Anno LIX - N. 15 - 15 agosto 2011 - Rivista quindicinale - kn 14,00 - EUR 1,89 - Spedizione in abbonamento postale a tariffa intera - Tassa pagata ISSN-0475-6401 Panorama www.edit.hr/panorama Quei frati borsaneristi... Miniature estive E state (almeno per chi se lo può permettere) fa rima con vacanze, svaghi, licenze... Con sapore di mare, gusto di sale, carezze di sole. Ma è soprattutto momento di fuga, che inebriando corpo e spirito ci dà l’illusione di accantonare, per un po’, l’inesorabile assuefazione all’abituale, il più delle volte insipido regime di vita che scandisce la nostra esistenza. E magari, d’estate, c’è pure il tempo di fermare lo sguardo (e l’obiettivo fotografico) su forme, colori e piccoli dettagli sui quali altrimenti sorvoliamo, perché ci manca quello che potrebbe essere il culto delle piccole cose e delle gioie semplici... Testo e foto di Bruno Bontempo 2 Panorama In primo piano Sul caso Daila ad ogni giorno che passa si susseguono i colpi di scena Cesare si è preso tutto. Ed ora? di Mario Simonovich I l primo elemento di un certo rilievo è venuto dal Glas Koncila che, quale organo della Conferenza episcopale non poteva che essere dalla parte delle gerarchie, allineate sulla posizione definita dal papa che, dando ragione ai benedettini di Praglia riconfermava ancora una volta che il vescovo di Parenzo-Pola, già esautorato per il solo minuto necessario ad apporre la firma sul famoso documento, era nel torto. In un intervento alla TV nazionale il suo caporedattore aveva anche scoperto (è il caso di dirlo) qualche nuovo altarino prima dicendo che la controparte italiana non aveva insistito ad avere tutta la proprietà ma si sarebbe accontentata del 40 p.c. lasciando il 60 p.c. alla diocesi, che invece avrebbe voluto tutto e poi facendo capire - peraltro senza dirlo in maniera esplicita - che non era del tutto vero che l’abbazia di Praglia era stata indennizzata in base agli accordi intercorrenti fra l’Italia e la Jugoslavia, come invece i media croati avevano sostenuto fin dall’inizio. Altra risposta indicativa della sua posizione: criticando l’assoluta indisponibilità della diocesi a passare i beni ad un soggetto straniero, in questo caso italiano, ha ricordato che nel gruppo di soggetti impegnati a mettere a frutto i terreni appartenenti al monastero, ci sono pure soggetti stranieri, per l’esattezza austriaci. La seconda mossa, molto più importante, l’ha fatta Cesare, ovvero lo stato croato annunciando ufficialmente ad un solo giorno di distanza l’intenzione di intavolarsi su tutta quella che era la proprietà dei frati fino a che non venne loro sottratta dal regime di Tito. Insomma, un decreto per mettere dentro, da padrone, lo stato e mandare fuori, a spasso, tutta la pletora di soggetti che, in un modo o nell’altro, nell”affare” sono entrati dopo. Se non che al giorno d’oggi passi del genere devono essere doverosamente accompagnati da spiegazioni che seppur non salde come una roccia, devono essere per lo meno plausibili. E qui il governo di Jadran- ka Kosor è incappato in un infortunio di prim’ordine. Spiegando la decisione di avocarsi i diritti di proprietà, il competente ministro ha dovuto annullare, uno per uno, tutti i documenti emessi a favore della diocesi dalla Contea (a cui lo stato aveva delegato la “regalia”). Per dire quanti e quali basta dire che si riferiscono esplicitamente a tutti gli anni che vanno dal 1997 al 2002. Inevitabile, forse, il passo, risibile la motivazione del ministro secondo cui la nullità deriverebbe dal fatto che trattasi di materia affrontata a livello di accordi interstatali, ossia superiore a quello in cui può legiferare la Contea. Non meno risibili le sue spiegazioni alla domanda sui motivi per cui un simile decreto non è stato emesso nel corso dei 14 anni dacché la situazione giuridica del monastero era cambiata: il ministro ammette candidamente di non saper rispondere, aggiungendo che comunque chi si ritenga leso nei suoi diritti dalla decisione può presentare ricorso. Una posizione, quella dell’autorità statale croata, che non può non lasciare interdetti. Solo chi difetta del tutto dell’indispensabile senso dello stato pensa di poter acquisire in questo modo una qualche supremazia con una controparte che si avvale di una consumata diplomazia che si è temprata per secoli, per non dire millenni, sulle più prestigiose scene della politica europea e mondiale. Cesare ha dato in questi giorni una forte zampata, ma ora dovrà stare molto attento perché la contromossa non tarderà a venire e sicuramente sarà seguita da altre, tutt’altro che auspicabili. Sbaglia perciò chiunque pensi che se lo scontro divamperà, sarà ad armi pari. Il fattore campo è infatti tutto a favore di Roma che, come si è visto anche ora, ha dalla sua le gerarchie cattoliche croate, il cardinale in testa. E che non intenda scherzare è dimostrato dal siluramento del cancelliere di Parenzo-Pola, che era stato il discepolo più acceso del vescovo. Il primo, sicuramente non l’unico.● Costume e scostume Turisti avari andatevene Vanno a fare la spesa al market e la consumano seduti sulle panchine dei parchi. Con puntualità svizzera gli operatori ci hanno fatto di nuovo sentire il ben noto ritornello. Anche i russi, titolava un giornale locale, si sono mostrati tutt’altro che ricchi. Forse - ma è difficile crederlo - lo sprovveduto titolista si era fatto ammaliare dalle cifre sparate da altri giornali sui russi multimiliardari in crociera (anche) in Adriatico. Sarà piuttosto che ha fatto proprie le lamentele di chi opera nel turismo. Che sicuramente non ha vita facile. Ma che, a differenza del turista-tipo, russo o croato che sia, nella maggior parte dei casi non può sottrarre al fisco neppure un centesimo di quel che guadagna, per il semplice motivo che il prelievo avviene, come si suol dire “alla fonte”, ovvero ancor prima che la paga gli arrivi sul conto. Che cosa fanno invece i “poveri” operatori autonomi che faticano nel settore turistico? Un esempio di prima mano: a Zara a chi chiede il prezzo dell’escursione di un giorno alle Incoronate, la risposta tipo è: “Il prezzo è 250 kune, ma se non chiedi lo scontrino ti ci porto per 200!”. Un rapido calcolo: per guadagnare 200 kune nette un occupato in Croazia lavora più di sei ore. Il proprietario della barca che imbarchi ad ogni viaggio 100 escursionisti, di cui 50 “in nero” ne intasca a questo titolo 10.000, ossia poco meno di due paghe dell’escursionista spennato. Panorama 3 Panorama www.edit.hr/panorama Ente giornalistico-editoriale ED IT Rijeka - Fiume Direttore Silvio Forza PANORAMA Redattore capo responsabile Mario Simonovich [email protected] Progetto grafico - tecnico Daria Vlahov-Horvat Redattore grafico - tecnico Annamaria Picco e Saša Dubravčić Collegio redazionale Bruno Bontempo, Nerea Bulva, Diana Pirjavec Rameša, Mario Simonovich, Ardea Velikonja REDAZIONE [email protected] Via re Zvonimir 20a Rijeka - Fiume, Tel. 051/228-789. Telefax: 051/672-128, direttore: tel. 672-153. Diffusione: tel. 228-766 e pubblicità: tel. 672-146 ISSN 0475-6401 Panorama (Rijeka) ISSN 1334-4692 Panorama (Online) ABBONAMENTI: Tel. 228-782. Croazia: annuale (24 numeri) kn 300,00 (IVA inclusa); semestrale (12 numeri) kn 150,00 (IVA inclusa); una copia kn 14,00 (IVA inclusa). Slovenia: annuale (24 numeri) euro 62,59 - semestrale (12 numeri) euro 31,30 - una copia euro 1,89. Italia: annuale (24 numeri) euro 70,00 una copia: euro 1,89. 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PANORAMA esce con il concorso finanziario della Repubblica di Croazia e della Repubblica di Slovenia e viene parzialmente distribuita in convenzione con il sostegno del Governo italiano nell’ambito della collaborazione tra Unione Italiana (Fiume-Capodistria) e l’Università Popolare (Trieste) EDIT - Fiume, via Re Zvonimir 20a [email protected] La distribuzione nelle scuole italiane di Croazia e Slovenia e nei Dipartimenti di italianistica delle Università di Croazia e Slovenia avviene all’interno del progetto “L’Edit nelle scuole II” sostenuto dall’Unione Italiana (Fiume- Capodistria) e finanziato dal Governo italiano (ai sensi della Legge 296/2006, Art. 1322, Convenzione MAE-UI N° 2840 del 29 ottobre 2008, Contratto N° 104 del 3 settembre 2009). Consiglio di amministrazione: Roberto Battelli (presidente), Fabrizio Radin (vicepresidente), Agnese Superina, Franco Palma, Ilaria Rocchi, Marianna Jelicich Buić, Livia Kinkela. 44Panorama Panorama Panorama testi N. 15 - 15 agosto 2011 Sommario IN PRIMO PIANO Sul caso Daila ad ogni giorno che passa si susseguono i colpi di scena Cesare si è preso tutto. Ed ora?.......................................... 3 di Mario Simonovich REPORTAGE Nel piccolo paese nei dintorni di Gimino una delle più belle grotte istriane IL REGNO SOTTERRANEO DEI FESTINI.................................. 28 di Ardea Velikonja ATTUALITÀ Italia e mondo, momenti di grande tensione sui mercati e nei sistemi bancari UNA SPECULAZIONE SENZA PATRIA.................................6 Cerchiamo di individuare e interpretare quali potrebbero essere stati i motivi scatenanti della nuova vasta furia di violenza e saccheggi in Gran Bretagna LONDRA RIOT, ESASPERAZIONE DI UN CONFLITTO SOCIALE TRA RICCHI E POVERI?.................8 a cura Bruno Bontempo LETTURE Per la quarta volta un testo del connazionale premiato al Concorso di letteratura di montagna “Carlo Mauri” di Lecco IL RESPIRO DEL DESERTO.........34 di Mario Schiavato DOSSIER: LA STORIA DI DAILA Il processo di Buie all’origine della sofferta vicenda del monastero QUEI FRATI BORSANERISTI......10 di Mario Simonovich SOCIETÀ Riflessione estiva/ repuscolare sul senso della vita e della morte GRAZIE AMICI, VI SIA LIEVE LA TERRA.............16 di Marino Vocci LA STORIA OGGI Un episodio minore della Grande Guerra L’ENCOMIABILE CONTRIBUTO DELLE PORTATRICI CARNICHE... 18 di Fulvio Salimbeni CINEMA e dintorni Corpo Celeste, di Alice Rohrwacher, ottima prova di un’autrice giovane IMPIETOSA ANALISI DELLA COMUNITÀ DISGREGATA..........20 di Gianfranco Sodomaco CINEMA Un volume ne ripercorre la storia con locandine e foto CINECITTÀ TRA SOGNO E REALTÀ...............22 a cura di Ardea Velikonja ITALIANI NEL MONDO FIRMATO L’ACCORDO TRA MCL E NAPREDAK.................................24 a cura di Ardea Velikonja MADE IN ITALY ANCHE BEVERLY HILLS HA CELEBRATO IL 150.esimo.........26 a cura di Ardea Velikonja LETTERATURA La scrittore bosniaco si è aggiudicato l’edizione 2011 del Premio che il Lions Club Trieste dedica alla memoria del grande romanziere istriano EUROPA E SCRITTURA DI FRONTIERA, DA TOMIZZA A JERGOVIĆ.......38 LIBRI «Mare inquieto», racconto autobiografico a fumetti nato da una vacanza sulla co sta croata nell’estate del ‘91 DISORIENTAMENTO, SPAESAMENTO, DIFFIDENZA, OSTILITÀ...........40 a cura di Bruno Bontempo MUSICA Amy Winehouse da viva sembrava puntare all’autodistruzione, dopo la scomparsa «sale» come Jackson e Presley NEL TRISTE CLUB DEI 27 E DEI RICCHI POST MORTEM...............42 a cura di Bruno Bontempo SPORT Conteggio alla rovescia per la XXX Olimpiade GIOCHI SENZA RITARDI E SENZA SFORATURE?................44 UMAGO, LA PRIMA SINFONIA DI DOLGO.......................................46 SORPASSO DI LOCHTE MA PHELPS NON SI ARRENDE: CI RIVEDIAMO A LONDRA....... 48 a cura di Bruno Bontempo ARBOREA LIMONE, SIMBOLO DELLA SOLARITÀ,...................... 50 di Daniela Mosena MULTIMEDIA COME SCEGLIErE IL TABLET GIUSTO (3 e fine)............................52 a cura di Igor Kramarsich RUBRICHE.....................................54 PASSATEMPI.................................58 IN COPERTINA: Il monastero di Daila ai giorni nostri (foto di Ardea Velikonja) Agenda Appuntamento a Pola il 3 settembre prossimo con un grande concerto all’Arena Pronta la visita del Presidente della Repubblica italiana T utto è pronto per la visita che il presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano effettuerà a Pola il 3 settembre prossimo. Ricorderemo che l’incontro con la Comunità nazionale italiana che vive in Istria doveva avvenire nel corso dell’ultima visita fatta dal presidente italiano in Croazia ma, per ragioni interne, la tappa a Pola era stata rimandata. Come lo stesso presidente ha assicurato a Furio Radin presidente dell’UI il 3 settembre prossimo Napolitano incontrerà nella città dell’Arena i vertici dell’Unione Italiana e della locale Comunità e si terrà pure, sempre all’Arena, il grande concerto della Filarmonica di Zagabria assieme ai cori riuniti delle Comunità degli Italiani dell’Istria e di Fiume cui parteciperà pure il presidente della Repubblica della Croazia Ivo Josipović. Ricorderemo che come per luglio al concerto sono invitati tutti i connazionali residenti in Croazia e coloro che non hanno un meyyo per arrivare a Pola possono rivolgersi alla propria Comunita degli Italiani che si occuperà del trasporto per tutti.● Dopo la mostra i lavori diventeranno parte della collezione del Museo di arte moderna 35 scatti inglesi sul patrimonio industriale fiumano N ell’ambito del “Fiume foto festival” organizzato dal Museo di arte moderna e contemporanea di Fiume al Piccolo salone fino al 31 agosto prossimo si può visitare la mostra del fotografo inglese Marcus Doyle intitolata “I souvenir fiumani, fotografie del passato industriale di Fiume”. L’esposizione comprende una serie di 35 foto che hanno come tema il patrimonio industriale in dacedenza, in particolare dellìex silurificio “Torpedo”, l’ex Cartiera (nella foto accanto), il porto fiumano e alcune vedute notturne scattate dal Castello di Tersatto. Marcus Doyle ha scattato queste foto nel 2010 quando per la prima volta ha visitato Fiume per partecipare appunto al “Foto festival”. Era rimasto impressionato dai numerosi resti del passato industriale della città e qui aveva deciso di realizzare queste foto. Da rilevare che quando il 31 agosto verrà ufficialmente chiuso il “Fiume foto festival” Marcus Doyle regalerà al Museo d’arte contemporanea di Fiume tutta la collezione delle sue foto sull’industria fiumana. ● Uscito dalle stampe il libretto informativo sulla vita e l’opera della comunità nel centro quarnerino «Gli ebrei a Fiume» in un opuscolo in 4 lingue P er la prima volta a Fiume è uscito dalle stampe un opuscolo realizzato dalla Comunità ebraica intitolato “Gli ebrei a Fiume”. il libretto informativo, realizzato in croato, italiano, inglese e tedesco offre al lettore uno squarcio nel passato di Fiume, soffermandosi su alcuni dei simboli più rinomati della comunità ebraica: la sinagoga e il cimitero. La vecchia sinagoga ebraica (nella foto) situata in via Pomerio venne costruita nel 1903 e distrutta dai nayisti il 25 gennaio del 1944. Infatti le tracce più antiche della presen- za ebraica a Fiume risalgono al XV secolo, quando la città fu la meta di tantissimi immigrati italiani provenienti soprattutto dalle Marche e da Pesaro. I primi documenti attestanti la presenza di ebrei sono atti notarili del 1436. Tra le altre informazioni c’è quella relativa al centro città, dove nei pressi della cattedrale di San Vito sorse il rione giudaico che venne denominato Zuecha, probabilmente in riferimento alla veneziana Giudecca. La comunità ebraica a Fiume era composta principalmente da artigiani e mercanti alla ricerca di un luogo abbastanza tollerante da permettere loro un commercio indisturbato.● Panorama 5 La storia di Daila Il processo di Buie all’origine della sofferta vicenda del monastero Quei frati borsaneristi... aila, nome fino a poco tempo fa quasi sconosciuto a chi non avesse maggior dimestichezza con l’Umaghese. Nelle ultime settimane, il piccolo abitato poco distante da Cittanova si è ritrovato sulle prime pagine dei quotidiani e nelle notizie di testa dei telegiornali croati. Motivo: il ballerino susseguirsi di sortite ad avanzate di uno scontro che ha quale oggetto il locale monastero benedettino ma soprattuto le centinaia di ettari di terreno che ad esso fanno capo. Uno scontro che, contrapponendo all’inizio il vescovado di ParenzoPola all’Abbazia benedettina di Praglia (Padova) una volta venuto alla luce, si è allargato con fulminea rapidità coinvolgendo gli amministratori istriani per chiamare in campo a Zagabria tanto i vertici del potere religioso che quello temporale e rimbalzare infine in Vaticano tirando in ballo direttamente il Papa. Non si intende qui rifare la storia di quanto avvenuto in quanto facilmente reperibile sui giornali, che traboccano di dati, peraltro selettivamente sottaciuti o enfantizzati a seconda della loro utilità “per la causa”. Si vuole invece presentare al lettore più da vicino uno degli D eventi che si è rivelato d’importanza capitale per tutto quel che ne è seguito: il processo pretestuoso intentato ai benedettini di Daila, che si concluse non solo con pesanti condanne ai lavori forzati, ma anche con la confisca del monastero e di tutti i suoi beni, che era poi il fine primario per cui tutto il meccanismo repressivo era stato messo in moto. Un fatto tutt’altro che episodico di cui peraltro la conoscenza è relativamente scarsa anche dalle nostre parti e che merita di essere conosciuto più da vicino. La vicenda è stata trattata dal giornalista e scrittore Ranieri Ponis in un capitolo del suo libro intitolato In odium fidei, edizioni Zenit, Trieste, 2006 e dedicato alle persecuzioni di cui furono oggetto i religiosi in Istria all’avvento del regime jugoslavo. Partendo dal testo in parola si è cercato qui tanto di rivolgere un seppur tenue sprazzo di luce su un doloroso evento del passato quanto favorire la comprensione di certi atteggiamenti interessati di allora che, cambiati i tempi, si ripresentano immutati, sia in taluni protagonisti che girano incravattati o con il cappellino, che in altri, vestiti dell’abito talare. Dossier di Mario Simonovich foto di Ardea Velikonja Marzo 1948, Tribunale distrettuale di Buie. È in corso il processo ai frati di Daila. Fra i testimoni vi è il milite che ha partecipato alla perquisizione del convento, il quale afferma di aver rinvenuto nel cassetto del tavolino della cella di don Ambrogio Bizzarri, uno dei quattro imputati presenti, una fotografia di Mussolini. Il religioso reagisce chiedendogli di specificare in quale parte dell’edificio fosse posizionata la stanza. La risposta è alquanto laboriosa e il religioso insiste affinché dica almeno in quale parte della stanza si trovasse il tavolino in oggetto. “A sinistra, ne sono certo.” “Non è vero, era a destra” ribatte l’imputato. Il milite afferma inoltre di aver trovato nel cassetto una pipa con la cenere ancora calda e un rasoio. Ma l’imputato non fumava e si radeva con la lametta. Si esprime in questi termini il solo giornalista straniero ammesso al processo contro i fatti di Daila, citato da Ranieri Ponis nel capitolo “I benedettini di Daila e S.Onofrio” del libro In odium fidei, che riporta le persecuzioni attuate dal regime jugoslavo nei confronti della Chiesa e delle sue istituzioni in Istria. 10 Panorama Seppur situato nella zona B, e dunque formalmente estraneo alla sovranità jugoslava, il convento con le sue proprietà fu immediatamente oggetto di un’interessata attenzione da parte del nuovo potere, specie quando si capì che il suo consolidamento sul territorio progrediva con l’andar del tempo. Il Comitato delegato all’applicazione della riforma agraria tolse le terre che fino ad allora venivano lavorate dai coloni per darle a nuovi assegnatari, lasciando all’istituzione poco più del tetto massimo, che era di dieci ettari. In parallelo, si provvide ad una serie di quelli che decenni più tardi in Italia sarebbero stati chiamati “espropri proletari”: con sortite improvvide furono sottratti attrezzi e derrate. Più tardi la polizia fece circolare la voce che i frati dessero protezione a ricercati politici, sicché furono sottoposti ad un’esplicita sorveglianza armata. Allo stesso modo furono trattati i coloni, che apertamente stavano dalla loro parte. Firmato nel febbraio 1947 il Trattato di pace, nei mesi successivi il nuovo potere alzò il tiro nei confronti della comunità monastica che si era ormai ridotta a cinque membri: l’abate don Teodoro Amati, don Alfonso Del Signore - subentrato nella direzione dell’azienda agricola a don Costantino Buccinelli, scomparso tre anni prima nell’affondamento del S.Marco al largo di Salvore - don Ambrogio Bizzarri, padre don Benedetto Segatori e fra Mauro Di Lelio. Il 29 agosto quattro religiosi furono prelevati dal convento e portati nella prigione di Pirano. Don Amati, chiamato all’inizio del mese a Venezia per curare il monastero di S.Giorgio Maggiore evitò l’arresto e fu giudicato contumace. Fra la popolazione il provvedimento sollevò un diffuso quanto inutile malcontento. Gli interrogatori, iniziati il 14 settembre, ossia due settimane dopo, erano tesi tanto a rendere invisi i religiosi al popolo quanto a metterne in evidenza l’incongruenza dei valori etici a cui si richiamavano. Per far intendere che si erano arricchiti alle spalle dei poveri, per la zona furono fatti circolare camion di frumento e altri prodotti agricoli prelevati dall’abbazia e dalle case dei coloni tanto che taluni protestarono e furono arrestati. La storia di Daila Il monastero in un’invitante immagine del 1903 (dal libro Incontri con l’Istria di Luigi Parentin) Per Padre Alfonso Del Signore e padre Ambrogio Bizzarri (foto) le codanne furono di tre anni e mezzo e un anno e mezzo di “lavoro obbligatorio con restrizione della libertà” L’istruttoria processuale, scrive Ponis, fu condotta dai “referenti”, fra cui un tale Schrians, ex seminarista divenuto fervente comunista. I capi d’accusa formali furono speculazione illecita, contrabbando e sabotaggio per don Del Signore, l’amministratore dell’azienda, fra Mauro era imputato d’aver allevato piccioni-spia, e la prova sarebbe stata l’anello di cui erano muniti al fine di distinguere le varie covate. Don Benedetto era ritenuto correo dei crimini dell’amministratore mentre don Bizzarri era sospetto per le frequenti assenze e i contatti con il vescovo di Trieste. Don Segatori, anziano e malato, poté difendersi a piede libero, gli altri da Pirano passarono alle carceri di Capodistria. Primo imputato era ovviamente don Teodoro Amati, il superiore del convento che da Venezia fece pervenire un memoriale in cui confutava le accuse mosse alla comunità la cui attività era stata sempre del tutto apolitica quanto intesa a migliorare le condizioni di vita dei coloni. Nel memoriale rilevava inoltre come durante l’occupazione tedesca avessero assistito moralmente e materialmen- Dossier L’ accusa: contrabbando e ostilità al potere popolare Panorama 11 La storia di Daila te le formazioni partigiane operanti sul territorio e impedito ai tedeschi spoliazioni e deportazioni. Al momento di iniziare le udienze, i capi d’imputazione erano due: propaganda fascista contro la libertà e le istituzioni popolari e una serie di reati economici quali sfruttamento dei coloni, contrabbando e sabotaggio. Le udienze iniziarono a Buie solo cinque mesi più tardi, il 21 febbraio 1948. La corte era composta dal dott. Strah e due contadini quali giudici popolari, pubblico ministero il dott. Zega. Subito però ci fu un’interruzione chiesta dall’avvocato difensore Mario Stocca poiché gli era morta la moglie. La richiesta fu accordata fra i fischi del pubblico “rigorosamente selezionato” che chiedeva condanne immediate. Le udienze si svolgevano in una spaziosa sala al primo piano di un bar, in quanto più ampia di quelle di cui disponeva la pretura. Si riprese il 3 marzo, stavolta però di fronte a un altro giudice, il dott. Battista Lodovico, in quanto Strah si era dimesso e la ricerca del successore era stata molto laboriosa. La pubblica accusa era costituita dal dott. Giovanni Cerkvenik, affiancato dal dott. Zega, immutati i giudici popolari. I testi dovevano asserire d’essere stati sfruttati e maltrattati dai “frati borsaneristi” che si sarebbero resi anche complici dei rastrellamenti di civili da parte dei tedeschi, d’aver visto nel monastero fotografie di Mussolini e altri gerarchi e di essere a conoscenza di azioni di spionaggio con il vescovo di Trieste. Era scontato che si voleva arrivare a pene severe, ma soprattutto alla confisca di una proprietà molto appettibile. Come ammesso dalla stampa jugoslava dell’epoca, fra i testimoni, uno solo era stato colono del monastero e rispondeva al nome di Anton Dragan. Sua figlia Fides, disse, era stata sedotta da don Alfonso del Signore che si era quindi adoperato a cacciare l’intera famiglia per “ragioni d’immoralità”. Il riferimento andava ad uno scandalo scoppiato una quindicina d’anni prima di cui si era reso colpevole un certo padre Giovanni che, effettivamente aveva messa incinta una giovane e per tale motivo era stato radiato dall’ordine. Un altro testimone sostenne che all’atto della perquisizione del monastero erano stati rinvenuti “proiettili per fucile, vari dischi di grammofono con canzoni fasciste e numerosi opuscoli reazionari ed antidemocratici” in merito ai quali peraltro non si fornì alcun dettaglio. Dossier Colpevolezza collettiva 12 Panorama La requisitoria si fondò sullo strano ragionamento che, fatta salva la piena colpevolezza del priore per la sua posizione, gli altri dovevano essere pure considerati tali. Don Segatori, il più anziano, perché sicuramente aveva fornito non pochi suggerimenti, don Bizzarri perché era il frate più intelligente, Del Signore, che fruiva di ampio spazio di manovra essendo l’amministratore e, infine, fra Mauro, il cuoco, che, essendo in possesso delle chiavi dei magazzini, avrebbe avuto facile gioco nell’occultare i generi in essi contenuti. Quando la parola passò al difensore, essendo il pubblico “scelto”, nell’aula nacque un baccano insostenibile. Stocca rilevò che la presunta collusione con il fascismo faceva capo a fotogra- La storia di Daila Due giorni di udienze e la sentenza era pronta asta una rapida ricapitolazione dei tempi di durata del processo per farsi un’idea piuttosto precisa degli intendimenti dei promotori. Erano del resto i tempi in cui Tito rimproverava ai magistrati di soggiacere troppo pedissequamente alle leggi. Arrestati i religiosi il 29 agosto, gli inquisitori diedero inizio agli interrogatori solo il 15 settembre, ossia due settimane dopo, mentre la prima vera udienza, dopo quella preliminare del 21 febbraio, si tenne giovedì 4 marzo. Però già nel numero di martedì 9, ossia dopo tre soli giorni lavorativi, la Voce del Popolo riportava gli esiti del processo, sormontati dal titolo “Giuste condanne ai frati di Daila”. Più preciso Ranieri Ponis: “La sera del 5 marzo 1948 (ossia già al mercoledì, n.d.r.), alle 21,45 fie che ritraevano i frati insieme ai gerarchi all’atto dell’inaugurazione dell’Acquedotto istriano e delle nuove costruzioni di S.Benedetto di Daila, ossia erano state scattate in momenti in cui era impossibile sottrarsi a certi obblighi. Nell’aula, afferma Ponis, venne portata anche una grande foto di Mussolini a Daila: un palese falso perché egli non vi era mai stato. Anche i presunti rapporti di cordialità con l’occupante tedesco erano insussistenti date le testimonianze che provavano la scarsa benevolenza fra questo e il clero locale in genere e i frati in particolare. In quanto al presunto contrabbando di valuta, si trattava di un milione di lire con cui veniva chiusa una vertenza con un privato, prova ne sia che la cifra non fu inviata al monastero di Praglia, che pure era il proprietario di Daila (suona familiare, vero ?). Non meno falsa, rileva Ponis, era da considerarsi l’imputazione di contrabbando in quanto l’invio, di volta in volta, di generi alimentari a Trieste era avvenuto con regolare permesso rilasciato dalla capitaneria di Cittanova e del Comitato popolare locale. Allo stesso modo il supposto duro trattamento riservato ai coloni era insostenibile, disse Stocca, in quanto smentito dalle varie opere di bonifica, la costruzione di belle case coloniche, del silo e delle stalle, nei rispetto dei criteri più avanzati. Da sei mesi a quattro anni di lavori forzati Le sentenze, come facilmente prevedibile, furono tutte di colpevolezza: il priore, “latitante”, colpevole di aver esportato clandestinamente rilevanti somme di denaro e di averne occultate altre (in nessun caso si precisa l’ammontare!) era condannato a quattro anni di lavoro obbligatorio “con restrizione della libertà”. Quest’ultimo provvedimento – che poi stava ad indicare i lavori forzati – veniva applicato pure nei confronti di tutti gli il tribunale del popolo emise la sentenza”. Altro che i maratonici e sfibranti procedimenti processuali dei giorni nostri: tutto si era concluso nell’arco di due sole giornate, roba da far invidia anche a una corte marziale. Anche il fatto che, come scrive l’anonimo resocontista del quotidiano fiumano - il Pubblico accusatore, “in base a nuove prove” avesse esteso l’accusa contro don Amato e don Alfonso Del Signore “per aver contrabbandato a Trieste 1.900.000 lire” non aveva influito sulla speditezza dei giudici. Probabilmente era bastata la parola d’ordine diffusa dalla propaganda del regime secondo cui, come si afferma nello stesso articolo, il monastero di Daila, dopo la sconfitta del fascismo, “era rimasto una sua filiale propagandistica”.● Il silo, struttura insolita per i tempi in cui fu edificato, a testimoniare i sistemi agricoli avanzati che usavano i benedettini altri imputati. Le pene detentive venivano pertanto fissate a tre anni e mezzo per don Alfonso Pio Del Signore, “riconosciuto colpevole” di esportazione ed occultamento di valuta), un anno e mezzo per don Ambrogio Ottavio Bizzarri (occultamento di generi alimentari ed altre merci) e sei mesi per fra Mauro Di Lelio (occultamento di viveri). Tutti erano inoltre condannati a un anno di perdita dei diritti civili e politici a decorrere dal giorno in cui avessero finito di scontare la pena ed al pagamento delle spese processuali e, dulcis in fundo, si decretava la confisca di tutti i beni mobili ed immobili appartenenti al monastero, che era poi la ragione prima di tutto il processo. Ironia delle umane vicende: sicuramente quel giudice che emise una sentenza del genere mai avrebbe potuto immaginare che che sessant’anni dopo essa avrebbe creato una spaccatura tanto profonda fra il clero istriano e i vertici della Chiesa croata e dato uno scossone forse non minore ai rapporti fra Zagabria e la Santa Sede, anche perché la recentissima ripresa degli immobili da parte dello stato sicuramente non significa l’ultima parola sul caso. Dossier B Panorama 13 La storia di Daila Il monastero come si presenta oggi. La contiguità del mare lo rende particolarmente appetibile... Nelle altre foto si evidenzia lo stato d’abbandono del complesso in cui valore è enorme, data anche la grande estensione dei terreni ad esso pertinente Dossier In Italia l’esito del processo fu duramente criticato dai mezzi d’informazione, esclusi ovviamente quelli ideologicamente vicini al potere jugoslavo – che, va ricordato, era ancora in piena sintonia con tutto il blocco orientale: il conflitto sarebbe scoppiato l’anno successivo. Attraverso La voce libera di Trieste il CLN dell’Istria condannava un processo “inscenato e minuziosamente preparato al solo scopo di dare veste legale all’espropriazione del monastero di Daila e 14 Panorama delle sue tenute” sottolineando le assurdità contenute nella serie di accuse calunniose e diffamatrici su cui si edificavavano i processi da parte di un apparato giudiziario al servizio di una fazione politica. Di quanto avvenuto a Daila, si precisava, era stato informato anche il Consiglio di sicurezza dell’ONU. Come ben si può comprendere, l’effetto delle reazioni sul potere jugoslavo fu nullo. I religiosi furono trasferiti nel campo di lavoro allestito a Salvore e prima dovettero fare gli spaccalegna e quindi trasportare pietre e ghiaia per la costruzione di una strada in direzione del faro di Punta Salvore. Più tardi ancora furono impiegati in lavori agricoli nei campi e in attività domestiche, come la cura dei pollai e dei porcili. Scontata la pena, gradualmente furono liberati e partirono per Trieste dove furono interrogati dagli ufficiali inglesi, dopo di che si diressero a Praglia. Anche i verbali triestini, si disse allora, furono inviati ai competenti uffici delle Nazioni Unite, ma ancora una volta senza alcun riscontro di rilievo. Don Teodoro Amati, che già da Trieste si era adoperato ad aiutare i confratelli in carcere, avviò subito presso il Governo italiano le pratiche per il risarcimento dei danni di guerra e le requisizioni da parte del potere jugoslavo. Partiti i religiosi, la resa dei campi si ridusse notevolmente per tutta una serie di motivi che andavano da colture inadatte alla carenza di concimi. Su tutto pesarono poi taluni fattori sociologici. La primitiva distribuzione delle terre, accolta all’inizio con favore dai beneficiati, mostrò presto un’arma a doppio taglio in seguito al susseguirsi delle pressioni volte a irreggimentare i contadini nelle cooperative. Nel contempo l’attrazione per la vita in città aumentava di giorno in giorno favorendo gli abbandoni. La resa dei campi si ridusse in pochi anni al livello di un’agricoltura di sopravvivenza. L’edificio del convento fu adattato ad ospizio per anziani, mentre nei locali adiacenti prese allog- La storia di Daila 1997: la sentenza viene abrogata Nel febbraio 1997 il tribunale conteale di Pola presieduto da Ivan Milanović ha abrogato la sentenza pronunciata quasi cinquant’anni prima a Buie: i monaci sono stati assolti dalle accuse principali per le quali erano stati condannati. In particolare la corte accettava nella sua integrità la testimonianza da cui risultava che i benedettini aiutavano i poveri della zona e dei dintorni e per farlo dovevano disporre di determinati generi alimentari, in quanto altrimenti l’aiuto sarebbe stato impossibile. Conclusione: non era stata individuata con certezza l’intenzione degli imputati di commettere il reato di speculazione illecita e i generi alimentari trovati servivano per aiutare i poveri.● S’incrociano le vie dell’esilio benedettino a vita religiosa nell’area di Daila ha una millennaria tradizione. Già nel V-VI se. vivevano qui monaci balisiani greci, come testimoniato dai resti di una chiesa paleocristiana. Nel IX sec. subentrarono i benedettini. La vita monastica passò in secondo piano nell’XI sec. quando l’area fu aggregata alla povera diocesi di Cittanova, ma nel cimitero di Cittanova una lapide ricorda i frati seppelliti nel Seicento, provenienti da “Castrum Dailae”. Nel 1348 in proprietà della famiglia Sabini, passò quattro secoli dopo (1736) ai conti Grisoni che vi fecero importanti lavori. Nel 1835, perso il figlio in un duello, L Francesco Grisoni lasciò Dalia per testamento in eredità ai benedettini dell’Abbazia di Praglia, purché fondassero e mantenessero una scuola elementare. Arrivarono in dodici nel 1860, costruirono l’abbazia e rimasero fino al processo di cui si tratta in queste pagine. Un episodio significativo: entrate le truppe italiane a Padova nel 1866, l’anno successivo viene applicata nel Veneto la legge che sopprime tutte le corporazioni religiose. Così la comunità di Praglia trova riparo nel monastero di Daila, allora in territorio austriaco. Ottant’anni più tardi l’esilio dei frati avverrà in senso inverso.● Dossier gio una dozzina di famiglie fra le tante che il regime fece affluire in Istria dall’interno del Paese per rimpiazzare i vuoti lasciati dagli esuli. Va ricordato infatti che i frati furono seguiti dalla grande maggioranza dei loro coloni. Alla metà degli Anni Novanta l’ospizio fu chiuso. Panorama 15 Società Riflessione estiva/crepuscolare sul significato sul senso della vita e della morte Grazie amici, vi sia lieve la terra di Marino Vocci L e prime piogge d’agosto hanno già abbondantemente rinfrescato il bosco, ma nonostante tutto l’estate con tenacia prosegue il suo cammino. Questa stagione è il simbolo della maturità, della bellezza e della vita, delle lunghe ed emozionanti giornate trascorse tra una tonificante nuotata nell’azzurro del mare o una sana e stimolante camminata nei sentieri delle montagne o nel verde della nostra Istria (straordinariamente verde quest’anno grazie alle tante piogge estive), dei viaggi alla scoperta delle isole di questo nostro splendido Adriatico. Mesi che ci regalano soprattutto momenti di gioia grazie alle frequenti occasioni di ritrovarsi e fare due ciacole, anche con gli amici (un tempo erano gli emigranti che ritornavano nella loro terra di origine e nelle loro case), che abitualmente si vedono di meno. Di questa estate 2011 ricorderò soprattutto però il dolore vero, sordo e profondo per il vuoto lasciato da alcuni amici carissimi che hanno intrapreso anzitempo il loro ultimo viaggio: Gaetano, Luciano, Matteo Il Jof di Montasio dove Federico nel portare le ceneri del fratello Matteo è stato colpito da un fulmine e Federico e in particolare ricorderò come ho vissuto insieme a tantissimi amici e amiche, la loro morte. Gaetano, un uomo sempre disponibile, buono fino all’ingenuità, un uomo aperto e “accogliente” come lo è sempre stato questo nostro Adriati- La cattedrale di Toluca, città in Messico in cui è morto Matteo in un incidente stradale 16 Panorama co, diviso tra la sua Puglia e la mia Istria; che ha lasciato il suo (o il nostro) carissimo figlio Michele dopo una lunga e difficile malattia, sopportata con la gentilezza che ha sempre contraddistinto tutta la Sua vita. Luciano, un giovane (aveva più o meno la mia stessa età), che amava presentarsi così:”Ho la fortuna di amare molto e di essere molto amato. Rido di tante cose, in particolare di me stesso. Faccio lo scrittore soprattutto per adolescenti”. Per tutta la vita ha avuto la forza e il coraggio di difendere sempre e ovunque i valori fondamentale della convivenza civile, della laicità e soprattutto le proprie idee. Matteo, morto all’inizio dell’estate a Toluca in Messico per un incidente stradale, la sua moto era ferma ad un casello autostradale quando è stata travolta da un camion. Triestino, giornalista, Matteo viveva in Messico, da oltre dieci anni, dove proprio nella sua capitale insegnava l’italiano e lavorava come ricercatore presso il Centro de Investigación Laboral y Asesoría Sindical, un centro di ricerca legato al movimento sindacale. Società La Chiesa evangelica di Largo Panfili di Trieste, dove abbiamo dato l’ultimo saluto a Luciano Federico, fratello di Matteo, pilota di aerei civili, lunedì 1° agosto era salito in cima ai 2.754 metri dello Jof di Montasio, la vetta più bella e la cima delle Alpi Giulie più amata da Matteo, per liberare nell’aria le ceneri del fratello. Lì, in un punto vicinissimo al cielo che ben conosceva, un fulmine lo ha colpito mortalmente. Era l’ultima promessa che insieme a Gabriele Franco aveva fatto al suo/nostro fratello nel giorno del commiato, quando con le ceneri nello zainetto arancione, insieme a moltissimi amici aveva condiviso con una camminata dal Centro Culturale Preseren al Rifugio Premuda in Val Rosandra, il commosso e bellissimo ultimo saluto. E proprio ripensando a questi fatti e al “corteo” in Val Rosandra, mi sono ritrovato a riflettere sul significato e il valore profondo dell’amicizia, sul senso della vita e della morte, ma soprattutto (partendo dal fatto che nel nostro ultimo viaggio saremo partecipi in modo molto passivo) su come vengono celebrati i funerali e su come vorremmo essere salutati e ricordati. Come viviamo oggi la morte di un’amica o un amico, di un proprio caro ? L’ultimo saluto a Luciano che di religione era valdese, è stato ospitato (un‘accoglienza straordinaria!) nella Chiesa evangelica di Largo Panfili. La cerimonia è stata intensa, vera e di una bellezza vitale. Quello a Gaetano invece, ospitato nella chiesa cattolica del Cimitero di Sant’Anna sempre a Trieste, in un’atmosfera di intensa commozione mi è sembrato freddo e distante, quasi senz’anima e dove a tratti prevaleva una certa retorica. Eppure condividiamo lo stesso dio! Certo i momenti dell’addio ai fratelli Matteo e Federico Dean sono stati quelli che mi hanno emotivamente colpito di più. Certamente per l’immane e sconvolgente coincidenza della tragedia, per la giovane età delle vittime, ma soprattutto per come i loro coetanei hanno scelto e voluto condividere il dolore. Per questo voglio concludere questa riflessione estiva/crepuscolare, riportando quanto, per ricordare Matteo, ha scritto un giovane amico di nome Alberto: ”… siamo come tanti cuccioli sempre assieme e ci diamo manate … e tutti ci guardano straniti e non capiscono se stiamo facendo a botte o se giochiamo. Il corteo non è partito neanche da dieci minuti e già ci caricano e ci ritroviamo tra i piedi una bandoliera con la pistola attaccata e caschi e manganelli e gli rilanciamo tutto indietro… sui binari di Bologna spariamo a palla Lust for Life. A Napoli mangiamo alghe fritte e parliamo con compagni di tutta Italia che vogliono occupare i treni. E andiamo ad Amsterdam e poi a Parigi, però a Ventimiglia c’è la legione straniera e fuori dalla galleria non si esce e torniamo indietro… con gli scudi entriamo a spinta dentro in Portovecchio e il Cpt dopo un mese chiude. E c’è pure Andrea che siamo sempre stati convinti che era romano e invece scopriamo che è triestino pure lui e dopo un mese gli scudi li vediamo in televisione di fronte alla Turkish Airlines a Roma e c’è pure un ariete e i treni stavolta li prendiamo con i curdi e Matteo parla pure la lingua loro. E nel frattempo con Gabriel sono andati insieme in Messico e sono tornati con delle foto di spiagge da paura e due tatuaggi sulle braccia che se li uniscono diventano uno solo e l’altro giorno ho chiesto a Gabriel di poter toccare il suo. E a Valona andiamo in pochi e siamo incazzati che al ritorno non c’è venuto a prenderci nessuno in stazione e invece troviamo Matteo da solo con la barba lunga… E poi Matteo parte e ritorna che lo hanno espulso perchè gli stranieri non possono partecipare alla vita sociale della nazione e quando arriviamo nello zocalo di Città del Messico abbiamo appuntamento sotto l’enorme bandiera e non lo riconosciamo perchè è in incognito e si è tinto i capelli di nero e c’ha le lenti a contatto colorate e non riusciamo a trattenere le risate. E andiamo a bere centrifughe di frutta e cominciamo a parlare in russo maccheronico e storpiamo canzoni e gli diciamo tu vuoi fare il messicano ma sei nato ad Opicina… E in macchina ci dice che la cosa che lo ha fatto incazzare di più da quando sta in Messico è quella volta quando gli hanno gridato gringo. Ma vi rendete conto? Mi hanno chiamato gringo? A me?… Non lo so perchè oggi sto raccontando queste cose. Di sicuro so che per me Matteo è tutto questo e molto altro ancora… Penso che Matteo sia tutti noi. Perchè Matteo ha sempre praticato e usato il noi in maniera inclusiva e mai escludente…. Erano anni che non vedevo tutta la cucciolata insieme. La famiglia nostra sembra come sia tornata a unirsi e ci sono un sacco di cuccioli nuovi. Fanno mille domande e sono affamati di storie. E’ una cucciolata meticcia, bastarda proprio come quella in cui siamo cresciuti con Matteo. Sarebbe stato impossibile attraversare questi giorni senza il calore di tutti loro..”. Grazie amici cari e Vi sia lieve la terra● Panorama 17 Storia oggi Un episodio minore della Grande Guerra, che aiuta a comprendere que L’encomiabile contributo delle porta di Fulvio Salimbeni I l 23 luglio scorso a Timau, frazione di Paluzza, in Carnia, s’è svolta una sobria cerimonia pubblica in ricordo delle portatrici carniche, in una prima parte reinaugurando il monumento loro dedicato già vent’anni fa - ma allora a valenza soltanto locale -, ora, restaurato e rimesso a nuovo, elevato a dignità nazionale, mentre un secondo momento è stato dedicato a un convegno su “Il sacrificio delle donne di Carnia unisce l’Italia: le portatrici carniche”, a ragione inserito nelle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Nell’articolo di due settimane fa s’è messa in luce la politica dei monumenti per ricordare l’esempio degli eroi del Risorgimento: quello carnico vi rientra in pieno, perché, di là dall’apprezzabile semplicità e assenza di qualsiasi enfasi retorica, esso, collocato nella piazza principale del borgo, che si trova a ridosso del passo di Monte Croce Carnico, lungo il quale dal 1866, anno dell’annessione di queste terre al regno sabaudo, corre il confine italo-austriaco, ricorda a tutti quelli che vi passano davanti, e non possono non notarlo, un episodio particolare della Grande Guerra, finora quasi del tutto ignorato fuori dall’ambito locale. Un indubbio merito nel farlo conoscere a livello nazionale lo è dovuto a un rigoroso e ben documentato romanzo storico, uscito nel 2008, di Claudio Calandra, Bucce d’arancia sul fronte di nord-est, pubblicato con notevole successo dall’editore Falzea di Reggio Calabria, in cui con delicatezza viene raccontato l’amore sbocciato tra un bersagliere siciliano, mandato a combattere su quel fronte, minore rispetto a quelli carsico e cadorino, teatro dei più spaventosi massacri, e una giovane del luogo, da ciò traendo lo spunto per narrare con semplicità e rigore storico la vicenda delle donne del posto, coinvolte in una vicenda davvero eccezionale e che ben rappresenta quel tragico evento bellico nella sua concreta umanità e sofferenza. Se oggi è assioma condiviso della miglior storiografia che la storia generale può essere meglio compresa solo partendo dalla microstoria, dai casi particolari, nella loro specificità in un preciso contesto, l’episodio conferma in maniera magistrale tale asserzione. Si tenga, inoltre, presente che è passato ormai il tempo in cui occuparsi del primo conflitto mondiale significava soltanto parlare dei condottieri Cadorna, Diaz, Conrad, Joffre, Nivelle, Foch, Hindenburg e Luddendorf -, meglio sarebbe definirli quasi tutti macellai, vista l’insensibilità per le vite dei loro uomini, e delle tremende battaglie sull’Isonzo, in Galizia, nelle Fiandre, nella Somme e nell’Artois. Affermatasi ora la concezione della storia sociale e culturale della guerra, l’interesse degli studiosi s’è spo- Le portatrici carniche, con al polso un braccialetto rosso di riconoscimento del reparto dal quale dipendevano, durante la Grande guerra rifornivano un fronte che andava da Coglians al Monte Questalta 18 Panorama stato dalla finora prevalente dimensione militare e politica a quella più propriamente antropologica, attenta al vissuto quotidiano di chi si trovava in prima linea e di quanti, invece, costituivano quello che veniva definito il fronte interno. In tale ottica rientra in pieno il discorso sulle portatrici carniche, donne militarizzate, arruolate, con una paga giornaliera d’una lira e mezzo, per portare al fronte - inerpicandosi per sentieri battuti dal fuoco dei cecchini austriaci e salendo ad alte quote - ai loro uomini in trincea, gerle colme di viveri, medicinali, munizioni (e pesanti anche 30-40 chili), al momento della ridiscesa a valle caricandosi sulle spalle feriti, bisognosi d’assistenza e cure negli ospedali di retrovia. Ciò che a noi oggi può sembrare incredibile, per quelle donne, che potevano essere tanto ragazzine quanto le loro madri e, talvolta, nonne, era quasi normale e abituale. La Carnia, infatti, era, e tuttora in larga misura lo è, un’area povera e depressa, in cui già dal Cinquecento, ma ancor più tra Otto e Novecento, in seguito alla crisi economica mondiale che imperversò dal 1873 al 1898 - gli uomini di solito a primavera emigravano stagionalmente per l’“Alemagna”, come allora si definiva il mondo tedesco in generale, rientrando in paese solo ad autunno inoltrato, lasciando alle consorti, madri o figlie il compito d’occuparsi dei vecchi e dei bambini, A Timau nel 1992 è stato inaugurato il monumento a Maria Plozner Mentil, uccisa nel 1916 per mano di un cecchino austroungarico mentre trasportava con la gerla i rifornimenti ai soldati in prima linea Storia oggi ell’immane tragedia atrici carniche della casa, della fienagione dei prati e della cura dell’orto, lavori gravosi, che le tempravano a tutto, sicché per esse, a guerra iniziata, non sembrò affatto strano assumersi questo nuovo compito, che, oltre tutto, consentiva d’aiutare i loro cari, dato che il reclutamento delle unità alpine era perlopiù su base locale. Tutti gli uomini validi essendo sotto le armi, per lo Stato Maggiore italiano s’imponeva l’esigenza di trovare dei sostituti che li rimpiazzassero nell’opera di sussistenza e rifornimento alle truppe combattenti. Da qui l’idea d’arruolare, su base volontaria, le donne disponibili, cui il soldo quotidiano garantito, per quanto misero rispetto alla fatica e ai rischi, era pur sempre qualche cosa di sicuro e d’utile in un momento così difficile come quello. Tale militarizzazione della componente femminile, del resto, non riguardò solo quella carnica, che ne è forse l’esempio più clamoroso e rilevante, benché finora meno conosciuto, perché quel che accadde in Italia avvenne in tutta Europa. La Grande Guerra è stata tale, non semplicemente per il fatto d’essere durata per più di quattro anni ininterrottamente - cosa fino allora mai avvenuta, perché i conflitti ottocenteschi, con l’eccezione della guerra civile americana, episodio anomalo e a sé stante, di solito si risolvevano in pochi mesi e in una o due battaglie, relativamente sanguinose, che coinvolgevano solamente gli abitanti della zona delle operazioni -, d’aver provocato milioni di morti e distruzioni materiali immense, sicché a ragione lo scrittore austriaco Stefan Zweig ha potuto definirla il suicidio della civiltà europea, ma anche perché ha visto il coinvolgimento totale delle popolazioni, che sono divenute il fronte interno, poiché il conflitto ormai impegnava non solo chi era in prima linea o nelle immediate retrovie, ma pure chi ne viveva lontano, mobilitato, però, a servizio della Patria in armi. Le donne, pertanto, furono chiamate a prendere il posto degli uomini negli uffici, nei servizi pubblici, nelle fabbriche, operando negli stessi ospedali da campo e nelle strut- Timau, il piccolo paese in Carnia in cui si è svolta la cerimonia pubblica ture di sussistenza e ausilio materiale e spirituale per i soldati. Tale fu l’importanza del loro apporto che i governi dei paesi belligeranti dovettero promettere l’estensione del voto ad esse per averne una più piena e attiva partecipazione. In tale ottica allora si spiega la vicenda carnica, che, però, può essere letta anche in un’altra prospettiva, di lungo periodo. Come rilevato all’inizio, la cerimonia di Timau è stata inserita all’interno del programma di manifestazioni per i 150 anni dell’Unità, e ciò non soltanto perché il primo conflitto mondiale da molti è stato sinceramente vissuto e percepito come la quarta e ultima guerra d’indipendenza, che portava a compimento il processo d’unificazione nazionale, ma anche per il fatto che la vicenda delle portatrici si colloca più che degnamente nel nuovo filone della “storia di genere”, che ha scoperto e rivalutato il ruolo della componente femminile, in tutti i suoi aspetti, nella storia generale, finalmente non più scritta solamente al maschile. Così negli ultimi tempi sono stati pubblicati numerosi pregevoli studi sul contributo muliebre al Risorgimento nazionale, che ha visto coinvolte aristocratiche milanesi come Cristina Trivulzio di Belgiojoso e umili popolane romane al tempo della Repubblica del 1849, cittadine e contadine, italiane e straniere, come la brasiliana Anita, consorte di Garibaldi, Jessie White Mario, l’inglese ammiratrice di Mazzini e dell’Eroe dei Due Mondi, l’americana Margaret Fuller e la svizzera Giulia Calame, che nel 1848 partecipò attivamente insie- me con il marito, il grande attore teatrale, e fervente mazziniano, Gustavo Modena, ai moti insurrezionali in Friuli; a questo proposito, va segnalato che Fabiana Savorgnan di Brazzà, valente italianista dell’Università di Udine, sta preparando un saggio proprio sul contributo delle friulane alle vicende risorgimentali. In tale ottica, perciò, le portatrici carniche rientrano a pieno diritto nelle celebrazioni per l’Unità, oltre che nelle commemorazioni della Grande Guerra: si tenga presente che ad esse venne esteso il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto”, con i conseguenti benefici morali e materiali, mentre nel 1997 il Presidente della Repubblica, on. Oscar Luigi Scalfaro, insignì della medaglia d’oro alla memoria Maria Plozner Mentil, uccisa da un cecchino austriaco nell’adempimento del dovere e oggi ricordata pure nel monumento di cui s’è detto. L’eroismo e il patriottismo delle donne carniche ebbe, inoltre, modo di rifulgere anche nell’estate-autunno del 1944, allorché parteciparono attivamente alla gloriosa esperienza della Zona Libera, poi Repubblica Partigiana, della Carnia, in seguito spazzata via dalla feroce repressione tedesca e dei cosacchi collaborazionisti dell’atamano Krasnov. Aver scolpito, in questo caso, le eroine, per parafrasare il titolo del già menzionato catalogo, ha permesso di trasmettere alla memoria dei posteri e dell’intera Nazione una vicenda tanto, in apparenza, umile quanto, in realtà, di grande umanità, densa di significati e conferma della spaventosa tragicità di quella guerra.● Panorama 19 Cinema e dintorni Corpo Celeste, di Alice Rohrwacher, ottima prova di un’autrice giovane Comunità disgregata: analisi impietosa di Gianfranco Sodomaco C hi l’ha già vista alla ‘Quinzaine des Realisateurs’, la rassegna del Festival di Cannes (11-22 maggio) dedicata ai nuovi autori, l’ha giudicata subito come l’opera più bella ed interessante. Parliamo di Corpo Celeste, di Alice Rohrwacher, sorella dell’attrice, già affermatissima, Alba. Il film è uscito, quasi clandestinamente, in questi giorni (ma i meccanismi della distribuzione estiva ormai li conosciamo da un pezzo) con un’accoglienza, visto il periodo, molto favorevole, sia da parte del pubblico che della critica nostrana. Vale davvero la pena parlarne, sperando che il mercato non abbandoni troppo presto il prodotto in qualche magazzino... “Corpo Celeste” è liberamente tratto dal romanzo omonimo di Anna Maria Ortese (una delle grandi scrittrici italiane, morta nel 1998) ed è la storia del ritorno a casa di una giovane famiglia calabrese tutta al femminile, madre e due figlie, dopo dieci anni in Svizzera. Ma soprattutto è il romanzo di crescita della piccola Marta (Yile Vianello), 13 anni, del suo sguardo straniero e smarrito sui riti di una comunità adulta che ha 20 Panorama perso ogni ragione di stare insieme, ogni identità e ne cerca il surrogato in un vuoto conformismo ammantato di parvenza religiosa. Insomma Marta, come da tradizione, deve fare la cresima ma iniziando a frequentare il corso di catechismo ad essa finalizzato comincerà a conoscere, più che l’antica pedagogia cattolica italiana (che tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo sperimentato e di cui serbiamo ricordi più o meno piacevoli), il modo ‘sconcio’ con cui, oggi, in certi luoghi, viene intesa la religione: avendo fatti propri i luoghi comuni televisivi, il suo più bieco conformismo e la sua combutta con l’opportunismo politico (“Non è un film sulla Chiesa, ma casomai questa è utilizzata solo come lente d’ingrandimento di una certa Italia di oggi”, Intervista ad Alba Rohrwacher, Il Piccolo, 6 maggio) Sicché le scene e i personaggi più surreali del film finiscono con l’essere i più reali. Il prete di parrocchia (Salvatore Cantalupo) che fa il galoppino politico per ottenere una promozione, la catechista che si ispira ai quiz televisivi per ‘vendere’ ai ragazzi il cattolicesimo e intona canzoncine e slogan dementi ma alla moda: “Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta!” E non a caso uno dei pochi personaggi positivi della storia è un prete di villaggio (il bravo Renato Carpentieri) che rivela a Marta la ‘follia’ di Gesù, il genio più anticonformista della storia dell’umanità, e apre a Marta, fortunatamente, prospettive più vere e limpide. La regista è molto brava (favorita da una esperienza di documentarista) nel descrivere il paesaggio che fa da sfondo ‘naturale’ alla vicenda, il profondo sud che purtroppo già conosciamo: i ponti morti, che collegano il nulla al nulla, gli scheletri di case mai terminate, i fiumi trasformati in discariche tossiche ecc. Ma anche di far recitare, allo stesso livello, professionisti eccelsi come Salvatore Cantalupo, Carpentieri e Anita Caprioli (la madre), con dilettanti dalla resa sbalorditiva. Prima fra tutti la Yile Vianello (“Non riuscivo a trovare la protagonista, mi si presentavano solo tante piccole veline. Poi ho trovato Yile, che vive in una comunità montana isolata ed era perfetta”, Intervista citata) e Pasqualina Scuncia (Santa, la catechista), un talento naturale che misteriosamente fin qui ha sempre fatto la tabaccaia. Una capacità, questa ed altre, che secondo me avvicina “Corpo Celeste” al film italiano più importante del passato decennio: “Gomorra”, di Matteo Gar- Cinema e dintorni rone, tratto dal romanzo di Roberto Saviano. Dunque l’Italia di oggi, dunque il Sud, complice la classe dirigente politica, che non riesce ad affrancarsi, nonostante tante bellissime eccezioni, dal sottosviluppo sociale e culturale; ma anche la crisi, la ‘cristallizzazione’ del fenomeno religioso italiano, complice l’alta gerarchia cattolica, ancora legata, purtroppo, a doppia mandata al potere politico. E quanto sostenuto dal film trova piena conferma scientifico-sociologica nel libro, frutto di una ricerca d’equipe dell’Istituto Cattaneo di Bologna, “Geografia dell’Italia cattolica”, curato da Roberto Cartocci e pubblicato da ‘Il Mulino’ (2011). Sinteticamente: un Nord sempre più secolarizzato, laicizzato, un Sud sempre tradizionalmente ‘devoto’ con tutto ciò che ne consegue e ne è causa. Ebbene, solo per fare un esempio, a Napoli i matrimoni civili sono mediamente il 26 per cento, a Catania il 32 mentre a Milano sono il 57, praticamente il doppio. Sicché appunto, scrive Cartocci, “la mappa della nuova Italia cattolica è sovrapponibile a quella dell’Italia dell’inefficienza pubblica e del degrado civile...: si prega di più dove c’è meno raccolta differenziata dei rifiuti, si va più a messa dove si emigra di più verso gli ospedali del Nord. La devozione meridionale tradizionale convive con una società disgregata, incapace di produrre, nei ‘parrocchiani’, un coinvolgimento che vada al di là del puro ritualismo e formalismo: soprattutto, di contrastare la corruzione delle istituzioni, il dilagare dell’illegalità, il degrado del senso di comunità, il deficit di Stato”. Eppure (le bellissime eccezioni), come non ricordare che nel Sud sono stati ammazzati da mafia e camorra due preti scomodi come don Pino Puglisi e don Peppino Diana, e che don Luigi Ciotti, attraverso la sua associazione, “Libera”, da anni sta conducendo una attività, una lotta, contro tutte le mafie, coinvolgendo soprattutto i giovani in un’opera di sensibilizzazione e liberazione culturale da antichi preconcetti ed ataviche consuetudini. Affiancando, don Ciotti, il lavoro delle forze dell’ordine e, soprattutto, aiutando le popolazioni a gestire i territori confiscati dallo Stato alle organizzazioni criminali. E i vescovi, finalmente, questo lo sanno e, finalmente, sfornano documenti sulla ‘questione meridionale’ come mai prima. E a tal proposito, lo pensa anche un non credente come il sottoscritto, risuonano ancora le furenti parole di Giovanni Paolo II ad Agrigento (1993) contro la mafia: “convertitevi”! Se “Corpo celeste” suscita tutte queste emozioni, queste considerazioni, significa che davvero si tratta di un film che ‘centra il bersaglio’, che va nel profondo non solo del sentimento religioso più o meno variamente diffuso ma anche di quello civile, così duramente messo alla prova nell’ Italia di questi anni ‘terribili’. E non a caso il goriziano ‘Premio Amidei’, dedicato alla migliore sceneggiatura cinematografica e di cui parleremo la prossima volta, ha conferito, il 16 luglio, alla regista e sceneggiatrice Alice Rohrwacher il premio ‘Opera Prima’...● Per una svista, nel servizio dedicato al Festival di Pola comparso nel n.14 di Panorama, in una didascalia sono venuti a mancare i nomi del vicesindaco di Pola Fabrizio Radin e dell’ambasciatore Alessandro Pignatti Morano di Custoza. Ce ne scusiamo con gli interessati e i lettori. Panorama 21 Reportage Nel piccolo paese nei dintorni di Gimino una delle più belle grotte istriane Il Regno sotterraneo dei Festini Testo e foto di Ardea Velikonja D ieci anni fa era un comune campo agricolo con “una buca” pericolosa che era stata chiusa con sassi e terra dopo che un giovane mulo era caduto dentro e si era fratturato una zampa. E poi c’erano i bambini che correvano sull’erba e, pur essendo loro vietato di avvicinarsi alla buca, strisciando o muovendosi a carponi, entravano per quanto possibile a curiosare nell’ignoto di quella “fredda grotta” come era comunemente chiamata. “Io ero bambino e avevo terrore di questo buco oscuro che conteneva anche dell’acqua. I miei amici più grandi si calavano giù e uscivano gridando di aver visto un grande re che li guardava fisso negli occhi. Da qui il nome di Regno dei Festini. Ciò succedeva subito dopo la seconda guerra mondiale, fino a che non si provvide alla chiusura per le ragioni di cui si diceva. Molti anni più tardi, grazie all’interessamento di alcune società speleologiche istriane ci si rese conto della vastità di questa meraviglia sotterranea. Fu così che decidemmo di tutelare tutto ciò che c’era al suo interno, ossia fermare la devastazione in corso in attesa di tempi migliori.” Un bel prato, la natura intatta invogliano tante famiglie a passare almeno mezza giornata a Festini Questo quanto ci ha raccontato Romano Božac, proprietario del terreno di Festini, piccola frazione di Gimino, dove i tempi migliori sono arrivati tre anni fa con l’apertura al pubblico di questa che qui viene definita la più piccola ma anche “la più ricca” grotta dell’Istria. Nel 2005 le sue figlie Snježana Širol e Mirjana Orbanić pensano a riassettarla. “L’idea di ripulire tutto ci venne dopo l’incontro con un appassionato che ci era venuto a chiedere se poteva in qualche maniera entrare per vederla”, ci ha raccontato la signora Širol. “Io risposi di sì e dopo tante peripe- Snježana Širol e il padre Romano Božac mentre ci raccontano come š nata l’idea di aprire la grotta 28 Panorama zie per realizzare l’intento - dato che bisognava ‘fare i conti’ con tonnellate di materiale scaricate lì da chissa quando - l’uomo uscì entusiasta e ci indicò le persone adatte per rendere accessibile la grotta. “E qui devo ringraziare gli esperti della Grotta di Baredine, le società di speleologi di Pisino e Parenzo nonché l’associazione “Natura Histrica” che ci ha aiutato tanto. Abbiamo cominciato con il ripulire l’entrata ed è stato subito un lavoraccio perché il terreno era molto molle e ogni escavatrice, appena all’opera, tendeva a sprofondare, prova ne sia che gli interventi sono cominciati nel 2005 e l’apertura è avvenuta appena nel 2008. Poi bisognava mettere a punto l’accesso, costruire la scalinata e quindi pensare alla grotta vera e propria. E qui abbiamo dovuto far intervenire il Ministero alla cultura che ci ha aiutato a effettuare i lavori di illuminazione e creare il passaggio senza arrecare danni alle stalattiti e stalagmiti, prezioso dono della natura. Oggi possiamo dire che la grotta è tutelata al massimo dato che è ancora attiva, il che significa che l’acqua continua a modellare i suoi interni. Nel nostro piccolo abbiamo dai 3 ai 4000 visitatori all’anno e le preferenze crescono sempre più. Sono però ancora tanti i villeggianti al mare che nulla sanno di questa grotta ma speriamo che in futuro gli enti turistici ci L’entrata a 14 metri sotto terra La visita alla piccola ma bella grotta dura venti minuti con la guida che spiega tutto sulle stalattiti e le stalagmiti Panorama 29 Piccola, ma la più artistica in Istria Il Cappello del mago, le perle, i denti di coccodrillo, la zampa di dinosauro, sono tutto figure che la natura ha creato in milioni di anni, goccia per goccia 30 Panorama a Panorama 31 Da Gimino a Murano La sabbia silicea istriana da sempre veniva usata per il noto vetro di Murano. E vicino alla grotta è stata allestita una galleria in cui si racconta la storia della “varina” come il composto viene chiamato da queste parti 32 Panorama Reportage includano nella loro offerta. Qui abbiamo costruito l’entrata dove si paga il biglietto con un paio di tavolini in cui ai visitatori offriamo o un bicchierino di grappa o un bicchiere di vino fintanto che aspettano il turno. Si entra a gruppi, non più di venti persone con la guida che spiega in italiano e inglese. Nei mesi in cui i bambini vanno a scuola, abbiamo molte visite organizzate e per loro prepariamo anche qualche gioco con le zucche o la corsa con i sacchi, insomma un po’ di divertimento sul grande prato antistante di modo che possano trascorrere qui tutta la giornata. Dall’altra parte abbiamo costruito da poco una “galleria” in cui c’è la storia della famosa sabbia silicea istriana che veniva e viene usata per la produzione del bellissimo vetro di Murano, fatto ignorato non solo dai bambini ma anche da tantissimi adulti. Per noi la grotta rappresenta un grosso investimento che speriamo con il passar del tempo riusciremo a giustificare”, ha concluso Snježana Širol, prima di condurre un gruppo nel sottosuolo. Vediamo ora un po’ la storia della grotta: secondo una versione fu scoperta negli anni ’30 del secolo scorso, quando Tone Božac, noto “Frajtar”, durante le operazioni di messa a dimora del proprio vigneto, scoprì casualmente una cavità ipogea. Mentre scavava un buco per piantarvi un nuovo tralcio di vite, infatti, perse il “pikun” (piccone) che venne risucchiato all’interno della grotta. Lì per lì non capì cosa rappresentasse quel “buco”, e decise di ricoprirlo con della terra per evitare che qualcuno, cadendoci, potesse farsi male. Ma non ci riuscì, perché la terra, invece di ricoprire il fosso colmandolo, vi sprofondava dentro. Gli anni passarono e nessuno capì mai che cosa si nascondesse sotto la vigna di “barba” Tone Frajtar. Dopo alcuni anni, cercando un rifugio sicuro in previsione degli imminenti eventi bellici, la gente del paese decise di verificare che cosa nascondesse quel fosso. Rimossa la terra dal fosso, s’aprì finalmente l’accesso. La meraviglia dei presenti fu tanta; nessuno poté credere ai propri occhi nel vedere che cosa nascondeva il sottosuolo del paese. I bambini dei paesi vicini furono tra i primi a visitare la grotta, ed alla domanda dei loro geni- Varina I Quando stalattite e stalagmite si incontrano e si fondono, la formazione prende il nome di colonna tori che volevano sapere dove fossero stati, rispondevano che avevano visitato “il reame”. Ecco perché la grotta tutt’oggi si chiama “Feštinsko kraljevstvo”, cioè “Il regno di Feštini”. Tra le mille vicende legate alla grotta, ve n’è anche una tragicomica. Un asinello irrequieto, che per i contadini d’allora valeva tanto oro quanto pesava, giocherellando nei pressi della grotta, vi cadde dentro. Per fortuna non si fece nulla, a parte lo spavento. Impegnati ad estrarlo dal profondo della grotta, i paesani scherzavano dicendo che l’asinello era andato a far visita “al reame”. La grotta affascina per la bellezza delle fantasiose forme di stalattiti e stalagmiti, tra le quali ricordiamo: il “Cappello del mago”, la “Torre di Babele” e le enormi “Ali di pipistrello”, percorse dalle radici di una vite che attinge l’acqua dal fondo. Di fatto lo spazio rimanda a una sala ovale irregolare, lunga in tutto 67 m. Il suo punto più largo misura 27 m, quello più profondo si trova a 9 metri sotto terra, mentre il punto più alto della volta misura 6 m. La temperatura media è di 13-15 gradi. Non si sa la sua età più precisa, ma comunque si parla di qualche milione di anni. È molto più profonda, ovvero dopo la parte visitabile ci sono an- l sedimento siliceo istriano, ovvero la sabbia quarzosa, viene chiamata dalla gente del posto Var. Essa è una pregiata materia prima minerale che veniva estratta già nell’antichità per la produzione del vetro. Non esistono dati precisi sulle attività minerarie durante il dominio di Venezia in Istria ma si suppone che questo var venisse estratto e poi trasportato a Murano quale materia prima nella produzione del noto vetro di Murano. L’estrazione della sabbia quarzosa - var o saldam cominciò dopo la prima guerra mondiale. Erano due imprese italiane ad occuparsi di questo lavoro: producevano fino a 25o tonnellate di sabbia al giorno. La sabbia veniva scavata per lo più in sotterraneo. Gli ingressi della miniera erano di due metri per due. La profondità media di uno scavo era tra i 6 e gli 8 metri ma in alcune zone si arrivava a 20 metri. Dato che i chicchi di quarzo sono molto piccoli tutti i lavori venivano effettuati a mano. Oggi le varie gallerie dalle quali si estraeva la sabbia sono abbandonate. I chicchi di quarzo cora centinaia di metri in profondità che però possono venir visitati solo dagli speleologi che hanno scoperto tanti laghetti sotterranei. Ci vorrà del tempo affinchè si arrivi ad “allargare” questa parte perchè, come detto, la tutela è molto severa e le preziose creazioni dell’acqua non si devono toccare.● Panorama 33 Letture Il respiro del deserto Per la quarta volta un testo di Mario Schiavato viene premiato al Concorso di letteratura di montagna “Carlo Mauri” di Lecco, aggiudicandosi lo scorso maggio il secondo posto con il racconto “Il respiro del deserto”. Questa la motivazione: “È un racconto, fuori schema, di avventura pura: il resoconto pulito di un ambiente incontaminato nei luoghi e nelle persone, in cui spicca, tra una scalata e l’altra, l’interessante incontro dell’alpinista con un uomo del deserto”. di Mario Schiavato Sono passati gli anni, ma ho ancora le pupille piene di quella luce. Non di sole, perché le tempeste di sabbia talvolta ce lo hanno tenuto nascosto, ma proprio di luce: calda, intensa, smagliante, sfolgorante. Ho gli occhi pieni di fantastici riverberi: piovevano dalle creste vertiginose, dalle pareti lisce e dai più riposti anfratti delle rocce, sostavano sulle lame impossibili delle vaste dune di sabbia, si perdevano nelle fughe degli orizzonti sconfinati, si riflettevano nei colori pastosi anche quando un velo leggerissimo, smeraldino, di erbette appena spuntate, ricopriva la distesa del Tadrart come lo chiamano i Tuareg, la nostra meta, che si estende per ben 50.000 km2 spesso elevandosi con vette di tale arditezza e di tale verticalità da farle considerare “le Dolomiti sahariane”. Mi bastarono pochi giorni per concordare la partenza. Franco mi telefonò da Trento, mi disse di un piccolo gruppo di amici che avevano scelto quella meta insolita, quella forse un po’ pazza avventura sulla quale, per la verità, noi due avevamo già almanaccato parecchie volte mentre stanchi, aspettavamo la notte nel chiuso dei rifugi d’alta quota, ed io logicamente non seppi resistere. Chiesi: - Il deserto? Le sue montagne? La sua sabbia? - Sì, il deserto prima di tutto, il Tadrart con le sue montagne, e magari chissà che non ci scappi anche l’Hoggar o Agarat come è indicato sulle carte… Hai di che scegliere! Ce ne sono di vette negli otto milioni di chilometri quadrati del Sahara! La sabbia? Soltanto il 12 per cento della sua superficie è coperto dalla sabbia. E il resto? Rocce, caro mio, molti detriti e montagne soprattutto! - Già, lo so, lo so bene!… Dunque il Sahara, appassionante meraviglia come lo hai chiamato tu! Per quanti giorni? - Quindici, venti, di più, chissà! Vedremo sul posto… - Vengo! - risposi senza pensarci due volte -. Vengo, accidenti se ci vengo! - Per il resto non ti preoccupare. Organizzo tutto io, anzi noi. Provviste, equipaggiamento, eventuali prenotazioni… Portati soldi, un sacco a pelo buono, e soprattutto una capace borraccia! E adesso… l’avventura! Nei giorni che seguirono, ci furono naturalmente molte, anzi moltissime altre telefonate febbrili: quando, come, dove, perché, finché un bel mattino mi trovai a raggiungere il gruppetto all’aeroporto di Roma. Un po’ in ritardo per la verità, loro con l’equipaggiamento già imbarcato. Un bell’abbraccio a Franco, strette di mano agli altri 34 Panorama tre: Cesco, Tilio e Bepi e fummo a bordo. Con l’amico trentino, come al solito, innestai subito la marcia: accidentaccio!, su quante montagne eravamo saliti assieme! Così seduti comodi uno accanto all’altro cominciammo a progettare spostamenti, percorsi, arrampicate, vette, anche se, per la verità, del deserto, delle sue difficoltà, delle sue sorprese e, logicamente, delle sue montagne ne sapevamo ancora ben poco. Dopo tre ore abbondanti di volo apparve la costa algerina. La capitale si presentò incredibilmente vasta, piena di industrie; nei dintorni, le falde delle vette della Cabila erano innevate, i dossi più bassi fitti di piantagioni di arance. L’impatto però - appena aperti i portelloni del DC 327 - non fu dei più felici. Faceva un freddo cane, c’erano appena quattro gradi e dunque i maglioni che ci eravamo portati dietro giunsero a proposito. Più tardi però il sole si alzò e ci scaldò incollandoci addosso i vestiti troppo pesanti in un pomeriggio che passammo lungo la spettacolare riva aperta a ventaglio sul mare, lunare nei suoi palazzi bianchi di uno stile fine secolo, appariscente negli stucchi e nei ghirigori floreali. Capimmo subito che i lunghi anni di colonizzazione francese avevano lasciato un’impronta indelebile. Se non ci fossero state le moschee ed i minareti era come se fossimo capitati in uno dei tanti porti francesi del Mediterraneo. Solo addentrandoci nella tipica casbah ci si accorse che lì il respiro era Letture un altro: il bailamme, il trambusto della calca che viveva in strada tra le bancarelle e sotto stendardi di stracci buttati sui mille poggioli era assordante. La folla vociante andava e veniva indaffarata. I vecchi indossavano gandure bianche e sarruel larghi e sbuffanti. Solo le donne anziane si nascondevano un po’ dietro la feregiè, ma le giovani sgranavano i loro occhi vivaci e, impudenti, sfoderavano i loro sorrisi provocanti fissando insistentemente noi bianchi per quel rapporto di odio-amore per gli europei insito in tutti gli algerini. Per farla breve finimmo la serata alla Pêcherie - l’affollata zona dei ristoranti del pesce - dove venimmo letteralmente assaliti dai procacciatori di valuta che per i nostri euro ci offrirono fino a quattro volte di più del cambio ufficiale. All’assalto degli aerei I velivoli per l’interno non si sapeva mai quando decollavano, quando sarebbe stata rilasciata la carta d’imbarco. Una volta procacciata - e spesso con mille furbeschi raggiri -, bisognava sperare che l’aereo si alzasse al più presto in volo perché - more solito - c’erano i raccomandati di ferro i quali, grazie alle… maniglie, sfuggivano alla regola e all’ultima ora, anche se eri già seduto al tuo posto, potevi venir sbattuto sulla pista senza tanti preamboli. Così - dato che trovare una camera negli alberghi pur a cinque stelle sembrò impresa impossibile - decidemmo di dormire nell’aeroporto, in un angolo per terra, infilati nei nostri sacchi a pelo e con accanto tutto il nostro piuttosto voluminoso inventario, onde poter essere, all’indomani mattina, i primi della fila. Tuttavia già alle prime luci dell’alba non mancarono ordini e contrordini, tra liste di attesa sballate e o.k. inesistenti. E pensare che Franco aveva prenotato il tutto con notevole anticipo. Per fortuna una provvidenziale bottiglia di whisky, comperata da Tilio a Roma prima dell’imbarco, risolvette tutti i numerosi e complicati problemi, naturalmente sottobanco! E fu così che, con due abbondanti ore di ritardo - occhio ai bagagli perché da queste parti perderli è cosa di normale amministrazione! - riuscimmo a prendere d’assalto un aereo per Djanet, la cittadina-oasi posta quasi sul confine sud con la Libia. Nell’oasi All’arrivo dopo alcune tranquille ore di volo, l’impatto con la vastità fu quasi soffocante. L’aria era rarefatta da un vento asciutto - era forse quello il respiro del deserto? - che sollevava mulinelli di sabbia. Vento, vento, sempre vento e sabbia. Spesso ne trovavamo fin dentro le mutande. Il sole scottava le nostre pelli lattee mentre attorno c’era un vortice di Tuareg, gli uomini azzurri, in groppa non più ai soliti cammelli - per la verità qui ne vedemmo ben pochi! - ma a grosse Toyota impolverate. I loro vestiti di seta frusciante avevano dei colori incredibili. Ma il cheche che avvolgeva la loro testa non copriva tutto il volto dei giovani. Avevano denti d’oro da mostrare con smaglianti sorrisi alle macchine fotografiche dei turisti in arrivo. Tra loro si scambiavano strette di mano, molti abbracci. Erano dei bei maschi. Lo sapevano e si esibivano. In una agenzia tentammo di iniziare subito un discorso pratico, di prendere degli accordi. Oh, no! Assolutamente no! Bisognava arrivare nell’oasi, sedersi, contrattare, ra- gionare, discutere in un gioco di nervi estenuante vinto da chi fosse riuscito a sfoderare la diplomazia più sottile. Fu così che con i nostri forse un po’ troppo voluminosi bagagli, venimmo caricati su un pullmino. C’erano parecchi chilometri per arrivare a Djanet lungo la valle del fiume Edjariu. Cominciò la sabbia, cominciarono gli ammassi di rocce. L’oasi, con i suoi 1500 abitanti ormai sedentari, è diventata la più grande ed importante città del sud algerino. Il verde del suo vasto palmeto - sono circa trentamila alberi piantati tra lo scorrere di piccoli torrenti quasi asciutti! - fa da incredibile contrasto con il nero delle colline di lava che la circondano. Ci sistemammo in una specie di… chiamiamolo hotel - una trentina di capanne di foglie di palma - in attesa che Franco, che conosceva il francese un po’ meglio di noi, portasse a termine il complicato cerimoniale delle trattative per il nostro andare. Così - finalmente! - potemmo disfare i bagagli, metterci addosso dei panni più leggeri, radunare e riempire d’acqua le taniche che ci eravamo portati dietro, fare un bilancio dei viveri di cui disponevamo, acquistarne degli altri tipo frutta secca e farci anche una bella doccia pur negli scassati e lerci impianti igienici tra un andare e venire di altri viaggiatori provenienti da ogni parte del deserto tutti arrostiti a puntino, mentre la sfera arancione del sole si cullava già a ovest su un ampio letto di nubi rossastre dai lembi intrecciati di fili d’oro. Imparammo presto che da quelle parti la dote migliore era il saper aspettare. Con infinita pazienza, senza perdersi di coraggio e senza desistere mai. Sembrava che i nostri due fuoristrada non fossero stati prenotati, che non ci fossero neppure asini o magari cammelli per trasportare i bagagli, anche se, logicamente, va bene l’avventura, ma come facevamo a percorrere a piedi l’infinità di chilometri lungo il deserto sconfinato? In attesa, alquanto sfiduciati, ci spostammo fuori, sotto l’ombra dei portici. I Tuareg Di Tuareg ce n’erano di varie specie: molti sbraitavano indaffarati entro i loro negozietti, alcuni erano seduti all’ombra, sulla polvere, e con in testa un povero cheche stinto, mentre molti di quelli che ci passavano davanti, alti e belli, - ce ne accorgemmo subito, - si pavoneggiavano nei loro paludamenti, indossavano magari anche una doppia gandura ed incedevano come nobili dignitari tra un continuo svolazzare di sete multicolori e spesso tenendosi affettuosamente, anzi teneramente per mano… Mah! Panorama 35 Letture Il cheche nel deserto ha una sua precisa funzione: tiene umida la testa e protegge dal vento, dal sole e dalle mosche - ah le mosche quale tortura! - gli orecchi, la bocca e la gola. Ma è anche una forma d’eleganza, tanto apprezzabile quanto più è voluminoso. Dicono che dai classici tre metri di tessuto si può arrivare, durante le feste, pensate un po’, a venti e più di mussola drappeggiata. Il profumo poi - caratteristica degli uomini - ha un forte odore di ambra. Si truccano gli occhi per difenderli dal vento con una tintura a base di terre colorate e di creme vegetali e si lavano spesso tutto il corpo magari, se non c’è acqua, con la sabbia e, comunque, cinque volte al giorno tutti gli orifizi, come impone il Corano prima delle preghiere… Le donne? Beh, quelle godono di una libertà maggiore delle altre arabe, non hanno nessun obbligo di velarsi e di nascondersi, possono parlare e litigare con chi vogliono, scegliere l’uomo che preferiscono, sposarlo e magari poi abbandonarlo senza che sia la famiglia a decidere. Tra l’altro - e questo è un fatto importante - sono le uniche depositarie della cultura orale e, pare, anche le uniche che sappiano leggere e scrivere. La partenza Arrivò così una notte piena di freddo che passammo distesi sulle stuoie dell’albergo. Vento e vento, il gusto della sabbia che spesso scricchiolava sotto i denti. Il giorno dopo? Lo trascorremmo ancora sotto i portici tra un via vai di Tuareg, di cammelli e di qualche asino. Le notizie che talora ci giungevano erano sempre incerte, contrastanti. - Si va? - Non ci sono macchine! Solo una Toyota… - Una sola? Ci stiamo tutti a bordo? - E l’equipaggiamento? L’acqua, i viveri? - È pazzesco affrontare il deserto con un solo mezzo! - Già… può succedere un guasto… - Ma allora? Andiamo a piedi?… - Sei matto? Quando ormai non sapevamo più dove sbattere la testa, venne fuori il mezzo, quello stesso pullmino che ci aveva trasportato dall’aeroporto. Uno solo? Ci assicurarono: uno solo, ma efficiente, anzi molto efficiente. Prendere o lasciare. Vale a dire partire o aspettare chissà fino a quando. Così Cesco, Tilio, Bepi, io e Franco finimmo di discutere quand’erano ormai le 19 ed era già buio (infatti qui il giorno ha la stessa durata della notte). Abdul, l’autista, se ne stava zitto e tranquillo ad aspettare la nostra decisione. E fu così che la notte ci inghiottì. Non c’era davvero altro da fare. Seduto al mio posto, sballottato dagli scossoni non capivo quale punto di riferimento seguisse l’autista in quel buio e senza rallentare mai. Avevamo abbandonato la strada, anche la pista, e ci trovavamo in pieno deserto su un terreno piatto, giallastro. Alle 22 arrivammo in una zona disseminata di enormi roccioni di arenaria. Non molto lontano, nel buio, scorgemmo un piccolo fuoco. Abdul puntò decisamente da quella parte e mentre sorgeva la luna, una luna piena, bruscamente compì un ampio giro, fermò il mezzo, disse soltanto: - Camp! - e spense il motore. Poi arrivò Adani. Alto, allampanato, zoppicante. Con addosso una grigia palandrana, in testa un enorme cheche nero e un viso brunito solcato da rughe profonde, le mascelle e le guance profondamente incavate sopra una bocca sdentata e rinsecchita. Lentamente si accucciò accanto al nostro autista, si toccarono le mani, se le tennero strette, confabularono a lungo. Tutto era mistero con quella luna sospesa a mezz’aria che distendeva le ombre sulla sabbia ocra incredibilmente secca e che il vento faceva ininterrottamente frusciare. Adani sarebbe stato la nostra guida. Franco ci assicurò che lo avevano scelto a Djanet, che era una delle migliori. Cinquant’anni che batteva il deserto dietro alle sue capre e ai pochi cammelli tenendo a bada le donne ed i figli. Anche guidando - attenzione dunque, non servendo - viaggiatori e turisti. Sì, talvolta anche qualche pazzo alpinista come noi. Conosceva il Tadrart e anche l’Hoggar a menadito. Ce lo dimostrerà nei giorni a venire. Un bollente tè asprigno, un sorso appena da un bicchierino slabbrato passò di mano in mano, suggellò la nostra conoscenza. Poi tutti a nanna. Il viaggio ci aveva sfiniti. Ci bastò poco per piazzare le tende. Per me un inutile posto accanto a Franco. Stavo meglio fuori accarezzato dal vento - sì, dal respiro del deserto - con quella cupola piena di stelle che mi faceva da alcova da quando la luna se n’era andata dietro la muraglia del Tassili. Poi, sul far dell’alba, l’aria secca diventò frizzante, come ruvida carta vetrata caustici granelli mi colpirono il viso, mi otturarono le orecchie e il naso e quindi per forza di cose dovetti scrollarmi di dosso la sabbia che mi aveva quasi sepolto, infilarmi nel sacco a pelo, quello pesante delle grandi altezze, per potermi scaldare. La… casa di Adani Mi levai prima del sole. Non potevo starmene fermo con quella distesa di sabbia gialla davanti che s’insinuava 36 Panorama Letture tra roccioni altissimi, levigati, lucidi. Oltre le dune basse, accarezzate ora da un vento leggero, scorsi una decina di cammelli, un gregge di capre. Queste erano piccole, marrone. Scalciavano impazienti e assaltavano i rari cespugli di acacie, i pochi ciuffi d’erba secca. Due donne con i mantelli azzurri gonfi di vento le agguantavano per le zampe, velocemente le mungevano, porgevano il latte ad alcuni bambinetti vestiti di stracci che razzolavano loro dietro tra nuvole di sabbia giallastra. Era un incredibile quadro primordiale. Una grande tenda stinta sventolava, vacillando dietro ad un costone. Aveva accanto un piccolo recinto: era la cucina con il fuoco acceso e poche suppellettili appese ad una corda. Adani mi venne incontro tenendo dolcemente per mano forse il suo ultimo nato. Avrà avuto tre anni. Il suo visetto paffuto era maltrattato dalle solite maledettissime mosche. Piangeva. Ma non per il fastidio di quelle bestiacce, ma per la paura dello straniero. Inutilmente cercai di ammansirlo con delle caramelle, inutilmente cercai anche di intruppare e di trattenere gli altri marmocchi scarmigliati che erano accorsi onde poter strappare loro un solo clic. - No foto! - intimò Adani. - No foto? - No! Dovetti arrendermi. Intanto anche gli altri s’erano svegliati. La nostra guida ci radunò e ci spiegò il suo piano in un francese stentato, mezzo arabo, a tratti difficile da capire. Spianò la sabbia davanti a sé, tracciò con le dita una sua carta geografica. Dunque seguiremo dapprima l’oued Ingerane fino a raggiungere Merzouga. Dopo aver girato entro le vallate strette del Tadrart per permetterci qualche bella salita sulle sue montagne, usciremo a Ti-n-Zirene, ci sposteremo nell’Asnedjir con i suoi archi di rocce per finire tra le vaste dune dell’erg d’Admer. - E l’Hoggar? - chiese Bepi con gli occhi stralunati -. Niente Hoggar? Adani ridacchiò. Rispose Abdul: - Impossibile Hoggar! - Come impossibile? - No con pulmino! Da qui, un mese di cammino! Bisogna avere molti, molti cammelli. Acqua poi, anche, molta acqua. Niente guelte là, niente… Per voi, basta in Tadrart. Qui anche troppe montagne! Molte belle montagne tutte per voi! Chiuso. In silenzio caricammo la nostra paccottiglia, attenzione alle taniche d’acqua, e via. Il deserto Dapprima infilammo una vasta zona pianeggiante, sempre velocissimi per non insabbiarci, fino a raggiungere una specie di pista che andava verso la Libia segnata qua e là da gomme abbandonate e da bidoni di benzina vuoti. Ogni tanto sorpassammo il lento andare di carovane con pochi cammelli. Alla nostra destra tutta una serie di montagne oltre i duemila metri dalle cime appiattite. Ce le indicò Adani: il Ti-n-Tassoc, il Ti-n-Enouer, il Tin-Mentah… Ad un certo punto egli ci fece smontare e ci indicò alcune acacie secche. Bisognava raccogliere la legna per i fuochi. Nel deserto il gas era inutile! Il vento lo spegneva. Ci fu facile abbattere tronchi e rami. Erano così arsi e pieni di resina che si frantumavano come cristalli. Ogni tanto la nostra guida si chinava a raccogliere una piantina appena spuntata dalla sabbia. Ce la offriva con un sorriso. Non è che avesse un gran sapore, ma teneva la bocca fresca. Ci accorgemmo ben presto che il vento caldo, sì, proprio il respiro del deserto, ci stava asciugando e che dovevamo fare sempre più spesso ricorso alle provvidenziali borracce, il volto nascosto da tutti i fazzoletti che riuscimmo a reperire, io una camicia addirittura, e sopra ci calcai un cappellaccio di tela per poter tener lontane la polvere e le mosche. A mezzogiorno in punto Adani fece un cenno. Abdul pronto infilò uno stretto passaggio tra dei roccioni verticali e s’arrestò accanto ad una poderosa acacia che, stranamente, era rivestita di foglioline verdognole. La guida scese, con un bastone frugò a lungo attorno al tronco. Per fortuna non trovò scorpioni. Dunque ci si poteva accampare. Diventerà quella l’inevitabile pausa di ogni mezzogiorno. A quell’ora faceva troppo caldo per proseguire. Il motore doveva raffreddarsi. Un pezzo di cioccolata, due biscotti e poi... Anche con quel caldo che soffocava, non è che io potessi starmene lì, disteso nella poca ombra. E neppure Franco. Già, pur nella vampa ci infilammo le scarpe grosse e attaccammo il pinnacolo che ci stava di fronte anche se Adani continuava a minacciare, a brontolare arrabbiato. Su e su, spesso tra un rovinio di sassi. Una paretina dietro l’altra, un diedro dietro l’altro tra fruscii di cascatelle di sabbia. Fu così che dopo un’ora buona, rossi come granchi cotti, arrivammo sulla cuspide della nostra prima montagna sahariana. Senza nome. (1e continua) Panorama 37 Letteratura La scrittore bosniaco si è aggiudicato l’edizione 2011 del Premio che il Lions Club T Europa e scrittura di frontiera, d Nell’Albo d’oro anche Matvejević, Scotti, Pressburger... a cura di Bruno Bontempo el 2004 il Lions Club Trieste Europa si è posto l’obiettivo di onorare la figura di Fulvio Tomizza, Uomo di Pace, con la costituzione del Premio Tomizza, da conferire annualmente a una personalità che nel tempo si sia distinta nell’affermazione concreta degli ideali di mutua comprensione e di pacifica convivenza tra le genti delle nostre terre . Nelle passate edizioni l’ambito riconoscimento è andato a figure illustri a livello internazionale e amici di Fulvio Tomizza, da Predrag Matvejević (2004) a Ciril Zlobec (2005), da Corrado Belci (20026) al nostro connazionale Giacomo Scotti (2007), da Giorgio Pressburger (2008) a Nuccio Messina (2009) e, nel 2010, Fulvio Molinari. Quest’anno il Premio è stato assegnato a Miljenko Jergović, “per le sue qualità di interprete sensibile e abile narratore delle ingiustizie delle società di tutti i tempi, dove la concatenazione delle storie e delle vite esprimono con poetica la traccia dell’uomo”. Miljenko Jergovic è nato a Sarajevo ma vive e lavora in un villaggio nei pressi di Zagabria. Una riga e mezza di biografia dell’autore potrebbe sembrare troppo poco se non fosse seguita da un lungo elenco di opere pubblicate: florilegi, raccolte di racconti, novelle, romanzi, volumi di articoli, saggi, recensioni e drammi teatrali. I suoi libri sono stati tradotti in una ventina di lingue straniere: tedesco, inglese (inglese americano), italiano, svedese, finlandese, turco, slovacco, bulgaro, ungherese, polacco, portoghese, slove- N 38 Panorama no, macedone, francese... Una scelta dalla sua opera è stata tradotta anche in russo, in ceco, in coreano e in olandese. Il florilegio “Hauzmajstor Šulc il custode della memoria” è stato tradotto soltanto in italiano. E in versione italiana sono disponibili inoltre i suoi volumi Le Marlboro di Sarajevo, I Karivan, Mama Leone, Buick Riviera, La dimora di noce, Inšallah, Madona inšallah e, nel 2010, presso l’editore Zandonai, è stato pubblicato il volume Freelander. Seguirà il romanzo “Al dì di Pentecoste”. Jergović è anche sceneggiatore di successo: nella trilogia Buick Riviera, Freelander e Volga, Volga stilizza il rapporto dell’uomo con la sua macchina, ma nel contempo, con la penna da scrittore e con l’occhio di un vero cineasta, ripercorre la storia, la psicologia e l’identità dell’uomo iugoslavo. Buick Riviera ha inaugurato la serie di pellicole tratte da omonimi libri, come nella migliore tradizione dei grandi classici moderni: nel 2008 il film gli è valso numerosi premi al Festival del cinema di Sarajevo e a quello di Pola. La narrazione del vincitore del Premio Tomizza 2011 poggia su un vorticoso cambio di registri stilistici. Solo apparentemente semplice, questo raccontare, ora spiritoso, ora doloroso, si avvicina in misura sempre maggiore al miglior Andrić o al più raffinato Kiš, ma non concede loro solo di fargli da riferimento, bensì stravolge i propri modelli e li trasforma in un “giardino cenere” dal quale possono nascere erba e fiori nuovi, così come trasformata e stravolta è stata la loro comune terra natia.● A Trieste per ritirare il Premio Tomizza, Miljenko Jergović ha concesso un’intervista a Osservatorio Balcani e si è detto “molto contento di essere qui a ritirare questo riconoscimento che ritengo molto importante perché oltre ad essere stato Tomizza un grande scrittore, è stato sopratutto uno scrittore di frontiera che aveva capito fino in fondo il destino di chi come lui aveva diverse identità: croata, italiana, slovena, istriana. Quindi un uomo che era in grado di comprendere in maniera sottile e completa tutti gli altri uomini”. Come descriverebbe gli sviluppi più recenti in Croazia e Bosnia? ”Devo dire che si sono avviati dei processi decisamente negativi. La Bosnia si è fermata e non sta andando più da nessuna parte. Certo, c’è la pace, ma questa pace non ha creato migliori condizioni di vita e reali processi di comprensione tra persone appartenenti alle diverse comunità del Paese. In Croazia, negli ultimi due anni, e cioè da quando è diventata premier Jadranka Kosor, ha preso piede un governo di ultradestra ed estremamente rigido - molto simile al governo di Franjo Tuđman degli anni novanta che ha provocato un terribile processo regressivo. Per fare un esempio, la giornata della lotta antifascista in Croazia, l’anniversario del giorno in cui nel 1941 il popolo si è sollevato contro i fascisti tedeschi, è stato celebrato in maniera raccapricciante. I seguaci di quei fascisti del ’41 si sono ribellati in tutte le maniere alle celebrazioni previste. Un fatto, questo, che ritengo spaventosamente negativo”. A questo proposito ritiene che l’Europa in cui entrerà la Croazia sia in condizioni migliori? ”Purtroppo anche in Europa è in corso un processo di irrigidimento, per non dire di fascistizzazione. Ma mi viene da dire che il problema dei Balcani è che qui copiano dall’Europa gli aspetti più negativi! In Europa stanno avvenendo processi simili, come ad esempio in Italia dove il premier Berlusconi usa una politica della paura verso gli italiani, dove Mila- Letteratura rieste dedica alla memoria del grande romanziere istriano a Tomizza a Jergović Miljenko Jergović no viene rappresentata come una città abitata da terroristi e ladri, oppure in Olanda dove l’estrema destra siede in Parlamento. In Europa c’è un rafforzamento di queste forze politiche, ma la differenza è che nei Balcani appena questi processi si mostrano diventano immediatamente catastrofici, molto più pericolosi che non in un Paese come l’Olanda o l’Italia”. Che significato assume, per lei, l’ingresso della Croazia nell’Unione europea, previsto per il 2013? ”Innanzitutto ho la speranza che la Croazia con l’ingresso in Europa diventi un Paese più civilizzato, dunque più democratico e sopratutto più tollerante verso l’altro, di quanto non lo sia oggi, in cui lo standard di difesa e tutela dei diritti umani sia portato a livello dei Paesi europei più avanti sotto questo aspetto”. Sono passati vent’anni dall’inizio del conflitto che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia: lei scrisse in passato che la “tradizione multietnica di Sarajevo era nella testa della gente” più che nella struttura della società e della politica. Ritiene che quella tradizione si sia salvata, nonostante tutto? ”È una domanda difficile per la quale non esiste un’unica risposta. Ritengo che nella testa della gente sia ancora presente la consapevolezza che c’è un solo modo di far funzionare ed esistere la Bosnia Erzegovina, quello di una società multietnica. Esattamente come deve essere per l’Europa”. Lei è nato a Sarajevo ma ha vissuto a lungo in Croazia, e quindi ha uno sguardo ad ampio raggio sull’atmosfera culturale di questi Paesi. Come la valuta, oggi? ”La produzione letteraria di tutti i Balcani è strettamente dipendente dalle interazioni con i propri vicini. Come si sa la lingua croata appartiene alla stessa radice di altre lingue dell’area, come il bosniaco e il serbo, e dunque dal punto di vista linguistico fanno parte di un’unica famiglia. Le diverse letterature sono molto legate tra loro e quindi nella misura in cui esiste e migliora questa interazione, le singole letterature riescono a sopravvivere e svilupparsi, essere più attive e propositive. Mentre laddove l’interazione non c’è si vede la totale chiusura di visioni ma anche di sviluppo futuro. Fortunatamente in Croazia, Serbia, Bosnia Erzegovina e Montenegro esistono forme di reciproca collaborazione che poi sono rappresentate da scrittori che producono ottima letteratura”. A che cosa sta lavorando? ”Io scrivo di continuo e posso solo dirvi che la prossima sarà un’opera di finzione, che uscirà a breve”. ● iljenko Jergović nasce il 28 maggio del 1966 a Sarajevo dove trascorre l’infanzia e compie studi universitari in filosofia e sociologia. Nel 1988, a soli ventidue anni, esordisce come poeta con una raccolta di versi Opservatorija Varšava (Osservatorio di Varsavia), che gli vale il premio Ivan Garan Kovačić e il premio Mak Dizdar. Due anni dopo appare nella Nuova antologia della poesia bosniaca. Nel 1992 intraprende la carriera giornalistica, iniziando a scrivere per il settimanale spalatino Nedjeljna Dalmacija. Poco tempo dopo diventa collaboratore del celebre settimanale di denuncia e satira politica Feral Tribune, sulle cui colonne si dedica ai più svariati temi con la sua consueta ironia. Nel 1994, durante la guerra in Bosnia Erzegovina, decide di trasferirsi a Zagabria. La prima raccolta di racconti Sarajevski Marlboro (Le Marlboro di Sarajevo]), che gli vale il prestigioso premio tedesco ErichMaria Remarque e il premio Ksaver Šandor Gjalski, racconta le drammatiche vicende belliche con affreschi commoventi e fiabeschi. La sua già vasta produzione letteraria, tradotta in molte lingue, continua a ottenere successo di pubblica e critica. Tra i molti premi vinti compare anche, nel 2003, l’italiano Grinzane Cavour per il libro Mama Leone, scritto quattro anni prima. Nel 2010 esce anche in Italia, presso Zandonai, Freelander, che racconta la storia del viaggio di Karlo Adum, professore in pensione e vedovo, tra le strade della Serbia sulla sua Volvo del ’75. La sua opera rimane sempre legata al contesto ex-jugoslavo, attraverso la quale si può riconoscerlo erede della miglior tradizione narrativa balcanica. Attualmente collabora con i giornali Jutarnji list di Zagabria, Oslobođenje di Sarajevo e Politika di Belgrado. ● M Panorama 39 Libri «Mare inquieto» , racconto autobiografico a fumetti nato da una vacanza sulla co Disorientamento, spaesamento, diffi a cura di Bruno Bontempo M are inquieto, un racconto autobiografico a fumetti, un lungo viaggio per mare che Helena Klakočar e la sua famiglia, il marito e la figlia Iskra, decidono di intraprendere nella primavera del 1991, ai primi segnali di instabilità politica nella ex Jugoslavia. “Questa è la vera mancanza di libertà” è il triste commento della protagonista di “Mare inquieto”, rivolta al marito, quando si rende conto che nel porticciolo dove sono ancorati con la loro barca, gli occupanti della barca accanto, pur essendo croati come loro, non gli hanno rivolto la parola perché credono che siano serbi. ”Noi avevamo ancora la bandiera jugoslava e anche i passaporti... D’altronde, gli stessi che avevano loro” ricorda ancora l’autrice. Ma siamo nel luglio 1991, all’inizio dello sfaldamento della Jugoslavia e, con il frantumarsi dell’identità comune, si rafforzano i singoli nazionalismi, mentre cresce di pari passo la paura dell’altro, paura che Helena Klakočar, autrice di “Mare inquieto” edito da Comunicarte assume i contorni dell’indifferenza, della diffidenza o, peggio, dell’ostilità. “Mare inquieto” (Trieste, Comunicarte Edizioni, 2011) ripercorre autobiograficamente in belle tavole a fumetti il lungo viaggio per mare che Helena Klakočar e la sua famiglia, il marito e la figlia Iskra, decidono di intraprendere nella primavera del 1991, ai primi segnali di instabilità politica, nella speran- za che nei mesi a venire la situazione si stabilizzi per il meglio. Purtroppo non sarà così, e il viaggio diventa quasi un esilio, da un paese all’altro, tra Grecia, Italia, Albania, per terminare temporaneamente ad Amsterdam, sempre nell’incredulità per quanto sta accadendo nel cuore dell’Europa del XX secolo. Helena è un’artista, lei ed il marito lavorano come operatori culturali a Zaga- Da viaggio fisico e reale a grand tour n viaggio per mare lungo la costa della Jugoslavia nei giorni in cui il paese veniva frantumato dai colpi dei diversi nazionalisti. Helena Klakočar in questa graphic novel - premiata al Festival di Angoulême in Francia nel 2008 - trasforma la sua esperienza personale di viaggio fisico e reale in un involontario grand tour in cui i temi della lontanza, della perdita della patria, dell’identità, dell’incontro con il diverso da noi diventano temi universali. Dal doversi “dichiarare” dopo che per anni non si è mai pensato alla lingua che si parlava e al cognome che si portava, all’incontro con le realtà disperate dell’Albania post regime comunista, a chi fugge dopo aver combattuto in Afghanistan, sono questi alcuni dei “porti” a U 40 Panorama cui approda il catamarano dell’autrice attraverso il “mare inquieto” che furono gli ultimi anni del secolo scorso. Un tratto veloce e lieve, in bianco e nero, che spesso ci accompagna in una dimensione onirica o immaginifica per parlare di temi tutt’altro che leggeri e quanto mai attuali in questa “graphic novel di formazione” accompagnata da un suggestivo testo di Predrag Matvejević. Helena Klakočar, croata, è nata a Tuzla, in Bosnia Erzegovina e vive tra la Croazia e i Paesi Bassi. A sette anni si trasferisce con la famiglia in Slovenia dove conclude il suo percorso scolastico. All’Accademia di Belle Arti a Zagabria si laurea in grafica e successivamente nei Paesi Bassi in pittura e cinema d’animazione. I suoi fumetti sono stati pubblicati nelle riviste dei vari paesi dell’ex Jugoslavia e collabora ai progetti web Comixculture (Bulgaria) e Comixiade (Paesi Bassi). Per la graphic novel “Passage en douce”, pubblicata nel 1999 (Freon, Bruxelles) nel 2000 riceve un Premio Speciale da Info Radio Fance e il premio Alpha-Art come miglior autore straniero al Festival Internazionale del Fumetto ad Angoulême in Francia. Nel 2008 un’altra edizione della stessa graphic novel viene pubblicata con il titolo “Nemirno more” (Fabrika Knjiga, Belgrado). L’autrice sta lavorando alla terza parte di “Mare inquieto” che uscirà nel 2012. ”Mare inquieto”, disegni e testi di Helena Klakočar con un testo di Predrag Matejević; casa editrice: Co- Libri sta croata nell’estate del ‘91 denza, ostilità bria, sono persone colte, abituate a muoversi in un ambiente culturale trasversale, vivace e libero; per entrambi il crollo della “casa comune” jugoslava ha anche un fortissimo impatto intellettuale. Non è solo la perdita del proprio lavoro, le difficoltà materiali, la paura per il futuro, ma anche lo spaesamento per la sottrazione di uno spazio collettivo comune, il disorientamento per doversi dichiarare in un modo piuttosto che in un altro, il “noi” contrapposto al “loro”, un disagio espresso da tanti scrittori dell’ex Jugoslavia, basti pensare a Dubravka Ugrešič o ad Aleš Debeliak (i loro saggi nella raccolta Nostalgia, Milano, ParaviaBruno Mondatori Editore, 2003). Dichiarare le proprie origini diventa rischioso e occorre stare attenti quando si parla: la piccola Iskra sembra aver interiorizzato questa necessità quando, in uno dei tanti porti in cui attraccano, una turista benevola le chiede da dove viene, e lei risponde senza esitazione “dalla barca!”. Ormai il viaggio non è più una vacanza, è una neces- Immagini dalla versione croata del racconto a fumetti “Mare inquieto” municarte edizioni (2011); collana: Cartastorie; pagine: 122; prezzo: 17,50 euro.● sità, e forse lei stessa non saprebbe più dire chi è. Nel loro lungo vagare, Helena e la famiglia seguono a distanza gli avvenimenti in Jugoslavia cercando di capire le notizie in un’altra lingua, in città straniere piene di turisti in vacanza. “Non capivamo la lingua, ma capivamo i nomi delle nostre città” e incontrano tanti personaggi, a volte simpatici, a volte ostili, mentre l’autrice guadagna da vivere facendo ritratti ai turisti, spesso scontrandosi con l’opposizione degli artisti locali. “Mare inquieto”, più che un romanzo, ha la struttura di una raccolta di appunti, di schizzi, come gli schizzi in bianco e nero dei luoghi attraversati, dove gli episodi assumono spesso contorni surreali, diventano quasi delle metafore sulla vita. Gli episodi e i personaggi sono ritratti con uno stile molto personale, senza retorica e senza enfasi, con leggerezza, perché “viaggiare in barca è così affascinante… così facile… attraversare con leggerezza le vite altrui”.● Panorama 41 Sport P remesso che non abbiamo preso nessuna “stecca” nè dall’ente del turismo nè dall’organizzazione del torneo ATP World Tour 250 sulla terra battuta dello Stella Maris di Umago, non possiamo evitare di ricordare che la cittadina, adagiata su tre insenature della costa settentrionale dell’Istria, è una tipica località turistica che vale la pena visitare. Il suo torneo tennistico del circuito Atp, poi, è per veri intenditori. Sul Centrale (a pagamento) mettono i nomi più roboanti, ma nei restanti 4 campi di gioco l’ingresso è gratuito, e di belle partite se ne vedono tutti i giorni. Inoltre, se siete dei malati di tennis, dalle 12 alle 14 tutti i protagonisti si allenano. E scambiano due parole con tutti, con una disponibilità che li fa amare ancora di più. La specialità della casa sono le tante (tantissime) ragazze dell’accoglienza. Nel loro vestitino bluastro le trovi dappertutto. A strappare i biglietti, ad accompagnarti al seggiolino, in sala stampa e al ristorante. Tutte clamorosamente belle. Tanto da incutere timore reverenziale (dà meno ansia da prestazione un’intervista esclusiva con Federer, tanto per capirci). Ma dietro quella faccia da supermodella sono ragazze cordiali che fanno il loro lavoro (noioso) con professionalità e cortesia. Datteri di mare buoni, buoni, buoni. Queste vongole dal guscio scuro e affusolato sono una prelibatezza. Peccato che siano illegali. Per raccoglierle bisogna staccarle dalle rocce marine, e quindi la cosa è proibita da leggi internazionali. Ma se andate sulla darsena di Umago, piena zeppa di ristoranti, sarete accerchiati da camerieri che in stile mercato di via Sannio a Roma vi invitano a provarli. Può anche partire la contrattazione sul prezzo (1 kg arriva fino a 7-800 kune, una porzione singola intorno alle 150 kune). L’importante è superare il rimorso di coscienza prima di ordinarli (dopo pensate solo a quanto sono buoni). E poi, come ci ha detto chi ce li ha consigliati, “tanto se non te li mangi tu li mangia qualcun altro”. E allora svaniscono i rimorsi… 46 Panorama L’ucraino vincitore del torneo ATP di Stella Maris l Umago, la prima sinfo di Matteo Cirelli Per sua stessa ammissione, Oleksandr Dolgopolov (che soltanto nel maggio del 2010 ha cambiato nome in Alexandr) la sera ha tirato sempre fino alle 6 del mattino. E come non potrebbe, un 22enne dotato di parlantina e spigliatezza. Quando c’è da mettere in mano la racchetta però, Sacha non guarda in faccia a nessuno, a meno che non abbia la forma di una pallina di feltro gialla. Deliziose le sue palle corte, nervoso il dritto, unico il rovescio. Quest’anno agli Australian Open aveva raggiunto per la prima volta in carriera i quarti di finale in un torneo dello slam eliminando in successione il kazako Kukushkin, il tedesco Benjamin Becker, l’ex top-ten e testa di serie n. 13 Tsonga e l’allora numero 4 del mondo Robin Söderling, entrambi in cinque set. Poi veniva sconfitto da Andy Murray in quattro set. Due settimane più tardi raggiungeva la prima finale in carriera in un torneo ATP, al Brasil Open di Costa do Sauipe, ma veniva sconfitto da Nicolás Almagro in due set. È migliorato così tanto dall’anno scorso che gli organizzatori gli hanno chiesto di favorire il documento. Il passaporto ucraino era in regola. Come il suo tennis, da futuro top ten. In semifinale ha eliminato il detentore Marin Čilić, obiettivo mancato del titolo, Juan Carlos Ferrero, poi in finale ha sconfitto per 64, 36, 63 Marin Čilić. Il croato di Međugorje ci ha provato a rendere felici i propri connazionali. Ma in doppio ha perso la finale (in coppia con il “primo che capita”, Zovko) contro Fognini e Bolelli e nel singolare ha trovato la tarantola che tesse la tela e morde velenosa. E Čilić, allievo di Bob Brett non è ancora quello del febbraio 2010 (quando aveva ottenuto il suo miglior piazzamento in classifica, il nono posto), perché ha ancora troppe pause con il Suggestiva panoramica del campo principale dello stadio Stella Maris Sport anciatissimo verso i Top 10 nia di Dolgo servizio e il rovescio va troppo lento. L’hanno visto aggirarsi il pomeriggio prima della finale solo soletto per lo Stella Maris. In barba a chi vorrebbe i tennisti sempre accerchiati da marmocchi e giornalisti invadenti. Segno che a Umago amano e rispettano i propri idoli (e Marin lo è), ma con un’educazione sportiva che non forse non ti aspetti. Dalla movida notturna al rettangolo di gioco. In entrambi i campi, Sacha fa il fenomeno, ammiccando alle modelle e devastando gli avversari. Fra un match e l’altro, a Umago Dolgopolov ha trovato anche il tempo per fare il presentatore di una sfilata di moda, andare a dormire alle 6 e poi giocare alla grande. Bel tipino: lo sguardo, che in campo è glaciale, diventa “marpione” quando alla racchetta sostituisce un microfono. È successo quando - vestito in abito scuro e con la lunga chioma bionda raccolta da un elastico azzurro - se n’è andato in giro per lo Stella Maris a intervistare le concorrenti di Miss Hostess 2011. Divertito e divertente, Dolgo ha poi tirato avanti fino alle 6 del mattino. Come si è sentito nei panni di presentatore a Miss Hostess? “Io bene, non so l’organizzazione. Volevano farmi fare l’audizione prima di darmi il microfono in mano... Qui è bello perché hai tempo sia per giocare a tennis che per il resto…”. L’ucraino 22enne Alexsandr Dolgopolov, mattatore del torneo di Umago Nel match clou se l’è vista con Marin Čilić, il primo croato dai tempi di Goran Prpić a raggiungere la finale del torneo istriano, che lui ha giocato solo quattro volte, nonostante sia un appuntamento prestigioso dello sport nazionale (si mormora che il suo rapporto non idilliaco con Umago sia conseguenza dei dissapori fra il suo ex coach Goran Ivanišević e Slavko Rasberger, ideatore ed ex direttore - per vent’anni) del torneo. Per altri le poche presenze sono da attribuire alla concomitanza del torneo con la preparazione agli Us Open. Ma torniamo a Dolgopolov Nella scorsa edizione perse nei quarti con Ferrero, poi vincitore. Quest’anno si è preso la rivincita. Contento di essere tornato a Umago? Il presidente Ivo Josipović si avvia alla premiazione scortato dalle hostess ”Ci sono molte ragioni per cui sono tornato a giocare qui. Il torneo è organizzato benissimo. Poi gli incontri cominciano al tardo pomeriggio, così posso fare anche un po’ di vita notturna o rilassarmi di più. Alcuni match li ho giocati verso le 20, dunque ho avuto tempo per riposarmi. Insomma, qui mi diverto, ma la mia vita è sempre quella di un tennista professionista. Il mio traguardo è arrivare nei top 20 entro la fine della stagione (era solo 50esimo il 9 maggio scorso, nda). Ci sono vicino, e ho ancora tre mesi di grandi appuntamenti per raggiungere l’obiettivo. Comunque, con il successo di Umago ho guadagnato cinque posizioni e con 1.575 punti sono a ridosso di Verdasco che è appunto 20esimo (1.705), scavalcato da Del Potro. Ma non vado di fretta, ho 22 anni e ancora tanto tempo per migliorare”. Ricorderemo che alle sue spalle in classifica seguono Mayer, Chela e Čilić, che ha fatto un salto addirittura di sette posizioni. Infine qualche parola per Juan Carlos Ferrero. Il “Mosquito”, nonostante una sconfitta in semifinale senza appello, a Umago si è meritato un voto molto alto. Perché è un signore. Dentro e fuori dal campo. Lo scorso anno vinse su Starace. Nel 2011 gli infortuni lo hanno costretto a saltare quasi tutta la stagione. Poi è tornato e vincere a Stoccarda. A Umago ha fatto quello che ha potuto, anche con il futuro vincitore, che lo ha preso a pallate per un’ora e mezzo, e lui zitto a remare da fondocampo. Magari ce ne fossero di più. ● Panorama 47 A Dignano Polenta Cup 2011 T ra le tante manifestazioni organizzate a Dignano per la Giornata cittadina, oltre a quella dei Bumbari si è svolta anche la Polenta Cup 2011. L’invitante “base” è stata cotta a parte mentre i concorrenti si sono cimentati nella preparazione del condimento: sugo di carne o brodetto. Alla nona edizione della succosa gara si sono dati appuntamento sindaci, cantanti, designer e anche gente comune che si è data da fare per aggiudicarsi il primo posto e il conesso fragrante trancio di prosciutto. Ospiti d’onore della manifestazione il vicepresidente della Provincia di Udine Daniele Macorig e le sindaco di Manzano e Polverara, Lidia Driutti e Sabrina Rampini. (Testo e foto di Ardea Velikonja) I vincintori: il cantante Alen Vitasovič e Antonela Gregorović Daniele Macorig, vice presidente della provincia di Udine e Karin Kuljanić Il sindaco Klaudio Vitasović con le sindaco di Polverara e di Manzano, Sabrina Rampini e Lidia Driutti In primo piano: i coniugi Cattunar all’opera Šime Šušić, primo Masterchef in Croazia e la giornalista Kornelija Benazić Panorama 59