A

Rosa Caponetto
Il variopinto linguaggio della città storica
Contenuti e prospettive dei Piani del Colore
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
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via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: ottobre 
Ai colori della vita
Indice

Presentazione

Introduzione

Capitolo I
La questione del colore
.. La non superata querelle: intonaco come superficie di sacrificio o come
elemento con valenza storico–estetica?,  – .. La corretta applicazione del
piano,  – .. I problemi di interpretazione e rappresentazione del colore,  –
.. La diffusione della cultura tecnica,  – .. Uno strumento di pianificazione
partecipata, .

Capitolo II
Sulla necessità di inquadrare il Piano del Colore secondo un paradigma
olistico
.. Approccio architettonico–compositivo,  – .. Approccio psicologico–cognitivo,  – .. Approccio storico–urbanistico e sociologico,  – .. Approccio
tecnico–scientifico,  – .. La necessità di una visione multidisciplinare,  –
.. Classificazione dei Piani del Colore,  – .. Note sui Piani del Colore in
Italia e all’estero , .

Capitolo III
Dall’indagine alle scelte di Piano
.. Gli strumenti indagativi,  – .. I sistemi di controllo e verifica del progetto,  – .. Gli strumenti di comunicazione delle cromie di progetto,  –
.. I principi guida,  – .. I criteri di scelta delle cromie da proporre,  –
.. I criteri di scelta dei materiali da impiegare,  – .. I criteri di scelta degli
interventi da eseguire,  – ... La manutenzione delle superfici intonacate,  –
... La manutenzione degli elementi lapidei di facciata, .

Capitolo IV
L’esperienza del Piano del Colore di Ragusa
.. Iter metodologico della ricerca su intonaci, apparecchiatura lapidea e dipinture,  – .. Considerazioni sui risultati prodotti,  – ... Classificazione dei
materiali tradizionali delle facciate iblee,  – ... Criteri di scelta delle soluzioni
tecnico–operative,  – .. La ricerca sugli infissi della tradizione iblea, .


Indice

Capitolo V
La ricerca sperimentale sui sistemi di protezione della pietra ragusana
.. Definizione delle soluzioni e dei campioni,  – .. L’invecchiamento accelerato,  – .. Definizione del programma di prove di caratterizzazione,  –
... Capillarità,  – ... Porosità aperta,  – ... Permeabilità al vapor d’acqua,  – ... Rilievo fotografico,  – .. Risultati delle prove,  – ... Pietra
Bianca,  – ... Pietra Pece,  – .. Analisi dei risultati e conclusioni,  –
... Pietra Bianca,  – ... Pietra Pece, .

Appendice. Schede tecniche di intervento

Bibliografia
Presentazione
Questo lavoro muove da due esigenze complementari. Da una parte il
recupero e l’approfondimento di un’attività che, nello specifico della collaborazione con il Comune di Ragusa per la predisposizione degli studi
preliminari alla redazione del Piano del Colore dei centri storici, era stata
fortemente condizionata dalle insufficienti risorse finanziarie disponibili
ancor più limitanti in rapporto ai brevi tempi contrattuali condizionati da
esigenze “politiche”; dall’altra chiarire come il tema posto non potesse
essere esaurito da un approccio tecnicistico quanto invece da un approccio
di tipo olistico, come è evidenziato dall’autrice, capace cioè di interpretare
i fenomeni e non gli oggetti attraverso l’interazione di un complesso di
fattori.
Credo che questa interpretazione del tema abbia guidato la scelta del
titolo che conduce a considerare il colore come elemento del linguaggio
dei luoghi e come tale capace di rendere unico e inconfondibile ogni determinato luogo o paesaggio. «Ciascun luogo della terra è distinguibile da
tutti gli altri per certe sue particolarità e molto spesso queste tendono a
diventare delle varianti nel tempo». Con queste parole Paolo Portoghesi,
nel cogliere i caratteri distintivi, apre alla dinamica ed al dibattito sulla conservazione, sul recupero e la riqualificazione dell’immagine storica della
città. Emblematico è il caso del recupero del centro storico di Tirana, la
cui operazione sembra echeggiare le esortazioni di Bruno Thaut: «Il grigio
e le grigie prigioni di mattoni hanno preso il posto delle case colorate e
dipinte. . . Non vogliamo più costruire e vedere costruire case senza colore
e con questa nostra stringata dichiarazione vogliamo ridare all’architetto
all’urbanista il gusto del colore all’interno e all’esterno delle case». Il ruolo
del colore come forza capace di scardinare vecchi tabù generati da ideologie
massimaliste e conformiste, ma anche di riscatto di costruzioni povere, come nell’esempio delle favelas brasiliane per le quali si può dire che perfino
una costruzione di per se povera assume un aspetto festoso, rendendole
singolari e differenziandole dall’intorno. Emerge quindi il ruolo rilevante
del colore nel conferire qualità ambientale, favorire tipi di comportamento
e influenzare lo stato emotivo dell’individuo. Ma la qualità ambientale non
può prescindere dal rapporto fra colore e forma, dalla loro complementarietà ed interdipendenza. Nello specifico del fatto urbano è il colore che,
pur conservando l’identità delle singole unità edilizie, è in grado di confe

Il variopinto linguaggio della città storica
rire riconoscibilità a comparti omogenei e come dire parafrasando Bruno
Taut «la massa delle unità diventò una unità delle masse grazie al colore».
Ma per potere governare tale fenomenologia è necessario approfondire la
relazione tra la oggettività del fenomeno fisico e il corrispondente valore
che l’osservatore, attraverso il suo complesso sistema visivo, è in grado di
conferire.
Purtroppo bisogna constatare che il deterrente principale alle scelte cromatiche più decise è la consapevolezza che esse possano portare a risultati
affatto gradevoli tanto più quanto più forti sono i colori usati o scelti fidandosi di semplici scale cromatiche non adeguate al tema specifico. Mies
Van Der Rohe imponeva agli studenti del MIT un esercizio che consisteva
nel prelevare con un contagocce, da diversi vasetti di colore ad acquerello
già preparato, quantità variabili di tinta e di comporre su un foglio, appena
inumidito, macchie rotonde di diverso colore e di diverso diametro al fine
di addestrare l’occhio a considerare le quantità relative necessarie, colore
per colore, per ottenere un certo effetto di armonia cromatica, anche in
rapporto all’estensione della superficie colorata ed alle condizioni di illuminazione: con luce diretta o controluce. La stessa tinta può indurre effetti
percettivi diversi, in relazione anche ad altre tinte, secondo l’estensione della
superficie e la quantità di luce incidente. Spesso invece la realtà cromatica
delle nostre città ci induce a pensare che alla base delle scelte vi sia o un
rifiuto del colore o una scelta operata allo stesso modo con cui si sceglie il
colore della cravatta. Tale difficoltà è complicata dalla introduzione della
sintesi chimica che ha permesso la produzione di gamme infinite dei colori e relative tonalità a differenza di come si produceva precedentemente,
quando il rapporto con i colori per l’Architettura era fortemente radicato
dall’uso dei materiali locali (pietre naturali, mattoni, sabbie, ossidi). Ciò
naturalmente non deve creare alcuna ostilità per le nuove tecnologie che,
spesso, sono in grado di mettere a disposizione materiali con prestazioni
adeguate alle attuali sollecitazioni ambientali più critiche di quanto non
fossero nel passato. Piuttosto, è necessario migliorare le proprie conoscenze
sulla formazione dei colori e sui principi psicofisici che stanno alla base della
gradevolezza della percezione. Fondamentale è, oltre che sperimentare sulla
composizione dei colori, partendo da quelli primari, capire la differenza tra
il metodo additivo e quello sottrattivo: il primo si riferisce alla sintesi delle
luci colorate, il secondo alla mescolanza dei pigmenti ed è quello praticato
dai pittori, che utilizzano il metodo sottrattivo per comporre i loro colori.
Inoltre è interessante osservare che, se per i colori verde e rosso si utilizzano i pigmenti specifici, dal loro accostamento scaturisce una sensazione di
giallo che non può essere distinta da quella provocata da un corpo bianco
illuminato da una luce monocromatica gialla. Ciò è una conferma che i
messaggi visivi che riceviamo sono una costruzione della nostra psiche. In
Presentazione

realtà il meccanismo per la percezione dei colori e dei segnali cromatici, che
pervengono sulla retina, è un prodotto che non può essere confrontato con
un’immagine di tipo ottico, poiché alla formazione concorrono quantità
notevolissime di fattori che sono rilevati ed elaborati sia dall’osservazione
che dall’esperienza maturata con l’ambiente esterno oltre che da quella
personale di ciascun individuo. Ad esempio, l’azzurro più puro che si percepisce non è quello corrispondente alla massima sensibilità dei fotorecettori,
ma è quello corrispondente al colore del cielo quando l’aria è perfettamente
tersa. In altri termini la sensazione si collega ad una esperienza cromatica
vissuta e non al rigoroso funzionamento dell’organo di percezione. Il nostro
cervello compie delle complesse operazioni di filtraggio alla stessa stregua
del fotografo che dispone degli opportuni filtri per far si che dalle immagini
riprese in cattive condizioni di illuminazione si possa ottenere una immagine non alterata. Per esempio in presenza di luce artificiale con lampade
ad incandescenza l’uomo, dopo un breve adattamento, percepisce i colori
senza vistose deformazioni tanto più quanto l’ambiente gli è familiare e
quanto più gli oggetti gli sono noti. R. L. Gregory nel testo Occhio e cervello
sottolinea come «È troppo semplice quando si discutono i problemi della
visione parlare solo di occhi e dimenticare il cervello». La conoscenza di
come funziona il meccanismo percettivo è sen’altro una buona guida per
potere correttamente interpretare questo “linguaggio” dei colori che ha in
sé molto della tradizione dei luoghi e della loro storia. Come evidenziato
dall’autrice che, nel trattare l’approccio psicologico–cognitivo, correttamente richiama il concetto di “genius loci” quale «insieme di storia, suggestioni,
atmosfere, emozioni, forme, materiali, caratteri, colori, luci, ombre, patine, suoni, racconti, leggende, segni del trascorrere del tempo e tanto altro
ancora; tutti elementi che rendono ogni luogo storico unico e diverso da
un altro», concordando con quanto riportato nella relazione illustrativa del
Piano del Colore di Lecce «quasi come se un nume tutelare ne custodisse
l’animo, per rivelarlo solo a chi sia capace di accostarsi ed ascoltare».
Interventi, prive di questo “ascolto” creano forme di disorientamento
che ho potuto verificare direttamente quando, su uno dei miei percorsi
abituali di molti anni fa, mi trovai alla vista di un edificio appena restaurato.
Nell’intervento erano state ripulite tutte le modanature mettendo a nudo la
pietra calcarea e realizzando quel bicromatismo proprio di un edificio del
Settecento ma il cui apparato decorativo, sia per forme che per proporzioni, nulla aveva di assimilabile alla magnificenza e all’armonia del barocco.
L’intervento di restauro non essendo stato esteso all’intera unità edilizia
rendeva chiaro come, oltre la patina, era stata rimossa la scialbatura originale
ottocentesca che conferiva una uniformità monocromatica seppur sfumata
dalle diverse tonalità che la tinta assume in relazione alle diverse superfici di
supporto.

Il variopinto linguaggio della città storica
La complessità del tema, evidenziato più volte, è stata da stimolo in questo lavoro per la messa a punto di un metodo di lavoro capace di individuare
tutti i contributi interdisciplinari e costruire un sistema procedurale tale da
coinvolgere tutta la filiera produttiva affinché l’intervento di recupero possa
rappresentare, oltre che un’operazione economica, soprattutto “una occasione” per l’intera comunità e in particolare per tutti gli operatori (maestranze,
tecnici, costruttori, industrie edilizie) di elaborazione culturale.
Questo metodo è stato alla base del lavoro svolto per i centri storici di Ragusa nel corso del quale, con il contributo dell’Amministrazione, sono state
create diverse occasioni di confronto con i tecnici e le forze produttive locali
che ritengo possa rappresentare l’avvio di quella proposta metodologica
che vede nella partecipazione autocosciente il modo corretto di affrontare
un lavoro comune per un bene comune.
Umberto Rodonò
Introduzione
La facciata di un edificio appartiene a chi la guarda
(Lao–Tseu)
L’uso appartiene al proprietario, la bellezza a tutti
(Victor Hugo)
È proprio questa, centrata sull’osservatore, l’ottica con cui deve essere affrontato il tema del colore della città, ovvero con quella attenzione, competenza,
sensibilità e scrupolosità che “un bene che appartiene a tutti” esige. Per cui
un intervento su una facciata storica non deve essere inteso solo come un
semplice e opportuno atto conservativo/manutentivo, ma anche come un
momento, o piuttosto un’occasione, per valorizzare la vivibilità/visibilità
degli ambienti urbani.
L’interesse che sempre più spesso viene riservato all’aspetto cromatico
delle nostre città, rappresenta il segnale positivo di un’accresciuta consapevolezza di quanto il colore concorra alla definizione della qualità degli spazi
urbani, alla loro identità e riconoscibilità.
In Italia i Piani del Colore, sebbene costituiscano una realtà tutto sommato recente (il primo Piano, quello di Torino, è del –), rappresentano
una prima risposta in merito alla necessità di dotarsi di strumenti in grado
di disciplinare, pianificare, ma anche valorizzare il colore su scala urbana a
partire dalle aree più rappresentative della città, per lo più riconducibili al
centro storico.
Spesso in passato si è fatto ricorso a strumenti di progettazione troppo
grossolani rispetto alla delicata complessità con la quale ci si misura. Oggi si
registra indubbiamente una nuova sensibilità ma il dibattito resta acceso e
nuovi scenari evolutivi possono già prevedersi.
E se da un lato si è consapevoli che il Piano del Colore da solo non può
risolvere i problemi legati alla cattiva pratica del restauro e del recupero dei
centri storici, dall’altro si ritiene che un riferimento normativo ed operativo,
quale il Piano è, può sensibilmente concorrere a migliorare una prassi,
in passato lasciata unicamente all’improvvisazione individuale e priva di
riferimenti contestuali.
Negli anni sono state mosse diverse critiche ai Piani del Colore; una
riguarda il concetto stesso di Piano, il tentativo cioè di omologare e fare
rientrare in categorie omogenee edifici differenti tra loro e con un diverso


Il variopinto linguaggio della città storica
processo storico alle spalle. Molti Piani hanno mostrato il limite di prediligere la scena urbana e gli aspetti percettivi del contesto rispetto al singolo
edificio e alla sua storia. Altri hanno privilegiato indiscriminatamente i colori
di un determinato periodo storico, appiattendo ed uniformando così le tinte.
Un ulteriore limite spesso evidenziato è quello di circoscrivere, in modo
non analitico, l’intervento alle sole facciate dei manufatti storici, isolando i
prospetti al di fuori di quel complesso organismo architettonico e connotante elemento urbano che è l’edificio, relegando le facciate a semplici quinte
urbane e approdando, più o meno consapevolmente, a una lettura della
forma urbis apparentabile alla povertà bidimensionale di una scenografia
teatrale.
Un altro limite attribuito ad alcuni Piani è quello di occuparsi esclusivamente del colore, trascurando la regola dell’arte nell’uso dei materiali, nella
definizione dell’intervento e nella sua corretta esecuzione.
Altri Piani hanno settorializzato gli ambiti di intervento, attribuendo
valore privilegiato solo ad alcune porzioni di centro storico o addirittura
solo ad alcuni prospetti, conferendo alla restante parte di centro (e talvolta
alle rimanenti facciate di un edificio) un valore secondario e quindi non
degno di specifica considerazione.
Ma pur non tacendo questi limiti, è giusto riconoscere che oggi il tema
del colore viene affrontato con maggiore rigore ed esperienza.
In anni a noi più prossimi, gli ultimi Piani approvati in Italia mostrano
un approccio sicuramente più libero e meno impositivo dei primi. Essi
propongono colori o gamme di colori ottenuti attraverso analisi attente
degli edifici, della loro storia e del loro contesto, cercando così di coniugare
la tutela degli aspetti cromatici e materici con la percezione dell’ambiente
urbano nel suo insieme. Al loro interno le tavolozze dei colori hanno un
valore orientativo invece che prescrittivo. Diversi comuni inoltre hanno
adottato regolamenti per l’arredo e il decoro dell’ambiente urbano entro cui
trovano posto disposizioni tese a normare gli elementi che compongono lo
spazio urbano, sia pubblici sia privati.
Ma quali sono dunque gli obiettivi che oggi un Piano del Colore deve
porsi? Fatta salva la specificità del singolo contesto che impone sicuramente
precipui e mirati propositi, esistono alcune finalità imprescindibili e valide
in generale. Esse si sostanziano essenzialmente nella valorizzazione degli
scenari fisici della città; nella conservazione e la tutela del patrimonio edilizio; nell’evoluzione, da parte della collettività, dell’apprezzamento estetico
per il colore; nella leggibilità e nella riconoscibilità delle stratificazioni dei
diversi tessuti urbani; nel recupero del patrimonio culturale ed ambientale;
nella crescita professionale e culturale delle categorie coinvolte, a diverso
titolo, quali proprietari, progettisti, applicatori, fornitori e tecnici preposti al
controllo (Soprintendenze ed Uffici Tecnici Comunali).
Introduzione

Resta da dire che ad oggi il Piano del Colore non ha ancora trovato
una chiara ed autonoma definizione normativa: a seconda dei casi esso
costituisce una specificazione dei Regolamenti edilizi comunali o una parte
integrativa dei Piani urbanistici di attuazione (Piano particolareggiato, Piano
di recupero, Programma integrato di intervento, ecc.). Rimangono peraltro
irrisolti molti problemi relativi alla gestione del Piano stesso, che come tutti
gli strumenti di pianificazione e programmazione, richiede una particolare
attenzione nella ricerca del consenso e della partecipazione da parte di
tutti i soggetti interessati (pubblici e privati). Difatti soltanto un concreto
ed efficace coinvolgimento dei cittadini può garantire l’effettiva e corretta
attuazione del Piano, attuazione che al momento risulta essere uno dei punti
più delicati e critici.
In questo lavoro si è deciso di trattare solo il colore della città storica, ma
non si può non segnalare un’altra questione rimasta irrisolta, quella legata
alla pianificazione del colore delle periferie troppo spesso mortificate da
scelte cromatiche caotiche o poco ortodosse. Il problema è già sotto gli
occhi di tutti e purtroppo segnerà il territorio per almeno un centinaio di
anni. La questione è legata al fatto che, mentre nel passato i colori erano
quelli dei materiali naturali locali, oggi si può fare affidamento su una
varietà infinita di prodotti, tinte, soluzioni tecniche, col conseguente rischio
di creare impatti visivi troppo violenti e variegati.
Questo volume nasce dall’esperienza di ricerca maturata durante gli “Studi
preliminari alla redazione del Piano del Colore di Ragusa” e ha rappresentato
un’occasione per approfondire tematiche già in passato affrontate (la durabilità
di materiali e componenti dell’involucro edilizio negli edifici tradizionali) e
per svilupparne altre (più strettamente legate ad ambiti di ricerca affini),
nella consapevolezza che la ricerca debba essere sì specialistica ma anche
necessariamente incline allo scambio interdisciplinare e alla condivisione
del sapere tecnico. Il tema del colore delle città e della sua pianificazione
sposa perfettamente questa esigenza di interdisciplinarità, perché se è vero
che un Piano può essere sviluppato da diversi punti di vista (psicologico,
tecnologico, urbanistico, storico, sociologico) è altrettanto vero che soltanto
una consapevole e articolata interazione tra queste discipline ed un approccio
olistico al tema può portare alla elaborazione di un buon risultato.
In accordo con questa impostazione metodologica, il volume dà conto
dello status quaestionis sul complesso dibattito relativo alla definizione ed
implementazione dei Piani del Colore e all’analisi di tematiche più tecniche
e circoscritte. Infatti, all’interno del testo, vengono richiamati i criteri di
scelta dei colori, dei materiali e dei prodotti da impiegare per il restauro
delle facciate, nonché (in Appendice) le fasi esecutive d’intervento, in modo
da offrire un quadro generale utile a chi dovesse operare in termini di
pianificazione, progettazione, esecuzione e controllo.

Il variopinto linguaggio della città storica
Il rapporto forte con l’interdisciplinarietà si esplicita nella struttura del
volume che si compone sostanzialmente di due parti: la prima, più generale,
costituita dai tre capitoli iniziali e comprendente diversi ambiti scientifico–culturali, la seconda più specialistica, legata all’esperienza maturata per
conto del Comune di Ragusa (sviluppata così come indicato nel capitolo )
e, ancor più specificatamente, alla ricerca sperimentale sulla durabilità dei
protettivi per la pietra di facciata (che è stata esposta nel capitolo ).
Questa struttura composita cerca, con tutti i limiti del caso, di mostrare
la delicatezza di un tema che oppone resistenza tanto al riduzionismo
ideologico di chi costruisce moduli teorici vincolanti per ogni luogo e
per ogni tempo, quanto a chi pensa che la complessa tessitura storica ed
estetica del problema possa essere risolta con la sola applicazione di soluzioni
meramente tecniche.
Capitolo I
La questione del colore
: .. La non superata querelle: intonaco come superficie di sacrificio o come
elemento con valenza storico–estetica?,  – .. La corretta applicazione del
piano,  – .. I problemi di interpretazione e rappresentazione del colore,  –
.. La diffusione della cultura tecnica,  – .. Uno strumento di pianificazione
partecipata, .
La “questione del colore” degli edifici è da tempo decisamente sentita e
ampiamente dibattuta. E questo avviene in ambito accademico o culturale in generale, ma ormai anche tra i non esperti che, forse a seguito di
una timida e generale risensibilizzazione nei confronti del territorio e del
patrimonio esistente, forse per una chiamata in causa originata dai legami
con la “cultura locale” e con la memoria dei luoghi, spesso si ritrovano a
commentare o valutare criticamente (seppur non sempre con i necessari
strumenti culturali) le trasformazioni subite da porzioni di città a seguito di
interventi che hanno di fatto trasformato l’aspetto delle cortine edilizie.
Quando negli anni Settanta del Novecento iniziò il dibattito sul tema
del colore dell’edilizia storica si contrapposero diverse posizioni: da un lato
si schierarono i fautori del “non intervento” o al massimo del “minimo
intervento”, che ammettevano esclusivamente il trattamento conservativo
nel rispetto dell’immagine della città come storicamente era pervenuta;
dall’altro si posero i fautori dei “ripristini” di impronta filologica, che fondavano la correttezza dei loro interventi sull’esistenza di documenti d’archivio.
Generalmente accadeva che il primo gruppo veniva accusato di generare un
“rovinismo decadente”, il secondo di creare scenari incongrui e anacronistici
. Il modo in cui percepiamo e viviamo l’ambiente che ci circonda dipende dal lavoro delle
generazioni che ci hanno preceduto che nel tempo hanno creato luoghi con precise specificità. Le
componenti culturali di un popolo influenzano il “comportamento spaziale” della popolazione (il
disegno dei campi, la distribuzione della popolazione e delle abitazioni, il tracciato delle strade, la
costruzione e la direzione del centro abitato, la sacralizzazione dei luoghi, come ad esempio la chiesa,
il luogo della sepoltura dei morti) così come i “comportamenti demografici” della popolazione (i
canti, i giochi, i balli e le manifestazioni folkloristiche, la cucina, i costumi, le tradizioni artistiche
e artigianali, i rapporti sociali, l’esercizio e la distribuzione del potere, il modo di produzione, il
grado di sviluppo economico). Si veda a tale proposito il modello di Huxley–Zelinsky presentato in P.
H, Geography: A Global Synthesis, Logmman, .


Il variopinto linguaggio della città storica
per il fatto di trascurare la naturale evoluzione nel tempo delle quinte urbane. Esisteva poi un terzo gruppo, quello dei “creativi” che rivendicavano
il diritto all’identità e alla novità che, a detta loro, ogni progetto (e dunque
anche quello per le facciate degli edifici) presupponeva. Ma per molti anni
il dibattito rimase circoscritto ai consessi scientifici o accademici senza avere
ricadute in campo pianificatorio ed operativo.
Oggi, sulla scorta delle esperienze maturate attraverso i Piani del Colore
realizzati nei diversi comuni italiani, il confronto tra le diverse posizioni
appare più sistematico e consapevole. Ciononostante continuano ad essere numerose le problematiche epistemologiche, tecniche e operative che
l’argomento sottende.
Primo fra tutti continua ad essere discusso il tema del contenuto semantico del componente intonaco, ovvero la querelle sulla legittimità/opportunità
di considerare l’intonaco soltanto come una superficie di sacrificio o piuttosto conferire ad esso un’identitaria valenza storico–estetica.
.. La non superata querelle: intonaco come superficie di sacrificio o
come elemento con valenza storico–estetica?
Ogni intervento umano sul “passato”, dal restauro di un palazzo all’edizione
critica di un antico manoscritto, si scontra con alcune complesse questioni
che spesso mettono in discussione il nostro rapporto con la dimensione del
tempo: il problema del rispetto del valore e della storicità di un manufatto
rappresenta una questione ricorrente (e non esclusivamente accademica)
giacché origina prassi diverse anche su aspetti rilevanti della nostra vita
associata (si pensi al destino dei centri storici di assoluto rilievo di cui è
punteggiata la nostra nazione). Non stupisce dunque il fatto che tra gli
studiosi e gli esperti del settore resti sempre molto vivo il dibattito tra le
due filosofie opposte: quella della conservazione tout court e quella del ripristino tout court, sebbene talvolta queste due posizioni mostrino punti in
comune. E così da un lato troviamo le posizioni di chi, come Dezzi Bardeschi, sostiene la conservazione degli intonaci attuali benché deteriorati, nel
nome della «effettiva conservazione in situ della cultura materiale depositata
sul manufatto», per «non tradire la fabbrica, non ingannare chi a essa si
avvicina, non alterare il monumento–documento nel nome del ’restauro’ o
della ’manutenzione’ (. . . ) non screditare l’obiettivo corretto della permanenza, ossia della effettiva conservazione del contesto fisico arrivato fino
. O. M, Il colore dell’architettura storica. Un tema di restauro, Alinea editrice, Firenze
.
. La questione del colore

a noi». Su questa stessa posizione si schiera Gianfranco Spagnesi il quale
sostiene che il ripristino, soprattutto se mirato al colore originario, non
soltanto è una operazione tecnicamente impossibile, ma è troppo condizionato da interpretazioni soggettive delle fonti documentarie (archivistiche o
iconografiche).
A favore della conservazione dell’autenticità della materia è anche Amedeo Bellini il quale sostiene che, in un intervento di rifacimento, la sostituzione delle parti originarie del manufatto è «la forma più rapida di
distruzione, e ogni ricorso ad essa è la registrazione di una sconfitta».
Ovviamente questa posizione si innesta alla teoria brandiana secondo
cui nel restauro è meglio “aggiungere” che “togliere” e comunque vanno
preservate tutte quelle fasi che si leggono sulla superficie dell’edificio come
“testimonianze storiche”. Ecco perché, come lo stesso Brandi afferma in un
passo della sua Teoria del , dal punto di vista storico la conservazione
della patina, che è «quel particolare offuscamento che la novità della materia
riceve attraverso il tempo ed è quindi testimonianza del tempo trascorso,
non solo è ammissibile, ma tassativamente necessaria».
Per cui, se attraverso un intervento viene cancellata una pagina di storia
(con tutte le informazioni che le superfici colorate possono fornire), in realtà
si cancellano quelle conoscenze, che talvolta sono determinanti per la storia
e la comprensione dell’intero edificio. Dunque al colore delle superficie
degli edifici bisogna riconoscere valenze estetiche e al tempo stesso storiche
e il “valore storico” testimonia il passaggio del tempo e implica la necessità
di conservare la patina. Questo approccio propugna la conservazione del
colore e la non cancellazione della patina attraverso interventi che possono
essere interpretati, anche per l’edilizia non monumentale, come autentiche
“operazioni di restauro” in quanto lavori che comunque incidono sulla
consistenza materica e sulla forma del monumento.
Dall’altra parte Paolo Marconi si pone a sostegno di certi tipi di intervento di ripristino, criticando “l’intangibilità feticista dell’oggetto documento” .
Egli sostiene che «sotto l’ottica del recupero edilizio, il tema demonizzato
. M. D B, Conservare, non manomettere l’esistente: l’insostenibile “sacrificio” di Paolo
Marconi, in Recuperare, n. , .
. G. S, Il colore nelle città, in Il colore nelle città, Catalogo della mostra (Roma ),
Roma .
. A. B, Teorie del restauro e finalità della ricerca sperimentale, in G. Biscontin (a cura di),
L’intonaco: storia, cultura e tecnologia. Atti convegno di Studi di Bressanone (– giugno ), Padova
.
. C. B, Teoria del restauro, Einaudi, Torino .
. O. M, op.cit.
. P. M, La questione delle superfici di sacrificio e le sue conseguenze metodologiche: il recupero
critico delle tecniche tradizionali, in F. P (a cura di) Anastilosi. L’antico il restauro, la città, Ed.
Laterza, Roma .

Il variopinto linguaggio della città storica
del ripristino sarà diluito in una serie di operazioni tecniche di carattere davvero conservativo in cui l’esercizio della manutenzione avvenga ricorrendo
ad una fisiologica serie di piccole operazioni sostitutive, la ratio delle quali
altro non sia se non la simulazione il più adeguata possibile delle parti precedenti, col ricorso se possibile, a materiali identici, o altrimenti a materiali
alternativi ma compatibili (. . . ) intonaci a calce e pozzolana, tinteggiature a
calce». Egli estende alla categoria degli intonaci, degli stucchi, delle patine
e delle dipinture il concetto di superfici di sacrificio che Marcello Paribeni
aveva attribuito a «quegli strati più o meno sottili di materiale costituenti le
superfici dell’architettura» . E così sostiene che tale protezione superficiale
“aggiunta e deperibile” è «sostituibile, anche con altri materiali ed espedienti tecnici rispetto a quelli originari, ogni qual volta questa desse segni di
deperimento, con operazioni di manutenzione programmate». 
Oltretutto secondo Marconi, in base ai risultati riportati nella letteratura
tecnico–scientifica, si può dedurre che le incrostazioni superficiali che sono
parte integrante della patina «lungi dal poter essere considerate come un
protettivo per le superfici, consistono invece in un accumulo di sostanze
nocive continuamente messe in circolazione, a livelli sempre più profondi,
dall’acqua meteorica o dall’acqua di condensa».
Dunque continuiamo a ritrovare contrapposizioni decise tra i protagonisti del dibattito nazionale. A questo confronto si affiancano tentativi
di sfumare le posizioni o “comprenderle” entro un discorso più ampio o
più articolato. Così ad esempio l’analisi di Valerio Di Battista che assevera:
«l’inconciliabilità di queste posizioni che evidenziano obiettivi e sistemi di
osservazione differenti dovrebbe però potersi superare attraverso la considerazione che si tratta di finalità e criteri entrambi legittimi (. . . ) questi due
diversi modi di approccio al medesimo problema, come sensibilità scientifica al documento e come sensibilità alla qualità, entrano in conflitto quando
riducono l’oggetto alla sezione di un’unica categoria di informazione, ed
uno solo dei due approcci diviene possibile, ma diventano entrambi praticabili acquistando valenze diverse quando fossero applicati, entrambi, ad
un sistema complesso . . . qual è evidentemente la città storica, nella quale
questi due obiettivi non sono più incompatibili, ma anzi sono indispensabili
a realtà diversificate»  per cui diventa fondamentale la «gestione pragmatica
e sapiente di un accurato dosaggio tra conservazione e trasformazione» , e,
come osserva egli stesso altrove, «per le più complesse relazioni ambientali
. O. M, op.cit.
. P. M, La questione delle superfici di sacrificio .., op.cit..
. Ibid.
. V. D B, Introduzione a L’immagine della città storica. Intonaci, colori, finiture di facciata,
Atti convegno di Parma , Electa, Milano, .
. Ibid.
. La questione del colore

e le continuità temporali che caratterizzano il progetto dell’esistente, questi
non potrà mai essere un progetto di sole modificazioni o trasformazioni,
e neppure potrà mai essere un progetto di sola conservazione. Esso dovrà
invece gestire proprio la continua necessaria compresenza di modificazione
e conservazione; la loro inevitabile e complessa dialettica, la difficile ma
indispensabile scelta di elementi e sistemi che in parte permangono e in
parte mutano». 
Anche a livello europeo, nelle diverse aree geografiche, ritroviamo una
pluralità di atteggiamenti: generalmente nel nord Europa (Austria, Baviera,
Est Europeo) si preferisce applicare il principio del rifacimento periodico
delle finiture dipinte, anche se si sta diffondendo sempre più la cultura della
conservazione, attraverso le carte del restauro (si veda a titolo d’esempio
quella presentata nel  a Cracovia durante la Conferenza Internazionale
sulla Conservazione, “I principi del Restauro per la Nuova Europa”).
Ciò che emerge comunque dal confronto delle posizioni è la necessità
assoluta, imperativa e ad ampio spettro di intervenire con una più profonda
sensibilità e con sempre maggiore attenzione alla conoscenza finalizzata
alla conservazione, in relazione alla gravità degli effetti che si determinano
quando si realizzano interventi dissonanti, sgrammaticati o incompatibili
anche nel più piccolo e modesto edificio che appartiene comunque ad un
contesto rilevante qual è il centro storico di una città.
.. La corretta applicazione del piano
Nell’ambito della problematica del colore in questi anni non si registrano evoluzioni significative sul piano teorico–metodologico (probabilmente perché
tale aspetto ha ormai raggiunto livelli di approfondimento ragguardevoli), i
maggiori cambiamenti si rilevano in ambito tecnologico. E questo perché
l’offerta del mercato tende a proporre sempre più frequentemente nuovi
prodotti capaci di assolvere contemporaneamente due diverse funzioni: da un
lato quella di resistere meglio all’azione degradante degli agenti atmosferici
(sicuramente più aggressivi di un tempo), dall’altro quella di garantire quanto
più possibile una compatibilità estetica e tecnologica con l’esistente. La veri. V. D B, Progettare la diagnosi, in Recupero e riqualificazione dei centri storici in Europa.
Diagnosi e interventi, Atti del Convegno di Genova – novembre .
. L’approccio conservativo, che parte dai contenuti delle diverse Carte del Restauro (da quella
Italiana del , a quella di Venezia del , poi ancora quella Italiana del  e quella Europea
del Patrimonio Architettonico del , nonché la Dichiarazione di Amsterdam del ) condanna
qualsiasi intervento contempli la rimozione della materia antica e la sua sostituzione con materiali
moderni. E questo perché nel singolo lacerto di intonaco sono contenute testimonianze storiche che
possono fornire utili indicazioni sulle coloriture storiche delle diverse epoche, sui materiali e sulle
tecniche di lavorazione utilizzati.

Il variopinto linguaggio della città storica
fica del tempo ha fatto sì che venissero superati alcuni prodotti che si sono
dimostrati poco adeguati all’edilizia storica o poco durevoli.
Ma nell’ambito dei Piani del Colore il problema che tutt’oggi risulta spesso
irrisolto è quello della scarsa diffusione e soprattutto della effettiva e corretta
applicazione del piano. Questo tema si fa particolarmente critico non tanto
quando si interviene sulle emergenze architettoniche, che prevedono l’elaborazione di progetti specifici operati da tecnici esperti (almeno qui si presume)
del settore e sottoposti al controllo delle soprintendenze, quanto nel momento in cui si parla di edilizia diffusa, purtroppo troppo spesso “imbarbarita”
ovvero deturpata dall’incuria o da interventi irrispettosi in termini di cromia e
decoro urbano o tecnicamente scorretti (perché eseguiti secondo la logica
del “fai da te” e senza i necessari controlli o le dovute autorizzazioni). Si
pensi a tutti quei prospetti tristemente ricoperti da parziali pitture murali che
interessano pochi campi di facciata, generalmente posti al piano terra, ovvero
laddove gli interventi sono più frequenti (per il maggiore degrado dovuto
all’umidità da risalita o per frequenza di cambiamento di gestione o destinazione d’uso delle botteghe), oppure a tutti quegli interventi che prevedono
soluzioni differenti su edifici contigui, storicamente e linguisticamente affini,
fino a creare una vera e propria “frantumazione” delle quinte prospettiche
che si presentavano unitarie in origine e che rischiano dunque di non essere
più leggibili nella loro conformazione originaria.
In molte grandi città, spesso a causa della genericità o della leggerezza
con cui viene affrontato il problema, i risultati poco soddisfacenti sono da
attribuire non ai materiali utilizzati o alle maestranze non specializzate ma
all’assenza di una adeguata impostazione del problema sin dalla fase dello
studio preliminare e di progetto dell’intervento. A volte infatti «non viene
individuata, nella fase di ricerca e di progetto, la corretta comprensione
del trattamento dei fondi, dei bugnati, degli intonaci o delle superfici di
pietra, costituenti l’architettura e la grammatica delle facciate. Ciò anche da
parte dei tecnici degli organi che dovrebbero controllare o autorizzare gli
interventi stessi». In alcuni casi si procede a tinteggiare indistintamente
l’intera superficie di prospetto compresi gli elementi architettonici aggettanti (appiattendo così le membrature architettoniche sullo sfondo). O, talvolta,
basandosi sulla differenza materica, si tende a distinguere con coloriture
diverse (e non toni diversi) la pietra naturale e quella finta presenti nella
stessa facciata, non rispettando l’identità concettuale della materia e per
questo ledendo l’integrità della compagine architettonica.
I danni evidenti di questi interventi incolti si devono dunque alla mancanza di una normativa specifica e/o di un’azione di tutela continua e adeguata,
che siano più stringenti di quelle oggi esistenti, troppo spesso limitate alle
. O. M, op.cit.
. La questione del colore

prescrizioni del decoro urbano, spesso non rispettate e comunque insufficienti. Talvolta, anche quando il Piano del Colore esiste, la sua applicazione
risulta stentata o contenuta per una effettiva mancata accettazione delle
prescrizioni in esso contenute.
Oltretutto si osservi che il fallimento dei piani attuativi spesso è da attribuire alla naturale inerzia o, peggio, alla situazione di conflittualità presente
fra i cittadini obbligati ad effettuare interventi unitari ma non opportunamente coordinati. Proprio nei tessuti storici, dove la proprietà è fortemente
frazionata e parcellizzata, l’unitarietà architettonica, estetica e funzionale
degli edifici è sovente compromessa dagli interventi di trasformazione
condotti unilateralmente ed autonomamente dai singoli proprietari. Per
superare questo ostacolo, sarebbe opportuno che gli amministratori svolgessero una costante, capillare ed anche personale azione di sollecitazione
e convincimento dei cittadini interessati, attivando tutte le possibilità di
promozione, incentivazione e sostegno degli interventi.
I danni cagionati dall’imperizia e/o dalla mancanza di controllo sono
particolarmente pericolosi se si considera che, come osserva Gresleri, «al
banale ci si abitua subito, entra a far parte della cultura del quotidiano
cosicché la gente non ponendovi più l’attenzione lo accetta con ineluttabile
naturalezza» , col rischio dunque di fare l’abitudine a quelli scempi che
rappresentano un vero oltraggio al valore e all’identità di quel bene culturale
che è il centro storico.
Un altro errore in cui spesso si incorre negli ultimi anni è quello di optare,
nell’incertezza della cromia da proporre, per alcune “tinte neutre” previste
da alcuni Piani del Colore o, più spesso, dovute a prescrizioni generiche o
affrettate di Soprintendenze o uffici tecnici comunali. Questa, che apparentemente può sembrare una soluzione “prudente” e che da Luciano Garella
viene additata come “non scelta” , si rivela poi come un errore perché fa
perdere il contrasto tra fondo e partiture architettoniche, per via di quel
“gioco di fondo impalpabile” che dissolve la solidità costruttiva dei piani
murali e il rigore incisivo dei decori scolpiti.
Così come criticabile risulta la consuetudine assai diffusa di intervenire
sulle facciate decorticandole in fase di restauro, ovvero privandole dell’intonaco, facendole diventare in alcuni casi «un insieme incongruo in cui i lacerti
di murature, aperture e partiture architettoniche preesistenti si inseriscono
in un testo che doveva essere originariamente definito e in cui l’intonaco
giocava un ruolo igienico–protettivo, ma anche squisitamente estetico».
. G. G, La distruzione silenziosa, in Ananke, , giugno .
. L. G, Rione S. Angelo, un intervento in corso, in L. C (a cura di), Coloriture e
trattamenti degli edifici storici a Roma, Atti del convegno Roma – maggio , Editrice IN ASA,
Roma .
. B. T, L’edificio “decorticato”, in Intonaci colore coloriture nell’edilizia storica. Atti del

Il variopinto linguaggio della città storica
.. I problemi di interpretazione e rappresentazione del colore
La valutazione oggettiva del colore è un tema ampiamente indagato dalla
scienza moderna. Si pensi alla teoria del colore nella sua evoluzione storica,
che passa anche attraverso le interessanti, seppur superate, interpretazioni di
Newton (cfr. i suoi studi sui colori: On Colours e, più tardi, Opticks), Goethe
(con la sua Teoria dei colori), A. Schopenhauer (in La vista e i colori), fino
ad arrivare alle nuove acquisizioni scientifiche.
La colorimetria oggi si occupa di standardizzare la misurazione del colore
attraverso lo studio dei modelli di colore e si basa sulla relazione che esiste
tra radiazioni visibili e sensazioni di colore.
La crescente richiesta di studi sul colore che ha caratterizzato in questi ultimi decenni il mondo dell’edilizia, dell’industria tessile e di quella
cosmetica ha fatto sì che nascesse l’esigenza di disporre di strumenti che
consentissero la misurazione e la riproduzione in modo rapido e preciso
del colore. L’introduzione negli anni Ottanta del Novecento dei programmi
di color matching nell’industria ha costituito una svolta nella gestione delle
cromie, consentendo di ottenere dei risultati in termini di precisione e ripetizione che erano impensabili rispetto ai precedenti metodi basati sulla
imitazione visiva del colore.
Oggi i metodi strumentali nella misura delle cromie consentono sia di effettuare un controllo spettrale delle caratteristiche di un campione di colore
(evitando il fenomeno del metamerismo ), sia di calcolare le formulazioni
che permettono la riproduzione dello stesso. Essi infatti rendono più facile
la scelta dei pigmenti da impiegare, ma le combinazioni sono così numerose
che solo l’uso di software specifici consente l’ottimizzazione della formula
sia in termini di costo di produzione che di attenuazione del metamerismo.
Nonostante questa reale evoluzione della tecnologia a servizio del colore,
continuano a registrarsi significativi problemi di identificazione delle cromie
legati sia al momento della interpretazione del colore esistente, sia al momento della rappresentazione del colore da proporre in cartella. Per quanto
riguarda il problema dell’interpretazione del colore, esso è incardinato a due
differenti questioni: una relativa alla qualità di esecuzione (e di lettura) delle
convegno, Roma – ottobre  I–II supplemento al “Bollettino dell’Arte” n. –. .
. I. N, Opticks, or a treatise of Reflexions, Inflexions and Colour of Light [], Cosimo
Classics, .I. N, A new theory about Light and Colour, memonia inviata alla Royal Society,
Edizioni W. Fritsch, .Si veda pure I. N, Scritti di ottica, vol. II, nella collana “Classici della
Scienza”, Torino UTET, .
. J.W. G, La teoria dei colori, Il saggiatore, .
. A. S, La vista e i colori. Carteggio con Goethe, Edizioni Abscondita, .
. Il metamerismo è quel fenomeno che si manifesta quando due colori possono risultare
identici in determinate condizioni di illuminazione ma diversi quando queste condizioni vengono
variate.
. La questione del colore

stratigrafie, l’altra connessa ai limiti oggettivi del rilievo cromatico visivo o
strumentale. Ma procediamo con ordine. Per capire quali possono essere le
perplessità legate all’attendibilità delle indagini stratigrafiche può risultare
utile riportare le essenziali osservazioni di Antonella Docci: «Innanzitutto è
assai difficile stabilire il colore originario di un edificio e questo non solo
perché molto spesso è stato rimosso e pertanto rimangono in situ coloriture
successive a quella originaria, ma soprattutto perché l’esatta definizione del
colore richiede la sinergia di molte competenze tra esse diversificate. Le
indagini stratigrafiche, ad esempio ci mostrano un colore talmente ravvicinato che siamo in grado di apprezzarne tutti i pigmenti presenti in quel
punto della mescola. Il problema tuttavia è che tale scomposizione rende difficile percepire il colore reale senza incorrere in grossolani errori: la
scomposizione del colore che si ottiene è paragonabile infatti con quanto si
realizza nella reintegrazione cromatica con la tecnica della selezione cromatica. Con questa tecnica si ottengono in proporzioni variabili i colori puri
pertanto paradossalmente con i medesimi colori si ottengono tonalità molto
differenti tra loro. Nella stratigrafia è come vedere un colore scomposto
nei suoi colori puri senza potere percepire l’effetto ottico finale: si tratta
pertanto di un falso colore.
Anche le stratigrafie meccaniche eseguite con scalette cromatiche a
bisturi sono altrettanto insidiose perché mettono in rilievo la parte più
esposta del colore, quella che può aver subito con l’esposizione ai raggi
solari e all’inquinamento atmosferico delle alterazioni cromatiche anche
rilevanti (molto frequenti sono i viraggi verso il bruno e/o il grigio)».
Oltretutto l’interpretazione del colore durante le indagini stratigrafiche,
specie quelle poco attente, è inficiata da un errore che viene spesso commesso dagli operatori ovvero quello di trascurare l’uso antico di anteporre una
velatura a tinta chiara come base di tinteggiature successive, interpretando il
primo strato come una coloritura appartenente ad un periodo precedente.
Per quanto riguarda poi il problema dell’identificazione del colore in fase
di rilievo, bisogna innanzitutto distinguere i pro e i contro dei due metodi,
ovvero del rilievo visivo e di quello strumentale. A tale scopo si ricorda
brevemente che per metodi visivi si intendono quelli che utilizzano l’occhio
umano come strumento di comparazione tra un campione di riferimento e
il colore da rilevare; per metodi strumentali si intendono invece quelli in
cui la lettura del colore avviene attraverso uno strumento che ne individua
la composizione spettrale (ad esempio colorimetri e spettrofotometri). Per
molto tempo il metodo visivo, con tutti i suoi limiti, è stato considerato
l’unico utilizzabile in campo urbano, dove le ampie dimensioni del conte. A. D, Intonaci e coloriture. Dettagli tecnici sulla conservazione: conservare o ripristinare?, in P.
F (a cura di), Colore Architettura Ambiente, edizioni Kappa, Roma, .
Il variopinto linguaggio della città storica

sto e l’elevato numero di facciate, non consentivano campagne di rilievo
strumentale a tappeto.
Gli oggettivi vantaggi del metodo visivo possono essere ricondotti a:
—
—
—
—
la diffusione a livello internazionale;
l’economicità;
la possibilità di fare rilievi agevoli in situ;
la possibilità dell’immediata traduzione di un colore in codice e
viceversa;
— la specializzazione non necessariamente alta dei tecnici;
— l’utilità sia in fase di rilievo che di progetto;
— la sistematizzazione dei colori attraverso parametri connessi con i
meccanismi della percezione umana.
I limiti del rilievo visivo sono legati al fatto che l’interpretazione del colore
è assolutamente soggettiva e dipende dalla latitudine, dalle condizioni di
luce, dall’incidenza luminosa, dal tipo di fonte luminosa (artificiale, naturale,
mista), oltre che da fattori meramente psicologici.
I vantaggi dei metodi strumentali sono appunto legati alla costanza della
risposta indipendentemente dall’ora, delle condizioni ambientali, dell’affaticamento del rilevatore. Ma allo stesso tempo tali metodi presentano
alcune complicazioni: la necessità di personale specializzato (sia in situ che al
momento dell’interpretazione dei dati) e i costi più elevati rispetto al rilievo
visivo.
In realtà dalla verifica diretta sul campo si evince che, per il rilievo dei valori cromatici, è sempre prioritario partire dal metodo diretto, da effettuare
nelle varie ore del giorno e nelle diverse stagioni, per comparazione visiva
dei colori con le mazzette di campionamento, così da avere un riscontro diretto con la materia. Solo dopo si può passare, soprattutto ai fini operativi,
alla fase strumentale, utilizzando ad esempio lo spettrofotometro, per individuare le coordinate spettrali. In questa fase non si deve dimenticare che
comunque la scabrosità dell’intonaco falsa in qualche modo il risultato che
cambia in relazione alla materia impiegata. Oggi esistono spettrofotometri
che superano in parte il problema della ruvidezza delle superfici, ovvero
il problema delle ombre che si crea in tali superfici, ma resta comunque
un minimo di incertezza nell’interpretazione del colore. E questo perché il
colore non è una grandezza fisica, né una proprietà della materia, ma è una
qualità della sensazione visiva e come tale è una caratteristica soggettiva.
. O. M, op. cit.
. Spesso al rilievo diretto si affianca quello fotografico che, com’è noto, non assicura una
fedele resa cromatica essendo questa strettamente legata al livello di apertura del diaframma, ai tempi
di esposizione e all’inquadratura.
. La questione del colore

Prevedere dunque la redazione di una cartella colori redatta da tecnici
altamente qualificati ed esperti nel settore, sulla base di atlanti colore quali
Munsell, Ral, NCS, ecc., benché prassi consolidata, costituisce un elemento
esclusivamente orientativo, ma privo di valore scientifico.
Inoltre, l’elaborato redatto, subisce un deterioramento cromatico nel tempo, con successiva modifica degli standard di riferimento che non assicurano
la continuità qualitativa.
Sarebbe opportuno quindi stabilire un criterio di identificazione, classificazione e riproducibilità del colore e affidarsi ad uno strumento in grado di
effettuare una lettura oggettiva del colore.
Si ricorda che la norma UNI EN : Conservazione dei Beni Culturali – Metodi di prova – Misura del colore delle superfici offre indicazioni per la
misura del colore delle superfici di materiali inorganici porosi. Ma al suo
interno non è considerato l’aspetto delle superfici lucide ed il metodo indicato può essere applicato soltanto a materiali inorganici porosi non trattati,
o sottoposti a trattamenti o invecchiati.
Resta la consapevolezza di non potere disporre ancora di misure colorimetriche di “valore assoluto”, in quanto nessuno strumento è ancora oggi
in grado di leggere in maniera differenziale e selettiva i valori cromatici
espressi su supporti tra loro diversi, specialmente quelli costituiti da intonaci.
I valori di lettura sono infatti condizionati da molti fattori: dalla qualità della
luce riferita alla sorgente emissiva (luce solare, luce al neon, luce alogena,
ecc.); dall’angolo di incidenza della luce, che dipende dalla posizione della
sorgente luminosa e, soprattutto, dal tipo della superficie da esaminare (piana o rugosa); dalla brillantezza, in quanto nel caso di superfici lucide la luce
viene riflessa in un’unica direzione mentre nel caso di superficie opache la
luce viene diffusa in tutte le direzioni.
. Negli anni Ottanta il sistema Munsell (che prevede il confronto visivo diretto tra il colore
della superficie indagata e quello di campioni standard rimovibili contenuti in un catalogo, il Munsell
Book of Color appunto) era il sistema di notazione dei colori più diffuso a scala mondiale. Lo si
adottava anche in Germania, Canada, Stati Uniti e Giappone, anche se il suo alto costo lo escludeva di
fatto da un uso corrente. Il Munsell era anche stato scelto perché aveva il vantaggio di essere collegato
con il sistema di denominazione ISCC–NBS, che attribuisce ad ogni colore un codice oggettivo e
un nome standard. Nel corso degli anni,però, si è diffuso un sistema di codificazione scientifica
dei colori di origine svedese, il cosiddetto NCS (Natural Color System), che, anche grazie alla sua
economicità, ha di fatto soppiantato il Munsell (peraltro collegato al sistema NCS mediante una
semplice tabella di conversione). L’NCS è convertibile nel sistema YCMK e RGB, adottati per la
notazione di colori nei computers, pertanto consente di informatizzare i dati di colore e di renderli
pubblici anche via internet. Nel  in Italia, la sezione Beni culturali della UNI ha prodotto la
UNI EN : Conservazione dei Beni Culturali – Metodi di prova – Misura del colore delle superfici
che fornisce indicazioni per la misura del colore delle superfici di materiali inorganici porosi.Si fa
notare che allo scopo di ridurre le difficoltà legate alla percezione oggettiva del colore e per garantire
condizioni uniformi per la realizzazione delle analisi sensoriali dei colori e per l’espressione dei
risultati, l’International Organization of Standardization (ISO) ha pubblicato nel  la norma ISO
: “Sensory analysis – Guidelines for sensory assessment of the colour of products”.

Il variopinto linguaggio della città storica
In altri termini uno stesso pigmento offrirà nell’espressione cromatica di
sintesi curve spettrali diverse non solo in ragione delle quantità percentuali
di bianco o delle velature, ma anche in relazione della diversa composizione
materica del supporto, della natura del legante, del processo di carbonatazione che ha dato corpo alla mineralizzazione dell’intonaco, della presenza
di resine artificiali e sintetiche, della maturazione o della patina derivante
dal trascorrere del tempo nelle varie condizioni ambientali, dello sporco, dei depositi superficiali, delle sostanze aggiunte e delle trasformazioni
chimico–fisiche subite per cause artificiali e naturali.
.. La diffusione della cultura tecnica
Come abbiamo detto, oltre alla mancanza di norme, anche l’introduzione
di nuovi materiali ha dato il via all’arbitrio talvolta dissennato negli interventi sulle cortine edilizie. Ciò è stato determinato appunto dall’abbandono
della tradizione costruttiva (ininterrotta fino all’inizio del Novecento) che
«perpetuava una ‘norma’ non codificata, ma di fatto operante» legata alla
regola dell’arte.
Nella seconda metà del Novecento la figura dello stuccatore e dell’intonacatore venne progressivamente sottoutilizzata e dimenticata e tali professioni quasi scomparvero nel ricambio generazionale, come del resto
quasi tutte le professioni artigianali della tradizione, a causa della rapida
industrializzazione dell’edilizia e dei cambiamenti di gusto. L’attività dello
stuccatore/intonacatore oggi si limita per lo più alla realizzazione di semplici
superfici e di intonaci privi di decorazioni e viene spesso svolta da operatori non specializzati, che utilizzano materiali di produzione industriale e
chimicamente diversi da quelli originari.
Se a tutto ciò si aggiunge il processo di abbandono dei centri storici che
caratterizzò gli anni Sessanta del Novecento italiano e che causò un’accelerazione dei fenomeni di degrado degli edifici storici, si comprende perché,
quando negli anni Settanta e Ottanta si assistette ad una riappropriazione dei
centri storici da parte della popolazione, gli interventi sulle facciate furono
commissionati ad imprese che si erano occupate fino a quel momento solo
di nuove costruzioni, dunque non specializzate in interventi su edilizia sto. P. F, Il problema dell’intervento sul colore, in P. F (a cura di), Colore Architettura
Ambiente, edizioni Kappa, Roma, .
. In alcuni casi vengono pure alterati i significati dei termini con cui vengono denominati
i materiali tradizionali. Eclatante il caso dell’uso del termine “marmorino" ormai sinonimo di
dipinture lucide ottenute con prodotti premiscelati che non hanno niente in comune con l’originale
trattamento (ovvero lo stucco costituito da un impasto di calce e polvere di marmo usato per decori e
rappresentazioni figurative).
. La questione del colore

rica, che si limitarono quasi sempre a riproporre i materiali sintetici forniti
dalle industrie delle costruzioni talvolta con ampio uso di cemento.
Anche oggi i materiali di finitura (pitture ed intonaci) di corrente produzione industriale, pur essendo generalmente e correttamente confezionati
in conformità alle prescrizioni di normativa, posseggono requisiti diversi
da quelli richiesti dalla pura conservazione. In questi sistemi di finitura la
colorazione viene spesso ottenuta utilizzando pigmenti e terre di provenienza estera (tedesca o olandese soprattutto), pervenendo a gradazioni
cromatiche assolutamente diverse da quelle tradizionali locali.
Riferendoci alla propugnata compatibilità fra intonaci, malte e costruzioni
in muratura, si ritiene opportuno suggerire ai produttori un più consistente
sforzo di adattamento della loro offerta alle peculiarità di ogni sito. Sappiamo bene quanto l’industrializzazione edilizia abbia standardizzato la
produzione al fine di permettere l’adozione di sistemi validi dappertutto
ma, a differenza dei componenti edilizi contemporanei le cui soluzioni si
possono definire a comportamento omogeneo, le murature dell’edilizia
storica sono sempre diverse ed hanno una modalità di interazione materica
generalmente disomogenea.
Nella prassi della conservazione, per effettuare un intervento “culturalmente consapevole” non è sufficiente sommare singole competenze
specialistiche capaci di immettere a regime “pacchetti tecnologici” pronti
all’uso, ma occorre riflettere su problematiche sempre diverse in relazione alle specificità dell’oggetto e al cangiante stato di conservazione di
tecnologie già presenti nel manufatto. In questi casi, alla semplice sommatoria di diverse competenze settorializzate è preferibile l’attivo scambio
interdisciplinare.
Purtroppo l’attuale scenario culturale appare abbastanza deludente e
poco qualificato (fatte salve le dovute eccezioni). La mancanza di sapere
tecnico oggi riguarda sia i progettisti, che devono approfondire ed aggiornare la conoscenza dei materiali tradizionali e innovativi da utilizzare per
il restauro, ma anche gli operatori, soprattutto in relazione al fatto che la
presenza di imprese non specializzate fa aumentare il rischio di operazioni
scorrette. Purtroppo sempre più spesso, essendo il campo del restauro quello maggiormente in ripresa nel settore delle costruzioni, capita di avere a
che fare con imprese che si improvvisano in questo settore pur non avendo
le adeguate competenze a discapito della qualità dell’intervento.
Sarebbe opportuno in questo senso una maggiore sensibilizzazione
alla questione da parte dell’ANCE e delle Scuole Edili, Enti Regionali,
Provinciali e sarebbe auspicabile che venisse imposto, a livello normativo,
l’impiego esclusivo di quegli operatori che dimostrino di aver seguito
appositi corsi di formazione.
Oltre a formare le maestranze, è fondamentale che vengano istituiti

Il variopinto linguaggio della città storica
uffici all’interno dei Comuni e delle Soprintendenze preposti al controllo e
alla consulenza tecnica riguardo agli interventi sulle facciate degli edifici e
che vengano formati e/o tenuti aggiornati i tecnici operanti all’interno di
queste strutture.
.. Uno strumento di pianificazione partecipata
Uno dei problemi più difficili quando si parla di Piano del Colore è garantire
l’effettiva attuazione/applicazione dello stesso. Molte sono le città dotate di
piano in cui continuano a perpetrarsi azioni scriteriate e abusive. E questo
accade per una serie di motivi legati soprattutto al fatto che comunemente i
piani vengono imposti dall’alto e non sentiti e riconosciuti dalla cittadinanza.
Una causa oggettivamente scatenante di questi fenomeni è da attribuire
alla dicotomia tra interessi privati e interessi pubblici, ovvero tra le ragioni
della proprietà (che spesso inducono ad interventi “in economia”) e quelle
della conservazione del bene alla comunità (ovvero la città nelle sue istanze
storiche ed estetiche). Appare dunque chiara la necessità di sviluppare nuove
soluzioni di pianificazione che puntino sostanzialmente a una partecipazione della cittadinanza nell’elaborazione del piano. Ciò automaticamente
comporterebbe:
a) una più diffusa consapevolezza e conoscenza della cultura locale;
b) un aumento di dialogo tra saperi esperti e saperi locali ;
c) lo sviluppo di una politica di governance che porti ad una pianificazione partecipata.
Per quanto riguarda il primo punto, ovvero, l’incremento della cultura
locale, sarebbe opportuno muoversi in due direzioni diverse:
— una che miri ad informare i cittadini sui temi storico/urbanistici e
sulla tradizione costruttiva locale. Da questo punto di vista le esperienze all’estero sono un valido esempio. Le modalità possono essere
diverse, partendo da specifici programmi scolastici (moduli per l’insegnamento della storia della città nella sua formazione urbana e nelle
. Sul tema dei saperi esperti cfr. S. M, Le metodologie riflessive di tipo apprezzativo e partecipativo per lo sviluppo dell’innovazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni e nei mondi professionali,
http://www.formez.it.
. Sul tema della governante cfr. C. R, W. S (a cura di) Governance, Partecipazione e Processi decisionali per lo Sviluppo Sostenibile locale. Un tour di ascolto e riflessione a voci multiple
nelle nove Province dell’Emilia–Romagna, Quaderni di documentazione , Regione Emilia–Romagna,
Bologna .
. La questione del colore

sue modalità costruttive), passando da una divulgazione della cultura del luoghi (immediata e diretta, attraverso opuscoli, documenti
in rete, ecc., seguendo l’esempio francese e americano), fino alla
realizzazione di specifici corsi di formazione per i non tecnici.
— un’altra che punti alla sensibilizzazione della cittadinanza alle tradizioni culturali locali, attraverso la realizzazione di interviste o campagne di raccolta di documenti (foto, articoli, ecc.), la loro diffusione,
l’organizzazione di mostre.
Occorre pure invogliare la cittadinanza all’“ascolto” e alla “visione” della
città e contemporaneamente sviluppare le metodologie di indagine relative
alle modalità con cui la gente percepisce i propri spazi di vita.
Ma per coinvolgere i cittadini non basta solo un “ispessimento” della
base culturale, occorre pure facilitare il dialogo tra la “comunità scientifica”,
portatrice di un sapere sistematizzato sulle modalità di lettura e interpretazione del territorio e dell’azione/interazione sociale, e la “comunità locale”,
portatrice di saperi sui diversi “locali” che compongono il territorio. Più
specificatamente il rapporto tra comunità scientifica e comunità locale può
essere in prima battuta interpretato come il dialogo tra saperi scientifici, tendenzialmente astratti, generali e codificati, e saperi locali, spesso impliciti e
taciti, e talora ridondanti o marginalizzati nella costruzione di un processo
di apprendimento collettivo.
È vero che i saperi esperti offrono sostanziali ed indispensabili contributi
in ampie aree degli ambienti materiali e sociali nei quali viviamo, ma è
altrettanto vero che tale funzione si realizza producendo opacità sulle specificità dei contenuti e sul modo specialistico in cui questi operano. Questa
opacità si basa ancora su un tipo di fiducia da parte dei cittadini/utenti che
spesso assume la forma di una delega in bianco piuttosto che di uno slancio
verso l’impegno. Nello stesso tempo si assiste ad una sostanziale crescita
di richiesta da parte della popolazione di garanzie, di tutele, di procedure o
sistemi in grado di dar conto della qualità delle prestazioni e di certificarla.
. A tale scopo un utile spunto è dato da un saggio, finalizzato in generale all’urban planning ma in parte utilizzabile per il piano colore, intitolato “Mapping people’s feelings in a neighborhood: technique, analysis and applications" di Yodan Rofé (nella rivista telematica: Planum Magazin,
http://www.planum.net/planum–magazine) che restituisce gli esiti di uno studio condotto sulle
sensazioni che l’assetto spaziale, sociale e funzionale del neighborhood genera nei suoi abitanti.
Il metodo empirico di rilievo e produzione di "feeling maps" elaborato nel corso della ricerca è
proposto come uno strumento di ausilio alla pianificazione urbana. Uno strumento utile ad ampliare
la “cassetta degli attrezzi” del progettista a comprendere anche gli aspetti sociali ed emozionali che
influiscono sulla percezione della qualità dell’ambiente urbano.
. Sull’importanza della conoscenza tacita nella costruzione della cultura materiale si veda il
fondamentale lavoro di R. S, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, .
. A. G, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino,
Bologna, .

Il variopinto linguaggio della città storica
Per far questo occorre possedere gli strumenti per il passaggio delle
informazioni dal mondo della ricerca alle strutture produttive: creare strutture programmaticamente dedicate all’osservazione e alla diffusione delle
informazioni.
Oltretutto il percorso della relazione tra i saperi potrebbe riguardare: lo
sviluppo locale come orizzonte progettuale e come processo di apprendimento; la riscoperta del luogo (della sua fisicità, della sua cultura, della sua
storia) e della comunità locale; l’ibridazione dei saperi in un processo di
apprendimento collettivo.
Con questi presupposti si può procedere verso una forma concreta di
organizzazione e partecipazione politica allargata degli attori pubblici e privati
in merito ai processi decisionali, in una parola si può avanzare verso una
reale governance, un modello inteso come insieme di relazioni non leggibili
in chiave gerarchica dall’alto (istituzioni) verso il basso (cittadinanza), bensì
in termini tendenzialmente orizzontali entro un’ottica di concertazione e di
interazione paritaria fra le diverse parti. La governance nasce proprio come
“faccia accettabile dei tagli di spesa” e allo stesso tempo agisce affinché le spese
per la qualità del costruito vengano digerite e volute dalla popolazione.
Declinare il concetto di governance in termini di partecipazione: potrebbe
essere questo un nuovo principio alla base della elaborazione del Piano del
Colore, per far sì che esso venga effettivamente applicato dalla cittadinanza,
per superare quel gap tra interesse privato (e quindi economia di spesa) ed
interesse pubblico (di tutela del patrimonio) di cui prima si è detto. Tra l’altro
questo aspetto si lega alla necessità di far rilevare (sia a livello di governo che
di cittadinanza) l’importanza della salvaguardia del patrimonio storico e della
sua conservazione e manutenzione, oltre che per una questione strettamente
culturale, anche per garantire efficacemente un aumento reale del valore
economico dei centri storici (sia in termini di valore immobiliare degli edifici
esistenti che di valore aggiunto legato all’incremento del turismo locale).
Negli ultimi anni diverse politiche pubbliche di settore hanno introdotto
vari strumenti normativi e tecnici che auspicano e prevedono processi deliberativi partecipati nel raggiungimento di obiettivi di sviluppo qualitativo e
sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale ed economico. Gli strumenti
adottati a livello amministrativo locale per facilitare una maggiore parteci. Il concetto di Governance è stato utilizzato, di recente, per designare diversi aspetti: le modalità
di organizzazione dell’azione collettiva; i modelli di “governo” che ridefiniscono il ruolo del soggetto
pubblico nella riduzione della distanza delle interazioni fra gli attori; una forma specifica di organizzazione e partecipazione allargata e più diretta dell’azione collettiva in merito alla vita della polis. Le
differenti accezioni del concetto di governance condividono un nucleo minimo di significato. Si tratta
delle nuove modalità con cui soggetti istituzionali e non, sistemi pubblici e privati, meccanismi formali
e informali interagiscono, dell’emergere e stabilizzarsi di regole provenienti da sistemi eterogenei, della
ridefinizione dei criteri di legittimità.
. La questione del colore

pazione sono stati numerosi. Ma nella prassi corrente solo alcuni tra questi
strumenti sono stati promossi adeguatamente, mentre altri sono ancora poco
conosciuti e utilizzati, sia all’interno delle istituzioni che tra la cittadinanza.
Gli attori coinvolti sono principalmente quelli maggiormente organizzati
e consolidati (enti locali, associazioni di categoria, organizzazioni sindacali
ed enti di controllo).
Non sono invece sempre chiare le modalità riguardanti la gestione di
questa partecipazione concertativa. Nella pratica, gli incontri, articolati in
pochi appuntamenti periodici, sono principalmente di tipo consultivo. 
In sintesi, mentre la gamma degli strumenti di offerta di partecipazione
e inclusione si è formalmente arricchita, parallelamente si evidenziano
(da varie fonti) crescenti conflitti e criticità rispetto alla carenza di spazi
e strumenti di coinvolgimento e di partecipazione pubblica nei processi
decisionali.
Rodney Jackson ci offre una sintetica ma efficace scala di partecipazione
per distinguere quali possono essere i livelli di coinvolgimento della cittadinanza nel processo decisionale, in una successione che va dalla “Massima
dipendenza dagli agenti esterni” alla “Massima fiducia in se stessi”. Egli
segnala i seguenti steps:
— l’intervento passivo: senza alcun feedback (le informazioni condivise
appartengono agli agenti esterni);
— partecipazione attraverso informazioni: la gente comune risponde alle domande poste ma non ha la possibilità di influenzare le decisioni;
le informazioni non vengono condivise;
— consultazione: le idee dei cittadini vengono prese in considerazione,
ma le decisioni vengono prese da un “agente esterno” che non ha
. Queste iniziative “dal basso” di partecipazione sono spesso un automatismo in risposta ad
un’altra sindrome, di tipo istituzionale, che di fatto perpetua modelli e processi decisionali “dall’alto”.
Questo approccio molto comune di decisione viene anche riassunto con l’acronimo DAD (Decido–Annuncio–Difendo) ed è orientato alla consultazione “a valle” del processo decisionale. Esso
prevede che l’Amministrazione prenda una decisione o elabori un progetto sulla base di proprie
logiche, concordandone gli aspetti strategici con tecnici e in tavoli di concertazione bilaterali con
alcuni attori in particolare, dei quali si ritiene imprescindibile il coinvolgimento. Quando “l’impianto”
del progetto e della Decisione è complessivamente compiuto, si passa al suo Annuncio alla cittadinanza o ad altri attori non coinvolti in precedenza. È a questo punto che possono insorgere conflitti e
opposizioni. Con l’approccio DAD si ritiene che la difesa tecnica e razionale, con dati scientifici possa
convincere una presunta emotività e non competenza dei partecipanti non esperti. Moltissimi casi
nella realtà nazionale dimostrano i limiti di tale impostazione e, al contrario, come effetto opposto, la
complicazione e il rallentamento di processi decisionali, con costi economici, sociali, istituzionali,
progettuali.
. R. J, Community Participation: Tools and Examples, Paper presented at the Management
Planning Workshop for the Trans–Himalayan Protected Areas, – August, , Leh, Ladakh and
sponsored by the Wildlife Institute of India, US Fish and Wildlife Service Himalayan Biodiversity
project, and International Snow Leopard Trust.

Il variopinto linguaggio della città storica
l’obbligo di accettare i punti di vista locali;
— partecipazione attraverso incentivi: è una partecipazione “con scadenza”, quindi essa termina quando gli incentivi sono esauriti;
— partecipazione funzionale: alcuni gruppi, formati per soddisfare
specifici obiettivi predeterminati, vengono guidati dai soggetti esterni,
di solito dopo una prima fase di pianificazione;
— partecipazione interattiva: i cittadini vengono strettamente coinvolti
nella raccolta di informazioni, nella pianificazione e nel processo
decisionale; le prospettive locali vengono favorite con l’obiettivo di
mantenere “strutture” e “pratiche” del luogo;
— automobilitazione: i cittadini prendono l’iniziativa di pianificazione,
decisionale e di azione; le agenzie esterne provvedono a fornire un
supporto tecnico e a svolgere un’azione di facilitazione o, al più,
“catalitica”.
Quale potrebbe essere dunque un’efficace modalità di progettazione
partecipata per la stesura del Piano del Colore? Il percorso che qui si propone
può implicare modalità operative diverse, strutturate in modo semplice
o complesso, più o meno articolate nel tempo, come gruppi di lavoro
tematici, forum, focus group, interviste, indagini pubbliche sulla percezione
della qualità della vita o su singole questioni di dibattito; o modalità informali
come campagne di sensibilizzazione pubbliche, incontri pubblici su singoli
temi–questioni, mostre. Gli incontri prevedono la discussione in assemblea,
la proiezione di fotografie e grafici, la discussione e il lavoro in gruppi
più ristretti in cui sia assicurato l’ascolto e la partecipazione attiva di tutti,
partendo da temi generali e cercando di approfondire via via l’analisi e le
proposte su aspetti di maggiore dettaglio.
Più specificatamente il percorso partecipato potrebbe essere strutturato
in modo da comprendere le fasi di seguito sinteticamente richiamate (in
parentesi sono indicate le figure coinvolte nelle singole attività):
— analisi storica (solo tecnici);
— analisi bibliografica/documentale (tecnici + studenti);
— analisi percettiva (tecnici, studenti, gente comune);
— campagna rilevamento stratigrafie (tecnici + studenti accademia e/o
università);
— campagna rilevamento materiali, tecniche degradi (tecnici + studenti
accademia e/o università);
— individuazione degli interventi in termini di soluzioni tecniche (solo
tecnici);
. La questione del colore

— individuazione dei materiali tradizionali e innovativi da utilizzare
(tecnici + studenti accademia e/o università);
— laboratorio pratico (esteso ad artigiani, studenti accademia e/o
università, gente comune):
– conoscenza di base;
– preparazione delle tinte;
– modalità di posa;
– verifica di materiali innovativi;
— laboratorio nelle scuole (scuole medie inferiori e superiori)
– conoscenza di base;
– analisi percettiva (foto);
– ricerca fonti storiche;
– soluzioni di combinazioni di colore;
— indicazioni sui colori, abbinamenti (tecnici + cittadinanza);
— indicazioni sulla prassi amministrativa (tecnici + rappresentanti
cittadinanza).
Queste linee operative rappresentano un possibile modello di intervento mirante a ridurre lo iato tra cittadinanza e istituzioni. Vi è però la
consapevolezza che le questioni teoriche e il dibattito scientifico intorno
al tema siano di complessità e dinamicità tali da non poter essere dragati
all’interno dei limiti di spazio, tematici e soprattutto disciplinari, di questo
volume. L’allocazione in uno specifico livello della scala di partecipazione di Jackson richiama precise scelte teoriche non riducibili a opzioni
esclusivamente tecniche. È incontrovertibile che il tema dell’elaborazione partecipata dei Piani del Colore non sia pienamente comprensibile se
non connesso, da una parte, alle complesse questioni inerenti il valore
di “bene collettivo” della città storica, dall’altra al tema del senso e dei
limiti della democrazia e sopratutto della rappresentanza in democrazia.
Né questi argomenti possono separarsi dalla riflessione sul valore (ontologico o convenzionale) dell’arte e dell’architettura e sui doveri etici che
la generazione contemporanea ha nei confronti delle generazioni future.
Una riflessione questa, implicita nei lavori sulla sostenibilità ed esplicita in
certa filosofia morale a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento,
successivamente resa comune dalla diffusione del “pensiero ecologico”.
Ma qui, come è facile intendere, ci si pone ben oltre i limiti che il sapere
tecnico, per assicurare una cogenza epistemologica, deve rispettare.
. Cfr. H. J, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino
 []; V. H, Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino .
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