TOMMASO D’AQUINO
Il bue muto
Biografia
• N. Roccasecca (Cassino) nel 1225/26. Nel
1243 entra a Napoli nell'OP. Inviato a
Parigi diviene scolaro di Alberto. Segue
Alberto a Colonia e poi torna a Parigi nel
1252. Commenta la Bibbia e le “Sentenze”
di Pietro Lombardo, realizzando un
compendio
della
dottrina
cristiana,
riferimento per tutto il Medioevo.
Biografia
Nel 1259 torna in Italia lavorando alle opere
maggiori (“Summa contro i Gentili” e
“Somma teologica”).
• Di nuovo a Parigi, torna in Italia nel 1272
per insegnare all'Università di Napoli; nel
gennaio del 1274, designato da PP.
Gregorio X, parte per il Concilio di Lione
ma si ammala e muore durante il viaggio
(7 marzo 1274)
Ragione e Rivelazione
• La filosofia di Tommaso è una cattedrale
del pensiero, cioè una ricerca che
conduce ad una visione sistematica
e complessiva del mondo in cui si
indagano le sue ragioni e si ricostruiscono
le sue strutture.
• Nondimeno la disciplina filosofica per
Tommaso non è autosufficiente ma
poggia sul fondamento della Rivelazione.
Le possibilità della ragione
• Il fine ultimo dell’uomo è la ricerca di Dio, la sua
conoscenza e sequela di suo Figlio. Conoscere
Dio eccede però le possibilità della ragione: «O
profondità delle ricchezze, della sapienza e della
scienza di Dio, quanto sono incomprensibili i tuoi
giudizi e imperscrutabili le tue vie!»(Rm 11,
33).
La ragione ha un campo d’azione molto più
ristretto: le verità naturali, quelle accessibili
in base alle limitate strutture conoscitive umane.
Tuttavia anche in questo campo essa è fallibile.
La Rivelazione
• La Rivelazione non solo ci offre indicazioni
preziose sulle verità più grandi e
generali circa Dio e la sua
creazione, permettendoci di raggiungere
per quanto ci è possibile il nostro fine, ma
ci dà anche indicazioni su verità di
ordine naturale, di per sé accessibili
alla ragione, affinché su esse noi non
cadiamo in errore.
Filosofia subordinata ma non inutile
• La filosofia quindi va subordinata ai
contenuti della Rivelazione (tutto ciò
che è riportato dalle Scritture sacre e dalla
tradizione della Chiesa), anche se essa non
risulta, in quanto subordinata, inutile.
• Infatti la ragione filosofica è indispensabile
per
1)dimostrare i preamboli della fede
2)chiarire le verità della fede
3)confutare le obiezioni contro la fede.
Dimostrare i preambula fidei
• I preambula fidei sono quelle verità di ordine razionale
e naturale che preparano alla fede:
per credere ai racconti delle Scritture bisogna dare per
scontato
che Dio esiste
che è unico
e che possiede determinati attributi come l’onnipotenza,
l’onniscienza etc.
Tali verità possono essere raggiunte dalla ragione
naturale che così viene disposta ad accogliere le
verità di fede.
Chiarire le verità di fede
• Chiarire le verità di fede significa comprendere il
senso profondo, la coerenza e la razionalità
delle cognizioni che la Scrittura ci offre su Dio, la
sua legge e la sua creazione.
• Per esempio la dottrina della Trinità descrive una
caratteristica del Dio cristiano che è desunta
dalle Scrittura e va accettata come verità
rivelata, nondimeno l’intelletto si può e si deve
esercitare per chiarire il dogma e renderlo
maggiormente accessibile all’intelletto umano.
Combattere le opposizioni alla
fede
• La ragione è un ottimo strumento per
dimostrare la falsità di coloro che si sono
opposti alle verità cristiane (per esempio, in
epoca patristica, i pagani e, in epoca
contemporanea a Tommaso, eretici e infedeli
mussulmani).
• La ragione è infatti un piano dove anche chi
appartiene a mondi culturali e religiosi diversi
si può incontrare con i cristiani ed è obbligato
a
riconoscere
la
forza
degli
argomenti.
L’autonomia della ragione e
l’armonia la rivelazione.
• La ragione certo è UTILE alla fede e le è
SUBORDINATA. Nondimeno possiede anche una
sua autonomia, poiché è uno strumento di
conoscenza della realtà che è stato donato da Dio
agli uomini e i suoi principi derivano dalla volontà
divina che ve li ha infusi.
• Per esempio Dio stesso vuole che noi riconosciamo
il principio di non contraddizione come condizione
della verità delle nostre affermazioni.
• Se è così non può esservi contrasto tra le
verità rivelate dalle Scritture e quelle acquisite con il
retto uso della ragione, visto che la ragion d’essere
di entrambe è Dio.
La metafisica tomista
Una volta stabilito l’atteggiamento generale di
Tommaso nei confronti della filosofia, possiamo
vederne i contenuti effettivi.
La filosofia di Tommaso è innanzitutto una
metafisica, cioè parte dalla ricerca sui primi
fondamenti della realtà, dai quali la realtà intera,
L’ESSERE, dipende. Questo perché una metafisica
concepita correttamente permette di risalire all’essere
sommo che è Dio, dimostrandone la necessità e
confermandone l’esistenza (permette cioè di arrivare a
comprendere alcuni fondamentali preambula fidei) .
Ente ed essenza , il libro
• Ora, in ambito metafisico, i concetti più importanti
da chiarificare sono quelli di ente ed essenza.
A tale compito Tommaso si dedica in giovane età,
con uno studio fondamentale che porrà le basi
della sua filosofia dell’essere: il De ente et
essentia, composto tra il 1252 e il 1256 negli anni
in cui il nostro filosofo compiva i primi passi della
sua carriera di insegnante all’università di Parigi
(era ancora baccelliere, cioè una sorta di
assistente e collaboratore del professore
ordinario).
L’ente e l’essenza, i concetti
• All’esordio del suo opuscolo geniale, rimasto giustamente famoso
nella sua produzione, Tommaso afferma che «l’ente e l’essenza
costituiscono i concetti primi dell’intelletto» (Tommaso,
De ente et essentia, tr. it. di P. Orlando, Dehoniane, Roma, 1986, p.
20). Non si tratta di nozioni di cui noi conosciamo il significato prima
che di tutto il resto, si tratta bensì di quelle nozioni che sono
presupposte in ogni uso che noi facciamo del linguaggio quando
vogliamo dire qualcosa di vero.
• Anche se non conosco il senso del termine ente o quello di
essenza, quando parlo, parlo sempre o di enti o di essenze. Quindi
per evitare errori nel mio cammino di conoscenza appare
indispensabile chiarire nella mia mente questi concetti per usarli in
modo corretto e per dare alla mia visione del mondo verità e
affidabilità.
Ente
• Il termine ente «può avere due accezioni: una prima quando
l’ente si divide in dieci categorie, una seconda quando significa
la verità di una proposizione» (Tommaso, cit., p. 22).
Cerchiamo anzitutto di comprendere meglio la SECONDA
definizione di ente. «Significare la verità di una proposizione»
vuol dire avere una realtà LOGICA, cioè essere solo un
contenuto del nostro pensiero. Se io dico «X è Y» innanzitutto X
è il soggetto di una frase che esprime il fatto che in questo
momento HO IN MENTE X, e lo stesso vale per Y e per la loro
unione significata dalla copula «è». Quindi la realtà di X e Y è
solo logica, mentale e non è detto che X e Y esistano anche nel
mondo e siano uniti anche nel mondo reale che ho attorno a me.
La negazione e le realtà
privative
•
Nel caso dell’ente logico, la dimostrazione della sua funzione
esclusivamente mentale, vi è quando con una proposizione o con
un nome positivo indichiamo realtà privative che non hanno esistenza
reale, ma che sono propriamente la negazione di un’ esistenza reale.
Per esempio noi possiamo pronunciare la frase: «La cecità è
nell’occhio». Ora, il termine «cecità» evidentemente non indica niente di
reale, e ha realtà solo nella nostra mente, essendo usato per negare
qualcosa che ha realtà, cioè la vista: solo la vista è reale, non
la cecità ossia solo ciò che è POSITIVO è reale, non ciò che, pur
espresso con un nome positivo, significa privazione e negazione. Quindi
potendo parlare di cecità, posso utilizzare il linguaggio in modo
significativo, benché abbia nella piena consapevolezza che a non tutte
le parole e a non tutti i concetti fa da DIRETTO contraltare una realtà
esterna, e che per alcuni di essi si può dire che vi è una realtà
puramente logica.
Una realtà logica e una realtà
puramente logica
• Quindi tutti i concetti hanno una realtà logica –
perché sono concetti, cioè concepiti con la mente –;
che questa realtà logica sia effettiva lo dimostrano
quei concetti che hanno una realtà PURAMENTE
logica (una dimostrazione dell’esistenza dell’oro la
posso dare facendo vedere che posso isolare l’oro
da tutto il resto, mostrandolo nella sua purezza, così
come per far vedere la realtà logica dei concetti
posso isolare quei concetti che hanno realtà
puramente logica).
La prima accezione di ente
• Se la seconda accezione ci parla dell’ente logico, la prima ci
parla dell’ente reale: «Sed primo modo non potest dici
aliquid quod sit ens, nisi quod in re aliquid ponat»: «Invece nel
primo modo può dirsi ente solo ciò che è presente nella realtà
(in re)».
• Questo ente reale si dice nelle 10 categorie aristoteliche che
descrivono i generi supremi dell’essere, cioè tutto quanto
si può dire che l’essere sia, in qualsiasi modo sia
e ovunque sia. L’ente reale insomma è la realtà che ci sta
attorno (attenzione: non solo quella sensibile, ma anche
quella sovrasensibile – gli angeli e Dio sono realissimi per un
cristiano del medioevo, molto più reali dei fiumi e degli alberi)
e comunque FUORI DALLA NOSTRA MENTE.
L’ente reale
• L’ente reale può a sua volta distinguersi in essenza, da un
lato, e atto d’essere o esistenza, dall’altro.
• L’essenza o QUIDDITAS (il che cos’è – quid est - di una
cosa) è l’ente così come viene descritto dalla sua definizione
(per esempio l’essenza dell’uomo è l’essere animale
razionale, sinolo di materia, animalità, e forma, razionalità).
Quando io definisco un qualsiasi ente la definizione mi
restituisce la sua essenza. Questa essenza mi dice l’essere
profondo dell’ente, che, nel caso delle sostanze composte,
cioè delle realtà sensibili, è dato dall’unione della sua materia
e della sua forma, e nel caso delle sostanze semplici (gli
angeli) è dato dalla loro forma.
La realtà della definizione
• La definizione tuttavia ha una realtà peculiare, affine
a quella logica. Infatti quando dico «l’uomo è
animale razionale» parlo del concetto di uomo e
non ancora dell’uomo che ha la perfezione di
esistere. Allo stesso modo potrei definire il
sarchiapone o gli studenti di Hogwards con la loro
forma e la loro materia, pur sapendo che essi non
esistono nella realtà. Dire che non esistono significa
dire che essi hanno un essere esclusivamente
potenziale. Sono cioè in potenza: potrebbero
esistere, ma non esistono in atto.
Essenze che non esistono
• Il fatto che potrebbero esistere mi è confermato dal
fatto che la loro materia e la loro forma effettivamente
fanno riferimento ad una certa realtà: per esempio il
sarchiapone è un animale feroce, o gli studenti di
Hogwarts
sono
ragazzi
dalle
qualità
eccezionali: animalità, ferocia, adolescenza e
possesso di qualità eccezionali sono tutti elementi
positivi per i quali vi è un riferimento alla realtà. Solo
che il sarchiapone è un animale feroce che-non-esiste
e gli studenti di Hogwarts sono ragazzi con qualità
eccezionali, che-non-esistono.
Ente logico ed ente in potenza
• Che differenza c’è allora tra l’ente logico e l’ente in
potenza? Per Tommaso l’ente logico è caratterizzato
ESCLUSIVAMENTE dal suo essere pensabile. Tutto
ciò che è pensabile e rappresentabile con la mente,
quindi anche realtà privative e negative, è ente logico.
L’ente in potenza è un ente pensato che però
potrebbe esistere poiché nella sua definizione
sono presenti termini che hanno un corrispettivo nella
realtà (termini cioè che significano cose positive).
Alla definizione, cioè alla loro ESSENZA manca solo la
perfezione dell’esistenza.
L’ente in atto, o actus essendi
• Di una certa sostanza, così come è stata definita, si può
constatare anche l’esistenza. Questa sostanza, per
esempio un albero o un cane – che possiamo
rispettivamente definire «cosa che possiede la vita» e
«essere vivente capace di sentire e volere» - , notiamo
che non solo è definibile, ma è qui presente
davanti a noi in carne ed ossa. Bene, la
possibilità che esistesse si è dunque tramutata in realtà.
La potenza di essere che era implicita nella definizione
della sua essenza è diventata atto di essere, cioè essere
effettivo, cioè esistenza concreta. Quindi l’albero e il
cane esistenti sono la loro definizione +
l’esistenza effettiva.
Da dove viene l’esistenza
effettiva?
• Quando un essere esiste significa che la sua esistenza
potenziale si è attualizzata ed è diventata esistenza effettiva.
Chi ha permesso questo passaggio? Evidentemente
un essere che in ultimo non deve a sua volta avere ricevuto
l’essere da altro.
Cioè a dare l’essere a tutti gli enti deve essere stato un essere
•
che lo possiede senza averlo ricevuto – altrimenti non
l’avrebbe propriamente dato, ma solo trasmesso e rimarrebbe
il problema di capire da dove originariamente venga l’essere –
• e che possedendolo in maniera EMINENTE, quindi per sua
caratteristica principale, è in grado di comunicarlo anche ad
altri enti che esistono solo in potenza.
Avere l’essere ed essere
l’essere
• Ma possedere l’essere in maniera eminente significa che la
propria essenza è quella di essere, che l’essere non si
aggiunge alla propria essenza come in tutti gli enti, ma che il
fatto di essere è intrinseco all’essenza. Per quale ente accade
ciò? Per Dio. Dio è l’ente che non ha l’essere ma è
l’essere ed, essendo l’essere, può far essere tutti gli altri
enti che sono solo in potenza. Quindi in Dio essenza ed
esistenza coincidono, negli enti l’esistenza si aggiunge
all’essenza come un dono di Dio (la creazione). Di
conseguenza Dio è necessario che esista, essendo l’essere,
mentre nelle altre creature l’essere è contingente, è stato
donato da Dio e da loro ricevuto, ma non era necessario che
fosse così.
Dono, partecipazione e
analogicità
• La creazione, cioè il conferimento dell’essere agli enti da
parte di Dio è un rendere partecipi gli enti dell’essere
che è prerogativa principale di Dio. Dio rende le cose
esistenti, facendole partecipe del proprio essere.
• Quindi quando io dico «essere» riferito a Dio e agli uomini o
alle cose non lo dico proprio nel medesimo significato, come
quando – esempio mio – dico «bagnato» di qualcosa che è
entrato in contatto con l’acqua o dell’acqua stessa.
• Tuttavia non lo dico con significati assolutamente diversi.
Dunque il termine «essere» in Dio e nelle creature non ha un
solo significato (cioè un significato univoco) né molteplici e
disparati significati (cioè significati equivoci), bensì un
significato ANALOGO.
L’analogicità dell’essere
• Analogo significa simile ma di proporzione
diversa. Io devo avere in mente un essere, quello di
Dio, che è la pienezza dell’essere, perché è la
coincidenza di essere ed esistenza, e poi, con questa
idea, posso capire come anche le altre creature sono,
ma non come Dio, che è necessario che sia e il cui
essere non può venir meno, bensì in modo «minore»,
perché il loro essere DIPENDE da quello di Dio, è
contingente e può venir meno. Questa è l’analogia:
attribuire a due o più enti lo stesso predicato il cui
significato pieno sta solo nell’attribuzione che si fa
ad uno di loro (Dio) , mentre negli altri si ha un significato
solo derivato dal primo e più debole.
I caratteri fondamentali
dell’essere: trascendentali
• Comunque sia specificato l’essere nelle dieci
categorie, ogni ente è uno, vero buono.
Infatti io posso dire che l’essere è sostanza,
quantità, qualità, etc. Cioè posso descrivere l’
essere in tutti i modi possibili, ma qualsiasi cosa
dica dell’essere, al di là di tutte le sue
determinazione (cioè trascendendole tutte), ogni
essere sarà sempre, proprio in quanto essere,
uno, vero, buono. Questi sono quelli che
Tommaso chiama trascendentali, proprio perché
trascendono le dieci categorie, che sono tutto ciò
che si può dire dell’essere.
Uno, vero, buono
•
•
•
•
UNO: non appena qualcosa è, noi scopriamo che deve avere una sua
unità, una certa solidarietà, un certo collegamento tra le sue parti che ci
permette di distinguerlo da altri enti, altrimenti, non sapendo che cos’è,
non sapremmo nemmeno che è.
VERO: in rapporto all’intelletto divino che lo ha creato, dandogli
l’essere, ogni essere è vero, cioè corrisponde a come Dio lo ha
pensato.
BUONO: inoltre se una cosa è, è perché Dio ha voluto che fosse, ma
Dio non vuole il male, dunque ogni cosa che è, per il fatto di essere, è
bene.
Uno, vero, buono poi è in modo eminente Dio, infatti se i trascendentali
sono propri di ogni essere saranno proprio di quell’essere che è in
modo eminente. Se le cose sono uno, vero e bene in rapporto a Dio,
tanto più lo sarà Dio stesso che è fonte di unità, verità e bontà di tutto il
resto.
Il protagonista viene fuori
• In tutte queste riflessioni vi è un costante riferimento a
Dio, anche se il problema messo a fuoco è più
ontologico e metafisico che non teologico. Ciò che finora
è stato tralasciato è una questione assai importante per
la teologia e la filosofia: l’esistenza di Dio. Sembra
infatti che essa venga data per scontata, ma in realtà
essa non è immediatamente e universalmente
evidente (altrimenti sarebbe riconosciuta da tutti),
perché noi non abbiamo un approccio diretto alla sua
essenza, almeno in questa vita. Per tale motivo
l’esistenza di Dio va dimostrata come un
preambulum fidei accessibile alla ragione e tuttavia
bisognoso di un adeguato approfondimento.
Dove viene trattato il tema
• Questo tema fondamentale sarà oggetto di trattazione,
assieme a moltissimi altri, nelle due opere maggiori di
Tommaso: la Summa contra gentiles (scritta tra il 1259 e il
1264) e la Summa theologiae (scritta tra il 1265 e il 1274 )
– Summa in generale significa compendio, composizione
riassuntiva di tutto il sapere circa un dato argomento; in tal
caso si tratta dei temi fondamentali di teologia (summa
theologiae, somma di teologia) e degli argomenti, sempre
di carattere teologico e religioso, che potevano essere
opposti alla cultura pagana in difesa della ragionevolezza
della scelta cristiana (summa contra gentiles, somma
contro i pagani). Si tratta di due opere di vastissimo respiro
di notevole ampiezza e di grande impegno, filosofico e
culturale.
Argomenti a posteriori e a priori
• Nella Summa theologiae in particolare vengono esposte
le prove che Tommaso ritiene fondamentali per
dimostrare l’esistenza di Dio.
• A causa del fatto che noi non abbiamo accesso diretto
all’essenza divina, Tommaso esclude una dimostrazione
sul modello anselmiano (che egli chiama propter quid)
preferendo a questa l’elaborazione di argomenti «quia»
cioè che partono dagli effetti dell’esistenza di Dio per
risalire a Dio come al loro fondamento. Si tratta in
sostanza di argomenti a posteriori, secondo i quali
dall’esperienza del mondo noi risaliamo a Dio e non,
come in Anselmo, di argomenti a priori, in cui l’esistenza
di Dio è desunta dal suo concetto-essenza.
La prima via (1): ex motu
Che Dio esista si può provare per cinque vie.
La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e
consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora,
tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta
che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove,
muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre
qualche cosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto dalla potenza
all’atto se non mediante un essere che è già in atto. Per es., il fuoco che è
caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto
potenzialmente, e cosí lo muove e lo altera (A). . Ma non è possibile che una
stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in
potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: cosí ciò che è caldo in
atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza.
È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo
stesso
movente e mossa, cioè che muova se stessa (B).
La prima via (2)
• È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia
mosso da un altro. Se dunque l’essere che muove è
anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia
mosso da un altro, e questo da un terzo e cosí via
(C). Ora, non si può in tal modo procedere
all’infinito perché altrimenti non vi sarebbe
un primo motore, e di conseguenza nessun
altro motore, perché i motori intermedi non
muovono se non in quanto sono mossi dal primo
motore, come il bastone non muove se non in quanto
è mosso dalla mano (D). Dunque è necessario
arrivare ad un primo motore che non sia mosso da
altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.
Alcune spiegazioni della prima
prova (1)
(A) Qui Tommaso riprende la dottrina del movimento di Aristotele: il
movimento è passaggio dalla potenza all’atto, cioè da una capacità di
essere (in qualsiasi modo) alla sua realizzazione. Siccome vi è un
primato dell’atto sulla potenza,
nel senso che senza atto, senza un essere, non vi sarebbe nemmeno
potenza, cioè capacità di essere (infatti una capacità di essere implica
un riferimento all’essere),
Allora un movimento è sempre dovuto ad un essere in atto che muove,
che provoca il mutamento di un altro essere in potenza, il quale è
stimolato a raggiungere un dato atto, ad essere e fare, ciò che prima
poteva essere e fare.
(B) Se muovesse se stessa dovrebbe essere in atto in quanto ciò che
muove è sempre in atto, e in potenza, perché ciò che è mosso è
sempre in potenza.
Alcune spiegazioni della prima
prova (2)
(C) Se tutto ciò che si muove è mosso da altro vi è una
catena di esseri che si muovono: il movimento che vedo è
causato da qualcos’altro che si muove, il quale,
muovendosi, è stato mosso da qualcos’altro e così via.
(D) Noi cogliamo un movimento (l’ultimo), se all’infinito
retrocedessimo nei motori, non troveremmo mai l’origine
del movimento dell’ultimo oggetto che osserviamo. Ma se
questo movimento non fosse iniziato, grazie ad un primo
motore che ha dato la prima «spinta», tale movimento non
vi sarebbe, poiché verrebbero meno tutti i movimenti degli
altri motori. Dunque deve esistere un primo motore, che
non è mosso da altro, ed è ciò che comunemente viene
chiamato Dio.
La seconda via: ex causa
La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo
nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si
trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se
medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa
inconcepibile (A). Ora, un processo all’infinito nelle cause
efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate
la prima è causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima,
siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa e tolto
anche l’effetto: se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse
una prima causa, non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia (B).
Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la
prima causa efficiente; e cosí non avremo neppure l’effetto ultimo, né le
cause intermedie: ciò che evidentemente è falso.
Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente,
che tutti chiamano Dio.
Alcune spiegazioni alla seconda
prova
(A) Infatti la causa viene sempre prima
dell’effetto, e una cosa non può venir prima di
se stessa.
(B) Vale qui, nell’ordine delle cause efficienti,
ciò che è detto a proposito delle cause motrici:
se, retrocedendo all’infinito nelle cause,
eliminassimo la prima spinta, dovremmo
eliminare anche le cause successive, fino ad
arrivare a eliminare la causa dell’effetto che noi
constatiamo, il quale quindi non vi sarebbe.
La terza via ex contingentia
La terza via è presa dal possibile [o contingente] e dal necessario, ed è questa.
Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere
(A). Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state,
perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva (B). Se dunque tutte le
cose [esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato
momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non
esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non
per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che
qualche cosa cominciasse ad esistere, e cosí anche ora non ci sarebbe niente,
il che è evidentemente falso (C). Dunque non tutti gli esseri sono
contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario.
Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro
essere oppure no (D). D’altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la
causa della loro necessità, non si può procedere all’infinito, come neppure nelle
cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere
all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri
la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono
Dio.
Alcune spiegazioni della terza
via
(A) La definizione di contingente è la seguente: «Ciò che può
indifferentemente essere o non essere».
(B) Se torniamo indietro nel tempo, alla lunga, troviamo un tempo in cui ciò che
può non essere effettivamente non c’era. Infatti se così non fosse, ciò che
può non essere avrebbe un esistenza infinita (come infinita è la semiretta
che conduce da qui all’indietro nel tempo) il che è impossibile per un
essere contingente.
(C) Se tutti gli esseri fossero contingenti, tornando indietro nel tempo, ci
troveremmo ad un punto in cui niente c’era. Ma se non c’era niente,
come fanno ora ad esservi degli esseri, visto che dal nulla non viene
nulla?
(D) Ci si domanda ora: perché un essere necessario, che deve esistere, è tale.
Chi ha prodotto questa sua qualità per il quale esso non è contingente, ma
deve esservi? Non potendo retrocedere all’infinito nelle cause, bisogna
trovare un essere «per sé» necessario e questo è Dio. Trovo ridondante
questa parte della dimostrazione: una volta detto che un essere
necessario esiste, siccome necessario significa «che deve esserci» è
superfluo, visto che non vi sono alternative, spiegare il perché deve
La quarta via: ex gradu
La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un
fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili
perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o
minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano
di piú o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; cosí piú caldo
è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è
dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo,
e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché,
come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale
anche in quanto ente (A). Ora, ciò che è massimo in un dato
genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il
fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il
medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti
è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo
chiamiamo Dio.
Alcune spiegazioni alla quarta
prova
• Questa prova riproduce la prove anselmiane sul significato del
termine «bontà» e «grandezza» elaborate nel Monologion: noi
possiamo conoscere i diversi gradi di un essere perché
abbiamo una pietra di paragone assoluta, e questa è Dio.
• (A) Se c’è una massima verità vi deve anche essere un
massimo ente. Può infatti esistere qualcosa che sia «vero» e
che non abbia l’ «essere»? E i gradi di verità non
corrispondono forse ai gradi dell’essere? Infatti quando noi
diciamo «X è più o meno vero», gli stiamo attribuendo un
maggiore e minore livello nei gradi dell’essere. Questo
computer è vero? Sì perché è qui davanti a me e funziona.
Se non funzionasse avrebbe una grado minore di verità:
sarebbe un falso computer, cioè il suo essere sarebbe
minore e solo apparente (sembra essere un computer ma in
realtà non lo è).
La quinta via: ex gubernatore
La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi
vediamo che alcune cose, le quali sono prive di
conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come
appare dal fatto che esse operano sempre o quasi
sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione:
donde appare che non a caso, ma per una
predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è
privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è
diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la
freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere
intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate
a un fine: e quest’essere chiamiamo Dio.
Alcune spiegazioni sulla quinta
prova
• Tommaso dice che solo gli esseri
intelligenti operano in vista di un fine.
D’altro canto nella natura si nota che
spesso gli enti operano come se avessero
il fine di raggiungere una data perfezione.
Non essendo gli enti che operano in tal
modo intelligenti, sono evidentemente
mossi da un intelligenza che ordina la lor
esistenza .
Teoria della conoscenza
• Carattere astrattivo del processo di conoscenza. L'anima
non è le cose... nell'anima non c'è la pietra ma la specie
della pietra.
• La specie (eidos) è la forma della cosa.
• L'intelletto è una potenza ricettiva di tutte le forme
intelligibili, il senso delle forme sensibili.
• Cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis
(oggetto è nel soggetto conformemente alla natura del
conoscente)
• Conoscere è astrarre la forma dalla materia individuale,
la specie intellegibile dalle singole immagini sensibili
(fantasmi)
Teoria della conoscenza 2
• Il principium individuationis (ciò che determina il carattere proprio di ciascun
individuo) non è la materia comune ma la materia signata, cioè considerata
sotto determinate dimensioni.
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Realismo moderato degli universali: ante rem, nella mente divina, in re,
come forma delle cose, post rem, nell'intelletto.
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L'intelletto che astrae la forma è l'intelletto agente o attivo (per Averroè tale
intelletto, come luce sui colori, fa passare all'atto gli intellegibili).
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Unicità dell'intelletto per averroisti, contestata da Tommaso che pone tanti
intelletti quanti le anime
•
Processo astrazione garantisce la verità perchè garantisce che la specie
nell'intelletto è la forma stessa della cosa e che vi è corrispondenza
(adaequatio) tra la cosa e l'intelletto.
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Le cose sono la misura dell'intelletto giacchè esso si conforma alle cose
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Le cose naturali sono misurate dall'intelletto divino nel quale sussistono le
loro forme (come nell'artefice sono le forme delle cose artificiali)
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TOMMASO D`AQUINO