquisizione alla nostra biblioteca - che si vanta di essere la più antica di Puglia - di fondi librari di studiosi, giuristi, letterati non solo lucerini, e provvedendo con perizia alla puntuale sistemazione e catalogazione, con la valida collaborazione di Alfredo e Annita De Nicola. “Per sua cura furono acquisite biblioteche private e interi archivi privati furono guadagnati alla pubblica cultura. Così venne acquistato il ricco archivio dell’avv. Alessandro Cavalli, notevole per la vastità del materiale di storia locale: tra cui i manoscritti del Corrado che integravano quelli recuperati da Del Pozzo”. Ma si pensi anche ai fondi Checchia, Salandra, Tommasone, Lastaria, ai libri donati da Riccardo Del Giudice, da Carlo Cavalli, ecc... A lui, nella direzione della Biblioteca Comunale, successero poi Pietro Roselli, Alessandro De Troia e Antonio Orsitto, col quale siamo ormai ai nostri giorni. Superata la crisi della seconda guerra mondiale, durante la quale i locali subirono danni per l’occupazione tedesca ed alleata, nel 1950-’51, col suo restauro, la biblioteca si avviò verso un’altra fase di crescita e di splendore. Nel 1970, dovendosi ampliare gli uffici comunali, con l’aggiunta di un nuovo corpo di fabbrica, anche la biblioteca venne ad essere ampliata. Successivamente furono introdotte altre migliorie: installazione di moderni impianti di allarme antincendio, di illuminazione, di telecamere di controllo, ecc... Epperò, da non pochi anni la penuria dello spazio si è riacutizzata, sicché molto materiale librario si trova accantonato in un inadeguato deposito e tanti altri volumi aspettano ancora di essere inventariati. 198 Luigi Paglia Paradigma metodologico di lettura poetica di Luigi Paglia Si vuole esemplificare, con questo articolo, un approccio metodologico all’analisi e alla scrittura critica, proposto nelle classi finali delle Scuole superiori, con la collaborazione della Cattedra di “Laboratorio di scrittura” della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Foggia.1 L’itinerario si sviluppa in fasi successive di avvicinamento al testo poetico (in funzione della conclusiva scrittura critica) secondo una metodologia di indagine articolata su quattro piani: primo inquadramento, denotazione, connotazione, contestualizzazione storico-letteraria (rapporto tra l’intertestualità interna e quella esterna o extratestualità) e valutazione critica. Non mi soffermerò molto sui primi due punti riguardanti le operazioni preliminari, che pure sono indispensabili alla comprensione del testo, e del contesto della sua realizzazione, relative, da una parte, al primo inquadramento, cioè all’individuazione biografica dell’autore, del periodo storico, della situazione e delle circostanze in cui si è realizzata l’opera, della corrente poetica, delle funzioni e degli scopi della comunicazione poetica, ed, inoltre della tipologia (poesia lirica, epica, realistica ecc.) e del genere della composizione (schema metrico-ritmico: sonetto, ballata, versi liberi, ecc.), e, dall’altra parte, al profilo denotativo (senso superficiale o primario), riguardante l’analisi e il riordinamento logico-sintattico, l’esplicitazione lessicale, le ipotesi circa l’argomento principale e i motivi parziali (e, per la poesia epico-narrativa, l’individuazione delle micro e macrosequenze, delle strutture narrative, del ruolo dei personaggi, secondo le indicazioni della narratologia),2 il riconoscimento della voce lirica (in prima o terza persona). Mi fermerò poco, talmente è evidente la sua importanza, anche sulla quarta parte, quella in cui si esamina il testo poetico in rapporto al contesto storico culturale - sociale - ideologico - filosofico - religioso - artistico, alla tradizione letteraria, alle correnti poetiche ed ai testi del periodo, e si valutano l’originalità, l’innovazione, l’efficacia e la pregnanza tematico-stilistica (e la idoneità di 1 Queste pagine nascono dal lavoro didattico condotto con i miei allievi dell’Università e con gli ex alunni dell’Istituto Blaise Pascal di Foggia ai quali sono dedicate. 2 Cfr. Gerald PRINCE, Narratologia, Parma, Pratiche, 1984 e Seymour CHATMAN, Storia e discorso, Parma, Pratiche, 1981. 199 Paradigma metodologico di lettura poetica attualizzazione tematica) della composizione inserita nel macrotesto e rapportata al panorama intertestuale.3 Insisterò soprattutto sulla terza parte metodologica, che ha bisogno di una maggiore puntualizzazione: quella relativa alla connotazione (il cui concetto è ripreso da Hjelmslev)4 che riguarda gli aspetti profondi, nascosti del testo poetico, non individuabili ad una lettura superficiale. Ogni significazione implica un rapporto tra un Significante ed un Significato (concetto di Segno), e tale processo insiste su un piano di Denotazione. Ma se tale sistema di significazione diventa il significante di un secondo processo di significazione si entra nel campo della Connotazione. La letteratura è un sistema di connotazione o secondo di senso, di cui debbono essere esplicitati i meccanismi e i significati di fondo. La connotazione, nella mia ipotesi interpretativa, abbraccia dieci livelli, dei quali i primi quattro riguardano la “forma dell’espressione” e gli ultimi sei la “forma del contenuto”:5 A) Livello iconico che riguarda l’elaborazione visiva, la disposizione e l’organizzazione spazio-tipografica del testo. Diverso può essere il grado di iconicità (ossia il segno che rimanda all’oggetto o la rappresentazione per somiglianza) dal Futurismo a Ungaretti, alla poesia visiva:6 in Ungaretti lo spazio bianco è l’equivalente visivo del silenzio in cui galleggiano le parole, che si staccano isolate nel verso, apparendo come grumi semantici che realizzano la massima intensità comunicativa. Nelle tavole parolibere di Marinetti e dei Futuristi (e nella più recente poesia visiva o concreta) si produce la percezione simultanea, insieme al significato, di diverse sollecitazioni visive e sensoriali (mediante il raddoppiamento del significante:7 grafemi + segni iconici (sul piano visivo) e fonemi + onomatopee (sul piano auditivo), modalità spesso combinate. Nella Tavola parolibera omonima, il Pallone frenato turco (in Zang TumbTumb) è disegnato con le parole disposte circolarmente. 3 Sul concetto di macrotesto, cfr. Maria CORTI, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976, pp. 145-146, e Enrico TESTA, Il libro di poesia, Genova, il melangolo, p. 11 e segg. Per quanto riguarda l’intertestualità, interna ed esterna, e l’extratestualità, cfr. Julia KRIESTEVA, Σηµειωτικη’, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 209, Cesare SEGRE, Teatro e romanzo, Torino, Einaudi, 1984, pp. 103-117, Angelo MARCHESE, Dizionario di retorica e di stilistica, Milano, Mondatori, 1978, pp. 126-127 e 92-93. Si veda anche l’analisi di Paul ZUMTHOR, Semiologia e poetica medievale, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 24: il testo è “luogo di confluenza e di trasmutazione globale degli elementi di una cultura: sociali, intellettuali, estetici, persino tecnologici”. 4 Sull’argomento, cfr. Louis HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino, Einaudi, 1968, pp. 122-134; Roland BARTHES, Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966, pp. 79-83 e Umberto ECO, Le forme del contenuto, Milano, Bompiani, 1971, pp. 58-64. 5 Cfr. L. HJELMSLEV, I fondamenti della teoria del linguaggio..., cit., passim, R. BARTHES, Elementi di semiologia..., cit., p. 38; M. CORTI, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976, pp. 138142. 6 Sulle operazioni delle avanguardie del Novecento e della poesia visiva e concreta, cfr. Lamberto PIGNOTTI e Stefania STEFANELLI, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del Novecento tra poesia e immagine, Roma, Espresso strumenti, 1980, passim. 7 Cfr. il mio libro Invito alla lettura di Marinetti, Milano, Mursia, 1977, pp. 154-157. 200 Luigi Paglia Le vibrazioni del pallone sono indicate con l’intersezione di linee oblique (segno iconico) che compongono le parole “vibbbrrrrrrrarrre” (segno verbale) con l’accentuazione onomatopeica per moltiplicazione della /b/ (3 volte) e della /r/ (10 volte). Sempre in Zang TumbTumb sono anche da notare i caratteri tipografici di corpo diversificato, che evidenziano differenze concettuali, e il ricorso ad altri codici (segni matematici: + - x : =) per velocizzare e sintetizzare il discorso. B) Livello ritmico - metrico che si riferisce ai fenomeni della versificazione relativi al ritmo (la successione ad intervalli di ictus-accenti metrici; pause, cesure, interpunzione; scarto tra ictus e accento tonico; spezzatura: enjambement o inarcatura) e al metro (numero di sillabe metriche o posizioni nel verso; figure metriche: sinalefe, dialefe, sineresi, dieresi, ecc).8 Tale livello, che può sembrare puramente tecnico (ma la tecnica è, comunque, importante per l’elaborazione del tessuto della poesia), è spesso rivelativo di significati più profondi, è la spia della poetica di fondo. Per es., in A Zacinto il livello ritmico-metrico evidenzia: 1) la rivoluzionaria dissonanza tra la forma istituzionale (schema metrico-ritmico) del sonetto e la sua realizzazione sintattica, per cui il primo periodo si prolunga per 11 versi; 2) il travalicamento dei confini di strofa e verso per cui non si realizza la coincidenza verso-frase e strofa-periodo (per l’introduzione di numerose inarcature); 3) l’esordio in medias res (“Nè più mai”) che presuppone il non detto, il flusso non registrato dei pensieri precedenti. Tali modalità compositive rivelano, quindi, la violenta, inquieta spirale della passione. Pertanto, la forma istituzionale appare come il terreno di lotta, l’espressione della bipartizione e/o dialettica tra spirito classico (le figure e le forme della classicità) e (pre)romantico, che si rispecchiano nelle duplicazioni tra poeta classico: Omero e preromantico: Foscolo (contrassegnati dalla figura etimologica “cantò” - “canto”) e tra eroe classico (Ulisse) e preromantico (lo stesso Foscolo) in rapporto al Fato: “acque fatali” e “il fato prescrisse a noi”. C) Livello fonico che concerne le figure di suono: rima, allitterazione, assonanza, assonanza consonantica, paronomasia, anagramma, onomatopea, fonosimbolismi. Mentre le prime tre figure presentano omofonie, rispettivamente, complete o vocaliche o consonantiche nelle parti finali di due parole, l’allitterazione è la reiterazione dei fonemi all’inizio o nel corpo di una parola, come avviene in Mattina di Ungaretti con la ripetizione delle cellule foniche /mi/ e /me/: “M’IlluMIno/ d’IMMEnso”) che trasferisce e sottolinea anche sul piano fonico “la posizione tolemaica dell’io” (Barberi-Squarotti) La paronomasia, ossia l’accostamento di parole anologhe per suono, e il meccanismo simile dell’ anagramma, ossia la permutazione delle lettere, determinano 8 Si propongono alcuni esempi di combinazione di figure metriche: “Di/cias/cu/na/vir/tù*/al/ta e/gen/ti/ le” (Petrarca): ù* = dialefe;ae = sinalefe; “L’aura sO/A/ve che dal chiaro viso” (Petrarca) = dieresi; “Pien di filoso/fia*/ la lin/gua e il/ petto” (Petrarca): ia* sineresi; a e il = sinalefe. 201 Paradigma metodologico di lettura poetica associazioni (o anche opposizioni) semantiche, come è evidente nella gremita trama fonica di Cigola la carrucola di Montale, in cui le paronomasie “Trema un ricordo nel ricolmo secchio” e “appartiene ad un altro […] atro fondo” e l’anagramma “ruota” “atro” realizzano, rispettivamente, l’identificazione o l’associazione metaforica tra il tremore dell’acqua e il ricordo della donna, tra la dissolvenza memoriale e il buio del pozzo, e tra il negativo dell’azione della discesa e dell’oscurità dello spazio profondo. L’anagramma leopardiano “Silvia - salivi” suggella e rafforza, nella prima strofa di A Silvia, lo sciame allitterativo del fonema /t/, cellula fonica del pronome di seconda persona, che rivela l’ossessione memoriale del Leopardi. Il fonosimbolismo si differenzia, pur nell’ambito della stessa fenomenologia sonora, dall’onomatopea (l’imitazione linguistica di un suono naturale: “c’è un breve gre gre di ranelle”; “Don… Don… E mi dicono, Dormi!”, La mia sera del Pascoli) poiché il significante fonico non è strettamente legato al significato, o, comunque, ad una sonorità naturale, assumendo un valore autonomo, come in Meriggiare pallido e assorto di Montale il verso: “Che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” in cui le aspre dissonanze appaiono come il correlativo fonico dell’acutezza tagliente dei vetri (e, in proiezione metaforica, delle asperità e del “travaglio” della vita). D) Livello sintattico (e morfologico) nel quale rientrano le strutture sintattiche (di cui è esempio precipuo l’accanita proliferazione delle subordinate nei sonetti foscoliani e in particolare in A Zacinto che, in interazione con gli elementi ritmicometrici sopra individuati, designa, come si è detto, la curva appassionata del sentimento del poeta) e le figure sintattiche: ripetizioni a contatto (geminatio) e a distanza, a inizio dei versi (anafora) alla fine dei versi (epifora) e con la disposizione incrociata degli termini semantici o/e sintattici (chiasmo). Una straordinaria partitura delle forme reiterative è rappresentata dalla poesia di Rebora Dall’immagine tesa, in cui l’accanito ritorno delle frasi in epifora “non aspetto nessuno” (per tre volte) ed in anafora “verrà” (per sei volte) appare come una commossa insistente, martellante implorazione perché si realizzi la miracolosa apparizione dell’ospite misterioso. Anche gli elementi morfologici possono acquistare un grande valore. Esemplare è la ricorrenza dei dimostrativi “questo” e “quello” nell’Infinito leopardiano che prospettano l’alternanza vertiginosa della presenza fisica, e dell’immaginazione del poeta, nello squadernarsi dei luoghi e dei tempi. E) Livello semantico-figurativo che riguarda le figure semantiche: similitudine, metafora, sinestesia, metonimia, sineddoche ecc. In particolare, è necessario definire gli elementi costitutivi della metafora (e della similitudine) la quale si realizza con la sovrapposizione dei campi semici di due termini (uno proprio e l’altro traslato) appartenenti a campi associativi diversi. Richards9 ha proposto le definizioni di tenore (ciò di cui si parla), veicolo (il nuovo 9 Ivor Armstrong RICHARDS, La filosofia della retorica, Milano, Feltrinelli, 1967, p.92: il tenore è “l’idea sottesa o il soggetto principale che il veicolo o immagine trasmette”. 202 Luigi Paglia argomento introdotto), terreno comune o tratti comuni (gli elementi di somiglianza tra veicolo e tenore) e gli effetti di senso, o connotazione (le diverse idee associate al tenore per la presenza del veicolo). Per esempio, nella metafora “quattro capriole di fumo” (Natale di Ungaretti) i tratti comuni sono l’arrotolamento, l’avvolgimento su se stesso, e gli effetti di senso si riferiscono alla spensieratezza, alla gioia, al gioco del mondo infantile. I quattro elementi della metafora possono essere visualizzati col diagramma di Eulero: Tenore Volute di fumo Terreno comune: avvolgimento Veicolo capriole DIAGRAMMA DI EULERO Connotazione: la spensieratezza, la gioia, il gioco È da ricordare anche la teorizzazione di Albert Henry10, per cui la metafora si fonda su un rapporto analogico a 4 termini di cui si propone un doppio esempio tratto dal Cimitero marino di Paul Valery: “Ce toit tranquille où marchent des colombes” (“Quel tetto tranquillo dove camminano delle colombe”), in cui solo i metaforizzanti (tetto e colombe) sono espliciti e gli altri termini sono impliciti: tetto mare colombe vele metaforizzante metaforizzato –—–– = –—–– ; –—–––– = ——— ➞ ——————— = ——————— complementare tegole onde tetto mare complementare del metaforizzante del metaforizzato A seconda del tipo di collegamento tra gli elementi analogici le figure prendono denominazioni diverse, andando da un massimo a un minimo di chiarezza e di esplicitazione, inversamente proporzionale alla vaghezza e alla suggestione (ed anche all’identificazione) metaforica: comparazione: “Le sue guance rosse come due rose”; metafora prepositiva: “Le rose delle guance”; metafora copulativa: “Le sue guance sono due rose”; metafora appositiva: “Le sue guance, due rose”; metafora massima (a un solo termine): “Sul suo viso due rose”; metafora verbale: “Le sue guance rosseggiano”; “Non ho voglia di tuffarmi”. È da sottolineare lo straordinario meccanismo del collegamento o dell’inte10 Cfr. Albert HENRY, Metonimia e metafora, Torino, Einaudi, 1975, pp. 97-146. 203 Paradigma metodologico di lettura poetica razione di più metafore (e di altre figure): nella metafora massima “tuffarmi” è esplicito solo il veicolo mare, metonimia di tuffo, mentre il tenore è desunto per intersezione metonimica di “strade” = folla, e i tratti comuni appaiono la pluralità, l’ondeggiamento ecc. (così che si stabilisce la proporzione tuffarmi: acqua = passeggiare: folla, secondo lo schema di Henry). La sinestesia è una particolare forma di metafora che associa termini appartenenti a sfere sensoriali diverse, usata soprattutto dai poeti del Decadentismo e del Simbolismo. A seconda delle combinazioni dei diversi sensi si realizzano sinestesie tipologicamente diverse: visivo-acustica: rosso squillante / “urlo nero” (Alle fronde dei salici di Quasimodo); visivo-tattile: colore caldo/ luci fredde; tattile-acustica: gelida voce; tattile-gustativa: dolce tepore; visivo-gustativa: amara luce del giorno; tattile-acustico-visiva: “Luci fredde parlano” (Montale). L’allegoria presenta due strati di significazione: il primo superficiale e apparente, il secondo profondo e nascosto, con la cancellazione o dissolvenza del significato di base che deve essere richiamato mediante il riferimento ad un codice sotterraneo (La “selva oscura” di Dante, rappresentata a livello referenziale e naturalistico, allude allegoricamente alla vita peccaminosa). L’allegoria, di solito definita una figura logica, viene presentata in questo livello poiché si può avvicinare alla metafora assoluta o a un solo termine. La sineddoche e la metonimia sono figure di trasferimento semantico in base a una relazione di contiguità, che è di maggiore e minore estensione nella sineddoche: la parte per il tutto (“i miei tetti saluto”, in cui si realizza una doppia sineddoche: tetti sta per case e case per paese) e viceversa (l’uomo - la mano - accese la sigaretta), la specie per il genere (mortali per uomini); il singolare per il plurale e viceversa, il significato più ampio per il più ristretto (macchina per auto); mentre nella metonimia i legami di contiguità sono di tipo logico, causale, materiale, spaziale: la causa per l’effetto (“mi percosse un duolo”: lamenti causati dal dolore), l’effetto per la causa (“sudate carte”: studi che fanno sudare), la materia per l’oggetto (“itali acciai” per spade) il contenente per il contenuto (“cittadino Mastai, bevi un bicchiere” ➞ vino), l’astratto per concreto (sfuggito all’inseguimento ➞ agli inseguitori) e viceversa (ha del fegato ➞ coraggio), l’autore per l’opera (Leggo il Manzoni ➞ I Promessi Sposi), ecc. Jakobson11 ha evidenziato l’opposizione tra direttrici o poli metaforici e metonimici, ricordando la prevalenza del procedimento metaforico nelle scuo11 Roman JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 41: “Nella poesia varie ragioni possono determinare la scelta fra le due alternative. Il primato del processo metaforico nelle scuole romantiche e simboliste è stato sottolineato più volte, ma non si è ancora compreso abbastanza chiaramente che il predominio della metonimia governa e definisce effettivamente la corrente letteraria cosiddetta “realistica” che appartiene ad un periodo intermedio fra il declino del romanticismo e il sorgere del simbolismo, pur essendo opposta ad ambedue. Seguendo la via delle relazioni di contiguità, l’autore realista opera digressioni metonimiche dall’intreccio all’atmosfera e dai personaggi alla cornice spazio-temporale. Egli si compiace di sineddochi. Nella scena del suicidio di Anna Karenina, l’attenzione artistica di Tolstoj è incentrata sulla borsetta dell’eroina; e in Guerra e pace i casi di sineddoche come “peluria sul labbro superiore” o “spalle nude” sono usati dallo stesso autore per caratterizzare i personaggi femminili ai quali appartengono questi tratti”. 204 Luigi Paglia le romantiche e simboliste e il predominio della metonimia nella corrente letteraria realistica. Nelle poesie del Foscolo, in consonanza con la bipartizione (o compresenza) tra spirito classico e (pre)romantico, è evidente la dialettica tra polo metonimico (“pietra” per sepolcro; “deluse a voi le palme tendo”, “i miei tetti saluto”) e metaforico (“il fior dei tuoi gentili anni”, “cure che al viver tuo furon tempesta”, “nel tuo porto quiete”). F)Livello logico al quale attengono le figure logiche: antitesi ed ossimoro (che configurano formulazioni di tipo oppositivo, in ambito sintattico più ampio e con costruzione più articolata e distanziata per l’antitesi, talvolta con l’introduzione di procedure di negazione, di reiterazioni anaforiche, come avviene in una famosa terzina dantesca: “Non fronda verde, ma di color fosco;/ non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;/ non pomi v’eran, ma stecchi con tosco” in cui l’antitesi appare rafforzata dal profilo sintattico e dalla simmetrica ripetizione di “non” e “ma”; mentre l’ossimoro mette a stretto contatto, giungendo alla fusione degli opposti, sostantivo e aggettivo o verbo antitetici: “la morte che vive”, Montale, Notizie dall’Amiata), ironia (che presenta uno scarto tra il livello apparente dell’affermazione e il contenuto nascosto ed opposto, decifrabile per la linea intonativa e contestuale dell’enunciazione), litote (che deriva da un meccanismo, nella struttura sintattica, di negazione del contrario: “Don Abbondio non era nato con un cuor di leone”, e l’attenuazione o la minimizzazione implicano, da parte del lettore, una speculare operazione di integrazione semantica). G) Livello temporale che riguarda la funzione dei tempi verbali nel testo: illuminanti, soprattutto per la narrativa ma utilizzabili anche per la poesia, sono le definizioni di Weinrich12 dei tempi commentativi (presente/ passato prossimo/ futuro) e dei tempi narrativi di primo piano (passato remoto), di sfondo (imperfetto)13 e di prospettiva del futuro (congiuntivo imperfetto e trapassato), mentre la metafora temporale14 scocca dalla collisione dei tempi narrativi e commentativi. In poesia sono da sottolineare i fenomeni delle transizioni o opposizioni temporali, evidenti, per esempio, nella poesia Natale di Ungaretti (nella quale è ipotizzabile una metafora temporale per la collisione tra il presente della scrittura, 12 Cfr. Harald WEINRICH, Tempus, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 37-73. Nella narrativa, la transizione dai tempi narrativi di sfondo a quelli di primo piano è esemplare nella novella L’uomo solo di Pirandello. È la storia di quattro uomini che soffrono di solitudine e sono in attesa di una donna che possa liberarli dalla loro vita solitaria, ma la loro attesa è vana. Alla fine uno di loro, Groa padre, si toglie la vita. La novella è scritta quasi tutta all’imperfetto, tempo di sfondo, che è l’equivalente linguistico dell’attesa: nella vita dei quattro non accade nulla di importante, d’emozionante; essi si sentono spinti verso lo sfondo. Solo il finale drammatico fino al suicidio è coniugato al passato remoto che dichiara l’uscita dalla vita inessenziale, anche se solo per entrare nella morte, unica soluzione definitiva, finalmente (e tragicamente) in primo piano. Ibid, p. 154. Significativo è anche l’orizzonte temporale nel racconto di Andrea Zanzotto: Augusta, nel quale la vita dimidiata e insignificante della donna è resa con i tempi di sfondo, mentre l’inizio e la fine sono presentati coi tempi commentativi. 14 Cfr. H. WEINRICH, Tempus..., cit., pp. 249-287. 13 205 Paradigma metodologico di lettura poetica l’allusione sotterranea al passato prossimo e al futuro, che designano la traumatica esperienza bellica, e la metafora del passato remoto dei giochi infantili) e nell’altro testo ungarettiano: La Madre (nel Sentimento del Tempo) in cui si realizza la straordinaria transizione tra il presente della scrittura, il passato memoriale e il futuro ipotetico. Insistono sempre sul piano della gestione dei tempi verbali l’ellissi temporale e degli eventi (esemplare ancora in Natale) e la continuità e la discontinuità temporali (per es., nei Preludes di T. S. Eliot e nell’Ascesa dell’ F6 di Auden, nei quali si verificano dei salti nella linea cronologica).15 H) Livello topologico - culturale che si riferisce ai rapporti e opposizioni spaziali con cui viene rappresentato il mondo, secondo la teorizzazione del Lotman:16 spazio interno o IN vs spazio esterno o ES, basso vs alto, vicino vs lontano, chiuso vs aperto ecc.; i modelli spaziali hanno anche correlazioni con altre categorie oppositive: nativo-estraneo, caldo-freddo, sicuro-nemico (suono-silenzio, luce-colori-buio) e presentano le particolarità della frontiera e dell’eroe dinamico e dell’antieroe statico. Sono significativi i valori spaziali oppositivi dell’Inferno di Dante: la selva oscura (IN, basso, oscurità) e il colle illuminato (ES, alto, luce), dell’Infinito di Leopardi: “quest’ermo colle” (IN) e gli “interminati spazi” (ES), divisi dalla frontiera della “siepe”, e di Natale di Ungaretti: la casa (IN), le strade (ES), l’antieroe statico (il poeta). È straordinario il meccanismo di opposizioni spaziali presente in Cigola la carrucola di Eugenio Montale: tra ES ed IN, alto e basso, luce e buio, correlati metaforicamente alle istanze psichiche del conscio e del preconscio, dell’affioramento e della dissolvenza memoriali. La fluttuazione spaziale può essere proiettata anche nel mondo degli Uccelli, “stuolo che a volte trova pace/ e asilo sopra questi rami secchi./ E la schiera ripiglia il triste volo”, come si legge nella memorabile poesia omonima di Mario Luzi (in Onore del vero). I) Livello simbolico-archetipico e/o psicanalitico17 che contempla, sulla scorta di suggestioni junghiane, della psicologia del profondo e dell’antropologia culturale, le modalità o le istanze, appunto, simboliche e archetipiche, ossia le rappresentazioni inconsce di esperienze comuni a tutta l’umanità. Nell’Allegria ungarettiana, per esempio, è possibile individuare il sistema degli archetipi, appartenenti alla sfe- 15 Sulle prospettive temporali nei testi di Eliot e di Auden, cfr. il mio saggio I “Preludes” di T. S. Eliot: l’eclissi del tempo solare, in «Strumenti critici», 2000, 92 (gennaio), pp. 133-150. 16 Sui concetti di spazio interno (IN) e di spazio esterno (ES), cfr. Jurij M. LOTMAN, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1976, pp. 261-273, e Il metalinguaggio delle descrizioni tipologiche della cultura, in Jurij M. LOTMAN-Boris A. USPENSKIJ, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975, pp. 145-181. 17 Sull’argomento, si rimanda alle opere di Jung, e di studiosi della letteratura e dell’antropologia culturale (Dumézil, Bachelard, Durand, Lévi-Strauss) che hanno prospettato un universo immaginario e letterario gremito di simboli, archetipi e miti ricorrenti. Si ricorda il più acuto rappresentante della critica simbolica, Northrop FRYE che in Anatomia della critica (Torino, Einaudi, 1969) e Favole d’identità (Torino, Einaudi, 1973) individua le modalità archetipiche presenti nella letteratura. Sulla critica simbolica (o archetipica) è utile leggere il profilo di Ezio Raimondi, in AA.VV., I metodi attuali della critica in Italia, a cura di Maria Corti e Cesare Segre, Torino, ERI, 1970, p. 71 e segg. 206 Luigi Paglia ra superiore, del cielo, della luce del sole e del fuoco, e quelli, relativi alla sfera inferiore, della terra, della vegetazione, dell’acqua, polarizzati sia sul versante positivo della vitalità e creatività, sia su quello negativo della distruttività o corruzione (sole e fuoco distruttivi, sul piano superiore, e terra desolata, deserto, vegetazione sregolata, acqua distruttiva, sul piano inferiore). È evidente la grande importanza dell’acqua in A Zacinto - che si può quasi definire una poesia acquatica - sia a livello fonico per le rime in /onde/ e /acque/, sia per le immagini dell’acqua: referenziali (“onde, mare, acque”), metonimiche (“sponde, Zacinto, isole, Itaca”) e metaforiche (“limpide nubi”). Per l’antropologia, la psicanalisi (e la scienza), l’acqua è portatrice di vita. Pertanto, nella poesia si realizza l’identificazione tra Zacinto, la madre del poeta (Diamantina Spathis) e Venere nel segno dell’acqua e si prefigura il ritorno al grembo materno. Il simbolo antropologico e psicanalitico (e il correlativo oggettivo) dell’abbandono amoroso: l’aratro lasciato inoperoso nella terra, la quale simboleggia la fecondità non realizzata della donna, è presente in Lavandare del Pascoli L) Livello tematico- ideologico- comunicativo in cui confluiscono, in connessione con i due precedenti livelli, le tematiche e le istanze comunicative a livello più o meno profondo, esplicito o implicito. Nella Divina Commedia, per es., è possibile individuare una triplice stratificazione ideologica e comunicativa inerente alla visione del mondo del poeta, riferibile alla dimensione fisica e cosmologica (che è quella tolemaica, della terra, centro focale dell’universo, attorno alla quale si muovono nove cieli, mentre il decimo che tutti li domina è la sede di Dio, il motore immobile della creazione), a quella etica (desunta da San Tommaso, che configura l’amore naturale per il bene e per Dio come centro della vita morale dell’uomo) e a quella storica e di attuazione politica (della doppia guida spirituale e temporale, del Pontefice e dell’Imperatore, che egualmente hanno un ideale centro spaziale nella città di Roma). Tale prospettiva ideologica si riflette sull’articolazione dello spazio, di cui già s’è detto, nelle sue coordinate interne ed esterne, di basso ed alto, per cui l’Inferno, il regno del male, sprofonda al centro della terra, opponendosi specularmene al polo altissimo del sommo bene dell’Empireo, della Gerusalemme celeste (che si riflette sulla Gerusalemme terrestre). Per quanto riguarda l’Allegria è possibile elaborare, sulla traccia teorica di Greimas,18 il quadrato logico-semantico (e semiologico) della raccolta che ha come termini fondamentali i quattro elementi, due di segno positivo: PACE e VITA-Amore, e due di segno negativo: GUERRA e MORTE da cui si dirama la serie di rapporti di contrarietà: pace-guerra; e vita-morte (mediati e superati nella dimensione della fraternità umana, e in quella contraddittoria della comu- 18 Il grande semiologo francese si è occupato soprattutto di narratologia, ma il quadrato logico semantico è utilizzabile anche per la poesia. Cfr. Algirdas Julien GREIMAS, Del senso 2, Milano, Bompiani, 1984, pp. 45-63 e 131-149. 207 Paradigma metodologico di lettura poetica nione con la natura e dell’espansione nell’immenso o nel divino), di complementarità: pace-vita, e guerra-morte (che esprimono gli elementi contrari: da una parte di sicurezza, apertura all’ES e al futuro, e dall’altra, di precarietà, fissazione all’IN e al presente).19 L’esemplificazione di scrittura critica parte dall’analisi dei diversi livelli testuali della poesia Natale di Ungaretti, i quali vengono schematizzati nelle tre tavole di connotazione relativa agli aspetti: 1) iconico, metrico, ritmico, fonico 2) semantico-figurativo 3) logico, topologico, temporale, simbolico-archetipico e ideologico-comunicativo. Dall’analisi e dalla schematizzazione della “stratificazione” della poesia si può quindi procedere all’elaborazione del saggio. Si possono ipotizzare almeno due percorsi nella realizzazione del testo di scrittura critica: o seguendo punto per punto la progressione dei livelli del testo poetico, o privilegiando e mettendo in primo piano alcune delle connotazioni che appaiono più rivelative della semantica e della stilistica della composizione esaminata, come avviene nell’esempio proposto in cui si è data maggiore importanza all’aspetto figurativo rispetto ai livelli iconico, fonico-metrico, topologico, temporale, simbolicoarchetipico e ideologico-comunicativo che pure sono precisati in seconda battuta e aggiungono un ulteriore tasso di senso nell’interpretazione del testo poetico. È quasi superfluo aggiungere che si danno per presupposti, almeno in parte, l’inquadramento, la denotazione e la contestualizzazione storico-culturale-letteraria della composizione presa in esame. Naturalmente, tale metodologia per la scrittura può rivelarsi proficua anche come metodo di lettura di un saggio critico su un testo poetico, mediante l’inversione o il rovesciamento del percorso: partendo dall’approccio al saggio, individuando i vari livelli di analisi e procedendo poi alla schematizzazione degli stessi. 19 Sull’applicazione del quadrato greimasiano all’Allegria, cfr. il mio libro L’urlo e lo stupore. Lettura di Ungaretti. L’Allegria, Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 28-42. 208 Luigi Paglia Connotazione 1 > Livelli iconico-metrico-ritmico-fonico Natale Napoli il 26 dicembre 1916 TAVOLA 1 Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strAdE l. metrico - ritmico Ho tanta stanchezza sulle spAllE Lasciatemi cosÌ come una cosa posata in un angolo e dimenticata QuI non si sente AltrO che il cAldO buono Sto con le quAttrO capriole di fumo del focolArE G. Ungaretti versi liberi e brevi (anche mono e bisillabici) frantumazione metrica e variazione ritmica > lessemi brevi-lunghi ictus: - ossitoni - parossitoni - proparossitoni (gomìtolo-àngolo) (senso stanchezza-fatica) l.fonico (correlativo o rafforzativo del livello semantico): Rime: cosI’-quI posATA-dimenticATA Effetto eco: cosa-posata Omoteleuto: gomìtolo-àngolo Assonanze: s t r A d E - s p A l l E focolArE; AltrO-quAttrOCaldO Consonanze: taNTa-seNTe; suLLe-spaLLe (interna) Allitterazioni: - alveolari / s / , / n / (stanchezza”) - dentale / t / (“stanchezza”) - gutturali / k / , / q / , / g / (“valore positivo del caldo + stanchezza”) - spirante / f / (“senso di evasione”) / me/-/mi/ (“posizione tolemaica dell’IO”) 209 Paradigma metodologico di lettura poetica Connotazione2 > Livello semantico-figurativo Natale Napoli il 26 dicembre 1916 Non ho voglia di TUFFARMI in un GOMITOLO DI STRADE Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così COME UNA COSA posata in un angolo e dimenticata Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro CAPRIOLE DI FUMO DEL FOCOLARE G.Ungaretti 210 Luigi Paglia TAVOLA 2 figure semantiche: TUFFARMI (metafora massima): - veicolo: mare - terreno o tratti comuni: densità, pericolo, pressione, ondeggiamento ecc. - tenore: folla >metonimia strade (connessione con altra metafora) GOMITOLO DI STRADE: - veicolo: gomitolo; tenore: strade - t.comune: strettezza, - intersezione ecc. - connotazione: pena, stanchezza, pericolo COME UNA COSA (comparazione): ferite psichiche > disumanizzazione caldo buono (umanizzazione - valore morale) CAPRIOLE DI FUMO: - tenore: volute di fumo - veicolo: capriole - t.comune: moto circolare - connotazione: gioia spensieratezza, infanzia semantica del profondo: guerra in absentia - stanchezza, disumanizzazione (“cosa”) - ferite psichiche, desiderio di pace, di isolamento (“in un angolo, dimenticata”) e della spensieratezza infantile - caldo buono vs freddo della guerra cfr. collegamento con livello fonico 211 Paradigma metodologico di lettura poetica Connotazione3> Livelli logico topologico-temporale simbolico-archetipico ideologico-comunicativo Natale Napoli il 26 dicembre 1916 Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di STRADE Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata QUI non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare G. Ungaretti 212 Luigi Paglia TAVOLA 3 LIVELLO LOGICO: antitesi tra strade - guerra - casa (e tra freddo e caldo) proiettata anche sul LIVELLO TOPOLOGICO: ANTITESI ES1 (spazio esterno 1) = strade = IN (spazio interno) = Qui (casa) ES2 (spazio esterno 2) = guerra LIVELLO TEMPORALE E IDEOLOGICO-COMUNICATIVO Tempo presente: (ho, sente, lasciatemi, Sto) Passato prossimo ASSENTE (Rimozione del tempo della guerra) Futuro: ASSENTE (guerra = nessuna prospettiva del futuro) Allusione al Passato remoto: capriole (desiderio di ritornare alla spensieratezza dell’infanzia) LIVELLO SIMBOLICO-ARCHETIPICO: opposizione tra acqua/tuffarmi (negativo) e caldo/ fuoco / focolare (positivo) 213 Paradigma metodologico di lettura poetica Esempio di saggio critico sulla poesia in rapporto con i livelli analitici evidenziati Nel testo della poesia Natale vengono attivati procedimenti di espansione nella doppia prospettiva della diffusione figurale e della stratificazione semantica, contemporaneamente alle procedure di condensazione compositiva realizzata con l’eliminazione dei passaggi narrativi, e delle ipotizzabili battute di dialogo (per esempio, viene sottaciuto l’invito dell’interlocutore-amico Gherardo Marone - che ospita nella sua casa napoletana il poeta in occasione di una breve licenza dalla guerra combattuta da Ungaretti sul Carso - a uscire nelle strade di Napoli), per raggiungere la massima concentrazione degli elementi emotivamente e poeticamente più intensi, che appaiono quasi come punte dell’iceberg psichico. La sintesi espressiva, inoltre, è fortemente evidenziata, per contrasto, dalla testura iconica e dallo sgocciolio metrico dei versi mono e bisillabi e dalla disarticolazione sintattica dell’articolo diviso dal nome (“come una/ cosa”, “in un/ angolo”). I processi di condensazione e di diffusione che potrebbero apparire divergenti, in realtà, costituiscono le due facce, interconnesse e inseparabili, dell’operazione poetica ungarettiana, che obbedisce alla logica della economicità dei mezzi e dell’ottimizzazione dei risultati nel campo espressivo, per cui al massimo di concisione linguistica corrisponde il massimo di dilatazione del senso. L’espansione figurativa, incentrata soprattutto nella prima strofa, deriva dall’intersezione (ed interazione) delle due metafore: “gomitolo di strade” (metafora prepositiva i cui tratti comuni al veicolo e al tenore sono rappresentati dal groviglio, dall’intersecazione, dall’arrotolamento delle strade-fili) e “tuffarmi” (metafora verbale massima che presenta, in restrizione metonimica, solo il veicolo, o metaforizzante: l’acqua o il mare, mentre il tenore, o metaforizzato,20 ossia il referente reale: la folla, si desume solo in connessione con la prima realizzazione metaforica, in quanto è richiamato - ancora in modo dissimulato, per la metonimia di “strade” - e convogliato a sotterraneo compimento della metafora “tuffarmi”) per cui le caratteristiche dell’elemento acquatico (la densità, la pericolosità, la pluralità dei componenti-gocce, l’ondeggiamento, la peculiarità di circondare, premere, travolgere, sommergere ecc., che connotano il senso dell’ insicurezza, del pericolo, del rischio) vengono attribuite alla folla che circola nell’aggrovigliata matassa dei vicoli di Napoli.21 20 Sui concetti di metaforizzante e metaforizzato, cfr. A. HENRY, Metonimia e metafora..., cit., p. 101 e segg. Secondo il modello di Henry, le metafore “tuffarmi” e “gomitolo di strade” potrebbero essere ricostruite nel seguente modo: 21 ➝ (acqua) = gomitolo = (groviglio) Metafora ad 1 termine: acqua e folla si ricavano per deduzione metonimica da “tuffarmi” e da “strade” (passeggiare) (folla) ➝ tuffarmi strade Metafora a 2 termini (intersezione) 214 Luigi Paglia La stratificazione semantica si rapporta al motivo della guerra in absentia: la guerra, mai nominata, è tuttavia il tema ossessivamente presente a livello profondo, in sottotraccia memoriale (e, si direbbe, biologica, oltre che psichica); essa è latente, quasi rimossa, ma le sue ferite e le sue emergenze si evidenziano attraverso la serie figurativa e locutiva: 1)”Ho tanta /stanchezza /sulle spalle” rivela il peso psicologico, ma anche quasi fisico, della guerra (la depressione dell’animo e la prostrazione del corpo), che ha il correlativo fonico nella sequenza allitterativa della dentale /t/ e della sibilante sorda /s/ ; 2)”Lasciatemi COsì /COme una /COsa /posata /in un /anGOlo /e dimentiCata” fa affiorare l’estrema sensibilizzazione emotiva, le profonde ferite psichiche del conflitto subite dall’io lirico che è spinto in una spirale regressiva: quasi il desiderio della perdità della propria identità umana nella disumanizzazione dell’oggetto, nella chiusura spaziale (“in un angolo”) e psichica (“dimenticata”), nella spirale di depressione, correlata alla frantumazione metrica e all’inceppamento ritmico, quasi un balbettìo di stanchezza, e alla serie allitterativa delle dure gutturali / k/ e /g/ (oltre che alla deriva della dentale /t/ e della sibilante sorda /s/) e all’effetto eco ed alla rima: “cOSA pOSATA dimenticATA”; tuttavia, nella serie fonica e semantica si insinua anche la vibrazione positiva del calore domestico che si manifesta appieno nella quarta e nella quinta strofa; 3) “Qui / non si sente / altro / che il caldo buono” in cui il deittico “qui” sotterraneamente rinvia al là della guerra, ed “il caldo buono”, correlativamente, allude in filigrana al freddo ‘cattivo’ (fisico e psichico) della vita in trincea; 4) “Sto / con le quattro / capriole / di fumo / del focolare”: la bellissima metafora prepositiva connota la spensieratezza, la gioia, i giochi dei bambini, o le evoluzioni dei giocolieri o dei clowns -assimilabili o riferibili al mondo infantile- in contrapposizione agli atroci ‘giochi’ della guerra. Lo sciame fonico delle gutturali: /k/ e /q/ (a cui si aggiunge la sorda spirante /f/ che suggerisce il movimento di liberazione o di evasione) si diffonde, dalla terza strofa, rivelando specularmente gli aspetti positivi del caldo e del focolare che, tuttavia, come si è detto, sono il rovescio allusivo del freddo e della guerra, di modo che i fenomeni allitterativi più rilevanti sono collegati al tema già individuato della stanchezza e a quello connesso del caldo, figura rovesciata del freddo. La staticità della situazione evidenziata dalla poesia è rappresentabile (utilizzando lo schema del Lotman relativo ai rapporti spaziali) con la chiusura in IN (nello spazio interno, protetto, nel caldo nido della casa) del soggetto lirico, che si manifesta con l’assoluta incapacità o volontà di uscire all’esterno (ES1: le strade di Napoli, la gente); ma c’è un altro spazio esterno (ES2) che - emotivamente e sotterraneamente - viene proiettato sul primo, non nominato, come si è detto, ma costantemente presente a livello profondo: quello della guerra da cui il soggetto lirico rifugge in modo totale, che viene allontanato e, forse, rimosso, da cui cerca l’evasione all’interno della casa, della psiche. In realtà il desiderio di non avventurarsi nello spazio ES1 nasconde e raffigu215 Paradigma metodologico di lettura poetica ra quello ben più profondo, ed allontanato ai margini della coscienza, di essere lontano dalla guerra; tra i due spazi ES (1 e 2) si stabilisce un rapporto di trasposizione figurale: in opposizione allo spazio interno che si collega al caldo, alla sicurezza e all’amicizia, lo spazio esterno viene connotato come freddo e nemico.22 Tale situazione si proietta a livello logico nell’antitesi tra la casa, le strade (e la guerra) e a livello simbolico-archetipico nell’opposizione tra il negativo dell’archetipo dell’acqua (insinuato dalla metafora “tuffarmi”) e il positivo del fuoco (“il caldo buono”, il “focolare”). Lo scambio topologico si realizza anche sul piano dei rapporti temporali, egualmente visualizzati nello schema grafico: la poesia è rigorosamente coniugata al presente, manca qualunque riferimento esplicito al passato prossimo ed al futuro, che si identificano evocando la stessa situazione di guerra, con la sola variante della lontananza temporale; è solo possibile ipotizzare, al di là del latente passato prossimo, una fuga nel passato remoto dell’ infanzia, a cui si allude metaforicamente (“capriole”). 22 È da segnalare che i tre spazi sono correlati anche con i nessi omofonici: “così – qui, posATA dimenticATA” (IN), “focolArE” (IN) “strAdE” (ES1), l’omoteleuto “angOLO” (IN) – “gomitOLO” (ES1), “stanchezza suLLE spaLLE” (eredità della guerra ‡ ES2), “tanTa” (ES2) - “senTe” (IN). 216 Luigi Paglia Anche se (e proprio perché) gli effetti della guerra (stanchezza, depressione emotiva) perdurano nell’io lirico nel presente della scrittura, è evidente in lui il desiderio di dimenticare gli eventi del passato prossimo, quasi di rimuovere il trauma del tempo della guerra, nella proiezione metaforica nel passato remoto della fanciullezza, dei giocosi e lievitati paradisi infantili. Pertanto, sul piano ideologico-comunicativo la lettura della poesia (e delle altre dedicate alla guerra) mostra chiaramente l’antibellicismo di Ungaretti (ancora più rimarchevole per l’iniziale interventismo), del quale è quasi superfluo sottolineare il valore di attualità, in assoluto contrasto con la glorificazione marinettiana (e dannunziana) della guerra. È da notare, a livello di extratestualità culturale, la concordanza dell’atteggiamento esistenziale del soldato evidenziato in Natale con le affermazioni di un acutissimo psicologo: Eugène Minkovsky il quale nel libro Il tempo vissuto,23 sviluppando le intuizioni di un lavoro iniziato nel 1918 (e quindi nella stessa atmosfera culturale ed esistenziale dell’Allegria) ma mai pubblicato: Come viviamo il futuro (e non che cosa ne conosciamo), analizza l’atteggiamento del soldato (Kern24 parla di “fenomenologia della vita di trincea”) rispetto al futuro: il blocco dell’attività, e la mancanza di attese e di prospettive creative che si trasformano nell’aspettativa catastrofica della morte, nel senso di precarietà vitale, come è evidente in Soldati: “Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie” . Per attuare l’operazione interpretativa, già avviata con i precedenti livelli, bisognerebbe valutare Natale all’interno del macrotesto25 dell’Allegria (considerando le poesie di guerra come una doppia partitura) e nell’intertesto dell’opera ungarettiana (notando le differenze e le consonanze tematico-stilistiche con le composizioni del Sentimento del Tempo, e con quelle del Dolore segnate dalla crudele irruzione della tragedia nell’ambito delle vicende personali del poeta: la morte del figlio Antonietto, e collettive: gli eventi della seconda guerra mondiale, le deportazioni ecc.), con un’attenta disamina dei rapporti interstestuali interni. È fruttuoso il raffronto tra le poesie dell’Allegria in cui la guerra appare insinuata in absentia (come accade oltre che in Natale, in C’era una volta, in Dormire ecc.) e quelle in cui la dichiarazione si fa esplicita, in cui il tema bellico è coniugato in praesentia (come in San Martino del Carso, In dormiveglia, Soldati, Fratelli, Veglia ecc.). In Natale e nelle altre poesie ‘allusive’, il grido contro la tragedia della guerra risulta implicito, sottotraccia, “un grido taciuto, un silenzio”, per dirla con Pavese, ma non per questo perde la sua carica dirompente o appare meno lancinante perché un elemento è messo maggiormente in luce proprio dalla sua latenza nello spazio del preconscio (e del testo). 23 Cfr. Eugène MINKOVSKY, Il tempo vissuto, Torino, Einaudi, 1971, p. 84 e segg. Cfr. Stephen KERN, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra otto e Novecento, Bologna, il Mulino, pp. 117-140. 25 Sui concetti di macrotestualità, intertestualità, interna ed esterna, ed extratestualità, si veda la nota 3. 24 217 Paradigma metodologico di lettura poetica La visione ungarettiana del mondo, rappresentabile secondo lo schema del quadrato logico-semantico elaborato da Greimas, si sviluppa coerentemente nelle diverse opere del poeta. I quattro poli dell’Allegria, due sul versante positivo: pace e vita-amore, e due di segno negativo: guerra e morte, restano sostanzialmente invariati nelle raccolte successive, con la sola (parziale) sostituzione della vicenda soprapersonale della guerra (che, come si è già detto, appare nella prima opera come un elemento talvolta traumaticamente rimosso nella doppia pagina della coscienza e della scrittura) con il dissidio e la lacerazione interiori del peccato e del dolore dichiarati, per contrasto, nel modo più aperto ed esplicito. Infine, per quanto riguarda la contestualizzazione storico-letteraria (o intertestualità esterna o extratestualità) e la valutazione critica, basti solo far cenno a D’Annunzio (in posizione contrastiva) e a Rebora, in particolare alla poesia Viatico, nel senso della concordanza ideologica ed anche formale, per cui le modalità stilistiche, le emergenze espressionistiche26 e le istanze antibellicistiche, che si ritrovano con la stessa carica nei due poeti, contrassegnano la grande originalità e la vitalità estetica e, inoltre, la possibilità di dilatazione e di attualizzazione tematica, di riconducibilità agli eventi del tempo presente, delle loro composizioni. La rivoluzione linguistica e poetica dell’Allegria è attuata con la fusione o l’innesto, o la collisione, appunto, della violenza espressionistica27 e dell’evocazione simbolista: l’attenzione indirizzata agli oggetti, che subiscono una straordinaria 26 Sulla poetica e le operazioni dell’espressionismo visto nella globalità delle manifestazioni e nel collegamento delle diverse arti (letteratura, pittura, musica, teatro ecc.), cfr. Ladislao MITTNER, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1965, pp. 153. Per quanto riguarda il rapporto tra l’io dell’artista e la realtà, è illuminante l’affermazione riferita all’espressionismo pittorico, ma estensibile alle altre arti, nella monografia di Jolanda NIGRO COVRE, Espressionismo, Firenze, Giunti, 1997, p. 6: “Il termine espressionismo indica, innanzi tutto, la centralità del problema dell’espressione, ossia del “trarre fuori” gli elementi costitutivi del quadro dall’interiorità dell’individuo. Questa urgenza di comunicazione, peraltro proporzionale alla difficoltà di comunicazione manifestata dagli artisti, a un disagio esistenziale, a un rapporto conflittuale con la società contemporanea, è prioritaria in tutti i centri dell’espressionismo, dove semmai è diversa l’impostazione del linguaggio e la traduzione in strutture formali”. 27 Sul piano dell’intertestualità interna dell’Allegria, è da rimarcare l’originalissima dialettica (e l’arditissima sintesi) tra l’esplosivo espressionismo, suscitato dalla disumanità della guerra (evidente in Veglia: “compagno massacrato”, “bocca digrignata” “congestione delle sue mani”, e in quasi tutti i testi della raccolta), e il simbolismo e il folgorante balzo cosmico (di tante poesie tra cui La notte bella: “sono ubriaco/ d’universo” e Mattina: “M’illumino/ d’immenso”). La distruttività della guerra e l’incombente presenza della morte sono collegate alle connotazioni negative della durezza e della refrattarietà della pietra, caratteristiche dilatate al massimo dell’espressività (e dell’espressionismo) in Sono una creatura in cui anche il pianto appare prosciugato e la morte si paga con la dilungata agonia dell’esistenza. L’espressionistica violenza della trama lessicale, l’innesto dissonante delle percussive figure di lacerazione (“feriscono / come fulmini”, la ‘blasfema preghiera’ di strazio e di ribellione fanno di Solitudine - con tutte le cautele dovute al passaggio dall’arte verbale a quella pittorica - l’equivalente del Grido del pittore Edvard Munch, precursore dell’Espressionismo. È evidente che la situazione e la tragedia della guerra agiscono in Ungaretti come elementi catalizzatori e di realizzazione espressiva della visione e della poetica espressionistiche, così come accade anche per Clemente Rebora. Pertanto, l’arte espressionistica fermenta, a livello più o meno consapevole, la ricerca e la rivoluzione poetica dei due massimi poeti italiani del periodo della prima guerra mondiale. 218 Luigi Paglia deformazione o esasperazione figurativa, connesse alla violenza della partecipazione emotiva ed esistenziale dell’esperienza del soggetto lirico, si lega al moto di espansione, diffusione, comunione (ed interrelazione) cosmica, con effetti di originalissima dialettica, o interazione, tra microcosmo e macrocosmo, tra io ed oggetti, tra finito ed infinito, tra IN ed ES, e ciò rappresenta il segno distintivo, ed eccezionale, dell’operazione poetica ungarettiana nell’ambito della letteratura italiana del Novecento. 219 220 Sabina Stefania Samele Le attività creditizie a Foggia: i debiti di Sabina Stefania Samele 1. Premessa Questo studio si propone di focalizzare l’attenzione sulle principali attività economiche e creditizie realizzate nella città di Foggia relativamente al periodo 1841-1860. Avvalendosi dei dati contenuti negli atti notarili1 e attraverso un paziente lavoro di classificazione quantitativa e qualitativa degli stessi (si calcola che complessivamente sono stati consultati più di 17.000 atti), questo studio intende pervenire, per mezzo di un’analisi dettagliata delle fattispecie contrattuali più rappresentative, a delle conclusioni circa l’andamento degli affari, il movimento dei capitali, gli investimenti realizzati nel capoluogo dauno. Le operazioni di riordino e classificazione degli atti notarili, basate su un criterio che tiene conto dell’oggetto, del contenuto del documento, hanno consentito l’individuazione di novanta differenti fattispecie contrattuali. Tra esse spiccano, per maggior numero di atti rogati, i debiti, gli affitti e le compravendite, seguiti dagli appalti, dalle società e da una serie di atti minori, dei quali ci limiteremo ad indicarne le caratteristiche generali. 2. Struttura dell’indebitamento Negli anni che vanno dal 1841 al 1860, piuttosto rilevante appare sulla piazza foggiana l’importanza del credito nelle sue diverse forme, sia per la debolezza economica della maggior parte delle figure operanti nel settore primario e commerciale, sia per la carenza di circolante che da diversi anni affliggeva quasi tutte le province del regno, complice una politica economica del governo borbonico volta al protezionismo e all’isolamento commerciale.2 1 Le fonti documentarie utilizzate per questo studio sono costituite dagli atti dei notai, raccolti distintamente in repertori e protocolli, e conservati presso gli Archivi di Stato di Foggia e della sezione staccata di Lucera. Gli atti dei notai sono una fonte essenziale per lo studio della “storia locale” del Mezzogiorno a partire dal XV secolo in poi. Si tratta di documenti il cui contenuto è assai diversificato: si va da transazioni mercantili, contratti di compravendite e appalti a testamenti e capitoli matrimoniali. L’esame di questi contratti consente di studiare le forme e i rapporti di produzione, il paesaggio agrario, nonché le modalità che regolavano la trasmissione delle ricchezze e la politica matrimoniale. 2 Ferdinando II, salito al trono alla fine del 1830, conformò il campo del commercio e dell’economia in 221 Le attività creditizie a Foggia: i debiti Il segnale tangibile di questa generale mancanza di mezzi di pagamento va individuato sia nell’eccezionale massa di circolazione fiduciaria che si ebbe in quegli anni, sia nel diffondersi della pratica delle vendite a credito. Ad avvalorare queste affermazioni di carattere teorico, intervengono sul piano pratico i dati contenuti nel grafico 1 e relativa alla struttura dell’indebitamento in Capitanata tra il 1841 e il 1860. L’entità del fenomeno appare subito evidente se si considera che su un totale di 17.408 atti rogati nel periodo considerato, ben 6.162 hanno riguardato il ricorso al credito nelle sue varie forme. Questi valori ci consentono di pervenire ad una prima conclusione: tra le diverse fattispecie di atti notarili rogati sulla piazza foggiana nel periodo esaminato, le forme di indebitamento, complessivamente considerate, si collocano al primo posto con il 35% della produzione notarile complessiva. Sempre dal grafico 1 si evince come nella cittadina dauna la struttura dell’indebitamento assuma contorni ben precisi: nel 93% dei casi si parla di debiti in senso stretto, intendendo con ciò tutte quelle dilazioni di pagamento ottenute in occasione di operazioni di compravendita, mentre, soltanto il 6% delle volte si è fatto ricorso ai mutui. In posizione del tutto marginale si collocano le cambiali, le anticresi ed i titoli in genere. La curva dell’indebitamento, raffigurata nel grafico 1, e relativa al periodo Graf. 1.: Curva dell’indebitamento a Foggia dal 1840 al 1860. generale a quelli che erano i principi ispiratori della sua politica: egli intendeva sottrarre il Regno delle Due Sicilie al gioco della politica internazionale, lasciando che gli interessi economici dei Regno fossero subordinati esclusivamente al concetto di indipendenza, che in pratica significava isolamento. Cfr. L. Bianchini, Della storia delle finanze del Regno di Napoli, Palermo, Stamperia di Francesco Lao, 1839, p. 540. 222 Sabina Stefania Samele 1841-1860, presenta un andamento sostanzialmente decrescente che si accentua soprattutto in corrispondenza degli ultimi sei anni, e le cui cause vanno ricercate o nell’incremento di ricchezza della popolazione foggiana o, molto probabilmente, in una diminuzione generalizzata degli affari dovuta al clima di instabilità economica e di incertezza politica di quell’ultimo periodo. Al proprio interno la curva è caratterizzata da forti irregolarità, determinate dall’alternarsi di fasi di espansione e contrazione dell’indebitamento: esso raggiunge valori massimi nel 1842 con 435 atti rogati e valori minimi nel 1860 con 127 atti. 3. I debiti a) Natura dei debiti I debiti, considerati finanziamenti a breve termine a cui si ricorreva per far fronte agli impegni correnti, assumono, tra le varie forme di prestito, un ruolo di primo piano. La loro diffusione è strettamente collegata alla pratica delle vendite a credito. Non più prerogativa del commercio dei prodotti della pastorizia, contrattati principalmente nella Fiera di Maggio, le vendite a credito avevano trovato larga diffusione anche tra i prodotti dell’agricoltura e dell’artigianato, nonché tra le mercanzie acquistate dai commercianti per soddisfare le esigenze di consumo della popolazione locale.3 Inoltre, molti operatori agricoli della zona ricorrevano a questo tipo di vendita per acquistare gli attrezzi, le sementi, gli animali e quant’altro fosse necessario per la conduzione delle loro masserie.4 La Tabella 4.3.1, riporta nel dettaglio l’insieme dei beni e delle spese il cui acquisto e sostenimento ha determinato l’insorgere dei debiti tra il 1841 ed il 1860. La voce più rilevante è rappresentata dai “prestiti di danaro” con 3.022 contratti stipulati, quasi la metà dell’intera produzione notarile relativa ai debiti. Il carattere di indeterminatezza di questa voce non ci consente di risalire ai motivi che avevano determinato l’insorgere del debito impedendoci, per un buon 50% dei casi, di stabilire e individuare un nesso di causalità tra gli indebitamenti e gli investimenti realizzati in quel periodo.5 3 “Debito di ducati 180, prezzo di tanta quantità di generi ad uso di staccherie, per negoziarli e rivenderli [...]”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 93, atto n. 68 del 15 giugno 1847. 4 Una parte consistente dei debiti contratti tra il 1841 ed il 1860 è stata generata dalle spese necessarie per la conduzione di masserie e di terreni. Un esempio è rappresentato dall’istrumento di debito rogato dal notaio Biondi Gaetano il 30 ottobre 1856: “Debito di ducati 600 contratto per preparare in queste terre della estensione di versure 28 la semina, per acquistare la semenza, per acquisto del vitto necessario agli animali e per tutte le altre spese di coltivazione, sino alla trebbiatura [...]”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 587, atto n. 119 del 30 ottobre 1856. 5 La mancata specificazione dei motivi che avevano generato il debito si giustifica col fatto che, tutti i prestiti sono stati rilevati nei brevetti di debito. Infatti, come si è detto nella nota 1, gli atti dei notai venivano 223 Le attività creditizie a Foggia: i debiti Il ricorso al capitale di terzi per finanziare le proprie attività commerciali e lavorative in genere, non era solo un “affare” tra privati. Rapporti di debito sorgevano anche nei confronti di enti ed istituti aventi natura assistenziale, come la Reale Commissione di Sussidio.6 Essa operava soprattutto nell’ambito del prestito all’agricoltura, concedendo finanziamenti a tassi di interesse più agevolati rispetto a quelli praticati dai privati (generalmente i tassi di interesse non superavano la soglia del 6%). Dal canto loro i beneficiari si impegnavano a non utilizzare queste somme per usi diversi da quello della industria agraria.7 Tuttavia, non tutti i finanziamenti all’agricoltura venivano effettuati in danaro. Come testimoniano molti documenti, spesso l’oggetto del prestito era costituito direttamente da grano, da impiegare come semenza oppure da utilizzare per l’alimentazione animale o, ancora, per il “vitto dei garzoni”. Il debitore si impegnava a restituire lo stesso quantitativo ricevuto, oppure il prezzo equivalente, nell’anno successivo, alla data indicata nel contratto, tenendo conto dei prezzi di mercato del cereale in quello stesso giorno.8 Infine, un cenno va fatto anche ai debiti sorti in occasione dei ritardi intervenuti nel pagamento di estagli o pigioni, e che nel nostro caso ammontano al 5% del totale. Al verificarsi di questo evento, laddove il contratto di affitto non ne prevedeva lo scioglimento immediato, il locatore poteva tutelarsi facendo stipulare un contratto di debito nel quale, una volta accertata la morosità del conduttore, quest’ultimo si impegnava ad estinguere il debito alla scadenza ed alle condizioni previste nel nuovo atto.9 raccolti distintamente in repertori e protocolli. Tale separazione trovava il suo fondamento giuridico negli artt. 30 e 34 della “legge sul Notariato” n. 1767 del 23 novembre 1819. In virtù di queste disposizioni i repertori raccoglievano i “brevetti”, cioè tutti quegli atti di vendita, affitti, debiti, ricevute e quietanze il cui ammontare non superava i 100 ducati e fornivano unbreve sunto degli atti contenuti nei protocolli. Questi ultimi, viceversa, raccoglievano tutti gli istrumenti, ossia gli atti di vendita, debiti, mutui, affitti, testamenti, capitoli matrimoniali rogati dal notaio nel corso di un anno, ed il cui ammontare superava i 100 ducati. 6 Tra le altre forme di credito all’agricoltura vi erano anche alcune istituzioni come i Monti Frumentari, banche sui generis, destinate a sussidiare la piccola coltura e ad incoraggiare l’agricoltura e il lavoro della piccola industria, e il “contratto alla voce”, tipica forma di finanziamento dei settori cerealicoli e olivicoli, estesa successivamente al commercio della lana. 7 “Il signor Buonfiglio dichiara di aver ricevuto dalla Commissione del Sussidio la somma di ducati 1.500 e si obbliga restituire tale somma alla fine di agosto 1842. Poiché questa somma è stata prestata al sol fine di acquistare sementi e per le spese di coltivi, il debitore promette di non farne altro uso e obbliga a beneficio di detta Commissione tutti i prodotti che si raccoglieranno dalle terre medesime nell’anno 1842 [...]”, in S.A.S.L., Atti dei Notai, serie I, prot. n. 5389, atto n. 3 del 21 gennaio 1842. 8 Un esempio è dato dal brevetto di debito rogato dal notaio Nardella Antonio il 18 settembre 1842: “Obbligo per tomoli 17 di grano carosella, pagabili per il 22 luglio 1843 ai prezzi di aprile e maggio detta epoca, con l’obbligo sul seminato in misure due e mezzo ed arresto”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, rep. n. 27, brevetto di debito del 18 settembre 1842. 9 “Debito di ducati 129 sorto per effetto di estagli arretrati relativi all’affitto di versure 12 e catene 11 di terreni, da pagarsi in moneta di argento effettiva e fuori carta monetata il 25 novembre 1841. In caso di inadempimento il debitore ne vuole essere astretto non solo realmente, ma anche coll’arresto personale cui volontariamente si assoggetta (art. 1932 L.C.)”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 87, atto n.278 del 16 ottobre 1841. 224 Sabina Stefania Samele b) Tempi di immobilizzo Riconducibili nella quasi totalità dei casi alle operazioni di vendita a credito, i debiti consistevano in prestiti erogati alla clientela individuale in relazione a fabbisogni finanziari derivanti dall’acquisizione di beni di consumo o beni di uso durevole. Il prestito poteva essere effettuato direttamente dal venditore sotto forma di dilazione di pagamento o di pagamento posticipato, a seconda che l’estinzione avvenisse in più rate distribuite nel tempo, o in un unica soluzione a scadenza fissa; oppure poteva essere effettuato da terzi estranei al rapporto di compravendita. In entrambi i casi, la brevità dei tempi entro i quali doveva avvenire la restituzione del danaro, conferiva a questi prestiti il carattere di finanziamenti a breve termine. La Tabella 4.3.2 relativa ai tempi di immobilizzo dei capitali dati a prestito, ripartisce tutti gli istrumenti e i brevetti di debito rogati a Foggia tra il 1841 ed il 1860 in base alla scadenza, così come riportata nei documenti esaminati. La stragrande maggioranza di essi, 2.653 atti, prevedeva che la restituzione del danaro avvenisse dopo un anno dal momento della concessione del prestito, mentre in 1.921 casi la estinzione del debito era fissata a distanza di qualche mese. Complessivamente, nell’80% dei contratti di debito, il termine pattuito per la restituzione delle somme prestate non superava i dodici mesi. Scadenze in qualche modo vincolate erano quelle legate ai debiti sorti in occasione della “sostituzione militare”10 e quelle connesse con le spese per l’industria agraria e la vendita del grano. Nel primo caso il compenso derivante dalla sostituzione andava corrisposto non oltre i dodici mesi dal termine del servizio di Leva, dedotta la somma versata a titolo di anticipo. Nel secondo caso, invece, sia che la restituzione del prestito dovesse avvenire in danaro, sia che dovesse avvenire in grano, la scadenza veniva fatta coincidere generalmente con la fine delle operazioni di raccolta del cereale, dell’anno successivo a quello in cui era stato contratto il debito.11 Decisamente inferiore è, invece, il numero degli atti con scadenza superiore all’anno: si passa dalle poche centinaia di debiti da estinguere nel termine di due e tre anni, ad un numero via via decrescente di atti con scadenza superiore ai quattro, 10 Con questa formula si indicano tutti quegli atti in virtù dei quali un soggetto si impegnava volontariamente a prestare il proprio servizio nei Reali Eserciti in sostituzione di un altro individuo, dietro pagamento di un compenso. Un esempio è rappresentato dal seguente istrumento di sostituzione militare, rogato dal notaio Magrone: “Vincenzo Pizzo, capobuttaro di Potenza, volontariamente si obbliga servire nelle Reali Truppe al posto di Alfonso Santarelli di San Severo. Compenso di ducati 300, di cui ducati 50 pagati prontamente ed il saldo di ducati 250 dopo un anno dal servizio militare”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n.722, atto del 9 gennaio 1860. 11 “Debito di ducati 271 e grana 80 da impiegare nella coltivazione della masseria Amendola. La soddisfazione dovrà farsi nel venturo ricolto dell’anno 1847, con tanti generi di grano [...]”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 707, atto n. 695 del 7 dicembre 1846. 225 Le attività creditizie a Foggia: i debiti cinque anni, fino ad arrivare ad una o due unità all’anno per i debiti con scadenza superiore ai tredici anni. c) Capitali impiegati nei debiti Tra i vari aspetti esaminati, quello relativo ai capitali impiegati risulta essere il più interessante, al fine di analizzare i debiti sotto il profilo finanziario e stabilire in che modo essi abbiano inciso sulla economia della città. La stessa classificazione effettuata per individuare la natura dei debiti,12 è stata mantenuta nella grafico 4, relativa ai capitali impiegati nei debiti dal 1841 al 1860. La voce più consistente è senza dubbio quella costituita dai prestiti, con 349.348 ducati impiegati nel corso dei vent’anni esaminati, e che rappresenta il 40% dei capitali complessivamente investiti. La indeterminatezza di questa voce, come già si è detto,13 è collegabile al fatto che tutti i prestiti sono stati rilevati nei brevetti di debito, dove si dava semplicemente indicazione delle parti intervenute, della scadenza e della somma prestata, quasi sempre inferiore o al massimo pari ai 100 ducati, senza specificare i motivi che avevano generato il prestito. Al secondo e terzo posto per entità di capitali impiegati, si collocano i debiti contratti per l’acquisto di semenzati vari e quelli per il sostenimento delle spese relative alla industria agraria, rispettivamente con 96.869 e 82.772 ducati. Seguono i debiti sorti per l’acquisto di grano, avena e altri cereali con 50.559 ducati, e quelli derivanti da sentenze del Tribunale di Commercio o del Tribunale Civile di Capitanata,14 ammontanti complessivamente a 46.595 ducati. Nel complesso, la parte più consistente dei debiti è sorta in relazione al finanziamento delle spese collegate allo svolgimento della principale attività della provincia, vale a dire l’agricoltura, ed in particolare della cerealicoltura. La distribuzione annua dei capitali immobilizzati nei debiti, come rappresentata dal grafico 4, di seguito riportato, mostra un’equa ripartizione tra periodi a forte indebitamento e periodi caratterizzati da un basso ricorso al capitale di terzi. L’andamento ciclico assunto dalla curva dei debiti contratti tra il 1841 e il 1860, è determinato dall’alternarsi di fasi di forte espansione della posizione debitoria, che raggiunge il culmine nel 1849 con 59.924 ducati, e momenti in cui l’esistenza di circolante riduce al minimo il ricorso al capitale altrui, come dimostrano i 26.166 ducati di debiti contratti nel 1857. 12 Vedi Tabella 4.3.1. Vedi nota 5. 14 “Il signor Mongelli accetta col presente atto la sentenza del Tribunale Civile di Capitanata, in virtù della quale è tenuto a pagare ducati 4.998 e grana 25, comprensivo di un residuo debito di ducati 3.791 e grana 52, danni ed interessi per ducati 557 e grana 1, spese del giudizio ducati 603 e grana 43 e compenso di avvocato, per un ammontare complessivo di ducati 4.998 e grana 25 [...]”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 701, atto n. 135 del 29 marzo 1841). 13 226 Sabina Stefania Samele Eccezion fatta per il 1848, anno particolarmente difficile dal punto di vista storico ed economico, il periodo 1847-1851 ed il triennio 1858-1860, rappresentano gli unici due momenti in cui l’ammontare dei debiti si mantiene a livelli più o meno stabili, con valori superiori a 50.000 ducati nel primo caso e valori intorno ai 40.000 ducati nel secondo caso. Nei rimanenti periodi la fase ciclica è piuttosto accentuata, come dimostra il grafico stesso, con valori che si differenziano notevolmente da un anno all’altro, con scarti che spesso toccano i 10.000 o 20.000 ducati. Graf. 4: Capitali impiegati nei debiti a Foggia tra il 1841 e il 1860. Valori espressi in ducati d) Tassi di interesse Strettamente collegato con la contrazione dei debiti e con la conseguente loro estinzione, appare il problema relativo agli interessi da corrispondere al creditore. Distinti in interessi semplici e interessi di mora, a seconda che rappresentassero un compenso dovuto al creditore per essersi privato temporaneamente di una somma di danaro, o semplicemente una garanzia per tutelarlo in caso di ritardato pagamento del debitore, la loro corresponsione doveva essere espressamente prevista nell’istrumento o nel brevetto di debito. L’89% dei contratti di debito da noi esaminati prevedeva il pagamento di interessi. Nella maggior parte dei casi si tratta di interessi semplici da corrispondersi su 227 Le attività creditizie a Foggia: i debiti tutta la somma o solo su una parte di essa,15 mentre nei restanti casi si tratta di interessi di mora. Non mancano, tuttavia, contratti nei quali le parti prevedevano la corresponsione di entrambi gli interessi, ovviamente con decorrenza e percentuali diverse, come si può leggere nell’istrumento di debito rogato dal notaio Biondi Gaetano il 4 marzo 185016. Le percentuali applicate agli interessi semplici oscillavano da un minimo del 2 ad un massimo del 12%, con una netta prevalenza dei tassi del 10%, riscontrati in 427 casi su un totale di 666 contratti in cui le parti avevano previsto la corresponsione di questo compenso. Gli interessi di mora, invece, erano generalmente fissati nella misura dell’810 %. Il grafico 5, oltre ad indicare dettagliatamente i tassi applicati nel corso dei venti anni da noi esaminati, mette in luce un altro aspetto particolare degli interessi: non necessariamente la corresponsione di questi doveva avvenire in danaro, come dimostra il brevetto di debito rogato dal notaio Biondi nel mese di ottobre del 1842.17 Infatti, le parti di comune accordo potevano stabilire che, nel caso in cui il debito dovesse essere estinto con la consegna di un certo quantitativo di grano, anche gli interessi andavano corrisposti in grano, fissando alla stipulazione dell’atto, le misure in tomoli da consegnarsi a questo titolo. e) Garanzie a favore del creditore Affinché ciascuna delle parti intervenute nel contratto potesse essere tutelata contro le inadempienze dell’uno o dell’altro contraente, gli istrumenti di debito, come quelli di affitto e di compravendita, di cui si tratterà in seguito, prevedevano una serie di garanzie il cui fondamento giuridico andava individuato nel codice delle Leggi Civili. Di fronte alla impossibilità sopravvenuta del debitore di adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte, la legge riconosceva al creditore una serie di azioni esecutive dirette ad assicurarne l’adempimento. Esse potevano interessare sia la sfera personale del debitore, sia quella patrimoniale. 15 Spesso, quando l’estinzione del debito veniva ripartita in più rate, gli interessi applicati erano del tipo scalare, ossia man mano che il debito si riduceva per effetto del pagamento della rata, anche gli interessi diminuivano, in quanto applicati sulla somma residuale da pagare. 16 “Debito di ducati 300 per altrettanti ricevuti in moneta di argento. Il debitore si impegna pagare tale somma nel seguente modo: ducati 100 ad ogni ordine e richiesta della creditrice, ducati 200 a fine novembre 1852 con l’interesse scalare dell’8 per cento annuo. Non pagando il debitore dovrà corrispondere l’interesse del 9 per cento”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 581, atto n. 35 del 4 marzo 1850. 17 “Debito di tomoli 40 di grano carosella restituibile per il 15 agosto 1843 con l’interesse di misure 3 a tomolo”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, rep. n. 25, brevetto di debito del 20 ottobre 1842. 228 Sabina Stefania Samele Cominceremo a parlare di queste garanzie partendo dal cosiddetto “patto risolutivo”. Questa clausola, introdotta principalmente in tutti quei contratti con pagamento dilazionato, consentiva al creditore di risolvere la dilazione e ottenere la estinzione del debito in un unica soluzione18 nel caso in cui il debitore avesse mancato al pagamento di un certo numero di rate indicate nell’atto. Il fondamento giuridico di questo “patto” andava individuato nell’articolo 1093 delle Leggi Civili, relativo alla costituzione in mora del debitore.19 Nel caso in cui il debito fosse stato contratto per l’acquisto di mezzi necessari alla gestione e allo sviluppo dell’industria agraria, a garantire il buon esito dell’operazione, e quindi la possibilità per il creditore di rientrare in possesso del proprio danaro, intervenivano gli articoli 1943 e seguenti, e gli articoli 1971 e 1972 delle Leggi Civili, che regolavano rispettivamente le due figure del pegno e del privilegio. Il pegno, come il privilegio, nasceva unicamente dalla legge, la quale reputava determinati crediti degni, per la loro natura, di un particolare trattamento di favore.20 Il pegno attribuiva al creditore, in caso di inadempimento, la facoltà di espropriare la cosa, anche se passata in proprietà di terzi, per soddisfare il proprio credito a preferenza di altri creditori. Oggetto del pegno potevano essere i beni mobili, le universalità di mobili, i crediti ed altri diritti aventi per oggetto beni mobili. Nel nostro caso, il pegno veniva costituito prevalentemente sugli animali esistenti nelle masserie, e solo in casi sporadici sui mezzi ed attrezzi in essa esistenti.21 18 “Il signor Chimenti è puro debitore di ducati 2.865 del signor Cialenti. Il debitore promette di pagare tale somma in rate uguali di ducati 400, pagabili in due volte in ciascun anno. [...] In caso di mancato pagamento sia in tutto, sia in parte la dilazione concessa viene annullata (art. 1093 L.C.)”, in S.A.L.S., Atti dei Notai, serie I, prot. n. 5388, atto n. 112 del 14 dicembre 1841. 19 Art. 1093: “Il debitore è costituito in mora tanto colla intimazione o altro atto equivalente, quanto in virtù della convenzione, allorché essa stabilisce che il debitore sarà in mora per la sola scadenza del termine senza necessità di alcun fatto”, in Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Napoli, Stamperia Reale, 1833, 3 voll.: vol. III, Leggi Civili. 20 Nota 1. Le fonti documentarie utilizzate per questo studio sono costituite dagli atti dei notai, raccolti distintamente in repertori e protocolli, e conservati presso gli Archivi di Stato di Foggia e della sezione staccata di Lucera. Gli atti dei notai sono una fonte essenziale per lo studio della “storia locale” del Mezzogiorno a partire dal XV secolo in poi. Si tratta di documenti il cui contenuto è assai diversificato: si va da transazioni mercantili, contratti di compravendite e appalti a testamenti e capitoli matrimoniali. L’esame di questi contratti consente di studiare le forme e i rapporti di produzione, il paesaggio agrario, nonché le modalità che regolavano la trasmissione delle ricchezze e la politica matrimoniale. Art. 1943: “Il pegno conferisce al creditore il diritto di farsi pagare sulle cose pegnorate, con privilegio e prelazione agli altri creditori”; art. 1946: “In ogni caso il privilegio non sussiste sul pegno se non in quanto lo stesso pegno sia stato consegnato e sia rimasto in potere del creditore”, in Codice per lo Regno delle Due Sicilie…, cit 21 Nell’istrumento di debito rogato dal notaio Campanella Antonio il 27 ottobre 1849, il debitore si impegna a concedere in pegno 60 buoi aratori, onde garantire l’esatto adempimento dell’obbligazione, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 95, atto n.88 del 27 ottobre 1849. 229 Le attività creditizie a Foggia: i debiti Anche il privilegio, al pari del pegno, assicurava a certi creditori una prelazione, ossia attribuiva loro il diritto di soddisfarsi a preferenza degli altri creditori ed eventualmente anche col totale sacrificio di questi ultimi.22 L’elencazione dei crediti e dei creditori privilegiati aveva carattere tassativo, essendo regolata dettagliatamente dagli articoli 1971 e 1972 delle Leggi Civili.23 Gli istrumenti di debito offrivano al creditore una duplice tutela, costituita dal fatto che nella maggior parte dei casi prevedeva l’esistenza sia del pegno che del privilegio, oppure semplicemente dell’una o dell’altra garanzia unitamente all’ipoteca su una serie di beni immobili del debitore, o dei suoi garanti.24 Accanto alle garanzie reali, ossia costituite sopra i beni mobili o immobili del debitore, la legge riconosceva anche l’esistenza di una serie di garanzie personali. Tra queste assumeva particolare rilevanza, per le conseguenze che avrebbe riportato nella sfera dei diritti del debitore, quella prevista dagli articoli 1931 e seguenti delle Leggi Civili,25 in virtù dei quali il debitore, in caso di mancato pagamento, si assoggettava volontariamente all’arresto personale della propria persona.26 22 “Debito di ducati 1.317, di cui ducati 817 in moneta contante, tomola 500 di avena per prezzo di ducati 500. Il debitore si impegna restituire i ducati 1.317, oltre all’interesse del 10 per cento, decorrente da oggi fino alla soddisfazione in moneta di argento effettivo, fuori banco, per il 25 maggio 1849. [...] Poiché il debito fu contratto per pagare i lavoratori di due masserie, oltre che per somministrare il vitto a 77 buoi, il debitore offre in garanzia del creditore il prodotto recolligendo delle due masserie, per cui il creditore avrà privilegio e prelazione ai sensi dell’articolo 1971 delle Leggi Civili [...]”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 95, atto n. 7 del 2 marzo 1849. 23 Art. 1971: “I crediti privilegiati sopra determinati mobili sono i seguenti: le pigioni ed i fitti degli immobili, sopra i frutti raccolti nell’anno e sopra il valore di tutto ciò che serve a guarnire la cosa, o ad istruire il fondo locato, e di tutto ciò che serve alla coltivazione dei fondi [...]”; art. 1972: “I creditori privilegiati sopra gli immobili sono come siegue. 1° Il venditore sull’immobile venduto, pel pagamento del prezzo. Se vi sono più vendite successive il prezzo delle quali sia dovuto in tutto o in parte il primo venditore è preferito al secondo, il secondo al terzo, e così successivamente. 2° Quelli che hanno somministrato danaro per l’acquisto di immobili purché sia comprovato autenticamente coll’atto dell’imprestito, che la somma era destinata a tale impiego, e che il pagamento del prezzo sia stato fatto col danaro dato a prestanza [...]”, in Codice per lo Regno.., cit. 24 “Le parti Schinco e Normanno si dichiarano debitori solidali del signor Stanziano per ducati 279 per l’acquisto di grano duro, orzo, avena, per la semina dei propri terreni. I debitori si obbligano restituire la somma in moneta di argento effettiva, fuori Banco, il giorno 5 luglio 1842. [... ] A garanzia di tale debito, i signori Normanno e Schinco concedono al creditore il privilegio di effettuare il raccolto dei medesimi terreni per la cui semina il debito è stato contratto. Inoltre i debitori sottopongono a beneficio del creditore ad ipoteca convenzionale l’utile dominio delle medesime versure”, in S.A.L.S., Atti dei Notai, serie I, prot. n. 5388, atto n. 97 del 6 ottobre 1841. 25 Art. 1931: “L’arresto personale nelle materie civili non potrà aver luogo se non quando sia convenuto tra le parti, ordinato, o permesso dalla legge”; art. 1932: “L’arresto personale potrà convenirsi per qualunque debito e tra qualsivoglia persone, fuorché tra ascendenti e discendenti, tra fratelli e sorelle, tra zii e nipoti, e tra coniugi non potrà convenirsi a danno della donna”; art. 1933: “Esso nondimeno non potrà eseguirsi per somma minore di ducati venti, tranne il caso che il debito dipenda da affitto di podere, sia rustico, sia urbano”, in Codice per lo Regno…, cit. 26 “Il signor Rossi promette di soddisfare il di lui creditore signor Ventura della somma di ducati 204 di sorta principale e ducati 18 e grana 55 di spese ed interessi finora scaduti, nel seguente modo: ducati 102 il giorno 18 maggio 1843, oltre ai ducati 18 e grana 55 per spese ed interessi, e l’altra metà di sorta principale ducati 102 nel giorno 18 maggio 1844 [...] Mancando al pagamento della prima danda la dilazione si ritiene abbreviata. In ogni caso di inadempimento il signor Rossi ne vuole essere astretto anche con arresto personale ai sensi degli articoli 1932 e 1933 delle Leggi Civili”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 701, atto n. 669 del 18 dicembre 1841. 230 Sabina Stefania Samele f) Casi particolari: le cessioni in solutum Tra le modalità con le quali si potevano estinguere i debiti, oltre al pagamento in danaro ed alla cessione di crediti bisogna annoverare anche le cosiddette “cessioni in solutum”. Al sopraggiungere del termine fissato dalle parti per la restituzione del prestito, il debitore, qualora non avesse avuto a disposizione il danaro sufficiente per farlo, poteva comunque procedere alla estinzione del debito attraverso la cessione di uno o più beni di sua proprietà. Il valore del bene ceduto raramente coincideva con il debito da estinguere, pertanto l’atto con il quale il notaio ufficializzava la cessione, oltre a contenere il trasferimento di proprietà del bene dal debitore al creditore, fissava anche il termine e le modalità per la estinzione dell’eventuale residuo debito.27 Dalla lettura della Tabella 4.3.6, nella quale sono elencati tutti i beni che sono stati oggetto delle cessioni in solutum nel periodo 1841-1860, risulta piuttosto evidente che tra i beni ceduti la stragrande maggioranza è rappresentata da case. Con notevole distacco seguono poi fondi urbani, sottani, mobili e terreni. Trattandosi prevalentemente di beni immobili, le parti, in alcuni casi, inserivano nel contratto di cessione il “ patto di ricompra”,28 onde consentire al debitore di ritornare in possesso di quei beni dei quali aveva dovuto cedere la proprietà, a causa della mancanza di mezzi finanziari sufficienti ad estinguere il debito.29 g) Casi particolari: le anticresi I contratti di anticresi, al pari delle cessioni in solutum, avevano come obiettivo quello di garantire l’adempimento del debitore in relazione alla obbligazione assunta, consistente nel pagamento della somma capitale e degli interessi su di essa maturati. 27 “Il signor Bario risulta essere debitore del signor Nigri di ducati 700 che si era impegnato a pagare con cambiali. Ma alla scadenza le cambiali sono state protestate. Allora il signor Bario per estinguere il suo debito cede al signor Nigri alcuni suoi oggetti, ovvero: dieci armadi di noce, tre vetrine, cinque tavolini, candelieri, due casse di noce ed altro per un valore complessivo di ducati 310; e per i restanti ducati 390 si impegna il signor Bario pagarli nel giro di due anni a rate mensili, con ciascuna rata di ducati 16 e grana 25 senza alcun interesse, in moneta di argento effettivo”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 703, atto n. 873 del 12 dicembre 1842. 28 In molti casi gli atti di compravendita, relativi sia ai beni mobili che ai beni immobili, erano caratterizzati dall’inserimento, all’interno del contratto, di un’apposita clausola che consentiva l’esercizio del cosiddetto “patto di ricompera”, la cui disciplina era regolata dall’articolo 1519 delle Leggi Civili. Detto articolo prevedeva la possibilità per il venditore di riacquistare il bene precedentemente ceduto, attraverso la restituzione del prezzo. Tale diritto’ andava esercitato entro una data specifica, indicata espressamente nell’atto di vendita. Il mancato esercizio entro detto termine, che poteva andare da qualche mese fino a 4-5 anni, avrebbe comportato la perdita irrevocabile della proprietà da parte dell’originario venditore 29 “Vendita in solutum di un sottano e soprano per estinguere un debito di ducati 70. Il prezzo della cessione sarà fissato dai periti, ma non può eccedere i ducati 100. Il debitore può esercitare la ricompra dei fondaci entro il 15 aprile 1847 mediante la restituzione dei ducati 70. In caso contrario, il creditore acquisterà definitivamente la proprietà dei beni pagando prontamente la differenza tra il valore di perizia e il debito di ducati 70”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 702, atto n. 316 del 25 maggio 1842. 231 Le attività creditizie a Foggia: i debiti Gli elementi che differenziano questi due contratti sono sostanzialmente riconducibili al trasferimento della proprietà ed al momento in cui si stipulava il contratto. Con riferimento al primo punto, mentre la cessione in solutum comportava il trasferimento di proprietà del bene dal debitore al creditore, sia pure con la possibilità di rientrarne in possesso qualora il contratto avesse previsto il “patto di ricompra”, viceversa con il contratto anticretico il creditore poteva unicamente godere dei frutti derivanti dall’immobile, in escomputo del capitale a lui dovuto e degli interessi su di esso maturati.30 Il secondo punto riguarda, invece, il momento a partire dal quale il bene rientrava nella sfera di godimento del creditore. Mentre nella cessione in solutum il bene veniva ceduto solo nel momento in cui si accertava oggettivamente l’impossibilità sopravvenuta del debitore di adempiere alla propria obbligazione, e quindi il contratto veniva stipulato in un tempo successivo a quello in cui si costituiva il debito, viceversa nell’anticresi il bene veniva ceduto in godimento a partire dal momento stesso in cui sorgeva il debito, tant’è che non si stipulavano due contratti separati, quello di debito e quello di anticresi, bensì un unico atto che andava sotto il nome di “istrumento di anticresi”.31 30 Art. 1955: “L’anticresi non si stabilisce senza sentenza. Il creditore in virtù di questo contratto non acquista altro che la facoltà di raccogliere i frutti dell’immobile, coll’obbligo di imputargli annualmente a sconto degli interessi, se gli sono dovuti, e quindi del capitale del suo credito”, in Codice per lo Regno…, cit. 31 “Il signor Di Bari ha ricevuto a titolo di prestito dalla signora Santeramo la somma di ducati 100 in moneta di argento effettivo, la quale somma il debitore si obbliga restituire in altrettante monete di argento per il giorno 16 giugno 1845. Per maggior sicurezza della predetta somma il signor Di Bari cede in anticresi a prò della sua creditrice una camera per la durata del prestito. Per effetto del contratto anticretico la creditrice godrà i frutti provenienti da questa casa o fittandola, o abitandoci essa stessa. Per maggior cautela della signora Santeramo si assoggetta a speciale ipoteca la casa suddetta”, in A.S.F.G., Atti dei Notai, serie II, prot. n. 89, atto n. 177 del 17 giugno 1843. 232 Sabina Stefania Samele 233 Le attività creditizie a Foggia: i debiti 234 Sabina Stefania Samele 235 Le attività creditizie a Foggia: i debiti 236 Sabina Stefania Samele 237 Le attività creditizie a Foggia: i debiti 238 Sabina Stefania Samele 239 Le attività creditizie a Foggia: i debiti 240 Sabina Stefania Samele 241 Le attività creditizie a Foggia: i debiti 242 Maria Teresa Santelli Le compagne del 23 marzo 1950 a San Severo Maria Teresa Santelli Gli anni cinquanta hanno il sapore della mia infanzia in un paese dalle forti passioni, San Severo. Un paese dell’Italia meridionale che non ama mostrare il volto della rassegnazione. Il suo è un passato di lotte e giuste rivendicazioni. Dal 1864 al 1883 è tutto un fiorire di Società di Mutuo Soccorso e Cooperative,1 che, poi, confluiscono nel Fascio Operaio e, quindi, nel movimento socialista. Le idee circolano e camminano sulla carta stampata. I settimanali sono tanti e molti i lettori, se si considera l’alto tasso di analfabetismo: nel 1896 del «Mefistofele», voce del partito socialista, si vendono 400 copie.2 È un aprirsi alle nuove ideologie non solo per difendere i lavoratori salariati ma anche (come nell’articolo Sano Socialismo del 25 settembre 1892 su «Il Fascio», voce del Fascio Operaio)3 per combattere “ogni specie di sfruttamento e di oppressione sieno essi diretti contro un partito, una classe, un sesso. A base di queste massime il partito socialista domanda: 1. Diritto alle elezioni e votazioni, diritto uguale, universale con votazione segreta per tutti i cittadini dell’età di 20 anni in più, senza distinzione di sesso, per tutte le elezioni e votazioni […] 5. Abolizione di tutte le leggi subordinanti la donna all’uomo in rapporti pubblici ed in diritti civili”.4 Questa sensibilità per il mondo femminile diventa tangibile quando nel 1904, all’ottavo Congresso Nazionale Socialista di Bologna, delegata a parteciparvi è una donna, Aristea Corvi. A lei, che vota l’ordine del giorno Labriola, sono diretti forti applausi come riportato in «La Bandiera Socialista» del 17 aprile 1904.5 Il fervore di idee e di iniziative non conosce soste in questa terra dall’acre odore di mosto e, quando a Livorno si forma il Partito Comunista, alcuni suoi figli vi aderiscono con profonda convinzione. Ed è così che, nell’aprile del 1921, il I Congresso Provinciale Comunista si svolge a San Severo. Terra che ha ospitato il I e il III Congresso Provinciale Socialista e visto, nel 1896, la partecipazione dello stesso Andrea Costa.6 1 A.S.F.G.., Sottoprefettura di San Severo, b. 400. Assunta FACCHINI-Raffaele IACOVINO, Leone Mucci,Cavallino di Lecce, Capone Editore, 1989, p. 37. 3 Ibid., p. 31. 4 «Il Fascio» del 25 settembre 1892. 5 «La Bandiera Socialista» del 17 aprile 1904. 6 A. FACCHINI-R. IACOVINO, Leone Mucci…, cit., p. 37. Cfr. Michele PISTILLO, Prefazione, in Luigi ALLEGATO, Socialismo e Comunismo in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 18. 2 243 Le compagne del 23 marzo 1950 a San Severo Lo scorrere del tempo non fiacca gli animi dei “compagni” che, nel secondo dopoguerra, rivendicano i propri diritti con rinnovata forza. Fu così che una mattina mi ritrovai barricata in casa con le persiane e i vetri chiusi mentre mamma gridava a me e a mia sorella che bisognava scendere nelle fossette o giù in cantina per salvarsi dalla furia omicida del popolo tra cui, a sentire lei, le donne si distinguevano per ferocia. La nostra casa aveva visto il crollo del muro di Berlino prima che fosse costruito e, in quegli anni di guerra fredda, il Partito Comunista per i miei, che pure erano di tutt’altra ideologia, aveva il volto rassicurante di Lenuccia, di Maria la macellaia e di tante altre donne con cui mia madre sapeva tessere relazioni di amicizia ed umana solidarietà. Lenuccia aveva salvato mio padre che, dopo la guerra, si presentava con un passato politico alquanto scomodo. Alla vigilia della marcia su Roma era a Fermo e i suoi ideali patriottici di giovane studente si sarebbero radicati in lui per divenire, poi, principi di vita. Non costituirono, però, mai barriera verso l’altrui pensiero né modificarono la sua naturale propensione a capire l’altro, a colloquiare con lui. Quel Cumbà - don Alfò, che spesso precedeva il saluto per le strade del paese, resta l’appellativo a me più caro che illumina la sua figura di uomo. Era, quindi, inspiegabile per mia madre tanta violenza specialmente nelle donne. Le voci arrivavano attutite lì, al primo piano di via Fraccacreta, a due passi dalla macelleria Schingo in piazza Tondi. Verso le otto del 23 marzo del 1950, tre agenti di P.S. erano intenti a depositare sul carretto parte della carne acquistata per la mensa quando “una turba di dimostranti, preceduti da alcune donne,” si diresse verso di loro.7 “Le donne gridavano: vogliamo pane e lavoro”. A detta della stessa guardia Angiolillo, il loro “non era un atteggiamento aggressivo”, era, io penso, l’esplicitazione di un male antico: la fame. E lui a quelle grida non aveva saputo rispondere altro che “non ho la possibilità di esaudire la vostra richiesta”.8 Sembrava, dunque, una dimostrazione pacifica come quella del giorno precedente quando il corteo era sfilato per le principali strade cittadine in perfetto ordine con Arcangela Villani9 che sventolava la bandiera dell’UDI di cui era la dirigente, oltre che essere Consigliera Comunale. Era l’orgoglio delle compagne. Tutte consapevoli e fiere del proprio compito. Accanto ad Arcangela, Teresa Dogna, Teresa Palladino, Armida Salza, Soccorsa Sementino, Elvira Suriani, Isabella Vegliato e poi tante, tante a sostenere con forza gli ideali condivisi. Madri come Lucia La 7 ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI SAN SEVERO (A.S.C. SS.), 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio della Guardia Angiolillo. A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 4. 8 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio della Guardia Angiolillo. 9 Ibid., Verbale d’interrogatorio di Arcangela Villani. 244 Maria Teresa Santelli Pietra che marciava con le figlie Maria Teresa, Antonia e Bianca Custodero. E mariti, figli, padri, tutti insieme con le proprie donne a difendere i diritti calpestati da un Governo che, con Scelba e i suoi odiati “guardiacelere” o “scelbini”, aveva fatto un balzo nel passato, un ritorno ad azioni di forza contro operai e contadini inermi. Erano sempre loro a cadere sotto i colpi del fucile. Così era stato a Melissa, a Torremaggiore, a Montescaglioso. E a nulla era servito il patto di Modena, seguito all’ultimo eccidio di lavoratori avvenuto in questa città. Il monito dei politici e dei sindacalisti di sinistra restava inascoltato da parte delle forze dell’ordine, che, con la loro risposta violenta, continuavano a causare morti e feriti tra i manifestanti. Il Consiglio dei Ministri aveva, addirittura, autorizzato i Prefetti a disporre il divieto di comizi pubblici e cortei; si vietava, inoltre, lo “strillonaggio” di giornali nelle pubbliche vie o la loro vendita a domicilio da parte di persone non debitamente autorizzate.10 Il Comandante Ricciardi era lì a guardare quello sciopero per cui non era stata rilasciata nessuna autorizzazione perché non richiesta. Mordeva il freno, era costretto a non intervenire perché la manifestazione era pacifica.11 Per i lavoratori di San Severo era stato naturale aderirvi dopo i fatti di Lentella, dove due disoccupati erano stati uccisi dalle forze dell’ordine e dieci erano rimasti feriti. Bisognava protestare per i compagni morti e contro un Governo che ledeva i diritti dei lavoratori, limitava la libertà di esprimere il proprio dissenso.12 La manifestazione si era così pacificamente conclusa prima delle ore diciotto, termine fissato dai sindacati, e nulla sarebbe successo quel fatidico 23 marzo 1950, se nel pomeriggio del 22 non fossero giunti da Foggia alcuni dirigenti politici e sindacali per i quali bisognava continuare lo sciopero. L’ennesimo fatto di sangue a Parma, un operaio ucciso dalle forze dell’ordine, lo rendeva necessario.13 Carmine Cannelonga, segretario della Camera del Lavoro, e Matteo D’Onofrio, segretario amministrativo del Partito Comunista, pur non ritenendo opportuno farlo per la situazione di per sé incandescente, indissero un’assemblea per prendere una decisione che era già stata presa. Il verticismo del tempo non dava spazio a soluzioni alternative: gli ordini non si discutevano. Seguirono le direttive, le fecero proprie e se ne assunsero la piena responsabilità. Uomini di un tempo andato. Ma come avvertire tutti gli altri? Entrarono in azione i capicellula e, ad ascoltare il comizio dell’avvocato Erminio Colaneri, erano in molti e tante le donne. Quando il partito chiamava, le compagne accorrevano a dare il proprio contributo di forza, di idee. 10 «L’Unità» del 19.03.1950; cfr. Raffaele IACOVINO, 23 marzo 1950 – San Severo si ribella, Milano, Teti editore, 1977, p. 16. 11 Lelio BASSO, Arringa ,in R. IACOVINO, 23 marzo 1950 – San Severo si ribella…, cit., p. 81. 12 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto,, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Questura di Foggia, p. 41. 13 Ibid. ; cfr. A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Salvatore Colapietra. 245 Le compagne del 23 marzo 1950 a San Severo In un’intervista del 1976, a Raffaele Iacovino che gli chiede quale sia stato il compito delle donne in quel 23 marzo 1950, Matteo D’Onofrio dirà: Le donne comuniste, alle quali la domanda è rivolta, sono, come per gli uomini, l’avanguardia, la parte organizzata e perciò più sensibile ai problemi femminili in particolare e di tutte le famiglie dei lavoratori in generale. Aiutare le altre donne, tutte le altre donne a prendere coscienza della propria sorte e della sorte delle proprie famiglie, per essere spose felici e per avere figli sani e sorridenti. Questo è il tributo che le donne comuniste, volontariamente, dedicano alla civiltà di un popolo. Non altro poteva essere il compito delle donne anche il 23 marzo. E questo tributo queste care compagne lo hanno pagato a caro prezzo ma con dignità.14 Quel grido di pane e lavoro in piazza Tondi non era, quindi, una voce indistinta che nella folla perde la propria identità ma una presenza attiva, un consapevole incitamento alla lotta. Armando Cassano, nella sua testimonianza, dichiarò di aver notato Soccorsa Sementino aggregarsi ad un gruppo di uomini che si recava verso Piazza della Repubblica per imporre la chiusura dei negozi e, in tale occasione, si distingueva per la sua azione di comando.15 Ma non era sola e, tra le tante, spiccavano Soccorsa Mollica e Teresa Palladino.16 Avevano i volti di donne decise a far valere i propri diritti.17 Lo scioglimento dei gruppi che picchettavano le principali strade di accesso ai campi e l’arresto di Antonietta Reale18 avevano acceso i loro animi. Si erano alzate, come al solito, all’alba ma quella mattina il loro compito era stato quello di presidiare, insieme a compagni e compagne, le vie che portavano i contadini al lavoro. Avrebbero dovuto informarli dello sciopero e convincerli a parteciparvi. Lo avevano fatto anche con parole grosse e modi rudi. L’agente di Pubblica Sicurezza Antonio Previti afferma di essere stato oggetto di violenza e minacce da parte di Antonietta Reale che, rivolgendosi a lui, aveva gridato: “Vi faremo a pezzi, vi uccideremo, figli di puttana, vi dobbiamo fare il culo grande a voi e a Scelba”.19 Nella stessa circostanza Marianna D’Errico, rivolta al maresciallo dei Carabinieri Nicola Centrone ed all’agente di P.S. Michele Fratello, aveva urlato: 14 IACOVINO, op. cit., p.76. A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Carabinieri Compagnia di San Severo - Al Procuratore della Repubblica di Foggia 15/4/1950, pp. 93-95. 16 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 4. A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Carabinieri Compagnia di San Severo - Al Procuratore della Repubblica di Foggia 15/4/1950 pp. 92-93. 17 Ibid., p .96. 18 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Questura di Foggia, p. 58. A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 4. 19 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Carabinieri Compagnia di San Severo - Al Procuratore della Repubblica di Foggia 15/4/1950, p. 93. 15 246 Maria Teresa Santelli “Oggi non sarà come ieri; vi romperemo il c…… Scorrerà il sangue”.20 E parole minacciose, secondo la testimonianza di Maria Carmela Cherzi, furono proferite da Armida Salza nei confronti del vigile urbano Guglielmo Festa: “Disgraziato, se vuoi la pistola esci fuori e te la scarico prima addosso e dopo te la do”.21 “Verso le 5,30 reparti di polizia di stanza a San Severo, in collaborazione con circa 75 agenti inviati a San Severo nelle primissime ore dal Sig. Questore di Foggia”,22 erano giunti sul posto e avevano ordinato con la forza lo scioglimento di quei picchetti, che per il pubblico ministero sarebbero diventati blocchi stradali, e portato in carcere i più facinorosi. Tra costoro anche Antonietta Reale. Bisognava, quindi, reagire: imporre la chiusura dei negozi. Le tre guardie Ardemagni, Crudele ed Angiolillo si trovavano lì per caso, dinanzi alla macelleria Schingo, per il solito carico di carne destinato alla mensa, e diventarono subito il simbolo di quel potere che ha da sempre oppresso il popolo e, quando Ardemagni afferrò un coltello e ferì tre lavoratori, i più persero il controllo delle proprie azioni. Dal suo interrogatorio si evincerà che aveva agito per legittima difesa.23 Come sempre in simili circostanze, non è possibile ricostruire l’esatta sequenza dei fatti, eppure, data l’enorme disparità di numero tra agenti (tre) e scioperanti (circa un centinaio) e i bisognosi di cure ospedaliere (un agente e due manifestanti) si può capire da che parte fosse la forza e la volontà di colpire! La notizia dell’aggressione si era intanto diffusa in tutto il paese e dalla Caserma dei Carabinieri 20 guardie di P.S., al comando del capitano Mollo e del commissario Ricciardi, si diressero verso la macelleria Schingo per andare in soccorso dei tre agenti aggrediti. Così dichiarò nell’interrogatorio Giuseppe De Simone che faceva parte del rinforzo partito da Foggia alle quattro del mattino.24 Il prefetto li aveva inviati in seguito alla richiesta del Commissario Ricciardi, allarmato dalla denuncia fatta dagli agenti Bisceglie e Morgante che, obbedendo al suo ordine, la sera del ventidue si erano recati, in abito civile, davanti alla Camera del Lavoro per ascoltare gli oratori. Relazionando sull’accaduto, avevano parlato di duemila contadini infervorati dall’avvocato Erminio Colaneri che, con la sua foga oratoria, li invitava alla rivolta.25 Nel suo interrogatorio De Simone disse che, liberati Angiolillo, Ardemagni e Crudele dalle mani della folla, insieme agli altri era ritornato in Caserma da cui era 20 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 4. Cfr. ibid., Questura di Foggia, pp. 7 e 58. 21 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Carabinieri Compagnia di San Severo - Al Procuratore della Repubblica di Foggia 15/4/1950, p. 95. 22 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 4. 23 Ibid., p. 5. Cfr. ASC SS , 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Ardemagni. 24 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Giuseppe De Simone. 25 Ibid., Verbale d’interrogatorio di Bisceglie e Morgante. Ibid., Verbale d’interrogatorio di Giuseppe De Simone. 247 Le compagne del 23 marzo 1950 a San Severo uscito dieci minuti dopo per affrontare, nuovamente, gruppi di dimostranti che si erano fermati nei vicoli adiacenti al mercato e, quindi, in piazza Castello, sempre nei pressi della macelleria Schingo. La folla caricata dagli agenti si era dispersa ma, poi, aveva attaccato quelli che erano rimasti indietro isolati.26 De Simone cadde colpito da una randellata e, quando si riprese, vide il suo collega Ruggero aggredito e colpito da un altro gruppo di dimostranti tra cui numerose donne.27 Le mitologiche Erinni. Bestie da soma fin dalla prima infanzia, il corpo segnato da immani fatiche fisiche e da continue gravidanze, le donne, chiamate all’azione, mettevano fuori tutto il livore accumulato in secoli di sottomissione, esplodevano con una violenza, a volte, superiore a quella dell’uomo. Nel suo interrogatorio il vigile urbano Guglielmo Festa parla di donne che capeggiavano il gruppo dei facinorosi, incitando alla rivolta. Furono loro a lanciargli sul viso della polvere, forse, per non essere riconosciute. Lui, però, ne identificò alcune: la moglie di Carmine Cannelonga, la consigliera comunale Arcangela Villani, la moglie di Matteo D’Onofrio.28 La folla, ormai irrefrenabile, percorreva le strade del paese alla ricerca di armi e strumenti di difesa, alzava barricate. Si voleva impedire che, dalla Caserma, arrivassero nuovi rinforzi in piazza Tondi o che gli agenti giungessero alla Camera del Lavoro e alla sede del Partito Comunista, luoghi simbolici per gli scioperanti. Fu la barricata di via Mercantile29 a scatenare il terrore in mia madre che temeva una probabile scalata al balcone di casa. Eravamo sole. Mio padre, come faceva ogni giorno dalla fine della guerra, era partito alle cinque del mattino per recarsi a Foggia. Sarebbe tornato nel tardo pomeriggio a tranquillizzarci, a riportare serenità. Le sedi del PCI e della Camera del Lavoro erano state illuminate tutta la notte30 e alle 6,45 del mattino, come risulta dal verbale d’interrogatorio di Antonio Berardi, segretario della IV sezione, nella sede del partito erano riuniti diversi dirigenti “fra i quali - si legge - io, Matteo D’Onofrio, segretario amministrativo del partito locale, Michele Fantasia, segretario della prima sezione, Arcangela Villani consigliera comunale e dirigente dell’UDI, Elvira Suriani moglie del segretario della Camera del Lavoro Cannelonga, attivista femminile del partito, Soccorsa Sementino, moglie del senatore Luigi Allegato, anch’essa attivista del partito”31 . Ma anche Soccorsa Mollica Isabella Vegliato e Teresa Palladino, come riportato nel 26 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto,, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p.5. A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Giuseppe De Simone. 28 Ibid., Verbale d’interrogatorio di Giuseppe De Simone e 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Carabinieri Compagnia di San Severo - Al Procuratore della Repubblica di Foggia 15/4/ 1950, pp. 92, 94. 29 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 8. 30 Ibid., pp. 2-3. A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Salvatore Colapietra. 27 248 Maria Teresa Santelli verbale dell’interrogatorio di Salvatore Colapietra, segretario locale della Fgci, che, nella sede, si era recato dopo le sette.32 C’era un andirivieni di staffette che riferivano sull’andamento dello sciopero e i dirigenti, dopo averle ascoltate, accorrevano lì dove era necessario per consigliare, difendere gli scioperanti. Venuto a conoscenza dell’arresto e del ferimento di alcuni operai, Cannelonga, dopo essere andato in ospedale a visitare i feriti, si era diretto verso la Caserma dei Carabinieri con l’intento di ottenere una distensione della situazione. Si proponeva di far cessare lo sciopero, facendo ritirare i dimostranti nella Camera del Lavoro. La risposta al suo tentativo di mediazione fu l’arresto.33 L’atmosfera era ormai rovente. Bisognava difendersi e difendere le sedi del PCI e della Camera del Lavoro. Bloccare le vie di accesso alla città e, in modo particolare, Porta Foggia da cui sin dal primo mattino erano giunti i rinforzi.34 Il commissario di Pubblica Sicurezza, Guido Celentano, giunto a San Severo intorno alle 12,3035 “con 300 uomini, una metà agenti di P.S. e una metà artiglieri del 14° regg., e con 4 autoblindo” notò “4 ordini di barricate costituiti da fusti pieni di bitume, da carri e carrettoni agricoli rovesciati, da ruote di carretti, da grossi tronchi di alberi, da massi di pietra e da un frantoio per la produzione di pietrisco. Innanzi una di quelle barricate vi era persino un reticolato evidentemente asportato da un campo vicino”.36 La segnalazione dello sbarramento era stata fornita alla Questura di Foggia da un motociclista inviato dal capitano Montemagno che, con 120 uomini del battaglione mobile “Capitanata”, era giunto a San Severo alle 10,30 per sostenere le forze dell’ordine locali. All’altezza del macello era stato, però, costretto a lasciare gli automezzi in custodia di “una quindicina di agenti, comandati da un brigadiere” e a procedere a piedi verso il centro abitato.37 Al commissario Celentano toccò, quindi, l’azione di sgombero della strada ed il successivo rastrellamento nelle case di periferia. L’incontro con il capitano Montemagno e parte del battaglione mobile “Capitanata” avvenne a metà di via Minuziano ed insieme, guardinghi e coprendosi le spalle con uomini che restavano a presidio dei vicoli, marciarono verso piazza Castello. Qui, però, li attendevano altri blocchi. Nel verbale d’interrogatorio del Commissario Celentano si legge: 31 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Antonio Berardi. A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 4. 32 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Salvatore Colapietra. 33 Ibid.,Verbale d’interrogatorio di Carmine Cannelonga.. A.SF.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p.7. 34 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Carabinieri Compagnia di San Severo - Al Procuratore della Repubblica di Foggia 15/4/1950, p. 92.; A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 4. 35 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 12. 36 Ibid., p. 8. Cfr. A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Guido Celentano. 37 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Motivi di appello del P.M. Damiani Nicola, p. 12. 249 Le compagne del 23 marzo 1950 a San Severo Notammo 4 ordini di barricate meno consistenti di quelle notate alla periferia dell’abitato, costituite prevalentemente da panche rovesciate e da un carretto adibito a trasporto di carni macellate e da due tronchi di alberi di quelli in uso nelle macellerie per battervi la carne38 […]. Quando i miei uomini erano intenti a rimuovere la prima barricata di corso Gramsci, io venni raggiunto dal Commissario Ricciardi e dal capitano Mollo che erano riusciti a rompere il cerchio che li stringeva tra la Caserma e il Municipio.39 L’obiettivo finale era ormai prossimo. Le sedi del P.C.I. e della Camera del Lavoro caddero ben presto nelle mani delle forze dell’ordine e le donne (20 su 70)40 e gli uomini che vi avevano trovato rifugio furono arrestati. Cominciò per loro un calvario durato due anni, anni di carcere e di processi che videro alcune compagne, inizialmente rinviate in giudizio per aver partecipato alla “insurrezione armata contro i Poteri dello Stato”41 e, poi, dichiarate colpevoli di “radunata sediziosa aggravata”.42 Protagoniste43 e non figure marginali dell’evento.44 Nel 1957 l’ultima sentenza, poi, le luci della cronaca si spensero. Il silenzio sommerse ogni cosa. In me quei momenti di terrore svanirono ben presto e per anni non ebbero ricordo. Dal buio dell’inconscio riemergono per caso, nel mezzo di una indagine da me condotta su “Donne tra politica e sociale nel secondo dopoguerra”. È l’inizio di una nuova ricerca. Come sempre l’archivio, con il fascino delle sue carte polverose e logore, mi prende e vecchie veline dattiloscritte mi svelano l’elenco degli imputati per i fatti del 23 marzo 1950 a San Severo. Il mio sguardo scivola veloce suoi tanti nomi maschili, per posarsi attento su: Arbolino Maria Barbieri Rosa Boncristiano Ersilia Maria Clotilde Borsa Antonia Maria Bruno Teresa 38 Ibid., p. 8. Cfr. A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Verbale d’interrogatorio di Guido Celentano. 39 Ibid. 40 A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Prefettura di Foggia, p. 5. 41 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Sentenza della sezione istruttoria della corte di appello di Bari emessa il 20 aprile del 1951. A.S.F.G., Ufficio Gabinetto, b. 42, cat. 0, fasc. 17, Questura di Foggia, p. 10. 42 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Sentenza della sezione istruttoria della corte di assise di Foggia in Lucera emessa il 5 aprile del 1952. 43 A.S.C.SS., 23 marzo 1950 a San Severo, Procedimento Penale, IX – 1 – 11, Carabinieri Compagnia di San Severo - Al Procuratore della Repubblica di Foggia 15/4/1950, p. 91. 44 Severino CANNELONGA, Carmine Cannelonga, San Severo, Cromografica Dotoli, 2004, pp. 94, 96, 97, 100, 102. 250 Maria Teresa Santelli Caiafa Alberinda Campanaro Rosa Carolina Capuano Erminia Liberata Cardacino Soccorsa Cardacino Grazia Censano Maria Michela Colaianni Jolanda Colò Soccorsa Custodero Antonia Custodero Bianca Custodero Maria Teresa D’Amico Lucia De Bucanan Assunta D’Errico Marianna Diamante Leonarda Di Gennaro Teresa Dogna Teresa Frugolini Elena Giuliani Rachele Iarossi Angela La Pietra Lucia Marocchella Costantina Masiello M. Saveria Mastroiorio Angela Maturo Antonia Mollica Soccorsa Nardella Mariarcangela Niro Maria Addolorata Palladino Teresa Angela Reale Antonia Teresa Salza Armida Sementino Soccorsa Sorice Elda Suriani Elvira Valente Incoronata Vegliato Isabella Villani Arcangela Donne45 per me senza volto, a cui i verbali d’interrogatorio ridanno forma e colore in una luce di consapevolezza politica che le vivifica. 45 Nell’elenco non è riportata De Bucanan Grazia informatrice dei Carabinieri come dichiarato dal commissario di Pubblica Sicurezza, Gaetano Ricciardi (R. IACOVINO, 23 marzo 1950 – San Severo si ribella..., cit. p. 59). 251 252 Gaetano Schiraldi La diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana di Gaetano Schiraldi 1. La cristianizzazione in Puglia Sulla cristianizzazione della terra di Puglia nei primi tre secoli non disponiamo di alcuna fonte né scritta, né di indirette testimonianze. Perciò non possiamo, allo stato attuale, introdurre un discorso di carattere storico su questo argomento. Le fonti, invece, di cui disponiamo sono tardive rispetto a quelle delle altre regioni e consistono in fonti scritte, cioè atti di sinodi o concili, o addirittura di lettere dei vescovi di Roma alle comunità e alle loro guide. Una importanza fondamentale va attribuita alle continue ricerche e scoperte archeologiche. Allo stato attuale della ricerca la più antica comunità cristiana di Puglia è quella di Salpi,1 non solo ma conosciamo anche il nome del vescovo Pardo, il quale, nel 314, prese parte al concilio di Arles, accompagnato dal diacono Crescente,2 per la risoluzione della questione donatista3 e per quella circa l’elezione di Ceciliano a vescovo di Cartagine. Questi dati attestano che nel IV secolo la comunità cristiana di Salpi era già organizzata ed attiva, tanto da inviare, ad un così importante concilio, il vescovo e un diacono. Al concilio di Nicea, nel 325, era presente Marco di Calabria, ritenuto da alcuni vescovo di Brindisi, da altri vescovo di Otranto. Un elemento interessante è il titolo di “metropolita”, attribuito al vescovo Marco, il quale fa pensare agli albori di una provincia ecclesiastica già dal principio del IV secolo nella penisola salentina meridionale. Nel 342-343 il vescovo di Canosa, Stercorio, prende parte al concilio di Sardica,4 ma con lui, è probabile, che siano intervenuti altri vescovi pugliesi, visto 1 Salpi o Salaria fu una città romana, fondata nel I sec. a. C., a 25 km a sud di Siponto, distante da Salaria vetus di fondazione greca (cfr. Melata D. MARIN, Il problema delle tre “Salapia”, in «Archivio Storico Pugliese», XXXVI (1973), pp. 364-368). Questa città un tempo sorgeva tra Trinitapoli e Zapponeta, in provincia di Foggia. 2 Ada CAMPIONE-Donatella NUZZO, La Daunia alle origini cristiane, Bari, Edipuglia, 1999, p. 135. 3 I donatisti erano seguaci del Vescovo di Cartagine, Donato († 355). Durante la persecuzione di Diocleziano, in terra d’Africa, molti cristiani, per salvarsi, o sacrificarono agli dei o si procurarono un falso certificato di aver loro sacrificato o, coloro che avevano consegnato i libri sacri. Donato detronizzò il vescovo e ne prese il posto; cfr. Antonio Rosario MENNONNA, Donatisti, in Piccolo glossario del cristianesimo, Roma, Edizioni devoniane, 1992, p. 150. “La dolorosa questione dei donatisti fece scrivere ad Agostino pagine profonde sulla natura della Chiesa santa ma fatta anche di peccatori- e sul significato dell’azione sacramentale. Mentre per i donatisti la grazia agiva solo se il ministro era degno, Agostino sottolinea il ruolo strumentale del ministro, evidenziando Cristo come il vero operatore dell’efficacia sacramentale” (Enrico CATTANEO, Patres Ecclesiae, Napoli, ed. PFTIM, 2002, p. 174. 4 Attuale Sofia, in Bulgaria. “Stercorius ab Apulia de Canusio” (cfr. Jacques Paul MIGNE, Patrologia Latina, 10, p. 643). 253 La Diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana che nella lettera sinodale, inviata alla comunità cristiana di Alessandria, si legge che presero parte alla riunione di Sardica vescovi della Calabria, dell’Apulia e di altre regioni. La partecipazione di Stercorio alla riunione di Sardica, unico pugliese di una ristretta delegazione di vescovi meridionali,5 evidenzia la crescita della comunità cristiana di Canosa chiamata a prender parte alle questioni discusse nella comunità dei credenti in Cristo. La partecipazione di Stercorio al concilio di Sardica “prefigura il ruolo di diocesi metropolitana nell’ambito della provincia ecclesiastica appulo-calabra e la funzione di rappresentante di Roma nei rapporti con l’Oriente svolta dalla comunità canosina con i vescovi Probo e Sabino”.6 Papa Innocenzo (401-407) invia una missiva agli episcopis Apuliae Agapito, Macedonio e Mariano; nella lettera, però, non troviamo esplicitato il nome delle comunità da questi guidate. Celestino, nell’anno 429, scrive a tutti vescovi dell’ “Apulia e della Calabria”. Per una lettura storica di un fenomeno è necessario l’approccio alle fonti scritte che ci parlano direttamente o indirettamente dell’argomento scelto per l’analisi. In mancanza di queste, ci si rifà alle notizie indirette fornite dalle discipline archeologiche. La Puglia, per fortuna, è molto ricca di elementi e siti archeologici, che permettono, appunto, la ricostruzione storica, seppure parziale, del suo divenire nella storia. A questo proposito è bene ricordare la basilica di Canosa, sorta su un tempio pagano, risalente al IV-V secolo; c’è poi quella dell’antica Siponto di cui possiamo ammirare il primo strato di pavimento musivo, costituito da motivi geometrici in bianco e nero. Non sono da dimenticare le basiliche di Egnazia e quella di Herdonia. Tra il 431 e il 451 furono realizzati i mosaici della chiesa di santa Maria di Casaranello, in provincia di Lecce. Questi: sono i maggiori mosaici paleocristiani della regione, resti della decorazione di un edificio rimasto in piedi fino all’epoca medievale ed inserito poi in un nuovo edificio. Isolata testimonianza di una presenza cristiana forse più ricca e dispersa nelle contrade circostanti, il mosaico della cupoletta centrale presenta un cielo stellato, in due toni di azzurro, incentrato in una croce latina di tessere di pietre gialle; sui pennacchi si elevano volute di fogliame di acanto, mentre festoni di foglie tra le due fasce gemmate delimitano gli archi, e animali e frutti ornano le volte a botte.7 Nel museo civico “G. Fiorelli” di Lucera sono conservati due frammenti musivi, risalenti alla fine del V e l’inizio del VI secolo, probabilmente provenienti da edifici di culto della stessa città dauna. Questi frammenti riproducono motivi geometrici ornamentali e iscrizioni votive di una certa Massima e di sconosciuti Vittorio e Giusta. La prima iscrizione, su una sola riga, recita: BICTORIUS ET IUSTA PROMISSA SUA E(CCLESIAE) L(UCERINAE) SOLBERUNT.8 Il se5 Giorgio OTRANTO, Note sull’Italia meridionale paleocristiana nei rapporti col mondo bizantino, in «Augustinianum», XXXV (1995), pp. 860-861. 6 A. CAMPIONE-D. NUZZO, La Daunia alle origini cristiane…, cit., p. 28. 7 Salvatore PALESE, Diffusione del cristianesimo in Puglia, Trani, Vivere in, 1983, pp. 11-12. 8 “Vittorio e Giusta sciolsero i loro voti alla chiesa di Lucera”. 254 Gaetano Schiraldi condo frammento, invece, recita così: MAXIMA AECLAE (=ECCLESIAE) LUC(ERINAE) VOT(UM) SOL(VIT)9 . Tra il V e il VI secolo possiamo constatare la fase più antica della basilica scoperta sotto la cattedrale di Bitonto.10 Una fonte scritta che potrebbe essere illuminante per un progresso della ricostruzione della storia della cristianità in Puglia è costituita dagli scritti di san Paolino da Nola (+ 431). Il santo nolano presenta alcuni momenti della vita religiosa ed ecclesiastica delle comunità cristiane dell’Apulia. Sappiamo ancora che nel 465 papa Ilario (461-468) indisse a Roma, su sollecitazione dei vescovi spagnoli, un sinodo per la risoluzione di alcune questioni disciplinari.11 A questa riunione parteciparono quattro vescovi dell’Apulia: Palladio di Salpi, Felice di Siponto, Probo di Canosa e Concordio di Bari. Palladio di Salpi godeva particolare favore a Roma, tanto che papa Simpliciano lo inviò come legato a Costantinopoli “per spiegare all’imperatore Leone le ragioni che non convenivano al vescovo romano di approvare il canone 28 di Calcedonia”.12 Lo stesso Palladio, e dopo lui anche Probo di Canosa, intervenne in questa adunanza dichiarando di non voler mai compiere nulla contro la disciplina ecclesiastica.13 Di notevole importanza sono pure le epistole di papa Gelasio (492-496). Dalle numerose notizie che è possibile rilevare è evidente che nel V secolo c’è stato un progresso dell’evangelizzazione e un consolidamento delle istituzioni ecclesiastiche; ma si evince anche la dipendenza dei vescovi della Calabria e dell’Apulia dai vescovi di Roma. È intorno a quest’ultimo elemento che ruota l’evangelizzazione della terra di Puglia “la chiave risolutiva del problema riguardante la matrice dell’evangelizzazione della nostra regione”.14 Nell’antica città di Siponto, il vescovo Lorenzo (471-493) fece erigere la chiesa dei santi Stefano e Agata e quella di san Giovanni Battista, che probabilmente era un battistero sito nelle vicinanze della basilica episcopale. Infatti nella Vita Laurentii episcopi Sipontini si narra che Lorenzo, partito da Costantinopoli, portando con sé alcune reliquie di santo Stefano e di sant’Agata, dono dell’imperatore, sbarcò in Puglia e fu accolto festosamente dai sipontini. Le reliquie però non potettero essere rimosse dalla barca, fino a quando non si deliberò la costruzione in quel luogo di una chiesa.15 In quel di Egnazia sorge una seconda e più grande basilica; a Trani è eretta la chiesa di santa Maria, che nei secoli successivi fu incorporata, nell’attuale splendida cattedrale romanica. 9 “Massima sciolse un voto alla chiesa di Lucera”. Maria Rosaria DEPALO-E. PELLEGRINO (a cura di), Alla scoperta delle radici del culto, Bari, 2004, p. 14. 11 CAMPIONE-NUZZO, op. cit., p. 136. 12 S. PALESE, Diffusione del cristianesimo…, cit., p. 13. 13 “Nihil me contra disciplinam ecclesiasticam, vel statuta sanctorum canonum facturum esse polliceor” (CAMPIONENUZZO, op. cit., p. 136). 14 Giorgio OTRANTO, Le comunità cristiane dell’Apulia negli atti conciliari e nelle lettere pontificie dei secoli IV-VI (314-590), Bari, Adriatica, 1977, p. 110. 15 CAMPIONE-NUZZO, op. cit., p. 108. 10 255 La Diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana Un importante sito archeologico è costituito dalla città di Canosa. Infatti il vescovo Sabino (514-556) fece edificare il battistero di san Giovanni, la basilica cimiteriale di santa Sofia nei pressi della inesplorata catacomba e le non ancora localizzate basiliche dei ss. Cosma e Damiano, di santa Maria e del Salvatore che sono citate nella vita del santo (VII-IX sec.). Nei primi decenni del VI secolo le sedi episcopali in Puglia erano 13, mentre tre sole nella Calabria. In questo periodo compare il primo vescovo di Gallipoli, Domenico, il quale nell’anno 551 sottoscrisse la condanna dei tre Capitoli; due anni dopo appare Venanzio di Lecce che firmò la lettera di papa Virgilio al concilio di Costantinopoli del 553.16 Per ciò che concerne la cristianizzazione dell’Apulia è necessario sottolineare che questa ha subito notevoli influenze africane, infatti nella vita religiosa delle chiese si riscontrano elementi provenienti dall’Africa, come nelle tradizioni liturgiche si riscontra il culto dei martiri africani collegati al trasferimento di vescovi e comunità sulle isole e nelle regioni meridionali dopo che i Vandali occuparono le regioni settentrionali di quel continente.17 Infatti nelle chiese di Puglia si festeggiavano e ancor oggi si onorano molti santi del continente africano: il 2 e il 13 settembre san Felice, il 6 settembre san Secondino a Aecae (l’attuale Troia), l’11 settembre i santi Donato e Felice ad Erdonia e Venosa, san Leucio a Brindisi. L’avvento dei Longobardi dopo il 570 arrecò all’ordinamento ecclesiastico danni disastrosi, che avevano la loro origine già nella guerra gotica e la riconquista giustinianea. Dalle lettere di papa Gregorio veniamo a sapere che alla fine del VI secolo nell’Apulia vi erano Canosa e Siponto e nella Calabria, Taranto, Brindisi, Lecce, Otranto e Gallipoli. I Longobardi, poi, eliminarono molti vescovadi facendo coincidere le sedi con i gastaldi. Allora secondo la innovazione longobarda vi erano: Canosa, Siponto, Lucera e Bari. Il duca di Benevento nominava i vescovi e il popolo e il clero lo confermavano. 2. La comunità cristiana di Lucera: la tradizione petrina Nella tradizione della chiesa diocesana di Lucera vi è, come del resto in altre diocesi pugliesi quali Canosa, Siponto, Taranto, Otranto, Gallipoli, Leuca e Brindisi, il famoso riferimento alla fondazione apostolica della stessa diocesi, cioè si ritiene, anche se ciò non è documentato, che l’Apostolo Pietro, sbarcato in Puglia sia passato per questi centri e vi abbia predicato la buona novella. Nel suo passaggio, Pietro 16 17 PALESE, op. cit., p. 17. Ibid. 256 Gaetano Schiraldi avrebbe consacrato i primi vescovi. A Lucera avrebbe consacrato il vescovo: Basso. Numerosi, infatti, sono anche i toponimi di località riportanti il nome dell’apostolo Pietro. Nell’agro di Lucera possiamo notare la contrada san Pietro in Bagno. La “tradizione petrina” in Puglia risale all’età medievale e nel divenire storico si è arricchita di ulteriori elementi legati a leggende varie. Una tradizione che si diffuse nella Puglia nei secoli VII-XII e che trovò il suo grado di autenticità nei vari toponimi di località intitolate all’Apostolo. Le tradizioni successive che hanno voluto avanzare una simile ipotesi, lo hanno fatto solo e unicamente per attestare l’antichità, e quindi la fondazione apostolica, della propria sede episcopale. La tradizione petrina, però, non và esclusa a priori, né si deve dipendere da questa; il fatto è che nella Puglia erano presenti due elementi fondamentali: la via Appia e il porto di Egnazia. Erano i mezzi con cui si costruivano i rapporti tra Oriente e Occidente e viceversa. “Il cristianesimo, se non diffuso, dovette essere conosciuto assai presto in Puglia e nel Salento, pure se le sue diocesi appaiono avere presuli certi solo dal IV e nel VI secolo”.18 3. Le prime fonti scritte sulla comunità di Lucera Le prime notizie storiche attendibili concernenti l’antica diocesi di Lucera sono alquanto scarse e lacunose, e come abbiamo precedentemente detto legate alla “leggendaria” tradizione petrina. I primi dati storici che attestano l’esistenza della diocesi di Lucera risalgono al V secolo, “un’epoca cioè molto avanzata rispetto a quella in cui presumibilmente ricevette il messaggio cristiano”.19 È evidente, infatti, che la vita della comunità cristiana di Lucera non vada di pari passo con la vita civile dello stesso e importante centro dauno. I dati di cui sopra abbiamo accennato ci sono forniti da due epistole di papa Gelasio, in cui è citato un anonimo Lucerinus antistes,20 il cui comportamento viene sottoposto a critica in entrambe le epistole. La prima epistola risale agli ultimi mesi dell’anno 493 o agli inizi del 494; la seconda, invece, è redatta tra la fine del 494 e l’agosto del 495. Quest’ultima, poi, verrà inserita nella prima parte del Decretum Gratiani.21 È probabile, vista la distanza temporale minima – un anno, un anno e mezzo circa – che l’episcopus sia lo stesso. Riteniamo opportuno, riportare qui di seguito il testo delle due epistole per 18 Michelangelo CAGIANO DE AZEVEDO, Quesiti su Gallipoli tardoantica e paleocristiana, in «Vetera Christianorum», XV (1978), p. 363. 19 CAMPIONE-NUZZO, op. cit., p. 87. 20 È il primo vescovo di Lucera di cui siamo certi dell’esistenza, anche senza conoscerne il nome. Il primo vescovo di cui si conosce il nome è Anastasio, ordinato nel 559 da Pelagio I. 21 Giorgio OTRANTO, Due epistole di papa Gelasio (492-496) sulla comunità cristiana di Lucera, «Vetera Christianorum», XIV (1977), p. 123. 257 La Diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana un maggiore approccio alla fonte documentale e per una più ponderata e profonda esegesi del testo. Gelasius Iusto et Probo episcopis. Religionis probatur iniuria, si ea videantur admitti, que contra regulas et constituta videantur antiqua. Marcus siquidem presbiter monasterii, quod in fundo Luciano noscitur constitutum, petitorii nobis insinuatione deploravit, Romulum et Ticianum presbiteros multam adversus se vel adversus aecclesiae22 contumeliam commisisse; quos23 asserit, adhibitio sibi Moderato, conductore24 domus regie, se ex ecclesia sacrosanto die pasce, cum ad processionem venisset, fuisse depulsum, et, effracto sacrario oratorii, ministeria supradicto conductori laico potius commisisse servanda, eiusque25 presbiteros monasterium depredatos. Et ideo inter supra dictos presbiteros omne, quod natum est, vestro iuditio determinetur ambiguum, quatinus servatis regulis et aecclesiasticis constitutis nichil permittatis audaciae, nichil arbitrio licere ; sed que petitorio suggesta sunt universa rimantes, quod religioni et iusticie convenit censeatis. Sciatque frater et coepiscopus noster26 Lucerinus antistes, aut ita ad monasterium secundum consuetudinem se esse venturum, ut nichil in eisdem locis dampnum clerici valeant perpetrare, aut sibi a conventu eius loci noverit abstinendum.27 Procediamo nella lettura del testo. 22 Interessante è la variazione sintattica di adversus con l’accusativo e il dativo. “Resta temporaneamente anacolutico per fungere poi da soggetto del successivo commisisse” (cfr. Giorgio OTRANTO, Italia meridionale e Puglia paleocristaiana. Saggi storici, Bari, Edipuglia, 1991, p. 208, nota 17. 24 “Il diritto romano classico conosce l’istituto della locatio-conductio, uno dei quattro contratti consensuali ‘in forza del quale una delle parti (locatore) si obbliga a mettere nella materiale disposizione dell’altra (conduttore) una certa cosa, che questa si obbliga a restituire dopo averla goduta per un certo tempo o dopo averla manipolata o trasportata nel modo convenuto: secondo le varie ipotesi, spetta al locatore o al conduttore il corrispettivo di una somma di denaro, detta mercede” (cfr. Luigi AMIRANTE, Locazione, “Novissimo Digesto Italiano”, Torino, UTET, 1963, vol. IX, p. 994). 25 “Il testo è certamente guasto; gli emendamenti proposti, eos per eius e monasterii per monasterium (Ep. 3: Loewenfeld p. 2, in apparato) appaiono entrambi probabili ma non decisivi” (ibid., p. 209). 26 L’espressione frater et coepiscopus noster è frequente nelle epistole di papa Gelasio. 27 Samuel LOEWENFELD, Epistolae pontificum romanorum ineditae, Lipsia, Veit & C., 1885, p. 2, n. 3 (cfr. anche G. OTRANTO, Italia meridionale e Puglia paleocristiana…, cit., pp. 208-209). Riportiamo qui di seguito la traduzione dell’epistola: “Gelasio ai vescovi Giusto e Probo. Si offende la religione quando si permette ciò che è contrario alle norme e alle antiche costituzioni. Marco, presbitero del monastero che si sa istituito nell’agro luciano, ha protestato con una supplica inviataci, che i presbiteri Romolo e Ticiano hanno recato oltraggio contro di lui e contro la Chiesa. Infatti, egli afferma che, recatosi alle sacre funzioni nel giorno di Pasqua, è stato scacciato dalla chiesa da costoro che avevano dalla loro parte Moderato conduttore (appaltatore di latifondi) della casa regia, e poi, violando il sacrario dell’oratorio, ha consegnato i vasi sacri a questo laico, privandone i presbiteri del monastero. Ed ora sia verificato dal vostro giudizio quanto di strano è accaduto tra i suddetti presbiteri del monastero (di Lucera), perché sia osservato quanto è stabilito dalle regole e dalle costituzioni ecclesiastiche e perché nulla voi permettiate all’audacia e all’arbitrio; ma indagate su tutto ciò che ci è stato esposto e stabilite ciò che conviene alla religione e alla giustizia. E tenga in conto il fratello e nostro coepiscopo, il vescovo di Lucera: o egli andrà a quel monastero secondo la consuetudine in modo che i chierici non possano arrecare nessun disordine, ovvero dovrà astenersi di esercitare la giurisdizione sulla comunità di quel luogo” (Salvatore PALESE, Diffusione del cristianesimo in Puglia, Trani, Vivere in, 1983, pp. 29-30). 23 258 Gaetano Schiraldi Il primo elemento da sottolineare è il destinatario dell’epistola di papa Gelasio, ricavabile dalla superscriptio della stessa epistola . Nel nostro caso, i destinatari sono due: i vescovi Iusto28 e Probo.29 Il papa con questa missiva incarica i due suddetti vescovi di indagare circa un fatto accaduto nella città di Lucera. Vittima di questo evento fu Marco, presbiter monasterii, quod in fundo Luciano noscitur constitutum. Da questa prima espressione possiamo già evidenziare un elemento importante, cioè l’esistenza in Lucera, o meglio nel territorio di Lucera, di un monasterium. L’altro elemento importante consiste nel fatto che il concetto di monasterium nel pensiero di papa Gelasio indica un luogo dove più persone convivono.30 Questo monasterium, poi, continuando la lettura del testo, sappiamo che era situato in un fundus Lucianus, ciò vuol dire che il monastero doveva trovarsi fuori della città, infatti più avanti papa Gelasio pronuncia quest’espressione: “cum ad processionem venisset”. Quindi, Marco si sarebbe mosso da Lucera, dove probabilmente risiedeva abitualmente, per recarsi al monasterium per svolgere la processio. È probabile che il fundus Lucianus apparteneva a qualche patrizio il cui nome era appunto Lucius. A questo proposito, sappiamo che nel Museo Civico “Fiorelli” di Lucera sono conservate tre epigrafi risalenti al II-III secolo che riportano il nome Lucius. Ora Marco inviava una lettera al papa per denunciare il comportamento scorretto di due altri presbiteri, Romolo e Ticiano che si erano aggregati a Moderato, conductor domus regi(a)e. Marco faceva presente al papa che nel giorno di Pasqua, recatosi al monasterium per la celebrazione della liturgia pasquale, fu cacciato dalla chiesa del monasterium, dai due suddetti presbiteri. Questi, dopo aver scacciato Marco, violarono il sacrarium31 oratorii,32 impadronendosi dei ministeria33 , i quali furono affidati a Moderato, affinché li custodisse. I due presbiteri, a quanto pare, volevano impedire la celebrazione della liturgia pasquale, infatti la celebrazione non poteva svolgersi senza i ministeria, poiché erano in possesso del conductor. Il nostro Moderato doveva essere una persona molto influente tanto da essere coinvolto dai due presbiteri in questo furto sacrilego contro il monasterium e il presbitero Marco, anche se vi ha preso parte passivamente. Si voleva conferire forse all’atto dei presbiteri una certa approvazione da parte dell’autorità? 28 Secondo il Kehr si tratta di quel “Giusto”, vescovo di Larino, a cui papa Gelasio inviò un’altra lettera (cfr. Paul FRIDOLIN-Waltheri HOLTZMANN, Italia pontificia, Berlin, 1962, p. 155). 29 “Probo” potrebbe essere identificato con Probo, vescovo di Carmeianum, sul Gargano, il quale intervenne ai sinodi romani degli anni 501, 502, 504 (OTRANTO, op. cit., pp. 209-210). 30 Epistola 9,14. 31 Il sacrarium era il luogo dove erano custoditi gli oggetti per lo svolgimento del culto; in molti casi esso poteva assumere la forma di un armadio. Dal termine sacrarium deriva il sinonimo attuale di sacristia. 32 Il termine oratorium presentava e presenta un luogo adatto alla preghiera. 33 I ministeria erano dei vasi sacri che venivano utilizzati nelle liturgie. 259 La Diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana A questo punto della lettura esegetica di questa epistola gelasiana salta alla nostra attenzione che il monasterium di Lucera era costituito da una ecclesia con annesso oratorium. I presbiteri, Romolo e Ticiano, allora, con questo loro atto volevano impedire la “processione pasquale”. La lettera di papa Gelasio si chiude con un forte rimprovero al vescovo lucerino per il suo atteggiamento disinteressato ed indifferente circa il fatto increscioso accaduto. Non è da escludere, però, il fatto che lo stesso episcopus non fosse al corrente dell’accaduto o che ci sia una certa complicità del vescovo con i due presbiteri. Dati derivati dalla i epistola gelasiana 1 - Esistenza di un monasterium, ben articolato, costituito da un’ecclesia e un oratorium; 2 - Il monasterium è sito nelle vicinanze di Lucera, poiché Marco cum ad processionem venisset; 3 - Esistenza del fundus Lucianus, luogo dove sorge il monasterium. Che non sia questo sito una donazione a favore del monastero? La seconda epistola gelasiana di cui disponiamo è nei secoli successivi confluita, come abbiamo sopra accennato nel Decretum Gratiani. Riportiamo anche di questa il relativo testo latino: Gelasius papa Rufino34 et Aprilis35 episcopis. Quis enim aut leges principum aut patrum regular aut admonitiones modernas dicat debet contegni, nisi qui impunitum sibi tantum aestimet transige commissum? Actores siquidem filiae nostrae illustris et magnificae feminae Maximae petitorii nobis insinuatione conquesti sunt, Silvestrum atque Candidum originarios suos contra constitutiones, quae supra dictae sunt, et contradictione praeeunte a Lucerino pontifice diaconos ordinatos. Ideo, fratres carissimi, tantae praevaricationis excessus noveritis sagacius inquirendos; et si constiterit querelam veritate fulciri, continuo qui contradictione praeeunte non legitime sunt creati, a sacris officiis repellantur.36 34 Probabilmente Rufino è quel vescovo di Canosa che prese parte al sinodo di Roma dell’anno 499 (cfr. CAMPIONENUZZO, op. cit., p. 31). 35 È probabile che Aprile sia il vescovo di Larino che sottoscrisse gli atti del sinodo romano dell’anno 501 (cfr. OTRANTO, op. cit., p. 209). 36 GELASIO, Ep. 22 (cfr. Andreas THIEL, Epistolae Romanorum Pontificum genuinae, New York, Hildesheim, 1974, p. 389; Jacques Paul MIGNE Patrologia Latina, 59, p. 152; cfr. anche OTRANTO, op. cit., p. 219). Riportiamo qui di seguito una traduzione del testo dell’epistola gelasiana: “Gelasio ai vescovi Rufino e Aprile. Chi dice che non vanno osservate (o rispettate) le leggi dei principi o le regole dei padri o le esortazioni recenti, se non chi ritiene possa passare impunito ciò che da lui è stato compiuto? I firmatari che ci hanno inviato una protesta della nostra figlia Massima, donna illustre e magnifica, hanno lamentato che Silvestro e Candido suoi schiavi sono stati ordinati dal vescovo di Lucera, in contrasto con le suddette costituzioni e nonostante le precedenti obiezioni. Ora, fratelli carissimi, sappiate indagare con sagacia sugli eccessi di tanta prevaricazione. E se si costaterà che la denunzia è vera, siano allontanati dai sacri uffici coloro che, a causa della precedente opposizione, non sono stati legittimamente ordinati” (PALESE, op. cit., p. 31). 260 Gaetano Schiraldi Ora passiamo ad esaminare con attenzione questa seconda epistola. Papa Gelasio, dunque, incarica i due vescovi, Rufino ed Aprile, per accertarsi della veridicità del caso, sottoposto alla sua attenzione. L’anonimo vescovo di Lucera aveva ordinato diaconi, non legitime, due schiavi, Silvestro e Candido, che svolgevano il loro servizio presso la matrona Massima. Per questa motivazione la donna lucerina, forse dopo aver ricevuto una chiarificazione non molto soddisfacente da parte del vescovo lucerino, si rivolge al papa per la risoluzione del caso. Nel V secolo, infatti, l’ordinazione di uno schiavo, secondo le costituzioni ecclesiastiche, era illecita. Anticamente, invece, o meglio fino alla metà del III secolo, questi vi accedevano tranquillamente, anzi potevano accedere anche all’episcopato e alla guida della comunità cristiana di Roma. Le limitazioni cominciarono con papa Stefano (254-257). “Nel caso dell’ordinazione dei due servi da parte del vescovo di Lucera, ammesso che tale ordinazione sia effettivamente avvenuta, il vescovo ha violato la disciplina canonica ponendosi palesemente contro le decisioni conciliari”.37 Un’altra fonte di notevole importanza per la storia della comunità cristiana di Lucera è un’epistola di papa Pelagio I (556-561), stilata nel febbraio del 559 e indirizzata al defensor38 Dulcio. Ne riportiamo il testo latino: Pelagius Dulcio difensori. Experientia tua presenti admonitione suscepta filiis nostris viris magnificis Aemiliano magistero militum et Constantino iudici et Ampelio ex nostra exhortatione dicere non omittat: Ecce, sicut magnitudinis vestrae desiderium postulavit, sine mora aliqua et sine ullo dispendio, ita ut nec ipsas dare officiis ecclesiasticis consuetudines sineremus, Anastasium diaconum Lucerinae civitatis ordinavimus sacerdotem. Propterea nunc magnificentia vestra eiusdem episcopi vel ecclesiae Lucerinae utilitatibus universis, quae sunt necessaria, libenter impendat, et competentia vigilantiae suae tributa christiana devozione solatia.39 Come abbiamo potuto constatare dalla lettura dell’epistola, papa Pelagio 37 Giorgio OTRANTO, Due epistole di papa Gelasio I (492-496) sulla comunità cristiana di Lucera, in «Vetera Christianorum», XIV (1977), p. 134. 38 Il termine defensor sta ad indicare quel laico incaricato di aiutare l’episcopus nella risoluzione di questioni giuridiche; egli è tenuto ad assolvere alla parte tecnica e amministrativa della sede apostolica. 39 PELAGIO, Ep. 29 (cfr. Pio M. GASSÒ-Columba BATTLE, Pelagii I papae epistulae quae supersunt (556-561), Montserrat, Abbazia di Montserrat, 1956, pp. 84-85; G. OTRANTO, p. 225). Riportiamo di seguito la traduzione del testo: “Pelagio al difensore Dulcio. La tua esperienza, ricevuta questa ammonizione, non ometta di riferire, per nostra esortazione, ai nostri figli, uomini illustri, generale Emiliano, giudice Costantino e Ampelio: Come chiese il desiderio di vostra grandezza, senza alcun indugio e senza alcun “dispendio” abbiamo ordinato sacerdote Anastasio, diacono della chiesa lucerna; così che non lasciamo trascurate le consuetudini ecclesiastiche nel dare gli incarichi. Perciò la vostra magnificenza provveda ora volentieri ciò che è necessario per il vantaggio dello stesso vescovo e della Chiesa lucerna e, con la vigilanza che gli compete, dia sostegno alla vita cristiana” (PALESE, op. cit., p. 33). 261 La Diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana chiede a Dulcio di recarsi da Emiliano, magister militum, da Costantino, iudex, e da Ampelio, di cui non è specificato il ruolo, ma che potrebbe essere stato comes et tribunus.40 È certo, però, che questi tre uomini dovevano ricoprire un’importante carica nella Lucera di quel tempo. Dulcio, dunque, deve comunicare a questi che papa Pelagio aveva consacrato Anastasio, vescovo di Lucera, e consiglia loro di affidarsi alle sue cure. Dall’epistola si evince, infatti, che Emiliano, Costantino ed Ampelio erano intervenuti presso papa Pelagio affinché consacrasse Anastasio. È probabile che questi tre uomini illustri avevano ricevuto questo incarico dalla comunità cristiana di Lucera. Questa epistola di Pelagio può essere messa in relazione con un’altra in cui lo stesso papa invita Domnino,41 vescovo di Aecae, affinché mandi a Roma colui che doveva essere consacrato vescovo, che sicuramente doveva trattarsi di un aecanus, visto che il papa si rivolge al vescovo di Aecae. Purtroppo Pelagio non specifica né il nome del consacrando, né la diocesi a cui era stato destinato; è probabile, però, che doveva trattarsi di una diocesi vicina a quella di Aecae, visto che egli stesso si rivolge a Domnino, il quale avrebbe potuto conoscere le virtù del neo-eletto. Il prof. Otranto avanza l’ipotesi per la quale l’aecanus fosse proprio Anastasio, infatti se così fosse si comprenderebbe meglio la ragione per cui furono coinvolti i tre viri magnifici per la richiesta della consacrazione di Anastasio.42 Se l’ipotesi del prof. Otranto dovesse risultare convincente, ne deriverebbe che la lettera di Pelagio a Domnino, andrebbe datata a poco prima del febbraio 559, “epoca in cui lo stesso Pelagio comunica di aver già consacrato Anastasio”.43 Un’altra ipotesi ci viene avanzata dalla professoressa De Santis, la quale ha evidenziato che la città di Troia, erede dell’antica Aecae, veneri tra i santi patroni sant’Anastasio, il cui simulacro è rappresentato con i paramenti diaconali. Il ricordo di Anastasio, dunque, diacono di Aecae eletto vescovo di Lucera, potrebbe essersi tramandato nella tradizione orale fino a determinare la sua elevazione tra i santi patroni della città di Troia.44 Attualmente Anastasio è il primo nome di vescovo della comunità cristiana di Lucera. 40 G. SANTINI, Il “castrum Callipolitanum” e la geografia amministrativa dell’Italia bizantina (sec. VI-IX), «Archivio Storico Pugliese», 38 (1985), p. 5. 41 Riportiamo la traduzione: “Pelagio a Domnino vescovo di Aecae. Poiché il propizio Iddio ha reso concordi il clero e il popolo nella scelta della persona che deve essere ordinata, non si attenda, ma l’eletto in nome di Dio venga subito a noi per essere consacrato, sia pure con poche persone” (PALESE, op.cit., p. 33). 42 G. OTRANTO, Italia meridionale e Puglia paleocristiana…, cit., pp. 228-229. 43 Ibid., p. 229. 44 M. DE SANTIS, Marco vescovo di Aeca tra III e IV secolo, in «Vetera Christianorum», XXIII (1986), pp. 155-170. 262 Gaetano Schiraldi 4. Le leggende sui primi quattro vescovi di Lucera: Basso, Pardo, Marco, Giovanni La tradizione ecclesiastica lucerina ricorda e tramanda la devozione verso i primi quattro santi vescovi di Lucera: san Basso, san Pardo, san Giovanni e san Marco. Questi sempre secondo questa pia tradizione avrebbero gettato le basi della dottrina predicata da Cristo e trasmessa dagli Apostoli. Ora passiamo ad esaminare una per una le figure che ci vengono proposte dalla liturgia propria della chiesa lucerina. Il primo vescovo in esame è san Basso. Le notizie circa Bassus sono scarse e prive di fondamento storico. Egli sarebbe appartenuto alla famiglia dei Bassi, residente in Lucera, la quale era iscritta alla stirpe Claudia. La relazione che lega Basso alla stirpe Claudia è riscontrabile in due epigrafi riportate dal d’Amely nella sua storia di Lucera: …. ELLIUS M…… …CL…. BASSUS…45 La seconda epigrafe così recita: …. Q... ELVI… …BASSUS CEN…. ...OPPIA…46 I vari studiosi di storia locale, hanno asserito che Basso fu consacrato dall’Apostolo Pietro, in cammino verso la città eterna. Ci troviamo di fronte alla cosiddetta “tradizione petrina”. Riguardo all’anno della sua consacrazione vi è un po’ di confusione in quanto, alcuni affermano che sia avvenuta nell’anno 44 dell’era cristiana,47 altri che la fissano intorno all’anno 70,48 altri ancora nel 74.49 Basso sarebbe, poi, morto martire sotto il regno di Traiano, essendo papa Evaristo, l’anno 112, per mano dei Cornicolari, insieme ai vescovi Liberale di Canne ed Eleuterio di Ecana.50 Il suo corpo sarebbe stato sepolto dapprima in Lucera, poi trafugato dagli abitanti di Termoli, dove fu proclamato patrono della città. 45 Giambattista D’AMELJ, Storia della città di Lucera, Lucera, Tip. S. Scepi,1861. Giambattista D’AMELJ, Storia, Appendice, iscrizione n. 73. 47 MATTEO PERRUCCI, Lucera (chiesa di), in Enciclopedia dell’Ecclesiastico, Napoli, 1845, 4 voll.: vol. IV, p. 664. 48 Vincenzo DI SABATO, Storia e arte nelle chiese e conventi di Lucera, Foggia, [s.n.], 1971, p. 32. 49 Tommaso Maria VIGILANTI, Collezione di tutte le memorie interessanti la Real Chiesa Cattedrale della Città di Lucera, Napoli, F. Perretti, 1835, p. 57. 50 Pompeo SARNELLI, Cronologia de’ Vescovi et Arcivescovi sipontini, Manfredonia, nella Stamperia Arcivescovile, 1680, p. 21. 46 263 La Diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana Attualmente, però, non disponiamo di alcuna documentazione storica che attesti una traccia dell’episcopato di Basso a Lucera, o circa la sua presenza nella stessa città dauna. È difficile, infatti, comprendere chi sia realmente Basso, perché nella Biblioteca Sanctorum ne sono citati almeno otto e nessuno di questi otto visse sotto l’imperatore Traiano.51 È nota, a tal proposito, che in alcuni comuni siti sul litorale adriatico, la forte devozione per san Basso, che probabilmente fu vescovo di Nicaea, in Bitinia e sarebbe stato martirizzato sotto Decio o Valeriano.52 Si tratta forse di un errore di lettura tra Nicaea e Luceria o Nuceria, nome con cui era chiamata anche Lucera?53 Più complessa, invece, si presenta la vicenda del vescovo Pardo. Gli unici elementi di cui potremmo servirci per delinearne la figura sono tratte da due biografie, con evidenti trucchi e caratteri agiografici. La Vita minor, risalente al X secolo, di anonimo autore, e la Vita maior, risalente all’XI secolo, redatta dal chierico Radoino. In entrambe i testi agiografici possiamo evidenziare delle parti comuni: - Pardo, vescovo del Peoloponneso, ormai anziano, viene scacciato da loschi individui dalla sua diocesi. Con lui c’erano anche dei rappresentanti del clero; - Pardo, inizialmente andò a Roma, poi a Lucera, nell’Apulia; - Pardo a Lucera “mirae magnitudinis et puchritudinis edificari iussit duas ecclesias, haerentes muro civitatis”;54 - Pardo trascorre gli ultimi anni della sua vita, tra digiuni e penitenze, in una celletta costruita presso le mura della città di Lucera. Le due agiografie, poi, continuano parlando delle incursioni di Costante II, durante le quali il vescovo di Lucera55 con alcuni chierici fuggì dalla sua sede e si rifugiò in un luogo dove fonda la città di Lesina.56 Nel 662 Costante II rade al suolo Lucera. Dopo questo episodio nelle due agiografie si legge della “traslazione” delle reliquie di Pardo; la vicenda è assai ingarbugliata. Gli abitanti di Lesina si recarono a Larino e trafugarono le reliquie dei santi Primiano e Firmiano, portandole nella loro città. I Larinati, avendo scoperto il furto, entrarono in Lucera e, individuato il sepolcro di Pardo, ne trafugarono le reliquie. Questi, cioè i Larinati, avvolsero il corpo privo di un pollice in un panno e salmodiando lo trasportarono nel loro paese. Inizialmente le reliquie furono deposte nella chiesa di santa Maria, in at51 BIBLIOTHECA SANCTORUM (d’ora in poi BS), 2, 965-969, s.v. Basso. BS, 2, 966-967. s.v. Basso; cfr. anche Biblioteca Hagiographica Latina, p. 1041-1042. 53 OTRANTO, op. cit., p. 205. 54 CAMPIONE-NUZZO, op. cit., p. 88. 55 Non si fa alcun cenno al nome del vescovo. 56 P. CORSI, Le diocesi di Capitanata in età bizantina: appunti per una ricerca, in Storia e arte nella Daunia medioevale, Atti della Settimana di Beni Storico-Artistici della Chiesa in Italia (Foggia 26-31 ottobre 1981),Foggia, Leone Editrice Apulia, 1985, pp. 53-54; Jean Marie MARTIN-Ghislaine NOYÉ, La Capitanata nel Mezzogiorno medievale, Bari, Editrice tipografica, 1991; CAMPIONE-NUZZO, op. cit., p. 90. 52 264 Gaetano Schiraldi tesa della costruzione di una nuova. Pardo divenne patrono di Larino. Nella Vita minor non è indicato il giorno della depositio, elemento importante per la datazione storica. Si tratta di un’opera breve che illustra solo pochi avvenimenti della vita di Pardo. La Vita maior intende presentare Pardo sicut exemplum per i cristiani. Da queste due opere agiografiche non emerge nessun riferimento all’episcopato lucerino di Pardo. Probabilmente, siccome questi, a Lucera, fece costruire due chiese e avendo presente il rapporto episcopus-dioecesim, fu ritenuto vescovo della comunità cristiana di Lucera. In base ai ritrovamenti archeologici, se realmente si deve a lui la costruzione delle due chiese, è possibile fissare cronologicamente il suo episcopato tra il V e il VI secolo; in riferimento poi alla sua morte, avvenuta prima della spedizione di Costante II, si pensa al VII secolo. Per ciò che concerne l’episcopato di Giovanni è possibile ritenerlo storico probabilmente fra il III e il IV secolo.57 Il suo nome ricorre, assieme a quello del vescovo Marco, nella Vita de Sancto Marco episcopo Luceriae, Bovini patrono. Le vicende di questi due vescovi si intrecciano per una serie di elementi. La Vita de Sancto Marco è un’operetta collocata verso la fine dell’XI secolo; essa si presenta con i classici caratteri agiografici, facendo ricadere in essa diverse tradizioni e non eliminando la duplicazione o lo sdoppiamento dei personaggi. Nel suddetto testo agiografico leggiamo che Marco, nato ad Aecae, da agiata famiglia fu educato cristianamente dal padre Costantino. Morto il padre, Marco decise di dedicarsi unicamente alla cura dei poveri, perciò si libera dei suoi beni dandoli in beneficio di questi. Fu ordinato sacerdote da Giovanni, vescovo di Lucera. Passato qualche tempo, alcuni abitanti di Aecae, invidiando la santità di vita del sacerdote Marco, inviarono una lettera al vescovo di Lucera Giovanni, in cui denunciavano delle scelleratezze, atti di stupro e di magia compiuti da Marco. Il vescovo allora per la risoluzione della questione, incaricò due suoi diaconi, Vincenzo e Aristotele. Questi si sarebbero dovuti recare nella vicina città di Aecae e giudicare la falsità o veridicità delle denuncie a lui rivolte, circa il sacerdote Marco. Mediante eventi prodigiosi, che coinvolsero anche i due diaconi, Marco fu scagionato dalle accuse che i suoi concittadini gli mossero. Giovanni, allora, lo reintegrò nel servizio sacerdotale. Morto Giovanni, vescovo di Lucera, fu eletto vescovo Marco. Fu consacrato da papa Marcellino (296-304); durante il suo episcopato guarì un indemoniato e un cieco e fece risorgere il figlio di una vedova. Marco morì il 7 ottobre a settantadue anni. Per un suo desiderio volle essere sepolto a Bovino, dove fu proclamato patrono della città. Nel testo agiografico, poi, sono riportati i miracoli operati dopo la morte, l’autore della Vita de Santo Marco è un chierico, che testimonia di aver trovato queste notizie in un libellus rimasto a lungo nascosto.58 Quest’ultimo è un partico57 58 OTRANTO, op. cit., pp. 206-208. AA.SS. Jun. 3,294. 265 La Diocesi di Lucera: genesi ed evoluzione della presenza cristiana lare con cui si vuole attribuire veridicità e validità ad un fatto o personaggio avvenuto o vissuto nei secoli addietro. Dalla lettura della Vita de Santo Marco emergono questi elementi: - la dipendenza della diocesi di Aecae da quella di Lucera; una dipendenza che interessa VIII e IX secolo e che è anticipata all’epoca in cui Marco fu vescovo di Aecae con evidente anacronismo. Infatti è Giovanni, vescovo di Lucera ad ordinare presbitero Marco; - è al vescovo di Lucera che si rivolgono gli Ecani per denunciare Marco; - è Giovanni, vescovo di Lucera, che prende i dovuti provvedimenti. Secondo l’anonimo chierico, Marco diventa vescovo di Lucera e muore il 7 ottobre, die festus di papa Marco (+336), il cui ricordo ricorre nel Martirologio gerolimiano.59 Anticamente si era soliti far coincidere feste locali con quelle ricorrenze più importanti. Gli elementi fondamentali che emergono ancora dal testo sono: - Marco è nato ad Aecae e qui visse tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, visto che fu consacrato vescovo da papa Marcellino (296-304); - Nella Passio Fratrum, della seconda metà dell’VIII secolo, si narra che Marco, vescovo di Aecae, di notte, con i suoi clerici, si recò a Sentianum per trafugare le reliquie dei santi Felice e Donato, martirizzati nel 298. Il furto riuscì e le reliquie giunsero ad Aecae. Anche gli Annali di Romualdo Salernitano, del XII secolo, confermano la notizia dell’episcopato di Marco alla fine del III secolo, aggiungendo che sarebbe stato martirizzato durante la persecuzione di Diocleziano (303). Poi si parla di Secondino altro vescovo di Aecae, ricordato per la sua fiorente attività edilizia.60 Proprio nell’inventio del corpo di san Secondino (XI sec.) si ricordano i ruderi di una chiesa dedicata a san Marco nella città di Aecae, dove stava sorgendo l’attuale città di Troia. Il culto verso il vescovo di Aecae, dunque, menzionato nel Martirologio Gerolimiano si diffuse rapidamente anche oltre i confini di Aecae, coinvolgendo le vicine diocesi di Lucera e Bovino che ne rivendicarono l’episcopato, e finanche in alcune diocesi della Campania.61 In conclusione: san Basso non è storicamente accertato; né la sua figura, né il suo episcopato a Lucera. San Pardo, come abbiamo visto, sicuramente non è stato vescovo di Lucera, e lo stesso dicasi per san Marco di Aecae. L’episcopato di Giovanni è più o meno storicamente attendibile. Comunque ci sentiamo di condividere la stessa opinione avanzata da mons. Lanzoni, cioè quella di escludere dalla cronotassi episcoporum di Lucera i quattro vescovi di cui abbiamo in questo capitolo ampiamente disquisito. Li veneriamo solo perché la tradizione ce li ha affidati come esempi da seguire ed imitare. 59 AA.SS., Nov. 2/II, 543. Annales a. 1018; MGH.SS 19,402; CAMPIONE-NUZZO, op. cit.. p. 75. 61 M. DE SANTIS, op. cit., pp. 155-156. 60 266 Carmen Sferruzzi Siniscalco “Da proletari a possidenti”. Un progetto di sviluppo in età liberale di Carmen Sferruzzi Siniscalco “È desiderio di tutti i cittadini indistintamente che il demanio Comunale in stato di divisione sia ripartito in tante quote per quante sono le famiglie di questa comunità, ossia fra quelle in generale che vivono separatamente l’una dall’altra con letti ed economia separata”.1 Nel novembre 1864 il consiglio comunale di Accadia sottoponeva all’approvazione del Prefetto di Avellino la proposta di divisione dei terreni demaniali in quote tutte uguali nella estensione, contrariamente alla legge che prevedeva l’uguaglianza nel valore della quota. In breve si chiedeva: quote uguali nell’estensione per tutti, canone diverso a seconda della qualità del terreno. Un progetto di democrazia immediata, visibile, un ausilio per mantenere l’ordine pubblico, per calmare gli animi dei “proletari di Accadia” che “fremono perché burlati da tre anni”.2 Questa proposta non fu autorizzata dalla Prefettura di Avellino, in quanto contraria al decreto del 3 dicembre 1808. Tale decreto prevedeva che la divisione poteva effettuarsi “o per teste, o per offerte”.3 Il Prefetto non mancò di sottolineare il fine moralizzatore della legge: Queste disposizioni di legge sono dettate dai principi eminentemente economici e politici volendosi elevare alla condizione di possidenti i proletari e dare alla terra, con l’industria de’ coltivatori operosi il maggior valore possibile, il che non si ottiene dà coltivatori precari, e moralizzare con l’amore alla proprietà ed alla fatica una classe che per mancanza di averi suol essere ricorsa alla società e specialmente ai comuni cui appartiene. Da ciò credo bene che il Consiglio proponendo una divisione a suo modo contro la legge e con intendimento poco onesto e disinteressato si opporrebbe alle mire del Governo, le più provvide, le più sante.4 1 A.S.AV., 2 A.S.AV. (Archivio di Stato di Avellino), Atti demaniali, bs.2, f.17, Delibera consiliare 7 novembre 1864. , Atti demaniali, bs.2, f.17, Corrispondenza periti agrimensori-Prefettura. 3 Il primo caso si verificava solo quando l’estensione del demanio divisibile era tale da poter destinare una quota del valore di due tomoli del migliore terreno di seconda classe, ad ogni cittadino di qualunque età e sesso. Non verificandosi questa situazione ad Accadia, bisognava eseguire la divisione per offerte, riducendo queste al numero di quote disponibili, preferendo nelle assegnazioni i non possidenti. 4 A.S.AV., Atti demaniali, bs.2, f.17, Lettera del Prefetto di Avellino al Sindaco di Accadia, 28 novembre 1864. 267 “Da proletari a possidenti”. Un progetto di sviluppo in età liberale È l’eterno fine moralizzatore, “moralizzare con l’amore alla proprietà ed alla fatica”, ricetta per lo sviluppo, dai tempi del riformismo illuminista, della polemica antifeudale, dal Genovesi a Giuseppe Zurlo, ripresa e riproposta dall’autorità di governo, il Prefetto di Avellino ai cittadini di Accadia, i quali a pochi anni dai discorsi encomiastici della svolta liberale, sulle “cure del governo, le più provvide, le più sante”, dovettero scontrarsi con una dura realtà, dove alla maggior parte dei “beneficiati”, per mancanza di mezzi, non restò altro che l’abbandono, o l’alienazione della quota demaniale assegnata. Attualmente si parla tanto di sviluppo sostenibile dei terrirori rurali, i riformisti, con le leggi eversive della feudalità, del decennio francese, aspiravano alla formazione della proprietà privata della terra, come premessa al moderno sviluppo dell’agricoltura. In teoria, una volta quotizzate le grandi estensioni di terreni demaniali, eliminato il sistema di tutela ai contadini, in questo caso gli usi civici garantiti all’interno del sistema feudale, con la proprietà privata i contadini sarebbero stati costretti a lavorare sodo e a produrre di più per il mercato.5 Ma la realtà si presentava più complessa e le teorie dei legislatori avrebbero incontrato non poche difficoltà in fase di applicazione. Durante il decennio francese la cittadinanza di Accadia nonostante i ripetuti inviti per la quotizzazione del demanio non presentò domande per partecipare all’assegnazione di quote. La principale fonte di reddito in Accadia era costituita dai pascoli più che dalle coltivazioni. Il comune, dopo le sentenze della commissione feudale fu reintegrato del Bosco Montuccio e della Difesa delle Coste, ebbe così a disposizione ampie zone per il pascolo, che oltre ai bisogni del comune, soddisfavano anche le esigenze di utenti forestieri. Una masseria specializzata nel settore armentizio era molto produttiva in questa zona prossima alle pianure pugliesi, dove la trazione animale era elemento essenziale per lo svolgimento dei lavori di aratura. Da qui la grande importanza dell’uso civico del pascolo esercitato sul suolo demaniale. Nel 1794 furono ridotti a coltura alcuni demani,6 i terreni furono poi censiti con un modesto canone di affitto. I coltivatori, constatando a loro spese le esigenze e le difficoltà di conduzione dei terreni in questione, preferivano restare semplici fittuari, piuttosto che divenire proprietari di territori gravati da un alto rischio di frane e quindi necessitanti di lavori di terrazzamento - coltura a gradoni, e relativa continua manutenzione - in aggiunta ai normali lavori di coltivazione. Il tipo di intervento richiesto dal territorio, il pagamento del canone e della temuta imposta fondiaria, era nelle possibilità di pochi intestatari, come emerge dalla lettura dell’incartamento relativo alle verifiche effettuate sui fondi in pendio, in ottemperanza a quanto previsto della legge del 21 agosto 1826. Dallo Stato delle terre appese coltivate prima e dopo del 1815, datato 19 maggio 1834, su 86 quote, solo in due di esse 5 Domenico MORLINO, Riformismo e ambizioni borghesi, in «Studi Cattolici», 2002, 501 (novembre), Il pensiero economico di Vincenzo Cuoco: agricoltura, demani e usi civici, «Rassegna Storica del Risorgimento», anno LXXXIX (2002), f. IV. 6 F. SCANDONE, Cronache del giacobinismo irpino, in Atti della Società Storica del Sannio, Benevento, Tip. Istituto Maschile Vittorio Emanuele III, 1923. 268 Carmen Sferruzzi Siniscalco fu ridotta la coltura “a gradoni”, come disposto dall’ordinanza dell’Intendenza di Capitanata nel luglio 1831.7 Queste periodiche inchieste sul territorio, documentano l’andamento discontinuo delle coltivazioni, dove fasi di sviluppo si alternavano a fasi di abbandono. Frequenti erano le frane, a danno delle colture e strade sottoposte, mentre la parte alta della montagna, restava esposta a fenomeni di erosione. Nella contrada comunale “Costa di Faggeto”, nel 1831 vi erano 58 quote censite ad altrettanti quotisti a colonia perpetua. Per circa metà delle quote, inclinate verso settentrione, è riportato: “Il terreno è sassoso. Le acque piovane che scorrono dalle quote appese danneggiano le proprietà sative sottoposte del medesimo comune, e quindi si uniscono nel sottoposto Vallone denominato Fontana di Faggeto”. Non mancavano conflitti tra pastori ed agricoltori. Nel novembre 1830, “molti piccoli padronali di poche pecore del comune di Accadia”, denunciarono alla sottointendenza di Bovino, che pur pagando il pascolo “in fida”, i terreni erano stati dissodati da vari cittadini, e che tra gli autori delle usurpazioni figuravano il sindaco e alcuni decurioni. Il sindaco in questione fu interpellato solo nel 1847, dalla sottointendenza di Bovino. Questi non negò le usurpazioni, e convenne che diversi proprietari del paese, dal 1820 in poi, si erano impossessati di varie estensioni demaniali, in maniera quasi impercettibile, a danno del “demanio erbifero addetto al pascolo degli animali”, ma nessuna regolare verifica era stata eseguita , non potendo l’amministrazione municipale esibire alcun titolo attestante i confini delle sue proprietà. Le verifiche delle usurpazioni, una costante nella corrispondenza con l’Intendenza, progettate a tavolino, si rivelarono di difficile attuazione pratica. L’incarico fu prima affidato al Sindaco di Santagata, Alfonso Volpe,8 successivamente al consigliere distrettuale Luigi Albani di Savignano, ma al 1857 nessuna verifica era stata compiuta. Questi accertamenti erano destinati a rimanere pure elaborazioni teoriche, spesso il decurionato giustificava la loro mancata esecuzione adducendo che la spesa occorrente per le stesse superava il valore dei terreni usurpati, giustificazione, che potrebbe essere letta anche come alibi per sfuggire ad uno scomodo accertamento, che avrebbe potuto rilevare la posizione di usurpatori nelle stesse persone dei denuncianti. È necessario un equilibrio nell’interpretare il documento, come 7 A.S.AV., Atti Demaniali, bs.1, f.6. L’ordinanza prevedeva che i fondi in pendio, classificati come dissodati anteriormente al 1815, potevano continuare ad essere coltivati, a condizione che nel termine di due anni si fosse adempiuto ai lavori di “riparo”. Per i fondi dissodati dopo il 1815, invece vigeva il divieto di coltivazione. Il fatto che i terreni di Accadia siano stati classificati tutti come dissodati prima del 1815, probabilmente non doveva essere estraneo a questa disposizione di legge. 8 Alfonso Volpe, di Decio, (1803-1873) esponente di una facoltosa famiglia borghese del comune di Santagata di Puglia, esercitò la professione medica con grande prestigio. L’archivio di famiglia, offre materiale documentario dal 1597 al 1959, con notizie risalenti al 1548. Viviano IAZZETTI (a cura di), L’Archivio Volpe di Sant’Agata di Puglia, Sant’Agata di Puglia, Comune di S. Agata di Puglia, 1990. Un profilo del Volpe, in Lorenzo AGNELLI, Cronaca di Santagata di Puglia, Cefalù, Tipografia Salv. Guscio, 1902. Su Lorenzo Agnelli, cfr. D. DEL VECCHIO, Cultura e società nel Mezzogiorno d’Italia nell’opera di Lorenzo Agnelli (1830-1904), Vicum, 2004. 269 “Da proletari a possidenti”. Un progetto di sviluppo in età liberale vedremo, si tratta di terre difficili, e ai primi anni di coltivazione, seguiva spesso l’abbandono a volte fittizio, spesso a causa delle frane, reale. Nel periodo post-unitario, l’amministrazione comunale, cerca di perseguire, in materia di gestione demaniale, la linea politica adottata dalle precedenti amministrazioni: detenere il controllo della questione eludendo qualsiasi ingerenza esterna. Ma questa strategia, dovette scontrarsi con l’impegno dell’agente demaniale e consigliere provinciale Francesco Paolo Trombetti, proveniente dal vicino comune di Monteleone, il quale avviò malgrado molte difficoltà le operazioni di divisione. Nel novembre 1861, Trombetti, inviò al commissariato demaniale di Avellino, una nota nella quale elencava i demani, che secondo le sue stime potevano essere quotizzati, e non mancò di sottolineare che il Municipio era fin troppo restio a far eseguire la reintegra delle usurpazioni avvenute, in quanto nella maggior parte dei casi erano proprio i consiglieri comunali i detentori dei terreni in questione. Nel gennaio 1862, dopo un lungo discorso del nostro agente, e di fronte alle pendenze demaniali da questi denunciate, il consiglio comunale non potè sottrarsi al voto favorevole per la ripresa delle operazioni di quotizzazione. La procedura, andò per le lunghe. Escluse le tenute boschive, Trombetti, nel novembre successivo, terminò i lavori preparatori e presentò il verbale, ma il lavoro del nostro agente fu reso vano dall’intervento del duca Dentice, ex feudatario di Accadia, il quale sostenendo di vantare alcuni diritti su un fondo inserito nel progetto, apportò un notevole allungamento dei tempi delle operazioni, e alle dimissioni di Trombetti. L’amministrazione, in seguito propose di verificare solo le eventuali usurpazioni, lasciando questi fondi allo stato boschivo, addetti all’uso civico del pascolo in determinati periodi dell’anno. Arrivò il nuovo agente, Nicola Miletti, medico di Bonito. Il consiglio comunale, profittando della poca esperienza del medico in materia di quotizzazioni, intesse una fitta corrispondenza con la Prefettura, e finalmente il 4 febbraio 1866, “alle ore 11.00 nella Casa Comunale di Accadia vengono sorteggiate 300 quote alla presenza della Guardia Nazionale, dei Reali Carabinieri, nonché di tutti i notabili del paese.”9 Vari disordini seguirono la quotizzazione. La divisione del 1866 era stata effettuata su territori del comune già coltivati dai cittadini, questa redistribuzione dei fondi, scatenò conflitti con i vecchi affittuari, con ripercussioni negative sull’agricoltura e sulle le finanze comunali. Furono denunciate varie irregolarità nello svolgimento delle operazioni, inoltre si evidenziava che tra i quotisti sorteggiati, i più bisognosi, avevano ceduto la loro quota “ai proprietari del paese di accadia i quali li hanno somministrati delle somme per far fronte alle spese.....come poi può coltivare la terra e pagare il censo al comune se non ha mezzi?”10 Se da una parte, gli esclusi, invocavano l’intervento dello Stato per fare giustizia delle varie illegalità commesse, sull’altro versante, i “fortunati” sorteggiati, si 9 A.S.AV., 10 Atti Demaniali, bs.2, f.17. Ibid., bs.3, f. 24. 270 Carmen Sferruzzi Siniscalco ritrovarono a fare i conti con la tenacia dei precedenti affittuari, i quali non avevano alcuna intenzione di abbandonare le loro terre, per cederle ai nuovi quotisti. Si invocava l’intervento delle autorità, al fine di sedare le violenze dei vecchi affittuari, “i quali si ostinano a non lasciarsi vincere dà nuovi quotisti, e che ogni mezzo hanno adoperato ed adoperano presso la Prefettura per intercettare i provvedimenti che l’onorevole signor Prefetto abbia emesso, o che sarebbe per emettere.”11 Mentre vecchi e nuovi quotisti si contendevano le quote demaniali, il consiglio comunale si ritrovò impegnato nel cercare di arginare i dissesti e lo stato di anarchia in cui versavano le finanze municipali. Dopo la quotizazione, il Comune non aveva più riscosso i fitti, e alle ingenti spese sostenute per la divisione non era seguito alcun rimborso. Il cassiere comunale non poteva vantare alcun titolo, oltre al verbale di quotizzazione, per produrre azione contro i vecchi conduttori, del resto i nuovi quotisti possedevano solo il possesso precario delle quote, e per confermarlo in definitivo, ad un anno e mezzo dal sorteggio, si attendeva ancora il “Regio Decreto di approvazione”,12 il quale, a causa delle “intercettazioni” dei vecchi conduttori, tardava ad arrivare. Non mancarono danni all’agricoltura locale. Entrambe le fazioni avevano continuato a seminare sui terreni contesi “non rispettando l’alternativa nella coltura”,13 favorendo così raccolti improduttivi. Negli anni seguenti ci furono abbandoni di quote, e la relativa corrispondenza con la Prefettura, rivelava il sospetto da parte della autorità centrale, che dietro gli abbandoni si nascondesse un esproprio dei veri bisognosi, in favore di pochi privilegiati. Le indagini promosse dalla Prefettura, non apportarono benefici agli indigenti. Le disposizioni emanate per gestire la questione delle quote abbandonate o alienate, prevedevano un ampio margine di discrezionalità a favore del consiglio comunale, la situazione ritornava quindi al punto di partenza. Nel dicembre 1873, il consiglio comunale, richiedeva l’autorizzazione alla Prefettura per procedere a trattative private per l’affitto della tenuta Montuccio, della estensione totale di 1470 tomola.14 Il Prefetto, una volta accertata la natura di bene demaniale comunale di origine exfeudale, ritenne la tenuta Montuccio soggetta al riparto obbligatorio tra i cittadini a titolo di censo, in quanto l’affitto della stessa li avrebbe “spogliati degli usi 11 Ibid., bs.3, f.24, Seduta consiliare 18 ottobre 1867. La quotizzazione fu sanzionata con Approvazione Sovrana del 15 marzo 1868. Undici anni dopo, il Prefetto in qualità di Regio Commissario Riaprtitore pronunciò ordinanza di reintegra per 43 quote, dichiarando di non aver percepito sulle medesime la relativa rendita per più anni. 13 A.S.AV., Atti demaniali, bs.3, f.24, Verbale seduta consiliare 4 febbraio 1868. 14 La tenuta Bosco Montuccio, destinata in età Aragonese al pascolo delle Regie Razze equine, fu venduta nel 1723 al duca Fabrizio Dentice d’Accadia, e con sentenza della commissione feudale del 20 agosto 1810, reintegrata al comune. Fu esclusa dalle quotizzazioni con deliberazione del 6 luglio 1812, perché riconosciuta dal decurionato “frattosa e macchiosa”, e se ne propose il rimboschimento. Successivamente fu affittata per il pascolo estivo, anche ad utenti dei comuni limitrofi. La cittadinanza continuava ad esercitare l’uso civico del pascolo dal I° dicembre all’otto marzo e del “legnare sul selvaggio”. 12 271 “Da proletari a possidenti”. Un progetto di sviluppo in età liberale civici che in origine rappresentavano sulle tenute demaniali, ed in considerazione dè quali i comuni divennero amministratori, anziché assoluti padroni dè fondi soggetti alle servitù reali degli usi civici.”15 Ritornava a questo punto la giustificazione del riparto in quote e a titolo di censo, secondo la legislazione demaniale, foriero di vantaggi per il comune e per i cittadini. Il comune si sarebbe assicurato una rendita stabile non soggetta a variazione, il contributo fondiario sarebbe stato a carico dei quotisti, un’operazione vantaggiosa, in quando “elevando al grado di possidenti i proletari questi impiegherebbero tutte le loro cure per migliorare i terreni, specialmente con piantagioni, e far propri tutti i vantaggi che derivano dalla propria industria e dall’impiego dei propri capitali.”16 Potremmo chiederci quali capitali avrebbero potuto mai impiegare questi proletari? In questo periodo Giustino Fortunato denunciava la trasformazione dei Monti Frumentari, i tradizionali istituti di credito agrario dell’Italia Meridionale, in Casse di Previdenza, o di Pegni, riforma nella quale individuava la conferma della loro liquidazione. Fortunato si schierava per la permanenza di questa antica istituzione di credito in natura, per la sua funzione di assistenza e di controllo sociale a favore delle masse rurali. Una lettera dell’architetto Achille Rossi, preposto alle operazioni di misurazione del Bosco Montuccio, fa luce sui retroscena della divisone. Il Rossi, segnalò l’eccessivo pendio dei terreni in questione, cosa ad arte occultata alla commissione verificatrice, alla quale fu fatta visionare dalla amministrazione comunale una zona con pendio inferiore ai 10 gradi.17 L’architetto, suggerì alla Prefettura di impedire il dissodamento, e non mancò di cautelarsi, precisando di aver provveduto ad avvisare il consiglio comunale sui possibili danni derivanti dal dissodamento di terreni così in pendio, ma “quell’Amministrazione non volle ascoltare”. La divisione del Montuccio si trasformò in strumento di condizionamento elettorale, da impiegare per ottenere quanto prima l’autorizzazione per la pubblicazione del bando. Nell’ottobre 1874, il consiglio comunale, scrive alla Prefettura: “Non ometto di manifestarle che ulteriori remore, e precisamente nella contingenza delle prossime elezioni generali, potrebber esser causa di avversare la candidatura del deputato uscente Guevara, che da questa Amministrazione con energia verrà sostenuta.”18 Alla pubblicazione del bando, giunsero 705 offerte per le 288 quote disponibili, si passò quindi alla preparazione dell’elenco degli ammessi al sorteggio. Le discussioni per la riduzione delle offerte avvennero in pubblica seduta, per disposizione dell’agente Albani. Tre mesi dopo fu pubblicata una prima graduatoria, ma la 15 A.S.AV., Atti demaniali, bs.5, f.30, Lettera del Prefetto di Avellino al Sindaco di Accadia, 14 gennaio 1874. Ibid. 17 A.S.AV., Atti demaniali, b.5, f.30. 18 A.S.AV., Atti demaniali, bs.4, fasc.29. I Guevara, Duchi di Bovino, presero parte alla vita politica del Regno d’Italia. Vedi Enciclopedia Biografica e Bibliografica Italiana. 16 272 Carmen Sferruzzi Siniscalco presentazione di 51 ricorsi allungò i tempi di lavoro, fino a formare una doppia “classe di miseri e dei quasi miseri del paese.”19 L’inizio di una sommossa popolare, espressione del malcontento delle 417 famiglie escluse dal sorteggio delle 288 quote, costrinse l’Albani a rivolgere alla Prefettura domanda per una nuova quotizzazione del Bosco Montuccio “per rendere contento questo popolo di Accadia”. Promotrice di questa seconda divisione fu la famiglia Vassalli, la quale si offrì per anticipare tutte le spese necessarie per la divisione. Albani, sottolineava il valore politico di una nuova distribuzione di quote: “ora il miglior ausilio dell’autorità di Governo per affezionare a sé questo popolo di Accadia, il quale porta ancora il peccato originale della reazione.......ordinando una nuova quotizzazione darebbe il battesimo liberale ad un popolo immeritatamente ritenuto retrivo.”20 Negli anni seguenti, ci fu una seconda quotizzazione del Bosco Montuccio, dal distacco di altri 118 ettari, si ricavarono 297 quote di estensione ridottissima, per far ciò, i terreni che si badi bene, nella prima divisione erano stati esclusi per l’eccessivo pendio, furono quasi tutti classificati come terreni di prima classe. In questo modo si formarono quote di appena un tomolo di estensione, vanificando così il fine della quotizzazione, in quanto quote ridottissime, e, in pendio si rivelarono di poca utilità per i coltivatori. In risposta alla circolare prefettizia del 7 agosto 1877 Albani denuncia una situazione di grave disordine, dovuta alla “tracotanza municipale, perché è da osservarsi che le compre per lo più si effettuano da componenti i Municipi. (...) Se loro tocca in sorte per via di maneggi ed intrighi una quota, si cerca di largarla, e con la forza e l’oppressione il quotista viene ridotto in colono, dall’angheria feudale esercitata dai nuovi baronetti liberali.”21 La documentazione successiva presenta un carattere ripetitivo, incentrandosi sulla questione degli abbandoni veri o apparenti, alienazioni, mancate verifiche. La crisi agraria di fine ottocento accelerò il disagio, preludio di un epilogo, la valvola di sfogo dell’emigrazione di fine ottocento, epilogo già annunciato e scritto nel lontano 1810, quando la cittadinanza di Accadia, rivolgendosi in una supplica al Consigliere di Stato Paolo Giampaolo sottolineava l’importanza del bosco per il pascolo brado, allora principale risorsa del territorio: […] questa scarsezza di terreno ha fatto rivolgere la cittadinanza quasi tutta all’industria degli animali vaccini, bovi aratori, per mezzo dei quali scorrendo in tempo d’inverno al travaglio nella vicina Puglia e nei paesi limitrofi procura il sostentamento. Nei mesi estivi, la permanenza degli animali in Puglia è pericolosa, e perché terminato il travaglio della coltura, si ritira ognuno nella propria Patria, ed alimentando detti bovi e vacche aratorie colla indetta erba agreste, ed ecco come assicura la vita civile. Piantandosi oggi questo poco terreno, e 19 A.S.AV., Atti demaniali, bs.4, f.29, Relazione Albani. Ibid.; Albani, fa riferimento alla reazione popolare del 21 ottobre 1860, nella quale rimase vittima il giovane medico liberale Luigi Labriola. Sulla richiesta,rimasta inevasa, di indennizzo per la madre della vittima, inoltrata dall’agente Trombetti nel 1862; A.S.AV., Atti demaniali, bs.2, f.17. 21 Ibid. 20 273 “Da proletari a possidenti”. Un progetto di sviluppo in età liberale chiudendosi quei da particolari, luoghi pii, ex baroni, di dietro la divisione ed abolizione del compascolo, restino assoluti padroni e viene a rimanere chiuso l’intero tenimento ed ecco posto fine alle masserie di campo, finita la pastorizia, terminato il sostentamento della cittadinanza intera, la quale non ritraendo il vitto nella propria Patria per la restrizione del territorio, che non basta per gli abitanti, non può retrarlo dai paesi vicini, né da quei di Puglia con l’aiuto dei propri animali ai quali mancherebbe il sostentamento nei mesi estivi, e ognuno morirebbe di fame e a sloggiare dove trova da vivere [...].”22 22 A.S.AV., Atti Demaniali, bs.1, f.1. Sui pericoli inerenti la permanenza degli animali in Puglia nel periodo estivo, vedi tra gli altri, Macario CHECCHIA, Saggio di osservazioni sulla morte violenta degli animali vaccini in Puglia, Napoli, Tipografia G. Migliaccio,1853. L’Autore tratta di un “tremendo malore”, chiamato “malvento” che colpiva mortalmente gli animali vaccini, in Capitanata, manifestandosi ogni anno verso la fine di agosto. Checchia segnalava la mancanza di “buon pascolo, come suole accadere in Puglia per la scarsezza delle acque ne’ mesi di agosto, settembre ed ottobre, allora gli animali quasi per fame sogliono cibarsi di quelle erbe nocive, che forse per naturale istinto rifiuterebbero se avessero del buono ed abbondante pascolo.” Galileo PALLOTA, Discorso della pianura di Puglia, Napoli, Borel e Bompard, 1851. L’Autore sosteneva che il “malvento”, fosse “un fenomeno totalmente elettrico”. Sul “Tanto calore estivo nella Puglia”, Francesco LONGANO, Viaggi dell’Abate Longano per lo Regno di Napoli, Capitanata, Napoli, presso Domenico Sangiacomo, 1790, p. 43 e segg.. 274 Bruno Vivoli Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento Di Bruno Vivoli 1. Rodi e il suo territorio “Esiste una meravigliosa terra, a brevissima distanza della più malinconica e desolata pianura d’Italia, dal Tavoliere piatto e uniforme [...] Ha il sorriso della terra di Sorrento e pei declivii stormiscono gli aranceti bruni, dai numerosi globi di oro, scossi perennemente dalla brezza balsamica [...] È una terra forte e leggiadra, è una delle gemme più fulgide del serto di bellezze italiche, forse la più bella dell’Adriatico”.1 “Un magico incanto emana da questo cielo, da questa terra, da questo mare che intonano e spandono un’armonia di linee, di colori e d’effluvii inesprimibilmente ricca e tenera e potente [...] Oh! qui il tempo non dev’essere misurato che dal prodigioso alternarsi dei colori del mare e dei giardini: ci pensa il sole, svariando con adorabile arte le luci di questo divino scenario, a dirci, senza che un rammarico ci vinca, l’ora che passa”.2 “Questo bel Paese, in che natura sempre giovane invita gli abitanti dei siti più contristati, a passarvi in diporto, come a Mergellina, i bei giorni della Primavera e dell’Autunno”.3 E ancora il frate Michelangelo Manicone, nel suo trattato La fisica appula, cita i Rodiani come coloro che abitano in un paese dove i numi, prima di ritirarsi in cielo, avevano avuto il loro soggiorno. Questi sono soltanto alcuni dei commenti e delle riflessioni che scrittori e giornalisti del passato hanno proposto su questa cittadina garganica. Rodi Garganico è situata all’interno di un bellissimo paesaggio naturale fatto di oliveti con vaste zone coltivate ad agrumi che, come vedremo, rappresentano i prodotti che più hanno caratterizzato il commercio e le esportazioni di questa zona del promontorio. Il territorio di Rodi è collocato sul versante settentrionale del Gargano e si estende su una superficie di ha 1328. Pianeggiante per il 5% e collinare per il 95%, presenta un’altimetria compresa tra 0 e 395 mt s.l.m. Arroccata su un piccolo promontorio sui cui lati corrono distese di sabbia finissima, che costituiscono le mari- 1 Ernesto SERAO, in «Il mattino», 23-24 novembre 1912, ora in Michelantonio FINI, Appunti di storia e folklore rodiano con un’appendice, Lucera, Tip. S. Scepi, 1915, p. 15. 2 Nicola SERENA, in «La tribuna», 3 aprile 1913, ora in M. FINI, Appunti di storia e folklore…, cit., p. 17. 3 Bartolomeo BACULO, Il Cholera morbus in Rodi, Foggia, Tip. P. Russo, 1836, p. 8. 275 Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento ne rodiane, Rodi si protende in mare con leggera sporgenza contornata dagli scogli di Cucchiara. L’ambiente litoraneo è caratterizzato da una costa alta e rocciosa di tipo calcareo ricoperta da vegetazione mediterranea, e da una costa bassa frequentata da gabbiani. In passato alcuni ritenevano che l’aria di Rodi fosse insalubre, a causa della vicinanza del lago di Varano. “Ma è questo un errore, giacchè il suolo che è frapposto fra Rodi ed il lago, essendo ondulato da collinette, l’aria pestifera di esso non può giungere fino a noi; e ciò viene confermato dalla florida salute dei nostri abitanti”.4 Inoltre Manicone sempre nel suo trattato ricorda come “in questa piccola ed amena Città litorale non vi hanno cagioni naturali del mefitismo [...] dunque tutto qui concorre a render balsamica l’aria. Egli è ben vero, che in questa Città vi soffiano i venti meridionali. Ma primieramente, essendo ella in que’ punti dell’orizzonte da alti colli circondata, i divisati venti non vi acquistan lena al pari delle alture. E secondariamente, scorrendo essi sopra monti, e colli alberati, sono qui secchi, elastici, e salubri”. Prosegue ancora il frate: “Rodiani, miei Amici, è vero; voi avete un lido incantatore; voi avete colli sempre verdeggianti, e casini biancheggianti, che il verde interrompono. Sì, se un Poeta vedesse i vostri giardini di agrumi, e udisse gli evòe della vostra vendemmia, evòe che le valli, e i poggi ripetono, egli non potrebbe astenersi di parlarne in versi”.5 Anche Bartolomeo Baculo, membro della commissione centrale di sanità di Capitanata, parlando dell’atmosfera di questa zona dice che “è la più pura e profumata da graditi olezzi”.6 2. La produzione principale: l’agrumicoltura Nel Gargano gli agrumi, oltre a svolgere un’importante funzione economica e commerciale, contribuiscono a rendere pittoresche molte zone del promontorio. Ed è proprio su questa coltura che si concentrerà maggiormente la nostra attenzione, visto che gli agrumi costituivano, in termini quantitativi, il principale tra i prodotti esportati dal porto di Rodi nel periodo da noi preso in esame. Quasi tutte le piante fruttifere possono trovare ambiente favorevole sul Gargano e lo dimostra la presenza del selvatico di esse, che cresce spontaneo nei terreni incolti e nei punti prediletti. Le piante fruttifere che hanno certamente maggiore importanza sul Gargano sono: l’olivo, la vite, il mandorlo e gli agrumi.7 Per la coltivazione degli agrumi sono assai adatte le insenature e le gole montane non lontane dal mare e ben riparate dai venti. Inoltre, per coltivare gli agrumi occorre acqua d’irrigazione; infatti la coltura “seccagna” di queste piante fruttifere 4 Michelangelo DE GRAZIA, Memorie storiche di Rodi Garganico con alcune notizie sul Gargano, S.Severo, Tip. V. De Girolamo,1899, p. 84. 5 Michelangelo MANICONE, La fisica appula del P. F. Michelangelo Manicone, Napoli, 1807, t. III, p. 23. 6 B. BACULO, Il Cholera morbus in Rodi…, cit., p. 7. 7 Mario BIAGIOTTI, Uno sguardo all’agricoltura garganica, Foggia, Tip. Cappetta, 1955, p. 14. 276 Bruno Vivoli non dà buoni risultati. Le specie più coltivate nella regione garganica sono l’arancia Citrus aurantium e il limone Citrus medica. Essi costituivano una preziosa industria soprattutto nei tenimenti di Vico, Ischitella e Rodi. La particolare collocazione, sia di latitudine che di altitudine, la presenza del vicino mare Adriatico, la buona predisposizione delle terre, l’abbondanza di acqua per l’irrigazione, contribuiscono alla ferace produzione di queste piante. Insomma, le particolari condizioni fisico-topografiche dei siti sopraindicati hanno fatto sì che la maggior parte dell’agrumeto fosse impiantato proprio in queste contrade. La coltivazione dell’agrume comportava molteplici utilizzi e quindi diversi esiti commerciali: i fiori secchi degli agrumi venivano canditi e distillati; il frutto si mangiava; l’acido dei limoni estratto era utile alla medicina e alla tintoria; i tronchi degli alberi adulti costituivano il materiale per i lavori d’intarsiamento. La stima razionale di un agrumeto veniva effettuata tenendo conto di tutti gli elementi che concorrono alla produttività del fondo, e cioè: terra, lavoro, capitale.8 Il reddito medio-normale annuo del podere si determinava desumendolo dal prodotto del suolo servendosi delle teorie agronomiche, delle cognizioni agricole e soprattutto della molta pratica ed esperienza. Il prodotto raccolto si vendeva frequentemente con regolari contratti stipulati con diverse Società. Questi contratti assicuravano il proprietario dal danno del gelo, che poteva verificarsi alle piante da dicembre a febbraio, dal momento che, per convenzione, questi danni andavano a carico delle Società compratrici che, tra l’altro, sostenevano anche le spese per l’imballatura e il trasporto. In siti come Rodi, Vico ed Ischitella gli agrumeti erano tutti condotti ad economia, e raramente si stipulavano contratti di locazione col pagamento di uno “staglio” sia in denaro che in derrate. Volendo riportare qualche cifra si è calcolato che, in generale, un agrume in ottime condizioni di vegetazione e di tecnica colturale può dare in media da 550 a 600 frutti all’anno dal 5° al 90° anno, e quindi da 220 a 240 mila frutti per ha. Per quanto riguarda i limoni, invece, una produzione ottima è quella che va dai 280 ai 300 mila limoni per ha.9 Come già detto questi valori si riferiscono ad una produzione fatta in condizioni ottimali, valori che variano a seconda delle congiunture, come ad esempio periodi di avverse condizioni atmosferiche o particolari situazioni economiche. Infatti i prezzi straordinari che gli agrumi avevano acquisito sul mercato spinsero molti proprietari, in diversi periodi dell’Ottocento, ad abbattere tutto per impiantare l’agrumeto, anche in condizioni non favorevoli a questo tipo di coltura. Vi furono annate, come il 1847, in cui la rendita netta superò il valore della proprietà del fondo. Straordinaria fu anche la produzione del 1856 e tale che nessuno se ne ricordò un’altra simile.10 8 Pasquale DE NITTIS, Descrizione e stima degli agrumeti del Gargano, Foggia, Tip. Cardone, 1886, p. 16. Giuseppe NARDINI, L’agricoltura e gli agricoltori del Gargano, Napoli, Tip. Del Giudice, 1914, p. 100. 10 Giuseppe DE LEONARDIS, Monografia del promontorio del Gargano per Giuseppe De Leonardis, Napoli, Tip. Pansini, 1858, p. 241. 9 277 Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento 3. Le esportazioni dal porto di Rodi La marina mercantile ha sempre costituito per la cittadina di Rodi un fattore importante sia da un punto di vista economico che sociale. Infatti i Rodiani, non potendo dedicarsi molto all’agricoltura per via dell’estensione limitata del loro territorio, erano da sempre avvezzi al commercio marittimo che costituiva il loro principale mezzo di sussistenza. Questo ci fa comprendere come il porto di Rodi e le vicende ad esso connesse abbiano sempre svolto un ruolo importante nella vita di questa popolazione. Significativa è la breve ma efficace descrizione che Giuseppe Maria Galanti proponeva nel 1791, nella sua relazione intorno allo stato della Capitanata pubblicata in appendice al secondo volume della Descrizione geografica e politica della Sicilia, circa l’economia rodiana: “[...] Rodi tiene otto trabaccoli e dodici mezze barche o sieno pinchi da viaggio, che trafficano pe’ medesimi luoghi come quelli di Vico, e spesso fanno il viaggio per Trapani a caricar sale. I marinai di Rodi sono più attivi di quelli di Vico. Raccolgono la manna e l’olio di Viesti e di Monte S. Angelo, gli agrumi e l’olio di Ischitella e di Peschici, gran copia di cerchi da botti e legne de’ vicini boschi, e li trasportano fuori stato. Riportano lino, panni, tele, acquavite, cappelli, tabacco, ferro, acciaio, lavori di seta. Ma il generale del paese è misero per difetto di agricoltura e di pastorizia, e vive di contrabbando”.11 Da una lettera datata 3 gennaio 1828, inviata dall’allora sindaco di Rodi Michele Saja all’Intendente della Provincia di Capitanata, si ricava un quadro abbastanza significativo degli addetti al commercio marittimo di Rodi, nonché dei legni appartenenti al comune medesimo in quell’anno. Per cui si evince che 32 erano i padroni dei legni, 166 i marinai, 34 gli “alunni”, 14 i “legni”. Due sembrano essere le tipologie di imbarcazione più diffuse: il “pielago” e la “paranza”, il cui tonnellaggio andava da un minimo di 13 ad un massimo di 55 tonn. Le denominazioni più frequenti di queste imbarcazioni erano: “S. Antonio”, “Il Glorioso”, ma soprattutto “La Libera”, in onore della Santa protettrice della cittadina garganica. Inoltre facevano parte della marina rodiana anche quattro o cinque barchette addette al commercio con i comuni limitrofi. Si registrano anche 170 facchini che traevano la loro sussistenza dal commercio marittimo e un numero considerevole di vetturini che trasportavano i diversi generi scaricati oltre che nel paese, anche nelle diverse province del Regno. In più vi erano tanti altri individui che venivano impiegati per altre mansioni, come ad esempio avvicinare al molo o spingere in acqua i legni. I dati relativi ai traffici di merci nel porto di Rodi sono stati ricavati dai documenti redatti dai Deputati Sanitari, nei quali veniva annotato il numero dei legni che approdavano e partivano dal suddetto porto, precisandone la loro tipologia, il loro tonnellaggio, la loro denominazione, il luogo di provenienza o verso il quale si dirigevano e le merci contenute. Questi documenti sono conservati nel fondo In- 11 Giuseppe Maria GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di Domenico DEMARCO e Franca ASSANTE, Napoli, 1969, 2 voll.: vol. II, p. 535. 278 Bruno Vivoli tendenza e Governo di Capitanata, Atti, dell’Archivio di Stato di Foggia. Le indagini hanno interessato il periodo compreso tra il 1820 e il 1840. I dati in questione hanno messo in evidenza come tre fossero le tipologie più diffuse dei legni che transitavano nel suddetto porto e cioè “pielago”, “paranza” e “barchetta”. Il primo era un bastimento di piccolo tonnellaggio senza ponte, con tre alberi a vele latine inferite a terzo e con asta di fiocco e prora diritta. La paranza era anch’esso un bastimento di piccolo tonnellaggio senza ponte, con asta di fiocco e un solo albero, a calcese, con antenna a vela latina inferita a terzo, usato generalmente per la pesca, e con prora tondeggiante e poppa a cuneo. Diffuse erano anche la barca e la barchetta e cioè piccole imbarcazioni senza ponte, a remi, con poppa a cuneo e prora diritta.12 Meno frequenti, ma comunque menzionate, erano il “trabaccolo”, la “bracciera”, il “brigantino”. Per quanto riguarda la bandiera di appartenenza di queste imbarcazioni è emerso che la maggior parte dei legni era, naturalmente, di bandiera napoletana, seguono quelli di bandiera pontificia e infine di bandiera austriaca. I luoghi verso i quali queste imbarcazioni, in partenza dal porto di Rodi, si dirigevano erano i porti del Barese (Bari, Trani, Barletta, Giovinazzo, Bisceglie, Monopoli, ecc.), i porti dell’Adriatico (Termoli, Pescara, Ancona, Venezia, Trieste, ecc.), i porti della Dalmazia (Spalato, Pola, Zara, Ragusa, Cattaro, ecc.), quelli vicini di Manfredonia, Vieste, Peschici, Tremiti, segno di un commercio anche con i paesi limitrofi. Per quanto riguarda invece la tipologia delle merci contenute nelle stive di queste imbarcazioni, notiamo una netta predominanza degli agrumi, a conferma della spiccata vocazione agrumaria di questo territorio; vi troviamo anche l’olio, altra coltura tipicamente garganica; prodotti resinosi come manna, pece, trementina; legname sia da costruzione che da fuoco; vino; carrube; leguminose come fave, ceci, fagioli. È stato riscontrato anche qualche carico di grano duro e soprattutto di maiorica; merci varie come mobilio, vestiti usati, ferramenta, ecc. Non avendo a disposizione, se non per periodi limitatissimi, informazioni precise sul quantitativo delle merci trasportate, questo è stato dedotto tenendo conto del tonnellaggio di stazza delle singole imbarcazioni, ipotizzando che esse partissero a pieno carico. Dai rapporti inviati dall’Intendente di Capitanata al Ministro Segretario di Stato delle finanze, negli anni venti dell’Ottocento, emerge anche come a Rodi fosse molto presente il problema del contrabbando. Un fenomeno che trovava spesso la complicità degli stessi impiegati addetti al controllo del carico e scarico delle merci. Ad esempio si faceva credere che alcuni legni approdati fossero vuoti, quando invece erano carichi di mercanzie, ovviamente per eludere il fisco. Contro questo atteggiamento “truffaldino” si cercò di assumere maggiore fermezza, richiamando al dovere gli impiegati e confiscando i generi scaricati illegalmente. Ma se, 12 Lamberto RADOGNA, Storia della marina mercantile delle Due Sicilie (1794-1860), Milano, Mursia, 1982, pp. 257-258; cfr. anche Maria SIRAGO, La città e il mare. Economia, politica portuale, identità culturale dei centri costieri del Mezzogiorno moderno, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2004. 279 Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento da una parte, questa maggiore fermezza delle autorità avrebbe prodotto il bene di eliminare il contrabbando da Rodi, dall’altra, avrebbe portato alla distruzione “dell’unica marina mercantile che esita in questa Provincia e che è forse una delle più considerevoli delle Puglie”.13 I commerci dei rodiani, come si evince anche dai dati a nostra disposizione, si svolgevano più frequentemente con Venezia, Trieste, Fiume, Spalato; i collegamenti con questi siti erano favoriti dalla posizione topografica di Rodi. Ora, ove questi collegamenti fossero resi difficili o allungati, i Rodiani avrebbero visto svanire i loro vantaggi, e la loro industria, figlia più del lavoro che dei capitali impiegati, ne avrebbe sofferto notevolmente. Inoltre l’obbligo di deviare i legni nel porto di Manfredonia, non solo rendeva più difficili i viaggi dei Rodiani, che dovevano percorrere tutto il capo del Gargano con tutti i pericoli che si potevano incontrare, ma provocava per il proprio comune anche delle gravi perdite economiche, in quanto venivano meno gli introiti derivati dal pagamento dei dazi sulle merci importate. Tutto ciò, quindi, aveva spinto i Rodiani a praticare il contrabbando. Una soluzione per ovviare a questo problema era quella di accordare un risparmio sul dazio, per cui se ne chiese la riduzione del 15% che avrebbe riportato nella legalità i commerci, nonché il passaggio della dogana di Rodi dalla seconda alla prima classe. Quest’ultima era stata degradata alla seconda classe proprio a causa del contrabbando. Nel 1819, però, si autorizzava questa dogana all’importazione dei generi esteri e, malgrado l’Amministrazione dei dazi indiretti si opponesse a questa decisione, si provò a concederle per un anno le funzioni di dogana di prima classe. Ma nel marzo del 1822 l’Amministrazione dei dazi indiretti fu sollecitata a far ritornare la dogana di Rodi alla seconda classe, in quanto si era osservato che l’indulgenza usata nel 1819 aveva fatto aumentare il contrabbando, per cui se ne decretò la riduzione a seconda classe. Riflettendo su questa serie di fatti e quindi sugli esiti infelici che ebbero questi esperimenti di classificazione, pare che fosse più conveniente sviluppare zelo, energia, e rigore affinché “l’indole dei naturali dimenticando la inclinazione al contrabbando, ripiglino le operazioni commerciali il loro corso regolare conforme alle leggi, ed agli interessi della interna economia”.14 Successivamente, con il decreto del 4 giugno 1831 firmato da Ferdinando II, si stabiliva il passaggio della dogana di Rodi dalla seconda alla prima classe e, di conseguenza, la possibilità di praticare traffici d’importazione ed esportazione e cabotaggio. Il commercio poteva così riprendere profitto e svolgersi nella legalità. Dall’analisi dei dati a nostra disposizione possiamo trarre un quadro alquanto significativo del commercio rodiano nei decenni da noi presi in esame. Abbiamo oramai assodato come l’agrume rappresentava il prodotto principe dell’economia, non solo di questa zona, ma di tutto il Gargano settentrionale e di altre zone del 13 ASFG, Amministrazione finanziaria, b. 385, fasc. 40. Lettera di risposta del Ministro Segretario di Stato delle finanze all’Intendente di Capitanata del 5 Dicembre 1827, in ibid. 14 280 Bruno Vivoli Regno. Infatti, questo prodotto ha costituito, nell’Ottocento, l’elemento trainante e determinante dell’economia di alcune zone del Regno per diversi decenni.15 Ed è per tale motivo che le congiunture, positive o negative, relative a tale prodotto potevano influenzare, in un senso o nell’altro, l’economia del Regno. Ritornando alla località oggetto del nostro lavoro si è visto come gli agrumi, sia come frutto che come cortecce secche, fossero presenti in quasi tutti i carichi, e come essi fossero trasportati un po’ in tutti i porti con i quali Rodi svolgeva i suoi commerci. Infatti, per questo prodotto, non siamo riusciti a delineare una direzione prevalente, segno quindi dell’importanza che tale merce aveva per tutti i mercati. Per avere un quadro più preciso della situazione possiamo servirci di qualche dato: prendiamo un anno a caso, ad esempio il 1834, di cui abbiamo a disposizione i dati relativi ai mesi di aprile, maggio, giugno, luglio, settembre e ottobre. Su 214 partenze registrate dal porto di Rodi in questi mesi, 104 erano i carichi di soli agrumi, 49 quelli in cui gli agrumi risultavano misti con altri prodotti, 61 il numero delle imbarcazioni nei cui carichi non vi erano agrumi ma altre merci o che partivano vuote.16 Pertanto, si può notare come in più della metà dei carichi registrati comparivano prodotti agrumari e come tale tendenza caratterizzava un po’ tutto il ventennio preso in esame. Per quanto riguarda le altre merci abbiamo notato come, a differenza degli agrumi che assumevano svariate direzioni, alcune di esse avevano destinazioni specifiche: la maggior parte dei carichi d’olio erano diretti a Trieste probabilmente perché da qui l’olio veniva smistato sul mercato tedesco. La maggior parte del legname, invece, interessava le rotte del Barese, evidentemente perché qui erano presenti centri di trasformazione di questo materiale; ancora Trieste sembrava essere la piazza principale per quanto riguarda prodotti come arancini, cortecce secche di agrumi, semenze di lino e manna. Carichi di grano, granone e maiorica avevano svariate destinazioni: molti si dirigevano nei porti limitrofi di Vieste, Manfredonia, Tremiti, in quelli del Barese, soprattutto Giovinazzo, di Termoli, Pescara, Ancona e anche Trieste e Fiume (verso questi ultimi si dirigevano in particolar modo carichi di granone). Circa i quantitativi, per quanto riguarda gli agrumi, i dati variano a seconda delle congiunture. Il grafico che segue si riferisce al quantitativo di agrumi esportato da Rodi tra il 1836 e il 1841 per i mesi di cui abbiamo a disposizione i dati. È doveroso, però, precisare che i grafici riportati comportano un margine di inattendibilità a causa dei periodi limitati per i quali si posseggono informazioni. L’unità di peso con cui sono espressi i valori è il “migliaio” che rappresentava, appunto, l’unità di conto degli agrumi. Usata fino al secondo dopoguerra equivaleva a 1000-1100 frutti, a seconda delle zone, per un peso leggermente superiore al quintale: 15 16 Cfr. Salvatore LUPO, Il giardino degli agrumi, Venezia, Marsilio, 1990. ASFG, Intendenza e governo di Capitanata. Atti (d’ora in avanti Intendenza), b. 1708, fasc. 29. 281 Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento (a) il dato si riferisce al periodo compreso tra luglio 1836 e giugno 1837.17 (b) il dato si riferisce ai mesi di marzo, aprile, maggio, settembre, ottobre, novembre, dicembre 1838.18 (c) il dato si riferisce ai mesi di gennaio, aprile, maggio 1839.19 (d) il dato si riferisce ai mesi di febbraio, marzo, aprile, maggio, agosto, dicembre 1840.20 (e) il dato si riferisce ai mesi di aprile e maggio 1841.21 Per le cortecce di agrumi la situazione è sintetizzata dal grafico seguente, nel quale i valori sono espressi in “cantara”: 17 ASNA, Min. Int., 2° inv., b. 508. ASFG, Intendenza, b. 1710, fasc. 33. 19 Ibid., b. 1711, fasc. 34. 20 Ibid., b. 1712, fasc. 35. 21 Ibid., b. 1713, fasc. 36. 18 282 Bruno Vivoli (a) il dato si riferisce al periodo compreso tra luglio 1836 e giugno 1837.22 (b) il dato si riferisce ai mesi di marzo, aprile, maggio, settembre, ottobre, novembre, dicembre 1838.23 (c) il dato si riferisce ai mesi di febbraio, aprile, maggio, dicembre 1840.24 (d) il dato si riferisce al mese di maggio 1841.25 Il grafico successivo, invece, illustra la situazione di un altro prodotto molto importante come l’olio. I valori sono espressi in “staia”: (a) il dato si riferisce al mese di agosto 1837.26 (b) il dato si riferisce ai mesi di aprile, maggio, settembre, ottobre, novembre, dicembre 1838.27 (c) il dato si riferisce ai mesi di febbraio, aprile, dicembre 1840.28 Meno significative erano le esportazioni di grano, i cui dati a disposizione si riferiscono a quantitativi e a periodi limitati. Riportiamo qualche cifra anche per gli altri prodotti che, insieme a quelli principali, riempivano le stive delle imbarcazioni in partenza dal porto garganico. Per le carrube, ad esempio, registriamo i seguenti quantitativi: 389 cantara nel 1836- 22 ASNA, Min. Int., 2° inv., b. 508. ASFG, Intendenza, b. 1710, fasc. 33. 24 Ibid., b. 1712, fasc. 35. 25 Ibid., b. 1713, fasc. 36. 26 ASNA, Min. Int., 2° inv., b. 508. 27 ASFG, Intendenza, b. 1710, fasc. 33. 28 Ibid., b. 1712, fasc. 35. 23 283 Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento 37 (da luglio a giugno); 117 cantara nel 1838 (marzo, aprile, settembre, ottobre); 370 cantara nel 1840 (febbraio, agosto, dicembre). Per i prodotti resinosi come manna, catrame, pece, trementina: 71 cantara nel 1836-37 (da luglio a giugno); 35 cantara nel 1838 (marzo, settembre, novembre, dicembre); 52 cantara nel 1839 (giugno); 34 cantara nel 1840 (febbraio, maggio, agosto). Per i legumi: 85 cantara nel 1838 (marzo, settembre); 20 cantara nel 1839 (gennaio, giugno); 60 cantara nel 1840 (febbraio, aprile, dicembre). Per il legname: 21 carri nel 1837 (agosto); 23 carri nel 1838 (maggio, settembre); 8 carri nel 1840 (luglio); 340 cantara nel 1841 (maggio). Per le semenze di lino: 100 cantara nel 1837 (gennaio); 30 cantara nel 1838 (settembre). Riferiamo qualche dato anche per quanto riguarda la bandiera di appartenenza dei legni registrati nei documenti stilati dai Deputati Sanitari. Ebbene, nel 1827, su 190 imbarcazioni attraccate nel porto di Rodi, nei mesi per i quali esistono i dati, 178 erano di bandiera napoletana, 8 di bandiera pontificia e 4 di bandiera austriaca.29 Se i primi erano diretti un po’ in tutti i porti dell’Adriatico, da quelli del Barese fino a Trieste, i secondi orientavano le loro rotte principalmente verso Ancona, Senigallia, Rimini, Venezia, Trieste, mentre quelli di bandiera austriaca, invece, si indirizzavano verso i porti di Trieste, Fiume e soprattutto Spalato. Alcune imbarcazioni di bandiera napoletana si dirigevano anche verso le Reali Saline, a nord di Barletta, alcune volte cariche di agrumi, altre invece, vuote, probabilmente per caricarvi il sale. Vi troviamo poi anche destinazioni eccezionali perché meno frequenti se non, in alcuni casi, uniche rispetto a quelle più ricorrenti. Ad esempio nel foglio relativo al mese di maggio del 182330 compare un “brigantino” di bandiera napoletana carico di legna da fuoco che aveva come destinazione Malta. Per quanto riguarda la tipologia delle imbarcazioni più utilizzate, non c’è dubbio che se la “barchetta” veniva usata per il cabotaggio o comunque per il commercio con porti non molto lontani quali potevano essere quelli di Termoli, Vasto e Pescara in direzione nord, e Barletta, Bisceglie, Bari in direzione sud, il “pielago” e la “paranza” venivano invece utilizzati per le più lunghe distanze. Un altro aspetto interessante è quello che riguarda il numero delle imbarcazioni propriamente rodiane impegnate nel commercio marittimo. Prendiamo come esempio il biennio 1833-1834:31 29 Ibid., b. 1704, fasc. 22. Ibid., b. 1701, fasc. 18. 31 Ibid., bb. 1707 - 1708, fascc. 28 – 29. 30 284 Bruno Vivoli "La Libera" Come possiamo notare dal grafico sovrastante su 464 partenze registrate nel porto di Rodi nei mesi di aprile, maggio, luglio, agosto, settembre, ottobre del 1833 e aprile, maggio, giugno, luglio, settembre, ottobre del 1834, 162 sono le imbarcazioni di proprietà di rodiani, di cui 141 denominate “La Libera” e 21 denominate “S.Antonio” mentre le restanti 302 imbarcazioni sono forestiere. Come si nota, la quota del traffico commerciale con barche di Rodi è apprezzabile. Tali imbarcazioni si dirigevano di solito verso i porti di Trieste e Venezia dove portavano, oltre agli immancabili agrumi, anche olio, cortecce secche di agrumi e manna. Non mancano contatti con i porti del medio Adriatico come Pescara, Ancona, Rimini, dove si dirigevano carichi in cui predominavano i prodotti agrumari. Verso i porti del Barese, soprattutto Barletta, sono attestati carichi di legname, a conferma di una tendenza generale che vedeva il legname avere come destinazione questa zona. È stato, invece, riscontrato come nei collegamenti con i porti limitrofi, soprattutto Tremiti, Vieste e Peschici, oltre alle imbarcazioni cariche di merci varie come fagioli, farina, frutti freschi e secchi, attrezzi per la pesca, etc., vi erano anche molti “legni” che partivano da Rodi vuoti, sicuramente per essere poi caricati nei porti di destinazione. Rispetto al passato la situazione economica del comune di Rodi è molto cambiata. Per quanto riguarda l’agricoltura, un tempo florida, come abbiamo visto, sia per la produzione degli agrumi che delle olive, oggi risente di una crisi concorrenziale, specialmente nel settore agrumicolo. I pochi prodotti ortofrutticoli che si coltivano sono destinati al mercato interno. Di conseguenza anche l’attività commerciale del paese risulta molto esigua. Anche per quanto riguarda l’attività peschereccia si può notare un grosso calo rispetto al passato quando la flotta peschereccia e commerciale rodiana fino al 1942 era tra le più floride dell’Adriatico. Tale attività, oggi, si pratica prevalentemente con piccole imbarcazioni lungo le coste del Gargano e con le Isole Tremiti. La pastorizia, invece, continua a portarsi dietro il suo problema storico e cioè l’esiguità del suo territorio comunale e quindi la mancanza di pascoli. 285 Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento Oggi il paese vive, per la maggior parte, di turismo perché possiede un mare che più volte è stato riconosciuto tra i più puliti d’Italia e un ambiente ancora rigoglioso e affascinante che favorisce, ogni anno, l’afflusso di migliaia di villeggianti, molti dei quali stranieri. Resta il problema del miglioramento delle strutture ricettive turistico-alberghiere, un problema sicuramente importante visto che il turismo è il settore su cui oggi si basa, prevalentemente, l’economia locale. Un altro aspetto interessante è lo sviluppo, registratosi negli ultimi anni, di una nuova dimensione dell’agricoltura, quella legata all’agriturismo, attraverso il recupero dei numerosi edifici rurali immersi nel verde presenti nella zona, attività che va sicuramente incrementata attraverso incentivi e pubblicizzazioni. 286 Attività della Biblioteca 288 Grazia Carbonella Fonti sonore e musicologia: alcune riflessioni di Grazia Carbonella Il campo di ricerca della musicologia, nell’accezione impiegata dall’American Musicological Society nella sua dichiarazione d’intenti del 1934, nella quale s’impegnava “per il progresso della ricerca nei vari campi della musica intesa quale branca del sapere e dell’erudizione”, ha poco più di un secolo ed è un fenomeno prevalentemente del Novecento.1 In questo arco di tempo si è abbandonata l’idea della musica come sottoinsieme della filosofia e della storia dell’arte per considerarla disciplina autonoma con una propria identità professionale, con standard e requisiti di preparazione specifici. Tant’è che dal bilancio effettuato dalla Società Italiana di Musicologia sulle discipline musicologiche, tracciato in chiusura del secolo appena trascorso, Enrico Fubini precisa che la “musicologia è complessa e multiforme perché tale è il suo oggetto, visto sia orizzontalmente nella sua estensione geografica, sia verticalmente nella sua estensione storica” e che per questo “non si può parlare di musicologia al singolare”.2 Nel corso del Novecento infatti c’è stato un progressivo passaggio dalla netta prevalenza della musicologia storica, come approccio dominante alla ricerca, ad una progressiva affermazione di nuove discipline - quali la sociologia della musica, la semiologia della musica, la psicologia della musica, l’etnomusicologia, per citarne solo alcune - che hanno arricchito l’odierno panorama di studi con l’applicazione di metodologie distinte.3 Questi mutamenti hanno trovato riscontro nell’allargarsi degli orizzonti musicali, con l’avvento dell’atonalità, della dodecafonia e del serialismo in Occidente, e nel progressivo indebolimento dell’eurocentrismo, con il dilagare di studi sistematici su patrimoni musicali di altri popoli e di altre civiltà. Non da ultimo si deve aggiungere lo sviluppo di nuove tecnologie di produzione e riproduzione del suono che da una 1 Cfr. Margaret BENT, Il mestiere del musicologo, in Enciclopedia della musica, diretta da Jean-Jeacques Nattiez, Il sapere musicale, Torino, Einaudi, 2002, 3 voll.: vol. II, p. 575. 2 Cfr. Enrico FUBINI, Introduzione, in «Rivista Italiana di Musicologica», vol. XXXV, 2000, 1-2, Le discipline musicologiche: prospettive di fine secolo, p. 4. 3 Risale al 1885 la pionieristica divisione tra musicologia storica e quella sistematica operata da Guido Adler durante la sua docenza a Vienna. Nel 1955 il Dräger aggiunge alla suddivisione in tre “classi” degli ambiti di ricerca - Storia della musica, Musicologia sistematica, Etnomusicologia - due altri campi di indagine: la Sociologia della musica e la Musicologia applicata. Cfr E. FUBINI, Introduzione…, p. 579; Alberto BASSO, Musicologia, in Dizionario della musica e dei musicisti. Il lessico, Torino, UTET, 1985, 3 voll.: vol. III, pp. 281-304. 289 Fonti sonore e musicologia: alcune riflessioni parte hanno indotto gli studiosi a riflettere a livello filosofico e analitico sul significato della tecnica, dall’altra hanno costretto ad analizzare sempre meglio il fenomeno dei mezzi audiovisivi di diffusione e riproduzione della musica. La storia della musica, soprattutto quella del XX secolo, infatti, è per lo più storia della musica riprodotta. È chiaro che analizzare l’incidenza delle tecnologie sulla musica significa per lo studioso condurre un’indagine in più direzioni. In primis perché l’avvento del fonografo ha consentito di ripetere, di riascoltare un’esecuzione musicale svincolandola dall’evento, privandola del gesto e dell’elemento visivo; in secondo luogo l’ha resa merce, le ha dato, ancor più che con la stampa, un valore commerciale. Sull’altro fronte, l’impiego delle tecnologie per la riproduzione e la conservazione della musica ha avuto, negli anni, una valenza didattica e documentaria enorme, sancendo la nascita del jazz e dei primi studi etnomusicologici. Non da ultimo la possibilità di registrare e riprodurre dei suoni ha influenzato largamente anche il processo creativo, garantendo ai compositori una libertà nuova. Questi sono solo alcuni aspetti che verranno di seguito illustrati e che rappresentato il nuovo e articolato panorama in cui si muove la ricerca musicologica quando fa oggetto della sua indagine le fonti musicali sonore nel quadro storico del Novecento.4 **** Abbiamo già accennato come i campi di interesse dell’attuale ricerca musicologica si siano allargati affiancando alla tradizionale indagine storica una serie di nuovi ambiti disciplinari. Così il musicologo oggi è portato a consultare fonti diverse a seconda del lavoro che si prefigge: oltre a manoscritti, trattati teorici, libretti, pubblicistica periodica, epistolari, si avvale anche di strumenti di consultazione quali bibliografie e repertori, ma anche OPAC di biblioteche, banche dati bibliografiche, archivi testuali on-line.5 La tecnologia ha non solo cambiato l’approccio alla ricerca, ma ha trasformato anche la musica: svincolata dalla concezione idealistica ed elitaria di arte, è diventata oggetto.6 4 Il primo bilancio italiano del rapporto tra storiografia e studi sulla musica riprodotta è stato realizzato da Roberto GIULIANI, Le fonti sonore e audiovisive e la storiografia contemporanea, in «Rivista Italiana di Musicologica»…, cit., pp. 539-584. 5 Per l’ indagine musicologica cfr. Gianmario MERIZZI, La ricerca bibliografica nell’indagine storicomusicologica, Bologna, Clueb, 1996; Antonia Alberta IANNE, Le risorse Internet per la musicologia: strategie di ricerca e criteri di valutazione, in «Fonti Musicali Italiane», 2001, 6, pp. 119-143. 6 Per il rapporto tra musica e mezzi di comunicazione di massa e musica e tecnologia, cfr. Simon FRITH, L’industrializzazione della musica e il problema dei valori, in Enciclopedia della musica, Torino, Einaudi, 2002, 3 voll.: vol. I, Il Novecento, pp. 953-965; Jean MOLINO, Tecnologia, globalizzazione, tribalizzazione, in ibid, pp. 767-782; e ovviamente Walter BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: arte e società di massa, Torino, Einaudi, 2000. 290 Grazia Carbonella L’archiviazione su supporto fonografico e la riproduzione meccanica, digitale, elettronica, infatti, trasformano profondamente l’esperienza materiale della musica che ora può essere ascoltata ovunque, superando barriere spazio-temporali, diventando merce, proprietà. La riproduzione sonora ci ha ormai abituati a una percezione esclusivamente uditiva della musica, in cui ambiente e gesto vengono annullati, slegando così l’evento esecutivo dal contesto ambientale originale.7 Che la musica sia fatta per essere ascoltata, in realtà, non è un’idea così ovvia come potrebbe sembrare: lo è per noi, ma non lo era nel primo Cinquecento, ad esempio, quando l’esecuzione di un madrigale polifonico era principalmente un’occasione per una pratica domestica di lettura e di canto in comune. Del resto, l’ascolto concentrato è diventato la ragion d’essere della musica lentamente, fra il XVII e il XIX secolo, con un lungo processo che ha trovato la sua conclusione nell’avvento del concerto pubblico. E proprio nell’Ottocento è emersa la figura dell’ascoltatore, il nuovo “committente” per il quale da quel momento si comincerà a scrivere e a interpretare la musica. Con il concerto pubblico, e poi con i recitals, la musica crea i suoi rituali: non più canti nuziali, requiem, processioni, occasioni con le quali in Occidente fino al XVIII secolo aveva mantenuto un rapporto strettissimo, ma una rigida etichetta fatta di applausi, bis, abiti eleganti: “era come una cerimonia religiosa, dove la religione celebrata era la musica stessa”.8 Il concerto ottocentesco era quindi un evento mondano, un rituale, e, in quanto tale, aveva una propria architettura del tempo che si innestava nel fluire dell’ordine temporale più grande, quello che si dispiega in un ciclico susseguirsi di giorni, mesi, anni. Ebbene, quest’equilibrio è stato rotto dall’avvento del fonografo: con la registrazione la musica è diventata per l’appunto oggetto, fruibile in qualunque momento della giornata e in qualunque luogo. Con la registrazione la musica perde di “sacralità” perché facilitando il rituale privato lo banalizza.9 Tutto questo però ha portato anche ad una libertà nuova, lì dove la musica diventava un simbolo, quasi una bandiera ideologica tanto da suscitare ostilità nei regimi totalitari: nel 1928, ad esempio, nell’Unione Sovietica il jazz americano, suonato o importato, era punibile con sei mesi di carcere e una multa di cento rubli.10 L’ascolto è diventata quindi la pratica musicale dominante del XX secolo: questa nuova condizione induce l’ascoltatore ad una maggiore concentrazione sull’ope- 7 “Per definire questa nuova situazione d’ascolto Schaffer ha rimesso in voga il termine “acusmatico”, indicante la modalità usata da Pitagora per rivolgersi ai suoi discepoli attraverso la cortina. Anche per un pubblico colto e musicale la pratica di ricezione più consueta è l’ascolto “acusmatico” tramite altoparlanti”. Cfr. François DELALANDE, Il paradigma elettroacustico, in Enciclopedia …, cit., vol. I, Il Novecento, pp. 380403 e 386. Riguardo all’incidenza del disco e della radio sulla storia della ricezione, in un discorso limitato alla voce, cfr. Rossana DALMONTE, Voci, in Enciclopedia…., cit., pp. 283-305: 284-288. 8 Cfr. Evan EISENBERG, L’angelo con il fonografo. Musica, dischi e cultura da Aristotele a Zappa, Torino, Instar Libri, 1997, p. 39. 9 In realtà già Glenn Gould riteneva che la musica registrata non va intesa come riproduzione del concerto, ma come un’arte indipendente, distinta dalla musica dal vivo quanto il cinema lo è dal teatro. Cfr. ibid., p. 145. 10 Cfr. ibid, p. 43. 291 Fonti sonore e musicologia: alcune riflessioni ra d’arte musicale grazie anche alla possibilità di ripetizione ad anfinitum del brano, sia nel suo insieme che per sezioni, e alla possibilità di comparare interpretazioni diverse di una stessa opera.11 Così scrive Roberto Giuliani a questo proposito: “Ascoltare e riascoltare: il documento sonoro, e poi audiovisivo, concede il tempo per capire, oltre che per studiare, per dar conto delle diverse interpretazioni, per comprendere come è cambiata la nostra percezione nel corso della storia. La possibilità di riproduzione, come anche per il cinema, e per le arti in genere, offre più tempo per riflettere, per sentire e vedere più cose, e cose diverse”.12 Il musicista oggi non può prescindere, per lo studio di una composizione, dall’ascolto critico e comparato di altre interpretazioni: avremo così l’analisi dell’interpretazione e l’analisi per l’interpretazione. D’altro canto l’ascoltatore medio, generalmente privo di un autonoma capacità di lettura musicale, trova nelle registrazioni sonore l’unica chiave di accesso alle composizioni musicali. In questa prospettiva la registrazione fornisce all’ascoltatore un’immagine sonora delle composizioni,13 frutto della politica editoriale delle case discografiche, un’ immagine spesso faziosa, o quantomeno parziale, perché selettiva rispetto all’intera produzione. Poche sono infatti le operazioni editoriali di alto profilo sollecitate da critici e da musicologi condotte su corpus omogenei di composizioni: le scelte editoriali delle case discografiche, mosse troppo spesso da fattori esclusivamente commerciali, raramente si conciliano con progetti di educazione del pubblico.14 Influenzando l’apprendimento, la registrazione condiziona anche la composizione, operando su un duplice livello. Da un lato, giocando “un ruolo simile a quello del libro, nel senso di memoria culturale che preserva e diffonde le invenzioni umane”,15 veicola una larga circolazione di idee, esponendo i compositori a molteplici influssi musicali. Dall’altro, la tecnologia applicata al processo creativo rappresenta una momento di “rottura”, paragonabile solamente alla scrittura. Quando, nel 1948, Pierre Schaeffer compose i primi Études de bruits era la prima volta che la musica veniva composta direttamente sul supporto.16 In questo modo il mu11 Cfr. Carlo MARINELLI, Prolegomeni ad una nuova disciplina scientifica: Discografia e Videografia musicale, <http: //carlomarinelli.it/Prolegomeni.rtf>, 5 marzo 2006. 12 Cfr. R. GIULIANI, Le fonti sonore e audiovisive…, cit. p. 584. 13 La musica, come il teatro e la danza, ha bisogno di un mediatore perché sia comunicata, tradotta. L’intervento dell’interprete fornisce sempre una chiave di lettura soggettiva e personale. 14 “L’esistenza di una categoria di operatori culturali che producono per le masse, usando in realtà le masse per fini di profitto anziché offrire loro delle reali occasioni di esperienza critica, è un fatto assodato: e l’operazione culturale va giudicata per le intenzioni che manifesta e per il modo in cui struttura i suoi messaggi”. Cfr. Umberto ECO, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1965, p. 20. 15 Cfr. Marc BATTIER, La scienza e la tecnologia come fonti d’informazione, in Enciclopedia …, cit., vol. I, pp. 360-379, in particolare p. 361. 16 L’attenzione del compositore al timbro e alla sonorità matura lentamente nel corso dei secoli: è solo nell’Ottocento che si sviluppa il concetto di orchestrazione ed è a partire dall’inizio del Novecento che il timbro e la sonorità fanno parte integrante del progetto compositivo. Questa ricerca della sonorità induce il compositore a specificare sempre più i dettagli esecutivi e a lasciare una margine sempre più ristretto all’interprete, finché l’impiego delle tecnologie lo aiuteranno a realizzare il sogno di fissare il suono. Risulta chiaro, quindi, che la musica dei suoni nasce da esigenze musicali prima che da circostanze tecnologiche. Cfr. François DELALANDE, Il paradigma elettroacustico, in Enciclopedia … , cit., vol. I, p. 387. Sono esaurienti a questo proposito le parole di Ferruccio Busoni: “Ogni notazione è già trascrizione di 292 Grazia Carbonella sicista, infatti, portando alle estreme conseguenze le tecniche di montaggio, aveva utilizzato frammenti sonori estrapolati dal loro contesto originario, organizzandoli secondo una precisa estetica compositiva. È possibile comprendere a pieno la portata di questa rivoluzione solo se pensiamo all’analoga situazione creatasi con l’avvento della scrittura come tecnica di composizione. Per circa sette secoli la scrittura non era destinata a scrivere la musica, ma solo a trascriverla: prima del XII secolo la musica sembra essere essenzialmente orale e trascritta solamente a posteriori. Nel Trecento, invece, troviamo brani la cui composizione sarebbe inimmaginabile senza l’ausilio della scrittura (pensiamo alle retrogradazioni del rondeau di Machault, Ma fin est mon commencement, o alle composizioni isoritmiche). Così, come la registrazione, anche la notazione è stata in un primo tempo il mezzo per fissare la musica, per diventare, solo in un secondo momento, il supporto dell’invenzione. Lo studioso che si appresta ad indagare un documento musicale sonoro deve chiaramente avere piena consapevolezza di tutta questa situazione: se cioè, si tratta di una registrazione come impronta di un’esecuzione tradizionale, oppure di un atto creativo vero e proprio. L’approccio alla ricerca sarà, inoltre, ulteriormente diverso rispetto al documento musicale notato, se si pensa che la notazione, e rispettivamente la tecnologia della realizzazione meccanica, designa non solo un mezzo di creazione, ma l’intera organizzazione sociale relativa a quella specifica produzione musicale. Avremo così da un lato per i documenti notati copisti, poi stampatori, editori, rete commerciale, interpreti, biblioteche, ecc..., dall’altro per le registrazioni nessun interprete, nessuna traccia scritta, una maggiore possibilità di dilettantismo nel processo compositivo (fenomeno, questo, sconosciuto nel campo della musica colta dopo il periodo barocco). È chiaro che dall’analisi dell’una e dell’altra modalità, registrazione e scrittura, lo studioso evincerà implicazioni sociali non meno che estetiche molto diverse.17 Agli occhi dello studioso le fonti sonore hanno anche un intrinseco valore documentario18 di non trascurabile portata. Esse custodiscono infatti informazioni relative all’interpretazione vocale e orchestrale, alle prassi delle varianti e dei tagli. Non dobbiamo inoltre dimenticare che grazie alla registrazione l’improvvisazione jazz cominciò ad essere documentata e a fare storia così come ha consentito lo un’idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce, il pensiero perde la sua forma originale” e ancora “in base alle mie personali concezioni, avrei bisogno di un mezzo di espressione completamente nuovo, una macchina del suono (non riproduttrice di soni)[…]. Solo così quello che compongo, qualunque sia il suo messaggio, arriverebbe all’ascoltatore senza essere deformato dall’ “interpretazione”. […] Basterebbe premere un bottone e si avrebbe una musica quale il compositore l’ha scritta, come quando si apre un libro”. Cfr. EISENBERG, op. cit., p. 182 e 184. 17 Cfr. F. DELALANDE, Il paradigma elettroacustico, in Enciclopedia … , cit., vol. I, in particolare pp. 383-391. 18 Stravinskij è stato tra i compositori il primo a intraprendere la registrazione completa dei suoi lavori. Attribuiva a questi dischi, realizzati dalla Columbia, valore di “guida documentaria”, utile a chiunque volesse eseguire la sua musica. Cfr. EISENBERG, op. cit., p. 179. 293 Fonti sonore e musicologia: alcune riflessioni studio e la conoscenza di repertori popolari ed extraeuropei, sancendo la nascita dell’etnomusicologia.19 D’altro canto gli stessi musicologi negli ultimi anni hanno lavorato alle edizioni critiche con una nuova attenzione ai risultati sonori e questo, congiuntamente alla maggiore preparazione storico-stilistica dei musicisti, ha portato ad una maggiore consapevolezza nelle scelte operate a livello esecutivo. Diversamente da un testo, che sia una partitura musicale o un trattato, la registrazione non lascia spazio all’immaginazione, ma fornisce la versione esatta dell’interpretazione di quell’esecutore o di quel compositore. E proprio grazie a questo suo aspetto si fa portatrice di informazioni di prima mano relative alla prassi. Sono un esempio le registrazioni della voce di Alessandro Moreschi. Ultimo evirato della storia, cantore e poi direttore del coro della Cappella Sistina, Alessandro Moreschi ci ha lasciato una testimonianza unica: la sua voce incisa sul disco consegnata alla storia. E noi, figli del XX secolo, grazie alla registrazione possiamo fare una salto nel tempo e ascoltare quale era presumibilmente la vocalità che ha incantato per più di un secolo nobili e regnanti di tutta Europa.20 Quindi, le registrazioni consentono allo studioso e al musicista di rendersi conto realmente del suono di un certo interprete, di come un certo compositore dirigeva le proprie musiche, informazioni che non sempre sono in linea con i gusti musicali correnti.21 In realtà l’odierna indagine musicologica non ha ancora maturato gli strumenti necessari per uno studio condotto con rigore scientifico sui più antichi documenti sonori, non ha ancora sviluppato un metodo di analisi specifico da applicare, semmai, in modo complementare alle fonti cartacee, su cui lo studioso è più abituato a lavorare. I più antichi documenti sonori avrebbero bisogno, ad esempio, di un approccio filologico per accertane la veridicità, così come accade per i documenti testuali. Non sempre, infatti, le informazioni riportate sulle copertine dei dischi sono esatte: spesso gli interpreti – cantanti, strumentisti o gli stessi direttori – non sono quelli citati.22 19 In realtà oggetto di studio della etnomusicologia non è solo la musica della tradizione popolare o dei paesi extraeuropei, ma anche il rapporto che la modernità intrattiene con i mezzi di comunicazione di massa e le nuove tecnologie della comunicazione. A riguardo cfr. Ramón PELINSKI, Etnomusicologia nell’epoca postmoderna, in Enciclopedia …, cit., vol. II, Il sapere musicale, pp. 694-717. 20 Lo stesso Farinelli aveva piena consapevolezza della caducità della propria arte. Così diceva nell’estate del 1770 a Charles Burney, parlando di Padre Martini: “Ciò che egli fa resterà; ma il poco che ho fatto io, è già dimenticato”. Cfr. Charles BURNEY, The present state of music, London, Printed for T. Becket 1773, traduzione di Corrado RICCI, in Burney, Casanova e Farinelli in Bologna, Milano, 1891, p. 20 (cit. contenuta in Luigi VERDI, Il Farinelli a Bologna. Dai primi successi alla fama internazionale del più celebre cantante italiano del Settecento, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», 2003, 2, pp. 197-237: 213). Dall’ampia letteratura sugli evirati cantori cfr. almeno Giorgio APOLLONIA, Il fenomeno della voce castrata, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», 1998, gennaio-febbraio, pp. 164-177; John ROSSELLI, Il cantante d’opera, Bologna, il Mulino, 1993, in particolare pp. 45-78. Tutte le incisioni di Moreschi sono contenute in Alessandro Moreschi. Le registrazioni originali, in Le grandi voci italiane, Fonit-Cetra, vol. 9, CDO 519 (1997). 21 Nonostante la filosofia delle “esecuzioni storiche” guidi gli interpreti nel ricreare la prassi esecutiva di epoche trascorse, non sempre trova reale applicazione praticamente. Spesso, infatti, le esecuzioni originali sono musicalmente troppo distanti dal gusto odierno. Cfr. Marcello SORCE KELLER, Cosa ci dicono sulla musica le più antiche registrazioni fonografiche, in «Musica/Realtà», XXVI (2005), 76 (marzo), pp.160-170. 22 Ibid, p. 167. 294 Grazia Carbonella Da questa breve panoramica risulta che la ricerca musicologica condotta sulle fonti musicali sonore deve tenere conto di una varietà di aspetti a seconda che si analizzi la registrazione nel suo valore documentario, come testimonianza di una prassi o di un genere – come nel caso del jazz e delle tradizioni popolari – piuttosto che nelle sue implicazioni sociali, estetiche, ideologiche, economiche. Ciascuno di questi aspetti implica un metodo e un approccio di analisi diverso, si tratta di “aspetti diversi ma che si integrano, che si devono integrare per ricostruire, per illuminare, per spiegare quell’oggetto altrettanto prismatico e multiforme che è la musica”.23 23 FUBINI, op. cit., p. 4. 295 296 Recensioni 298 Grazia Stella Elia Giuseppe De Matteis, Vincenzo Cardarelli - un sogno: lo stile assoluto* di Grazia Stella Elia Ancora una fatica, ancora un lavoro di analisi poetica, di scandaglio letterario, dopo circa venti pubblicazioni di questo infaticabile esegeta, Giuseppe De Matteis, che divide la sua vita tra l’insegnamento universitario e attività di scrittura e promozione culturale. Il volume Vincenzo Cardarelli un sogno: lo stile assoluto, il terzo sullo stesso Cardarelli, vuol essere una vera e propria “radiografia” cardarelliana e il titolo è un eloquente preannuncio al lettore, che vi troverà pagine riguardanti lo “stile” del poeta di Tarquinia: uno “stile assoluto”, un sogno realizzato. Ma procediamo per gradi. Nella prefazione l’Autore chiarisce al lettore cosa intende fare: “riguardare l’opera omnia cardarelliana, anche quella concernente il ‘critico’; considerare la ‘disordinata’ formazione intellettuale e letteraria di Cardarelli”, autodidatta sui generis e, dulcis in fundo, “assegnare a Cardarelli il posto che gli compete nella letteratura italiana della prima metà del Novecento”. Il volume è suddiviso in cinque capitoli: 1) Fortuna critica di Vincenzo Cardarelli; 2) Formazione intellettuale e letteraria di Cardarelli; 3) L’esperienza rondista e la concezione della lingua in Cardarelli; 4) Il prosatore e il critico; 5) Il poeta. Aspetti della lingua e dello stile di Cardarelli nel contesto della lirica italiana del Novecento. Nel primo capitolo ci s’imbatte in una serie di opinioni e giudizi quasi tutti positivi, qualcuno negativo, sulle opere poetiche e in prosa, espressi da notevoli critici: dal Debenedetti al De Robertis, dal Contini al Falqui, dal Solmi al Piovene, dal Ferrata al Macrì, dal Bigongiari al Mucci, dal Luzi al Sapegno e, dopo la morte, avvenuta nel 1959, le critiche di Montale, Raimondi, Anceschi, Solmi, Cecchi, Falqui, Baldini, Petroni, Bartolini, e poi ancora il pensiero di Gramsci, Montanaro, Ulivi, Pozzi, Landolfi e Moravia. Il tutto seguito dalla rassegna, sulla tanto varia opera cardarelliana, dei lavori monografici del Romani, della Risi, della Parra Cristadoro, del Fuselli e infine del Grasso. Il secondo capitolo, Formazione intellettuale e letteraria di Cardarelli, partendo dalla difficile infanzia alla stazione ferroviaria, sede di lavoro del padre di *Giuseppe DE MATTEIS, Vincenzo Cardarelli - un sogno: lo stile assoluto, Foggia, Leone Editrice, 2004. 299 Giuseppe De Matteis, Vincenzo Cardarelli - un sogno: lo stile assoluto Cardarelli, prosegue attraverso la non meno difficile adolescenza e la iniziale formazione da autodidatta, l’attenzione rivolta al teatro, l’entrata negli ambienti letterari di Roma. Notevole incidenza ebbero, nel processo formativo del poeta, le letture di Nietzsche, Baudelaire, Rimbaud, Joice e Proust, da cui potè ricavare utili insegnamenti stilistici. Molto incideranno anche Pascal e Leopardi e, dopo la composizione dei Prologhi, sarà letterato di professione e si stabilirà a Roma. L’impegno va di pari passo con il progresso e i suoi libri vanno inseriti “nel repertorio delle prose liriche”. Gli anni della senilità coincidevano con “una solitudine uggiosa, ‘compatta’ e amara”. Si passa al terzo capitolo con l’esperienza de «La Ronda», che ebbe una parte decisiva “nello svolgimento dell’arte cardarelliana”. Cardarelli, con gli altri rondiani, dileggiava Pascoli, esaltando Leopardi e Manzoni. È lo Zibaldone a fargli intendere che “eleganza” è “sinonimo di personalità e originalità”. Il quarto capitolo, Il prosatore ed il critico, passa in rassegna le opere del Cardarelli, dai Prologhi ai Viaggi, ad Addio, Liguria, alle Favole della Genesi, a Il sonno di Noè, a Le memorie della mia infanzia, in cui si riscontra già la prosa più alta del Cardarelli, con un “classicismo” che sa di leopardiano. Il Sole a picco (1929) è l’opera della “raggiunta fermezza di linguaggio e di stile”, come afferma il De Robertis; qui si leggono pagine autenticamente autobiografiche, come pure in Lettere mai spedite: autobiografia e confessione. Quelle di Viaggio d’un poeta in Russia (giornalista dell’ “Avanti”) sono pagine, come dice il Falcui, di “una prosa altamente virile nella dolcezza stessa della sua malinconia”. Passando al Cardarelli critico (aspetto scarsamente considerato da altri critici), il De Matteis esplicita chiaramente l’intento cardarelliano di vedere, in ogni opera, l’uomo più che l’artista, esprimendo il giudizio con oggettiva “incorruttibilità”. Egli fu, inoltre, vero, autentico critico teatrale, lui che credeva nella “malattia” del teatro. E siamo al quinto ed ultimo capitolo: Il poeta. Aspetti della lingua e dello stile di Cardarelli nel contesto della lirica italiana del Novecento. Cardarelli non appartiene alla corrente ermetica; egli “rimane integro, con tendenza al discorsivo e al prosastico”. Il poeta descrive, racconta e intanto, scavando in sé, si ritrova a raccontarsi, come nei versi che incontriamo nelle pagine di questo volume, intelligentemente scelti a dimostrazione della bellezza profonda della poesia cardarelliana, nata da un’appassionata attenzione alla poetica leopardiana, mutatasi in lezione di stile. Secondo Cardarelli “scrivere bene è scrivere trasparente”. Cardarelli amava i dialetti, rammaricandosi di non averne uno tutto proprio. L’anelito alla precisione fu una sua prerogativa costante: non cessava, infatti, di rivedere le proprie composizioni, al fine di effettuare cambiamenti utili alla mag300 Grazia Stella Elia giore “evidenza e chiarezza espressiva” oltre che ad una maggiore essenzialità e immediatezza. Il nostro Autore fa un’attenta disamina del lavoro letterario di Cardarelli, tirando in ballo, per confronto e differenze, Montale, Saba, Pavese e Tomasi di Lampedusa, per giungere ad affermare che il poeta di Tarquinia è “classico” per la sua “preziosa ed elegante dignità” ed è “moderno” nel desiderio, comune ai poeti nuovi, di “confessare, attraverso il dialogo e la comprensione degli uomini”. Un valido, importante tassello - questo lavoro del De Matteis - da inserire a buon diritto nel mosaico sempre incompiuto degli studi cardarelliani. 301 302 Domenico Grassi Luigi Paglia e i suoi due volumi su Giuseppe Ungaretti* di Domenico Grassi I due volumi di Luigi Paglia appaiono in un rapporto di complementarità e di interscambio, in quanto Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio completa la presentazione del contesto storico e culturale che nell’Urlo e lo stupore si ferma al 1919, in coincidenza con l’uscita dell’Allegria di naufragi, e dilata anche l’essenziale bibliografia critica relativa alle prime pubblicazioni ungarettiane e, d’altra parte, dà per acquisito il ricco armamentario analitico dispiegato nella precedente monografia. Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio, inoltre, riproduce nella loro integrità e completezza le otto prose, dedicate a Foggia e alla Daunia da uno dei più grandi poeti del Novecento. “L’itinerario dauno tracciato dal poeta - come afferma Paglia - assume la particolare strutturazione della circolarità e della concentricità, aprendosi (nella prima prosa: Il Tavoliere) e riaprendosi (nella sesta prosa: Da Foggia a Venosa) con la visione di Foggia, ed avendo il suo fuoco nella doppia immagine di Lucera (quarta e quinta prosa: Lucera, città di Santa Maria, e Lucera dei Saraceni), dopo essersi svolto nella sinuosa divagazione garganica (seconda e terza prosa: La giovine maternità, e Pasqua), per ritrovare a Caposele le fonti di quell’acquedotto (settima ed ottava prosa: Alle fonti dell’acquedotto, e L’acquedotto) di cui, con rovesciamento temporale e funzionale, si celebra nella prima prosa la conclusiva e gioiosa manifestazione”. L’elegantissimo volume, sulla cui copertina spicca l’intensa e magnetica immagine fotografica in primissimo piano di Ungaretti, si articola, secondo l’analisi di Paglia, nelle prospettive temporali e spaziali, prima delineando l’itinerario esistenziale, culturale, operativo del poeta e poi concentrandosi nell’esame delle prose di viaggio ungarettiane, veri e propri poemi in prosa, di cui sono individuati, appunto, i rapporti dialettici tra prosa e poesia, tra il racconto di viaggio e l’invenzione fantastica, tra i motivi paesaggistici e gli elementi vitali ed archetipici dell’aridità e dell’umidità, del sole e dell’acqua, del deserto e della terra ferace. * Luigi PAGLIA, Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio. Le prose daunie di Giuseppe Ungaretti, Foggia, Claudio Grenzi, 2005. Luigi PAGLIA, L’urlo e lo stupore. Lettura di Ungaretti. L’Allegria, con una testimonianza di Mario Luzi, Firenze, Le Monnier, 2003 (Quaderni della Nuova Antologia). 303 Luigi Paglia e i suoi volumi su Giuseppe Ungaretti Tali motivi, che si dispiegano nell’esplorazione dei luoghi cari al poeta, dal natio Egitto alla selvaggia Corsica, dalla ridente Campania ai “paesi d’acque” del Polesine e dell’Olanda, si concentrano in modo esemplare proprio nella Capitanata in cui alla “dialettica degli archetipi acqua-sole (e luce) si sommano la polarità natura-arte, la transizione temporale passato-presente ed il collegamento religione-storia che percorrono, incrociandosi e sovrapponendosi, tutta la trama del racconto”. Il volume si segnala anche come un insostituibile strumento bibliografico, perché presenta le più estese (e si potrebbe dire complete) bibliografie critiche ungarettiane settoriali e generale, realizzando, tra l’altro, per la prima volta un’accurata ed esaustiva ricognizione delle opere musicali ispirate alle poesie di Ungaretti (di oltre cinquanta musicisti per centinaia di composizioni) ed una registrazione dei pittori a cui il poeta ha dedicato la sua attenzione di singolare ed originale critico d’arte. L’altra monografia L’urlo e lo stupore prende il suo giusto posto accanto ai fondamentali studi ungarettiani di Cambon, Ossola, Guglielmi, Bigongiari, Giachery, Baroni, ecc., costantemente tenuti presenti (soprattutto quelli di Ossola) nell’analisi che, tuttavia, in costante dialettica con essi, presenta un taglio interpretativo originale. Il libro, che - come anticipa l’autore nella nota bibliografica - è la prima parte dello “studio su tutta l’opera ungarettiana”, costituisce la prima completa indagine testuale di tutte le poesie dell’Allegria, che, secondo la testimonianza di Mario Luzi premessa al volume, appare “una prova di lettura e di inquisizione testuale stringente, attentissima, perfino virtuosa”. Particolarmente felice appare già il titolo L’urlo e lo stupore, probabilmente esemplato sui versi di Ungaretti: “Ma le mie urla feriscono come fulmini” (Solitudine) e “il limpido stupore dell’immensità”, che prospetta i due versanti, pertinentemente esaminati dallo studioso, della poesia dell’Allegria: appunto la violenza espressionistica (che richiama l’urlo di Munch), suscitata dalla partecipazione emotiva dell’io lirico alle vicende ed allo strazio della guerra e dell’esistenza umana, e, d’altra parte, lo stupore cosmico e la comunione con l’universo. Le due dimensioni e polarità predette sono inoltre collegabili, come puntualizza Paglia, alle due correnti poetiche nell’ambito delle quali si realizza la poesia dell’Allegria: quelle dell’Espressionismo e del Simbolismo la cui dialettica, o interazione, appare come il “connotato esemplare e caratterizzante” dell’operazione poetica ungarettiana. Le poesie ungarettiane sono esaminate con una metodologia di indagine stratigrafica sincronica, che si riferisce ai vari livelli testuali, da quelli del significante a quelli del significato, ma anche diacronica, che riguarda le famose “varianti” (pp. 61-184), ed è corredata da una puntuale bibliografia critica sull’Allegria. La lettura testuale è preceduta da un discorso globale sulla raccolta ungarettiana che è accuratamente contestualizzata dal punto di vista storico-culturale (pp. 1-28) e di cui “sono indagate le strutture portanti, le articolazioni logico-semantiche, simbolico-archetipiche, linguistico-metaforiche e spazio-temporali” (pp. 2560). 304 Domenico Grassi Sulla scorta di un preciso collegamento intertestuale e del quadrato semiologico di A. J. Greimas, viene individuato il sistema semantico dell’Allegria, i cui “assi semici - come precisa Paglia - si stabiliscono sulle relazioni di contrarietà guerrapace e vita-morte, legate alle situazioni vissute e sofferte dall’io lirico e che trovano la loro folgorante espressione in testi capitali dell’esperienza poetica novecentesca come Soldati o San Martino del Carso”. La dialettica dell’Allegria, inoltre, si articola nelle polarità del biologico e dello spirituale, della sicurezza e della precarietà (come in Vanità e in Soldati), della parola poetica (come nella poesia Il Porto sepolto) e della comunione con la natura (come nei Fiumi), della fraternità umana (come in Fratelli) e dell’amore universale e della comunione cosmica (come in Mattina) e divina (Preghiera). Questi nuclei tematici e semantici trovano il puntuale rispecchiamento e la proiezione nell’organismo archetipico-simbolico, individuabile nell’Allegria, organizzato “in modo quadripartito sui piani superiore (archetipi del cielo, del sole, della luce) ed inferiore (archetipi della terra, della vegetazione, dell’acqua e della notte) e sul versante positivo, della vitalità o fecondità (del sole e della terra) e su quello negativo della distruttività (sole calcinante e terra desolata)”. La “concentrazione linguistica” e la “dilatazione del senso a livello metaforico-semantico”, mediante “lo scavalcamento dei campi metaforici e l’interconnessione figurale”, rappresentano –nell’analisi di Paglia- i due connotati esemplari della raccolta ungarettiana. Nella quale penetrante e suggestiva appare anche l’individuazione della dimensione temporale del “presente dilatato” in cui “si realizza la compresenza degli eventi del passato nell’espansione del presente (col blocco frequente della proiezione del futuro)” per la cui definizione vengono utilizzate la prospettiva dello spazio-tempo di Einstein, le illuminazioni di Bergson e della psicologia contemporanea: di F. Kummel, di D. E. Schneider e di E. Minkowski, e inoltre della sociologia di S. Kern che parla della “fenomenologia della vita di trincea”, connessa alla situazione traumatica della guerra. Fondamentale appare anche nell’analisi di Luigi Paglia, “così minuziosa, attenta, acutissima, preziosa per la complessità dei punti di vista”, secondo il giudizio di Barberi Squarotti, l’identificazione della prospettiva spaziale o topologica, mutuata da Jurij M. Lotman, dello spazio interno (o IN) e dello spazio esterno (o ES) sulla cui alternanza sono articolate quasi tutte le poesie dell’Allegria, come appare emblematico in C’era una volta, in cui “l’atteggiamento psichico che era orientato nel senso dell’allontanamento (dall’ES all’IN), in Natale, invece appare fermato nel cuore della casa, nella posizione di centralità (IN), con l’assoluta chiusura verso l’ES, che appare pericoloso, nemico, quasi una trasposizione della guerra”. 305 306 Gli autori 308 Gli autori Edoardo Beccia è nato a Troia il 3 agosto 1953, dove vive e lavora. Si è laureato preso l’Università “La Sapienza” di Roma in Medicina e Chirurgia. È impegnato nella vita politica fin dal 1980, quando venne eletto Consigliere comunale presso il Comune di Troia nelle fila della Democrazia Cristiana, partito nel quale ha ricoperto anche la carica di Capo gruppo. È stato eletto una prima volta sindaco nel 1986 e ancora Consigliere dal 1989 al 1998. Nel 1999, eletto con una lista civica, è stato nominato vice sindaco, incarico ricoperto sino al 2004. È stato eletto sindaco nel giugno 2004 a capo della lista civica “I Troiani”. La Giunta Beccia ha attuato il P.U.G. e realizzato una serie di opere infrastrutturali. Particolare attenzione è stata riservata alla cultura e al settore dei servizi sociali: sono operanti l’Università della Terza Età, l’A.D.I. e la ludoteca con il progetto “Crescere Insieme”. Dopo un lungo lavoro con la Diocesi, l’8 luglio 2006 è stato inaugurato il Museo Del Tesoro della Cattedrale con tutti i servizi turistici e logistici connessi, progetto denominato “Daunia Vetus”. Daniele Brunetti si è laureato cum laude e plauso della commissione in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Bari nel 1998. Si è specializzato cum laude sempre a Bari in Cardiologia nel 2002. Nel 1997 ha fatto uno stage presso la Cardiolgia Universitaria dell’ “Eberhard Karls” Universität di Tübingen (Baden Württemberg, Germania) e nel 1998 uno stage presso la Cardiologia Universitaria del “Carolinska Institutet” di Stoccolma. Ha conseguito il dottorato di ricerca in “Fisiopatologia e clinica dell’apparato cardiovascolare e respiratorio” presso l’Università degli Studi di Foggia il 22/02/2006. Ha svolto attività in ambito di emodinamica diagnostica ed interventistica dal 2000. Ha all’attivo 47 pubblicazioni su riviste scientifiche («International Journal of Cardiology», «European Herart Journal Suppl», «Italian Heart Journal»). Dal luglio 2005 è in servizio presso l’U.O. Cardiologia Universitaria Ospedali Riuniti di Foggia. Antonio Bucz è nato a Torremaggiore nel 1951. Si è laureato con lode in Sociologia presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma nel dicembre 1975 con una tesi sulla organizzazione dei servizi sociali, relatore il prof. Giovanni Berlinguer. Si occupa di ricerche sociali nell’ambito dei consultori familiari, dove lavora dal 1° marzo 1976 inizialmente a Torremaggiore ed attualmente a San Severo. 309 Gli autori Ha partecipato come ricercatore alla prima indagine nazionale sui malati di sclerosi multipla per conto dell’AISM. Ha collaborato con il CENSIS ad una indagine nazionale sui servizi socio-sanitari in tre aree campione. Con l’Istituto Superiore di Sanità ha collaborato ad indagini nazionali sulla gravidanza ed il puerperio. Insegna Sociologia Generale presso l’Università degli Studi di Foggia - sede decentrata di San Severo – nel corso di laurea in Infermieristica. Ha pubblicato articoli e lavori specifici sui consultori familiari. Si interessa di storia locale ed ha pubblicato alcuni volumi. Scrive racconti. Grazia Carbonella nasce a S. Giovanni Rotondo il 25 maggio 1974. Dopo la maturità classica, consegue il diploma di chitarra presso il Conservatorio di musica “Umberto Giordano” di Foggia. Nel 1997 si laurea in Storia della musica presso la facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma, con la tesi L’uso del basso ostinato nella musica italiana del Seicento, relatore il prof. Pierluigi Petrobelli. Nel 1999 frequenta il corso di perfezionamento in “Filologia musicale” organizzato dalla Fondazione Rossini di Pesaro e nel 2000 il corso di “Iconografia musicale” organizzato dalla Fondazione Italiana per la Musica Antica di Urbino. Nel 2001 segue il corso regionale “Esperto in tecnologie di sistemi multimediali” presso la KnowK. di Foggia. Dal 2002 collabora con la cooperativa “Mediateca 2000” per la catalogazione dei documenti sonori della Biblioteca Provinciale di Foggia. È giornalista pubblicista. Antonio D’Alessandri ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle dottrine politiche presso l’Università Roma Tre, dove collabora come cultore della materia con la cattedra di Storia dell’Europa orientale della Facoltà di Scienze politiche. Si occupa di storia politica e culturale dei Balcani in età moderna e contemporanea. È autore di diversi contributi apparsi in riviste scientifiche, membro dell’Association internationale d’études du Sud-est européen (AIESEE), nonché collaboratore della Nuova rivista storica di Milano. È in corso di pubblicazione la sua monografia sulla scrittrice e intellettuale romena Dora d’Istria (1828-1888). Domenico Della Martora è nato a Foggia nel 1957. Ha conseguito la laurea in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Bari nel 1984. È stato docente di Economia aziendale e materie giuridiche presso diversi istituti tecnici e corsi di formazione professionale post-diploma. Ha svolto la professione di commercialista e revisore dei conti. Attualmente è dirigente sindacale provinciale e regionale. Presta servizio presso l’Amministrazione provinciale di Foggia in qualità di responsabile del servizio previdenza. Filomena Della Valle si è laureata in Lingue e letterature straniere nel 2004 presso l’Università degli Studi di Chieti-Pescara, con la tesi La fortuna critica del Leopardi degli ultimi cinquant’anni. 310 Gli autori Giuseppe De Matteis è nato ad Alberona. Ha insegnato presso le scuole superiori di Foggia e di Bari prima di passare all’Università di Pisa come docente di Lingua e Letteratura Italiana sino al 1986. Da quell’anno si è trasferito a Pescara dove gli è stata affidata la cattedra di Storia della critica letteraria e contemporaneamente, la supplenza di Lingua e Letteratura Italiana, insegnamento che attualmente continua a svolgere presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti in qualità di Titolare. Collabora a varie riviste letterarie nazionali: («Galleria», «Italianistica», «Studium», «Esperienze Letterarie», «Aevum», «Opinioni», «Merope», «Proposte», ecc...). Ha pubblicato numerosi volumi, tra i quali: Cultura e poesia di Vincenzo Cardarelli (1971), Critica, poesia e comunicazione (1978), Il nomade illuso: letture e sondaggi carducciani (1983), Dittico pirandelliano (1989), Ragioni e certezza della poesia (1990), La narrativa di Italo Calvino (1991), protagonisti della cultura letteraria meridionale (1993) e l’ultimo in ordine di tempo: Istanze della narrativa italiana contemporanea (2002). Nel 1985 gli è stato conferito il Premio della cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. È membro della “Società di Storia Patria per la Puglia” e della “Società Dauna di Cultura”. Ha svolto e svolge numerose iniziative di carattere culturale a Foggia, in provincia, a Chieti, a Roma e a Pisa. Ha organizzato e curato da vari anni molti convegni nazionali di letteratura, tra i quali si ricordano tre convegni su Leopardi, uno su Pietro Giannone e un convegno di carattere internazionale sul tema: Dante in lettura. Matteo Di Biase è nato a Canosa di Puglia il 27/02/1947. Si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1971 presso l’Università degli Studi di Bari ed ha conseguito, sempre a Bari, la specializzazione in Cardiologia nel 1974 ed in Radiologia e Radioterapia nel 1979. La sua formazione cardiologia si è svolta presso la Clinica Cardiologia dell’Università di Montpellier (Francia) per un anno e presso l’Ospedale Hammersmith di Londra per sei mesi. Ha svolto la sua Carriera Clinica presso l’Istituto di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare dell’Università degli Studi di Bari. È autore di 281 lavori a stampa. È Professore Associato di Cardiologia presso l’Università degli Studi di Bari dal 1988 e presso l’Università degli Studi di Foggia dal 2001 al 2002; è stato Professore Ordinario di Cardiologia presso l’Università degli Studi di Foggia dal 2002 al 2005. Dal Maggio 2005 a tutt’oggi è Professore Ordinario di Cardiologia presso la Università degli Studi di Foggia. È direttore, dal 10/11/1997, Direttore dell’Unità Operativa Universitaria di Cardiologia presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti” di Foggia. Dal 2000 è Direttore della Scuola di Specializzazione in Cardiologia dell’Università degli Studi di Foggia. Inoltre, è coordinatore del Dottorato di ricerca in Fisiopatologia e Clinica dell’Apparato Cardiovascolare e Respiratorio dal 2002 e da giugno 2005 a tutt’oggi è Pro-Rettore dell’Università degli Studi di Foggia. 311 Gli autori Grazia Stella Elia è nata e vive a Trinitapoli (Fg). Ha insegnato per molti anni, trasmettendo ai suoi alunni l’amore per la poesia e per il teatro. Si è impegnata sin da giovanissima nello studio del suo dialetto (“casalino”). Collabora con saggi, articoli e recensioni a vari giornali e riviste. Ha pubblicato: Nostalgia di mare (poesie in lingua), prefazione di Pasquale Matrone, Foggia, Editrice Apulia, 1985; I racconti del focolare (narrativa folklorica), prefazione di Daniele Giacane, Foggia, Leone Ed., 1988; Il cuore del paese (scritti popolari nel dialetto di Trinitapoli), prefazione di Daniele Giacane, Foggia, Leone Ed., 1990; La sapienza popolare a Trinitapoli (paremiologia), prefazione di Vincenzo Valente, Fasano, Schena, 1995, Le opere e i giorni della memoria (racconto in versi di mestieri estinti o in via di estinzione), Bari, Ed. La Vallisa, 1996, Versi d’azzurro fuoco (canzoniere d’amore in lingua italiana), prefazione di Grazia Distaso, Foggia, Bastogi, 1997; Paràule pèrse ( raccolta di poesie in vernacolo casalino), prefazione di Vittoriano Esposito e Pietro Sisto, Foggia, Bastogi, 1999. Michele Finelli (Massa, 1972), sta svolgendo il Dottorato di Ricerca in “Storia e sociologia della modernità” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Pisa, con un progetto di ricerca sulla conservazione della memoria mazziniana in Italia. Già autore di due saggi su Mazzini, Il Prezioso Elemento. Giuseppe Mazzini e gli emigrati italiani nell’esperienza della scuola italiana di Londra, Rimini, Pazzini, 1999 ed Il monumento di carta. L’Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini, Pazzini, Rimini, 2004, e di uno sul IX febbraio, La Memoria, la Storia, l’Attualità, Forlì, UIL, 2004, sta curando la redazione su supporto informatico dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini in collaborazione con la Commissione editrice degli Scritti di Giuseppe Mazzini e la Domus Mazziniana di Pisa. Si interessa anche alla storia d’Italia nel periodo post-unitario, con particolare sensibilità verso gli aspetti relativi alla costruzione dell’identità nazionale. Redattore della rivista il «Pensiero Mazziniano», ha pubblicato saggi su «Memoria e Ricerca», «Il Risorgimento» e «Storia e futuro». Recentemente è uscito, a cura del Comitato padovano per il Bicentenario Mazziniano un piccolo compendio ad uso degli studenti delle scuole medie superiori di Padova e Rovigo dal titolo Mazzini. Una vita europea. Gaetano Fuiano, Direttore generale dell’Ausl Fg/1 di San Severo, è nato a Torremaggiore (Foggia) nel 1949. È laureato in Scienze Politiche ad indirizzo politico amministrativo. Dopo aver svolto funzioni di dirigente amministrativo, con posizione apicale, nell’ex Usl Fg/1 di Torremaggiore e nell’Azienda Usl Fg/1 di San Severo è stato Direttore Amministrativo Aziendale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti” di Foggia. Nel corso della sua lunga ed intensa professione ha direttamente curato la elaborazione di regolamenti, approvati e fatti propri dalle rispettive Amministrazioni, nonché di atti di disciplina di attività sanitarie e di organizzazione del lavoro in organizzazioni sanitarie pubbliche. È’ stato 312 Gli autori docente di Diritto amministrativo, di Legislazione sanitaria e Statistica sanitaria presso Scuole pubbliche e presso l’Università degli Studi di Foggia per Infermieri ed Ostetriche. Ha approfondito e dedicato i propri studi sull’organizzazione e funzionamento delle attività sanitarie, nei tre livelli essenziali di assistenza, con particolare riferimento e ricerca sperimentale in ordine alla progettazione ed applicazione di percorsi diagnostico-terapeutici e dell’aggregazione–integrazione delle attività di questi in “Percorsi Aziendali ed Interaziendali di Cura ed Assistenza” (P.A.I.C.A), interessanti anche la integrazione sia di assistenza sociale (nei Piani di Zona) e sia delle attività assistenziali della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Università degli Studi. Ha personalmente elaborato e presentato una proposta di atto di intesa tra la Regione Molise e l’Università Cattolica del “Sacro Cuore” Policlinico “A.Gemelli” di Roma, per l’organizzazione interna e per l’attività assistenziale sanitaria del Centro di alta tecnologia e di assistenza sanitaria, di ricerca in Campobasso. Domenico Grassi è ricercatore di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi Roma 3. Pantaleo Greco è nato a Roma nel 1958. Si è laureato con lode in Medicina e Chirurgia nel 1981 presso l’Università degli Cattolica di Roma e nel 1985 si è specializzato in Ginecologia ed Ostetricia presso l’Università degli Studi di Bari. È registrato a pieno titolo presso il General Medical Council di Londra dal 1986; è specializzato in Patologia della Riproduzione Umana presso l’Università degli Studi di Bari. Collabora al progetto di ricerca “HIV e gravidanza”, al progetto “Diabete e gravidanza” e al progetto “Intrauterine stem cell transplantetion for correction betathalassemia major in the fetus”. È segretario nazionale della Società Italiana di Medicina Perinatale dal 1998, segretario nazionale della Società Italiana di Gineco-Patologia dal 1999, ed è professore ordinario a tempo pieno della cattedra di Ginecologia ed Ostetricia dell’Università degli Studi di Foggia. Autore di oltre 350 pubblicazioni scientifiche, di cui 100 peer-reviewed su riviste straniere con referee. Attualmente è direttore dell’Unità Operativa (struttura complessa) di Ostetricia e Ginecologia Universitaria dell’Azienda Ospedaliera Mista – Ospedali Riuniti di Foggia. Ugo Indraccolo è nato nel 1976 e si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 2001 con la tesi sperimentale L’elettrocardiogramma fetale: nuova metodica di monitoraggio fetale intrapartum. È membro dell’Ordine dei Medici della sezione di Macerata. È al momento al V anno di specializzazione in Ginecologia ed Ostetricia presso la Scuola di specializzazione in Ginecologia ed Ostetricia della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Perugia e collabora con la Ginecologia ed Ostetricia Universitaria dell’Università di Foggia. Giuliana Limiti è nata il 30 gennaio 1930 a Roma dove risiede. È consulente storico-archivistico del Presidente della Repubblica, Sovrintendente Onorario al313 Gli autori l’Archivio Storico della Camera dei Deputati, Presidente Onorario degli Archivi Storici Parlamentari in seno al Consiglio Internazionale degli Archivi. È stata professore di educazione comparata alla III Università di Roma, Presidente del Comitato educazione della Commissione nazionale dell’UNESCO, Presidente dell’OME (Organizzazione Mondiale per l’Educazione Prescolare) – Italia, Presidente dell’Associazione italiana “Janusz Korczak”, Presidente della Mazzini Society. Per i suoi lavori scientifici e storici è stata insignita del più alto riconoscimento culturale della Repubblica Ceca e Slovacca, la medaglia d’oro comeniana e dallo Stato italiano della medaglia d’oro per i benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte. Inoltre, è stata la coordinatrice dei disegni dei bambini di Terezin e la prima promotrice della loro conoscenza mondiale nel campo educativo e psicologico. È all’avanguardia per la difesa dei diritti dei bambini e per la deontologia e preparazione culturale del personale docente. Ha fatto conoscere sul piano scientifico il messaggio e la figura di Janus Korczak di cui ha pubblicato i testi in lingua italiana nella collana da lei diretta per le edizioni Luni di Milano. Ha organizzato e coordinato il Convegno mondiale su Margaret Fuller, grande scrittrice e giornalista americana che contribuì a far conoscere la Repubblica Romana del 1849 agli Stati Uniti d’America e collaborò con Giuseppe Mazzini, triumviro della stessa. Inoltre ha guidato una ricerca mondiale su Ralph W. Emerson e il trascendentalismo americano. Negli Stati Uniti ha promosso la conoscenza di Dante Alighieri, di Giuseppe Mazzini e della tradizione religiosa della democrazia europea. La Fondazione SHOAH di Los Angeles l’ha considerata degna di una intervista come persona appartenente ai Giusti per aver salvato ebrei durante il periodo fascista e nazista. Fa parte del Comitato Nazionale per le onoranze del bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini. Continua la sua funzione di Consulente Storico Archivistico del Presidente della Repubblica e come studiosa apprezzata unanimemente nella storia dell’educazione e della identità italiana ed europea. È stata chiamata il 18 giugno 2003 a pronunziare il discorso ufficiale su Carlo Cattaneo in occasione dell’inaugurazione del suo busto tra i grandi italiani alla Camera dei Deputati, alla presenza del Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Angelo Manuali è nato a Cagli (Pesaro) il 12 ottobre 1935. A sei anni si trasferisce con la famiglia in provincia Caserta. prima a Sant’Angelo d’Alife e poi a Piedimonte d’Alife (ora Piedimonte Matese). Nel 1935, a seguito di un ulteriore trasferimento, va a vivere a Foggia, dove consegue la maturità classica. Compie gli studi universitari a Napoli laureandosi in Giurisprudenza. Nel frattempo adempie gli obblighi di leva come ufficiale dei Bersaglieri. Congedatosi, nel 1960 trascorre un periodo a Roma dove svolge la pratica e consegue l’abilitazione all’insegnamento in Materie Giuridiche ed Economi314 Gli autori che. Nel 1961 rientra a Foggia e inizia l’attività forense abbinandola all’insegnamento. Nel frattempo si sposa e ha due figlie. Nel 1979 rileva la casa editrice Bastogi di Livorno dandole nuovo impulso, ampliandone il catalogo e l’attività, soprattutto nel campo letterario. Autore di un romanzo e di undici raccolte di poesie, Angelo Manuali ha avuto numerose attestazioni critiche e vari premi letterari. Maria Grazia Lenisa ha pubblicato su di lui il volume di critica La poesia di Angelo Manuali. Maria Matteo è nata a Bari nel 1970; si è laureata in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Bari nel 1994, conseguendo la specializzazione in Ginecologia ed Ostetricia nel 1999. Attualmente è dirigente medico di I livello presso l’Unità Operativa di ginecologia ed Ostetricia Universitaria degli Ospedali Riuniti di Foggia, diretta dal prof. Pantaleo Greco; inoltre, è co-responsabile del servizio di Endoscopia Diagnostica ed Operativa, presso la suddetta struttura. È socia dell’European Society of Human Reproduction and Embryology (ESHRE), della Società Italiana di Fertilità e Sterilità e Medicina della Riproduzione, della Società Italiana di Endoscopia e Laserterapia ginecologica, nonché della Società Italiana di riproduzione (Sidr). Ha partecipato come relatore a numerosi congressi in Italia e all’estero; è coautrice di pubblicazioni su riviste italiane e straniere. Dionisio Morlacco, socio ordinario della “Società di Storia Patria per la Puglia”, è impegnato da anni in studi e ricerche che illustrano figure, aspetti e momenti del vario e plurisecolare patrimonio di storia e di civiltà di Lucera, sua città natale. Nella sua ampia bibliografia, oltre alla assidua collaborazione a giornali e riviste d’ambito locale («la Capitanata», «Fortore», ecc.) e nazionale («Archivio Storico Pugliese», «Rassegna Storica del Risorgimento»), si evidenzia la pubblicazione di saggi e monografie di argomento storico e di recupero delle tradizioni locali, che se pur si ascrivono al filone della cosiddetta “storia minore” (Fiere e mercati a Lucera, 1987; Le mura e le porte di Lucera, 1987; Pozzi cisterne e spacci per la sete di Lucera, 1991; Bazar Tripoli, 1995; Toponomastica di Lucera, pubblicata su «Il Centro», Dimore gentilizie a Lucera, 2005), costituiscono pur sempre il substrato (indispensabile) della grande storia, alla quale più direttamente l’autore perviene con i suoi accurati profili biografici dei Parlamentari lucerini (dal Parlamento del Regno d’Italia alla Repubblica), tra i quali si ricordano quelli di Ruggero Bonghi, di Giandomenico Romano, di Antonio Salandra, ed ancor più quello di Riccardo Del Giudice, in corso di stampa. Ciro Mundi è nato a Foggia. Ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia all’Università Cattolica di Roma. Si è specializzato in Neurologia all’Università di Bari. Attualmente è direttore della Struttura complessa ospedaliera di Neurologia dell’Azienda Ospedali Università di Foggia. 315 Gli autori Costanzo Natale si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Napoli nel 1962. Ha conseguito la specializzazione in Chirurgia nel 1967 e quella in Chirurgia toracica nel 1969. Dal 1979 è Primario di Chirurgia generale presso gli Ospedali Riuniti di Foggia. Ha ricoperto più volte l’incarico di docente sia presso l’Università degli Studi di Bari, che presso l’Università degli Studi di Foggia. Vastissima l’attività scientifica; attualmente è in corso uno studio sui risultati della linfectomia D/2 D/3 nel trattamento del cancro gastrico; inoltre, è in corso uno studio di biologia molecolare e di immunoistochimica sui tumori colonrettali. È membro del comitato scientifico delle seguenti riviste: «La Chirurgia Toracica» (SEROS, Roma); «Archivio Casa Sollievo della Sofferenza»; «Acta oncologica» (Piccin, Padova); «Il Giornale di Chirurgia» (CIC Edizioni Internazionali, Roma); «European Journal of Oncology» (Casa Editrice Mattioli, Milano). Luigi Nappi è nato a Ferrara nel 1967. Si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1993 presso l’Università degli Studi di Bari. Nel 1998 ha conseguito, sempre a Bari, la specializzazione in Ostetricia e Ginecologia presso l’Istituto di Clinica Ostetrica e Ginecologia II. È membro dell’Editorial Staff dell’Italian Journal of Gynaecology & Obstetrics; nel 1999 è stato nominato membro dell’International Scientific Committee dell’European Association of Gynaecologists & Obstetricians e dell’ European Board and College of Gynaecology and Obstetrics (EAGOEBCOG). Dal 2000 è corrispondente straniero per l’Italia dell’European Journal of Obstetrics and Gynaecology & Reproductive Biology. È autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche pubblicate su riviste nazionali ed internazionali. Maria Nobili è nata a Foggia, dove ha conseguito la maturità scientifica. Si è laureata in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Roma e si è specializzata in Chirurgia generale, Anestesia e rianimazione e Chirurgia pediatrica. È dirigente medico della Struttura complessa di Chirurgia pediatrica ospedaliera di Foggia. Ha partecipato a convegni e congressi nazionali e regionali, relazionando sull’attività chirurgica della struttura. È impegnata nel volontariato come presidente del gruppo comunale AIDO di Foggia, dedicandosi alla cultura della donazione degli organi per trapianti. Luigi Paglia svolge la sua ricerca soprattutto nel campo della Letteratura contemporanea. È docente di “Laboratorio di scrittura” nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Foggia. Ha anche insegnato “Scienze dell’Informazione” e “Metodologia e critica letteraria” nella Scuola di specializzazione per laureati dell’Università di Bari. Ha, inoltre, partecipato al Progetto nazionale R.eT.E. del Ministero della P.I., per l’introduzione delle tecnologie informatiche nella didattica dell’Italiano, in qualità di Formatore-Tutor. Ha pubblicato in volume: Invito alla lettura di Marinetti, Milano, Mursia, 1977; Poeti in Puglia, in AA.VV., Inchiesta sulla poesia, Foggia, Bastogi, 1979; Luzi, in AA.VV., Poesia italiana del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1993; Ungaretti, 316 Gli autori in AA.VV., Letteratura italiana ed utopia, Roma, Editori Riuniti, 1995; L’ incendio della terra a sera, in Studi in onore di Michele Dell’Aquila, Pisa, I.E.P.I., 2003; L’urlo e lo stupore. Lettura di Ungaretti. L’Allegria (con una testimonianza di Mario Luzi), Firenze, Le Monnier, 2003; Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio. Le prose daunie di Giuseppe Ungaretti, Grenzi, Foggia. Ha collaborato con le più qualificate riviste letterarie («Vita e pensiero», «Rapporti», di cui è stato membro della direzione, «Paragone-Letteratura», «Otto/Novecento», «Annali dell’Università di Roma La Sapienza», «Critica letteraria», «Lingua e Stile», «Nuova Antologia», «Strumenti critici», «Rivista di Letteratura italiana», «Quaderni di didattica della scrittura», «Forum Italicum», «Italica», «Giornale storico della letteratura italiana», ecc…) con saggi e studi su Dante, G. Ungaretti, T.S. Eliot, G. Grass, C. Wolf, M. Luzi, L. Pirandello, U. Betti, ecc… Giuseppe Rinaldi è nato a Foggia il 31/03/1939. Si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Roma “La Sapienza” nel 1964; nello stesso Ateneo ha conseguito le seguenti specializzazioni: Pediatria nel 1967, Puericultura nel 1968, Neonatologia nel 1973. Nel 1969 è stato assunto dagli Ospedali Riuniti di Foggia in qualità di Assistente medico presso la divisione di Pediatria; nel 1974 è stato inquadrato nella posizione funzionale di Aiuto medico presso la Sezione Neonatale-Immaturi aggregata alla Divisione di Pediatria degli Ospedali Riuniti di Foggia. Dal 1980, a seguito della trasformazione della suddetta Sezione Neonatale-Immaturi in Sezione autonoma prima e in Divisione di Patologia e Terapia Intensiva poi, ricopre ininterrottamente il ruolo di Primario di detta Divisione. Nel 2004 ha conseguito la carica di Direttore del Dipartimento Materno-Infantile che tuttora riveste. È stato membro di numerose Società medico-scientifiche ed è componente dei correttori della rivista «Neonatologia». Ha organizzato numerosi congressi scientifici, convegni monotematici e corsi di aggiornamento, sia a carattere nazionale che regionale. Ha partecipato a Congressi nazionali ed internazionali in campo pediatriconeonatologico, come relatore e/o moderatore, producendo circa 200 pubblicazioni scientifiche. Piergiorgio Rosenberg è nato a Foggia nel 1981; si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 2005 presso l’Università degli Studi di Foggia. È iscritto al I anno della Scuola di specializzazione in Ginecologia ed Ostetricia dell’Università degli Studi di Foggia. Sabina Stefania Samele, nata e residente a Foggia, si è laureata in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Bari con una tesi sperimentale in Storia economica. Dopo aver collaborato come assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Storia Economica della Facoltà di Economia dell’Università di Bari, attualmente è dottoranda di ricerca in “Analisi e storicizzazione dei processi produttivi” presso la stessa facoltà. Nell’ottobre del 2004 è intervenuta al Seminario di studi “Amministrazione e società in Capitanata nell’età della destra storica” orga317 Gli autori nizzato dal Centro di Ricerca e di Documentazione per la Storia della Capitanata, con la relazione Collegamenti e rete viaria in Capitanata dopo l’Unità. Dal 2004 è cultrice della materia in “Storia economica” ed “Economia politica” presso la Libera Università “S. Pio V” di Roma. Maria Teresa Santelli, nata a San Severo nell’ormai lontano 1943, ha con la sua terra un forte legame di appartenenza. Ma altrettanto forte è il sentimento che la lega al “S. Altamura”, Istituto Tecnico in cui ha insegnato per venticinque anni. Gli anni della sua piccola, personale rivoluzione. Importante per lei l’incontro con il professor Antonio Brusa. Seguendo le sue indicazioni metodologiche, ha elaborato programmazioni, test ed unità didattiche in relazione all’insegnamento della Storia. Ne sono un esempio: Ma cos’è questa storia su “Contro-verso” n°17 , Benvenuti al biennio su «I viaggi di Erodoto» Quaderno n°2 e «Il Foglietto» in Quaderni di didattica della Storia, prima pubblicazione del Laboratorio storico di Foggia di cui è tra i soci fondatori. Nell’ambito di questa associazione culturale, per suo espresso desiderio, è in atto una ricerca finalizzata al recupero della tradizione femminile, tradizione intesa come “continuità tramandata con un esplicito atto di volontà” (Hannah Arendt, Tra passato e futuro). Relatrice in alcuni incontri volti a cogliere lo sguardo femminile sul mondo, nel racconto Le compagne del 23 marzo 1950 a San Severo mette in evidenza il ruolo delle donne in un episodio di ribellione popolare che le ha viste protagoniste e non figure marginali dell’evento. All’attivo, oltre ad articoli riportati in alcuni numeri di codesta rivista, racconti e versi inseriti in pubblicazioni de “La Merlettaia” ed un breve racconto, E, se…, da lei pubblicato nel 1999. Gaetano Schiraldi è nato a Lucera e attualmente è studente di Teologia presso il Pontificio Seminario Regionale “Pio XI” di Molfetta (Bari). È membro aggregato della Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Lucera-Troia – e Subappennino; è membro della Commissione Storica per la Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Don Alesandro di Troja. Ha pubblicato la prima guida scientifica sul Duomo di Lucera (Il Duomo di Lucera. 700 anni di storia, Lucera, 2005). Ha in attivo articoli apparsi sull’ «Archivio Storico Pugliese» (L’Ordine Templare ad Alberona, LVIII (2005), pp. 279-295), sulla rivista «Arte Cristiana» della Scuola del Beato Angelico (Il Nymphios della Cattedrale di Lucera: appunti storici e lettura teologica dell’affresco, di prossima pubblicazione). È in corso di pubblicazione il volume La devozione di Lucera a Santa Maria e la Storia di Alberona. Dalle origini al XIX secolo. Collabora mensilmente con il giornale «La Diocesi», con il «Fortore» e con il «Bollettino Diocesano della Diocesi di Lucera-Troia». 318 Gli autori Carmen Sferruzzi Siniscalco (Asti 1970) è Cultore della Materia presso la cattedra di Storia del Risorgimento, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Salerno. Ha pubblicato diversi articoli sul delicato passaggio del Regno di Napoli dalla feudalità alla gestione borghese. Bruno Vivoli è nato a Foggia nel 1975. Si è laureato in Lettere moderne presso l’Università egli Studi di Foggia, discutendo una tesi in Storia moderna dal titolo Il porto di Rodi Garganico nel primo Ottocento, relatore il prof. Saverio Russo. Nel 2006 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento secondario presso la SSIS PUGLIA. 319 Finito di stampare nel mese di ottobre 2006 presso il Centro Grafico Francescano 1a trav. Via Manfredonia - 71100 Foggia tel. 0881/728177 • fax 0881/722719 www.centrograficofrancescano.it