Anno LIX - N. 15 - 15 agosto 2011 - Rivista quindicinale - kn 14,00 - EUR 1,89 - Spedizione in abbonamento postale a tariffa intera - Tassa pagata ISSN-0475-6401
Panorama
www.edit.hr/panorama
Quei frati
borsaneristi...
Miniature
estive
E
state (almeno per chi se lo può permettere) fa
rima con vacanze, svaghi, licenze... Con sapore di mare, gusto di sale, carezze di sole. Ma è
soprattutto momento di fuga, che inebriando corpo e spirito ci dà l’illusione di accantonare, per
un po’, l’inesorabile assuefazione all’abituale, il
più delle volte insipido regime di vita che scandisce la nostra esistenza. E
magari, d’estate, c’è pure il
tempo di fermare lo sguardo (e l’obiettivo fotografico)
su forme, colori e piccoli
dettagli sui quali altrimenti
sorvoliamo, perché ci manca quello che potrebbe essere il culto delle piccole cose
e delle gioie semplici...
Testo e foto
di Bruno Bontempo
2 Panorama
In primo piano
Sul caso Daila ad ogni giorno che passa si susseguono i colpi di scena
Cesare si è preso tutto. Ed ora?
di Mario Simonovich
I
l primo elemento di un certo rilievo
è venuto dal Glas Koncila che, quale organo della Conferenza episcopale non poteva che essere dalla parte
delle gerarchie, allineate sulla posizione definita dal papa che, dando ragione
ai benedettini di Praglia riconfermava
ancora una volta che il vescovo di Parenzo-Pola, già esautorato per il solo
minuto necessario ad apporre la firma
sul famoso documento, era nel torto. In
un intervento alla TV nazionale il suo
caporedattore aveva anche scoperto (è
il caso di dirlo) qualche nuovo altarino
prima dicendo che la controparte italiana non aveva insistito ad avere tutta
la proprietà ma si sarebbe accontentata del 40 p.c. lasciando il 60 p.c. alla
diocesi, che invece avrebbe voluto tutto e poi facendo capire - peraltro senza
dirlo in maniera esplicita - che non era
del tutto vero che l’abbazia di Praglia
era stata indennizzata in base agli accordi intercorrenti fra l’Italia e la Jugoslavia, come invece i media croati
avevano sostenuto fin dall’inizio. Altra risposta indicativa della sua posizione: criticando l’assoluta indisponibilità della diocesi a passare i beni ad
un soggetto straniero, in questo caso
italiano, ha ricordato che nel gruppo
di soggetti impegnati a mettere a frutto
i terreni appartenenti al monastero, ci
sono pure soggetti stranieri, per l’esattezza austriaci.
La seconda mossa, molto più importante, l’ha fatta Cesare, ovvero
lo stato croato annunciando ufficialmente ad un solo giorno di distanza l’intenzione di intavolarsi su tutta quella che era la proprietà dei frati
fino a che non venne loro sottratta dal
regime di Tito. Insomma, un decreto per mettere dentro, da padrone, lo
stato e mandare fuori, a spasso, tutta
la pletora di soggetti che, in un modo
o nell’altro, nell”affare” sono entrati dopo. Se non che al giorno d’oggi
passi del genere devono essere doverosamente accompagnati da spiegazioni che seppur non salde come una
roccia, devono essere per lo meno
plausibili. E qui il governo di Jadran-
ka Kosor è incappato in un infortunio
di prim’ordine. Spiegando la decisione di avocarsi i diritti di proprietà, il
competente ministro ha dovuto annullare, uno per uno, tutti i documenti emessi a favore della diocesi dalla
Contea (a cui lo stato aveva delegato
la “regalia”). Per dire quanti e quali
basta dire che si riferiscono esplicitamente a tutti gli anni che vanno dal
1997 al 2002.
Inevitabile, forse, il passo, risibile la motivazione del ministro secondo cui la nullità deriverebbe dal fatto
che trattasi di materia affrontata a livello di accordi interstatali, ossia superiore a quello in cui può legiferare
la Contea.
Non meno risibili le sue spiegazioni alla domanda sui motivi per cui
un simile decreto non è stato emesso nel corso dei 14 anni dacché la situazione giuridica del monastero era
cambiata: il ministro ammette candidamente di non saper rispondere, aggiungendo che comunque chi si ritenga leso nei suoi diritti dalla decisione
può presentare ricorso.
Una posizione, quella dell’autorità statale croata, che non può non lasciare interdetti. Solo chi difetta del
tutto dell’indispensabile senso dello
stato pensa di poter acquisire in questo modo una qualche supremazia con
una controparte che si avvale di una
consumata diplomazia che si è temprata per secoli, per non dire millenni,
sulle più prestigiose scene della politica europea e mondiale. Cesare ha dato
in questi giorni una forte zampata, ma
ora dovrà stare molto attento perché la
contromossa non tarderà a venire e sicuramente sarà seguita da altre, tutt’altro che auspicabili.
Sbaglia perciò chiunque pensi che
se lo scontro divamperà, sarà ad armi
pari. Il fattore campo è infatti tutto a
favore di Roma che, come si è visto
anche ora, ha dalla sua le gerarchie
cattoliche croate, il cardinale in testa.
E che non intenda scherzare è dimostrato dal siluramento del cancelliere di Parenzo-Pola, che era stato il
discepolo più acceso del vescovo. Il
primo, sicuramente non l’unico.●
Costume
e scostume
Turisti avari
andatevene
Vanno a fare la spesa al market e la consumano seduti sulle
panchine dei parchi. Con puntualità svizzera gli operatori ci
hanno fatto di nuovo sentire il
ben noto ritornello. Anche i
russi, titolava un giornale locale, si sono mostrati tutt’altro che
ricchi. Forse - ma è difficile crederlo - lo sprovveduto titolista
si era fatto ammaliare dalle cifre
sparate da altri giornali sui russi
multimiliardari in crociera (anche) in Adriatico. Sarà piuttosto
che ha fatto proprie le lamentele di chi opera nel turismo. Che
sicuramente non ha vita facile.
Ma che, a differenza del turista-tipo, russo o croato che sia,
nella maggior parte dei casi non
può sottrarre al fisco neppure un
centesimo di quel che guadagna, per il semplice motivo che
il prelievo avviene, come si suol
dire “alla fonte”, ovvero ancor
prima che la paga gli arrivi sul
conto.
Che cosa fanno invece i “poveri” operatori autonomi che
faticano nel settore turistico?
Un esempio di prima mano:
a Zara a chi chiede il prezzo
dell’escursione di un giorno
alle Incoronate, la risposta tipo
è: “Il prezzo è 250 kune, ma se
non chiedi lo scontrino ti ci porto per 200!”. Un rapido calcolo:
per guadagnare 200 kune nette
un occupato in Croazia lavora più di sei ore. Il proprietario
della barca che imbarchi ad ogni
viaggio 100 escursionisti, di cui
50 “in nero” ne intasca a questo
titolo 10.000, ossia poco meno
di due paghe dell’escursionista
spennato.
Panorama 3
Panorama
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PANORAMA
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Panorama
Panorama testi
N. 15 - 15 agosto 2011
Sommario
IN PRIMO PIANO
Sul caso Daila ad ogni giorno che passa si susseguono i colpi di scena
Cesare si è preso tutto.
Ed ora?.......................................... 3
di Mario Simonovich
REPORTAGE
Nel piccolo paese nei dintorni di Gimino una delle più belle grotte istriane
IL REGNO SOTTERRANEO
DEI FESTINI.................................. 28
di Ardea Velikonja
ATTUALITÀ
Italia e mondo, momenti di grande tensione sui mercati e nei sistemi bancari
UNA SPECULAZIONE
SENZA PATRIA.................................6
Cerchiamo di individuare e interpretare quali potrebbero essere stati i motivi scatenanti della nuova vasta furia di
violenza e saccheggi in Gran Bretagna
LONDRA RIOT, ESASPERAZIONE
DI UN CONFLITTO SOCIALE
TRA RICCHI E POVERI?.................8
a cura Bruno Bontempo
LETTURE
Per la quarta volta un testo del connazionale premiato al Concorso di letteratura
di montagna “Carlo Mauri” di Lecco
IL RESPIRO DEL DESERTO.........34
di Mario Schiavato
DOSSIER: LA STORIA DI DAILA
Il processo di Buie all’origine della
sofferta vicenda del monastero
QUEI FRATI BORSANERISTI......10
di Mario Simonovich
SOCIETÀ
Riflessione estiva/ repuscolare sul senso della vita e della morte
GRAZIE AMICI,
VI SIA LIEVE LA TERRA.............16
di Marino Vocci
LA STORIA OGGI
Un episodio minore della Grande Guerra
L’ENCOMIABILE CONTRIBUTO
DELLE PORTATRICI CARNICHE... 18
di Fulvio Salimbeni
CINEMA e dintorni
Corpo Celeste, di Alice Rohrwacher,
ottima prova di un’autrice giovane
IMPIETOSA ANALISI DELLA
COMUNITÀ DISGREGATA..........20
di Gianfranco Sodomaco
CINEMA
Un volume ne ripercorre la storia con
locandine e foto
CINECITTÀ
TRA SOGNO E REALTÀ...............22
a cura di Ardea Velikonja
ITALIANI NEL MONDO
FIRMATO L’ACCORDO TRA MCL
E NAPREDAK.................................24
a cura di Ardea Velikonja
MADE IN ITALY
ANCHE BEVERLY HILLS HA
CELEBRATO IL 150.esimo.........26
a cura di Ardea Velikonja
LETTERATURA
La scrittore bosniaco si è aggiudicato l’edizione 2011 del Premio che il
Lions Club Trieste dedica alla memoria del grande romanziere istriano
EUROPA E SCRITTURA DI FRONTIERA, DA TOMIZZA A JERGOVIĆ.......38
LIBRI
«Mare inquieto», racconto autobiografico a fumetti nato da una vacanza sulla
co sta croata nell’estate del ‘91
DISORIENTAMENTO, SPAESAMENTO, DIFFIDENZA, OSTILITÀ...........40
a cura di Bruno Bontempo
MUSICA
Amy Winehouse da viva sembrava puntare all’autodistruzione, dopo la scomparsa «sale» come Jackson e Presley
NEL TRISTE CLUB DEI 27 E DEI
RICCHI POST MORTEM...............42
a cura di Bruno Bontempo
SPORT
Conteggio alla rovescia per la XXX
Olimpiade
GIOCHI SENZA RITARDI
E SENZA SFORATURE?................44
UMAGO, LA PRIMA SINFONIA
DI DOLGO.......................................46
SORPASSO DI LOCHTE
MA PHELPS NON SI ARRENDE:
CI RIVEDIAMO A LONDRA....... 48
a cura di Bruno Bontempo
ARBOREA
LIMONE, SIMBOLO
DELLA SOLARITÀ,...................... 50
di Daniela Mosena
MULTIMEDIA
COME SCEGLIErE IL TABLET
GIUSTO (3 e fine)............................52
a cura di Igor Kramarsich
RUBRICHE.....................................54
PASSATEMPI.................................58
IN COPERTINA: Il monastero di Daila ai giorni nostri (foto di Ardea Velikonja)
Agenda
Appuntamento a Pola il 3 settembre prossimo con un grande concerto all’Arena
Pronta la visita del Presidente della Repubblica italiana
T
utto è pronto per la visita che il
presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano effettuerà a
Pola il 3 settembre prossimo. Ricorderemo che l’incontro con la Comunità nazionale italiana che vive in Istria
doveva avvenire nel corso dell’ultima visita fatta dal presidente italiano
in Croazia ma, per ragioni interne,
la tappa a Pola era stata rimandata.
Come lo stesso presidente ha assicurato a Furio Radin presidente dell’UI
il 3 settembre prossimo Napolitano
incontrerà nella città dell’Arena i vertici dell’Unione Italiana e della locale Comunità e si terrà pure, sempre
all’Arena, il grande concerto della Filarmonica di Zagabria assieme ai cori
riuniti delle Comunità degli Italiani
dell’Istria e di Fiume cui parteciperà pure il presidente della Repubblica della Croazia Ivo Josipović. Ricorderemo che come per luglio al concerto sono invitati tutti i connazionali
residenti in Croazia e coloro che non
hanno un meyyo per arrivare a Pola
possono rivolgersi alla propria Comunita degli Italiani che si occuperà
del trasporto per tutti.●
Dopo la mostra i lavori diventeranno parte della collezione del Museo di arte moderna
35 scatti inglesi sul patrimonio industriale fiumano
N
ell’ambito del “Fiume foto festival” organizzato dal Museo
di arte moderna e contemporanea di
Fiume al Piccolo salone fino al 31
agosto prossimo si può visitare la
mostra del fotografo inglese Marcus
Doyle intitolata “I souvenir fiumani, fotografie del passato industriale
di Fiume”. L’esposizione comprende
una serie di 35 foto che hanno come
tema il patrimonio industriale in dacedenza, in particolare dellìex silurificio “Torpedo”, l’ex Cartiera (nella
foto accanto), il porto fiumano e alcune vedute notturne scattate dal Castello di Tersatto. Marcus Doyle ha
scattato queste foto nel 2010 quando per la prima volta ha visitato Fiume per partecipare appunto al “Foto
festival”. Era rimasto impressionato
dai numerosi resti del passato industriale della città e qui aveva deciso
di realizzare queste foto. Da rilevare che quando il 31 agosto verrà ufficialmente chiuso il “Fiume foto festival” Marcus Doyle regalerà al Museo
d’arte contemporanea di Fiume tutta
la collezione delle sue foto sull’industria fiumana. ●
Uscito dalle stampe il libretto informativo sulla vita e l’opera della comunità nel centro quarnerino
«Gli ebrei a Fiume» in un opuscolo in 4 lingue
P
er la prima volta a Fiume è uscito dalle stampe un opuscolo realizzato dalla Comunità ebraica intitolato “Gli ebrei a Fiume”. il libretto informativo, realizzato in croato,
italiano, inglese e tedesco offre al
lettore uno squarcio nel passato di
Fiume, soffermandosi su alcuni dei
simboli più rinomati della comunità ebraica: la sinagoga e il cimitero.
La vecchia sinagoga ebraica (nella foto) situata in via Pomerio venne costruita nel 1903 e distrutta dai
nayisti il 25 gennaio del 1944. Infatti le tracce più antiche della presen-
za ebraica a Fiume risalgono al XV
secolo, quando la città fu la meta di
tantissimi immigrati italiani provenienti soprattutto dalle Marche e da
Pesaro. I primi documenti attestanti
la presenza di ebrei sono atti notarili del 1436. Tra le altre informazioni c’è quella relativa al centro città, dove nei pressi della cattedrale
di San Vito sorse il rione giudaico
che venne denominato Zuecha, probabilmente in riferimento alla veneziana Giudecca. La comunità ebraica a Fiume era composta principalmente da artigiani e mercanti alla
ricerca di un luogo abbastanza tollerante da permettere loro un commercio indisturbato.●
Panorama 5
La storia di Daila
Il processo di Buie all’origine della sofferta vicenda del monastero
Quei frati borsaneristi...
aila, nome fino a poco tempo fa quasi
sconosciuto a chi non avesse maggior
dimestichezza con l’Umaghese. Nelle
ultime settimane, il piccolo abitato poco distante da Cittanova si è ritrovato sulle prime pagine dei quotidiani e nelle notizie di testa dei telegiornali croati. Motivo: il ballerino susseguirsi di sortite ad avanzate di uno scontro che ha
quale oggetto il locale monastero benedettino
ma soprattuto le centinaia di ettari di terreno
che ad esso fanno capo. Uno scontro che, contrapponendo all’inizio il vescovado di ParenzoPola all’Abbazia benedettina di Praglia (Padova) una volta venuto alla luce, si è allargato con fulminea rapidità coinvolgendo gli amministratori istriani per chiamare in campo a
Zagabria tanto i vertici del potere religioso che
quello temporale e rimbalzare infine in Vaticano tirando in ballo direttamente il Papa.
Non si intende qui rifare la storia di quanto avvenuto in quanto facilmente reperibile sui
giornali, che traboccano di dati, peraltro selettivamente sottaciuti o enfantizzati a seconda
della loro utilità “per la causa”. Si vuole invece presentare al lettore più da vicino uno degli
D
eventi che si è rivelato d’importanza capitale
per tutto quel che ne è seguito: il processo pretestuoso intentato ai benedettini di Daila, che si
concluse non solo con pesanti condanne ai lavori forzati, ma anche con la confisca del monastero e di tutti i suoi beni, che era poi il fine primario per cui tutto il meccanismo repressivo
era stato messo in moto. Un fatto tutt’altro che
episodico di cui peraltro la conoscenza è relativamente scarsa anche dalle nostre parti e che
merita di essere conosciuto più da vicino.
La vicenda è stata trattata dal giornalista e
scrittore Ranieri Ponis in un capitolo del suo
libro intitolato In odium fidei, edizioni Zenit,
Trieste, 2006 e dedicato alle persecuzioni di cui
furono oggetto i religiosi in Istria all’avvento
del regime jugoslavo. Partendo dal testo in parola si è cercato qui tanto di rivolgere un seppur tenue sprazzo di luce su un doloroso evento del passato quanto favorire la comprensione
di certi atteggiamenti interessati di allora che,
cambiati i tempi, si ripresentano immutati, sia
in taluni protagonisti che girano incravattati o
con il cappellino, che in altri, vestiti dell’abito
talare. Dossier
di Mario Simonovich foto di Ardea Velikonja
Marzo 1948, Tribunale distrettuale di Buie.
È in corso il processo ai frati di Daila. Fra i
testimoni vi è il milite che ha partecipato alla
perquisizione del convento, il quale afferma di
aver rinvenuto nel cassetto del tavolino della
cella di don Ambrogio Bizzarri, uno dei quattro
imputati presenti, una fotografia di Mussolini.
Il religioso reagisce chiedendogli di specificare in quale parte dell’edificio fosse posizionata
la stanza. La risposta è alquanto laboriosa e il
religioso insiste affinché dica almeno in quale
parte della stanza si trovasse il tavolino in oggetto.
“A sinistra, ne sono certo.”
“Non è vero, era a destra” ribatte l’imputato.
Il milite afferma inoltre di aver trovato nel cassetto una pipa con la cenere ancora calda e un rasoio. Ma l’imputato non fumava e si radeva con
la lametta.
Si esprime in questi termini il solo giornalista straniero ammesso al processo contro i fatti di
Daila, citato da Ranieri Ponis nel capitolo “I benedettini di Daila e S.Onofrio” del libro In odium fidei, che riporta le persecuzioni attuate dal regime
jugoslavo nei confronti della Chiesa e delle sue
istituzioni in Istria.
10 Panorama
Seppur situato nella zona B, e dunque formalmente estraneo alla sovranità jugoslava, il convento con le sue proprietà fu immediatamente oggetto di un’interessata attenzione da parte del nuovo
potere, specie quando si capì che il suo consolidamento sul territorio progrediva con l’andar del
tempo. Il Comitato delegato all’applicazione della
riforma agraria tolse le terre che fino ad allora venivano lavorate dai coloni per darle a nuovi assegnatari, lasciando all’istituzione poco più del tetto
massimo, che era di dieci ettari.
In parallelo, si provvide ad una serie di quelli
che decenni più tardi in Italia sarebbero stati chiamati “espropri proletari”: con sortite improvvide
furono sottratti attrezzi e derrate. Più tardi la polizia fece circolare la voce che i frati dessero protezione a ricercati politici, sicché furono sottoposti ad un’esplicita sorveglianza armata. Allo stesso
modo furono trattati i coloni, che apertamente stavano dalla loro parte. Firmato nel febbraio 1947 il Trattato di pace,
nei mesi successivi il nuovo potere alzò il tiro nei
confronti della comunità monastica che si era ormai ridotta a cinque membri: l’abate don Teodoro
Amati, don Alfonso Del Signore - subentrato nella
direzione dell’azienda agricola a don Costantino
Buccinelli, scomparso tre anni prima nell’affondamento del S.Marco al largo di Salvore - don Ambrogio Bizzarri, padre don Benedetto Segatori e fra
Mauro Di Lelio. Il 29 agosto quattro religiosi furono prelevati dal convento e portati nella prigione di
Pirano. Don Amati, chiamato all’inizio del mese a
Venezia per curare il monastero di S.Giorgio Maggiore evitò l’arresto e fu giudicato contumace. Fra
la popolazione il provvedimento sollevò un diffuso
quanto inutile malcontento.
Gli interrogatori, iniziati il 14 settembre, ossia
due settimane dopo, erano tesi tanto a rendere invisi i religiosi al popolo quanto a metterne in evidenza l’incongruenza dei valori etici a cui si richiamavano. Per far intendere che si erano arricchiti alle
spalle dei poveri, per la zona furono fatti circolare
camion di frumento e altri prodotti agricoli prelevati dall’abbazia e dalle case dei coloni tanto che
taluni protestarono e furono arrestati.
La storia di Daila
Il monastero in un’invitante immagine del 1903 (dal libro Incontri con l’Istria di Luigi Parentin)
Per Padre Alfonso Del Signore e padre Ambrogio Bizzarri (foto) le codanne furono di tre anni e
mezzo e un anno e mezzo di “lavoro obbligatorio
con restrizione della libertà”
L’istruttoria processuale, scrive Ponis, fu condotta dai “referenti”, fra cui un tale Schrians, ex
seminarista divenuto fervente comunista. I capi
d’accusa formali furono speculazione illecita, contrabbando e sabotaggio per don Del Signore, l’amministratore dell’azienda, fra Mauro era imputato
d’aver allevato piccioni-spia, e la prova sarebbe
stata l’anello di cui erano muniti al fine di distinguere le varie covate. Don Benedetto era ritenuto correo dei crimini dell’amministratore mentre
don Bizzarri era sospetto per le frequenti assenze
e i contatti con il vescovo di Trieste. Don Segatori, anziano e malato, poté difendersi a piede libero, gli altri da Pirano passarono alle carceri di Capodistria.
Primo imputato era ovviamente don Teodoro
Amati, il superiore del convento che da Venezia
fece pervenire un memoriale in cui confutava le
accuse mosse alla comunità la cui attività era stata
sempre del tutto apolitica quanto intesa a migliorare le condizioni di vita dei coloni. Nel memoriale
rilevava inoltre come durante l’occupazione tedesca avessero assistito moralmente e materialmen-
Dossier
L’ accusa: contrabbando
e ostilità al potere popolare
Panorama 11
La storia di Daila
te le formazioni partigiane operanti sul territorio e
impedito ai tedeschi spoliazioni e deportazioni.
Al momento di iniziare le udienze, i capi d’imputazione erano due: propaganda fascista contro la
libertà e le istituzioni popolari e una serie di reati
economici quali sfruttamento dei coloni, contrabbando e sabotaggio.
Le udienze iniziarono a Buie solo cinque mesi
più tardi, il 21 febbraio 1948. La corte era composta dal dott. Strah e due contadini quali giudici
popolari, pubblico ministero il dott. Zega. Subito
però ci fu un’interruzione chiesta dall’avvocato difensore Mario Stocca poiché gli era morta la moglie. La richiesta fu accordata fra i fischi del pubblico “rigorosamente selezionato” che chiedeva
condanne immediate. Le udienze si svolgevano in
una spaziosa sala al primo piano di un bar, in quanto più ampia di quelle di cui disponeva la pretura.
Si riprese il 3 marzo, stavolta però di fronte a un
altro giudice, il dott. Battista Lodovico, in quanto
Strah si era dimesso e la ricerca del successore era
stata molto laboriosa. La pubblica accusa era costituita dal dott. Giovanni Cerkvenik, affiancato dal
dott. Zega, immutati i giudici popolari.
I testi dovevano asserire d’essere stati sfruttati e
maltrattati dai “frati borsaneristi” che si sarebbero
resi anche complici dei rastrellamenti di civili da
parte dei tedeschi, d’aver visto nel monastero fotografie di Mussolini e altri gerarchi e di essere a conoscenza di azioni di spionaggio con il vescovo di
Trieste. Era scontato che si voleva arrivare a pene
severe, ma soprattutto alla confisca di una proprietà molto appettibile. Come ammesso dalla stampa jugoslava
dell’epoca, fra i testimoni, uno solo era stato colono del monastero e rispondeva al nome di Anton
Dragan. Sua figlia Fides, disse, era stata sedotta da
don Alfonso del Signore che si era quindi adoperato a cacciare l’intera famiglia per “ragioni d’immoralità”. Il riferimento andava ad uno scandalo
scoppiato una quindicina d’anni prima di cui si era
reso colpevole un certo padre Giovanni che, effettivamente aveva messa incinta una giovane e per
tale motivo era stato radiato dall’ordine. Un altro
testimone sostenne che all’atto della perquisizione
del monastero erano stati rinvenuti “proiettili per
fucile, vari dischi di grammofono con canzoni fasciste e numerosi opuscoli reazionari ed antidemocratici” in merito ai quali peraltro non si fornì alcun dettaglio.
Dossier
Colpevolezza collettiva
12 Panorama
La requisitoria si fondò sullo strano ragionamento che, fatta salva la piena colpevolezza del
priore per la sua posizione, gli altri dovevano essere pure considerati tali. Don Segatori, il più anziano, perché sicuramente aveva fornito non pochi
suggerimenti, don Bizzarri perché era il frate più
intelligente, Del Signore, che fruiva di ampio spazio di manovra essendo l’amministratore e, infine,
fra Mauro, il cuoco, che, essendo in possesso delle chiavi dei magazzini, avrebbe avuto facile gioco
nell’occultare i generi in essi contenuti.
Quando la parola passò al difensore, essendo il pubblico “scelto”, nell’aula nacque un baccano insostenibile. Stocca rilevò che la presunta
collusione con il fascismo faceva capo a fotogra-
La storia di Daila
Due giorni di udienze e la sentenza era pronta
asta una rapida ricapitolazione dei tempi di
durata del processo per farsi un’idea piuttosto precisa degli intendimenti dei promotori. Erano del resto i tempi in cui Tito rimproverava ai magistrati di soggiacere troppo pedissequamente alle leggi. Arrestati i religiosi il 29
agosto, gli inquisitori diedero inizio agli interrogatori solo il 15 settembre, ossia due settimane
dopo, mentre la prima vera udienza, dopo quella
preliminare del 21 febbraio, si tenne giovedì 4
marzo. Però già nel numero di martedì 9, ossia
dopo tre soli giorni lavorativi, la Voce del Popolo riportava gli esiti del processo, sormontati dal titolo “Giuste condanne ai frati di Daila”.
Più preciso Ranieri Ponis: “La sera del 5 marzo
1948 (ossia già al mercoledì, n.d.r.), alle 21,45
fie che ritraevano i frati insieme ai gerarchi all’atto
dell’inaugurazione dell’Acquedotto istriano e delle nuove costruzioni di S.Benedetto di Daila, ossia erano state scattate in momenti in cui era impossibile sottrarsi a certi obblighi. Nell’aula, afferma Ponis, venne portata anche una grande foto di
Mussolini a Daila: un palese falso perché egli non
vi era mai stato. Anche i presunti rapporti di cordialità con l’occupante tedesco erano insussistenti
date le testimonianze che provavano la scarsa benevolenza fra questo e il clero locale in genere e i
frati in particolare. In quanto al presunto contrabbando di valuta, si trattava di un milione di lire con
cui veniva chiusa una vertenza con un privato, prova ne sia che la cifra non fu inviata al monastero di
Praglia, che pure era il proprietario di Daila (suona familiare, vero ?). Non meno falsa, rileva Ponis, era da considerarsi l’imputazione di contrabbando in quanto l’invio, di volta in volta, di generi alimentari a Trieste era avvenuto con regolare
permesso rilasciato dalla capitaneria di Cittanova
e del Comitato popolare locale. Allo stesso modo
il supposto duro trattamento riservato ai coloni era
insostenibile, disse Stocca, in quanto smentito dalle varie opere di bonifica, la costruzione di belle
case coloniche, del silo e delle stalle, nei rispetto
dei criteri più avanzati.
Da sei mesi a quattro anni
di lavori forzati
Le sentenze, come facilmente prevedibile, furono tutte di colpevolezza: il priore, “latitante”,
colpevole di aver esportato clandestinamente rilevanti somme di denaro e di averne occultate altre
(in nessun caso si precisa l’ammontare!) era condannato a quattro anni di lavoro obbligatorio “con
restrizione della libertà”. Quest’ultimo provvedimento – che poi stava ad indicare i lavori forzati – veniva applicato pure nei confronti di tutti gli
il tribunale del popolo emise la sentenza”. Altro che i maratonici e sfibranti procedimenti processuali dei giorni nostri: tutto si era concluso
nell’arco di due sole giornate, roba da far invidia anche a una corte marziale. Anche il fatto che, come scrive l’anonimo resocontista del
quotidiano fiumano - il Pubblico accusatore,
“in base a nuove prove” avesse esteso l’accusa contro don Amato e don Alfonso Del Signore “per aver contrabbandato a Trieste 1.900.000
lire” non aveva influito sulla speditezza dei giudici. Probabilmente era bastata la parola d’ordine diffusa dalla propaganda del regime secondo
cui, come si afferma nello stesso articolo, il monastero di Daila, dopo la sconfitta del fascismo,
“era rimasto una sua filiale propagandistica”.●
Il silo, struttura insolita per i tempi in cui fu
edificato, a testimoniare i sistemi agricoli avanzati che usavano i benedettini
altri imputati. Le pene detentive venivano pertanto
fissate a tre anni e mezzo per don Alfonso Pio Del
Signore, “riconosciuto colpevole” di esportazione
ed occultamento di valuta), un anno e mezzo per
don Ambrogio Ottavio Bizzarri (occultamento di
generi alimentari ed altre merci) e sei mesi per fra
Mauro Di Lelio (occultamento di viveri). Tutti erano inoltre condannati a un anno di perdita dei diritti
civili e politici a decorrere dal giorno in cui avessero finito di scontare la pena ed al pagamento delle spese processuali e, dulcis in fundo, si decretava
la confisca di tutti i beni mobili ed immobili appartenenti al monastero, che era poi la ragione prima di tutto il processo. Ironia delle umane vicende:
sicuramente quel giudice che emise una sentenza
del genere mai avrebbe potuto immaginare che che
sessant’anni dopo essa avrebbe creato una spaccatura tanto profonda fra il clero istriano e i vertici
della Chiesa croata e dato uno scossone forse non
minore ai rapporti fra Zagabria e la Santa Sede, anche perché la recentissima ripresa degli immobili
da parte dello stato sicuramente non significa l’ultima parola sul caso.
Dossier
B
Panorama 13
La storia di Daila
Il monastero come si presenta oggi. La contiguità del mare lo rende particolarmente appetibile...
Nelle altre foto si evidenzia lo stato d’abbandono del complesso in cui valore è enorme, data anche
la grande estensione dei terreni ad esso pertinente
Dossier
In Italia l’esito del processo fu duramente criticato dai mezzi d’informazione, esclusi ovviamente quelli ideologicamente vicini al potere jugoslavo – che, va ricordato, era ancora in piena
sintonia con tutto il blocco orientale: il conflitto sarebbe scoppiato l’anno successivo. Attraverso La voce libera di Trieste il CLN dell’Istria
condannava un processo “inscenato e minuziosamente preparato al solo scopo di dare veste legale all’espropriazione del monastero di Daila e
14 Panorama
delle sue tenute” sottolineando le assurdità contenute nella serie di accuse calunniose e diffamatrici su cui si edificavavano i processi da parte di
un apparato giudiziario al servizio di una fazione
politica. Di quanto avvenuto a Daila, si precisava, era stato informato anche il Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Come ben si può comprendere, l’effetto delle
reazioni sul potere jugoslavo fu nullo. I religiosi furono trasferiti nel campo di lavoro allestito a
Salvore e prima dovettero fare gli spaccalegna e
quindi trasportare pietre e ghiaia per la costruzione di una strada in direzione del faro di Punta Salvore. Più tardi ancora furono impiegati in lavori
agricoli nei campi e in attività domestiche, come
la cura dei pollai e dei porcili. Scontata la pena,
gradualmente furono liberati e partirono per Trieste dove furono interrogati dagli ufficiali inglesi,
dopo di che si diressero a Praglia. Anche i verbali triestini, si disse allora, furono inviati ai competenti uffici delle Nazioni Unite, ma ancora una
volta senza alcun riscontro di rilievo. Don Teodoro Amati, che già da Trieste si era adoperato ad
aiutare i confratelli in carcere, avviò subito presso
il Governo italiano le pratiche per il risarcimento
dei danni di guerra e le requisizioni da parte del
potere jugoslavo.
Partiti i religiosi, la resa dei campi si ridusse
notevolmente per tutta una serie di motivi che andavano da colture inadatte alla carenza di concimi. Su tutto pesarono poi taluni fattori sociologici. La primitiva distribuzione delle terre, accolta
all’inizio con favore dai beneficiati, mostrò presto
un’arma a doppio taglio in seguito al susseguirsi delle pressioni volte a irreggimentare i contadini nelle cooperative. Nel contempo l’attrazione
per la vita in città aumentava di giorno in giorno
favorendo gli abbandoni. La resa dei campi si ridusse in pochi anni al livello di un’agricoltura di
sopravvivenza.
L’edificio del convento fu adattato ad ospizio
per anziani, mentre nei locali adiacenti prese allog-
La storia di Daila
1997: la sentenza viene abrogata
Nel febbraio 1997 il tribunale conteale di Pola
presieduto da Ivan Milanović ha abrogato la sentenza pronunciata quasi cinquant’anni prima a
Buie: i monaci sono stati assolti dalle accuse principali per le quali erano stati condannati. In particolare la corte accettava nella sua integrità la testimonianza da cui risultava che i benedettini aiutavano i poveri della zona e dei dintorni e per farlo
dovevano disporre di determinati generi alimentari, in quanto altrimenti l’aiuto sarebbe stato impossibile. Conclusione: non era stata individuata con
certezza l’intenzione degli imputati di commettere
il reato di speculazione illecita e i generi alimentari
trovati servivano per aiutare i poveri.●
S’incrociano le vie dell’esilio benedettino
a vita religiosa nell’area di Daila ha una millennaria tradizione. Già nel V-VI se. vivevano qui monaci balisiani greci, come testimoniato dai resti di una chiesa paleocristiana. Nel IX
sec. subentrarono i benedettini. La vita monastica passò in secondo piano nell’XI sec. quando
l’area fu aggregata alla povera diocesi di Cittanova, ma nel cimitero di Cittanova una lapide
ricorda i frati seppelliti nel Seicento, provenienti da “Castrum Dailae”. Nel 1348 in proprietà
della famiglia Sabini, passò quattro secoli dopo
(1736) ai conti Grisoni che vi fecero importanti lavori. Nel 1835, perso il figlio in un duello,
L
Francesco Grisoni lasciò Dalia per testamento
in eredità ai benedettini dell’Abbazia di Praglia,
purché fondassero e mantenessero una scuola
elementare. Arrivarono in dodici nel 1860, costruirono l’abbazia e rimasero fino al processo
di cui si tratta in queste pagine.
Un episodio significativo: entrate le truppe italiane a Padova nel 1866, l’anno successivo viene
applicata nel Veneto la legge che sopprime tutte
le corporazioni religiose. Così la comunità di Praglia trova riparo nel monastero di Daila, allora in
territorio austriaco. Ottant’anni più tardi l’esilio
dei frati avverrà in senso inverso.●
Dossier
gio una dozzina di famiglie fra le tante che il regime fece affluire in Istria dall’interno del Paese per
rimpiazzare i vuoti lasciati dagli esuli. Va ricordato
infatti che i frati furono seguiti dalla grande maggioranza dei loro coloni. Alla metà degli Anni Novanta l’ospizio fu chiuso.
Panorama 15
Società
Riflessione estiva/crepuscolare sul significato sul senso della vita e della morte
Grazie amici, vi sia lieve la terra
di Marino Vocci
L
e prime piogge d’agosto hanno già abbondantemente rinfrescato il bosco, ma nonostante tutto l’estate con tenacia prosegue
il suo cammino. Questa stagione è il
simbolo della maturità, della bellezza
e della vita, delle lunghe ed emozionanti giornate trascorse tra una tonificante nuotata nell’azzurro del mare o
una sana e stimolante camminata nei
sentieri delle montagne o nel verde
della nostra Istria (straordinariamente verde quest’anno grazie alle tante
piogge estive), dei viaggi alla scoperta delle isole di questo nostro splendido Adriatico. Mesi che ci regalano soprattutto momenti di gioia grazie alle
frequenti occasioni di ritrovarsi e fare
due ciacole, anche con gli amici (un
tempo erano gli emigranti che ritornavano nella loro terra di origine e nelle
loro case), che abitualmente si vedono di meno.
Di questa estate 2011 ricorderò
soprattutto però il dolore vero, sordo e profondo per il vuoto lasciato
da alcuni amici carissimi che hanno
intrapreso anzitempo il loro ultimo
viaggio: Gaetano, Luciano, Matteo
Il Jof di Montasio dove Federico nel portare le ceneri del fratello Matteo
è stato colpito da un fulmine
e Federico e in particolare ricorderò
come ho vissuto insieme a tantissimi
amici e amiche, la loro morte.
Gaetano, un uomo sempre disponibile, buono fino all’ingenuità, un
uomo aperto e “accogliente” come lo
è sempre stato questo nostro Adriati-
La cattedrale di Toluca, città in Messico in cui è morto Matteo in un incidente stradale
16 Panorama
co, diviso tra la sua Puglia e la mia
Istria; che ha lasciato il suo (o il nostro) carissimo figlio Michele dopo
una lunga e difficile malattia, sopportata con la gentilezza che ha sempre contraddistinto tutta la Sua vita.
Luciano, un giovane (aveva più
o meno la mia stessa età), che amava presentarsi così:”Ho la fortuna di
amare molto e di essere molto amato. Rido di tante cose, in particolare
di me stesso. Faccio lo scrittore soprattutto per adolescenti”. Per tutta
la vita ha avuto la forza e il coraggio di difendere sempre e ovunque i
valori fondamentale della convivenza civile, della laicità e soprattutto le
proprie idee.
Matteo, morto all’inizio dell’estate a Toluca in Messico per un incidente stradale, la sua moto era ferma
ad un casello autostradale quando
è stata travolta da un camion. Triestino, giornalista, Matteo viveva in
Messico, da oltre dieci anni, dove
proprio nella sua capitale insegnava l’italiano e lavorava come ricercatore presso il Centro de Investigación Laboral y Asesoría Sindical, un
centro di ricerca legato al movimento sindacale.
Società
La Chiesa evangelica di Largo Panfili di Trieste, dove abbiamo dato l’ultimo saluto a Luciano
Federico, fratello di Matteo, pilota di aerei civili, lunedì 1° agosto
era salito in cima ai 2.754 metri dello
Jof di Montasio, la vetta più bella e la
cima delle Alpi Giulie più amata da
Matteo, per liberare nell’aria le ceneri del fratello. Lì, in un punto vicinissimo al cielo che ben conosceva, un
fulmine lo ha colpito mortalmente.
Era l’ultima promessa che insieme a Gabriele Franco aveva fatto
al suo/nostro fratello nel giorno del
commiato, quando con le ceneri nello zainetto arancione, insieme a moltissimi amici aveva condiviso con
una camminata dal Centro Culturale
Preseren al Rifugio Premuda in Val
Rosandra, il commosso e bellissimo
ultimo saluto.
E proprio ripensando a questi fatti e al “corteo” in Val Rosandra, mi
sono ritrovato a riflettere sul significato e il valore profondo dell’amicizia, sul senso della vita e della morte, ma soprattutto (partendo dal fatto
che nel nostro ultimo viaggio saremo
partecipi in modo molto passivo) su
come vengono celebrati i funerali e
su come vorremmo essere salutati e
ricordati. Come viviamo oggi la morte di un’amica o un amico, di un proprio caro ?
L’ultimo saluto a Luciano che di
religione era valdese, è stato ospitato
(un‘accoglienza straordinaria!) nella
Chiesa evangelica di Largo Panfili.
La cerimonia è stata intensa, vera e di
una bellezza vitale. Quello a Gaetano
invece, ospitato nella chiesa cattolica del Cimitero di Sant’Anna sempre
a Trieste, in un’atmosfera di intensa
commozione mi è sembrato freddo
e distante, quasi senz’anima e dove
a tratti prevaleva una certa retorica.
Eppure condividiamo lo stesso dio!
Certo i momenti dell’addio ai fratelli Matteo e Federico Dean sono
stati quelli che mi hanno emotivamente colpito di più. Certamente
per l’immane e sconvolgente coincidenza della tragedia, per la giovane
età delle vittime, ma soprattutto per
come i loro coetanei hanno scelto e
voluto condividere il dolore.
Per questo voglio concludere questa riflessione estiva/crepuscolare, riportando quanto, per ricordare Matteo, ha scritto un giovane amico di
nome Alberto: ”… siamo come tanti
cuccioli sempre assieme e ci diamo
manate … e tutti ci guardano straniti e non capiscono se stiamo facendo a botte o se giochiamo. Il corteo
non è partito neanche da dieci minuti e già ci caricano e ci ritroviamo tra
i piedi una bandoliera con la pistola
attaccata e caschi e manganelli e gli
rilanciamo tutto indietro… sui binari di Bologna spariamo a palla Lust
for Life. A Napoli mangiamo alghe
fritte e parliamo con compagni di tutta Italia che vogliono occupare i treni. E andiamo ad Amsterdam e poi a
Parigi, però a Ventimiglia c’è la legione straniera e fuori dalla galleria
non si esce e torniamo indietro… con
gli scudi entriamo a spinta dentro in
Portovecchio e il Cpt dopo un mese
chiude. E c’è pure Andrea che siamo
sempre stati convinti che era romano e invece scopriamo che è triestino
pure lui e dopo un mese gli scudi li
vediamo in televisione di fronte alla
Turkish Airlines a Roma e c’è pure
un ariete e i treni stavolta li prendiamo con i curdi e Matteo parla pure
la lingua loro. E nel frattempo con
Gabriel sono andati insieme in Messico e sono tornati con delle foto di
spiagge da paura e due tatuaggi sulle
braccia che se li uniscono diventano
uno solo e l’altro giorno ho chiesto
a Gabriel di poter toccare il suo. E a
Valona andiamo in pochi e siamo incazzati che al ritorno non c’è venuto
a prenderci nessuno in stazione e invece troviamo Matteo da solo con la
barba lunga… E poi Matteo parte e
ritorna che lo hanno espulso perchè
gli stranieri non possono partecipare
alla vita sociale della nazione e quando arriviamo nello zocalo di Città del
Messico abbiamo appuntamento sotto l’enorme bandiera e non lo riconosciamo perchè è in incognito e si
è tinto i capelli di nero e c’ha le lenti a contatto colorate e non riusciamo a trattenere le risate. E andiamo a
bere centrifughe di frutta e cominciamo a parlare in russo maccheronico
e storpiamo canzoni e gli diciamo tu
vuoi fare il messicano ma sei nato ad
Opicina… E in macchina ci dice che
la cosa che lo ha fatto incazzare di
più da quando sta in Messico è quella
volta quando gli hanno gridato gringo. Ma vi rendete conto? Mi hanno
chiamato gringo? A me?… Non lo so
perchè oggi sto raccontando queste
cose. Di sicuro so che per me Matteo è tutto questo e molto altro ancora… Penso che Matteo sia tutti
noi. Perchè Matteo ha sempre praticato e usato il noi in maniera inclusiva e mai escludente…. Erano anni
che non vedevo tutta la cucciolata
insieme. La famiglia nostra sembra
come sia tornata a unirsi e ci sono un
sacco di cuccioli nuovi. Fanno mille domande e sono affamati di storie.
E’ una cucciolata meticcia, bastarda
proprio come quella in cui siamo cresciuti con Matteo. Sarebbe stato impossibile attraversare questi giorni
senza il calore di tutti loro..”.
Grazie amici cari e Vi sia lieve la
terra●
Panorama 17
Storia oggi
Un episodio minore della Grande Guerra, che aiuta a comprendere que
L’encomiabile contributo delle porta
di Fulvio Salimbeni
I
l 23 luglio scorso a Timau, frazione di Paluzza, in Carnia, s’è svolta una sobria cerimonia pubblica
in ricordo delle portatrici carniche, in
una prima parte reinaugurando il monumento loro dedicato già vent’anni fa
- ma allora a valenza soltanto locale -,
ora, restaurato e rimesso a nuovo, elevato a dignità nazionale, mentre un secondo momento è stato dedicato a un
convegno su “Il sacrificio delle donne
di Carnia unisce l’Italia: le portatrici
carniche”, a ragione inserito nelle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Nell’articolo di due settimane fa s’è
messa in luce la politica dei monumenti per ricordare l’esempio degli eroi del
Risorgimento: quello carnico vi rientra in pieno, perché, di là dall’apprezzabile semplicità e assenza di qualsiasi enfasi retorica, esso, collocato nella
piazza principale del borgo, che si trova a ridosso del passo di Monte Croce
Carnico, lungo il quale dal 1866, anno
dell’annessione di queste terre al regno
sabaudo, corre il confine italo-austriaco, ricorda a tutti quelli che vi passano davanti, e non possono non notarlo, un episodio particolare della Grande
Guerra, finora quasi del tutto ignorato
fuori dall’ambito locale.
Un indubbio merito nel farlo conoscere a livello nazionale lo è dovuto a
un rigoroso e ben documentato romanzo storico, uscito nel 2008, di Claudio
Calandra, Bucce d’arancia sul fronte di
nord-est, pubblicato con notevole successo dall’editore Falzea di Reggio Calabria, in cui con delicatezza viene raccontato l’amore sbocciato tra un bersagliere siciliano, mandato a combattere
su quel fronte, minore rispetto a quelli
carsico e cadorino, teatro dei più spaventosi massacri, e una giovane del
luogo, da ciò traendo lo spunto per narrare con semplicità e rigore storico la
vicenda delle donne del posto, coinvolte in una vicenda davvero eccezionale e
che ben rappresenta quel tragico evento bellico nella sua concreta umanità e
sofferenza.
Se oggi è assioma condiviso della
miglior storiografia che la storia generale può essere meglio compresa solo
partendo dalla microstoria, dai casi
particolari, nella loro specificità in un
preciso contesto, l’episodio conferma
in maniera magistrale tale asserzione.
Si tenga, inoltre, presente che è passato ormai il tempo in cui occuparsi
del primo conflitto mondiale significava soltanto parlare dei condottieri Cadorna, Diaz, Conrad, Joffre, Nivelle, Foch, Hindenburg e Luddendorf
-, meglio sarebbe definirli quasi tutti macellai, vista l’insensibilità per le
vite dei loro uomini, e delle tremende
battaglie sull’Isonzo, in Galizia, nelle
Fiandre, nella Somme e nell’Artois.
Affermatasi ora la concezione della storia sociale e culturale della guerra, l’interesse degli studiosi s’è spo-
Le portatrici carniche, con al polso un braccialetto
rosso di riconoscimento del reparto dal quale dipendevano, durante la Grande guerra rifornivano un
fronte che andava da Coglians al Monte Questalta
18 Panorama
stato dalla finora prevalente dimensione militare e politica a quella più
propriamente antropologica, attenta
al vissuto quotidiano di chi si trovava in prima linea e di quanti, invece,
costituivano quello che veniva definito il fronte interno. In tale ottica rientra in pieno il discorso sulle portatrici
carniche, donne militarizzate, arruolate, con una paga giornaliera d’una lira
e mezzo, per portare al fronte - inerpicandosi per sentieri battuti dal fuoco
dei cecchini austriaci e salendo ad alte
quote - ai loro uomini in trincea, gerle
colme di viveri, medicinali, munizioni (e pesanti anche 30-40 chili), al momento della ridiscesa a valle caricandosi sulle spalle feriti, bisognosi d’assistenza e cure negli ospedali di retrovia. Ciò che a noi oggi può sembrare
incredibile, per quelle donne, che potevano essere tanto ragazzine quanto
le loro madri e, talvolta, nonne, era
quasi normale e abituale.
La Carnia, infatti, era, e tuttora in
larga misura lo è, un’area povera e depressa, in cui già dal Cinquecento, ma
ancor più tra Otto e Novecento, in seguito alla crisi economica mondiale
che imperversò dal 1873 al 1898 - gli
uomini di solito a primavera emigravano stagionalmente per l’“Alemagna”, come allora si definiva il mondo
tedesco in generale, rientrando in paese solo ad autunno inoltrato, lasciando
alle consorti, madri o figlie il compito
d’occuparsi dei vecchi e dei bambini,
A Timau nel 1992 è stato inaugurato il monumento
a Maria Plozner Mentil, uccisa nel 1916 per mano di
un cecchino austroungarico mentre trasportava con
la gerla i rifornimenti ai soldati in prima linea
Storia oggi
ell’immane tragedia
atrici carniche
della casa, della fienagione dei prati e
della cura dell’orto, lavori gravosi, che
le tempravano a tutto, sicché per esse,
a guerra iniziata, non sembrò affatto
strano assumersi questo nuovo compito, che, oltre tutto, consentiva d’aiutare i loro cari, dato che il reclutamento
delle unità alpine era perlopiù su base
locale. Tutti gli uomini validi essendo
sotto le armi, per lo Stato Maggiore
italiano s’imponeva l’esigenza di trovare dei sostituti che li rimpiazzassero nell’opera di sussistenza e rifornimento alle truppe combattenti. Da qui
l’idea d’arruolare, su base volontaria,
le donne disponibili, cui il soldo quotidiano garantito, per quanto misero
rispetto alla fatica e ai rischi, era pur
sempre qualche cosa di sicuro e d’utile in un momento così difficile come
quello. Tale militarizzazione della
componente femminile, del resto, non
riguardò solo quella carnica, che ne è
forse l’esempio più clamoroso e rilevante, benché finora meno conosciuto,
perché quel che accadde in Italia avvenne in tutta Europa.
La Grande Guerra è stata tale, non
semplicemente per il fatto d’essere durata per più di quattro anni ininterrottamente - cosa fino allora mai avvenuta, perché i conflitti ottocenteschi, con
l’eccezione della guerra civile americana, episodio anomalo e a sé stante,
di solito si risolvevano in pochi mesi
e in una o due battaglie, relativamente sanguinose, che coinvolgevano solamente gli abitanti della zona delle
operazioni -, d’aver provocato milioni di morti e distruzioni materiali immense, sicché a ragione lo scrittore
austriaco Stefan Zweig ha potuto definirla il suicidio della civiltà europea,
ma anche perché ha visto il coinvolgimento totale delle popolazioni, che
sono divenute il fronte interno, poiché
il conflitto ormai impegnava non solo
chi era in prima linea o nelle immediate retrovie, ma pure chi ne viveva lontano, mobilitato, però, a servizio della
Patria in armi. Le donne, pertanto, furono chiamate a prendere il posto degli uomini negli uffici, nei servizi pubblici, nelle fabbriche, operando negli
stessi ospedali da campo e nelle strut-
Timau, il piccolo paese in Carnia in cui si è svolta la cerimonia pubblica
ture di sussistenza e ausilio materiale
e spirituale per i soldati. Tale fu l’importanza del loro apporto che i governi dei paesi belligeranti dovettero promettere l’estensione del voto ad esse
per averne una più piena e attiva partecipazione. In tale ottica allora si spiega
la vicenda carnica, che, però, può essere letta anche in un’altra prospettiva,
di lungo periodo.
Come rilevato all’inizio, la cerimonia di Timau è stata inserita all’interno
del programma di manifestazioni per i
150 anni dell’Unità, e ciò non soltanto perché il primo conflitto mondiale
da molti è stato sinceramente vissuto e percepito come la quarta e ultima
guerra d’indipendenza, che portava a
compimento il processo d’unificazione nazionale, ma anche per il fatto che
la vicenda delle portatrici si colloca
più che degnamente nel nuovo filone
della “storia di genere”, che ha scoperto e rivalutato il ruolo della componente femminile, in tutti i suoi aspetti,
nella storia generale, finalmente non
più scritta solamente al maschile. Così
negli ultimi tempi sono stati pubblicati
numerosi pregevoli studi sul contributo muliebre al Risorgimento nazionale, che ha visto coinvolte aristocratiche
milanesi come Cristina Trivulzio di
Belgiojoso e umili popolane romane al
tempo della Repubblica del 1849, cittadine e contadine, italiane e straniere,
come la brasiliana Anita, consorte di
Garibaldi, Jessie White Mario, l’inglese ammiratrice di Mazzini e dell’Eroe
dei Due Mondi, l’americana Margaret
Fuller e la svizzera Giulia Calame, che
nel 1848 partecipò attivamente insie-
me con il marito, il grande attore teatrale, e fervente mazziniano, Gustavo Modena, ai moti insurrezionali in
Friuli; a questo proposito, va segnalato
che Fabiana Savorgnan di Brazzà, valente italianista dell’Università di Udine, sta preparando un saggio proprio
sul contributo delle friulane alle vicende risorgimentali. In tale ottica, perciò,
le portatrici carniche rientrano a pieno
diritto nelle celebrazioni per l’Unità,
oltre che nelle commemorazioni della
Grande Guerra: si tenga presente che
ad esse venne esteso il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto”, con i conseguenti benefici morali e materiali,
mentre nel 1997 il Presidente della Repubblica, on. Oscar Luigi Scalfaro, insignì della medaglia d’oro alla memoria Maria Plozner Mentil, uccisa da un
cecchino austriaco nell’adempimento del dovere e oggi ricordata pure nel
monumento di cui s’è detto. L’eroismo
e il patriottismo delle donne carniche
ebbe, inoltre, modo di rifulgere anche
nell’estate-autunno del 1944, allorché
parteciparono attivamente alla gloriosa esperienza della Zona Libera, poi
Repubblica Partigiana, della Carnia,
in seguito spazzata via dalla feroce repressione tedesca e dei cosacchi collaborazionisti dell’atamano Krasnov.
Aver scolpito, in questo caso, le
eroine, per parafrasare il titolo del già
menzionato catalogo, ha permesso di
trasmettere alla memoria dei posteri e
dell’intera Nazione una vicenda tanto,
in apparenza, umile quanto, in realtà,
di grande umanità, densa di significati
e conferma della spaventosa tragicità
di quella guerra.●
Panorama 19
Cinema e dintorni
Corpo Celeste, di Alice Rohrwacher, ottima prova di un’autrice giovane
Comunità disgregata: analisi impietosa
di Gianfranco Sodomaco
C
hi l’ha già vista alla ‘Quinzaine des Realisateurs’, la
rassegna del Festival di Cannes (11-22 maggio) dedicata ai nuovi autori, l’ha giudicata subito come
l’opera più bella ed interessante. Parliamo di Corpo Celeste, di Alice
Rohrwacher, sorella dell’attrice, già
affermatissima, Alba. Il film è uscito, quasi clandestinamente, in questi
giorni (ma i meccanismi della distribuzione estiva ormai li conosciamo
da un pezzo) con un’accoglienza, visto il periodo, molto favorevole, sia
da parte del pubblico che della critica
nostrana. Vale davvero la pena parlarne, sperando che il mercato non
abbandoni troppo presto il prodotto
in qualche magazzino...
“Corpo Celeste” è liberamente
tratto dal romanzo omonimo di Anna
Maria Ortese (una delle grandi scrittrici italiane, morta nel 1998) ed è la
storia del ritorno a casa di una giovane famiglia calabrese tutta al femminile, madre e due figlie, dopo dieci anni in Svizzera. Ma soprattutto è il romanzo di crescita della piccola Marta (Yile Vianello), 13 anni,
del suo sguardo straniero e smarrito
sui riti di una comunità adulta che ha
20 Panorama
perso ogni ragione di stare insieme,
ogni identità e ne cerca il surrogato
in un vuoto conformismo ammantato
di parvenza religiosa. Insomma Marta, come da tradizione, deve fare la
cresima ma iniziando a frequentare il
corso di catechismo ad essa finalizzato comincerà a conoscere, più che
l’antica pedagogia cattolica italiana
(che tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo sperimentato e di cui serbiamo ricordi più o meno piacevoli), il
modo ‘sconcio’ con cui, oggi, in certi luoghi, viene intesa la religione:
avendo fatti propri i luoghi comuni
televisivi, il suo più bieco conformismo e la sua combutta con l’opportunismo politico (“Non è un film sulla
Chiesa, ma casomai questa è utilizzata solo come lente d’ingrandimento di una certa Italia di oggi”, Intervista ad Alba Rohrwacher, Il Piccolo,
6 maggio) Sicché le scene e i personaggi più surreali del film finiscono
con l’essere i più reali. Il prete di parrocchia (Salvatore Cantalupo) che fa
il galoppino politico per ottenere una
promozione, la catechista che si ispira ai quiz televisivi per ‘vendere’ ai
ragazzi il cattolicesimo e intona canzoncine e slogan dementi ma alla
moda: “Mi sintonizzo con Dio, è la
frequenza giusta!” E non a caso uno
dei pochi personaggi positivi della
storia è un prete di villaggio (il bravo
Renato Carpentieri) che rivela a Marta la ‘follia’ di Gesù, il genio più anticonformista della storia dell’umanità, e apre a Marta, fortunatamente,
prospettive più vere e limpide.
La regista è molto brava (favorita
da una esperienza di documentarista)
nel descrivere il paesaggio che fa da
sfondo ‘naturale’ alla vicenda, il profondo sud che purtroppo già conosciamo: i ponti morti, che collegano
il nulla al nulla, gli scheletri di case
mai terminate, i fiumi trasformati in
discariche tossiche ecc. Ma anche di
far recitare, allo stesso livello, professionisti eccelsi come Salvatore
Cantalupo, Carpentieri e Anita Caprioli (la madre), con dilettanti dalla resa sbalorditiva. Prima fra tutti la
Yile Vianello (“Non riuscivo a trovare la protagonista, mi si presentavano
solo tante piccole veline. Poi ho trovato Yile, che vive in una comunità
montana isolata ed era perfetta”, Intervista citata) e Pasqualina Scuncia
(Santa, la catechista), un talento naturale che misteriosamente fin qui ha
sempre fatto la tabaccaia. Una capacità, questa ed altre, che secondo me
avvicina “Corpo Celeste” al film italiano più importante del passato decennio: “Gomorra”, di Matteo Gar-
Cinema e dintorni
rone, tratto dal romanzo di Roberto
Saviano.
Dunque l’Italia di oggi, dunque il
Sud, complice la classe dirigente politica, che non riesce ad
affrancarsi, nonostante
tante bellissime eccezioni, dal sottosviluppo sociale e culturale; ma anche la crisi, la ‘cristallizzazione’ del fenomeno
religioso italiano, complice l’alta gerarchia
cattolica, ancora legata, purtroppo, a doppia
mandata al potere politico. E quanto sostenuto
dal film trova piena conferma scientifico-sociologica nel libro, frutto
di una ricerca d’equipe
dell’Istituto Cattaneo di
Bologna, “Geografia dell’Italia cattolica”, curato da Roberto Cartocci e
pubblicato da ‘Il Mulino’ (2011). Sinteticamente: un Nord sempre più secolarizzato, laicizzato, un Sud sempre tradizionalmente ‘devoto’ con
tutto ciò che ne consegue e ne è causa. Ebbene, solo per fare un esempio,
a Napoli i matrimoni civili sono mediamente il 26 per cento, a Catania il
32 mentre a Milano sono il 57, praticamente il doppio. Sicché appunto, scrive Cartocci, “la mappa della
nuova Italia cattolica è sovrapponibile a quella dell’Italia dell’inefficienza pubblica e del degrado civile...: si
prega di più dove c’è meno raccolta differenziata dei rifiuti, si va più
a messa dove si emigra di più verso
gli ospedali del Nord. La devozione
meridionale tradizionale convive con
una società disgregata, incapace di
produrre, nei ‘parrocchiani’, un coinvolgimento che vada al di là del puro
ritualismo e formalismo: soprattutto,
di contrastare la corruzione delle istituzioni, il dilagare dell’illegalità, il
degrado del senso di comunità, il deficit di Stato”.
Eppure (le bellissime eccezioni), come non ricordare che nel Sud
sono stati ammazzati da mafia e camorra due preti scomodi come don
Pino Puglisi e don Peppino Diana,
e che don Luigi Ciotti, attraverso la
sua associazione, “Libera”, da anni
sta conducendo una attività, una lotta, contro tutte le mafie, coinvolgendo soprattutto i giovani in un’opera di
sensibilizzazione e liberazione culturale da antichi preconcetti ed ataviche
consuetudini. Affiancando, don Ciotti, il lavoro delle forze dell’ordine e,
soprattutto, aiutando le popolazioni a
gestire i territori confiscati dallo Stato alle organizzazioni criminali. E i
vescovi, finalmente, questo lo sanno e, finalmente, sfornano documenti sulla ‘questione meridionale’ come
mai prima. E a tal proposito, lo pensa anche un non credente come il sottoscritto, risuonano ancora le furenti
parole di Giovanni Paolo II ad Agrigento (1993)
contro la mafia: “convertitevi”!
Se “Corpo celeste” suscita tutte queste emozioni, queste considerazioni,
significa che davvero si
tratta di un film che ‘centra il bersaglio’, che va
nel profondo non solo del
sentimento religioso più
o meno variamente diffuso ma anche di quello civile, così duramente messo alla prova nell’ Italia di questi anni
‘terribili’. E non a caso il goriziano
‘Premio Amidei’, dedicato alla migliore sceneggiatura cinematografica
e di cui parleremo la prossima volta,
ha conferito, il 16 luglio, alla regista
e sceneggiatrice Alice Rohrwacher il
premio ‘Opera Prima’...●
Per una svista, nel servizio dedicato al Festival di Pola
comparso nel n.14 di Panorama, in una didascalia sono venuti a mancare i nomi del vicesindaco di Pola Fabrizio Radin
e dell’ambasciatore Alessandro
Pignatti Morano di Custoza.
Ce ne scusiamo con gli interessati e i lettori. Panorama 21
Reportage
Nel piccolo paese nei dintorni di Gimino una delle più belle grotte istriane
Il Regno sotterraneo dei Festini
Testo e foto di Ardea Velikonja
D
ieci anni fa era un comune campo agricolo con “una
buca” pericolosa che era stata chiusa con sassi e terra dopo che
un giovane mulo era caduto dentro e si era fratturato una zampa. E
poi c’erano i bambini che correvano
sull’erba e, pur essendo loro vietato di avvicinarsi alla buca, strisciando o muovendosi a carponi, entravano per quanto possibile a curiosare
nell’ignoto di quella “fredda grotta” come era comunemente chiamata. “Io ero bambino e avevo terrore di questo buco oscuro che conteneva anche dell’acqua. I miei amici
più grandi si calavano giù e uscivano gridando di aver visto un grande
re che li guardava fisso negli occhi.
Da qui il nome di Regno dei Festini.
Ciò succedeva subito dopo la seconda guerra mondiale, fino a che non
si provvide alla chiusura per le ragioni di cui si diceva. Molti anni più
tardi, grazie all’interessamento di
alcune società speleologiche istriane
ci si rese conto della vastità di questa meraviglia sotterranea. Fu così
che decidemmo di tutelare tutto ciò
che c’era al suo interno, ossia fermare la devastazione in corso in attesa
di tempi migliori.”
Un bel prato, la natura intatta invogliano tante famiglie a passare almeno mezza giornata a Festini
Questo quanto ci ha raccontato
Romano Božac, proprietario del terreno di Festini, piccola frazione di
Gimino, dove i tempi migliori sono
arrivati tre anni fa con l’apertura al
pubblico di questa che qui viene definita la più piccola ma anche “la più
ricca” grotta dell’Istria. Nel 2005
le sue figlie Snježana Širol e Mirjana Orbanić pensano a riassettarla. “L’idea di ripulire tutto ci venne
dopo l’incontro con un appassionato
che ci era venuto a chiedere se poteva
in qualche maniera entrare per vederla”, ci ha raccontato la signora Širol.
“Io risposi di sì e dopo tante peripe-
Snježana Širol e il padre Romano Božac mentre ci raccontano come š
nata l’idea di aprire la grotta
28 Panorama
zie per realizzare l’intento - dato che
bisognava ‘fare i conti’ con tonnellate di materiale scaricate lì da chissa
quando - l’uomo uscì entusiasta e ci
indicò le persone adatte per rendere
accessibile la grotta.
“E qui devo ringraziare gli esperti della Grotta di Baredine, le società di speleologi di Pisino e Parenzo
nonché l’associazione “Natura Histrica” che ci ha aiutato tanto. Abbiamo cominciato con il ripulire l’entrata ed è stato subito un lavoraccio perché il terreno era molto molle e ogni
escavatrice, appena all’opera, tendeva a sprofondare, prova ne sia che gli
interventi sono cominciati nel 2005
e l’apertura è avvenuta appena nel
2008. Poi bisognava mettere a punto l’accesso, costruire la scalinata e
quindi pensare alla grotta vera e propria. E qui abbiamo dovuto far intervenire il Ministero alla cultura che ci
ha aiutato a effettuare i lavori di illuminazione e creare il passaggio senza arrecare danni alle stalattiti e stalagmiti, prezioso dono della natura.
Oggi possiamo dire che la grotta è
tutelata al massimo dato che è ancora attiva, il che significa che l’acqua
continua a modellare i suoi interni.
Nel nostro piccolo abbiamo dai 3 ai
4000 visitatori all’anno e le preferenze crescono sempre più. Sono però
ancora tanti i villeggianti al mare che
nulla sanno di questa grotta ma speriamo che in futuro gli enti turistici ci
L’entrata a 14 metri sotto terra
La visita alla piccola ma bella grotta dura venti minuti
con la guida che spiega tutto sulle stalattiti e le stalagmiti
Panorama 29
Piccola, ma la più artistica in Istria
Il Cappello del mago, le perle, i denti di
coccodrillo, la zampa di dinosauro, sono
tutto figure che la natura ha creato in milioni di anni, goccia per goccia
30 Panorama
a
Panorama 31
Da Gimino a Murano
La sabbia silicea istriana da sempre veniva
usata per il noto vetro
di Murano. E vicino
alla grotta è stata allestita una galleria in
cui si racconta la storia
della “varina” come il
composto viene chiamato da queste parti
32 Panorama
Reportage
includano nella loro offerta. Qui abbiamo costruito l’entrata dove si paga
il biglietto con un paio di tavolini in
cui ai visitatori offriamo o un bicchierino di grappa o un bicchiere di vino
fintanto che aspettano il turno. Si entra a gruppi, non più di venti persone con la guida che spiega in italiano
e inglese. Nei mesi in cui i bambini
vanno a scuola, abbiamo molte visite organizzate e per loro prepariamo
anche qualche gioco con le zucche o
la corsa con i sacchi, insomma un po’
di divertimento sul grande prato antistante di modo che possano trascorrere qui tutta la giornata.
Dall’altra parte abbiamo costruito da poco una “galleria” in cui c’è
la storia della famosa sabbia silicea
istriana che veniva e viene usata per
la produzione del bellissimo vetro di
Murano, fatto ignorato non solo dai
bambini ma anche da tantissimi adulti. Per noi la grotta rappresenta un
grosso investimento che speriamo
con il passar del tempo riusciremo a
giustificare”, ha concluso Snježana Širol, prima di condurre un gruppo
nel sottosuolo.
Vediamo ora un po’ la storia della
grotta: secondo una versione fu scoperta negli anni ’30 del secolo scorso,
quando Tone Božac, noto “Frajtar”,
durante le operazioni di messa a dimora del proprio vigneto, scoprì casualmente una cavità ipogea. Mentre
scavava un buco per piantarvi un nuovo tralcio di vite, infatti, perse il “pikun” (piccone) che venne risucchiato
all’interno della grotta. Lì per lì non
capì cosa rappresentasse quel “buco”,
e decise di ricoprirlo con della terra
per evitare che qualcuno, cadendoci, potesse farsi male. Ma non ci riuscì, perché la terra, invece di ricoprire
il fosso colmandolo, vi sprofondava
dentro. Gli anni passarono e nessuno capì mai che cosa si nascondesse
sotto la vigna di “barba” Tone Frajtar.
Dopo alcuni anni, cercando un rifugio sicuro in previsione degli imminenti eventi bellici, la gente del paese
decise di verificare che cosa nascondesse quel fosso. Rimossa la terra dal
fosso, s’aprì finalmente l’accesso. La
meraviglia dei presenti fu tanta; nessuno poté credere ai propri occhi nel
vedere che cosa nascondeva il sottosuolo del paese. I bambini dei paesi
vicini furono tra i primi a visitare la
grotta, ed alla domanda dei loro geni-
Varina
I
Quando stalattite e stalagmite si
incontrano e si fondono, la formazione prende il nome di colonna
tori che volevano sapere dove fossero
stati, rispondevano che avevano visitato “il reame”. Ecco perché la grotta
tutt’oggi si chiama “Feštinsko kraljevstvo”, cioè “Il regno di Feštini”. Tra
le mille vicende legate alla grotta, ve
n’è anche una tragicomica. Un asinello irrequieto, che per i contadini d’allora valeva tanto oro quanto pesava,
giocherellando nei pressi della grotta, vi cadde dentro. Per fortuna non
si fece nulla, a parte lo spavento. Impegnati ad estrarlo dal profondo della
grotta, i paesani scherzavano dicendo
che l’asinello era andato a far visita
“al reame”.
La grotta affascina per la bellezza delle fantasiose forme di stalattiti
e stalagmiti, tra le quali ricordiamo:
il “Cappello del mago”, la “Torre di
Babele” e le enormi “Ali di pipistrello”, percorse dalle radici di una vite
che attinge l’acqua dal fondo. Di fatto lo spazio rimanda a una sala ovale
irregolare, lunga in tutto 67 m. Il suo
punto più largo misura 27 m, quello
più profondo si trova a 9 metri sotto terra, mentre il punto più alto della
volta misura 6 m. La temperatura media è di 13-15 gradi.
Non si sa la sua età più precisa, ma
comunque si parla di qualche milione
di anni. È molto più profonda, ovvero dopo la parte visitabile ci sono an-
l sedimento siliceo istriano,
ovvero la sabbia quarzosa,
viene chiamata dalla gente del
posto Var. Essa è una pregiata materia prima minerale che
veniva estratta già nell’antichità per la produzione del vetro.
Non esistono dati precisi sulle
attività minerarie durante il dominio di Venezia in Istria ma si
suppone che questo var venisse
estratto e poi trasportato a Murano quale materia prima nella produzione del noto vetro di
Murano. L’estrazione della sabbia quarzosa - var o saldam cominciò dopo la prima guerra
mondiale. Erano due imprese
italiane ad occuparsi di questo
lavoro: producevano fino a 25o
tonnellate di sabbia al giorno.
La sabbia veniva scavata per lo
più in sotterraneo. Gli ingressi
della miniera erano di due metri
per due. La profondità media di
uno scavo era tra i 6 e gli 8 metri ma in alcune zone si arrivava a 20 metri. Dato che i chicchi di quarzo sono molto piccoli
tutti i lavori venivano effettuati
a mano. Oggi le varie gallerie
dalle quali si estraeva la sabbia
sono abbandonate.
I chicchi di quarzo
cora centinaia di metri in profondità
che però possono venir visitati solo
dagli speleologi che hanno scoperto
tanti laghetti sotterranei. Ci vorrà del
tempo affinchè si arrivi ad “allargare” questa parte perchè, come detto,
la tutela è molto severa e le preziose creazioni dell’acqua non si devono toccare.●
Panorama 33
Letture
Il respiro del deserto
Per la quarta volta un testo di Mario Schiavato viene
premiato al Concorso di letteratura di montagna “Carlo Mauri” di Lecco, aggiudicandosi lo scorso maggio il
secondo posto con il racconto “Il respiro del deserto”.
Questa la motivazione: “È un racconto, fuori schema,
di avventura pura: il resoconto pulito di un ambiente
incontaminato nei luoghi e nelle persone, in cui spicca,
tra una scalata e l’altra, l’interessante incontro dell’alpinista con un uomo del deserto”.
di Mario Schiavato
Sono passati gli anni, ma ho ancora le pupille piene
di quella luce. Non di sole, perché le tempeste di sabbia
talvolta ce lo hanno tenuto nascosto, ma proprio di luce:
calda, intensa, smagliante, sfolgorante. Ho gli occhi pieni
di fantastici riverberi: piovevano dalle creste vertiginose,
dalle pareti lisce e dai più riposti anfratti delle rocce, sostavano sulle lame impossibili delle vaste dune di sabbia,
si perdevano nelle fughe degli orizzonti sconfinati, si riflettevano nei colori pastosi anche quando un velo leggerissimo, smeraldino, di erbette appena spuntate, ricopriva
la distesa del Tadrart come lo chiamano i Tuareg, la nostra
meta, che si estende per ben 50.000 km2 spesso elevandosi con vette di tale arditezza e di tale verticalità da farle
considerare “le Dolomiti sahariane”.
Mi bastarono pochi giorni per concordare la partenza.
Franco mi telefonò da Trento, mi disse di un piccolo gruppo di amici che avevano scelto quella meta insolita, quella forse un po’ pazza avventura sulla quale, per la verità,
noi due avevamo già almanaccato parecchie volte mentre
stanchi, aspettavamo la notte nel chiuso dei rifugi d’alta
quota, ed io logicamente non seppi resistere. Chiesi:
- Il deserto? Le sue montagne? La sua sabbia?
- Sì, il deserto prima di tutto, il Tadrart con le sue montagne, e magari chissà che non ci scappi anche l’Hoggar o
Agarat come è indicato sulle carte… Hai di che scegliere!
Ce ne sono di vette negli otto milioni di chilometri quadrati del Sahara! La sabbia? Soltanto il 12 per cento della sua superficie è coperto dalla sabbia. E il resto? Rocce,
caro mio, molti detriti e montagne soprattutto!
- Già, lo so, lo so bene!… Dunque il Sahara, appassionante meraviglia come lo hai chiamato tu! Per quanti giorni?
- Quindici, venti, di più, chissà! Vedremo sul posto…
- Vengo! - risposi senza pensarci due volte -. Vengo,
accidenti se ci vengo!
- Per il resto non ti preoccupare. Organizzo tutto io,
anzi noi. Provviste, equipaggiamento, eventuali prenotazioni… Portati soldi, un sacco a pelo buono, e soprattutto
una capace borraccia!
E adesso… l’avventura!
Nei giorni che seguirono, ci furono naturalmente molte, anzi moltissime altre telefonate febbrili: quando, come,
dove, perché, finché un bel mattino mi trovai a raggiungere il gruppetto all’aeroporto di Roma. Un po’ in ritardo per la verità, loro con l’equipaggiamento già imbarcato. Un bell’abbraccio a Franco, strette di mano agli altri
34 Panorama
tre: Cesco, Tilio e Bepi e fummo a bordo. Con l’amico
trentino, come al solito, innestai subito la marcia: accidentaccio!, su quante montagne eravamo saliti assieme!
Così seduti comodi uno accanto all’altro cominciammo
a progettare spostamenti, percorsi, arrampicate, vette, anche se, per la verità, del deserto, delle sue difficoltà, delle
sue sorprese e, logicamente, delle sue montagne ne sapevamo ancora ben poco.
Dopo tre ore abbondanti di volo apparve la costa algerina. La capitale si presentò incredibilmente vasta, piena
di industrie; nei dintorni, le falde delle vette della Cabila erano innevate, i dossi più bassi fitti di piantagioni di
arance. L’impatto però - appena aperti i portelloni del DC
327 - non fu dei più felici. Faceva un freddo cane, c’erano appena quattro gradi e dunque i maglioni che ci eravamo portati dietro giunsero a proposito. Più tardi però il
sole si alzò e ci scaldò incollandoci addosso i vestiti troppo pesanti in un pomeriggio che passammo lungo la spettacolare riva aperta a ventaglio sul mare, lunare nei suoi
palazzi bianchi di uno stile fine secolo, appariscente negli stucchi e nei ghirigori floreali. Capimmo subito che
i lunghi anni di colonizzazione francese avevano lasciato un’impronta indelebile. Se non ci fossero state le moschee ed i minareti era come se fossimo capitati in uno
dei tanti porti francesi del Mediterraneo. Solo addentrandoci nella tipica casbah ci si accorse che lì il respiro era
Letture
un altro: il bailamme, il trambusto della calca che viveva
in strada tra le bancarelle e sotto stendardi di stracci buttati sui mille poggioli era assordante. La folla vociante andava e veniva indaffarata. I vecchi indossavano gandure
bianche e sarruel larghi e sbuffanti. Solo le donne anziane si nascondevano un po’ dietro la feregiè, ma le giovani
sgranavano i loro occhi vivaci e, impudenti, sfoderavano i
loro sorrisi provocanti fissando insistentemente noi bianchi per quel rapporto di odio-amore per gli europei insito
in tutti gli algerini. Per farla breve finimmo la serata alla
Pêcherie - l’affollata zona dei ristoranti del pesce - dove
venimmo letteralmente assaliti dai procacciatori di valuta
che per i nostri euro ci offrirono fino a quattro volte di più
del cambio ufficiale.
All’assalto degli aerei
I velivoli per l’interno non si sapeva mai quando decollavano, quando sarebbe stata rilasciata la carta d’imbarco.
Una volta procacciata - e spesso con mille furbeschi raggiri -, bisognava sperare che l’aereo si alzasse al più presto in volo perché - more solito - c’erano i raccomandati
di ferro i quali, grazie alle… maniglie, sfuggivano alla regola e all’ultima ora, anche se eri già seduto al tuo posto,
potevi venir sbattuto sulla pista senza tanti preamboli.
Così - dato che trovare una camera negli alberghi pur
a cinque stelle sembrò impresa impossibile - decidemmo
di dormire nell’aeroporto, in un angolo per terra, infilati
nei nostri sacchi a pelo e con accanto tutto il nostro piuttosto voluminoso inventario, onde poter essere, all’indomani mattina, i primi della fila. Tuttavia già alle prime
luci dell’alba non mancarono ordini e contrordini, tra liste
di attesa sballate e o.k. inesistenti. E pensare che Franco
aveva prenotato il tutto con notevole anticipo. Per fortuna
una provvidenziale bottiglia di whisky, comperata da Tilio a Roma prima dell’imbarco, risolvette tutti i numerosi
e complicati problemi, naturalmente sottobanco! E fu così
che, con due abbondanti ore di ritardo - occhio ai bagagli
perché da queste parti perderli è cosa di normale amministrazione! - riuscimmo a prendere d’assalto un aereo per
Djanet, la cittadina-oasi posta quasi sul confine sud con
la Libia.
Nell’oasi
All’arrivo dopo alcune tranquille ore di volo, l’impatto con la vastità fu quasi soffocante. L’aria era rarefatta da
un vento asciutto - era forse quello il respiro del deserto?
- che sollevava mulinelli di sabbia. Vento, vento, sempre
vento e sabbia. Spesso ne trovavamo fin dentro le mutande. Il sole scottava le nostre pelli lattee mentre attorno
c’era un vortice di Tuareg, gli uomini azzurri, in groppa
non più ai soliti cammelli - per la verità qui ne vedemmo
ben pochi! - ma a grosse Toyota impolverate. I loro vestiti
di seta frusciante avevano dei colori incredibili. Ma il cheche che avvolgeva la loro testa non copriva tutto il volto
dei giovani. Avevano denti d’oro da mostrare con smaglianti sorrisi alle macchine fotografiche dei turisti in arrivo. Tra loro si scambiavano strette di mano, molti abbracci. Erano dei bei maschi. Lo sapevano e si esibivano.
In una agenzia tentammo di iniziare subito un discorso
pratico, di prendere degli accordi. Oh, no! Assolutamente
no! Bisognava arrivare nell’oasi, sedersi, contrattare, ra-
gionare, discutere in un gioco di nervi estenuante vinto da
chi fosse riuscito a sfoderare la diplomazia più sottile. Fu
così che con i nostri forse un po’ troppo voluminosi bagagli, venimmo caricati su un pullmino.
C’erano parecchi chilometri per arrivare a Djanet lungo la valle del fiume Edjariu. Cominciò la sabbia, cominciarono gli ammassi di rocce. L’oasi, con i suoi 1500 abitanti ormai sedentari, è diventata la più grande ed importante città del sud algerino. Il verde del suo vasto palmeto - sono circa trentamila alberi piantati tra lo scorrere di
piccoli torrenti quasi asciutti! - fa da incredibile contrasto
con il nero delle colline di lava che la circondano. Ci sistemammo in una specie di… chiamiamolo hotel - una trentina di capanne di foglie di palma - in attesa che Franco,
che conosceva il francese un po’ meglio di noi, portasse
a termine il complicato cerimoniale delle trattative per il
nostro andare. Così - finalmente! - potemmo disfare i bagagli, metterci addosso dei panni più leggeri, radunare e
riempire d’acqua le taniche che ci eravamo portati dietro,
fare un bilancio dei viveri di cui disponevamo, acquistarne degli altri tipo frutta secca e farci anche una bella doccia pur negli scassati e lerci impianti igienici tra un andare
e venire di altri viaggiatori provenienti da ogni parte del
deserto tutti arrostiti a puntino, mentre la sfera arancione
del sole si cullava già a ovest su un ampio letto di nubi
rossastre dai lembi intrecciati di fili d’oro.
Imparammo presto che da quelle parti la dote migliore
era il saper aspettare. Con infinita pazienza, senza perdersi di coraggio e senza desistere mai. Sembrava che i nostri due fuoristrada non fossero stati prenotati, che non ci
fossero neppure asini o magari cammelli per trasportare i
bagagli, anche se, logicamente, va bene l’avventura, ma
come facevamo a percorrere a piedi l’infinità di chilometri
lungo il deserto sconfinato? In attesa, alquanto sfiduciati,
ci spostammo fuori, sotto l’ombra dei portici.
I Tuareg
Di Tuareg ce n’erano di varie specie: molti sbraitavano indaffarati entro i loro negozietti, alcuni erano seduti
all’ombra, sulla polvere, e con in testa un povero cheche
stinto, mentre molti di quelli che ci passavano davanti, alti
e belli, - ce ne accorgemmo subito, - si pavoneggiavano
nei loro paludamenti, indossavano magari anche una doppia gandura ed incedevano come nobili dignitari tra un
continuo svolazzare di sete multicolori e spesso tenendosi
affettuosamente, anzi teneramente per mano… Mah!
Panorama 35
Letture
Il cheche nel deserto ha una sua precisa funzione: tiene
umida la testa e protegge dal vento, dal sole e dalle mosche - ah le mosche quale tortura! - gli orecchi, la bocca e
la gola. Ma è anche una forma d’eleganza, tanto apprezzabile quanto più è voluminoso. Dicono che dai classici tre
metri di tessuto si può arrivare, durante le feste, pensate
un po’, a venti e più di mussola drappeggiata. Il profumo
poi - caratteristica degli uomini - ha un forte odore di ambra. Si truccano gli occhi per difenderli dal vento con una
tintura a base di terre colorate e di creme vegetali e si lavano spesso tutto il corpo magari, se non c’è acqua, con la
sabbia e, comunque, cinque volte al giorno tutti gli orifizi,
come impone il Corano prima delle preghiere… Le donne? Beh, quelle godono di una libertà maggiore delle altre
arabe, non hanno nessun obbligo di velarsi e di nascondersi, possono parlare e litigare con chi vogliono, scegliere l’uomo che preferiscono, sposarlo e magari poi abbandonarlo senza che sia la famiglia a decidere. Tra l’altro - e
questo è un fatto importante - sono le uniche depositarie
della cultura orale e, pare, anche le uniche che sappiano
leggere e scrivere.
La partenza
Arrivò così una notte piena di freddo che passammo
distesi sulle stuoie dell’albergo. Vento e vento, il gusto
della sabbia che spesso scricchiolava sotto i denti. Il giorno dopo? Lo trascorremmo ancora sotto i portici tra un
via vai di Tuareg, di cammelli e di qualche asino. Le notizie che talora ci giungevano erano sempre incerte, contrastanti.
- Si va?
- Non ci sono macchine! Solo una Toyota…
- Una sola? Ci stiamo tutti a bordo?
- E l’equipaggiamento? L’acqua, i viveri?
- È pazzesco affrontare il deserto con un solo mezzo!
- Già… può succedere un guasto…
- Ma allora? Andiamo a piedi?…
- Sei matto?
Quando ormai non sapevamo più dove sbattere la testa,
venne fuori il mezzo, quello stesso pullmino che ci aveva trasportato dall’aeroporto. Uno solo? Ci assicurarono:
uno solo, ma efficiente, anzi molto efficiente. Prendere o
lasciare. Vale a dire partire o aspettare chissà fino a quando. Così Cesco, Tilio, Bepi, io e Franco finimmo di discutere quand’erano ormai le 19 ed era già buio (infatti qui il
giorno ha la stessa durata della notte). Abdul, l’autista, se
ne stava zitto e tranquillo ad aspettare la nostra decisione.
E fu così che la notte ci inghiottì. Non c’era davvero altro da fare. Seduto al mio posto, sballottato dagli scossoni
non capivo quale punto di riferimento seguisse l’autista in
quel buio e senza rallentare mai. Avevamo abbandonato
la strada, anche la pista, e ci trovavamo in pieno deserto
su un terreno piatto, giallastro. Alle 22 arrivammo in una
zona disseminata di enormi roccioni di arenaria. Non molto lontano, nel buio, scorgemmo un piccolo fuoco. Abdul puntò decisamente da quella parte e mentre sorgeva la
luna, una luna piena, bruscamente compì un ampio giro,
fermò il mezzo, disse soltanto:
- Camp! - e spense il motore.
Poi arrivò Adani. Alto, allampanato, zoppicante. Con
addosso una grigia palandrana, in testa un enorme cheche nero e un viso brunito solcato da rughe profonde, le
mascelle e le guance profondamente incavate sopra una
bocca sdentata e rinsecchita. Lentamente si accucciò accanto al nostro autista, si toccarono le mani, se le tennero
strette, confabularono a lungo. Tutto era mistero con quella luna sospesa a mezz’aria che distendeva le ombre sulla sabbia ocra incredibilmente secca e che il vento faceva
ininterrottamente frusciare. Adani sarebbe stato la nostra
guida. Franco ci assicurò che lo avevano scelto a Djanet,
che era una delle migliori. Cinquant’anni che batteva il
deserto dietro alle sue capre e ai pochi cammelli tenendo a bada le donne ed i figli. Anche guidando - attenzione dunque, non servendo - viaggiatori e turisti. Sì, talvolta anche qualche pazzo alpinista come noi. Conosceva il
Tadrart e anche l’Hoggar a menadito. Ce lo dimostrerà nei
giorni a venire.
Un bollente tè asprigno, un sorso appena da un bicchierino slabbrato passò di mano in mano, suggellò la nostra conoscenza. Poi tutti a nanna. Il viaggio ci aveva sfiniti. Ci bastò poco per piazzare le tende. Per me un inutile
posto accanto a Franco. Stavo meglio fuori accarezzato
dal vento - sì, dal respiro del deserto - con quella cupola
piena di stelle che mi faceva da alcova da quando la luna
se n’era andata dietro la muraglia del Tassili. Poi, sul far
dell’alba, l’aria secca diventò frizzante, come ruvida carta
vetrata caustici granelli mi colpirono il viso, mi otturarono le orecchie e il naso e quindi per forza di cose dovetti
scrollarmi di dosso la sabbia che mi aveva quasi sepolto,
infilarmi nel sacco a pelo, quello pesante delle grandi altezze, per potermi scaldare.
La… casa di Adani
Mi levai prima del sole. Non potevo starmene fermo
con quella distesa di sabbia gialla davanti che s’insinuava
36 Panorama
Letture
tra roccioni altissimi, levigati, lucidi. Oltre le dune basse,
accarezzate ora da un vento leggero, scorsi una decina di
cammelli, un gregge di capre. Queste erano piccole, marrone. Scalciavano impazienti e assaltavano i rari cespugli di acacie, i pochi ciuffi d’erba secca. Due donne con
i mantelli azzurri gonfi di vento le agguantavano per le
zampe, velocemente le mungevano, porgevano il latte ad
alcuni bambinetti vestiti di stracci che razzolavano loro
dietro tra nuvole di sabbia giallastra. Era un incredibile
quadro primordiale. Una grande tenda stinta sventolava,
vacillando dietro ad un costone. Aveva accanto un piccolo
recinto: era la cucina con il fuoco acceso e poche suppellettili appese ad una corda. Adani mi venne incontro tenendo dolcemente per mano forse il suo ultimo nato. Avrà
avuto tre anni. Il suo visetto paffuto era maltrattato dalle
solite maledettissime mosche. Piangeva. Ma non per il fastidio di quelle bestiacce, ma per la paura dello straniero. Inutilmente cercai di ammansirlo con delle caramelle,
inutilmente cercai anche di intruppare e di trattenere gli
altri marmocchi scarmigliati che erano accorsi onde poter
strappare loro un solo clic.
- No foto! - intimò Adani.
- No foto?
- No!
Dovetti arrendermi.
Intanto anche gli altri s’erano svegliati. La nostra guida ci radunò e ci spiegò il suo piano in un francese stentato, mezzo arabo, a tratti difficile da capire. Spianò la sabbia davanti a sé, tracciò con le dita una sua carta geografica. Dunque seguiremo dapprima l’oued Ingerane fino a
raggiungere Merzouga. Dopo aver girato entro le vallate
strette del Tadrart per permetterci qualche bella salita sulle sue montagne, usciremo a Ti-n-Zirene, ci sposteremo
nell’Asnedjir con i suoi archi di rocce per finire tra le vaste dune dell’erg d’Admer.
- E l’Hoggar? - chiese Bepi con gli occhi stralunati -.
Niente Hoggar?
Adani ridacchiò. Rispose Abdul:
- Impossibile Hoggar!
- Come impossibile?
- No con pulmino! Da qui, un mese di cammino! Bisogna avere molti, molti cammelli. Acqua poi, anche, molta
acqua. Niente guelte là, niente… Per voi, basta in Tadrart.
Qui anche troppe montagne! Molte belle montagne tutte
per voi!
Chiuso. In silenzio caricammo la nostra paccottiglia,
attenzione alle taniche d’acqua, e via.
Il deserto
Dapprima infilammo una vasta zona pianeggiante,
sempre velocissimi per non insabbiarci, fino a raggiungere una specie di pista che andava verso la Libia segnata qua e là da gomme abbandonate e da bidoni di benzina
vuoti. Ogni tanto sorpassammo il lento andare di carovane con pochi cammelli. Alla nostra destra tutta una serie
di montagne oltre i duemila metri dalle cime appiattite.
Ce le indicò Adani: il Ti-n-Tassoc, il Ti-n-Enouer, il Tin-Mentah… Ad un certo punto egli ci fece smontare e ci
indicò alcune acacie secche. Bisognava raccogliere la legna per i fuochi. Nel deserto il gas era inutile! Il vento lo
spegneva. Ci fu facile abbattere tronchi e rami. Erano così
arsi e pieni di resina che si frantumavano come cristalli. Ogni tanto la nostra guida si chinava a raccogliere una
piantina appena spuntata dalla sabbia. Ce la offriva con
un sorriso. Non è che avesse un gran sapore, ma teneva la
bocca fresca. Ci accorgemmo ben presto che il vento caldo, sì, proprio il respiro del deserto, ci stava asciugando e
che dovevamo fare sempre più spesso ricorso alle provvidenziali borracce, il volto nascosto da tutti i fazzoletti che
riuscimmo a reperire, io una camicia addirittura, e sopra
ci calcai un cappellaccio di tela per poter tener lontane la
polvere e le mosche.
A mezzogiorno in punto Adani fece un cenno. Abdul
pronto infilò uno stretto passaggio tra dei roccioni verticali e s’arrestò accanto ad una poderosa acacia che, stranamente, era rivestita di foglioline verdognole. La guida
scese, con un bastone frugò a lungo attorno al tronco. Per
fortuna non trovò scorpioni. Dunque ci si poteva accampare. Diventerà quella l’inevitabile pausa di ogni mezzogiorno. A quell’ora faceva troppo caldo per proseguire. Il
motore doveva raffreddarsi.
Un pezzo di cioccolata, due biscotti e poi... Anche con
quel caldo che soffocava, non è che io potessi starmene lì,
disteso nella poca ombra. E neppure Franco. Già, pur nella vampa ci infilammo le scarpe grosse e attaccammo il
pinnacolo che ci stava di fronte anche se Adani continuava a minacciare, a brontolare arrabbiato. Su e su, spesso
tra un rovinio di sassi. Una paretina dietro l’altra, un diedro dietro l’altro tra fruscii di cascatelle di sabbia. Fu così
che dopo un’ora buona, rossi come granchi cotti, arrivammo sulla cuspide della nostra prima montagna sahariana.
Senza nome. (1e continua)
Panorama 37
Letteratura
La scrittore bosniaco si è aggiudicato l’edizione 2011 del Premio che il Lions Club T
Europa e scrittura di frontiera, d
Nell’Albo d’oro anche
Matvejević, Scotti, Pressburger...
a cura di Bruno Bontempo
el 2004 il Lions Club Trieste
Europa si è posto l’obiettivo
di onorare la figura di Fulvio Tomizza, Uomo di Pace, con la costituzione del Premio Tomizza, da
conferire annualmente a una personalità che nel tempo si sia distinta nell’affermazione concreta
degli ideali di mutua comprensione e di pacifica convivenza tra le
genti delle nostre terre .
Nelle passate edizioni l’ambito riconoscimento è andato a figure illustri a livello internazionale e amici di Fulvio Tomizza, da
Predrag Matvejević (2004) a Ciril
Zlobec (2005), da Corrado Belci
(20026) al nostro connazionale
Giacomo Scotti (2007), da Giorgio Pressburger (2008) a Nuccio
Messina (2009) e, nel 2010, Fulvio Molinari. Quest’anno il Premio è stato assegnato a Miljenko Jergović, “per le sue qualità di
interprete sensibile e abile narratore delle ingiustizie delle società di tutti i tempi, dove la concatenazione delle storie e delle vite
esprimono con poetica la traccia
dell’uomo”.
Miljenko Jergovic è nato a Sarajevo ma vive e lavora in un villaggio nei pressi di Zagabria. Una
riga e mezza di biografia dell’autore potrebbe sembrare troppo
poco se non fosse seguita da un
lungo elenco di opere pubblicate:
florilegi, raccolte di racconti, novelle, romanzi, volumi di articoli, saggi, recensioni e drammi teatrali. I suoi libri sono stati tradotti
in una ventina di lingue straniere:
tedesco, inglese (inglese americano), italiano, svedese, finlandese,
turco, slovacco, bulgaro, ungherese, polacco, portoghese, slove-
N
38 Panorama
no, macedone, francese... Una
scelta dalla sua opera è stata tradotta anche in russo, in ceco, in
coreano e in olandese. Il florilegio “Hauzmajstor Šulc il custode della memoria” è stato tradotto
soltanto in italiano. E in versione
italiana sono disponibili inoltre i
suoi volumi Le Marlboro di Sarajevo, I Karivan, Mama Leone,
Buick Riviera, La dimora di noce,
Inšallah, Madona inšallah e, nel
2010, presso l’editore Zandonai,
è stato pubblicato il volume Freelander. Seguirà il romanzo “Al dì
di Pentecoste”.
Jergović è anche sceneggiatore
di successo: nella trilogia Buick
Riviera, Freelander e Volga, Volga stilizza il rapporto dell’uomo
con la sua macchina, ma nel contempo, con la penna da scrittore e
con l’occhio di un vero cineasta,
ripercorre la storia, la psicologia
e l’identità dell’uomo iugoslavo.
Buick Riviera ha inaugurato la serie di pellicole tratte da omonimi
libri, come nella migliore tradizione dei grandi classici moderni:
nel 2008 il film gli è valso numerosi premi al Festival del cinema
di Sarajevo e a quello di Pola.
La narrazione del vincitore del
Premio Tomizza 2011 poggia su
un vorticoso cambio di registri
stilistici. Solo apparentemente
semplice, questo raccontare, ora
spiritoso, ora doloroso, si avvicina in misura sempre maggiore al miglior Andrić o al più raffinato Kiš, ma non concede loro
solo di fargli da riferimento, bensì stravolge i propri modelli e li
trasforma in un “giardino cenere”
dal quale possono nascere erba e
fiori nuovi, così come trasformata
e stravolta è stata la loro comune
terra natia.●
A
Trieste per ritirare il Premio Tomizza, Miljenko Jergović ha
concesso un’intervista a Osservatorio Balcani e si è detto “molto
contento di essere qui a ritirare questo riconoscimento che ritengo molto
importante perché oltre ad essere stato Tomizza un grande scrittore, è stato
sopratutto uno scrittore di frontiera che
aveva capito fino in fondo il destino
di chi come lui aveva diverse identità:
croata, italiana, slovena, istriana. Quindi un uomo che era in grado di comprendere in maniera sottile e completa
tutti gli altri uomini”.
Come descriverebbe gli sviluppi
più recenti in Croazia e Bosnia?
”Devo dire che si sono avviati dei
processi decisamente negativi. La Bosnia si è fermata e non sta andando più
da nessuna parte. Certo, c’è la pace,
ma questa pace non ha creato migliori condizioni di vita e reali processi
di comprensione tra persone appartenenti alle diverse comunità del Paese. In Croazia, negli ultimi due anni,
e cioè da quando è diventata premier
Jadranka Kosor, ha preso piede un governo di ultradestra ed estremamente rigido - molto simile al governo di
Franjo Tuđman degli anni novanta che ha provocato un terribile processo regressivo. Per fare un esempio, la
giornata della lotta antifascista in Croazia, l’anniversario del giorno in cui
nel 1941 il popolo si è sollevato contro i fascisti tedeschi, è stato celebrato
in maniera raccapricciante. I seguaci
di quei fascisti del ’41 si sono ribellati in tutte le maniere alle celebrazioni
previste. Un fatto, questo, che ritengo
spaventosamente negativo”.
A questo proposito ritiene che
l’Europa in cui entrerà la Croazia
sia in condizioni migliori?
”Purtroppo anche in Europa è in
corso un processo di irrigidimento,
per non dire di fascistizzazione. Ma
mi viene da dire che il problema dei
Balcani è che qui copiano dall’Europa gli aspetti più negativi! In Europa stanno avvenendo processi simili,
come ad esempio in Italia dove il premier Berlusconi usa una politica della paura verso gli italiani, dove Mila-
Letteratura
rieste dedica alla memoria del grande romanziere istriano
a Tomizza a Jergović
Miljenko Jergović
no viene rappresentata come una città
abitata da terroristi e ladri, oppure in
Olanda dove l’estrema destra siede in
Parlamento. In Europa c’è un rafforzamento di queste forze politiche, ma
la differenza è che nei Balcani appena
questi processi si mostrano diventano immediatamente catastrofici, molto più pericolosi che non in un Paese
come l’Olanda o l’Italia”.
Che significato assume, per lei,
l’ingresso della Croazia nell’Unione
europea, previsto per il 2013?
”Innanzitutto ho la speranza che la
Croazia con l’ingresso in Europa diventi un Paese più civilizzato, dunque
più democratico e sopratutto più tollerante verso l’altro, di quanto non lo
sia oggi, in cui lo standard di difesa e
tutela dei diritti umani sia portato a livello dei Paesi europei più avanti sotto
questo aspetto”.
Sono passati vent’anni dall’inizio del conflitto che ha portato alla
dissoluzione della Jugoslavia: lei
scrisse in passato che la “tradizione
multietnica di Sarajevo era nella testa della gente” più che nella struttura della società e della politica.
Ritiene che quella tradizione si sia
salvata, nonostante tutto?
”È una domanda difficile per la
quale non esiste un’unica risposta. Ritengo che nella testa della gente sia
ancora presente la consapevolezza che
c’è un solo modo di far funzionare ed
esistere la Bosnia Erzegovina, quello
di una società multietnica. Esattamente come deve essere per l’Europa”.
Lei è nato a Sarajevo ma ha vissuto a lungo in Croazia, e quindi
ha uno sguardo ad ampio raggio
sull’atmosfera culturale di questi
Paesi. Come la valuta, oggi?
”La produzione letteraria di tutti i Balcani è strettamente dipendente dalle interazioni con i propri vicini. Come si sa la lingua croata appartiene alla stessa radice di altre lingue
dell’area, come il bosniaco e il serbo,
e dunque dal punto di vista linguistico
fanno parte di un’unica famiglia. Le
diverse letterature sono molto legate tra loro e quindi nella misura in cui
esiste e migliora questa interazione, le
singole letterature riescono a sopravvivere e svilupparsi, essere più attive e
propositive. Mentre laddove l’interazione non c’è si vede la totale chiusura di visioni ma anche di sviluppo futuro. Fortunatamente in Croazia, Serbia, Bosnia Erzegovina e Montenegro
esistono forme di reciproca collaborazione che poi sono rappresentate da
scrittori che producono ottima letteratura”.
A che cosa sta lavorando?
”Io scrivo di continuo e posso solo
dirvi che la prossima sarà un’opera di
finzione, che uscirà a breve”. ●
iljenko Jergović nasce il
28 maggio del 1966 a Sarajevo dove trascorre l’infanzia e compie studi universitari in filosofia e sociologia. Nel
1988, a soli ventidue anni, esordisce come poeta con una raccolta di versi Opservatorija
Varšava (Osservatorio di Varsavia), che gli vale il premio Ivan
Garan Kovačić e il premio Mak
Dizdar. Due anni dopo appare nella Nuova antologia della
poesia bosniaca. Nel 1992 intraprende la carriera giornalistica, iniziando a scrivere per
il settimanale spalatino Nedjeljna Dalmacija. Poco tempo
dopo diventa collaboratore del
celebre settimanale di denuncia
e satira politica Feral Tribune,
sulle cui colonne si dedica ai
più svariati temi con la sua consueta ironia.
Nel 1994, durante la guerra
in Bosnia Erzegovina, decide
di trasferirsi a Zagabria. La prima raccolta di racconti Sarajevski Marlboro (Le Marlboro di
Sarajevo]), che gli vale il prestigioso premio tedesco ErichMaria Remarque e il premio
Ksaver Šandor Gjalski, racconta le drammatiche vicende belliche con affreschi commoventi e fiabeschi. La sua già vasta
produzione letteraria, tradotta
in molte lingue, continua a ottenere successo di pubblica e
critica. Tra i molti premi vinti
compare anche, nel 2003, l’italiano Grinzane Cavour per il libro Mama Leone, scritto quattro anni prima.
Nel 2010 esce anche in Italia, presso Zandonai, Freelander, che racconta la storia del
viaggio di Karlo Adum, professore in pensione e vedovo, tra
le strade della Serbia sulla sua
Volvo del ’75. La sua opera rimane sempre legata al contesto
ex-jugoslavo, attraverso la quale si può riconoscerlo erede della miglior tradizione narrativa
balcanica. Attualmente collabora con i giornali Jutarnji list di
Zagabria, Oslobođenje di Sarajevo e Politika di Belgrado. ●
M
Panorama 39
Libri
«Mare inquieto» , racconto autobiografico a fumetti nato da una vacanza sulla co
Disorientamento, spaesamento, diffi
a cura di Bruno Bontempo
M
are inquieto, un racconto
autobiografico a fumetti,
un lungo viaggio per mare
che Helena Klakočar e la sua famiglia, il marito e la figlia Iskra, decidono di intraprendere nella primavera del 1991, ai primi segnali di instabilità politica nella ex Jugoslavia.
“Questa è la vera mancanza di libertà” è il triste commento della protagonista di “Mare inquieto”, rivolta
al marito, quando si rende conto che
nel porticciolo dove sono ancorati
con la loro barca, gli occupanti della barca accanto, pur essendo croati come loro, non gli hanno rivolto
la parola perché credono che siano
serbi. ”Noi avevamo ancora la bandiera jugoslava e anche i passaporti... D’altronde, gli stessi che avevano loro” ricorda ancora l’autrice.
Ma siamo nel luglio 1991, all’inizio dello sfaldamento della Jugoslavia e, con il frantumarsi dell’identità comune, si rafforzano i singoli
nazionalismi, mentre cresce di pari
passo la paura dell’altro, paura che
Helena Klakočar, autrice di “Mare inquieto” edito da Comunicarte
assume i contorni dell’indifferenza,
della diffidenza o, peggio, dell’ostilità. “Mare inquieto” (Trieste, Comunicarte Edizioni, 2011) ripercorre autobiograficamente in belle tavole a fumetti il lungo viaggio per
mare che Helena Klakočar e la sua
famiglia, il marito e la figlia Iskra,
decidono di intraprendere nella primavera del 1991, ai primi segnali
di instabilità politica, nella speran-
za che nei mesi a venire la situazione si stabilizzi per il meglio. Purtroppo non sarà così, e il viaggio diventa quasi un esilio, da un paese
all’altro, tra Grecia, Italia, Albania,
per terminare temporaneamente ad
Amsterdam, sempre nell’incredulità
per quanto sta accadendo nel cuore
dell’Europa del XX secolo. Helena
è un’artista, lei ed il marito lavorano come operatori culturali a Zaga-
Da viaggio fisico e reale a grand tour
n viaggio per mare lungo la costa della Jugoslavia nei giorni
in cui il paese veniva frantumato dai
colpi dei diversi nazionalisti. Helena Klakočar in questa graphic novel
- premiata al Festival di Angoulême
in Francia nel 2008 - trasforma la sua
esperienza personale di viaggio fisico
e reale in un involontario grand tour
in cui i temi della lontanza, della perdita della patria, dell’identità, dell’incontro con il diverso da noi diventano
temi universali. Dal doversi “dichiarare” dopo che per anni non si è mai
pensato alla lingua che si parlava e al
cognome che si portava, all’incontro con le realtà disperate dell’Albania post regime comunista, a chi fugge dopo aver combattuto in Afghanistan, sono questi alcuni dei “porti” a
U
40 Panorama
cui approda il catamarano dell’autrice attraverso il “mare inquieto” che
furono gli ultimi anni del secolo scorso. Un tratto veloce e lieve, in bianco
e nero, che spesso ci accompagna in
una dimensione onirica o immaginifica per parlare di temi tutt’altro che
leggeri e quanto mai attuali in questa “graphic novel di formazione” accompagnata da un suggestivo testo di
Predrag Matvejević.
Helena Klakočar, croata, è nata a
Tuzla, in Bosnia Erzegovina e vive
tra la Croazia e i Paesi Bassi. A sette
anni si trasferisce con la famiglia in
Slovenia dove conclude il suo percorso scolastico. All’Accademia di Belle Arti a Zagabria si laurea in grafica
e successivamente nei Paesi Bassi in
pittura e cinema d’animazione. I suoi
fumetti sono stati pubblicati nelle riviste dei vari paesi dell’ex Jugoslavia
e collabora ai progetti web Comixculture (Bulgaria) e Comixiade (Paesi Bassi). Per la graphic novel “Passage en douce”, pubblicata nel 1999
(Freon, Bruxelles) nel 2000 riceve un
Premio Speciale da Info Radio Fance
e il premio Alpha-Art come miglior
autore straniero al Festival Internazionale del Fumetto ad Angoulême in
Francia. Nel 2008 un’altra edizione
della stessa graphic novel viene pubblicata con il titolo “Nemirno more”
(Fabrika Knjiga, Belgrado). L’autrice
sta lavorando alla terza parte di “Mare
inquieto” che uscirà nel 2012.
”Mare inquieto”, disegni e testi di
Helena Klakočar con un testo di Predrag Matejević; casa editrice: Co-
Libri
sta croata nell’estate del ‘91
denza, ostilità
bria, sono persone colte, abituate a
muoversi in un ambiente culturale
trasversale, vivace e libero; per entrambi il crollo della “casa comune” jugoslava ha anche un fortissimo impatto intellettuale. Non è solo
la perdita del proprio lavoro, le difficoltà materiali, la paura per il futuro, ma anche lo spaesamento per la
sottrazione di uno spazio collettivo
comune, il disorientamento per doversi dichiarare in un modo piuttosto che in un altro, il “noi” contrapposto al “loro”, un disagio espresso
da tanti scrittori dell’ex Jugoslavia,
basti pensare a Dubravka Ugrešič o
ad Aleš Debeliak (i loro saggi nella
raccolta Nostalgia, Milano, ParaviaBruno Mondatori Editore, 2003).
Dichiarare le proprie origini diventa rischioso e occorre stare attenti quando si parla: la piccola Iskra sembra aver interiorizzato questa necessità quando, in uno
dei tanti porti in cui attraccano, una
turista benevola le chiede da dove
viene, e lei risponde senza esitazione “dalla barca!”. Ormai il viaggio
non è più una vacanza, è una neces-
Immagini dalla versione croata del racconto a fumetti “Mare inquieto”
municarte edizioni (2011); collana:
Cartastorie; pagine: 122; prezzo:
17,50 euro.●
sità, e forse lei stessa non saprebbe più dire chi è. Nel loro lungo vagare, Helena e la famiglia seguono
a distanza gli avvenimenti in Jugoslavia cercando di capire le notizie
in un’altra lingua, in città straniere piene di turisti in vacanza. “Non
capivamo la lingua, ma capivamo i
nomi delle nostre città” e incontrano tanti personaggi, a volte simpatici, a volte ostili, mentre l’autrice
guadagna da vivere facendo ritratti ai turisti, spesso scontrandosi con
l’opposizione degli artisti locali.
“Mare inquieto”, più che un romanzo, ha la struttura di una raccolta di
appunti, di schizzi, come gli schizzi in bianco e nero dei luoghi attraversati, dove gli episodi assumono
spesso contorni surreali, diventano
quasi delle metafore sulla vita. Gli
episodi e i personaggi sono ritratti
con uno stile molto personale, senza retorica e senza enfasi, con leggerezza, perché “viaggiare in barca
è così affascinante… così facile…
attraversare con leggerezza le vite
altrui”.●
Panorama 41
Sport
P
remesso che non abbiamo preso nessuna “stecca”
nè dall’ente del turismo nè
dall’organizzazione del torneo ATP
World Tour 250 sulla terra battuta
dello Stella Maris di Umago, non
possiamo evitare di ricordare che la
cittadina, adagiata su tre insenature
della costa settentrionale dell’Istria,
è una tipica località turistica che
vale la pena visitare. Il suo torneo
tennistico del circuito Atp, poi, è per
veri intenditori. Sul Centrale (a pagamento) mettono i nomi più roboanti, ma nei restanti 4 campi di gioco l’ingresso è gratuito, e di belle
partite se ne vedono tutti i giorni.
Inoltre, se siete dei malati di tennis,
dalle 12 alle 14 tutti i protagonisti
si allenano. E scambiano due parole
con tutti, con una disponibilità che
li fa amare ancora di più.
La specialità della casa sono le
tante (tantissime) ragazze dell’accoglienza. Nel loro vestitino bluastro le trovi dappertutto. A strappare i biglietti, ad accompagnarti al
seggiolino, in sala stampa e al ristorante. Tutte clamorosamente belle.
Tanto da incutere timore reverenziale (dà meno ansia da prestazione
un’intervista esclusiva con Federer,
tanto per capirci). Ma dietro quella
faccia da supermodella sono ragazze cordiali che fanno il loro lavoro
(noioso) con professionalità e cortesia.
Datteri di mare buoni, buoni,
buoni. Queste vongole dal guscio
scuro e affusolato sono una prelibatezza. Peccato che siano illegali.
Per raccoglierle bisogna staccarle
dalle rocce marine, e quindi la cosa
è proibita da leggi internazionali.
Ma se andate sulla darsena di Umago, piena zeppa di ristoranti, sarete
accerchiati da camerieri che in stile
mercato di via Sannio a Roma vi invitano a provarli. Può anche partire
la contrattazione sul prezzo (1 kg arriva fino a 7-800 kune, una porzione singola intorno alle 150 kune).
L’importante è superare il rimorso di coscienza prima di ordinarli
(dopo pensate solo a quanto sono
buoni). E poi, come ci ha detto chi
ce li ha consigliati, “tanto se non te
li mangi tu li mangia qualcun altro”.
E allora svaniscono i rimorsi…
46 Panorama
L’ucraino vincitore del torneo ATP di Stella Maris l
Umago, la prima sinfo
di Matteo Cirelli
Per sua stessa ammissione, Oleksandr Dolgopolov (che soltanto nel
maggio del 2010 ha cambiato nome in
Alexandr) la sera ha tirato sempre fino
alle 6 del mattino. E come non potrebbe, un 22enne dotato di parlantina e
spigliatezza. Quando c’è da mettere
in mano la racchetta però, Sacha non
guarda in faccia a nessuno, a meno
che non abbia la forma di una pallina
di feltro gialla. Deliziose le sue palle
corte, nervoso il dritto, unico il rovescio. Quest’anno agli Australian Open
aveva raggiunto per la prima volta in
carriera i quarti di finale in un torneo
dello slam eliminando in successione
il kazako Kukushkin, il tedesco Benjamin Becker, l’ex top-ten e testa di
serie n. 13 Tsonga e l’allora numero 4
del mondo Robin Söderling, entrambi
in cinque set. Poi veniva sconfitto da
Andy Murray in quattro set. Due settimane più tardi raggiungeva la prima
finale in carriera in un torneo ATP, al
Brasil Open di Costa do Sauipe, ma
veniva sconfitto da Nicolás Almagro
in due set.
È migliorato così tanto dall’anno
scorso che gli organizzatori gli hanno chiesto di favorire il documento.
Il passaporto ucraino era in regola.
Come il suo tennis, da futuro top ten.
In semifinale ha eliminato il detentore
Marin Čilić, obiettivo mancato
del titolo, Juan Carlos Ferrero, poi in
finale ha sconfitto per 64, 36, 63 Marin Čilić. Il croato di Međugorje ci ha
provato a rendere felici i propri connazionali. Ma in doppio ha perso la finale (in coppia con il “primo che capita”, Zovko) contro Fognini e Bolelli
e nel singolare ha trovato la tarantola
che tesse la tela e morde velenosa. E
Čilić, allievo di Bob Brett non è ancora quello del febbraio 2010 (quando aveva ottenuto il suo miglior piazzamento in classifica, il nono posto),
perché ha ancora troppe pause con il
Suggestiva panoramica del campo principale dello stadio Stella Maris
Sport
anciatissimo verso i Top 10
nia di Dolgo
servizio e il rovescio va troppo lento.
L’hanno visto aggirarsi il pomeriggio
prima della finale solo soletto per lo
Stella Maris. In barba a chi vorrebbe
i tennisti sempre accerchiati da marmocchi e giornalisti invadenti. Segno che a Umago amano e rispettano
i propri idoli (e Marin lo è), ma con
un’educazione sportiva che non forse
non ti aspetti.
Dalla movida notturna al rettangolo di gioco. In entrambi i campi, Sacha
fa il fenomeno, ammiccando alle modelle e devastando gli avversari. Fra
un match e l’altro, a Umago Dolgopolov ha trovato anche il tempo per fare
il presentatore di una sfilata di moda,
andare a dormire alle 6 e poi giocare alla grande. Bel tipino: lo sguardo,
che in campo è glaciale, diventa “marpione” quando alla racchetta sostituisce un microfono. È successo quando
- vestito in abito scuro e con la lunga
chioma bionda raccolta da un elastico
azzurro - se n’è andato in giro per lo
Stella Maris a intervistare le concorrenti di Miss Hostess 2011. Divertito
e divertente, Dolgo ha poi tirato avanti
fino alle 6 del mattino. Come si è sentito nei panni di presentatore a Miss
Hostess? “Io bene, non so l’organizzazione. Volevano farmi fare l’audizione
prima di darmi il microfono in mano...
Qui è bello perché hai tempo sia per
giocare a tennis che per il resto…”.
L’ucraino 22enne Alexsandr Dolgopolov, mattatore del torneo di Umago
Nel match clou se l’è vista con Marin Čilić, il primo croato dai tempi di
Goran Prpić a raggiungere la finale del
torneo istriano, che lui ha giocato solo
quattro volte, nonostante sia un appuntamento prestigioso dello sport nazionale (si mormora che il suo rapporto
non idilliaco con Umago sia conseguenza dei dissapori fra il suo ex coach Goran Ivanišević e Slavko Rasberger, ideatore ed ex direttore - per
vent’anni) del torneo. Per altri le poche presenze sono da attribuire alla
concomitanza del torneo con la preparazione agli Us Open.
Ma torniamo a Dolgopolov Nella scorsa edizione perse nei quarti con
Ferrero, poi vincitore. Quest’anno si è
preso la rivincita. Contento di essere
tornato a Umago?
Il presidente Ivo Josipović si avvia alla premiazione scortato dalle hostess
”Ci sono molte ragioni per cui
sono tornato a giocare qui. Il torneo è
organizzato benissimo. Poi gli incontri cominciano al tardo pomeriggio,
così posso fare anche un po’ di vita
notturna o rilassarmi di più. Alcuni
match li ho giocati verso le 20, dunque ho avuto tempo per riposarmi. Insomma, qui mi diverto, ma la mia vita
è sempre quella di un tennista professionista. Il mio traguardo è arrivare
nei top 20 entro la fine della stagione
(era solo 50esimo il 9 maggio scorso,
nda). Ci sono vicino, e ho ancora tre
mesi di grandi appuntamenti per raggiungere l’obiettivo. Comunque, con
il successo di Umago ho guadagnato cinque posizioni e con 1.575 punti
sono a ridosso di Verdasco che è appunto 20esimo (1.705), scavalcato da
Del Potro. Ma non vado di fretta, ho
22 anni e ancora tanto tempo per migliorare”. Ricorderemo che alle sue
spalle in classifica seguono Mayer,
Chela e Čilić, che ha fatto un salto
addirittura di sette posizioni.
Infine qualche parola per Juan Carlos Ferrero. Il “Mosquito”, nonostante
una sconfitta in semifinale senza appello, a Umago si è meritato un voto molto
alto. Perché è un signore. Dentro e fuori dal campo. Lo scorso anno vinse su
Starace. Nel 2011 gli infortuni lo hanno
costretto a saltare quasi tutta la stagione. Poi è tornato e vincere a Stoccarda.
A Umago ha fatto quello che ha potuto,
anche con il futuro vincitore, che lo ha
preso a pallate per un’ora e mezzo, e lui
zitto a remare da fondocampo. Magari
ce ne fossero di più. ●
Panorama 47
A Dignano Polenta Cup 2011
T
ra le tante manifestazioni organizzate a Dignano
per la Giornata cittadina, oltre
a quella dei Bumbari si è svolta anche la Polenta Cup 2011.
L’invitante “base” è stata cotta a parte mentre i concorrenti
si sono cimentati nella preparazione del condimento: sugo
di carne o brodetto. Alla nona
edizione della succosa gara si
sono dati appuntamento sindaci, cantanti, designer e anche gente comune che si è data
da fare per aggiudicarsi il primo posto e il conesso fragrante trancio di prosciutto. Ospiti
d’onore della manifestazione
il vicepresidente della Provincia di Udine Daniele Macorig
e le sindaco di Manzano e Polverara, Lidia Driutti e Sabrina
Rampini.
(Testo e foto di Ardea Velikonja)
I vincintori: il cantante Alen Vitasovič
e Antonela Gregorović
Daniele Macorig, vice presidente della
provincia di Udine e Karin Kuljanić
Il sindaco Klaudio Vitasović con le sindaco di Polverara e di Manzano, Sabrina Rampini e Lidia Driutti
In primo piano: i coniugi Cattunar all’opera
Šime Šušić, primo Masterchef in Croazia
e la giornalista Kornelija Benazić
Panorama 59
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