Anno XLIV | Dicembre 2011
ORGANO DI STAMPA DELLA RICERCA CRISTCATTOLICA
“
Dio è morto
”
“Dio è morto” aveva detto Nietzsche più di un secolo
fa. Mai come in questo momento storico salta agli occhi
la Sua mancanza. Il cristianesimo ridotto a pura dottrina
ininfluente nella vita di ciascuno.
Eppure mai come in questo momento la gente sente il
bisogno di un ‘salvatore’ capace di garantirla rispetto
ad un futuro oltremodo incerto, di proteggerla da un
orizzonte su cui si addensano nubi che annunciano
tempeste non solo economiche e che mettono in risalto
la precarietà della sua esistenza. Appiattirsi sul quotidiano lasciandosi trascinare dal vortice degli eventi
senza chiedersi il perché o rinchiudersi nella cerchia
degli amici senza alzare lo sguardo sul mondo che ci circonda, sono tentazioni legittime, ma non gratificanti
per tutti coloro che si dichiarano esseri umani.
Nelle storie dell’Antico Testamento, quando il popolo
incontrava momenti di pericolo, Dio mandava i suoi profeti per ammonire, esortare, ricondurre gli uomini sulla
retta via, ma se Dio non esiste più a chi rivolgersi? L’illuminismo e il conseguente sviluppo scientifico molto si
sono prodigati per lo smascheramento dei pregiudizi e
per liberare gli uomini dalle superstizioni e dalla paura.
il dialogo
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 1
Questi movimenti hanno però condotto gli uomini verso
un sempre maggiore materialismo e al delirio di onnipotenza misurato esclusivamente sulla capacità individuale di accumulazione economica. Sparito ogni senso
di trascendenza, altri idoli hanno preso il posto di Dio e
l’altro, non più prossimo, è diventato il potenziale nemico. Negata la religione ‘oppio dei popoli’, polverizzata l’etica laica, abbattuta ogni ‘credenza’ basata su
abitudini e tradizioni, il mondo è diventato il deserto in
cui si aggirano fantasmi assetati di dominio, il dominio
inteso come strumento per confermare la propria esistenza. Giustamente gli uomini hanno voluto affrancarsi
da ogni principio di autorità sentita come soffocante già
dal cinquecento, ma sono diventati perciò più adulti e
maturi? Già nel settecento Kant aveva sostenuto che
“l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso”. Quanta strada
dobbiamo invece ancora percorrere per raggiungere la
consapevolezza di essere spiriti incarnati bisognosi gli
uni degli altri, quanto lavoro ci attende per sviluppare la
coscienza che da ben altro dipende il senso di sicurezza
e di serenità che non dall’appropriazione infinita di capitali, quanta sofferenza per capire che l’oltre è una realtà che possiamo costruire insieme attraverso il
perdono, la faticosa accettazione del diverso, la fiducia
in se stessi e negli altri e l’impegno personale e comunitario? Ma quando Cristo tornerà, troverà la fede?
Antonia Dagostino
1
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 2
il dialogo
“
Cerchiamo una religione di autorità
o siamo pronti
per una religione di chiamata?
”
Marcel Légaut, professore di matematica alle università
di Renne e Lyon, ha abbandonato questo campo di ricerca per dedicarsi alla ricerca religiosa.
Egli, da laico, distingue tra religioni d’autorità e religioni di appello (o di invito, di chiamata).
Le religioni d’autorità considerano la verità come un patrimonio soltanto da custodire, difendere. Vedono gli uomini come gregge da dominare, sottomettere. Per arrivare
più sicuramente - e senza rischi - allo scopo, si appoggiano
al potere e tendono a condizionare la società (mantenendo legami di complicità con qualsiasi autorità costituita).
Ogni cambiamento viene considerato come una minaccia
alla loro vocazione immobilista e conservatrice. Ogni dissenso eliminato, ogni critica giudicata una mancanza di fedeltà. Hanno le risposte già confezionate per qualsiasi
problema. Non devono più cercare. Si sentono incaricate
soltanto di dare, fornire, non ricevere. Detengono le chiavi,
e non hanno bisogno di farsi aprire da nessuno. Preferiscono semmai, quando è il caso, «sfondare». Il fedele viene
costruito dall’esterno (comportamenti, pratiche, regolamenti rigorosi). Viene minuziosamente indottrinato su
tutto ciò che deve fare ed evitare (moralismo, divieti, imposizione di fardelli insostenibili).
La religione di chiamata, invece, mette l’uomo in piedi,
ne fa una creatura di movimento. Si rivolge alla coscienza e sollecita la libera e gioiosa adesione degli individui. Costruisce l’uomo dal di dentro. Lo risveglia, lo
sollecita, gli apre gli occhi... e la bocca, gli dà fiducia,
stimola la sua creatività, lo responsabilizza, gli fa intravvedere le sue possibilità. Gli dice ciò che è, ciò che
può essere, ciò che è chiamato a diventare, più che ciò
che deve fare. Insomma, è una religione liberatrice.
Mentre la religione d’autorità è statica, ripetitiva, l’altra è dinamica, sempre sorprendente.
Abramo, «nostro padre nella fede», è un modello ineguagliabile di una religione d’appello.
La sua vicenda diventa lo specchio in cui sia Israele che la
Chiesa devono confrontarsi. Abramo scopre che Dio ha
l’abitudine di fuggire in avanti. Il «paese» che Dio gli indicherà è avanti, è un “dentro di sé”, non indietro. Per
cui il desiderio deve avere la meglio sul ricordo nostalgico, l’attesa anticipatrice sui mugugni o i piagnucolamenti, la fantasia sulla memoria, la speranza sulla
nostalgia, le aperture profetiche sulle recriminazioni.
Osserva Snoopy, il celebre cane dei fumetti di Charles
Schulz: «Un’intera montagna di ricordi non uguaglierà
mai una piccola speranza».
Dio è il Dio della promessa, non del rimpianto.
Dobbiamo imparare a sospirare «verso», piuttosto che
sospirare voltandoci indietro.
Il «mal di strada» deve lasciare il posto al «gusto della
strada».
Occorre smetterla di sfogliare le cipolle (come si sfoglia
2
l’album dei ricordi) per spremere qualche lacrima nostalgica. (Sarà per questo che sono allergico alle cipolle?) Le cipolle, più che farci piangere, dovrebbero
farci ridere. Il credente è uno che, come Abramo, ogni
giorno decide di incamminarsi.
Guardiamoci dentro, intorno, avanti. E’ giunto il momento
di voltare qualche pagina?
Adesso basta guardare con nostalgia al passato senza la
fede di poter vivere il presente con l’aiuto di Cristo.
Ci accontentiamo di far parte di una religione di autorità o ci sentiamo parte di una religione di chiamata?
Paolo Iotti
“
Tu cosa vuoi
”
Una sera a cena con amici, parlando degli argomenti più
svariati, mi sono accorta del fatto che più volte sia stata
usata la parola “volontà”: volontà di fare qualcosa , volontà di cambiare, volontà di risolvere una data situazione. La volontà, dice il dizionario, è la disposizione ad
agire in un certo modo, la propensione; la capacità di decidere e agire in modo da raggiungere il proprio scopo.
Ogni giorno le scelte fatte possono essere messe in discussione e in ogni momento dobbiamo intraprendere
quel viaggio all’interno di noi stessi che ci permette di
prendere una decisione.
Diventa importante capire dove nasca la nostra “volontà”:
la scelta fatta è stata presa in modo autonomo, valutando
attentamente quello che è il proprio pensiero, i propri valori, la propria inclinazione e sensibilità, oppure la decisione è stata influenzata da altri, dal pensare comune o
dall’etica. Siamo capaci di fare scelte che siano veramente
nostre, indipendentemente dal fatto che possano sembrare impopolari o andare contro a quello che è il pensiero, le aspettative di che ci vive accanto?
Mi viene in mente a questo proposito quel brano che
dice: “Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua
terra, dalla tua parentela, e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò. 2Farò di te una grande
nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e
possa tu essere una benedizione.” (Gen 12, 1-2)
La prima cosa che Dio dice ad Abramo è “lech lechà”,
che vuole dire “vai a te, a te stesso”, “vai dentro di te”,
vai verso la tua interiorità profonda(1). Dio invita
Abramo ad iniziare un viaggio che porta alla scoperta
di se stesso, di chi sia veramente coi propri pregi, e i propri difetti, doni e capacità, mettendosi in un atteggiamento di ascolto verso se stesso, prendendo le distanze
da genitori, da parenti, da figli e da tutte quelle persone che possono influenzare il suo modo di pensare, le
sue decisioni. È una presa di coscienza che diventa necessaria per poter crescere, maturare e per non essere
vittime di frustrazioni e invidia. La parola chiave in questo caso è: silenzio.
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 3
il dialogo
In ebraico “Ra” significa “male” ed è la radice della parola “Ra’ash” che significa “rumore”: il male, quindi genera rumore, mancanza di armonia e di equilibrio. È la
confusione che si crea nella mente a causa di quell’enorme vociare di pensieri che si ripetono costantemente e incessantemente senza lasciare un momento
di pausa, un momento di silenzio, impedendo così di
riuscire ad entrare realmente in contatto con se stessi,
perché quella che si percepisce altro non è che l’immagine che si vuole dare del proprio io.
Il silenzio è quel vuoto che può far paura, perché lì incontriamo noi stessi per come siamo realmente, ma è
anche quel momento di vuoto che permette di ascoltare e accogliere la Parola di Dio, quel momento di
vuoto che permette di ascoltare e accogliere gli altri.
È Dio stesso che ci indica la via da seguire e la prima
cosa da fare è abbandonare l’egoismo e quello stato di
chiusura in sé stessi in cui ci si ritrova quando, da un lato
si pensa di non aver bisogno di nessuno, dall’altro si ha
talmente paura di affrontare il mondo che si preferisce
rimanere chiusi nel proprio “orticello” per paura di essere feriti. Dio aiuta a vincere quella povertà d’animo
che si genera quando i pensieri e le preoccupazioni
sono rivolti solo a se stessi e al proprio benessere materiale e a quella sorta di quieto vivere che deriva dall’uniformarsi al pensiero comune, al modo di vivere
della società, senza indagare su noi stessi.
Solo indirizzando i pensieri e la mente verso Dio si può
cambiare direzione abbandonare l’egoismo e la ricerca
del proprio benessere volgendo lo sguardo verso gli
altri. Passiamo quindi dall’egoismo all’altruismo; dal
pensare di non aver bisogno di nessuno allo sperimentare la propria povertà, o per meglio dire, la propria
umiltà, al sentire di dover chiedere aiuto perché le proprie forze non ce la fanno.
È un invito a prendere coscienza del proprio IO, delle
proprie reali capacità, dei propri limiti e difetti. È uno
stimolo a intraprendere il cammino che permette di elevare noi stessi dalla mediocrità. Tale crescita è possibile
se lasciamo aperta la porta del nostro cuore a Dio perché possa entrare e ri-creare noi stessi ogni giorno, e
noi dobbiamo fidarci di Lui. Dobbiamo voler compiere
il cammino che ha disposto per noi e non lasciarci fermare dalle nostre paure, dalla pigrizia o dall’apatia. Dio
ci invita a camminare, a crescere, ad accogliere i doni
dello Spirito Santo e lasciare che questi ci trasformino.
A fare silenzio per poter ascoltare la Sua Parola, per accoglierla e irradiare la sua Luce.
Grazie a questo percorso di crescita, o di “ri-creazione”
da parte di Dio, la nostra vita si riempie di novità, di
nuovo coraggio, di volontà e sicurezza, si riempie dell’essenza di Dio.
A noi la scelta: aprire la porta che conduce dentro noi
stessi e dare voce e speranza ai nostri sogni e desideri
oppure lasciarla chiusa rinunciando ad essi?
Laura Bondioli
(1) da Il Dialogo, dicembre 2005: “Ascolto: da dove cominciare” di
Paolo Iotti
“
Disfunzioni
pulsorie
”
“Abiti del male”, così Aristotele più di 2300 anni fa,
usava definire quelle alterate inclinazioni di taluni individui a ripetere eccessivamente determinati tipi di
azioni, tanto da crearsene un modus vivendi. Nell’antica Grecia questa costante pratica di ciò che è male o
viene ritenuto tale, altrimenti definita vizio, andava a
interferire con l’armonico andamento sociale, costituendosi come un chiaro oltraggio alle leggi civili.
Con il diffondersi del Cristianesimo, viene, però, a operarsi
una sostanziale trasformazione nell’interpretazione del
vizio: il comportamento vizioso non si contrapponeva più
semplicemente alle leggi civili, ma andava a ostacolare il
cammino individuale verso il divino. Nel IV secolo, l’eremita nel deserto, Evagrio Pontico, fu il primo a stilare una
lista di eccessi cui un monaco non doveva abbandonarsi
per non intralciare il proprio percorso di purificazione e
purezza verso Dio. Enunciando “gli otto spiriti di malvagità” (gola, lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria, superbia), Evagrio abbozzò quella che, in seguito,
sarà propagandata come la dottrina dei vizi capitali, dove
il termine “capitali” andava a sottolineare quelle disdicevoli azioni (vizi, appunto), da cui si riteneva nascessero
tutti gli altri peccati.(1)
Questo sistema di riferimento venne, in seguito, riconfermato da un discepolo di Evagrio, Giovanni Cassiano,
che riconobbe nell’evitamento dei vizi capitali un processo di purificazione personale, coinvolgente anima e
corpo, che trova la sua spontanea conclusione allorché il
monaco raggiunge il completo controllo di sé, dei suoi
impulsi e desideri. In tale contesto è chiaro che i comportamenti viziosi non interessano le situazioni relazionali
dell’uomo nella società, ma solo i rapporti con se stesso e
con Dio, segno di un’etica puramente individuale.
La dottrina dei “peccati capitali” ebbe, però, inizio con
Papa Gregorio Magno (VI secolo), il quale, operando
una modifica della vecchia enumerazione, unì la tristezza all’accidia e aggiunse l’invidia: il numero dei vizi
elencati nella lista rimase otto, ma con uno schema di
7+1, considerato che il pontefice riconosceva la superbia come la radice di tutti gli altri. L’ottica morale, qui,
si allarga assumendo nel contempo anche una valenza
più collettiva: i vizi non denotano più solo i possibili
smarrimenti di chi ha voluto intraprendere un cammino
spirituale verso Dio (il monaco), ma squilibri interiori
che possono accadere in ogni singolo uomo.
Nel 1215, dopo che il Concilio Lateranense IV sancì, per i
fedeli, l’obbligo della confessione annuale, si rese necessaria una classificazione e una conoscenza più dettagliata
dei peccati: fu in questo clima che il sistema “septenario”(2)
di Gregorio Magno conobbe il suo successo: andando ben
al di là delle sue iniziali intenzioni, il modello gregoriano
venne, così, a costituirsi come un vero e proprio proto-
3
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 4
il dialogo
collo, necessario ai confessori per interrogare i “peccatori”
e ai penitenti per rendere conto delle proprie “colpe”. Il
septenario gregoriano impose il suo trionfo tardo-medievale sicuramente grazie alla sua semplicità, versatilità, facile rappresentazione iconografica ed efficace capacità
tassonomica; nel contempo si distinse come un valido strumento che, rintracciando nella moralità individuale l’origine di tutte le mancanze, permetteva di identificare i
“peccati” consumati nel segreto della propria vita interiore con una chiara ripercussione sulla scena comunitaria. La teoria dei vizi capitali, tende, qui, a tradire il sapore
di una morale spiccatamente sociale, con cui regolamentare soprattutto i comportamenti e le relazioni degli uomini con gli uomini, lasciando, però, in penombra la
dimensione spirituale del singolo. Lentamente, però, il
septenario iniziò a conoscere il proprio declino. Nel riconoscergli una generale incompletezza nel descrivere esaustivamente l’universo del male, già nel corso del XIII secolo
si accentuarono i tentativi di classificare i peccati in diversi
modi e soprattutto il perno dell’etica cristiana iniziò a riconoscere nel peccato una violazione della legge e della
giustizia divina.
Quello che, qui, ci preme considerare non è tanto la natura dei peccati e i modi per poterli efficacemente identificare(3) quanto rivalutare lo schema dei sette vizi capitali
come strumento per diagnosticare gravi alterazioni nell’equilibrio dell’unità mente-corpo-spirito di ogni singolo
uomo. Se ripercorriamo la storia del “protocollo” sui sette
vizi capitali, non può sfuggire come questo sia passato da
essere uno strumento per favorire la propria ascesi al divino (Evagrio e Cassiano), a un’immediata sintesi per interpretare e migliorare il proprio mondo interiore
(Gregorio Magno), a un maneggevole prontuario per
sanzionare i comportamenti sociali peccaminosi degli uomini. Pur con approcci e finalità differenti, lo schema dei
vizi capitali, sia in Evagrio-Cassiano che in Gregorio
Magno riguarda una dinamica psicologica-individuale tipicamente introspettiva, mentre acquista una dimensione di alto spessore relazionale, teso a regolare i
comportamenti sociali. Ogni comportamento relazionale
inadeguato, prima di essere palesato, trova la sua origine
in un mal-andamento sistemico, interno all’individuo.
Quante volte ci comportiamo in modo sgarbato o inappropriato nei confronti del prossimo, solamente perché
siamo nervosi? Molto spesso non siamo nemmeno così
consapevoli che molte nostre “cattive azioni” siano la
manifestazione di qualcosa che in noi stessi non sta operando come di dovere: il funzionamento di molti dei nostri apparati (endocrino, nervoso, digerente…) influenza
spiccatamente la nostra vita di relazione. Il più delle volte
gli squilibri nei nostri rapporti interpersonali hanno una
dimensione di transitorietà, ma può, altrimenti, accadere
che diventino dei veri e propri schemi comportamentali
consolidati nella personalità dell’individuo. Nel momento, in cui possiamo escludere disfunzioni organiche
croniche a carico dei sopraccitati sistemi, possiamo andare
a verificare la funzionalità di un altro “apparato”: quello
psicologico. Immaginiamo di trovarci di fronte a un individuo che abitualmente si rapporta in modo litigioso con
le persone, ci dovremmo sicuramente chiedere se qualcosa, nel suo sviluppo psicologico, non si sia incespicato.
4
Magari ha condotto una vita infantile in cui ha conosciuto solo soprusi o ha odorato un clima famigliare violento o è stato vittima di vessazioni in ambienti amicali o
sono frutto di un trauma più o meno consapevole o sono
espressione di un insano rapporto con una figura genitoriale o … Ciò che stiamo, in quel momento, tentando
di rintracciare sono alterazioni tipiche dell’assetto psicologico. Come abbiamo, però, più volte sottolineato anche
in altre sedi l’essere umano è “un’indisgregabile unità
mente-corpo-spirito e ogni alterazione in ciascuna di queste sue componenti avrà necessariamente ripercussioni
sulle rimanenti, destabilizzando l’armonia del tutto”(4):
alterazioni organiche possono determinare un risvolto
psicologico e, viceversa, sofferenze psicologiche possono
creare disfunzioni fisiche. L’unità umana non sarebbe
completa se non considerassimo anche un terzo e importantissimo fattore, strettamente interrelato con i due precedenti: il sistema energetico. Ci siamo già, altrove,
occupati di quest’ultimo sottolineando che i suoi componenti sono dei “pulsori”(5), responsabili del movimento
dell’energia propria di ogni individuo, instradata in particolari canali (i meridiani). Abbiamo, inoltre, specificato
che esiste uno svariato numero di questi “pulsori”, tra cui
se ne distinguono molti secondari e solo sette principali.
Fin dalla nascita l’individuo si affaccia sul mondo già corredato di tutti questi pulsori funzionanti, compresi quelli
principali, che, però, non vibrano tutti, fin dall’inizio, al
completo della propria potenzialità. “Ogni periodo della
vita evolutiva è determinato da una maggior attività di
un centro pulsore rispetto agli altri, secondo un ordine
che procede dal primo all’ultimo. Molto spesso può accadere che si rimanga ancorati all’attività predominante di
un centro pulsore per un lungo periodo della vita, a volte
persino tutta un’esistenza, senza lasciare che gli altri centri trovino la loro più completa espressione o, ancora più
frequentemente, si può assistere a un alterato funzionamento di uno o più centri, creando disarmonie o vere e
proprie patologie”(6) sia sul piano organico, psicologico e
spirituale.
I comportamenti viziosi di cui ci stiamo, qui, occupando
sono proprio espressione di alterazioni o, meglio ancora,
di “fissazioni” energetiche nel consueto sviluppo di uno
di questi pulsori: la supremazia esercitata da un pulsore
sugli altri condiziona e determina la manifestazione delle
azioni e del comportamento dell’individuo. Quando abbiamo a che fare con una persona che, nelle sue relazioni,
“indossa abiti di avarizia, lussuria…”, possiamo dire che
sta soffrendo di una malattia dello spirito. Ma andiamo a
scorrere più in particolare questi squilibri, individuando,
per ciascuno di questi, il malfunzionamento del pulsore
corrispondente.
- Grazie al nostro primo pulsore, noi iniziamo, fin dalla
nascita, a relazionarci con il mondo esterno e a trarre
da questo la soddisfazione dei nostri primordiali istinti
di sopravvivenza. Rafforzando man mano la capacità di
esprimere i nostri bisogni, acquistiamo sicurezza in noi
stessi, affermiamo la nostra posizione nel mondo e produciamo, un senso di armonia fisico-mentale nei confronti di ciò che ci circonda. Se lo sviluppo di questo
pulsore incontra, però, qualche difficoltà nella realizzazione del proprio percorso, creando fissità energe-
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 5
il dialogo
tica, potremmo veder estrinsecato il primo “abito vizioso”: l’avarizia. L’avaro è colui che, non riuscendo mai
a soddisfare i propri bisogni ed essendo divorato da un
irrefrenabile desiderio di beni temporali, maschera la
propria insicurezza nell’accumulare cose materiali solo
per il gusto di farlo e senza averne reale necessità.
L’inettitudine ad avere controllo su stesso lo induce a
sostituirla con la capacità di aver potere sulle cose, andando inevitabilmente incontro a una depersonalizzazione; ama a tal punto le cose possedute che dimentica
di amare non solo gli altri, ma soprattutto se stesso.
Tutto questo lo conduce a vivere una realtà relazionale
fatta di finzione e rapporti interpersonali superficiali,
tentando di mimetizzare il proprio “vizio” con opere
generose e nobiltà d’animo.
- Se il nostro secondo pulsore non ha incontrato gravi
impedimenti al raggiungimento del suo equilibrio, ci
farà sentire bene con noi stessi, facendoci sperimentare
accettazione e consapevolezza del nostro corpo e della
nostra identità di genere e ponendoci nella condizione
di instaurare relazioni emotive sane e positive. Al contrario, se il suo sviluppo è traumatizzato tanto da essere “bloccato”, l’individuo sperimenta un sentimento
di paura nella conoscenza di se stesso e inizia a oggettivare il suo disagio focalizzando la sua attenzione sul
proprio corpo e su quello altrui, giungendo a interpretarlo come unico mezzo di confronto col prossimo. Ci
troviamo, qui, di fronte a un individuo lussurioso, sempre torturato da un’insaziabile brama di piacere fisico,
che reputa come unico stimolo capace di porlo a contatto con se stesso e con gli altri. Nel condurre la sua
esistenza, sempre alla ricerca di esperienze e relazioni
che gli donino l’immediatezza del piacere sessuale, non
conseguendo mai, suo malgrado, l’appagamento della
sua smania ed essendo, per questo, condannato a soffrire per ripetute delusioni, incontra il vuoto dietro alle
cose, non riuscendo ad assaporare l’essenza della vita.
- Il raggiungimento di un positivo carattere volitivo, di
un adeguato livello di autostima e di capacità decisionale avviene quando il terzo pulsore ha portato a termine la sua crescita. Come per gli altri pulsori, in genere,
il suo sviluppo avviene in modo abbastanza armonico,
anche se talvolta la realizzazione finale può non essere
sempre così completa ed esaustiva come si vorrebbe.
Quando, però, il suo percorso viene notevolmente arrestato da fattori endogeni o esogeni, il suo funzionamento reitera sempre la stessa dinamica: quella di
procedere verso l’appropriazione del controllo su stessi
senza mai pervenire al suo ottenimento. Non riuscendo
ad avvertire la soglia di una simile conquista, l’individuo
inizia a incamerare quanto più gli è possibile dal mondo
esterno e gli alimenti diventano un mezzo per tentare di
realizzare la “pienezza” di sé. Ci troviamo di fronte alla
personalità del goloso(7), il quale è condannato a sperimentare, sempre, una sensazione di appagamento alquanto effimera e transitoria. Non conoscendo mai la
sazietà, il goloso è in continua ricerca di qualcosa da ingurgitare che gli conceda soddisfazione, ma questa spasmodica necessità gli rivela la sua incapacità di avere
potere su se stesso: si perpetua, così, un inarrestabile circolo vizioso.
- Quando il nostro quarto pulsore non ha incontrato
grossi intralci alla sua piena realizzazione, noi siamo in
grado di sentirci in pace con noi stessi, godere di un positivo livello di autostima e siamo, di conseguenza capaci di provare empatia, accoglienza, amore, pietà e
comprensione per il prossimo. Ma se il traguardo “della
buona immagine di sé” non è raggiunto appieno e il livello di autostima risulta scarso o comunque inadeguato, l’individuo può sviluppare un persistente e
radicato sentimento di profonda sofferenza per non
possedere cose, che altri posseggono e lui no, o un concitato desiderio che altri perdano cose che anche lui
stesso possiede(8): siamo di fronte al vizio dell’invidia
che condanna la persona a una vita, imperniata sul “rovinoso” confronto con gli altri.
- Un quinto pulsore che abbia ottenuto il suo equilibrio
ci apre alla “comunicazione”, ovvero ci pone nella favorevole condizione non solo di ascoltare sé stessi e il prossimo, ma anche di concretizzare un’interazione di tutte
le nostre potenzialità discernitive, qualitative e direttive,
facendoci, nel contempo, sperimentare la partecipazione
all’energia divina. Ma se lo sviluppo di questo pulsore rimane incastrato nella sua dinamica, entrando in un circolo imperfetto, ecco affacciarsi il pericolo dell’insinuarsi
della superbia. Questo è il vizio per il quale il soggetto,
catapultato in un mondo interiore, in cui conosce solo
amore esagerato per se stesso e una convinzione di superiorità assoluta sul prossimo, viene indotto a sperimentare disprezzo per qualsiasi genere di regola o
legge: l’individuo non si percepisce più solo come partecipe della stessa energia divina, ma sentendosi a sua
volta un Dio, non ammette di dover ulteriormente completare il suo cammino. La sostanziale differenza tra gli
altri vizi e questo è proprio insita nel fatto che in tutti
gli altri “stati energetici alterati”, la persona è consapevole di essere vittima di un malfunzionamento interno a
sé e per questo prova sofferenza e conflitto interiori,
mentre nella dimensione di superbia, l’individuo non avverte minimamente la propria inabilità, ritenendo che
siano gli altri a essere disagiati e difettosi.
- Dobbiamo al fatto di aver conquistato uno stato di equilibrio del sesto pulsore, la possibilità di entrare in pieno
contatto con noi stessi, corroborando, nel contempo, la
nostra capacità concentrativa di trasformazione e purificazione dei nostri pensieri, nonché l’opportunità di addentrarci in stati meditativi e mistici,. Al contrario, se la
persona non è riuscita in questo suo intento creando in
questa dinamica fissità energetica può sviluppare quello
che è comunemente conosciuto come il vizio dell’ira. Quest’ultima condizione, da non confondersi con il sentimento
più o meno transitorio della rabbia, è caratterizzata da
un’alterata condizione psichica: l’iracondo è un individuo
che non è più in grado di calibrare con ponderatezza le
sue scelte né di tollerare le possibili conseguenze negative
di queste. Stazionando in una situazione di non raggiunta
consapevolezza di sé e, per tale motivo, non essendo in
grado di maturare un positivo grado di autocontrollo, l’iracondo vive costantemente in una contingenza di profonda
avversione verso qualcosa, qualcuno e/o verso addirittura
sé stesso, divorato da un incessante desiderio di vendicare
il suo disagiato stato d’animo.
5
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 6
il dialogo
- Il nostro viaggio di esseri umani non sarebbe completo
se non riuscissimo anche almeno a lambire una più profonda conoscenza di noi stessi per assaporare quella
tranquillità spirituale, in piena armonia con l’espressione dell’amore divino. Se l’essere umano si arrendesse
all’evidenza del reale, disdegnasse l’impegno verso una
maggior conoscenza di sé, accettando di aver conquistato già tutto nel suo percorso di vita, in poche parole
se si negasse la possibilità di una continua “ricerca” interiore conoscerebbe senza alcun dubbio l’ultimo dei
vizi capitali: l’accidia. Questo stato di torpore e di indifferenza verso sé e verso tutto è una condizione
estrema, in cui si incontrano depressione, noia, scoraggiamento, abbattimento…: è lo smarrimento più totale, che un uomo possa mai conoscere!
Cristina Caroppo
(1) si noti come la lista dei comportamenti viziosi da evitare sia
qui rivolta ai monaci, ovvero a coloro che, rinunciando al
mondo, intendevano instradarsi sul viatico di purificazione ed
espiazione per avvicinarsi a Dio
(2) un sistema basato sulla potenza e consacrazione del numero
sette, teologicamente utilizzato per designare la perfezione
dell’eternità: sette le virtù, sette i doni dello spirito santo, sette
le beatitudini…)
(3) in altra sede ci siamo occupati del peccato e del modo in cui
poterlo interpretare: Il Dialogo, giugno 2008: “Qual è la tua
colpa ?” di Cristina Caroppo
(4) da Il Dialogo, giugno 2011: “Forza terapica dei Sacramenti”
di Cristina Caroppo
(5) il termine “pulsore” è altrimenti conosciuto, secondo la
dicitura orientale, come “chakra”
(6) da Il Dialogo, giugno 2011: “Forza terapica dei Sacramenti”
di Cristina Caroppo
(7) si può esprimere la propria golosità indiscriminatamente verso
ogni alimento o verso un particolare e determinato cibo o
ancora verso una bevanda (vino, liquori….)
(8) l’invidia può non essere necessariamente indirizzata verso
cose materiali ma anche doti fisiche, caratteriali, spirituali..
“
E Dio disse: «Facciamo l’uomo (adam) a nostra immagine,a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo…».
Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo
creò, maschio e femmina li creò.
L’amore tra l’uomo
e la donna
”
Una parola ha detto Dio
due ne ho udite
Salmo 62, 12
Il Cantico dei Cantici ha 8 capitoli e 117 versetti: la sua
stesura si colloca tra il sec. VI e IV a. C., lo si attribuisce a
Salomone, ma l’estensore è probabilmente un oscuro
poeta che ha attinto a fonti già esistenti e molto antiche.
Quasi certamente il testo proviene dalla Mesopotamia
o dall’Egitto paesi dove vigeva la ierogamia, ovvero il
matrimonio sacro o sigizia, congiunzione tra due divinità, insomma i famosi riti della fertilità che si celebra-
6
vano in primavera per rinnovare la vita umana e rigenerare la Natura.
Il testo molto diffuso e sentito a livello popolare venne
inserito nella tradizione biblica profetico-sapienziale
dopo un lungo processo di rielaborazione.
Il libro ha sempre suscitato imbarazzo presso la classe
sacerdotale e i teologi. Nel campo ebraico fu Rabbi Shalomon, Ben Isaac, meglio conosciuto con l’acronimo Rashiv, a dare un’interpretazione letterale al Cantico e a
leggere la Scrittura tenendo presente il versetto del
salmo 62:
“la Scrittura in quanto parola di Dio ospita molti sensi
ed è irriducibile a un unico senso, e questo giustifica i
molti midrash ( midrash significa “cercare”, cercare il significato attuale di un testo).“
Rashiv rende profetico il Cantico e lo contestualizza nella
storia del popolo Ebraico. Israele è in esilio, ma il suo legame con Dio è indissolubile ed per questo che piange la
sua separazione da Dio - suo Sposo - come una vedova
che piange il marito vivente ma separato, lontano. Non è
stata ripudiata e suo marito ritornerà da lei.
Anche i commenti cristiani seguiranno questa traccia.
Mentre la tradizione ebraica si è preoccupata di risalire al
senso teologico del Cantico, affinità con la tradizione profetica, i cristiani vedono il Cantico attraverso 1 Cor. (gelosia) e Ef. 5 (rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa).(1)
Il Cristianesimo riprese dall’ebraismo l’interpretazione
allegorica del Cantico per giustificarne la canonicità; il
dialogo Dio-Israele venne riveduto e corretto come rapporto Cristo-Chiesa, ovvero, interpretato come amore
spirituale, e tutto ciò per mascherare quelle che sono
in realtà espressioni prettamente materiali: ovvero un
gioco d’amore tra due innamorati. Anche se il poema
insiste sulla passione sconvolgente dei due amanti, il
tutto è inserito in un contesto “sacrale”.
Il Cantico celebra l’amore e lo pone al centro dell’esistenza cosmica, poiché Dio è il Tutto e l’Uomo, adam,è
fatto ad immagine di Dio, quindi è parte del cosmo e
partecipa al divenire del cosmo:
Gn 1,26s
Il Libro dello splendore o Zohar riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo cantico comprende tutta
la Torah; comprende tutta l’opera della creazione; comprende il mistero dei Padri; comprende l’esilio d’Israele in
Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele
nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla
costruzione del Tempio; comprende l’incoronazione del
santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende
l’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato del Signore» (Libro dello splendore. Teruma 144°).(2)
Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima non
minore: «Beato chi comprende e canta i cantici della
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 7
il dialogo
Sacra Scrittura -afferma Origene-, ma ben più beato chi
canta e comprende il Cantico dei Cantici» (Omelia sul
Cantico l,l: Pg 13,37).
Attraverso l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto il
Cantico appare come un paradigma del Cristo: così,
l’Amato che viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è riconosciuto sin dal primo commento cristiano come «il
Verbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dal
sacro ventre sul legno della Croce, dal legno negli inferi,
di là nella carne (della risurrezione)... infine, dalla terra al
cielo» (Ippolito di Roma, Commento al Cantico, XXI, 2). Le
descrizioni del Cantico vengono interpretate come metafore della vita della Chiesa: «Se tu senti nominare le membra dello sposo, cerca di capire che in realtà sono evocati
i membri della Chiesa» (Origene, Commento al Cantico,
libro II, su Ct). (4) Muovendo dal Cantico sviluppa la sua riflessione sui gradi della «violenta carità» Riccardo di San
Vittore, combinando genialmente teologia ed esperienza
spirituale per sottolineare come il rapporto d’amore con
Dio non lasci nessuno come lo ha trovato, ma al contrario
segni in modo indelebile la sua anima: «Grande è la forza
dell’amore, meravigliosa la potenza della carità» (I quattro gradi della violenta carità, 2).
Al Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rapporto d’amore con Dio: basti pensare ai versi di San Giovanni della Croce: «In una notte oscura / con ansie di
amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui
notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte
che mi guidasti! /oh, notte amabile più che l’aurora / oh,
notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata /
l’amata nell’Amato trasformata» (San Giovanni della
Croce, Noche oscura, Strofe l e 5).(3)
Eloquente e ispirativo nelle più diverse stagioni della tradizione ebraico-cristiana, il Cantico continua a parlare
anche oggi: «Questo – afferma Guido Ceronetti – è un
Cantico di oggi, per il presente, per servirgli restando quel
che è, un punto lontano» (Il Cantico dei Cantici, Adelphi,
Milano 1975. 2005, 114). E aggiunge: «Colpisce la somiglianza delle sue parole coi gradi più alti del silenzio; è una
musica cessata in ogni suo suono, che affiora come pura
memoria» (115). La forza evocativa per ogni uomo, per
ogni tempo, di queste poche parole (1250: 117 versetti),
continua a essere riconosciuta: «Per esprimere l’Assoluto
in una visione umana è bastato questo arco breve» (115).(4)
A riportare il Cantico nella sua dimensione umana come
canto puramente amoroso, ci pensano, tra gli altri, due
teologi: Brevard S. Childs, teologo anglicano e Vito Mancuso, teologo “scomodo” per il cattolicesimo.
Il primo sostiene senza mezzi termini che il Cantico
“non appartiene al genere midrasico. Non interpreta
un altro testo, ma si ricollega piuttosto in maniera diretta all’esperienza umana dell’amore.” Quindi non si
può intendere il Cantico allegoricamente come descrizione dell’amore di Dio per Israele o per la Chiesa, ma
piuttosto “espressione sapienziale, sia testimonianza di
una presenza reale dell’amore carnale nell’universo dell’umana esperienza.”(5)
Mancuso, in una conferenza tenuta il 3 giugno 2007 nella
Sinagoga di Casale, senza mezzi termini stronca il “goffo
tentativo” operato dalla Chiesa e dall’Ebraismo di allegorizzare il testo riconducendolo al concetto di agape,
ovvero a una sorta di amore di benevolenza, di amore
universale, in modo da giustificare l’interpretazione del
Cantico come amore tra Dio-Israele e Cristo-Chiesa.
L’amore vissuto tra i protagonisti del Cantico, prosegue
Mancuso, è eros, pura tensione erotica, Questo, solo
questo, è il messaggio del Cantico. Basta considerare
quanto sia presente il corpo, soprattutto nelle parti che
sono oggetto delle attenzioni amorose: bocca, seni,
curve dei fianchi, ventre, gambe. E poi un diluvio di carezze, baci, persino facendo uso di vino aromatico (8,
2) e afrodisiaci (riferimento alla mandragola in 7, 14).(6)
Il Cantico, quindi celebra un momento di estasi terrena,
di gioia carnale vissuta in modo innocente e per niente
consapevole del peccato che in questo poema non è
nemmeno adombrato. Uno scambio senza inibizioni
d’amore e di energie vitali che, a mio avviso, pone il
rapporto amoroso tra uomo e donna nell’immenso divenire della forza cosmica.
Mario Matera Frassese
(1) A. ZANI, Il Cantico dei Cantici, esegesi, teologia e mistica nei
primi commenti cristiani: Origene e Ippolito. Corso di storia della
teologia
(2) BRUNO FORTE, Il Cantico dei cantici: La più bella canzone
d’Amore, in “FIDAE”
(3) Idem.
(4) Idem
(5) BREVARD S. CHILDS, Teologia dell’Antico Testamento in un
contesto canonico, Edizioni Paoline, Torino 1989.
(6) VITO MANCUSO, Erotismo e amore: il Cantico dei Cantici, Intervento nella Sinagoga di Casale, 3 giugno 2007.
“
La montagna luogo
”
di incontro con il sacro
L’uomo ha da sempre avvertito il fascino misterioso del
sublime e vissuto le più svariate forme di estasi. Uno
degli spazi del pianeta dove si possono provare simili
ebbrezze ed incanti è senza dubbio la montagna. Radicate nell’uomo, ci sono generali motivazioni antropologiche che hanno portato all’identificazione dei luoghi
sacri: la montagna, la grotta, la foresta, la sorgente che
sono così diventate sedi privilegiate del sacro. La montagna e la spiritualità ad essa legata ha da sempre assunto moltissimi significati nella storia delle idee, delle
credenze e della produzione letteraria.
La montagna con la sua natura spesso incontaminata diventa luogo preferito per il colloquio con l’eterno, per un
rapporto con la dimensione del divino, per cui l’uomo,
salendo, è, tra l’altro, portato alla meditazione ed alla riflessione spirituale. Il monte così può significare ascesi,
distacco dal materiale, e simboleggiare la tensione dell’uomo verso la divinità che abita i cieli. E’ per questo che
7
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 8
il dialogo
tradizioni religiose di tutte le culture e di tutti tempi, alimentate da una inesauribile fantasia, hanno conferito a
tante montagne un senso ed un valore sacro, spazio di
un possibile legame tra cielo e terra. Tutte le culture
hanno ritrovato nel profilo verticale della montagna
un’immagine della tensione verso l’oltre e l’altro rispetto
al limite terrestre e tutte le religioni vi hanno letto un
segno dell’Oltre e dell’Altro divino.
Alcune religioni ed alcuni popoli, poi, con le loro credenze, hanno immaginato ed immaginano le cime delle
vette proprio come la residenza della divinità. La montagna con il suo potente carico simbolico ha, in ogni
tempo, ispirato una sterminata produzione letteraria e
pittorica. La cima di un monte quasi ci obbliga anche fisicamente ad alzare gli occhi verso l’alto là dove ha sede
l’invisibile, l’irraggiungibile, il trascendente.
Con queste premesse si può tentare di comprendere
anche perché l’uomo esplora le montagne, le sale a volte
in condizioni ambientali e climatiche estreme sino al rischio della vita. Forse è proprio la dimensione della ascesa
che consente, seppure allo stato inconscio, la ricerca dell’Assoluto. L’uomo nell’ascendere lascia il peso della materialità, della monotonia, della quotidianità, e forse ha
l’intuizione del mistero che abita nell’Alto, nell’Oltre; ne
prova struggente desiderio, ne assapora l’insopprimibile
bisogno. E’ lassù sul monte che si sperimenta la contemplazione, anche tra fatica e sofferenza, che permette di
uscire da sé per conoscere l’Altro.
Nella Bibbia la montagna è luogo della presenza di Dio,
quindi della bellezza, del silenzio meditativo, della perfezione e della prova. Si fa così simbolo dell’elevazione
dell’uomo.
Oggi, così pieni e sicuri del nostro sapere scientifico, sorridiamo di tutto ciò, ma chi è più attento alla nostra
umana avventura sente con nostalgia che il perdersi allo
sguardo di un fulmine a ciel sereno poteva essere, e perché no, la coda di un drago incastonata da innumerevoli
diamanti; la forma di una nuvola il volo di un animale
fantastico; l’urlo del vento il lamento senza posa delle
anime dei defunti; le frane, le valanghe, i crolli delle torri,
la punizione della divinità offesa. E l’asciugarsi di una
fonte lo scherzo di uno gnomo; il tremore delle foglie
degli alberi, i giochi degli elfi; il prosciugarsi dei laghetti
o la scomparsa di un pastore la cattiveria delle streghe.
Le montagne con le loro vette che si innalzano verso il
cielo appaiono la dimora visibile del Dio invisibile, la cui
maestà è nascosta dalle nubi. La fede biblica, a differenza di altre che finiscono per “divinizzare” il monte,
afferma però con fermezza il primato di Dio su tutto il
creato e quindi anche sui monti.
Per la religione ebraica e la cristiana il monte è sacro perché in quel luogo, dove si immagina più vicino il creato al
Creatore, è meno difficile l’adesione a Dio: la montagna
con la sua natura spesso incontaminata è luogo privilegiato per il colloquio con l’eterno, con ciò che non si può
vedere e non si può dire, con il più profondo della nostra
anima per un rapporto con la dimensione del divino, pensiamo ai monasteri, agli eremi ai luoghi di silenzio in Dio.
Nella Bibbia il Monte, è un luogo dove si svolgono avvenimenti speciali, rivelatori, è luogo di particolare vicinanza di Dio, Mosé, la trasfigurazione, le beatitudini, la
8
crocifissione e Dio stesso è identificato come montagna
rocciosa e come rocca, (salmo 17: “Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cui
trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza.
luogo inaccessibile di rifugio; terreno solido su cui costruire fortezze, sicurezza protettrice in cui appoggiare
la propria esistenza”). Lo sguardo rivolto verso l’alto è lo
sguardo rivolto a Dio.
Quando Mosé col suo gregge giunge al monte Horeb e
vuole vedere da vicino il prodigio del roveto ardente,
Dio gli dice: Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi,
perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa.
Ma anche noi salendo sulle nostre montagne con il salmista possiamo dire:
“Salmo 121 (120): “Alzo gli occhi verso i monti: da
dove verrà il mio aiuto? Il mio aiuto è dal Signore che
ha fatto cielo e terra” (vv. 1-2). Ecco che ancora con la
bibbia si può dire “ Il Signore Dio è la mia forza, egli
rende i miei piedi come quelli della cerva e sulle alture
mi fa camminare. (Abacuc 3,19)
Fa’, o Signore,
che non perda mai
il senso del sorprendente.
Concedimi il dono dello stupore!
Donami occhi rispettosi del tuo creato,
occhi attenti, occhi riconoscenti.
Signore, insegnami a fermarmi:
l’anima vive di pause; di stupore; di attese,
insegnami a tacere come le tue montagne tacciono e
ascoltano;
solo nel silenzio si può capire
ciò che è stato concepito in silenzio.
Vittorio Cappozzo
RACCONTIAMOCI
Riflessioni, emozioni,
storie di vita e… quant’altro
“MI RICORDO DI VITANGELO”
San Mauro Torinese, 25 febbraio 2010
Cara Maria Pia, mi rivolgo a te, perché ho bisogno di un
interlocutore per tirare fuori dal baule della memoria la
gran massa di pensieri che mi tormenta, in questo periodo. Tu sei stata vicina a Vitangelo per molti anni, forse
più anni di quanto lo abbia frequentato io, sua sorella.
Non ho assistito agli ultimi penosi giorni della sua vita.
Lilli e Corrado ne sono stati sconvolti. Sempre la morte
di qualcuno ci turba profondamente; forse perché non
possiamo fare a meno di pensare alla “nostra” morte.
E non ci prepariamo ad essa mai abbastanza, perché
“non sappiamo il giorno e l’ora”.
Certo, quando il 22 maggio scorso sono andata a trovarlo
a Milano, ero così sottosopra, che invece di leggere
“Ospedale S.Paolo” la prima cosa che vidi fu:“Camera
mortuaria”. Mi ricordavo di quando andammo, Giovanni
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 9
il dialogo
ed io, al Policlinico di Bari e, invece di trovare Giulia ancora viva, fummo inviati all’obitorio.
Per fortuna, invece, a Milano, trovai Vitangelo ancora
vivo, ma irriconoscibile. E dire che Fiorenza, che l’aveva incontrato a Molfetta, mi aveva già descritto, con profondo
dolore, le gravi trasformazioni del suo aspetto. Per fortuna potei, in quell’occasione, parlare abbastanza con lui.
Mio fratello mi raccontò, con le lacrime agli occhi, di
quel bambino del Togo, nato prematuro, che era riuscito a salvare, creando una rudimentale incubatrice. Riscaldò la coperta dell’aereo col ferro da stiro e insistette
per ore e ore in quell’operazione. Poi mi fece vedere i
suoi scritti, un po’ autobiografici, un po’ di fantasia, con
i quali cercava di spiegare agli altri e forse a se stesso,
come gli era venuto il grande amore per l’Africa.
Lo lasciai, pregandolo di non farmi lo sgarbo di andarsene prima di me, perché toccava a me, dopo Chiara e
Maria, di lasciare questo mondo ed io avrei voluto vivere ancora per un bel po’. Si mise a ridere e così ci lasciammo.
Nel periodo successivo, gli ho mandato ogni giorno un
trattamento REI-KI a distanza. Si tratta di una canalizzazione di energia, sulla quale lui era piuttosto scettico.
Già qualche tempo prima, quando andava da Graziella
la sera, in un periodo in cui aveva avuto dei seri problemi, glielo avevo fatto sperimentare. Mi diceva, tanto
per accontentarmi quando io insistevo per conoscere le
sue reazioni, che sentiva una gran cappa di sonno che
gli calava addosso (la stessa reazione che ho io) e che
però dopo si sentiva “rigenerato”. Comunque considerava troppo “mistico” questo genere di cose.
Ho avuto, in seguito, il piacere di sentire la sua voce al
telefono con un volume quasi normale. Anzi mi telefonò lui – cosa che non faceva quasi mai – per raccomandarmi di non fare la vaccinazione antinfluenziale,
perché, sia io che lui eravamo già immunizzati. Lo rassicurai, ero già convinta della cosa. Poi mi parlò con entusiasmo di una nuova cura per l’osteoporosi, grazie
alla quale sentiva che le sue vertebre si erano rafforzate. Qualche giorno dopo fui io a richiamarlo, per conoscere il nome preciso di quei medicinali e ancora
sentii un bel timbro di voce.
Pensai, con sollievo, che forse la migliorata atmosfera
familiare stava dando i suoi frutti e che probabilmente
avrebbe potuto reggere ancora per un bel po’. Dopo
tutto mio padre era vissuto fino ad 88 anni. Ma si tratta
di cose che “sono scritte in cielo” e la morte è un mistero, cara la mia Pia.
Quando penso a Vitangelo, senza volerlo, non posso
non pensare a me. E’ una sensazione che forse ho sempre provato, ma le ultime vicende mi hanno fatto riflettere molto sulle situazioni della nostra famiglia.
Ogni tanto ne parlo con le figlie: io mi sento la “versione femminile” di questo mio fratello.
Un poco sento la stessa cosa anche con Corrado, ma
molto meno. Era con le mie sorelle che avvertivo “la
grande distanza”. Una volta Chiara, infastidita da alcune mie considerazioni, mi chiese: ”Ma a te, chi ti ha
educato?” Non sapevo cosa rispondere. Mi ero educata
da me, pensavo, prendendo modelli di comportamento
qua e là, dove li trovavo.
Mi modellavo su mio padre, piuttosto che su mia
madre. La condizione femminile mi sembrava troppo
triste e limitata. Ho fatto una fatica enorme a riconoscere, negli ultimi tempi, che era un bene per me essere
nata femmina ed è un lavoro che sto ancora facendo.
Tu sai che da noi c’è un proverbio: mala nottata e figlia
femmina, cioè al danno della mala nottata, si somma
quello di avere una figlia femmina. Per tutto questo io
sentivo il mio stato come una menomazione.
Ti ho già raccontato che la mia nascita non fu accolta con
gioia. Le condizioni economiche erano tristi; mia madre,
con tre figli sulle spalle, fu costretta a lasciare un lavoro
che le piaceva moltissimo e di cui parlava con molta nostalgia. Lei insegnava dattilografia nella Scuola tecnica di
Molfetta e ricordava i suoi “discepoli” che ancora la salutavano con piacere quando la incontravano.
La mamma, poi, sentiva dolorosamente la perdita del
primo figlio, il primo Vitangelo.
Aveva i capelli ricci – ci diceva - e intanto nel cimitero indicava il luogo dove l’avevano seppellito. Era successo
questo: era fresca sposa e, timida e pudibonda com’era,
quando ebbe la perdita delle acque, non ne parlò con
nessuno e rimase ad aspettare per qualche giorno. Mio
padre si disinteressò della cosa, anzi – lei diceva –
quando ebbe sentore delle prime doglie, scappò via di
casa. Probabilmente, più che egoismo, fu la paura della
sofferenza altrui a farlo comportare così. Quando il
bambino nacque, ”era tutto viola” e morì subito.
A tuttora mi chiedo come mai non intervennero in quel
caso altre donne, le sorelle di mia madre per esempio,
ma non so molto di quella vicenda. In seguito il babbo
si rammaricava di avere dichiarato il bambino come
“nato morto”, perché in realtà per un attimo era vissuto. Il fatto è che le famiglie numerose, durante il fascismo, erano premiate con uno sgravio delle tasse. Con
sei figli, quanti eravamo noi, si pagavano mezze tasse,
con sette, le tasse non si pagavano più..
Quando nacque Vitangelo, io avevo due anni e mezzo.
Si vede che la cosa mi colpì molto, nonostante la giovanissima età. Ricordo ancora un grande canestro di cavolfiori e cime di rape che i colleghi di mio padre, che
allora lavorava alla Singer, gli mandarono, al posto dei
fiori, per congratularsi della nascita dell’attesissimo figlio maschio, futuro ingegnere.
Un altro ricordo, abbastanza netto, è quello dei miei
nonni paterni, venuti a vedere il neonato. Il nonno Vitangelo era seduto sulla poltrona, che adesso si trova nella
camera di Nicola, figlio di Fiorenza. Il tutto era abbastanza
eccezionale, e credo che cominciò per me allora il periodo,
tipico in questi casi, della gelosia per “l’intruso”.
Per questo, quando Vitangelo mi raccontava, nella mia
visita a Milano, che la mamma lo chiamava “mon cadeau”, cioè “il mio regalo”, non ho potuto fare a meno
di avvertire, a livello profondo, un certo disappunto. La
mamma non ne faceva parola con gli altri figli; forse capiva che questa denominazione non ci avrebbe fatto
piacere. D’altronde lei era troppo delicata ed attenta a
ciascuno dei suoi sei figli.
Quando penso a mia madre e all’ambiente rozzo e ignorante da cui proveniva, sento per lei una grande ammirazione e amore. Evidentemente il periodo passato tra le
9
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 10
il dialogo
Figlie della Carità di S.Vincenzo de’ Paoli, all’incirca dai
sei ai diciassette anni, l’aveva profondamente segnata.
Lei amava la cultura, non per farne vanto, assolutamente
e ci dava degli insegnamenti di carattere religioso, molto
vissuti. Un amico di Corrado l’ha definita, molto correttamente, come madre “premurosa e vigile” e tale era.
Ma torniamo a Vitangelo, da lei tanto amato. Io mi accorgevo di queste preferenze, ecco perché i rapporti col
fratello più vicino sono stati per me sempre ambivalenti. Lui mi attraeva e nello stesso tempo, mi infastidiva. Io ammiravo le sue imprese, che erano sempre un
po’ arrischiate, ma intanto sentivo che tutte le sue
“uscite” venivano tollerate con benevolenza, mentre le
mie no. Non era ammesso che una bambina facesse le
stesse cose che possono fare i maschi, ecc. ecc.
Quando si è trattato di intraprendere gli studi, io ho
dovuto conquistarmi con fatica il diritto di andare oltre
la media inferiore, lui no. Il babbo era convinto che per
le donne bastasse il diploma di terza Avviamento e così
Chiara, Maria ed io abbiamo frequentato quella scuola,
che era un vicolo cieco. Il suo amico, Celestino Panunzio, che viveva a Milano, gli diceva che una ragazza che
avesse studiato contabilità, dattilografia e francese, poteva stare ottimamente in un negozio e il progetto paterno era quello: avere tutti i figli nel negozio. Il quale
progetto non era molto accettato da noi ragazze.
Chiara, per esempio, aveva avuto a scuola ottimi voti e
voleva continuare a studiare; si vide invece impedita nelle
sue aspirazioni, perché era la figlia grande e in casa serviva il suo aiuto. Maria fece la sua piccola guerra di indipendenza e dopo essere stata avviata, senza troppo
successo, da una sarta, nostra vicina di casa, riuscì, con
esami da privatista, ad entrare nell’istituto magistrale e fu
meglio per lei. Io riuscii, sotto il suo esempio, ad entrare
da privatista nella quarta ginnasiale e poi a continuare
gli studi nel liceo classico, per fortuna.
I miei fratelli non conobbero tutte queste difficoltà e
ricordo che io consideravo il tutto con un certo risentimento. Mi dispiace di dover dire queste cose mentre Vitangelo non è più presente. Dei morti – si sa – bisogna
dire solo bene. Ma purtroppo sto facendo ancora pulizia dentro di me di tante piccole sconfitte, di tanti ricordi non sempre positivi.
Ci sono, certo, per fortuna, bellissimi episodi: per esempio, quando andavamo al Pulo, luogo che forse avrai
conosciuto. Si tratta di una grande voragine, dovuta al
carattere carsico della Puglia, sulle cui pareti si aprono
grotte in cui abitavano, nel periodo neolitico, uomini
preistorici. Vitangelo non aveva paura ad avventurarsi
nei meandri di queste grotte; io lo seguivo con una
certa perplessità: non mi sono mai piaciuti i luoghi
oscuri, le cantine, i sotterranei e cose simili.
Però ammiravo molto il suo coraggio e la sua intraprendenza. In seguito mi è piaciuto di più avventurarmi
nei “meandri dell’animo umano”, ma per quanto abbia
tentato di renderlo mio compagno di ricerca, non ci
sono riuscita. Non aveva l’abitudine di parlare della propria interiorità, come quasi tutti gli uomini, del resto.
Tutti e due avevamo in comune una grande curiosità,
anzi una curiosità che direi “insaziabile” ed invincibile.
10
Certe volte mi viene in mente che sant’Agostino la chiamava “vana cupiditas”, cioè una inutile cupidigia, ma
non riesco ancora a liberarmene. Eppure sarebbe
tempo che anch’io facessi i conti con l’età che avanza e
che mi richiama piuttosto ai doveri di “mettere ordine”
tra le cose che in tanti anni ho accumulato.
Ma torniamo a Vitangelo..
La mamma, dicevo, stravedeva per lui. Sognava di vederlo
medico, gli ricordava l’esempio del dottor Giuseppe Moscati, che da poco è stato fatto santo. Quanto avrebbe
gioito per quello che lui ha fatto nel Togo!
Per quest’ultima vicenda della sua vita, sento di aver contribuito anch’io a certe scelte. Studiavo a Milano, grazie
– devo ricordarlo con riconoscenza – all’aiuto economico
di mia sorella Maria, che già lavorava come maestra. Mi
capitò tra le mani un opuscolo di un Istituto padovano, il
CUAMM, Centro universitario medici missionari. Sapevo
che Vitangelo voleva fare medicina e che da piccolo sognava Capitan Matamoro e altri personaggi dei fumetti
che andavano in Africa a uccidere i leoni. Il Cuamm ospitava con tariffe vantaggiose i giovani che volevano avventurarsi su questa strada. Ne parlai in famiglia e
Vitangelo si iscrisse a Padova; in seguito, non ricordo per
quali motivi, terminò i suoi studi a Ferrara.
Nel frattempo io ero alle prese col matrimonio, figli,
concorsi ecc..e ci siamo persi un po’ di vista. Le notizie
mi venivano da Chiara, che stravedeva anche lei per il
fratello e continuava l’abitudine materna di scusarlo e
giustificarlo sempre, qualunque cosa facesse.
Io avevo troppe gatte da pelare, tra concorsi, malattie
di mia suocera, figlie da allevare e via di seguito. Tra le
sorelle, ero probabilmente la più staccata da lui e penso
che così lui mi percepisse. Perciò mi prendeva un po’ in
giro, come gli altri, nelle riunioni familiari, nelle quali le
mie uscite erano occasioni di grandi risate, ma sentivo
che di me temeva un certo giudizio. Senza dire che accanto a me c’era Giovanni, che, come ricordi, era ipercritico nei confronti della mia famiglia e che notava
tante cose su cui io cercavo di stendere un velo pietoso.
Per tutto questo, quando tu mi riferisti la sua frase: “Se
potessi incontrarmi con Liliana!”, decisi lì per lì di andare a Milano, benché non fossi molto in forma e ci
fosse un caldo eccezionale per quella stagione. Cioè
sentii che dovevo superare tutte le mie difficoltà interiori e mettermi in treno.
Veramente era da tempo che il pensiero di mio fratello
mi tormentava. Da quando Fiorenza mi aveva riferito del
suo aspetto tanto deformato e lei ne era rimasta sconvolta. Le ricordava la nonna Marta degli ultimi tempi.
Mi andavo dicendo che forse, in assenza delle mie sorelle
che sapevano provvedere a tante cose, io dovevo prendermi qualche responsabilità. Ero ormai la figlia maggiore. Mi assillavano le frasi evangeliche: “Se non ami il
fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?” e
l’altra: “Chi dice ‘raca’ (sciocco) a suo fratello, andrà nel
fuoco della geenna”. Veramente questa seconda frase già
da quando ero piccola mi impressionava. Possibile che per
un peccato così piccolo si doveva andare nel fuoco della
geenna? E a chi non è capitato di dire ad un fratello o ad
una sorella “Quanto sei scemo!”?
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 11
il dialogo
In seguito ero rimasta impressionata dal discorso del
dottor Andrea Penna, (quello che cura con le costellazioni familiari), a proposito dei contrasti tra fratelli e
sorelle. Egli ricordava che, mentre coi genitori noi abbiamo un patrimonio genetico del 50 %, coi fratelli abbiamo dal 70 all’80 % di contributi genetici, perciò le
liti tra i fratelli sono le più micidiali. Quindi chi non ama
suo fratello non ama se stesso. Quando parlai al medico
della faccenda della geenna, lui mi confermò che la
Scrittura aveva ragione. Insomma dovevo riconciliarmi
interiormente con mio fratello.
Tornando a parlare di Vitangelo, una sua buona qualità
è che sapeva stare con i bambini. Infatti i nipoti, comprese
le mie figlie, si entusiasmavano molto quando potevano
stargli vicino. Ricordo sempre la grande quantità di pietre che, assieme a Teresa e Gianluca, loro raccolsero, girando per la campagna, alla ricerca di “cocci” che
avessero una parvenza di antichità. Insomma stare con
lui era un continuo divertimento.
Naturalmente “vivere la vita come gioco” non è stato
molto comodo per chi gli stava accanto e doveva affrontare i piccoli e grandi fastidi di una famiglia abbastanza
numerosa. E qui mi sento coinvolta anch’io, che – come
dicevo – da questo punto di vista, mi sento molto vicina
a mio fratello.
Ancora ho nelle orecchie i rimproveri di Giovanni, il
quale non ammetteva che una donna potesse far propria una simile regola di vita e successivamente, anche
le figlie hanno fatto le loro rimostranze per le mie manchevolezze. (per la verità, quando anche loro hanno
sperimentato le difficoltà dell’essere madri, hanno addolcito alcuni giudizi nei miei confronti).
Che altro dirti, cara la mia Pia? Dovrei scriverti tante altre
cose , ma mi fermo; questa è una lettera-fiume.
Ho sempre sentito per te molta simpatia. Ho ammirato
la tua capacità di lavoro quando affrontavi tutti i problemi casalinghi, compresi quelli degli animali che Vitangelo ti scaricava tranquillamente, come faceva con nostra
madre. Forse ora non hai animali in casa, spero. A proposito dei quali, in famiglia, solamente mio padre ed io
e forse, tra i nipoti, Silvio, figlio di Donatella, prendiamo
le dovute distanze.
In famiglia, tutti stravedono per gli animali. Non so se
piacciono anche a te o se li hai semplicemente sopportati Mia madre se li sarebbe messi nel letto, se il marito
glielo avesse permesso. Da questo punto di vista io apprezzavo la dedizione e la pazienza con cui ti facevi carico di tutti i problemi familiari e... zootecnici.
Forse ora hai diritto ad un po’ di riposo e ad un po’ di
tempo da dedicare a te e a Gian. Dopo tutto, ad una certa
età, bisogna cominciare a tirare i remi in barca e vivere secondo le proprie antiche aspirazioni. Fare ciò che per
mille motivi, non si è potuto fare da giovani. Per fortuna
hai un buon compagno. Sono stata contenta di aver potuto parlare con lui (per la verità lo avrò subissato di parole, in quei pochi giorni in cui sono stata a Sirmione).
Forse più in là riprenderò tutti questi ricordi che sono un
po’ disordinati. Ora vorrei farti giungere il mio scritto
quanto prima. Come ho già detto, parlare di Vitangelo
mi tormenta non poco. Sono stata felice di avere trovato
i tuoi figli tanto legati alla famiglia. Ho fatto proprio un
“bagno” di affetto familiare. Sei veramente riuscita a
“fare l’Unità d’Italia”. Che bellezza!
Addio, cara, spero di vederti quanto prima. Abbraccia per
me Gian ed i tuoi ragazzi. Un grosso bacio.
Liliana Gadaleta Minervini
ATTIVITÀ DI COMUNITÀ
Dal mese di novembre, la Comunità di Minervino di
Lecce, si riunisce ogni giovedì presso l’Oratorio di
tutti i Santi per incontrarsi ed incontrare la Parola.
CONDOGLIANZE
… e nel cammino della vita, un altro compagno di
viaggio si è ricongiunto al Divino.
Giannetta Umberto, nostro caro confratello, membro da sempre della C.V.C.I., persona amata e stimata da tutti, si è spento Lunedì 5 Dicembre.
A nome di tutta la Comunità Vetero-Cattolica Italiana, esprimiamo alla famiglia le nostre più vive
condoglianze e fervide preghiere.
BUON NATALE
“…Amerai il prossimo tuo come te stesso”(Mt
22,39).
Che ogni cuore possa riassaporare il gusto genuino
di sentirsi in armonia con se stesso e con il prossimo.
A voi tutti, fratelli: Buon Natale!
Per l’occasione, ci è gradito segnalarvi una piccola,
ma preziosa pubblicazione, ultima fatica di Giuseppe Giulino, autore di tante altre opere da noi
apprezzate e divulgate: “Signore dacci sempre
questo pane” (editrice: Ancilla).
dialogo_DIC_2011_DEF_Layout 1 25/01/12 11:19 Pagina 12
il dialogo
Direttore Resp. Dr.ssa Cristina Caroppo
Reg. 233 Trib. RE
Redaz. Missione Cristcattolica
Direz. e Amm. Via Matteotti, 27
42019 Scandiano (RE)
Sito internet: www.chiesaveterocattolica.it
e-mail: [email protected]
Stampato da: Lisanti srl
Scarica

il dialogo dicembre 2011