L’educazione degli adulti
Effetto Gelmini • Evoluzione delle politiche scolastiche
in Emilia Romagna • Una via all’integrazione • Perchè
non leggere ai ragazzi cosa scrivono gli scienziati? •
La scuola “Rinascita” di Milano anticipa la proposta
Aprea • Italia in festa • Fare media • Vietato studiare
nella valle dello Swat • Berlino, la Germania e
l’insegnamento della religione • Piacere, barone von
Uexküll • Scienze. I laboratori dimenticati • Dittature
reali e dittature virtuali • Il mago del gioco • La rete
e l’integrazione sociale dei disabili • In mare aperto
cercando se stessi • TEXT Globalizzazione e scienza:
elogio della diversità
GIUGNO 2009
TEMA
NUOVA SERIE NUMERO 73 - GIUGNO 2009 (1. 2009) • Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, DCB (Como) • 8 EURO
idee per l’educazione
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NUMERO 73 GIUGNO 2009
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Redazione
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Bianca Dacomo
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Trasatti, Stefano Vitale
Collaboratori
Giovanna Alborghetti,
Monica Andreucci, Guido
Armellini, Antonella
Baldi, Marta Baiardi,
Antonia Barone, Gabriele
Barrera, Annita Benassi,
Giorgio Bini, William
EDIT
PRE
Effetto Gelmini • ANTONIA BARONE
TEMA L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI a cura di MARISA NOTARNICOLA E COSIMO SCARINZI
Potenzialità e rischi
I Ctp come free zone • ORLANDO DE GREGORIO, PAOLA GONELLA, MARESA VOTTERO
La scuola tagliata • FILIPPA LA VILLA
Uno tsunami sulla scuola serale • ALFONSO NATALE
Un’isola felice a Catania • GIOVANNA RUFFINO
Diritto allo studio • CATERINA ARENA, FABIO MANTEGAZZA
La pratica democratica favorisce l’integrazione • GUIDO ARMELLINI
IDEE PER L’EDUCAZIONE
Evoluzione delle politiche scolastiche in Emilia Romagna • BRUNO MORETTO
Una via all’integrazione • ARIANNA DANELON
ESPERIENZE NARRATE Perchè non leggere ai ragazzi cosa scrivono gli scienziati? • SILVIA CARAVITA
LE LEGGI La scuola “Rinascita” di Milano anticipa la proposta Aprea • CORRADO MAUCERI
NUOVI ARRIVI Italia in festa • LIDIA GARGIULO
NOTE IN CONDOTTA Fare media • ANDREA BAGNI
MAPPAMONDO
Vietato studiare nella valle dello Swat • CELESTE GROSSI
Berlino, la Germania e l’insegnamento della religione • PINO PATRONCINI
DE RERUM NATURA
Piacere, barone von Uexküll • FILIPPO TRASATTI
Scienze. I laboratori dimenticati • NUCCIA MALDERA
MODI E MEDIA
CINEMA dittature reali e dittature virtuali • STEFANO VITALE
GIOCO Il mago del gioco • NADIA LENARDUZZI
Un vocabolario tutto per noi • MONICA LANFRANCO
NAVIGO ERGO SUM La rete e l’integrazione sociale dei disabili • EDOARDO CHIANURA
HUMUS
ANNI VERDI In mare aperto cercando se stessi • STEFANO VITALE
TEXT
TEXT Globalizzazione e scienza: elogio della diversità • MARCELLO CINI
TREND • LORENZO SANCHEZ
Bonapace, Franco
Calvetti, Andrea Canevaro,
Minny Cavallone, Edoardo
Chianura, Angelo
Chiattella, Rosalba
Conserva, Vita Cosentino,
Marina Di Bartolomeo,
Lella Di Marco, Mauro
Doglio, Lidia Gargiulo,
Maria Letizia Grossi,
Toni Gullusci, Monica
Lanfranco, Mariateresa
Lietti, Marco Lorenzini,
Franco Lorenzoni,
Francesca Manna,
Raffaele Mantegazza,
Corrado Mauceri, Cristina
Meirelles, Alberto Melis,
Luciana Mella, Bruno
Moretto, Giorgio Nebbia,
Filippo Nibbi, Enrico
Norelli, Laura Operti,
Carlo Ottino, Giuseppe
Panella, Pino Patroncini,
Vito Pileggi, Nevia
Plavsic, Rinaldo Rizzi,
Marcello Sala, Nanni
Salio, Antonia Sani,
Cosimo Scarinzi, Maria
Antonietta Selvaggio,
Angelo Semeraro,
Scipione Semeraro, Rezio
Sisini, Monica Specchia,
Marcello Vigli
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Rosso, Filippo Trasatti
(presidente), Stefano
Vitale
costruirel’uguaglianzaliberareledifferenze
edit
Restiamo umani
CELESTE GROSSI
«G
eneralmente sono di piccola statura e di pelle scura. […] Si presentano di solito in
due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
[…] Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano
dediti al furto e, se ostacolati, violenti. […] I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel
nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività
criminali. […] Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. […] Vi invito a controllare i documenti di provenienza
e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione». Così si legge
in una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati
italiani negli Stati Uniti, dell’ottobre 1912.
Ma veniamo a oggi. Una dirigente scolastica di Genova nel mese di maggio è finita sui giornali
per aver scritto sulla lavagna i nomi delle allieve e degli allievi stranieri prossimi alla maggiore
età. Un’altra, di Padova, ha chiesto il permesso di soggiorno ai maturandi. Due “anticipazioni”
di comportamenti che potrebbero diventare “normali” se la legge sulla “sicurezza”, già passata
alla Camera, passerà anche al Senato (temo sarà già avvenuto quando leggerete questo editoriale). La norma non “obbligherà” dirigenti scolastici e medici a denunciare i clandestini ma,
contenendo il reato di clandestinità e quindi l’obbligo implicito per i pubblici funzionari di
denunciare chi quel reato commetta, metterà i dirigenti nelle condizioni di “essere più realisti
del re” e sicuramente scoraggerà le giovani e i giovani adulti stranieri senza permesso di soggiorno dall’iscriversi a scuola; o, i genitori dall’iscrivere a scuola i figli e le figlie.
Le norme disumane che stanno per diventare legge ledono i diritti internazionalmente riconosciuti di bambine e bambini destinati a crescere come fantasmi nel nostro paese. E ledono anche la Costituzione italiana che all’articolo 34 afferma: «La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e
meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Altro che Stato che rimuove ogni
ostacolo perché la scuola sia concretamente accessibile a tutti e a tutte e l’istruzione sia generalizzata…
E la caduta della solidarietà sociale − costruita negli anni da politici e giornalisti agitando la
paura dell’altro e proponendo capri espiatori di fronte alla precarietà e all’insicurezza dell’esistenza, coltivate e aggravate dalla crisi economica − renderà accettati e accettabili dagli “italiani-ariani” comportamenti disumani.
E pensare che di quelle bambine e di quei bambini invisibili che si creeranno con l’articolo
che prevede non possano essere dichiarati all’anagrafe i figli dei “clandestini” la società e
la scuola italiane hanno assolutamente bisogno. Come ci ricorda da tempo il presidente del
“Comitato oltre il razzismo” di Torino, Francesco Ciafaloni, la caduta della fertilità in Italia è
cominciata nel 1964. La popolazione italiana residente continua, lentamente, a crescere (ha
superato di recente i 60 milioni), solo perché si tratta di residenti e non di cittadini italiani.
Infatti quattro di quei 60 milioni sono stranieri. E, se ai nati in Italia aggiungiamo le bambine
e i bambini ricongiunti, è presto spiegato come mai alle elementari la percentuale di stranieri
continua a salire, e continuerà prevedibilmente a farlo ancora, a meno di espulsioni. Queste
bambine e questi bambini sono la nostra speranza di futuro e sono anche coloro che consentono di mantenere aperte molte delle classi delle nostre scuole. Se sparissero, altro che tagli
della Gelmini!
«Fino ad ora c’è stato un equilibrio ipocrita tra le feroci dichiarazioni contro l’immigrazione e
la pratica, inevitabile, accettazione», dice Francesco Ciafaloni. Di fronte a questo mutamento
profondo di prospettiva, riuscirà la scuola a continuare ad essere il luogo di convivenza, integrazione e confronto fra le giovani generazioni, come la nostra Costituzione ci ha insegnato?
pre
Effetto Gelmini
Un’insegnante si interroga sui provvedimenti che hanno ridisegnato e ridisegneranno
ancor di più di nel prossimo anno scolastico la scuola secondaria di primo grado
ANTONIA BARONE
E
ra un pigro pomeriggio di piena estate
quello del primo agosto 2008 quando la voce
monocorde di uno speaker radiofonico tra
l’annuncio di un’eclissi e quello dell’aumento
del prezzo al dettaglio delle fette di melone
recitò: «Contro il bullismo a scuola torna il
voto in condotta e si insegnerà la nuova materia di Cittadinanza e Costituzione».
Ma come? Torna il voto in condotta? Ma torna da dove? Se buona parte delle ore spese
nella Commissione Pof sono state dedicate
negli ultimi quattro anni ad elaborare complicate griglie di valutazione del comportamento dei miei alunni, se le discussioni più
accese durante gli scrutini si sono scatenate per discernere se è più grave uscire dall’aula per andare ai servizi senza chiedere il
permesso all’insegnante o spingere la prima
della classe lungo le scale al termine delle
lezioni?
Ma a cosa serve se la scheda di valutazione
delle varie discipline è accompagnata da un
giudizio globale e dettagliato sull’alunno che
descrive il suo rapporto con compagni e insegnanti, la sua partecipazione alla vita scolastica, l’impegno in classe e a casa, il percorso di maturazione come individuo inserito
in una comunità, le competenze trasversali
acquisite a livello di analisi e sintesi?
Ma come? Una nuova disciplina? Se per anni
sono stata docente di italiano, storia ed educazione civica e geografia e poi di educazione alla convivenza civile quando ci siamo
arrabattati per spartirci le famose sei educaécole numero 73 pagina
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zioni di Fioroni tra le diverse discipline?
Nuova? Ma se probabilmente tutte le mie lezioni di italiano, storia e geografia sono costruite in modo da favorire anche il raggiungimento degli obiettivi alla base di Educazione
alla Cittadinanza e alla Costituzione? E adesso tutto questo deve essere rinchiuso in 33
ore di lezione all’anno da comprendere nell’ambito storico-geografico-sociale e oggetto di specifica valutazione: vale a dire quattro ore settimanali per storia, geografia,
Cittadinanza e Costituzione e tre distinte valutazioni sulla scheda: una vera follia!
Cosa cambia tra sei e sufficiente?
Naturalmente questa era solo una timida avvisaglia (soprattutto per quanto riguarda il
metodo: decido quello che mi pare pur non
essendomi mai occupata dell’argomento senza chiedere il parere né di esperti, né delle
componenti della scuola) e il peggio doveva
ancora arrivare... Dunque ecco il famigerato
decreto 137 ed ecco che si capisce che:
Art. 1 «Cittadinanza e Costituzione è introdotta in forma sperimentale e saranno attivate iniziative di formazione del personale».
Art. 2 «Il comportamento di ogni alunno viene valutato in decimi e questa valutazione
determina, se inferiore a sei decimi, la non
ammissione al successivo anno di corso o all’esame conclusivo del ciclo».
Art. 3 «La valutazione degli apprendimenti e
la certificazione delle competenze è espressa
in decimi. Per essere promossi è necessario
un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline».
Il tutto a firma Gelmini, Tremonti, Brunetta.
Riunioni e riunioni, parole e parole, opinioni
diverse, confronti, mediazioni: in fondo cosa
cambia tra sufficiente e sei? Così siamo uguali a quelli delle superiori! Finalmente potremo
bocciare Tizio, Caio e Sempronio che mi rispondono sempre male: adesso dovranno stare attenti! Non bisogna vergognarsi di pronunciare
le parole condotta e obbedienza, è ora che ci
riprendiamo un po’ di rispetto e autorità anche
da parte dei genitori...
E l’autorevolezza per quanto amiamo e insegniamo che nulla ha a che vedere con l’autorità? E la valutazione degli apprendimenti
personali, il suo valore formativo, la considerazione dei livelli di partenza, la didattica costruttivista, laboratoriale, cooperativa,
la valorizzazione e l’accettazione delle differenze, l’intelligenza multipla, i diversi stili di
apprendimento, la consapevolezza metacognitiva, il senso di autostima e l’autonomia
personale?
Tutto questo non può che essere legato ad
una valutazione descrittiva, attenta ai ritmi
di crescita e alla complessità dei processi di
apprendimento già non pienamente espressa
dal giudizio sintetico, ma il voto numerico,
sinonimo di misurazione aritmetica e scientifica non è un passo indietro a questo proposito?
Questo tipo di scelta non è controcorrente rispetto alle raccomandazioni e gli indicatori
elaborati nell’ambito dell’Unione Europea che
dovrebbero costituire un riferimento condiviso?
Gli intenti risparmiosi di Tremonti
e Brunetta
La conferma nero su bianco degli intenti risparmiosi di Tremonti e Brunetta (a proposito del quale non si possono dimenticare i
continui insulti alla categoria dei docenti e
gli indecenti provvedimenti sulla malattia e
i controlli fiscali a carico dei singoli istituti
scolastici) è arrivata puntualmente il 25 novembre 2008 con lo “Schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca di concerto con il
Ministro dell’Economia”.
Si legge che ««il provvedimento è volto alla
razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse
umane e strumentali del sistema scolastico»,
vi si annuncia che «i piani di studio, le discipline e i carichi orario saranno riesaminati
e “essenzializzati”». L’orario obbligatorio delle lezioni per la scuola secondaria di I grado è definito in 29 ore settimanali (rispetto
alle 32 attuali). Le classi a tempo prolungato
saranno ricondotte all’orario normale qualora non dispongano di servizi e strutture per
lo svolgimento obbligatorio di attività pomeridiane per almeno tre giornate a settimana
ovvero non sia previsto il funzionamento di
un corso intero a tempo prolungato. Il tempo prolungato avrà un orario massimo di 36
ore settimanali.
Spariranno i plessi e le sezioni staccate con
meno di 50 alunni e il rapporto alunni-classe
si eleverà di uno 0,20 con riferimento all’anno scolastico 2009/2010 e di uno 0,10 in ciascuno dei due anni successivi.
Tutte le cattedre saranno ricondotte a 18 ore
con buona pace per gli interventi di sostegno
agli alunni in difficoltà, le attività di compresenza tra docenti con competenze diverse
e sinergiche e senza più la possibilità di coprire le eventuali supplenze brevi che saranno totalmente a carico degli istituti scolastici
già ora in affanno su questo capitolo di spesa
con situazioni indescrivibili di classi accorpate, sorveglianze da parte del personale non
docente e soluzioni creative di distribuzioni
di gruppi di alunni in classi non loro.
no popolato la scuola di gruppi di alunni e
alunne di classi diverse motivati a seguire volontariamente laboratori di approfondimento, attività interdisciplinari e corsi sportivi.
Nessuna possibilità di scelta personalizzata e
armonizzata con gli impegni extrascolastici,
le proprie capacità e i propri interessi: o le 30
ore del mattino o il pacchetto completo preconfezionato per una classe intera che comprenderà solo ore aggiuntive di materie letterarie e matematica e scienze, discipline nelle
quali il Miur ha ravvisato un maggior bisogno
di recupero per gli alunni italiani secondo i
dati Ocse Pisa.
La conseguenza? Almeno in Lombardia, dove
la Regione contribuisce al pagamento delle
rette degli istituti paritari, “l’effetto Gelmini”
ha fatto sì che il prossimo anno ci saranno
2.300 alunni in meno nella secondaria di primo grado pubblica (che si aggiungono ai quasi 24 mila dell’anno scorso).
Per non parlare dei tentativi maldestri di
mettere una pezza ai tagli utilizzando volontari nelle scuole per assistere gli alunni di pomeriggio come proposto da alcune
Amministrazioni comunali.
Altra novità la possibilità di scegliere l’insegnamento potenziato dell’inglese ovvero unire le tre ore settimanali curricolari di lingua
inglese alle due della seconda lingua comunitaria ottenendo così cinque ore settimanali di inglese.
Il tutto in evidente contrasto con gli obiettivi stabiliti dal Trattato di Lisbona, contravvenendo alle direttive europee e suscitando
la reazione del Commissario Europeo per il
Multilinguismo Leonard Orban.
E le due ore di seconda lingua? Potranno essere impiegate per l’insegnamento di italiano lingua2 per gli stranieri: ovviamente i docenti che saranno destinati a ciò sono per lo
più privi di esperienza e formazione specifica, tutto sarà lasciato alla buona volontà dei
singoli e immaginate un po’ cosa potrà fare
una povera insegnante di francese alle prese
con un alunno cinese al quale dovrà insegnare l’italiano... Ma tutto sommato è già molto viste le proposte razziste di formazione di
classi ponte o ghetto per stranieri (naturalmente quelli con i genitori “in regola” perché non è pensabile che la scuola possa accogliere figli di pericolosi clandestini alla faccia
dei più elementari fra i diritti umani che dovremmo insegnare con la nuova disciplina di
Cittadinanza e Costituzione...).
Terminato il primo quadrimestre con la consegna della nuova pagella a voti in decimi
(posta tra le mani dei genitori con tabelle-legenda di supporto per esplicitare il raggiungimento degli obiettivi), ecco la nuova circolare sull’adozione dei libri di testo: nella
secondaria di primo grado da ora in poi, adottato un libro di testo, non lo si può più cambiare per sei anni! (per fortuna, accogliendo
un ricorso, il tar del lazio l’ha sospesa).
Pressati dall’ansia per la pubblicazione dei
trasferimenti (colleghi in servizio da anni nella stessa sede hanno rinunciato alla continuità per paura di essere perdenti posto dopo la
revisione degli organici) e per lo svolgimento
(forse per l’ultima volta) del truce rito della compilazione delle domande per l’iscrizione e l’aggiornamento delle graduatorie permanenti, abbiamo saputo che la ministra
Gelmini ha firmato il 2 aprile 2009 il Decreto
Interministeriale sugli organici 2009-2010 per
il personale docente. La scuola secondaria di
primo grado vedrà una riduzione complessiva
nelle cattedre di diritto di circa 10.452 posti.
Le promesse irrealizzabili
E le prime promesse cominciano a risultare
irrealizzabili, per esempio non vengono stabilizzate in organico le due ore aggiuntive di
inglese anche dove richieste dalle famiglie.
Il 13 marzo il Consiglio dei Ministri ha approvato il regolamento sulla valutazione degli alunni. E il famoso voto della condotta
antibullismo? Sempre in decimi, ma il 5 che
porta alla bocciatura è destinato solo ai casi
più gravi in cui nei confronti dell’alunno cui
sia stata precedentemente irrogata una sanzione disciplinare e, udite udite, nel secondo
quadrimestre «il voto numerico sarà illustrato
con specifica nota».
Open day come forma di resistenza
Poi ecco una nuova fondamentale tappa: è il
famoso open day che quest’anno è diventato
il simbolo della resistenza all’opera di distruzione della scuola pubblica a partire dalla riduzione del suo tempo. Abbiamo spiegato ai
genitori quanto fosse importante richiedere e
ottenere più ore di lezioni (con il rischio di
fare leva sulla mera necessità di parcheggio
gratuito pomeridiano dei figli).
Ed ecco la triste verità. Scelta tassativa tra
due soli moduli orari: 30 ore settimanali con
sole materie curricolari o tempo prolungato a
36 ore (due rientri pomeridiani di due ore con
servizio mensa).
Spariti tutti i laboratori opzionali che dalla
Riforma Moratti in poi, di pomeriggio, hanécole numero 73 pagina
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All’Aquila
“La città della
formazione”
dopo il G8
SERENELLA OTTAVIANO *
C
are Cittadine e cari Cittadini,
parlo come madre, insegnante e terremotata-sfollata dell’Aquila. La mia incertezza sul futuro è pari
a quella di molte e molti degli aquilani, così come la confusione mentale e logistica. Ogni giorno
mi confronto con quanti si trovano nella mia stessa situazione e scopro che tutti coloro che hanno
figlie e figli (da zero a venti anni circa) si domandano con inquietudine cosa potranno offrire loro e,
soprattutto, quando. E non trovano risposte.
È sì prioritario un tetto solido, ma altrettanto fondamentali risultano essere l’erogazione di servizi e
l’offerta di opportunità di crescita formativa, culturale, sportiva e di relazione sociale. Benché terremotati e sfollati, siamo e restiamo comunque cittadine e cittadini (appunto!) di una delle potenze
mondiali e di una città che sarà messa nelle condizioni di ospitare a breve un G8!
Tutti lo sanno: molti aquilani stanno emigrando, o progettando di farlo, e non solo per paura, ma
per garantire a figlie e figli sicurezza e opportunità maggiori di quanto L’Aquila potrà realisticamente
offrire nei prossimi immediati mesi. Quanti?
Tutti lo sanno: molti studenti che frequentavano le scuole secondarie superiori, provenendo da fuori
città, stanno già scegliendo altre sedi per il prossimo anno scolastico.
Giusto o sbagliato, è così.
Lo stress post-traumatico di questo incidente di percorso nella vita della nostra città-regione-nazione (perché il sisma del 6 aprile non deve e non può restare un caso intra-moenia) sta toccando
anche gli abitanti della Marsica, per esempio, della Valle Peligna, del teramano e del reatino, soprattutto quelli i cui figli frequentavano le scuole superiori o l’università a L’Aquila.
Non è sufficiente reagire con dignità. Essere pro-attivi e creativi è la rampa di
lancio se si vuole riprendere a volare (come ho letto in tanti slogan che massaggiavano il cuore ferito)!
Come madre, benché abbia una casa inagibile, tornerei immediatamente a vivere
in città (in un camper, in una casa di legno, ospite di parenti e amici che hanno
la casa in piedi…) se solo sapessi che anche mia figlia Irene, di otto anni, potrà
viverci, crescendo dignitosamente e orgogliosamente, e non soltanto sopravvivere! Tornerei tra mille difficoltà se sapessi – e come me tanti e tante – che
uno scuolabus passerà a prenderla per portarla in una comunità nella quale tanti bambini e adolescenti avranno l’opportunità di confrontarsi, istruirsi attivamente e formarsi, in un ambiente adatto, confortevole e sicuro, accedendo così
alla fruizione di quei diritti costituzionali che, solo in questo modo, potrebbero
avere espressione reale e non risolversi in mere ipotesi di intenti democratici.
E allora? Non è possibile realizzare un sogno?
Questo è il sogno-proposta: che la sede della scuola della Guardia di Finanza,
dopo il G8, diventi “La città della formazione”.
Ci sono spazi e strutture sufficienti (consolidate in modo antisismico e messe in
sicurezza) per ospitare tutti gli asili nido, le scuole per l’infanzia, quelle primarie e secondarie, di primo e secondo grado, di cui disponeva la città. Si potrebbe addirittura sperare di continuare a proporre, a tutta la popolazione scolastica, il cosiddetto ampliamento dell’offerta formativa pre-terremoto: la cittadella
in questione è, infatti, dotata di palestra, piscina, auditorium-teatro, sala conferenze, mensa-ristorante, infermeria ecc. ecc. con annessi parcheggi e rete stradale idonea a ché minibus (elettrici?
così promuoviamo anche l’educazione al rispetto dell’ambiente e ci facciamo amica una natura che,
ogni tanto, ci ricorda quanto è potente?) minibus, dicevo, e mezzi vari di trasporto possano accompagnare, in questa “città della formazione”, tutti i cuccioli di un’“Aquila” ora un po’ tramortita.
Si potrebbe anche ipotizzare qualche ala per le lezioni universitarie e magari ospitare, sotto tetti
a norma, studenti e studentesse fuori sede da coadiuvare mediante borse di studio – come già sta
proponendo il Dipartimento di Fisica dell’Univaq.
Se una struttura così può essere convertita, in pochissimi mesi, a luogo idoneo per ospitare i Grandi
del Mondo… bene! In un paio di mesi (e davvero!) potrà essere ri-convertita a città dell’accoglienza
e della formazione delle piccole e piccoli Grandi della città dell’Aquila! C’è tutto. Basta volerlo. Basta
che la Scuola della Guardia di Finanza conceda i suoi spazi soltanto per il tempo necessario alla ricostruzione delle sedi “giuste” nei luoghi “giusti”.
È un sogno? Forse.
Ma se è vero che c’è bisogno di ali... ecco: le abbiamo! Dobbiamo solo aprirle e iniziare a volare!
Sindaco dell’Aquila, Presidente della Provincia e della Regione, Direttore Generale dell’Ufficio
Scolastico Regionale, Ministro Gelmini e Presidente del Consiglio hanno gli strumenti per aiutarci.
Se condividete la mia proposta vi chiedo di inviare mail con allegata la lettera-proposta, firmata da
chi invia, o da più persone, ai seguenti indirizzi: [email protected]; provincia@provincia.
laquila.it; http://www.regione.abruzzo.it/portale/index.asp?modello=presidente&servizio=xList&sti
leDiv=mono&template=default&b=presidente; [email protected]; [email protected].
* Insegnante, terremotata-sfollata dell’Aquila.
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TEMA
L’educazione degli adulti
A CURA DI MARISA NOTARNICOLA E COSIMO SCARINZI
Potenzialità e rischi
S
embra ragionevole che tutto il settore dell’educazione degli adulti (Centri
territoriali permanenti e scuole serali, in sintesi Eda) a lungo rimasto agganciato e, per alcuni versi, subordinato alle esigenze delle singole scuole di appartenenza, possa riorganizzarsi e usufruire di mezzi e spazi propri nell’esercizio di
autonomia gestionale ed amministrativa.
Già le ipotesi circolate ai tempi di Fioroni, per la verità, erano tutt’altro che
chiare e, considerando la politica di tagli di risorse ed organici già in cantiere,
rassicuranti. Era evidente, fra l’altro, che vi sarebbero stati, nella migliore delle
ipotesi difficoltà nel raccordo fra settore dell’Eda e istituti nei quali si sarebbe
svolta la loro attività in particolare per quanto riguarda la gestione dei locali,
delle attrezzature, dei laboratori.
Una “riforma” a costo zero che prevedeva l’accorpamento dei serali e dei Ctp nei
Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) promessa dall’ex ministro
Fioroni, si è trasformata in una “riforma“ basata sul dimensionamento delle risorse previsto dal piano programmatico della Gelmini.
Tutto ciò nonostante la richiesta di formazione da parte degli adulti, in rapporto
anche ad una accresciuta sensibilizzazione dell’importanza dell’apprendimento
per tutto l’arco della vita e delle indicazioni dell’Unione Europea di aumentare il
livello di istruzione, con il conseguimento di un titolo di studio, da parte della
popolazione dell’Unione di età compresa tra i 24 ed i 60 anni.
E non si è, tanto meno, tenuto conto del lavoro prezioso fin qui svolto nell’ambito dell’Eda nel recupero all’istruzione di fasce di popolazione ai margini di un
percorso formativo rimasto incompleto; dell’impegno per una tenuta della coesione sociale, data la realtà di chi frequenta i corsi sia nei canali istituzionali
che al di fuori, realtà estremamente variegata per etnia, provenienza e cultura;
né della capacità innovativa nel ripensare il rapporto educativo, i contenuti, i
metodi didattici, nonché il concetto stesso di cittadinanza e di democrazia, accettando la sfida proveniente da quel mondo.
Da una parte vi è un universo ricco di esperienze, di innovazione, di relazioni, un universo nel quale il ruolo dell’insegnante conquista quel senso che una
scuola burocratizzata ed aziendalizzata troppo spesso nega, dall’altro una mera
logica economica, quella logica dei tagli che sta colpendo la scuola pubblica.
Come sovente avviene, nell’Eda vi sono molte situazioni di eccellenza, gruppi di
insegnanti che, operando assieme agli studenti, ridanno significato al fare scuola. Vi è, però, il rischio evidente che le contraddizioni, le difficoltà, la mancanza
di risorse si scarichino sul personale e sugli studenti con l’effetto di condurre al
degrado questo segmento del sistema dell’istruzione.
Un Eda veramente funzionante, infatti, richiederebbe investimenti adeguati,
percorsi formativi per il personale, capacità di porre in relazione istituti scolastici, comunità degli immigrati, associazioni che operano sul territorio. Non si
tratta solo di un dato economico, si tratta di permettere che l’Eda sia a pieno
quello straordinario laboratorio sociale che è già in potenza.
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I Ctp come free zone I centri
territoriali permanenti per la
formazione degli adulti come
laboratori interculturali,
luoghi di accoglienza,
incontro e nascita di nuove
relazioni, luoghi di scambio
di conoscenze, esperienze e
storie, di riconoscimento della
propria dignità in opposizione
ai meccanismi di esclusione
ORLANDO DE GREGORIO, PAOLA GONELLA, MARESA VOTTERO *
N
el 1997 il Ministero della Pubblica
Istruzione ha dato vita ai Centri territoriali
permanenti per l’Educazione degli adulti, trasformazione delle “150 ore”, per l’alfabetizzazione e il conseguimento del diploma di terza
media e per un rientro in formazione scolastica integrato con la formazione professionale
e i servizi territoriali.
Una scuola che precorre i tempi
I numerosi Ctp esistenti hanno rispecchiato, con differenze territoriali significative,
l’evoluzione di una collettività complessa e
multietnica, evidenziando in tempo reale le
sempre più veloci trasformazioni in atto nella società.
Il “Gabelli” di Torino, per esempio, che ha
visto passare in dodici anni più di diecimila iscritti, con età compresa tra i 16 e gli 84
anni (ma non c’è limite), ha dovuto dotarsi
nel tempo di una complessa organizzazione
didattica e logistica, dal nido interno per i
figli degli studenti a un data-base articolato
e in costante aggiornamento, per ottimizzare le scarse risorse di personale docente e rispondere via via ai consistenti e poco prevedibili flussi di studenti con caratteristiche e
bisogni sempre più articolati.
È in atto una profonda trasformazione dell’educazione agli adulti che conferisce autonomia ai centri “senza oneri di spesa”. Dal
prossimo anno scolastico, ad esempio, gli
otto Ctp esistenti attualmente a Torino diventeranno transitoriamente quattro Cpia (Centri
per l’istruzione degli adulti), con autonomia
amministrativa. I centri prevedono la fusione
dei Ctp con i bienni serali delle superiori.
école numero 73 pagina
8
I percorsi dell’Eda
Ecco come un docente con una lunga esperienza nel settore, descrive i cambiamenti avvenuti nell’ambito della formazione per adulti: «Prima nascono le 150 ore dopo il ‘68-‘69
come vittoria del movimento operaio, l’idea
era quella della conquista del diritto allo studio, erano infatti ore retribuite per la formazione. La maggior parte degli allievi era immigrata come oggi, ma allora venivano dal Sud
come lavoratori. Nel decennio tra l’80 e il ’90,
con la crisi occupazionale abbiamo avuto in
prevalenza italiani privi del titolo di studio e
casi sociali, ora abbiamo per la maggior parte
immigrati stranieri, non so come la crisi potrebbe modificare nuovamente la situazione».
In questi anni al bisogno di apprendimento
della lingua italiana da parte degli stranieri
ha risposto principalmente la scuola pubblica
per adulti, e così i Ctp si sono notevolmente trasformati per rispondere al nuovo tipo di
domanda.
La tipologia degli allievi è diversificata, con
un maggiore grado di istruzione nella popolazione immigrata: «I dati ci dicono che il livello di scolarizzazione tra gli stranieri è mediamente più alto di quello della popolazione
autoctona. Se si tiene conto però del tasso di
analfabetismo si evince una situazione molto
variegata a seconda dell’area...».1 Le attività del Ctp rispecchiano fortemente questa caratterizzazione della popolazione immigrata,
si lavora suddividendo gli studenti in gruppi
aperti il più possibile omogenei (vi sono 5
differenti livelli di matematica, 7 di lingua,
oltre ai laboratori di conversazione e di redazione scritta).
Un laboratorio multiculturale
I cambiamenti avvenuti nel corso del tempo fanno dei Ctp, almeno questa è l’esperienza del “Gabelli”, dei laboratori di incontro e
scambio multiculturale, non solo dei luoghi di
formazione stricto sensu. La nostra scuola si
inserisce in un contesto dominato da un quadro legislativo discriminatorio e da un clima
di intolleranza verso il “diverso”.
È proprio su questo terreno che si combatte
la sfida più importante e difficile.
Come emerge da uno studio sociologico svolto presso il nostro Ctp nel 2008, gli allievi
intervistati evidenziano della scuola (ancor
prima delle possibilità formative) «il clima
di accoglienza e riconoscimento della propria
dignità in opposizione al clima di diffidenza e
discriminazione vissuto all’esterno, la nascita
di nuove relazioni, il superamento reciproco
di pregiudizi».
Italiani, africani, asiatici, americani del Nord
e del Sud e australiani, rappresentano la stupefacente umanità che ogni giorno, dalle 10
del mattino alle 10 di sera, si affaccia nel micro mondo della nostra scuola. L’associazione
ex allievi e un collettivo spontaneo di lavoro
testimoniano più di ogni altra cosa il clima di
collaborazione tra studenti e docenti. Questa
esperienza di “multiculturalismo quotidiano”
ci permette di osservare la realtà da un angolo visuale, purtroppo ben poco esplorato dai
mass media e dal potere politico. È importante tenere a mente infatti che, ancor prima che
a culture e comunità, noi insegnanti o volontari in questo settore, ci rivolgiamo a persone, e quindi a storie individuali e in divenire.
Per dirla con Sen2, gli individui non combaciano con una sola identità, ma ne rivestono diverse e possono disporre della capacità di selezionarle e integrarle. Non vogliamo
descrivere il “Gabelli” come se stessimo raccontando una favola multiculturale: i conflitti
esistono e si acuiscono dove minore è la disponibilità di risorse, eppure proprio questo
ci dice quanto sia indispensabile la difesa di
spazi in cui si apprende la capacità di mediare i conflitti.
Dialogare, trovare compromessi, includere…
si costruisce questo vocabolario mentre il ministro Maroni invita ad essere “più cattivi”.
Storie di riscatto
Leggiamo le parole di un’allieva rumena,
Simona, intervistata nel corso della ricerca:
«Io ho studiato all’università in Romania, qui
in Italia sono venuta con mio marito per migliorarmi e invece lui è diventato imprenditore, ma io faccio la donna delle pulizie e
la casalinga, sempre a pulire, a passare uno
straccio… qui a scuola sono rinata, sono tornata ad usare la testa… non è solo l’italiano, è che posso esprimermi, esprimere la mia
persona».
La scuola tagliata Il mondo
della scuola conosce in questi anni
trasformazioni profonde prodotte con
strumenti che hanno poca visibilità,
con norme disseminate in leggi,
decreti e circolari attuative che non
consentono di avere una visione
d’insieme degli stessi cambiamenti
in atto. Dalla fine del tempo pieno a
quella delle sperimentazioni, dalla
reintroduzione del voto di condotta
alla riduzione dell’orario scolastico,
in realtà tutto si spiega molto
semplicemente con la riduzione delle
risorse per la scuola. Intervista a
Francesco Vertillo, docente nei corsi
per adulti di un Ctp di Catania
Sappiamo che la vita degli immigrati in
Italia, forse ancor di più delle donne immigrate, può essere molto dura e deludente rispetto alle aspettative di partenza. Spesso i
titoli di studio non vengono loro riconosciuti, e la segregazione del mercato del lavoro
porta gli stranieri ad occupare posti sottopagati. Nelle parole di Simona, badante come
molte sue connazionali, non vi è solo la delusione seguita all’arrivo in Italia, ma anche
il racconto di una vita vissuta, possiamo dire,
“ad una dimensione”, in cui la donna si ritrova ad assumere quasi esclusivamente un solo
ruolo quello di cura e di pulizia della casa, a
casa propria e sul lavoro. La scuola in questo
senso viene vissuta da lei come la possibilità
di uscire da questo ruolo e riscoprirsi, dando
prova delle sue capacità.
Simona ha preparato per l’esame finale di terza media una relazione dettagliata e interessante sulla “violenza maschile sulle donne”.
A lezione dagli allievi
Da non sottovalutare sono anche le critiche
che la scuola riceve dai suoi allievi: dalla
scarsità di risorse agli errori di valutazione
dei bisogni.
Il lavoro di insegnane richiede la capacità di
correggersi in fieri, cosa non sempre facile.
I continui tagli correlati al cambio del quadro legislativo sulla formazione degli adulti
costituiscono un ulteriore motivo di preoccupazione per gli insegnanti. Tutto ciò nel
quadro di una crisi economica senza pari e
di un decadimento sociale e politico del nostro paese.
Quello che ci fa sperare è la partecipazione
degli immigrati alla vita pubblica, ancor di
più oggi.
Alla manifestazione dei tremila del “28 febbraio” contro il “decreto sicurezza” ha partecipato il collettivo “Gabelli”, formato da allievi ed ex allievi.
P., congolese, ha gridato al megafono: «Non
basta vantarsi di avere un amico nero o mangiare il cous cous, bisogna battersi contro la
Bossi-Fini, queste leggi sono il razzismo!».
Interculturalità non solo a parole ma nei fatti. Una bella lezione, soprattutto per noi italiani!
* Orlando De Gregorio si sta laureando in Sociologia
presso la facoltà di Lettere e Filosofia, con la tesi
“Identità, interazione e nuove solidarietà. Il caso
di una scuola multiculturale”.
* Paola Gonella è docente di Lettere presso il Ctp
“Gabelli” di Torino.
* Maresa Vottero è docente di Matematica presso il
Ctp “Gabelli” di Torino.
NOTE
1. Minuz F., “L’insegnamento della lingua italiana come politica per l’immigrazione: tendenze europee”, in Autonomie locali e servizi sociali, n. 1,
2007.
2. Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza, 2006.
FILIPPA LA VILLA *
U
n buon osservatorio per capire cosa
sta avvenendo è quello dell’Educazione degli
adulti che è sempre stato l’anello debole del
nostro sistema educativo. Ospitati per lo più
nelle scuole medie, dirette dagli stessi presidi
di quelli che negli anni scorsi sono diventati
istituti onnicomprensivi (dalle scuole materne alle medie), i Ctp (Centri territoriali permanenti), ma anche i corsi serali delle secondarie, usciranno profondamente trasformati da
misure frammentarie e dalle diverse responsabilità di Stato e Regioni. Nei dodici mesi
trascorsi dalla pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale del Decreto 25/10/2007 che prevedeva, già per l’anno scolastico 2008/09,
l’avvio dei Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti), e nei sei mesi dalla Nota
del Miur del 20 ottobre di quest’anno, ci si
aspettava che Regioni, Direzioni Scolastiche
regionali, Autonomie Locali si fossero date
da fare per promuovere momenti di confronto, per coinvolgere quanti lavorano in questo
settore, per avviare qualche sperimentazione.
E invece non c’è stata nessuna iniziativa di
rilievo. L’attesa di novità annunciate (come
denunciano in una nota alla redazione di retectp alcuni colleghi di Pavia), che però non
arrivano, ha generato sfiducia, calo di tensione progettuale, e quindi un danno serio per
il sistema Eda che ha nell’impegno di coloro
che vi operano uno dei suoi principali fattori di sviluppo. In realtà l’unica cosa certa, se
consideriamo l’articolo 64 della legge 133, è
che ci troviamo di fronte a un piano di ridimensionamento della spesa. In Sicilia ancora
non è stata presa alcuna decisione ma anche
qui la Regione sta provvedendo e discutendo da tempo il proprio piano di dimensionaécole numero 73 pagina
9
mento.
Con Francesco Vertillo − docente nei corsi per
adulti del Ctp 5, ospitato nell’Istituto comprensivo Manzoni di Catania, da quando furono istituiti i Ctp con l’ordinanza 488 del 1998
− cerco di capire qualcosa sulla situazione e
sulle prospettive dell’educazione degli adulti a Catania.
Cosa cambierà in Sicilia sulla scorta dei recenti provvedimenti?
In Sicilia si prevede l’istituzione di dieci Cpia
(Centri provinciali istruzione adulti), due in
provincia di Catania, di cui uno in città ed
uno nella zona di Caltagirone.
Per capire la dimensione della riorganizzazione basta sapere che attualmente, a Catania e
provincia i Ctp sono quattordici, otto in provincia e sei in città.
Attualmente a Catania dove si tengono i
corsi?
Alla Scuola Media “Don Milani” a LineriMisterbianco, alla periferia Ovest della città,
verso la zona commerciale; alla Scuola Media
Manzoni, nel centro storico, con succursale
nel difficile quartiere di San Cristoforo; alla
Scuola Media Recupero a Picanello, periferia Est della città, verso il mare, all’Istituto
Tecnico Alberghiero di Montepo; alla Scuola
Pestalozzi di Villaggio Sant’Agata, nei pressi
della zona dell’aeroporto, alla Scuola Media
Cavour nel centro città. La scuola media
Cavour e l’Istituto Tecnico Alberghiero si occupano anche dell’educazione nel carcere minorile di Bicocca.
L’istituto comprensivo Manzoni ha quattro
moduli, tre territoriali e uno al carcere di
Piazza Lanza.
A Catania ad usufruire dei corsi sono per lo
più connazionali. Rispetto ad altre realtà la
presenza degli stranieri è inferiore.
Ci sono dati su chi frequenta i corsi attualmente?
Studi non ce ne sono (ed è indicativo dell’interesse nullo per questi temi), ma sappiamo
che molti immigrati frequentano i nostri centri e molti altri i corsi professionali, perché
sono fortemente motivati ad avere un titolo che li immetta nel mercato del lavoro, ma
anche a imparare la lingua e a socializzare. È
interessante notare anche qui la dislocazione
territoriale. All’Istituto comprensivo Cavour
(centro Eda) sono soprattutto cinesi, all’Istituto comprensivo Manzoni senegalesi e mauriziani. Il quartiere che ospita questo istituto è quello con gli affitti più bassi, dove si è
concentrata la presenza degli immigrati.
Come cambierà l’educazione degli adulti?
Per cominciare cerco di vedere il lato positivo... Fino a questo momento i corsi sono stati coordinati dai presidi delle singole scuole
ospitanti, in seguito ci saranno dei presidi
che si occuperanno esclusivamente dei singoli Cpia. In genere i presidi che se ne sono
occupati sono stati sensibili e attenti ai problemi di questo tipo di corsi, ma in ogni caso
école numero 73 pagina
10
se ne sono occupati nell’ambito di scuole che
avevano altri problemi e anche sul piano logistico − delle aule, degli spazi – i corsi sono
stati subordinati alle esigenze delle singole
scuole. Affidare a figure ad hoc il coordinamento dei corsi potrebbe portare dei cambiamenti positivi.
Ti vedo però perplesso...
Nel passaggio dai Ctp (Centri territoriali di
educazione permanente) ai Cpia (Centri di
istruzione permanete degli adulti), oltre all’organico, si perde la parola educazione, sostituita dalla parola istruzione. L’impostazione
dei Cpia è pensata nella prospettiva dell’istruzione e qualificazione professionale, cioè delle competenze per l’individuo e non dell’educazione come agente sociale del territorio,
come dovrebbe essere secondo le stesse indicazioni dell’Unione Europea (educazione permanente e ricorrente).
Proviamo a misurare in concreto questi cambiamenti nella realtà catanese...
A Catania a chiedere una certificazione (un
titolo, licenza media o altro) non sono solo
gli immigrati. Qui il tasso di istruzione, non
solo di quello degli immigrati, ma di tutte le
fasce deboli della popolazione, è basso. Molti
connazionali si iscrivono ai corsi per avere il
diploma di licenza media. Lo dimostra anche
la sede di questi corsi, soprattutto nei quartieri a rischio, in cui ci sono ancora sacche
diffuse di analfabetismo, anche di ritorno.
Qui i corsi sono stati preziosi anche per dare
qualche speranza di miglioramento.
Che ne sarà di questo ruolo nei nuovi
Cpia?
Educazione significa formazione, socializzazione, educazione del cittadino. È quello che
abbiamo cercato di fare nei nostri corsi. La
struttura dei Cpia, così come sembra delinearsi, con i moduli individualizzati e finalizzati
esclusivamente alla certificazione, con la perdita di un insegnante di lettere (dei due che
sono presenti nei moduli attuali) e di un insegnante elementare per ogni modulo, perdono questa caratteristica e assumono la fisionomia della istruzione professionale. Già ora
accade che il nostro compito sia quello di assorbire la dispersione scolastica degli istituti
superiori, in vista di una qualificazione professionale degli studenti. Lo sarà ancora di
più nell’impostazione che viene data ai Cpia.
Ma che senso ha affidare ai Cpia l’istruzione professionale quando nel territorio
sono presenti, a questo fine, altri enti?
L’unico senso, ci sembra, è quello di continuare a tagliare le spese per la formazione e
farlo nel campo dell’educazione degli adulti
sembra più facile che altrove.
* Filippa La Villa è docente di Storia e Filosofia al
Liceo classico ”Mario Cutelli” di Catania.
Uno tsunami sulla scuola serale Le scuole serali si avviano
a scomparire, per lasciare il posto a qualcosa di indefinito
e di dubbia qualità, nonostante il compito importante di
promozione individuale e sociale da esse svolto nel tempo. I
futuri Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (Cpia)
sono un pasticciaccio: su quali sedi, organici, dotazioni
strumentali potranno contare? Dovranno affittare le aule, i
banchi, le sedie e i laboratori necessari dagli istituti che ne
ospitano le attività? Avranno sufficienti fondi a disposizione?
Se non si scioglieranno questi nodi salvaguardando la qualità
del servizio saranno l’esatto contrario della buona scuola che
tutti ci auguriamo, quella che personalizza i percorsi e forma
cittadini dotati di spirito critico e che, proprio per questo,
richiederebbe un grande impegno di personale e fondi
ALFONSO NATALE *
L
a scuola per adulti presenta specificità marcate le quali richiedono metodi, tempi e strutture differenti rispetto alla scuola
offerta a giovani in età scolare. In particolare sono indispensabili: flessibilità dei percorsi, individualizzazione dell’offerta formativa,
attenta valutazione delle conoscenze possedute, spesso acquisite in modo disomogeneo e in ambiti di apprendimento non formale. Qualcuno ha quindi pensato di realizzare
uno specifico settore rivolto all’istruzione per
adulti e in grado di seguirne i percorsi fino al
diploma di scuola superiore. L’idea non è in sé
negativa; le due gambe sulle quali dovrebbe
marciare sono, naturalmente, i Centri territoriali permanenti (Ctp) e i Corsi serali d’istruzione secondaria. Il percorso scelto, con la
costituzione dei Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (Cpia) appare però contraddittorio, incurante delle risorse esistenti, animato principalmente da una logica di
risparmio.
Infatti la costituzione dei Cpia fu inserita in
un comma (632) della Legge finanziaria per il
2007 (Governo Prodi) e con il Decreto ministeriale 25-10-2007 (Ministro Fioroni) se ne
dispose l’attuazione. Il Piano Programmatico
del Ministro Gelmini, in applicazione dell’articolo 64 della Legge 133/2008, propone ora
di «ridefinire l’assetto organizzativo-didatti-
co, prevedendo un numero contenuto di materie di insegnamento e, nelle tabelle allegate, prevede per il 2009/10 una riduzione di
1.500 insegnanti.
Risparmiare a tutti i costi
Come si vede il percorso fa strame delle preoccupazioni didattiche e tiene invece la barra
dritta sulla riduzione di spesa. Inoltre sembra
che il legislatore avesse un’idea molto limitata del settore poiché i Cpia appaiono una pura
estensione degli attuali Ctp ai quali aggregare
i corsi serali di scuola secondaria. Nella stessa incomprensibile direzione vanno le delibere
recentemente assunte dalla Regione Piemonte
e dalla Provincia di Torino che, istituendo un
certo numero di Cpia, ne individuano la sede
presso altrettanti attuali Ctp.
C’è un orientamento generale al risparmio che
si abbatte su una scuola ormai sfiancata da
oltre un decennio di tagli progressivi di spesa. Questi sono soltanto alcuni dati: la spesa per l’istruzione in Italia si situa da almeno
20 anni costantemente al di sotto della media dei paesi OCSE (4.6% contro una media
del 5,1%).
Il contributo statale alle scuole per il funzionamento (al netto degli stipendi) è in
calo costante (da 331.440 euro nel 2001, a
110.871 euro nel 2006).
I contributi statali per l’autonomia, che avrebbero dovuto sostenere l’innovazione di processo, seguono lo stesso trend (dai 258.885
euro del 2001, ai 191.986 del 2006).
La situazione si aggrava con gli 8 miliardi di
euro di tagli previsti dall’attuale Governo in
tre anni.
Il decreto del 2007 non dice nulla sul futuro
assetto dei corsi serali che confluiranno nel sistema d’istruzione per gli adulti, sui loro compiti, sugli organici, sul loro funzionamento.
Lo stesso decreto prefigura un futuro di episodicità e precarizzazione dell’insegnamento
per adulti rivolto all’acquisizione di un diploma (articolo 9 comma 5).
I Cpia, nella fase transitoria, pur essendo privi di organico specifico, garantiscono che i
propri alunni possano conseguire un diploma, stipulando accordi con le scuole superiori, cioè gli insegnamenti saranno condotti, in lavoro straordinario, da qualche docente
del diurno senza garanzia di continuità negli
anni successivi.
I corsi “Polis”
Ecco il punto dolente. I corsi “Polis”, sperimentazione piemontese, permettono l’accesso al diploma di scuola secondaria in soli 3
anni e con un carico di studio annuale della
metà (610 ore contro 1.200); come non baécole numero 73 pagina
11
Un’“isola felice” a Catania Il rientro
degli adulti nel contesto scolastico è
una risorsa e un importante esempio
per le giovani generazioni. Molto
spesso questa tipologia di studenti
ritorna tra i banchi di scuola per
ottenere un diploma che non ha mai
conseguito o per avere l’opportunità
di seguire un indirizzo di studi che
migliori l’inserimento nel mondo del
lavoro. L’esperienza di un’insegnante
in un ITIS serale con studenti
fortemente motivati e coscienti
dell’importanza dell’istruzione.
stasse circa 300 di queste 610 ore si svolgono presso i privati della Formazione professionale. Un modello quindi di sostanziale
privatizzazione dell’istruzione che viene presentato come esempio virtuoso di flessibilità
e legame col territorio che invece pare improntato alla banalizzazione dei contenuti (si
pensi che alla fisica del primo biennio si riserva un modulo di circa 60 ore, mentre per
la matematica c’è un modulo di 80 ore che,
in presenza di crediti specifici, può ancora ridursi e, paradossalmente, risulta più rigido di
quanto si faccia oggi nei corsi serali).
I corsi “Polis” rispondono alla necessità prospettate dal decreto Gelmini, cioè la riduzione delle materie e degli organici, poco importa se aprono alla svalutazione del percorso di
studio e preludono alla cancellazione del valore legale del diploma finale.
C’é da sperare, almeno, che nessuno di coloro che oggi consentono questo scempio venga poi a lamentare i pessimi risultati della
scuola italiana nelle indagini OCSE-PISA, magari per giustificare ulteriori interventi peggiorativi.
La scuola serale
Con molta fatica, guardando spesso tra le pieghe della normativa in vigore, si sono trovati
i modi e le risorse per valorizzare i percorsi
anche parziali, di istruzione formale e/o informale; operare il riconoscimento dei crediti
didattici posseduti; modularizzare i contenuti delle materie per garantire l’accumulo individuale dei crediti scolastici; utilizzare le
nuove tecnologie, in primo luogo le Fad (formazione a distanza) per garantire solidi ancoraggi a frequenze scolastiche forzatamente
irregolari.
Oggi lo studente di una scuola serale può inserirsi in qualunque anno di corso e contare su percorsi individualizzati; tuttavia ha
sempre disponibile un percorso tradizionale se affronta l’istruzione secondaria ex novo
ed è privo di esperienze professionali valutabili. Alcune scuole si sono appoggiate alle
sperimentazioni Sirio ed Aliforti, altre hanno
usato gli strumenti regolamentari disponibili, nessuna aderisce all’immagine fossile che i
critici interessati propagandano.
Quanto al rapporto col territorio la scuola serale ha saputo rispondere in modo equilibrato al desiderio di avanzamento sociale degli
adulti non compiutamente scolarizzati e alle
necessità del tessuto produttivo senza piegarsi alle ragioni puramente economiche delle imprese. Esso richiederebbe collaborazione,
mentre molti dei nostri studenti non possono
usare i permessi per lo studio e neppure chiedere una turnazione che tenga conto dei loro
impegni, in diversi casi debbono nascondere
la condizione di studente lavoratore. In questo si misura la difficoltà in cui versa il lavoro
dipendente e la pretesa del sistema delle imprese di far carico alla collettività dei costi di
formazione del personale.
* Docente di Laboratorio di elettronica all’IPSIA
“Zerboni “ di Torino.
école numero 73 pagina
12
GIOVANNA RUFFINO *
S
ono approdata al corso serale dell’Itis “Archimede” di Catania, dopo una ventennale
migrazione che mi ha messo a contatto con svariate realtà di Istituti professionali e tecnici di Catania. Dal 2006 insegno a studenti che seguono, crescono culturalmente giorno per
giorno continuano a richiedere argomenti o fatti storici che molto spesso si confrontano
con l’attuale condizione economico-sociale e politica nazionale e internazionale.
Tra difficoltà e buone motivazioni
Non si possono sottacere le difficoltà logistiche che incontrano gli studenti-lavoratori: poco
tempo per studiare; assenze per motivi di lavoro; stanchezza; situazioni familiari. Tuttavia
la possibilità di comprendere alcune problematiche attraverso le esperienze personali li avvicina non solo alle materie umanistiche ma anche a quelle tecniche di cui molti studenti
possiedono un’esperienza pratica.
Un percorso formativo flessibile valorizza il bagaglio di esperienze che ogni alunno mette
a disposizione del gruppo.
Il poco tempo a disposizione facilita il lavoro in classe mettendo in atto con esercizi e prove tecnico-pratiche la teoria spiegata dal docente.
Timori
Alcuni dati del corso serale dell’“Archimede”: 9 classi, 210 iscritti (fascia d’età 18-55), 25
docenti, 3 collaboratori scolastici. In questo anno scolastico circa trenta studenti italiani e
stranieri non hanno potuto accedere al primo anno per mancata autorizzazione dell’Ufficio
Scolastico Regionale. Pare evidente che la diminuzione delle risorse per la scuola avvenga a danno della categoria di studenti più fragili e socialmente svantaggiati che tuttavia
hanno diritto alla formazione scolastica pubblica, garantita dalla Costituzione Italiana. Se
è vero che un popolo è tanto più libero quanto più è istruito non si può stroncare la “seconda via” all’istruzione. Le istituzioni dovrebbero mostrare disponibilità e preoccuparsi di
fornire adeguate strutture. Temo, invece, che i tagli siano preludio ad un atteggiamento
che cozza con la politica scolastica rivolta all’accoglienza e all’integrazione di lavoratori e
studenti disagiati.
* Docente di Lettere presso l’Itis “Archimede” di Catania.
Diritto allo studio
Insegnare italiano
nelle scuole per
migranti.
L’esperienza milanese
delle Scuole Senza
Permesso
CATERINA ARENA E FABIO MANTEGAZZA *
A
nalogie e differenze
Di anni ne sono passati un bel po’ da quando don Milani scriveva le righe qui accanto
sulla sua esperienza nella Scuola popolare di
Barbiana, ma le analogie con le scuole per
stranieri odierne non mancano certo. Sono
cambiate le facce degli studenti, che non
sono più operai o contadini, ma immigrati dal
Maghreb, dal Sud-America, dall’Est europeo o
dai paesi più poveri dell’Asia; rimangono costanti invece alcune caratteristiche: l’acrobazia nell’insegnare – affiancando la necessaria
programmazione all’indispensabile improvvisazione – l’incertezza sulle presenze di ogni
sera; la divisone fra avventizi e fedelissimi;
ma anche la condivisione di uno spirito di
gruppo, di interessi comuni, di una solidarietà umana di fondo che fa sì che queste scuole siano davvero qualcosa di più. E poi, certo,
checché ne pensino Maroni e Berlusconi, anche questi studenti sono bravi figlioli.
L’evoluzione dell’esperienza
Le scuole di italiano per stranieri hanno cominciato a nascere a Milano qua e là, soprattutto nei quartieri periferici, tra la fine degli
anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90, contemporaneamente ai primi consistenti arrivi di immigrati nella nostra città. È stata una forma
immediata e quasi naturale di “mano tesa” nei
confronti di chi arrivava da paesi lontani e si
trovava ad affrontare la dura realtà dell’inserimento in una metropoli capitalistica; una sorta di “cassa (scuola) di mutuo soccorso” nei
confronti dei più poveri fra i poveri, dei più
emarginati fra gli emarginati, dei più sfruttati
fra gli sfruttati. Si trattava di gruppi spontanei di volontari, non organizzati, ma che facevano riferimento alle due grandi aree che
– pur molto diverse fra loro – condividono e
sostengono il fondamentale diritto di eguaglianza fra tutti gli umani: quella del cattolicesimo non integralista e quella della sinistra. Gruppi di volontari – non per forza divisi
fra “cattolici” e “gauchistes”, anzi spesso mischiati fra loro – che aprivano le loro scuole a
volte nei locali delle parrocchie, a volte in cir-
«[…] Lo sai te cos’è per me la scuola popolare, vero? È la pupilla
destra del mio occhio destro. È funzionata quattro anni. […] È nata
come scuola e lo è stata fino a poco fa. Ora è diventata qualcosa
di più. Una specie di ditta, una società di mutuo incensamento, un
partito, una comunità religiosa, una loggia massonica, un cenacolo
d’apostoli. Insomma, non mi riesce di descrivertela bene, è qualcosa
di tutto questo e niente di tutto questo. Gli avventizi son stati
una sessantima, ma i fedelissimi sono forse 12. Son tutti operai
o contadini, son iscritti a partiti e sindacati vari. […] Di comune
hanno poco (neanche l’amicizia fra tutti) fuorché un bel progresso
che han fatto nel cercare di rispettare la persona dell’avversario,
di capire che il bene e il male non son tutti da una parte, che non
bisogna mai credere né ai comunisti né ai preti, che bisogna andar
sempre controcorrente e leticare con tutti, e poi il culto dell’onestà,
della lealtà, della serenità, della generosità politica e del disinteresse
politico. Insomma, bravi figlioli. […] Ogni sera alle otto da sei anni
a questa parte brancolo ancora nel buio più assoluto. Non so a chi
parlerò stasera e che faccia avrà la mia classe. Alle 8.30 la faccia
è quasi stabilita e con un’acrobazia le adatto la lezione che avevo
preparato oppure ne invento su due piedi un’altra. Alle 9.30 e persino
alle 10 o 10.30 entra ancora qualcuno e spesso per lui solo mi tocca
fare un’altra acrobazia e abbassare o innalzare il livello della lezione».
[Da Lorenzo Milani, Lettere]
coli e associazioni cooperative, a volte in sedi
di partiti, a volte in centri sociali: senza mai
innalzare bandiere ideologiche, ma trovando
nella concretezza del fare e nello spessore del
rapporto umano con i migranti che le frequentavano quell’unità di intenti necessaria per
andare avanti superando le difficoltà legate
alla mancanza di risorse, di finanziamenti, e
alla fatica dell’impegno costante.
Hanno lavorato così per diversi anni nel silenzio, quasi clandestine anche loro, sottoposte all’altalena della frequenza non solo degli
studenti, ma anche, inevitabilmente, dei volontari; qualcuna ha chiuso; qualcuna ha resistito ed è diventata un punto di riferimento nel proprio quartiere, non soltanto per gli
stranieri che vi abitano.
Senza assolutamente sottovalutare l’importanza e la bontà di queste iniziative, non si
può negare il carattere quasi esclusivamente “assistenziale” del loro intervento. Proprio
per superare questa dimensione di assistenzialismo, e assumerne una più sociale, collettiva e politica, nella primavera del 2005 otto
scuole milanesi hanno deciso di coordinarsi e
hanno dato vita a una rete che si è chiamata
“Scuole Senza Permesso” con una scelta non
casuale, proprio per dichiarare già a partire
dal nome, la propria identificazione con i migranti senza diritti.
«Affermiamo ciò che non è permesso, il diritto allo studio, alla socialità, alla cittadinanza
per tutti i migranti, indipendentemente dal
possesso del permesso di soggiorno» è scritto sul blog che le scuole hanno messo in rete,
ed è proprio l’affermazione di questo diritto,
che non fa differenza fra clandestini e regolari, ciò che le accomuna.
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LE FOTO DI QUESTO ARTCOLO SONO DI LORENZO FERRARINI
In queste scuole (nel frattempo la rete è cresciuta, ed è arrivata a 13) sono impegnati
oltre duecento volontari che mettono a disposizione competenze specifiche e complementari, motivazioni forti e responsabilità
civile: spesso costituendo piccole comunità democratiche autogestite, in cui studenti liceali e universitari collaborano fianco a
fianco con adulti di diverse età, pensionati
compresi: caso abbastanza raro di gruppi autogestiti democraticamente e di cooperazione
intergenerazionale.
Per queste scuole mettersi in rete ha significato creare possibilità di confronto e condivisione delle pratiche e delle esperienze,
con lo spirito di collaborare con tutti e di
competere con nessuno, per aumentare consapevolmente la propria funzione di mediazione sociale e culturale e per realizzare iniziative di forte inclusione con i migranti,
partecipi a pari diritto e dignità. E di costituire anche un “fenomeno statistico” non
trascurabile: pur rappresentando solo una
parte delle scuole milanesi non istituzionali, stimiamo infatti un’affluenza nelle nostre
scuole di circa 3000 migranti all’anno, provenienti da più di trenta paesi diversi, che
scelgono autonomamente di apprendere la
lingua italiana.
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Grazie a questa rete negli ultimi due anni è
stato attuato il progetto “La città dei migranti 2007 e 2008” che attraverso momenti di socializzazione come feste, spettacoli
teatrali e cinematografici, tornei sportivi si
è posto l’obiettivo di consentire ai corsisti
di incontrarsi, uscire dall’isolamento individuale o di gruppo nazionale cui spesso la
condizione di migrante li costringe, di scambiarsi esperienze, di stare insieme in modo
piacevole e intelligente. Un’occasione anche
di gettare lo sguardo oltre i confini del proprio ambito lavorativo e della propria scuola,
per vivere una dimensione cittadina e saggiare altre possibilità di socialità. Un modo
per dimostrare che a Milano esistono spazi
per esercitare forme di convivenza inter-etnica, di superamento dei luoghi comuni, di
esclusione di atteggiamenti razzisti.
Occasioni per socializzare
La Festa delle scuole ha offerto un’occasione
di incontro fra gli studenti migranti basata
sulla condivisione e lo scambio di cibi provenienti dalle diverse tradizioni culinarie del
mondo; ha consentito loro di assistere a spettacoli di diverso genere (teatro - musica- cabaret) che avevano per protagonisti attori e
musicisti provenienti dal mondo migrante; ha
realizzato infine un momento di gioiosa condivisione fra tutti i partecipanti attraverso la
musica e il ballo.
La Giornata del cinema − organizzata grazie
alla positiva e consolidata collaborazione con
il COE - Centro di Orientamento Educativo,
specializzato in questo campo − ha permesso
di realizzare per gli studenti-migranti un importante momento di fruizione di quello che
è uno dei linguaggi più diffusi e universali
della società attuale. Agli studenti sono stati proposti alcuni cortometraggi del cinema
africano, asiatico, sud-americano, offrendo
loro l’occasione di conoscere prodotti cinematografici realizzati nei loro paesi d’origine,
altrimenti inaccessibili attraverso i normali
circuiti di distribuzione. Un modo quindi per
valorizzare le culture dei diversi paesi di provenienza dei migranti, grazie a degli esempi
a loro stessi non conosciuti.
Il Torneo di Calcio ha dato modo alle scuole
di realizzare una situazione di concreta integrazione fra migranti e italiani (le squadre
erano infatti composte da formazioni miste di
corsisti e insegnanti), offrendo agli studenti
stranieri la possibilità di praticare, almeno in
questa occasione, uno sport popolare come il
calcio, in un contesto non marginale e occasionale, ma in forma organizzata e collettiva,
consentendo a tutti loro la possibilità di divertirsi insieme gareggiando sportivamente.
Occasioni come la Festa delle Scuole e la
Giornata del cinema sono state anche possibilità per le scuole di confrontarsi con
l’“esterno”. Si è tentato di dare rilievo a queste iniziative anche cercando di pubblicizzarle attraverso gli organi di stampa, per
“aprire” il più possibile a persone che non
hanno mai collaborato con le scuole. Il fine?
Permettere agli italiani di capire realmente
chi sono i “clandestini” tanto temuti e agli
studenti di rapportarsi con italiani non abituati a trattare con loro.
Libertà è partecipazione
Le Scuole Senza Permesso si sono confrontate con l’esterno anche in occasione di manifestazioni per i diritti dei migranti: in questi
ultimi mesi abbiamo partecipato con nostri
striscioni a diverse manifestazioni di questo
tipo non solo a Milano, ma anche a Brescia
e a Roma. Lo scopo è sempre stato quello
di coinvolgere il maggior numero di studenti perché siamo convinti che debbano essere
loro, in primo luogo, a prendere posizione nei
confronti dei loro diritti: il nostro ruolo può
essere solo quello di “filtro”, a volte di “interpreti”. Non a caso nelle nostre scuole, si
parla spesso di temi di attualità, oltre che di
vocaboli e grammatica: delle leggi promulgate e delle possibili conseguenze che possono
avere sulla vita degli studenti. «Libertà è partecipazione», diceva Giorgio Gaber. E la partecipazione, uno dei principali diritti negati a
chi è senza documenti, è uno dei primi diritti
che formatori e studenti delle Scuole Senza
Permesso si propongono di ripristinare.
* Rete delle Scuole Senza Permesso.
La pratica democratica favorisce l’integrazione
La scuola di italiano per stranieri promossa dalla
chiesa metodista di Bologna è nata 5 anni fa per
iniziativa di alcuni insegnanti, non solo interni
ad essa, che attraverso l’insegnamento della
lingua italiana, oltre ad aiutare i destinatari
nella realizzazione di condizioni migliori di vita
e di lavoro, promuovono il dialogo interetnico ed
interreligioso, favorendo l’incontro, la conoscenza
reciproca tra appartenenti a gruppi etnici diversi
GUIDO ARMELLINI *
D
a 5 anni la nostra chiesa ha promosso
una scuola di italiano per stranieri in cui la
metà degli insegnanti e la larghissima maggioranza degli alunni non fanno parte della
chiesa. Sono tanti i musulmani, per intenderci. Nella scuola ci sono quattro turni e ciascuno ha tre livelli di conoscenza dell’italiano.
Quest’anno nel turno del sabato, che è quello
in cui vado io, sono passate circa centoquaranta persone con una frequenza media intorno alle quaranta presenze.
La scuola mi sembra interessante per molti aspetti. Intanto il gruppo dei docenti che
sono insegnanti o ex insegnanti di una certa età fra i più bravi di Bologna, ma ci sono
anche non docenti, un’impiegata, una psicologa, un informatico e tutti sono animati da
una passione eccezionale, si fatica molto, ma
ci si diverte tanto.
La spiegazione
Da insegnante che ha pensato alla scuola,
credo che c’entri la questione della valutazione. Nella scuola “normale” la valutazione è
unidirezionale ed è legata al successo o all’insuccesso scolastico. Nella nostra scuola la valutazione è reciproca: gli insegnanti sono va-
lutati dal fatto che gli studenti frequentano o
non frequentano(nessuno li obbliga); d’altra
parte anche noi non siamo obbligati a frequentare la scuola. Siamo lì perché ci fa piacere andarci ed incontrare quelle persone. Poi
certamente c’è da insegnare la lingua italiana, ma la conversazione svaria sulle cose più
diverse con un grande interesse reciproco.
In secondo luogo, credo che ci piaccia l’assenza totale di una didattica formalizzata.
Gli studenti possono essere scolarizzatissimi
o per niente scolarizzati, persone che a casa
propria hanno un lavoro qualificato e persone
semianalfabete. La didattica che si sviluppa
in una situazione di questo tipo non ha precedenti, la devi costruire, creare, inventare
nella relazione, è una didattica dell’improvvisazione, della definizione consensuale e contestuale degli obbiettivi. Credo che questo sia
un altro motivo per cui insegnanti ed ex insegnanti vengono con tanto piacere.
Gli alunni
Gli studenti vengono da ogni angolo del
mondo (Cina, Ucraina, Shri Lanka, Brasile,
Pakistan e Filippine...), sono uomini e donne,
giovani e vecchi.
Non abbiamo iscrizioni e prendiamo tutti
quelli che arrivano, fino all’ultimo giorno dell’anno scolastico. Di solito, se ci riusciamo,
abbiamo una persona che si occupa di accogliere gli ultimi arrivati. Altrimenti vanno nel
gruppo dei real beginners e poi eventualmente possono essere smistati un po’ ad occhio.
C’é spesso anche un negoziato da fare, perchè
capita che si affezionino e vogliono rimanere
con l’insegnante, oppure sono gruppi di amici
che vorrebbero restare insieme.
Questo mi sembra un aspetto epistemologicamente interessante. La nostra scuola è un’organizzazione insieme caotica e ordinata in
cui l’ordine nasce dal disordine.
Pur non avendo iscrizioni, diplomi e registri,
pur non avendo una struttura rigida, pur basandoci su questi gruppi molto permeabili,
funzioniamo. Per esempio, l’anno scorso il
sabato si era creata l’ aggregazione delle signore: un gruppetto costituito da una brasiliana, una nigeriana, una bulgara, un’eritrea,
che con la nostra insegnante sembravano che
fossero ad un the, facevano salotto.
A volte ci si trova di fronte a situazioni gravi. Le badanti,ad esempio, hanno degli orari
molto pesanti, a volte sono vessate dai daécole numero 73 pagina
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tori di lavoro che addirittura vogliono impedire loro di studiare. Molte vengono a scuola
perchè si trovano bene, perchè sono trattate
umanamente. Il locale è disameno (un sotterraneo claustrofobico in cui siamo stretti),
però si crea un clima particolare, si sta bene,
se ne esce sempre tonificati. Ci sono persone
che vengono da quattro anni, hanno già imparato l’italiano, ma continuano a frequentare, Nascono amicizie anche tra emigrati
appartenenti a gruppi etnici diversi che senza la scuola, difficilmente avrebbero occasione di frequentarsi.
I gruppi multietnici
I gruppi sono quasi sempre multietnici. Con
tutti gli shock culturali che questo comporta. Uno degli esercizi che assegniamo agli
studenti consiste nello scrivere testi liberi
che vengono poi trascritti alla lavagna, decifrati e corretti cooperativamente. Mispa,
una giovane camerunense, un giorno ci ha
portato una storia patetica:una ragazza era
fuggita di casa per andare a vivere con un
ragazzo che nel corso del tempo si era dimostrato inaffidabile e aveva cominciato ad
essere violento, così lei aveva deciso di ritornare dalla mamma, la quale però non le
voleva più parlare ed ogni tentativo di riconciliazione era stato vano. Dopo aver ricostruito, con una certa fatica con l’aiuto di
tutta la classe, il filo del racconto, ho chiesto a Mispa da dove avesse tratto una storia
tanto emozionante. «Da C’è posta per te di
Maria De Filippi!», mi ha risposto con naturalezza. Va notato che tutti gli altri studenti − un’infermiera brasiliana, un facchinino
ghanese, una badante ucraina, una babyécole numero 73 pagina
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sitter dello Shri-Lanka, un metalmeccanico
nigeriano − erano spettatori abituali della
trasmissione. L’unico dei presenti escluso da
questo presupposto culturale ero proprio io,
l’insegnante di italiano. Credo che questo
episodio dia un’idea di quanto sia complesso il concetto di intercultura: non si tratta
soltanto di entrare in relazione con le culture di provenienza degli immigrati (e già
non sarebbe poco). Bisogna riconoscere che
l’emigrazione produce mondi culturali nuovi,
mutevoli, meticci, che tendono a scardinare
ogni confine precostituito tra ciò che è autoctono e ciò che è alloctono. In quel caso
poi tutto andava ad impattare a sua volta
con l’idea di famiglia, di autorità. Nel discutere di questa storia, sono venute fuori
un’idea di autorità paterna e materna che
questa ragazza del Camerun aveva fortissime
ed io molto meno. Accade allora che Maria
De Filippi rischi di essere, per certi versi,
più vicina ad un’africana appena giunta in
Italia che a me.
Un altro esempio di shock culturale può essere questo. Nel gruppo dell’anno scorso a un
certo punto, in un racconto, abbiamo trovato la parola “paradiso” usato in senso metaforico, «Era un paradiso». Dammika, una ragazza cingalese buddista che non aveva mai
incontrato quel termine, ha chiesto che cosa
significasse. José filippino cattolico, le ha illustrato con precisione e chiarezza la sorte
dei defunti e la topografia cristiano-occidentale dell’aldilà. Dammika è rimasta stupefatta: «Ma voi credete davvero una cosa così?».
Per la nostra cultura le nozioni di paradiso
ed inferno che ci si creda o no, sono comunque componenti ovvie del nostro immagina-
rio. Scoprire che esistono esseri umani per i
quali quel mito risulta inaudito e balordo è
un apprendimento non da poco.
Il fatto etnico
Mi pare che ci siano due esigenze, due movimenti contrapposti che andrebbero tenuti
insieme. Da un lato le persone hanno il desiderio, il bisogno e il diritto di sentirsi a casa
propria, di vestire, di gesticolare, mangiare a
modo proprio, di pregare, conversare, litigare
nella propria lingua. Per esempio il fatto che
nella nostra chiesa ci siano lo studio biblico
e altre occasioni di incontro degli africani,
mi pare importante: c’è un posto in cui anche loro possono sentirsi per un po’ a casa,
ma questa è un’esigenza anche degli italiani:
troppi tamburi, troppe danze, troppe lingue
straniere introdotte di colpo in un culto possono avere un effetto deflagrante. D’altra parte, come dice Ciafaloni, «Il futuro è un paese straniero» e quindi tutti, per imparare ad
abitarlo, abbiamo la necessità di cambiare. Si
tratta di trovare un equilibrio tra le due cose.
Abbiamo bisogno di sentirci a casa nostra per
rassicurarci, per sentirci riconosciuti, per rafforzarci in quel che siamo, ma contemporaneamente abbiamo bisogno di mescolarci con
altri diversi da noi per imparare a disimparare
un po’ i nostri usi e costumi, per imparare a
cambiare. E cambiare è bello. Certo spesso all’inizio è sgradevole, faticoso, ma il più delle
volte ti accorgi che ci hai guadagnato.
* Il testo che pubblichiamo è tratto dal racconto
della propria esperienza fatto da Guido Armellini
al periodico Una Città (maggio 2007, N. 148).
L’articolo completo si può leggere alla pagina
http://www.unacitta.it/interviste.asp.
IDEE
per l’educazione
SISTEMA SCOLASTICO Dalla tradizione popolare
del ‘900 alla normativa apripista della parità pubblicoprivato, ai buoni scuola, alla legge 12 del 2003 che aveva
l’ambizione di costruire un sistema scolastico regionale
con propri organismi di governo e indirizzo, alla linea
attuale di forte spinta verso il federalismo (un federalismo
contenuto: accanto al passaggio alla Regione della
gestione del personale, viene mantenuto a capo dello Stato
il ruolo degli insegnanti). A che punto sono oggi il sistema
scolastico della Regione Emilia Romagna e il movimento
di cittadini che vi si oppone? Evoluzione delle
politiche scolastiche in Emilia Romagna
BRUNO MORETTO *
L
a scuola dell’infanzia
Il sistema scolastico della Regione ha una
lunga tradizione popolare. Già dai primi del
‘900 l’UDI – Unione Donne Italiane si fece
promotrice della creazione di scuole materne diffuse sia nelle campagne che nei centri industriali. Dopo la liberazione notevole
fu il contributo del CNL–Comitato Nazionale
di Liberazione
Negli anni Sessanta si aprì una fase nella quale questi servizi passarono mano a mano ai
Comuni. In Emilia Romagna iniziò la storia
delle scuole materne comunali, che divennero
il fiore all’occhiello di tante amministrazioni.
L’esperienza regionale fu alla base dell’istituzione nel 1968 della scuola materna sta-
tale. Ancora oggi in molti comuni della regione tra cui Bologna e Ravenna la presenza
della scuola comunale resta significativa. A
Bologna copre il 60% degli iscritti.
Nel tempo i modelli istituzionali si diversificarono. Il Comune di Reggio Emilia, il cui
modello di scuole materne è diventato famoso in tutto il mondo, per sostenerne i costi,
introdusse la retta di iscrizione. Bologna e
Ravenna svilupparono le loro scuole secondo il principio costituzionale della gratuità
e dell’equiparazione fra scuole dell’infanzia e
degli altri ordini e gradi.
Il sistema integrato pubblico-privato
Nel 1994 il Comune di Reggio inaugurò la sta-
gione del sistema integrato pubblico-privato.
Il modello scelto fu quello delle convenzioni
fra il Comune e la Federazione italiana scuole materne (di orientamento cattolico), che
già copriva il 43% dell’utenza comunale. Il
Comune di Bologna seguì subito l’esempio.
In cambio di finanziamenti alle spese di funzionamento le scuole materne private si impegnavano a garantire un servizio educativo
simile a quello delle scuole comunali per numero di bambini per classe, numero di insegnanti, ecc..
Fin dall’inizio l’entità del finanziamento fu significativo: più di 9 milioni di lire per classe,
mentre allora il finanziamento statale, riconosciuto alle sole scuole private che svolgeécole numero 73 pagina
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vano attività assistenziali, riconoscendo almeno una gratuità, era meno di 4 milioni.
Nel 1995 la Giunta regionale, alla cui presidenza era Pierluigi Bersani, modificò la legge
regionale per il diritto allo studio, introducendo contributi a favore dei Comuni che stipulassero convenzioni con le scuole materne
private secondo un preciso modello. Si inaugurava con questo atto la stagione dell’Ulivo
che portò alla alleanza elettorale corrispondente.
Prese corpo l’idea di un sistema scolastico integrato far pubblico e privato, di una
scuola intesa non più come istituzione della
Repubblica, ma servizio erogabile da tanti diversi soggetti. La legge produsse in tutta la
regione la proliferazione di convenzioni fra i
Comuni (oltre 200) e le scuole materne private con finanziamenti consistenti.
Contro la delibera del Comune di Bologna e la
legge regionale il Comitato bolognese Scuola
e Costituzione, la Comunità ebraica, la Chiesa
evangelica metodista, la Chiesa cristiana avventista presentarono ricorso al TAR sollevando la questione della legittimità costituzionale. Il TAR con la sua ordinanza del 1997
ravvisò il dubbio di incostituzionalità e inviò gli atti alla Corte Costituzionale. La vicenda giudiziaria continua ancora. Il TAR per tre
volte ha accolto il ricorso e la Corte per altrettante volte si è rifiutata di emettere sentenze nel merito rinviando sempre gli atti al
TAR per motivi procedurali e sostenendo l’illegittimità del ricorso.
La legge regionale apripista della parità
pubblico-privato
Il progetto di un sistema integrato pubblico-privato si sviluppò poi con l’approvazione
della Legge “Rivola”, una legge definita “apripista” dall’allora Presidente delle Regione La
Forgia, che intendeva estendere tale modello
ad ogni ordine, da una parte prevedendo finanziamenti diretti a tutte le scuole private
per interventi di miglioramento dell’offerta e
delle strutture, dall’altra introducendo l’idea
del “buono scuola” ovvero di un contributo
alle famiglie a rimborso delle spese scolastiche sostenute, comprese le rette di iscrizione.
L’opposizione che si creò alla legge, culminata nella manifestazione nazionale dei 50.000
a Bologna del 27/02/1999, portò all’abbandono dell’estensione dei finanziamenti a tutte
le scuole private. Venne approvata una nuova
versione della legge, ma rimasero i finanziamenti diretti al funzionamento delle scuole
materne convenzionate e il buono scuola agli
alunni delle scuole superiori.
I finanziamenti diretti previsti dalla Legge fin
da allora furono di più di 5 miliardi di lire all’anno, ancora oggi di 2 milioni e settecentomila euro.
La prima applicazione del buono scuola produsse una situazione per cui gli alunni delle
scuole private (il 3,7% del totale) ricevettero un contributo medio più che doppio (lire
1.860.000) di quello degli alunni della scuola
pubblica (860.000), a parità di reddito.
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18
L’esperienza popolare del referendum
abrogativo
La rivolta popolare a questa politica si concretizzò nella proposta di un referendum
abrogativo delle parti riguardanti il sistema
integrato e dei corrispondenti finanziamenti
della Legge regionale n. 10/99. Il Comitato
promotore costituito dai Comitati Scuola e
Costituzione e di difesa della scuola pubblica
sorti in quegli anni in tutti le province, dal
Partito della Rifondazione comunista e dalla
UIL raccolse ben 60.000 firme (ne erano sufficienti 40.000) che furono consegnate il 6
marzo del 2000.
Si aprì poi una lunga fase di ostruzionismo e
dilazioni da parte della Giunta regionale tesa
ad evitare lo svolgimento del referendum,
fino a che, verificata l’inevitabile concomitanza con il referendum nazionale sulla riforma costituzionale del Titolo V, previsto per
ottobre 2001, la Giunta e il Consiglio approvarono la Legge regionale n. 26 del 8/8/2001
“Diritto allo studio ed all’apprendimento per
tutta la vita. Abrogazione della legge regionale 25 maggio 1999, n. 10”
La legge eliminava formalmente il sostegno
alle scuole materne private, ma manteneva il
loro finanziamento per 2.700.000 euro sotto
la voce “progetti di miglioramento dell’offerta”. Modificava poi i “buoni scuola” prevedendo una cifra uguale per tutti gli iscritti alle
scuole pubbliche o private al di sotto di determinate fasce di reddito ISEE.
Il movimento ottenne un successo relativo,
ma non riuscì ad invertire la tendenza a favore dei privati.
con il ministro Berlinguer approvò la Legge
nazionale di parità n. 62 il 10 marzo del
2000.
La legge nazionale inserisce a pieno titolo le
scuole private paritarie nel sistema scolastico
nazionale, e definisce l’esistenza di un sistema prescolastico integrato dotato dei relativi
finanziamenti: Art. 13. «A decorrere dall’esercizio finanziario successivo a quello in corso
alla data di entrata in vigore della presente
legge, gli stanziamenti iscritti alle unità previsionali di base 3.1.2.1 e 10.1.2.1 dello stato di previsione del Ministero della pubblica
istruzione sono incrementati, rispettivamente, della somma di lire 60 miliardi per contributi per il mantenimento di scuole elementari
parificate e della somma di lire 280 miliardi
per spese di partecipazione alla realizzazione
del sistema prescolastico integrato».
I finanziamenti vengono accreditati sui capitoli di spesa “storici”, risalenti al 1928, che
prevedevano contributi alle scuole materne
private che svolgessero un’attività assistenziale.
Viene inoltre previsto il buono scuola, «a sostegno della spesa sostenuta e documentata
dalle famiglie per l’istruzione mediante l’assegnazione di borse di studio di pari importo
eventualmente differenziate per ordine e grado di istruzione».
L’esperienza della forte opposizione dei cittadini della nostra regione portò almeno alla
previsione di un buono di pari importo.
Oggi
I finanziamenti diretti regionali vennero congelati alla cifra del 2001, ma crebbero notevolmente quelli comunali. I finanziamenti del
Comune di Bologna passarono dai 400.000
euro del 1994 al milione di euro attuali. Così
è stato in tutti i comuni della regione.
Si può stimare che i finanziamenti della
Regione e dei Comuni alle scuole materne
private assommino nella nostra regione a 25
milioni di euro che si vanno ad aggiungere
agli altrettanti previsti dallo Stato in seguito all’approvazione della legge di parità: in
tutto 50.000.000 di euro all’anno a favore di
1.472 classi di scuole materne private presenti in regione.
Lo scorso anno la Regione ha stanziato 6 milioni di euro a favore di 10.434 studenti delle
scuole superiori delle scuole pubbliche e private con un reddito ISEE al di sotto di 10632
� e con una media del 7. Le borse di studio
sono state di 584 � di base e di 730 � per gli
studenti bisognosi e con la media del 7. Non
si hanno dati sulla quantità di studenti delle
scuole private che ne beneficiano.
Agli studenti delle scuole elementari e medie
sempre di scuola pubblica o privata giungono
poi i contributi previsti dalla legge 62/2000.
Titolo V, istruzione e formazione professionale
La nostra regione ha sempre avuto una posizione fortemente regionalista sostenendo
apertamente la riforma del Titolo V del 2001
e tentando di arrogarsi vaste competenze in
materia di istruzione.
La legge 12 del 2003 aveva l’ambizione di costruire un sistema scolastico regionale con
propri organismi di governo e indirizzo.
Dopo il 2001 ha sempre fatto ricorso alla
Corte Costituzionale contro le leggi nazionali
per vedere riconosciute le proprie competenze sull’istruzione.
Al di là però delle dichiarazioni di principio
l’unico settore nel quale ha continuato ad
esercitare il proprio ruolo è quello della formazione professionale regionale, sulla quale
si sono riversati in questi anni i cospicui finanziamenti dell’Unione europea.
La legge del 2003 obbliga tutti gli studenti
che vogliono accedere alla formazione professionale di iscriversi ad un Istituto scolastico
superiore, che ha sviluppato progetti di collaborazione con gli Enti di formazione professionale. In Emilia Romagna, perciò, l’obbligo fino a 16 anni si può svolgere in un
sistema professionale misto pubblico-privato.
Gli studenti del biennio coinvolti sono circa
2000 all’anno, circa il 20% del totale di quelli
iscritti agli istituti professionali statali.
Intrecci nazionali
La vicenda regionale si legò strettamente a
quella nazionale, visto che il governo Prodi,
* Comitato bolognese Scuola e Costituzione.
I
l CLIL, acronimo di Content and Language
Integraded LEarning, è una metodologia di
apprendimento/ insegnamento delle lingue
di recente introduzione e sperimentazione in
ambito scolastico. Partendo dal presupposto
che sia la lingua che la materia non linguistica debbano essere oggetto di insegnamento
e godere della medesima importanza, il metodo CLIL si propone di insegnare alcune materie non linguistiche del curriculum scolastico
in una lingua straniera − comunemente detta
lingua veicolare − utilizzando un approccio il
più possibile integrato.
Definito anche “educazione a doppia finalità”
l’insegnamento di tipo CLIL consente dunque agli studenti di apprendere le materie del
programma scolastico migliorando nel contempo le loro competenze in lingua straniera.
L’insegnamento delle lingue straniere attraverso la modalità CLIL; inoltre, offre maggiori
occasioni di sviluppo delle capacità comunicative, in quanto consente di mettere subito
in pratica le nuove competenze linguistiche
acquisite, anziché dedicarsi prima all’apprendimento per passare poi, in un secondo momento, alla pratica, sviluppa negli studenti
la capacità di pensare “nella” lingua piuttosto che “alla” lingua, garantisce maggiore autenticità e naturalezza della situazione di apprendimento, stimola interessi e conoscenze
interculturali e può quindi ricoprire un ruolo
importante nello sviluppo personale e professionale dell’individuo.
In Europa
In linea con gli obbiettivi di promozione e
mantenimento della diversità linguistica e
con le iniziative già avviate a livello europeo per migliorare l’insegnamento e l’apprendimento delle lingue straniere, il metodo CLIL
riceve attualmente un forte sostegno da parte
della Commissione Europea che lo considera
la modalità per eccellenza di insegnamento
delle lingue straniere e il mezzo più efficace
sia per incrementare la quantità di lingue conosciute da ogni cittadino europeo, sia per
migliorare la qualità di tali conoscenze linguistiche. Programmi di educazione di tipo
CLIL sono quindi attivi nella maggior parte
LINGUE La scelta portata avanti
fino ad oggi dalla scuola italiana di
inserire gli alunni stranieri (5,6% del
totale nel 2006-2007) nelle normali
classi scolastiche, evitando cioè la
creazione di classi “speciali”, e di
supportarli attraverso il cosiddetto
“laboratorio di italiano”, per quanto
importante e lodevole, si è rivelata
insufficiente per far fronte alle
loro necessità reali. Sarebbe più
utile sperimentare nuovi metodi di
insegnamento e affrontare la questione
da nuovi punti di vista. Una novità è
offerta dall’apprendimento integrato
di lingua e contenuto Una via
all’integrazione
ARIANNA DANELON *
dei paesi europei e prevedono l’utilizzo, come
lingua veicolare, di una lingua straniera, oppure di una seconda lingua ufficiale di stato,
o ancora di una lingua regionale e/o minoritaria; tutti gli ordini di scuola, da quello
preprimario a quello universitario, possono
essere interessati da tale modalità di inse-
gnamento, anche se in realtà la durata effettiva di programmi di tipo CLIL varia notevolmente da paese a paese, così come la scelta
delle materie da insegnare in lingua veicolare, le modalità di valutazione e certificazione,
i criteri di selezione ed ammissione degli studenti, le qualifiche richieste agli insegnanti.
école numero 73 pagina
19
I programmi di insegnamento di tipo CLIL,
inoltre, pur affondando le radici, come molti
programmi di educazione bilingue, nell’esperienza canadese di insegnamento in immersione linguistica sviluppatasi a partire dalla fine
degli anni ‘60, si discostano da tale approccio
per alcuni caratteri: l’esperienza canadese infatti, essendo il prodotto della combinazione
e dell’interazione di fattori particolari, elevato status delle lingue coinvolte nel progetto
di immersione (inglese e francese), massiccia
presenza di studenti appartenenti a famiglie
benestanti e di alto livello sociale, carattere facoltativo di tali programmi, sostanziale
omogeneità iniziale della classe per quanto
riguarda la conoscenza della lingua straniera, risulta di per sé difficilmente esportabile
ad altre realtà.
Programmi di tipo CLIL possono essere invece
attivati in scuole di ogni ordine e grado senza eccessive difficoltà in quanto offrono agli
studenti la possibilità di seguire un insegnamento intensivo delle lingue straniere senza
richiedere radicali stravolgimenti del normale orario scolastico; inoltre l’insegnamento di
tipo CLIL si propone di stabilire un percorso di crescita e di sviluppare parallelamente
e in modo per l’appunto integrato, la sfera
dell’oralità e della scrittura, la forma del linguaggio ed il contenuto, con l’obbiettivo di
ottenere produzioni il più possibile accurate
da un punto di vista grammaticale, di sviluppare un’adeguata competenza comunicativa e
di migliorare la qualità della competenza linguistica degli allievi in generale.
Sebbene l’insegnamento di tipo CLIL interessi, per definizione, quegli studenti che apprendono e studiano attraverso due lingue
veicolari, di cui una è la lingua nativa e l’altra
è una lingua straniera, di fronte al crescente
successo di tale approccio si potrebbe ipotizzare una sua applicazione anche a quanti apprendono attraverso una sola lingua veicolare che, però, non è la loro lingua materna: in
modo più specifico e in riferimento al panorama scolastico italiano, alcuni metodi e principi alla base dell’insegnamento di tipo CLIL
potrebbero essere estesi alla didattica dell’italiano L2 per migliorare la competenza linguistica e comunicativa di quanti, pur avendo
una L1 diversa dall’italiano, seguono un percorso scolastico interamente in italiano.
Italiano lingua 2
Il frequente rimando a stereotipi e ad etichette etniche contribuisce sempre più a rafforzare e diffondere una visione distorta degli allievi immigrati e delle loro potenzialità, tanto
che spesso sono considerati come alunni “difficili” e problematici che rallentano o ostacolano il normale svolgimento delle lezioni.
Viceversa molti studenti stranieri avrebbero
la possibilità di raggiungere un elevato grado
di bilinguismo (se non, addirittura di trilinguismo, dal momento che nella scuola italiana è presente l’insegnamento di almeno una
lingua straniera). Per questo appaiono quanto mai anacronistici gli elevati tassi di ritardo
scolastico registrati per questi studenti.
école numero 73 pagina
20
Alcuni principi e alcune pratiche proprie del
metodo CLIL potrebbero essere esportate ed
applicate con successo all’insegnamento dell’italiano L2.
In primo luogo sarebbe opportuno sviluppare
di pari passo e stabilire un percorso di crescita non solo a livello dei contenuti delle
diverse discipline scolastiche, ma anche a livello della lingua utilizzata per l’insegnamento, per consentire agli studenti immigrati di
impadronirsi adeguatamente sia della lingua
per comunicare che della lingua per lo studio.
In secondo luogo, l’adozione di un metodo
di tipo CLIL comporterebbe una modifica nella costruzione delle lezioni con l’abbandono
della tradizionale lezione frontale a favore di
strategie che migliorino la quantità e la qualità delle interazioni a livello di classe (sia
tra insegnante e studente che tra studente
e studente) e che promuovano uno sviluppo
parallelo della competenza linguistica e dell’apprendimento dei contenuti. In terzo luogo
l’adozione di una modalità di tipo CLIL comporterebbe un ripensamento delle funzioni e
del ruolo del laboratorio di lingua, non più
inteso esclusivamente come “momento di sostegno e recupero” per alunni stranieri che
presentano difficoltà e lacune linguistiche,
bensì come ulteriore possibilità per trasferire
agli studenti competenze didattiche e sociali e strategie di apprendimento che possano
essere applicate in tutte le discipline scolastiche. In questo senso, dunque, è auspicabile una maggiore collaborazione tra gli insegnanti delle diverse discipline e l’insegnante
di italiano L2, in modo che quest’ultimo possa basarsi sui contenuti delle singole materie
per individuare i bisogni linguistici degli studenti e costruire il proprio sillabo sulla base
di tali bisogni.
Infine si renderebbe necessaria una modifica
dell’attuale sistema di valutazione che porta
inizialmente a promuovere gli studenti immigrati sulla base di una presunta competenza
in lingua italiana, per riscontrare poi notevoli
difficoltà nelle scuole superiori sia livello di
lingua che a livello di contenuto, il che pregiudica una conclusione positiva del percorso scolastico.
Sentirsi a casa
Dal momento che “far scuola” oggi significa
qualcosa di diverso da quello che significava venti o trent’anni fa, poiché diversi sono
il contesto e la realtà in cui viviamo, sembra
quanto mai necessario, al di là di un buonismo di superficie e delle pur sempre utili
pratiche di accoglienza, investire seriamente
sugli studenti immigrati e sulle loro potenzialità e sviluppare in modo adeguato le loro
competenze, affinché si realizzi una completa integrazione e si compia un passo in avanti nella costruzione di una nuova cultura in
cui tutti possano “sentirsi a casa” e vedere
allo stesso tempo rispettata la propria identità personale.
* Laureata in Scienze linguistiche.
INFO
Come un uomo sulla terra
Dal 2003 Italia ed Europa chiedono alla Libia di
fermare i migranti africani. Ma cosa fa realmente
la polizia libica? Cosa subiscono migliaia di
uomini e donne africane? E perchè tutti fingono
di non saperlo? Nel film Come un uomo sulla
terra (prodotto da Marco Carsetti e Alessandro
Triulzi per
Asinitas Onlus
e da Andrea
Segre per ZaLab,
prenotazioni co
meunuomosullat
[email protected]),
la voce diretta
dei migranti
africani sulle
brutali modalità
con cui la Libia
controlla i
flussi migratori,
su richiesta
e grazie ai
finanziamenti di Italia ed Europa.
Protagonista è Dagmawi Yimer, uno studente di
Giurisprudenza ad Addis Abeba, in Etiopia che
nell’inverno 2005 ha deciso di immigrare, ha
attraversato via terra il deserto tra Sudan e Libia,
qui ha subito le violenze dei contrabbandieri che
gestiscono il viaggio verso il Mediterraneo e le
sopraffazioni della polizia libica, responsabile di
indiscriminati arresti e disumane deportazioni.
Sopravvissuto alla trappola Libica, Dag è riuscito
ad arrivare via mare in Italia, a Roma e ha deciso
di raccogliere le memorie di suoi coetanei sul
terribile viaggio attraverso la Libia per provare a
rompere l’incomprensibile silenzio su quanto sta
succedendo nel paese del Colonnello Gheddafi.
Come un uomo sulla terra è un viaggio di dolore
e dignità, attraverso il quale si dà voce alla
memoria quasi impossibile di sofferenze umane,
rispetto alle quali l’Italia e l’Europa hanno
responsabilità che non possono rimanere ancora
a lungo nascoste. Il documentario si inserisce in
un progetto di Archivio delle Memorie Migranti
che dal 2006 l’associazione Asinitas Onlus,
centri di educazione e cura con i migranti
(www.asinitas.net) sta sviluppando a Roma
in collaborazione con ZaLab (www.zalab.org),
gruppo di autori video specializzati in video
partecipativo e documentario sociale e con
AAMOD – Archivio Audioviso Movimento Operaio
e Democratico. Le attività della “scuola di
italiano” Asinitas Onlus sono portate avanti con
il sostegno della fondazione Lettera 27 e della
Tavola Valdese.
Essere umano. Una petizione
Alla pagina http://comeunuomosullaterra.
blogspot.com/2008/09/petizione-on-lineon-line-petition.html si può leggere e firmare
la petizione che
chiede a Parlamento
Italiano e
Parlamento Europeo,
Commissione
Europea, Unhcr di
fermare le violenze
inflitte a migliaia
di esseri umani
arrestati e deportati
dalla polizia libica,
al fine di fermarne
l’emigrazione verso
l’Europa.
SILVIA CARAVITA *
L
a prima volta che ho pensato di proporre ai ragazzi la lettura di brani tratti da libri
scritti da scienziati ho mirato molto in alto:
ho portato in classe un libro di Spallanzani. La
classe era una quinta elementare. L’esperienza
fu molto positiva. Questo mi incoraggiò a
proporre la lettura di pagine scritte da scienziati in varie altre occasioni, in classe o al
museo di Zoologia durante attività progettate per visite a tema. Devo riconoscere che ho
ottenuto più attenzione dai bambini che dai
ragazzi più grandi. Naturalmente occorre presentare i personaggi, renderli vivi con i fatti
della loro vita, selezionare piccole parti che
possano però avere ugualmente un significato compiuto, drammatizzare un poco la lettura. L’intensità anche emotiva con cui gli
scienziati raccontano le loro interazioni con
la realtà naturale, amandola profondamente
oltre che interrogandola con intelligenza, traspare dai loro modi di scrivere e questo è un
aspetto importante per farli sentire meno distanti e forse per mettere il seme di passioni
che si manifesteranno più avanti nella vita
Il mio lavoro di biologa, ricercatrice nel campo della educazione scientifica, mi ha portato
tante volte a dialogare in classe con bambini
o ragazzi a proposito di fatti e fenomeni che
riguardano il mondo vivente. Nelle classi ero
vista all’inizio come “la scienziata”, invitata
dall’insegnante ad affiancarla nella discussione che seguiva la raccolta e la sistemazione di osservazioni, disponibile a rispondere a
domande e curiosità. Ma poi, man mano che
gli incontri si ripetevano, diventavo l’amica
più esperta alla quale i bambini erano orgogliosi di far vedere ciò che avevano prodot-
esperienze narrate
PERCHÉ NON LEGGERE AI RAGAZZI
COSA SCRIVONO GLI SCIENZIATI?
to e con cui erano contenti di ragionare sulle cose.
Ho sempre dato molta importanza a questi
incontri e ogni volta, anche ora, sono in apprensione perché mi chiedo se sarò capace di
svolgere il ruolo che vorrei: capire il pensiero
dei ragazzi, anche al di là delle parole usate,
e seguirlo proprio da “scienziata”, non tanto da esperta della disciplina. Desidero essere un’interlocutrice utile a sviluppare le idee
e a “complicare” i discorsi attorno alle cose,
stando attenta a non cadere nella trappola di
semplificare, magari banalizzando, fatti che
richiedono sforzo intellettuale e tempo di sedimentazione delle rappresentazioni mentali
che ce ne facciamo, un tempo che è fruttuoso se qualcuno o qualcosa ogni tanto ci ricorda che il problema non è chiuso e che vale la
pena tenerlo d’occhio.
È certo che non sempre riesco ad avere questa capacità di capire il senso nascosto, di
funzionare da specchio e da sponda alle idee
dei ragazzi o di proporre ai ragazzi modi di
guardare i fenomeni che sono propri della
costruzione di cultura scientifica; il riascolto delle registrazioni di questi incontri rende
più evidenti gli errori, le occasioni mancate
ed offre anche buone occasioni per discuterne con gli insegnanti.
Leggere Spallanzani in quinta elementare
La prima volta che ho pensato di proporre ai
ragazzi la lettura di brani tratti da libri scritti
da scienziati ho mirato molto in alto: ho portato in classe un libro di Spallanzani. La classe era una quinta elementare con una brava
insegnante e ragazzi abituati fin dalla prima a
guardare le cose, interrogarsi, discutere, rie-
école numero 73 pagina
21
Dall’alto: Alexander von Humboldt, Johann
Wolfgang von Goethe, Charles Darwin, Lazzaro
Spallanzani.
laborare i loro pensieri con la scrittura o altri
mezzi espressivi. L’argomento su cui la classe
stava lavorando era la relazione tra l’acqua e i
viventi. Le esperienze fatte li avevano portati
a dire e scrivere in un capitolo del libro che
andavano componendo con altre classi: “l’acqua dà vita”. Questa affermazione era stata
messa in discussione con la richiesta di spiegarne meglio il significato. Erano così venuti fuori casi di viventi che possono restare
senza acqua per lunghi periodi, le diversità
di esigenze tra viventi e l’importanza di vari
altri fattori per la schiusa di un uovo o il gerécole numero 73 pagina
22
mogliare dei semi. Però l’argomento che qualcuno portava ricordando il caso di semi trovati nelle piramidi che dopo secoli avevano
germogliato sembrava da un lato confermare
che anche in assenza di acqua la vita si potesse conservare, dall’altro la necessità di acqua affinché si potesse manifestare.
Concordammo con l’insegnante di riprendere
la discussione dopo avere proposto ai ragazzi
la lettura di testi che alimentassero con nuovi
stimoli le conoscenze su alcuni degli aspetti di cui si era parlato. Proposi di suddividere la classe in gruppi ognuno dei quali aveva
l’incarico di leggere un brano e di confrontarsi al suo interno per ricavarne il senso da riportare poi alla classe. Due brani erano presi
da libri moderni di biologia e riguardavano
gli adattamenti del topo delle piramidi che
vive nel deserto e comportamenti di animali in relazione all’acqua nell’ambiente. L’altro
brano proveniva dal Cap. IV del primo volume
degli Opuscoli di Fisica animale e vegetabile
dell’Abate Spallanzani, regio professore di storia naturale nell’Università di Pavia. Io avevo
preparato un breve collage di pezzi fotocopiati da una edizione del 1776 che ho a casa,
ma avevo con me il libro e questo naturalmente incuriosì molto i ragazzi: il suo aspetto
complessivo, la qualità della carta, i caratteri
di stampa, i buchi prodotti dagli animaletti che mangiano la carta. Guardammo insieme cosa era scritto nelle prime pagine, per
esempio la dedica a «Sua Eccellenza il Signor
Don Ignazio di Caymo Ciceri», seguita da tutti i suoi titoli che inizia così: «L’autorità, e la
credulità sono stati que’ due massimi ostacoli, che per tanto tempo hanno contrastato ai
progressi della Storia della Natura».
Ho preferito mettermi nel gruppo e leggere io
per evitare che i ragazzi incontrassero troppa difficoltà con i caratteri antichi e con il
linguaggio; ognuno però seguiva su fotocopie che avevo distribuito. Prima di leggere ho
spiegato in breve la ragioni che avevano portato Spallanzani, in corrispondenza con un altro scienziato, Needham, a verificare l’esistenza di una «forza vegetatrice che mettendo in
moto le parti tutte della materia risveglia in
esse una spezie di vitalità». Gli esperimenti
raccontati nei corti brani fotocopiati riguardavano il trattamento con il calore di uova di
animali e di semi di «ceci, lenticchia, spelta,
semi di lino, e di trifolio. Sentirono ciascuna
spezie conforme il solito diversi gradi di calore, e quindi furono 60, 65, 70, 75, 80. Indi
li seminai separatamente in altrettante ajuole
di terra preparata, facendo che ad ogni ajuola toccasse ugual numero di amenze, acciocché in tutto e per tutto fosser pari le cose».
«Le nominate cinque spezie di semenze sentito avevano il fuoco, lasciandole in loco fra
mezzo all’arena. In un secondo esperimento lo
feci sentir loro, tenendole in molle nell’acqua,
la quale, come praticato avea nell’uova, e nelle stesse semenze, faceva soavemente riscaldare, finché giungesse a concepire quel grado
di calore, ch’io voleva. Qui il fuoco operò contro di esse più potentemente».
Non riporto per intero le cose lette e pur-
troppo non ho più gli appunti presi in quella
situazione con le domande e i commenti dei
ragazzi, ma ricordo bene che non ci furono
grandi difficoltà di comprensione e che l’interesse per un testo così insolito permise all’insegnante di riprendere la lettura anche per
fare riflessioni sui cambiamenti della lingua
nel tempo. A me diede modo di sottolineare
i modi di procedere e di raccontare di quell’antico scienziato, anche usando espressioni come “soddisfatta la mia curiosità” o “mi
venne alla mente” che purtroppo ora non troviamo più negli articoli scientifici.
Dopo qualche tempo si tornò a discutere sull’importanza dell’acqua per la vita. Nella trascrizione, che ho ancora, trovo che un bambino ricordando quanto accade alla creta messa
a seccare nel forno, osserva che la perdita di
acqua fa cambiare le proprietà.
Qui intervengo dicendo: «volevo chiedere
una cosa al vostro gruppo: a quei semi che
Spallanzani aveva messo al calore può essere
che gli succeda…» («a gradazioni diverse di
calore» − mi viene precisato −).
«Possiamo dire che ai semi succede qualcosa
come alla creta? C’è qualche analogia?». «Il
seme, derivando dalla pianta…», «La pianta si nutre di acqua…», «Avrà ancora un po’
d’acqua racchiusa prima di essere messo al
sole a seccarsi, quindi…».
«Però che aveva visto Spallanzani? Aveva
continuato a trattare con il calore…». «Che
a una certa temperatura non si tornava più
indietro». «Ogni seme, ogni tipo di seme ha
una sua caratteristica diversa… perché ha
proprio quel nome». «Una pianta non avendo acqua si secca, ma se noi diamo l’acqua la
pianta è difficile che torni proprio come era
prima, con le foglie verdi... no, muore».
L’insegnante domanda: «Quando l’acqua non
potrà più fare riprendere vita alla pianta?».
«Quando ci sarà una trasformazione chimica».
«Quando sarà proprio morta».
Un bambino porta un bicchiere con dei semi
per far vedere che ormai sono secchi e qualcuno dice che quando sono verdi non fanno
tutto questo rumore, perché è come se fossero «ammorbiditi».
Una bambina farà più avanti una sintesi in risposta alla richiesta dell’insegnante, dicendo:
«L’acqua ha una funzione vitale in tutti gli organismi viventi cioè è come una cosa che si
aggiunge per far sopravvivere». «Allora l’acqua dà vita oppure aiuta a mantenere la vita?
«La mantiene!».
Dunque i bambini dimostravano di ricordare
e di avere saputo inserire quel che avevamo
letto nell’insieme delle esperienze che stavano portando avanti.
Questo mi incoraggiò a proporre la lettura di
pagine scritte da scienziati in varie altre occasioni, in classe o al museo di Zoologia durante attività progettate per visite a tema.
Ho letto brani da Le parti degli animali di
Aristotele, da La natura di Lucrezio, da Quadri
di natura di Von Humboldt, dal Viaggio in
Italia di Goethe, ma soprattutto dal Viaggio di
un naturalista intorno al mondo e dai Taccuini
di Darwin.
Barbiana. La memoria e la speranza
Anche quest’anno, domenica 17 maggio, si è
svolta la Marcia di Barbiana: In tante e tanti
hanno marciato insieme condividendo la fiducia
nella possibilità di resistere alle difficoltà dell’oggi
e di costruire un domani più giusto e solidale e
cogliendo nella crisi anche grandi opportunità
d’impegno per una scuola ed una società più
sobrie e responsabili. «Sortirne tutti insieme è la
politica. Sortirne da soli è l’avarizia».
Continuare a marciare in salita per una scuola che
sia davvero “di tutti e di ciascuno”, può apparire
faticoso in tempi in cui le prospettive si fanno più
anguste e la fiducia vacilla. Eppure è proprio ora
che arriva più urgente e pressante il richiamo che
da questa scuola di montagna scuote e incoraggia.
È una domanda alta non solo di scuola ma anche
di politica, una domanda che risuona tanto più
forte nell’apparente vuoto delle prospettive e
nel silenzio delle proposte sui temi veri che
assillano i giovani e i meno giovani che guardano
al domani e si interrogano sull’oggi. Quest’anno
al centro del concorso che precede e alimenta la
marcia è stata messa la Costituzione, che tanta
importanza ebbe nell’esperienza che tentava
di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare
sovrani! Salire a Barbiana costringe a misurare il
passo, ad osservare il terreno su cui si poggiano
i piedi a confrontarsi con le difficoltà quotidiane:
da quelle che derivano da una società dove crisi
e globalizzazione fanno vacillare la fiducia ed
impongono di ridefinire regole di convivenza civile
e di rimettere in discussione una certa idea di
sviluppo, fino a quelle di una scuola dove urgono
nuovi problemi di integrazione, di arricchimento
dei linguaggi, di progettualità, a cui rispondere
con sostanziosi investimenti e nuove strategie
educative per formare i “cittadini del duemila” e
non con i tagli delle risorse.
Scuola adotta scuola
Le Associazioni professionali dei dirigenti e
dei docenti della scuola − Adi, Aimc, Andis,
Apef, Cidi, Diesse, Disal, Fnism, Lsf, Mce, Uciim
− hanno lanciato un appello per sostenere la
ripresa della vita delle scuole dell’Abruzzo e
sviluppare la solidarietà attraverso la realizzazione
di microprogetti di istituto e hanno avviato la
raccolta di disponibilità di scuole italiane per il
gemellaggio con scuole abruzzesi.
Per contatti: Adi, Mariella, mariella58@virgilio.
it, 339.2196785; Cidi, Daniela Casaccia,
[email protected], 347.3882454; Diesse,
Carlo Di Michele, carlo_dimichele@fastwebnet.
it; Disal, Angelo Lucio Rossi, angelolucio.
[email protected]; Mce, Domenico Canciani, [email protected].
Rivisti gli obiettivi di Lisbona
Gli obiettivi di miglioramento dei livelli di
formazione e di istruzione, attesi per il 2010
secondo le decisioni di Lisbona del 2000, non
potranno essere raggiunti dalla maggior parte
dei Paesi aderenti all’UE. Il 12 maggio i ministri
europei dell’istruzione hanno approvato il nuovo
quadro strategico di cooperazione nel settore
dell’istruzione e della formazione. Il Consiglio
dell’Unione europea ha definito le priorità per il
periodo 2009-2011 e gli obiettivi per il decennio
2011-2020. Alla pagina
http://ec.europa.eu/education/lifelong-learningpolicy/doc/com865_it.pdf si possono leggere le
indicazioni della Commissione.
le leggi
INFO
LA SCUOLA “RINASCITA”
DI MILANO ANTICIPA LA
PROPOSTA APREA
Nei giorni precedenti alla scadenza si
è sviluppata nel sito di Retescuole una
polemica relativa alla scuola “Rinascita
– A. Livi” di Milano. La scuola, istituita
nel lontano 1945 per iniziativa dell’ANPI
e successivamente diventata scuola
statale “sperimentale” (ex art. 3 DPR n.
419/74) anticiperebbe la proposta Aprea
sul reclutamento
CORRADO MAUCERI
U
n Decreto ministeriale del 2006 autorizza l’Istituto sperimentale “Rinascita –
A. Livi” di Milano, la “Scuola-Città Pestalozzi” di Firenze e la “Don Milani – Colombo”
di Genova a realizzare per cinque anni un progetto innovativo didattico-pedagocico
(ex art. 11 DPR n. 275/99 sull’autonomia scolastica). Il decreto prevede, tra l’altro,
il “reclutamento” del personale sulla base di un concorso indetto con bando della
scuola e sulla base di una valutazione dei candidati da parte della scuola stessa. Il
30 aprile è scaduto il Bando «Per l’individuazione di personale docente di ruolo della
scuola secondaria statale di primo grado da assegnare in utilizzazione annuale sui
posti vacanti presso l’Istituto sperimentale “Rinascita – A. Livi” scuola media statale ad orientamento musicale di Milano per l’anno scolastico 2009-2010».
Il bando in sostanza anticipa la tanto contestata proposta Aprea che introduce appunto l’assunzione del personale sulla base di procedure concorsuali a livello di istituto. Ma a suscitare la polemica c’è l’ulteriore questione che il bando della scuola
milanese prevedeva che al concorso potessero partecipare i docenti a tempo indeterminato della Regione Lombardia.
Il rischio è che la sperimentazione diventi non ricerca innovativa della didattica,
ma piuttosto di possibili forme di reclutamento funzionali al progetto culturale e/o
didattico di ciascuna scuola con la conseguenza di una forte accentuazione del processo di frammentazione e di ghettizzazione del sistema scolastico, peraltro già in
atto per effetto dell’autonomia competitiva che si è realizzata.
Il problema della scuola oggi non è quello di creare o mantenere “isole felici”, ma
di rivitalizzare, anche con forme sperimentali, il sistema scolastico nel suo complesso attorno ad un progetto culturale nazionale; in questo contesto se non è il caso
di demonizzare la sperimentazione della Scuola milanese e delle altre due scuole, è
però necessario avviare una attenta riflessione sul ruolo di tali forme di sperimentazione e sulla necessità della massima trasparenza della gestione e della verifica
dei risultati affinché la sperimentazione anzitutto sia tale (e quindi a tempo determinato).
Precisata la durata della sperimentazione, le sue finalità e l’assoluta trasparenza di
tutta la gestione che non può essere affidata alla burocrazia ministeriale, non dovrebbe destare preoccupazione la deroga al sistema ordinario di reclutamento, anche perché non si deve trattare di vero e proprio reclutamento, ma di utilizzazione
da parte della scuola di personale già assunto a tempo indeterminato con le regole ordinarie.
Le preoccupazioni piuttosto riguardano altri aspetti e precisamente la dipendenza
del Comitato Scientifico dell’Istituto dall’Ufficio Scolastico Regionale, la discrezionalità con cui il Dirigente scolastico è nominato dal Direttore Generale Regionale,
le modalità previste per il “reclutamento” del personale docente, l’arbitrarietà del
requisito della residenza in Lombardia, previsto nel bando e l’assoluta mancanza di
verifica e di trasparenza.
Una sperimentazione può anche prevedere, in via temporanea, deroghe e le ordinarie norme di reclutamento, ma deve essere una vera sperimentazione. Mentre quella
autorizzata con il Decreto ministeriale del 2006 non mi pare rispetti questo criterio.
È stato opportuno, dunque, sollevare il problema e sarebbe ancora più opportuno
prospettare le soluzioni più rispondenti alle esigenze della sperimentazione, ma anche al governo trasparente della scuola.
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nuovi arrivi
ITALIA IN FESTA
LIDIA GARGIULO
«Q
uando finisce
questa festa?». L’ha detto
una voce di donna un po’
tremante d’impaziente pazienza, nel crepuscolo del
secondo giorno: sazia di
gente, saluti e compagnia,
un po’ annoiata della gentilezza di sconosciuti: «Un
caffè? un tè? un latte caldo? Tenga questa coperta, comincia a fare fresco,
pioverà…» È allora che ha
sentito il desiderio di stendersi sul letto nella stanza
in ombra, restare un poco
sveglia nel silenzio traforato di sillabe del resto della
casa affaccendata nelle ultime cose. Le piace molto
quel momento. Ma questa
festa non vuol finire, festa
di tende azzurre e tutta
questa gente dentro e fuori come i bambini al mare,
che piange proprio come
i bambini quando perdono qualcosa, o li prende paura di qualcosa.
Nell’aria una tristezza inquieta, pochi vestiti
nuovi, nessuna orchestra. E cumuli di pietre,
case fantasmi, campane nude sospese in aria
non si sa come. Che strana festa.
Intorno sguardi pietosi, mormorii di
«Poverina», «L’arteriosclerosi», «Non ha capito niente», «Crede che sia la festa».
«Ma che “poverina”, fortuna sua che non si
rende conto. Noi stiamo qui a contare i morti,
lei non lo sa, meglio per lei».
«Venite, donna Nima, stiamo un altro poco,
c’è la televisione. Vieni anche tu Abdullah,
stai qui con noi, se vediamo tuo padre glielo
diciamo noi che tu stai qui».
Abdullah e donna Lilla, ai due capi del filo.
Abdullah lo sa, quel che è successo, ma non
ha capito, i fatti sono entrati dentro all’improvviso, si sono impadroniti della testa,
troppo grandi e senza nome, più grandi della testa e in tutto il corpo un tremito segreto occupa il sangue, il fiato e tutto, sicché il pensiero non ha spazio per guardare,
dare un nome e un senso. Per ogni parola che
impariamo, la maestra dice, un pezzo della
vita ci viene dentro: il nostro corpo, le persone, i fatti della storia, le nazioni. “Italia”
è una nazione, questo lo sa da prima di venirci. «Italia è sempre festa», diceva uno che
c’era stato. E un giorno il padre: «Andiamo a
lavorare Italia, vieni con me, mandiamo soldi e poi verranno pure loro, i piccolini con la
mamma. Staremo bene insieme. Italia sempre
festa, Italia mangia bene, buttano pane, cambiano vestito, tante scarpe, sempre al cine,
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mangia pizza, molti gelati per bambini. Italia
televisione con signorine nude, tutti allegri,
Italia sempre festa».
E questo che è successo, «terremoto», perché zia Lilla ha detto «festa», c’è il terremoto della festa?
«Ma tu non dire il nome – gli ha detto il padre
– capito?». Capito sì, anzi capito no, capito
solo che si fa così, ma no perché. «Capire»,
ha detto la maestra, è «tenere dentro»: chi
capisce, tiene in testa quello che ha visto: il
sole, un albero, la faccia di qualcuno… Se ce
l’abbiamo dentro, se l’abbiamo capito, possiamo dire, scrivere…
Abdullah: anni sette, da sette mesi in Italia,
capisce molti nomi; ma dopo il «terremoto»
di stanotte le cose hanno lasciato i nomi: i
muri non sono più muri, le case non sono
case, le campane nude non sono campane, e
non ha nome la pioggia di polvere e di pietre
e il «corri, corri avanti» che gli ha gridato il
padre. Poi solo polvere e pietre e sbriciolio di
muri e nel respiro l’aria che non si scioglie.
Nel petto un sasso, fermo.
«Ma tu non dire che sei mio figlio, noi siamo
clandestini, se lo sanno ci cacciano, non ci
fanno lavorare e niente soldi».
«Chi è questo bambino, come ti chiami, di
chi sei figlio?». (Che nome dire per ubbidire al padre?). «Poverino, è spaventato; come
ti chiami?». («Devo cambiare nome». «Quanti
anni hai?». (Non dire niente, noi siamo clandestini). «Perché non parli? Dove sta la mamma?».
«Abdullah! È il bambino di Tonio, si fa chiamare Tonio, il nome vero è strano. Abdullàh,
non avera paura. È venuto col padre, sono
del Senegal, con altri muratori della villetta rosa».
«Domani è festa, gli aveva detto il padre,
è giorno di riposo. Domani andremo alla
Fontana delle 99 Cannelle, faremo la fotografia, la manderemo a casa». Stamattina è domani, eppure non è festa.
«Come ti chiami?». «Lascialo stare, è spaventato per la tua divisa. Vai, fai finta di non vedere». «Era per aiutarlo». «Vai vai, ci penso
io, non vedi che lo fai tremare? Vieni qui, vieni da zia Ninna, Abdullàh. Io ti conosco, vieni
che stiamo un poco insieme, vieni».
«Padre». Adesso lo cerchiamo il tuo papà,
non avere paura, i cani sono bravi, li vedi
quei signori? Stanno cercando, troveranno
anche lui. Tu hai paura, abbiamo tutti paura, questa è la fine del mondo. Sarà una bella
festa questa Pasqua, un gran Sepolcro senza
Resurrezione».
Si chiama “festa” anche il contrario della festa? Trovare il posto alle parole nella testa.
«Vieni qui, c’è un seggiolino, siedi con nonna Lilla. La festa l’hanno fatta i delinquenti.
Cemento armato di cartone e niente galera,
cane non morde cane».
«Ti raggiungerò», gli ha detto Tonio che non
si chiama Tonio. Contrariamente al resto, il
padre di Abdullà sta nella testa ma fuori non
si trova.
«La festa per sciacalli e iene. Appalti e subappalti, e ancora sotto e sotto fino ai clandestini che non protestano, non fanno sciopero, costano poco. La festa della malavita,
la festa dei milioni con l’ospedale di cartone,
inagibile».
«Zia Ninna, ma voi capite meglio di tutti noi.
Pareva che non capivate, e guarda un po’,
parlate meglio di noi».
«Certo che ho capito, ma è vero pure che non
capisco. Certe volte, che ne so, mi pare che
le cose sono più grandi della testa e la testa
si mette a non capire e poi, se torna un po’ di
forza, torno a vedere tutto come sta, e dopo
poi mi pare di sognare, come non fosse vero.
La mia testa è vecchia, ha lavorato, adesso
è una cucuzza, senti come suona, è proprio
una cocuzza. Guarda, Abdullàh, la tua maestra, hai visto?».
Maria Cristina, la maestra, un po’ affannata
nelle pantofole, i bei capelli neri sanno ancora di notte. «Abdullà, sei solo?». «Mi chiamo
Dullio». Perché? È un nome bello, il tuo. Tu
impari i nostri nomi, noi impariamo i vostri.
Ci rivedremo a scuola tra una settimana». «Io
non vengo, sono clandestino». «Che clandestino! Clandestini sono quelli che ci hanno
fatto male». «La scuola non c’è più». « Ci siamo noi, la scuola siamo noi. Noi siamo vivi e
andremo a scuola. Una volta i filosofi parlavano passeggiando e questo si chiamava scuola.
Un posto per la scuola lo troveremo, oppure
passeggeremo (tra le macerie). Ti piace l’italiano? Lo stai imparando, vero?».
Vero. Difficile però: «Italia festa – Italia terremoto. Padre dentro la testa – fuori scomparso.
«I cani sono bravi». «Trovatemi mio padre».
note in condotta
FARE MEDIA
ANDREA BAGNI
F
ine marzo, consiglio di classe per i pagellini. Si parla della annunciata normativa secondo la quale per l’ammissione all’esame di stato
sono necessarie sufficienze in tutte le discipline. L’andamento della discussione è tipico. Nessuno si domanda se sia giusto o meno, che posizione prendere, che idea di scuola c’è dietro. Prima di tutto agisce la
convinzione diffusa che un po’ di severità sia indispensabile, essendo
diventate le scuole una specie di lunapark dove ognuno fa quello che
vuole. Lunapark nel quale l’esclusione resta altissima e ogni tanto ci si
suicida, ma insomma lunapark. Bullismo, debiti che non vengono “saldati”, discipline lasciate indietro tanto-per-una-materia-non-si-boccia.
Dunque nuovi esami di settembre e niente ammissione con un cinque.
Come se al tempo degli esami di riparazione tanto rimpianti non si venisse rimandati in tre materie e poi promossi se se ne recuperava anche
solo una. Ma adesso si parla di voto in condotta per valutare l’educazione alla cittadinanza. Proprio noi “di sinistra” vogliamo non valorizzarla, la Costituzione e la cittadinanza? Ciò che conta si deve contare,
deve fare media. Perché alla fine è sempre il solito pasticcio “teorico”
che pesa: per dare valore e attenzione a certi aspetti del fare scuola,
magari quelli della relazionalità e dell’affettività, occorre ricondurli a
un voto. A una misurazione. Formale. Si riconosce l’esistenza di forme
dell’apprendimento fluide, intersoggettive; si parla di curricolo implicito, di comunicazione non verbale, di trasversalità e pratiche attive.
Però poi tutta questa roba informale non si sa bene come maneggiarla,
che cosa farne – e allora la si traduce in qualcosa di forte, necessariamente formalizzato. Che la uccide. Pensate alle attività di volontariato,
cioè gratuite, che danno un credito: cioè non sono più gratuite, dunque non dovrebbero essere valorizzate... Pensate alla scuola che sperimenta l’Aprea e assume direttamente il personale: il dirigente è orgoglioso di dichiarare al
Giornale che ha richiesto non solo competenze disciplinari, ma psicologiche, umane, relazionali. Di “avere personalità”. Come le verificherà nell’incontro in presidenza? Farà uno
skill, chiederà di compilare un questionario MMPI, oppure ricorrerà al Roshak? Indagherà
sull’infanzia, il rapporto con la mamma, la vita sessuale, stile Berlusconi...
Ma durante il mio consiglio di classe ciò che agisce maggiormente è il classico “addomesticamento”. Aggiramento della norma. Non diciamo pubblicamente che è una schifezza,
impossibile da applicare; facciamo finta tutti di essere seri e severi, che piace tanto anche ai genitori. E allo scrutinio ci arrangiamo con un po’ di buon senso. Subito il prof che
ha nella quinta metà studenti fra il quattro e il tre – come tutti gli anni, in tutte le classi: «d’altra parte se non studiano... – suggerisce –. A me basta che risulti la sufficienza
come voto di consiglio». Conclusione, diciamo agli studenti che devono avere sei in tutte le materie, un po’ di paura gli fa bene. Poi a giugno vediamo. Io sogno il collegio dei
docenti che rifiuta esplicitamente di applicare quella norma, oppure chiede di applicarla
senza aggiustamenti. Anche i genitori delle superiori conoscerebbero le piazze... Ma alla
fine, come si sa, ci pensa il ministero a risolvere all’italiana il casino: per quest’anno media del sei, per il rigore l’anno prossimo. E il consiglio va avanti con la stesura dei pagellini. Meglio indicare con scrupolo tutte le insufficienze, se no il rischio è che qualcuno
faccia ricorso. E si fa mettere a verbale, suff allo scritto, leggera insuff all’orale ma in via
di miglioramento; altri scrivono in peggioramento – stile le segnalazioni sulle autostrade: cinque chilometri di coda, in aumento. Valutazione in itinere. Quando entrano i rappresentanti degli studenti, pure loro si adeguano: dovete dare voti più bassi a quelli che
entrano in ritardo e non rispettano le interrogazioni programmate, peggiorano l’immagine di tutta la classe. Io ricordo un mio professore che ci disse subito, all’inizio dell’anno,
che non avrebbe bocciato nessuno: era contrario alla selezione per una storia di ideologie
e classi dominanti di cui pochi capirono qualcosa. Ci sembrò una pacchia, annuncio di
festa, quest’anno non si fa nulla. Poi fu impossibile trasgredire. Impossibile non studiare. Impensabile ingannare uno che non controllava, spudoratamente. Come sparare sulla
croce rossa. Perdevi punti nella comunità – e quello contava davvero. Un suo sguardo, un
gesto, ci rimanevano dentro per una vita. Ancora li ricordo quei giudizi senza voti, nelle
notti nere in cui mi sembra di avere sempre sbagliato tutto. Vai a spiegarla questa valutazione ai pedagogisti del ministero e agli studenti disciplinati a sua immagine e somiglianza. Direbbero che non si può “implementare”. Capiscono solo quelli che si sottraggono. Solo nei momenti sottratti, liberi dalla mediocrità del disciplinamento. Capiscono
se sanno già.
INFO
Diritti dell’infanzia
Il libro Mondo fa rima con noi. I diritti di bambini
e ragazzi per parole e immagini − a cura di Valter
Baruzzi e Lucia Trincali (Editrice La Mandragora,
collana “Ragazzi e città”, pp. 144, euro 18, Imola
2008 − raccoglie storie che aiutano a riflettere
sul significato della Convenzione Internazionale
sui Diritti dell’Infanzia che quest’anno compie 20
anni. Nella parte centrale del volume per ciascun
articolo vengono indicati alcuni testi di narrativa,
storie che parlano della vita quotidiana e nutrono
l’immaginario di bambini e ragazzi.
Testimoni del futuro
Pierre Bouretz, Testimoni del futuro. Filosofia e
messianismo nel Novecento, Città Aperta, Troina
(Enna) 2009, pp. 860, euro 45.
Era tempo che non si dava spazio nella nostra
editoria a questo tema. E lo si fa in grande stile
nella collana diretta da Pietro Barcellona. L’autore
è direttore presso l’Ecole des Hautes Etudes en
Sciences Sociales a Parigi ed è stato co-editor
della rivista Esprit. In Francia il libro era stato
pubblicato nel 2003 da Gallimard ed il fatto che
venga proposto in Italia in un momento in cui
oggettivamente Israele non ha grande audience è
significativo. Non tanto per rilanciarne l’immagine,
ma per ereditare quella parte di ebraismo
tutt’altro che in linea col sionismo dominante. Qui
pensiamo a Walter Benjamin e Ernst Bloch, ma
anche agli apporti di Jonas Lévinas di Utopia e
critica del capitalismo, principio di responsabilità
ed etica del soggetto (fenomenologicamente
interpretato) si rincorrono negli scritti di questi
filosofi riaprendo il dibattito sulla dialettica
tra soggetto ed oggetto di hegeliana memoria
forse sin troppo semplicisticamente rimossa dal
pensiero post-moderno. L’autore, con sguardo
attento, analizza anche gli apporti e le posizioni
ambigue ma feconde di Gersom Scholem (amico
di Benjamin) e quelle “storiche” di Cohen e
Rosenzweig, senza sottrarsi ad un confronto
critico con Martin Buber e Leo Strauss la cui
critica della modernità sfociava in una negazione
del messianismo e dell’utopismo rivoluzionario.
Un affresco storico-filosofico dinamico e ricco di
suggestioni. (Stefano Vitale)
Memoria, poesia, viaggi
Giovanna Ioli, Giramondo, Viennepierre Edizioni,
Milano, 2008, p. 91, euro 12.
Giovanna Ioli, italianista, studiosa di Dante
e Montale, critica raffinata ed attenta (ha
recentemente curato le introduzioni di poeti quali
Evtushenko, Nelo Risi) ci regala la seconda parte
di un trittico iniziato con Giro (2004). Racconti
autobiografici senza invadenza intimistica,
descrizioni di paesaggi in cui l’idea alla Francio
Ponge di “far parlare le cose” s’intreccia con lo
sguardo poetico di chi cerca un’anima nelle cose;
lampi di bellezza leggeri come piume ma con una
scrittura robusta e sicura. Oltre la scontata riserva
dell’esercizio di stile, i riferimenti letterari sono
respiro autentico della mente e del corpo. Perché
è anche del corpo che qui si parla: struttura
delle emozioni, strumento di relazione col mondo
esprime senza astuzie postmoderne l’essere-almondo dello scrittore. “Che festa si può fare senza
corpo?”. I racconti collegano memoria e poesia
nella relazione tra le generazioni, poi i viaggi
in Sicilia, le crociere in Polinesia, la vacanza
in bici in Germania come a dirci che quel che
conta è il viaggio per coltivare se stessi, allegri e
disincantati. (Stefano Vitale)
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25
M
appamondo
«H
PAKISTAN Cosa succederà alle
ottantamila studentesse e alle ottomila
insegnanti con l’introduzione della sharia
nella Valle dello Swat, al Nord-ovest del
Pakistan, al confine con l’Afghanistan?
Secondo i talebani, che governano la regione,
è anti-islamico che studino Vietato
studiare nella Valle
dello Swat
CELESTE GROSSI
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26
o ricordi d’infanzia bellissimi
delle mie vacanze estive nella valle di Swat,
nella provincia pakistana del Nord-ovest, un
luogo rinomato fra i pachistani per i suoi
splendidi paesaggi, il clima fresco d’estate
e i frutteti rigogliosi. Oggi però la valle di
Swat sta subendo pressioni terribili, giacché
gli attacchi talebani vi si susseguono con
sconcertante regolarità: fra le altre atrocità, essi hanno imposto un bando sull’istruzione delle bambine». Ha scritto Yasmeen
Hassan − avvocata pakistana, vicedirettrice
di Equality Now, un’ong internazionale che
lavora per i diritti delle donne − nell’articolo “La guerra contro le scolare”, apparso sul
Washington Post del 26 gennaio 2009.
Nel distretto, a partire dal 2007, le milizie
talebane hanno distrutto 168 edifici scolastici, di cui 104 istituti femminili. Durante
le vacanze invernali 2008/2009 hanno fatto
esplodere altre 5 scuole e hanno minacciato di uccidere le studentesse intenzionate a
tornare in classe dopo il 15 gennaio, data in
cui tutte le scuole miste sono state chiuse.
Ma già prima che il bando fosse reso noto,
molte delle bambine e delle ragazze si erano ritirate dalle scuole a causa delle dichiarazioni del leader talebano della regione e
degli annunci radiofonici che avvisavano le
bambine che sarebbero state attaccate con
l’acido se avessero osato andare a scuola.
Le discriminazioni di genere
S
econdo l’Onu «Non esiste paese al
mondo in cui le donne non siano discriminate».
Questa affermazione è talmente vera che solo
ora il Senato statunitense, grazie a Obama,
ha ratificato la Convenzione Internazionale
per l’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione contro le donne (CEDAW),
l’importante trattato internazionale che risale
al 1979 e che fu approvato nel corso della
seconda Conferenza mondiale delle donne, che
si tenne a Copenhagen nel 1980.
Ma non c’è da essere orgogliosi neppure
dell’Italia che alla V Conferenza Mondiale
dell’ONU sulle Donne (New York, 2005) è
stata criticata ufficialmente dal Comitato per
l’Eliminazione della Discriminazione contro
le Donne, l’organismo dell’ONU che deve
vigilare sull’attuazione della Convenzione. Il
comitato ha espresso “forti preoccupazioni”
per la condizione delle donne italiane, ancora
concepite come madri e come oggetti sessuali
soprattutto attraverso i messaggi veicolati
dalla pubblicità e dalla televisione; inserite
marginalmente nella vita politica e spesso vittime
di discriminazioni sul lavoro. Preoccupazioni
confermate dal Global Gender Gap Report
del World Economic Forum, pubblicato nel
novembre 2007, nel quale l’Italia figura
all’ottantaquattresimo posto sui 128 paesi presi
in considerazione. Il rapporto sii sofferma
sulle disuguaglianze di genere in quattro aree
cruciali: la partecipazione economica al lavoro;
l’accesso all’istruzione; l’accesso alle cure
mediche e la presenza all’interno delle istituzioni
politiche. Solo nell’ambito della formazione
l’Italia si classifica un po’ meglio attestandosi al
trentaduesimo posto. [C.G.]
E le aggressioni e le minacce non si sono
limitate alle scolare. Alle donne e alle ragazze è stato ordinato di velarsi completamente, di uscire solo se accompagnate da un
parente maschio di non portare con sé carte d’identità perché sui documenti ci sono
le loro fotografie. Fino ad arrivare a sparare
alle donne che effettuano “attività immorali”, come è accaduto a Bakht Zeba, un’assistente sociale di 45 anni impegnata nel favorire l’istruzione delle bambine.
Non si sta meglio dall’altra parte del confi-
ne. Nelle zone tribali afgane, al 90% controllate dai talebani, negli ultimi anni c’è stato un drammatico ritiro delle bambine dalle
aule scolastiche. Tre anni fa, più di 120.000
ragazze frequentavano le scuole e i collegi
della regione (su una popolazione di quasi 2 milioni di persone). Ora sono appena
40.000.
Guerra
«Dal primo di marzo riapriranno tutte le scuole della Swat e della provincia della Frontiera
Nord-occidentale». Aveva sostenuto Sherry
Rehman, Ministro pakistano dell’informazione. «Faremo in modo che riaprano anche
gli istituti femminili. Non permetteremo ad
“attori non-statali” di fermare l’educazione
femminile nella Swat». Ma purtroppo è stata
smentita. Anzi, la situazione nella regione
è ulteriormente peggiorata tanto che il 13
aprile, sfidando gli Stati Uniti, il presidente
pakistano Asif Ali Zardari ha ratificato l’accordo con tra i talebani e il governo locale
entrato in vigore di fatto il 16 marzo che
legalizza la sharia in cambio della fine delle ostilità nell’area. Ma gli attacchi talebani
non si sono fermati e il governo pakistano
nella prima settimana di maggio ha lanciato un’offensiva e favorito l’esodo delle popolazioni civili. Secondo dati dell’Onu il 10
maggio i profughi erano già 1.000.000 e da
allora il numero di persone che ha lasciato la
valle, su strade talvolta minate dai talebani,
è salito a oltre 2 milioni e mezzo e salirà
ancora, visto che la guerra non sembra destinata a finire in tempi brevi.
école numero 73 pagina
27
GERMANIA Nelle scuole berlinesi
non si insegna religione. Anzi, in un
referendum indetto per introdurne
l’insegnamento, i sostenitori del
sì, compresa il primo ministro
Angela Merkel, sono stati sconfitti
Berlino, la Germania e
l’insegnamento della
religione
PINO PATRONCINI
È
successo questo: nella capitale tedesca nelle scuole non si insegna religione ma
una disciplina che si chiama “Formazione alla
vita, all’etica e alla conoscenza delle religioni”, più brevemente indicata come “Etica”.
Religione può essere insegnata, al posto di
etica, solo su richiesta degli interessati e, a
quanto pare, gli interessati sono una minoranza. Quindi l’insegnamento della religione
si configura come materia facoltativa e non
curricolare. Un comitato “Pro-reli” ha raccolto le firme per un referendum, per introdurla
come materia curricolare. Questo però all’atto
del suo svolgimento ha raccolto solo il 29%
di partecipanti, quindi neppure il quorum.
Segno che ai berlinesi le cose vanno bene
così come sono. Ma non solo: tra i partecipanti il 51% si è espresso contro l’introduzione della religione come materia curricolare.
Insomma un dato di laicità che ha sorpreso
un po’ tutti in una Europa che sembra segnata da un ritorno a tradizionalismi identitari
di cui le religioni (in Germania è d’obbligo
école numero 73 pagina
28
il plurale essendoci cattolici e protestanti in
numero pressoché simile) sono spesso un elemento costitutivo e di rilievo.
Laicità
In realtà Berlino non è nuova a simili situazioni. Tanto per restare in campo educativo
la nostra stampa non ha dato quasi nessun
rilievo ad un altro fatto che connota questa
città e la regione (Laend) circostante e che è
stato introdotto all’inizio di questo anno scolastico: a Berlino, a differenza che nel resto
della Germania (l’istruzione tedesca dipende
dai diversi Laender), da quest’anno i ragazzini al termine della scuola elementare (a 10
anni di età) non vengono più suddivisi nelle tre scuole medie di livello, canoniche per
il modello tedesco, (Gymnasium, Realschule,
Hauptschule) ma frequentano tutti la scuola
unitaria (Gesamtschule). Una scelta che scioglie di netto il nodo gordiano di un dibattito
che in Germania ormai dura da 40 anni, e che
ha qualche connessione anche con il nostro
dibattito sul biennio unitario, visto che questa scuola media dura 5 anni e non 3 come
la nostra.
Inoltre Berlino è stata tra le prime città ad
avere un sindaco apertamente gay eletto al
ballottaggio con i tre quarti dei voti e per di
più, pur essendo stata la “città del muro”, i
partiti di sinistra sfiorano i due terzi dei suffragi e ha oggi una giunta SPD-Linke, che con
un vecchio termine si potrebbe definire social-comunista,
Tuttavia la legge sull’insegnamento dell’etica
che si voleva cambiare in insegnamento della
religione non è stata varata da questa giunta, ma dalla giunta SPD-Verdi-Liberali che nel
1990 reggeva il Laend di Berlino-Brandeburgo.
E non fu un varo facile. Infatti l’articolo 7.3
della Legge Fondamentale del 1949 dice tes
tualmente:«L’istruzione religiosa è una materia dell’insegnamento regolare nelle scuole
pubbliche ad eccezione delle scuole non confessionali. L’istruzione religiosa è dispensata conformemente ai principi delle comunità
religiose, senza pregiudizio di controllo dello
stato. Nessun insegnante può essere obbligato a dispensare l’istruzione religiosa contro il
suo volere». L’articolo si iscriveva nel tradizionale riconoscimento del conformismo religioso come valore fondante dell’identità nazionale e dell’etica comune, un principio che dalla
Germania bismarkiana era passato indenne
nella Repubblica di Weimar e anche attraverso
il “paganesimo” nazista (Gott mit uns!).
Tuttavia doveva fare i conti con una situazione bi-religiosa, se non tri-religiosa. Infatti secondo i sondaggi la “Germania cristiana” si divide in tre parti eguali: i cattolici, i protestanti
(per lo più luterani, ma anche calvinisti e di
altre confessioni riformate) e i senza-confessione. A ciò si è poi aggiunta l’“invasione” degli emigrati turchi e kurdi, e successivamente
anche di altre aree mondiali, che fanno oggi
della Germania il più grosso “paese musulmano” d’Europa (3.000.000 di islamici).
La norma berlinese fu presa di mira già al
suo varo nel 1990 e solo nel 1995 la Corte
Costituzionale Federale di Karlsruhe emise
un verdetto compromissorio: religione doveva essere insegnata, ma solo su eventuale richiesta degli interessati al posto di etica.
Essa comunque rappresenta quasi un’eccezione nel sistema scolastico tedesco. Il quasi è
da riferirsi al fatto che, dipendendo la scuola
dai 16 Laender, non esiste di fatto un’unica
norma sull’insegnamento della religione, però
Berlino è l’unico Laend a prevedere che la religione sia “materia alternativa” rispetto all’insegnamento curricolare di etica, altrove
più facilmente succede il contrario.
In Baviera e Baden-Wurttemberg, regioni meridionale a prevalenza cattolica, ma anche in
Assia, gli statuti locali considerano l’acquisizione di valori cristiani come uno degli obiettivi del sistema scolastico pubblico: logico
che religione sia quasi obbligatoria, fatta salva la possibilità di non avvalersene.
A Brema si insegna invece fin dal 1949 una
“Storia biblica” cattolico-protestante ma
aconfessionale. La scelta di Brema, anch’essa
passata in giudicato alla Corte Costituzionale,
costituì un precedente per la successiva scelta di Berlino: la cosiddetta clausola di Brema
faceva riferimento ad un articolo 7.3 della già
citata Legge Fondamentale che prevedeva in
via eccezionale un insegnamento non confessionale della religione.
Negli altri Laender l’insegnamento religioso è
di solito curricolare ed anche i nuovi Laender
dell’Est dopo l’unificazione hanno in prevalenza introdotto l’insegnamento religioso.
Quasi ovunque è tuttavia previsto o che
gli alunni possano astenersi da qualsiasi attività o optare per una disciplina alternativa. Le denominazioni di quest’ultima
variano da Laend a Laend: “etica” in BadenWurttemberg, Assia, Renania-Palatinato,
Sassonia e Sassonia-Anhalt, “Valori e norme” in Bassa Sassonia, “Filosofia pratica” in
Schelswig-Holstein, Meklemburgo-Pomerania,
Renania-Westphalia e a Brema. Questi corsi
tuttavia non sono molto frequentati: solo il
5% degli alunni se ne avvale.
La presenza musulmana
Sicuramente l’impatto maggiore su un sistema come quello tedesco, che in pratica propone quasi ovunque una cogestione statoconfessioni dell’insegnamento religioso (res
mixta), l’ha avuto la presenza musulmana:
alle questioni di principio si è sommato il
fatto che il credo islamico non prevede una
gerarchia centralizzata. In questo modo anche la proposta di un insegnamento religioso islamico nelle scuole pubbliche avanzata
da più parti ha trovato difficoltà ad andare
avanti: esperimenti ci sono stati in Baviera
in collaborazione con l’Istituto Turco per gli
Affari Religiosi (in lingua turca), a Berlino
con la locale Federazione Islamica, nel-
la Renania-Westphalia in lingua tedesca. Si
parla anche di istituire una sorta di insegnamento interreligioso: una sperimentazione è
in corso ad Amburgo con la denominazione
“Insegnamento religioso per tutti”.
Naturalmente la questione dell’insegnamento islamico a scuola non è solo un atto di
generosità e di civiltà da parte dei tedeschi:
l’Islam viene insegnato nelle scuole craniche
annesse alle moschee e si teme che alcune
di queste possano essere collegate al fondamentalismo islamico e al terrorismo.
Quest’ultimo argomento non dovrebbe frapporre ostacoli alla creazione di scuole private
islamiche: ce ne sono a Berlino e a Monaco.
Ma non sono molte.
Anche le scuole private confessionali cristiane non sono molte: 980 cattoliche, 1.146
protestanti, coprono appena il 6% dell’utenza, nonostante una ondata di nuove fondazioni nell’Est all’indomani della caduta del
Muro (109 protestanti e 30 cattoliche), sintomo di un bisogno di nuova libertà e privilegiate dal clero, soprattutto protestante,
rispetto alla penetrazione nelle scuole pubbliche.
Legata all’Islam c’è pure la questione del velo,
il quale però, a differenza che in Francia, non
è sempre proibito. Anche in questo caso dipende dai Laender: è proibito, in quanto segno religioso, nel Baden-Wurtemberg e nella bassa Sassonia, ma è ammesso in Assia e
Baviera.
Allo stesso modo anche la presenza di simboli religiosi cristiani, come i crocifissi, nelle
scuole tedesche può variare da Laend a Laend.
Negli anni Novanta la questione si accese in
Baviera e arrivò alla Corte Costituzionale la
quale anche in questo caso diede ragione ai
ricorrenti contro il governo bavarese, ma solo
sotto il profilo della loro libertà religiosa individuale, senza mettere in discussione il carattere cattolico della scuola bavarese.
école numero 73 pagina
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L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE IN EUROPA
A cura di Pino Patroncini (tratto da Des maitres et des dieux – Ecoles et religions en Europee. St. Etienne, 2005).
PAESE
CONDIZIONE
RELIGIONE
MATERIA ALTERNATIVA
STATO GIURIDICO
GERMANIA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA
CATTOLICA, PROTESTANTE, EBREA E
ETICA, REGOLE E VALORI, FILOSOFIA
CONTROLLO DELLO STATO, MISSIONE
ISLAMICA A LIVELLO LOCALE
PRATICA, STORIA DELLE RELIGIONI
CANONICA E DI VOCAZIONE
EDUCAZIONE RELIGIOSA
NESSUNA
CONTROLLO DELLO STATO. TITOLO DI
INGHILTERRA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA
E GALLES
STUDI RELIGIOSI NELLE UNIVERSITÀ
MULTICONFESSIONALE CON PRIORITÀ
STATALI
ALLA TRADIZIONE CRISTIANA
AUSTRIA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA.
CATTOLICA, PROTESTANTE, EBRAICA,
FACOLTATIVA NELLE SCUOLE
ISLAMICA, BUDDISTA
NESSUNA
CONTROLLO DELLO STATO. CERTIFICATO
ECCLESIASTICO DI COMPETENZA
PROFESSIONALI
BELGIO
BULGARIA
OPZIONE OBBLIGATORIA: O CORSO
CATTOLICA, EBREA, ORTODOSSA,
CONFESSIONALE O CORSO DI MORALE
PROTESTANTE, ISLAMICA
MORALE
CONTROLLO DELLA COMUNITÀ
FACOLTATIVA E PRESENTE SOLO NELLA
ORTODOSSA, ISLAMICA
NESSUNA
CATECHISTA VOLONTARIO
CONTROLLO STATALE. CORSO DI TEOLOGIA
LINGUISTICA. CERTIFICATO ECCLESIASTICO
SCUOLA PRIMARIA
CIPRO
OBBLIGATORIA CON DISPENSA
ORTODOSSA
NESSUNA
CROAZIA
FACOLTATIVO NELLA PRIMARIA E NELLA
CATTOLICA
ETICA (SOLO NELLA SECONDARIA)
NELL’UNIVERSITÀ STATALE
MEDIA, OPZIONALE SUCCESSIVANTE
DANIMARCA
OBBLIGATORIO CON DISPENSA
LUTERANA O ALTRE RELIGIONI
NESSUNA
FACOLTATIVA
CATTOLICA, PROTESTANTE, EBREA,
NESSUNA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA
LUTERANA O ALTRA CONFESSIONE
ETICA
EVANGELICA
FRANCIA
GRECIA
NESSUN INSEGNAMENTO (SALVO IN
IN ALSAZIA-LORENA CATTOLICA,
ALSAZIA-LORENA)
LUTERANA, RIFORMATA, EBRAICA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA
ORTODOSSA
CERTIFICATO ECCLESIASTICO. LAVORO A
CONTRATTO
ISLAMICA
FINLANDIA
CONTROLLO STATALE. STUDI DI TEOLOGIA
NELLE UNIVERSITÀ STATALI
(INSEGNAMENTO NON CONFESSIONALE)
SPAGNA
CONTROLLO STATALE. CERTIFICATO
ECCLESIASTICO
CONTROLLO DI STATO. SCIENZE RELIGIOSE
NELLE UNIVERSITÀ STATALI
NESSUNA
IN ALSAZIA-LORENA DIACONO O PASTORE
CON CONTROLLO STATALE
NESSUNA
DIPLOMA DI TEOLOGIA RILASCIATO
DALLE UNIVERSITÀ STATALI. DIPENDENTE
STATALE
UNGHERIA
FACOLTATIVA ED EXTRASCOLASTICA
CATTOLICA, PROTESTANTE
NESSUNA
IRLANDA
FACOLTATIVA (OBBLIGATORIA NELLE
CATTOLICA
NESSUNA
SCUOLE CONFESSIONALI)
ITALIA
FACOLTATIVA
CERTIFICATO ECCLESIASTICO
ABILITAZIONE E CERTIFICATO
ECCLESIASTICO
CATTOLICA
ATTIVITÀ DECISE SCUOLA PER SCUOLA
ABILITAZIONE O CERTIFICATO
OPPURE NESSUNA ATTIVITÀ
ECCLESIASTICO. DIPENDENTE STATALE A
TI O A TD
LETTONIA
LITUANIA
LUSSEMBURGO
FACOLTATIVA COME ALTERNATIVA AL
LUTERANA, ORTODOSSA, CATTOLICA,
CORSO DI ETICA
BATTISTA, EBRAICA
FACOLTATIVA COME ALTERNATIVA AL
LUTERANA, ORTODOSSA, CATTOLICA,
CORSO DI ETICA
BATTISTA, EBRAICA
FACOLTATIVA COME ALTERNATIVA AL
ETICA
CERTIFICATO ECCLESIASTICO
ETICA
CERTIFICATO ECCLESIASTICO
CATTOLICA, LUTERANA, CALVINISTA
ETICA
CERTIFICATO ECCLESIASTICO
CORSO DI ETICA
MALTA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA
CATTOLICA
NESSUNA
CERTIFICATO ECCLESIASTICO
NORVEGIA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA PARZIALE
GRANDI RELIGIONI, UMANESIMO, ETICA
NESSUNA
CONTROLLO STATALE. TEOLOGIA NELLE
UNIVERSITÀ STATALI. ACCORDO TRA STATO
E CHIESA LUTERANA
POLONIA
PORTOGALLO
FACOLTATIVA COME ALTERNATIVA AL
CATTOLICA, PROTESTANTE, EBRAICA,
CORSO DI ETICA
ORTODOSSA
FACOLTATIVA COME ALTERNATIVA AL
CATTOLICA
ETICA
ETICA
CORSO DI ETICA
ROMANIA
OBBLIGATORIA NELLA PRIMARIA,
FACOLTATIVA
CONTROLLO STATALE. CERTIFICATO
ECCLESIASTICO
ORTODOSSA, CATTOLICA E ALTRI 12 CULTI
NESSUNA
ORTODOSSA, ISLAMICA (EBRAICA E
STORIA DELLE RELIGIONI
DIPENDE DALLE REGIONI
ETICA
CERTIFICATO ECCLESIASTICO O STUDI
OPZIONALE NELLA SECONDARIA
RUSSIA
CONTROLLO STATALE. CERTIFICATO
ECCLESIASTICO
STUDI TEOLOGICI NELLE UNIVERSITÀ
STATALI
BUDDISTA SOLO IN TEORIA)
SLOVACCHIA
FACOLTATIVA COME ALTERNATIVA AL
CATTOLICA
TEOLOGICI NELLE UNIVERSITÀ STATALI
CORSO DI ETICA
SLOVENIA
NESSUN INSEGNAMENTO
SVEZIA
OBBLIGATORIA SOLO IN ALCUNE LOCALITÀ
MULTIRELIGIOSA
NESSUNA
CONTROLLO STATALE. STUDI IN SCIENZE
RELIGIOSE
SVIZZERA
NESSUN INSEGNAMENTO IN ALCUNI
CATTOLICA, PROTESTANTE, ALTRE
CANTONI, OBBLIGATORIA IN ALTRI,
RELIGIONI
NESSUNA
CONTROLLO CANTONALE
FACOLTATIVA IN ALTRI
REP. CECA
FACOLTATIVA
RELIGIONI RICONOSCIUTE
NESSUNA
TURCHIA
OBBLIGATORIA CON DISPENSA
ISLAMICA (NON CONFESSIONALE)
NESSUNA
CONTROLLO STATALE
UCRAINA
OBBLIGATORIA O FACOLTATIVA SECONDO
ETICA CRISTIANA (OCCIDENTE) CULTURA
ATTIVITÀ LOCALI
CONTROLLO STATALE
LE SCUOLE
ORTODOSSA (ORIENTE)
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de rerum
natura
MONDO-AMBIENTE Ai più il nome
di Jakob von Uexküll, barone tedesco
vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento
e la prima metà del Novecento, sepolto a
Capri, dove aveva una villa in cui aveva
ospitato tra gli altri Walter Benjamin, non
dirà nulla. Eppure gli studi pionieristici
di questo biologo e zoologo hanno avuto
riflessi importanti in differenti campi
di ricerca del XX secolo: dalla teoria
dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, all’etologia di
Konrad Lorenz e Nicolaas Tinbergen, alla semiotica di
Thomas Sebeok che lo definì “il Signore dei segni”, alla
cibernetica , alla filosofia di pensatori molto diversi tra
loro come Heidegger e Deleuze Piacere, barone
von Uexküll
FILIPPO TRASATTI
P
artito da ricerche neurofisiologiche sul
movimento degli invertebrati e sui meccanismi della percezione, arrivò a definire il concetto di “ciclo funzionale” per illustrare il
comportamento animale come un processo
di autoregolazione, come un sistema cibernetico. Si trattava di una reazione contro un
modo di intendere i viventi come macchine,
per quanto complicate, dimenticando che la
funzione delle parti degli animali e dei loro
organi si comprendono solo in relazione all’ambiente a cui rispondono, con cui sono in
risonanza.
Influenzato dalla riflessione filosofica di
Leibniz e Kant, uno dei suoi più importanti
risultati teorici fu la definizione del concetto
di umwelt mondo-ambiente, distinto da quello che si chiama invece mondo come umgebung, perché il mondo-ambiente presenta degli elementi, dei segni portatori di significato
per un soggetto vivente, segni, marche che
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sono del tutto diverse in relazione ai differenti
apparati percettivi, motori e alle caratteristiche fisiche di ciascuna creatura vivente.
Cosicché quello che consideriamo uno stesso spazio fisico, ad esempio una foresta, assume un significato del tutto diverso per la
civetta, il toporagno, il boscaiolo. Il mondo
che consideriamo unico è un’illusione: ci sono
invece molteplici mondi individuali interconnessi l’uno con l’altro, come mappe diverse
dello stesso territorio sovrapposte. Non solo
ogni vivente si muove e percepisce il mondo
in modo diverso, ma vive lo spazio e il tempo in modo del tutto diverso. Immaginiamo
ad esempio cosa può essere lo scorrere del
tempo per una zecca in grado di vivere, secondo un esperimento che Uexküll riferisce,
18 anni senza nutrimento, del tutto isolata
nel suo mondo.
Scienziato poeta
Il capolavoro di Uexküll è quello di aver mostrato i vari mondi che esistono per differenti
animali, non solo i grandi animali, ma quegli
esseri minuti per i quali non immagineremmo mai un mondo specifico: la zecca, un’ameba, un anemone di mare, una medusa. In altri
termini di aver mostrato l’animale come soggetto d’esperienza e non come mero oggetto
della sperimentazione dell’uomo.
In Ambiente e comportamento, tradotto in
italiano dal Saggiatore nel lontano 1967, troviamo diverse illustrazioni di come la stessa
scena ad esempio di un villaggio, possa essere vista da una mosca o da un mollusco e una
bellissima serie di tavole a colori che mostra
la stessa camera con la percezione cromatica
di un uomo, di un cane e di una mosca. E la
proposta di un metodo di lavoro per tracciare
le mappe di altri mondi soggettivi: «Un metodo facile e comodo per mettere in evidenza le
diversità dei mosaici di luoghi secondo cui un
oggetto è veduto dagli occhi di animali diversi, ci è offerto dal fatto che qualunque disegno , a cui si sovrapponga un reticolo, può
essere trasformato in un mosaico di punti. Si
prenda una qualsiasi immagine e la si rimpicciolisca via via: e ogni volta la si fotografi,
PROGETTO Potrebbe sembrare
paradossale, forse addirittura anacronistico
scrivere oggi a proposito del curriculum di
scienze. È faticoso proporre, in questo paese,
in questo momento, un percorso che per
essere significativo richiede tempi distesi
di progettazione, richiede attenzione nelle
scelte metodologiche e didattiche, presuppone
riflessione collegiale e impegno professionale e
investimenti istituzionali Scienze.
I laboratori dimenticati
NUCCIA MALDERA *
D
ai dati che emergono dall’indagine internazionale TIMSS possiamo rilevare, e mettere in evidenza, che le prestazioni dei bambini, in scienze, sono comparabili con le
scelte istituzionali di investimento nella formazione professionale e nel supporto organizzativo e finanziario della pratica didattica.
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Inoltre, il dibattito pedagogico e metodologico, intorno all’educazione scientifica, avviato dall’emanazione dei programmi del 1985,
e che ha attraversato la ricerca didattica e
la riflessione formativa fino alla stesura delle
“Indicazioni nazionali per la costruzione del
curriculum” ha focalizzato gli aspetti crucia-
sottoponendola al medesimo reticolo: e poi
si ingrandisca daccapo al formato primitivo.
In questo modo si ottiene un mosaico sempre
più grossolano. […] Queste immagini ci permettono di raffigurare il mondo soggettivo di
qualsiasi animale, di cui sia noto il numero di
elementi visivi dell’occhio» (p. 118)
Insomma i libri di von Uexküll, pur essendo opera di uno scienziato, sono libri di fiaba e poesia. Ecco come comincia un capitolo
dello stesso libro: «Avete mai osservato un
ghiottone davanti ad una focaccia? La sua attenzione è tutta per lo zibibbo. Nello stesso
modo la zecca, fra le innumerevoli cose che la
circondano, non scerne altro che l’acido butirrico» (p. 99).
Ricorre quest’anno il centesimo anniversario
della pubblicazione del suo Ambiente e mondo interno degli animali. Le sue opere tradotte
in italiano sono ormai introvabili, ma per fortuna è prevista la riedizione di un suo testo,
Mondi animali e mondo umano. Passaggiata
sul pianeta terra nelle edizioni quodlibet. Che
piacere, barone von Uexküll!
li del curriculum di scienze che non possiamo permetterci, come paese, di dimenticare o
peggio di delegittimare.
Fare scienza con i bambini e le bambine
Per fare scienza bisogna imparare ad accorgersi che il mondo intorno a ciascuno di noi,
può essere interessante se impariamo a riconoscerlo lasciando che la quotidianità che ci
circonda stimoli il pensiero e induca in curiosità.
Questo atteggiamento essenziale deve, prima
di tutto, appartenere agli insegnanti che solo
così potranno supportare il pensiero dei bambini e dei ragazzi. Un pensiero che va guidato, orientato, indirizzato, non imposto o
peggio, svilito da pratiche nozionistiche e insignificanti.
Ma la vita e i fenomeni intorno a noi, sono
sfuggenti, la realtà è complessa e dis-organizzata e per questo gli uomini nel corso della storia hanno cercato di selezionare criteri
culturalmente condivisibili, scambiabili e modificabili, che aiutino a comprenderla in tutti
i suoi aspetti.
Alla scuola tocca il compito di contribuire
alla valorizzazione di un pensiero che sappia
fare domande: “cosa mi importa capire”, “che
cosa devo guardare per accorgermi di ciò che
sta succedendo”, “dove devo rivolgere l’attenzione?”.
La peculiarità della scuola dell’infanzia e della scuola primaria sta proprio nell’indirizzare i
bambini a mettere le relazioni tra almeno tre
elementi, favorendo l’approccio ad un pensiero sistemico che tenga conto cioè delle relazioni e non dei singoli elementi, “io che penso; i fatti, cose che succedono con le proprie
INFO
Scienza e divulgazione scientifica
È dedicato a “Rigore e immaginazione nella
scienza e nella divulgazione scientifica”, il
seminario organizzato dal Circolo Bateson (http://
www.circolobateson.it) e dal Circolo Gould, con
la collaborazione del Centro di Cultura Ecologica.
L’iniziativa si tiene alla sala convegni del Centro
di Cultura Ecologica a Roma (parco di Aguzzano,
ingresso da via Schopenhauer angolo via Locke) il
13 e 14 giugno 2009.
Per iscrizioni: [email protected].
Estate a Cenci
Alla Casa-laboratorio di Cenci, associazione
educativa, culturale ed artistica, dal 28 giugno
al 5 luglio 2009, si tiene il Villaggio educativo: 7
giorni e 7 notti per partecipanti dai 7 ai 70 anni
e dal 7 al 15 luglio 2009 si tiene Albe d’oro, lune
d’argento, Campo estivo nella natura per bambini
e ragazzi dai 7 ai 15 anni.
Casa-laboratorio di Cenci, strada di
Luchiano 13, 05022 Amelia (Terni), tel.
0744.980330 - 339.5736449 - 338.4696119,
[email protected], www.cencicasalab.it/
cenci.
Tutto il potere alla geografia
modalità e il luogo in cui queste accadono.
«Tutte le discipline dell’area hanno come elemento fondamentale il laboratorio, inteso sia
come luogo fisico (aula, o altro spazio specificamente attrezzato) sia come momento in cui
l’alunno è attivo, formula le proprie ipotesi e
ne controlla le conseguenze, progetta e sperimenta, discute e argomenta le proprie scelte
impara a raccogliere dati e a confrontarli con
le ipotesi formulate, ( (fa previsioni) negozia
e costruisce significati interindividuali, porta
a conclusioni temporanee e a nuove aperture la costruzione delle conoscenze personali».
(dalle Indicazioni per il curricolo).
È molto interessante la formulazione di
Laboratorio che si trova nelle Indicazioni nazionali, ci dice che bisogna sperimentare contemporaneamente le fenomenologie e le idee
che provano a spiegarle.
I primi passi per la sperimentazione passano
dal saper mettere le mani sui fenomeni, che
in laboratorio si ri-producono per esser meglio osservati e analizzati, si comincia cioè
a guardare nei dettagli, si comincia a “provocare i fatti”: “cosa succede se…”, ma anche : “a cosa assomiglia…”, “che cosa mi ricorda…?”.
«[…] importante che la competenza in “discorsi” di scienza cresca in coerenza con altre
competenze e ad altri “discorsi”» (Indicazioni
nazionali).
Intanto che si fa, si parla, si discute, si impara
a costruire mappe, schemi, prime generalizzazioni. Si passa ad una scienza interpretativa.
Un altro aspetto interessante ci viene dalle
Indicazioni: è necessario che nella scuola di
base si prevedano percorsi in cui ci sia «la
necessità del concorso di molteplici modi di
guardare reciprocamente integrati [sguardo
da fisico, da biologo, da chimico...], interpretare se stessi e il mondo attraverso modelli sempre più raffinati, condurrà alla consapevolezza della necessità di procedere per
separazioni e ricomposizioni degli aspetti diversi dei fenomeni».
È importante cioè saper prevede nella progettazione non solo le separazioni fra discipline
ma gli intrecci, le sovrapposizioni i supporti
reciproci. Solo così sarà possibile aiutare i ragazzini ad attivare modalità di ragionamento con criteri non di linearità ma di collegamento, usando conoscenze e abilità appresi
in altri contesti, ri-collocando spiegazioni già
utilizzate in precedenti esperienze e progettando esperienze per trovare spiegazioni anche in altri argomenti.
Solo costruendo un serio repertorio di idee,
gesti, esperienze si potrà riconoscere la necessità della formalizzazione, riconoscendone
il suo valore di generalizzazione teorica costruita dalla lettura e dall’analisi dei fenomeni nel corso dei secoli. Ma il cammino della
cultura è stato lungo e tortuoso, dobbiamo
consegnare ai nostri ragazzi anche il senso di
questa fatica.
* MCE, Movimento di Cooperazione Educativa,
Torino.
In un articolo pubblicato da La Gazzetta del
Mezzogiorno (martedì 5 maggio 2009) Giorgio
Nebbia suggerire «la pubblicazione di libretti che
descrivano i diversi bacini idrografici − l’intero
sistema di valli, affluenti e fiume principali, dagli
spartiacque fino al mare − da distribuire ai ragazzi
nelle scuole, in modo da sollevare una specie di
movimento che induca ogni cittadino italiano a
riconoscersi figlio di un fiume e delle sue valli,
di un bacino idrografico, insomma; allora (forse)
non ci saranno più liti fra Molise e Puglia, fra
Piemonte e Lombardia, fra Umbria e Lazio, e così
via, in una visione di grande nuova solidarietà di
persone unite dall’unico valore che conta, quello
delle acque, fonte di benessere, di vita, di energia
e non più di disastri».
Nucleare impossibile
Nucleare impossibile, il libro curato da Virginio
Bettini e Giorgio Nebbia per Utet Libreria (Torino
2009, pp. 242, euro 16), spiega in maniera
puntuale perché non conviene tornare al nucleare.
«Il governo può fare tutti i decreti che vuole,
può coprire col segreto le decisioni relative alla
costruzione delle centrali nucleari, ma non c’è
nessun posto in Italia in cui localizzarle». Racconta
la storia dei tentativi falliti di localizzare le
centrali nucleari negli anni Ottanta (a Carovigno,
Avetrana, San Pietro Vernotico in Puglia, Viadana
e dintorni nel Mantovano, Trino Vercellese,
Montalto di Castro, «l’unico posto in cui è stata
avviata la costruzione di una centrale nucleare poi
fermata non solo per il referendum del 1987, ma
perché le indagini territoriali avevano mostrato la
inadeguatezza della scelta».) Oltre alle difficoltà
di localizzazione; il nucleare è “impossibile” in
Italia anche per i problemi di stoccaggio delle
scorie radioattive. Infatti anche per un eventuale
futuro deposito nazionale di scorie radioattive ci
sono vincoli geografici e geologici insuperabili in
Italia. Basti pensare che il governo statunitense ha
deciso di sospendere l’utilizzazione persino di Yucca
Mountain nel Nevada dove sono già state costruite
gallerie e depositi sotterranei, spendendo otto
miliardi di dollari.
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modi
e media
CINEMA Il fascismo non è mai morto?
Assistiamo alla persistente negazione
dell’Olocausto, alla demitizzazione della
Resistenza in Italia, alla giustificazione del
fascismo, alla criminalizzazione dei famigerati
“anni Settanta”, figli del “maledetto Sessantotto”
causa di tutti i nostri mali attuali (Destra politica
al potere inclusa?). Ci sono però tre film che
circolano oggi in Italia che aprono una crepa
in questo muro di certezze e che obbligano ad
una qualche riflessione. Specialmente nell’ottica
di reperire appigli per costruire processi di
“educazione civica” Dittature reali e
dittature virtuali
STEFANO VITALE
Milk, (2008) di Gus Van Sant, con Sean Penn, Usa, 128’.
Tony Manero (2008) di Pablo Larraine, con Alfredo Castro, Brasile/
Cile, 98’.
L’Onda, di Dennis Gansel, con Jurgen Vogel, Germania, 101’.
L
i considero tutti e tre molto collegati: due vengono dal Torino
Film Festival ed uno è di Gus Van Sant. Tutti e tre ci parlano del fascismo, della crisi possibile della democrazia, sia pure in modo diverso.
Tony Manero (premio Miglior Film al TFF) è ambientato in Cile al tempo del golpe fascista di Pinochet. Il protagonista è un insulso omuncolo ossessionato dal mito de “La febbre del sabato sera”. Imitare il
suo idolo è la sua unica aspirazione, il resto non conta: può uccidere
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una vecchia senza provare alcuna emozione, derubare da sciacallo un
conoscente impegnato nella resistenza clandestina, amoreggiare con
la figlia della sua compagna, disinteressarsi completamente a tutto
ciò che accade attorno a lui. Il fascismo è prima di tutto disprezzo per
la vita altrui, cinismo dei sentimenti, totale mancanza di etica, indifferenza sociale. Rubare, ammazzare, abusare degli altri è normale specie se il fine è arrivare in televisione per il concorso che avrebbe de-
cretato chi è il “Tony Manero” giusto. Lui perde e si capisce benissimo
che intende uccidere colui che lo ha superato in un gioco al massacro
infinito. Il fascismo germina e si nutre di frustrazioni, isolamento, assoluta mancanza di rispetto per le regole, se non quella del più forte.
Ed è fondamentale “stare dalla parte del più forte”.
Pregiudizi
Tutti sanno come gli Stati Uniti abbiano appoggiato finanziariamente
e militarmente il colpo di Stato di Pinochet contro Salvador Allede e
come abbia chiuso gli occhi dinnanzi alle palesi violazioni dei diritti
umani. Il corpo mutilato di Victor Jara e di tanti altri dissidenti più
o meno consapevoli è lì a gridare ancora il suo dolore. Harvey Milk,
in quegli stessi anni, diventa il primo consigliere pubblico dichiaratamente gay in America. Siamo in California, tradizionale roccaforte della destra americana repubblicana. Reagan viene da lì così come verrà
da lì Schwarzenegger (passando per l’Austria, come per caso).
Il film Milk ci racconta la storia di quest’uomo che ha finito per pagare
con la vita (fu assassinato nel 1978) il suo impegno per l’affermazione dei diritti degli omosessuali in America. Milk deve battersi contro
i pregiudizi, il bigottismo puritano, la solita doppia morale borghese,
come si diceva una volta, e contro l’omofobia nascosta, la rimozione
dell’omosessualità. Qui il fascismo vive nella caccia al diverso, nella
difesa acritica di presunti “valori” morali, nella emarginazione sistematica di ciò che non è “normale”. Il problema è ovviamente un problema di riconoscimento dei diritti di un individuo indipendentemente
dalla sua vita privata, sessuale in particolare. Oggi “la lobby dei gay”
è molto potente in ogni settore della nostra vita sociale ed il film Milk
talvolta appare troppo patinato e luminoso (tanto era ruvido e cupo
Tony Manero) in una sorta d’iconografia sansebastianesca del sacrificio persino ossessiva. È vero però che il protagonista incita a fare un
salto: fare outing e collegare la lotta per i diritti civili dei gay con la
lotta per l’emancipazione sociale di tutti gli “umiliati ed offesi” nella
nostra società: i poveri, gli emarginati sociali. Insomma non si tratta
solo di un “diritto formale”, ma di superare le differenze di classe. Non
basta chiedere una “quota” di potere solo perché si è gay: la lotta per
i diritti è una forma di “lotta di classe” più vasta.
Fanatismi
Nel 1967 Ron Jones, professore in un Liceo americano (e ricordiamo
anche Philip Zimbardo che all’università di Palo Alto, mitica sede del
costruttivismo teorico e dei computer rivoluzionari svolse un esperimento analogo), condusse un singolare laboratorio. Voleva dimostrare
con una specie di gioco di ruolo come poteva prendere piede il nazismo e come funzionava un regime. La sua classe divenne una sorta di laboratorio militare: i ragazzi inventarono simboli, inno, saluto,
stemmi, bandiere, si viveva nella disciplina, con ruoli precisi. Lo scetticismo iniziale degli allievi si trasformò in entusiasmo fino a sfociare
in forme pericolose di fanatismo. L’Onda, del tedesco Dennis Gansel,
anch’esso premiato al TFF, riprende questo episodio trasferendolo ai
giorni nostri in Germania. La domanda del professor Wenger ai ragazzi
del suo liceo, aprendo la settimana a tema sull’autocrazia è: «ritenete
che il fascismo possa tornare?». I ragazzi sono scettici, ma il professore dimostrerà concretamente quali siano le condizioni perchè ciò possa accadere e quali siano gli effetti reali sulle relazioni tra gli individui. Disciplina, il potere carismatico di un Capo, ma anche un universo
codificato di simboli che permetta di “ri-conoscimento” dei membri
di quel gruppo, “valori” e regole ferree di comportamento che stabiliscano gerarchie, tempi e modi dell’esistere. Così si colma un vuoto di
senso e si trovano risposte pronte e sicure. Il fascismo si appoggia sia
sul bisogno di sicurezza degli individui, che sul desiderio ambivalente
di avere una identità. Il neo-comunitarismo è parente del fascismo. La
cosa dura del film è che vi è un “armamentario” ideologico della “sinistra” che viene recuperato (non a caso Mussolini è stato socialista,
il partito di Hitler era nazionalsocialista, ed il comunismo “stalinista”
non si è certo sottratto al totalitarismo): la critica del capitalismo che
produce disoccupazione emarginante e globalizzazione sdradicante,
un neo-ecologismo anti-industriale che riporta ai valori della terra,
i valori del gruppo come struttura che protegge i suoi membri, l’idea
della cooperazione come forza produttrice di eguaglianza (e livella-
mento), l’idea che tutti hanno diritto ad avere un posto nella società.
Non è trascurata anche una critica all’individualismo anarcoide della
nostra società dei consumi ed al disfacimento della famiglia e della
scuola come strutture di riferimento, contenimento, orientamento dei
ragazzi. Naturalmente vi sono anche aspetti soggettivi: le personalità più fragili, i frustrati, coloro che si sentono perseguitati, i repressi sono più facilmente vittime del fascino dell’Ordine e delle Armi,
della violenza implicita ed esplicita trovando il coraggio di imprese
impossibili, neomartiri della giusta causa. Lo stesso professore, nel
film, ha questo tipo di personalità e “si lascia prendere la mano” anche con piacere e sgomento insieme. Inoltre trova una nuova soddisfazione nell’insegnamento: vede i suoi ragazzi finalmente coinvolti,
attivi, autonomi, capaci di creatività, di lavorare insieme, di mettere
a disposizione il loro tempo “oltre la scuola”. Lui si sente importante
“per loro” e così li manipola. Terribile e devastante: si è come trasferiti in un mondo ideale assolutamente sganciato dal reale, persino al
di là del “nichilismo del potere”, dell’esercizio del potere per il potere di cui ha parlato Zagrebelski (su Repubblica) indicando in ciò il
senso ultimo della situazione in Italia e non solo. Siamo in una zona
“pre-politica” che è “oltre la politica” della democrazia nella logica di
semplificazione istituzionale del branco. La mancanza di equilibri tra
i poteri, il collettivismo acritico, la soppressione di ogni spazio pubblico aperto a opinioni diverse (come ha scritto Barbara Spinelli su La
Stampa), il fondamentalismo etico ed emotivo (il gruppo de L’Onda è
come uno “Stato Etico” assoluto in riduzione), la concentrazione del
potere mediatico e dell’informazione (nel film è importante questo
aspetto) in pochissime mani, la mancanza di laicità e la continua costruzione di muri sono tra le cause/effetto dell’approccio fascio-nichilista di cui ci parla L’Onda. Purtroppo il fascismo può rinascere, forse
non è mai morto e per contrastarlo dobbiamo coltivare l’idea positiva
dell’imperfezione del nostro sistema democratico per questo chiamato
a correggere le devianze assolutistiche insite in ogni forma di fanatismo settario che pretende di imporre l’ideologia di una parte sul tutto.
Ma anche attento a fare delle scelte di campo, a proporre una “visione” della società attenta ai profondi bisogni degli individui. Partendo
dal quotidiano, vivendo la democrazia sin dentro i rapporti personali e
investendo di più, molto di più sulla scuola e l’educazione.
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gioco
IL MAGO DEL GIOCO
Spunti sarcastici e spiritosi,
utilizzabili a scuola, nei libri di
Enrico Euli, formatore e docente
che lavora col gioco e sul gioco
anche all’Università
NADIA LENARDUZZI
P
er forza. Insegna “Metodologie e tecniche del gioco, del lavoro di gruppo e dell’animazione” presso la facoltà di Scienza della
Formazione a Cagliari. Molti dei suoi studenti sono passivizzati o in
preda allo sconforto. Eppure con l’andare avanti delle ore e dei giorni
accadono piccoli “miracoli”. E si prova piacere. E un senso di bellezza.
Non è abbastanza e non è poco.
Enrico Euli gioca con le parole. Le smonta come il lego e le rimonta,
creando effetti a volte buffi a volte criptici ma più spesso efficaci: attendere, conlusioni, spicchiarsi, immedesimediarsi, comprendersi in
giro. Vagliamone una: Respons-abile: “abile a rispondere”. La responsabilità presuppone una domanda, è sempre importante in educazione
verificare quale era la domanda, capire se stiamo rispondendo davvero
a quella e non alle nostre ansie. Insomma un bel modo per introdurre all’ambivalenza e alla complessità del comunicare senza darle per
scontate.
In una visione positiva dell’apprendimento attraverso l’esperienza,
Euli utilizza metodologie attive e gioca insieme ai suoi studenti, ma
non a discapito dello studio teorico.
Libri di pedagogia
Nel libro Percorsi di formazione alla non violenza, (AA: VV., Pangea,
Torino, 1996), Euli − partendo dalla constatazione che nella prassi degli insegnanti di scuola superiore si intravedono due modelli di riferimento: quello funzionale guidato dal quesito “per quale motivo?” e
quello adattivo che si chiede “a quale scopo?” − propone di utilizzare
la teoria dei sistemi, secondo la quale la comunicazione per essere interpretata ha bisogno di tre livelli logici differenti di lettura: il contesto, la relazione, il contenuto e suggerisce di interrompere la power
line che, con la complicità della stessa forma strutturale dell’aula scolastica, impone implicitamente una divisione rigida dei ruoli e del potere per questo ha sperimentato positivamente, insieme a insegnanti delle scuole superiori, lavori collettivi sulla regolamentazione del
gruppo come la scansione della lezione; l’abolizione, per alcune fasi o
argomenti, della lezione frontale; l’introduzione di referenti di settore
con il compito di aiutare chiunque ne faccia richiesta su particolari argomenti; l’affido di parti di programmazione a gruppi di allievi.
Molti docenti lavorano per far “amare” la propria disciplina, ma per
contrastare la parcellizzazione del sapere e favorire l’interdisciplinarietà, sempre evocata e mai praticata, cosa si può provare a fare?
Piccoli passi verso un apprendimento autodiretto in cui la curiosità
sia centrale nella scelta e nella connessione delle discipline.
Il teatro, il problem solving, la fotografia, l’uso dell’informatica sono
diffusi non sul piano del mettere in relazione mondi confinanti ma
nell’ambito del “sussidio didattico”, cioè del supporto, non sviluppando percorsi di connessione che pongano in parallelo le tecniche la logica di cui queste sono portatrici.
In Percorsi di formazione alla non violenza viene documentata anche
una sperimentazione che, accanto alla valutazione quantitativa delle
prove da parte dell’insegnante, prevede quella di una “commissione di
garanti” composta da studenti per arrivare a una valutazione concordata. Altra esperienza riportata è quella in cui il docente esprime una
valutazione segreta, ciascuno studente si attribuisce una valutazione
sulla base di categorie concordate e poi insieme si definisce il voto.
Contro la noia
Spesso il messaggio che lo studente di scuola superiore riceve è «Devi
mostrarti autonomo nel tuo stile di apprendimento, purché tale autonomia sia dentro la dipendenza che io stabilisco». A questo assunto si
possono far risalire la noia e il disinteresse degli allievi. Il metodo del
training cioè l’utilizzo di giochi di ruolo, brainstorming, schieramenti, dibattiti, attivazione di pratiche ludiche, sperimentato in diversi
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momenti della vita a scuola ha evidenziato alcuni vantaggi: aumento sensibile della motivazione anche al lavoro tradizionale scolastico;
aumento della solidarietà tra compagni: aumento dell’autonomia nello studio; aumento della capacità di autovalutazione e allenamento
maggiore in vista dello stress provocato dalla maturità. Ma sono stati
segnalati anche alcuni svantaggi: il passaggio da una lezione svolta
con questa metodologia ad una in cui si usa solo la spiegazione frontale genera conflitti; è faticoso mantenere metodologie coerenti e
mantenere le scansioni del programma ministeriale; necessità di programmare minuziosamente ogni lezione nei tempi e nei materiali.
Inoltre non è semplice superare vincoli strutturali, anche solo logistici (dall’inadeguatezza delle aule, ai rumori di disturbo per le altre
classi…).1
Farsi giocare
I dilemmi (o diletti) del gioco. Come formare al gioco giocando (Edizioni
la meridiana, 2004), porta la dedica: «agli uomini e alle donne che
provano ancora a giocare con la vita e a farsi giocare da lei».
Si parte con l’immagine della lezione in cui si dà la possibilità di stare in un’aula “smontandone” la struttura e ridefinendone i vincoli di
relazione tra le parti. E poi si inizia a mettere le sedie a cerchio, non
utilizzare la cattedra, limitare l’uso della lavagna, creare al centro uno
spazio vuoto adatto al movimento, trasformare di continuo la disposizione delle sedie a seconda delle esigenze di lavoro e del gruppo…
tutte queste azioni possono rappresentare i primi segnali di un cambiamento che, per quanto da solo insufficiente, si rivelano necessari
per indicare un diverso orientamento e ristrutturare, per quanto possibile, un contesto.
Enrico Euli è convinto che inventare, immaginare, creare nuovi contesti è ciò che di più potente possa metterci in mano la vita. Occorre
superare il limite delle antitesi popolari di “lavoro e gioco” di “gioco e serietà della vita”. Accettare che il gioco non sia manifestazione
di un fenomeno marginale nel passaggio della vita umana. E ci fa riflettere sulle parole di Fink: «Il gioco appartiene in modo essenziale
alla costituzione ontologica dell’esistenza umana, è un fenomeno esistenziale fondamentale». L’ambito in cui si inserisce la proposta dell’autore «è quella del lavoro educativo, formativo, terapeutico dove si
riscontrano le patologie comunicative che derivano dall’incapacità di
vedere le differenze e le distinzioni, di riconoscere i salti e i gradini:
ecco perché inciampiamo e ci facciamo male».
Cooperazione e competizione
Per Euli l’educazione riguarda l’estetica, l’etica e la politica, aspetti
che sono stati separati con effetti devastanti. Formazione ed educazione sono un continuo incessante e testardo tentativo di riconnettere estetica, etica e politica. «Quando si fa una bella formazione si sente un benessere impegnato e rilassato, dolce e spigoloso, piacevole e
confondente. È un modo, anche, per non sentire più separati il gioco e
la vita, la formazione e l’azione, le emozioni e la ragione, il gioco e la
serietà, il dono e il salario. Anche questa è un’esperienza estetica».
Anche cooperazione e competizione non vanno mai separate, ma lette in una cornice complessa che lega gli estremi. Questa società è
caratterizzata da un modello di “cooperazione a competere” al quale dovremmo imparare a sostituire un modello basato sul “competere
a cooperare”… La cooperazione, per essere accolta, deve dimostrarsi
capace di “successo aggiuntivo”, rispetto a quel che offre il modello tradizionale e dominante cioè aggiungere felicità e soddisfazione,
non richiamarsi a modelli della sottrazione e della rinuncia di stampo
altruistico-moralistico.
Viviamo in una società complessa in cui chi insegna si chiede come
affrontare il conflitto in una visione educativa non violenta. In Casca
il mondo! Giocare con la catastrofe Una nuova pedagogia del cambiamento (Edizioni La Meridiana, 2007), viene presentata come novità
della visione educativa non violenta, la capacità di comunicare e cooperare nel conflitto. Da un lato Euli insiste sulla necessità formativa
di avvicinare gli studenti ai conflitti con meno paura e più leggerezza,
dall’altro su sviluppare il massimo di assertività ed empatia quando
ci si trova coinvolti in situazioni conflittuali. E ci ricorda il paradosso
della nostra cultura: spesso chi esplicita il conflitto viene percepito
come aggressivo e come se fosse lui a crearlo, mentre chi lo copre il
conflitto o lo affronta in maniera paternalistica o materialistica è di
solito ritenuto meritevole.
NOTA
1. Sul trainign Euli era intervenuto anche in Reti di formazione alla non violenza. Viaggi in training (1992-1998), Pangea Edizioni, 1999.
il libro
GREMBIULI DI IERI E DI OGGI
In copertina c’è una classetta di altri tempi,
tutti maschietti col grembiule, chi col fiocco
chi senza fiocco, e forse, se non fosse così
unisex, potrebbe anche essere una classe del
futuro. Il grembiule gelminiano vale come
simbolo del ritorno all’ordine e al buon tempo
antico che ispira la politica scolastica di
facciata dell’attuale governo, essendo la sua
vera politica la riduzione e l’impoverimento
della scuola pubblica, «all’interno del
più ambizioso progetto di smantellare
lo Stato sociale, con il suo corollario di
diritti acquisiti anche a costo di dure
battaglie»
CESARE PIANCIOLA
Davide Montino, Con il grembiule siamo tutti più buoni! La
scuola italiana tra falsi problemi e pessime soluzioni, Selene
Edizioni, Milano 2009, pp. 159, euro 13,90
L’
autore è un giovane ricercatore, che attualmente insegna Storia delle istituzioni educative presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Genova e ha al suo attivo alcuni libri, tra cui Le parole educate. Libri e quaderni tra fascismo e Repubblica (Selene
2005). Tra il 2003 e il 2005 ha insegnato Storia e Filosofia in un liceo scientifico e si è trovato nel bel mezzo dello stordimento della scuola “poffata”, cioè tanto «gonfiata di progetti,
percorsi, moduli, attività, occasioni», che dà il capogiro a chi ci arriva, salvo poi accorgersi
all’esame di Stato che quel che alla fine interessa è il “programma” nel senso più banale e
tradizionale. Una scuola dell’Autonomia in cui il problema principale è quello di attrarre gli
utenti-clienti con offerte seducenti (il supermercato delle “offerte speciali”, p. 134); una
scuola fatta di innumerevoli adempimenti burocratici e da pochissima riflessione sulla didattica e sui problemi pedagogici; dove manca sempre più il tempo per ragionare, confrontarsi, metabolizzare, condividere ciò che si apprende: mentre «la scuola dovrebbe essere il
luogo dove il tempo si dilata, la fretta sparisce, e si apprende il gusto di andare in fondo alle
cose, ma soprattutto si impara ad andare al proprio passo» (p. 155); una scuola nella quale
penetrano i modelli televisivi di una falsa democrazia in cui la competenza cede il campo
all’opinione, non conta quanto fondata. Alla fine la scuola viene meno ai compiti che le affida la Costituzione, innanzi tutto a quello di promuovere un’eguaglianza sostanziale, invece
di confermare i vantaggi iniziali, culturali, sociali, economici. C’è nel libro un’idea forte di
scuola democratica, inclusiva (vedi il capitolo su “Scuola e migrazioni”), sottratta agli imperativi del mercato e della riduzione dell’istruzione a merce, antitetica allo pseudo-liberismo
berlusconiano che in realtà vuole drenare le risorse pubbliche a favore dei privati (efficaci
le pagine sulla scuola-azienda di Letizia Moratti e sul ritorno a quel modello, in maniera ancora più grossolana e permeata di umori autoritari, da parte della Gelmini, senza del resto
fare sconti all’intermezzo “temporeggiatore” di Fioroni). C’è anche un’idea di scuola laica:
molto ben documentato il capitolo su “Scuola e religione”. E fa piacere leggere a conclusione
di un capitolo contro i detrattori del ‘68 («il vuoto pedagogismo che dal 1968 ha infettato
come un virus la scuola italiana», ha scritto la Gelmini): «ritengo necessario, oggi più che
mai, difendere ciò che di buono è venuto da quei movimenti, che consiste non tanto nelle
ideologie allora diffuse, quanto in svariate, più o meno note, pratiche di buona scuola democratica» (p. 43).
Non tutto convince. Per esempio c’è una certa svalutazione dei contenuti dell’insegnamento
e una sopravvalutazione di saperi che scaturiscono da intrecci e rimandi, come negli ipertesti (p. 153). Per intrecciare occorre pur avere solidi fili da tessere ed è difficile separare
l’acquisizione degli strumenti per imparare da una precisa definizione di contenuti. Mi sembra
anche che non sia adeguatamente evidenziato il nodo centrale dell’innalzamento dell’obbligo
a 16 anni (recente conquista svuotata però dalla mancanza di un biennio unitario). Il libro
è comunque molto efficace nel demistificare l’ideologia semplicistica del ritorno all’ordine e
alla disciplina, e riesce a comunicare bene la complessità dei problemi reali della scuola e
dell’educazione oggi.
INFO
Munari e Piccardo on-line
Il sito internet www.monteolimpino.
it cataloga e presenta l’esperienza
cinematografica,
effettuata da Bruno
Munari e Marcello
Piccardo, tra gli anni
‘50 e ’70, a Como,
sulla collina di Cardina
− narrata nel libro di
Marcello Piccardo La
Collina del Cinema,
NodoLibri, Como
1992. Il luogo dove
i film d’avanguardia,
di ricerca e di
promozione erano
realizzati è ora sede
dell’Associazione
Cardina nata con la
finalità di diffondere il
lavoro effettuato dai
due artisti. Vietato
sognare
Vietato sognare
Il documentario Vietato sognare –
Forbidden childhood – girato da Barbara
Cupisti durante le fasi di realizzazione
del film Madri, prodotto da Rai Cinema
e distribuito dall’Ucca - Unione Circoli
Cinematografici dell’Arci – ha ricevuto
il Premio, assegnato dal pubblico,
come miglior film alla seconda
edizione del Bahrain Human Rights
International Film Festival. Vietato
sognare racconta le sofferenze e i
sogni di pace – che «non sono quelli
che vediamo dormendo, ma quelli che
non ci fanno dormire» – di chi vive
in Palestina e Israele. Utilizzando
anche filmati d’archivio a partire dalla
prima Intifada, la regista fa parlare i
protagonisti di
entrambi i fronti
del conflitto
che accompagna
quotidianamente
i palestinesi
e che viene
rimosso dagli
israeliani che
imparano «molto
presto che il
modo migliore
di affrontare i
problemi è non affrontarli affatto»). La
regista presenta una serie di paradossi:
un gruppo di miliziani incappucciati
che scrive con lo spray su un muro
“il programma di pace palestinese
è il nostro obiettivo” o, militari
dell’esercito israeliano impegnati a
scortare piccoli palestinesi nel tragitto
da casa a scuola per proteggerli da
coloni israeliani.
Il documentario è particolarmente
adatto alle scuole.
Per averlo e per contattare la regista:
Ucca, via dei Monti di Pietralata 16,
00157 Roma, tel. 06.41609220 – 225,
fax 06.41609271, [email protected].
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navigo ergo sum
LA RETE E
L’INTEGRAZIONE
SOCIALE DEI
DISABILI
EDOARDO CHIANURA
È
facile oggi trovarsi a discutere di villaggio globale, o più in generale dei vantaggi
che Internet ci mette a disposizione, spesso
senza soffermarsi a riflettere abbastanza sul
fatto che questi vantaggi sono sempre e comunque limitati ad una parte molto ristretta dell’umanità.
Non si tiene conto che il fenomeno Internet riguarda solo i paesi più sviluppati del pianeta e che interi paesi, intere popolazioni,
sono completamente o quasi completamente privi di collegamenti Internet. Non si tiene conto che anche all’interno dei paesi più
ricchi esistono molte persone che vivono al di sotto della soglia di
povertà e per le quali l’accesso alla rete rappresenta un lusso che
non si possono permettere. Infine ci si dimentica anche di prendere
in considerazione tutte quelle persone che per disabilità fisiche o
mentali non riescono a utilizzare la rete o ci riescono solo a prezzo
di grandi difficoltà
In Italia, un paese in netto recupero tecnologico, si delinea un dato
forte: la distanza dalle nuove tecnologie della terza età e di alcune
categorie sociali con un grado d’istruzione più basso. Uno studio del
Censis evidenzia che il 12,9% delle casalinghe e il 9,4% dei pensionati dichiarano di avere gravi difficoltà, nonostante l’interesse,
a utilizzare Internet.
Sempre in Italia sono oltre 3 milioni di persone, il 5-6% della popolazione secondo i dati ISTAT, che convivono con una forma di
disabilità e se a loro aggiungiamo anziani e categorie in disagio,
possiamo ben immaginare il numero di soggetti che non solo fanno
fatica ad usufruire appieno di questa potenzialità, ma rimangono
tagliati fuori dalla mancata democratizzazione della Rete.
Se a tutto ciò aggiungiamo la questione accessibilità (secondo un
dossier presentato dalla Banca Popolare di Milano si arriva a stimare
che per ogni sito non adeguatamente accessibile si taglia fuori un
pubblico, comunque già oggi ricettivo, di circa 650.000 persone),
in Italia sia i siti della Pubblica Amministrazione che quelli privati
hanno ancora molto da lavorare.
Tralasciando i diversi e complessi aspetti dell’hardware e del software, voglio soffermarmi su come la “rete”, grazie ad alcune risorse
specifiche, possa costituire un valido aiuto all’integrazione sociale
dei disabili e al reperimento di tutte quelle informazioni utili per
chi vive tutti i giorni a contatto con queste problematiche.
La rete, fonte inesauribile di servizi e di risorse, innanzitutto può
aiutare ad integrarsi più facilmente nel tessuto sociale tramite strumenti semplici come la posta elettronica o attraverso una chat, instaurando più facilmente un rapporto diretto con la realtà esterna
alla propria famiglia. Si possono contattare comunità virtuali che
si occupano di problemi specifici del mondo dell’handicap o di qualunque altro argomento. Si possono trovare messaggi di richieste di
aiuto o di compagnia, anche annunci commerciali, come nel caso di
aziende produttrici di ausili, e portali tematici.
A questo proposito a Torino è nato un sito dedicato ai bambini con
Un vocabolario tutto per noi
Questa volta il vocabolario va dalla “T” di
Tenerezza alla “U” di Uomini
MONICA LANFRANCO *
TENEREZZA
«Le donne, benché dicano il contrario, non vedono nella tenerezza che un punto d’avvio verso l’amore». Che dire di questa frase di
Marguerite Yourcenar, che ci obbliga a fare i conti con l’annoso problema della contiguità, per noi pollastre, tra sentimenti e corporeità? A rincarare la dose ci si mette anche George Sand, che con la
sua imperiosa visione del mondo, letteraria e non, asserisce: «Devo
amare teneramente, o morire». Insomma la durezza e la spigolosità
necessarie a quante hanno fatto (e continuano a fare) del femminismo e della differenza di genere una lente prioritaria con la quale
guardare il mondo non incidono sullo zoccolo duro di un sentimento, la tenerezza appunto, che risulta indispensabile alla vita femminile. Un sentimento che è sembrato poter abitare la politica persino secondo il Che, che donna non era, quando affermava che la
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tenerezza è rivoluzionaria. A volte basterebbe che fosse di questo
mondo. Speriamo.
Alexis, o il trattato della lotta vana, Marguerite Yourcenar,
Einaudi.
Andante con tenerezza, Laura Mancinelli, Einaudi.
Lettere, George Sand, Rizzoli.
TRADIMENTO
Ovvero come cambiano i tempi. In bene, se pensiamo che il tradimento è stato per millenni sinonimo di morte certa per le donne, giustiziate nelle più variopinte versioni del sadismo umano (lapidazione,
impiccagione, annegamento). Oggi in buona parte del mondo non è
più possibile uccidere impunemente una donna perché fedifraga. In
male, se pensiamo che mezzo pianeta (da noi persino i calciatori!) si
è attivato per evitare che una giovane nigeriana (ma ce ne sono altre
pronte nelle carceri) venisse lapidata per questo “reato”, in questo
nostro terzo millennio cablato. In malissimo, se oggi si discute allegramente se sia il caso, qualora si vestano i panni di moglie tradita,
di risarcirsi sull’amante del marito affinché lei ti paghi con i regalini
che il tuo consorte traditore le ha fatto. Proprio vero che nella nostra
disabilità, in età compresa fra zero e dieci anni, e alle loro famiglie
che si chiama DI.TO. (http://dito.areato.org). Un’iniziativa che intende favorire una servizio sia per quanto riguarda la raccolta e l’aggiornamento di dati sulle normative e sul funzionamento dei servizi sociosanitari, sia consentendo appunto lo scambio di esperienze
trasversali e allargate.
Tre le Sezioni principali in cui è ripartito DI.TO, ci sono i “Percorsi”,
per orientarsi tra i contenuti informativi, la “Community”, per scambiarsi idee e proposte e gli “Strumenti”, contenenti link utili, notizie “di giornata” e i vari eventi di maggiore interesse.
Altro sito che voglio segnalarvi è quello legato alla Federazione
Italiana per il Superamento dell’Handicap (http://www.superando.
it) che propone interventi e opinioni legate all’attualità, alle politiche per la disabilità e ad eventi di rilievo per il settore come lo
studio e il lavoro.
E tra le potenzialità più promettenti che offre la rete c’è sicuramente quella costituita dal telelavoro (http://www.dinicola.it/telela/
disab/index.htm), un vantaggio per persone con esigenze particolari come i disabili, ma attenti a non cadere nella pericolosa illusione
che sia sufficiente dare un computer collegato ad Internet ad ogni
disabile per aver risolto i loro problemi. Perché oltre alla fattibilità
di un tale progetto legato alle capacità residue del disabile, funzionalità fisiche, psichiche o mentali che il deficit non ha pregiudicato
o ha compromesso solo in parte, si deve essere ben coscienti del rischio di confinare i disabili all’interno delle loro case, impedendogli
di fatto l’insostituibile rapporto diretto con gli altri.
INFO
Palestina: Studenti sotto occupazione
Si intitola Studenti sotto occupazione - Prendete posizione la mostra
fotografica di studenti palestinesi realizzata dalle Università Birzeit di
Ramallah (http://www.birzeit-it.tk) e Al-Najah di Nablus, nell’ambito
della campagna “Right2education” per il diritto all’istruzione nei Territori
Occupati.
La mostra e il film A caged bird’s song − realizzato per documentare
gli ostacoli imposti dall’occupazione militare israeliana al diritto allo
studio dei ragazzi palestinesi − possono essere richiesti a Nathan Never
([email protected]).
El Ghibli
El Ghibli è il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento
che accompagna e asciuga la parola errante. La parola impalpabile e
vorticante, che è ovunque e da nessuna parte, parola di tutti e di nessuno,
parola contaminata e condivisa.
È la parola della scrittura che attraversa quella di altre scritture, vi si
deposita e la riveste della polvere del proprio viaggio all’insegna dell’uomo
e del suo incessante cammino nell’esistenza.
Cosa contraddistingue la migranza, la scrittura migrante, al di là della
lingua in cui si esprime? L’identità multipla di cui è composta, la
stratificazione di destini e progetti futuri che ne guida la voce. Una
formula ogni volta differente che fa sì che in ogni momento sia altra,
straniera a se stessa, in un continuo rinnovamento della propria volatile
essenza.
El Ghibli, la rivista del vento (http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/),
è la prima in cui la redazione è composta da scrittori migranti. Si tratta
dell’unione collaborativa di individualità ben distinte, ognuna espressione
di una composizione alchemica assolutamente unica ed irripetibile,
risultato di una personale e composita avventura biologica e culturale, che
nella differenza accomuna storie e destini, per dare vita ad un progetto
letterario che, muovendo dalla migranza, riconsideri consapevolmente la
parola scritta dell’uomo che viaggia, che parte, che perde per sempre e che
per sempre ritrova.
Quattro le sezioni della rivista: “Racconti e poesie”, per gli scrittori
migranti in Italia, che usano l’italiano come lingua d’espressione letteraria;
“Parole dal mondo”, per gli scrittori migranti non italiani nel mondo;
“Stanza degli ospiti”, un tributo di ospitalità agli scrittori stanziali italiani
e stranieri − i viaggiatori immobili − con cui è sempre più necessario
interagire e collaborare per un arricchimento reciproco; “Generazione che
sale”, dedicata a bambini e ragazzi, italiani e migranti, una scommessa di
futuro.
Un vocabolario tutto per noi
Italia azzurra nulla è più immune dalla transazione economica. Per
carità, i soldi sono importanti, ma l’etica e i sentimenti sono un’altra cosa. Essere infedeli ad ogni dogma, quello sì è il bello e il buono
della vita, almeno questo mi pare ci abbiamo tramandato donne del
calibro di Simone De Beauvoir, Aung Suu Kyi e Rigoberta Menciù.
Tradimenti: l’imprevedibilità nelle relazioni umane, Gabriella
Turnaturi, Feltrinelli.
L’estate del tradimento, Hong Ying, Mondadori.
Delitto e castigo, Matilde Serao, Rizzoli.
L’isola di Arturo, Elsa Morante, Einaudi.
UOMINI
«C’è un uomo per ogni stato d’animo, se sarete capaci d’individuarlo» satireggiava la perfida Mea West, antesignana delle Bad Girl
odierne. Più amaramente Doris Lessing afferma: «Voi uomini non
chiedete mai niente, salvo chiedere tutto, ma solo finché vi serve».
E il pragmatismo realista della antropologa Margaret Mead conclude: «Gli uomini preferirebbero essere maschi di una razza inferiore, piuttosto che femmine della propria». Da qui il paradosso di
un’umanità nella quale uomini e donne vivono ancora, per dirla con
Nadia Fusini, «una fratellanza inquieta». E, per dirla tutta, nella
quale la storia, la nostra storia, continua Fusini, «è la storia dell’addomesticamento della donna, come dell’animale». Fratelli, compagni, padri amici, nemici, avversari, amanti: gli uomini sono l’altra
metà del mondo che questo nuovo passaggio epocale chiama a compiere un cambiamento, che non può non passare per la critica ai
modelli imposti, e subìti, fin qui proposti. Saranno pronti?
XY – L’identità maschile, Elisabeth Badinter, Longanesi.
Uomini da amare, uomini da evitare e tutti gli altri, Shere Hite,
Milano.
Uomini che non ho sposato, Dorothy Parker, Tartaruga.
Bastonati, Susan Paludi, Lyra.
I figli degli uomini, P.D. James, Mondatori.
Gli uomini sono come il cioccolato, Grube Tina, RL Libri.
Uomini e donne, una fratellanza inquieta, Nadia Fusini,
Donzelli.
Un sito di uomini che cercano di cambiare: web.tiscali.it/
uominincammino.
* Direttora di Marea, trimestrale dei saperi delle donne (www.monicalanfranco.it, www.mareaonline.it).
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LIBRI
Philippe Mesnard,
Primo Levi. Una
vita per immagini,
Marsilio, Venezia
2009, pp. 225,
euro 16
L’
humus
opera di Primo
Levi è strettamente collegata alla sua vita. Mai
come in questo caso
ciò suona ovvio ma necessario. L’esperienza
drammatica del lager ha
un peso assoluto nella biografia
personale e
culturale di
Primo Levi. E così tutti lo ricordiamo e lo comprendiamo. Questo libro, ricco di immagini, notizie, curiosità ci racconta soprattutto la vita che “dopo
Aushwitz” Primo Levi ha cercato di percorrere. E lo
racconta lui stesso contraddicendo Adorno e riconoscendo nella poesia e nella letteratura la strada
possibile per «esprimere ciò che mi pesava dentro»
(p. 151). Interessante notare come anche il teatro
(oltre che il cinema: ricordiamo il film La tregua di
Francesco Rosi con John Turturro che sollevò molte
polemiche circa la presunta fedeltà al testo) emerga in questo libro quale fattore “attivi” dell’evoluzione artistica e culturale di Levi. Molto curiose
ed emozionanti le immagini che con discrezione,
ma ricchezza di esempi ci restituiscono lo sguardo di una vita che tentato, senza riuscirci inevitabilmente, di “superare” quella terribile esperienza.
Intellettuale impegnato, uomo semplice, arguto e
riflessivo, umanista ed universalista la sua memoria ci è indispensabile anche oltre la Shoah.
di Vittorio Bo che già segue il Festival della Scienza, una bella mostra multimediale ricca di idee e stimoli della quale è
bene procurasi il catalogo e si studiano le sue radici culturali, le modalità genetiche delle sue composizioni) con un interessante saggio di Marianna Marrucai che ci svela come De
Andrè scrivesse i versi delle sue canzoni direttamente sui libri che leggeva traendone da essi ispirazione. E si scopre che
tra poesia e canzone colta c’è un legame. Non sono la stessa
cosa (come scrive bene Umberto Fiori), ma il confronto aiuta
a capire l’evoluzione del linguaggio (si pensi alla letteratura
dialettale, ai temi del linguaggio giovanile nel tempo), della
società (le canzoni sono certo “semplificazioni”, ma efficaci
non solo di emozioni, ma anche di problemi sociali e politici)
e persino della metrica oltre che delle forme espressive. Nel
libro poi c’è spazio anche per Paolo Conte, Francesco Guccini,
Francesco De Gregori, Pierangelo Bertoli, Roberto Vecchioni
ma anche per il rock progressivo degli anni Settanta, per Luigi
Tenco e Gino Paoli in dialogo con poeti come Elisa Biagini,
Stefano Dal Bianco, Aldo Nove, Lello Voce. Insomma, una
volta di più “Gelmini bocciata”: non basta studiare un
solo autore e sperare di farla franca. Tra l’altro di Gaber
qui non se ne parla neppure.
LIBRI
Centro
Studi Fabrizio
De Andrè (a cura
di), Il suono e
l’inchiostro. Poesia
e canzone nell’Italia
contemporanea,
Chiarelettere, Milano
2009, pp. 401,
euro 15
N
on ho nulla contro Giorgio Gaber, ma
certamente la ministra
Gelmini non gli rende
un buon servizio innalzandolo ad unico cantautore degno di essere
accolto a scuola. A parte il fatto che da anni insegnanti un po’ svagati portano in
classe musiche e testi dei loro amati cantantautori, vale la
pena di procurarsi questo libro per costruire una mappa ragionata del problema. Qui si parte dal più grande: Fabrizio De
Andrè (al quale è stata dedicata a Genova, tra gli altri a cura
école numero 73 pagina
40
LIBRI
Donatella Bisutti, La poesia salva la vita. Capire noi
stessi e il mondo attraverso le parole, Feltrinelli,
Milano 2009, pp. 265, euro 9,50
È
una ristampa ma ne vale la pena. Specie per chi
guarda alla poesia come “forma dello spirito” alla quale
iniziare i ragazzi. E dunque è alla scuola che dobbiamo
pensare. Ma forse sono gli insegnanti che dovrebbero fare
il primo passo ed uscire dai luoghi comuni che relegano
la poesia a “letteratura minore”. Già perché i bambini, i
ragazzi, gli adolescenti vivono, magari senza saperlo, nell’orizzonte della poesia e sanno bene che ci sono fatti della vita, come la poesia, solo apparentemente inutili. La
scelta dell’autrice ha questo fondo psicologico: la poesia
è un fattore esistenziale, una strada per capire se stessi,
per cogliere il complexus della vita, una sorta di alfabeto del mondo e dell’anima. Fin qui niente di nuovo si potrebbe dire. Ma non è così. Il libro è anche un percorso
ragionato tra proposte di lettura che sono una esemplificazione
delle regole essenziali del “fare poesia”. Così lo sguardo va, da
un lato, all’aspetto critico che aiuta a leggere le scelte espressive dei molti autori antologicizzati e , dall’altro lato, getta un
occhio nella cucina del poetare,
nel”fare poesia” offrendo spunti
laboratoriali di grande interesse
anche per gli insegnanti. Che, in
fondo, hanno il compito di accompagnare gli allievi sul sentiero scosceso della formazione di
se stessi. Forse in certe parti il
libro assume un carattere un po’
“psicologicamente prescrittivo”,
quasi terapeutico, ma almeno
non ci prende in giro con l’idea
che bastano quattro giochi di parole a fare poesia. Certo i giochi
ci sono, ma si va anche oltre ed
è con la poesia “alta”, di cui non
dobbiamo aver paura, che possiamo farlo.
STEFANO VITALE
MUSICA LA TORRE
DI BABELE
MOSTRA
DE ANDRÉ
Una cantata di Giovanna Marini per le voci
di Patrizia Bovi, Francesca Breschi, Giovanna
Marini, Patrizia Nasini, Nota Music, Udine
2007, euro 15
È
L’
humus
originalità musicale, unita all’impegno sociale e politico, di Giovanna Marini, ci
è nota da tempo e per molte e molti di noi i
principali eventi e le principali lotte sono state segnate anche dalle sue canzoni. Fino a non
molto tempo fa però le registrazioni della maggior parte dei suoi brani erano effettuate solo
da case discografiche francesi e perciò difficilmente reperibili in Italia. È quindi particolarmente apprezzabile l’iniziativa della casa editrice nota (www.nota.it) che ha inaugurato la
collana “block nota” (sottotitolo: appunti di
culture musicali in movimento), ora distribuita in
libreria da Edt. Si tratta di una serie di Cd (quattro
dei quali dedicati a Giovanna Marini), accompagnati da libretti con note esplicative, testi, immagini.
Uno in particolare vorrei prendere in esame: La torre di Babele. Si tratta di una cantata che racchiude
alcuni brani di Giovanna Marini, da lei rielaborati per quartetto vocale e chitarra, da suoi precedenti lavori. Troviamo quindi “L’uomo che ha attraversato la pianura” (tratto da Correvano coi carri,
1979) che ci introduce alla necessità di affrontare gli eventi, seguito da “La manifestazione in cui
morì Zibecchi”, perché − come dice la musicista nel
parlato introduttivo che sempre contraddistingue le
sue esecuzioni − il fatto è accaduto di recente a
Genova, ma prima era accaduto a Roma, a Reggio
Emilia... e conviene quindi sempre raccontarlo. Si
succedono quindi vari brani, dall’“Eroe” (rielaborazione della precedente ballata del 1974), a brani di derivazione popolare quali “Morte di Gesù” o
“Vallepietra”; da “Le Fosse Ardeatine” a “La torre
di Babele”, scritto in seguito all’attentato alle
torri di New York. I sedici brani del Cd ci cantano eventi, situazioni,
stati d’animo, interrogativi che ci costringono a pensare e ad affrontare problemi e angosce
del nostro tempo. Il tutto con la drammaticità e
l’intensità, ma insieme
con l’ironia e la vitalità,
che contraddistinguono
la musicista. Giovanna
Marini è una grande cantastorie moderna che sa unire in una proposta musicale di
grande originalità e interesse la tradizione popolare del passato con lo spirito e la sensibilità dei nostri tempi nella convinzione che il racconto in musica ci sappia ancora emozionare e
quindi, più di altri mezzi, ci impedisca di dimenticare e possa
far conoscere anche ai giovani di oggi fatti fondamentali della
nostra (e loro) storia.
stata prorogata fino al 21 di giugno la
mostra che a dieci anni dalla scomparsa rende
omaggio a Fabrizio De André (Genova, Palazzo
Ducale). L’esposizione racconta la vita, la musica, le esperienze, le passioni del cantautore
che ha interpretato e spesso anticipato le trasformazioni della società italiana. Per la scuola,
oltre ad alcuni convegni rivolti agli insegnanti, sono previsti tre laboratori per gli studenti:
“Immagini e suoni della città” (per la scuola
dell’infanzia e il I ciclo della scuola primaria);
“Omaggio a De André” (per la scuola secondaria di I grado), “Vecchia Genova”, un percorso guidato consigliato per la scuola secondaria
di II grado. Informazioni e prenotazioni: tel.
010.5574064.
TEATRO MEMORIA
L
o spettacolo di Daniele Biacchessi (http://www.myspace.com/biacchessi) − che è anche la voce narrante,
con l’accompagnamento di Marino Severini (voce e chitarra) e di Sandro Severini (chitarra solista) dei Gang −
racconta misteri, e omicidi «perché − come dice l’autore − una società che non può fare i conti col passato,
non comprende il proprio presente e non può progettare il futuro». Il monologo è tratto dal libro di Biacchessi
Il paese della vergogna (Chiarelettere Editore, 2007). La
narrazione degli esiti dei processi sulle stragi che hanno
insanguinato l’Italia dal 1944 al 1993 dimostra che la verità storica, nel nostro paese, è spesso lontana dalla verità giudiziaria, tanto che le prove delle stragi nazifasciste
di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto vengono occultate nell’”Armadio della vergogna” e i colpevoli di stragi come
Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, treno Italicus, stazione di Bologna, Rapido 904, sono liberi. Il
racconto procede per scene su personaggi diversi − Fausto e
Iaio, ammazzati a Milano pochi giorni dopo il sequestro Moro;
Peppino Impastato, direttore di Radio Aut, assassinato a Cinisi
da don Tano Badalamenti; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
− e compone un collage di fatti e storie. Il paese della vergogna
raccoglie ampliandoli, alcuni testi di teatro civile di Daniele
Biacchessi: “La storia e la memoria”, “Fausto e Iaio”, “Storie
d’Italia” e “Quel giorno a Cinisi. Storia di Peppino Impastato”
e scritti di Raja Marazzini sulla strage di via dei Georgofili e su
Libero Grassi. Uno strumento per fare storia contemporanea a
scuola.
MARIATERESA LIETTI
école numero 73 pagina
41
anni verdi
Martino (Einaudi) tutti editi nel 2009.
L’infrangersi del sogno della gioventù, la fine dell’onnipotenza dell’infanzia senza però una nuova strada da percorrere. Sarebbe questa la condizione
dei nostri adolescenti: ragazzi perdenti,
sconfitti in partenza. Fine del romanzo di formazione. L’infanzia resta sullo
sfondo e si corre verso il nulla. Sparire,
dissolversi, aspettare che arrivi l’onda
come nell’ultima immagine dei pinguini
in Sweet sixteen.
Il problema per conto mio non è il futuro: quello è incerto per definizione.
Il problema è il passato. Troppo vuoto, troppe certezze e poca fatica; poche
emozioni vere. E penso a due bellissimi
libri: Tu sanguinosa infanzia (Einaudi,
1997, 2009) di Michele Mari e Il giorno prima della felicità (2009) di Erri De
Luca. Nel primo facciamo i conti davvero
col nostro passato: i giornalini, le figurine, le biglie, i soldatini, le macchinine, le copertine degli Urania, i giardinetti, le canzoni degli alpini, i puzzle.
C’è malinconia, strazio per le ferite ma
c’è soprattutto sincerità ed ironia. Senza retorica Mari racconta il
senso di «mille ore insensate», solo apparentemente, dell’infanzia,
in cui siamo noi stessi a cercare un senso e non consumiamo senso;
dove il tempo va inventato, non riempito; dove leggere è immaginare, ma anche imparare a scegliere. Bellissimo infatti il racconto
Otto scrittori dove Mari stabilisce chi sia il più grande tra Conrad,
Defoe, London, Melville, Poe, Salgari, Verne e Stevenson (che vince, come avrebbe voluto Giuseppe Pontremoli) perchè resta fedele
al mare, garanzia di libertà. L’immagine del mare e della possibile
libertà chiude il libro di De Luca. Il protagonista parte da Napoli
verso l’Argentina per sfuggire alle conseguenze di un omicidio, ma
soprattutto per crescere lasciandosi alle spalle l’infanzia. Siamo negli anni immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, le città
sono macerie ed è viva la presenza del sangue, del tradimento («in
guerra la gente tira fuori il peggio»), ma anche dell’ingiustizia che
già prefigura la restaurazione di una società di classe. Un’infanzia
dura, addolcita dalla cura di don Gaetano, portinaio saggio e lungimirante che gli insegna a giocare a carte, ma anche a leggere. E la
scuola «è una cosa bellissima» perché c’era «un uomo che spiegava
ai bambini i numeri, gli anni della storia, i posti della geografia».
«La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza». Ma
c’era anche l’amore: «sei la parte mancante che torna da lontano a
combaciare» dice Anna. È per lei si batte per liberarla dal guappo
mafioso, ma ciò segna appunto la sua partenza. «La libertà uno se
la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo».
IN MARE APERTO CERCANDO
SE STESSI
STEFANO VITALE
“N
ostalgia”, dolore per il ritorno. Interessante che, pur
derivato dal greco, era un termine sconosciuto al mondo greco.
Entra nel vocabolario europeo nel XVII secolo per opera del medico
svizzero Johannes Hofer, alle prese con una patologia diffusa tra i
suoi connazionali, costretti dall’arruolamento come truppe mercenarie a restarsene lontani a lungo dai monti e dalle vallate della
repubblica elvetica. “Nostalgia” è infatti la designazione dotta del
“mal du pays” o “Heimweh” (letteralmente il dolore della casa).
Tale stato patologico era così grave che spesso portava alla morte i
soggetti che ne erano colpiti e nessun intervento medico valeva a
ridare loro le forze e la salute a meno che non li si riportasse verso
casa. A partire dalla fine del XVIII secolo e soprattutto nella prima
metà del secolo successivo, accanto all’interesse medico, la nostalgia convoglia notevoli attenzioni in ambito poetico e musicale, in
corrispondenza con l’ondata migratoria dall’Est Europa. Tuttavia, è
soltanto a partire da Charles Baudelaire che il termine si libera dal
riferimento a precisi luoghi o al passato infantile, per assurgere
a condizione di anelito indefinito. Sin qui Wikipedia. Poi c’è Josè
Saramago con Il racconto dell’isola sconosciuta (Einaudi, 1998) dove
un uomo vuole a tutti i costi partire con una nave per scoprire una
terra che non sia già sulle carte. «Se non esci da te stesso, non puoi
sapere chi sei […]. Ogni uomo è un isola[…]. L’isola sconosciuta è qualcosa che non esiste, non è che un’idea della vostra mente
[…]». Finché «l’isola sconosciuta prese infine il mare, alla ricerca
di se stessa». Magnifica metafora dell’anelito, anche distruttivo, di
“cercare se stessi” sbagliando magari direzione, calcoli, scegliendo
male i propri compagni di viaggio. Eppure il sogno è più grande e
la nostalgia non porta indietro ad un passato mitizzato, ma spinge
oltre, nella concreta “meta-fisica” dell’oltrepassare.
Loredana Lipperini ha parlato di ragazzi «tutti di corsa verso un futuro che non c’è» a proposito dei romanzi Mia sorella è una foca monaca di Christian Fascella (Fazi), Sweet sixteen di Birgit Vanderbeke
(Del Vecchio) e Quelle stanze piene di vento di Francesca Di
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«Il pensiero scientifico da sempre ha influenzato l’educazione attiva a sua volta collegata ai temi del pensiero della complessità: per noi non è possibile scindere la razionalità, la logica dell’osservazione e dell’esperienza dalla cura per l’incertezza, l’imprevisto, la progettualità aperta, il mondo delle emozioni e delle
relazioni. E qui prende spazio una visione della scienza e dell’educazione fondata l’unità di corpo e mente,
sull’interdisciplinarietà dei saperi, la centralità dei sistemi relazionali, la laicità dei valori. La questione non
è solo teorica, ma condiziona la vita degli individui, l’organizzazione della scuola e dell’educazione, della
stessa società. Scienza ed educazione finiscono così per riguardare “temi eticamente sensibili” rilanciando
il ruolo della laicità nell’educazione. Il fatto è che abbiamo bisogno di un pensiero scientifico per non chiuderci in un’astratta razionalità dogmatica e di educazione per costruire e vivere scenari umanamente “sostenibili”, per promuovere la crescita di uomini e donne, di cittadini liberi e responsabili». Si legge nell’invito
al convegno “Evoluzione educativa. Pensare scientificamente, educare alla complessità”, organizzato a Torino
il 13 e 14 marzo 2009, per iniziativa dei CEMEA del Piemonte e del Movimento di Cooperazione educativa di
Torino, con il patrocinio di Regione Piemonte, Provincia di Torino, Comune di Torino e con la collaborazione di Federazione Italiana dei CEMEA, Federazione Internazionale dei CEMEA, e dell’Associazione “Idee per
l’Educazione” che edita école. Riportiamo l’intervento svolto al convegno da MARCELLO CINI *
GLOBALIZZAZIONE E SCIENZA:
ELOGIO DELLA DIVERSITÀ
1. Voglio cominciare questo mio intervento con una citazione di un signore che si chiama
William Tucker, responsabile del trasferimento delle tecnologie presso il DNA plant tecnology di
Aukland in California, che dice: «Il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti».
Una affermazione che esprime la cultura della frontiera più avanzata della scienza e del potere
economico e che è essenziale per capire qual è il futuro che i giovani devono affrontare.
Il nuovo secolo si è aperto sotto il segno della trasformazione in merce del mondo della vita
e del mondo del pensiero, del mondo delle idee e dell’informazione. Il bit è diventato l’unità
di merce oltre che di informazione perché lo compriamo ogni giorno ogni volta che entriamo
in internet, e la vita e il pensiero si riducono sempre di più a bit. Questo è il nodo del futuro che questa civiltà prepara per i giovani, e questo è il nodo che deve affrontare una cultura
che intenda invece salvare la differenza fra un pezzo di macchina, costruita con dadi bulloni
e viti, e la ricchezza di un mondo fatto di organismi viventi, di bellezza, di idee, di tradizioni,
di cultura, di varietà, di diversità.
C’è dunque una contraddizione tra la crescita del sapere, del potere dell’uomo, delle capacità di
modificare oltre al mondo intorno a sé anche sé stesso, la sua natura biologica e la sua natura
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intellettuale, e questo meccanismo che invece regola tutto, le scelte in qualsiasi campo, sulla
base di un unico parametro che è la merce e quindi il suo valore cioè il denaro. Da un lato si
cominciano infatti a modificare le caratteristiche più profonde delle specie viventi e il modo
come il nostro cervello funziona. Dall’altro tutto tende ad essere ridotto ad una sola dimensione, all’unica dimensione della valorizzazione del capitale, del profitto, della sua traduzione
in denaro. L’enorme contraddizione in cui ci troviamo è che il mondo della vita e quello della
cultura e della civiltà umana − che si autoregolavano fino ad ora attraverso meccanismi complicati, complessi, caratterizzati da una enorme varietà di differenze, di stimoli, di nicchie, di
forme di sviluppo − tendono ad essere regolati da un’unica regola, da un’unica legge. È dunque necessaria una profonda svolta nei meccanismi di selezione degli obiettivi e delle priorità
delle nostre capacità di trasformazione del mondo.
Questo è l’enorme compito cui si troveranno di fronte i nostri figli e i nostri nipoti. Credo che
la coscienza della necessità di questa svolta sia una delle prime cose che la scuola deve trasmettere, anche perché i media non aiutano a capirne la natura che viene mistificata da una
visione lineare del progresso e di uno sviluppo scientifico e tecnologico destinato inevitabilmente a condurre verso un mondo sempre migliore e più ricco.
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2. Questa sfida posta all’uomo dalla sua capacità di intervenire sui problemi della vita e della
mente, si traduce, dal punto di vista della formazione della cultura e dunque degli strumenti
che la scuola deve fornire per cercare di affrontare la svolta di cui ho parlato, in una forte accentuazione del peso del pensiero evoluzionista. Il salto fra il patrimonio delle scienze, della
tecnologia, della conoscenza della natura accumulato dall’uomo fino alla fine del 900 e le conoscenze, i saperi che sta acquisendo varcando questa grande muraglia delle scienze della vita
e della mente, consiste nel passaggio da una visione del mondo fondata sulla conoscenza delle grandi leggi della natura e della materia inanimata, (una visione macchinista del mondo),
a una visione evoluzionista, fondata cioè sulla caratteristica principale del mondo della vita,
che è quella del cambiamento attraverso processi evolutivi.
Questi processi sono il frutto di un’alternanza di necessità e di aleatorietà, di una compresenza
di vincoli e di mutamenti contingenti. I vincoli sono costituiti da divieti o da prescrizioni che
selezionano i processi evolutivi compatibili, oltre che con le grandi leggi della termodinamica
(conservazione dell’energia, della materia e crescita dell’entropia) anche con l’ambiente e con
la storia. All’interno dei vincoli ogni mutamento che non è vietato può accadere.
Si tratta, come abbiamo già accennato, di un punto di vista che si può riassumere dicendo che
tutti i processi evolutivi sono il frutto di due momenti concettualmente distinti, entrambi necessari: da un lato la differenziazione degli elementi costitutivi di una “popolazione” omogenea − formata da organismi singoli o parti di essi, da raggruppamenti omogenei di individui
o di entità collettive dotate di identità autonoma − per effetto di una molteplicità di fattori casuali o comunque imprevedibili ai quali si trova esposto in modo diverso ognuno di essi,
e dall’altro la selezione, da parte del filtro rappresentato da vincoli esterni, di quelli che, per
effetto della intervenuta diversificazione, hanno acquistato proprietà che li rendono più compatibili con l’esistenza dei vincoli stessi. Si tratta, è essenziale sottolinearlo, di momenti che
coinvolgono soggetti diversi. Il momento della differenziazione è il risultato di interventi che
modificano in modo diverso e imprevedibile ogni singolo elemento, mentre quello della selezione agisce sull’intera popolazione e la modifica nel suo insieme. Si tratta, direbbe Bateson,
di livelli di tipo logico diverso, che non debbono essere confusi.
Detto ciò, tuttavia, è ovvio che le modalità effettive di ogni processo evolutivo cambiano radicalmente a seconda della natura degli elementi dell’insieme, delle modalità della trasmissione
delle modificazioni subìte alle generazioni successive, e dei fattori che caratterizzano la natura
e la struttura dei vincoli esterni che ne effettuano la selezione.
La necessità di salvaguardare la specificità dei diversi processi riguarda in particolare il confronto fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. È ovvio infatti che la nostra specie differisce, nel bene e nel male, da tutte le altre e dunque che non ha senso ricondurre banalmente l’evoluzione delle società umane ai meccanismi dell’evoluzione biologica. Questo comporta
il rifiuto netto del cosiddetto socialdarwinismo di Spencer, Galton e dei loro epigoni, inteso
come lotta feroce per la vita di tutti contro tutti − una visione che tra l’altro interpreta scorrettamente lo stesso meccanismo di competizione biologica tra specie diverse − sia dal punto
di vista strettamente scientifico che da quello etico e sociale.
Detto questo, tuttavia, va sottolineato che differenze e somiglianze devono essere esaminate
confrontando livelli omogenei. Per esempio, è scorretto confrontare i due processi senza ricordare che l’evoluzione culturale è stata, dopo l’estinzione delle specie di ominidi precedenti
a quella di Homo sapiens, una evoluzione all’interno di una singola specie, dove non esistono
unità discrete isolate tra loro da una barriera riproduttiva, come accade fra le diverse specie
dell’evoluzione biologica, ma sistemi socioculturali, separati soprattutto da barriere geografiche e da tradizioni storiche, caratterizzati da un pool informazionale − fatto di strumenti,
oggetti, simboli, regole, usi e costumi, idee − assai meno facilmente definibile di un pool genetico.
Rimane comunque un punto fermo. Senza una continua riproduzione di diversità non c’è evoluzione. E senza evoluzione il mondo della vita si estingue.
4. È questa la grande sfida, il mutamento culturale profondo che il pensiero evolutivo deve
dare a tutto il sapere che la scuola deve trasmettere alle nuove generazioni, a tutti i saperi che
dobbiamo avere per affrontare il futuro.
Questo mutamento si basa dunque su tre punti fondamentali:
- Un avvicinamento nella scuola fra la cultura scientifica e la cultura storica. Una cultura fondata sul pensiero evoluzionista fornisce la base di questo avvicinamento, perché sia i processi
storici della civiltà umana che quelli evolutivi della vita e del pensiero hanno questa componente di casualità che costituisce la base per la nascita del nuovo, hanno questa alternanza
di necessità e di aleatorietà che fa evolvere la realtà. Questo significa che conoscenza scientifica e conoscenza storica non sono più due forme fondamentalmente diverse di spiegazione
del mondo fra loro incompatibili.
- Un’attenuazione del solco che separava il sapere scientifico dai valori. Oggi, infatti, questa
separazione, codificata nel dogma della avalutatività della conoscenza scientifica che ancora sta alla base della deontologia professionale degli scienziati, comincia a essere rimessa in
discussione. La ragione principale infatti che rende la cultura scientifica così ostica alla stragrande maggioranza delle persone non sta tanto nell’astrattezza dei suoi concetti o nel rigore
formale delle sue deduzioni, quanto nella sua estraneità rispetto alle cose ritenute importanti
nella vita di ognuno. È dunque l’immagine tradizionale di una scienza che ha per scopo di ridurre la complessità della vita, e in particolare della mente e dell’animo umano, a interazioni
elementari fra atomi o molecole, che respinge istintivamente la maggior parte delle persone.
Hans Jonas ci invita a gettare un ponte fra il mondo della conoscenza e il mondo dell’etica:
«Con quello che facciamo qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, − leggiamo nel suo ultimo libro dedicato al tema Tecnica, medicina ed etica − influenziamo in modo
massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non
hanno avuto alcuna voce in capitolo... Il punto saliente è costituito dal fatto che l’irrompere
di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene, costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo dato di fatto si chiama: responsabilità».
- Una rivalutazione del valore della diversità. Certo, è ancora vero, anzi è sempre più vero,
che la differenza fra le due estremità della scala che va con continuità dall’uomo più ricco del
mondo al più povero è sempre più abissale, e dunque sempre più moralmente scandalosa. Non
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3. La prima cosa che un approccio evolutivo ci permette di fare è di cogliere l’essenza dello
sviluppo della società capitalistica al quale assistiamo, distinguendo i due momenti diversi che
ne sono alla base: quello della differenziazione e quello della selezione. Partiamo anzitutto dal
fatto che fino a poco tempo fa la straordinaria multiformità del mondo della vita e l’infinita
varietà delle idee che costituiscono l’universo del pensiero umano, sono state il frutto, ognuna
nel proprio ambito, di processi storici regolati da fattori naturali (geografici, climatici, catastrofici) e sociali (culturali, economici, tecnologici) diversissimi, derivanti da un ampio spettro di nicchie differenti, vincoli autonomi e intrecci originali di caso e necessità. In altre parole l’azione congiunta del momento della differenziazione e di quello della selezione ha avuto
storicamente come risultato l’accrescimento della diversità biologica e culturale.
È pur vero che, con la nascita del capitalismo e con la mercificazione crescente dei beni materiali, sia l’evoluzione biologica che quella culturale sono state sottoposte a forti vincoli da
parte del mercato tendenti a produrre una diminuzione della diversità. Si è finora trattato, tuttavia, di influenze indirette, mediate dal tessuto sociale, mai di vincoli agenti direttamente
sugli organismi viventi e sui cervelli umani.
Con l’acquisizione della capacità di trasformare gli uni e gli altri in merce il capitalismo ha
compiuto un salto di qualità. Anche se la crescita impetuosa delle conoscenze e della loro potenzialità di generare novità − dando origine a una varietà di beni in grado di soddisfare vecchi
e nuovi bisogni umani, di strumenti per modificare uomini e cose e di mezzi per realizzare i fini
più disparati − potrebbe di per sé contribuire a generare diversità, il momento della selezione
subisce un mutamento radicale. La sostituzione della pluralità di vincoli naturali e sociali che
hanno fino ad ora regolato l’evoluzione delle molteplici forme della vita e del pensiero, con il
vincolo unico derivante dall’obiettivo della massima valorizzazione del capitale è una semplificazione drastica le cui conseguenze non sono ancora nemmeno lontanamente immaginabili.
Il merito di questo approccio è dunque di permettere l’individuazione dell’obiettivo strategico degli attori sociali che intendono opporsi a questa devastante semplificazione: reintrodurre una pluralità di vincoli allo sviluppo, diversi da quello dominante della legge del mercato,
che, se non deve essere demonizzato, deve essere detronizzato dal suo attuale ruolo di vincolo universale per venire ridimensionato in quello originario di mezzo per equilibrare, evitando
sprechi, appropriazioni indebite e distribuzioni cervellotiche, la domanda e l’offerta di beni
necessari e intrinsecamente scarsi in una società complessa e articolata.
L’obiettivo è dunque di ricreare un variegato arco di nicchie naturali e sociali protette dallo
strapotere dei padroni del commercio internazionale; di far nascere e rivitalizzare vecchie e
nuove relazioni tra individui e gruppi; insomma di ripristinare le mille sorgenti del flusso locale
di creatività, di iniziativa e di attività umane che rende fertile il tessuto della società, erigendo argini contro l’alluvione del capitale globale, che, trasformando tutto in merce, deforma la
diversità, ricchezza della vita, fino a ridurla alla sua orrida caricatura, la disuguaglianza.
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basta tuttavia indignarsi per questo scandalo per farlo cessare. Una volta scesi sul terreno del
capitale, assumendo il denaro come unità di misura di tutte le cose, e quindi anche dell’ingiustizia sociale, il capitale ha già vinto. Pochi sono disposti a dare a chi sta peggio una parte
di ciò che ha, e chi lo fa, lo fa soltanto perché lo spinge una motivazione che non è stata ancora ridotta a merce.
Come ha argomentato con grande lucidità Amartya Sen nel suo libro fondamentale La disuguaglianza, «l’idea di uguaglianza deve confrontarsi con due differenti tipi di diversità: la
sostanziale eterogeneità degli esseri umani e la molteplicità delle variabili in base alle quali
l’uguaglianza può essere valutata». Se non si tiene conto di questa multidimensionalità del
problema non solo non lo si può nemmeno sfiorare, ma si rischia grosso. Al limite, anche Pol
Pot voleva l’uguaglianza, ma semplificava troppo il concetto.
Proporsi come obiettivo diretto l’eliminazione delle disuguaglianze rischia dunque di diventare, al meglio, soltanto una nobile intenzione incapace di raggiungere risultati concreti. Le
cose cambiano, secondo me, se si coglie il nesso che lega l’aumento delle disuguaglianze e la
distruzione delle diversità. Tanto per dirne una il povero è soprattutto più povero perché gli si
è data una lattina di Coca Cola in cambio di tradizioni millenarie che gli arricchivano la vita. O
ancora, il piccolo produttore di un prodotto tipico unico, diverso, va in miseria perché il surrogato standardizzato prodotto da una multinazionale costa meno. Contrastare la distruzione
delle diversità può dunque essere un modo più efficace di combattere le disuguaglianze.
La contraddizione fondamentale della società del capitale globale, come ho cercato di argomentare fin qui, sta infatti nella spinta a ridurre tutto all’omogeneità indifferenziata della forma di merce, da un lato, e nella necessità di soddisfare attraverso il mercato bisogni individuali e collettivi che investono tutto l’arco infinito delle esperienze umane, dall’altro. Tanto
per fare un esempio, deve ridurre a merce sentimenti ed emozioni, gioie e dolori, bellezza e
sacralità, e al tempo stesso deve convincere i consumatori che queste merci sono esperienze
“vere” che possano essere vissute nel loro senso pieno anche dopo essere passate attraverso
il filtro del mercato.
Se questo è il senso del processo di globalizzazione, occorre porre la questione della difesa
della diversità − diversità degli individui, diversità delle culture, diversità delle forme di vita
− al centro dell’azione volta a contrastarne le tendenze più pericolose e distruttive. In questo
modo la prospettiva cambia radicalmente.
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* Università “La Sapienza” di Roma.
abb.
2009
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Il bacio di Giuda
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