Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Umanistiche Dottorato di Ricerca in Letterature di Lingua Inglese XXII Ciclo La Retorica della Guerra e della Pace negli scritti di Ralph Waldo Emerson Relatore Prof. Mariani Giorgio Candidata Marchetti Marina LA RETORICA DELLA GUERRA E DELLA PACE NEGLI SCRITTI DI R.W. EMERSON Indice 2 Introduzione 5 PRIMA PARTE 1. EMERSON E LA SUA REALTÀ STORICO- CULTURALE (ANNI 1820-1840) 1.1: Movimenti di Riforma e Pacifismo 11 1.2: Emerson: tra Riformismo e Contemplazione Filosofica 26 2. GUERRA E PACE NEGLI SCRITTI DI EMERSON 2.1 : Campi semantici e Campi di Battaglia 34 2.2: Tanta Guerra, Tante Guerre 36 2.2.1. L’Universo è in Guerra 39 2.2.2 Una Guerra che Educa 42 2.2.3. In Guerra con Tutto 47 2.3 Antagonismo Creativo: una Guerra (tra opposti) che Genera Forza 50 2.4: Peace 55 2.5: “Shall It Be War Or Shall It Be Peace?” Emerson Tra Guerra e Pace 63 2 2.6: Alla Ricerca del Potere 2.6.1 A Universe of Force 81 2.6.2 Lust for Power 88 2.7: Potere del Linguaggio 97 3. EMERSON E LA GUERRA CIVILE (ANNI 1850-1860) 3.1: Da Critico a Combattente 112 3.2: Perché verso la Guerra? 117 3.2: Dal Potere del Linguaggio...al Linguaggio del Potere 121 3.4: Cosa e’ accaduto ad Emerson? 129 3.5: Tra Idealismo e Materialismo 135 4. THE JOURNALS: UNA VERITA’ NASCOSTA? 4.1: The Wide World 142 4.2: 1820-1834: ”A Barren and Desolate Soul” 148 4.3: 1835-1838: “Seeking Excitement” 152 4.4: 1838- 1845: “Foolishness of War” and “Strength of Peace” 154 4.5: “Slavery”: una Lotta lunga una Vita 158 4.6: 1850-1865: Diario di Guerra 164 4.7: Grandi Speranze 175 3 SECONDA PARTE: UN PONTE VERSO IL FUTURO 5: EMERSON VERSO FOUCAULT 5. 1: Il Potere e la Guerra 180 5. 2: Prospettive Attuali 192 6: EMERSON VERSO GANDHI 6.1: La Forza della Pace 199 6.2: Intuizioni di Pace 221 Appendici 226 Bibliografia 236 4 INTRODUZIONE Questa ricerca si occupa della retorica della guerra e della pace negli scritti di Ralph Waldo Emerson. Poiché è dedicata a un personaggio già ampiamente e diffusamente analizzato, il lavoro è stato concepito e realizzato con un taglio volutamente innovativo, e l’impostazione teorica contiene in sé, in realtà, anche le ragioni per cui esso è stato intrapreso. Da un punto di vista storico–culturale, difatti, questo studio inserisce Emerson nell’ambito dei movimenti di riforma – in particolare i movimenti per la pace - fioriti a Boston nella prima metà dell’Ottocento, e analizza la sua posizione e il suo pensiero in un’ottica fin’ora poco esplorata. Contrariamente a quanto si è fino a pochi anni fa pensato, Emerson, pur rimanendo indipendente da qualsiasi associazione, seguiva con interesse i dibattiti sulla pace e sulla schiavitù offrendo spunti di riflessione talvolta provocatori, ma sicuramente originali. Per quanto concerne l’aspetto prettamente letterario il lavoro ha origine dalla grande attrazione di Emerson per la guerra e qualsiasi forma di conflitto o di lotta, interesse che egli espone in maniera variegata, multiforme e talvolta contraddittoria. Per questo si cerca di fare chiarezza nell’enorme campo semantico della guerra creato da Emerson, un universo costellato da vari e, tra loro stessi, assai diversi impieghi dei termini bellici. Per far ciò ci si è avvalsi di una minuziosa analisi linguistica e dell’approfondimento del rapporto di Emerson con i suoi contemporanei, al fine di indagare sia i tratti condivisi con il periodo storico – culturale, sia quelli marcatamente più personali. Esplorando i lati più oscuri ed intricati della questione “bellica” sono emersi contemporaneamente, però, anche elementi legati ad un aspetto meno conosciuto del pensiero di Emerson, il lato più “pacifico”, affatto secondario e strettamente intrecciato, come si vedrà, all’attrazione per la guerra in tutte le sue forme. E’ questo, in realtà, l’aspetto che si vuole 5 evidenziare e investigare a fondo, e per far ciò ci si è rivolti ad un metodologia interpretativa proveniente dai Peace Studies, un ambito accademico multidisciplinare che si studia i meccanismi strutturali sottesi alle varie forme di conflitto e tenta di scorgere i motivi alla base delle molteplici manifestazioni di violenza. Se applicato alla letteratura, questo tipo di approccio consente di scoprire, come afferma Laurence Lerner, “how far militarism informs our conceptualizing of other experiences”,1 al fine di determinare fino a che punto tutto ciò che viene presentato in termini di scontro celi davvero una volontà reale di lotta o si avvalga, invece, di una retorica della guerra per rappresentare battaglie metaforiche, morali o spirituali. Studiato sotto questa nuova luce, il pensiero di Emerson non solo ha assunto sfumature nuove, originali ed interessanti, ma si è aperto a nuove strade che sono arrivate a mete inaspettate. Difatti il suo discorso sulla guerra e sulla pace non solo si è rivelato estremamente attuale, ma ha mostrato ancor più le sue potenzialità quando messo in relazione con Foucault e Gandhi, personalità molto diverse tra di loro che hanno indagato, in maniera approfondita e articolata, la natura e la struttura dei concetti di guerra e di pace. In uno scenario contemporaneo come il nostro, dilaniato da conflitti politici, sociali e culturali, sembra sempre più difficile individuare una soluzione concreta che aiuti a gestire le divergenze e le differenze in modo costruttivo, e il pensiero di Emerson offre sicuramente un punto di vista degno di attenzione. Il compito di studiare la retorica della guerra e della pace in Emerson si è rivelato una sfida fin da subito, una sfida che avevo già raccolto prima di leggere ciò che Michael Lopez aveva scritto sull’argomento: “No one has yet compiled an anthology of Emerson’s meditations on war, but there is no dearth of material”.2 Mi resi presto conto, difatti, che l’ultimo problema che avrei avuto sarebbe stato quello di avere poco materiale su cui lavorare 1 L. Lerner, “Peace Studies: a Proposal”, New Literary History, 26:3, Summer 1995, p. 648. M. Lopez, Emerson and Power: Creative Antagonism in Nineteenth Century, DeKalb, Northern Illinois University Press, Illinois, 1996, p. 191. 2 6 e che, in verità, non solo nessuno aveva mai compilato una simile antologia, ma pochi, se non pochissimi, avevano parlato della retorica della guerra in Emerson. Vi è da rilevare, difatti, un forte squilibrio tra l’importanza che il tema della guerra ricopre nelle opere di Emerson e l’esiguo numero di opere critiche sull’argomento. Pur essendo la bibliografia su di lui davvero sterminata, non vi sono lavori direttamente dedicati alla questione se non uno studio di William Allen Huggard risalente al 1938;3 soltanto dopo circa sessanta anni l’argomento è stato ripreso da Lopez, Edoardo Cadava4 e, in Italia, da Giorgio Mariani.5 Dunque, con un materiale primario così vasto ed un contributo interpretativo relativamente esiguo, non resta che concentrarsi sull’analisi del testo, un’analisi resa decisamente più agevole dall’edizione elettronica delle opere di Emerson, grazie alla quale è possibile stabilire individuare in maniera sistematica le occorrenze di termini a cui si è interessati e la loro distribuzione, sia spaziale che temporale, all’interno del corpus emersoniano. L’analisi testuale ha avuto origine da una catalogazione pressoché statistica dei termini, a cui è seguito, però, un lungo e faticoso lavoro di schedatura per organizzare le citazioni in specifici nuclei tematici e differenziare le varie tipologie di considerazioni, sia in base al momento storico in cui essere venivano pronunciate, sia in base al contesto letterario in cui Emerson le aveva inserite. Una delle difficoltà più grandi è stata quella di tracciare un confine sicuro tra l’ambito reale e quello metaforico, confine che in Emerson rimane aleatorio e insidioso da stabilire. Per questo motivo è stato indispensabile approfondire l’analisi del suo stile e del suo linguaggio, studio senza il quale sarebbe stato impossibile comprendere e 3 W. A. Huggard, Emerson and the Problem of War and Peace, University of Iowa Studies, Iowa City, Iowa University Press, 1938. Il lavoro sarà pubblicato qualche anno dopo in forma breve in W. A. Huggard, “Emerson’s Philosophy of War and Peace”, Philological Quarterly, XXII, October 1943, pp. 370-75. Per entrambi i lavori di Huggard ringrazio il prof. Mariani che me li ha segnalati e fatto prendere visione. 4 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, Stanford University Press, Stanford, 1997. 5 G. Mariani, “Ad Bellum Purificandum”, American Literary History, Oxford University Press, August 27, 2008, pp. 94-122. 7 interpretare determinate scelte linguistiche, retoriche e stilistiche che tessono, intrecciano, nascondono e confondo la trama del significato autentico delle parole. La prima parte del lavoro inserisce Emerson nel suo contesto storico, sociale e culturale, al quale egli si rapporta in modo particolare, rimanendone allo stesso tempo coinvolto e distaccato. Facendo ciò si vuole anche mettere in evidenza un aspetto spesso trascurato della società americana, che si dimostra interessata più di quanto ci si possa aspettare al problema della pace e svela una rilevante tradizione legata al pensiero nonviolento in grado di influenzare personaggi del calibro di Tolstoj e Gandhi. Si entra poi nel vivo della questione, con un’analisi testuale che si addentra nell’universo bellico emersoniano e che tenta di cogliere le varie sfumature al suo interno e il tipo di legame che intercorre tra i concetti di guerra e di pace. Un paragrafo in particolare è dedicato al saggio “War”, testo ricco di intuizioni originali ed essenziale per capire la dialettica che per Emerson lega guerra e pace non solo nei primi anni della sua carriera ma, come si vedrà, anche successivamente. Correlata alla retorica della guerra segue una parte dedicata alla più ampia retorica del potere, dalla cui ricerca Emerson appare realmente ossessionato; qui, ancora una volta, egli lascia al lettore il compito di carpire di quale potere egli stia, di volta in volta, parlando. Un punto fermo è, però, sicuramente, la sua ricerca del potere del linguaggio, strumento che Emerson impara a conoscere fin nei suoi meccanismi più reconditi e utilizza per combattere le sue molteplici e numerose battaglie. Quando arriva la guerra civile, per Emerson il momento si configura estremamente critico non solo da un punto di vista politico e sociale ma anche personale, perché l’evento storico determina uno scontro drammatico tra le sue considerazioni filosofiche sulla guerra e la guerra reale. Per Emerson è un periodo delicato, nel quale egli ripensa –vedremo in quale misura – la sua etica, la sua retorica e il suo temperamento, operando quello che alcuni hanno considerato un vero e proprio cambiamento di rotta, altri un’evoluzione del suo pensiero. 8 Emerson, intervenendo attivamente nel dibattito sulla schiavitù e sulla guerra, opera anche una profonda analisi della situazione politica e morale americana, rimanendo però in bilico tra idealismo e materialismo, un gioco di equilibri che, ancora una volta, per alcuni ha il baricentro posizionato più verso il primo Emerson trascendentalista, per altri pende invece, decisamente, verso un nuovo Emerson più disilluso e materialista. Lasciando il campo dell’arena pubblica, i Journals ci conducono invece in un viaggio molto affascinante nel mondo interiore di Emerson, quel “Wide World”, come egli lo chiama, che non appare nelle opere pubblicate ma che egli abita, vive e trascrive ogni giorno dall'adolescenza fino a poco prima della sua morte - con costanza, passione e dedizione. Nel mondo dei suoi diari, abitato da pensieri, dubbi, citazioni e riflessioni, scopriamo un Emerson più autentico, in alcuni momenti più inquieto e dubbioso di quanto si possa immaginare, senza il quale però avremmo una visione soltanto parziale del suo pensiero e della sua personalità. Nei Journals si nascondo pagine davvero importanti della vita non solo personale, ma anche intellettuale di Emerson, pagine che si affiancano, integrano, approfondiscono e in alcuni casi contraddicono i suoi scritti pubblicati. A questo punto non ci resta che raccogliere il bagaglio – o il fardello? –culturale che Emerson ci ha lasciato e trasporlo nella contemporaneità, facendolo interagire, in maniera del tutto sperimentale, con personaggi importanti del nostro tempo che sembrano avere ben poco a che fare sia con Emerson, sia tra di essi. Si tratta di Foucault e di Gandhi, due universi lontani che in alcuni punti si intersecano però con il mondo di Emerson, generando prospettive dalle quali il suo pensiero, che per natura e per scelta rimane a tratti oscuro e indefinito, trae beneficio. Ad Emerson Foucault è vicino per le sue riflessioni sul potere e sulla guerra vista come paradigma fondante sia delle relazioni inter-personali, sia del rapporto tra individuo e società. Emerson si dimostra però molto vicino anche a Gandhi, alla sua idea di pace e alla sua filosofia della nonviolenza e, come solo lui può fare, questo secondo aspetto 9 del suo pensiero non entra in contraddizione con quello che lo avvicina a Foucault, ma risulta ad esso complementare. Soprattutto, sia il confronto con Foucault che quello con Gandhi, oltre a rivelare somiglianze e differenze tra i vari autori, si mostra proficuo per un discorso attuale sulla conflittualità, sulla guerra e sulla pace, un argomento su cui abbiamo estrema necessità di andare a fondo e su cui Emerson ha molto da dirci. E’ la parte che dà ragione, forse, alla tesi stessa, in quanto svela i motivi dell’importanza di uno studio su Emerson a più di due secoli dalla sua nascita. Come afferma Randall Fuller, il fantasma di Emerson ci insegue ancora, ci invita a ragionare ed agire in modo diverso, a ripensare il nostro momento storico sia come studiosi, sia in quanto individui inseriti ciascuno nel proprio contesto politico, sociale, culturale, familiare: Emerson’s continued ability to haunt us derives from his capacity to help us think better, through an enriched language, about what it means to change or solidify our experiential commitments as humans living in a community, a nation, a world. We are haunted when Emerson challenges us to better think and act - critically and affirmatively, receptively and resistantly - in our own particular historical moment. In this way Emerson’s ghost lingers, however vaporously, over every attempt we may make to become scholars - American or otherwise.6 La visione di Emerson potrebbe dunque aiutare ad osservare da una diversa prospettiva la realtà del nostro tempo, a ripensarla in termini differenti e meno dicotomici, a considerare le nostre relazioni interpersonali e i nostri conflitti interiori in un’ottica diversa, meno radicale, meno negativa, probabilmente più produttiva perché, Emerson insegna, ogni difficoltà rimane un limite solo se non ne sappiamo cogliere i risvolti positivi. Emerson, in maniera amichevole ma non troppo – per lui l’amicizia ideale implicava il concepire l’amico come “a beautful enemy” – fa una dichiarazione di guerra al nostro tempo, alle nostre convinzioni e ai nostri limiti: non rimane quindi che raccogliere la sfida e dare inizio alla battaglia, reale o metaforica che sia. 6 R. Fuller, Emerson’s Ghosts: Literature, Politics, and the Making of Americanists, Oxford University Press, New York, 2007, p. 158. 10 PRIMA PARTE CAPITOLO PRIMO EMERSON E LA SUA REALTÀ STORICO - CULTURALE (ANNI 1820-1840) 1.1: Movimenti di Riforma e Pacifismo Il periodo compreso tra il 1815 e il 1860 fu pieno di forti cambiamenti per gli Stati Uniti,7 e i progressi raggiunti in campo sia economico che industriale, correlati ai problemi e agli squilibri che inevitabilmente seguirono, furono fonte di ansia e preoccupazioni; tuttavia essi stimolarono anche un grande fermento sociale e culturale, che vide la nascita di associazioni e movimenti di varia natura impegnati nei campi più diversi. La rinascita del protestantesimo evangelico, che reagiva al dogmatismo e al determinismo calvinista, poneva l’accento sul libero arbitrio, credendo fermamente in un Dio benevolo. Si faceva strada, dunque, la convinzione che la società potesse essere migliorata, e con essa anche gli uomini che non conducevano una vita moralmente corretta. Si susseguirono e si intrecciarono, così, crociate a favore della pace e della temperanza, si lottò contro l’alcolismo, la schiavitù, per i diritti delle donne, furono promosse riforme sia carcerarie sia nell’ambito dell’istruzione elementare e universitaria.8 Dopo anni di dipendenza culturale dall’Europa, poi, iniziò a 7 La parola chiave per il periodo 1820-1860 è “espansione”: di popolazione, di stati, di cultura, con nuove università, giornali e riviste. In pochi anni gli Stati Uniti passarono da 18 a 33 stati, la popolazione e le zone colonizzate raddoppiarono, ci furono enormi progressi nei trasporti e nelle comunicazioni; si fece strada un’economia capitalistica e commerciale orientata anche verso l’estero; la nascita di nuove fabbriche comportò tensioni sociali e una massiccia immigrazione nelle città difficile da gestire, e si andavano sempre più differenziando diverse tipologie di economia a seconda delle zone, con un west agrario, un nordest industriale, un sud schiavista. M. A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America, Bompiani, Milano,1984, pp. 105-173. 8 Ivi, p. 146. Questi anni vengono definiti anche “the time of freedom’s ferment”. V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis, 1992, foreword. 11 sorgere una produzione letteraria originale ed autoctona con autori come Washington Irving, J. F. Cooper,9 Edgar Allan Poe, che sfociò in un vero e proprio “rinascimento americano”, come fu chiamato nel 1941 da Matthiessen, con autori come Emerson, Thoureau, Whitman, Hawthorne, Melville.10 L’area di Boston, in particolare, divenne intorno al 1840 un importante centro culturale dove storici, poeti, filosofi e letterati diedero vita ad un importante rinnovamento culturale che a volte si svolse in parallelo, a volte si intersecò, con i vari movimenti di riforma.11 Tra essi, il movimento culturale che, pur avendo avuto una durata di pochi anni, ebbe un’influenza fondamentale sulla cultura americana e fornì un importante impulso riformatore, fu il trascendentalismo.12 I membri del “Trascendental Club” (Emerson, Amos Bronson Alcott, George Ripley, Margaret Fuller, Theodor Parker), detto anche “Symposium” o “Hedge Club”, si incontrarono per la prima volta il 19 settembre 1836 a casa di George Ripley.13 Il movimento fu presto accusato di imitare l’idealismo tedesco, con cui aveva in 9 In questo periodo l’America acquista coscienza di avere una propria lingua (con la pubblicazione del dizionario di Webster nel 1828), una propria storia (con lo storico George Bancroft, nel 1834), e soprattutto una propria letteratura. G. Fink, M. Maffi, F. Mingazzi, B. Tarozzi, Storia della Letteratura Americana, Sansoni, Firenze, 1991, p. 59. I romanzi di J. F. Cooper in particolare, per ragioni cronologiche, furono i primi a permettere agli scrittori americani di rispondere in senso affermativo alla celebre domanda posta da Sydney Smith: ”In the four quarters of the globe, who reads an American book?” (S. Smith, "Review of Seybert’s Annals of the United States", The Edinburgh Review, 1820). Alla sua morte Cooper veniva così considerato “the patriot who proved that American materials were viable for fiction”. G. Dekker, J. F. Cooper: The Critical Heritage, Routledge & Kegan Paul, London, 1973, p. 26. 10 F.O. Matthiessen, American Renaissance: Art and Expression in the Age of Emerson and Whitman, Oxford University Press, New York, 1968. 11 Vernon Louis Parrington lega il fermento riformista, oltre al protestantesimo evangelico, anche allo spirito della rivoluzione francese: ”La dottrina della rivoluzione francese arrivò nel New England e assunse la veste dell’Unitarianesimo, predicò la dottrina della perfettibilità e infuse uno straordinario entusiasmo per le riforme dell’uomo e della società”. V. L. Parrington, Storia della Cultura Americana, “La rivoluzione romantica: 18001860”, vol. II, Utet, Torino, 1969, p. 399. 12 “Il trascendentalismo non diventò mai una vera e propria scuola filosofica o un indirizzo accademico; fu piuttosto una filosofia dell’interiorità, e si espresse come un atteggiamento mentale e un costume del dissenso”. N. Urbinati, Individualismo Democratico, Donzelli, Roma, 1997, p. 3. Sorto nel 1836, nel 1840 il club trascendentalista già inizia a frammentarsi, con l’ultimo incontro avvenuto nel settembre 1840. The Dial, la rivista trascendentalista, fu dismesso nel 1844; i membri continuarono a vedersi e a scriversi, ma in gruppi più piccoli legati da interessi minori. Per un’interessante ed approfondita analisi del Trascendentalismo si veda B. L. Packer, “The Transcendentalists”, in S. Bercovitch (a cura di), The Cambridge History of American Literature, vol. II – “Prose Writing 1820-1865”, Cambridge University Press, 1995. 13 Nonostante i progressi in vari campi, l’ambiente culturale e il mondo letterario statunitense risultavano ancora ristretti e piccoli, così i letterati gravitavano sempre intorno agli stessi circoli. A Boston i più importanti furono il “Trascendental Club”, fondato nel 1836, ed il “Saturday Club” (di cui facevano parte Emerson, J. R. Lowell, 12 verità affinità evidenti: la convinzione della corrispondenza tra anima individuale e anima dell’universo e, soprattutto, una fede assoluta nelle forze del singolo.14 La carica innovativa del movimento fu evidente,15 e la sua importanza sta anche nell’aver fornito un forte impulso riformatore all’interno dell’unitarianesimo (movimento che si era separato nel 1815 dai calvinisti ortodossi), affermando che la natura umana, intrinsecamente divina, può migliorare con il nutrimento dello spirito e con l’auto-cultura. Il trascendentalismo si intrecciò quindi con molti movimenti riformisti (pacifismo, abolizionismo, femminismo, associazionismo, antialcolismo, diete alimentari), senza tuttavia appoggiare direttamente le varie organizzazioni e preferendo ad esse azioni individuali.16 Tra i movimenti di riforma uno dei più interessanti fu sicuramente quello pacifista, poiché stimolò un prolifico dibattito su tematiche complesse - che ritroviamo anche negli scritti di Emerson - che andarono ad incrociarsi e ad influenzare il dibattito sulla schiavitù che, come sappiamo, si protrasse per anni fino a sfociare drammaticamente nella guerra civile. Intorno al 1815 non soltanto negli Stati Uniti, ma in diverse parti del mondo esistevano e sorsero società per la pace; ciò non era frutto di una coincidenza ma il risultato di determinate condizioni storiche; difatti, dopo un lungo periodo di pace, nel 1812 la guerra contro Longfellow, e altri) formatosi nel 1856. Nonostante ciò, non si trattò di “bigotti circoli nazionalistici”, poiché frequenti furono i viaggi in Europa e le aperture alla cultura straniera; un esempio per tutti è la profonda amicizia nata tra Emerson e Carlyle. G. Fink, M. Maffi, F. Mingazzi, B. Tarozzi, Storia della Letteratura Americana, cit., p. 70. 14 Del resto, lo stesso Emerson afferma: “What is popularly called Transcendentalism among us, is Idealism; Idealism as it appears in 1842” e, molto chiaramente, spiega i principi su cui esso si basa: “The materialist insists on facts, on history, on the force of circumstances, and the animal wants of man; the idealists on the power of Thought and of Will, on inspiration, on miracle, on individual culture”. R. W. Emerson, ”The Transcendentalist”, conferenza tenuta al Masonic Temple, Boston, gennaio 1842, in R. W. Emerson, Emerson’s Essays and Lectures, Library of America, New York, 1983, p. 193. 15 A differenza dell’Europa, dove l’idealismo e l’eclettismo furono fenomeni essenzialmente accademici, il trascendentalismo ebbe un forte impatto pratico e politico, e auspicava un nuovo ordine sociale. N. Urbinati, Individualismo Democratico, cit., p. 92. 16 L. Buell, “I Trascendentalisti”, in E. Elliot, Storia della Civiltà Letteraria degli Stati Uniti, Torino, Utet, 1990, pp. 304-306. 13 l’Inghilterra risvegliò il ricordo delle guerre passate;17 vi furono così vari progetti che auspicavano una “pace perpetua”, e negli Stati Uniti le varie organizzazioni locali iniziarono ad unirsi in associazioni più vaste.18 Anche se le congiunture storiche stimolarono sicuramente un intenso dibattito sulla pace, non dobbiamo dimenticare che i movimenti e le associazioni che sorsero in quegli anni si inseriscono, in realtà, in una tradizione pacifista tipicamente americana che accompagna, pur se in modo talvolta nascosto e discontinuo, la storia degli Stati Uniti. Sebbene Staughton Lynd probabilmente amplifichi la portata dell’argomento affermando che “America has more often been the teacher than the student of the non-violent idea”,19 è anche vero che, come afferma Sollors, “American literature may not be as concerned with peace as was the book of Psalms, but there is a tradition of American imaginings of ‘peace’ that could profitably be studied and thought”.20 Nella sua introduzione a Nonviolence in America Lynd afferma difatti che “a distinctive American tradition of non-violence runs back to the seventeenth century: from the Quakers of colonial America, through the abolitionists and peace crusaders of precivil War years, the anarchists of the industrial era, and the pacifist progressives of the early twentieth century, down through the sit-down strikes of the 1930’s and the conscientious objectors of two world wars, there has been indigenous American tradition of non-violent resistance to social evil”.21 Agli inizi, prima della rivoluzione americana, la battaglia per la pace era portata avanti principalmente da membri di piccole sette cristiane, ed era quindi una pratica essenzialmente di natura religiosa. I suoi seguaci ritenevano la convivenza pacifica una ovvia conseguenza 17 La guerra con l’Inghilterra, scaturita per motivi commerciali e politici, risvegliò gli attriti con la madrepatria e il drammatico ricordo della guerra d’indipendenza; essa fu vissuta dagli americani, difatti, come una “seconda guerra d’indipendenza”. M. A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America, cit., p. 98. 18 M. Curti, The American Peace Crusade, 1815-1860, Octagon Books, New York, 1965, p. 4. 19 S. and A. Lynd, Nonviolence in America: A Documentary History, Orbis Books, New York, 1996, p. VII. 20 W. Sollors, “’Eager to acquire disks?’” American Studies in War and Peace”, in D. Steiner and T. Hartl, American Studies and Peace. Proceedings of the 25th Austrian Association of American Studies, Peter Lang, Frankfurt, 1999, p. 34. 21 S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., p. VII. 14 della dottrina di Cristo, ed era quindi ritenuta segno di obbedienza nei confronti dei suoi insegnamenti. Con questo spirito i religiosi di varie sette, principalmente i mennoniti e i quaccheri, cercarono di riconciliarsi con gli indiani d’America e si opposero a varie guerre, infrangendo anche la legge, in alcune occasioni, per non disobbedire alla loro coscienza.22 Dopo la rivoluzione americana - periodo in cui il pensiero pacifista venne oscurato dagli avvenimenti politici e dal fervore patriottico – si assistette alla secolarizzazione del discorso pacifista, che uscì quindi dall’ambito prettamente religioso. In particolare, proprio il periodo tra il 1820 e la guerra civile fu caratterizzato, insieme ai vari movimenti di riforma già citati,23 dalla nascita della prima “Peace Society” in America. I moltissimi dibattiti tra i pacifisti e una variegata e diversificata gamma di posizioni, però, condussero ben presto alla nascita di più società per la pace. Molte personalità di estrazione e temperamento diversi si confrontarono - e si scontrarono - su questioni inerenti al pacifismo considerato in tutte le sue forme: come via da perseguire indicata dalle Sacre Scritture, come metodo di rinnovamento della società, come mezzo diplomatico per regolare i rapporti tra le nazioni e tra gli individui. Al di là dei suoi limiti e fallimenti, il dibattito sulla questione pacifista tra il 1820 e il 1840 influenzerà altri sostenitori della pace come Tolstoj e Ghandi. In “A message to the American people”, Tolstoy scrisse nel 1901: “Garrison, Parker, Emerson, Ballou and Thoreau...specially 22 Gli scenari principali dei primi movimenti nonviolenti furono la Pennsylvania ed il Massachusetts, e i protagonisti erano essenzialmente quaccheri. I personaggi più noti furono William Penn (1644-1718), che firmò trattati di pace con gli Indiani Delaware; John Woolman (1720-1772), che praticò la disobbedienza civile rifiutando di pagare le tasse che avrebbero sostenuto le guerre contro gli indiani e i francesi; Antony Benezet (1713-1784), che si rifiutò di pagare le tasse di supporto alle guerre opponendosi anche alla guerra d’indipendenza e fondò scuole per donne e neri, scrivendo inoltre contro la schiavitù; Jesse Kersey (1767-1845), che predicò l’astensione dalla politica e la condanna dei governi esistenti, preannunciando - pur con un linguaggio più moderato - le teorie successivamente elaborate da William Garrison. P. Brock, Pacifism in the United States: From the Colonial Era to the First World War, Princeton University Press, Princeton, 1968, p. 53. 23 Come ricorda anche Brock “At the beginning of 19th century there were many social reform movements for temperance, abolition, woman suffrage crusades, Indian Rights, movements for health reform and experiments in communal living. Among them, there was the movement for peace reform”. Ivi, p. 60. 15 influenced me”, e tre anni dopo scrisse: “Garrison was the first to proclaim the principle of non-resistance to evil as a rule for the organization of man’s life”.24 I primi pacifisti erano essenzialmente riformatori cristiani intenti ad istituire il regno di Dio sulla terra. L’impulso ad organizzarsi in nome della pace era dovuto all’influenza del potente movimento evangelico, che aveva reagito al calvinismo riponendo più fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di migliorare se stesso e il mondo.25 Per Brock, come anche per Parrington, le radici intellettuali del pacifismo americano risiedono però anche nell’illuminismo, “in its belief in the possibility of abolishing international conflict and establishing perpetual and universal peace in the world, along with attacks on war as inhumane and contrary to the ideal of human unity and brotherhood”.26 Pur costituendo una reazione contro gli orrori e le devastazioni causate dalle guerre precedenti, il fermento pacifista non può essere ridotto a ciò, ma è parte di un fenomeno più vasto. Curti afferma: It [pacifism] cannot be understood merely as a reaction against war. The movement was, in fact, part of a general humanitarian development which had its origin, before these wars, in the development of the eighteenth-century idealistic doctrines. [...] Organization for peace in America, then, represented more than a special reaction against war. It is to be understood as only one expression of a larger philanthropic enthusiasm for perfecting man and society, an enthusiasm rooted deep in prevalent social theory, and manifesting itself spontaneously, as it were, in societies in France and England as well as in the United States”. 27 I primi riformatori pacifisti, che diedero origine alle due principali tendenze che si sarebbero sviluppate in seguito, furono David Low Dodge e Noah Worcester. Il primo opuscolo di Dodge, The Mediator’s Kingdom Not of this World: But Spiritual, fu pubblicato nel 1809, mentre il secondo, War inconsistent with the Religion of Jesus Christ, risale al 1812, due anni prima che Noah Worcester pubblicasse Solemn Review of the Custom of War, diffuso il giorno di Natale del 1814 a Boston. 24 S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., p. XVI. V. L. Parrington, Storia della Cultura Americana, cit., p. 475. 26 Esisteva infatti una forte connessione tra i movimenti pacifisti in America e quelli in Inghilterra, che condividevano letture ed attività comuni; vi era poi, come afferma Brock, la convinzione che l’America potesse ricoprire un ruolo chiave nella lotta per la pace: ”On both sides of the Atlantic there was a widespread belief that the new American Republic had a special role to play in bringing about world peace”. P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 40. 27 M. Curti, The American Peace Crusade, 1815-1860, cit., pp. 19-20. 25 16 Con The Mediator’s Kingdom Not of this World: But Spiritual Dodge riscosse subito molto successo, e la radicalità del suo pensiero – che ispirò William Lloyd Garrison - fu subito evidente: Dodge era contro ogni tipo di guerra e contro ogni forma di difesa personale; i cristiani, inoltre, essendo persone redente, dovevano separarsi dal mondo peccaminoso ed agire separatamente. In War Inconsistent with the Religion of Jesus Christ Dodge espone il suo pensiero in modo analitico, articolando il suo ragionamento in più punti ed esponendo dettagliatamente i motivi per i quali la guerra è del tutto incompatibile con il perseguimento della dottrina di Cristo; le sue idee sono così innovative e ben esposte che Edwin D. Mead riconosce a Dodge due grandi meriti: quello di aver pubblicato in America il primo scritto direttamente rivolto contro la guerra tra nazioni e quello di aver fondato la prima organizzazione per la pace in America e nel mondo.28 Per Dodge il pacifismo doveva difatti essere applicato non solo alla vita privata, ma anche nelle controversie internazionali: ”A nation is not an abstraction: a nation is only a large number of individuals united so as to act collectively as one person”;29 per lui, “the self-sacrificing love of the Gospel ethic was possible for nations as well as institutions”.30 Dodge ritiene che la guerra sia antibiologica, poiché costringe gli esseri umani, naturalmente inclini alla gentilezza e all’umanità, ad infliggere male e dolore agli altri, determinando di fatto un declino morale nella popolazione.31 Riassumendo le sue convinzioni in poche righe, Dodge afferma: Thus I have shown that war is inhuman and therefore wholly inconsistent with Christianity, by proving that it tends to destroy humane dispositions; that it hardens the hearts and blunts the tender feelings of men; that it involves the abuse of God's animal creation; that it oppresses the poor; that it spreads terror and distress among mankind; that it subjects soldiers to cruel privations and sufferings; that it destroys the youth and cuts off the hope of the aged; and that it multiplies widows and orphans and occasions mourning and sorrow.32 28 E. D. Mead, introduzione a D. L. Dodge, War Inconsistent With The Religion Of Jesus Christ (1812), Ginn & Company, Boston, 1905. Il Testo è reperibile in formato elettronico in http:// www.archive.org/ stream/ warinconsistentw00dodguoft/warinconsistentw00dodguoft_djvu.txt, p. 1. 29 Ivi, p. 4. 30 V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, cit., p. 27. 31 P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 454. 32 D. L. Dodge, War Inconsistent With The Religion Of Jesus Christ, cit., p. 26. 17 Pur motivando le sue affermazioni essenzialmente su base religiosa e citando come fonte delle sue motivazioni le Sacre Scritture, Dodge non manca di condannare coraggiosamente la guerra anche da un punto di vista sociale, politico ed economico, offrendo una descrizione del suo tempo che potrebbe essere sostanzialmente applicata anche alla contemporaneità. Dodge sottolinea difatti come i soldati provengano essenzialmente dalle fasce sociali più deboli che sono mandate in guerra per difendere le ragioni dei potenti, i quali avrebbero potuto investire il denaro impiegato in attività belliche per migliorare le condizioni della popolazione: That war actually does oppress the poor may be heard from ten thousand wretched tongues who have felt its woe. Very few, comparatively, who are instigators of war actually take the field of battle, and are seldom seen in the front of the fire. It is usually those who are rioting on the labors of the poor that fan up the flame of war. The great mass of soldiers are generally from the poor of a country. They must gird on the harness and for a few cents per day endure all the hardships of a camp and be led forward like sheep to the slaughter. [...] The money that has been expended the last twenty years in war would doubtless have been sufficient not only to have rendered every poor person on earth comfortable. [...] The calamities of war necessarily fall more on the poor than on the rich, because the poor of a country are generally a large majority of its inhabitants.33 Con affermazioni che suonano straordinariamente attuali, Dodge mette in guardia dai falsi proclami che presentano la guerra come un mezzo per raggiungere la pace e il benessere dei cittadini: One nation is busily increasing its military strength on the plausible maxim of preserving peace and maintaining its rights. [...] The popular maxim of being prepared for war in order to be at peace may be seen to be erroneous in fact, for the history of nations abundantly shows that few nations ever made great preparations for war and remained long in peace. When nations prepare for war they actually go to war, and tell the world that their preparations were not a mere show [...].34 Usually the object of war is pompously represented to be to preserve liberty, to produce honourable and lasting peace, and promote the happiness of mankind; to accomplish which, liberty, property, and honour — that honour which comes from men — must be defended, though war is the very thing that generally destroys liberty, property, and happiness, and prevents lasting peace.35 Con la forte intransigenza che lo contraddistingue e in linea con lo zelo religioso che lo anima, per Dodge dalla guerra non può conseguire alcun vantaggio, e vi è inoltre una totale incompatibilità fra il temperamento dell’uomo pacifico e quello bellicoso. L’uomo pacifico, per essere tale, deve rendersi simile ad un agnello, e percorrere con sottomissione e rassegnazione la via del martirio: 33 Ivi, pp. 17-19. Ivi, pp. 29-30. 35 Ivi, p. 64. 34 18 The principles of war and the principles of the gospel are as unlike as heaven and hell. The principles of war are terror and force, but the principles of the gospel are mildness and persuasion.[...] A patient, forbearing, suffering disposition is peculiar to the lamblike temper of the gospel, and is wholly opposed to the bold, contending, daring spirit of the world which leads mankind into quarrelling and fighting. [...] The spirit of martyrdom is the crowning test of Christianity. The martyr takes joyfully the spoiling of his goods, and counts not his life dear to himself. [...] But how opposite is the spirit of war to the spirit of martyrdom!36 Worcester fu, invece, il precursore della posizione moderata che verrà poi sostenuta dai cristiani conservatori.37 Anziché puntare sulla redenzione individuale, la sua azione si concentrò sulle riforme istituzionali. Nel 1814 Worcester scrisse, pubblicandolo a sue spese, A Solemn Review of the Custom of War, e dal 1815 iniziò a pubblicare la rivista The Friend of Peace.38 Per lui la guerra e la preparazione alla guerra sono un orribile business e, soprattutto, esse hanno un carattere inumano, anticristiano e barbaro. Nella sua visione la guerra non differisce, in realtà, dai riti pagani durante i quali si sacrificavano vittime innocenti agli Dei. Superare la guerra è dunque, innanzitutto, indice di civiltà: To sacrifice human beings to false notions of national honour, or to the ambition or avarice of rulers, is no better than to offer them to Moloch, or any other heathen deity. As soon as the eyes of people can be opened to see that war is the effect of delusion, it will then become as unpopular as any other heathenish mode of offering human sacrifices.39 [...] War has been so long fashionable among all nations, that its enormity is but little regarded; or when thought of at all, it is usually considered as an evil necessary and unavoidable. Perhaps it is really so in the present state of society, and the present views of mankind. But the question to be considered is this: cannot the state of society and the views of civilized men be so changed as to abolish a barbarous custom, and render wars unnecessary and avoidable?40 La convinzione che la guerra sia necessaria e inevitabile è per Worcester arretrata, e può essere superata con l’istruzione, come dimostrano alcuni gruppi - ad esempio i Quaccheri che hanno adottato uno stile di vita totalmente pacifico: As there is an aversion to war in the breast of a large majority of people in every civilized community; and as its evils have been recently felt in every Christian nation; is there not ground to hope, that it would be as easy to 36 Ivi, pp. 42 - 54. Ziegler afferma: “Both Dodge and Worchester expected nations and individuals to obey the New Testament of love; both agreed that ethic required people to live in peace with one another; both were labouring to help inaugurate the millennium, but one was a sectarian non-resistant, the other a cultural Christian”. V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, cit. p. 19. 38 Ivi, p. 23. 39 N. Worcester, A Solemn Review of the Custom of War: Showing that War is the Effect of popular Delusion, proposing a Remedy, pubblicato con lo pseudonimo di Philo Pacificus, Wells & Lilly, No. 97, Courtstreet, Boston, 1816, p. 4. Il testo è reperibile in http://www.archive.org/stream/solemnreviewofcu00worcuoft/ solemnreviewofcu00worcuoft_djvu.txt. 40 Ivi, p. 2. 37 19 excite a disposition for peace, as a disposition for war? That there is nothing in the nature of mankind, which renders war necessary and unavoidable — nothing which inclines them to it, which may not be overcome by the power of education, may appear from what is discoverable in the two sects already mentioned. The Quakers and Shakers are of the same nature with other people, men of like passions with those who uphold the custom of war. All the difference between them and others results from education and habit.41 Con la stessa intransigenza di Dodge, anche Worcester non riconosce nessun merito alla guerra, che non esalta le virtù ma moltiplica i vizi che, al contrario, in tempo di pace si riducono lasciando spazio alla moralità: What custom of the heathen nations had a greater effect in depraving the human character than the custom of war? What is that feeling usually called a war spirit, but a deleterious compound of enthusiastic ardour, ambition, malignity and revenge? The depravity, occasioned by war, is not confined to the army. Every species of vice gains ground in a nation during a war. And when a war is brought to a close, seldom, perhaps, does a community return to its former standard of morals. In time of peace, vice and irreligion generally retain the ground they acquired by war. As every war augments the amount of national depravity, so it proportionally increases the dangers and miseries of society.42 La condanna della guerra è, in definitiva, da parte di Worcester, totale: “For war is in fact a heathenish and savage custom, of the most malignant, most desolating, and most horrible character. It is the greatest curse, and results from the grossest delusions that ever afflicted a guilty world”.43 Nonostante già da qualche anno fosse in atto un dibattito sulla pace, la prima Peace Society fu fondata ufficialmente solo nel 1815, e le varie società locali si unirono insieme soltanto nel 1828 sotto la direzione di William Ladd, che fondò The American Peace Society. Ladd mirava a cambiare l’opinione pubblica attraverso la stampa e la propaganda, e tentò fin dall’inizio di stabilire un compromesso tra le varie fazioni interne alla società tentando di non affrontare le questioni più spinose, in particolare il problema del diritto alla difesa personale; a tal proposito egli si limitava ad affermare vagamente che, in alcuni casi e per motivi giusti, l’uso della forza poteva essere giustificato.44 Pur avendo il lodevole intento di voler trovare un punto d’accordo, Ladd fu criticato aspramente sia dai moderati che dagli estremisti, le cui 41 Ivi, p. 14. Ivi, pp. 5-6. 43 Ivi, p. 16. 44 P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 486. 42 20 convinzioni erano divenute incompatibili. Non potendo continuare ad indugiare ulteriormente su questioni fondamentali come il diritto alla guerra difensiva e la legittimità dell’autodifesa, la rottura fu inevitabile. Nel 1837 la maggior parte dei membri si trovarono d’accordo sulla necessità di rifiutare ogni sorta di guerra, ma anche chi la pensava diversamente poteva ugualmente appartenere alla società.45 Così William Allen, il sostenitore più convinto della teoria della guerra giusta, si ritirò dalla società, e nel 1838 l’ala del movimento che rifiutava la guerra in tutte le sue forme, condotta da William Lloyd Garrison, formò la New England Nonresistant Society. Dal 1838 in poi, quindi, vi erano due movimenti distinti che lottavano ugualmente per la pace. I membri dell’American Peace Society si consideravano i difensori della civilizzazione cristiana e credevano che tutte le istituzioni potessero lavorare insieme per raggiungere la pace. I seguaci di Garrison, invece, si consideravano dei “radicali”: credevano che le istituzioni fossero corrotte, e che l’individuo giusto dovesse separarsi dal mondo per agire da solo e secondo la propria coscienza. Valerie Ziegler, che nel suo libro espone molto dettagliatamente le dispute di questi anni, riassume chiaramente la diversità tra le due posizioni: “The sectarian nonresistants wanted to turn the world upside down, whereas the cultural Christians of the American Peace Society were content to fine tune it”.46 Garrison, in una lettera indirizzata a William Ladd, espose chiaramente i motivi della sua separazione, affermando che una riforma per la pace poteva avere successo solo se poneva gli uomini di fronte ai loro errori e li costringeva a redimersi; l’American Peace Society, invece, evitando qualsiasi tipo di controversia, non sarebbe arrivata a parer suo mai a nulla: You do not understand the philosophy of reform. If you would make progress, you must create opposition; if you would promote peace on earth, array the father against the son, and the mother against the daughter; if you would save your reputation, lose it. It is a gospel of paradox, but nevertheless true - the more peaceable a man becomes, after the pattern of Christ, the more inclined to make a disturbance, to be aggressive, to “turn the world upside down”. For the sake of quietude, he will make a noise. [...] It was so with the prophets, with Christ, with the apostles, with Luther and Calvin and Fox.47 45 V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, cit., p. 13. Ivi, p. 15. 47 W. L. Garrison, “Remarks from Mr. Ladd’s Letter”, The Liberator, November 23, 1838, p. 188. 46 21 Garrison rifiutava dunque tutti gli inviti alla mediazione, perché, per lui, “the righteousness would come through struggle, not inoffensive or apathy”.48 Inoltre, la questione richiedeva un intervento duro e deciso, sia nelle azioni che nelle parole: I am aware, that many object to the severity of my language; but is there not cause for severity? I will be as harsh as truth, and as uncompromising as justice. On this subject, I do not wish to think, or speak, or write, with moderation. No! no! Tell a man whose house is on fire, to give a moderate alarm; tell him to moderately rescue his wife from the hand of the ravisher; tell the mother to gradually extricate her babe from the fire into which it has fallen; - but urge me not to use moderation in a cause like the present. I am in earnest - I will not equivocate I will not excuse - I will not retreat a single inch - AND I WILL BE HEARD. The apathy of the people is enough to make every statue leap from its pedestal, and to hasten the resurrection of the dead.49 Nel 1838 Garrison scrisse “The Declaration of Sentiments”,50 dichiarazione che divenne il manifesto della New England Nonresistance Society in cui vengono toccati tutti i punti essenziali della sua dottrina.51 Garrison e i suoi seguaci proclamavano, oltre al totale rifiuto di ogni sorta di guerra, sia offensiva che difensiva, la totale opposizione alla collaborazione con le istituzioni, considerate corrotte e non affidabili. Il loro rifiuto, come aveva sostenuto anche Dodge, seppure con toni più pacati, si basava sull’interpretazione del discorso della Montagna proclamato da Cristo, nel quale, secondo la loro convinzione, i cristiani venivano incoraggiati a ritirarsi dalle istituzioni, non essendo esse pronte a conformarsi con il comportamento cristiano.52 Pur se per ragioni diverse, i trascendentalisti, come vedremo tra poco, erano molto vicini su questo punto ai pacifisti radicali, poiché entrambi confidavano nell’azione individuale; come afferma Ziegler, “Antebellum reformers knew that the cosmic struggle between good and evil that engulfed the outer world was mirrored in each person’s soul”.53 48 W. L. Garrison, Letters, 3, p. 356, in V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, cit., p. 57. W. L. Garrison, The Liberator, January 1, 1831. 50 Il testo è in S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., pp. 25-31, ma è anche reperibile in rete. Tolstoj e Gandhi ne furono influenzati, e Tolstoj ne ristampò lunghi estratti nel suo trattato “The Kingdom of God is Within You”. P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 545. 51 Lynd osserva: “Although the document speaks of peace, nonresistance and Christian ethic, the language is often even aggressive, as to indicate the strength needed to fight again injustices and wars”. S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., p. 25. 52 V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, cit., pp. 65-66. 53 Ivi, p. 12. Ziegler ribadisce: “By individualism they meant that regeneration began in individuals, not in institutions”, Ivi, p. 72. 49 22 Altro principio caro ai seguaci di Garrison, ed oggetto di controversie, era quello della nonresistenza, ossia la rinuncia a qualsiasi forma di difesa, anche personale. Nella loro dichiarazione si legge: “I am not professedly a Quaker, but I embrace the doctrine of nonresistance [...]. I will never obey any order to bear arms, but rather cheerfully suffer imprisonment and persecution”.54 La rinuncia all’autodifesa non riguarda soltanto l’individuo ma anche le nazioni, perché il principio dell’uso della violenza è il medesimo, e non può che aumentare in proporzione alle persone che lo utilizzano. Il principio della nonresistenza, Garrison ne è convinto, rende l’individuo più sicuro e trionferà certamente sul male: ”We cordially adopt the nonresistance principle; being confident that it provides for all possible consequences, will ensure all things needful to us, is armed with omnipotent power, and must ultimately triumph over every assailing force”.55 Sul principio della nonresistenza si sofferma in modo più approfondito un’altra voce presente nel dibattitto sul pacifismo, quella di Adin Ballou (1803-1890), uno di quei riformatori che, come afferma Lynd, “made the eradication of sin (whether in the form of war, slavery, or intemperance) the business of their lives”.56 Egli fondò la prima comunità utopistica ad Hopedale, nel Massachusetts, dal 1841 al 1856. Nel 1839, durante un incontro della New England Nonresistance Society, diede una conferenza dal titolo “Nonresistance in relation to Human Governments”, che espanse poi nel libro Christian Non-Resistance, in cui Ballou espone molte idee rese poi famose da Thoureau. Pur simpatizzando per la New England Nonresistance Society e partecipando spesso alle sue iniziative, non ne divenne mai 54 W. L. Garrison, The Story of his Life Told by his Children, I, pp. 124 -125. W. L. Garrison, “Declaration of Sentiments”, in S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., pp. 28. In questo punto, credo, risieda il nocciolo della questione e la spiegazione per un cambiamento di rotta così radicale con l’avvento della guerra civile. A mio avviso, la nonresistenza è qui intesa come tattica e non come stile di vita: quando essa si rivelerà rischiosa e inefficace, verrà abbandonata e lascerà il posto alla guerra. A questo proposito, Lynd ammette: ”Non-violence can be referred to both ‘tactic’ and a ‘way of life’; both are long standing and essential components of the American tradition of non-violence. It was often a tactic, but there have always been a few who chose non-violence because it answered a personal need to live in harmony with universal forces of life and love.”. Ivi, p. XIII. 56 S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., p. X. 55 23 membro, probabilmente per la sua posizione più radicale sulla questione della nonresistenza cristiana e dell’opposizione a qualsiasi tipo di governo. Su quest’ultima questione, però, Ballou sottolinea come non ci si debba opporre indiscriminatamente a tutti i governi, ma soltanto a quelli che siano contrari alla legge di Cristo, ovvero contemplino l’uso della guerra. Nella dettagliata spiegazione che Ballou fa dei vari tipi di nonresistenza,57 egli spiega che la Christian Nonresistance non ha nulla a che fare con l’obbedienza passiva: It is applicable only to the conduct of human beings towards human beings and doesn’t mean to be passive to all assailing beings, things and influences [...]. I disclaim using the term to express absolute passivity, even towards human beings. I claim the right to offer the outmost moral resistance [...]. In this sense my very nonresistance becomes the highest kind of resistance to evil.58 Per Ballou, a differenza di Garrison, l’atteggiamento della nonresistenza non mira all’incolumità ma, al contrario, può implicare anche la perdita della vita: “I don’t undertake to prove that the practice of non-resistance will always preserve the life and personal security of its adherents, but only that it generally will, think to Jesus and martyrs! This implies that we don’t have to fear death”.59 Essa deve essere quindi professata fino alle sue estreme conseguenze, e si deve quindi essere pronti a sacrificare la propria vita per il prossimo. Uno dei contributi più significativi che merita di essere citato in questo contesto è quello di Elihu Burrit (1810-1879), un fabbro che con grande volontà riuscì prima a crearsi una vasta cultura personale, poi a scrivere e partecipare a battaglie per la temperanza, per l’abolizionismo, per la pace nel mondo. Non dimenticando le sue origini, indisse uno sciopero universale dei lavoratori contro la guerra, e a differenza degli altri riformatori continuò ad opporsi anche alla guerra civile. Fondò poi “The League of Universal Brotherhood“, convinto che ogni tipo di guerra fosse incoerente con lo spirito cristiano e sentendosi parte di una fratellanza universale a cui chiunque, di qualsiasi paese, condizione, o colore, poteva 57 Egli distingue tra: Philosophical Nonresistance, Sentimental Nonresistance, Necessitous Nonresistance, quest’ultima invocata dai despoti ai loro sudditi, raccomandata sottoforma di “prudenza” alle vittime di soprusi che non hanno la possibilità di ribellarsi; con quest’ultimo tipo di non-resistenza, spiega Ballou, la Christian Nonresistance non ha niente a che fare. Ivi, pp. 33-34. 58 Ibidem. 59 Ibidem. 24 appartenere. A differenza di Garrison, o di Thoureau od Emerson, che prediligevano le azioni individuali, Burrit era favorevole ad azioni nonviolente di massa ed insisteva sulla resistenza passiva, protagonista di molti suoi saggi.60 Per la sua posizione molto radicale, soprattutto sulla questione del pacifismo, non fu invitato a far parte né dell’American Peace Society, né dell’American Nonresistance Society e così, a dispetto della sua vocazione per le azioni collettive e di massa, il suo contributo al dibattito sulla pace risultò piuttosto singolare e distante dalle posizioni più condivise. Le complesse e variegate disquisizioni sulla pace, il pacifismo, le guerre difensive ed offensive riempirono i giornali e le discussioni del periodo pre-bellico, e sono di fondamentale importanza per analizzare e comprendere fino in fondo la personalità e gli scritti di Emerson, dove le suddette tematiche ricorrono più volte. A dispetto di quanto è stato in genere affermato fino a poco tempo fa, il “saggio di Concord”, nonostante la sua fede nell’individualismo, e nonostante - per lo meno agli inizi della sua carriera - rimanesse distaccato da posizioni ed associazioni ufficiali, seguiva in ogni caso con interesse i dibattiti a lui contemporanei, e i suoi scritti vennero influenzati, ed influenzarono a loro volta, i movimenti di riforma che lo circondavano. 60 S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., p. 94. 25 2.2: Emerson: tra Riformismo e Contemplazione Filosofica Emerson scrisse e parlò di guerra, pace, nonresistenza, schiavitù e partecipò, a suo modo, ai movimenti di riforma e ai dibattiti sulla pace prima, sulla schiavitù poi.61 Il suo atteggiamento, tuttavia, ed il rapporto che intercorse tra lui e gli altri riformisti, è piuttosto particolare e controverso, e la sua posizione va ricercata attraverso i suoi scritti piuttosto che in nette prese di posizione come accadde, invece, per altre personalità del tempo. Va inoltre sottolineato che il suo atteggiamento è caratterizzato da un cambio progressivo ma, allo stesso tempo, anche radicale: agli inizi della sua carriera egli si tenne piuttosto in disparte da dispute ed attività pubbliche, mentre alla fine degli anni Quaranta, con l’avvicinarsi della guerra civile, il suo appoggio alla guerra e il suo coinvolgimento nella causa abolizionista si fecero sempre più marcati e palesi.62 Come già accennato, Emerson durante gli anni Trenta e Quaranta non si associò mai a nessun gruppo né riformista né pacifista, e non appoggiò mai apertamente né i pacifisti moderati dell’American Peace Society, né quelli radicali dell’American Nonresistance Society. Inizialmente, difatti, prevalse il sospetto verso l’azione collettiva a cui Emerson preferiva, invece, l’azione individuale; come afferma Myerson, “he preferred to keep these self-styled idealists at arm’s length”.63 Il background sociale e religioso in cui era cresciuto 61 P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 524. Per una disamina dettagliata su questa tematica, che nel presente lavoro verrà ripresa in seguito, si veda in particolare l’introduzione di L. Gougeon and J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, Yale University Press, London, 1995, e il saggio di G. Collison “Emerson and Antislavery” in J. Myerson, A Historical Guide to Ralph W. Emerson, Oxford University Press, Oxford, 2000, pp. 179-250. Secondo Myerson “Emerson on 1 august 1844 had made the transition from philosophical antislavery to active abolitionism. After this date, his reform activities became more frequent”. L. Gougeon and J. Myerson, Emerson Antislavery Writings, cit., p. XXXIII. Il suo cambiamento sembra essere contraddistinto da un periodo intermedio, tra il 1844 ed il 1850, in cui Emerson fu un “reluctant advocate”, per poi diventare un abolizionista convinto dal 1850 al 1865. G. Collison, “Emerson and Antislavery”, cit., p. 192. 63 Myerson afferma: ”From the earliest stages of his public career, Emerson envisioned himself as a reformer. He felt, as most Unitarian moralists did, that the reform of society must always begin with the reform of individuals. Laws, restrictions, prohibitions was doomed to failure because morality is a matter of the heart. Moreover, moral reform efforts like abolition missed the point that moral reform must always seek the renewal of the entire individual, not of a isolated sin.” J. Myerson, A Historical Guide to Ralph W. Emerson, cit., p. 183. 62 26 già di per se concorre a spiegare la sua riluttanza nel partecipare ai movimenti di riforma e al movimento abolizionista in particolare: la sua reticenza derivava da molteplici ragioni, e non era dovuta soltanto a una questione di temperamento.64 Figlio di un pastore unitariano, e pastore lui stesso, agli inizi della sua carriera egli rifletteva il punto di vista dominante della sua confessione essenzialmente conservatrice e convinta che le distinzioni di classe e la struttura della società fossero provvidenzialmente determinate; Emerson seguiva dunque l’orientamento familiare e religioso, che lo portava a evitare e criticare i movimenti di riforma collettivi.65 Nei sui scritti sono chiare le ragioni che tengono Emerson lontano dal coinvolgimento attivo nei vari movimenti riformisti. Per lui, innanzitutto, il fine ultimo dell’opera di rinnovamento deve essere più alto e non limitato ad un aspetto particolare: He who aims to progress, should aim at an infinite, not at a special benefit. The reforms whose fame now fills the land with Temperance, Anti-slavery, Non-Resistance, No Governement, Equal Labor, fair and generous as each appears, are poor bitter things when prosecuted for themselves as an end. [...] Tell me not how great your project is, the civil liberation of the world, its conversion into Christian church, the establishment of public education, cleaner diet, a new division of labour and of land, laws of love for laws of property; - I say to you plainly there is no end to which your practical faculty can aim, so sacred or so large, that, if pursued for itself, will not at last become carrion and an offence to the nostril.66 In “Lecture on the Times”, conferenza tenuta al Masonic Temple di Boston il 2 dicembre del 1841, Emerson torna insistentemente sull’argomento, spiegando come il suo scetticismo non riguardi lo spirito di riforma in sé, sempre auspicabile e lodevole, ma il modo 64 Lydian, la moglie di Emerson, avrebbe scritto in una lettera a sua figlia a proposito della lettera che Emerson scrisse a Van Buren a favore dei Cherokee: “Your father is not combative...Yet he exercised great moral combativeness in writing to the President of the U.S. in defense of the Cherokee Indians. [...] He said it was hardly fit for him to suspend his true vocation to become their champion”. L. Emerson, Letters, p. 74. Emerson, dunque, aveva la convinzione di poter servire la società attraverso la sua vocazione artistica e filosofica, ma questa era soltanto una delle motivazioni che lo tenevano in disparte dalle dispute. L. Gougeon and J. Myerson, Emerson Antislavery Writings, cit., p. XIX. 65 Collison sottolinea: ”Emerson’s religious and social background explains a great deal of his early reluctance to participate in reform in general and the antislavery movement in particular. Emerson inherited the cast of mind and the reticent personality that were endemic among Unitarians and reflected the familiar Unitarian critique of mass reform movements from his second church pulpit”. G. Collison, “Emerson and Antislavery”, cit., p. 183. Agli inizi del 1800, però, alcuni pastori unitariani come William Ellery Channing iniziarono a rompere con la tradizione e a dedicarsi alle riforme sociali; la seconda generazione, che nella maggior parte - come Emerson e Thoureau - diventò trascendentalista, seguì pienamente la strada tracciata dal suo predecessore. Ivi, p. 181. 66 R. W. Emerson, “The Method of Nature”, conferenza esposta alla società di Adelphi, al Waterville College, Maine, 11 agosto 1841, in R. W. Emerson, Emerson’s Essays and Lectures, cit., pp. 127-128. 27 in cui si cerca di produrre il cambiamento. Come già accennato, egli non si fida delle persone che portano avanti le battaglie riformiste perché le vede troppo concentrate sulle loro piccole sfide: The present age will be marked by its harvest of projects for the reform of domestic, civil, literary, and ecclesiastical institutions. The leaders of the Crusade against War, Negro Slavery, Intemperance, Government based on force, Usages of Trade, Court and Custom-house Oaths, and so on to the agitators on the system of Education and the laws of Property, are the right successors of Luther, Knox, Robinson, Fox, Penn, Wesley, and Whitfield. They have the same virtues and vices; the same noble impulse, and the same bigotry. These movements are on all accounts important; they not only check the special abuses, but they educate the conscience and the intellect of the people.[...] Whilst each of these aspirations and attempts of the people for the Better is magnified by natural exaggeration of its advocates, [...] the movements are in reality all parts of one movement.[...]. Seen in this natural connection, they are sublime.67 Come afferma Barbara Packer, il potere della protesta per Emerson non deve essere confinato ad uno specifico male, “it must be instead ripen into something Emerson calls, in a memorable phrase, a ‘deeper and universal grudge’”.68 Packer continua: “If the ‘universal grudge’ was Emerson’s term for the spirit behind every scheme of reform, ‘self-reliance’ was the name he used to designate the means by which all schemes of reform were to be accomplished”.69 Oltre a ciò, Emerson obietta i metodi di attuazione delle riforme, troppo basati su circostanze esterne invece che nella forza interiore dell’individuo: These reforms are our contemporaries; they are ourselves; our own light, and slight, and conscience; they only name the relation which subsists between us and the vicious institutions which they go to rectify. [...]. I cannot choose but allow and honour them. The impulse is good, and the theory; the practice is less beautiful. The Reformers affirm the inward life, but they do not trust it, but use outward and vulgar means. They do not rely on precisely that strength which wins me to their cause; not on love, not on a principle, but on men, on multitudes, on circumstances, on money, on party; that is, on fear, on wrath, and pride.70 Concludendo, Emerson afferma: We say, then, that the reforming movement is sacred in its origin, in its management and details timid and profane. These benefactors hopes to raise man by improving his circumstances: by combination of that which is dead, they hope to make something alive. In vain. By new infusions alone of the spirit by which he is made and directed, can he be remade and reinforced.71 67 R. W. Emerson, “Lecture on the Times”, ivi, pp. 158 -159. B. Packer, Emerson’s Fall: A New Interpretation of the Major Essays, Continuum, New York, 1982, p. 137. 69 Ivi, p. 133. 70 R. W. Emerson, “Lecture on the Times”, cit., p. 162. 71 Ivi, p. 164. 68 28 Emerson non volle, dunque, mai legarsi a riforme effettuate attraverso le istituzioni; avendo constatato i fallimenti che altri avevano sperimentato prima di lui,72 egli sembrò comprendere, in definitiva, che l’unico modo di andare avanti con le riforme non era quello pratico (sociale o religioso), ma quello di auspicare nella società una riforma interiore. La forte enfasi riposta nella fiducia nel singolo derivava, ovviamente, anche dall’appartenenza al movimento trascendentalista, che preferiva azioni individuali anche per una certa diffidenza verso le istituzioni in sé: i trascendentalisti non solo rifiutavano i mezzi istituzionali per effettuare le riforme, ma si rifiutavano, in definitiva, di pensare in termini istituzionali.73 Stanley Helkins specifica, però, che la posizione dei trascendalisti può essere compresa fino in fondo soltanto se si considera anche la debolezza delle istituzioni del tempo: The conviction of nonresistants for the non necessity of institutions was related to the fact that institutions were so weak, fragmented, and shifting that it was easy for Americans of the time to imagine that institutions as such were not necessary to a society’s stability. In the America of the 1830s-40s there was no other symbol of vitality to be found than the individual, and it was to the individual, with all his promise, that the thinker, like everyone else, would inexorably orient himself. Individualism, self-reliance, abstractionism, disregard of the responsibilities and uses of power: such was the state of mind in which Americans faced the gravest social problem that had yet confronted them as an established nation: slavery.74 Nonostante la sfiducia nelle istituzioni e il non coinvolgimento diretto nei movimenti di riforma, sia i trascendentalisti che Emerson furono indubbiamente da stimolo, e la loro influenza si estese ben al di là della loro cerchia di idealisti: essi fondarono difatti scuole pestalozziane e comunità fourieriste, organizzarono società di lettura e circoli femministi, simpatizzarono con i risorgimenti nazionali europei, furono conferenzieri e agitatori politici antischiavisti.75 Secondo Elkins, l’attività dei trascendentalisti sembra essere addirittura complementare a quella dei riformisti impegnati ufficialmente nei vari progetti: “Trascendentalism lacked the commitment to action that characterizes moments of changes. It 72 B. L. Packer, “The Transcendentalists”, cit., p. 350. “Trascendentalism was infinitively individualistic, providing no means for reconciling the diverse intuitions of different men and deciding which was better and which was worse“. A. M. Schlesinger, The Age of Jackson, Boston, 1945, p. 381. 74 S. Elkins, Slavery, Chicago, 1959, pp. 27-34. 75 N. Urbinati, Individualismo Democratico, cit., p. 92 73 29 is significant that the very time at which transcendentalism flourished it coincided with the launching of the great reform impulses. They were logical models for and contemporaries of abolitionists”.76 Tuttavia i trascendentalisti, come sostiene Kraditor, non si distinguevano dagli altri riformisti soltanto per l’inclinazione contemplativa; come anche nel caso di Emerson, esistevano specifiche differenze filosofico - religiose che li trattenevano dall’associarsi ai riformisti militanti: It was not mere difference in temperament that kept most of the transcendentalists from joining with abolitionists the struggle against an institution both to groups abhorred. They were separated by a religious - philosophical chasm as wide as that between the immanent God whose Revelation is the disclosure of the soul and the transcendent God whose will is revealed in the Bible. The transcendentalist epistemology did not necessary beget social passivity, yet it seems to have exerted a strong influence in that direction.77 Nonostante ciò, non è sempre facile distinguere nettamente i vari tipi di temperamento e classificare in specifici gruppi le personalità che parteciparono al rinnovamento sociale, culturale e filosofico degli anni Trenta e Quaranta; risulta difficile, in definitiva, distinguere fra trascendentalisti, pacifisti, abolizionisti. In proposito Lynd afferma: Abolitionism developed in the context of religious revivalism, so it was at first committed to nonviolence. In 1815-1860 peace movements and civil rights organizations attracted the same people: Samuel May and William Ellery Channing were advocates of peace before they became abolitionists, Henry C. Wright, Edmund Quincy, Maria W. Chapman, Lucretia Mott, and Lydia Maria Child joined William Garrison in launching the New England Non-resistance society, other important figures were prominent both in peace and antislavery movements.78 Considerato ciò, non è realistico pensare, come è accaduto in passato, che il rapporto tra Emerson ed i riformatori, sia pacifisti che abolizionisti, non sia esistito. Esso fu certamente ambiguo, ma è innegabile che ci fosse un’affinità intellettuale tra di essi.79 Emerson, ad esempio, leggeva regolarmente The Liberator, il giornale fondato da Garrison nel 1831 e che 76 S. Elkins, Slavery, cit., pp. 27-34. A. S. Kraditor, Means and Ends in American Abolitionism, Pantheon Books, Chicago, 1969, p. 87. 78 S. and A. Lynd, Nonviolence in America, cit., p. 12. 79 Oliver Wendell Holmes nella sua biografia di Emerson del 1884 scriveva che Emerson non aveva nulla a che fare con gli abolizionisti. Il suo comportamento, poi, insieme alla reticenza più volte espressa verso un coinvolgimento nello scenario politico, ed il suo auto-descriversi come un “poeta-filosofo”, hanno inevitabilmente supportato l’idea promossa da Holmes di un Emerson come “a remote Sage of Concord”. L. Gougeon, Virtue’s Hero: Emerson, Antislavery and Reform, The University of Georgia Press, Athens, 1990, p. 130. Tuttavia, il già citato lavoro di L. Gougeon Virtue’s Hero, e quello di L. Gougeon and J. Myerson Emerson’s Antislavery Writings (ai quali si rimanda) hanno contribuito a cambiare questa opinione. 77 30 arrivava abitualmente nella sua casa.80 Tra i due sembra esserci stata, se non una conoscenza approfondita, sicuramente stima reciproca: Garrison simpatizzava per Emerson, augurandosi che diventasse “a friend of the New Age”, mentre nel 1839 Emerson descriveva Garrison ”a man of great ability in conversation”, e nel 1844-45 sembra aver affermato ”I cannot speak of that gentleman without respect”.81 Nel marzo del 1838, poi, Emerson tenne una conferenza dal titolo “War”, l’ultima di una serie di conferenze sponsorizzate dall’American Peace Society. In realtà, molti degli amici e vicini di Emerson erano in contatto con l’ambiente abolizionista: la Concord Female Anti-slavery Society lavorò attivamente per l’abolizione della schiavitù e il Lyceum di Concord, dove Emerson parlava regolarmente, ospitava conferenze e personalità antischiaviste. In maniera più ravvicinata, la famiglia stessa di Emerson era legata all’ambiente abolizionista: la zia Mary Moody Emerson, ad esempio, era profondamente contraria alla schiavitù ed organizzava incontri con abolizionisti inglesi a cui Emerson partecipava; anche Charles, suo fratello maggiore, era attivo nella causa antischiavista, e la stessa seconda moglie di Emerson, Lydian, era membro attivo della Concord Female Antislavery Society.82 Nei Journals inoltre, come vedremo poi, si possono scorgere conflitti e pensieri che testimoniano come Emerson fosse profondamente turbato dai dibattiti politici e dagli avvenimenti storici del suo tempo, e come avvertisse il compito, non facile, di essere pensatore e critico, “di porre a giudizio di una filosofia più alta il 80 La maggior parte degli abitanti di Concord, in verità, erano “abbonati” al giornale di Garrison. G. Collison, “Emerson and Antislavery”, cit., p. 186. 81 P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 526. Vi sono, poi, molti punti in comune tra il pensiero di Garrison e i suoi seguaci ed Emerson, ai quali egli viene considerato idealmente vicino. Ivi, p. 525. 82 Collison riassume: “Given his liberal-Unitarian ties, his activist Concord friends and neighbors, and his family history of involvment, antislavery was an integral part of Emerson’s enviroment”. G. Collison, “Emerson and Antislavery”, cit., p. 186. Emerson, tra l’altro, partecipò attivamente anche al movimento per l’emancipazione femminile. Si veda in proposito il saggio di A. Gilbert, “Emerson in the context of Woman’s Right Movement”, in J. Myerson, A Historical Guide to R. W. Emerson., cit., pp. 211-251. 31 materialismo che imperava nella sua società”;83 egli avvertiva quindi la vocazione secondo cui, come afferma Parrington, “la sua stessa vita doveva diventare una critica”.84 In questa fase della sua vita, Emerson fu evidentemente “a philosophical speculator rather than a reformer”,85 e reputò di assolvere meglio al suo compito restando distaccato, e dunque intellettualmente separato, dalla società. La sua scelta, però, non lo ha escluso dalla vita pubblica, piuttosto lo ha costretto a seguire i dibattiti del suo tempo, ad indignarsi per fatti moralmente riprovevoli, ad interrogarsi sulle vicende storiche, politiche e sociali a lui contemporanee. Per Emerson, difatti, l’individuo a lui tanto caro doveva essere “un eccentrico senza essere un isolato, rivendicava l’autonomia di giudizio e criticava il conformismo sociale senza disertare il dialogo pubblico e l’arena politica”.86 La difesa della solitudine interiore coincide, dunque, come afferma Nadia Urbinati, “con la difesa della dignità individuale, con la possibilità di essere padroni della propria intimità di giudizio e di mettere fra noi e l’esterno una distanza salutare senza doverci per questo isolare e dissociare dagli altri”.87 Similmente Barbara Packer sottolinea come proprio la sua indipendenza di giudizio aveva permesso ad Emerson di essere il più duro critico della società americana: ”Emerson saw very clearly what was wrong with the society in which he lived, and he had the moral, economic, and emotional independence from that society to castigate it with impunity. [...] Partly by accident partly by choice he had become the freest man in America”.88 Nei primi anni della sua carriera, Emerson si sentiva dunque, citando le parole di Parrington, “un critico piuttosto che un combattente”,89 e questa fu la sua vocazione, il suo dovere e la sua occupazione. L’affermazione di Parrington, in realtà, a mio parere può essere 83 V. L. Parrington, Storia della Cultura Americana, cit., p. 484. Ibidem. 85 M. W. Chapman, “An Article on Emerson”, 1844, cit. in L. Gougeon e J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., p. XXV. 86 N. Urbinati, Individualismo Democratico, cit., p. 60. 87 Ivi, p. 110. 88 B. Packer, Emerson’s Fall, cit., p. 101. 89 V. L. Parrington, Storia della Cultura Americana, cit., p. 485. 84 32 condivisa soltanto in parte. Se è vero, difatti, che Emerson non fu impegnato attivamente in movimenti di riforma e nel pacifismo militante, in realtà, come vedremo, il “saggio di Concord” mostra un’indole tutt’altro che remissiva nei suoi scritti e, pur non impegnandosi, nei primi anni della sua carriera, attivamente in battaglie sociali e politiche, certamente si impegnò in altri tipi di battaglie, sicuramente più intellettuali che pratiche, ma pur sempre battaglie. Gli scritti degli anni 1837-1841 ruotano difatti intorno alla lotta contro la mancanza di coraggio che guidava le scelte dei politici, e il principale avversario a cui Emerson si rivolgeva nelle sue opere era la codardia morale che dominava la società. Detto ciò, Packer afferma, “the retreat from society was actually a virulent attack upon it”.90 L’attacco, la resistenza, la lotta e la guerra, sono, come vedremo fra breve, una costante nel pensiero, nella visione della vita e, soprattutto, nel linguaggio di Emerson, tramite il quale egli, come avremo modo di constatare, riesce a trasformare i suoi scritti veri e propri “campi di battaglia”. 90 B. Packer, Emerson’s Fall, cit., p. 94. 33 CAPITOLO SECONDO GUERRA E PACE NEGLI SCRITTI DI EMERSON 2.1: Campi Semantici e Campi di Battaglia In Emerson’s books, letters, journals, lectures, and addresses there lies buried a “philosophy of power” which, if not as deliberate, seems almost to rival Nietzche’s in its comprehensiveness. “Power”, “force”, “energy”- three words that seems to recur on every page of Emerson’s published works. If they do not appear themselves, then the idea of them does.91 L’affermazione di Michael Lopez si comprende pienamente soltanto quando ci si appresta ad analizzare le opere di Emerson, ricercando in esse tutto ciò – termini, concetti, metafore – che possa essere ricondotto a una sua retorica della guerra e della pace. Grazie all’ausilio dello strumento informatico92 si può ora effettuare una ricerca capillare su tutte le opere di Emerson, ricerca che manualmente sarebbe risultata ben poco agevole, se si considerata che l’edizione completa dei suoi scritti comprende dodici volumi e l’edizione dei suoi Journals è composta da ulteriori dieci volumi.93 Andando dunque a ricercare le occorrenze dei termini afferenti al campo semantico della guerra, ciò che ci compare dinanzi, per rimanere in tema, è un vero e proprio esercito di parole e metafore belliche che attaccano il povero studioso da ogni parte.94 Da una prima rilevazione, anche se puramente numerica, non ci si può non accorgere di come Emerson 91 M. Lopez, “Transcendental failure: ‘The palace of spiritual power’”, in J. Porte, Emerson, Prospect and Retrospect, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1982, p. 122. 92 Sul sito www.rwe.org è presente un elenco di occorrenze stilato in ordine alfabetico (compilato da Eugene F. Irey e tratto dal sito http://www.colorado.edu/ArtsSciences/CCRH/Emerson/emerson.html). L’edizione di riferimento è R. W. Emerson, The Complete Works of Ralph Waldo Emerson, Centenary Edition, 12 vol., Boston and New York, Houghton Mifflin and Company, 1903-1904. E’ Inoltre possibile effettuare la ricerca delle occorrenze personalmente tramite un apposito “motore di ricerca” presente sul sito www.rwe.org. 93 I Journals verranno analizzati distintamente dalle opere pubblicate. Inoltre va segnalato che, nei volumi delle opere complete, non sono inseriti alcuni scritti raccolti e pubblicati soltanto in seguito, ossia: Emerson’s Antislavery Writings, The Early Lectures of R. W. Emerson, The Letters of R. W. Emerson. 94 Le opere presenti nella già citata The Complete Works of Ralph Waldo Emerson sono: Nature, Addresses and Lectures; Essays, First Series; Essays, Second Series; Representative Men; English Traits, The Conduct of Life, Society and Solitude, Twelve Chapters; Letters and Social Aims; Lectures and Biographical Sketches; Miscellanies; Natural History of the Intellect, and Other Papers. 34 utilizzi termini e metafore afferenti al campo semantico della guerra in maniera diffusa in ogni suo scritto, per delineare svariate situazioni e relazioni tra persone, oggetti, fatti, elementi. Iniziando dalle parole citate da Lopez, l’occorrenza del termine “energy” è piuttosto elevata –138-, se si considera che essa è numericamente vicina a quella di termini generici come “benefit” (138), o “individual” (143). Tuttavia esso occorre soltanto in decima parte rispetto a “power”, presente ben 1192 volte, un’occorrenza decisamente elevata se si pensa che neanche avverbi e sostantivi di comune utilizzo raggiungono tale cifra; per citare qualche esempio, si pensi ad “always”, ricorrente 705 volte, o “day”- 741, “old” –752, o “time”- 888. Si avvicinano al numero di occorrenze di “power” soltanto termini che in Emerson hanno un peso particolarmente significativo, come “new” – 1219, o l’onnipresente “nature” – 1310. L’analisi del termine “power”, dunque, per la sua portata, richiederà uno studio particolareggiato anche perché, come ci ricorda Lopez, la retorica della guerra è soltanto una parte della più vasta retorica del potere che serpeggia tra gli scritti di Emerson.95 Restringendo il campo ai termini prettamente bellici, “war” occorre 296 volte, e fa pensare il fatto che lo stesso termine al plurale –“wars” occorra soltanto 23 volte, probabilmente essendo esso più specifico e potendo assumere un significato più vicino al concreto e al reale. La più alta concentrazione di “war” si riscontra proprio nel saggio “War” – 34 volte; un primo dato interessante è, però, che anche “peace”, che compare complessivamente soltanto 101 volte, è anch’essa principalmente presente nello stesso saggio 22 volte, quasi al pari di “war”. Per quanto riguarda il campo semantico afferente a “war”, abbiamo occorrenze sicuramente inferiori a “power” ma complessivamente rilevanti; ecco qui di seguito un elenco riassuntivo:96 95 L’argomento è il tema principale del libro di M. Lopez, Emerson and Power: Creative Antagonism in Nineteenth Century, DeKalb, Illinois, Northern Illinois University Press, 1996. 96 Si consulti la tabella in Appendice per l’elenco dettagliato. 35 Conflict: 14; aggression: 18; conquest: 19; prisoner: 20; defeat: 23; win: 23; coward/cowardice/cowardly: 26; victims: 27; weapon: 28; martyrs: 30; struggle: 28; alliance/alliances/allied/allies: 33; dominion: 35; hate: 42; attack/attacks: 43; sword: 47; military: 62; violence: 63; fight: 70; victory: 80; sacrifice/sacrificed/sacrifices/sacrificial: 85; battle/battles: 85. Saliamo sopra le 100 occorrenze con soldier/soldiers: 100; enemies/enemy: 115; honor: 145; blood: 149; armed/armed/armies/arming,/army: 139; courage: 169; fear: 202. Sopra le 300 occorrenze si ha invece hero/heroes/heroic/heroism: 325; war/warrior: 329. Si sale invece in modo esponenziale se si va a considerare force/forces: 433; strenght/ strong/ stronger/ strongest: 583; il già citato power/powers, infine, appare tre volte tanto i termini più numerosi: 1421 volte. Abbiamo elencato soltanto qualche numero, per ora, eppure già da un primo sguardo ci si può rendere conto dell’importanza che la metafora della guerra ricopre nell’opera di Emerson; inoltriamoci in un’analisi più ravvicinata del testo, cercando di dare un senso ed un ordine a questo sterminato campo semantico che appare, sempre più, anche per lo studioso, un vero e proprio campo di battaglia. 2.2: Tanta Guerra, Tante Guerre Fin ora si è accennato soltanto a qualche cifra, ma l’analisi dell’utilizzo dei termini bellici diventa realmente interessante dal momento in cui si va a guardare come essi siano sì utilizzati in contesti di guerra reale e storica, ma in misura poco rilevante rispetto a tutti gli altri ambiti in cui essi compaiono. Si avverte difatti, fin da un primo sguardo, come Emerson concepisca l’esistenza umana, animale e vegetale come un susseguirsi di lotte reali e metaforiche, praticamente come una sorta di battaglia continua, dove ogni essere ed ogni 36 elemento, naturale o spirituale che sia, deve lottare continuamente per affermarsi non soltanto sul mondo esterno, ma anche su se stesso; ogni cosa, dunque, è potenzialmente in grado di scatenare una guerra, ogni motivo è degno di generare una lotta. Partendo concretamente dai veri e propri campi di battaglia, le guerre effettivamente citate - che destano in verità poco interesse dal punto di vista interpretativo - sono molte, e possono essere raccolte essenzialmente in tre generi. Il primo tipo di guerre sono quelle afferenti all’età classica, che Emerson cita parlando di personaggi greci e latini - come ad esempio Socrate (“the war with Boeotia” (PPh 4.72 11))97- o di personaggi ed eventi legati a tragedie e drammi essenzialmente shakespeariani, come ad esempio la guerra di Troia citata nel saggio su Shakespeare (ShP 4.197 25). Nonostante le guerre classiche non vengano particolarmente commentate ma soltanto citate, la loro presenza può essere giustificata, oltre dall’ammirazione che Emerson mostra sia per Shakespeare che per gli scrittori greci e latini, anche dalla somiglianza, come si vedrà in seguito, della concezione della guerra nell’età classica con quella che Emerson mostra nei suoi scritti.98 Il secondo genere di guerre citate sono quelle europee del diciannovesimo secolo, ad Emerson quindi contemporanee; si tratta, più precisamente, di citazioni di guerre in cui è coinvolto Napoleone, personaggio a cui lo scrittore dedica un saggio nel suo Representative Men, e di cui il filosofo americano, insieme ad altre personalità del suo tempo, subisce il fascino seppur in maniera contraddittoria.99 Nonostante il saggio di Emerson su Napoleone si apra, difatti, con una forte ammirazione nei confronti del condottiero francese, lodato per la 97 Il riferimento bibliografico che verrà da qui in poi utilizzato si riferisce all’edizione online dei Collected Works di Emerson, consultabile sul sito www.rwe.org. Le lettere indicano il titolo abbreviato del saggio da cui la citazione è tratta, e, a seguire, il volume di cui lo scritto fa parte e la posizione della citazione all’interno del saggio. 98 Su questo punto mi è stato particolarmente utile il confronto tra le opere di Emerson e lavori inerenti alla storia del concetto di guerra, in particolare U. Curi, Pensare la Guerra. Dedalo, Bari, 1999, e A. Scurati, Guerra, Narrazioni e Culture nella Tradizione Occidentale, Donzelli Editore, Roma, 2007. 99 “Napoleon was admired by many minds of the century - Emerson, Byron, Shelley, Blake, Hazlitt, Carlyle, Henry James, and Nietzsche among them”. M. Lopez, “Transcendental failure: ‘the palace of spiritual power’”, cit., p. 123. 37 sua forza, le sue capacità militari e strategiche e il suo carisma da leader, alla fine del saggio Napoleone viene criticato aspramente e accusato di essere diventato un tiranno e un demagogo.100 Il terzo genere di guerre presenti sono quelle legate al territorio americano; ci sono quindi parecchi riferimenti alle guerre con gli indiani, legate all’arrivo e al successivo insediamento degli europei sul suolo americano (“the savage war of Turenne and Wellington” (SovE 10.189 17), ”the war with the Niantic Indians”, the “Ninigret's war”, the “King Philip’s War”) - concentrate per lo più nel saggio “Historical Discourse at Concord”, dove Emerson narra la storia e la fondazione della città di Concord e mette in evidenza la forza e il coraggio della popolazione nel superare le difficoltà dell’insediamento, dovute ad una natura talvolta ostile e alle guerre intraprese con le popolazioni native. Molta importanza ricoprono poi, prevedibilmente, la guerra d’Indipendenza, di cui Emerson va - inutile sottolinearlo - fiero, e soprattutto la guerra civile, che investirà la vita e l’attività di Emerson in maniera progressiva e conflittuale, e lo vedrà coinvolto personalmente sul fronte dell’antischiavismo. I riferimenti alla guerra civile sono essenzialmente concentrati nell’undicesimo volume dei Complete Works, in scritti ispirati dagli avvenimenti politici che precedono e accompagnano lo svolgimento della guerra, come “The Fugitive Slave Law - Address at Concord”, “The Fugitive Slave Law - Lecture at New York”, “The Assault upon Mr. Sumner”, “Speech on Affairs in Kansas”, “John Brown-Speech at Boston”, “John Brown - Speech at Salem”, “American Civilization”, “The Emancipation Proclamation”, “Abraham Lincoln”. Nonostante citazioni di guerre siano disseminate un po’ per tutti i volumi, anche in scritti prettamente letterari, è indubbio che le riflessioni sulla guerra civile occupino uno spazio più rilevante rispetto a quello dedicato ad altre guerre. Proprio per questo motivo, mentre la guerra d’indipendenza, come anche le guerre dell’età classica, vengono citate essenzialmente in 100 R.W. Emerson, “Napoleon; or, the Man of the World”, in Representative Men, in R. W. Emerson, Emerson’s Essays and Lectures, cit., pp. 727-745. 38 narrazioni storiche, la guerra civile, per la sua contemporaneità, attualità ed urgenza, è oggetto di riflessioni e considerazioni diffuse, sofferte, profondamente sentite. La guerra civile rappresenta per Emerson il punto d’incontro tra i suoi pensieri astratti sulla guerra ed una concreta, difficile circostanza bellica: uno scontro con la realtà che non poteva non generare un duro conflitto interiore e, vedremo poi in quale misura, un ripensamento del suo concetto di guerra. 2.2.1. L’Universo è in Guerra Pur non tenendo conto, per un momento, delle occorrenze dei termini bellici, non si può non notare come tutti i discorsi in Emerson, anche quelli più apparentemente lontani dalla guerra, facciano riferimento ad una “lotta” tra persone e concetti, ad una “resistenza” contro forze opposte, ad una necessità di “difendersi” da qualche tipo di “attacco”, ad “armi” che si devono impiegare per vincere svariate “battaglie”. Non mi riferisco qui a citazioni di guerre reali e storiche, di cui abbiamo già parlato, per le quali una terminologia bellica è prevedibile e, tranne poche eccezioni tra cui la guerra civile, poco interessante da analizzare. Ci riferiamo qui a situazioni in cui la metafora bellica, essendo preminente anche quando potrebbe non esserlo, crea un intricato universo “militarizzato”, dove al suo interno molti altri microcosmi sono in guerra. Come afferma Lopez, ad un Emerson in armonia con la natura, forse il più conosciuto e descritto da una folta schiera di critici, sembra corrispondere un “Emerson parallelo” che vede nella natura stessa un continuo campo di battaglia.101 Quando leggiamo “Man was made 101 A dispetto di una lunga tradizione che considera Emerson come un puro idealista, Michael Lopez afferma che per il filosofo americano “nature is a powerful adversary, a beautiful enemy, the stepping-stone, the catalyst to man’s inborn energies”. Nel suo libro Lopez traccia il cambiamento di rotta che, dagli anni ’80 in poi, ha portato alla scoperta di un Emerson più complesso e più interessante rispetto a quel che si era creduto fino ad allora. M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 12. Sull’argomento si vedano in particolare i capitoli “The anti-Emerson tradition” (pp. 19-52), e “Detranscendentalizing Emerson” (pp. 165-189). 39 for conflict” (PLT 12.60 16) non si tratta, come potremmo pensare, di un’asserzione isolata, ma di una convinzione che viene, come in un caleidoscopio, riflessa e rappresentata, sia in forme evidenti che meno visibili, in più luoghi del corpus emersoniano. Si afferma difatti perentoriamente che “the world is a battle-ground” (PerF 10.87 12), e che ogni singolo atomo, in natura, contiene segni di lotta: ”The microscope reveals miniature butchery in atomies and infinitely small biters that swim and fight in an illuminated drop of water” (War 11.154 22). La natura, potente avversario ma allo stesso tempo anche “splendido nemico”, è spesso ostile all’uomo e piena di insidie: “Nature is as subtle as she is strong” (Farm 7.145 4), “War, plague, cholera, famine, indicate a certain ferocity in nature”(Hsm1 2.249 12). In condizioni a lui così avverse l’uomo è costretto a difendersi come può, e per farlo non può contare che su stesso, perché i suoi simili, trovandosi nella stessa condizione, sono costretti anch’essi a combattere: “Our condition is like that of the poor wolves: if one of the flock wound himself or so much as limp, the rest eat him up incontinently” (YA 1.373 24). Ci troviamo, così, a quanto pare, attaccati da ogni parte senza tregua, e la natura sembra ostacolare in ogni modo l’esistenza dell’uomo; come afferma Stack, “the destructive powers of nature seem to be at war with the creative, vital power that is immanent in living beings”:102 Towards all this external evil the man within the breast... affirms his ability to cope single-handed with the infinite army of enemies. (Hsm1 2.250 6) If the unwise man escapes the conditions of life in one part they attack him in another more vital part. (Comp 2.105 13) The hideous facts in history require of us a patience as robust as the energy that attacks us. (Cour 7.276 11) In the dark hours, our existence seems to be a defensive war... (Trag 12.405 9) Sebbene una continua lotta segna la vita dell’uomo, che sembra non avere né amici né momenti di tregua, tuttavia, pur nella sua brutalità, la battaglia per la sopravvivenza assume talvolta bizzarramente i contorni di un gioco: 102 G. Stack, Nietzsche and Emerson: An Elective Affinity, University of Ohio Press, Athens, Ohio, 1992, p. 152. 40 The game of the world is a perpetual trial of strength between man and events. (Aris 10.37 6) All grand and subtle things, minerals, gases, ethers, passions, war, trade, government, are man's natural playmates. (Wth 6.90 1) Famine, typhus, frost, war, suicide and effete races must be reckoned calculable parts of the system of the world. (Fate F 6.19 3) Let your friend be to thee for ever a sort of beautiful enemy.103 (Fdsp 2.210 25) Utilizzando la metafora del gioco, Emerson lascia dunque intendere che tra l’uomo e i suoi nemici non vi sia soltanto una lotta crudele e inevitabile, ma esistano anche delle regole comuni ad essa sottese, il coinvolgimento in un “gioco” che, pur essendo spietato e pericoloso, per la sua necessità viene quasi ricercato. Proseguendo nell’analisi, difatti, la situazione dell’uomo, immerso in un feroce gioco senza esclusione di colpi, non sembra così passivamente subita. Se è indubbio che le avversità esistono e sono a volta fronteggiate senza successo, esse non vengono tutte per nuocere e, soprattutto, non è affatto scontato che l’uomo debba necessariamente soccombere. Al contrario, esse costringono l’individuo a tirare fuori qualità che altrimenti rimarrebbero sopite, e se riesce a superare i pericoli contando solo su stesso sicuramente uscirà dalla lotta fortificato. La scoperta stessa del destino e dell’esistenza di forze nemiche, sottolinea Stack, può difatti far sviluppare una capacità di reazione che rende l’uomo più forte: ”The extertions of the will on face of restricions, constraints, limitations and obstacles make the strong will. [...] The determinism affecting life, as real as it is, does not necessarily render us impotent”.104 Come nell’infanzia, dunque, le attività ludiche costituiscono una sorta di laboratorio dove il bambino fronteggia ostacoli e sviluppa abilità che gli permetteranno di crescere, così per Emerson la guerra, in tutte le sue forme, contribuisce al miglioramento dell’uomo e ricopre, quindi, una funzione altamente educativa. 103 104 I corsivi sono miei. G. Stack, Nietzsche and Emerson: An Elective Affinity, cit., p. 156. 41 2.2.2 Una Guerra che Educa Who knows himself before he has been thrilled with indignation at an outrage, or has heard an eloquent tongue, or has shared the throb of thousands in a national exultation or alarm?105 La guerra, per Emerson, contiene in sé qualcosa di didattico e di “maieutico”, poiché aiuta l’uomo ad acquisire consapevolezza delle sue forze e a farle sviluppare affinché egli possa diventare auto-sufficiente. Lopez non a caso definisce Emerson “a philosopher of tuition”, dove “tuition” va inteso nel senso nietzchiano del termine, ossia “the education, resistance, discipline - the slavery, the tyranny, the imposition of a goal - we require in order to attain power necessary to impose a shape on our own lives and on the world we inhabit”.106 Le affermazioni che confermano l’idea di Lopez sono in verità molto varie e molto numerose: A great man finds a war raging: it educates him, by trumpet, in barracks, and he betters the instruction. (ShP 4.190 17) War disorganizes, but it is to reorganize. (MoL 10.248 5) War, seeking for the roots of strength, comes upon the moral aspects at once. (MoL 10.257 9) The war uplifted us into generous sentiments. (MoL 10.257 13) War educates the senses... (War 11.152 17) War ennobles the age. (MoL 10.257 14) The benign Providence uses the violence of war, of earthquakes and changed water-courses, to save underground through barbarous ages the relics of ancient art. (Plu 10.303 10) The only compensation which war offers for its manifold mischiefs, is in the great personal qualities to which it gives scope and occasions. (HDC 11.59 22) A thunder-storm at sea sometimes reverses the magnets in the ship, and south is north. The storm of war works the like miracle on men. (SMC 11.353 5) War civilizes, rearranges the population, distributing by ideas... (SMC 11.353 15) Strong men greet war, tempest, hard times... (PC 8.231 25) A state of war or anarchy...is so far valuable that it puts every man on trial. (Con 1.323 1) 105 R. W. Emerson, “History”, in Essays, First Series, in R. W. Emerson, Emerson’s Essays and Lectures, cit., p. 255. 106 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 59. 42 On the perpetual conflict between the dictate of this universal mind and the wishes and interests of the individual, the moral discipline of life is built. (Chr2 10.94 7) Wars, fires, plagues, break up immovable routine. (CbW 6.254 17) Le qualità educative che Emerson attribuisce alla guerra sono in linea con l’intera tradizione occidentale che, dall’Iliade fino ai primi del Novecento, riconosce alla guerra varie funzioni positive tra le quali la capacità di generare significati e valori collettivi, cosa che, come sottolinea Antonio Scurati, agli occhi della sensibilità moderna segnata dalle due guerre mondiali appare un merito impensabile.107 In realtà, spiega Curi, l’irrazionalità della guerra si afferma soltanto con le due guerre mondiali, perché in precedenza essa appare come “un grande evento fondativo, fortemente impregnata di valori positivi, capace di segnare il discrimine fra la barbarie e l’incivilimento, e di stabilire ‘giuste’ gerarchie fra uomini e stati, assegnando a ciascuno il ruolo e il rango più adeguato”.108 Per quanto essa sia definita un male, difatti, si tratta di un male necessario e non trascendibile, e soprattutto di “un principio generativo idoneo a conferire una nuova forma e a suscitare processi di trasformazione”.109 In linea con questa visione anche Emerson riconosce la positività del male della guerra; facendo ciò, secondo Stack, egli sfiderebbe l’idea consueta di moralità come avrebbe fatto in seguito Nietzsche con il suo “scandaloso” tentativo di andare “al di là del bene e del male”.110 Lopez invita a non banalizzare, però, il pensiero di Emerson, per il quale ”evil and sin occupy a place in his thought that is significantly more complicated and comprehensive”.111 Pur sfidando la morale tradizionale, effettivamente in questo caso 107 A. Scurati, Guerra, cit., p. vii. U. Curi, Pensare la Guerra, cit., p. 12. 109 Ivi, p. 13. 110 Stack sottolinea che l’uso poco chiaro del termine “evil” sia da parte di Emerson che, successivamente, da parte di Nietzsche, ha creato parecchi problemi di interpretazione della loro filosofia. G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 232. L’idea che riguarda il valore del male, delle tendenze immorali e degli impulsi della vita è per Stack la somiglianza più evidente e meno riconosciuta tra Emerson e Nietzsche. L’idea di Nietzsche, secondo cui non vi è più assoluta distinzione tra bene e male, si troverebbe già nelle riflessioni di Emerson sui concetti tradizionali di moralità, per il quale ciò che la società reputa “buono” non è spesso tale e viceversa. Come per Emerson, così anche per Nietzsche “the plant ‘man’ has grown vigorously not by virtue of tender care, but under conditions of pressure and danger”. Ivi, pp. 29-31. 111 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 109. 108 43 Emerson sembra limitarsi, come sottolinea Lopez, ad affermare che il male fa parte dell’esperienza e che possiamo volgerlo a nostro favore: “We must find a resource in every moment - in every moment of defeat. Power lies not in assertions in the void but in constant acts of recovery, in bending forward with the causes of evil to make them work for us”.112 Del resto già gli Stoici, secoli prima, parlavano del bisogno di accettare il male perché indispensabile all’armonia del tutto: “Anche il male nasce in certo modo secondo la ragione della natura e, per così dire, non nasce senza utilità per il tutto: altrimenti non ci sarebbero i beni”.113 Per Emerson, dunque, la guerra, pur avendo i suoi lati negativi e le sue miserie, ha qualcosa in sé, un “principio attivo”, se così possiamo chiamarlo, che la rende interessante e non totalmente deprecabile. Anche se Emerson non avesse citato esplicitamente Eraclito, come invece fa nello scritto ”Harvard Commemoration Speech” – “The old Greek Heraclitus said, ‘War is the Father of all things’” (HCom 11.341 13) - il rimando al filosofo greco non sarebbe passato inosservato, anche perché la somiglianza fra alcuni suoi frammenti e le affermazioni di Emerson è evidente: Polemos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi. (D22 B53) 114 Bisogna però sapere che la guerra è comune (a tutte le cose), che la giustizia è contesa e che tutto accade secondo contesa e necessità. (D22 B80) L’armonia nascosta vale più di quello che appare. (D22 B54) Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dell’aroma di ognuno di essi. (D22 B67) Per Eraclito è nella tensione e nella lotta che i singoli elementi acquistano la loro particolarità e singolarità, e le differenze e i contrasti non devono essere annullati perché determinano armonia e generano vita. Emerson sembra essere in totale accordo con il filosofo greco e, in 112 Ibidem. Crisippo, in Plutarco, De Stoicorum Republica, cit. in C. Ciancio, G. Ferretti, A. Pastore, U. Perone, La Filosofia, i Testi, la Storia, vol. I, Dalle origini alla Scolastica, Sei, Torino, 1996, p. 288. 114 Ivi, p. 53, così come le successive tre citazioni. 113 44 relazione ai suoi contemporanei, anche con Hegel, per il quale la guerra non ha soltanto un carattere di necessità e inevitabilità, ma ha anche un alto valore morale: La guerra non è da considerare come male assoluto e come un’accidentalità meramente esterna [...]. Come il movimento dei venti, la guerra preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole, come i popoli una pace durevole o addirittura perpetua.115 Se e’ vero, dunque, che durante i periodi di pace la vita civile si espande, Hegel è altrettanto convinto che si crei anche un ristagno, quasi che la vita si meccanizzasse, si irrigidisse, si impoverisse; la guerra evita invece tutto ciò, eccitando le energie di un popolo e generando movimento. La somiglianza con Hegel sembra porre Emerson dalla parte dei fautori della guerra in contrasto con coloro che auspicavano la pace, e in particolare l’ultima espressione utilizzata da Hegel, “pace perpetua”, chiama in causa direttamente Kant, che fa della pace perpetua lo scopo e il titolo di una sua importante opera.116 Tuttavia, proprio l’articolata riflessione di Kant sulla guerra e sulla pace mostra elementi utili a chiarire la posizione di Emerson, che appare meno classificabile di quanto si possa apparentemente pensare. Pur auspicando la pace tra le nazioni, Kant stesso riconosce –al pari di Emerson- un’importanza educativa fondamentale alla dimensione del conflitto: L’uomo vuole la concordia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia. L’uomo vuole vivere comodamente e piacevolmente, ma la natura vuole che egli esca dallo stato di pigrizia e di soddisfazione inattiva, affronti dolori e fatiche per inventare ancora i mezzi onde liberarsi con la sua abilità anche da essi. Gli impulsi naturali che lo spingono a ciò, le fonti della insocievolezza e della generale rivalità sono causa di molti mali, ma questi però spingono a nuova tensione di sforzi, a un maggior sviluppo delle disposizioni naturali, e quindi rivelano l’ordine di un Saggio Creatore e non la mano di uno spirito maligno che abbia guastato o rovinato per gelosia la magnifica opera dell’universo.117 Kant, però, al contrario di Emerson, opera una netta distinzione tra il concetto di guerra e quello di conflitto: Per Kant bisogna distinguere tra guerra e conflitto. La guerra è solo una forma di conflitto: la forma illegittima, contraria al diritto, alla morale, alla ragione e alla destinazione dell’uomo (al suo scopo finale oggettivo). Il conflitto invece è una componente essenziale della vita umana, o anzi della vita in generale, perché è ciò che la 115 F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, par. 324, a cura di G. Marini, Laterza, Bari, 1999, p. 257. I. Kant, Per la Pace Perpetua, Rizzoli, Milano, 2004. 117 I. Kant, Scritti Politici e di Filosofia della Storia e del Diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Utet, Torino, 1965, p. 128. 116 45 mantiene attiva, reattiva e in movimento; il termine indica un insieme di rapporti e interazioni che hanno dunque nel loro insieme, e come tali, effetto e significato positivo, anche se includono momenti di opposizione e negatività. 118 Nell’opera Il conflitto delle Facoltà, Kant traccia chiaramente la differenza tra conflitto e guerra, tra antagonismo e ostilità, tra conflitto legittimo e illegittimo: Questo antagonismo, cioè questo conflitto di due partiti uniti tra loro in vista di uno scopo finale comune (concordia discors, discordia concors), non é dunque una guerra, cioè una discordia sorta dall’antitesi degli intenti finali a riguardo del mio e del tuo nel campo dell’erudizione, i quali consistono, come nel campo politico, nella libertà e nella proprietà. 119 Kant, dunque, considera la guerra, oltre come un “massimo male”, anche un fattore positivo di pungolo dello sviluppo umano, solo però in quanto espressione di una forma di conflitto.120 Parlando di “insocievole socievolezza”, Kant sembra mettere in evidenza – e in questo punto la somiglianza con Emerson è evidente - la “ragione antropologica (psicologico - sociale) della guerra”, e l’importanza di un antagonismo che costringe gli uomini a sviluppare i propri talenti e le proprie disposizioni naturali.121 Emerson non sembra distinguere chiaramente, nei passi finora analizzati, la guerra dal conflitto, ma ciò che appare invece chiaro è la sua ferma convinzione che l’individuo possa potenziarsi soltanto attraverso un disciplinato confronto con il reale doloroso, avvenga esso tramite qualsiasi forma di lotta; come afferma Lopez, per Emerson ”everything of value comes not in retreat or in utopian isolation but in specific moments of conflict or war”.122 118 G. Cunico, “Pace e Storia nel Pensiero di Kant”, in A. Pieretti (a cura di), La Filosofia della Nonviolenza, Cittadella Editrice, Assisi, 2006, p. 18. 119 I. Kant, Il Conflitto delle Facoltà, 1798, trad. it. a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia, 1994, p. 35. 120 La sua concezione, spiega Cunico, si differenzia radicalmente dalla concezione hegeliana del conflitto, per il quale la sua inevitabilità porta ad una “relativizzazione e giustificazione anche delle sue forme e delle sue dimensioni illegittime”. G. Cunico, “Pace e storia nel pensiero di Kant”, cit., p. 20. 121 Ibidem. 122 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 76. 46 2.2.3. In Guerra con Tutto Emerson sembra voler sperimentare appieno la “insocievolezza” di cui parla Kant, ingaggia così una guerra totale, su più livelli, svelando uno scenario bellico infinito dove tutto e tutti sono in lotta. Alcuni esempi: The war [between Conservatism and Innovation] rages not only in battle-fields. (Con 1.295 11) How frivolous is your war against circumstances. (LT 1.280 6) As soon as there is any departure from simplicity and attempt at halfness, or good for me that is not good for him...my neighbor' s eyes no longer seek mine; there is war between us. (Comp 2.111 17) Genius delights only in statements which are themselves true...which...do daily declare fresh war against all falsehood and custom... (Schr 10.285 27) It seemed a war between intellect and affection. (LLNE 10.325 20) The German poet Goethe...declared war against the great name of Newton. (LLNE 10.338 10) Plutarch's grand perceptions of duty lead him...to a fight with fortune. (Plu 10.314 20) Come già notato da Packer, gli scritti degli anni 1837 – 1841 sono davvero un esempio di come Emerson fosse in guerra con tutto.123 Le conferenze di quegli anni - soprattutto “The American Scholar” del 1837, “The Divinity School Address” del 1838 e “The Method of Nature” del 1841- mostrano concetti tra essi simili, e un Emerson pronto a sovvertire l’ordine morale esistente pur di provocare un rinnovamento nella società. “The American Scholar”, in particolare, può essere considerata una vera e propria dichiarazione di guerra al passato e alla società, portata avanti dallo studioso che indossa per l’occasione le vesti di un vero e proprio soldato, perché anche coloro che sono impiegati in occupazioni sedentarie possono sperimentare, impegnandosi in battaglie intellettuali, il coraggio del guerriero.124 Lo studioso è chiamato a lottare per far sì che la mente degli uomini sia risvegliata e la cultura sia riscattata dal passato; egli è chiamato ad essere colui che, distinguendo tra ricordo e 123 B. Packer, Emerson’s Fall, cit., p. 94. “In an age that Emerson thought lacking in a ‘literature of heroism’, his own writings were a constant call to bravery”. E. Stessel, “The Soldier and the Scholar: Emerson’s Warring Heroes”, Journal of American Studies 19, August 1985, pp. 165-170. 124 47 creazione, porterà alla liberazione dall’autorità passata. Lo studioso, in definitiva, è equiparato a un vero e proprio condottiero, che deve distinguersi dalla moltitudine e portare speranza: ”While the multitude of man degrade each other, and give currency to desponding doctrines, the scholar must be a bringer of hope, and must reinforce man against himself”;125 “Inaction is cowardice, but there can be no scholar without the heroic mind”.126 Il percorso di crescita individuale, riconosce Emerson in “The Divinity School Address”, non è mai facile da compiere e spaventa i più, ma è assolutamente necessario confrontarsi con le avversità per prendere coscienza di sé: “There are resources in us on which we have not drawn. There are men who rise refreshed on hearing a threat; men to whom a crisis which intimidates and paralyses the majority - demanding not the faculties of prudence and thrift, but comprehension, immovableness, the readiness to sacrifice - comes graceful and beloved as a bride”.127 Emerson porta l’esempio di Massena, citato da Napoleone, il quale non sarebbe diventato il condottiero che è stato se non si fosse confrontato con forze avverse: “He [Massena] was not himself until the battle began to go against him; then, when the dead began to fall in ranks around him, awoke his powers of combination, and he put on terror and victory as a robe. So it is in rugged crises, in unweariable endurance, and aims which put sympathy out of question, that the angel is shown”.128 L’uomo diventa, quindi, davvero tale dopo una lunga lotta dalla quale viene plasmato: “An individual man is a fruit which it cost all the foregoing ages to form and ripen [..]. He too is a demon or god thrown into particular chaos, where he strives ever to lead things from disorder to order”.129 125 R. W. Emerson, “The Method of Nature”, in R. W. Emerson, Emerson’s Essays and Lectures, cit., p. 60. R. W. Emerson, “The American Scholar”, ivi, p. 116. 127 R. W. Emerson, “The Divinity School Address”, ivi, p. 90. 128 Ibidem. 129 R. W. Emerson, “The Method of Nature”, ivi, p. 122. 126 48 Emerson si mostra su questo concetto in totale accordo con l’idealismo tedesco, ed è interessante riportare un passo in cui Guido de Ruggiero descrive la struttura dialettica dell’io in Fichte, passo che potrebbe essere applicato anche ad Emerson: La struttura dialettica dominante nell’idealismo post-kantiano se ridotta in formule assomiglia ad una vano gioco di concetti, ma rifusa nell’esperienza viva di ciascuno di noi essa coglie l’intima essenza della nostra vita spirituale.[...] L’attività dell’io è ritmica, e si svolge in virtù dell’opposizione che le è immanente e che la propria forza espansiva spinge a sorpassare. Provatevi a pensare qualunque atto mentale, senza opposizione, senza critica, senza riflessione su se stesso: esso è destinato ad esaurirsi e a disperdersi. La natura del nostro spirito è tale, che ogni dire esige un contraddire, ogni tesi suscita un’antitesi, non come punto di arresto o come un disfare quel che s’è fatto, ma come un limite fecondo che fa fermentare gli elementi vivi della tesi, permeandoli di sé. [...] Ciò che s’è detto per l’attività teoretica vale anche per l’attività morale, estetica, religiosa ecc. Dovunque lo spirito si attua, esso vive di opposizione e di lotta, e le sue affermazioni, per essere veramente tali, debbono essere vittorie. [...] Nella tesi vi è l’esordio spontaneo, ma ancora malcerto e circonfuso dal mistero; nelle antitesi il dubbio, l’obiezione, la negazione sconfortante, tutto l’intimo travaglio della riflessione e della critica; nella sintesi la riconquista, la sicurezza del possesso.” Ogni traguardo, però, è il punto di partenza per una nuova lotta, perché l’individuo è in qualche modo una sintesi limitata dell’attività totale dello spirito.130 Emerson non incita l’uomo a lottare soltanto contro l’esterno ma anche contro se stesso, e lo fa principalmente in “Self-reliance”, un saggio che può essere letto come una vera e propria dichiarazione di guerra nella vita privata, un invito alla lotta per l’affermazione personale, una lotta nella quale però, prima di tutto, dobbiamo affermare noi stessi su noi stessi vincendo tentazioni e paure. Tramite la ricerca e il perseguimento della propria legge morale, l’uomo deve vincere i suoi nemici interiori. Duncan afferma: “If a man has the power and therefore the responsibility to obey, then his enemies - the true forces of evil with which he must contend- are never external, but always within himself. [...] The acquisition of moral discipline is through struggle”.131 Rimanendo difatti all’interno della terminologia bellica, Emerson invita l’uomo ad essere un soldato che dichiara guerra a se stesso: “Let us enter in the state of war, and wake Thor and Woden, courage and constancy in our Saxon breasts. [...] We are parlour soldiers. The rugged battle of fate, where strength is born, we shun”.132 L’avversario, quindi, non va ricercato necessariamente nel mondo circostante, perché all’interno dell’animo umano vi sono delle battaglie morali non soltanto degne di essere 130 G. De Ruggiero, Storia della Filosofia. L’età del Romanticismo, Laterza, Bari, 1968, vol. I, pp. 175-176. J. L. Duncan, The Power and Form of Emerson‘s Thought, University Press of Virginia, Charlottesville, 1973, pp. 80-81. 132 R. W. Emerson, “Self -Reliance”, in R. W. Emerson, Emerson’s Essays and Lectures, cit., pp. 273, 275. 131 49 combattute, ma prioritarie sulle altre. E’ questo un aspetto fondamentale di Emerson, che permette di leggerlo in un’ottica meno guerrafondaia e più introspettiva, spesso però difficilmente da cogliere proprio a causa della terminologia bellica con la quale essa viene presentata. Emerson, a dispetto di ciò che possa volere il lettore, più che nel distinguere il piano reale dal metaforico appare interessato, prima di tutto, a corteggiare qualsiasi nemico, a ricercare lo scontro e qualsiasi occasione che permetta di acquisire forza: ogni antagonismo va vissuto non come una sventura, ma come un’opportunità per creare energia. 2.4 Antagonismo Creativo: una Guerra (tra Opposti) che Genera Forza La guerra, come principio e stile di vita, può e deve essere ripudiata perché appartenente allo stadio primitivo dell’uomo, che deve necessariamente evolversi. Ciò che non può essere sacrificato, neanche al fine del raggiungimento della pace, è il vigore, la forza, l’energia che si genera e scaturisce dallo scontro di due forze. L’uomo, se non è “attaccato” da qualcosa o da qualcuno, non ha la possibilità di “reagire”, di “armarsi” contro il “nemico” e dunque di “mettere in campo” le sue energie, che devono venire stimolate e “testate” in scontri che diano all’uomo la consapevolezza delle sue capacità. Sull’antagonismo come fonte di vita Michael Lopez basa la sua visione della retorica della guerra e del potere in Emerson, e nel suo libro parla, già dal titolo, di Creative Antagonism. Lopez analizza molto dettagliatamente la retorica del potere in Emerson - tematica a cui ci siamo soltanto avvicinati e su cui torneremo presto - di cui la retorica della guerra è soltanto una parte. La radice comune è però già evidente, e riconducibile proprio alla centralità del conflitto e alla sua capacità di generare “some form of power” che va oltre le potenzialità e l’essenza dei singoli elementi in lotta: 50 It is only, Emerson insists, within the limits, only from within the pain, the poverty of the real world, that we can find what the soul always seeks: some form of power. Only that real world, that world against which we must react, is capable, as Emerson would say, of calling forth all our latent powers. [...] Each of his mayor essays can be read as a fable of the self, the soul, the mind, man or humankind in the process of struggling for, gaining, losing, or rewinning some form of power. The Emersonian universe is thus, of necessity, a “stupendous antagonism”, a ceaseless play of conflict and reaction.133 L’antagonismo, per Emerson, è insito in natura e assolutamente necessario in ogni azione e attività; il termine è diffusamente utilizzato in vari contesti: There are two forces in Nature, by whose antagonism we exist. (FSLN 11.231 17) Polarity, or action and reaction, we meet in every part of nature; in darkness and light, in heat and cold [...]. An inevitable dualism bisects nature [...]. The reaction, so grand in the elements, is repeated within these small boundaries. (Comp 2.96 16) Nature delights to put us between extreme antagonisms... (SS 7.15 12) The world stands by balanced antagonisms. (PLT 12.53 26) We write from aspiration and antagonism... (Prd1 2.221 13) Man is...a stupendous antagonism... (F 6.22 13) Nature is upheld by antagonism. (CbW 6.254 27) If we rise to spiritual culture, the antagonism takes a spiritual form. (F 6.20 9) L’antagonismo è senza dubbio faticoso da sostenere, ma è anche “stupendo”, e soprattutto implica che, ad ogni forza che ci attacca, possiamo contrapporne una che ci permette di vincerla o quantomeno di rimanere in uno stato di relativo equilibrio. Su questa polarità la natura e l’esistenza trovano una sorta di armonia, e grazie a questa continua tensione si generano nuove energie: “We must have an antagonism in the tough world for all the variety of our spiritual faculties” (MR 1.236 22), “Contrast, change, interruption, are necessary to new activity” (FRep 11.533 6). Emerson era molto attratto dal concetto di polarità diffuso nella letteratura romantica, ed era interessato, come anche Coleridge e Goethe, al dinamismo polare come possibilità di riconciliazione tra opposti: ”Like Coleridge, Emerson understood polarity not as a simple dualism but rather as a relation between two opposing elemental forces that together 133 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 4. 51 constitute an underlying, tensive, and vital unity”.134 L’interesse per la polarità, condiviso dai romantici, viene in realtà da lontano, in quanto già Eraclito affermava: “Congiungimenti sono intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose”.135 Il divenire e il mutamento, quindi, non sono che manifestazione di unità, e il tutto si realizza attraverso contrasti, pluralità, differenze. Cruciale per comprendere appieno il concetto di antagonismo in Emerson è a mio avviso il saggio “Compensation”, in cui si afferma l’importanza del dualismo nell’esistenza, un dualismo però dove i due opposti sono necessari e, alternandosi, raggiungono una riconciliazione. Anche se non tutto è perfetto e positivo, l’elemento che noi riteniamo negativo è essenziale all’equilibrio generale e non può essere eliminato: Every excess causes a defect, every defect an excess. Every sweet hath its sour, every evil its good [...]. For every thing you gain, you lose something. [...] The value of the universe contrives to throw itself into every point. If the good is there, so is there the evil; if the affinity, so the repulsion; if the force, so the limitation. (Comp 2.96 38) L’elemento antagonista non solo non può essere rimosso, ma non deve essere annullato, perché è proprio grazie alla sua opposizione che si genera forza: Our strength grows out of our weakness. The indignation which arms itself with secret forces does not awaken until we are pricked and stung and sorely assailed. A man is always willing to be little. Whilst he sits on the cushion of advantages, he goes to sleep. When he is pushed, tormented, defeated, he has a chance to learn something; he has been put on his wits, on his manhood; he has gained facts; learns his ignorance. In general, every evil to which we do not succumb is a benefactor. As the Sandwich Islander believes that the strength and valour of the enemy he kills passes into himself, so we gain the strength of the temptation we resist. (Comp 2.98 35) Rimanendo nell’ambito del romanticismo, anche la filosofia della natura di Schelling, che fortemente influenzò il trascendentalismo americano, pone alla base dell’origine della vita la lotta permanente tra le forze: ogni fenomeno è l’effetto di una forza limitata soggetta all’azione di una forza contraria. Se le forze opposte sono in equilibrio si hanno i corpi non 134 W. Rossi, “Emerson, Nature, and Natural Science”, in Myerson J., A historical Guide to Ralph Waldo Emerson, cit., p. 136. I modelli polari utilizzati da Emerson non erano soltanto di origine letteraria, ma erano stati acquisiti anche dalla scienza: “Due in part to the availability of newly translated writings of German nature philosophers and naturalists, in the late 1840s and 1850s polarity was widely employed as explanatory principle in anglo-American science, particularly in the idealist biology of Richard Owen and Edward Forbes, who Emerson met in England, and in the work of Harvard scientists Asa Gray and Jefferies Wyman”. Ivi, p. 138. 135 Eraclito, frammento D22 B10, cit. in C. Ciancio, G. Ferretti, A. Pastore, U. Perone, La filosofia, i Testi, la Storia, cit., p. 52. 52 viventi; se l’equilibrio viene rotto e ristabilito si ha il fenomeno chimico, se l’equilibrio non viene ristabilito e la lotta tra le forze è permanente, si ha la vita.136 L’antitesi di due forze ne genera dunque una terza superiore e soprattutto trascendente alle altre due, ed è ciò su cui pone l’accento Kenneth Burke, che riconduce la dottrina emersoniana della compensazione ad una variante della dialettica hegeliana, la quale si basa sulla competizione cooperativa.137 Nella trascendenza dialettica, scrive Burke, il principio di trasformazione opera in termini di “oltre”: “Insofar as things here and now are treated in terms of a ‘beyond’, they thereby become infused or inspired by the addition of a new or further dimension”.138 Emerson, quindi, tramite la dottrina della compensazione, vuole invitarci a guardare oltre l’apparente dualismo degli elementi, e a trovare nel mondo comune significati diversi, non tangibili, riconducibili ad un regno trascendente.139 La teoria della compensazione presenta una forte somiglianza con la teoria dell’universo riconducibile alla legge del Tao, secondo cui le due forze che governano l’universo, Yin e Yang, sono forze contrapposte ma allo stesso tempo complementari, il cui antagonismo non è sterile ma, al contrario genera movimento e vita: Se Ying e Yang vengono squilibrate si rischia la malattia, la calamità, la morte, se viceversa sono bilanciate portano vitalità e benessere a ogni cosa. [...] Pertanto nel movimento continuo (impermanenza dello stato delle cose) fra gli elementi che circondano la sfera dell’eterno Tao, l’equilibrio e l’armonia dell’insieme non devono mai essere infranti.140 La filosofia di Lao-tzu è una filosofia del divenire, secondo cui l’unica cosa immutabile è la legge del mutamento, cioè del Tao,141 ed è proprio il continuo mutamento a cui Emerson è interessato, poiché senza di esso, come abbiamo visto, l’universo non esisterebbe e tutte le forme di potere non verrebbero generate. Mi permetto di insistere ancora 136 Schelling, Idee, cit. in N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e Testi della Filosofia, vol. III, Paravia, Torino, 1996, p. 110. 137 K. Burke, Language as a Symbolic Action, University of California Press, Berkley, 1966, p. 189. 138 Ibidem. 139 Ibidem. 140 R. D. Villalba, Tang Su Do, Edizioni Mediterranee, Roma, 1991, p. 15. 141 G. Mancuso (a cura di), Lao-Tzu, Newton, Roma, 1995, p. 20. 53 un po’ sulla teoria del Tao perché, a mio parere, le somiglianze con la filosofia di Emerson non terminano qui. Nel libro di Daniel Villalba, un libro dedicato alle arti marziali, si legge: Questo simbolo [il tao], con la sua filosofia, portò a far capire agli antichi maestri di arti marziali il “principio degli opposti”: la violenza si combatte con la nonviolenza, il duro si sconfigge con il morbido, i movimenti circolari si contrappongono a quelli lineari e viceversa.142 Ciò potrebbe aiutarci a comprendere la relazione che intercorre tra guerra e pace in Emerson, una relazione che, in alcuni tratti, si avvicina alla visione orientale del problema e si allontana da quella più tipicamente occidentale che vede i concetti di guerra e di pace opporsi staticamente fino all’annientamento dell’uno o dell’altro, senza alcuna possibilità di convivenza o speranza di generare un contrasto proficuo. Ciò che può essere utile a noi, ai fini di questa discussione, è il fatto che nella visione del Tao l’armonia del cosmo può derivare soltanto dall’avvicendarsi delle due forze opposte e non dalla soppressione di una delle due; Yin e Yang sono unite da un legame che le rende inscindibili, perché ognuna di esse contiene in minima parte l’essenza dell’altra; nel nostro caso specifico, quindi, la guerra conterrebbe in sé anche un po’ di pace e la pace, viceversa, avrebbe in sé un po’ di guerra. Pur essendo molto antica, in occidente la teoria del Tao è stata presa in considerazione ed applicata allo studio della guerra e della pace solo in tempi relativamente recenti da Johan Galtung, che nel suo libro Pace con Mezzi Pacifici la utilizza per esporre la teoria sulla pace portata avanti dai Peace Studies:143 142 R. D. Villalba, Tang Su Do, cit., p. 15. Johan Galtung è uno dei fondatori dell’ International Peace Research Institute sorto ad Oslo nel 1959, e uno dei primi studiosi a rendere il campo dei Peace Studies una vera e propria disciplina accademica. E’ interessante notare come quelli che oggi chiamiamo Peace Studies hanno avuto origine proprio negli Stati Uniti in seguito alla guerra di secessione: “Student interest in what we today think of as peace studies first appeared in the form of campus clubs at U.S. colleges in the years immediately following the U.S. Civil War. A similar movement appeared in Sweden in the last years of the 19th century. However, these were student-originated discussion groups, not formal courses included in college curricula. The first academic program in peace studies was not to develop until 1948, and then only at Manchester College in Indiana, a small liberal arts college affiliated with the Church of the Brethren. It was not until the late 1960s that student concern about the Vietnam War forced ever more universities to offer courses about peace, whether in a designated peace studies course or as a course within a traditional major. Growth in the number of peace studies programs was to accelerate during the 1980s, as students became more concerned about the prospects of nuclear war. As the Cold War ended, peace studies courses began to spend less time on international conflict and more time on general issues of violence”. “Peace and conflict studies”. In http://en.wikipedia.org/wiki/Peace_and_conflict_studies. 143 54 Consideriamo la pace a fronte della violenza. Ovviamente ognuna delle due parole può essere definita come la negazione dell’altra ed è possibile costruire così un discorso logico, ma l’epistemologia taoista fornisce un’intuizione migliore evidenziando la violenza nella pace (per esempio, l’eccesso di passività) e la pace nella violenza (per esempio, l’essere attivi). Lo yin è presente nello yang e lo yang nello yin...e così via, ad infinitum.144 Galtung sottolinea inoltre la pericolosità di una visione che oppone nettamente guerra e pace, ponendo l’accento sul fatto che “le dicotomie dovrebbero essere maneggiate con cura”, e soprattutto ribadendo che la dicotomia intesa in senso manicheo genera una relazione sterile, non dinamica, che considera la lotta come un conflitto dove una forza prevale necessariamente sull’altra; al contrario, “l’opposizione o la contraddizione yin/yang è dotata di molta più vita. Yin/yang sono reciprocamente opposti, ma nel senso della complementarietà, di essere l’uno nell’altro, non nel senso dell’uno che vince sull’altro”.145 Pur non potendo certamente annoverare Emerson tra i fondatori dei Peace Studies, potremmo in una certa misura affermare che ne sia stato un precursore. Anche se non formalmente, nella sua dottrina della compensazione e nell’importanza rivestita dall’antagonismo creativo si può rintracciare un’intuizione che i Peace Studies avrebbero posto alla base dei loro studi. 2. 3: Peace Negli scritti di Emerson la parola “peace” compare in misura nettamente inferiore in confronto al termine “war” (101 contro 296), tuttavia il suo utilizzo è vario e articolato. Per Emerson, difatti, la parola “pace” non ha un’accezione assoluta, ma acquista diversi significati e ricopre ruoli sia positivi che negativi in base al contesto in cui viene citata. La pace è spesso intesa in senso universale, come uno stato a cui l’umanità aspira e che sicuramente arriverà quando essa avrà raggiunto un grado accettabile di civilizzazione: 144 145 J. Galtung, Pace con Mezzi Pacifici, (tit. or. Peace by Peaceful Means, 1996) Milano, Esperia, 2000, p. 31. Ivi, p. 32. 55 A universal peace is as sure as is the prevalence of civilization over barbarism...(War 11.161 18) It is not a great matter how long men refuse to believe the advent of peace.. (War 11.161 17) That the project of peace should appear visionary to great numbers of sensible men is very natural. (War 11.161 22) This is a poor, tedious society of yours, [sensible men] say; we do not see what good can come of it. Peace! why, we are all at peace now. (War 11.162 2) Emerson stesso spera nell’avvento della pace che ritiene, in generale, più auspicabile dello stato di guerra e segno distintivo di una società civile: The real and lasting victories are those of peace and not of war. (Wsp 6.225 6) A nation that has no clothing...no arts of peace...we call barbarous. (Civ 7.19 16) The multiplication of the arts of peace...fills the State with useful and happy laborers. (Civ 7.23 4) [Our society] is a standing army, not so good as a peace. (SL 2.137 6) Anche quando sosterrà la guerra civile in quanto mezzo indispensabile per l’abolizione della schiavitù, Emerson non smetterà di credere nell’avvento della pace, fine ultimo a cui la guerra che sta per scoppiare dovrà tendere: The aim of the war on our part is...to destroy the piratic feature in [Southern society] which makes it our enemy only as it is the enemy of the human race, and so allow its reconstruction on a just and healthful basis. Then...Nature and trade may be trusted to establish a lasting peace. (EPro 11.325 14) Why in the name of common sense and the peace of mankind is not [abolition] made the subject of instant negotiation and settlement? (FSLC 11.208 12) Tuttavia, ancora molto resta da chiarire. Apparentemente, l’interesse per la guerra che Emerson dimostra sembra incompatibile con la speranza che egli ripone nell’avvento della pace. Emerson sembra desiderare uno stato di guerra per far sì che l’uomo migliori e prenda consapevolezza delle sue forze, ma allo stesso tempo auspica una società civile che si liberi dal costume barbaro della guerra e possa vivere finalmente in pace. Evidentemente, i concetti di guerra e di pace a cui Emerson si riferisce non sono quelli a cui siamo abituati, e tanto meno sono così inconciliabili come saremmo portati a pensare. La guerra e la pace sembrano avere, in effetti, più punti di contatto, poiché essi vengono spesso nominati insieme e in alcuni casi sembrano addirittura essere interscambiabili: 56 The triumphs of peace have been in some proximity to war. (Pow 6.71 10) It is impossible to pay no regard...to war and peace, new events. (Prch 10.232 1) War and peace thus resolve themselves into a mercury of the state of cultivation. (War 11.166 24) Cannot peace be, as well as war? (War 11.160 19) Se dove c’è guerra può esserci pace e se, come si afferma in “War”, gli stessi uomini impegnati finora nella guerra possono essere trasferiti nella causa della pace (“The manhood that has been in war must be transferred to the cause of peace, before war can lose its charm, and peace be venerable to men” (War 11.171 18)), evidentemente i due concetti hanno una radice comune e condividono qualcosa di cruciale. Emerson, quasi intuendo la confusione del lettore di fronte a tali affermazioni, spiega cosa egli stesso intende per “pace” e cosa essa ha in comune con la guerra. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la pace per lui non dovrebbe essere praticata da uomini diversi da coloro che praticano la guerra, che scelgono quindi la pace perché remissivi e deboli e inadatti al campo di battaglia: In reply to this charge of absurdity on the extreme peace doctrine, as shown in the supposed consequences, I wish to say that such deductions consider only one half of the fact. They look only at the passive side of the friend of peace...they quite omit to consider his activity. (War 11.168 12) Nor...is the peace principle to be carried into effect by fear. (War 11.171 12) The peace of society is often kept, because, as children say, one is afraid and the other dares not. (Prd1 2.238 12) La pace non deve essere un mezzo per perpetuare le ingiustizie e per coprire l’inattività di una società senza energia e priva di valori. In questo caso - Emerson lo afferma chiaramente più volte - la guerra è sicuramente preferibile alla pace: War devastates the conscience of men, yet corrupt peace does not less. (MMEm 10.423 12) If peace is sought to be defended or preserved for the safety of the luxurious and the timid, it is a sham, and the peace will be base. War is better, and the peace will be broken. (War 11.174 10) La pace, per essere instaurata e mantenuta, ha bisogno di persone coraggiose, proprio perché richiede l’affermazione e la difesa di valori e principi che vengono continuamente messi in discussione e minacciati; una società di uomini codardi, quindi, non sarebbe mai in grado di portarla avanti: 57 No man, it may be presumed, ever embraced the cause of peace and philanthropy for the sole end and satisfaction of being plundered and slain. (War 11.168 18) The cause of peace is not the cause of cowardice. (War 11.174 6) If peace is to be maintained, it must be by brave men... (War 11.174 11) Emerson sembra, ancora una volta, intuire una distinzione che sarebbe stata formulata, a distanza di più di un secolo, dai Peace Studies. In base alla distinzione operata da Johan Galtung, si possono delineare difatti due tipologie di “pace”: una pace negativa, semplicemente sinonimo di “assenza di guerra” ma non portatrice di giustizia, e una pace positiva che si riferisce, invece, ad una realtà che includa non solo l’assenza di guerra, ma anche l’assenza di strutture sociali ed istituzioni non egalitarie e discriminatorie; una condizione in cui non vi sia, dunque, nessun tipo di violenza: né culturale, né strutturale.146 Nell’Encyclopedia of Violence, Peace, and Conflict, poi, viene chiaramente specificato che mentre la pace negativa ha come suo unico scopo quello di evitare la guerra, la pace positiva deve includere nei suoi fini anche la costruzione e l’educazione alla pace: Johan Galtung's conflict triangle works on the assumption that the best way to define peace is to define violence, its antithesis. It reflects the normative aim of preventing, managing, limiting and overcoming violence [...]. Structural violence is indirect violence caused by an unjust structure and is not to be equated with an act of God [...]. Positive peace refers to the additional absence of structural and cultural violence. Three normative aims of Peace Studies are peacekeeping, peace building (e.g., tackling disparities in the distribution of world wealth) and peacemaking (e.g., education). Peacekeeping falls under the aegis of negative peace, whereas efforts toward positive peace involve elements of peace building and peacemaking.147 E’ interessante notare come in una conferenza dal titolo “The Young American” del 1844 Emerson utilizzi gli stessi verbi presenti nell’Encyclopedia of Violence, Peace, and Conflict, dove si parla appunto di “peacekeeping” e “peacemaking”: “The historian will see that...trade...makes peace and keeps peace...“ (YA 1.378 22). Emerson sembra rientrare pienamente nel concetto di pace positiva, perché dà molta importanza sia alla costruzione della pace che all’educazione alla pace, mentre non reputa sufficiente il semplice mantenimento dello stato di pace. Con parole che suonano tremendamente attuali, Emerson 146 Ivi, p. 23. L. Kurtz (ed.), Encyclopedia of Violence, Peace, and Conflict, vol. 2, San Diego, Academic Press, 1999, p. 305. 147 58 nota come un’apparente pace celi un imponente apparato di guerra, segno di conflitti sopiti ma mai risolti che minacciano pericolosamente di scoppiare: “One is scared to find at what a cost the peace of the globe is kept” (War 11.163 15). Emerson non è interessato quindi ad una falsa pace mantenuta per paura della guerra, ma ad una società che sia in grado di gestire i conflitti in maniera pacifica. Kant, a tal proposito, afferma similmente: “Nessun trattato di pace deve essere ritenuto tale se stipulato con la tacita riserva di argomenti per una guerra futura. Infatti sarebbe in tal caso solo una semplice tregua, una sospensione delle ostilità, non una pace, che significa fine di ogni ostilità”.148 Ai fini della costruzione della pace, Emerson reputa importante lo sviluppo del commercio, che considera – ai nostri occhi forse un po’ troppo ingenuamente - uno strumento di unione tra popoli, un modo per conoscere civiltà diverse e collaborare con esse:149 “Trade, a plant which grows wherever there is peace” (YA 1.377 7), “Trade...is the antagonist of war” (War 11.157 1), “Trade is a very intellectual force” (YA 1.377 26), “Then...the cause of war being removed, Nature and trade may be trusted to establish a lasting peace”150 (EPro 11.325 12). La costruzione della pace deve essere inevitabilmente preceduta dall’educazione alla pace, ed Emerson, a suo modo, si occupa anche di questo. Come ormai sappiamo, il vero cambiamento per Emerson deve partire dall’individuo, e prima di tutto è nell’interiorità che si affermano i principi e si lotta contro la paura; soltanto dopo la società potrà essere riformata. Come accade nella vita collettiva, Emerson riconosce che spesso la pace anche nell’individuo viene ricercata soltanto perché considerata una “scorciatoia” per evitare i conflitti: “It is a shame to [the scholar]...if he seek a temporary peace by the diversion of his thoughts from politics or vexed questions...” (AmS 1.104 11), “The hero fears not that if he withhold the 148 I. Kant, Per la Pace Perpetua, cit., p. 49. Su questo punto Emerson si avvicina al pensiero del pacifista Thomas Grimke, il quale era convinto che la pratica del commercio creasse legami di mutua dipendenza tra le nazioni. Il commercio come strumento pacificatore, ad ogni modo, era molto diffuso anche nel pensiero illuminista. V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, cit., p. 46. 150 Emerson si riferisce qui alla guerra civile. 149 59 avowal of a just and brave act it will go unwitnessed and unloved. One knows it, -himself-, and is pledged by it to sweetness of peace” (SL 2.160 3). La pace non è qualcosa che arriva dall’alto senza che si faccia il minimo sforzo per conseguirla, ma va ricercata e, soprattutto, si raggiunge soltanto dopo aver intrapreso la strada della guerra e della lotta, una strada che porterà all’affermazione dei principi: A man is relieved and gay when he has put his heart into his work and done his best; but what he has said or done otherwise shall give him no peace. (SR 2.47 8) The moral sentiment teaches a great peace. (Prch 10.225 9) Nothing can bring you peace but yourself. (SR 2.90 3) I see not any road of perfect peace which a man can walk, but after the counsel of his own bosom. (Hsm 1 2.262 18). I thought that every time a man goes back to his own thoughts, these angels receive him, talk with him, and that, in the best hours, he is uplifted in virtue of this essence, into a peace and into a power which the material world cannot give... (FSLC 11.189 7) Per trovare la pace interiore l’uomo deve seguire il suo istinto ed affermare quindi se stesso di fronte agli altri: He who wishes to walk in the most peaceful parts of life with any serenity must screw himself up to resolution. (Prd1 2.237 12) There can never be deep peace between two spirits...until in their dialogue each stands for the whole world. (Fdsp 2.211 20) Though I am very peaceable...yet I feel called upon...to declare to you my opinion that if the Earth is yours so also is it mine. (Con 1.308 21) In “Self-reliance” si afferma che la pace è possibile soltanto se l’uomo avrà fatto del suo meglio per affermare la verità: “Nothing can bring you peace but the triumph of principles” (SR 2.90 4). La conclusione sarebbe dunque, come già accennato, che la vera pace non può prescindere dalla lotta, e secondo David Robinson proprio la frase finale di “Self-Reliance” lo suggerirebbe: “To say that ‘Nothing can bring you peace but yourself’ is to evoke quiet selfpossession. To call peace a ‘triumph of principles’ is to suggest a struggle”.151 Torniamo 151 D. Robinson, “Grace and Works: Emerson’s Essays in Theological Perspective”. In C. E. Wright (ed.), American Unitarianism, 1805-1865, Massachusetts Historical Society and Northeastern University Press, Boston, 1989, pp. 121-142. 60 dunque al punto di partenza, dove guerra e pace non si oppongono ma, come le forze Yin e Yang, sono complementari. In Emerson, quindi, la pace non fa che parte della guerra e viceversa. E’ forse per questo che i due campi semantici spesso coesistono, senza nessuna apparente contraddizione per lui. E’ forse per questo che Emerson trova naturale affermare che il miglior soldato che si possa trovare è l’uomo in cui regna la pace: “'T is the quiet, peaceable men, the men of principle, that make the best soldiers” (Cour 7.271 2). Attualizzando il discorso, dunque, la pace di Emerson dovrebbe assomigliare a quella che, secondo Curi, le società occidentali dovrebbero impegnarsi a raggiungere: una pace intesa non come cancellazione dei conflitti, ma come “lo svolgimento di una conflittualità disciplinata e finalizzata”.152 Vi è del resto una tradizione lunga secoli - sia orientale che occidentale - che passa per Anassimandro, Eraclito, Platone, giunge a Kant e arriva ad Emerson per poi continuare fino ai nostri giorni, che non condanna moralisticamente la guerra, perché riconosce “la necessità del conflitto per la strutturazione del positivo”.153 Soprattutto, una pace raggiunta con la soppressione dell’avversario non soltanto significherebbe, come afferma Platone, la fine della politica, ma non sarebbe altro che un’ennesima prova di violenza e, parafrasando la famosa affermazione di Clausewitz, non farebbe che continuare la guerra sotto altre forme. Kant stesso, pur volendo una pace perpetua, ribadisce come egli intenda la pace non come quiete assoluta, ma come garanzia di libertà, e parla di “una pace persistente in mezzo alla più vivace azione e reazione degli uomini”,154 di una pace intesa come uno stato di quiete che deve alternarsi col movimento affinché non sfoci in irrigidimento, monotonia, annullamento della vita e del pensiero.155 Non soltanto, dunque, l’antagonismo è necessario per generare energia ed evitare una pericolosa staticità, ma è l’unico mezzo che permette di dare voce all’altro senza annullarlo in 152 U. Curi, Pensare la Guerra, cit., p. 7. Ivi, pp. 36-37. 154 I. Kant, Scritti Morali, tr. it. di P. Chiodi, Torino, Utet, 1970, p. 541. 155 G. Cunico, “Pace e storia nel pensiero di Kant”, cit., p. 23. 153 61 una calma apparente. Elemento essenziale per percorrere la via della nonviolenza è difatti, come afferma Derrida, l’interrogazione dell’altro, che - pur passando per il conflitto - deve tendere alla giustizia: Interrogazione, tuttavia non teorica, problema totale, disperazione e miseria, supplica, preghiera pressante rivolta a una libertà, vale a dire, comandamento: l’unico imperativo etico possibile, l’unica non-violenza incarnata in quanto è rispetto dell’altro.156 Ma l’antagonismo di Emerson è davvero “interrogazione dell’altro”, o soltanto un mezzo che, tramite il conflitto, vuole ricondurre il mondo circostante al “sé” nel tentativo di acquisire più potere possibile? Nonostante, come afferma Stack, “there is a great need for strength of body and mind in order to withstand the storm and stress of life, to endure ‘the slings and arrows of outrageous fortune’”,157 resta da capire se Emerson voglia acquisire forza e superare le avversità a scapito dell’altro o se le sue metafore belliche siano soltanto espressione della sua esigenza interiore di sentirsi forte. Stack nota come spesso siamo portati a creare analogie tra fenomeni fisici e fenomeni mentali, e ciò “lead us to speak metaphorically of each class of phenomena in the language of the other. We tend to transfer symbols used to refer to cognitive processes to the external, natural world and we transfer terms used to describe physical phenomena to the “inner world” of consciousness”.158 Anche se ciò può essere applicato ad Emerson, non possiamo non continuare ad indagare il suo pensiero e la sua scrittura, una scrittura che sfida e allo stesso tempo, riconosce Lopez, frustra il lettore: “it is a kind of writing that, though it may be passionately wish to teach, may also deliberately frustrate the reader’s attempt to find a clear distinction between the literal and the methaphorical”.159 Non resta dunque, per rimanere nell’ambito della metafora bellica, che non darsi per vinti e perseverare nella battaglia. 156 J. Derrida, “Violenza e Metafisica”, in La Scrittura e la Differenza, Torino, Einaudi, 1971, p. 121. G. Stack, Nietzsche and Emerson: An Elective Affinity, cit., p. 151. 158 Ivi, p. 149. 159 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 128. 157 62 2.5: “Shall it be War or Shall it be Peace?” Emerson tra Guerra e Pace Nel 1838 Emerson tiene una conferenza a Boston, l’ultima di una serie di incontri sponsorizzati dall’American Peace Society, che pensa inizialmente di intitolare “The Peace Principle” e chiama invece, successivamente, “War”.160 Si tratta di un saggio cruciale, nel quale Emerson espone diffusamente le sue opinioni sull’idea di guerra e di pace che caratterizzano i primi anni della sua carriera, e nel quale egli dialoga idealmente con i suoi contemporanei contribuendo, a suo modo, al dibattito pacifista. Nonostante il titolo del saggio sia ufficialmente “War”, in realtà la pace accompagna e circonda questo scritto sia nelle circostanze di composizione ed esposizione che nei suoi contenuti: pur occupandosi inizialmente di guerra il saggio introduce difatti progressivamente il tema della pace, una pace attesa, invocata e destinata a sostituire l’atteggiamento bellico che ha dominato e domina ancora, ai tempi di Emerson, i rapporti interpersonali e internazionali. Il saggio inizia ponendo il tema della guerra in una prospettiva diacronica, invitando dunque il pubblico a considerare la guerra come un fenomeno inserito in un evolversi storico. Esaminata in questa visione la guerra assume contorni differenti da quello che potrebbe invece mostrare se osservata in assoluto e da vicino; inserita nel corso degli eventi essa non appare difatti del tutto negativa per l’umanità, ma addirittura necessaria: War, which, to sane men at the present day, begins to look like an epidemic insanity, breaking out here and there like the cholera or influenza, infecting men's brains instead of their bowels, when seen in the remote past, in the infancy of society, appears a part of the connection of events, and, in its place, necessary (War, p. 37).161 La guerra, paragonata metaforicamente a una malattia che infetta e contagia la mente dell’uomo, nello stadio iniziale della civiltà appare invece essere parte integrante della storia e avere quindi una sua utilità. Qui Emerson si avvicina, come farà anche in seguito, al pensiero 160 P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 525. Il testo del saggio è tratto da The Complete Works of Ralph Waldo Emerson – vol. XI - Miscellanies (1884), in http://www.rwe.org/complete-works/xi---miscellanies/i---xv/v-war. 161 63 vichiano e illuministico, che considera la storia come una serie di stadi che tendono inevitabilmente al progresso. Pur non accennando alla teoria dei corsi e ricorsi storici, Emerson mette in relazione l’evoluzione dell’essere umano e quello della società, che da uno stadio selvaggio e immaturo tendono entrambi a raggiungere la maturità. La visione ottimistica della storia rende Emerson figlio del suo tempo, in quanto il diciannovesimo secolo era dominato dall’idea di un progresso della civiltà certo e inevitabile, come testimoniano le parole di Saint-Simon, che furono alla base di molti articoli apparsi in America nella prima metà dell’Ottocento:162 Today everything leads to the conclusion that with the cessation of wars, with the establishment of a regime that will put an end to violent crises, no retrogression, not even a partial one, will ever again take place. There will be continuity and acceleration of the progressions among the whole of mankind, for peoples will teach one another and will sustain one another.163 La società è quindi orientata verso un percorso di crescente civilizzazione, e questo può accadere perché, Emerson ne è fermamente convinto, la natura umana può essere migliorata attraverso un’educazione razionale che domini gli istinti presenti nell’uomo. E’ inevitabile per Emerson che, agli albori della società, quando i bisogni primari sono così difficili da soddisfare e l’uomo è un essere selvaggio e istintivo, la guerra sia all’ordine del giorno e il debole debba soccombere al più forte. Questa constatazione non deve servire per giustificare la guerra sempre e ovunque, ma per far comprendere la sua inevitabilità in contesti remoti. Il suo uso difatti risulta tollerabile proprio perché, in seguito all’evoluzione, essa sarà considerata soltanto “a temporary and preparatory state, and does actively forward the culture of man” (War, p. 37). Riflettendo una visione della guerra tipicamente classica, Emerson elogia le qualità che la guerra possiede: 162 “It was believed that the laws of human nature bring about a constant upward movement, whereby man increases his control over nature, overcomes ignorance and selfishness, and moves steadily onward into a utopian future”. E. L., Tuveson, Redeemer Nation: The Idea of America’s Millennial Role, University of Chicago Press, Chicago, 1968, p. 53. 163 Doctrine de Saint-Simon. Exposition. Première année, 1829, cit. in F. E. Manuel, Shapes of Philosophical History, Stanford, Stanford University Press, 1965, p. 102. 64 War educates the senses, calls into action the will, perfects the physical constitution, brings men into such swift and close collision in critical moments that man measures man. [...] It presently finds the value of good sense and of foresight, and Ulysses takes rank next to Achilles. The leaders, picked men of a courage and vigor tried and augmented in fifty battles, are emulous to distinguish themselves above each other by new merits, as clemency, hospitality, splendor of living. The people imitate the chiefs (War, p. 37). La guerra stimola dunque le energie sopite nell’uomo e spinge i popoli ad imitare le grandi doti che i loro capi possiedono. Emerson presenta ancora una volta, citando le parole di Scurati, la guerra in una dimensione “generativa di significati e valori collettivi”, come era concepita dalla civiltà greco – antica e che nel poema guerriero dell’Iliade aveva avuto la sua fondazione poetica.164 Anche Kant, su questo punto, riconosce la “insocievolezza”, come egli la chiama, alla base del progresso della natura umana: Per tal modo si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell’uomo; così a poco a poco tutte le capacità si sviluppano, si educa il gusto, si pongono mediante la continua illuminazione le basi di un modo di pensare, che col tempo trasforma in principi pratici le rozze disposizioni naturali[...]. Senza la condizione, in sé certo non desiderabile, della insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese egoistiche deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico[...].165 Avendo sempre in mente la concezione antica della guerra come strumento di civilizzazione, Emerson cita il saggio di Plutarco su Alessandro Magno, dove si elogiano i vantaggi che il grande condottiero apportò alle popolazioni conquistate. La guerra, ancora una volta, sembra essere “capace di segnare il discrimine fra la barbarie e l’incivilimento” e di “stabilire ‘giuste’ gerarchie fra uomini e stati, assegnando a ciascuno il ruolo e il rango più adeguato”:166 Plutarch, in his essay "On the Fortune of Alexander," considers the invasion and conquest of the East by Alexander as one of the most bright and pleasing pages in history; [... ]. It had the effect of uniting into one great interest the divided commonwealths of Greece, and infusing a new and more enlarged public spirit into the councils of their statesmen. It carried the arts and language and philosophy of the Greeks into the sluggish and barbarous nations of Persia, Assyria, and India. It introduced the arts of husbandry among tribes of hunters and shepherds. It weaned the Scythians and Persians from some cruel and licentious practices, to a more civil way of life. It introduced the sacredness of marriage among them. It built seventy cities, and sowed the Greek customs and humane laws over Asia, and united hostile nations under one code. It brought different families of the human race together, to blows at first, but afterwards to truce, to trade, and to intermarriage. It would be very easy to show analogous benefits that have resulted from military movements of later ages. (War, pp. 37-38) 164 A. Scurati, Guerra, cit., p. vii. I. Kant, Scritti Politici e di Filosofia della Storia e del Diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, Utet, 1965, pp. 127-128. 166 U. Curi, Pensare la Guerra, cit., p. 13. 165 65 Emerson continua la sua apologia della guerra e tenta di comprendere il motivo di tale persistenza di tanta bellicosità, arrivando alla conclusione che essa è così diffusa perché ricopre “a great and beneficent principle”: Nature implants with life the instinct of self-help, perpetual struggle to be, to resist opposition, to attain to freedom, to attain to a mastery, and the security of a permanent, self-defended being; and to each creature these objects are made so dear, that it risks its life continually in the struggle for these ends. (War, p. 38) La guerra serve dunque a preservare la stessa vita dell’essere umano, poiché permette di resistere alle opposizioni, di raggiungere la libertà, di conquistare la propria sicurezza. Emerson si affretta a ribadire, però, che si tratta soltanto di uno stadio temporaneo, che deve essere sostituito dall’emergere di istinti superiori. L’energia spesa per l’auto-conservazione deve essere impiegata, successivamente, in attività “harmless” e “useful”, e coloro che rimangono legati a questa forma primitiva di sopravvivenza dimostrano una fanciullezza mentale che non si addice all’uomo evoluto: It is the ignorant and childish part of mankind that is the fighting part. [...]Bull-baiting, cockpits, and the boxer's ring, are the enjoyment of the part of society whose animal nature alone has been developed.[...]To men of a sedate and mature spirit, in whom is any knowledge or mental activity, the detail of battle becomes insupportably tedious and revolting.[...]Nothing is plainer than that the sympathy with war is a juvenile and temporary state. (War, p. 38) La storia, pur essendo teatro di guerra, diventa pian piano anche il segno del declino della guerra stessa, perché l’uomo, tramite la cultura, la religione, e soprattutto il commercio - a cui Emerson dà molta importanza - impara a relazionarsi con gli altri popoli e ad ampliare i suoi orizzonti. Portando esempi storici che cronologicamente si avvicinano al suo presente, Emerson ribadisce la convinzione in un superamento della violenza del passato, che non può non scandalizzare l’uomo di oggi, ormai distintosi dalle creature bestiali alle quali inizialmente assomigliava. Viene spontaneo, a questo punto, chiederci da quale punto di vista Emerson interpreti la storia e cosa significhi per lui passare dalla “barbarie” alla “civiltà”. La prospettiva da lui riportata, difatti, non é certo quella delle popolazioni che tramite la guerra sono state conquistate, piuttosto quella dei vincitori e dei potenti, che narrano evidentemente la “loro” 66 storia e giustificano le guerre reputandole necessarie all’avanzamento della civiltà. Poiché Emerson cita gli annali americani (“Indeed, our American annals have preserved the vestiges of barbarous warfare down to more recent times”(War, p. 40)), il pensiero va all’analisi che Foucault fa proprio del discorso storico tipico degli annali, che riscrivendo la storia in modo ideologizzato e modificato operano, secondo quanto egli afferma, una giustificazione e un rafforzamento del potere dominante: Il potere, vincolando e immobilizzando, è fondatore e garante dell’ordine; e la storia è propriamente il discorso attraverso il quale le due funzioni che assicurano l’ordine saranno intensificate e rese più efficaci. Credo che in generale si possa dire che la storia, fino alle soglie del nostro tempo, è stata una storia della sovranità, una storia che si dispiega nella dimensione e nella funzione della sovranità.167 Il sapere storico è diventato così, per Foucault, un’arma discorsiva utilizzabile da parte di tutti i contendenti che si affrontano all’interno del campo politico; Poirier afferma a proposito: “In ‘L’ordre du discours’ he [Foucault] insists that such narrativity is designed to obscure real ‘events’. The sequential narrative of historical events is really a form of repression for Foucault”.168 I vincenti, dunque, riportano gli eventi e le vittorie belliche come una grande conquista di civiltà, considerando paternalisticamente le popolazioni sottomesse come “barbari” bisognosi di essere “civilizzati”. Pur non potendo appurare se Emerson sia stato in qualche modo “ingannato” dalla lettura di fonti antiche o se egli sia deliberatamente d’accordo con la visione della storia da esse proposta, sicuramente in questo punto del saggio egli presenta una prospettiva univoca che non possiamo non rilevare e, se si considera la specificità della nazione americana alle prese con le popolazioni native, viene naturale fermarsi a riflettere. Pur non proponendo esplicitamente l’idea di un progresso che nel suo avanzare è destinato a fagocitare le popolazioni meno “civilizzate” e non disposte ad 167 M. Foucault, Bisogna Difendere la Società, Milano, Feltrinelli, 1998. Foucault cita come esempio la storia degli annali romani, alla quale si contrappone per prima la scrittura della Bibbia, “un libro e una parola che solleva contro la legge e contro la gloria”. Ibidem. 168 R. Poirier, The Renewal Of Literature, Random House, New York, 1987, p. 187. Dubbi simili sulla totale scientificità della narrazione della storia vengono sollevati anche da Hayden White, per il quale essa si avvale di strategie che si fondano inevitabilmente su basi morali e/o estetiche. H. White, Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1973. 67 “evolversi”, vorrei ad ogni modo sottolineare la pericolosità di una prospettiva secondo cui il dominio di popolazioni “incivili” è necessario al progresso della storia.169 La politica interna americana nei confronti dei nativi - in particolare quella di Jefferson - si è basata, di fatto, sull’idea che il progresso dovesse raggiungersi sia in senso spaziale, con la conquista del West, sia in senso temporale, con il raggiungimento di uno standard evolutivo al quale gli indiani in particolar modo avrebbero dovuto adattarsi o soccombere.170 Emerson, va sottolineato, non difende questa politica, ma i suoi concetti di “civiltà” e “barbarie” non vengono spiegati con chiarezza, e potrebbero quindi lasciare spazio ad interpretazioni che vanno in tal senso. Se si considera la lettera che egli scrisse nel 1838 al presidente Van Buren contro la rimozione della popolazione Cherokee dai loro territori d’origine - coincidenti con lo stato della Georgia - verso le terre dell’Oklahoma, Emerson esprime il suo sdegno per un provvedimento così brutale e ingiusto, ma difende la popolazione Cherokee essenzialmente perché, a differenza degli altri nativi, si è tenacemente sforzata di uscire dal suo stato di inferiorità e ha tentato di adeguarsi alla cultura americana: Even to our distant State, some good rumour of their worth and civility has arrived. We have learned with joy their improvement in social arts. [...] In common with the great body of the American People, we have witnessed with sympathy the painful endeavours of these red men to redeem their own race from the doom of eternal inferiority, and to borrow and domesticate in the tribe the inventions and customs of Caucasian race.171 Ad eccezione dei Cherokee, Emerson si mostra preoccupato del fatto che le tribù selvagge non possano riuscire a civilizzarsi (“As far as history has preserved to us the slow unfoldings of any savage tribe, it is not easy to see how war could be avoided by such wild, passionate, needy, ungoverned, strong-bodied creatures” (War, p. 37)), e ciò a cui vorrei limitarmi è notare che durante il saggio egli non darà risposta a questo problema, e si occuperà 169 Il modello cosiddetto “a stadi”, di stampo illuministico, prevede l’esistenza di quattro tipi di società (selvaggia, barbara, civilizzata, più che civilizzata); l’umanità, che tende a raggiungere il quarto stadio, deve di fatto “superare” gli altri, e le popolazioni che non progrediscono sono destinate a scomparire. G. Dekker, The American Historical Romance, Cambridge University Press, Cambridge, 1987, p. 73. 170 Ibidem. 171 R. W. Emerson, “Letter to Martin Van Buren”, in L. Gougeon., J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., pp. 1-2. 68 dell’inevitabile passaggio dallo stato “barbaro” di guerra allo stato “civile” di pace della società americana senza più menzionare le “tribù selvagge” e il modo in cui esse riusciranno a compiere un tale salto, e soprattutto cosa accadrà in caso contrario. E’ un punto oscuro questo che, a mio parere, lascia pericolosamente spazio a molte interpretazioni del pensiero di Emerson, il quale d’altra parte però, come avremo modo di vedere, spesso non fa nulla per evitare di essere frainteso. Abbandonando la dimensione diacronica degli annali e delle narrazioni storiche Emerson si concentra poi sul tempo presente, occupandosi del modo in cui l’istinto primordiale di sopravvivenza possa essere soddisfatto dagli uomini in maniera meno brutale rispetto al passato. Il saggio arriva così ad un turning point, ed Emerson si pone una “sublime domanda”: non si potrebbe raggiungere lo stesso fine dell’auto-conservazione impiegando la pace anziché la guerra? The eternal germination of the better has unfolded new powers, new instincts, which were really concealed under this rough and base rind. The sublime question has startled one and another happy soul in different quarters of the globe. Cannot love be, as well as hate? Would not love answer the same end, or even a better? Cannot peace be, as well as war? (War, p. 41) Questo pensiero, continua Emerson, non ha origine nelle riflessioni di persone colte ma nasce in maniera spontanea nell’animo umano, fino a poter diventare un pensiero comune che, una volta nato, come una stella sorta, non può regredire ma soltanto compiere il suo corso: The star once risen, though only one man in the hemisphere has yet seen its upper limb in the horizon, will mount and mount, until it becomes visible to other men, to multitudes, and climbs the zenith of all eyes. And so, it is not a great matter how long men refuse to believe the advent of peace: war is on its last legs; and a universal peace is as sure as is the prevalence of civilization over barbarism, of liberal governments over feudal forms. The question for us is only, How soon? (War, p. 41) Avvicinandosi alla convinzione dei pacifisti del suo tempo e non solo, Emerson non mette in discussione l’avvento della pace universale che, anche se non si può prevedere esattamente quando, certamente arriverà. In questo punto il suo pensiero si avvicina ancora una volta a quello di Kant che, pur se con meno sicurezza di quella mostrata dal filosofo americano, 69 invita ad ogni modo ad agire come se la pace possa essere davvero raggiunta, indipendentemente dalle concrete possibilità di realizzarla: Dunque non si tratta di sapere se la pace perpetua sia una cosa reale o un non senso, e se noi ci inganniamo nel nostro giudizio teorico, quando accettiamo il primo caso; ma noi dobbiamo agire sul fondamento di essa, come se la cosa fosse possibile [...]. Se noi non possiamo raggiungere questo scopo, e se esso rimane sempre per noi un pio desiderio, almeno non ci inganneremo certamente facendoci una massima di tendervi senza posa, perché questo è un nostro dovere.172 Prima di Kant, già Platone ne La Repubblica aveva sottolineato l’importanza di ispirarsi ad un modello positivo e di tendervi qualunque sia la distanza tra esso e il mondo reale, e questo perché deve essere l’idea a fungere da modello per la realtà sensibile, e non viceversa: ...Uno stato che esiste solo a parole, perché non credo che esista in alcun luogo della terra. – Ma forse nel cielo, replicai, ne esiste un modello, per chi voglia vederlo e con questa visione fondare la propria personalità. Del resto non ha alcuna importanza che questo stato esista oggi o in futuro, in qualche luogo, perché “l’uomo di cui parliamo” svolgerà la sua attività politica solamente in questo, e in nessun altro.173 In questo momento Emerson presenta l’avvento della pace, in accordo con Platone e Kant, come un ideale a cui si deve tendere ma che, realisticamente, non è pensabile concretamente in un futuro prossimo. Huggard a proposito afferma: “When Emerson thought of peace it was the thought of an ideal. Apparently, he had no sentimental hope of early peace, no plan for its realization”.174 Ciò, però, continua Huggard, non fa di lui un visionario, in quanto Emerson stesso, rendendosi conto della difficoltà del progetto e dello scarto esistente tra realtà e aspirazione, si limita a proporre un sentiero nel quale ci si potrebbe incamminare, indipendentemente da quanto sia lontana la meta. Le nazioni difatti, nota Emerson, potrebbero innanzitutto compiere uno sforzo e unirsi in un progetto comune, perché per lui, a differenza di quanto affermano i pacifisti radicali, è impossibile per una sola nazione raggiungere la pace se le altre continuano a praticare la guerra.175 Su questo punto Emerson è in accordo sì con i 172 I. Kant, Scritti Politici e di Filosofia della Storia e del Diritto, cit., p. 546. Platone, Repubblica, 592a-592b, in C. Ciancio, G. Ferretti, A. Pastore, U. Perone, La Filosofia, i Testi, la Storia, cit., p. 182. 174 W. A. Huggard, “Emerson and the problem of war and peace“, University of Iowa Studies, Humanistic Studies, April 15, 1938, Volume V, number 5, p. 22. 175 Brock sottolinea come, nel pensiero dei pacifisti radicali, prima Dodge e poi Garrison, ci fosse, a suo parere, un idealismo forse troppo astratto: “This concentration on the evils of war as an institution may explain in part the absence of any serious attempt on the part of the absolute pacifists of this period to envisage the 173 70 pacifisti - sia radicali che moderati - che invocavano una pace internazionale, ma si dimostra allo stesso tempo più prudente, affermando che una sola nazione non può disarmarsi, rischiando di diventare troppo vulnerabile, se non esiste un progetto collettivo che garantisca l’adesione di tutti allo stesso principio. Il fatto che esso non sia attuabile con le condizioni presenti non invalida però l’eccellenza del progetto stesso, e si ha in ogni caso il dovere, platonicamente parlando, di tendere al vero senza farsi scoraggiare dalle apparenze: In the first place, we answer, that we never make much account of objections which merely respect the actual state of the world at this moment, but which admit the general expediency and permanent excellence of the project. What is the best must be the true; and what is true that is, what is at bottom fit and agreeable to the constitution of man must at last prevail over all obstruction and all opposition. There is no good now enjoyed by society, that was not once as problematical and visionary as this. It is the tendency of the true interest of man to become his desire and steadfast aim. But, farther, it is a lesson, which all history teaches wise men, to put trust in ideas, and not in circumstances. (War, p. 43) Purtroppo, nel momento in cui Emerson scrive - e non solo in quel momento - la realtà concreta è una società militarizzata, che con i suoi rumori sovrasta le deboli voci dei pochi uomini amici della pace. Emerson descrive la dicotomia tra “rumore della guerra” e “silenzio della pace” in un passo molto poetico e suggestivo costruito attraverso un sapiente apparato retorico composto da immagini sia visive che uditive, consonanze, assonanze, onomatopee che ricordano la poesia di W. Whitman “Beat! Beat! Drums!”:176 This vast apparatus of artillery, of fleets, of stone bastions and trenches and embankments; this incessant patrolling of sentinels; this waving of national flags; this reveille and evening gun; this martial music, and endless playing of marches, and singing of military and naval songs, seem to us to constitute an imposing actual, which will not yield, in centuries, to the feeble, deprecatory voices of a handful of friends of peace (War, p. 43). Ribadendo però, come solo lui può fare, un’incrollabile fede nelle idee, Emerson invita a diffidare delle apparenze, perché all’origine di questo imponente e rumoroso apparato bellico vi è solo un pensiero, un’idea, che come tale può essere spazzata via da un’altra idea, quella della pace. Ciò che ci circonda non è altro che la manifestazione di uno stato morale che si è consequences of a nation adopting a policy of unilateral disarmament or to provide a nonviolent alternative to the war method. Was a pacifist state possible at all?” P. Brock, Pacifism in the United States, cit., pp. 480-81. 176 Scritta in occasione della guerra civile, 1861. Aa. Vv., The Norton Anthology of American Literature, W.W. Norton and Company, New York, 1998, vol. I, pp. 2168-2169. 71 impossessato delle nazioni e che domina quindi l’uomo stesso, che resta aggrappato ai suoi istinti inferiori senza essere capace di elevarsi: Thus always we are daunted by the appearances; not seeing that their whole value lies at bottom in the state of mind. It is really a thought that built this portentous war - establishment, and a thought shall also melt it away. Every nation and every man instantly surround themselves with a material apparatus which exactly corresponds to their moral state, or their state of thought. Observe how every truth and every error, each a thought of some man's mind, clothes itself with societies, houses, cities, language, ceremonies, newspapers. Observe the ideas of the present day, orthodoxy, scepticism, missions, popular education, temperance, anti-masonry, anti-slavery; see how each of these abstractions has embodied itself in an imposing apparatus in the community; [...] We surround ourselves always, according to our freedom and ability, with true images of ourselves in things, whether it be ships or books, or cannons or churches. The standing army, the arsenal, the camp, and the gibbet do not appertain to man. They only serve as an index to show where man is now; what a bad, ungoverned temper he has; what an ugly neighbour he is; how his affections halt; how low his hope lies. He who loves the bristle of bayonets, only sees in their glitter what beforehand he feels in his heart. (War, p. 44) Tutto il mondo esterno, per quanto impregnato di guerra, non potrebbe assolutamente nulla di fronte ad un animo disposto a disfarsene. Basterebbe difatti un vero cambiamento interiore e tutto l’esterno cambierebbe, fino a far diventare il sistema bellico un “reperto archeologico”: And so it must and will be: bayonet and sword must first retreat a little from their present ostentatious prominence; then quite hide themselves, as the sheriff's halter does now, inviting the attendance only of relations and friends; and then, lastly, will be transferred to the museums of the curious, as poisoning and torturing tools are at this day. (War, p. 45) In questo passo una forte dicotomia terminologica contrappone il campo semantico della guerra, acusticamente composto da suoni duri e secchi, al campo semantico della pace, composto da toni più distesi e concilianti. Inoltre è interessante come Emerson riesca, idealmente, a trasferire la forza esterna ostentata dall’apparato bellico - che cela in realtà debolezza d’animo e insicurezza - all’interno dell’individuo, che si mostra calmo esteriormente e forte interiormente. Il saggio continua ponendo l’accento su uno dei punti più cari ad Emerson: il cambiamento interiore. Il passaggio dalla guerra alla pace deve riflettersi, difatti, prima di tutto nell’individuo che, per acquisire forza interiore, deve necessariamente elevarsi, pur se a poco a poco, spiritualmente: War and peace thus resolve themselves into a mercury of the state of cultivation. At a certain stage of his progress, the man fights, if he be of a sound body and mind. At a certain higher stage, he makes no offensive demonstration, but is alert to repel injury, and of an unconquerable heart. At a still higher stage, he comes into the region of holiness; passion has passed away from him; his warlike nature is all converted into an active medicinal principle; he sacrifices himself, and accepts with alacrity wearisome tasks of denial and charity; but, 72 being attacked, he bears it, and turns the other cheek, as one engaged, throughout his being, no longer to the service of an individual, but to the common soul of all men. (War, p. 45) Dunque l’uomo, da uno stato belligerante, inizialmente reprime l’aggressività pur rispondendo agli attacchi, in seguito è disposto a sacrificare se stesso, spogliandosi dell’egoismo che lo porta a reagire alle offese personali, e questo punto oramai egli è un’anima che rappresenta l’umanità, e le passioni negative non possono più turbarlo. A differenza della posizione assunta da Garrison e soprattutto da Ballou, Emerson mostra il cammino verso la pace interiore come un processo faticoso, e non lo considera quindi un principio naturale che l’uomo è portato spontaneamente a praticare; al contrario, esso richiede grande sforzo una grande forza d’animo e uno spirito guerriero per essere perseguito. Pur non facendosi coinvolgere attivamente, il saggio si inserisce a questo punto, ancora una volta, nelle dispute pacifiste del tempo, in particolare nel dibattito sulla giustificazione o no della guerra difensiva e nella legittimità dell’autodifesa. Il pensiero di Emerson è piuttosto originale a tal proposito, e si allontana dalle posizioni pacifiste più diffuse. Emerson, in particolare, non si trova d’accordo con la dottrina della nonresistenza professata con molta forza da Ballou, che lui considera un’interpretazione distorta, o quantomeno parziale, del principio pacifista; si tratta di un’estremizzazione del concetto di nonresistenza che, così intesa, renderebbe l’uomo pacifico del tutto remissivo e totalmente impotente di fronte al male. Si arriva dunque al nocciolo della questione, e all’idea che Emerson ha della pace e dell’uomo che sceglie di praticarla: il perseguimento della pace non ha nulla a che vedere con la passività, ed Emerson risponde in maniera decisa a chi vede nella totale arrendevolezza l’estrema applicazione della dottrina pacifista: In reply to this charge of absurdity on the extreme peace doctrine, as shown in the supposed consequences, I wish to say, that such deductions consider only one half of the fact. They look only at the passive side of the friend of peace, only at his passivity; they quite omit to consider his activity. But no man, it may be presumed, ever embraced the cause of peace and philanthropy, for the sole end and satisfaction of being plundered and slain. A man does not come the length of the spirit of martyrdom, without some active purpose, some equal motive, some flaming love. If you have a nation of men who have risen to that height of moral cultivation that they will not declare war or carry arms, for they have not so much madness left in their brains, you have a nation of lovers, of benefactors, of true, great, and able, men. Let me know more of that nation; I shall not find them 73 defenceless, with idle hands springing at their sides. I shall find them men of love, honour, and truth; men of an immense industry; men whose influence is felt to the end of the earth; men whose very look and voice carry the sentence of honour and shame; and all forces yield to their energy and persuasion. (War, p. 47) Senza mezzi termini, Emerson mette bene in chiaro che non si può abbracciare la causa pacifista con l’intento di subire passivamente le offese ed essere infine uccisi senza opporre la minima resistenza; una tale visione considera soltanto il lato passivo della dottrina pacifista, una dottrina che, per la sua inattività, permetterebbe ai non pacifisti di agire praticamente indisturbati. Se un uomo arriva a sacrificarsi per la causa della pace, è perché è animato da un forte principio morale, e a tal fine non può essere remissivo e inattivo, ma deve dimostrarsi virtuoso, operoso, coraggioso, carismatico, capace di influenzare gli altri uomini e di respingere le offese. Affermando ciò Emerson si allontana dall’idea occidentale di pace, considerata come una “resistenza” al male destinata in qualche modo a subire, senza reagire, l’aggressività della guerra e si avvicina, invece, alla visione orientale del problema. E’ indicativo ricordare, difatti, che l’epistemologia taoista non definisce la violenza “attiva” e la pace “passiva”, ma esattamente l’opposto: l’eccesso di passività indica la presenza della violenza nella pace, mentre nella violenza l’esistenza della pace è invece rappresentata dall’essere attivi.177 Passando dall’astratto al concreto, Emerson si chiede come si possa effettivamente formare una società costituita da uomini tali, “against which no weapon can prosper” (War, p. 47). Egli insiste di nuovo sull’educazione individuale e rifiuta i metodi utilizzati dalle organizzazioni pacifiste - a cui, difatti, rifiuterà di aderire - perché convinto che la propaganda tramite giornali e riviste non sia davvero incisiva. Di nuovo Emerson ribadisce che ciò che bisogna cambiare non è l’opinione pubblica, ma “l’opinione privata”: How is this new aspiration of the human mind to be made visible and real? How is it to pass out of thoughts into things? Not, certainly, in the first place, in the way of routine and mere forms, the universal specific of modern politics; not by organizing a society, and going through a course of resolutions and public manifestoes, and being thus formally accredited to the public, and to the civility of the newspapers. We have played this game to 177 J. Galtung, Pace con Mezzi Pacifici, cit., p. 31. 74 tediousness. [...] The only hope of this cause is in the increased insight, and it is to be accomplished by the spontaneous teaching, of the cultivated soul, in its secret experience and meditation, that it is now time that it should pass out of the state of beast into the state of man. (War, p. 45) Si arriva, così, ad un altro snodo cruciale già implicito nelle affermazioni precedenti: la pace non è per i codardi, e soprattutto non è riservata a coloro che non hanno le virtù adatte per praticare la guerra o che per paura si rifugiano dietro le imprese compiute da altri. La causa della pace è altrettanto pericolosa ed eroica, e per questo in essa devono essere trasferiti tutti coloro che hanno agito, fin’ora, nel campo della guerra: Nor, in the next place, is the peace principle to be carried into effect by fear. It can never be defended, it can never be executed, by cowards. Every thing great must be done in the spirit of greatness. The manhood that has been in wax must be transferred to the cause of peace, before war can lose its charm, and peace be venerable to men.[...] The cause of peace is not the cause of cowardice. If peace is sought to be defended or preserved for the safety of the luxurious and the timid, it is a sham, and the peace will be base. War is better, and the peace will be broken. If peace is to be maintained, it must be by brave men, who have come up to the same height as the hero, namely, the will to carry their life in their hand, and stake it at any instant for their principle, but who have gone one step beyond the hero, and will not seek another man's life; men who have, by their intellectual insight, or else by their moral elevation, attained such a perception of their own intrinsic worth, that they do not think property or their own body a sufficient good to be saved by such dereliction of principle as treating a man like a sheep. E’ chiaro, ormai, che il principio della pace non può essere un principio portato avanti semplicemente per difendere vigliacchi e meschini: a questo è preferibile la guerra. Anticipando di più di un secolo Galtung e i Peace Studies, Emerson sta operando qui, come si è già esposto, una chiara e netta distinzione tra la pace negativa, sinonimo di assenza di pace, e la pace positiva, sinonimo di assenza di violenza ed ingiustizia.178 Un elemento essenziale della pace positiva è, infatti, la sua totale mancanza di passività: pur non ricercando lo scontro, essa lo affronta quando necessario, tentando così di costruire una pace duratura e giusta, sgombrando il campo da eufemismi, falsità, pregiudizi e termini offensivi. I suoi praticanti - e di esempi se ne potrebbero fare molti, primo fra tutti Gandhi - hanno l’obbligo, attraverso azioni di disobbedienza civile, di rompere la catena, composta sia di azioni che di silenzio, che perpetua l’ingiustizia. Tale ideale di pace, va sottolineato, non deve essere 178 Si veda J. Galtung, Pace con Mezzi Pacifici, cit., e L. Kurtz., Encyclopedia of Violence, Peace, and Conflict, cit. Per quanto riguarda la realtà degli Stati Uniti in particolare, si veda l’essenziale lavoro di G. Mariani, “Ad Bellum Purificandum, or, Giving Peace a (Fighting) Chance in American Studies”, American Literary History, Oxford University Press, August 2008, pp. 94-122. 75 considerato - come lo intendeva Garrison - come tattica vincente per raggiungere i propri fini e auspicabile perché meno pericoloso della guerra; al contrario, esso deve essere adottato come stile di vita indipendentemente dai risultati che verranno raggiunti, anche se può portare alla perdita della propria stessa vita. L’uomo, il nuovo uomo che Emerson ha in mente, non si nasconde dietro armature esteriori né tanto meno arretra di fronte ai suoi doveri, ma ricerca la verità ad ogni costo, e nessun pericolo o fallimento può distoglierlo dallo stile di vita e dalle convinzioni morali a cui ha aderito: I see him to be the servant of truth, of love, and of freedom, and immoveable in the waves of the crowd. The man of principle, that is, the man who, without any flourish of trumpets, titles of lordship, or train of guards, without any notice of his action abroad, expecting none, takes in solitude the right step uniformly, on his private choice, and disdaining consequences, does not yield, in my imagination, to any man. (War, p. 49) Pur non esaurendo il quadro del discorso, che Emerson rende assai vasto, profondo e complesso, qualcosa in più sulla sua visione della guerra e della pace si è riusciti ad intuire. Esse non appaiono totalmente antagoniste, né tanto meno appartengono deterministicamente a particolari categorie di uomini che in base alle loro virtù scelgono di praticare l’una o l’altra. Non si tratta dunque di ingaggiare una lotta epocale tra “l’esercito del bene” e “l’esercito del male”- idea sottesa a molti scritti pacifisti ottocenteschi e non - ma di trasferire alla causa della pace virtù tradizionalmente belliche come la forza, il coraggio, l’onore. A differenza di molti pacifisti contemporanei ad Emerson,179 o precedentemente a differenza dello stesso Erasmo,180 Emerson è più cauto a condannare la guerra in assoluto, perché vi sono in essa delle qualità che possono e devono essere salvate affinché una società, seppur pacifica, conservi l’energia necessaria per combattere le sue battaglie. La guerra, criticata per il suo carattere barbaro e per le miserie che causa, è elogiata per le energie che genera. Se si riuscissero, quindi, a convogliare alcune sue caratteristiche positive nella pace....allora quest’ultima perderebbe il suo carattere di inerzia e diventerebbe una via degna di essere 179 Si rimanda in particolare al volume di V. Ziegler, The Advocates of Peace in Ante-Bellum America, cit. Erasmo condanna in toni duri e inappellabili la guerra in tutte le sue forme e manifestazioni, incarnandola in assoluto con il male: “Se il regno di Satana esiste, non può essere altro che la guerra”. Si veda Erasmo, Contro la Guerra, Mondadori, Milano, 2008, e Il Lamento della Pace, Rizzoli, Milano, 2005. 180 76 praticata: ”The compression and tension of these stern conditions [of war] is a training for the finest and softest arts, and can rarely be compensated in tranquil times, except by some analogous vigour drawn from occupations as hardy as war” (Pow 6.71 19). Stack sottolinea, cosa che appare ormai chiara, come Emerson non voglia un continuo stato di guerra, ma si preoccupi soltanto di preservarne i lati positivi nei tempi pacifici: Many of the great triumph of peace, Emerson proclaims, followed, ironically, in the wake of war. The habits and the discipline of war or of warlike conditions of existence carry over into civilized life. Although Emerson does not praise the military or the militant life in itself, he does praise some of the virtues that he believes are brought forth in the individual under stress. The preservation and conservation of such virtues, when transferred to civilized life conditions of life, contributes to an energetic and creative life.181 Emerson, come avrebbe fatto poi anche Nietzsche, lamenta la mancanza di energia nella sua società, e teme che un eccesso di civiltà causi fragilità sia fisica che psicologica, e quindi una conseguente decadenza nel comportamento e nel pensiero. Entrambi, afferma Stack, “would have liked to have seen some of that (presumed) surplus energy and raw health infused into a (presumably) declining, self-doubting, morbidly introspective, modern man.[...] If this raw energy could be preserved, to some extent, in the civil and moral man, he would be worth an island full of cannibals”.182 Emerson sembra quindi non essere contrario allo stato di pace, ma è preoccupato della mancanza di motivazione ed energia che esso potrebbe determinare. I tempi “tranquilli”, dunque, dovrebbero avere un “vigore” analogo a quello che si ha in momenti difficili come i periodi di guerra. Ciò che occorrerebbe è quindi un “equivalente morale della guerra”, di cui nel 1910 William James avrebbe parlato. Seppur in maniera meno argomentata di James, Emerson riconosce la funzione civilizzatrice della guerra e l’importanza di preservare la virtù marziale anche in una società pacifica. Invece di illudersi di abolirla, si dovrebbe inventare 181 182 G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 162. Ibidem. 77 “un’attività ‘equivalente’ in grado di svolgere le funzioni morali, socio-culturali ed estetiche della guerra senza spargimento di sangue”.183 Siamo arrivati alla conclusione del discorso, che Emerson però porta a compimento parzialmente, lasciando infatti in sospeso molti interrogativi tra cui quello principale che dà il titolo alla mia analisi e che chiude il saggio: “Shall it be War, or shall it be Peace?” In un impeto di democrazia Emerson non si assume il diritto e la responsabilità di rispondere alla fatidica domanda, lasciando piuttosto che “not a family, not a few men, but mankind, shall say what shall be” (War, p. 49). Peccato, però, che l’umanità di cui parla non sia altro che quella residente nel territorio americano: Not in an obscure corner, not in a feudal Europe, not in an antiquated appanage where no onward step can be taken without rebellion, is this seed of benevolence laid in the furrow, with tears of hope; but in this broad America of God and man, where the forest is only now falling, or yet to fall, and the green earth opened to the inundation of emigrant men from all quarters of oppression and guilt. (War, p. 49) Emerson parla effettivamente di un territorio aperto a tutti e pronto ad accogliere gli emigranti e gli uomini oppressi del pianeta, ma si tratta pur sempre della nazione americana, l’unica, a quanto pare, in grado di condurre la crociata della pace. In realtà Emerson riflette una convinzione diffusa ai suoi tempi, in quanto, spiega Curti, uno degli sviluppi più interessanti nella causa della pace fu l’enfasi messa sulla speciale missione degli Stati Uniti nel condurre una crociata mondiale contro la guerra. William Ladd, ad esempio, non si stancò mai di dire che l’America, priva delle incombenze che caricavano il vecchio mondo, poteva sconfiggere la guerra. Samuel Coues scrive in Democratic Review: “It is in this country that the martial spirit has received its greatest check. It is here that the pacific principles will be first adopted”.184 Molti ai tempi di Emerson ribadivano questa convinzione, ma Curti riconosce al filosofo trascendentalista una posizione di rilievo: “This special peace mission of United States was vividly put by Walt Whitman, but it was Emerson who in 1838 in his Address on 183 G. Mariani, “L’equivalente retorico della guerra: William James, Kenneth Burke, Stephen Crane”, in G. Mariani (a cura di), Le Parole e le Armi, Saggi di Guerra e Violenza nella Cultura e Letteratura degli Stati Uniti d’America, Marcos y Marcos, 1999, Milano, pp. 221-259. 184 S. E. Coues, Democratic Review, vol. X, 1842, p. 116. 78 War filled up the measure”.185 Del resto l’idea di una missione particolare riservata agli Stati Uniti, come ci ricorda Tuveson, non era sicuramente nuova e, inutile ricordarlo, è alla radice stessa della nascita della nazione americana e della dottrina del “Manifest Destiny” che, pur essendo coniata nel 1845, non fece altro che formalizzare una convinzione che esisteva già da tempo: ”when the phrase ‘Manifest Destiny’ actually was invented, in 1845, it was so far from being a novelty that the only wonder is that it had not appeared somewhere decades earlier”.186 Tuveson ci ricorda anche, però, che l’idea di missione attribuita all’America comprendeva una serie di idee aventi differenti origini e differenti propositi che in seguito si sono sovrapposti e confusi; nel “Manifest Destiny” ha di fatto prevalso la priorità del dominio territoriale, e l’elemento politico si è confuso pericolosamente con elementi morali, religiosi e spirituali, a tal punto che è stato ed è ancora molto difficile operare un distinguo tra i vari aspetti.187 Al termine delle riflessioni di Emerson appare evidente come il suo contributo al dibattito sulla pace fu indubbiamente originale ma allo stesso tempo legato anche al suo periodo storico - culturale e, in ogni caso, in grado di essere tutt’ora utile per una riflessione contemporanea sui concetti di guerra e di pace. Le considerazioni di Emerson, e qui mi trovo in accordo con Huggard, “were not shallow, sentimental fancies of one who cries ‘Peace’ with no reasoned basis for his cry”.188 Inoltre l’interesse di Emerson per l’ideale di pace, la sua critica della guerra e il suo appoggio ai movimenti per la pace si basano, nota ancora Huggard, su un aspetto della sua filosofia che il lettore frettoloso potrebbe, sotto i colpi di un linguaggio bellico imperante, facilmente ignorare. Emerson, nonostante tutto, credeva fermamente “that the very heart and substance of the universe is love. The over-soul is a sort 185 M. Curti, The American Peace Crusade, cit., p. 54. E. L. Tuveson, Redeemer Nation: The Idea of America’s Millennial Role, cit., 125. 187 Ivi, p. 130. 188 W. A. Huggard, “Emerson and the problem of war and peace“, cit., p. 32. 186 79 of cosmic love which is another name for truth”.189 Le parole di Huggard, che potrebbero passare inosservate o considerate piuttosto scontate, contengono invece una chiave di lettura del pensiero di Emerson di cui dovremo tener conto e che ci tornerà molto utile. Queste erano le idee di Emerson nel 1838, idee destinate a modificarsi e ad evolversi nel corso degli anni soprattutto in seguito al drammatico evento della guerra civile, che Emerson appoggerà, apparentemente rinnegando le sue convinzioni e sicuramente spiazzando i suoi lettori. Tuttavia, però - oramai con Emerson dovremmo essere abituati - non possiamo trarre conclusioni affrettate, e per rispondere all’interrogativo rimasto ancora in sospeso, “shall it be war or shall it be peace?” dovremo ancora indagare attentamente il suo pensiero e soprattutto leggere dentro, e oltre, le sue parole. 189 Ibidem. 80 2. 6: ALLA RICERCA DEL POTERE 2.6.1: A Universe Of Force L’universo, per Emerson, è da concepirsi come un campo di forze che tramite il loro scontro generano potere, sconfitte e vittorie. I termini relativi alla forza nei suoi scritti sono molto frequenti,190 e l’utilizzo che egli ne fa è spesso difficile da ricondurre chiaramente alle categorie del reale o del metaforico. Questa peculiarità di Emerson è in realtà perfettamente in accordo con il pensiero del diciannovesimo secolo, che era alla ricerca di ogni tipo di potere e considerava il mondo ”as the balancing and conflict of powers - spiritual or intellectual capacities as well as brute force”.191 La concezione della realtà come sistema di forze era inizialmente legata all’ambito scientifico da cui aveva avuto origine, ma divenne così popolare che presto si trasformò in una vera e propria corrente di pensiero la cui influenza si avvertì molto anche in campo umanistico, “rapidly extending its manifestations, explicit and implicit, throughout American culture”.192 Durante la metà del diciannovesimo secolo il concetto di “forza” divenne così rilevante perché ritenuto alla base della legge della conservazione di energia, formulata nel 1840, inizialmente chiamata “law of the conservation of force” e poi rinominata nel 1850 “law of the conservation of energy”; osservando attentamente i cambiamenti generati dalla trasformazione del movimento meccanico in calore o da reazioni chimiche in elettricità, gli scienziati si resero conto che la forza subiva trasformazioni ma non veniva mai dispersa, determinando, quindi, la conservazione dell’energia iniziale. 190 Ricordiamo brevemente le occorrenze dei termini: Force: 361, forces: 72 (totale: 433); strenght: 275, strong: 254, stronger: 27 strongest: 27 (totale: 583). 191 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 139. 192 R. E. Martin, American Literature and the Universe of Force, Duke University Press, Durham, North Carolina, 1981, p. xi. 81 La scoperta della legge della conservazione della forza fu determinante in campo scientifico, ma il suo utilizzo ben presto si estese a vari ambiti con conseguenti risvolti, sia positivi che negativi. La visione dell’”universe of force” fu applicata ad esempio anche in ambito filosofico, in particolare alla forza della civilizzazione; ciò, soprattutto tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, permise di razionalizzare il progresso, visto come un processo che si fondava su una filosofia etica e sociale basata a sua volta sulla scienza. L’uomo e la sua civilizzazione erano visti come l’ultimo scopo dell’evoluzione dell’universo, che progrediva però sotto il controllo di Dio che approvava i cambiamenti e permetteva che essi avvenissero: “According to the most up-to-date science and philosophy, man and society were good and automatically evolving toward perfection, and God was Force or at least the Mover of forces that expressed His will in the universe”.193 In seguito a questa teoria molti americani, preoccupati dalla grande competizione e dai forti cambiamenti generati dall’industrializzazione, si sentivano rassicurati dal fatto che tutto ciò non solo fosse inevitabile, ma rappresentasse anche il volere di Dio. Tutto ciò ebbe però anche effetti negativi sul popolo americano, che in molti casi razionalizzò e conseguentemente giustificò ”racism, class superiority, imperialism, the acquisition of wealth and power, and veneration of the “fittest”.194 Per quanto concerne la nostra analisi il concetto di forza, perdendo il contatto con l’originaria realtà scientifica in cui era stato coniato, venne fortemente personalizzato nel suo utilizzo acquisendo le più svariate accezioni che esulavano dalla realtà empirica in cui esso era sorto: ”The concept of force is nonempirical. [...] It is an arbitrary concept, possessing no special relationship to reality. The term force is essentially figurative in all its uses”.195 193 Ivi, p. 60. Ibidem. 195 Ivi, p. xiv. 194 82 Dalla metà degli anni 1840 anche Emerson inizia ad utilizzare nei suoi scritti metafore tratte dalla fisica e dalla chimica - in particolare metafore relative alla forza e all’energia – in maniera più consistente,196 e l’utilizzo che egli ne fa è un esempio di come il concetto di forza venne applicato per lo più in modo figurato. Emerson raramente utilizza difatti il concetto di forza in ambito prettamente fisico, prediligendone invece un uso meno concreto e relativo per lo più alla forza morale e spirituale: Who can set limits to the remedial force of spirit? (Nat 1.71 3) The love which lifted men to the sight of these better ends was...the disposition to trust a principle more than a material force. (LT 1.276 20) The force of character is cumulative. (SR 2.59 18) All mental and moral force is a positive good. (UGM 4.13 25) If you wish the force of the intellect, the force of the will, you must take their divine direction. (PerF 10.84 2) The moral sentiment alone can make a man other than he is. Here or nowhere resides unbounded energy, unbounded power. (LT 1.272 18) La guerra necessaria per acquisire forza interiore occupa poi un posto di rilievo tra le varie guerre che costellano l’universo bellico di Emerson. Prima di lanciarsi alla ricerca del potere, l’uomo è impegnato innanzitutto ad acquisire controllo su stesso, risultato ottenibile con la sconfitta di debolezze, tentazioni e paure: What avails it to fight with the eternal laws of mind... (SL 2.149 19) That which I hate and fear is really in myself... (Chr2 10.120 13) We are afraid of truth... We are...afraid of fortune...We are...afraid of death...We are...afraid of each other. (SR 2.75 13) To make good the cause of Freedom, you must draw off from all foolish trust in others. You must be citadels and warriors yourselves. (FSLN 11.235 2) To be really strong we must adhere to our own means. (Cour 7.266 12) Prima di affrontare le forze esterne l’uomo deve letteralmente “armarsi”, e in questo genere di affermazioni la metafora bellica e l’attitudine personale si sovrappongono quasi ad 196 W. Rossi, “Emerson, Nature, and Natural Science”, in J. Myerson, A Historical Guide to Ralph Waldo Emerson, cit., p. 135. 83 identificarsi, e l’uomo diventa davvero un “soldato” che deve prepararsi per combattere la sua battaglia: At first, delighted with the triumph of the intellect...we are like...soldiers who rush to battle. (Prch 10.220 22) There are...minds that produce their thoughts complete men, like armed soldiers, ready and swift to go out to resist and conquer all the armies of error. (PLT 12.18 8) We want justice, with heart of steel, to fight down the proud. (YA 1.389 23) I wish the youth to be an armed and complete man. (MoL 10.251 1) Perception is the armed eye. (PLT 12.37 17) Unhappily no man exists who has not in his own person become to some amount a stockholder in the sin, and so made himself liable to a share in the expiation. Our culture therefore must not omit the arming of the man. (Hsm1 2.249 19) Men of thought fail in fighting down malignity, because they wear other armour than their own. (Schr 10.274 10) The army of unright is encamped from pole to pole, but the road of victory is known to the just. (FSLN 11.235 18) Rimanendo nell’ambito delle qualità belliche, Emerson parla spesso di coraggio ed eroismo. Tuttavia, i termini si allontanano dal significato acquisito in ambito militare, e appaiono caratteristiche attribuibili a chiunque se ne mostri degno, raggiungibili anche da uomini che non si cimentano necessariamente in imprese marziali. Si noti come il temine “courage” non abbia qui nulla a che fare con l’utilizzo delle armi e venga, anzi, persino contrapposto a quello mostrato in battaglia: Courage...consists in the conviction that the agents with whom you contend are not superior in strength of resources or spirit to you. (Cour 7.264 19) Courage is nothing else than knowledge. (PPh 4.63 27) There is...a courage which enables one man to speak masterly to a hostile company, whilst another man who can easily face a cannon's mouth dares not open his own. (Cour 7.268 1) The sacred courage is connected with the heart. (Cour 7.273 3) I cannot manage sword and rifle; can I not therefore be brave? (Schr 10.274 6) Lo stesso concetto di eroismo, principalmente trattato nel saggio “Heroism”, è spesso legato metaforicamente all’ambito guerriero, ma sembra non riferirsi all’”eroe di guerra” nel senso 84 comune in cui egli è inteso. “Heroism”, afferma Emerson, “is the state of the soul at war”:197 “The man within the breast assumes a warlike attitude, and affirms his ability to cope singlehanded with the infinite armies of enemies. To this military attitude of the soul we give the name of Heroism” (Hsm1 2.250 6). Il vero eroe, in questo caso, non è un militare, ma colui che assume un atteggiamento marziale e predispone la sua anima -non il suo corpo- alla battaglia. Nel saggio si susseguono definizioni piuttosto simili che vanno in tal senso: Heroism is an obedience to a secret impulse of an individual's character. (Hsm1 2.251 12) Heroism works in contradiction to the voice of mankind... (Hsm1 2.251 10) Self-trust is the essence of heroism. (Hsm1 2.251 26) The hero is not fed on sweets/daily his own heart he eats. (Hsm1 2.251 6) In seguito a queste affermazioni, Emerson appare interessato soprattutto ad un profondo dialogo interiore che possa risvegliare anche gli impulsi più segreti tramutandoli in potere. Secondo Jeffrey Steele, ”Like Jung, Emerson practices a psychological analysis dedicated to detaching from the general instinct of life the moral principles which we feel to be the ascendant stars in our inner firmament”.198 La ricerca di forze, come afferma anche Robert Richardson, sembra essere tesa essenzialmente all’indipendenza morale e intellettuale dell’individuo, ad un’auto-liberazione che lo porti a essere auto-sufficiente: Emerson is the great American champion of self-reliance, of the adequacy of the individual, and of the importance of the active soul or spirit. Never content with mere assertion, he looked always for the sources of strength. Emerson’s lifelong search, what he called his heart’s inquiry, was “Whence is your power?” His reply was always the same: “From my nonconformity. I never listened to your people’s law, or to what they call their gospel, and wasted my time. I was content with the simple rural poverty of my own. Hence this sweetness”.199 Sempre in “Heroism”, difatti, si legge: The characteristic of heroism is its persistency. All men have wandering impulses, fits, and starts of generosity. But when you have chosen your part, abide by it, and do not weakly try to reconcile yourself with the world. The heroic cannot be the common, nor the common the heroic. Yet we have the weakness to expect the sympathy of people in those actions whose excellence is that they outrun sympathy, and appeal to a tardy justice. If you would serve your brother, because it is fit for you to serve him, do not take back your words when you find that prudent people do not commend you. Adhere to your own act, and congratulate yourself if you have done 197 Il corsivo è mio. J. Steele, “Interpreting The Self: Emerson And The Unconscious”, in J. Porte, Emerson, Prospect and Retrospect, cit., p. 104. 199 R. Richardson, Emerson, The Mind on Fire, University of California Press, Berkley, 1995, p. 3. 198 85 something strange and extravagant, and broken the monotony of a decorous age. It was a high counsel that I once heard given to a young person, -- "Always do what you are afraid to do". (Hsm1 2.251 46) Questa convinzione che l’eroismo risieda nella forza di rifiutare il conformismo ed affermare la propria originalità è rafforzata anche dall’importanza che Emerson conferisce alla figura dell’intellettuale e al compito che egli, coraggioso e ardito tanto quanto un combattente, ricopre nella società. La figura del soldato viene difatti molto spesso avvicinata a quella dello studioso, e le due tipologie ricorrono puntualmente negli scritti di Emerson.200 Era sua ferma convinzione, difatti, come abbiamo già avuto modo di notare, che anche coloro che erano impegnati in occupazioni sedentarie potessero sperimentare il coraggio che il guerriero sperimentava sul campo di battaglia: Against the heroism of soldiers I set the heroism of scholars... (CInt 12.113 16) Is an armed man the only hero? (Schr 10.274 8) I cannot manage sword and rifle; can I not therefore be brave? (Schr 10.274 5) Emerson utilizza, evidentemente, l’immagine del soldato per spingere gli uomini al coraggio, e non per indurre l’umanità ad andare in guerra: “In an age that Emerson thought lacking in a ‘literature of Heroism’, his own writings were a constant call to bravery”.201 A conferma di ciò non mancano affermazioni che ribadiscono la superiorità della forza interiore –in particolare la forza di carattere e di volontà - rispetto a quella fisica che, tra l’altro, spesso serve soltanto a mascherare la codardia: Wellington, in speaking of military men, said, What masks are these uniforms to hide cowards! (OA 7.316 7) Physical force has no value where there is nothing else. (Pow 6.70 17) Great men are they who see that spiritual is stronger than any material force... (PC 8.229 5) Se ci fermassimo qui, la situazione si prospetterebbe molto chiara; vi sono però, tuttavia, una serie di considerazioni che inducono a pensare esattamente il contrario. Per 200 E. Stessel, “The Soldier and the Scholar: Emerson’s Warring Heroes”, Journal of American Studies, 19, August 1985, p. 167. 201 Ibidem. 86 Emerson l’uomo deve affrontare varie battaglie interiori perché solo tramite esse può migliorare, ma...tutto ciò non resta fine a stesso, perché è funzionale ad un’ulteriore battaglia che ha come ultimo scopo il dominio del mondo circostante: Victory over things is the office of man. Of course, until it is accomplished, it is the war and insult of things over him. (Edc1 10.127 10) Knowledge, Virtue, Power are the victories of man over his necessities, his march to the dominion of the world. (MR 1.240 10) Out of the human heart go as it were highways to the heart of every object in nature, to reduce it under the dominion of man. (Hist 2.36 11) Liberty is aggressive...( FSLN 11.244 2) A man is tempted out by his appetites and fancies to the conquest of this and that piece of nature, until he finds his well-being in the use of his planet. (Wth 6.88 25) Liberation of the will...is the end and aim of this world. (F 6.36 5) Queste affermazioni ci introducono a un aspetto pericoloso del pensiero di Emerson, un aspetto reso ambiguo dal modo in cui egli gestisce i concetti di forza, superiorità e potere. Emerson sembra riferirsi letteralmente all’acquisizione del potere sopra se stessi e alla crescita del carattere, servendosi però di un linguaggio di conquista e di dominio. L’uso della retorica della guerra toglie certezza alle nostre precedenti conclusioni, e Lopez quindi si chiede – e noi ci poniamo la stessa domanda - : “Why does Emerson use the rhetoric of hard power (brute force) to describe the experience of soft power (spiritual development)? Could he not have stated things differently, in a way that would never have created any ambiguity in the first place?”202 “Power” è indubbiamente il termine statisticamente più rilevante negli scritti di Emerson, e il suo utilizzo va ad intersecarsi direttamente con la sua retorica della guerra - e della pace. Far luce sull’intero argomento è assolutamente indispensabile, e per far ciò è necessario farsi strada tra le ambiguità, per capire di quale “ricerca”, e di quale “potere”, Emerson stia parlando. 202 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 133. 87 2.6.2: Lust For Power Whatever is dreary and repels is not power but the lack of power. (Journals, vol. 9, p. 129) Sebbene Nietzsche sia considerato il filosofo del potere per antonomasia, Emerson, a dire il vero, non risulta essergli da meno e, soprattutto, sembra essere stato per Nietzsche modello e fonte di ispirazione.203 Come ha giustamente notato Lopez, in tutte le opere di Emerson serpeggia una filosofia del potere che, pur non sempre in maniera visibile, è continuamente presente e abbraccia tutti gli aspetti dell’arte e della vita del suo autore: “What seems to shine beneath his prose, in the flow of images of destruction, creation, liberation, metamorphosis, melting, dissolving, pulsating, bursting, unfixing, upheaving, and unsettling, is his message of ‘pure power’”.204 Come per altri aspetti del suo pensiero, Emerson risente del contesto storico - culturale in cui vive, un contesto anch’egli alle prese con la ricerca di potere, e come altri suoi contemporanei condivide il fascino tipico del romanticismo che consiste “in the mind’s desire to test its own largeness and potential against natural, technological, and cosmic force”.205 Emerson sembra davvero “ossessionato” dalla ricerca di potere, dal suo accumulo, dal suo utilizzo e dal suo controllo; a tal fine, tutte le azioni dell’uomo sembrano tese, anche se non sempre in modo diretto, ad un unico scopo: “Each of his mayor essays can be read as a fable of the self, the soul, the mind, man or humankind in the process of struggling for, gaining, 203 “For more than two-and-a-half decades Nietzsche read and reread Emerson with great enjoyment and with even great profit”. G. Stack, Nietzsche and Emerson: An Elective affinity, cit., p. vii. Stack, a cui si rimanda per una trattazione completa dell’argomento, sviluppa un confronto approfondito e molto interessante tra Emerson e Nietzsche, mettendo in luce peculiarità e differenze della loro filosofia del potere. 204 “Emerson’s lifelong aspiration for rhetorical force as an artist is inseparable from his anxiety over his personal stamina." M. Lopez, “Transcendental failure", cit., pp. 122-123. 205 L’attrazione romantica per il potere in tutte le sue forme è presente anche in William Blake, Samuel T. Coleridge, Edmund Burke e, personaggio più vicino ad Emerson, William Ellery Channing. In età vittoriana, poi, Thomas Carlyle, Charles Darwin, Schelling, a loro modo e in diverso campi, condividono lo stesso interesse. Ivi, p. 125. 88 losing, or rewinning some form of power”.206 L’attrazione di Emerson per ogni forma di potere è davvero vasta, varia e contraddittoria. E’ difficile sia distinguere la ricerca di potere personale da quella artistica, quella retorica da quella reale, quella eticamente giusta da quella moralmente sbagliata:207 He was drawn to spiritual force as well as brute force, the force of mind and the force of sex, the anarchic energies of the mob, the power of armies, gunpowder, steam, sawmills, electricity, the power of genius, eloquence, great men, demagogues, and tyrants. He was drawn to beast power, dream power, and the power of water, lightning, and the vastness of American landscape, the energies of evil and ice, as well as the pacifist, moral force of martyrdom.208 Come in altre personalità del tempo, anche in Emerson l’idea di potere rimane sempre elusiva e ambigua, e per questo soggetta a varie interpretazioni. Soprattutto, come in seguito Nietszche, Emerson venne criticato per l’incoerenza del suo pensiero: “he shifts his perspective on power and its pursuit quite often” e quindi “he never seems to arrive at an unambiguous, settled opinion on this question”.209 Nella confusione generata dalle sue affermazioni, alcuni punti sembrano però piuttosto chiari. Fra di essi, vi è la certezza che in natura il potere è presente in enormi quantità, ed è rintracciabile in ogni parte e sotto ogni forma: There is never a beginning, there is never an end, to the inexplicable continuity of this web of God, but always circular power returning into itself. (AmS 1.85 8)210 This fountain of power has been so distributed to multitudes...that it is spilled into drops. (AmS 1.83 10) Power is, in nature, the essential measure of right. (R 2.70 23) There is power over and behind us. (NER 3.281 26) 206 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 4. “Emerson was always attracted to all forms of power, even those that repelled him morally”. Ad esempio, egli condivideva con i suoi contemporanei l’ammirazione per Napoleone Bonaparte, a cui dedica un saggio nel suo volume Representative Men (1850). Pur apprezzandolo per la sua forza di carattere, per l’indipendenza di giudizio e per la capacità di essere un leader e un personaggio carismatico, Emerson lo critica violentemente accusandolo di essere un demagogo e di perseguire fini immorali; nonostante tutto ciò, non può fare a meno di ammirare “the simplicity & energy of his evil” ( R. W. Emerson, Journals, vol. 3, p. 277). Ivi, p. 7. 208 Ibidem. 209 G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 166. 210 Stack afferma: ”Beneath the social and cultural forms of life, Emerson contends, there is ‘power’; the ultimate ‘power’ that pervades all living beings waxes and wanes and is concentrated in no single place, in no singular entities.” Dopo la pubblicazione di “Experience” (1844) Emerson, continua Stack, inizia a vedere il potere e la necessità di potere praticamente dappertutto. Ivi, p. 151. 207 89 La teoria secondo cui il potere è una realtà fondamentale presente sia nel cosmo che nel microcosmo dell’esistenza individuale e collettiva dell’uomo era stata già tracciata da Emerson e non può quindi essere attribuita, come è stato fatto, principalmente a Nietzsche: ”The overriding importance of power in the natural world, the significance of the role of power and its pursuit in human life, the omnipresence of a variety of forms of power in actuality are not conceptions that were originally discovered or articulated by Nietzsche”.211 Inoltre, rifiutando la visione ortodossa di Dio come una remota divinità, Emerson concepisce Dio stesso come “The supreme Power” che si manifesta in vari aspetti della vita, ed è attivamente presente in natura e nell’uomo. Essendo un trascendentalista, Emerson presenta una teoria del potere secondo cui “there is a spiritual force in nature that ‘seeks’ material embodiment”;212 come ci ricorda Buell, Emerson è in effetti in linea con il messaggio centrale del trascendentalismo secondo cui la divinità era una forza più che mai immanente,213 e ciò non fa che dare più rilevanza, sia qualitativa che quantitativa, al potere presente e acquisibile in natura. Altro punto fondamentale e indiscusso del pensiero di Emerson è la certezza che, in questo universo saturo di potere, l’uomo ne è attratto magneticamente e non può fare a meno di ricercarlo: Life is a search after power. (Pow 6.53 13) Power, new power, is the good which the soul seeks. (PI 8.63 25) Power is the first good. (Insp 8.272 8) The one thing we wish to know is, where power is to be bought. (Insp 8.269 4) Men...very naturally seek money or power; and power because it is as good as money. (AmS 1.107 13) 211 “If we try to bring together all of Emerson’s numerous observations concerning power in nature, in society, and in the individual, we shall see that an early stimulus to the conception of a universally active will to power in nature and in man-in-nature was emitted by Emerson”. Nonostante la somiglianza iniziale, però, Nietzsche si differenziò da Emerson personalizzando la sua concezione di potere, e la rinforzò in seguito alla familiarità con Richard Wagner e le sue idee sulla ricerca del potere. Ivi, p. 141. 212 Ivi, p. 14. 213 L. Buell, Literary Transcendentalism: Style and Vision in the American Renaissance, Ithaca, N.Y., Cornell University Press, 1973, p. 45. 90 Our money is only a second best. We would jump to buy power with it, that is, intellectual perception moving the will. (Insp 8.269 11) L’eventuale acquisizione di potere non è però così semplice, e la sola ricerca non è sufficiente a determinare il successo dell’uomo. Egli non vive indisturbato nell’universo che benevolmente si prostra ai suoi piedi, ma deve lottare contro forze avverse che lo contrastano. Nonostante ciò, l’uomo non deve ritrarsi dallo scontro, perché con esso può divenire consapevole dei suoi poteri e combattere quindi la battaglia contro il destino che lo limita: We have too little power of resistance against this ferocity which champs us up. (MoS 4.177 9) Though Fate is immense, so is Power...immense. (F 6.22 4) If Fate follows and limits Power, Power attends and antagonizes Fate. (F 6.22 6) Knowledge, Virtue, Power are the victories of man over his necessities. (MR 1.240 9) In The Conduct of Life, i cui due saggi iniziali sono “Fate” e “Power”, Emerson espone la sua tesi secondo cui, afferma Robinson, “Power grows out of the restraints of fate, the forces that stand as ‘immovable limitations’ to the human will”.214 Parlare di limiti imposti dal destino in una cultura in espansione e votata all’ottimismo come quella americana della seconda metà del diciannovesimo secolo era sicuramente un atto impopolare da parte di Emerson, un gesto che deve essere letto come un atto di dissenso politico nei confronti della superficialità della cultura americana.215 Emerson afferma dunque che l’uomo ha i poteri per contrastare le forze del destino, ma esse comunque esistono e ogni società deve tenerne conto. Probabilmente spaventato dalla mancanza di consapevolezza dei suoi contemporanei, sia nei confronti delle forze esterne sia di quelle individuali – accresciute dalle scoperte scientifiche e dall’industrializzazione - Emerson è preoccupato dalla gestione di poteri molto grandi, di cui l’uomo può usufruire correttamente soltanto se si dimostra all’altezza del compito. Sia negli 214 D. Robinson, Emerson and the Conduct of Life, Cambridge University Press, New York, 1993, p. 136. Lopez afferma che in The Conduct Of Life Emerson rivela una vera e propria “obsession with power”: l’opera è piena, difatti, di meditazioni sul potere e sulla guerra, “many passages welcoming war, temptation, and antagonism as heroic forms of self -overcoming - as the very foundation of nature, the cosmos, culture, art, religion and history”. M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 41. 215 Ibidem. 91 scritti pubblicati che nei Journals Emerson insiste difatti sull’importanza di saper gestire il potere che la natura ci conferisce: Nature gives us no sudden advantages. By the time we have acquired great power, we have acquired therewith sufficient wisdom to use it well. Animal magnetism inspires us, the prudent and moral, with a certain terror. Men are not good enough to be trusted with such power. (Journals, vol. 4, p. 20) The Power that deals with us, the Power which we study and which we are to inherit as fast as we learn to use it, is, in sum, dazzling, terrific, inaccessible. It now benignly shows us in parts and atoms some arc of its magnificent circle, elements which are radically ours. the world and you involves pretensions as enormous. (Journals, vol. 5, pag. 98) Before we acquire great power we must acquire wisdom to use it well. (Dem1 10.21 9) I wish to know the laws of this wonderful power, that I may domesticate it. (PLT 12.14 1) Says the man...the favourable hour will come when I can command all my powers. (Insp 8.276 24) Il potere dunque, pur essendo il bene supremo, è un’arma potente che va maneggiata con cura; esso, per le sue grandi e quasi spaventose potenzialità, deve essere dominato, “addomesticato” e ben gestito. La grandezza dell’uomo consiste sì nell’acquisizione di potere, ma essa può avere, però, anche risvolti pericolosi: “The ‘will to power’ or ‘search after power’ is inherited by man from nature and is his most potentially lethal trait. But it is also a tremendous source of positive energy and will to excellence”.216 L’eccesso di potere, se mal gestito, può rivelarsi anche distruttivo, e Jeffrey Duncan mette in guardia da questo pericolo: ”Vitality is often found in a quantity excessive enough to make it a dangerous potential for destructiveness [...]. Destructiveness, in fact, is the symptom or consequence of an excess of power, and here lies the potential of power to harm and the need for a balance of power and form”.217 Emerson stesso è in effetti il primo ad invocare un giusto equilibrio tra potere e controllo del potere: “Life itself is a mixture of power and form” (Exp 3.60 3), “Human life is made up of the two elements, power and form” (Exp 3.65 24). L’uomo, pur potendo usufruire dei grandi poteri che la natura gli offre, possiede anche la capacità di un’elevata organizzazione morale, e per 216 217 G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 251. J. Duncan, The Power and Form of Emerson‘s Thought, cit., p. 40. 92 questo deve sapersi controllare.218 Ciò che si dovrebbe trovare, dunque, è un equilibrio tra potere e forma, una via di mezzo che dovrebbe permettere alle energie acquisite di rimanere attive senza diventare, però, distruttive. Secondo Stack un forte deterrente alla ricerca immorale di potere può derivare anche dalla cultura, capace di sublimare l’energia naturale senza tuttavia reprimerla: ”Ideally, culture should refine, subdue, and ‘spiritualize’ these strong natural energies, but not destroy them”.219 Siamo arrivati, o meglio, tornati, allo stesso equilibrio che la società dovrebbe trovare tra guerra e pace, tra spirito bellico e occupazioni sedentarie e, probabilmente anche in seguito alla scoperta della legge della conservazione di energia, Emerson cullava la speranza che le tutte le forze istintive potessero trasformarsi in energie coltivate senza tuttavia disperdersi. Nonostante ciò, rimane l’ambiguità sottesa all’accumulo di potere e al tipo di utilizzo. La ricerca di potere di Emerson attraverso sentieri psicologici e retorici, la centralità dell’antagonismo, della retorica della forza e della guerra sono suscettibili a obiezioni morali.220 Tramite quella che Lopez chiama una precisa “doctrine of use”, l’uomo di Emerson ha la capacità di assimilare e volgere ogni elemento a suo favore, “Man is to convert...all enemies into power” (Ctr 6.166 10). Il concetto, che sembra avere chiare origini puritane e poi unitariane,221 può essere considerato un meccanismo per superare le perdite e uscire rafforzati dalle prove della vita, ma potrebbe anche implicare il diritto di poter utilizzare l’universo in maniera opportunistica. Questa dottrina che potremmo definire “utilitaristica”, che impiega una “psycology of overcoming and creative sublimation”, può rivelarsi pericolosa perchè subordina tutto all’affermazione personale: ”everything we do, everything that befalls us, 218 Ivi, p. 7. G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 237. 220 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 145. 221 La chiesa unitariana di Boston professava “self-development and self-fulfilment as the essence of religion and the chief end of man”. G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 64. 219 93 ought to be put to use in what Nietzsche would call some “healtly” or “life-affirming” way”.222 Secondo quanto afferma Duncan, Emerson, pur tentato da una totale affermazione dell’individuo sul mondo e sulle forze superiori, avrebbe infine raggiunto un equilibrio tra potere e forma, tra volere dell’uomo e leggi del fato, scegliendo di percorrere la strada cristiana: There are two basic aspects of nature: on the one hand, fate, natural laws, the order of things, necessity; on the other, will, duty, or freedom, creative forces that stem from thought or consciousness. For Emerson it is difficult to reconcile these two elements, but in the end he chooses a Christian line: Self-reliance is Emerson’s interpretation of the sentences of Luke ”The kingdom of God is within you” - and Paul “We are the temple of the living God”. A man should never lose sight of the truth that he did not create himself; that he is a manifestation of powers not his own; and that he therefore should never transfer his reliance to himself as an effect. Such a transfer is the fall, the disease of the will, rebellion and separation from the eternal to which he feels every man properly belongs.223 Personalmente non condivido l’opinione di Duncan, perché credo che se Emerson avesse davvero trovato una riconciliazione non utilizzerebbe un linguaggio così bellico, e soprattutto si percepirebbe una serenità stilistica che invece lascia spazio a un continuo antagonismo e a una continua tensione del pensiero riflessa nella scrittura. Il linguaggio di Emerson non sembra avere, a mio parere, come ultimo scopo quello di una pacificazione o meglio la rinuncia arrendevole di fronte a poteri fuori della portata dell’uomo, piuttosto esso suggerisce una continua ricerca, cela la volontà di scovare nuovi orizzonti, l’intenzione di sondare i limiti reali della mente umana, il desiderio di provocare continue sfide seppur pericolose. Secondo Lopez, con cui mi trovo d’accordo, in Emerson l’unica riconciliazione possibile tra uomo e destino è un’eterna lotta: “Emerson had defined mind and nature not as participants in an ultimate blending, but as antagonists whose ultimate reconciliation lay precisely in perpetual struggle”.224 222 Ibidem. J. Duncan, The Power and Form of Emerson‘s Thought, cit., p. 55. 224 M. Lopez, “Transcendental failure“, cit., p. 126. 223 94 Tentando di bilanciare due desideri contrastanti, Emerson continuerebbe dunque a oscillare tra desiderio di potere e necessità di sottoporlo a una restrizione. La situazione di Emerson, continua Lopez, non sarebbe un’eccezione, ma una condizione diffusa e comprensibile in un’epoca caratterizzata da continui dibattiti in cui premesse già di per sé inconciliabili rimangono irrisolte: Nineteenth-century narratives, historical, fictional, and scientific, return time and again to the age’s abiding paradox: the conviction that “the exercise of individual human will” is “central to all human endeavour” and the concurrent faith that “the highest function of that will” lies in its subordination “to some higher power, institutional, moral o theological”.225 Definire, a questo punto, se si tratta di poteri fisici o spirituali, e se si parla di esercitare un dominio reale o figurato sul mondo, è di vitale importanza. Per Richardson “the kind of power Emerson treats is neither physical force nor spiritual strength; it is the force of will or character that produces success. Emerson is interested in the power of execution, the power to carry out what one designs or intends”.226 A mio avviso, questa definizione non ci aiuta a circoscrivere i limiti etici imposti all’esercizio del potere, e lascia piuttosto vago il confine fino a cui Emerson è disposto a spingersi. Secondo Stack, Emerson esamina l’idea di potere da diverse prospettive: come concezione metafisica della natura, come base psicologica della motivazione umana, come fenomeno sociale e spirituale.227 Nessuna di queste forme contempla, però, il desiderio di possedere l’altro: “The basic form of power that man desires is not power over others, but a subjective sense of energy, strength, health, a feeling of overcoming “resistances”.228 A simili conclusioni arriva anche Lopez. Pur riconoscendo – come anche Stack fa - l’ambivalenza del pensiero di Emerson e la conseguente impossibilità di arrivare ad una conclusione chiara, Lopez sostiene che l’attrazione per il potere in Emerson rimane, in definitiva, una fantasia “romantica”: 225 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 155 R. Richardson, Emerson, The Mind on Fire, cit., p. 491. 227 G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 154. 228 Ivi, p. 158. 226 95 It seems to me that Emerson’s attraction to power remains a fundamentally “romantic” preoccupation. It is, in other words, a preoccupation that originates in the mind’s desire to test its own energies, to define its own will and capacities, by measuring them against some force other than its own.229 Probabilmente, proprio l’incapacità di scegliere tra due tipologie di potere, una essenzialmente aggressiva, che lo attira ma è poco morale, e una tipologia di potere eticamente e spiritualmente bilanciato ma per questo soggetto a limiti, fa rimanere Emerson in bilico e in lotta tra le due prospettive. Non riuscendo a scegliere, egli continua a testare le enormi possibilità dell’individuo senza avere però l’ardire di metterle completamente in atto, infondendo nell’uomo un sentimento di grandezza che gli permetta di vivere meglio la sua limitatezza. Concordo con Pease, che sostanzialmente è in linea con Lopez e Stack quando afferma: Emerson does not encourage the individual either to act in the world or to will action. Instead he encourages the individual to discover power in this inability to act [...]. The inability to perform any particular action recovers the sovereign capability to perform all actions.230 Pur non potendo esercitare, per motivi sia etici che oggettivi, una capacità di azione illimitata, l’uomo si consola nell’immaginarla, e questo atto di immaginazione lo rende cosciente delle sue potenzialità inespresse o inesprimibili, e solo tramite esso egli riesce ad appropriarsi del mondo. L’unico mezzo – mezzo che Emerson conosceva molto bene - per avere un tale dominio sull’universo, senza tuttavia arrivare a possederlo realmente, non può essere che il linguaggio: l’unica arma, la più potente, con la quale Emerson combatte tutte le sue battaglie. 229 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 14. D. E. Pease, “Melville and Cultural Persuasion”, in H. Melville, A collection of Critical Essays, ed. by M. Jehlen, Prentice hall, New Jersey, 1994, pp. 62-67. 230 96 2.7: Potere del Linguaggio All conversation and writing is rhetoric, and the great secret is to know thoroughly, and not to be affected, and to have a steel spring. (R.W.E., Journals, vol. 10, p. 132) In Emerson la sfera del linguaggio è pienamente coinvolta nella ricerca del potere. Egli dedicò difatti molto tempo allo studio delle origini del linguaggio, per scoprirne il suo misterioso potere al fine, poi, di utilizzarlo al meglio.231 Per ottenere il suo scopo, Emerson intraprende – come suo solito - una dura lotta anche con il linguaggio stesso: ”the necessity that one must struggle with language in the effort to appropriate its otherwise hidden powers is evident everywhere in his writings”.232 Il rapporto conflittuale che intercorre tra Emerson e il linguaggio è certamente dovuto alla ricerca di potere, ma anche alla correlata ricerca di libertà e indipendenza culturale. Emerson diviene consapevole non solo del fatto che il linguaggio è un’eredità culturale a cui nessuno può sfuggire, ma anche che esso sia, probabilmente, lo strumento di controllo più potente e inevitabile, perché invisibile, che la cultura e la società possano utilizzare.233 Anticipando Foucault, Emerson avverte che la produzione del discorso è essenziale nella gestione del potere, per questo essa è, come affermerà poi il filosofo francese, “insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli [del discorso], di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”.234 Il discorso - continua Foucault- non è semplicemente legato all’esercizio del potere, ma, essendo esso stesso una grande fonte di potere necessaria a mantenere determinati 231 “Emerson was concerned not merely with choosing his words and arranging them, but with probing to the origins of speech in order to find out the sources of its mysterious powers”. F.O. Matthiessen, American Renaissance, cit., p. 30. 232 R. Poirier, The Renewal Of Literature, Random House, New York, 1987, p. 30. Lopez sottolinea l’importanza dell’analisi di Poirier, che ha contribuito a mettere in luce l’antagonismo presente nel linguaggio di Emerson: “Emerson is, in short, both a philosopher of direction, a philosopher of the ordinary, and a prophet of extremity, a rhetorical provocateur”; quest’ultimo aspetto, tuttavia, per molti anni è stato oscurato dal primo, e soltanto grazie a nuovi studi e a critici come Poirier è stato recuperato. M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 123. 233 R. Poirier, The Renewal Of Literature, cit., p. 72. 234 M. Foucault, L’ordine del Discorso, Torino, Einaudi, 1970, p. 8. 97 rapporti di forza, oltre ad essere ciò attraverso cui si lotta è anche ciò per cui si lotta: “è il potere stesso”.235 Attraverso una serie di procedure di esclusione sia esterne che interne al discorso, pertanto, si cerca di gestire l’enorme potere che esso contiene, un potere che va regolato e, in una certa misura, temuto.236 La cultura dunque, che tramite il controllo del linguaggio impedisce ad Emerson di utilizzarne del tutto i poteri, è sicuramente un ostacolo incombente, ma - come tutti gli ostacoli per Emerson - non va considerato un fardello, piuttosto un’opportunità che ci consente di trasformare ciò che siamo costretti a ereditare. Proprio all’interno del linguaggio, difatti, lo scrittore può ribellarsi alle costrizioni culturali e può trovare una sua dimensione proprio tramite ciò che lo limita; anche se soltanto per la durata di una frase o di un paragrafo, egli può, tramite e durante specifici atti di liberazione e di salvataggio, appropriarsi del retaggio culturale e trasformarlo in qualcosa di nuovo e personale: ”Language is also the place wherein we can most effectively register our dissent from our fate by means of troping, punning, parodistic echoings, and by letting vernacular idioms play against revered terminologies”.237 La letteratura difatti, secondo Poirier, ha il potere di generare sia il “veleno” del controllo linguistico, sia il suo “antidoto”: “literature generates its substance, its excitements, its rhetoric, and its plots often with the implicit intention, paradoxically, to get free of them and to restore itself to some preferred state of naturalness, authenticity, and simplicity”.238 Naturalezza, autenticità, semplicità sono le caratteristiche che Emerson vorrebbe ritrovare nel linguaggio, insieme ad una vivacità che esso ha ormai perso. La fortuna di vivere 235 Ivi, p. 10. Foucault afferma: “Si è cercato, insomma, di limitare e/o nascondere il potere del discorso. Dietro la nostra apparente venerazione per il discorso si cela una sorta di timore: sono stati posti limiti, sbarramenti per limitare la proliferazione del discorso, organizzando in figure la parte più incontrollabile; vi è una profonda logofobia, un timore contro questi eventi, contro ciò che vi può essere di violento, discontinuo, battagliero, disordinato”. Ivi, p. 7. 237 R. Poirier, The Renewal Of Literature, cit., p. 30, 185. 238 Ivi, p. 11. 236 98 in un territorio, quello americano, dove tutto sembra destinato a rinnovarsi e a diversificarsi dal vecchio mondo, non fa che acuire la frustrazione di Emerson, che avverte ancora più fortemente la disparità esistente tra aspirazione ideale e possibilità reali: il continente americano potrebbe rappresentare il luogo dove il suo desiderio potrebbe realizzarsi, invece è in realtà soltanto un ponte tra vecchio e nuovo, a causa dei caratteri culturali che il linguaggio inevitabilmente continua a portare con sé: ”Wherever you are, you live within its necessities, within the cultural inheritances carried in its syntax”.239 Non potendo sfuggire al linguaggio ereditato, Emerson - afferma Poirier, e con lui anche Ellison e Cadava - adotta quindi uno stile che gli consente di cambiare il linguaggio proprio tramite il linguaggio stesso: ”Language is the only way to get around the obstruction of language, and in his management of this paradox Emerson shows why he is now and always essential”.240 Da questa consapevolezza e da questa tensione, sottolinea Ellison, nasce lo stile di Emerson: He [Emerson] elects a style of apparent unconsciousness in order to free himself from his own respect for tradition. Emerson’s literary development consist, therefore, of the movement of ongoing antagonism, the movement from memory to surprise, from causality to casualties, from guilt over the exercise of critical powers to delight in them”.241 Il nuovo può essere davvero tale soltanto se prodotto attraverso la memoria, che tramite l’incrocio con l’innovazione produce nuovi elementi.242 Come la tensione che intercorre fra destino e libertà, nella scrittura Emerson drammatizza quindi l’antagonismo che intercorre tra influenza e invenzione, tra potere creativo e analisi critica, fra tradizione e innovazione. Come accade anche nella relazione tra guerra e pace, Emerson è spaventato dalla stasi, dall’assenza di movimento che determina l’inerzia di forze, e per questo è attratto dall’interazione di energie che tramite un antagonismo produttivo generano continuamente vitalità. Per questo il linguaggio di Emerson è sempre in bilico tra due polarità, e si muove velocemente da un 239 Ivi, p. 70. Ivi, p. 72. Si veda anche J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, Princeton University Press, New Jersey, 1984, p. 203, e E. Cadava, Emerson and the Climates of History, Stanford, Stanford University Press, 1997, p. 5. 241 J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, cit., p.14. 242 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 5. 240 99 contesto all’altro, attraversa passato e presente, transita tra citazioni classiche e invenzioni sintattiche, passa da terreni consueti a territori sconosciuti. Cadava, che nella sua riflessione su Emerson analizza il legame tra il suo linguaggio e gli elementi storico - culturali, sottolinea: ”What may seem abstract and opaque to our modern ears may seem so because we no longer have an ear for the conflictual nature of Emerson’s language, the history and politics that this language bears within its movement”.243 A tal proposito, Cadava – come anche altri studiosi – rileva i tranelli che si celano dietro l’interpretazione letterale delle opere di Emerson, opere in cui il linguaggio si nutre del passato ma è decisamente proiettato nel futuro, e facendo ciò lavora per influire sul significato della nostra esistenza storica: In order to read him, we must remain as vigilant as possible to a language that performs its historical and political work through the mobilization of figures whose movement and multiple signification refer to both the linguistic past sealed within them and the unpredictability of a future that could alter, and thereby create, the meaning of our historical existence.244 La natura conflittuale del linguaggio in Emerson genera movimenti sia strutturali che semantici molto repentini che rendono impegnativa la lettura dei suoi scritti, e al lettore viene richiesta una notevole agilità mentale nonché una continua attenzione a ciò che legge e soprattutto al modo in cui esso può essere interpretato. Emerson raggiunge i suoi scopi, difatti, grazie ad una grande capacità di manipolare diverse figure retoriche, a un utilizzo sovversivo della sintassi, a cambi di tono repentini: ”Emerson’s interest and appeal reside in the imaginative materials and structure of his writing -in his tropes and topoi, his methaphors and verbal wit, in the remarkable consistencies of his conceiving mind and executing hand”.245 Per meglio comprendere la scrittura di Emerson è necessario accennare, però, anche al contesto storico - culturale in cui egli è vissuto e ha forgiato il suo stile. Le forme espressive più familiari ai trascendentalisti erano la conversazione e il sermone; ciò spiega la convivenza 243 Ivi, p. 139. Ivi, p. 10. 245 J. Porte, ”The problem of Emerson”, in M. Engel (ed.), The Uses of Literature, Cambridge, Harvard University Press, 1973, pp. 85-114. 244 100 nei loro lavori di impulsi estetici e didattici, ma soprattutto aiuta a rintracciare l’origine delle caratteristiche appartenenti alla sfera orale che si ritrovano nella loro scrittura.246 Barbara Packer non a caso afferma che “Emerson’s essays belong to the oral, not to the written, tradition”,247 e difatti la tradizione orale è così evidente nello stile di Emerson che, per utilizzare le parole di Alessandro Portelli, in Emerson “l’oralità è a monte della scrittura, come inizio inafferrabile e origine incombente”.248 L’esistenza ai tempi di Emerson di veri e propri “conversation clubs” è la prova dell’importanza che veniva ricoperta dalla pratica della conversazione, come sottolinea Buell: ”conversation was not a pastime but also a fine art and fit subject for philosophy”.249 Pur prediligendo la scrittura, la pratica della conversazione era per i trascendentalisti fonte di continua ispirazione, e il loro stile risente delle peculiarità dell’oralità: aforismi, improvvisazione, ripetizione e variazione, digressioni, interferenze soggettive.250 Il movimento trascendentalista poi, derivando dall’Unitarianesimo,251 contiene in sé elementi dell’oratoria unitariana che, a sua volta, si ispirava allo stile delle Sacre Scritture, ricco di ”figurative expressions, reiterations, rhapsodic flows and vagueness, interfusion of poetic feeling and moral tone”.252 In particolare gli scritti trascendentalisti risentono dell’utilizzo della “catalogazione retorica”, ossia “the reiteration of analogous images or statements in paratactic form, in prose or verse”. Ciò, afferma Buell, crea una sensazione di vigore, ma anche ”an impression of rambling and redudancy”.253 Anche se parecchi elementi della scrittura di Emerson derivano da forme espressive orali e dallo stile in voga tra i trascendentalisti, bisogna riconoscere che Emerson vi mette ad ogni modo anche del suo per rendere difficoltosa la lettura delle sue opere: evita 246 L. Buell, Literary Transcendentalism, cit., p. 75. B. Packer, Emerson’s Fall, cit., p. 8. 248 A. Portelli, Il testo e la Voce, Manifesto libri, Roma, 1992, p. 42. 249 L. Buell, Literary Transcendentalism, cit., p. 79. 250 A. Portelli, Il testo e la Voce, cit., p. 117. 251 Buell sottolinea come il trascendentalismo, pur essendo in contrasto con la Chiesa Unitariana, fosse una sua evoluzione piuttosto che una vera e propria rivolta. L. Buell, Literary Transcendentalism, cit., p. 38. 252 Ivi, p. 135. 253 Ivi, p. 166. 247 101 accuratamente introduzioni progressive a nuovi argomenti, transizioni aggraziate, i crescendo e decrescendo della saggistica comune; elimina poi connessioni tra frasi, paragrafi, e persino tra il saggio e il mondo esterno;254 inoltre, anche il problema del tono è decisamente rilevante: “Emerson’s sentences can be read in more than one way”.255 Le figure e gli stratagemmi retorici sono tanto più finemente impiegati da Emerson perché hanno uno scopo che va al di là del loro utilizzo testuale. Il linguaggio di Emerson, ci ricorda Burke, è sempre strutturato in modo tale da uscire da se stesso, e tende sempre ad un “oltre”: ”The machinery of language is so made that things are necessarily placed in terms of a range broader than the terms for those things themselves”.256 Esempi di ciò sono l’utilizzo dell’iperbole e della metafora. Tramite una scrittura iperbolica Emerson si prefigge mete ambiziose, che vanno oltre il mero esercizio retorico e sottintendono un preciso scopo: Hyperbole means the habit of saying something unpredictable, something more than is strictly speaking appropriate; but it also means a readiness to overstate or defy conventional logic or decorum in a way that invites -sometimes whimsically, sometimes defiantly- outright rejection or misreading.257 Sfidando la logica comune, Emerson – come anche Nietzsche e James, e anticipando Foucault e Deleuze – “was trying to release himself and the rest of us from any settled, coherent idea of the human, from the conceptual systems and arrangements of knowledge by which man has so far defined himself”.258 L’uso della metafora è complementare a quello “sovversivo” dell’iperbole e, ci spiega Ellison, ricopre nella scrittura di Emerson più funzioni. Innanzitutto, facendo interagire in maniera insolita il linguaggio tradizionale, essa tenta di uscirne fuori per creare così nuovi significati: “metaphor, as the trace of the modern mind at play in ancient languages, becomes another version of the anti-authoritarian reader/writer’s triumph over the past”.259 La metafora 254 B. Packer, Emerson’s Fall, cit, p. 6. Ivi, p. 7. 256 K. Burke, Language as a Symbolic Action, cit., p. 200. 257 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 120. 258 R. Poirier, The Renewal of Literature, cit., p. 65. 259 J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, cit., p. 19. 255 102 consente poi allo scrittore di contenere due opposti in una frase breve e chiusa, in modo da dar vita, tramite il loro antagonismo, alla forza esplosiva del linguaggio.260 Ancora una volta, Emerson si serve del linguaggio per creare movimento, l’unico gesto, secondo lui, in grado di creare potere: ”The human power is in transference, not in creation” (Journals,1847).261 Inoltre, attraverso questo “trasferimento” di significati, Emerson, secondo Ellison – come vedremo fra breve - non farebbe altro che operare un tentativo di dominio, trasponendo la realtà su un terreno linguistico dove i simboli gli permettono di disfarsi della realtà: “The metaphoric chain reaction is an ongoing act of mastering the object world. Once things are seen through, we are free from them, that is why symbols have the ‘power of emancipation’ and ‘liberty’ for all men”.262 L’ampio e articolato utilizzo delle figure retoriche fanno sì che la prosa di Emerson sia caratterizzata e scandita dalla frammentazione e dalla ripetizione, elementi che causano uno stile discontinuo dovuto, sicuramente, ad un pensiero anch’esso non sistematico: “To write a fragment is to write in fragments”.263 Conseguentemente, il ritmo di lettura è cadenzato e, di fatto, richiede una pausa ad ogni frase. Probabilmente è questo il motivo che induce Richardson a ritenere che la chiave di lettura della prosa di Emerson risiede proprio nell’essenza di ogni frase: “The secret of his prose is the sentence.[...] Emerson’s essays are collections of great sentences on a single topic. [...] He knew very well that his essays had 260 Ivi, p. 186. Sia Ellison che Cadava sottolineano questo aspetto: per Ellison in Emerson ”the metaphor itself is less important than the movement from it to the next”. J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, cit., p. 200; per Cadava il linguaggio di Emerson opera ”not by the accumulation of multiple associations around a strongly held center, but through the mobilization of terms from one shifting context to another.” E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 31. 262 J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, cit., p. 188. 263 P. Lacoue-Lebarthe and Jean-Luc Nancy, L’absolu littéraire: Théorie de la Littérature du Romantisme Allemand, Paris, Seuil, 1978, p. 58, citato in J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, cit. p. 157, che commenta: ”Regardless of his periodic spasms of regret about the texture of his rhetoric, Emerson knew, as we should, that fragmentation and repetition organized his kind of eloquence”. Ibidem. 261 103 little formal structure and that the very force and closure of each sentence set it off from all the others”.264 Un utilizzo così stravagante del linguaggio non può lasciare indifferente il lettore che, negativamente o positivamente, è costretto a reagire ad una simile provocazione. Sappiamo bene come Emerson sia sempre pronto ad agitare, provocare, e in alcuni casi addirittura ad offendere i lettori tramite uno stile che suggerisce e non dice, che combina eccesso e reticenza;265 in questo modo egli corre il rischio - ben calcolato - di essere frainteso. Tuttavia Emerson non è mosso soltanto dalla convinzione che l’essere fraintesi sia segno di bravura,266 ma anche dalla volontà di lasciare il lettore libero di interpretare il suo pensiero. Emerson, oltre ad essere uno scrittore, era stato e continuava ad essere un avido lettore; egli non solo dedicava quindi molto tempo alla lettura, ma la riteneva un’attività fondamentale nella vita di un intellettuale. Per come la intendeva lui, la lettura non doveva essere assolutamente reverenziale, ma doveva avere la funzione di stimolare la creatività del lettore: “One must be an inventor to read well. [...] There is then creative reading as well creative writing. When the mind is braced by labour and invention, the page of whatever book we read becomes luminous with manifold allusion”.267 L’utilità dei libri è nell’ispirazione che essi provocano, e devono quindi lasciare libero il lettore di crearsi la sua verità: Books are the best things, well used; abused, among the worst. What is the right use? What is the one end, which all means go to effect? They are for nothing but to inspire. [...] The one thing in the world, of value, is the active soul. [...] The soul active sees absolute truth; and utters truth, or creates”.268 L’importanza dell’accuratezza nella lettura era condivisa dal movimento trascendentalista, ed in particolare da Thoureau, secondo il quale ”we must laboriously seek the meaning of each 264 R. Richardson, Emerson: The Mind on Fire, cit.., p. 202. B. Packer, Emerson’s Fall, cit.., p. 121. 266 “Like Nietzsche, Emerson must be read with awareness of those various rhetorical traditions that imply that the potential for such dangerous misinterpretation is one criterion of serious thinking”. L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 340. 267 R.W. Emerson, “The American Scholar”, in R. W. Emerson, Emerson’s Essays and Lectures, cit., 1983, p. 59. 268 Ivi, p. 57. 265 104 word and line, conjecturing a larger sense than common use permits out of what wisdom and valour and generosity we have”.269 La concezione che Emerson aveva della lettura è molto importante per capire il suo linguaggio, perché la sua concezione di scrittura –una scrittura creativa, non convenzionale – rispecchia il suo ideale di lettura; inoltre, Emerson si aspetta che, nel leggere le sue opere, il lettore assuma lo stesso atteggiamento che egli impiega leggendo le opere altrui, ed ogni studioso di Emerson sa perfettamente che il processo di lettura dei suoi scritti è, come afferma W. Whitman a proposito della lettura in generale, “not half-sleep, but...an exercise, a gymnast’s struggle...“.270 Nella lettura di Emerson non ci si può dunque addormentare, ed è insito nella natura del suo linguaggio che il lettore, per comprendere, debba fare molta “ginnastica mentale” e debba “lottare” con il testo. Lopez spiega come Emerson, e i trascendentalisti in generale, ci mettano alla prova con i loro componimenti: “Reading is presented as a form of apprenticeship in which the reader must learn to be both sympathetic and antagonistic, engaged but skeptical toward writing that relies extensively on hyperbole or subterfuge”.271 Lo scrupoloso rispetto per la libertà del lettore, a cui Emerson concede “the liberty to interpret texts according to the Spirit”,272 lascia spazio ad una sorta di “scrittura aperta”, dove il lettore diventa egli stesso autore di significati e lo scrittore si rimette in qualche modo ai significati che gli altri danno al suo pensiero. Nonostante ciò, la libertà del lettore è in ogni caso limitata, perché egli è consapevole che il rischio di incappare in errori e travisamenti è molto elevato, e la sua conseguente frustrazione nel tentare di afferrare il significato originale del testo è davvero forte. Non vi è dubbio che Emerson, lasciando oscuro il significato delle sue parole, illuda il lettore di poter leggere liberamente mentre in realtà tiene il senso dei suoi 269 H. D. Thoreau, Walden, Houghton Mifflin Company, New York, 2004, p. 76. W. Whitman, cit. in M. Lopez, Emerson and Power, cit. p. 125. 271 Ivi, p. 126. 272 B. Packer, Emerson’s Fall, cit., p. 6. 270 105 pensieri ben custodito e, facendo ciò, tiene il lettore stretto a sé: “the reader appears both as an aggressive, narcissistic critic who creates meaning and as a desirous admirer, yearning to be original but resigned to his secondary status”.273 Emerson, sovvertendo abilmente il linguaggio, sovverte anche la realtà, non soltanto interpretandola a suo modo, ma creandone una completamente nuova dove il lettore è disorientato e quindi costretto ad affidarsi all’autore. Secondo D. Pease, l’atto che compie Emerson è indispensabile per chi vuole praticare fino in fondo la dottrina della “self-reliance” e vuole quindi esercitare appieno il proprio potere. Quando si parla di “dominio” e “potere” in Emerson l’argomento è sempre insidioso, ma ciò che afferma Pease a proposito è, a mio parere, di grande importanza per gettare luce sul tipo di appropriazione di cui Emerson parla: The doctrine of self-reliance doesn’t simply presupposes a disproportion between inner self and outer world, but demands it as the context for its display of power. A self-reliant individual cannot rely on an outer world but only on an inner self, experienced as superior to the external world. But the external world has to be reduced to the level of an abstract externality, as arbitrary as it is merely contingent. [...] The self-reliant individual, then, feels empowered to act but is disconnected from any world that can validate action.274 Per sentirsi davvero onnipotente, l’uomo deve ridurre il mondo esterno a mera entità astratta, e in questo modo esercita un potere assoluto su una realtà che non sarebbe mai in grado di dominare materialmente. A questo punto le strade della riflessione sulla ricerca del potere e sul potere del linguaggio si incontrano. Il linguaggio non sarebbe altro che il potente mezzo –il più potente, e probabilmente l’unico- tramite cui l’uomo esercita il potere assoluto sul mondo, non invadendolo di fatto, ma ripensandolo tramite un atto di immaginazione che lo renda suo. Byant Wolf, in un saggio dedicato a Moby-Dick, afferma – e sono d’accordo con lui - che negli scrittori romantici la chiave utilizzata per ridurre il mondo esterno ad un dominio personale era precisamente il linguaggio: “The strategy was as brilliant as it was simple: convert nature into language, render that which is other, prior to, or outside the self into a version accessible to the self and you shall reign as a (figurative) monarch over all you 273 274 J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, cit., p. 83. D. E. Pease, “Melville and Cultural Persuasion”, cit., p. 61. 106 see”.275 Ellison è dello stesso parere, ed è convinta che le strategie linguistiche di Emerson – tra cui la già citata metafora- fungano da generatori autoreferenziali di senso, e costituiscano quindi il suo atto di possesso nei confronti del mondo: Anything he [Emerson] reads becomes, by virtue of that reading, ‘fiction’; the ‘truth’ he discovers in this fiction is that only he can endow it with meaning, and, therefore, that he is its meaning. He deprives history of truth by interpreting it; then he claims that it is true because he has done so.276 Ritengo molto probabile, però, che da parte di Emerson non ci sia solo la volontà di possesso, ma anche l’intenzione e la necessità di istituire un nuovo linguaggio che possa creare una nuova realtà. Concordo pienamente con Cadava quando afferma che ”if Emerson works to change language, it does so in order to change much more than language -it does so because it seeks to produce something new and singular”.277 Emerson era un cittadino americano, credeva fortemente nella missione redentrice affidata alla sua nazione, e come molti suoi connazionali non cercava la conferma di vecchi valori, ma esplorava nuovi terreni morali ”returning to the primary sources of value for a new beginning, a new creation of the moral universe”.278 Emerson tenta quindi di istituire una nuova “mitologia” di riferimento che possa compensare, e allo stesso tempo superare, l’assenza di tradizione millenaria che il vecchio mondo invece possedeva. L’azione che intraprende Emerson non appare poi così lontana da ciò che Slotkin descrive come il processo di creazione di un mito, un processo tramite cui la conoscenza viene trasformata in potere. Il primo atto che la mente umana compie per controllare il mondo è un atto di immaginazione: “the ultimate source of myth is the human mind itself, for man is essentially a myth-making animal. He naturally seeks to understand his world in order to control it, and his first act in encompassing this end is an act 275 B. Wolf, “When is a painting most like a Whale?: Ishmael, Moby-Dick, and the Sublime”, in R. H. Brodhead (ed.), New Essays on Moby-Dick, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, p. 156. 276 J. Ellison, Emerson’s Romantic Style, cit., p. 227. 277 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 21. 278 R. Slotkin, Regeneration Through Violence: The Mythology of the American Frontier, 1600-1860, Middletown, C.T., Wesleyean University Press, 1973, p. 370. 107 of the mind or imagination”.279 Sulla base di un’esperienza limitata l’uomo crea una visione ipotetica di un ordine universale e impone questa ipotesi sui fenomeni naturali e sul comportamento, sperimenta la sua visione agendo in accordo con i principi che la realtà, per come la vede lui, sembra dettare. Essendo il suo comportamento in accordo con l’universo, lo chiama virtù. La sua visione diventa “a source of power, since it tells him how to propitiate and control the forces that order the world”.280 La vicinanza tra l’analisi di Slotkin della nascita della mitologia alla base della nazione americana e il processo di acquisizione di potere da parte di Emerson è indicativo, se si pensa che Slotkin intititola il suo libro Regeneration Through Violence. Emerson, pur non essendo stato associato direttamente a questo titolo, non può neanche ritenersene totalmente estraneo, perché l’ambiguità insita nei suoi scritti insinua sospetti sulla natura “violenta” del suo pensiero, e sul tipo di operazione che egli compie tramite il linguaggio. Pur avendo appurato che Emerson non vuole esercitare materialmente e dispoticamente un illimitato dominio sul mondo, la sua scrittura contiene, indiscutibilmente, tracce di violenza. Utilizzando le parole di Derrida, Emerson, impiegando “una lingua che incolpa se stessa di un potere di seduzione di cui fa continuamente uso”, sposterebbe “l’oppressione tecnico-politica” nella “falsa innocenza del discorso filosofico”, commettendo, in ogni caso, violenza.281 Nel tentativo di ridurre, tramite un’operazione linguistica, il mondo esterno sotto il suo dominio, Emerson eserciterebbe una volontà univoca sulla realtà, senza tenere conto dell’altro. D’altra parte, secondo Lévinas, la struttura del nostro pensiero, basandosi sull’ordine dell’identità, è intrinsecamente violenta,282 ed esercita violenza non per ciò che compie, ma per il modo in cui essa è concepita. Di conseguenza, la guerra abita 279 Ivi, p. 7. Ivi, p. 5. 281 J. Derrida, “Violenza e metafisica”, cit., p. 104, 116. 282 S. Labate, “Lévinas: l’etica come nonviolenza”, in A. Pieretti (a cura di), La filosofia della Nonviolenza, Cittadella Editrice, Assisi, 2006, p. 147. 280 108 inevitabilmente il logos filosofico,283 e tramite la pratica del discorso, ci ricorda Lakoff, non facciamo altro che istituzionalizzarla, e la pratichiamo continuamente travestendola da metafora.284 L’unico modo per non praticare violenza sarebbe quello di non parlare e non scrivere o, addirittura, di non pensare. Ma, afferma Derrida, pur essendo la violenza insita nel linguaggio, rinnegando la parola e praticando il silenzio si rischia ugualmente di creare violenza perché, pur non esistendo quest’ultima prima della possibilità della parola, “la parola è senza dubbio la prima sconfitta della violenza”.285 Anche se praticando il discorso e la scrittura si genera violenza quindi, peggio sarebbe non farlo e lasciare che il silenzio prendesse il sopravvento, anche perché, pur con premesse conflittuali, la parola può essere finalizzata alla non-violenza: La non violenza sarebbe il telos e non l’essenza del discorso.[...] Non c’è guerra se non dopo l’apertura del discorso e la guerra non si spegne se non con la fine del discorso. La pace, come il silenzio, è la strana vocazione di un linguaggio chiamato fuori di sé da sé.[...] Il linguaggio, dunque, praticando la guerra in sé, deve tendere alla giustizia.286 Emerson dunque, pur generando violenza tramite la parola, è impossibilitato a fare il contrario, perché con il silenzio incapperebbe in un tipo di falsa pace, che lui stesso aborrisce, che non farebbe altro che perpetuare la violenza. Il confine tra la violenza e la non-violenza non passa allora tra la parola e la non parola, tra la parola e la scrittura, ma all’interno di ognuna di esse,287 e all’interno di ognuna di esse si deve operare la scelta tra “guerra” e “pace”. Il linguaggio è stato spesso utilizzato per creare e perpetuare violenza fisica e psicologica, oppressione politica, discriminazione sociale ed economica,288 ma come esso ha il potere di impedire il raggiungimento della pace, esso può anche facilitarlo eliminando 283 J. Derrida, “Violenza e metafisica”, cit., p. 147. G. Lakoff and M. Johnson, Metaphors We Live by, University of Chicago Press, Chicago, 2003, p. 62. 285 J. Derrida, “Violenza e metafisica”, cit., p. 148. 286 Ibidem. 287 Ivi, p. 129. 288 C. Shaffner, A. L. Wenden, Language and Peace, London, Routledge, 1995, p. viii. 284 109 qualsiasi tipo di violenza se viene utilizzato in tale direzione.289 Non si tratta quindi di capire se Emerson eserciti o no violenza sulla realtà, ma se, tramite il suo linguaggio, la legittima e incita al suo utilizzo, oppure se tenta di rimuoverla. Stando alla definizione di “linguaggio di pace positiva”, data dall’Encyclopedia of Violence, Peace, and Conflict, esso, a differenza del “linguaggio di pace negativa”- che tramite eufemismi e ambiguità perpetua i conflitti- è “democratico piuttosto che autoritario, dialogico piuttosto che monologico, ricettivo anziché aggressivo, meditativo anziché calcolatore, ci fornisce i mezzi comunicativi per superare sia la violenza linguistica che l’alienazione linguistica”.290 E’ difficile affermare con certezza se il linguaggio di Emerson possa essere ricondotto a tali caratteristiche oppure no. Pur non avendo probabilmente l’intenzione di generare violenza, Emerson adotta uno stile volutamente ambiguo, che lascia spazio a dubbi e ad interpretazioni moralmente opinabili, e che non svela quindi la vera natura del suo pensiero. D’altra parte, prediligendo la libertà del lettore, Emerson esercita una sorta di apertura al confronto e di interrogazione dell’altro, che per Derrida è “l’unico imperativo etico possibile, l’unica non-violenza incarnata in quanto è rispetto dell’altro”.291 Su tutto ciò, a mio parere, prevale in Emerson il desiderio di trovare e di sperimentare le infinite potenzialità che l’uomo nasconde dentro di sé, l’aspirazione di vivere quella sensazione che si prova quando si sente di avere il mondo in pugno; una sensazione, però, che egli vuole far vivere anche al lettore, creando per lui, come nota Fuller, un immaginario che lo fa sentire potente: “By creating an impression of endless potential wherein available cultural materials are troped and in this protean troping made ever new, Emerson’s writings offers to expand the reader’s horizon, and in this hypotetical offering encourages that reader to factor 289 B. Ketterman, “Language and peace”, in D. Steiner and T. Hartl (ed.), American Studies and Peace. Proceedings of the 25th Austrian Association of American Studies, cit., p. 153. 290 L. Kurtz (ed.), “The language of War and Peace”, in Encyclopedia of Violence, Peace, and Conflict, cit., pp. 303- 312. 291 J. Derrida, “Violenza e metafisica”, cit., p. 121. 110 this newness into his or her behavior”.292 Celando il reale significato delle sue parole, Emerson invita il lettore a ricercare nuove fonti di immaginazione e di potere, attraverso un gioco di significati e di antagonismi destinato a creare conflitti ma anche energia, un gioco nel quale egli stesso si fa coinvolgere, a volte dettando le regole, a volte partecipandovi al pari degli altri “giocatori”. Senza una buona dose di sfida e di ambiguità, adottando quindi uno stile piano, chiaro e disarmante, tutto ciò non sarebbe possibile. 292 R. Fuller, Emerson’s Ghosts: Literature, Politics, and the making of Americanists, Oxford University Press, New York, 2007, p. 15. 111 CAPITOLO TERZO EMERSON E LA GUERRA CIVILE Principio degli esseri è l‘infinito... da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.293 3.1: Da Critico a Combattente Pur non essendo in completo accordo con l’affermazione di Parrington, secondo il quale “il primo dovere di Emerson fu quello di essere un critico piuttosto che un combattente”,294 non si può negare il fatto che Emerson nei primi anni della sua carriera agì prevalentemente da critico per poi assumere - pur rimanendo un critico - un’indole decisamente più “combattiva”. Egli difatti, dopo anni di riluttanza nei quali aveva preferito non dedicarsi a nessun movimento di riforma in particolare e non impegnarsi in gruppi ed associazioni specifiche, decise di intervenire attivamente nell’arena politica abbracciando la causa dell’antischiavismo. Pur affermando ancora nel 1852 che aveva ben altri schiavi da liberare che quelli neri,295 arrivò un momento in cui se ne occupò attivamente e assiduamente; soprattutto, da una posizione vicina al pacifismo, espressa nel saggio “War” del 1838, arrivò ad appoggiare la guerra di secessione con una caparbietà talvolta incredibile agli occhi dei suoi contemporanei e inspiegabile per molti critici. Dopo essere stato ritenuto per anni un intellettuale isolato da qualsiasi lotta politica, gli studi di Len Gougeon e Joel Myerson hanno 293 Anassimandro, frammento D12 B1, in C. Ciancio, G. Ferretti, A. Pastore, U. Perone, La filosofia, i Testi, la Storia, cit., p. 26. 294 Parrington afferma: “il primo dovere di Emerson fu quello di essere un critico piuttosto che un combattente, soltanto con estrema riluttanza fu spinto nella lotta per la schiavitù, che, in ogni caso, non era la sua lotta”. V. L. Parrington, Storia della Cultura Americana, cit., p. 485. 295 “I have quite other slaves to free than those Negroes, to wit, imprisoned spirits, imprisoned thoughts, far back in the brain of man, - far retired in the heaven of invention, and which, important to the republic of Man, have no watchman, or lover, or defender, but I”. R. W. Emerson, Journals, vol. VIII, p. 121. 112 difatti dimostrato come Emerson in realtà fosse intervenuto attivamente nelle questioni politiche del suo tempo anziché rimanere isolato dal suo mondo e dai suoi contemporanei.296 Il progressivo coinvolgimento di Emerson nella causa abolizionista sembra essere stato causato da una serie di fattori, primo fra tutti gli eventi storici che mano a mano fecero precipitare il paese verso la guerra, e non ultimo l’influenza dell’ambiente di Boston in cui la causa abolizionista era fortemente sentita, anche da amici e familiari di Emerson.297 Avvertendo probabilmente che i suoi tentativi d’infondere negli uomini il bisogno di una riforma interiore non solo non avevano avuto esito,298 ma addirittura avevano lasciato che la situazione, in particolare sul problema della schiavitù, peggiorasse, Emerson iniziò a firmare molte petizioni sull’argomento finché, il 1 agosto del 1844, dopo sette anni dall’ultima volta in cui aveva affrontato in pubblico la questione della schiavitù, accettò di parlarne nuovamente e proclamò il suo “Address on the Emancipation of the Negroes in the British West Indies”. Emerson era stato invitato dalla Women’s Anti-Slavery Society, ed insieme a lui intervennero anche Samuel Joseph May e Frederick Douglass.299 Per prepararsi all’incontro, studiò in modo approfondito testi sulla schiavitù come The History of the Rise, Progress, and Accomplishment of the Abolition of the African Slave Trade by the British Parliament (1808, 1839) di Thomas Clarkson ed Emancipation in the West Indies: A six Month’s Tour in 296 Molti testi avevano rafforzato questa convinzione, tra i più influenti ricordiamo: A. M. Schlesinger, The Age of Jackson (Boston, Little, Brown, 1945); S. Elkins, Slavery: A problem in American Institutional and Intellectual life (Chicago, University of Chicago Press, 1959); G. Frederickson, The Inner Civil War: Northern Intellectuals and the Crisis of the Union (New York, Harper and Row, 1965); A. Rose, Transcendentalism as a Social Movement, 1830-1850 (New Heaven, Yale University Press, 1981). Poi, grazie ai lavori di Myerson e Gougeon, la convinzione sul totale isolamento di Emerson e dei trascendentalisti è stata ridimensionata. Seppur dopo un periodo di assenza dalla scena pubblica e un periodo intermedio tra il 1844 ed il 1850 in cui Emerson fu un “reluctant advocate”, egli diventò un abolizionista convinto dal 1850 al 1865. In realtà, come abbiamo già accennato nel primo capitolo, la prima conferenza antischiavista di Emerson risale al 1837, quando fu spinto ad intervenire dall’assassinio di Eliah P. Lovejoy; il vero impegno abolizionista sarebbe però iniziato soltanto dopo sei anni. G. Collison, “Emerson and Antislavery”, cit., p. 190. 297 L. Gougeon and J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., p. XXV. 298 “Despite these gentle personal efforts to promote the principle of abolition, national events in the early 1840s contributed a growing unease, which Emerson surely felt, regarding both the entrenchment and the threatened expansion of slavery. He was painfully aware of the conspicuous failure of individual moral suasion in ameliorating the problem.” L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 69. 299 L. Gougeon and J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., pp. 206-207. 113 Antigua, Barbadoes, and Jamaica, in the Year 1837 (1838) di James Thome e Horace Kimball, consultò inoltre in più studi legali rapporti e racconti sulla questione. Tutta la sua preparazione, afferma Gougeon, “had a profound effect on his understanding of slavery and changed forever his approach to the eradication of the evil: now for him slavery was such a special and aggressive evil that organized and focused opposition was necessary”.300 Da questo momento in poi Emerson passò dunque “from philosophical antislavery to active abolitionism”, e ciò si evince anche dalla reazione entusiasta di tutti gli abolizionisti, che iniziarono a considerarlo uno di loro e a dedicargli molti articoli su giornali come The Liberator, Herald of Freedom, Emancipator.301 Nel suo “Address on the Emancipation” Emerson, rincuorato dall’emancipazione degli schiavi liberati dalla Corona Britannica ribadiva la fiducia nel progresso dell’umanità: The history of mankind interests us only as it exhibits a steady gain of truth and right, in the incessant conflict which it records, between the material and the moral nature.[...] I said, this event is signal in the history of civilization. There are many styles of civilization, and not one only. Our is full of barbarities.302 Esattamente un anno dopo Emerson pronunciò il secondo discorso antischiavista e nel novembre del 1845 si rifiutò di parlare al New Bedford Lyceum perché i neri ne erano stati esclusi, firmando, inoltre, un’ulteriore petizione contro l’annessione del Texas.303 L’attività abolizionista continuò incessantemente: il 1 luglio 1846 tenne un’altra conferenza sponsorizzata dalla Massachusetts Antislavery Society e, appoggiato da altri esponenti fra cui William Garrison, criticò chi si ostinava a rimane passivo di fronte al problema della schiavitù: ”There is no citizen, however private and sequestered, who, in the last months, can have failed to notice this inaction and apathy”.304 300 Ivi, p. XXVIII. Ivi, p. XXXII. 302 Ivi, pp. 8, 19. 303 Tuttavia, quando il Texas entrò nell’unione il 29 dicembre 1845, Emerson non chiese la secessione come molti fecero, perché, nonostante tutto, era fortemente convinto della possibilità di riforma che il Nord poteva e doveva operare sul Sud. Ivi, p. XXXIV. 304 Ivi, p. 43. 301 114 Nel periodo tra il 1844 e il 1849, che Len Gougeon chiama di “confusion and commitment”, Emerson alternò periodi di ottimismo a momenti di confusione e depressione perché, nonostante venisse molto apprezzato negli ambienti abolizionisti, non si sentiva a suo agio nel ruolo di crociato che gli era stato assegnato;305 sebbene avesse fatto la sua scelta, era forte in lui il conflitto “between demands of his creative genius for isolation and disengagement and demands of his public role as guide and preceptor”.306 Ad ogni modo, dal 1851 al 1855 Emerson intensificò la sua attività in una tale maniera che tutti si convinsero che da “philosopher” era diventato ormai diventato “a practical man”.307 Nonostante ciò, Emerson continuava a nutrire dubbi sul suo coinvolgimento nella causa abolizionista, e spesso continuò a sentirsi un intellettuale costretto ad abbandonare le sue occupazioni dalla gravità della situazione: “I do not often speak to public questions. They are odious and hurtful and it seems like meddling or leaving your work. I have my own spirits in prison, spirits in deeper prisons, whom no man visits, if I do not”.308 Nonostante ciò, i tempi erano però talmente straordinari che non poteva tirarsi indietro dal compito che si sentiva di dover espletare: I hope we have come to an end of our unbelief, have come to a belief that there is a Divine Providence in the world which will not save us but through our own cooperation.309 I approach the grave and bitter subject of American slavery with diffidence and pain.[...] I have not found in myself the right qualifications to serve this any more than other political questions, by my speech, and have therefore usually left it in their honoured hands.[...] Still there is somewhat exceptional in this question, which seems to require of every citizen at one time or other, to show his hand, and to cast his suffrage in such manner as he uses.310 Emerson si sentiva dunque costretto ad agire e lo fece anche con impeto quando, nel 1851, dopo il passaggio del “Fugitive Slave Act”, proclamò il suo “’Address to the Citizen of Concord’ on the Fugitive Slave Law”, dove il tono con cui si rivolge ai suoi concittadini è 305 L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 91. G. Collison, “Emerson and Antislavery”, cit., p. 190. 307 L. Gougeon and J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., p. XLIV. 308 R. W. Emerson, “The Fugitive Slave Law”, 7 march 1854, ivi, p. 73. 309 Ivi, p. 89. 310 R. W. Emerson, “Lecture on Slavery”, 25 January 1855, ivi, p. 91. 306 115 davvero duro, a causa del fallimento della moralità e della virtù che egli aveva avvertito a Boston e in tutta la nazione: The last year has forced us all into politics, and made it a paramount duty to seek what it is often a duty to shun. We do not breathe well. There is infamy in the air. I have a new experience. I wake in the morning with a painful sensation, which I carry about all day, and which, when traced home, is the odious remembrance of that ignominy which has fallen on Massachusetts, which robs the landscape of beauty, and takes the sunshine out of every hour.311 Emerson era scandalizzato di come la società non si rendesse conto del male che la schiavitù stava causando alla moralità del paese, ed era assolutamente determinato a porvi fine con ogni mezzo; nel 1856, infine, si era convinto che ”the time had come to meet force with force”.312 Quando il 12 aprile 1861 scoppiò la guerra civile, “Emerson welcomed the war as an opportunity to rid the nation, once and for all, of the plague of slavery”.313 Egli continuò a fornire il suo apporto all’Unione in tutti i modi che poteva e ad appoggiare la guerra anche quando, dopo le prime sconfitte, era chiaro che non sarebbe stata così breve come si era auspicato. Quando infatti il 22 settembre del 1862 il presidente Abraham Lincoln presentò una proclamazione di emancipazione provvisoria, Emerson ne fu felice pur intuendo cosa ne sarebbe conseguito: “It seems to promise an extension of the war. For there can be no durable peace, no sound Constitution, until we have fought this battle & the rights of man are vindicated. It were to patch a peace to cry Peace whilst this vital difference exists”.314 Quando si profilò poi, nel 1862, l’ipotesi di un compromesso che avrebbe messo fine alla guerra senza la netta vittoria dell’Unione, Emerson fu tra quelli che si opposero fortemente: nonostante gli enormi costi umani ed economici o forse proprio per questo, la guerra non poteva terminare senza una piena vittoria del Nord. Il suo determinato appoggio alla guerra non vacillò sino alla fine, neanche alla notizia dell’assassinio di Lincoln che, pur turbandolo profondamente, 311 L. Gougeon and J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., p. 53. Emerson confidava, in ogni caso, nel fatto che nessuno avrebbe rispettato la legge; per quanto lo riguardava, disse che lui l’avrebbe sicuramente ignorata. L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 160. 312 L. Gougeon and J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., p. XLVI. 313 Ibidem. 314 R.W. Emerson, Journals, vol. IX, p. 169. 116 non lo distolse dalle sua convinzione: la morte del presidente era “but one more sacrifice demanded in the struggle against evil”.315 3.2: Perché verso la Guerra? L’incondizionata presa di posizione da parte di Emerson a favore della guerra ha suscitato varie possibili interpretazioni. Pur non intervenendo mai attivamente a favore della pace, Emerson si era mostrato vicino alle posizioni pacifiste, e come si è già detto nel precedente capitolo aveva anche esposto le sue idee in alcune conferenze sponsorizzate dall’American Peace Society, tra cui la famosa “War” inizialmente chiamata “Peace”.316 Proprio in questo saggio abbiamo visto come Emerson considerasse la guerra una barbarie che l’uomo civilizzato doveva aborrire, e pur apprezzando le qualità che la guerra stimolava nell’uomo, ne aveva condannato la pratica in una società civile. D’altra parte, però, egli era altrettanto convinto che la guerra fosse preferibile a una falsa pace che fungesse soltanto da garante a ingiustizie ed oppressioni. Prima di analizzare la posizione specifica di Emerson ci sono dei fattori storici generali di cui dobbiamo tenere conto. Emerson si era schierato a favore della guerra, ma il suo non fu l’unico caso “eclatante” del tempo: praticamente tutti i pacifisti erano passati dalla parte della guerra, mandando in frantumi gli ideali di cui per anni si erano eretti a difensori. Allo scoppio del conflitto, le associazioni pacifiste erano in realtà già inattive da tempo, ed Eliah Burrit affermò che la crisi del movimento era stata dovuta agli eventi troppo problematici degli ultimi cinque anni, a cui i pacifisti non seppero far fronte. Nel periodo antecedente la guerra civile prevalse una generale apatia, ed anche se apertamente vennero riportate poche defezioni, in definitiva, “while many gave verbal approbation to the cause of 315 316 Ivi, p. LIII. P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 525. 117 peace, few contributed, and fewer still were genuinely convinced”.317 L’American Peace Society si limitò ad affermare, poi, che il suo lavoro si svolgeva essenzialmente nell’ambito della guerra internazionale, e questa rimase la sua posizione ufficiale durante tutto il periodo della guerra civile.318 Merle Curti tenta di dare una spiegazione alla fine dei movimenti pacifisti, e lo fa ricercandone i motivi proprio nel contesto storico: “The Peace crusade perhaps prospered less than other reform movements launched at the same time, such as antislavery and temperance, because it was in more direct conflict with the prevailing political temper of the century”.319 La stessa “attenuante” può essere concessa anche ad Emerson, che non rimase immune dal delirio scatenato dall’avvicinarsi della guerra di secessione e più in generale dall’esaltazione della guerra che nel diciannovesimo secolo portò poi allo scoppio della prima guerra mondiale.320 Egli lo ammise anche: “All of us have shared the new enthusiasm of country and of liberty which swept like a whirlwind through all souls at the outbreak of war” (MoL 10.257 7). Questo però non può bastare a spiegare il comportamento di un intellettuale come Emerson che, pur essendo indubbiamente influenzato dal suo contesto storico e culturale, aveva sempre esposto con forza le sue idee, spesso controcorrente. La dedizione con cui si dedicò all’abolizione della schiavitù e poi allo svolgimento della guerra deve essere dovuta a una profonda convinzione in lui, non solo all’influenza dell’ambiente circostante. Un’importanza fondamentale rivestì l’intolleranza che Emerson aveva sviluppato nei confronti della pratica della schiavitù, che in molti suoi scritti mostra di ritenere un male assoluto che doveva essere a tutti i costi sradicato: 317 Ivi, p. 103. M. Curti, The American Peace Crusade, cit., p. 203. 319 Ivi, p. 224. 320 Lopez sottolinea come la visione del “mondo come guerra” non sia confinata ad Emerson, ma si estenda a molti altri filosofi e studiosi tra cui Schopenhauer, Darwin, Marx, Nietzsche. Tra il 1870 e il 1914 vi fu infatti un interesse per il valore simbolico della battaglia, vista come fonte di un potere trasmutabile in grande forza umana; ciò portò alla “poeticizzazione” della guerra che spianò la via alla prima guerra mondiale. M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 196. 318 118 America, the most prosperous country in the Universe, has the greatest calamity in the Universe, negro slavery. (FSLC 11.186 14) I think we must get rid of slavery, or we must get rid of freedom. (AsSu 11.247 7) Now here comes this conspiracy of slavery, they call it an institution, I call it a destitution. (ACiv 11.297 7) If there be...a country...where liberty is attacked in the primary institution of social life;...that country is...not civil, but barbarous. (Civ 7.34 3) The aim of the war on our part is to destroy the piratic feature in [Southern society] which makes it our enemy only as it is the enemy of the human race, and so allow its reconstruction on a just and healthful basis. Then...the cause of war being removed, Nature and trade may be trusted to establish a lasting peace. (EPro 11.325 12) Dopo una serie di anni in cui, tramite vari tentativi, la schiavitù non solo era stata abolita, ma sembrava prosperare, l’unica soluzione possibile sembrava essere la guerra, il cui scopo primario per Emerson non era quello di preservare l’unione, ma quello di abolire la schiavitù: “Those [Southern] states have shown every year a more hostile and aggressive temper, until the instinct of self-preservation forced us into the war” (EPro 11.325 4); “The soul of our late war was, first, the desire to abolish slavery in this country” (FRO1 11.480 17). Non si può negare il fatto che Emerson auspicasse una guerra perché fortemente convinto delle sue qualità catartiche e generative e la ritenesse quindi in grado di disgregare un sistema corrotto, “ripulire” la società e crearne una migliore, convinzione che ribadì anche durante la guerra e dopo la sua fine: War disorganizes, but it is to reorganize. (MoL 10.248 5) War civilizes, rearranges the population, distributing by ideas... (SMC 11.353 15) The war uplifted us into generous sentiments. (MoL 10.257 13) A thunder-storm at sea sometimes reverses the magnets in the ship, and south is north. The storm of war works the like miracle on men. (SMC 11.353 5) Emerson continuava anche ad essere fortemente attratto dalla guerra perché la riteneva capace di stimolare le qualità sopite dell’uomo, e apprezzava il modo in cui, durante la guerra civile, uomini comuni avevano mostrato qualità e risorse impreviste: I am much mistaken if every man who went to the army in the late war had not a lively curiosity to know how he should behave in action. (Cour 7.261 3) 119 When the Border raids were let loose on [Kansas] villages, these people...were so beside themselves with rage, that they became on the instant the bravest soldiers and the most determined avengers. And the first events of the war of the Rebellion gave the like training to the new recruits. (SMC 11.356 16) The whole history of our civil war is rich in a thousand anecdotes attesting the fertility of resource...of our people. (Res 8.143 26) The only compensation which war offers for its manifold mischiefs, is in the great personal qualities to which it gives scope and occasions. (HDC 11.59 22) Nonostante lo scontro con la realtà, e anche dopo gli enormi costi e sacrifici che la guerra aveva comportato, con una fermezza talvolta agghiacciante Emerson rimaneva convinto che per il trionfo del bene qualsiasi sacrificio poteva essere compiuto: The [Civil] war was formidable, but could not be avoided. (EPro 11.323 22) The [Civil] war was and is an immense mischief. (EPro 11.323 23) Slavery is broken, and, if we use our advantage, irretrievably. For such a gain...one generation might well be sacrificed. (MoL 10.258 11) This act [the Emancipation Proclamation] makes that the lives of our heroes have not been sacrificed in vain. (EPro 11.319 26) The moral sentiment measures itself by sacrifice. (Imtl 8.343 12) Emerson si mostrava orgoglioso di come un’intera nazione si fosse mobilitata e avesse sofferto per una causa che egli riteneva non solo giusta, ma prioritaria: We have all heard passages of generous and exceptional behaviour exhibited by individuals there [in the South] to our officers and men, during the war. (SMC 11.355 18) All sorts of men went to the [Civil] war. (SMC 11.356 18) I am sure I need not bespeak your gratitude to these fellow citizens and neighbours of ours [veterans of the Civil War]. I hope they will be content with the laurels of one war. (SMC 11.375 12) [Our young men] said, It is not in me to resist. I go [to war] because I must. It is a duty which I shall never forgive myself if I decline. I do not know that I can make a soldier. (HCom 11.342 27) In tutta la sua trattazione della guerra civile Emerson non parlò mai dei lati più riprovevoli della guerra e delle sue atrocità, e nessun fatto storico specifico venne citato. Egli si soffermò piuttosto sulle ragioni del conflitto, sulla sua inevitabilità e sull’eroismo dimostrato dai soldati e dalla popolazione. Ciò ha portato a pensare che Emerson non si rendesse conto delle crudeltà della guerra e che appoggiasse il conflitto soltanto perché non ne 120 venne toccato da vicino, ma fa riflettere il fatto che neanche i suoi contemporanei si fossero dilungati nella descrizione dei lati meno nobili della guerra. Daniel Aaron intitola il suo libro sulla guerra civile americana “The unwritten war” proprio per sottolineare come essa non fu realmente narrata, di fatto, neanche dagli altri intellettuali del tempo, che preferirono sottolinearne l’aspetto simbolico piuttosto che l’evento reale: Probably few Americans in the 1860s, North or South, would have dismissed a providential interpretation of the War.[...] Polite literature before and after the War excluded certain kinds of experience, and it is not surprising that the territory of the common soldier should have been placed “off bounds” by America’s cultural guardians. Disease, drunkenness, obscenity, blasphemy, criminality could only be alluded to if mentioned at all. [...] They draped the War in myth, transmuted its actuality into symbol, and interpreted the Republic’s greatest failure as a sinful interlude in a grand evolutionary process.321 Emerson non è dunque un caso isolato, e soprattutto il fatto di non parlare dell’evento reale non fu un’omissione dovuta ad ignoranza, bensì una scelta ben ponderata: come vedremo, egli voleva che l’attenzione venisse focalizzata su altri aspetti, meno evidenti e spaventosi, ma altrettanto importanti, che la guerra civile aveva messo in evidenza. 3.3: Dal Potere del Linguaggio...al Linguaggio del Potere Durante la sua lunga carriera Emerson si era cimentato in più forme discorsive, passando dai sermoni religiosi – nel periodo in cui fu pastore della chiesa Unitariana di Boston - alle conferenze tenute principalmente nel New England e poi in vari stati americani, per arrivare poi alla scrittura di saggi e poesie. Nonostante la frequentazione di vari generi letterari, Emerson era rimasto fermamente convinto del fatto che lo stile dell’oratoria religiosa, in cui l’America vantava una lunga tradizione che risaliva all’insediamento nel Nuovo Mondo, potesse fungere da base anche all’oratoria politica e che, per osmosi, l’oratoria politica potesse essere da esempio anche per tutte le altre forme di scrittura, anche quella poetica. Matthiessen afferma: 321 D. Aaron, The Unwritten War. American Writers and the Civil War, Oxford University Press, New York, 1971, pp. XIV–XVIII. 121 Emerson was voicing the special desire of the transcendentalists to break trough all restricting divisions. His tendency to link poets and orators whenever he listed the various arts, he was responding to a more common and widespread of his time. To a degree that we have lost sight of, oratory was then the basis for other forms of writing, and its mode of expression left a mark on theirs.322 In tutte le forme di scrittura utilizzate da Emerson permane dunque lo stile declamatorio dell’oratoria, anche in quelli più lontani come la poesia: “From the struggle with others we make rhetoric, from the struggle with ourselves we make poetry”.323 Non è affatto un caso che, parlando di Emerson, venga continuamente citata la parola “struggle”: abbiamo oramai osservato il suo stile abbastanza da vicino per renderci conto che la lotta, in varie forme, è sempre insita nella sua scrittura e, come ci insegna Lakoff, ciò è senz’altro indice di una parallela visione della realtà: “Metaphor is pervasive in everyday life, not just in language but in thought and action”.324 Le metafore dunque non sono semplici giochi di parole, ma concetti che possono essere tradotti in pratica, e lo stesso Emerson riconosce come l’energia del pensiero e quella dell’azione siano praticamente indistinguibili: “To think is to act”.325 Come il pensiero viene trasferito all’azione, accade spesso anche il contrario, ossia che per una coerenza interna del pensiero e del discorso adattiamo tutti gli aspetti della realtà alla metafora che abbiamo scelto, anche quelli che naturalmente non vi si adatterebbero.326 Affermando che “to think is to act”, Emerson pone l’accento non solo sulla necessità di concordare pensiero e azione, ma anche sull’estremo bisogno di una riflessione sulla situazione politica americana, un atto del pensiero che non può essere scisso da un atto pratico: ”If Emerson calls for the necessity of a thought that is at the same time an act, he does so in the name of something that, for him, has not yet occurred: an urgent, but careful, 322 F.O. Matthiessen, American Renaissance, cit., p. 22. Ivi, p. 23. 324 G. Lakoff and M. Johnson, Metaphors We Live By, cit., p. 3. 325 R. W. Emerson, Journals, XXVI, 1835, vol. 3. 326 G. Lakoff and M. Johnson, Metaphors We Live By, cit., p. 175. 323 122 reevaluation of the ways of thinking that led the American people into the war”.327 Se la guerra compare in così tante sue metafore, è perché dietro di esse – come già abbiamo visto vi è la concezione dell’esistenza come continua lotta con se stessi, con gli altri, con la natura, con la società, con determinati sistemi di valori, e tutti gli aspetti della vita vengono riportati in questa chiave semantica. Tutto ciò si evidenzia ancora di più se lo scopo di un determinato discorso – come quelli di Emerson durante la guerra civile - è quello di persuadere l’uditorio per ottenere così l’adesione ad un sistema particolare di valori.328 Anche la retorica, pur essendo parte integrante dei discorsi di tutti i giorni, in situazioni particolari, come afferma Moretti, è ancor più accentuata, ovvero quando in una società in lotta si vogliono capovolgere i rapporti di forza vigenti nella sfera simbolica.329 Emerson aveva ricoperto la guerra civile di un valore indubbiamente morale, metafisico, quasi soprannaturale: The [Civil] war made the Divine Providence credible to many who did not believe the good Heaven quite honest. (SMC 11.354 19) The armies mustered in the North were as much missionaries to the mind of the country as they were carriers of material force. (SMC 11.355 10) Egli poneva dunque l’accento sulla battaglia morale piuttosto che sulla battaglia reale che si combatteva sul terreno. Anche se il limite che intercorre tra la possibile inconsapevolezza degli orrori della guerra e l’immolazione di essi alla causa suprema della libertà rimane incerto, le strategie retoriche utilizzate fanno propendere più per la seconda ipotesi. Prima di tutto, utilizzando ripetutamente un lessico del conflitto, Emerson tenta di sollevare emozioni associate al combattimento fisico vissuto come orgoglio e rabbia, e si sforza di convogliare queste emozioni contro un determinato “nemico”, suscitando contemporaneamente sentimenti di lealtà ed affetto verso gli eroi che combattono per una 327 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 25. F. Moretti, “L’anima e l’arpia. Riflessione sugli scopi e i metodi della storiografia letteraria”, in Segni e Stili del Moderno, Torino, Einaudi, 1987, p. 4. 329 Ivi, p. 10. 328 123 giusta causa.330 Come i politici a lui contemporanei, in particolare Abraham Lincoln, Emerson è convinto - o vuole convincere – che l’Unione, per il bene di tutta l’America, non sta combattendo soltanto per meri interessi materiali, ma incarna le forze del bene per salvare l’umanità dalla barbarie e dall’immoralità. In effetti, come abbiamo notato dai testi, e come puntualizza Aaron, Emerson vedeva la guerra come uno strumento che avrebbe deciso il trionfo della civiltà sulla barbarie: For many years Emerson reasoned, America had been trying with decreasing success to fuse two incompatible civilizations, one moral and cultured, the other immoral and barbarian [...]. The War was a contest to decide which civilization would envelop the other.331 Al fine di rendere ancora più epico il contrasto tra le forze del bene e del male, e dare quindi così una dimensione mitica a questa battaglia, Emerson utilizza domande retoriche, inversioni, antitesi, iperboli, ripetizioni e, soprattutto, utilizza diffusamente la figura retorica della personificazione. La schiavitù prima, e la guerra poi, pur essendo entità astratte e inanimate, vengono descritte utilizzando parole o frasi che in altri contesti sarebbero impiegati per descrivere una persona in carne ed ossa. La personificazione permette di semplificare una situazione complicata “incarnandola” in un unico avversario; è, secondo Lakoff, la metafora ontologica più diffusa e utilizzata, perché tramite essa concetti astratti vengono resi più familiari e quindi più comprensibili.332 Altro elemento utilizzato nella prosa politica che Emerson fa suo è la riduzione del fenomeno negativo - in questo caso la guerra - a un semplice mezzo, rapido ed efficace come può esserlo una medicina, necessario per sconfiggere il male assoluto (in questo caso la schiavitù). Come Lincoln, Emerson parla spesso della guerra come un evento drammatico ma 330 J. Charteris-Black, Politicians and Rhetoric: The Persuasive Power of Metaphor, Basingstoke, Palgrave MacMillan, 2005, p. 24. 331 D. Aaron, The Unwritten War, cit., pp. 34-35. In questa occasione alcune parole pronunciate anni dopo da Martin Luther King potrebbero essere attribuite senza problemi ad Emerson: ”There will still be gigantic mountains of opposition ahead and prodigious hilltops of unjustice. Let us remember that there is a creative force in this universe working to pull down the gigantic mountains of evil”. M. L. King, 17 May 1957, cit. in J. Charteris-Black, Politicians and Rhetoric, cit., p. 75 332 G. Lakoff and M. Johnson, Metaphors We Live by, cit., p. 30. 124 inevitabile che si spera finirà presto. In questo modo si vuole motivare sia i militari che la popolazione civile a sopportare i disagi, ma, cosa ancor più importante, tramite questa visione – basata sulla strategia della personificazione - non si coglie mai la responsabilità nell’operare determinate scelte. Al pari di una rappresentazione teatrale, la schiavitù e la guerra sono due personaggi aventi vita propria, che si scontrano sul campo di battaglia e sulla pagina scritta come in un palcoscenico, come se non vi fosse nessuno che scrive o dirige la guerra, sia reale che simbolica. Il paragone tra oratoria e teatro non è casuale né tanto meno insolito e ha origini sia storiche che culturali, perché ai tempi di Emerson le conferenze e i dibattiti pubblici assolvevano davvero ad una funzione diversiva al pari del teatro. Molti visitatori europei arrivati sul suolo americano furono colpiti da ciò, e Tocqueville afferma: “Debating clubs are, to a certain extent, a substitute for theatrical entertainments: an American cannot converse, but he can discuss; and his talk falls into a dissertation”.333 Come è noto gli americani amavano molto la retorica, e i ragazzi venivano spronati dalla famiglie a praticarla, anche perché nella declamazione e nel linguaggio i giovani del tempo trovavano una forma di combattività che veniva incoraggiata; inoltre, l’eloquenza era una strada che avrebbe portato rapidamente al successo un ragazzo dotato ma che non poteva permettersi di studiare.334 Inutile ricordare la lunga tradizione di oratori che l’America vanta, composta da persone che venivano rispettate anche per le loro particolari doti retoriche, tra cui Patrick Henry, Edward Everett, William Ellery Channing, Daniel Webster, Frederick Douglass, Charles Sumner, Wendell Phillips.335 In America l’importanza dell’oratoria va però ricercata in motivazioni più profonde di quelle legate alla tradizione. Nella nazione americana era molto forte il tentativo di creare 333 F.O. Matthiessen, American Renaissance, cit., p. 20. B. Packer, Emerson’s Fall, cit., p. 2. 335 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 47. 334 125 l’identità nazionale e politica proprio tramite il discorso, sia esso in forma di sermone, orazione o conferenza.336 Il popolo americano, spiega Thomas Gustafson, ha fin dall’inizio concepito se stesso come un “popolo della Parola”, e per questo è stato costantemente alla ricerca di parole che potessero non solo rappresentarlo, ma ispirarlo e guidarlo: The American quest for representative words can also be considered to include not just attempts to guard or renovate the words of the English language and the governing texts of America, but to change American themselves - to convert, reform, or inspire them - so that their actions would be guided by the Word of God or by the words of the Declaration and the Constitution. Americans have conceived of themselves as the “people of the Word”, and whether that word is understood as the Word of God or the words of the founding fathers, it has been their calling to rise up and live out the meaning of those words”.337 L’America appare dunque una nazione che si è lasciata governare dalle parole, come si conviene ad un paese libero in cui, come afferma Charteris-Black, la retorica è indispensabile per l’esercizio della libertà: “In a republic that exists to define and maintain freedom, public expression and rhetoric are not encouraged but indispensable”;338 inoltre, continua Charteris– Black, “free men need to be persuaded rather than coerced. [...] People can be governed as much by words as by force”.339 L’America sembrava aver optato, afferma Washington Irving, per una “logograzia”, una forma di governo che esercitava il suo potere tramite la forza delle parole, scelta che non la rende assolutamente, però, meno influente: The whole nation does everything viva voce, or, by word of mouth, and in this manner is one of the most military nations in existence...the country is entirely defended vi et lingua, that is to say, by force of tongues.[...] In a logogracy every offensive or defensive measure is enforced by wordy battle and paper war; he who has the longest tongue, or readiest quill, is sure to gain the victory”.340 Questo è ciò che sembra essere accaduto fin dall’inizio in America. Si pensi, citando un esempio per tutti, ai puritani che fin dai primi insediamenti nel nuovo mondo si sono avvalsi nel New England di una cultura della parola, e che nel corso degli anni hanno instaurato una retorica di pace ma allo stesso tempo di ordine; soltanto tramite la parola essi sono riusciti a 336 Ibidem. T. Gustafson, Representative Words: Politics, Literature, and the American Language 1776-1865, Cambridge University Press, Cambridge, 1992, p. 3. 338 J. Charteris-Black, Politicians and Rhetoric, cit., p. 48. 339 Ibidem. 340 W. Irving, “Salmagundi”, n° 7 (April 4, 1807), in W. Irving, History, Tales, and Scketches, p. 144, cit. in E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 47. 337 126 contenere e gestire conflitti sia interni che esterni alla comunità e a pacificare con le parole uno scenario in realtà pieno di guerre: Rhetoric of peace and order determined the course of New England history from the beginnings of Englishlanguages settlements in Massachusetts in the 1620s through the end of the original colonial arrangement in the wake of the pluralization of the religious, social and political landscape in the last third of the seventeenth century. [...]But the peaceable condition was endangered by internal and external conflicts, so the initial, partly visionary, rhetoric of peace and community gave way to legalistic, pragmatic discourses of order, coercion and intolerance. [...]The establishment of a printing press in Cambridge as early as 1638 made it clear to followers and critics of Puritan New England alike that religiously inspired transplantation to the new worlds of America grounded itself in the force of (printed) words.341 Anche la guerra civile fu combattuta, prima che sui campi di battaglia, con le parole, e gli intellettuali del tempo, al pari dei politici, erano consapevoli di quanto fosse importante l’uso della parola per presentare e – soprattutto rappresentare – il problema della schiavitù al popolo americano. Emerson, come altri intellettuali prima e dopo di lui, avvertiva, come afferma Gustafson, la responsabilità politica che lo investiva e lo costringeva ad intervenire direttamente per difendere l’autenticità della parola: Emerson, Pound, Eliot, Tate, Ellison, Ginsberg, Mailer, and Rich are widely divergent in their politics, but they share as writers critics the sense of a religious mission for the writer and a sense of political role that unites them. Their mission is to sustain faith in the word and defend it not just in acts of creative art but as critics. Their political role in the drama of democracy is to check and balance the sovereign words and representations of others with their own representations.342 Nel corso degli anni Emerson aveva partecipato a vari dibattiti politici, ed era rimasto disgustato nel constatare come il linguaggio venisse svilito nelle sue potenzialità e manipolato con l’unico scopo di “costringere” le persone ad aderire ad una determinata idea politica: For Emerson, the political use of symbolic language is disappointing not only for its grotesque attempt at coercion but for its failure to recognize the power of open - ended language that might awaken the reader from the drudgery of convention and rote behavior into the assertive awareness of a universe alive with soul-enlarging vitality.343 Questo utilizzo distorto del linguaggio simbolico era accaduto più volte, ma negli anni precedenti la guerra era divenuto evidente come i politici violassero continuamente la parola 341 U. J. Hebel, “Advocating a ‘peaceable condition’: On Rhetoric of Peace and Order in Seventeenth-Century New England”, in D. Steiner D. T. Hartl, American Studies and Peace. cit., pp. 128-133. Sull’argomento si vedano le opere di S. Bercovitch, The Puritan Origin of the American Self, Yale University Press, New Haven, 1975, e The American Jeremiad, University of Wisconsin Press, Madison, 1978. 342 T. Gustafson, Representative Words, cit., p. 350. 343 R. Fuller, Emerson’s Ghosts: Literature, Politics, and the making of Americanists, Oxford University Press, New York, 2007, p. 14. 127 scritta, in particolare la Costituzione, tentando di estrapolarvi i significati più disparati al fine di legittimare la loro posizione. Si era diffusa, difatti, una visione pragmatica della legge che toglieva ad essa la sua sacralità e la considerava principalmente un valido strumento di potere sociale: The Civil War demanded the reconstruction of constitutional ideology.[...] Before the Civil War, the Constitution had been the sepulcher of the fathers – a text to be preserved inviolate in honor and memory of a prophetic wisdom that could be revered but not reconstructed. But once the battlefields of the Civil War became the sacred ground, the Constitution became less a sacred ground and more of a battlefield. After 1865, that is, the Constitution became more in theory what it had been in practice: the field on which a people could war with words for principles or for property.344 Facendo ciò, afferma Gustafson, il sogno politico che cullavano gli americani, di ristabilire unità e autenticità al linguaggio corrotto del vecchi mondo, “the dream that a common language could help erase the differences of races, class, and locality that had divided Europe”,345 si stava tramutando invece in una “parodia” della Bibbia, e gli Stati Uniti rischiavano di passare quindi dall’Unione linguistica avvenuta con la Pentecoste alla confusione di Babele.346 Emerson, molto sensibile a questo problema, poneva fortemente l’accento sulla differenza tra un uso coercitivo dell’eloquenza e un uso basato invece su principi etici. Consapevole della pericolosità della retorica, che può restringere la libertà dell’individuo anziché supportarla e garantirla, egli faceva appello al legame tra linguaggio e natura, alle origini del popolo americano, a una concezione eticamente corretta della retorica politica.347 Ciò che doveva quindi essere riformato per Emerson non erano i testi ma le persone, che necessitavano di essere ricostruite moralmente.348 Emerson si proponeva dunque “the reconstruction of a more natural language and the regrounding of rhetoric’s authority in the ethos or character of the orator. Words had to be made more representative or serve 344 T. Gustafson, Representative Words, cit., p. 52. Ivi, p. 106. 346 Ivi, p. 103. 347 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., 49. 348 T. Gustafson, Representative Words, cit., p. 56. 345 128 something beyond self-interest”.349 Veniva quindi proposto un tipo di azione politica basato sulla discussione, sull’arte retorica della critica e della ricerca del consenso. L’eloquenza per Emerson rappresentava non uno strumento di coercizione, ma il trionfo del “puro potere umano”, un potere, come afferma Urbinati, “più grande della guerra perché opera indirettamente”;350 Per Emerson, continua Urbinati, “contrapporre la forza dell’eloquenza alla forza della violenza significava contrapporre il potere della mente al potere fisico e, dunque, riconoscere la superiorità della democrazia”.351 Come sappiamo, però, Emerson non si limitò a praticare l’arte dell’eloquenza, ma sembrò giustificare anche la violenza della guerra, ponendosi ancora una volta in una posizione difficile da decifrare. Non si può non notare un cambiamento nel suo temperamento dai primi anni di carriera all’avvento della guerra civile; tuttavia resta da indagare se si trattò di un vero e proprio cambio di rotta, che lo mise in contraddizione con le sue precedenti convinzioni, o se si trattò invece di un’evoluzione del suo pensiero. 3.4: Cosa è Accaduto ad Emerson? Stessell, nel suo articolo “The Soldier and the Scholar: Emerson’s Warring Heroes”, presenta un Emerson euforico per una guerra che però, in realtà, non lo toccò da vicino, e lo erige a portatore di un pragmatismo - sfociante in vero e proprio materialismo - che si era impossessato della società americana; in definitiva, Emerson era diventato il difensore di una nuova civiltà di cui non vedeva la corruzione. Stessel nota il continuo richiamo da parte di Emerson al coraggio e all’eroismo e l’ammirazione costante per la figura del soldato, elevata a simbolo delle sue virtù preferite. Emerson –continua Stessel- dopo aver visto i fallimenti dei 349 Ivi, p. 390. N. Urbinati, Individualismo Democratico, cit., p. 207. 351 Ivi, p. 296. 350 129 suoi compagni, che nonostante le loro capacità non erano stati capaci di trasformare il pensiero in azione, ed essendo, come tutti i romantici, “a worshipper of energy”, avrebbe iniziato ad ammirare uomini più concreti come Napoleone e Cromwell a discapito degli intellettuali, e a dare quindi più importanza all’esperienza pratica: “The soldier - not the metaphoric but the real one - was coming to be Emerson’s main image of experience and success”.352 Emerson avrebbe quindi progressivamente abbandonato l’utilizzo della metafora del soldato per lodare soltanto i soldati veri e propri: The image of the soldier - like the image of the scholar- was to become a virtual leitmotif within Emerson’s writings. In his early years the soldier was his metaphor for bravery, but gradually the image became less metaphorical, more literal. Instead of praising those who were “like soldiers” for their bravery, he gave praise almost exclusively to soldiers. By the 1860s, he found bravery hardly anywhere except in military men- and certainly not in scholars, who seemed weak and ineffectual in a crisis like the Civil War. If Emerson’s post Civil War essays lack the greatness of his earlier ones, the reason may well be that the enterprise of scholarship had paled for him in contrast with the active and effective work of the soldier.353 Emerson avrebbe quindi appoggiato la guerra perché la considerava l’unico mezzo pratico per giudicare il vincitore tra la libertà e la schiavitù. La guerra era per lui una crociata, e il campo di battaglia il luogo dove ogni maschera sarebbe caduta facendo venire allo scoperto le identità morali dei partecipanti.354 Pur sicuramente condivisibile in alcuni aspetti, non mi trovo pienamente d’accordo con l’analisi di Stessel, secondo cui in Emerson sarebbe avvenuto un cambiamento radicale che lo avrebbe reso un guerrafondaio ad oltranza ed un pragmatista che, tra l’altro, apprezzava i lati meno corrotti della società del dopoguerra senza rendersi conto dei suoi mali.355 Come è noto Emerson vide declinare progressivamente le sue facoltà negli ultimi anni della sua vita e soffrì di disturbi della memoria, ma ciò non basta a giustificare una visione così disfattista come quella di Stessel. Soprattutto, dagli scritti traspare come Emerson non fosse in alcun modo accomodante nei confronti dei suoi contemporanei e fosse invece consapevole del 352 E. Stessel, “The soldier and the Scholar: Emerson’s Warring Heroes”, cit., p. 173. Ivi, p. 167. 354 Ivi, p. 183. 355 Ivi, p. 197. 353 130 decadimento morale che li portava ad avallare la pratica della schiavitù principalmente per motivi di profitto: “The interest nations took in our war was exasperated by the importance of the cotton trade” (FRep 11.512 18); “The war gave back integrity to this erring and immoral nation” (HCom 11.342 12). Inoltre, il fatto che fosse così duro nei confronti degli intellettuali mostra a mio parere come egli, nonostante le delusioni, credesse ancora nella loro importanza e nella loro influenza che però, considerata la gravità della situazione, non poteva restare confinata alle sole parole e doveva farsi quindi più incisiva. Stessel ha ragione nel sostenere che, come nota anche Robinson, Emerson nel corso degli anni abbracciò un’etica più pragmatica, che da una dottrina dell’anima che fondeva insieme idee neoplatoniche, orientali, romantiche, negli anni ‘40 e ‘50 si fece più concreta: Emerson gradually modified his religious stance during the 1840s and 1850s to accommodate the waning of his experience of ecstatic vision and to reflect his growing sense of the importance of moral action as the fundamental end of religious experience. He thus developed a more pragmatic and ethically centred theory of the religious life in which work and worship, morals and vision, became increasingly synonymous concepts.356 In particolare, dopo la crisi religiosa del 1842 aggravata dalla morte del figlio Waldo di soli cinque anni, Emerson vide nell’insieme della ragione etica e dell’azione pragmatica la ricostituzione più affidabile dell’esperienza spirituale: il mondo, difatti, esisteva “to realize the transformation of genius into practical power”.357 Emerson, afferma Stack, “again and again criticizes the separation of learning and knowledge from life, from action, from a way of being. Accomplishment in life is not a matter of intelligence alone. Persistence, achievement, creativity, and action require strength, passion, and instinctive responses”.358 A questo fine Emerson, negli anni precedenti la guerra civile, invocò una “religione dell’azione” che mettesse in pratica gli ideali astratti di cui si faceva portatrice: Emerson, was placing new emphasis on the life of morally directed action, and on the larger goals of political transformation and the accomplishment of social justice. During the late 1840s and early 1850s, as his reputation and public influence grew, he elevated ethical work over mystical vision as the focus of the spiritual life and 356 D. M. Robinson, “Emerson and Religion”, in J. Myerson, A Historical guide to Ralph W. Emerson, cit., pp. 151-152. 357 Ibidem. 358 G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 27. 131 preached a religion of action, in which the devotion to a principled task became a new route to enlightenment and a new mode of worship.359 Verso la fine della sua carriera Emerson elaborò quindi una versione più “aggiornata” dell’American Scholar che lo aveva reso tanto famoso ma anche tanto criticato: “Emerson, in the twilight of his career, offers to these ambitious young men of Harvard a new ‘American Scholar’, which includes now not only an exhortation to be active in the world as scholars but also to aggressively address the problems of society and government”.360 Nonostante non si sentisse portato per l’attività politica, egli ribadiva l’importanza della forza di volontà e dell’azione per lo sradicamento della schiavitù: “The Providence that guides the world will not save us but through our own co-operation”.361 L’etica vincente proposta da Emerson implicava la cooperazione tra la forza soprannaturale che guida il mondo e l’azione pratica dell’uomo. Si deduce, quindi, che il pragmatismo di cui si fece portatore non esclude né la speranza riposta nel progresso dell’umanità, né tanto meno la fede nei valori da lui sempre professati. Nonostante i segnali del tempo non fossero incoraggianti, il “saggio” di Concord non venne meno al suo ottimismo, che ebbe tra l’altro un’importanza cruciale nella sua attività abolizionista: per lui la schiavitù era una violazione dell’ordine naturale del mondo, e quindi, come la guerra, era soltanto temporanea.362 Emerson connetteva quindi la guerra contro la schiavitù al generale progresso umano, e quando capì che non c’era modo di estirparla se non con la guerra, allora 359 D. M. Robinson, “Emerson and Religion”, cit., p. 168. L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 328. 361 R. W. Emerson, “The Fugitive Slave Law”, 7 march 1854, in L. Gougeon and J. Myerson, Emerson’s Antislavery Writings, cit., p. 89. Secondo Gougeon dopo aver compreso che la guerra non sarebbe stata così breve Emerson avrebbe fatto “un passo indietro”: “When it became clear that the war was destined to be a longterm and costly affair, both in lives and in material destruction, Emerson would moderate his position substantially and return, for the most part, to the social philosophy that he developed in his speeches of the 1850s: namely, that the reform of society would be wrought through the persistent and cooperative efforts of heroic individuals working with, and through, the fatalistic forces at hand. Eventually the Struggle of the Civil War would give rise to many such transcendental heroes”. L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 271. 362 D. M. Robinson, “Emerson and Religion”, cit., p. 170. Robinson nota giustamente come l’ottimismo di Emerson, per cui la moralità del mondo sarebbe migliorata e la civilizzazione sarebbe andata avanti, sembra a noi impensabile: ”This argument may strike the modern ear as hopelessly naive after a Civil War, two World Wars, the Holocaust”. Ivi, p. 191. 360 132 non solo iniziò a considerare il conflitto sempre più inevitabile, ma anche sempre più necessario: “By 1863, he had come to believe no sacrifice was too great when the grand principle of human freedom was at stake. Now he rose to defend the war and its principle vigorously, without hint of reluctance”.363 L’appoggio alla guerra, dunque, non andrebbe visto come una negazione da parte di Emerson dell’idealismo precedente, ma come l’”azione pratica” necessaria alla sua realizzazione: “For Emerson, the major cause of America’s moral malaise was its gross materialism - the general tendency to place the value of things over people - and slavery was the epitome of this corrupt philosophy”.364 Emerson criticò quindi il materialismo e il consumismo americano “and tried to redefine the American myth of success in terms of higher principle”; condannò l’accumulo della ricchezza e invitò i lettori a un “plain living and high thinking”.365 Neanche gli orrori della guerra civile e la nascita di una società materialista che si arricchì con la guerra poté far diminuire l’ottimismo di Emerson, e questo non perché egli non si rendesse conto degli eventi, ma perché, pur nella sua ingenuità, era fermamente convinto che gli ideali americani non sarebbero stati profanati, e la progressiva corrente verso il miglioramento sarebbe continuata, grazie anche agli emigranti dell’est che, con il loro lavoro, avrebbero affermato l’ideale di indipendenza democratica:366 The Civil War represented the triumph of principle in a society that had become mired in a corrupt materialistic skepticism. He was optimistic that the war had redeemed America from sinful corruption of the institution of slavery, and he looked forward to a glorious flowering of the American ideal in the post-Civil War period. In one of his last speeches, “Fortune of the Republic”(1878), he described the triumph of the liberal spirit in America.367 In definitiva, possiamo accusare sicuramente Emerson di eccessivo ottimismo e di grande ingenuità, sentimenti che lo portarono a sperare incondizionatamente negli ideali 363 Ivi, p. 170. L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 337. 365 Ivi, p. 169. 366 R. Bosco, “A brief biography 1812-1892”, in J. Myerson, A Historical guide to Ralph W. Emerson, cit., p. 54. 367 L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 340. 364 133 americani e nella forza dell’individuo nel riformare la società; non possiamo però non notare come queste idee lo abbiano accompagnato sempre nella sua carriera, come anche il fascino mai celato per la guerra ma anche la sua condanna; proprio per questo il cambiamento che lo portò all’appoggio della guerra civile non fu così indolore, e soprattutto non indicò l’abbraccio di una nuova etica materialista, ma il perseverare nel raggiungimento dei valori ideali da lui sempre professati. Daniel Aaron riassume così la posizione di Emerson: He had never been an unqualified man of peace nor did the War suddenly transform him into a bloody jingoist. According to a friend and biographer, Emerson never recovered from the ordeal of the War, and any close reader knows at what personal cost he maintained his transcendent optimism. War and peace, like all phenomena, wore for him a double face; each had its glories and corruptions. Strong arguments against war can easily be found in his early writings: he never denied its ideal state of affairs.368 Vicino alla posizione di Aaron è Huggard, secondo cui l’atteggiamento assunto da Emerson nei confronti della guerra civile non si discostò poi molto dalle idee professate già nel 1838 nel saggio “War”. Pur riconoscendo che la guerra civile, trattandosi di un evento reale e non di un concetto astratto, cambiò indubbiamente i concetti emersoniani di guerra e pace, secondo Huggard la giustificazione dell’uso della forza contro il Sud da parte di Emerson deve essere vista come una speranza per la società, un metodo utilizzato dalle forze universali per distruggere i vizi dell’uomo.369 Huggard ritiene improbabile che la guerra civile sia stata per Emerson soltanto un episodio romantico, una riproduzione moderna delle guerre antiche oppure “a ethical holiday” in cui egli divenne irrazionale.370 La guerra, a differenza di ciò che afferma Stessel, comportò privazioni anche alla sua famiglia ed Emerson soffrì per le perdite di conoscenti ed amici.371 Nonostante ciò, lui la accolse con mitigata gioia, convinto che nella società imperversavano mali peggiori, primo fra tutti la schiavitù, alla quale si opponeva sul 368 D. Aaron, The Unwritten War, cit., p. 36. W. A. Huggard, “Emerson and the Problem of War and Peace“, cit., p. 4. 370 Ivi, p. 64. 371 Quando ad esempio Robert Shaw e altri soldati neri morirono in battaglia, Emerson si sentì in colpa essendo stato lui ad incoraggiarli ad arruolarsi. Per l’occasione compose una poesia, “Voluntaries”, in cui esprimeva il dolore per le perdite subite e i sacrifici che lo spirito di libertà imponeva per ottenere la vittoria sull’oppressione. Alla fine del componimento però, tornando al suo ottimismo, egli afferma: “victory, no matter how long it may take, is assured”. L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., pp. 300-301. 369 134 piano economico, ma soprattutto da un punto di vista filosofico e morale.372 La guerra civile non significò dunque per Emerson soltanto la liberazione dei neri: The war was to be a second American Revolution, extending the political freedom gained in 1776 for the white race to all men in America, but extending also the breadth of the American thought by clearing away the false social ethics which had impeded its cultural expansion.373 Anche Huggard riconosce, come altri critici, che Emerson fu spinto da un ottimismo eccessivo rimasto disatteso, che probabilmente gli impedì di comprendere l’entità della tragedia fino in fondo; ciò, però, non può oscurare la sua buona fede e le sue nobili speranze: Perhaps in no aspect of Emerson’s career may we perceive so clearly his fundamental and quenchless optimism as his belief that the Civil War would purify American life. The succeeding years have not justified that optimism; but we can nevertheless admire the nobility of his dream and desire that it may even yet come into fulfilment.374 3.5: Tra Idealismo e Materialismo I tempi non solo non avrebbero giustificato l’ottimismo di Emerson, ma avrebbero utilizzato il suo pensiero, per natura e per scelta controverso, per giustificare fatti e misfatti di una società materialista che lui aveva tanto criticato. La biografia di Oliver Wendell Holmes del 1884 è stata determinante nel creare una visione conservatrice di Emerson,375 e fu scritta in un periodo storico che non ha di certo aiutato: alla fine del diciannovesimo secolo i sostenitori di un individualismo oramai imperante nella società e nell’economia, grazie anche alla diffusione del darwinismo e della filosofia sociale di Herbert Spencer, videro in Emerson il loro precursore e il loro difensore. Lo stile retorico di Emerson, così provocatorio e ambiguo, permise ai suoi scritti di essere facile oggetto di fraintendimento, e molti non si lasciarono sfuggire l’occasione di vedere le loro azioni politiche ed economiche giustificate da un personaggio tanto illustre: 372 W. A. Huggard, “Emerson and the problem of War and Peace“, cit., p. 62. Ivi, p. 67. 374 Ivi, p. 70. 375 O. W. Holmes, Ralph Waldo Emerson, Houghton, Mifflin, Boston, 1884. 373 135 “As a result” – spiega Gougeon – “Emerson’s words were often invoked to justify what Emerson himself would have considered blatant corruptions of the American spirit”.376 Gli scritti di Emerson più equivocati furono in particolare “Self-reliance”, “Power”, “Wealth”, e Representative Men (1850), opere che sembravano incarnare l’ideale di imprenditore perseguito da Andrew Carnegie e John D. Rockefeller. L’attenzione si focalizzò però, in particolare, su The Conduct of Life (1860), che a causa dell’enfasi posta sull’azione più che sulle idee e con le considerazioni sull’importanza del raggiungimento del successo personale sembra essere, come afferma Lopez, un’opera “obsessed with power”: “There are many passages welcoming war, temptation, and antagonism as heroic forms of self-overcoming as the very foundation of nature, the cosmos, culture, art, religion and history”.377 Inoltre, il libro pone l’accento sulla possibilità di volgere a proprio favore il potere derivante dal male e, soprattutto, sulla possibilità di utilizzare ogni cosa per i propri scopi, teoria che Lopez chiama “doctrine of use”.378 Con l’uscita di Conduct of Life le idee di Emerson vennero quindi avvicinate al materialismo che si stava diffondendo tra gli americani, e furono citate da Orison Swett Marden nei suoi libri Pushing to the Front (Boston, 1895) e The Young Man Entering Business (New York, 1903), aventi come obiettivo quello di illustrare la strada per il raggiungimento del successo.379 Molti altri esempi di “appropriazioni indebite” potrebbero essere citati; William Lawrence ad esempio, vescovo metodista del Massachusetts, nel 1901 scrisse un saggio intitolato “The Relation of Wealth to Morals” dove affermava: “Man - says Emerson - is born to be rich. He is thoroughly related, and he is tempted out by his appetites and fancies to the conquest of this and that piece of nature, until he finds his well-being in the use of the planet, 376 L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 340. M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 41. 378 Ivi, p. 258. 379 R. Richardson, Emerson, The Mind on Fire, cit., p. 490. 377 136 and of more planets than his own”.380 Charles W. Eliot, preside dell’ Harvard University, nel 1903 disse di Emerson (celebrando il centenario della sua nascita) che egli avrebbe approvato gli sforzi di colonizzare Cuba e le Filippine perché credeva nell’educazione come unica forma di progresso; lo citò dunque per giustificare molte scelte politiche americane, tra cui quelle sull’educazione del sud ex-schiavista.381 Passando a giorni relativamente più recenti, nel 1981 il preside della Yale University A. Barlett Giamatti, in un discorso tenuto per i neo laureati, affermò: “Emerson is the source of that ugliest American trait, a ‘worship of power’. Emerson freed our politics and our politicians form any sense of restraint by extolling self-generated, unaffiliated power as the best foot to place in the small of the back of the man in front of you”.382 Conseguentemente Wesley T. Mott commenta così le affermazioni di Giamatti: “Giamatti’s Emerson is an amoral monster who anticipates the meanness of economic boosterism and jingoism, of Nietzsche, Hitler, the Vietnam War”.383 Le parole e le scelte di Emerson sono state dunque spesso utilizzate per giustificare una mentalità che metteva al centro l’individualismo più assoluto e l’arricchimento personale. Alcuni studiosi hanno tentato negli anni di ridimensionare il contributo che Emerson avrebbe apportato alla mentalità materialista americana, ma non tutti sono della stessa opinione. Molti critici affermano difatti che la dottrina di Emerson fornì in effetti una giustificazione ideale per ciò che sarebbe accaduto, e le sue idee sarebbero “a proper code for a young businessman with get-up and go”.384 Perry Miller dichiara che il saggio di Emerson su Napoleone è in sostanza “a love letter to the entrepreneurs”,385 e Daniel Aaron, parzialmente giustificando 380 L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 340. C. W. Eliot, The Man and his Beliefs, ed. William Allan Neilson, New York, Harper and Brothers, 1926. 382 A. B. Giamatti, The University and the Public Interest, New York, Atheneum, 1981, pp. 172-174-176. 383 W. T. Mott, “Emerson and Individualism”, in J. Myerson, Historical Guide to R. W. Emerson, cit., p. 67. 384 Parole cit. in L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 340. 385 P. Miller, The Responsibility of Mind in a Civilization of Machines, ed. J. Crowell and S. J. Searl Jr., University of Massachusetts Press, Amhrest, 1979, p. 172, 205. 381 137 Emerson, scrive: “Even though Emerson never intended his exhortations to justify the practices of the ‘Robber Barons’, his political philosophy seemed to do just that”.386 Di tutt’altro avviso è invece Gougeon, che nei suoi libri tenta di “riabilitare” la reputazione di Emerson. Per Gougeon anche gli ultimi scritti, i più equivocati, possono essere letti come espressione dell’idealismo di una volta: “It was this idealism, stimulated by a genuine love for mankind and commitment to human virtue, that fuelled Emerson’s long and inevitable campaign against slavery, and remains alive and well in his words today”.387 Anche Stack, che riconosce la forte attrazione di Emerson per gli uomini capaci di compiere grandi imprese, afferma che il successo che egli lodava andava al di là del successo economico, concetto che molte persone non hanno invece afferrato: ”Emerson attributes this pursuit of money to a search for something ‘higher’ that, in the ‘sleep-walking’ of the average person, is taken for a greater good”.388 Gougeon a proposito di ciò ribadisce come Emerson fosse molto più interessato all’arricchimento interiore che esteriore: “Success in life is defined in terms of excellence of character, not in terms of the accumulation of capital. In a statement as apt today as it was when it was first written, Emerson laments that ‘they measure their esteem of each other by what each has, and not by what each is’”.389 A riprova di ciò, lo stesso Emerson in “Success” proclama che il benessere economico, senza la cultura, non serve assolutamente a nulla: ”I hate this shallow Americanism which hopes to get rich by credit, to get knowledge...or skill...without study...or wealth by fraud”.390 Pur mostrandosi ottimista nei confronti della società Americana, Emerson era ben consapevole che essa mostrava sempre più tratti di invidia e di egoismo; inoltre, pur simpatizzando per lo spirito capitalista, era allo stesso tempo preoccupato che l’individualismo, valore a lui molto caro, potesse risentirne: 386 D. Aaron, “Emerson and the Progressive Tradition”, in Emerson: A Collection of Critical Essays, ed. Milton R. Konvitz and Stephen E. Whicher, Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1962, p. 86. 387 L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 340. 388 G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 55. 389 L. Gougeon, Virtue’s Hero, cit., p. 342. 390 R. W. Emerson, “Success”, in Society and Solitude, cit. in L. Gougeon, Virtue’s Hero, ibidem. 138 ”Throughout most of his career Emerson was ambivalent toward capitalism, regarding it on one side as the economic manifestation of contemporary individualism and on the other as the gravest threat to individualism”.391 Fuller, in una visione molto interessante del problema, pone l’accento su quegli aspetti che, anziché rendere Emerson un’espressione della mentalità americana, lo rendono precursore di una prospettiva transnazionale. Rileggendo le opere di Emerson, afferma Fuller, ci si stupisce di quanto egli fosse poco interessato a questioni relative alla tradizione letteraria nazionale, e lo stesso “The American Scholar”, considerato “the Ur-text of American Studies”, è in realtà “remarkably devoid of extended discussion or analysis of nationality and its relation to intellectual work”.392 Buell, in effetti, già nel suo libro su Emerson aveva sottolineato come lo scrittore americano fosse stato influenzato da tradizioni letterarie ben lontane dalla sua - in particolare la letteratura asiatica - e si sforzasse di ampliare gli orizzonti dei suoi connazionali: ”Emerson himself strove to advance his own vision of the human prospect in literature, in religion, in philosophy, in social theory, by pressing the claims for self-reliance against traditionalism and groupthink in such a way as to include in principle all humanity, not just cultured elite to which he belonged”.393 Recentemente, Anita Patterson, in un interessante saggio su Emerson e la sua concezione di amicizia, ribadisce “la preoccupazione presente in Emerson per i travagliati rapporti, tanto interni quanto esterni, tra l’America e le altre culture del mondo. [...]. L’amicizia emersoniana nutriva e commemorava uno scambio formativo e vitale d’influenza lungo la frontiera delle culture”.394 391 R. Milder, “The Radical Emerson?”, in J. Porte and S. Morris (ed.), The Cambridge Companion to Ralph Waldo Emerson, Cambridge University Press, Cambridge, 1999, p. 55. 392 R. Fuller, Emerson’s Ghosts, cit., p. 154. 393 L. Buell, Emerson, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2003, p. 107. 394 A. Patterson, “Emerson, il transnazionalismo e l’enigma dell’amicizia”, 42-58. in D. Izzo e G. Mariani (a cura di), America at Large, Americanistica Transnazionale e Nuova Comparatistica, Shake Edizioni, Milano, 2004, pp. 42-58. 139 Se tante opinioni sono state espresse sull’argomento, il merito – o il demerito?- di ciò non può essere, però, che attribuito allo stesso Emerson che, come abbiamo ribadito più volte, non fa nulla per sgombrare il campo dalle ambiguità. Lopez riconosce giustamente ad Emerson una grande capacità di saper confondere, e questo rende il suo pensiero suscettibile di molte interpretazioni: Like Nietzsche, Emerson must be read with awareness of those various rhetorical traditions that imply that the potential for such dangerous misinterpretation is one criterion of serious thinking. [...] It is a kind of writing that, though it may be passionately wish to teach, may also deliberately frustrate the reader’s attempt to find a clear distinction between the literal and the metaphorical.395 Barbara Packer, che analizza in profondità la retorica di Emerson, spiega come la scelta di non fornire troppe spiegazioni sia ragionata e voluta, per far sì che la parola scritta acquisisca più potere a scapito dell’univocità: ”Emerson once praised Landon ‘for having the merit of not explaining’. Like most of Emerson’s comments about rhetoric, this tribute celebrates the virtues of absence, the exhilarations of discontinuity. [...] His own refusal to provide transitions was strategic, a sacrifice of judiciousness to power”.396 Prendere alla lettera tutte le sue affermazioni sarebbe dunque ingenuo, come anche pensare, però, che i suoi scritti siano stati del tutto travisati. Pur essendo stati strumentalizzati e “forzati” in direzioni che Emerson non avrebbe approvato, non possiamo negare che egli sicuramente si divertiva a spingersi provocatoriamente ai limiti dell’ordinario e del consueto: “Emerson is, in short, both a philosopher of direction, a philosopher of the ordinary, and a prophet of extremity, a rhetorical provocateur. There is still much to be done in our recovery of both aspects of his work and of the way in which they play against and/or sustain one another”.397 I due aspetti, quello idealista e materialista, probabilmente in Emerson non si escludono vicendevolmente, e sono collegati come i concetti di guerra e pace, come le forze 395 M. Lopez, Emerson and Power, cit., pp. 126-128. B. Packer, Emerson’s Fall, cit., p. 1. 397 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 131. 396 140 yin e yang. Del resto, come afferma Barzun, è difficile definire il puro idealista ed il puro materialista, e nessuno può ritenersi immune dall’una o dall’altra tendenza: Materialism is a battered epithet which we too often use as a term of reproach. We tack on the adjective “crass” o “gross” and speak as if every materialist were a glutton. Or again we speak as if materialism meant believing in what is really there, whereas idealism means believing in the doubtful and invisible. In this last sense we are all, fifty times a day by turns, materialists and idealists.398 Se per un qualsiasi intellettuale il rischio di essere coinvolto in varie polemiche è molto alto, per Emerson lo è dunque ancor di più, non preoccupandosi egli di essere coerente ma soltanto di poter esprimere la sua idea liberamente: ”Emerson is not preaching either liberalism or conservatism; he is not a radical and he is not a reactionary. He knows wherein consists the essential freedom of the mind, no matter how heavily it be born down by lids of iron. Out of such knowledge - in his case painfully and arduously acquired - he brings forth romance of a scholar’s trust in himself”.399 In ogni sua affermazione, proprio in base al principio della libertà di pensiero in cui Emerson credeva, ognuno ha pensato di vedere cose diverse, ed è per questo che, come afferma Harold Bloom, “Peace Marchers and Bushians alike are Emerson's heirs in his dialectics of power”.400 Emerson era convinto che “a text’s susceptibility to misinterpretation was itself a mark of greatness”; è accaduto e sta accadendo quindi ciò che lui desiderava, e sarebbe soddisfatto nell’osservarci mentre ci arrovelliamo sul suo pensiero: “A style that suggests rather than tells, that refuses to defend, that combines excess with reticence, carries its dangers, as Emerson realized: ‘Ah, so you shall be sure to be misunderstood’”.401 398 J. Barzun, Darwin, Marx, Wagner: Critique of a Heritage, University of Chicago Press, Chicago, 1958, p. 8. P. Miller, “Emerson’s ‘American Scholar’ Today“, discorso tenuto nel 1955 al Goddard College, cit. in R. Fuller, Emerson’s Ghosts, cit., p. 120. 400 H. Bloom, “The Sage of Concord”, in The Guardian, 24 May 2003, in www.rwe.org. 401 B. L. Packer, Emerson’s Fall, cit. p. 6. 399 141 CAPITOLO QUARTO THE JOURNALS: UNA VERITA’ NASCOSTA? 4.1: The Wide World Il mondo di Emerson è un mondo infinito che si estende per migliaia di anni e per grandi spazi, contenendo in sé una miriade di personaggi, di libri, di luoghi, di civiltà, di avvenimenti, di esperienze. E’ un mondo fatto di vita esteriore, di interventi pubblici, di conferenze, di amicizie, di pubblicazioni, ma è anche un mondo ricco di vita interiore, di pensieri, di turbamenti, di conflitti, di emozioni, di riflessioni. Per questo tutte le opere di Emerson, già numerose, varie e significative di per sé, non sono pienamente sufficienti a tracciare il suo profilo e a delineare le sue idee su un determinato argomento. Per fa ciò dobbiamo dunque rivolgerci anche ai dieci volumi dei suoi Journals, che promettono di svelare un Emerson inconsueto e di rivelare verità nascoste. Una gran parte dei Journals fu resa pubblica dal figlio e dal nipote di Emerson in una serie di volumi pubblicati tra il 1909 e il 1914, volumi che costituirono la fonte della famosa selezione di Bliss Perry The Heart of Emerson’s Journals del 1926. Tuttavia, in accordo con i canoni vittoriani dominanti in America prima della prima guerra mondiale, Emerson apparse nella prima edizione dei Journals “regularized and cleaned up”.402 Tutto il contenuto troppo personale, troppo esplicito, troppo impulsivo che contrastava con l’immagine pubblica di Emerson venne espunto e quindi non pubblicato. L’Emerson che trapelava dal suo stesso diario era quindi identico a quello che tutti conoscevano e rispecchiava l’immagine che il figlio voleva darne: “Emerson was not often allowed to be angry, frightened, silly, puzzled, 402 J. Porte (ed.), Emerson in His Journals, Harvard University Press, Cambridge, 1982, p. VII. 142 shocked, sarcastic, or satiric. And he was almost never permitted to exhibit an interest in such things as sex or the functions of the body”.403 Il diario di Emerson era stato quindi pubblicato, in realtà, soltanto parzialmente, a tal punto che i curatori della nuova edizione Harvard ammisero che nella prima edizione “We lost much of Emerson. The Montaigne in him was unduly overshadowed by the Plotinus, the brooding doubter by the cosmic optimist, the private man in his freedom and infinitude by the public man in the confining garments of ‘the gentleman’”.404 Grazie proprio all’edizione Harvard Journals and Miscellaneous Notebooks, che conta più di tre milioni di parole e alla quale sono seguite edizioni dei Journals pressoché complete, un’importante parte di mondo emersoniano è stato recuperato. Ora è possibile leggere, consultare e analizzare le centinaia di righe che per oltre cinquanta anni Emerson ha scritto e raccolto durante i suoi studi ad Harvard, in stanze di hotel, su navi e treni durante i viaggi, nel suo studio dove abitualmente spendeva molte ore in letture e riflessioni. Scrivere per Emerson era un impulso naturale, tanto che suo figlio affermò: ”It was as natural to this boy to write as to another to play ball, or go fishing, or experiment with the tools of a neighbour carpenter, or feel out tunes on a musical instrument. When recitations were over, and study did not press, or he was not walking in Mount Auburn woods or the wild country around Fresh Pond, he betook himself to his journal”.405 Nel 1820, all’età di diciassette anni, Emerson iniziò così a scrivere il suo diario intitolandolo “The Wide World”, e il suo primo appunto è insieme propositivo, esplicativo e metodologico: February, 1820. Mixing with the thousand pursuits and passions and objects of the world as personified by Imagination, is profitable and entertaining. These pages are intended at their commencement to contain a record of new thoughts (when they occur); for a receptacle of all the old ideas that partial but peculiar peepings at antiquity can furnish or furbish; for tablet to save the wear and tear of weak Memory, and, in short, for all the various purposes and 403 Ivi, p. ix. Ivi, p. viii. 405 E. W. Emerson, Introduzione ai Journals, edizione del 1909, p. ix. 404 143 utility, real or imaginary, which are usually comprehended under that comprehensive title Common Place book.406 L’analisi di eventi, sentimenti e situazioni caratterizza dunque il Journal di Emerson che, pur contenendo anche annotazioni di fatti quotidiani e apparentemente poco significativi, non può essere definito un vero e proprio diario. Esso difatti non è soltanto un semplice resoconto giornaliero, piuttosto un insieme di contenuti molto vari. I primi libricini che lui chiamò “Wide Worlds” sono difatti pagine dedicate a ricordi, dissertazioni, annotazioni di frasi e pensieri che lo colpivano e che avrebbe utilizzato in seguito nei saggi e nelle 406 R. W. Emerson, Journals, Vol. 1, THE WIDE WORLD, NO. I, 1820. I Journals che comprendono il periodo che va dal febbraio 1820 al luglio 1824 sono chiamati da Emerson "The Wide World". L’edizione da me utilizzata è l’edizione digitale del 2005 acquistabile sul sito www.rwe.org, a cura di Richard Geldard. I dieci volumi sono così suddivisi: vol. I: 1820-1824, vol. II: 1825-1832, vol. III: 1833-1835, vol. IV: 1836-1838, vol. V: 1838-1841, vol. VI: 1842-1844, vol. VII: 1845-1848, vol. VIII: 1849-1855, vol. IX: 1856-1863, vol. X: 18641876. 144 conferenze: “Emerson sometimes conceived of his books as a ‘savings bank’. [...] He defined his journal additionally as ‘a book of constants’ on which he could build up for himself an enduring compendium of literary and scientific wisdom”.407 Oltre a ciò, però, il diario aveva per Emerson un significato anche più profondo e costituiva, di fatto, un modo per poter espandere la sua vita privata: Much like his letters and conversations with close friends, his brothers, and Aunt Mary, Emerson considered his journals and notebooks an extension of his private life. There -perhaps only there- he could be completely himself. In them, he recorded everything from his dreams and waking thoughts, to texts copied from his voluminous readings, to passages he translated from his favourite classical and modern writers, to snippets of correspondence he received from select friends, to modest prose drafts that were either original with him or syntheses-as “assimilations”, to use his term, drawn from one or more of the foregoing sources.408 In piena adolescenza Emerson iniziò così ”the endless process of soul searching that constitutes one of the principal interests of his journal”.409 Emerson sottopose dunque ad una rigorosa analisi e mise a nudo la sua vita interiore segnata da crisi di pensiero e d’identità, da forti emozioni e conflitti con il mondo esterno ma soprattutto con se stesso; dall’età di diciassette anni, e per tutta la sua vita, “he continued to anatomize his consciousness and experience in these pages with scrupulous honesty”.410 Emerson stesso descrisse in un saggio l’importanza della sua scrittura privata: Each young and ardent person writes a diary, in which, when hours of prayer and penitence arrive, he inscribes his soul. The pages thus written are to him burning and fragrant; he reads them with his tears; they are sacred; too good for the world, and hardly yet to be shown to the dearest friend.411 Nel suo diario Emerson si proponeva dunque di essere totalmente onesto con se stesso e di trascrivere ciò che non avrebbe potuto confidare neanche agli amici più cari, mirando quindi ad un’impresa ben più difficile di quella che poteva essere la semplice annotazione, seppur meticolosa, di tutti gli avvenimenti: egli si proponeva “the steady and candid recording of thoughts and feelings and fantasies without inhibitions or reservation. [...] We must be 407 J. Porte (ed.), Emerson in His Journals, cit., p. viii. R. A. Bosco, “A brief biography”, in J. Myerson, A Historical guide to R. W. Emerson, cit. p. 18. 409 J. Porte (ed.), Emerson in His Journals, cit., p. II. 410 Ivi, p. vi. 411 Ivi, p. v. 408 145 privileged not only to experience, along with our diarist, the Transcendental sublime but also to ‘know the worst’, as Emerson says, ‘and tread the floors of hell’”.412 Con il passare degli anni, dunque, Emerson annotò eventi, cambiamenti, contraddizioni e scoperte della sua vita nel suo inseparabile compagno di viaggio che, con fedeltà e costanza, raccoglieva infedeltà e incostanze dell’esistenza del suo proprietario. Emerson scriveva sempre, e anche nei momenti più bui e dolorosi, pur annotando poche parole, non veniva meno al suo impegno: “Emerson’s organized, persistent, purposeful journal keeping is one of the most striking aspects of his early intellectual life. He wrote constantly, he wrote about everything, he covered hundreds of pages. When he had nothing to say, he wrote about having nothing to say”.413 28 gennaio 1842, Emerson annota, con una breve frase, la morte del figlio Waldo. I Journals contengono riflessioni e annotazioni che sono talvolta complementari ai suoi scritti, talvolta esplicative, talvolta rafforzative delle sue idee. Gli argomenti citati e commentati sono come già accennato molto vari, e si susseguono a volte senza un preciso ordine logico; la sintassi è talvolta un po’ contorta e vi sono errori di spelling – che in alcune edizioni i curatori correggono. In ogni caso, ciò non fa che aggiungere veridicità al diario e 412 413 Ivi, p. viii. R. D. Richardson Jr., Emerson, The Mind on Fire, cit., p. 42. 146 non fa che accrescere l’importanza di una fonte che, per la sua immediatezza e spontaneità, risulta assai utile ed interessante per l’analisi di determinati argomenti. Nel diario di Emerson rintracciamo quindi i suoi pensieri più disparati e le tappe più importanti della sua vita: la sua adolescenza, il suo amore per Ellen Tucker e il dolore per la sua morte prematura, i dubbi sulla cristianità e sul ruolo di ministro che abbandonò dopo poco tempo dalla sua ordinazione, i viaggi in Europa, la realtà storico-culturale di Boston con i suoi avvenimenti e dibattiti politici e culturali, le amicizie trascendentaliste, la morte del figlio Waldo, l’impegno contro la schiavitù e infine la guerra civile, argomento dominate negli ultimi volumi del diario. Emerson raccontò e si raccontò dunque senza mai un’interruzione per oltre cinquanta anni, fino al 1870 circa. L’ultima entrata del diario non porta data certa, ma probabilmente risale ai primi anni Settanta del 1800, e contiene – come forse solo poteva essere - una riflessione sulla lettura, sulla cultura e sulla natura degli uomini: But on one thing I am well aware, that it is comparatively of little importance that I praise books to you. You will not read them the more that I should, nor less if I held my peace. A better orator than I pleads for them with some of you [...]. I mean that some men are born to read, & must & will read at whatever cost, & others are born to work & executive skills, that take tyrannical possession of the man, & so absorb him that he has no ears or eyes for those pursuits which constitute the chief happiness of other souls. Books only put him to sleep. I surrender such willingly to the Fates -I hope, in each case, noble ones- that wait for them at the door.414 Emerson avrebbe avuto sicuramente ancora molto da dire anche dopo questa annotazione, ma intorno al 1872 sopraggiunse un declino fisico e mentale che gli impedì di mantenere la sua abitudine, soprattutto a causa della graduale perdita di memoria. Il figlio Edward racconta: It is a pleasant circumstance to remember that in his last years Mr. Emerson took from the study shelves the volumes of his own printed works. They seemed new to him, and when his daughter came in, he looked up, smiling, and said, “Why, these things are really very good”.415 Dopo un giudizio così disinteressato, e certi del suo valore, ci accingiamo a sbirciare dietro le quinte del sipario dove l’Emerson dei Journals tentava di nascondersi, mentre i suoi scritti pubblici andavano in scena. 414 R. W. Emerson, Journals, in J. Porte (ed.), Emerson in His Journals, cit., p. 570. La data dell’entrata è incerta, ma con ogni probabilità è successiva al 1870. 415 R. W. E., Journals, vol. X, nota a p.168. 147 Ultima annotazione presente nei Journals. 4.2: 1820-1834: ”A Barren and Desolate Soul” Fin dai primi anni del suo diario è molto presente in Emerson la convinzione, a noi già familiare, che l’universo sia un immenso campo di battaglia e che l’uomo debba difendersi e reagire per avere il sopravvento e infine la vittoria sulle avversità: This is certain—that war is waged in the Universe, without truce or end, between Virtue and Vice; they are Light and Darkness, they cannot harmonize. Upon Earth they are forcibly consorted, and the perpetual struggle which they make, separates by a distinct line man from man throughout the world. (vol. I, p. 59) Le vicende della vita, anche le più intellettuali, sono vissute e rappresentate in chiave bellica: And does it not find a lesson herein, the suggestion that a mind raised above circumstances may fight this heroic battle day by day. (vol. 2, p. 153) Norris's first volume was an unexpected delight this afternoon. He fights the battles and affirms the facts I had proposed to myself to do. But he falls, I so think, into the common error of the first philosophers, that of attempting to fight for Reason with the weapons of the Understanding. (vol. 3, p. 188) 148 Come un soldato in battaglia, ogni essere umano è impegnato in una guerra spirituale dove, nonostante gli ostacoli e la poca visibilità, egli deve tentare di discernere i pericoli e la tattica con cui verrà condotto lo scontro: I should still incline to think that we were too near to judge, like a soldier in the ranks who is quite unable, amid the din and smoke, to judge how goes the day, or guess at the plan of the engagement. (vol. 3, p. 170) What is the office of a Christian minister? 'T is his to show the beauty of the moral laws of the universe; to explain the theory of a perfect life; to watch the Divinity in his world; to detect his footstep; to discern him in the history of the race of his children, by catching the tune from a patient listening to miscellaneous sounds; by threading out the unapparent plan in events crowding on events. The soldier in the army does not know the plan of the fight. . . . (vol. 2, p. 110) Ma tutto ciò, in realtà, sebbene con parole diverse, lo abbiamo già constatato nell’analisi degli scritti ufficiali. L’elemento nuovo, a mio avviso, che non traspare chiaramente nelle opere pubblicate e che è invece evidente nei Journals, è il fatto che l’immaginario bellico utilizzato in maniera così diffusa corrisponda ad una vera e propria guerra interiore. Il giovane Emerson era tormentato da dubbi e conflitti, molti dei quali dovuti alla decisione – alla quale fu costretto da motivi economici e familiari - di diventare un ministro della Chiesa Unitariana, mentre sentiva forte dentro di sé la vocazione per la letteratura.416 Ciò creava in lui un forte senso di colpa e di inadeguatezza dovuti alla consapevolezza di ricoprire un ruolo così importante per cui si sentiva davvero poco incline. Nel suo diario rimproverava frequentemente se stesso di non essere all’altezza dei suoi compagni e di non contrastare adeguatamente le tentazioni che gli si presentavano: I am sick—if I should die what would become of me? We forget ourselves and our destinies in health, and the chief use of temporary sickness is to remind us of these concerns. I must improve my time better. I must prepare myself for the great profession I have purposed to undertake. I am to give my soul to God and withdraw from sin and the world the idle or vicious time and thoughts I have sacrificed to them; and let me consider this as a resolution by which I pledge myself to act in all variety of circumstances, and to which I must recur often in times of carelessness and temptation, to measure my conduct by the rule of conscience. (vol. I, p. 38) 416 Emerson incolpava la stessa religione cristiana di creare troppi conflitti nell’uomo: ”Did not Christianity even as much as the good Ware allows (which seems to leave more difficulties, though not so frightful as Calvin and the improvements of Woods) - imply much war with human nature, why do its professed disciples run into Atheism so often, rather than deism?”(vol. 2, p. 19). 149 Emerson si sentiva inattivo e irresoluto, e i problemi di salute, che non accrescevano di certo la sua autostima, lo facevano sentire privo di energie e più avanti negli anni di quanto egli realmente era: In twelve days I shall be nineteen years old; which I count a miserable thing. Has any other educated person lived so many years and lost so many days? I do not say acquired so little, for by an ease of thought and certain looseness of mind I have perhaps been the subject of as many ideas as many of mine age. But mine approaching maturity is attended with a goading sense of emptiness and wasted capacity; [...] Too tired and too indolent to travel up the mountain path which leads to good learning, to wisdom and to fame, I must be satisfied with beholding with an envious eye the laborious journey and final success of my fellows, remaining stationary myself, until my inferiors and juniors have reached and outgone me. [...] Well, and I am he who nourished brilliant visions of future grandeur which may well appear presumptuous and foolish now. My infant imagination was idolatrous of glory, and thought itself no mean pretender to the honours of those who stood highest in the community, and dared even to contend for fame with those who are hallowed by time and the approbation of ages. [...] Ungenerous and selfish, cautious and cold, I yet wish to be romantic; [...] Perhaps at the distance of a score of years, if I then inhabit this world, or still more, if I do not, these will appear frightful confessions; they may or may not, — it is a true picture of a barren and desolate soul. (vol. I, pp. 60-61) Le battaglie interiori, pur non essendo vere e proprie battaglie materiali, erano per Emerson reali, forti e dolorose al pari delle guerre combattute sui campi di battaglia, e quindi come tali egli le rappresentava. La sua lotta era poi ancora più faticosa essendo in realtà duplice: prima di combattere contro gli ostacoli esteriori egli doveva lottare innanzitutto contro la sua mancanza di energia e di coraggio, che avvertiva e cercava quindi di colmare disperatamente. Non soltanto Emerson vedeva di fronte a sé un campo di battaglia vasto e insidioso nel quale doveva però inevitabilmente tuffarsi, ma sentiva anche dentro di sé una confusione mentale e un’indecisione che non gli permettevano di “radunare le truppe” e “armarsi” per lo scontro: There is very little enterprize in virtue. When men take to themselves the reproofs and exhortations of Scripture, they say, The rule is above my whole life. The mind performs a penitential act of perceiving its deficiency, but there it stops. It declares war against the enemy, but it does not levy a troop nor make an excursion into his country. It languishes in inaction, and, at the end of a year, or of seven years, it is found no better, and therefore far worse than at the beginning— far worse, because the demand runs on increasing and the performance does not. It were better to keep the blood warm with virtue by some brilliant act. It is as easy and natural to move, as to rest. (vol. 2, p. 130) La visione dell’esistenza come guerra, dunque, potrebbe essere a mio avviso ricondotta, oltre al contesto storico e culturale nel quale si profilava progressivamente una poeticizzazione della guerra e al retaggio culturale e religioso, in parte anche all’esperienza personale di Emerson, che ogni giorno lottava fisicamente, e soprattutto spiritualmente, per 150 affermarsi e superare paure, incertezze, senso di inadeguatezza e di inferiorità. Lo stato d’animo tormentato con cui Emerson conviveva è avvertibile in molti passi del suo diario, di cui quelli che riportiamo qui sono soltanto un esempio: I have got your letter and perhaps will try to answer it. But what a fight all our lives long between prudence and sentiment; though you contradicted once when I tried to make a sentence, that life was embarrassed by prudentials. The case in point is this :— My soul is chained down even in its thoughts, where it should be freest, lordliest. (vol. 2, p. 110) Have been of late reading patches of Barrow and Ben Johnson; and what the object— not curiosity? no — nor expectation of edification intellectual or moral — but merely because they are authors where vigorous phrases and quaint, peculiar words and expressions may be sought and found, the better "to rattle out the battle of my thoughts". (vol. I, p. 17) Il senso di inattività e di impotenza di fronte agli eventi veniva in lui probabilmente causato anche dal dovere di “obey a strong necessity”, di seguire cioè la strada del ministero che la sua famiglia, per prestigio e necessità economiche, aveva tracciato per lui; Emerson si sentiva in preda a pensieri che lo incatenavano senza farlo agire, facendolo sentire ancora di più in balia di forze superiori di fronte alle quali egli non sapeva ribellarsi. Dal passo seguente si capisce, a mio avviso, l’insistenza costante di Emerson sull’importanza della forza di carattere, sulla ricerca delle fonti di energia, sulla necessità per l’individuo di imporsi sugli eventi e sul mondo esterno, di essere padrone di se stesso e di stabilire un giusto rapporto tra necessità e libertà: I live a few strong moments, in the course, perhaps, of each day; I observe a little the ways of man, and in them accumulated, the ways of God. I act a little. I shape my fortunes, as it seems to me, not at all. For in all my life I obey a strong necessity, and all that sacrifice of time and inclination which certain of my fond friends regard as virtue, I see and confess to be only a passive deference to the course of events. For, in reference to those passages of my life which please their moral sense, I could not have done otherwise without doing violence to my own or my neighbour's feelings. There was, in those instances, in the very likely supposition that I had disliked to play the martyr, no nook, no pretence such as commonly falls to other people, under cover of which I might plausibly decline the assured alternative of inconvenience and loss. It is melancholy to suffer on account of others without any appeal to our own self-devotion as the cause. It is low and ridiculous to be the football of vulgar circumstances and never by force of character to have surmounted them. And yet, inasmuch as the course of events in the world appears to consent to virtue, these regretted evils may be ennobled by being a portion of the sublime necessity which links all agents and events together under an omnipotent jurisdiction. (vol. 2, p. 51) I dubbi tormentarono Emerson fino 1829, quando fu ordinato pastore della seconda Chiesa di Boston, e poi ancora durante tutto il suo ministero fino al 1832, quando decise infine di dimettersi e abbandonare il suo ruolo. Dopo la sofferta decisione Emerson intraprese 151 un viaggio in Europa con l’intento di recuperare la salute fisica e la serenità spirituale, persa anche a causa della morte di sua moglie Ellen nel 1831 e dall’aggravarsi della crisi di fede che lo aveva tormentato negli ultimi anni. Il viaggio in Europa nel 1834 fu per Emerson un evento molto positivo, e al suo ritorno iniziò per lui una nuova vita che lo portò ad acquisire fiducia in se stesso e a diventare l’uomo e l’intellettuale più familiare ai suoi lettori. 4.3: 1835-1838: “Seeking Excitement” L’ammirazione per il potere catartico e generativo della guerra e per le virtù che essa sa suscitare è - come già sappiamo - molto presente in Emerson e, come abbiamo ipotizzato, potrebbe essere dovuto anche alle vicende autobiografiche che lo misero di fronte a conflitti e avversità. Ma l’interesse iniziale per la guerra e le sue qualità didattiche ebbe origine, come si evince da passi del suo diario, dalle letture dei classici greci e latini e dalle opere Shakespeariane, che Emerson letteralmente divorava: “The instructiveness of the one and the virtue of the other exist independently of all systems or sawsand in spite of all." Life of Schiller. This is tantamount (is it not ?) to Aristotle's maxim, "We are purified by pity and terror." And thus is Shakspeare moral, not of set purpose, but by "elevating the soul to a nobler pitch." So too are all great exciters of man moral; in war and plague and shipwreck greatest virtues appear. Why, but that the inmost soul which lies tranquil every day is moved and speaks? But the inmost soul is God. The spark passes where the chain is interrupted. (vol. 2, p. 213) I passi che si possono rintracciare sull’argomento sono molti, e tutti ribadiscono lo stesso concetto, ovvero la capacità educativa del pericolo e dello stato di guerra: How has the soldier acquired his formidable courage? By a rare occasional action, effort? No; by eating his daily bread in danger of his life, by having seen a thousand times what resolution and combination can accomplish. (vol. 2, p. 197) In the common life a man feels hampered and bandaged. He cannot play the hero; there would be affectation in it; he must fight, like poor -----, with his pump head, but if he is once rejected by all patrons and all relatives, is fairly set adrift, why then let him thank his gods that he has sea-room and use his freedom so as never to lose it again. It is an immense gain, if he reckon it well, to have no longer false feelings and conventional appearances to consult. A few shillings a day will keep out cold and hunger, and he will not need to study long how to get a few shillings a day honestly. Why yes, perhaps he said wisely who said that war is the natural state of man and the nurse of all virtues. I will not say man is to man a wolf, but man should be to man a hero. (vol. 4, p. 121) In lui rimaneva dunque ferma la convinzione, che ribadirà più volte nei Journals, nel beneficio delle numerose avversità -tra cui la guerra- che con la loro opposizione ai voleri dell’uomo sono portatrici di un nuovo ordine; esse, pur non rispecchiando le volontà 152 particolari del singolo individuo, seguono il volere di un fine superiore e apportano un beneficio assoluto: By the permanence of nature, minds are trained alike and made intelligible to each other. The One Mind. —A great danger, or a strong desire, as a war of defence, or an enterprise of enthusiasm, or even of gain, will at any time knit a multitude into one man and, whilst it lasts, bring every individual into his exact place; one to watch, one to deliberate, one to act, one to speak, and one to record. (vol. 4, p. 26) A good subject for a sermon would be the Doctrine of Benefits. Benefit is the end of nature. Benefit is done to all by all, by good and bad, voluntarily and involuntarily. Air, water, sun and moon, stone, plant, animal, man, devil, disease, poison, war, vice, — all serve. But man is a voluntary benefactor. The meaning of good and bad, of better and worse, is simply helping or hurting. He is great who confers the most benefits. (vol. 5, p. 14) Emerson accettava non solo le avversità appartenenti all’ordine naturale, ma anche quelle derivanti dai rapporti interpersonali e quindi dirette esplicitamente verso la sua persona, gli “attacchi” derivanti, cioè, dallo scontro relazionale e dal confronto intellettuale. Dando una lezione di maturità politica che, tuttavia, fino ai nostri giorni non sembra essere stata raccolta, egli accettava serenamente il confronto e non temeva di essere contraddetto: “Let me never fall into the vulgar mistake of dreaming that I am persecuted whenever I am contradicted” (vol. 5, p. 47). Del resto abbiamo già trovato riferimenti alla sua concezione dell’amicizia come uno “stupendo antagonismo”, e alla sua predilezione nell’impostare i suoi rapporti di conoscenza come scontri costruttivi. Il ruolo di “amici scomodi” toccò, in particolare, a tre personaggi con cui Emerson strinse un rapporto intenso al suo ritorno dall’Europa negli anni 1837-1838: Bronson Alcott, Margaret Fuller, Henry Thoureau: In line with his own Transcendental theory of friendship, Emerson would treat each of these three indispensable companions as “a sort of beautiful enemy” whose best function was to keep him on the stretch, provoking him to higher states of thought and feeling. In this extraordinary Massachusetts village, friendship - to borrow Dr. Johnson’s definition of Metaphysical wit - was a kind of discordia concors.417 Emerson, dopo aver ritrovato quindi serenità ed energie, si sentiva pronto a nuove sfide e a ricercare, sia nelle relazioni interpersonali che nelle imprese intellettuali e professionali, elementi di contrasto e di dibattito che lo potessero stimolare e migliorare: Who can blame men for seeking excitement? They are polar, and would you have them sleep in a dull eternity of equilibrium? Religion, love, ambition, money, war, brandy, — some fierce antagonism must break the round of 417 J. Porte (ed.), Emerson in His Journals, cit., p. 134. 153 perfect circulation or no spark, no joy, no event can be. As pod not be. In the country, the lover of nature dreaming through the wood would never awake to thought if the scream of an eagle, the cries of a crow or a curlew near his head, did not break the continuity. Nay, if the truth must out, the finest lyrics of the poet come of this coarse parentage; the imps of matter beget such child on the Soul, fair daughter of God. (vol. 5, p. 106) La ricerca del pericolo è dunque complementare alla necessità di stabilità, e senza un sano antagonismo non può esservi vera crescita e soddisfazione in ambito personale. In linea con questo genere di polarità da lui più volte professato, ogni cosa non può avere un valore assoluto, ma ogni fatto, situazione o elemento possono ed hanno più risvolti e più lati sia positivi che negativi, a seconda della prospettiva da cui essi si osservano. Anche la guerra, quindi, ha i suoi pregi e i suoi difetti e le virtù marziali, pur ammirevoli, non possono fungere da giustificazione per pratiche barbare e inumane. Nei Journals dunque, accanto a passi che ricercano la guerra, non mancano affermazioni che ne testimoniano il rifiuto. 4.4: 1838-1845: “Foolishness of War” And “Strength of Peace” Nonostante l’interesse mostrato per il conflitto e l’antagonismo, in corrispondenza della ricerca di scontro scorrono parallele, in questi anni, righe che condannano la pratica della guerra reale e le sue conseguenze sul genere umano: I wrote H. Ware, Jr., that his "4th topic, the circumstances which show a tendency toward war's abolition, seemed to me the nearest to mine; for I strongly feel the inhumanity or unmanlike character of war, and should gladly study the outward signs and exponents of that progress which has brought us to this feeling”. (vol. 3, p. 214) How foolish is war. Let the injured party speak to the injurer until their minds meet, —and the artillery is discharged, and the forced marches of the army, that were clambering in six weeks over mountains and rivers, are too slow and cumberous; the blow is already struck, the victory gained, the peace sworn. (vol. 4, p. 106) I do not like to see a sword at a man's side. If it threaten man, it threatens me. A company of soldiers is an offensive spectacle. (vol. 4, p. 139) Queste sue affermazioni, appartenenti al periodo 1833-1838, suonano piuttosto strane comparate all’apprezzamento che negli anni successivi egli mostrerà per la guerra civile. Le sue posizioni in questo periodo erano difatti vicine a quelle dei movimenti pacifisti - a cui tuttavia non risparmiava critiche – e sono in perfetto accordo con le idee esposte nella 154 conferenza “War” del 1838. Tra l’altro, nel Journal vi è un commento di Edward Emerson che testimonia l’intenzione di chiamare inizialmente la conferenza “Peace”, ed un breve passo in cui Emerson annota l’avvenuta conferenza sulla “pace”, senza dare però spiegazioni sul successivo cambiamento del titolo: The Boston course of lectures on Human Culture was successful; meantime the quiet home life went on, brightened by the charm of the little Waldo. Friends came and went, as did philosophers, and unbidden reformers. Beside his daily record of thoughts, Mr. Emerson had to prepare a lecture on Peace for the American Peace Society, and invitations came for discourses during the summer from the Senior Class in the Cambridge Divinity College and the literary societies of Dartmouth College. (vol. 4, p. 145, January 1838) Read a lecture on Peace at the Odeon on Monday evening, 12th. (vol. 4, p. 152, 14th march 1838) Durante questo periodo ci sono nei Journals parecchie osservazioni che Emerson riproporrà poi nei suoi scritti, e tra esse ve ne sono alcune sulla pace davvero interessanti. Nel il 1837 troviamo nel diario un paragrafo intitolato “strength of peace” in cui si legge ciò che andrà poi a confluire in “War”: I think the principles of the Peace party sublime, and that the opposers of this philanthropy do not sufficiently consider the positive side of the spiritualist, but only see his negative or abstaining side. But if a nation of men is exalted to that height of morals as to refuse to fight and choose rather to suffer loss of goods and loss of life than to use violence, they must be not helpless, but most effective and great men; they would overawe their invader, and make him ridiculous; they would communicate the contagion of their virtue and inoculate all mankind (vol. 4, p. 113, September 21, 1837) L’importanza del lato attivo della pace, l’eroicità di uomini che decidono di soffrire piuttosto che rivolgersi alla violenza è qui ben esplicitata. L’erroneità dell’associazione tra “pacifismo” e “passività” viene ribadita anche in alcuni commenti del 1839: I do not think this peaceful reform is to be effected by cowards. He is to front a corrupt society and speak rude truth, and emergencies may easily be where collision and suffering must ensue. But all the objections to the great projects of philanthropy are met and answered by a deep and universal reform. (vol. 5, p. 85) I do not like to speak to the Peace Society, if so I am to restrain me in so extreme a privilege as the use of the sword and bullet. For the peace of the man who has forsworn the use of the bullet seems to me not quite peace, but a canting impotence: but with knife and pistol in my hands, if I, from greater bravery and honor, cast them aside; then I know the glory of peace. (vol. 5, p. 93) L’uomo per Emerson non deve essere costretto da altri a rinunciare all’uso della forza, ma attraverso una crescita spirituale deve scegliere lui stesso di farne a meno; vietare ad un individuo di utilizzare armi senza che egli ne sia convinto non è di alcuna utilità e non cambia lo stato delle cose. Emerson punta sul cambiamento interiore, che faccia scoprire all’uomo un 155 coraggio ed un onore superiore a quello che può ricevere dall’uso delle armi, e che gli permettano di confidare in se stesso senza avere dover appoggiarsi a “sussidi” esterni. La fiducia nell’uomo che egli esprime nel passo seguente è totale, e pone l’accento sull’autosufficienza dell’individuo che ha raggiunto la vera saggezza: The wise man needs no army, fort, or navy: he loves men too well. Even if they turn on him, he is invulnerable. He needs no bribe or feast or palace to draw friends to him. He is supremely fair. He angles with himself and with no other bait. He asks no vantage ground, no favourable circumstance. The obedient universe bends around him, and all stars lend their ray to the hour and the man. Nature speaks ex tempore to him and lights up a sudden festival whithersoever he bends his steps. He needs no library, for he has not done thinking; no church, for he - is himself a prophet; no statute book, for he hath the Lawgiver; no money, for he is value itself; no road, for he is at home where he is; no experience, for the life of the Creator shoots through him, and from him animates brute things and turns them immediately to their desired ends. He has no personal friends, for he does not need to husband and educate a few to share with him a select and poetic life, who has the spell to draw the' select prayer and piety of all men unto him. His relation to all men is angelic. His memory is myrrh to them, his presence frankincense and flowers. (vol. 5, p. 130, December 1849) Ciò che sembra contare davvero in questi passi è, quindi, la forza interiore, di cui la forza esteriore è soltanto una metafora; gli elementi esterni, per quanto potenti, non aggiungono nulla a quello che già si possiede o non si possiede: The heart of a soldier is an impregnable castle, but if it be not, you add no strength with moats and mortars, ramparts, and cannon. (vol. 5, p. 101) Confide to the end in spiritual, and not in carnal weapons. It needs not to fight the battle of anti-slavery on the question of the seat in the cars: the doctrine advances every day among all people that a high chair, a platform, a strip of gold lace, a sword, a title, is not to protect an individual; but himself alone, his ability, his knowledge, his character. (vol. 6, p. 45) La speranza in un continuo progresso dell’umanità, che possa finalmente fare a meno della violenza e contare sulla forza interiore degli individui è indissolubilmente legata, però, al territorio americano. Le riflessioni di Emerson riguardano difatti essenzialmente la nazione americana, e la sua visione positiva del futuro risiede nella convinzione, radicata già nei primi coloni che si insediarono nel nuovo mondo – ed ancora presente ai nostri giorni418- che l’America sia diversa dal Vecchio Mondo, e tramite la sua struttura politica riuscirà a 418 Nel libro Redeemer Nation Tuveson traccia dettagliatamente l’origine e lo sviluppo dell’idea, da sempre presente nel popolo americano, secondo cui essosarebbe “the chosen race, the chosen nation, the redeemer nation”. E. L. Tuveson, Redeemer Nation, cit., p. 5. 156 realizzare la missione che Dio gli ha conferito e che l’Europa non ha saputo invece realizzare. Emerson sembra esserne convinto fin dall’età di diciotto anni:419 It is the misfortune of America that her sudden maturity of national condition was accompanied with the knowledge of good and evil which would better belong to an older country.[...] But in this country public feeling is much more pure and on this encouragement we build all our hope of reform and improvement. (1821) If the constitution of the United States outlive a century, it will be matter of deep congratulation to the human race; for the Utopian dreams which visionaries have pursued and sages exploded, will find their beautiful theories rivalled & outdone by the reality, which it has pleased God to bestow upon United America. (1822) La nazione americana, costituita da uomini puri e ispirati da Dio, è votata alla convivenza pacifica e non necessita di leggi coercitive; parafrasando Richard Slotkin, essa sembra destinata ad una “regeneration through peace”: The peace of Europe of rights belongs to the perfection of its police. There is no such mixture of disagreeable truth, in the quiet of our own nation. The entire internal repose of this country owes nothing to rigorous restriction or armed law. The spirit of the people is peace, & the sword at its side is for ornament rather than use. (1822). L’ opinione di Emerson è costante nel tempo, e dopo quasi venti anni è ancora evidente in una nota del 1844: But new times have come, and new policy, subtler and nobler and more strong than any before. It is the inevitable effect of culture—it cannot be otherwise — to dissolve the animal ties of brute strength, to insulate, to make a country of men; not one strong officer, but a thousand strong men, ten thousand. (vol. 7, p. 16, 1844) Non nell’Europa feudale dunque, ma soltanto “in this broad America of man and God”420 può avvenire il vero cambiamento e può venire instaurato un regno di pace. Emerson di questo ne è sempre più convinto. Mentre nel 1838 si chiedeva “Shall it be War, or shall it be Peace?”421 nel 1842 sembra avere la risposta ed afferma perentoriamente nel suo diario: “But is not Peace greater than War, and has it not greater wars and victories? Is there no progress? To wish for war is atheism” (vol. 6, p. 82). 419 “A deep and persistent trait of the American mind is the belief in Old World corruption and New World Innocence. The men who won the independence of America from the mother country were convinced that the Old World was abandoned to tyranny, misery, ignorance, injustice and vice, and that the New World was innocent of these sins”. H. Commager, “Statement to Senate Foreign relations Committee”, February 20, 1967. 420 R. W. Emerson, “War”, in The Complete Works of Ralph Waldo Emerson, http://www.rwe.org/completeworks/xi---miscellanies/i---xv/v-war. 421 Ivi. 157 Tuttavia...nel 1845, appena tre anni dopo, un’affermazione piuttosto “problematica” confonde le acque fin qui esplorate e mette di nuovo tutto in discussione: We are the children of many sires, and every drop of blood in us in its turn betrays its ancestor. We are of the party of war and of the peace party alternately; to both very sincerely. Only we always may be said to be heartily only on the side of truth. See-saw. The world is enigmatical; everything said and everything known and done, and must not be taken literally, but genially. (vol. 7, p. 37, 1845) Ora Emerson afferma di essere sia dalla parte della pace che della guerra. E che tutto ciò che si sa e si fa non deve essere preso alla lettera, ma accolto benevolmente. Un’affermazione simile giustificherebbe l’abbandono della ricerca da parte del povero studioso. Ma Emerson stesso ci insegna a volgere le avversità a nostro favore e, in effetti, una frase apparentemente così enigmatica non appare tanto incoerente come potrebbe sembrare se messa in relazione con altri elementi. Essa, difatti, costituisce un ponte con i Journals successivi al 1845, dominati dalla riflessione sulla schiavitù e sulla guerra civile, e soprattutto da un’inaspettata quanto convinta apologia della guerra civile. 4.5: “Slavery”, una Lotta Lunga una Vita Virtually from the beginning of his recorded intellectual life he [Emerson] wrestled with the moral problem of American Slavery. In his “wide world” journal, written in 1822, he dreams some slaves, and in 1826 Emerson often touched on the horror of slavery in his sermons, especially when he needed examples of man’s inhumanity to man.422 Da quanto si deduce leggendo gli scritti pubblicati, il problema della schiavitù in Emerson è poco presente ed inizia ad essere oggetto di riflessione e discussione in maniera consistente soltanto dopo il 1844, anno che segna il suo coinvolgimento attivo nella causa abolizionista. Dai Journals, tuttavia, la realtà risulta essere diversa: la presenza del problema della schiavitù si intensifica sicuramente nel diario dopo il 1844, ma è in ogni caso presente fin dalle prime pagine in maniera costante. Quando si parla di schiavitù Emerson sembra essere sempre turbato e inquieto; sebbene le riflessioni iniziali sull’argomento siano un po’ vaghe e 422 L. Gougeon and J. Myerson, Emerson Antislavery Writings, cit., p. XXI. 158 principalmente di carattere filosofico e scientifico, Emerson condanna progressivamente la schiavitù dal punto di vista morale e la considera come un male assoluto, e ciò influirà fortemente sulle sue concezioni di guerra e di pace, modificando le posizioni che aveva assunto in precedenza in particolare sulla guerra e il suo rapporto con la politica. La prima entrata del diario che riguarda la schiavitù risale all’8 novembre 1822. Si tratta di un’annotazione molto lunga, e consiste in un sogno che Emerson fa sulla schiavitù seguito da alcune sue considerazioni nelle quali egli si mantiene piuttosto diplomatico e cerca di comprendere sia le ragioni di chi è a favore, sia quelle di chi è contrario. I suoi tentativi di mitigare lo scontro sulla schiavitù, si legge in un’importante nota, sono influenzati dall’amicizia che Emerson aveva a quel tempo con un gentiluomo sudista, anche se anche in seguito Emerson tentò in ogni caso di mantenere un approccio equilibrato al problema.423 Riportiamo di seguito alcuni stralci del racconto, in perfetto stile bucolico, che mostrano in maniera idealizzata la condizione idilliaca delle popolazioni nere prima dell’avvento dell’uomo bianco e dell’irruzione della violenza nelle loro vite. Seguono alcune considerazioni filosofiche, che avanzano l’idea di una possibile inferiorità della razza nera, seguite da una riflessione, venata di paternalismo, in cui si afferma che, seppur inferiori, i neri non devono essere trattati con tanta brutalità perché le differenti condizioni in cui vengono a trovarsi le razze sono dovute alla fortuna e non possono essere imputate alla volontà dell’ individuo: In my dreams I departed to distant climes and to different periods, and my fancy presented before me many extraordinary societies, and many old and curious institutions.[...] As I contemplated the brilliant spectacle of an African morning I thought on those sages of this storied land who instructed the infancy of the world.[...] Presently I saw a band of families come out from their habitations; and these naked men, women and children sung a hymn to the sun, and came merrily down to the river with nets in their hands to fish.[...] But upon a sudden I saw many men dressed in foreign garb run out from the wood where the leopard had been killed; and 423 “Emerson's effort always to consider the object temperately and fairly appears twenty-two years later in his speech on the Anniversary of Emancipation in the British West Indies; and later, even during the great conflict, in his proposal to compensate the Southerners for their loss. Of his presentation of the apologies for Slavery in this journal it should be said that he had had an agreeable and well-bred Southerner for his chum, and so heard their point of view.” R. G. Geldard, nota ai Journals, vol. I, p. 75. 159 these surrounded the fishers, and bound them with cords, and hastily carried them to their boats, which lay concealed behind the trees. So they sailed down the stream, talking aloud and laughing as they went; but they that were bound gnashed their teeth and uttered so piteous a howl that I thought it were a mercy if the river had swallowed them. In my dream, I launched my skiff to follow the boats and redeem the captives. They went in ships to other lands and I could never reach them, albeit I came near enough to hear the piercing cry of the chained victims, which was louder than the noise of the Ocean. In the nations to which they were brought they were sold for a price, and compelled to labour all the day long, and scourged with whips until they fell dead in the fields, and found rest in the grave.[...] This slave hath eat the bread of captivity and drank the waters of bitterness, and cursed the light of the sun as it dawned on his bed of straw, and worked hard and suffered long, while never an idea of God hath kindled in his mind from the hour of his birth to the hour of his death; and yet thou sayest that a merciful Lord made man in his benevolence to live and enjoy, to take pleasure in his works and worship him forever. Confess that there are secrets in that Providence which no human eye can penetrate, which darken the prospect of Faith, and teach us the weakness of our Philosophy. [...] I believe that nobody now regards the maxim "that all men are born equal" as any thing more than a convenient hypothesis or an extravagant declamation. For the reverse is true,—that all men are born unequal in personal powers, and in those essential circumstances, of time, parentage, country, fortune. The least knowledge of the natural history of man adds another important particular to these; namely, what class of men he belongs to—European, Moor, Tartar, African? Because Nature has plainly assigned different degrees of intellect to these different races, and the barriers between are insurmountable. This inequality is an indication of the design of Providence that some should lead, and some should serve. [...] Whether this known and admitted assumption of power by one part of mankind over the other, can ever be pushed to the extent of total possession, and that without the will of the slave? It can hardly be said that the whole difference of the will divides the natural servitude of which we have spoken from the forced servitude of "slavery."[...] The circumstances in which every man finds himself he owes to fortune and not to himself.[...]— whether any individual has a right to deprive any other individual of freedom without his consent;[...] To establish, by whatever specious argumentation, the perfect expediency of the worst institution on earth is prima facie an assault upon Reason and Common Sense. (vol I, pp. 75 -77) Nel 1835, dopo 13 anni dal sogno sugli schiavi neri, la posizione di Emerson si evolse leggermente, e i tentativi di giustificare i difensori della schiavitù pian piano scomparirono. Nonostante non si sentisse pronto per affrontare la lotta in prima linea, Emerson affermò che dalla sua bocca non sarebbe più uscita una sola parola a difesa dei proprietari di schiavi: Let Christianity speak ever for the poor and the low. Though the voice of society should demand a defence of slavery, from all its organs, that service can never be expected from me. My opinion is of no worth, but I have not a syllable of all the language I have learned, to utter for the planter. If by opposing slavery I go to undermine institutions, I confess I do not wish to live in a nation where slavery exists. The life of this world has but a limited worth in my eyes, and really is not worth such a price as the toleration of slavery. Therefore — therefore —though I may be so far restrained by unwillingness to cut the planter's throat as that I should refrain from denouncing him, yet I pray God that not even in my dream or in madness may I ever incur the disgrace of articulating one word of apology for the slave-trader or slave-holder. (vol. 3, p. 169, February 2, 1835) Benché contrario alla schiavitù, Emerson era titubante ad intervenire attivamente e si mostrava perplesso nei confronti degli abolizionisti; in particolare rimaneva confuso di fronte alle argomentazioni di pacifisti che, se costretti, affermavano che non avrebbero esitato ad appoggiare una guerra. Ventisei anni prima dello scoppio della guerra civile, nel passo 160 seguente sono già evidenti, nelle parole di Emerson, le contraddizioni che condurranno, in seguito, al fallimento dei movimenti pacifisti: No distinction in principle can be broader than that taken by the abolitionist against Everett. Everett said that in case of a servile war, though a man of peace, he would buckle on his knapsack to defend the planter. The Philanthropist who was here this morning says that he is a man of peace, but, if forced to fight on either side, he should fight for the slave against his tyrant. I know nothing of the source of my being, but I will not soil my nest. I know much of it after a high, negative way, but nothing after the understanding. God himself contradicts through me and all his creatures the miserable babble of Kneelan and his crew. (vol. 3, p. 194, 1835) Emerson in questo periodo non si sentiva in grado di prendere posizione sulla questione e si limitava quindi ad esporre le sue perplessità. Anche in seguito, però, pur intervenendo al fianco degli abolizionisti, rimase sempre sospettoso nei loro confronti, non tanto sulla bontà della causa quanto sui metodi e l’efficacia delle azioni da essi intraprese. Mentre in alcuni momenti ammirava il loro attivismo, in altri reputava i loro metodi troppo prudenti e poco efficaci. Si comparino questi due passi, scritti a distanza di 7 anni: The young man relying on his instincts, who has only a good intention, is apt to feel ashamed of his inaction and the slightness of his virtue when in the presence of the active and zealous leaders of the philanthropic enterprises of Universal Temperance, Peace, Abolition, of Slavery. (vol. 4, p. 114, 1837). Does he not do more to abolish Slavery who works all day steadily in his garden than he who goes to the Abolition meeting and makes a speech? The Anti-slavery agency, like so many of our employments, is a suicidal business. [...] It is easy and pleasant to ride about the country amidst the peaceful farms of New England and New York, and sure everywhere of a strict sympathy from the intelligent and good, argue for liberty, and browbeat and chastise the dull clergyman or lawyer that ventures to limit or qualify our statement. This is not work. It needs to be done, but it does not consume heart and brain, does not shut out culture, does not imprison you, as the farm and the shoeshop and the forge. There is really no danger and no extraordinary energy demanded. (vol. 6, p. 196, 1844) Da una iniziale ammirazione per l’entusiasmo di coloro che si adoperavano per le cause della temperanza, della pace e dell’abolizione della schiavitù, Emerson evidentemente si rese poi conto che l’attivismo degli abolizionisti era poco incisivo e probabilmente troppo “comodo”, ed essi evitavano di esporsi e di rischiare in prima persona. Di fronte ad attività che facevano sicuramente notizia ma che in realtà erano poco efficaci, Emerson arrivò a preferire tutti coloro che, silenziosamente, vivevano la loro vita con tenacia ed impegno. Tuttavia, un anno dopo aver dichiarato che l’abolizionismo era un “affare suicida” Emerson accettò di collaborare con gli abolizionisti. Effettivamente egli non disse di aver 161 cambiato idea, ma solo di rendersi conto che non si poteva più tacere su una questione tanto grave; aggiunse poi, in maniera molto pragmatica, che non si poteva rifiutare l’offerta da parte di Wendell Phillips di parlare gratuitamente. Ciò su cui Emerson non sembrava davvero avere più dubbi, già da qualche anno, era l’inumanità della pratica della schiavitù e della sua inaccettabilità in un paese civile: In January arose the question again in our village Lyceum whether we should accept the offer of the ladies who proposed to contribute to the course a lecture on Slavery by Wendell Phillips. I pressed the acceptance on the part of the curators of this proffer on two grounds; First, because the Lyceum was poor, and should add to the length and variety of their entertainment by all innocent means, especially when a discourse from one of the best speakers in the Commonwealth was volunteered; Second, because I thought, in the present state of this country, the particular subject of Slavery had a commanding right to be heard in all places in New England, in season, and sometimes out of season;[...] this iniquity of slavery in this country was a ghost that would not down at the bidding of Boston merchants, or the best democratic drill-officers, but the people must consent to be plagued with it from time to time until something was done, and we had appeased the Negro blood so. (vol. 7, p. 11, 1845). Slavery is an institution for converting men into monkeys. (vol. 4, p. 80, 1837) Proprio l’anacronismo di una tale pratica in un paese civile fu all’inizio fonte di ottimismo e fece sperare in una soluzione positiva del problema, perché si credeva che con l’avanzata del progresso la schiavitù fosse destinata a scomparire insieme alle altre forme di barbarie: I, for my part, am very well pleased to see the variety and velocity of the movements that all over our broad land, in spots and corners, agitate society. War, slavery, alcohol, animal food, domestic hired service, colleges, creeds, and now at last money, also, have their spirited and unweariable assailants, and must pass out of use or must learn a law. (vol. 5, p. 38, 1838) Con il passare degli anni e il perseverare della schiavitù, cresceva però in Emerson l’indignazione per una pratica che invece di scomparire sembrava proliferare, diventando una vera e propria vergogna per la nazione americana. In un’annotazione dal titolo “New England's Shame” Emerson accusò senza mezzi termini i suoi connazionali: If I were a member of the Massachusetts legislature, I should propose to exempt all colored citizens from taxation because of the inability of the government to protect them by passport out of its territory. It does not give the value for which they pay the tax. [...] It gives me no pleasure to see the governor attended by military men in plumes; I am amazed that they do not feel the ridicule of their position. New England is subservient. The President proclaims war, and those Senators who dissent are not those who know better, but those who can afford to, as Benton and Calhoun. (vol. 7 p. 74, 1846) I toni così aspri di Emerson sono dovuti anche all’annessione del Texas un anno prima e alla guerra con il Messico appena scoppiata; Emerson criticò la legge che imponeva un 162 versamento in denaro per finanziare la guerra, legge che indirettamente riproponeva il problema della schiavitù: We are slain by indirections. Give us the question of slavery, — yea or nay; Texas, yea or nay; War, yea or nay; we should all vote right. But we accept the devil himself in an indirection. What taxes will we not pay in coffee, sugar, etc., but spare us a direct tax. (vol. 7, p. 76, 1846) Non era la prima volta che Emerson criticava l’uso della legge. Pur non interferendo direttamente in questioni legali specifiche, Emerson polemizzava con il diritto positivo nel suo complesso e con l’uso sbagliato che se ne faceva nell’ambito del problema della schiavitù. Invece di seguire il diritto naturale, le leggi che venivano presentate e poi approvate legalizzavano una pratica moralmente e naturalmente sbagliata. Per questo motivo Emerson, sia pubblicamente che in privato, “turns much of his rhetorical energy during this period against the laws and political decisions that for him worked to maintain the institution of slavery”.424 Egli non si sentiva tutelato, difatti, da un diritto che si allontanava dalla natura umana: ”Laws. I see no security in laws, but only in the nature of men; and in that reactive force which develops all kinds of energy at the same time; energy of good with energy of evil; the ecstasies of devotion with the exasperations of debauchery” (vol. 7, p. 196, 1848). Il giusto utilizzo della legge è per Emerson quanto mai essenziale perché, essendo pensiero ed azione strettamente connessi, soltanto da un giusto pensiero può poi scaturire un giusto comportamento. E’ dal linguaggio, difatti, che ha origine la schiavitù, e su esso si deve principalmente operare per modificare l’atteggiamento mentale della popolazione. Edoardo Cadava giustamente osserva: “There can be no institution of slavery, for Emerson, without a concept of race, without an argument or articulation in language that justifies racial oppression”.425 E’ proprio sul linguaggio, difatti, che Emerson tenta di operare per continuare la sua opera di persuasione prima a favore dell’abolizione della schiavitù e poi a favore della guerra. Abbiamo già visto con quanta passione portasse avanti la sua causa in pubblico, 424 425 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 32. Ivi, p. 57. 163 avvalendosi di una collaudata pratica oratoria e di un’elaborata arte retorica; nei suoi diari, tuttavia, le sue affermazioni non sono meno studiate e accuratamente pensate. Si tratta, come vedremo, di una retorica diversa da quella utilizzata in pubblico ma non per questo meno sottile, perché messa a servizio – secondo Emerson – non della semplice propaganda, ma di una causa etica più elevata. Mentre nelle opere ufficiali è evidente la battaglia che Emerson combatte con le parole, in privato un’accurata analisi del suo linguaggio metterà in luce come Emerson si sia prefissato uno scopo ben più ambizioso di quello professato in pubblico: ingaggiare una battaglia con il pensiero e, tramite le parole, vincere anche quella contro la schiavitù. 4.6: 1850-1865: Diario di Guerra I Journals che coprono il decennio precedente alla guerra civile e l’arco di svolgimento della guerra sono chiamati “war journals” e ciò non a torto, in quanto la maggioranza delle annotazioni e delle riflessioni riguardano tutto l’insieme di dibattiti e avvenimenti politici che condussero allo scoppio della guerra di secessione. Come abbiamo avuto già modo di vedere, Emerson aveva da qualche anno abbandonato l’atteggiamento di isolamento intellettuale che lo aveva tenuto lontano dal coinvolgimento diretto nelle questioni politiche, scendendo in campo in prima persona nel dibattito abolizionista e seguendo con trasporto le vicende storiche e politiche del paese. I toni che contraddistinguono la sua scrittura privata sono molto accesi e concordano con lo stato d’animo allarmato ma allo stesso tempo determinato che in questi anni lo portò a scrivere e proclamare discorsi e conferenze di protesta e di condanna contro i suoi contemporanei, che a suo avviso non avvertivano la gravità della situazione e non agivano risolutamente. Tuttavia, accanto a note che testimoniano la sua assoluta convinzione nella 164 causa che egli aveva abbracciato, nel diario trapela anche qualche segno di incertezza e vi sono riflessioni profonde sul tema della guerra che non potevano avere spazio in testi destinati all’esposizione pubblica in quanto poco adatte a un uditorio vasto ed eterogeneo, che doveva essere persuaso della bontà della causa abolizionista e sarebbe stato confuso da riflessioni e dubbi che invece Emerson nutriva sulla questione. Dopo varie note sulla condanna della schiavitù in Emerson si evidenzia un crescente sentimento di sconcerto e di esasperazione, determinato dall’aggravarsi di un problema morale che gettava fango sugli ideali fondativi della nazione americana ed era in totale disaccordo con il destino di redenzione di cui essa era stata investita: Before the passage of that law which Mr. Webster made his own,426 we indulged in all the dreams which foreign nations still cherish of American destiny. But in the new attitude in which we find ourselves, the degradation and personal dishonour which now rest like miasma on every house in Massachusetts, the sentiment is entirely changed. No man can look his neighbor in the face. We sneak about with the infamy of crime in the streets and cowardice in ourselves, and frankly, once for all, the Union is sunk, the flag is hateful, and will be hissed. (vol. 8, p. 76, April-May 1851) Emerson, come tutti gli abolizionisti, si chiede come una nazione possa farsi portatrice di una “world-redemptive mission” dal momento in cui non soltanto tollera, ma supporta legalmente “an institution as evil as any the Enemy had ever invented”.427 L’indignazione è tale che nel suo diario Emerson si lascia sfuggire un commento che avrebbe a dir poco confuso il suo uditorio, ma che rivela anche come la sua lotta, pur in accordo con il fronte abolizionista, non si rivolga alla pratica della schiavitù in particolare, ma alla depravazione morale di cui essa è manifestazione: “The absence of moral feeling in the whiteman is the very calamity I deplore. The captivity of a thousand negroes is nothing to me” (May-July 1851).428 Emerson afferma perentoriamente che di fronte ad un decadimento così profondo della moralità è assolutamente necessario abbandonare le pretese egoistiche ed è un dovere ripristinare con coraggio gli ideali tramite azioni pratiche: 426 Emerson si riferisce all’appoggio della “Fugitive Slave Law” da parte di Webster. E. L. Tuveson, Redeemer Nation, cit., p. 188. 428 J. Porte, Emerson in his Journals, cit., p. 426. 427 165 Courage charms us, because it indicates that a man loves an idea better than all things in the world, that he is thinking neither of his bed, nor his dinner, nor his money, but will venture all to put in act the invisible thought of his mind. We value idealists who do not rest in ideas, but convey them into things. He converts the earth to its use, the earth is proud to bear him, the air to feed his lungs. He accepts an ideal standard. Freedom is ideal. It means, not to have land or money or pleasure, but to have no other limitation than that which his own constitution imposes. I am free to speak the truth. I am free to do justly. I am not free to lie, and I wish to break every yoke all over the world which hinders my brother from acting after his best thought. (Vol. 9, pp. 96-97, 1859) Si faceva strada, dunque, la possibilità di dover affrontare una guerra che mettesse fine alla “vera calamità” che affliggeva il popolo americano. Questa possibilità, pur essendo spaventosa, non doveva e non poteva però essere rifiutata, perché, come è già accaduto in passato, la storia chiama ogni nazione a combattere la sua guerra, e il momento dell’America è arrivato: Heaven takes care to show us that war is a part of our education, as much as milk, or love, and is not to be escaped. We affect to put it all back in history, as the Trojan War, the Wars of the Roses, the Revolutionary War. Not so; it is your war. Has that been declared? has that been fought out? and where did the Victory perch? The wars of other people and of history growl at a distance, but your war comes near, looks into your eyes, in politics, in professional pursuit, in choices in the street, in daily habit, in all the questions of the times, in the keeping or surrendering the control of your day, and your horse, and your opinion; in the terrors of the night; in the frauds and skepticism of the day. (vol. 8, p. 169, 1853) Nelle parole di Emerson si avverte una tendenza che, intorno agli anni 1850, inizia a farsi strada nella cultura americana: una certa propensione a ritenere che il progresso dell’umanità non avvenga soltanto attraverso un costante miglioramento, ma anche attraverso una lotta che vede la vittoria del bene sul male. Un articolo apparso alla vigilia della guerra civile paragona difatti lo sviluppo del mondo naturale, basato sulla legge del miglioramento, con lo sviluppo del mondo spirituale, basato invece sulla legge del conflitto: In this kingdom of spiritual life, the law is different. It is a law of conflict. The lines of movement are diagonal, from a resolution of contending forces;...The disturbing power is moral evil; in secular history, as opposed to law; in sacred history, as opposed to grace...The opposing power in either case is the same: the self-assertion of the finite ego against the infinite Ego sum; the concentrated essence of all the evil in the universe.429 Tuveson spiega come, a differenza del diciottesimo secolo, quando il libro di Dio sulla rivelazione era sostenuto dal libro della natura, nel 1850 il libro della natura venga sostituito dal libro della storia: “This is time of Hegel and Carlyle. In the actions of nations, rather than 429 “The Historical development of Christianity”, Presbiterian Quarterly Review, 5 (1857), p. 608. L’articolo non è firmato ma probabilmente è dell’editore, Benjamin Wallace, ed è citato in E. L. Tuveson, Redeemer Nation, cit., p. 65. 166 the static design of nature, is to be found the proof of a divine and supremely wise and merciful Mind”.430 Anche se, come vedremo tra poco, Emerson non è in pieno accordo con questa visione e non rinnega completamente le leggi della natura, è indubbio che anche lui ricorra allo strumento del conflitto per l’annientamento di una malattia morale che è diventata una vera e propria piaga che infetta il paese, e che tramite le leggi naturali non si è estinta. Essendo ora paragonata a una malattia e a un veleno, la schiavitù non può più scomparire naturalmente, ma deve essere contrastata con appositi rimedi, siano essi antidoti o medicine, somministrati tramite un intervento tempestivo da parte dell’uomo: We eat it, we drink it, we breathe it, we trade, we study, we wear it [slavery]. We are all poisoned with it, and after the fortnight the symptoms appear, purulent, making frenzy in the head and rabidness. [...] This Slavery shall not be, it poisons and depraves everything it touches. There can never be peace whilst this devilish seed of war is in our soil. Root it out, burn it up, pay for the damage, and let us have done with it. It costs a hundred millions. Twice so much were cheap for it. [...] I would pay a little of my estate with joy; for this calamity darkens my days. It is a local, accidental distemper, and the vast interests of a continent cannot be sacrificed for it. (vol. 8, p. 81, 1851) But we must put out this poison, this conflagration, this raging fever of Slavery out of the Constitution. (vol. 8, p. 82, 1851) Con il passare degli anni le metafore associate alla schiavitù si modificano e si fanno sempre più gravi ad indicare il peggiorare della situazione, e nel 1861 Emerson non paragona più la schiavitù a una malattia o a veleno, ma ad una vera e propria cancrena che non può essere più curata, vale a dire: la degenerazione del Sud è ormai talmente irreversibile che, come una necrosi, può essere eliminata solamente da un’”amputazione”, intervento attuabile solo tramite la guerra: The war is a great teacher, still opening our eyes wider to some larger consideration. It is a great reconciler, too, forgetting our petty quarrels as ridiculous. But to me the first advantage of the war is the favourable moment it has made for the cut-ting out of our cancerous Slavery. Better that war and defeats continue, until we have come to that amputation. I suppose, if the war goes on, it will be impossible to keep the combatants from the extreme ground on either side. In spite of themselves, one army will stand for Slavery pure; the other for Freedom pure. (vol. 9, p. 127, 1861). Vi è da sottolineare che negli anni precedenti al 1861 in tutta la società americana si susseguono dibattiti, articoli e discorsi che inneggiano alla guerra, e nessuno riuscì a sottrarsi 430 Ivi, p. 87. 167 al delirio generale compreso Emerson. Egli, che aveva sempre avuto un “debole” per le qualità terapeutiche della guerra, iniziava a pensare che la situazione storica che andava a profilarsi dimostrava che le sue convinzioni fossero giuste. Le influenze del clima belligerante che si era venuto a creare sono chiaramente rintracciabili nel suo diario, dove troviamo un incipit dedicato a Eraclito e alcuni versi che descrivono l’atmosfera irrequieta che si respira: War is the father of all things. HERACLEITUS. (vol. 9, p. 134, 1862) Everything feels the new breath, excepting the dead old doting politicians, whom the trumpet of resurrection cannot waken. WAR. There was no need of trumpets/There was no need of banners/Every zephyr was a bugle/ Every woodthrush sang hosannas./Sharp steel was his lieutenant/And powder was his men./The land was all electric/The mountain echoes roar,/Every crutch became a pike/The woods and meadows shouted War/Every valley shouted, “Strike ! " (vol. 9, pp. 96-97, 1861). Infine la guerra scoppia, con il plauso e l’approvazione del Nord. Insieme all’entusiasmo iniziano a scorgersi, però, anche i segnali di una guerra che non sarà così breve come si era pensato, e che fa avvertire il suo peso anche nelle tasche degli americani. Nel diario del 1862 vi è una nota di Edward Emerson in cui si legge: Even thus early, the cost of the war began to be felt at the North, though, of course, far less than at the South. In a letter to his brother William quoted more fully in the Memoir by Mr. Cabot, (vol. ii, p. 6), Mr. Emerson says "The 1st of January has found me in quite as poor a plight as the rest of the Americans. Not a penny from my books since last June, which usually yield five or six hundred a year. No dividends from the banks, almost all income from lectures has quite ceased. Meantime we are trying to be as unconsuming as candles under an extinguisher. But far better that this grinding should go on, bad and worse, than we be driven by any impatience into a hasty peace, or any peace restoring the old rottenness." (vol . 9, p. 134) Nonostante le difficoltà economiche che lo toccano da vicino, Emerson continua tuttavia a sostenere la guerra e a non desiderare una pace precipitosa che restaurerebbe la vecchia corruzione. Questo passo è importante perché smentisce l’opinione di coloro che accusarono Emerson di approvare la guerra semplicemente perché non ne venne toccato da vicino e di non conoscerne quindi i suoi lati negativi.431 A tal proposito, vi è una nota in uno dei suoi primi diari che smentisce quest’ultima affermazione e conferma che, seppur indirettamente, Emerson sapeva che la guerra non era soltanto sinonimo di eroismo: 431 Mi riferisco all’articolo di E. Stessel, “The Soldier and the Scholar”, cit., p. 185. 168 My grandfather William Emerson left his parish & joined the Northern Army in the strong hope of having great influence on the men [...]. He was bitterly disappointed in finding that the best men at home became the worst in the camp, vied with each other in profanity, drunkenness & every vice, & degenerated as fast as the days succeeded each other & instead of much influence he found he had none. (vol. 3, p. 169, 1835) Nonostante tutto ciò Emerson va dritto per la sua strada, e non è disposto ad accettare compromessi che possano pregiudicare la buona riuscita della guerra. Egli invita quindi a sopportare le difficoltà e acclama la proclamazione provvisoria di emancipazione nel settembre del 1862, anche se sa che non farà altro che prolungare la guerra. In questo periodo, la convinzione che una guerra vera è sempre preferibile ad una pace falsa, è più che mai incrollabile:432 It [the proclamation] seems to promise an extension of the war. For there can be no durable peace, no sound Constitution, until we have fought this battle, and the rights of man are vindicated. It were to patch a peace to cry Peace whilst this vital difference exists. (vol. 9, p. 168) There never was a nation great except through trial. A religious revolution cuts sharpest, and tests the faith and endurance. A civil war sweeps away all the false issues on which it began, and arrives presently at real and lasting questions. (vol. 9, p. 171) Long peace makes men routinary and gregarious. They all walk arm in arm. Poverty, the sea, the frost, farming, hunting, the emigrant, the soldier must teach self-reliance, to take the initiative, and never lose their head. (vol. 9, p. 117) Molto interessante è un passo del 1862 nel quale Emerson, oltre a lanciarsi in un’apologia della guerra e delle sue virtù, propone una metafora che suona familiare. Il 16 giugno del 1858 Abraham Lincoln pronuncia il suo oramai celebre - discorso a Springfield, nell’Illinois, dal titolo “A house divided”, nel quale tenta di scongiurare la secessione e invoca l’unione della nazione americana: “A house divided against itself cannot stand”.433 Qualche anno dopo troviamo la stessa metafora in una considerazione di Emerson, che sembra però essere una risposta polemica al discorso del presidente Lincoln: è vero che una casa divisa non può stare in piedi, ma essa non può neanche rimanere unita se non si rimuovono i motivi della sua instabilità. Dunque, è stata la corruzione dell’America a causare la guerra, non il contrario. Per questo dobbiamo accettarla, perché, come un giudice incorruttibile, essa spazza via ciò che è falso e inutile, e lascia soltanto ciò che è necessario, assicurando basi solide su cui poter ricostruire una nuova nazione americana: When we build, our first care is to find good foundation. If the surface be loose, or sandy, or springy, we clear it away, and dig down to the hard pan, or, better, to the living rock, and bed our courses in that. So will we do with the State. The war is serving many good purposes. It is no respecter of respectable persons or of worn-out party platforms. War is a realist, shatters everything flimsy and shifty, sets aside all false issues, and breaks through all 432 Emerson, come tutti gli abolizionisti, era convinto che la schiavitù fosse la peggior forma di guerra esistente e che la guerra civile, seppur terribile, era necessaria: ”When confronted by a choice between a potentially antislavery war and a proslavery peace, most abolitionists did not hesitate to choose war”. E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 34. 433 R. Blaser and C. Sandburg (a cura di), Abraham Lincoln: His Speeches and Writings, Cleveland, New York, 1946, p. 372. 169 that is not real as itself; comes to organize opinions and parties, resting on the necessities of man; like its own cannonade, comes crushing in through party walls that have stood fifty or sixty years as if they were solid. The screaming of leaders, the votes by acclamation, conventions, are all idle wind. [...]Everything must perish except that which must live. Well, this is the task before us, to accept the benefit of the War; it has not created our false relations, they have created it. It simply demonstrates the rottenness it found. (vol. 9, p. 171.) Poco dopo aver scritto il paragrafo sopraccitato dal titolo “War’s service”, Emerson espone in un elenco, e sostanzialmente riassume, in una lunga nota, gli aspetti positivi della guerra, aspetti con cui siamo ormai diventati familiari: Uses of the War. 1. Diffusion of a taste for hardy habits. 2. Appeal to the roots of strength.[...] 3. Besides, war is not the greatest calamity. [...] 4. War organizes. 5. What munificence has the war disclosed! How a sentiment could unclasp the grip of avarice, and the painfullest economy! 6. It has created patriotism. (vol. 9, p. 184, 1863). Nel journal del 1863, qualche pagina prima degli “Uses of the war” si legge: “It is impossible to extricate oneself from the questions in which your age is involved. You can no more keep out of politics than you can keep out of the frost” (vol. 9, p. 140). La metafora del gelo, come vedremo tra poco, compare anche in una nota esplicativa degli “uses of the war”. Cadava, nel suo libro Emerson and the Climates of History, analizza le metafore legate alla metereologia e alla natura in Emerson; esamina inoltre in maniera molto dettagliata le due espressioni presenti nei Journals che utilizzano la metafora del “gelo”, metafora che ricopre un’importante funzione all’interno della retorica della guerra. Sappiamo come Emerson si sentisse moralmente obbligato a intervenire pubblicamente in seguito all’aggravarsi della situazione politica. L’analogia che Emerson traccia tra il gelo e la politica vuole suggerire che il corso degli eventi umani è inesorabile come le leggi della natura: il clima politico che si è venuto a creare è inevitabile, e non può essere eluso come non si può sfuggire al clima atmosferico.434 La convinzione che la guerra arrivi come una forza della natura che può dare nuovamente al paese i suoi principi fondanti è 434 L’utilizzo dell’analogia politica - gelo non è nuova, e in parte risale ad una serie di scritti importanti, primi fra tutti quelli di Platone e Aristotele, che insistono sul legame tra clima e politica. Più recentemente, nel diciassettesimo secolo vi erano poi stati studi sugli effetti che il clima aveva sulla politica. E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 19. 170 condivisa da molti contemporanei di Emerson ed è visibile in numerosi quotidiani del tempo. Nel New York Herald, ad esempio, si parla del 29 aprile 1861 come “The salutary effect of the war:” All are disposed to recognise the disastrous effects of war.[...] But the ultimate beneficial influences of war to society are for the most part overlooked in its present devastations and horrors. In the wise arrangements of providence War seems to be a necessity -the result of natural law for the preservation of society- just as much as storms and tempests, and whirlwinds and thunder, are the results of natural laws, and purify the atmosphere and render it salubrious to man and beast, while partially destructive to both...without war society would become stagnant and corrupt, just as would the air we breathe without the agitation of the winds.435 In questo passo la vicinanza alle parole di Hegel è assoluta e fin troppo evidente: ”Come il movimento dei venti, [la guerra] preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole, come i popoli una pace durevole o addirittura perpetua”.436 La necessità della guerra appare impellente, ed il linguaggio della natura, unito a una visione apocalittica che veniva condivisa anche dai meno religiosi, viene utilizzato per sottolineare che la grande lotta tra il bene e il male si sta avvicinando e che ormai non può più essere rimandata: “Mighty causes, like floods from distant mountains, are rushing with accumulating power to their consummation of good and evil”.437 Anche Emerson utilizza metafore naturali per esprimere sia la necessità che l’ineluttabilità della guerra, vista come un potente processo di trasformazione che accompagna la popolazione in un’evoluzione verso il miglioramento: I wish that war, as peace, shall bring out the genius of the men. In every company, in every town, I seek intellect and character, and so in every circumstance. War, I know, is a potent alterative, tonic, magnetizer, reinforces manly power a hundred and a thousand times. I see it come as a frosty October, which shall restore intellectual and moral power to these languid and dissipated populations.438 (vol. 9, p. 184). 435 Perkins, (ed.), Northern Editorials on Secession, cit. in E. L. Tuveson, Redeemer Nation, cit., p. 195. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, cit., par. 324, p. 257. Per tornare alla già citata affermazione di Tuveson (“This is time of Hegel and Carlyle. In the actions of nations, rather than the static design of nature, is to be found the proof of a divine and supremely wise and merciful Mind.”), per Hegel la Storia è il solo giudice e arbitro dello Stato, ed ha come suo momento strutturale la guerra. Ivi, p. 155. 437 L. Beecher, Views on Theology, Cincinnati, 1836, p. 214, cit. in E. L. Tuveson, Redeemer Nation, cit., p. 197. 438 Il corsivo è mio. 436 171 Pur sembrando in linea con i suoi contemporanei, Emerson nella sua riflessione offre non solo una potente e intricata allegoria della guerra, ma mette in luce anche le sue ambiguità e invita dunque a operare una riflessione sul modo di pensare che ha condotto alla crisi della secessione. Come il gelo che distrugge per creare un nuovo stato di cose, anche la guerra possiede una forza di cristallizzazione che, pur uccidendo, consolida e unisce il sentimento morale dell’Unione, dirigendolo verso l’abolizione della schiavitù. Ma l’uso di “as” fa la differenza. Il fatto che Emerson veda la guerra arrivare “as a frosty October” non vuol dire che la guerra é “a frosty october”. L’affinità tra la guerra e il gelo non risiede nella loro essenza ontologica, ma nel modo di arrivare. La guerra appare, quindi, in forma retorica: ”The war comes in the form of a metaphor. The war comes with metaphor”.439 La retorica della natura utilizzata da Emerson è la stessa impiegata sia dal Nord che dal Sud per legittimare la causa della guerra. La natura serviva a dissimulare la violenza che veniva effettuata in suo nome e per nascondere sia le responsabilità che avevano portato alla guerra civile, sia la morte e la violenza del conflitto stesso. Sebbene l’appello alle virtù della libertà e della giustizia convergano in Emerson con un appello alla retorica della guerra, l’uso che egli ne fa, secondo Cadava, è molto diverso. Mosso dal pericolo che la dimensione etica fosse attenuata dai segni più evidenti della guerra – morte e distruzione - Emerson si mobilita per smuovere l’entusiasmo e porre l’attenzione sui benefici morali del conflitto, e lo fa tramite la natura: “Men and women need to be moved to act, he argues. They need to be persuaded to make sacrifices in the name of justice and freedom. And nothing moves or persuades people better than the evocation of nature”.440 Come avevamo notato già nel precedente capitolo, il pensiero è strettamente legato all’azione, o, più precisamente, l’azione è legata strettamente al pensiero; la guerra è quindi indissolubilmente legata all’uso della parola, e Cadava lo spiega in maniera molto chiara: 439 440 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 46. Ivi, p. 146. 172 The rhetoric of war - the rhetoric that is war - corresponds to the force of his coming. There is no war without rhetoric. There are no campaigns without words. This does not mean that the acts of war - the various acts of killing, of suffering, and fighting, for example, that usually announce the fact of war - are only words, but rather that they have to come with words. They require the act of persuasion, the arguments, the debates, the commands, and the legislation that are at once the force, provocation, and effects of the war. Rhetoric is never “to be distinguished from action”, Emerson writes, “it is the electricity of action. It is action, as the general’s word of command or chart of battle is action”.441 Pur utilizzando apparentemente le strategie in uso per giustificare la guerra, Emerson le utilizza in realtà per esplorare il significato del conflitto e per criticare queste stesse strategie, per poi usarle nella direzione che reputa più giusta. Emerson utilizza quindi le stesse metafore dei suoi contemporanei non perché ne condivida il senso, ma per criticare il loro uso retorico della guerra finalizzato a nascondere la crisi politica che aveva investito l’America: “Throughout the war, his lectures, essays, poems, and journal entries persistently challenge the tendencies of contemporary representations of the war to aestheticize the effects of violence and to evade questions about the historical contingency of politics”.442 Fuller similmente afferma: “The function of Emerson poetics, finally, is not to substitute one ideology with another, but to assert the disappointing incompleteness of ideology itself”.443 Emerson compie dunque nei confronti della natura un’azione duplice. Da un lato la recupera e tenta tramite essa di riportare i suoi connazionali ai valori fondativi e dunque naturali per la nazione americana;444 d’altra parte, però, egli tenta di scongiurare la pericolosa associazione che vede nella vicinanza alla natura la giustificazione delle atrocità commesse: ”Emerson is aware of the ferocity in nature, and he insists that we are not to act according to the guiding sentiment of natural law by imitating that ferocity - are not to use that ferocity to justify our own - because we have a moral organization superior to the rest of nature”.445 C’è bisogno dunque di trasformare e rigenerare un modo di pensare non più basato sugli imperativi 441 Ibidem. Ivi, p. 150. 443 R. Fuller, Emerson’s Ghosts, cit. p. 17. 444 “Power of language, for Emerson, depends on strengthening the tie between it and the language of nature that modern usage has obscured.” L. Buell, Emerson, cit., p. 110. 445 J. L. Duncan, The Power and Form of Emerson‘s Thought, cit., p. 7. 442 173 naturali ma su un sentimento morale ed etico, perché soltanto in questo modo la guerra può portare vittoria e gloria: “However much a natural necessity, the war will be transformative only insofar as it is at the same time a war of thought, a war that provokes thought, a war that can be rendered intellectually and morally significant. In more ways than one, the Civil War was, for Emerson, an ideological War”.446 Cadava sottolinea giustamente che la componente persuasiva è anch’essa presente nella trattazione della guerra da parte di Emerson, e negli scritti antischiavisti essa è innegabile e, in una certa misura, inevitabile: “Thinking cannot exist without the rhetoric that both reveals and conceals it. This fact is of great importance in Emerson’s efforts to provoke the faint minds of the land back to life”.447 Tuttavia, essa è accompagnata da un forte invito a ripensare la politica americana: “For Emerson, the war itself - precisely because of the suffering, the killing, and the brutality in which it consists - comes in the form of both a tremendous imperative to think and a powerful means of persuasion”.448 Tramite un’analisi accurata dei mezzi retorici con i quali la guerra e le sue implicazioni ideologiche sono legittimate, Emerson cerca di utilizzare il potere del linguaggio per influenzare, se non addirittura determinare, il corso degli eventi storici e politici.449 Richiamando l’attenzione sulla dimensione retorica della guerra, “that is, to the war’s capacity to declare, to institute, and to promise –Emerson”, continua Cadava, “emphasizes the essential tie he sees between language and politics and, in particular, the role that rhetoric has played within the history of American politics”.450 Ancora una volta, affermando che la guerra arriva “as a frosty October”, Emerson richiama l’attenzione sulla centralità del linguaggio nella politica 446 E. Cadava, Emerson and the Climates of History, cit., p. 44. Ivi, p. 46. 448 Ivi, p. 25. 449 Ivi, p. 48. 450 Ibidem. “For him historical and political truths are already caught in the power of a language that lies beyond the movements of is own understanding. Only in this way may we begin to measure the extent to which writings can be read as both symptomatic and critical of the governing cultural rhetoric through which Americans of his day thought about the most important issues of their particular historical moment”. Ivi, p. 22. 447 174 americana e, con un’intuizione foucaultiana, avverte l’enorme potere di cui il linguaggio è saturo, potere che deve essere gestito se si vuole organizzare un qualsiasi tipo di resistenza culturale.451 Emerson era ben consapevole, come ribadisce Fuller – e come afferma diffusamente Cadava - che la battaglia politica, in questo caso relativa alla guerra civile, non si concentrava sulle idee ma sulla rappresentazione verbale di esse, e su quest’ultima si doveva agire se si voleva incidere sulla coscienza degli americani: Emerson conceived of politics as a dynamic contest not so much over ideas as over the verbal representation of ideas. [...] Emerson thought about the literary as a mode capable of complicating and troping (complicating through troping) political representation, while at the same time holding out the possibility of transforming and even activating individuals.452 4.7: Grandi Speranze Durante la guerra di secessione Emerson appoggia tenacemente l’azione militare convinto che la guerra darà i risultati sperati; egli ricorda una “profezia” che Napoleone fece sull’America, e interpretandola secondo i canoni biblici, le conferisce autorità e la ritiene avverata: Napoleon's word, that in twenty - five years the United States would dictate the politics of the world, was a little early; but the sense was just, with a Jewish interpretation of the " forty days" and "seventy weeks." It is true that if we escape bravely from the present war, America will be the controlling power. (vol. 10, p. 32, 1864) Tramite la prova della guerra, l’America per Emerson entra a far parte della storia della salvezza e tiene fede alla sua missione di popolo eletto; gli americani erano difatti convinti, afferma Tuveson, che la Provvidenza, o per essa la Storia, “has put a special responsibility on the American people to spread the blessings of liberty, democracy, and equality to others throughout the earth, and to defeat, if necessary by force, the sinister power of darkness”.453 L’America, combattendo contro la schiavitù, non si è sottratta al suo compito, e compiendo 451 R. Fuller, Emerson’s Ghosts, cit., p. 7. Ivi, pp. 7-8. 453 E. L. Tuveson, Redeemer Nation, cit., p. vii. 452 175 ciò che era giusto fare ne ha beneficiato direttamente risanando i suoi costumi morali, rinsaldando il patriottismo, e ritrovando la sua ragione di esistere: Before the War, our patriotism was a firework, a salute, a serenade, for holidays and summer evenings, but the reality was cotton thread and complaisance. Now the deaths of thousands and the determination of millions of men and women show it real. (vol. 10, p. 38, 1864) I think it a singular and marked result that the War has established a conviction in so many minds that the right will get done; has established a chronic hope for a chronic despair. This victory the most decisive. This will stay put. It will show your enemies that what has now been so well done will be surely better and quicker done, if need be, again. (vol. 10, p. 47, 1865) The present war, on a prodigiously enlarged scale, has cost us how many valuable lives; but it has made many lives valuable that were not so before, through the start and expansion it has given. It has fired selfish old men to an incredible liberality, and young men to the last devotion. The journals say it has demoralized many rebel regiments, but also it has moralized many of our regiments, and not only so, but moralized cities and states. (vol. 10, p. 47, 1865) Fermamente convinto del momento epocale che si sta vivendo, e ritenendo la guerra civile un vero e proprio spartiacque storico, culturale e morale, Emerson inserisce la storia americana addirittura in un nuovo asse cronologico: “The cannon will not suffer any other sound to be heard for miles and for years around it. Our chronology has lost all old distinctions in one date, -Before the War, and since” (vol. 10, p. 22). In realtà, Emerson si renderà presto conto che l’epico e allo stesso tempo tragico spartiacque della guerra civile non ha sortito gli effetti sperati. La società americana, dopo il grande sforzo bellico e lo slancio eroico che ne è conseguito, sembra essere tornata la stessa di prima; evidentemente qualcosa non ha funzionato, e la guerra non è stata il gran catalizzatore di energia in cui lui aveva sperato: “We hoped that in the peace, after such a war, a great expansion would follow in the mind of the Country; grand views in every direction, - true freedom in politics, in religion, in social science, in thought. But the energy of the nation seems to have expended itself in the war, and every interest is found as sectional and timorous as before” (vol. 10, p. 50, November 5, 1865). Tuttavia Emerson, con l’ottimismo che lo contraddistingue – e che a posteriori si sarebbe dimostrato poco fondato - continua a sperare nel futuro che egli stesso aveva tracciato per i suoi connazionali. Ribadendo la sua incrollabile 176 fede nelle idee,454 e non venendo meno al suo imperativo “To think is to act”, Emerson è convinto che la guerra civile non può non aver stimolato il pensiero degli americani, e ha gettato un seme di cambiamento che, prima o poi, non può non tradursi in azione. In una nota intitolata “War opens new doors” egli scrive: It is plain that the War has made many things public that were once quite too private. A man searches his mind for thoughts, and finds only the old commonplaces; but, at some moment, on the old topic of the days, politics, he makes a distinction he had not made; he discerns a little inlet not seen before. Where was a wall is now a door. The mind goes in and out, and variously states in prose or poetry its new experience. It points it out to one and another, who, of course, deny the alleged discovery. But repeated experiments and affirmations make it visible soon to others. The point of interest is here, that these gates once opened never swing back. The observers may come at their leisure, and do at last satisfy themselves of the fact. The thought, the doctrine, the right, hitherto not affirmed, is published in set propositions, in conversation of scholars, and at last in the very choruses of songs. (vol. 10, p. 59, March 1866) L’ottimismo, però, è sempre accompagnato dalla consapevolezza che non tutto nella società americana è perfetto, al contrario, ancora molta strada c’è da percorrere per riformare in particolar modo la politica, che sembra aver passato, secondo Emerson, oramai il periodo più buio: We have grown more skilful, it seems, in electric machinery, and may confide better in a lasting success. Our political condition is better, and, though dashed by the treachery of our American President, can hardly go backward to slavery and civil war. (vol. 10, p. 64, 1866) Dopo il 1866 nei Journals non si trovano più apologie della guerra civile, ma soltanto sporadiche citazioni relative a piccoli episodi o a qualche personaggio che ne prese parte. Ad essa non ci si riferisce più né al tempo presente, né tanto meno al tempo futuro. La guerra civile viene consegnata alla memoria, è quasi dimenticata e, a differenza di quanto Emerson scriveva qualche tempo prima (“War opens new doors”), la guerra non sembra aver aperto nuove porte, o per lo meno quelle che Emerson sperava si aprissero. Eppure, nonostante tutto, nulla è perduto, e l’America post-bellica, agli occhi di Emerson, è un paese votato al progresso che sta vivendo una serie di miracoli tecnologici: The splendors of this age outshine all other recorde ages. In my lifetime have been wrought five miracles, namely, 1, the Steamboat; 2, the Railroad; 3, the Electric Telegraph; 4, the application of the Spectroscope to astronomy; 5, the Photograph; - five miracles which have altered the relations of nations to each other. Add 454 “Plato was the single most important source of Emerson’s lifelong conviction that ideas are real because they are forms and laws that underlie, precede, and explain appearances”. R. Richardson, Emerson, The Mind on Fire, cit., p. 65. 177 cheap postage; and the mowing -machine and the horse - rake. A corresponding power has been given to manufactures by the machine for pegging shoes, and the power - loom, and the power-press of the printers. And in dentistry and in surgery, Dr. Jackson's discovery of Anaesthesia. It only needs to add the power which, up to this hour, eludes all human ingenuity, namely, a rudder to the balloon, to give us the dominion of the air, as well as of the sea and the land. But the account is not complete until we add the discovery of Oerstad, of the identity of Electricity and Magnetism, and the generalization of that conversion by its application to light, heat, and gravitation. The geologist has found the correspondence of the age of stratified remains to the ascending scale of structure in animal life. Add now, the daily predictions of the weather for the next twenty-four hours for North America, by the Observatory at Washington. (vol. 10, p. 132, 1871) Pur iniziando a soffrire di disturbi di memoria, Emerson non era vittima, come qualcuno ha ipotizzato, di una “memoria selettiva” che gli impediva di vedere i lati negativi e corrotti della società e gli permetteva di apprezzarne soltanto quelli positivi. Non credo, come afferma Stessel, che Emerson vedesse della sua età soltanto il bel tempo e gli uccellini al pari di Emily Dickinson455 ma che, semplicemente, continuasse a sperare, ingenuamente ed ostinatamente, che tanto progresso tecnologico non poteva non essere seguito da un altrettanto sviluppo morale e spirituale. I suoi ultimi anni furono segnati da una serenità senile dovuta, probabilmente, anche a questa speranza cullata una vita intera, nonostante i lutti, nonostante le delusioni, nonostante la storia che sembrava sempre prendere un cammino diverso da quello auspicato. Per concludere, vorrei riportare il passo che si trova al termine della biografia su Emerson curata da Robert Richardson, un passo che personalmente trovo toccante, e che lascia ad Emerson stesso il compito di chiudere il sipario sulla sua vita: On the nineteenth of April, 1882, Emerson went walking, got soaked in a sudden shower, and made an already existing cold worse. The next morning, as he was coming down for breakfast, his daughter Ellen recalled, “He cried out and staggered as from a blow, just as we passed the rocking horse in the front entry.” Emerson could give no satisfactory account of what he felt. After he had sat for a while, he said: ”I hoped it would not come this way. I would rather fall down cellar.” He slept most of the day. On the next day, April 21, six days before his death, Emerson was diagnosed as having pneumonia. Despite Edward’s warning, Emerson got up, dressed, and went as usual to his study. After tea, he consented to go up to his bedroom early but would accept no help closing up his study for the night. He went from window to window, locking them and closing the shutters on each. Then, as was his custom, he went to the fireplace and took his fire apart, setting the sticks, one by one, on end on each side, and separating all the glowing coals. That done, he took his study lamp in his land, left the room for the last time, and went upstairs.456 455 ”Although his fellow citizen of Massachusetts Emily Dickinson saw little of the Gilded Age beyond its birds and weather, it is doubtful whether Emerson saw more of it than she did. What he saw of it was principally its science and technology - its least corrupted aspect. What he saw did not cause his voice to lose its well - known sweetness. Honoured, he perhaps did not suspect how few still listened to him”. E. Stessel, “The soldier and the Scholar: Emerson’s Warring Heroes”, cit., p. 197. 456 R. D. Richardson, Emerson, The Mind on Fire, cit., pp. 572-573. 178 Quando la morte arriva, Emerson la avverte con estrema consapevolezza, e con altrettanta calma porta a termine i gesti quotidiani che abitualmente compiva da anni: chiude con cura il suo studio rifiutando l’aiuto dei figli, raccoglie il fuoco per la notte, e come ogni sera sale le scale per andare a dormire. Pur presagendo che sarà l’ultima volta, Emerson spegne le luci sulla sua esistenza con serenità e costanza: dopo una ricerca durata una vita, guerra e pace, ora, forse, finalmente si incontreranno. 179 SECONDA PARTE: UN PONTE VERSO IL FUTURO CAPITOLO QUINTO EMERSON VERSO FOUCAULT 5.1: Il Potere e la Guerra Il pensiero di Emerson, per la sua profondità e complessità, è destinato a riecheggiare nel tempo fino ai nostri giorni. Le sue molteplici sfaccettature lo avvicinano a diverse personalità contemporanee tra cui Michel Foucault, con il quale Emerson condivide idealmente alcune convinzioni fondamentali. Trovandoci di fronte a due autori che hanno affrontato nella loro carriera argomenti vari e problematici, in queste pagine focalizzeremo l’attenzione sui due punti di confronto più significativi: il potere e la guerra. L’origine comune che lega le riflessioni di Emerson e Foucault è, in primo luogo, la concezione di potere, dalla quale scaturisce l’affinità altrettanto importante sulla concezione della guerra. Conosciamo già l’attenzione ossessiva che Emerson riserva al potere, al punto che Lopez definisce The Conduct of Life “an anatomy of power - or, to use a description made current by Michel Foucault, an ‘archeology of power’ - in all its protean forms”.457 Questo interesse per il potere è altrettanto onnipresente in Foucault. Pur occupandosene di volta in volta da prospettive differenti, il potere è difatti sempre alla base delle sue riflessioni: Lo studio del potere ha accompagnato la ricerca di Michel Foucault per tutta la sua durata [...]. Ogni singola occasione ha costituito per Foucault la premessa per affrontare il tema del potere secondo prospettive specifiche: il potere della ragione sul fondo oscuro della malattia mentale nella Storia della Follia, il potere della comunità nei confronti dei criminali in Sorvegliare e Punire, il potere degli individui sui propri desideri e sulle proprie passioni nella Storia della Sessualità. Non è inesatto interpretare l’opera di Foucault come una lunga 457 M. Lopez, “The Conduct of Life: Emerson’s anatomy of Power”, in J. Porte and S. Morris (ed.), The Cambridge Companion to Ralph Waldo Emerson, cit., p. 252. 180 interrogazione sul potere, salvo poi aggiungere che essa è anche una interrogazione sulla verità e sui modi di costituzione della soggettività, perché per Foucault non si tratta di elaborare delle teorie più o meno definitive su “che cosa è il potere” ma, piuttosto, di comprendere come gli uomini elaborino storicamente la propria esperienza e la condensino in un certo tipo di auto-rappresentazione attraverso la griglia delle discipline che sul terreno teorico e pratico regolano i loro comportamenti. 458 In un corso tenuto nel 1976 al Collège de France poi raccolto in un saggio dal titolo Bisogna Difendere la Società, e con l’uscita de La Volontà di Sapere (primo volume della Storia della Sessualità) Foucault si occupa, in maniera innovativa rispetto al passato, di “un’analisi del potere principalmente attenta al piano effettuale delle pratiche e critica verso le posizioni della teoria giuridica”.459 La sua riflessione non parte difatti da un approccio tradizionale, teorico e giuridico, ma si concentra sul reale funzionamento dei meccanismi di potere e del modo in cui essi agiscono sull’individuo e sulla società; poi, come vedremo, la sua analisi si estende anche alla guerra, considerata uno strumento fondamentale nella gestione dei rapporti di potere. La riflessione che Foucault opera sul potere è certamente molto più articolata rispetto a quella di Emerson, il quale si preoccupa principalmente della sua acquisizione e del suo utilizzo piuttosto che di una sua analisi dal punto di vista storico e sociale. Ciò che è presente in entrambi è però la convinzione della natura relazionale del potere, della sua fluidità e del fatto che il suo esercizio sia “la posta di una contesa piuttosto che la materia di un possesso”.460 Ciò che unisce Emerson e Foucault non è quindi la profondità e la pluralità dell’analisi, ma l’idea di potere che, nella sostanza – Foucault la indagherà meglio, in Emerson rimane un’intuizione a volte un po’ confusa - è molto simile. Richard Poirier afferma: Thank mostly to Foucault and his followers, the word “power” has become tiresomely recurrent in discussions of cultural forms or the order of things. It is nonetheless unavoidable in any consideration of Emerson. He uses it repeatedly, and he can be confusing about it both because he does not always indicate the kind of power he has in mind, whether it be individual or natural, and because he only reluctantly and intermittently admits that individual power is continuously threatened by that ineluctable power of nature called death.461 458 E. De Cristofaro, Sovranità in Frammenti. La Semantica del Potere in Michel Foucault e Niklas Luhmann, Ombre Corte, Verona, 2007, p. 38. 459 Aggiunge De Cristofaro: “Si tratta di due momenti salienti della sua attività perché, proprio nella fase che li racchiude, Foucault formula una categoria fondativa della sua ermeneutica: la biopolitica”. Ivi, p. 61. 460 Ibidem. 461 R. Poirier, The Renewal Of Literature, cit., p. 141. 181 Nonostante la vaghezza che contraddistingue la sua descrizione del potere, ciò che sappiamo per certo è che Emerson è fermamente convinto che il potere - in tutte le sue forme - non sia un elemento che risiede in uno specifico luogo o in una determinata persona, ma sia piuttosto qualcosa simile ad una “forza vitale”, che forma una fitta rete senza inizio e senza fine nella quale esso circola continuamente: Beneath the social and cultural forms of life, Emerson contends, there is “power”; it surges through “the subterranean and invisible tunnels and channels of life”. Through every natural entity, through every organism, a divine “vital force” moves. The ultimate “power” that pervades all living beings waxes and wanes and is concentrated in no single place, in no singular entities.462 Esso, quindi, può assumere differenti sembianze, e può essere plasmato dall’individuo che può decidere di utilizzarlo per scopi differenti, siano essi legittimi o moralmente dubbi: Emerson discerns the “search for power” in protean form: in the desire for conquest, the desire for pre-eminence, the quest for worldly success. The pursuit of power is found in the political conservative’s preservation of the status quo and in the radical’s desire for revolutionary change; in the energetic pursuit of money; in the effort to master the forces of nature; in the corrupting quest of State - Power, in the coercive force of numbers and “public opinion”; in the excessive ambition of the military- political leaders.463 Emerson, similmente a Foucault, non parla mai di potere detenuto, concesso o sottratto, ma di un qualcosa che si può liberamente e sistematicamente acquisire o perdere, e non a caso, difatti, per descrive la sua idea di potere utilizza immagini di fluidità e interconnessione, tra le quali spiccano in particolare reti, canali, sorgenti, fiumi: There is never a beginning, there is never an end, to the inexplicable continuity of this web of God, but always circular power returning into itself. (AmS 1.85 8) Place yourself in the middle of the stream of power and wisdom... (SL 2.139 20) Whatsoever streams of power and commodity flow to me, shall of me acquire healing virtue. (Con 1.324 13) [The finished man of the world]...values men only as channels of power. (Ctr 6.162 22) Essendo una “corrente” che scorre in una rete di canali, Emerson presuppone che il potere sia potenzialmente alla portata di tutti, senza un padrone esclusivo che abbia il diritto di possederlo o di concederlo. L’intuizione di Emerson sulla natura del potere coincide quindi con l’idea che si trova alla base dell’articolata trattazione di Foucault che tenta, in maniera del 462 463 G. Stack, Nietzsche and Emerson, cit., p. 151. Ivi, p. 141. 182 tutto pionieristica, di rintracciare l’esatta genealogia e le trasformazioni che hanno investito le varie forme di potere nel corso del tempo: Punto di partenza del discorso foucaultiano è l’esigenza di riproblematizzare, a partire da un’inversione allo stesso tempo di scala e di senso, del concetto di “potere” in rottura con i modelli sedimentati da secoli di riflessione filosofico - giuridica. In tale prospettiva, la chiave di intelligibilità del potere deve essere cercata non sul piano della sovranità, della legge e dell’autorità ma al livello molecolare di una “microfisica” volta a sondare la dinamica dei rapporti di forza che reggono tutte le relazioni caratterizzate da qualche forma di asimmetria.464 Il potere per Foucault, similmente ad Emerson, non si acquista né si cede, ed essendo esercitato a partire da innumerevoli punti è immanente a molteplici relazioni (economiche, familiari, professionali), con le quali esso “non ha un rapporto sovrastrutturale di esteriorità, ma un rapporto diretto di produzione, nel senso che interviene a costituirne la fisionomia diffondendo nell’intero corpo sociale la logica binaria della denominazione ‘comandoobbedienza’ che si vorrebbe confinata al rapporto dei cittadini con l’autorità pubblica”.465 Nella visione di Foucault, quindi, un potere inteso in tal senso non significa una maggiore libertà dell’individuo, al contrario esso causa un controllo più capillare, da parte dello stato, sull’intera società. Foucault introduce difatti l’espressione “operatori di dominazione” per definire “un campo di esercizio del potere che non è vincolato a un’istanza iniziale o a una cinghia di trasmissione di ordini, ma che si articola in una serie di dispositivi che garantiscono capillarmente le condizioni di equilibrio tra conflittualità e pace sociale”.466 La politica di cui parla Foucault è quindi radicalmente diversa da quella antica, perché l’occidente – spiega Foucault - ha conosciuto dall’età classica una trasformazione molto profonda dei meccanismi di potere, una trasformazione che ha portato alla nascita di un potere “destinato a produrre forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle 464 M. Guareschi, “Ribaltare Clausewitz, La Guerra in Michel Foucault e Deleuze - Guattari”, in Conflitti Globali - La guerra dei Mondi 1, ed. Underground, Milano, rivista semestrale, p. 53. ”Problematizzare” – spiega Stefano Berni - “significa porsi criticamente contro il proprio tempo; Nietzsche, qui ripreso da Foucault, definiva questo suo atteggiamento con il termine ‘inattuale’: è inattuale chi si pone in tensione col proprio tempo per valutarlo meglio, non subendolo passivamente”. S. Berni, Soggetti al Potere, per una Genealogia del Pensiero di Michel Foucault, Mimesis, Milano, 1998, p. 17. 465 Ivi, p. 69. 466 Ivi, p. 10. 183 o a distruggerle”.467 Più che di politica si può parlare ora di “biopolitica”, termine con cui egli indica l’attitudine del potere moderno e contemporaneo a irreggimentare la vita degli individui sin nei suoi aspetti primari e fisiologici.468 Al contrario di come accadeva in precedenza, quando il sovrano deteneva ed esercitava il potere di vita o di morte sui sudditi, in questo sopraggiunto sistema si ha un tipo di potere che rinuncia al diritto di decretare la morte in cambio della possibilità di dirigere la vita dell’individuo in tutti i suoi aspetti; si ha quindi un tipo di potere che “si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme”.469 Sulla base di queste premesse Foucault individua due grandi sistemi di analisi del potere: il primo risale al diciottesimo secolo e considera il potere come diritto che si cede; questo tipo di sistema è basato su un contratto che funziona come matrice del potere politico, e corre il rischio di diventare oppressione se oltrepassa i limiti stabiliti dal contratto; l’altro sistema analizza invece il potere secondo il sistema binario “guerra - repressione”. La repressione, in questo caso, non equivale all’oppressione che può determinarsi nel sistema precedente quando si ha un abuso dei poteri regolati dal contratto; essa, piuttosto, è “il semplice effetto e la semplice continuazione di un rapporto di dominazione. La repressione non sarebbe altro che la messa in opera, all’interno di questa pseudo - pace travagliata da una guerra continua, di un rapporto di forza perpetuo”.470 Si tratta, in questo caso, di un tipo di potere che si esercita continuamente attraverso la sorveglianza, e fa della repressione non un’eccezione, un caso di abuso di potere, ma una regola, uno strumento per esercitarlo. Il sistema individuato da Foucault è quindi basato sulla perpetuazione di rapporti di forza e non sulla loro pacificazione: ”è un sistema che definisce una nuova economia del potere che si 467 Ivi, p.120. Ivi, p. 62. 469 M. Foucault, La Volontà di Sapere, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 121. 470 M. Foucault, Bisogna Difendere la Società, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 24. 468 184 fonda sul principio secondo cui si devono far crescere contemporaneamente le forze assoggettate e la forza e l’efficacia di ciò che le assoggetta”.471 Foucault si prefigge, in Bisogna Difendere la Società, proprio “di vedere in che misura lo schema binario della guerra, della lotta, dello scontro, possa essere effettivamente identificato come il fondo della società civile, il principio e il motore dell’esercizio del potere politico”.472 Il potere, che si diffonde attraverso un’organizzazione reticolare, non può essere applicato agli individui, ma transita attraverso di essi; di conseguenza, invece di analizzare il potere in maniera tradizionale, ossia in termini giuridici e in relazione al sovrano, Foucault tenta di studiare il funzionamento del potere cogliendolo “nell’estremità sempre meno giuridica del suo esercizio”.473 Partendo dal presupposto che “il potere non si dà, non si scambia né si riprende, ma si esercita e non esiste che in atto”,474 Foucault ribalta apertamente la concezione di Clausewitz e sostiene, quindi, che la politica è la guerra continuata con altri mezzi, non viceversa. I rapporti di potere, che si fondano e dipendono da un rapporto di forza stabilito in un determinato momento, “storicamente precisabile, nella guerra e dalla guerra”,475 una volta cessata la battaglia reale vengono mantenuti in una forma di relazioni apparentemente pacifiche, ma che si basano in realtà su relazioni di potere fondate su un rapporto di forza storicamente – e violentemente – stabilito: ”Si tratta pertanto di individuare nella guerra e nello schema della lotta un principio di intelligibilità del potere politico e di raschiare le fonti storiografiche per riportarlo alla luce da sotto la massa dei discorsi che l’avevano occultato e gli avevano sostituito schemi fittizi”.476 Il potere politico non arresta quindi la guerra per farne cessare gli effetti o gli squilibri ma, al contrario, per perpetuarli: “la politica è la sanzione e il mantenimento del disequilibrio 471 Ivi, p. 38. Ivi, p. 25. 473 Ivi, p. 32. 474 Ivi, p. 22. 475 Ivi, p. 23. 476 Ivi, p. 28. 472 185 delle forze manifestatosi nella guerra”.477 La politica, dunque, sarebbe chiamata non a riassorbire le fratture della guerra, piuttosto, afferma Guareschi, “a perpetuare una condizione di squilibrio e asimmetria ricodificando continuamente gli esiti delle armi nel linguaggio delle consuetudini, delle leggi e delle istituzioni”.478 Ciò vuol dire che all’interno della cosiddetta “pace civile” tutti gli scontri sul potere e per il potere sono da interpretarsi come la prosecuzione della guerra, continuata, appunto, con altri mezzi, e ”quand’anche si scrivesse la storia della pace e delle sue istituzioni, non si scriverebbe mai nient’altro che la storia della guerra”.479 Foucault dissente nettamente, come appare chiaro, dalla visione che Hobbes illustra nel Leviatiano. Per Hobbes la paura, determinata dalla lotta spietata tra gli uomini nello stato pre - sociale, è la causa e il collante del legame sociale che si stabilisce tra gli individui, ed è il motivo per cui i sudditi rinunciano in parte alla loro libertà e cedono il comando della comunità al sovrano. La sovranità, quindi, viene istituita e si costituisce come argine al disordine e alla guerra di “tutti contro tutti”, e gli uomini decidono di unirsi per sfuggire alla lotta che imperversa nella condizione di asocialità, istituendo una figura - un sovrano - che gestisca la società al fine di garantire la pace. Il sovrano, inoltre, diventa tale, per Hobbes, grazie alla superiorità della sua forza su quella dei consociati: “ciò che è iussum, e non ciò che è iustum, è la fonte dell’obbedienza collettiva”.480 Foucault dissente dalla visione di Hobbes in più punti. Prima di tutto la guerra di “tutti contro tutti”, nota Foucault, non è dovuta alle differenze esistenti tra gli esseri, e quindi alla volontà del più forte di dominare il più debole e al riconoscimento, da parte del debole, della superiorità del più forte; lo stato di guerra è dovuto esattamente al motivo contrario, ossia all’assenza di differenze: se esse ci fossero, e si trattasse di differenze naturali marcate, non ci 477 Ibidem. M. Guareschi, “Ribaltare Clausewitz, La guerra in Michel Foucault e Deleuze - Guattari”, cit., p. 54. 479 M. Foucault, Bisogna Difendere la Società, cit., p. 23. 480 E. De Cristofaro, Sovranità in Frammenti, cit., p. 17. 478 186 sarebbe guerra, perché il più forte si distinguerebbe e regnerebbe senza particolari difficoltà. A creare lo stato di guerra è invece l’uguaglianza degli esseri, non la loro diversità: “l’indifferenziazione naturale crea dunque delle incertezze, dei rischi, dei casi fortuiti e conseguentemente la volontà, da parte degli uni e degli altri, di affrontarsi. A creare lo stato di guerra è l’aleatorio del rapporto di forza delle origini”.481 Anche Emerson sembra essere di questo parere perché, insistendo sulla lotta tra gli individui e sull’affermazione personale che essi tentano di raggiungere, riconosce che evidentemente non vi sono reali differenze tra gli esseri umani che fin dalla loro nascita li destinano ad una determinata posizione sociale, ma ognuno è in grado, tramite un uso completo delle sue potenzialità, di acquisire potere e di imporsi sugli altri. Per Emerson inoltre, come per Foucault e a differenza di Hobbes, la lotta tra gli individui è reale, ed incide fattivamente sui rapporti tra di essi. Hobbes, al contrario, parla invece di uno “stato di guerra” fittizio che non ha nulla a che fare con il problema della sovranità: Hobbes parla di uno “stato di guerra”, e non di una guerra vera e propria; si tratta di uno stato di rappresentazione in cui ognuno misura il pericolo che è per l’altro. In questo modo, però, non si esce dalla dominazione e non si esce dalla storia. La guerra in essa non interrompe il diritto, ma lo ricopre: è dunque un modo di operare e gestire il potere, non un’interruzione straordinaria della legalità. [...] Per Hobbes poco importa se ci si sia battuti o no. [...] Hobbes trasforma la guerra, l’evento bellico, in qualcosa di indifferente rispetto alla costituzione della sovranità.482 La legge, dunque - ed arriviamo il punto cruciale - al contrario di quanto afferma Hobbes, per Foucault non è armistizio e pacificazione, poiché dietro la legge la guerra continua ad infuriare all’interno di tutti i meccanismi di potere, anche dei più regolari. L’istituzione dello stato non pone quindi fine alla paura e alla guerra tra individui, ne segna al contrario la cronicità: E’ la guerra a costituire il motore delle istituzioni e dell’ordine: la pace, fin nei suoi meccanismi più infimi, fa sordamente la guerra. In altri termini, dietro la pace bisogna saper vedere la guerra: la guerra è la cifra stessa della pace. Siamo dunque in guerra gli uni contro gli altri; un fronte di battaglia attraversa la società, continuamente e permanentemente, ponendo ciascuno di noi in un campo o nell’altro. Non esiste un soggetto neutrale. Siamo necessariamente l’avversario di qualcuno.483 481 M. Foucault, Bisogna Difendere la Società, cit. p. 81. Ivi, p. 135. 483 Ivi, p. 49. 482 187 La razionalità che ci pare quindi di scorgere nella società è in realtà una razionalità fragile che si posa sopra la guerra senza penetrarla, mentre ad essere terribilmente vera è la brutalità; inutile, quindi, ricercare una razionalità sottesa a tutti i terribili avvenimenti che accadono all’interno della società: “essa è una sopra-costruzione che diventa sempre più fragile e più malvagia”.484 Dopo quanto affermato, in un passo cruciale del suo lavoro, Foucault si chiede: Il rapporto di potere non è forse, al fondo, un rapporto di scontro, di lotta, di morte, di guerra? Dietro la pace, l’ordine, la ricchezza, l’autorità, dietro l’ordine calmo delle subordinazioni, dietro lo stato, dietro gli apparati dello stato, dietro le leggi, non è forse possibile avvertire e riscoprire una sorta di guerra primitiva e permanente? [...] Come, a partire da quando e perché si è arrivati a pensare che una sorta di combattimento ininterrotto travaglia la pace e che l’ordine civile - al fondo, nella sua essenza, nei suoi meccanismi essenziali - non è che un ordine di battaglia? [...] Chi, nella filigrana della pace, ha scorto la guerra; chi, nel clamore e nella confusione della guerra, nel fango delle battaglie, ha cercato il principio di intelligibilità dell’ordine, dello stato, delle sue istituzioni e della sua storia? 485 Gli interrogativi ai quali si tenta di dare risposta, per quanto importanti, non cambiano per Foucault lo stato attuale delle cose. Il dato di fatto è che dietro una falsa pace imperversa la guerra, e il problema è porre fine a questa situazione cronica che è venuta a determinarsi. L’unica possibilità che abbiamo di eliminare questa guerra permanente, afferma drasticamente Foucault, è quella di portarla allo scoperto; l’unico modo per bloccare questo stato di guerra perpetua è uno scontro terribile ma inevitabile, che metta in campo apertamente le forze che si contendono il potere: Non basta ritrovare la guerra come un principio di spiegazione, occorre riattivarla, farle abbandonare le forme latenti e sorde attraverso cui essa permane, senza che ce ne rendiamo ben conto, per condurla fino a una battaglia decisiva, alla quale dobbiamo prepararci se vogliamo esserne i vincitori.486 Dopo un’analisi rigorosa, approfondita e dettagliata del problema della guerra, Foucault arriva, in sostanza, alle stesse conclusioni a cui Emerson era arrivato in maniera più 484 Ivi, p. 53. La guerra che non cessa di svolgersi dietro l’ordine e la pace, è in fondo, per Foucault, la guerra delle razze. Quindi, egli afferma, non si dirà che “dobbiamo difenderci contro la società”, ma che “dobbiamo difendere la società contro tutti i pericoli biologici di quell’altra razza, di quella sotto-razza, di quella controrazza che, nostro malgrado, stiamo costruendo”. Da una società fondata sulla lotta tra due razze, in cui il meccanismo di potere viene dettato dalla battaglia, si passa quindi ad una società biologicamente monista, “in cui vi sarà una lotta per la vita in senso biologico, che tenderà ad escludere e/o a sorvegliare elementi devianti, a far sopravvivere le razze biologicamente più adatte”. Ivi, pp. 57-58. 485 Ivi, p. 46. 486 Ivi, p. 231. 188 intuitiva. Anche per lui la guerra è presente in ogni aspetto dell’esistenza umana, e l’uomo è in guerra con la natura, con i suoi simili, con se stesso. Ciò che più conta nel raffronto con Foucault, è il fatto che anche per Emerson la guerra è latente nella società civile e lo stato non fa che perpetuarla attraverso una falsa pace. La pace, o meglio quella che la società civile definisce tale, non è altro che una pace corrotta, una pace che Galtung definisce “negativa”, che non pone fine, cioè, né alla violenza, né alle ingiustizie.487 Emerson non dà alcun valore ad una pace simile, e come Foucault non la ritiene più auspicabile della guerra: War devastates the conscience of men, yet corrupt peace does not less. (MMEm 10.423 12) If peace is sought to be defended or preserved for the safety of the luxurious and the timid, it is a sham, and the peace will be base. War is better, and the peace will be broken. (War 11.174 10) All’apparente pace istituita dallo stato sono sottese relazioni di potere tese a perpetuare lo status quo, e la paura, che secondo Hobbes dovrebbe essere eliminata dalla costituzione dello stato, ne è invece il suo carattere distintivo. Emerson ne è consapevole, e dolorosamente riconosce che nell’uomo manca il coraggio di ribellarsi e sovvertire lo stato esistente; egli sa, come afferma Duncan, che “men in society are inclined to consolidate existing forms and resist the necessary change”.488 Uno stato simile, dove l’uomo non è artefice della sua condizione e subisce rapporti di forza esistenti, non può essere definito uno stato di pace neanche se, di fatto, non è in guerra. Per Emerson quindi, come per Foucault, la società non è l’epilogo della guerra, ma è il luogo in cui vengono messe in atto “tattiche incrociate di intimidazione”, il luogo dove viene messa in scena “la parodia di uno scontro senza alcuno spargimento di sangue”.489 Emerson sembra essere convinto che sotto la falsa pace dello stato si nasconda ancora, travestita in altre forme, la guerra primordiale, a causa della quale “our condition is like that of the poor wolves: if one of the flock wound himself or so much as limp, the rest eat him up incontinently” (YA 1.373 24). 487 J. Galtung, Pace con Mezzi Pacifici, cit., p. 23. J. L. Duncan, The Power and Form of Emerson‘s Thought, cit., p. 36. 489 M. Foucault, Bisogna Difendere la Società, cit., p. 33. 488 189 La guerra, dunque, non è affatto finita, ed Emerson lo afferma continuamente. Lo stato, evidentemente, attraverso le sue leggi non è stato in grado di arrestare la lotta tra simili né tanto meno di inspirare negli individui una legge superiore a quella vigente in natura, che permetta loro di elevarsi moralmente per porre fine ai conflitti; al contrario, il diritto non fa altro che perpetuare lo stato di ingiustizia e relazioni di potere già determinate. Sappiamo che Emerson criticava il diritto positivo e tramite la sua retorica della guerra tentava sia di riportare la legge vicino alle sue origini naturali, sia di infondere nell’uomo un sentimento etico che lo facesse elevare dalla condizione bestiale. Le leggi vigenti al tempo di Emerson, al contrario, invece di ristabilire la giustizia, si allontanavano dalla legge morale che avrebbe dovuto ispirarle, e per questo egli le criticava e avrebbe voluto sottoporle a un duro processo. In un passo dei Journals del 1862, intitolato “Justice sovereign”, Emerson - in relazione al problema della schiavitù - riporta un passo di G. W. Bassett dove si legge: "Sovereignty ceases with the transgression of natural justice. Then the sovereign, whether a monarch, or a tyrannical majority, becomes himself the culprit, and justly subject to any righteous power that may restrain him" (Journals, vol. 9, p. 137). In nome della legge morale, Emerson mette in discussione la legittimità di un monarca che non esercita la giustizia, ma esercita una sovranità che non si è dimostrata in grado né di soppiantare né di gestire - come invece sostiene Hobbes - la lotta tra simili che ha sempre caratterizzato la razza umana. A questo punto, afferma Emerson, meglio che si torni alla lotta reale, facendola uscire allo scoperto e combattendo apertamente. Sempre nello stesso passo dei Journals, durante la guerra civile, Emerson scrive una nota a mio parere cruciale, in sintonia con il suo pensiero e in accordo con quello di Foucault, nella quale egli esprime la sua diffidenza nei confronti del potere politico e la speranza che l’antica guerra, inutilmente ricoperta da leggi che non fanno che renderla ancora più subdola, possa finalmente essere combattuta: 190 Happily we are under better guidance than of statesmen. We are drifting in currents, and the currents know the way. It is, as I said, a war of Instincts. Then I think the difference, between our present and our past state, is in our favour; it was war then, and is war now, but war declared is better than undeclared war. (Journals, vol. 9, p. 138). Alla luce di questa riflessione si capisce ancora meglio l’entusiasmo e le speranze riposte da Emerson nella guerra civile, una guerra che avrebbe finalmente portato allo scoperto ingiustizie taciute e conflitti repressi; invece di una guerra continua non dichiarata, meglio una guerra dichiarata, che, in base all’analisi di Foucault, essendo in grado di stabilire rapporti di forza che in seguito sono perpetuati dalla pace sociale, avrebbe potuto significare un punto di svolta, crearne cioè nuovi rapporti - nella speranza di Emerson più giusti - che avrebbero potuto determinare un sistema di potere moralmente più equilibrato. Tutto ciò riconduce all’analisi di Cadava, secondo cui Emerson, con il suo appoggio alla guerra civile, combatteva contemporaneamente anche una guerra ideologica che permettesse agli americani di riflettere sulla loro condizione storica e di rinnovare una politica che non si era basata, fino a quel momento, su imperativi etici e morali.490 Al contrario di Hobbes, per il quale “il potere sovrano appare per supplire all’inefficacia delle leggi morali, vale a dire per costringere gli uomini, con il terrore che la sua strapotenza incute, a compiere delle azioni che producano gli stessi effetti che avrebbero accompagnato la pratica delle virtù”,491 Emerson non è affatto interessato ad uno stato che istituisce la pace con la forza. Una politica che tramite “tattiche incrociate di intimidazione”492 tenta di inculcare nei cittadini un surrogato della legge morale non potrà mai evolversi e non potrà mai istituire una società giusta; ciò può accadere soltanto agendo in maniera esattamente contraria, ossia, facendo sì che l’individuo, sviluppando in sé un’etica consapevole, riesca poi a ripensare, quindi a riformare, il diritto e la politica. 490 Si veda il presente lavoro, cap. 4. A. Biral, Storia e Critica della Filosofia Politica Moderna, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 101. 492 M. Foucault, Bisogna Difendere la Società, cit., p. 33. 491 191 5.2: Prospettive Attuali Lopez, nell’introduzione al suo libro Emerson and Power, pur specificando di non voler condurre un’analisi foucaultiana del pensiero di Emerson, riconosce l’utilità di mettere i due autori a confronto: I do believe that setting a writer like Michel Foucault next to a writer like Emerson can be productive. [...] And I have found Foucault and his speculations about an eighteenth - and nineteenth-century “military dream of society” useful in my attempt to explain Emerson’s enthusiasm for the energies and creative discipline of war.493 A mio parere, la riflessione “incrociata” tra Emerson e Foucault può rivelarsi proficua non solo per un approfondimento della concezione del potere e della guerra in Emerson, ma anche per una riflessione sulla contemporaneità e sull’influenza che l’attuale idea di guerra esercita sui rapporti politici e sociali. La riflessione innovativa e “sovversiva” di Foucault - presente anche in Emerson seppur come abbiamo appena visto in maniera meno articolata - può essere difatti utilizzata come chiave di lettura per lo scenario contemporaneo: La guerra in Foucault è chiamata in causa per due ordini di problemi strettamente correlati. Da una parte come operatore analitico, come ipotesi concettuale in grado di supportare un’analisi del potere alternativa alle concezioni filosofico - giuridiche centrate sulla sovranità e il contratto; dall’altra come tratto distintivo di una tipologia di discorso calato nelle lotte, da recuperare in chiave attualizzante, che rifiuta ogni postura universale per affermare la propria disposizione partigiana.494 Nell’ambito della riflessione sulla guerra, Foucault ci invita a ripensare coraggiosamente la nostra storia e la nostra contemporaneità non nell’ordine della pace, ma in quello della guerra. Egli, come sottolinea Stefano Catucci, propone una filosofia critica che non si pone come una legittimazione del sapere dato, ma come un invito a “smarrire le proprie certezze” per “cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso”.495 Di fronte a una certa “tradizione” che ha condotto all’asservimento degli individui, Foucault riconosce la “necessità di decostruire genealogicamente tale ‘tradizione’ 493 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 15. M. Guareschi, “Ribaltare Clausewitz, La guerra in Michel Foucault e Deleuze - Guattari”, cit., p. 58. 495 S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Bari, 2008, p. 5. 494 192 per smontarne i giochi di verità, smascherandone le pretese universalizzanti”.496 E’ la stessa cosa, del resto, che Emerson tenta di fare a più livelli, sia nei suoi scritti che nei suoi Journals, e tramite uno stile provocatorio vuole spingere il lettore proprio a pensare in maniera diversa, a non allinearsi con la tradizione e con la sua contemporaneità, a ragionare in maniera più indipendente ed autentica. Secondo l’idea occidentale il sapere e la verità non possono non appartenere al registro dell’ordine e della pace, ed esse non si possono mai ritrovare dalla parte della violenza, del disordine e della guerra. Per Foucault, invece, il principio di organizzazione del sapere deve essere ritrovato proprio nel caos della guerra: Ciò che deve valere come principio di decifrazione è la confusione della violenza, delle passioni, degli odi, delle rivincite; ma è anche il tessuto delle circostanze insignificanti che consentono le disfatte e le vittorie. Il dio ellittico e oscuro delle battaglie deve illuminare le lunghe giornate dell’ordine, del lavoro, della pace. Il furore deve rendere conto delle armonie.497 Dovremmo entrare, dunque, nell’ordine di idee secondo cui la nostra esistenza è prevalentemente un’esistenza segnata dalla lotta, dove l’ordine e la pace tentano faticosamente di trovare un loro posto, e non il contrario. La guerra, utilizzando un detto popolare, non sarebbe l’eccezione, ma la regola nella società. Dobbiamo quindi coraggiosamente renderci conto che “la guerra non è una malattia dell’occidente, ma la sua condizione fisiologica”498 e, sostiene Alessandro dal Lago, Foucault in questo ci aiuta molto: L’idea di Foucault - secondo cui la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi - consente di liberarsi dall’opinione comune secondo cui la guerra sarebbe un’anomalia, la deviazione dal retto cammino dell’umanità, l’emergere di un’irrazionalità antiprogressiva, lo scatenamento di pulsioni arcaiche e così via. La guerra appare come l’altra faccia della politica globale, un sistema di opzioni non alternativo, ma del tutto complementare, ai sistemi di governo pacifici.499 Foucault insiste sul carattere guerreggiato delle relazioni di potere, e invita a vedere nella filigrana della pace i segni di una guerra che non è mai finita e che la politica conduce con 496 “Opporsi alla mera esistenza, all’esistente, opporsi alla quotidianità, all’omologazione, al conformismo, alla massificazione. Resistere significa esistere, opporsi al potere, ribaltare, rovesciare, contrastare, spostare, criticare ciò che in prima istanza appare banale e scontato”. S. Berni, Soggetti al Potere, cit., pp. 99-100. 497 M. Foucault, Bisogna Difendere la Società, cit., p. 232. 498 A. Dal Lago, “La guerra-mondo”, in Conflitti Globali, cit., p. 22. 499 Ivi, p. 21. 193 altri mezzi, “fissando nell’apparente neutralità delle istituzioni e delle procedure le reali dinamiche di sottomissione e assoggettamento”.500 La guerra contemporanea, quindi, secondo Dal Lago potrebbe essere definita come un “sistema sociale di pensiero”, poiché attualmente la militarizzazione della cultura non si esplicita con apparati militari veri e propri, ma “si traduce soprattutto in modi diffusi di pensiero (o di non pensiero) che non sempre necessitano di espressioni esplicite”.501 Nell’articolo “La mobilitazione globale” Maurizio Guerri porta come esempio di pensiero simile vicino a Foucault quello di Jan Patocka, il quale osserva che, se si escludono rare eccezioni, i tentativi ottocenteschi e novecenteschi di comprendere la guerra sono funzionali al “punto di vista della pace, del giorno e della vita”;502 la guerra, così com’è vista da Hegel o da Dostoevskij, può servire a determinare le scosse salutari di cui la vita civile ha bisogno per non irrigidirsi e non addormentarsi nella routine.503 Intesa in questo modo, la guerra sembra essere un istante infelice ma necessario sulla via del raggiungimento della pace, e non una condizione permanente, difficile da estirpare, nella vita politica e sociale. Emerson, con la sua retorica della guerra, si allontana sicuramente dagli esempi ottocenteschi individuati da Patocka. Il “saggio di Concord” sembra essere ben consapevole delle dinamiche violente sottese all’apparente pace sociale, e volendo metter fine all’atteggiamento ipocrita che si ostina a coprire la realtà, preferisce essere tacciato di spietatezza e disdegnare una pace falsa a favore di una guerra totale. La sua visione del problema, probabilmente poco capita ai suoi tempi, troverebbe invece alleati nell’ambito delle riflessioni attuali sulla guerra, che tendono a riconoscere la persistenza e l’inevitabilità del fenomeno bellico proprio come punto di partenza per una risoluzione pacifica dei conflitti. 500 M. Guareschi, “Ribaltare Clausewitz, La guerra in Michel Foucault e Deleuze-Guattari”, cit., p. 68. A. Dal Lago, “La guerra- Mondo”, p. 20, 28. 502 J. Patocka, “Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra”, in Id., Saggi Eretici sulla Filosofia della Storia, Cseo, Bologna, 1981, p.144, cit. in M. Guerri, “La mobilitazione globale”, in Conflitti Globali, cit., p. 33. 503 Ibidem. 501 194 Umbero Curi, concordando con le precedenti analisi di Dal lago e Guareschi, e rifacendosi alla “teoria delle catastrofi”, sottolinea come la guerra sia stata sempre tradizionalmente concepita non come uno stato, ma come un evento: In termini di teoria delle catastrofi, la guerra si costituisce come fattore morfogenetico e cioè come quel mutamento di forma che conduce a una transizione fra due diversi stati di stabilità strutturale. [...] Proprio perché è diretta antitesi di ogni stato, perché sanziona il sopravvento del mutamento rispetto alla continuità, e del processo rispetto alla quiete, la guerra si iscrive in un orizzonte concettuale specificamente segnato dalla sua appartenenza alla sfera dell’evento, e dunque all’ambito del contingente e del particolare.504 La guerra, così concepita, sarebbe un evento improvviso che determina trasformazioni, e come tale è poco controllabile e sfuggirebbe a qualsiasi tentativo di intervento da parte della politica e della società; inteso in questo modo, c’è poca speranza che il problema sia oggetto di dibattito e di discussioni. Soltanto attraverso un cambio di prospettiva, che porti ad una comprensione “positiva” dell’evento bellico concepito come stato che, secondo modalità differenti - spesso latenti ma per questo ancora più pericolose - attraversa tutti gli ambiti della vita dell’uomo contemporaneo, si può invece attaccare il problema alla sua radice e ragionare sulle probabili soluzioni. Allo stesso tempo però, anche la pace dovrebbe essere considerata nel suo aspetto “positivo”, ossia come vera alternativa, reale e non utopica, allo stato di guerra. La pace difatti, nota Curi, da una lunga tradizione di pensiero viene pensata in termini negativo - residuali: “la pace è quel tempo quando non c’è la guerra”;505 essa viene considerata “come tregua tra una guerra e l’altra, non come status stabile e indipendente”;506 in questo modo essa non viene ritenuta una vera alternativa alla guerra, ma una fortunata circostanza destinata a presentarsi raramente e difficile da prolungare perché soggetta a svanire con il subentrare di un nuovo evento bellico. 504 U. Curi, Terrorismo e Guerra Infinita, Città Aperta Edizioni, Enna, 2007, p. 15. L’espressione “teoria delle catastrofi” è stata coniata dal matematico inglese Christopher Zeeman per designare la generalizzazione della “teoria matematica dei punti critici” elaborata da René Thom nella sua opera Stabilità Strutturale e Morfogenesi (1972). In una lunga nota, Curi spiega come il significato originario di “catastrofe” sia “svolta” e non “distruzione”, e come tale il termine debba quindi essere inteso non come sinonimo di “annientamento”, ma di ”modificazione che conferisce una nuova forma alla realtà”. Per le applicazioni della teoria delle catastrofi all’ambito sociale e politico si rimanda a Aa. Vv. “Catastrofi e trasformazione”, in Laboratorio Politico, n. 5-6, settembre-dicembre 1981. Ivi, nota n. 8, pp. 13-15. 505 U. Curi, Terrorismo e Guerra Infinita, cit., p. 10. 506 U. Curi, Pensare la Guerra, cit., p. 27. 195 Sia la guerra che la pace, quindi, sembrano essere caratterizzate da una natura temporanea, e vengono alternativamente concepite come eventi che, per cause misteriose e inafferrabili, accadono o si allontanano dall’esistenza umana. L’incomprensibilità assegnata al corso della loro alternanza, e la loro natura transitoria difficilmente determinabile, di fatto deresponsabilizzano l’uomo, che si convince di non avere potere su simili eventi che semplicemente accadono. Ripensare la guerra e la pace in termini di stati che hanno una loro origine e un loro corso, e soprattutto aventi una logica sulla quale si può intervenire, aiuterebbe sicuramente a considerare la guerra e la pace come elementi reali, concreti e quindi modificabili. Le varie visioni che considerano la guerra come uno stato appartenente all’ordine della normalità, non a quello dell’eccezione, suonano sicuramente inquietanti, ma permettono di considerare il problema nella sua radicalità e gravità, e in quanto tale consentono di affrontarlo adeguatamente. Oltre alle analisi già proposte, ve ne sono molte altre che considerano realisticamente la guerra come un male difficile, se non impossibile, da estirpare. Per Hanna Arendt, ad esempio, la guerra è ancora “il sistema sociale fondamentale”, e continua ad esistere semplicemente perché ancora non vi è un’alternativa valida.507 Anche Norberto Bobbio, il quale auspica un pacifismo istituzionale - una “via bloccata ed incerta, ma che vale la pena di perseguire” – non può non ammettere che la guerra è qualcosa di connaturato nell’uomo, che non si può estirpare ma soltanto evitare trovando un’altra via di uscita.508 La presa di coscienza dell’inevitabilità della guerra anche da parte di personalità che di certo non si augurano una sua perpetuazione non va inteso come un “gettare la spugna”, piuttosto come la ricerca di un nuovo punto di partenza che porti a conclusioni più fruttuose e 507 H. Arendt, Sulla Violenza, Guanda, Parma, 2004, p. 7. Anche per A. Dal lago ”La violenza e la guerra sono condizioni di normale esercizio del potere sulla scena internazionale”. A. Dal Lago, “La guerra-mondo”, cit., p. 31. 508 N. Bobbio, Il Problema della Guerra e le Vie della Pace, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 2. 196 a risoluzioni più efficaci di quelle a cui si è arrivati finora. A questo punto, considerata la veridicità dell’intuizione emersoniana e della teoria foucaultiana, l’ipotesi più concreta e realistica sembra essere, afferma Curi, una concezione di pace non come cancellazione dei conflitti, ma come “svolgimento di una conflittualità disciplinata e finalizzata”:509 credere fermamente nella pace, quindi, una pace forte e stabile che riesca a contenere e a disciplinare, al suo interno, la guerra. In questo modo, i conflitti vi sarebbero comunque, ma sarebbero in qualche modo arginati e non si rivelerebbero così devastanti come invece tutt’ora accade. Tornando di nuovo alla visione taoista del problema, non dovremmo pensare a costruire una realtà del tutto alternativa a quella della guerra, ma ad una visione che, pur limitando il conflitto, lo accolga e ne sfrutti i lati positivi. Per ciò che riguarda Emerson, sappiamo bene che per lui la guerra non può essere, ma soprattutto non deve essere eliminata in quanto fonte di energia. Essa può essere ripensata in termini di “antagonismo creativo”, ma non può essere annullata in quanto connaturata, e indispensabile, all’esistenza umana. Nei suoi scritti troviamo la guerra in più forme, in particolare, riallacciandoci alla definizione di Curi, sia come stato, sia come evento. La guerra per Emerson è una condizione permanente dell’universo, dove tutti gli elementi, in primis l’uomo, devono lottare incessantemente per vivere ed affermarsi: in questo contesto, una condizione di pace sembra inconcepibile. Allo stesso tempo, soprattutto con l’avvento della guerra civile, la guerra viene concepita anche come evento straordinario, in grado di determinare un cambiamento radicale e liberare la nazione americana dall’immoralità: ”The war gave back integrity to this erring and immoral nation” (HCom 11.342 12). La guerra in Emerson è quindi presente storicamente, socialmente e politicamente sia come “momento felice”, sia come “situazione permanente”. Di conseguenza essa è congenita ai rapporti di potere e insita anche nelle società apparentemente pacifiche; in quanto tale, egli ritiene - e 509 U. Curi, Pensare la Guerra, cit., p. 7. 197 l’avvento della guerra civile sembra avverare il suo sogno - che sia meglio portare alla luce questa guerra di istinti che, ad ogni modo, lo stato e la società sono riusciti a camuffare tramite sistemi di repressione, ma non ad annientare. La strada verso la pace, dunque, sembra non trovarsi nella società, destinata a barcamenarsi fra desiderio di pace e contingenze di guerra. Essa potrebbe allora, forse, avere origine all’interno dell’uomo, che può raggiungerla seguendo la via della legge morale. E’ proprio da lì, per Emerson, che si deve partire per riformare la società. Abbiamo visto come egli fosse sospettoso nei confronti dei movimenti pacifisti che si affidavano a mezzi di propaganda invece di puntare alla riforma interiore, e come non credesse in una politica che si era allontanata dall’etica. Per Emerson la pace viene difatti insegnata dal sentimento morale (“The moral sentiment teaches a great peace” (Prch 10.225 9)), e in “Self-Reliance” afferma: ”Nothing can bring you peace but yourself. Nothing can bring you peace but the triumph of principles” (SR 2.90 3). L’uomo deve cercare la pace in se stesso, perché il mondo esterno, immerso nella lotta e nel conflitto, è incapace di raggiungerla: I thought that every time a man goes back to his own thoughts, these angels receive him, talk with him, and that, in the best hours, he is uplifted in virtue of this essence, into a peace and into a power which the material world cannot give...” (FSLC 11.189 7). Ed è a questo punto che il pensiero di Emerson abbandona la strada segnata da Foucault e si incammina, invece, sul sentiero che in seguito sarebbe stato tracciato da Gandhi. 198 CAPITOLO SESTO EMERSON VERSO GANDHI La forza bruta è stato il fattore dominante nel mondo per migliaia di anni, e per tutto quel tempo l’umanità ha mietuto il suo raccolto amaro; cosa che è comprensibile a tutti. C’è poca speranza che in futuro ne derivi qualcosa di buono. Soltanto se la luce può venire fuori dalle tenebre, l’amore può, allora, emergere dall’odio.510 6.1: La Forza della Pace Dopo aver tracciato un parallelismo tra Emerson e Foucault può sembrare piuttosto strano occuparci di un confronto tra Emerson e Gandhi; eppure anche tra loro vi sono elementi comuni che, come vedremo, più che entrare in contraddizione con il raffronto precedente, sono ad esso complementari. Come abbiamo ormai ampiamente constatato Emerson non presenta un pensiero limpido e lineare, e proprio le varie sfumature che si colgono all’interno di esso fanno intraprendere alle sue idee strade diverse che portano a mete piuttosto inaspettate. Dopo aver indagato il pensiero di guerra, una guerra totale, che non dà pace né alla società né all’individuo che ne fa parte, rivolgiamo l’attenzione ad un altro aspetto del pensiero di Emerson, un lato che si prospetta affatto convenzionale prima di tutto da un punto di vista storico. Emerson, difatti, come già abbiamo visto, non si mostrò in linea con i vari pensieri pacifisti che si svilupparono nel suo stesso periodo in America, e pur avendo somiglianze sporadiche con alcuni di essi, si distinse per la sua originalità. Alcuni aspetti del suo pensiero, nonostante furono offuscati in seguito dalla decisione controversa di appoggiare la guerra civile, sono sopravvissuti alle scelte del suo autore e sembrano aver avuto influenza, anche se non sappiamo in quale misura, su Gandhi. Se si mettono a raffronto alcuni passi di 510 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, Gandhi Edizioni, Bologna, 2005, p. 171. 199 Gandhi e di Emerson, è impossibile difatti non notare una forte somiglianza e, in alcuni punti, essi sembrano completarsi a vicenda. Negli scritti di Emerson i passi più vicini a Gandhi sono rintracciabili principalmente in “War”, “Heroism”, e “Self Reliance”, scritti che ricoprono, orientativamente, gli anni dal 1838 al 1841.511 Non a caso, probabilmente, proprio nel periodo intorno al 1838 Emerson si interessò al dibattito pacifista in atto negli Stati Uniti e alle varie questioni ad esso correlate, come la disobbedienza civile, la resistenza passiva e i suoi possibili limiti, i metodi da utilizzare per promuovere la dottrina pacifista tra i cittadini e tra le nazioni. Il fermento di quegli anni e l’esperienza americana degli anni precedenti, afferente agli episodi di rivolta delle colonie verso la madrepatria – che portò alla nascita degli Stati Uniti - influenzò effettivamente il Mahatma. Tradizionalmente si pensa infatti a Tolstoj e a Thoureau – quest’ultimo amico e contemporaneo di Emerson - come i massimi ispiratori della prassi nonviolenta di Gandhi, ma Gene Sharp ha opportunamente notato come Gandhi fu stimolato anche da eventi storici;512 tra essi, oltre alle lotte popolari nonviolente sviluppatesi nel biennio 1905-06 in Cina, in Bengala e in Russia, viene annoverata anche la guerra d’indipendenza americana. Nell’elaborazione del satyagaha, termine tradotto con “resistenza nonviolenta”, è evidente difatti anche l’influenza della tradizione sociale e politica della cultura anglosassone: “la disobbedienza civile, il non pagare le tasse, il boicottaggio delle merci come forma di non collaborazione erano pratiche che Gandhi utilizzò ispirandosi all’azione delle colonie americane nei confronti della madrepatria”.513 Un problema di ordine linguistico, ovvero la traduzione di satyagraha con “resistenza passiva”, termine con cui era stato originariamente chiamato in occidente il metodo nonviolento, fu tra le principali preoccupazioni del suo fondatore. La traduzione con cui esso 511 “War” è frutto di una conferenza tenuta nel 1838, mentre “Self-Reliance” ed “Heroism” fanno parte della raccolta di saggi Essays - First Series del 1841. 512 G. Sharp, Gandhi as a Political Strategist, Porter Sargent, Boston, 1979, p. 26. 513 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., intr. di R. Altieri, pp. IX - X. 200 veniva conosciuto al di fuori dell’India causò fin dall’inizio problemi di ordine ben superiore a quello linguistico a Gandhi il quale, preoccupato per il grave fraintendimento che esso poteva provocare e aveva già provocato, si preoccupò di dare un nome corretto e adeguato alla sua modalità di azione nonviolenta. La questione era di vitale importanza, quindi per poter scegliere il nome migliore fu indetto un vero e proprio “concorso” tra i seguaci del movimento nonviolento, concorso dal quale uscì il termine satyagraha. Gandhi racconta: Shri Maganlal Gandhi suggerì la parola sadagraha, che significa “fermezza in una buona causa”. La parola mi piacque, ma non rappresentava completamente l’intera idea che desideravo che connotasse. Così la corressi in satyagraha. La verità (satya) implica l’amore, e la fermezza (agraha) genera, e quindi funge da sinonimo, di “forza”. Così iniziai a chiamare il movimento indiano satyagraha, vale a dire, la Forza che nasce dalla Verità e dall’Amore o Nonviolenza, e smisi di usare l’espressione “resistenza passiva”.514 Il termine “resistenza passiva”, difatti, che era stato originariamente assegnato al movimento di protesta indiano, aveva generato negli occidentali l’errata convinzione che il movimento fosse connotato dalla passività e dalla mancanza di azione: Quando durante un congresso di europei mi resi conto che l’espressione “resistenza passiva” era tanto modesta da dare adito alla supposizione che si trattasse dell’arma del debole, che poteva essere stigmatizzata dall’odio e alla fine esprimersi con la violenza, dovetti chiarire tutti questi dubbi spiegando la vera natura del movimento indiano.515 Per Gandhi - ma anche per la nostra riflessione - è di vitale importanza distinguere il termine “resistenza passiva” dal termine “nonviolenza”.516 Apparentemente simili, i due concetti sono radicalmente diversi e sono alla base della differenza che intercorre tra un pacifismo inteso negativamente, come atteggiamento destinato a sopportare passivamente le ingiustizie per non 514 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. 103. La nascita ufficiale della nonviolenza moderna risale all’11 settembre 1906, durante l’assemblea che si tenne all’Empire Theatre di Johannesburg, Sud Africa. Rocco Altieri commenta: “Un 11 settembre che va ricordato, quindi, non più solo per il golpe in Cile del 1973 o per l’attentato terroristico alle Torri Gemelle del 2001[...], un anniversario che può fare da contraltare costruttivo alle tragedie di altri 11 settembre e ispirare programmi di riconciliazione, piuttosto che di guerre infinite”. Ivi, p. IX. 515 Gandhi, La mia Vita per la Libertà, Newton, Roma, 2009, p. 240. 516 Come spiega opportunamente Fulvio Cesare Manara, Gandhi fa un uso sicuramente polisemico e complesso della parola “nonviolenza”. Con il termine “non-violence” Gandhi in primo luogo intende la traduzione letterale del termine sanscrito ahimsa, che significa “non recare danno né offesa”. Egli utilizza il termine inglese “nonviolence”, però, in almeno due diverse accezioni: oltre ad usarlo come sinonimo di ahimsa, egli lo usa anche per riferirsi a satyagraha, ossia alla resistenza nonviolenta, alla lotta condotta mediante l’azione diretta nonviolenta. F. C. Manara, Una Forza che dà Vita. Ricominciare con Gandhi in un’età di Terrorismi, Unicopli, Milano, 2006, p. 85. 201 creare ulteriori conflitti, e un pacifismo invece di natura decisamente attiva, che non “resiste” ai soprusi - impressione che trasmette il termine “resistenza” - ma che agisce attivamente. Il messaggio di Gandhi non è quindi in negativo, ossia “no alla violenza”, bensì in positivo, ossia “ci sono alternative migliori”;517 nel corso della sua vita difatti egli divenne sempre più persuaso di poter proporre una valida alternativa alla violenza, ossia la nonviolenza positiva, “la nonviolenza del forte”:518 E così non chiedo che l’India pratichi la non-violenza perché debole. Voglio che pratichi la non-violenza consapevole della propria forza e del proprio potere. Non è richiesto nessun esercizio delle armi per la realizzazione della sua forza. Ci pare di aver bisogno della forza, perché ci sembra di non essere altro che carne.519 Gandhi ribadisce la differenza tra la sua “nonviolenza” e il metodo di “resistenza passiva” in più scritti, e le sue parole non lasciano spazio né a dubbi né ad ambiguità: C’è un’enorme e fondamentale differenza fra resistenza passiva e satyagraha. Se noi stessi continuiamo a credere, e lasciamo che altri credano, che siamo deboli e che per questo offriamo resistenza passiva, la nostra resistenza non ci renderà forti, e alla prima opportunità l’abbandoneremo, quale arma dei deboli. D’altro canto, se noi siamo satyagrahi e opponiamo il satyagraha, ritenendoci forti, da questo derivano due chiare conseguenze. Alimentando l’idea di forza, diventiamo ogni giorno più forti. Con l’accrescersi della nostra forza, anche il nostro satyagraha diventa più efficace, e mai ci dovremo guardare attorno cercando un’opportunità di abbandonarlo. Inoltre, non c’è spazio per l’amore nella resistenza passiva; al contrario, non solo l’odio non ha posto nel satyagraha, ma è una vera infrazione al suo principio guida. Mentre nella resistenza passiva c’è spazio per l’uso delle armi quando giunge l’occasione opportuna, nel satyagraha la forza fisica è proibita, anche nelle circostanze più favorevoli. La resistenza passiva è spesso considerata una preparazione all’uso della forza, mentre il satyagraha non può essere mai usato come tale. La resistenza passiva può essere offerta fianco a fianco con l’uso delle armi. Il satyagraha e la forza bruta, essendo uno la negazione dell’altra, non possono mai stare insieme. [...] Nella resistenza passiva è sempre presente l’idea di molestare l’altra parte, e c’è una contemporanea disponibilità ad affrontare tutti i rigori che ci attiriamo con tale attività, mentre nel satyagraha non c’è l’idea più remota di fare del male all’oppositore. Il satyagraha postula la conquista dell’avversario attraverso la sofferenza della propria persona.520 Il significato che Gandhi dà al termine “non-resistenza”, che egli stesso utilizza, si differenzia enormemente dall’espressione “resistenza passiva”, con la quale viene spesso confuso: 517 Ivi, p. 12. Ibidem. In Italia si è iniziato progressivamente a scrivere il termine “nonviolenza” attaccato, dando l’idea, così, di qualcosa di organico; in più si associa la parola nonviolenza al “metodo nonviolento”. In questo modo, afferma Aldo Capitini, “se ‘nonviolenza’ nella sua espressione negativa è ‘proposito di non distruggere gli esseri, di non offenderli, di non torturarli né sopprimerli’, invece nella sua espressione positiva è ‘apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni essere’”. A. Capitini, Le Tecniche della Nonviolenza, Feltrinelli, Milano, p. 12, cit. ivi, p. 85. 519 Gandhi, Il mio Credo, il mio Pensiero, Newton, Roma, 1995, p. 55. 520 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. 106. 518 202 Il vero significato della non-resistenza è stato spesso travisato o addirittura distorto. Non implica mai che il non violento debba piegarsi alla violenza di un aggressore. Mentre non risponde alla violenza di quest’ultimo con la violenza, egli dovrebbe rifiutarsi di sottostare alle sue pretese illegittime, anche a costo di morire. Questo è il vero significato della nonresistenza.521 Gandhi non professa quindi una nonviolenza che scaturisce semplicemente da una ritrazione, da un astenersi o da un trattenersi. Come sottolinea Roberto Mancini, la negazione della violenza non genera né una controviolenza né il ritiro in una passività rinunciataria, ma una lotta vera e propria.522 Ogni altra interpretazione della non-resistenza è non solo lontana dalle idee di Gandhi, ma genera una condizione contraria a quella da lui auspicata simile invece alla pace “foucaultiana”, per cui si resiste alla violenza accumulando odio, e si arriva poi ad un punto di rottura in cui la guerra, travestita per lungo tempo da falsa pace, viene allo scoperto: Il non violento non deve rispondere alla violenza con la violenza, ma neutralizzarla, trattenendo la propria mano e nello stesso tempo rifiutando di sottostare all’imposizione. Questo, al mondo, è il solo modo civile di procedere. Ogni altra strada non può che condurre a una corsa agli armamenti intervallata da periodi di pace, che sopravvengono di necessità e sono provocati dallo sfinimento. Ma intanto continuerebbero i preparativi per una violenza di ordine superiore. La pace in vista di una violenza maggiore conduce inevitabilmente alla bomba atomica e a tutto ciò che essa comporta. E’ la più completa negazione della non-violenza e della democrazia, la quale non è possibile senza la prima.523 Al tempo di Gandhi, però, a partire dai suoi seguaci, non tutti capirono il grado di azione, la forza morale e il cambiamento interiore richiesti ai fautori della pace; fu fonte di grande delusione per il Mahatma constatare che il satyagraha, che per lui era molto più di una tattica, fosse invece considerato dai suoi compagni soltanto un metodo utile per il conseguimento di un fine pratico, in quel caso l’indipendenza politica:524 Ho ammesso il mio errore. Pensavo che la nostra lotta fosse basata sulla non violenza, in realtà la nostra era solo resistenza passiva, la quale è in effetti l’arma dei deboli e sfocia inesorabilmente nella resistenza armata ogni 521 Ivi, p. 105. R. Mancini, “Gandhi e i Principi della Nonviolenza”, in A. Pieretti (a cura di), La Filosofia della Nonviolenza, Maestri e Percorsi nel pensiero Moderno e Contemporaneo, Cittadella Editrice, Assisi, 2006, p. 54. 523 Gandhi, Il mio Credo, il mio Pensiero, cit., p. 164. 524 Gandhi, Per la Pace, a cura di T. Merton, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 19. 522 203 volta che sia possibile (II-276). [...] Ogni giorno paghiamo un prezzo molto alto per l’inconsapevole errore che commettemmo prendendo la resistenza passiva per resistenza non violenta (II-325).525 Lo stesso “equivoco” si era già verificato nel pacifismo americano di metà Ottocento, quando per gran parte dei suoi seguaci il metodo della non-resistenza era stato concepito non come uno stile di vita, piuttosto come una semplice tattica per raggiungere un determinato scopo.526 William Garrison ad esempio, fondatore nel 1838 della New England Non-Resistant Society, pur essendo fortemente convinto che il principio della non-resistenza potesse essere attuato sia dagli individui che dalle nazioni, sembrava essere altrettanto sicuro del fatto che la non-resistenza, “armata direttamente da Dio”, fosse il metodo più sicuro per l’individuo e lo avrebbe portato certamente al conseguimento dei suoi obiettivi. Nella “Declaration of Sentiments” si legge: “We cordially adopt the non-resistance principle; being confident that it provides for all possible consequences, will ensure all things needful to us, is armed with omnipotent power, and must ultimately triumph over every assailing force”.527 Fu proprio questa sicurezza riposta nella resistenza come metodo infallibile a far abbandonare in seguito la strada intrapresa per appoggiare invece la guerra civile, considerata un metodo più efficace per abbattere la schiavitù. L’unico, in quegli anni, ad articolare una più complessa trattazione della nonresistenza che lo pone in una posizione differente rispetto agli attivisti suoi contemporanei, fu Adin Ballou. Per lui la non-resistenza non garantiva il successo della causa e se necessario doveva essere praticata fino alle sue estreme conseguenze, ovvero fino alla perdita la vita: “I don’t undertake to prove that the practice of non-resistance will always preserve the life and personal security of its adherents, but only that it generally will, think to Jesus and martyrs! This implies that we don’t have to fear death”.528 Per Ballou, quindi, il sacrificio 525 Ivi, pp. 109-110. I rimandi tra parentesi fanno riferimento ai due volumi dal titolo Nonviolence in Peace and War pubblicati dalla Navajivan Publishing House, Ahmedabad, 1948. 526 S. and A. Lynd, Nonviolence in America: A Documentary History, cit., p. XIII. 527 W. L. Garrison, “Declaration of Sentiments”, ivi, p. 28. 528 A. Ballou, “Christian non-Resistance”, ivi, p. 40. 204 della propria vita era probabile e addirittura essenziale quando poteva evitare la morte di altre persone; da questo punto di vista fu colui che più si sarebbe avvicinato a Gandhi, che a proposito di ciò afferma: “La nonviolenza di per sé non evita sacrifici, durezze, sofferenze, ferite o anche la morte”.529 Inaspettatamente, il pensiero più simile a quello di Gandhi tra le varie posizioni assunte dai pacifisti americani di primo Ottocento è proprio quello di Emerson, che non si proclamò mai tale e che non si rispecchiò mai totalmente in nessuna delle visioni sostenute dai militanti pacifisti. Riprendendo un’espressione di Ziegler, il pacifista americano dovette scegliere se puntare ad essere un “exultant victor” oppure un “exemplary martyr”,530 e quasi la totalità scelse la prima soluzione. Il problema di fondo, come suggerisce Brock, era - e sarebbe stato anche in futuro - scegliere la strada da percorrere per il superamento del male, una strada che presentava un bivio cruciale tra la via della violenza e quella del sacrificio.531 Emerson, pur non diventando un martire in prima persona, propose un profilo del seguace della pace innovativo e simile a quello proposto da Gandhi, esigendo per la causa della pace uomini disposti sia a rinunciare in primo luogo alla violenza, sia a sacrificarsi poi. Pur apprezzando la guerra in molti suoi aspetti, nei suoi scritti non troviamo difatti elogi per l’uso della violenza, che viene invece disprezzata: “All violence...is not power but the absence of power” (Chr2 10.92 14). Questo non gli impedì di ammirare nell’uomo un atteggiamento “guerriero” che lo portasse, tramite una continua lotta, al raggiungimento dei suoi obiettivi. Similmente per Gandhi, rinunciare alla violenza è cosa ben diversa dal rinunciare a lottare. Gandhi, come anche Emerson, - seppure con motivazioni più articolate riesce a scindere la violenza dalla guerra, rifiutandone il carattere violento e apprezzandone invece le virtù positive e l’impianto strategico: il seguace della pace è concepito come un vero 529 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. XVII. V. Ziegler, The Advocates of Peace, cit., p. 65. 531 “[...] The problem was: how is the evil that is in the world to be overcome? By violence, or sacrifice?” P. Brock, Pacifism in the United States, cit., p. 541. 530 205 e proprio guerriero che, pur rifiutandosi di operare il male sui suoi oppositori, rimane per molti aspetti un vero e proprio combattente. In riferimento a Una Guerra senza Violenza, traduzione italiana di Satyagraha in Sudafrica, scritto di Gandhi in cui vengono illustrate le strategie della lotta nonviolenta, Altieri afferma che il libro può essere considerato “come il prosieguo dell’opera di Clausewitz in chiave nonviolenta”:532 Si tratta infatti di un trattato di “grande strategia” dove vengono teorizzati e verificati i principi di ogni azione, i rapporti tra mezzi e fini, tra scelte tattiche e strategie generali. Come ha osservato per primo M. Q. Sibley533 la prassi gandhiana del satyagraha realizzò in pieno quelli che sono i principi essenziali della strategia militare disegnata da Clausewitz e così riassumibili: massima informazione, costante mobilità, mantenere sempre l’iniziativa, economia delle forze e importanza di concentrare le forze in un punto decisivo, individuazione di questo punto, superiorità del fattore morale rispetto alle semplici risorse materiali, appropriata relazione tra attacco e difesa, tenacia e pervadente volontà di vittoria finale. Come in guerra, la battaglia del satyagraha ha bisogno di combattenti addestrati, dotati di grande spirito di dedizione alla comunità e, quindi, capaci di sacrificio, resistenza, organizzazione e disciplina, qualità senza le quali non si può vincere. Gandhi fu in grado di costruire in Sudafrica un vero e proprio esercito nonviolento.534 Il titolo scelto per l’edizione italiana di Satyagraha in Sudafrica - Una Guerra senza Violenza - è un ossimoro che riecheggia il titolo inglese di uno dei primi studi scientifici sul metodo nonviolento: War without Violence di Krishnalal Shridharani,535 un’opera che per prima, diversamente dalla visione corrente, non enfatizzò tanto le qualità spirituali del Mahatma quanto quelle più “tecniche”, presentando un Gandhi inedito, condottiero e stratega di una 532 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. XII. Gandhi iniziò a scrivere Satyagraha in South Africa nel 1923, il libro fu pubblicato inizialmente nel 1928 e poi nel 1950. Ivi, p. VII. 533 M. Q. Sibley, The Quiet Battle, Bharatiya Vidya Bhavan, Bombay, 1965, pp. 74-75. 534 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. XII. 535 K. J. Shridharani, War without Violence. A Study of Gandhi’s Method and its Accomplishments, Brace and Company, New York, 1939. 206 vera e propria guerra portata avanti mobilitando un esercito senza armi. A questa guerra senza violenza Gandhi attribuì appunto il nome di Satyagraha e fece appello, nella lotta, all’arma più efficace ed invincibile che gli uomini abbiano mai sperimentata: la ahimsa, ossia la forza della verità, detta anche “forza dell’anima”, “forza dell’amore” o, ancora, “forza della nonviolenza”;536 non a caso egli si riferisce ad ahimsa, letteralmente “non-offesa”, “rinuncia alla volontà di ferire”, non solo come ad una forza potente, ma come ad una vera e propria “arma” da utilizzare nella “lotta” nonviolenta.537 Gandhi considera quindi la sua lotta una guerra in piena regola, ed esalta in continuazione le qualità guerriere dei satyagrahi: il coraggio, lo spirito di sacrificio, la dedizione, la disciplina. Questa dinamica di assalto spiega ulteriormente perché Gandhi non apprezzasse il termine “resistenza passiva”: la nonviolenza ha bisogno di una sua aggressività che deve essere esercitata come forma di pressione e persino di coercizione, seppure morale, in un modo estremamente creativo ed imprevedibile, mostrando quell’elemento di sorpresa che costituisce, secondo Clausewitz, il fattore decisivo per la vittoria.538 Non rifiutando in blocco la guerra, Gandhi apprezza quindi le qualità positive che l’uomo dovrebbe mantenere anche operando per la pace: “La guerra è un male che niente può mitigare. Ma una cosa buona la fa. Scaccia la paura e fa emergere il coraggio”.539 Al pari di Emerson neanche lui sembra disposto rinunciare alla virilità dell’uomo in nome della pace: “Rischierei piuttosto mille volte la violenza che la svirilizzazione di un’intera razza”.540 Analogamente a William James e a Kenneth Burke dunque, sia Emerson che Gandhi propongono in maniera simile tra di loro di “depurare” le qualità della guerra e di convogliarle 536 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. IX. G. Mariani, “Ad Bellum Purificandum”, cit., p. 108. 538 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. XIV. 539 Gandhi, Per La Pace, cit., I-270, p. 64. 540 Gandhi, Il mio Credo, il mio Pensiero, cit., p. 160. 537 207 nella causa della pace.541 Come già sappiamo Emerson aveva espresso chiaramente questo concetto: “The manhood that has been in wax must be transferred to the cause of peace, before war can lose its charm, and peace be venerable to men”(War 11.171 12). Qualche anno dopo anche Richard Gregg nel suo libro The Power of Nonviolence542 ha espresso l’idea di utilizzare l’azione diretta nonviolenta come forma “bellica”, definendola uno “jiu-jitsu morale” che crea insicurezza nell’avversario e lo sbilancia rispetto a se stesso, fungendo così, di fatto, da sostituto per la guerra.543 Secondo Gregg chi adotta la resistenza nonviolenta combatte la sua lotta con le stesse virtù di chi lo fa con la violenza, con la differenza sostanziale di non volere l’annientamento dell’avversario, cosa che Clausewitz, invece, afferma chiaramente: Gli animi filantropici possono facilmente pensare che ci sia un modo perfezionato di disarmare ed abbattere il nemico senza causargli troppe ferite. [...] Per quanto ciò faccia un bell’effetto, bisogna distruggere questo errore, perché in cose rischiose come la guerra, gli errori che provengono dal buon cuore sono proprio i peggiori.544 Secondo Gregg, in particolar modo, la resistenza nonviolenta riconosce e condivide un principio essenziale della strategia militare dal punto di vista cognitivo, “un principio implicito secondo cui il conflitto è una dimensione inevitabile della vita e la lotta è un aspetto del vero significato dell’esistenza”.545 Mi ritrovo soltanto in parte d’accordo con le affermazioni di Gregg, in quanto mi pare vengano tralasciati alcuni punti fondamentali che differenziano il metodo nonviolento di Gandhi da quello violento, elementi rintracciabili, tra l’altro, anche in Emerson. In primo luogo, neanche Gandhi nega la condizione di lotta in cui è immerso l’uomo, ma è altrettanto convinto che l’umanità può uscirne praticando con costanza la nonviolenza. Gandhi riconosce indubbiamente che l’uomo nasce nella violenza, una dimensione che, socialmente parlando, è 541 Mi riferisco, ovviamente, a W. James, “The Moral equivalent of War”, e a K. Burke, A Grammar of Motives, il cui motto, come ci ricorda G. Mariani nel suo articolo – a cui rimando per una trattazione più estesa - é “ad bellum prificandum”. G. Mariani, “Ad Bellum Purificandum”, cit., p. 104. 542 R. Gregg, The Power of Non-Violence, Lippincott, Philadelphia, 1935. 543 F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 302. 544 R. V. Clausewitz, Pensieri sulla Guerra, I Meridiani, 1943, p. 6. 545 R. Gregg, The Power of Non-Violence, cit., p. 117, in F. C. Manara, Una forza che dà Vita, cit., p. 305. 208 inevitabile. Pur se con un duro lavoro interiore l’uomo riesce però a liberarsi di questo istinto primordiale e, soprattutto, diventa consapevole della necessità del sacrificio personale per far sì che i suoi atti non ricadano su tutta la comunità: agendo violentemente, egli non reca danno soltanto a se stesso; per questo deve convertire le reazioni violente, in una certa misura istintive e comprensibili, in un estremo atto d’amore nei confronti degli altri: Quella della non violenza é una teoria complessa: noi siamo esseri mortali indifesi, coinvolti nella violenza (himsa). Il detto “la vita vive della vita” ha un profondo significato, l’uomo non può vivere nemmeno un momento senza commettere violenze a livello conscio o inconscio. Il fatto stesso che egli é vivo - che mangia, beve e si muove - implica necessariamente l’himsa, ovvero una sia pur minima distruzione di vita; perciò chi é votato alla nonviolenza tiene fede al suo credo se la molla che ispira tutte le sue azioni é la pietà, se fa di tutto per evitare la distruzione anche della creatura più minuscola, se si adopera per salvarla e così senza sosta combatte per sfuggire alla mortale spirale della violenza. [...] Inoltre, poiché la base dell’ahimsa è l’armonia della vita, l’errore del singolo coinvolge tutti e per questo l’uomo non può liberarsi dalla violenza. Fintanto che egli sarà un essere sociale non potrà evitare la violenza che la stessa vita sociale implica. (La mia Vita per la Libertà, p. 261) Gandhi era sì un persuaso della nonviolenza, ma a questa persuasione giunse, come egli stesso racconta, dopo una lotta con se stesso, attraverso un lungo processo auto-educativo fatto di continui esperimenti con la verità.546 La nonviolenza per Gandhi non era affatto un’evasione sentimentale o una negazione della realtà del male, ma era invece, al contrario, “la lungimirante accettazione della necessità di usare la forza e la presenza del male come il fulcro del bene e della liberazione”:547 Non sono un visionario. Mi dichiaro un idealista pratico. La religione della non-violenza non si rivolge solo ai rishis e ai santi. E’ fatta anche per la gente comune. La non-violenza è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge delle creature brute. Lo spirito giace sopito nel bruto che non conosce altra legge che quella della forza fisica. La dignità dell’uomo richiede obbedienza a una legge più alta, alla forza dello spirito. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 51) Come in Gandhi, anche in Emerson l’atto del sacrificio di sé per una causa superiore è un “difficile sentiero”, come tale é percorribile gradualmente e si arriva alla meta soltanto dopo un cammino interiore. Il rifiuto della violenza, passo fondamentale, è soltanto il primo verso un’elevazione spirituale ben più difficile, ma non impossibile, da raggiungere: 546 F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 10. Il titolo originale dell’autobiografia di Gandhi, che in italiano è stata tradotta La mia Vita per la Libertà, è in realtà An Authobiography or the Story of my Experiments with Truth. 547 Gandhi, Per La Pace, cit., p. 28. 209 At a certain stage of his progress, the man fights, if he be of a sound body and mind. At a certain higher stage, he makes no offensive demonstration, but is alert to repel injury, and of an unconquerable heart. At a still higher stage, he comes into the region of holiness; passion has passed away from him; his warlike nature is all converted into an active medicinal principle; he sacrifices himself, and accepts with alacrity wearisome tasks of denial and charity; but, being attacked, he bears it, and turns the other cheek, as one engaged, throughout his being, no longer to the service of an individual, but to the common soul of all men. (War 11.171 20) Questo passo sembra davvero precorrere la dottrina della nonviolenza: dalla lotta, condizione naturale dell’essere umano, l’uomo prima tenta di non agire violentemente ma è pronto a difendersi; solo successivamente egli è disposto a sacrificarsi, e rinuncia all’orgoglio personale per agire in nome e per il bene della comunità. Appare chiaro che, contrariamente a quanto afferma Gregg, per esercitare la nonviolenza non basta soltanto rinunciare alla violenza, ma occorre possedere molte altre virtù senza le quali il seguace della nonviolenza, pur distinguendosi dal violento, cadrebbe in una categoria intermedia – secondo Emerson e Gandhi la peggiore – composta da coloro che non esercitano la violenza ma neanche la nonviolenza, rimanendo, di fatto, inermi di fronte al male. Mancini elenca le numerose qualità per le quali un seguace della non-violenza dovrebbe distinguersi: Tra l’energia dell’amore nonviolento e la violenza sussiste una differenza qualitativa irriducibile. Non si tratta affatto di una stessa potenza, solo diversamente orientata o al bene o al male, o alla creazione o alla distruzione. Le due energie sono ontologicamente differenti ed eterogenee. La violenza é impulso accecato, affettivamente ed eticamente stupido, una forza grossolana e sterile che sfocia sempre e solo in distruzione e moltiplicazione di sofferenze. La nonviolenza richiede invece libertà, apertura alla relazione con l’amore, fiducia e affidamento, intelligenza e discernimento, percezione della dignità umana e di tutto ciò che vale, passione e generosità, coraggio e creatività, immaginazione e fecondità, tenacia e resistenza, capacità di speranza e persino umorismo.548 Il vero guerriero della pace si distingue nettamente dal violento. E’ essenziale innanzitutto che egli possieda il coraggio nella sua forma più alta, virtù a cui né Emerson né Gandhi intendono rinunciare. L’uomo necessita prima di tutto di grande coraggio per abbandonare l’aggressività e agire pacificamente di fronte alla violenza; egli deve conformare i suoi pensieri e le sue azioni alla legge della forza dello spirito e non alla legge della forza fisica. 548 R. Mancini, “Gandhi e i Principi della Nonviolenza”, cit., p. 55. 210 Come abbiamo già visto in Emerson, anche Gandhi utilizza molto il termine “forza” inteso in senso spirituale, una forza che ci consente di perseguire la pace. L’idea secondo cui la forza appartiene alla sfera della guerra, mentre chi vuole essere pacifico deve subire l’attacco dell’aggressore praticando la virtù della sottomissione, viene totalmente ribaltata. L’uomo pacifico deve agire attivamente e deve farlo nel modo più difficile, trasformando le ingiurie in forza interiore. Gandhi ribadisce continuamente la grande forza “attiva” e “diretta” che la nonviolenza richiede: Senza un’espressione attiva e diretta, la nonviolenza, secondo me, è del tutto priva di significato. [...] La non violenza è la più grande e la più attiva forza che ci sia al mondo. Non si può essere passivamente non violenti. (I-113, Per la Pace, pp. 62-72) Non-violenza, nella sua condizione dinamica, significa sopportazione consapevole. Non significa docile resa alla volontà del malfattore, ma opposizione di tutta la propria anima alla volontà del tiranno. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 142) Secondo la mia opinione, la non-violenza non é passività, né in alcun modo la genera. La non-violenza, come la intendo io, è la più attiva forza del mondo. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 149) In uno dei passi più cruciali che lo avvicinano a Gandhi e alla sua preoccupazione per una possibile interpretazione “passiva” del suo pensiero, Emerson ribadisce l’indole attiva che l’uomo pacifico imprescindibilmente deve possedere: In reply to this charge of absurdity on the extreme peace doctrine, as shown in the supposed consequences, I wish to say, that such deductions consider only one half of the fact. They look only at the passive side of the friend of peace, only at his passivity; they quite omit to consider his activity. But no man, it may be presumed, ever embraced the cause of peace and philanthropy, for the sole end and satisfaction of being plundered and slain. A man does not come the length of the spirit of martyrdom, without some active purpose, some equal motive, some flaming love. (War 11.178. 26) La passività, quindi l’inazione, è del tutto lontana dalla nonviolenza come per Emerson, anche per Gandhi: ”La dottrina che ha guidato la mia vita non è sostenuta dall’inazione, ma dalla più alta azione” (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 135). Ma soprattutto, cosa ancor più grave, l’inazione, causata dalla paura, è il peccato più grande di cui ci si possa macchiare, un peccato anche più grande della violenza. Su questo punto sia Emerson che Gandhi non hanno alcun dubbio, e preferiscono di gran lunga la violenza - di per sé deprecabile - all’inazione, e deplorano i codardi che si mascherano da pacifisti per coprire la loro incapacità di agire. Sia 211 Emerson prima, che Gandhi poi, affermano con forza che non vi è alcuna parentela tra codardia e nonviolenza, e colui che è in preda alla paura non solo non potrà mai essere nonviolento, ma è sicuramente inferiore al violento, che a suo modo lotta per la sua causa. La paura è senza dubbio il difetto peggiore che non merita rispetto anche perché impedisce ad un uomo di esercitare la moralità, che per Gandhi è sinonimo di empatia e compassione:549 “L’assenza di paura è il primo requisito della spiritualità. I codardi non possono mai essere morali” (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 84). Anche Emerson pone come condizione imprescindibile la moralità, senza la quale un uomo non può servire la causa della pace: Inaction is cowardice... (AmS 1.94 25) Nor, in the next place, is the peace principle to be carried into effect by fear. It can never be defended, it can never be executed, by cowards. [...] The cause of peace is not the cause of cowardice. If peace is sought to be defended or preserved for the safety of the luxurious and the timid, it is a sham, and the peace will be base. War is better, and the peace will be broken. If peace is to be maintained, it must be by brave men, who have come up to the same height as the hero, namely, the will to carry their life in their hand, and stake it at any instant for their principle, but who have gone one step beyond the hero, and will not seek another man's life; men who have, by their intellectual insight, or else by their moral elevation, attained such a perception of their own intrinsic worth, that they do not think property or their own body a sufficient good to be saved by such dereliction of principle as treating a man like a sheep. (War 11.177. 29) Gandhi su questo punto, come evidenzia anche Mariani,550 è in totale accordo con Emerson: La non violenza non è una maschera per i vigliacchi, ma la suprema virtù dei coraggiosi. La vigliaccheria è totalmente incompatibile con la non violenza. La non violenza presuppone la capacità di colpire l’avversario. (Per la pace, I-59) Chi non può proteggere se stesso o coloro che gli sono più vicini e più cari o il loro onore affrontando la morte in maniera non violenta potrebbe e dovrebbe farlo affrontando in maniera violenta l’oppressore. Chi non può fare né l’una né l’altra cosa è di peso. (Per la pace, I-77, p. 62) Il pacifismo dell’immobilismo e dell’impotenza viene condannato senza appello, e Gandhi afferma senza esitazione di preferire ad esso la violenza: E’ meglio essere violenti, se c’è la violenza nel nostro cuore, piuttosto che indossare la maschera della non violenza per coprire la propria impotenza. La violenza è sempre preferibile all’impotenza. Per un uomo violento 549 F. C.Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 10. Mariani, in riferimento a questo passo e in relazione a Gandhi sottolinea: “Emerson makes a distinction between a ‘base’ form of pacifism that borders on cowardice and a truly ‘heroic’ nonviolence that can be practiced only by those courageous enough ‘to carry their life in their hand’. Similarly, Gandhi draws a clear distinction between the ‘nonviolence of the weak’ - the nonviolence of those who are afraid to be violent- and ‘the active non-violent resistance of the strong’ - the behaviour of those who have come to understand that ‘nonviolence’ is the mightiest force in the world”. G. Mariani, “Ad Bellum Purificandum”, cit., p. 107. 550 212 c’è sempre la speranza che diventi non violento. Per l’impotente questa speranza non c’è. (Per la pace, I-240, p. 63) La mia nonviolenza non ammette di scappare dal pericolo e lasciare i propri cari senza protezione. Tra la violenza e la fuga vigliacca, non posso che preferire la violenza. [...] La non-violenza è il massimo del coraggio. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 140) Non c’è dubbio che la strada nonviolenta sia sempre la migliore, ma dove essa non venga naturale, i mezzi violenti diventano necessari e anche onorevoli. L’inazione a questo punto sarebbe il colmo della vigliaccheria e della pavidità. Occorre fuggirla ad ogni costo. (Per la Pace, I-402, p. 66) La nonviolenza non è un paravento per la codardia, ma è la suprema virtù del coraggioso. L’esercizio della nonviolenza richiede un coraggio di gran lunga superiore a quello dello spadaccino. La viltà è del tutto incompatibile con la non-violenza. (Ibidem) Solo la nostra debolezza ci trattiene dalla violenza. Quello che occorre è una deliberata rinuncia alla violenza attraverso la forza. Esserne capaci richiede immaginazione abbinata a una scrupolosa valutazione delle tendenze del mondo. (ibidem) Il coraggio è quindi una delle principali virtù richieste sia da Gandhi che da Emerson per praticare, prima della pace, anche la moralità. Si parla qui di un coraggio che non deriva dall’esercizio della forza fisica, un coraggio spesso meno evidente e meno conosciuto. Il coraggio del nonviolento è difatti silenzioso e non eclatante, non si mostra in azioni aggressive piuttosto nella sopportazione delle sofferenze che si è deciso di sostenere; esso risiede nella libertà interiore che si è acquisita e nella forza spirituale che si sa di possedere. Emerson a proposito afferma: Courage...consists in the conviction that the agents with whom you contend are not superior in strength of resources or spirit to you. (Cour 7.264 19) Great men are they who see that spiritual is stronger than any material force... (PC 8.229 4) Liberty is the Crusade of all brave and conscientious men... (FSLN 11.244 3) Gandhi esprime idee molto simili: Nella nonviolenza il coraggio consiste nel morire, non nell’uccidere (Per la Pace, I-265, p. 51). In questo paese di autorepressione e timidezza, quasi al limite della codardia, non riusciamo ad avere troppo coraggio, troppa abnegazione..io voglio..il coraggio superiore dei miti, dei gentili e dei nonviolenti, il coraggio di venire al dunque senza ferire o senza nutrire alcun pensiero di offesa per nessun’anima. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 86) Morire senza uccidere richiede più eroismo [che morire nell’atto di uccidere]. Non c’è nulla di realmente meraviglioso nell’essere uccisi mentre si uccide. Ma chi offra il collo al nemico per l’esecuzione, rifiutando di piegarsi alla sua volontà, mostra un coraggio di tipo assai più elevato. (Ivi, p. 165) 213 Detto ciò, anche la concezione che sia Emerson che Gandhi hanno dell’eroe non può essere quella di colui che acquisisce fama arrecando morte e sofferenza; l’idea di eroismo, come quella di coraggio, fa piuttosto riferimento al lavoro interiore a cui l’individuo si sottopone per liberarsi - non senza sofferenza - dall’odio e dalla violenza, riuscendo a conquistare una nuova forza spirituale. Nel saggio “Heroism” Emerson propone un tipo di eroismo lontano dal lusso e dalla ricchezza, che si raggiunge invece con una vita di sacrificio e con il disprezzo degli agi. Emerson rappresenta il suo ideale di eroe come colui che ha raggiunto la sicurezza interiore, che è in grado di fronteggiare le avversità senza farsi intimorire; “eroe” è colui che, in definitiva, non ha sconfitto nemici esterni, ma ha vinto la sua guerra annullando gli spettri che dimoravano dentro di lui: The hero is a mind of such balance that no disturbances can shake his will, but pleasantly, and, as it were, merrily, he advances to his own music, alike in frightful alarms and in the tipsy mirth of universal dissoluteness. [...] Self-trust is the essence of heroism. It is the state of the soul at war, and its ultimate objects are the last defiance of falsehood and wrong, and the power to bear all that can be inflicted by evil agents. It speaks the truth, and it is just, generous, hospitable, temperate, scornful of petty calculations, and scornful of being scorned. It persists; it is of an undaunted boldness, and of a fortitude not to be wearied out. Its jest is the littleness of common life. That false prudence which dotes on health and wealth is the butt and merriment of heroism. Heroism, like Plotinus, is almost ashamed of its body. What shall it say, then, to the sugar-plums and cats'cradles, to the toilet, compliments, quarrels, cards, and custard, which rack the wit of all society. (Hsm1. 2.252 2) “Eroe” per Emerson è colui che persevera nelle sue convinzioni e porta avanti la sua causa senza compromessi: The characteristic of heroism is its persistency. [...] But when you have chosen your part, abide by it, and do not weakly try to reconcile yourself with the world. The heroic cannot be the common, nor the common the heroic. [...] Adhere to your own act, and congratulate yourself if you have done something strange and extravagant, and broken the monotony of a decorous age (Hsm1 2.250 11). But another age comes, a truer religion and ethics open, and a man puts himself under the dominion of principles. I see him to be the servant of truth, of love, and of freedom, and immoveable in the waves of the crowd. The man of principle, that is, the man who, without any flourish of trumpets, titles of lordship, or train of guards, without any notice of his action abroad, expecting none, takes in solitude the right step uniformly, on his private choice, and disdaining consequences, does not yield, in my imagination, to any man. He is willing to be hanged at his own gate, rather than consent to any compromise of his freedom, or the suppression of his conviction. (War 11.178. 26) Gandhi, similmente ad Emerson, non parla di “eroismo” ma di “sacrificio eroico”, di una lotta attiva contro l’ingiustizia che richiede, prima di tutto, una guerra interiore, una forte 214 opposizione mentale che porti alla conquista non del nemico ma di se stessi:551 “Conquistare le passioni subdole mi pare più difficile che raggiungere la conquista fisica del mondo con la forza delle armi”.552 Avviene quella che Gloria Gazzeri, parlando di Tolstoj, definisce una “nuova rivoluzione copernicana”: Si tratta di un e vero e proprio ribaltamento strategico, di una rivoluzione copernicana, nella lotta contro il male e contro ogni oppressione, anche all’interno della stessa prassi nonviolenta. La direzione dello sforzo viene ruotata a 180 gradi. Non è più per far cambiare gli altri, gli oppressori, che gli oppressi devono lottare, ma per cambiare sé stessi.553 Una volta che si è scelto di non utilizzare la violenza, l’unica strada per percorrere in maniera attiva la via della pace è quella di rivolgere la sofferenza su se stessi. E’ questa la grande rivoluzione che propone Gandhi, una rivoluzione indubbiamente difficile da praticare, ma altrettanto essenziale per distinguere la lotta violenta da quella nonviolenta: Chiedo ai miei conterranei in India di non seguire altro vangelo che quello del sacrificio di sé che precede ogni battaglia. (Il mio credo, il mio pensiero, p. 49) Dovremmo imparare a sfidare il pericolo e la morte, a mortificare la carne e a sopportare ogni genere di privazione. (I-335, Per la Pace, p. 65) Ho una fede incrollabile nel potere del sacrificio di se stessi, della verità e della nonviolenza. (Una Guerra senza Violenza, p. 7) A totale differenza di Clausewitz, per il quale in guerra si deve esigere il sacrificio del proprio avversario,554 la ahimsa, la forza della verità, può essere affermata per Gandhi solo eliminando dal conflitto la violenza e introducendovi l’elemento nuovo della propria sofferenza.555 L’atto dell’auto-sacrificio, portato al suo totale compimento, produce quell’estrema manifestazione di umiltà che corrisponde all’auto-annullamento: So che ho ancora da percorrere davanti a me un difficile sentiero. Devo ridurmi a zero. Fin tanto che un uomo non si ponga di propria libera volontà come ultimo fra le creature sue compagne, non c’è salvezza per lui. Ahimsa è l’estremo limite dell’umiltà. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 33) 551 F. Giovannini, (a cura di), I Generali della Pace, Datanews, Roma, 2003, p. 22. Gandhi, La mia Vita per la Libertà, cit., p. 374. Similmente Emerson aveva affermato: ”Is an armed man the only hero?” (Schr 10.274 8). 553 G. Gazzeri, introduzione a L. N. Tolstoj, Scritti Politici, Sankara, Roma, 2005, p. 11. 554 R. V. Clausewitz, Pensieri sulla Guerra , cit., p. 15. 555 F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 105. 552 215 Per eliminare la violenza appare indispensabile annullarsi e dimenticarsi di se stessi e sconfiggere così l’egoismo che produce violenza perché, come afferma Leopardi, “l’odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell’amore di se stessi”.556 Emerson anche in questo aspetto mostra pensieri simili a quelli di Gandhi: There are...men to whom a crisis...demanding...the readiness of sacrifice, - comes graceful and beloved as a bride. (DSA 1.149 10 ) As soon as sacrifice becomes a duty and necessity to the man, I see no limit to the horizon which opens before me. (SA 8.106 19) The moral sentiment measures itself by sacrifice. (Imtl 8.343 12) Queste affermazioni di Emerson sono spesso offuscate dal lato più conosciuto del suo pensiero, caratterizzato dall’individualismo e dall’auto-affermazione, aspetto indubbiamente molto presente ma non esclusivo: “He [Emerson] speaks, one moment, the martial language of hard power and, in the next moment, the Buddhistic or mystical language of selfnegation”.557 Dietro la sua filosofia del potere sarebbe quindi, in realtà, sottesa anche in Emerson la volontà di annullarsi, un atto ricercato da Emerson probabilmente perché, come sostiene Lopez, invece di generare –come si potrebbe pensare - un indebolimento personale, esso sarebbe fonte di inesauribile potere: “The greatest passivity is the greatest power. Human will is, when dependent on the moral sentiment, only another form of inexhaustible divine power”.558 Attraverso la sopportazione e il sacrificio l’uomo per Emerson non si indebolisce ma, al contrario, acquista forza dalle avversità che sconfigge, acquisendo così altro potere: “Our strength grows out of our weakness” (Comp 2.117 21) e soprattutto ”We gain the strength of the temptation we resist“ (Comp 2.118 20). 556 G. Leopardi, Zibaldone, p. 872, cit. in A. Prete, “Osservazioni leopardiane sulla guerra”, in F. Masini (a cura di), Ideologia della Guerra, Bibliopolis, Napoli, 1987, p. 286. 557 M. Lopez, Emerson and Power, cit., p. 145. In accordo con la dottrina della compensazione di Emerson, non ci sarebbe paradosso tra i due aspetti, bensì una mutua armonia: ”a mutual armony...in a higher third realm where the opposition ceases though neither item is reduced to he other..”; avverrebbe, cioè, quello che Benoit chiama “monistic dualism” o “dualistic monism”. Ivi, p. 149. 558 Ivi, p. 149. 216 Sappiamo quanto la ricerca del potere, in tutte le sue forme, fosse cara a Emerson; essa la ritroviamo ad ogni modo anche in Gandhi, con la differenza, però, che in questo caso si parla, senza ambiguità, di una ricerca di potere spirituale e dell’acquisizione di una forza del tutto morale. Similmente ad Emerson, però, anche per Gandhi l’auto-sofferenza diviene generatrice di potere: ”L’acquisizione dello spirito della resistenza passiva richiede un lungo addestramento per imparare a rinunciare a se stessi e riconoscere le forze nascoste dentro di noi” (I-63, Per la Pace, p. 48). L’ahimsa è senza dubbio “creatrice di forza umana e sociale” che con il suo potere “rigenera la moralità dell’avversario, la sua percezione etica e psicologica del conflitto”.559 La ahimsa difatti, pur non essendo una politica per conquistare potere, è sicuramente “un modo per trasformare i rapporti così da compiere un trasferimento del potere, realizzato da tutti gli interessati, liberamente e senza coercizione, perché tutti sono arrivati a riconoscerne la giustezza”.560 Gandhi, in un‘affermazione dalla terminologia foucaultiana, ma dal sapore completamente diverso, afferma: Per sua stessa natura, la non-violenza non può “prendere” il potere, né può essere questa la sua meta. Ma la non-violenza può fare di più; può controllare effettivamente e guidare il potere senza impadronirsi della macchina di governo. Questa è la sua bellezza. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 152). L’uomo pacifico deve impegnarsi per migliorare la sua comunità, per questo l’ultimo scopo della trasformazione dell’individuo tramite l’adesione al metodo nonviolento deve essere per Gandhi quello di far cambiare la società. Egli ripone fiducia nel singolo con la speranza però che, una volta rafforzato, l’uomo sia poi capace di mettersi a servizio degli altri e influenzarli positivamente: “Il mio ottimismo si fonda sulla fede nelle infinite possibilità dell’individuo di sviluppare la nonviolenza. Più la si sviluppa nel proprio animo, più essa diventa contagiosa fino a espandersi in ciò che ci circonda, e potrebbe inondare in breve tempo il mondo intero (I-190, Per la Pace, p. 51). La nonviolenza, a questo punto, è pronta per uscire dal guscio dell’individuo ed essere “esportata”, per così dire, su scala nazionale e 559 560 M. K. Gandhi, Una Guerra senza Violenza, cit., p. XIV. Gandhi, Per La Pace, cit., p. 47. 217 internazionale, raggiungendo la dimensione sociale a cui è votata: Ritengo che la non-violenza non sia una mera virtù personale. E’ anche una virtù sociale, da coltivarsi al pari delle altre. Di sicuro i rapporti sociali si basano ampiamente sull’espressione della non-violenza. Ciò che chiedo é un’estensione della non-violenza su più ampia scala, nazionale e internazionale. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 150) Emerson esprime idee simili ma pone un accento più forte sulla dimensione privata, che preferisce di gran lunga alla propaganda di massa e ai movimenti associativi: This is not to be carried by public opinion, but by private opinion, by private conviction, by private, dear, and earnest love. For the only hope of this cause is in the increased insight, and it is to be accomplished by the spontaneous teaching, of the cultivated soul, in its secret experience and meditation, that it is now time that it should pass out of the state of beast into the state of man; it is to hear the voice of God, which bids the devils, that have rended and torn him, come out of him, and let him now be clothed and walk forth in his right mind. (War 11.180. 28). Nonostante ciò, anche Emerson spera che i risultati raggiunti dal singolo possano entrare a far parte dell’intera società, affinché si possa finalmente dire che la civiltà ha raggiunto la maturità necessaria per meritare tale nome: If you have a nation of men who have risen to that height of moral cultivation that they will not declare war or carry arms, for they have not so much madness left in their brains, you have a nation of lovers, of benefactors, of true, great, and able, men. Let me know more of that nation; I shall not find them defenceless, with idle hands springing at their sides. I shall find them men of love, honour, and truth; men of an immense industry; men whose influence is felt to the end of the earth; men whose very look and voice carry the sentence of honour and shame; and all forces yield to their energy and persuasion. Whenever we see the doctrine of peace embraced by a nation, we may be assured it will not be one that invites injury; but one, on the contrary, which has a friend in the bottom of the heart of every man, even of the violent and the base; one against which no weapon can prosper; one which is looked upon as the asylum of the human race, and has the tears and the blessings of mankind. (War 11.184. 28) Emerson immagina una nazione dove regna la pace, composta da uomini morali e pacifici, una nazione in cui tutti vorremo vivere. Ma ciò stride con la sua decisione, che appare in contraddizione con tutto ciò che è stato detto di lui in queste pagine, di appoggiare la guerra. Questo sembra renderlo molto diverso da Gandhi, ma in realtà si tratta di un ulteriore elemento di somiglianza, in quanto anche Gandhi fece scelte apparentemente poco coerenti pur sapendo di contraddirsi, e come Emerson non se ne curava molto. Non sappiamo cosa Gandhi lesse di Emerson, ma sicuramente conosceva “Self-Reliance” di cui apprezzò il contenuto, in particolare la concezione del legame tra coerenza e contraddizione. Emerson considera la coerenza un obbligo a cui sono devoti gli sciocchi, perché ognuno dovrebbe agire 218 non in base alle sue azioni passate, ma in base alla sua natura e al suo istinto, anche se questo può significare contraddirsi con ciò che si è detto o fatto in precedenza; seguire il proprio istinto implica, quindi, dover essere a volte incoerenti e conseguentemente venire fraintesi, cosa di cui Emerson non si preoccupa affatto: The other terror that scares us from self-trust is our consistency; a reverence for our past act or word, because the eyes of others have no other data for computing our orbit than our past acts, and we are loath to disappoint them. [...] Suppose you should contradict yourself; What then? [...] If you would be a man, speak what you think today in words as hard as cannon balls, and to-morrow speak what to-morrow thinks in hard words again, though it contradict everything you said to-day. Ah, then, exclaim the aged ladies, you shall be sure to be misunderstood. Misunderstood! It is a right fool’s word. It is so bad then to be misunderstood? Pythagoras was misunderstood, and Socrates, and Jesus, and Luther, and Copernicus, and Galileo, and Newton, and every pure and wise spirit that ever took flesh. To be great is to be misunderstood.561 Inoltre, il rischio di essere fraintesi e di essere ideologicamente ricondotti a più parti politiche non sembra appartenere soltanto ad Emerson, che condivide difatti la sua condizione con Gandhi il quale afferma: “Gli amici che mi conoscono hanno dichiarato che io sono sia moderato che estremista, sia conservatore che radicale. Di qui, forse, la mia buona fortuna di avere degli amici fra questi tipi estremi di uomini”.562 Anche Gandhi è dunque consapevole delle sue incoerenze, e non si trova in difficoltà a citare Emerson e a condividerne alcune sue idee: Devo ammettere le mie molteplici incongruenze. Ma dal momento che vengo chiamato il “Mahatma” potrei ben sottoscrivere il detto di Emerson secondo cui “la coerenza sciocca è lo spauracchio delle menti anguste”. C’è, immagino, una logica nelle mie incoerenze. Secondo me, c’è della coerenza nelle mie apparenti incongruenze, come nella natura c’è unità, sotto l’apparente diversità. (Gandhi, Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 64) Secondo Manara, però, Gandhi va più nello specifico rispetto ad Emerson sino a distaccarsene distinguendo in realtà due tipi di coerenza, una sciocca, che va respinta, ed una saggia, che invece vale invece la pena di seguire,563 ovvero la coerenza con la verità la quale, per essere rispettata, ci costringe a cambiare opinioni, giudizi, modi di agire:564 561 R. W. Emerson, “Self-Reliance”, in Aa. Vv., The Norton Anthology of American Literature, cit., p. 1131. Gandhi, Per La Pace, cit., p. 64. 563 “Citando ripetutamente un adagio di Emerson, e contrariamente allo stesso Emerson, Gandhi precisa con una certa insistenza il significato di questa implicita distinzione tra una coerenza “sciocca” e una autentica e “saggia”: “C’è una coerenza che è saggia e una che è sciocca. Un uomo che per essere coerente andasse completamente nudo nel caldo sole dell’India così come nella gelida Norvegia in pieno inverno sarebbe 562 219 La coerenza non è mai stata un feticcio per me. Sono un seguace della verità e devo dire ciò che sento e penso in ogni momento su qualsiasi questione, senza riguardo a ciò che sulla stessa possa aver già detto in precedenza. Man mano che la mia visione si fa più chiara, anche le mie opinioni si precisano di pari passo con la pratica quotidiana. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 64) [...] La via migliore per seguire la verità non è cercare un ‘“armonia forzata” fra le azioni di ieri e di oggi, ma di vivere ogni dato momento così come ci sembra. In verità ciò che sembra una contraddizione non è una contraddizione, ma un progresso. (The Collective Works of Mahatma Gandhi, p. 82) Pur non operando chiaramente una distinzione così netta, e contrariamente a ciò che afferma Manara, anche Emerson in realtà riconosce una fedeltà alla verità che merita di essere perseguita, e lo fa nel suo journal, in un passo che ci fornisce la chiave di lettura del suo rapporto con la pace e con la guerra: We are the children of many sires, and every drop of blood in us in its turn betrays its ancestor. We are of the party of war and of the peace party alternately; to both very sincerely. Only we always may be said to be heartily only on the side of truth.565 E’ questa un’affermazione di fondamentale importanza, un punto cruciale nel quale, al di là di tutte le somiglianze – e differenze - rintracciate, il pensiero di Gandhi e quello di Emerson convergono ancora. La pace, per quanto sia un valore importante, non può essere messa al di sopra di tutto e non può essere raggiunta a tutti i costi, perché se non è affiancata da altri valori, primo tra essi la verità, non ha senso. Huggard commenta così l’affermazione di Emerson, opinione con la quale concordo: Here, I believe, is the clue to Emerson’s basic attitude to war and peace, the underlying doctrine giving unity to what, viewed externally, appears to be a chaotic body of pensées on the subject. In relation to the significant problem of a man’s proper attitude toward violence or peaceful nonresistance, Emerson desired to stand neither for war nor peace, but always for truth, which is a thing greater than any particular war or peace, and which may afford sanctions or condemnation for either.566 Anche Gandhi, pur mirando alla pace, pone al primo posto della sua scala di valori la verità, termine che ricorre puntualmente nei suoi scritti, ma soprattutto valore supremo a cui tutta l’azione dell’uomo deve conformarsi. Affermando chiaramente che il valore supremo risiede considerato un pazzo, e finirebbe per perdere la sua vita, per giunta”. Gandhi, Young India, 4 aprile 1929, in F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 81. 564 Ibidem. 565 R. W. Emerson, Journals, vol. VII, p. 37, 1845. 566 W. A. Huggard, “Emerson and the Problem of War and Peace”, cit., p. 72. 220 nella “verità”, parola per lui colma di significato,567 Gandhi scioglie ogni dubbio sul suo pensiero e allo stesso tempo getta luce anche su Emerson, che per natura e per scelta è incline ad utilizzare uno stile che non lascia sempre trasparire con chiarezza il suo giudizio: La via della pace è la via della verità. La scelta della verità è più importante anche della scelta della pace. Invero, la menzogna è la madre della violenza. Un uomo sincero non può restare a lungo violento. Egli capirà, nel corso della sua ricerca, di non avere bisogno di essere violento, e scoprirà inoltre che, fin tanto che resterà la benché minima traccia di violenza in lui, non potrà trovare la verità che sta cercando. (Il mio Credo, il mio Pensiero, p. 170) 6.2: Intuizioni di Pace Come accade per il confronto tra Emerson e Foucault, anche il parallelo tra Emerson e Gandhi ha risvolti che vanno ben al di là del rintracciare somiglianze e differenze tra di essi. Limitandoci all’economia interna di questo lavoro, sicuramente il pensiero di Emerson ha assunto una nuova veste visto alla luce di quello di Gandhi, ed è stato in qualche modo “riabilitato” da una visione che vedeva il saggio di Concord soltanto come un cinico filosofo del potere – aspetto in ogni caso innegabile - presentando invece lati spesso meno evidenziati ma altrettanto presenti in un personaggio dalle molteplici sfumature, che poco si presta a semplificazioni e a drastiche classificazioni. Grazie a questa sua complessità, Emerson è stato in grado di elaborare una sua concezione di pace e di pacifismo più articolata dei suoi contemporanei, una visione che, pur godendo di meno visibilità rispetto a quella di altri esponenti pacifisti del suo periodo, si è dimostrata in realtà più durevole nel tempo ed esce in qualche modo legittimata dalla sua somiglianza con la visione gandhiana. Quel che più 567 Manara spiega il significato della parola “verità” per Gandhi: “Gandhi si proclama devoto seguace della verità, che in hindu ha un significato più vasto del significato occidentale di ‘verità’; non è un problema che si pone sul piano gnoseologico od epistemologico, in hindu satya è insieme ciò che è buono e ciò che è vero, senza alcuna distinzione tra i piani ontologico, epistemologico, gnoseologico ed etico”. F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 81. Le parole di Gandhi non lasciano spazio a dubbi: “Secondo me la verità è il principio supremo che ne sottintende molti altri: la verità non è solo verità di parola, ma anche di pensiero e non è solo la verità relativa che noi concepiamo, ma la Verità assoluta, il Principio Eterno, che è Dio”. Gandhi, La mia Vita per la Libertà, cit., p. 7. 221 importa per le riflessioni finali di questo capitolo, essa contiene elementi molto utili per l’analisi dello scenario socio-politico attuale e per il dibattito sulla pace. E’ riconosciuto ormai da più parti che vi è l’esigenza di costituire un nuovo concetto di pace, che sia più funzionale alla realtà contemporanea e soprattutto che si riveli più efficace; abbiamo bisogno, metaforicamente parlando, di una medicina della pace nella cui composizione il “principio attivo” sia in sé determinato e distinto da quello della guerra, ed è necessario che in essa venga ridotta la quantità di idealismo e venga aggiunto invece un po’ di sano realismo. I due ordini di problemi sono, in realtà, strettamente correlati tra di essi, e Kenneth Burke riesce bene ad esplicitarli in un passo breve ma cruciale di A Grammar of Motives. Burke ci invita a non considerare la pace come un allegato, un’appendice della guerra, qualcosa che può scaturire soltanto per reazione e che per questo rimane del tutto simile a quello che, in realtà, dovrebbe essere il suo opposto: The idiom most thoroughly bound to the militaristic starting-point, however, is the one that might seem freest of it: pacifism, where the admonition against the threat of absolute warlike substance is replaced by the exhortation towards the promise of absolute peacelike substance.568 Analizzando l’affermazione di Burke, il pacifismo estremo non farebbe altro che sostituirsi al bellicismo estremo rimanendo di fatto simile ad esso; ma ciò che colpisce di più è che, mentre la guerra è una sostanza, il pacifismo rimane soltanto la promessa di una sostanza, qualcosa, utilizzando un gioco di parole, simile ad una “terra promessa” che qualcuno, un giorno, forse, troverà. Ci limitiamo ad opporre alla guerra, dunque, non solo un idealismo di per sé poco consistente e derivante da un sostanziale duplicato dell’idea di guerra, ma per di più anche proiettato verso il futuro: “But in the ordinary brands of pacifism, peace is but an ideal, a general direction towards which one should incline when plotting a course - and as evidence that is not a statement about what substancially is”.569 568 569 K. Burke, A Grammar of Motives, cit., p. 332. Ivi, p. 333. 222 Per quanto possa essere confortante la visione di un mondo ideale governato dalla pace, questo non aiuta di certo a fronteggiare una realtà del tutto diversa. Opporre una pace assoluta ad una guerra assoluta produce uno scontro sterile, combattuto per altro nel mondo delle idee, che non trova riscontri produttivi nella realtà. Si dovrebbe cercare, piuttosto, di accettare i conflitti esistenti e contrapporvi una valida alternativa che non sia soltanto un antidoto. Anticipando la proposta di Curi di una concezione di pace non come cancellazione dei conflitti ma come “svolgimento di una conflittualità disciplinata e finalizzata”,570 Gandhi, dimostrandosi un “idealista pratico”, come si definisce lui stesso, non si illude di poter cancellare i conflitti e la violenza, ma semplicemente di disciplinarli: “Il mio metodo della non-violenza non può mai condurre alla perdita della forza, anzi, è il solo che renda possibile, se la nazione lo vuole, una violenza disciplinata e concertata nel momento del pericolo”.571 Per fa sì che ciò avvenga è indispensabile però costruire un’idea di pace “piena”, “concreta”, e quindi forte. La pace, come ci insegnano Emerson e Gandhi, sciolta dalla verità, dal sacrifico e dal coraggio, non è degna di essere raggiunta e non sarebbe di alcuna utilità per contrastare la guerra. Si tratterebbe, utilizzando la terminologia dei Peace Studies, soltanto di una “pace negativa” che non può fare altro che perpetuare le ingiustizie e la guerra; si tratterrebbe di una pace che fungerebbe, come in una fotografia, da “negativo” al “positivo” rappresentato dalla guerra. Ciò che occorre è una pace che viva di vita propria, che abbia in sé una forza “che dà vita”, come afferma Manara,572 che sia in grado di agire all’interno e al di là della violenza, una pace che gestisca i conflitti, necessari e da più parti considerati inevitabili, senza esserne sopraffatta. 570 U. Curi, Pensare la Guerra, cit., p. 7. Gandhi, Il mio Credo, il mio Pensiero, cit., p. 161. 572 Mi riferisco al titolo del libro di F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, più volte citato. 571 223 Proprio Manara espone in modo ben articolato il problema fin qui esposto, affermando innanzitutto il bisogno di “un‘esigenza filosofica di nonviolenza”, ossia di una vera a propria rivoluzione “mentale”: C’è bisogno di un pensiero che si riorienti. Se è vero quanto afferma un notissimo motto dell’Unesco, ossia che la guerra nasce dalle menti degli uomini, così la pace e la nonviolenza devono essere generate nello stesso contesto. La pace e la nonviolenza nascono nel pensiero delle persone.573 Non sappiamo se l’Unesco si sia ispirata a Emerson, ma sicuramente in “War” egli afferma lo stesso concetto: ”It is really a thought that built this portentous war - establishment, and a thought shall also melt it away. Every nation and every man instantly surround themselves with a material apparatus which exactly corresponds to their moral state, or their state of thought” (War 11.191 16). La seconda esigenza di cui parla Manara è quella, più volte e da più parti riscontrata, di rendere i conflitti forze costruttive: Poi vi è l’esigenza di imparare a trasformare i conflitti in modo non distruttivo, il bisogno di una strategia dell’azione diretta nonviolenta. Pur imitando le strategie belliche, il nostro fine non deve essere, come afferma Clausewitz, di annientare l’avversario e porre fine al conflitto, ma di lasciar vivere i conflitti, sinonimo di democrazia se affrontati con il rispetto per l’avversario e con lo spirito di arrivare ad una collaborazione, o quanto meno ad un antagonismo disciplinato.574 Manara parla di un conflitto inteso come un’opportunità e un valore, che per divenire tale deve essere gestito in maniera “trasformativa e creativa”.575 Anche in questo caso possiamo affermare, non citando un passo in particolare ma in base a tutto ciò che è stato fin qui discusso, che Emerson sarebbe stato senz’altro d’accordo su questa visione positiva del conflitto. Siamo arrivati, paradossalmente, a conclusioni simili a quelle raggiunte seguendo il percorso segnato da Foucault ma, come ci insegna Emerson, non è da escludere che gli opposti possano convivere...basta saperli gestire creativamente, sfidando la coerenza, non 573 F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 17. Ibidem. Clausewitz difatti afferma: “La guerra è dunque un atto di forza per ridurre l’avversario al nostro volere.” R. V. Clausewitz, Pensieri sulla Guerra, cit., p. 5. 575 F. C. Manara, Una Forza che dà Vita, cit., p. 17. 574 224 avendo timore della contraddizione, seguendo la nostra natura e trovando, quindi, innanzitutto, un equilibrio all’interno dei nostri conflitti: ”Nothing can bring you peace but yourself. Nothing can bring you peace but the triumph of principles” (SR 2.90 3). 225 Appendice 1: Tabella delle occorrenze afferenti al campo semantico della guerra Power, n. (1192) powers, n. (229) = strength, n. (275) strong, adj. (254) stronger, adj. (27) strongest, adj. (27) = force, n. (3361) forces, n. (72) = hero, n. (99) heroes, n. (98) heroic, adj., (85) heroism, n. (32) = war, n. (296) wars, n. (23) = fear, n. (131) fear, v. (71) = courage, n. = blood, n. = honor, n.= armed, adj. (15) armed, v. (26) armies, n. (28) arming, v. (2) army, adj. (4) army, n. (66) = peace, n. (101) peaceable, adj. (11) peaceful, adj. (19) = enemies, n. (53) enemy, n. (62) = soldier, n. (45) soldiers, n. (60) = brave, adj. = battle, n. (60) battles, n., (25) = sacrifice, n. (28) sacrifice, v. (11) sacrificed, v. (16) sacrifices, n. (15) sacrifices, v. (7) sacrificial, adj. (4) sacrificing, v. (4) = victory, n. = gain, v. (34) gained, v. (46) = 1421 583 433 325 319 202 169 149 145 139 136 115 105 96 85 85 80 80 aid, n.= fight, n. (22) fight, v. (48) = ambition, n. = violence, n. (37) violent, adj. (26) = military, adj. = command, v. = sword, adj. (14) sword, n. (33) = antagonism, n. (23) antagonisms, n. (7) antagonist, adj. (3) antagonist, n. (6) antagonistic, adj. (2) antagonists, n. (5) = afraid, adj. = Attack, n. (30) attack, v. (8) attacks, v. (5) = attempt, n. = hate, v. = Dominion, n.= alliance, n. (8) alliances, n. (4) allied, v. (10) allies, n. (11) = martyrs, n. = Struggle, n.= weapon, n. = victims, n. = coward, n. (7) cowardice, n. (8) cowardly, adj. (11) = advance, n. = contrast, n. = win, v. = defeat, n. = prisoner, n. = conquest, n. = aggression, n. = conflict, n. = discord, n. = Warrior, n. = 75 70 64 63 62 48 47 46 45 43 43 42 35 33 30 28 28 27 26 25 24 23 23 20 19 18 14 13 10 226 Appendice 2: Tabella di occorrenze varie man, n. (3268) men, n. (2676) = think, v. (538) thought, n. (956) thoughts, n. (315) = find, v. (723) finds, v. (219) found, v. (530) = good, adj. (1191) good, n. (250) = life, n. = world, n. = nature, n. = new, adj.= great, adj. = knowledge, n. (291) know, v. (888) = mind, n. = law, n. (541) laws, n. (438) = time, n. = fact, n. (478) facts, n. (310) = eye, n. (371) eyes, n. (410) = old, adj. = high, adj. (298) higher, adj. (245) highest, adj. (201) = day, n. = poet, n. (366) poetry, n. (354) = act, n. (152) action, n. (357) activity, n. (128) active, adj. (73) = always, adv. = love, n. (554) love, v. (142) = let, v. = genius, n. = art, n. (417) arts, n. (230) = book, n. (281) books, n. (357) = truth, n. = 5944 1809 1472 1441 1403 1332 1310 1219 1248 1179 1173 979 888 788 781 752 744 741 720 710 705 696 675 675 647 638 630 come, v. = history, n. = age, n. (355) ages, n. (205) = intellect, n. (303) intellectual, adj. (251) = best, adj. = heart, n. = friend, n. (236) friends, n. (252) = human, adj. = beauty, n. = character, n. = God, n. = better, adj. = will, n. = live, v. = light, n. = experience, n. = conversation, n. = common, adj. = believe, v. = labor, n. = alone, adj. = cause, n. = advantage, n. (117) advantages, n. (93) = language, n. = hope, n. = freedom, n. = bad, adj. = circumstance, n. (118) circumstances, n. (68 )= ability, n. (63) able, adj. (117) = aims, n. (75) aim, n. (95) = affection, n. (85) affectionate, adj. (24) affections, n. (57) = individual, n. = energy, n. = absolute, adj. = accept, v. = abstract, adj. = transcendent, adj. = 617 603 560 554 547 496 488 481 470 464 434 428 366 297 290 274 248 245 234 225 218 211 210 204 200 190 187 186 180 170 166 143 138 96 76 22 22 227 Appendice 3: Elenco completo delle abbreviazioni delle opere di R. W. Emerson, basato sull’edizione The Complete Works of Ralph Waldo Emerson, Centenary Edition, 12 vol., Boston and New York, Houghton Mifflin and Company, 1903-1904: ACiv (vol. 11, pp. 295-312) CSC (vol. 10, pp. 371-378) ACri (vol. 12, pp. 281-306) Ctr (vol. 6, pp. 129-166) AdAd (vol. 11, pp. 381-394) CW (vol. 12, pp. 169-180) AgMs (vol. 12, pp. 358-364) Dem1 (vol. 10, pp. 1-28) AKan (vol. 11, pp. 253-264) DL (vol. 7, pp. 101-134) ALin (vol. 11, pp. 327-338) DSA (vol. 1, pp. 117-152) AmS (vol. 1, pp. 79-116) Edc1 (vol. 10, pp. 123-160) Aris (vol. 10, pp. 29-66) Elo1 (vol. 7, pp. 59-100) Art1 (vol. 2, pp. 349-370) Elo2 (vol. 8, pp. 109-134) Art2 (vol. 7, pp. 35-58) EPro (vol. 11, pp. 313-326) AsSu (vol. 11, pp. 245-252) ET1 (vol. 5, pp. 3-24) Bhr (vol. 6, pp. 167-198) ET10 (vol. 5, pp. 153-171) Boks (vol. 7, pp. 187-222) ET11 (vol. 5, pp. 172-198) Bost (vol. 12, pp. 181-212) ET12 (vol. 5, pp. 199-213) Bty (vol. 6, pp. 279-306) ET13 (vol. 5, pp. 214-231) Carl (vol. 10, pp. 487-498) ET14 (vol. 5, pp. 232-260) CbW (vol. 6, pp. 243-278) ET15 (vol. 5, pp. 261-272) ChiE (vol. 11, pp. 469-474) ET16 (vol. 5, pp. 273-290) Chr1 (vol. 3, pp. 87-116) ET17 (vol. 5, pp. 291-298) Chr2 (vol. 10, pp. 89-122) ET18 (vol. 5, pp. 299-308) CInt (vol. 12, pp. 111-132) ET19 (vol. 5, pp. 309-314) Cir (vol. 2, pp. 299-322) ET2 (vol. 5, pp. 25-33) Civ (vol. 7, pp. 17-34) ET3 (vol. 5, pp. 34-43) CL (vol. 12, pp. 133--168) ET4 (vol. 5, pp. 44-73) Clbs (vol. 7, pp. 223-250) ET5 (vol. 5, pp. 74-101) Comc (vol. 8, pp. 155-174) ET6 (vol. 5, pp. 102-115) Comp (vol. 2, pp. 91-128) ET7 (vol. 5, pp. 116-126) Con (vol. 1, pp. 293-326) ET8 (vol. 5, pp. 127-143) Cour (vol. 7, pp. 251-280) ET9 (vol. 5, pp. 144-152) CPL (vol. 11, pp. 493-508) EurB (vol. 12, pp. 365-378) 228 EWI (vol. 11, pp. 97-148) LT (vol. 1, pp. 257-292) Exp (vol. 3, pp. 43-86) LVB (vol. 11, pp. 87-96) EzRy (vol. 10, pp. 379-396) MAngl (vol. 12, pp. 213-244) F (vol. 6, pp. 1-50) Mem (vol. 12, pp. 90-110) Farm (vol. 7, pp. 135-154) Milt1 (vol. 12, pp. 245-280) Fdsp (vol. 2, pp. 189-218) MLit (vol. 12, pp. 309-336) FRep (vol. 11, pp. 509-544) MMEm (vol. 10, pp. 397-434) FRO1 (vol. 11, pp. 475-482) MN (vol. 1, pp. 189-224) FRO2 (vol. 11, pp. 483-492) MoL (vol. 10, pp. 239-258) FSLC (vol. 11, pp. 177-214) MoS (vol. 4, pp. 147-186) FSLN (vol. 11, pp. 215-244) MR (vol. 1, pp. 225-256) GoW (vol. 4, pp. 259-290) Mrs1 (vol. 3, pp. 117-156) Grts (vol. 8, pp. 299-320) Nat (vol. 1, pp. 1-78) GSt (vol. 10, pp. 499-508) Nat2 (vol. 3, pp. 167-196) Gts (vol. 3, pp. 157-166) NER (vol. 3, pp. 249-288) HCom (vol. 11, pp. 339-346) NHI (vol. 12, pp. 1-2) HDC (vol. 11, pp. 27-86) NMW (vol. 4, pp. 221-258) Hist (vol. 2, pp. 1-42) NR (vol. 3, pp. 223-248) Hsm1 (vol. 2, pp. 243-264) OA (vol. 7, pp. 313-336) Humb (vol. 11, pp. 455-460) OS (vol. 2, pp. 265-298) II (vol. 12, pp. 65--89) PC (vol. 8, pp. 205-234) Ill (vol. 6, pp. 307-326) PD (vol. 12, pp. 307-308) Imtl (vol. 8, pp. 321-352) PerF (vol. 10, pp. 67-88) Insp (vol. 8, pp. 267-298) PI (vol. 8, pp. 1-76) Int (vol. 2, pp. 323-348) PLT (vol. 12, pp. 3-64) JBB (vol. 11, pp. 265-274) Plu (vol. 10, pp. 291-322) JBS (vol. 11, pp. 275-282) PNR (vol. 4, pp. 80-90) Koss (vol. 11, pp. 395-402) Pol1 (vol. 3, pp. 197-222) LE (vol. 1, pp. 153-188) Pow (vol. 6, pp. 51-82) Let (vol. 12, pp. 392-404) PPh (vol. 4, pp. 37-79) LLNE (vol. 10, pp. 323-370) Ppo (vol. 8, pp. 235-266) Lov1 (vol. 2, pp. 167-188) PPr (vol. 12, pp. 379-391) LS (vol. 11, pp. 1-26) Pray (vol. 12, pp. 350-357) 229 Prch (vol. 10, pp. 215-238) SS (vol. 7, pp. 1-16) Prd1 (vol. 2, pp. 219-242) Suc (vol. 7, pp. 281-312) Pt1 (vol. 3, pp. 1-42) Supl (vol. 10, pp. 161-180) QO (vol. 8, pp. 175-204) SwM (vol. 4, pp. 91-146) RBur (vol. 11, pp. 437-444) Thor (vol. 10, pp. 449-486) Res (vol. 8, pp. 135-154) TPar (vol. 11, pp. 283-294) SA (vol. 8, pp. 77-108) Trag (vol. 12, pp. 405-418) Schr (vol. 10, pp. 259-290) Tran (vol. 1, pp. 327-360 Scot (vol. 11, pp. 461-468) UGM (vol. 4, pp. 1-37) Shak1 (vol. 11, pp. 445-454) War (vol. 11, pp. 149-176) SHC (vol. 11, pp. 427-436) WD (vol. 7, pp. 155-186) ShP (vol. 4, pp. 187-220) Wom (vol. 11, pp. 403-426) SL (vol. 2, pp. 129-166) WSL (vol. 12, pp. 337-349) SlHr (vol. 10, pp. 435-448) Wsp (vol. 6, pp. 199-242) SMC (vol. 11, pp. 347-380) Wth (vol. 6, pp. 83-128) SovE (vol. 10, pp. 181-214) YA (vol. 1, pp. 361-396) SR (vol. 2, pp. 43-90) 230 Appendice 4: Elenco completo delle opere di R. W. Emerson, basato sull’edizione The Complete Works of Ralph Waldo Emerson, Centenary Edition, 12 vol., Boston and New York, Houghton Mifflin and Company, 1903-1904: Volume 1: Nature, Addresses and Lectures [Nat] Nature [AmS] The American Scholar: An Oration delivered before the Phi Beta Kappa Society, at Cambridge, August 31, 1837. [DSA] An Address: Delivered before the Senior Class in Divinity College, Cambridge, July 15, 1838. [LE] Literary Ethics: An Oration delivered before the Literary Societies of Dartmouth College, July 24, 1838. [MN] The Method of Nature: An Oration delivered before the Society of the Adelphi, in Waterville College, Main, August 11, 1841. [MR] Man the Reformer: A Lectgure read before the Mechanics’Apprentices’ Library Association, Boston, January 25, 1841. [LT] Lecture on the Times: Read at the Masonic Temple, Boston, December 2, 1841. [Con] The Conservative: A Lecture read at the Masonic Temple, Boston, December 9, 1841. [Tran] The Transcendentalist: A Lecture read at the Masonic Temple, Boston, January 2, 1842. [YA] The Young American: A Lecture read before the Mercantile Library Association, Boston, February 7, 1844. Volume 2: Essays, First Series [Hist] [SR] [Comp] [SL] [Lov1] [Fdsp] [Prd1] [Hsm1] [OS] [Cir] [Int] [Art1] I. History II. Self-Reliance III. Compensation IV. Spiritual Laws V. Love VI. Friendship VII. Prudence VIII. Heroism IX. The Over-Soul X. Circles XI. Intellect XII. Art Volume 3: Essays, Second Series 231 [Pt1] [Exp] [Chr1] [Mrs1] [Gts] [Nat2] [Pol1] [NR] [NER] I. The Poet II. Experience III. Character IV. Manners V. Gifts VI. Nature VII. Politics VIII. Nominalist and Realist IX. New England Reformers Volume 4: Representative Men, Seven Lectures [UGM] [PPh] [PNR] [SwM] [MoS] [ShP] [NMW] [GoW] I. Uses of Great Men II. Plato; or, The Philosopher Plato: New Readings III. Swedenborg; or, the Mystic IV. Montaigne; or, the Skeptic V. Shakspeare; or, the Poet VI. Napoleon; or, the Man of the World VII. Goethe; or, the Writer Volume 5: English Traits (1856) [ET1] [ET2] [ET3] [ET4] [ET5] [ET6] [ET7] [ET8] [ET9] [ET10] [ET11] [ET12] [ET13] [ET14] [ET15] [ET16] [ET17] [ET18] [ET19] I. First Visit to England II. Voyage to England III. Land IV. Race V. Ability VI. Manners VII. Truth VIII. Character IX. Cockayne X. Wealth XI. Aristocracy XII. Universities XIII. Religion XIV. Literature XV. The Times XVI. Stonehenge XVII. Personal XVIII. Result XIX. Speech at Manchester 232 Volume 6: The Conduct of Life (1860) [F] [Pow] [Wth] [Ctr] [Bhr] [Wsp] [CbW] [Bty] [Ill] I. Fate II. Power III. Wealth IV. Culture V. Behavior VI. Worship VII. Considerations by the Way VIII. Beauty IX. Illusions Volume 7: Society and Solitude, Twelve Chapters (1870) [SS] [Civ] [Art2] [Elo1] [DL] [Farm] [WD] [Boks] [Clbs] [Cour] [Suc] [OA] I. Society and Solitude II. Civilization III. Art IV. Eloquence V. Domestic Life VI. Farming VII. Works and Days VIII. Books IX. Clubs X. Courage XI. Success XII. Old Age Volume 8: Letters and Social Aims [PI] [SA] [Elo2] [Res] [Comc] [QO] [PC] [PPo] [Insp] [Grts] [Imtl] I. Poetry and Imagination II. Social Aims III. Eloquence IV. Resources V. The Comic VI. Quotation and Originality VII. Progress of Culture VIII. Persian Poetry IX. Inspiration X. Greatness XI. Immortality 233 Volume 9: Poems Volume 10: Lectures and Biographical Sketches [Dem1] [Aris] [PerF] [Chr2] [Edc1] [Supl] [SovE] [Prch] [MoL] [Schr] [Plu] [LLNE] [CSC] [EzRy] [MMEm] [SlHr] [Thor] [Carl] [GSt] I. Demonology II. Aristocracy III. Perpectual Forces IV. Character V. Education VI. The Superlative VII. The Sovereignty of Ethics VIII. The Preacher IX. The Man of Letters X. The Scholar XI. Plutarch XII. Historic Notes of Life and Letters in New England XIII. Chardon Street Convention XIV. Ezra Ripley, D.D. XV. Mary Moody Emerson XVI. Samuel Hoar XVII. Thoreau XVIII. Carlyle XIX. George L. Stearns Volume 11: Miscellanies [LS] [HDC] [LVB] [EWI] [War] [FSLC] [FSLN] [AsSu] [AKan] [JBB] [JBS] [TPar] [ACiv] [EPro] [ALin] [HCom] [SMC] [EdAd] [Koss] [Wom] I. The Lord’s Supper II. Historical Discourse at Concord III. Letter to President Van Buren IV. Emancipation in the British West Indies V. War VI. The Fugitive Slave Law--Address at Concord VII. The Fugitive Slave Law--Lecture at New York VIII. The Assault upon Mr. Sumner IX. Speech on Affairs in Kansas X. John Brown--Speech at Boston XI. John Brown--Speech at Salem XII. Theodore Parker XIII. American Civilization XIV. The Emancipation Proclamation XV. Abraham Lincoln XVI. Harvard Commemoration Speech XVII. Dedication of the Soldiers’ Monument in Concord XVIII. Editors’ Address XIX. Address to Kossuth XX. Woman 234 [SHC] [RBur] [Shak1] [Humb] [Scot] [ChiE] [FRO1] [FO2] [CPL] [FRep] XXI. Consecration of Sleepy Hollow Cemetery XXII. Robert Burns XXIII. Shakspeare XXIV. Humboldt XXV. Walter Scott XXVI. Speech at Banquet in Honor of Chinese Embassy XXVII. Remarks at Organization of Free Religious Association XXVIII. Speech at Second Annual Meeting of Free Religious Association XXIX. Address at Opening of Concord Free Public Library XXX. The Fortune of the Republic Volume 12: Natural History of the Intellect, and Other Papers [NHI] I. Natural History of the Intellect [PLT] I. Powers and Laws of Thought [II] II. Instinct and Inspiration [Mem] II. Memory [CInt] II. The Celebration of Intellect [CL] III. Country Life [CW] IV. Concord Walks [Bost] V. Boston [MAngl] VI. Michael Angelo [Milt1] VII. Milton [ACri] VIII. Art and Criticism [PD] IX. Papers from the Dial [MLit] [WSL] [Pray] [AgMs] [EurB] [PPr] [Let] [Trag] I. Thoughts on Modern Literature II. Walter Savage Landor III. Prayers IV. Agriculture and Massachusetts V. Europe and European Books VI. Past and Present VII. A Letter VIII. The Tragic 235 Bibliografia Fonti Primarie: Emerson R. 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