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HEURESIS
Alessandra Vaccari è ricercatore all’Università Iuav di Venezia
dove insegna Storia della moda e Storia e teoria della moda. Tra
i suoi libri: Vestire il Ventennio. Moda e cultura artistica in Italia
tra le due guerre (con S. Grandi, 2004), Wig Wag. Le bandiere
della moda (2005) e Una giornata moderna. Moda e stili
nell’Italia fascista (con M. Lupano, 2009).
ISBN 978-88-491-3725-5
€ 16,00
CB 5210
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LA MODA NEI DISCORSI DEI DESIGNER
Nonostante la grande attenzione mediatica ricevuta
dai fashion designer nel corso degli ultimi secoli, ciò
che hanno raccontato e scritto ha finora ottenuto
poca considerazione da parte degli studi sulla moda.
Il libro presenta dichiarazioni e testi di fashion designer, con l’obiettivo di commentarli criticamente e
contribuire alla comprensione della moda attraverso
una delle figure più affascinanti e discusse prodotte
dalla cultura occidentale di epoca contemporanea.
Jean-Philippe Worth, Rosa Genoni, Charles Creed,
Paul Poiret, Madeleine Vionnet, Elsa Schiaparelli,
Christian Dior, Emilio Pucci, Gianfranco Ferré,
Franco Moschino, Marc Jacobs, Alexander McQueen,
Bless e Bruno Pieters sono alcuni dei nomi coinvolti
in un dialogo ideale.
Il libro indaga il processo storico di definizione del
potere culturale dei designer e i loro ambiti progettuali, con particolare attenzione al lavoro creativo e
ai concetti di autorialità e storytelling. Il volume
esplora inoltre le interazioni dei fashion designer
con il sistema della moda, mostrando la vitalità del
dibattito interno e gli aspetti conflittuali.
ALESSANDRA VACCARI
ISSN 1723-8102
Arti, Musica,
Spettacolo
LA MODA
NEI DISCORSI
DEI DESIGNER
ALESSANDRA VACCARI
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alla mia famiglia
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Sezione di Arti, Musica, Spettacolo
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Alessandra Vaccari
La moda nei discorsi
dei designer
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© 2012 by CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate
nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5,
della legge 22 aprile 1941 n. 633.
Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail
[email protected] e sito web www.clearedi.org.
Il volume è pubblicato con il contributo di Alma Mater Studiorum
Università di Bologna - Polo scientifico-didattico di Rimini
Assistenza alla ricerca Silvia Galli
Consulenza alla realizzazione Gian Paolo Chiari
Vaccari, Alessandra
La moda nei discorsi dei designer / Alessandra Vaccari. – Bologna : CLUEB, 2012
177 p. ; 21 cm
(Heuresis. 13., Sez. di arti, musica, spettacolo, 10)
ISBN 978-88-491-3725-5
Progetto grafico di copertina: Oriano Sportelli (www.studionegativo.com)
In copertina: Chez Paul Poiret. Agenzia fotografica Meurisse, Parigi, 1935, Courtesy Bibliothèque nationale de France.
CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
40126 Bologna - Via Marsala 31
Tel. 051 220736 - Fax 051 237758
www.clueb.com
Finito di stampare nel mese di ottobre 2012
da Studio Rabbi - Bologna
Indice
Introduzione
7
I. Il discorso dei fashion designer
Il designer nella storiografia della moda
Il designer come storyteller
11
11
14
II. Il fashion designer
L’autobiografia professionale
Diventare fashion designer
Memoria e racconto di sé
Formazione
Autodisciplina e sacrificio
I colleghi
La crisi del fashion designer
19
23
30
30
35
44
46
53
III. La moda
Essere la moda
Essere alla moda
Stile
Firma
Designer Statement
Il processo del design
Ricerca e fonti
Tavolo da lavoro
Atelier e metodi partecipativi
Progettazione inversa
Gli esiti del progetto
Abiti
Collezioni
57
57
62
64
68
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74
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88
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91
100
IV. Il sistema della moda
Produzione
Etica
Copyright
105
106
106
117
CLUEB Editrice
6
Regole del gioco
Comunicazione
127
140
Conclusioni
155
Bibliografia
157
Indice analitico
173
Ringraziamenti
L’autrice desidera ringraziare tutte le persone che a vario titolo hanno
contribuito a questo lavoro e l’hanno reso possibile. Un ringraziamento
particolare va a Gian Paolo Chiari, Alessandra Citti, Maria Giuseppina
Muzzarelli e Dominique Revellino. Grazie a Mario Lupano per l’incoraggiamento e alla redazione della casa editrice Clueb di Bologna per la professionalità e la pazienza. Un grazie infine agli studenti dei corsi di laurea
in Culture e tecniche della moda dell’Università di Bologna e in Design
della moda dell’Università Iuav di Venezia per il continuo confronto e le
discussioni appassionanti.
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Introduzione
Il libro considera i fashion designer come una parte costitutiva della
cultura della moda di età contemporanea e s’interroga sul ruolo che
hanno avuto nel formarla. Attraverso le loro visioni, il libro evidenzia
uno dei paradossi centrali della moda occidentale, che ha costruito il
proprio sistema di senso a partire da una figura tanto esaltata da un
punto di vista mediatico, quanto svalutata da quello teorico. Nonostante
la grande attenzione mediatica ricevuta dai fashion designer nel corso
degli ultimi due secoli, o forse proprio in virtù di essa, ciò che hanno
detto, raccontato o scritto ha finora ottenuto poca considerazione da
parte degli studi sulla moda. È una discriminazione culturale, che emerge in modo chiaro dal confronto con ambiti come l’arte e l’architettura,
dove le parole di artisti e architetti hanno fornito un apporto fondamentale alle rispettive discipline, contribuendo al dibattito, alla storiografia
e allo sviluppo di una letteratura critica. Il libro si propone di superare
tale discriminazione e di contribuire alla comprensione una delle figure
più affascinanti e discusse prodotte dal sistema occidentale della moda
di epoca contemporanea. A questo scopo, nelle pagine che seguono
sono stati raccolti, organizzati e commentati criticamente brani tratti da
dichiarazioni e scritti di fashion designer dalla fine del XIX secolo fino
al presente e di area principalmente europea.
Il libro prende in esame non solo casi di celebri fashion designer considerati depositari della moda, ma anche testimonianze di chi lavora su
piccola scala, in modo molto distante da un’idea del fashion designer
come genio e celebrity, e in contesti geografici decentrati rispetto alle
tradizionali capitali della moda. L’obiettivo è di offrire un’alternativa
a un modello agiografico di storia della moda costruita sulla singolarità di alcune esperienze, celebrate per la loro eccezionalità e influenza.
L’autorevolezza culturale dei fashion designer si afferma dalla metà del
XIX secolo, periodo solitamente indicato come momento di nascita del
couturier. Dalla fine del XX secolo, si assiste a una progressiva perdita
di centralità mediatica della figura del fashion designer e a un ridimensionamento del suo ruolo all’interno della cultura della moda, sempre
più propensa a riconoscere pubblicamente i contributi creativi di stylist,
muse e gatekeeper. Riflettere sulla moda attraverso la chiave d’ingresso
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8
del fashion designer da un lato permette di capire come la perdita di
centralità ne ha cambiato lo status e l’immagine; dall’altro, si legittima
col fatto che tale figura continua a essere il perno su cui ruota il sistema
della moda e uno degli sbocchi professionali privilegiati offerto dai corsi di laurea e dalle scuole incentrate sulla moda.
I testi raccolti e organizzati criticamente nei quattro capitoli di cui il
libro si articola sono estratti da riviste, cataloghi di mostre, opuscoli di
conferenze, libri di metodi progettuali, testimonianze autobiografiche, e
anche diari di lavoro, dichiarazione pubblicate su social network, blog,
messaggi portati in passerella o scritti direttamente sui vestiti. Il primo
dei quattro capitoli che compongono il libro ha un carattere teorico ed
è dedicato all’approccio ai materiali presentati nei successivi tre, che
indagano rispettivamente il contributo del fashion designer alla definizione della loro identità professionale (Il designer); l’ambito creativo
in cui operano (La moda); e l’industria di cui fanno parte (Il sistema).
Il capitolo sul designer presenta testi autobiografici come quelli di
Charles Creed e di Jean-Philippe Worth, testimoni ed eredi delle due
leggendarie case di moda. Il capitolo si interroga sul modo in cui la
produzione di tali testi faccia parte del processo storico di definizione
della figura e del potere culturale dei designer. L’analisi dei racconti autobiografici rivela inoltre il modo in cui sono raccontate la formazione
e le tappe fondamentali di una carriera professionale, comprendendo
assistenti, maestri ed eredi e facendo luce sull’ambiente creativo in cui
i fashion designer hanno operato.
Il capitolo dedicato alla moda indaga le visioni dei designer in termini di azione progettuale e con particolare attenzione agli strumenti e
all’organizzazione del lavoro creativo. Sempre partendo dalla prospettiva dei designer, il capitolo analizza anche i concetti di autorialità, stile
e “essere alla moda”. Esamina inoltre le modalità di espressione delle
poetiche e le riflessioni sugli abiti e sulle collezioni da parte di chi ne è
riconosciuto come autore.
L’ultimo capitolo considera le interazioni dei fashion designer con
il sistema della moda. Partendo dalla specificità dei discorsi rispetto ai
temi della produzione e della comunicazione, il capitolo considera il
ruolo giocato dai designer nella costruzione e trasformazione del sistema, soffermandosi sugli aspetti conflittuali e sulle forme di autocritica.
Particolare attenzione è data alla ricerca in ambito creativo; alle metodologie di progettazione; all’autorialità; alla dimensione pubblica e
politica del designer.
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Ciascuno dei capitoli successivi al primo ha un testo introduttivo ed
è articolato in sottocapitoli che contengono parti di dichiarazioni e testi
presentati in forma di citazione diretta. Le citazioni sono sistemate nel
libro seguendo un ordine concettuale piuttosto che cronologico e sono
contestualizzate storicamente e montate tra loro evidenziando i nessi e
discutendo i passaggi tra i diversi testi. Le citazioni sono state lasciate, per quanto possibile, nella loro lingua originale; i brevi riferimenti
teorici ad autori stranieri sono stati invece tradotti, riportando il testo
originale in nota.
Nei brani citati si intrecciano, a seconda dell’epoca e del luogo, le
espressioni di couturier, creatore di moda, sarto d’alta moda, stilista, direttore creativo e fashion designer. Quest’ultimo termine è stato scelto
in questo libro per il suo essere convenzionalmente accettato in questi
anni, nonostante gli evidenti limiti che esso presenta a livello storiografico e di genere. Nel primo caso, il termine non restituisce le sfumature
di senso che connotano storicamente ciascuna espressione; nel secondo,
l’uso generico non comporta distinzioni di genere, con le implicazioni
socio-culturali che ne conseguono. Inoltre, la parola design sottende
l’idea che la moda sia più vincolata ad aspetti industriali e commerciali,
mentre in altri ambiti – ad esempio la scultura o l’architettura – non c’è
bisogno di aggiungere la parola design.1 Per questa ragione nel libro
non è mai usata l’espressione fashion design, preferendo a essa la dizione italiana moda per la sua maggiore apertura alla dimensione culturale
del fenomeno che qui interessa mantenere.
La prospettiva dei fashion designer può essere utile a capire i processi del design, i metodi di lavoro nel campo dell’industria della moda,
non tanto le intenzioni e il contesto. Non si tratta di fare l’esegesi dei
fashion designer interpretando ciò che hanno voluto dire, ma di cominciare a riflettere su che tipo di materiale si ha e in che modo può essere
utilizzato con qualche utilità a livello di studio della moda e della sua
storia. Attraversando un secolo e mezzo di questa professione e dei suoi
sviluppi in Europa nel corso del XIX secolo, il libro si propone come
ausilio a chi è interessato alla comprensione del passato della moda e a
interpretare i cambiamenti in atto.
Se, come dice Penny Sparke, “il design è sia uno specchio del vente-
1
Cfr. Malcolm Barnard, Fashion as Communication, London-New York, Routledge,
20022, p. 28.
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10
simo secolo, sia un agente interno del cambiamento”2 perché non ascoltare i designer quando ce lo raccontano?
2
Penny Sparke, An Introduction to Design and Culture in the Twentieth Century, New
York, Harper & Row, 1986, p. 205. “design is both a mirror of, and an agent of change
within, twentieth-century culture”. [Tutte le traduzioni dei brani citati sono dell’autrice].
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I. Il discorso dei fashion designer
Il designer nella storiografia della moda
Gli studi sulla moda riconoscono un ruolo fortemente limitato i discorsi dei fashion designer e al contributo che designer stessi hanno dato
sul piano storiografico e critico. Per esempio sfogliando gli indici della
rivista accademica Fashion Theory – relativi al suo primo decennio di
attività 1997-2006 – ci si accorge dello spazio quasi inesistente dato
direttamente alle riflessioni dei fashion designer.3 Anche l’antologia in
quattro volumi curata da Peter McNeil, dedicata alla critica della moda
e alle sue fonti primarie, non dà spazio a testi che esprimono direttamente il punto di vista dei fashion designer.4 Sempre in ambito storico,
il libro di Lou Taylor dedicato alle fonti riconosce un valore ai discorsi
dei designer solo quando sono testimonianze dirette e non rimaneggiate
successivamente.5 La rivista di storia Costume accetta anche di pubblicare memorie di fashion designer basate su testi autobiografici, privilegiando casi poco noti e aspetti emarginati dalla storiografia ufficiale.
Per le scienze sociali le parole dei fashion designer possono essere usate solo quando sono raccolte sul campo.
Come si è accennato nell’introduzione, in altri ambiti della produzione
culturale, l’artista, l’architetto, il regista hanno dato un apporto sostanziale
– anche attraverso il loro lavoro di scrittura e riflessione teorica – alla
messa a fuoco di temi centrali del dibattito interno alla disciplina,
contribuendo alla formazione di una letteratura e di una storiografia.
La moda contemporanea, invece, è un sistema centrato sul design,
ma che tende a escludere il designer dal piano della riflessione storica.
Nella moda, la funzione riconosciuta ai testi pubblicati dai fashion designer è di essere promozionale per i designer stessi, le loro collezioni e il loro marchio. Questa lettura è accettata sia dall’industria della
3
Hazel Clark (a cura di), “Index”, Fashion Theory, X, n. 4 dicembre 2006, pp.
485-629.
4
Cfr. Peter McNeil (a cura di), Fashion: Critical and Primary Sources, voll. III-IV,
Oxford-New York, Berg, 2009.
5
Lou Taylor, The Study of Dress History, Manchester, Manchester University Press,
2002, p. 252.
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moda, sia dagli studi sulla moda ed è forse per questo motivo che i testi
dei designer sono stati trascurati, accusati di arbitrarietà, inautenticità e
tono agiografico. Tutto questo ha finito per influire negativamente sulla
possibilità di utilizzarli come fonti storiche.
Un’ipotesi che potrebbe spiegare la scarsa attenzione critica ai
discorsi dei fashion designer è il fastidio generato dall’uso descrittivo
e celebrativo che in passato la storia della moda ha fatto delle loro
autobiografie e testimonianze, mutuandolo dalle vite degli artisti e dei
personaggi celebri.
Un’altra ipotesi è rappresentata dalla progressiva “svalutazione” delle parole nell’industria della moda rispetto alle immagini. E di questa svalutazione i designer sarebbero complici proprio grazie alla loro
straordinaria risonanza mediatica, soprattutto nell’ultimo secolo. Infine,
pesa il fatto che gli ambiti in cui il designer si riconosce sono oggetto
di una disciplina accademica ancora in via di definizione. È l’effetto
“The ‘F’ Word” di cui scrive provocatoriamente Valerie Steele in un suo
articolo del 1991 per denunciare i pregiudizi del mondo accademico nei
confronti della moda.6 Nel sistema universitario italiano, ad esempio,
la moda non è contemplata tra i settori scientifico-disciplinari. E anche
a livello europeo la moda non compare tra le linee d’intervento della
ricerca scientifica.
C’è però una nuova apertura che si è creata negli ultimi dieci anni,
di pari passo con la sempre maggiore attenzione alla moda nei suoi
processi endogeni e non più solo all’analisi delle sue manifestazioni.
Questo nuovo clima internazionale può influire positivamente sulla
considerazione critica dei discorsi dei fashion designer. Un loro programmatico coinvolgimento compare tra le motivazioni che hanno portato alla fondazione della rivista Fashion Practice, progetto avviato nel
2009 e diretto da Sandy Black del London College of Fashion e da
Marilyn DeLong del College of Design, University of Minnesota. Nello
stesso anno, la Design History Society inglese ha dedicato un convegno
al tema dello scrivere il design, per riflettere sul modo in cui la scrittura – non solo quella dei designer – abbia influito sulla comprensione e
interpretazione del design in ambito educativo, storiografico, critico e
6
Valerie Steele, “The ‘F’ Word”, Lingua Franca, aprile 1991, pp. 16-20. Cit. in Joanne
B. Eicher, Kim K. P. Johnson, Susan J. Torntore (a cura di), Fashion Foundations: Early
Writings on Fashion and Dress, Oxford-New York, Berg, 2003, p. 91.
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sulla pratica professionale.7 Un contributo teorico al superamento della
superficialità con cui i testi dei fashion designer sono stati considerati
viene anche dal recente dibattito sul rapporto tra moda e fiction.8 In
Italia risale al 2000 il pionieristico Cartamodello, libro in cui Paola
Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo fanno dialogare, come in un collage, testi di poeti, romanzieri e saggisti con testi di fashion designer
e produttori d’abbigliamento.9 Sempre in Italia il convegno Fashion
Tales realizzato a Milano nel 2012 ha esplorato le diverse forme di riflessività della moda corrispondenti a diverse narrative, distinguendo
sul piano analitico il discorso della produzione con le sue implicazioni
materiali da quelli della comunicazione, della promozione e degli studi
sulla moda.10 Infine, le mostre di moda di grande richiamo organizzate
dai musei internazionali hanno iniziato a lavorare sulle narrative dei
fashion designer. Nel 2009, in occasione della mostra di Parigi Madeleine Vionnet, puriste de la mode, Pamela Golbin ha pubblicato in
catalogo una “intervista immaginaria”, facendo un montaggio tematico
di una serie di documenti e dichiarazioni di Vionnet.11 Nel 2012, la mostra di New York Schiaparelli and Prada: Impossible Conversations è
stata costruita a partire da un lavoro di montaggio di citazioni dirette
dall’autobiografia di Schiaparelli e da Prada.12
Il contrasto rilevato tra la visibilià dei fashion designer in termini di
rappresentazione e la loro discriminazione a livello culturale è stato
un punto di partenza e uno stimolo costante durante l’elaborazione di
7
Grace Lees-Maffei, Jessica Kelly (a cura di), Writing Design: Object, Process, Discourse, Translation, Conference booklet, The Design History Society Annual Conference, 2009. [The Design History Society Annual Conference, de Havilland Campus,
University of Hertfordshire, 3-5 September, 2009].
8
Cfr. Aileen Ribeiro, Fashion and Fiction: Dress in Art and Literature in Stuart England, New Haven-London, Yale University Press, 2005. Catherine Cole, Vicki Karaminas, Peter McNeil (a cura di), Fashion in Fiction: Text and Clothing in Literature, Film
and Television, Oxford-New York, Berg, 2009.
9
Paola Colaiacomo, Vittoria C. Caratozzolo (a cura di), Cartamodello: antologia di
scrittori e scritture sulla moda, Milano, Sossella, 2000.
10
Centro per lo studio della moda e della produzione culturale, Fashion Tales, [convegno internazionale], Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 7-9 giugno 2012.
11
Pamela Golbin, “Interview imaginaire de Madeleine Vionnet”, in Id. (a cura di),
Madeleine Vionnet: puriste de la mode, Paris, Les Arts Décoratifs, 2009, p. 19. [Catalogo della mostra di Parigi, Les Arts Décoratifs, 24 giugno 2009-31 gennaio 2010].
12
Harold Koda, Andrew Bolton, Schiaparelli and Prada: Impossible Conversations,
London-New Haven, Yale University Press, 2012 [Catalogo della mostra di New York,
The Metropolitan Museum of Art, 10 maggio-19 agosto 2012].
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14
Hard chic. Doppia pagina del libro Schiaparelli and Prada: Impossible
Conversations, pubblicato in occasione della mostra di New York, The Metropolitan
Museum of Art, 10 maggio-19 agosto 2012. Foto Alessandra Vaccari.
questo studio. Il lavoro di analisi ha tenuto conto di alcune indicazioni
di metodo provenienti dal lavoro di Caroline Evans, in particolare l’idea di prestare attenzione agli aspetti invisibili della storia della moda
e di contribuire a illuminare le pratiche di cui si è persa coscienza
storica e sociale.13
Il designer come storyteller
La letteratura prodotta dai fashion designer è abbondante e comprende autobiografie, interviste, testi di conferenze, testimonianze, dichiarazioni di poetica, indicazioni di metodo, scrapbooks e diari. Esempi
13
Caroline Evans, The Modernist Body. Mechanization, Motion and the Missing Part,
testo della conferenza, University of the Arts London, Professional Platform 2012 (Londra 6 marzo 2012); Id., The Mechanical Smile: Modernism and the First Fashion Shows
in France and America, 1900-1929, London-New Haven, Yale University Press, [in corso di stampa].
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15
celebri sono le autobiografie di Paul Poiret e di Elsa Schiaparelli; le
conferenze di Christian Dior alla Sorbona di Parigi; i diari di Ossie
Clark in cui le parole formano un tessuto colorato come nella poesia
visiva;14 e le interviste a Yohji Yamamoto (1943-) nel film-documentario di Wim Wenders Notebook on Cities and Clothes (Appunti di viaggio su moda e città) del 1989.
La produzione di libri firmati da designer si sviluppa all’inizio del XX
secolo come parte dell’industria culturale. I creatori di moda riflettono
su argomenti che vanno dall’estetica ai vari aspetti della loro attività, passando per tematiche sociali, politica e questione femminile. Un
esempio è rappresentato dall’italiana Rosa Genoni e dai suoi interventi
relativi al dibattito sull’identità nazionale della moda e sul femminismo, come nel testo Per una moda italiana. Relazione al 1. congresso
nazionale delle donne italiane in Roma del 1908.15 Di fronte a tanta
varietà e abbondanza di materiali, la prima domanda è capire quali sono
i modelli culturali cui si ispirano questi testi, come affrontarli e quale
apporto possono dare allo studio della moda, intesa in una pluralità di
significati che vanno dal sistema socio-economico a quello di fenomeno creativo della contemporaneità.
In un saggio del 1936 il filosofo Walter Benjamin parla di storytelling
come di “comunicabilità dell’esperienza”16 ricevuta collettivamente. Le
esperienze che lo storyteller racconta possono essere vere o inventate,
proprie o di altri, ma tendono sempre a coinvolgere da un punto di vista
emotivo chi le ascolta. I fashion designer, con le loro dichiarazioni, interviste e scritti autobiografici, raccontano la storia della moda, dando voce
alle sue narrative. Le storie dei designer parlano di disegni, abiti, idee,
modelle, campagne pubblicitarie e aspetti legati alla loro identità. Nella
cultura della moda contemporanea, la capacità di raccontare le proprie
idee e di sapere presentare un progetto sono considerate così importanti
da essere entrate come elementi costitutivi nella formazione dei designer.
Secondo l’interaction designer americano Thomas Erickson, tutti i
designer hanno una collezione di storie alle quali attingere. Questo re14
Cfr. Ossie Clark, The Ossie Clark Diaries, edizione a cura di Henrietta Rous, London, Bloomsbury, 1998.
15
Rosa Genoni, Per una moda italiana. Relazione al 1. congresso nazionale delle
donne italiane in Roma (sezione letteratura ed arte) della signora Rosa Genoni delegata
della Società Umanitaria di Milano, Milano, Balzaretti, 1908.
16
Walter Benjamin, “Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov”, [1936]
in Id., Angelus novus, Torino, Einaudi, 1962, p. 250.
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16
pertorio si costruisce e sedimenta nel corso di anni. Le storie sono strumenti molto potenti e possono essere usate “per generare discussione,
informare e persuadere”.17 Se tali storie sono escluse dall’ambito della
riflessione teorica è perché, secondo Erickson, “non sono molto rispettabili. Le storie sono soggettive. Le storie sono ambigue. Le storie sono
particolari. Non vanno d’accordo con la tensione della scienza verso
dati oggettivi, generalizzabili e ripetibili. Nonostante questo – o […] in
parte proprio per questo – le storie hanno un grande valore”.18
Il fashion designer e artista serbo Bogomir Doringer (1983-) definisce
se stesso come “storyteller of ‘unwanted stories’”.19 L’approccio dello
storytelling permette di considerare le molteplici storie utilizzate dai
fashion designer come strumento di progettazione e per Joseph Henry
Hancock II crea connessioni al prodotto.20
L’arte dello storytelling non è solo un metodo al servizio delle aziende per la creazione della pubblicità, ma è anche parte del processo del
design ed è basato sul coinvolgimento. Nello storytelling l’attenzione
non è sul discrimine tra esperienza reale o immaginaria, consentendo la
possibilità che dietro un’intervista ci sia il lavoro di un ufficio stampa,
dietro un’autobiografia un ghostwriter e che dietro una monografia un
lavoro editoriale, spesso in forma anonima.
C’è una componente autobiografica nello storytelling perché l’accento è posto sempre sul soggetto che racconta, ma tratta di un “designer” la cui individualità può essere sfumata e che a volte si confonde
con l’identità del marchio. Come spiega la storica della moda Rebecca
Arnold, facendo riferimento al sistema della moda occidentale, “l’attenzione all’individuo è anche un efficace strumento promozionale, in
quanto mette in rilievo l’identità di un marchio di moda e, proprio letteralmente, fornisce una ‘faccia’ alla casa di moda”.21
17
Thomas Erickson, “Design as Storytelling”, Interactions, III, n. 4 luglio-agosto
1996. Url: http://www.pliant.org/personal/TomErickson/Storytelling.html [ultimo accesso: 16 maggio 2012]. “to generate discussion, to inform, to persuade”.
18
Ibidem “stories aren’t very respectable. Stories are subjective. “Stories are ambiguous. Stories are particular. They are at odds with the scientific drive towards objective,
generalizable, repeatable findings. In spite of this—or […] in part because of this—stories are of great value to the interaction designer”.
19
Bogomir Doringer. Url: http://bogomirdoringer.info/about/ [ultimo accesso: 12
settembre 2012].
20
Cfr. Joseph Henry Hancock II, “Branding and Storytelling”, in Peter McNeil, Vicki
Karaminas, Catherine Cole (a cura di), Fashion and Fiction, cit., p. 99.
21
Rebecca Arnold, Fashion: A Very Short Introduction, Oxford-New York, Oxford
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Il libro considera i discorsi dei designer sia come fonte, con l’obiettivo di coinvolgere nella riflessione storica le pratiche della moda, a lungo trascurate; sia come rappresentazione, per capire come nella moda la
distanza critica sia sempre messa alla prova.22 Se, come qui si propone,
la moda serve a comprendere le cose e il mondo – dove comprendere significa capire e, attraverso un rapporto empatico, fare proprio un
cambiamento di percezione e sensibilità – in tale processo la figura del
designer svolge un ruolo chiave.
University Press, 2009, p. 18. “focus on the individual is also a successful promotional
tool, as it gives a focus for the identity of a fashion label, and quite literally, provides a
“face” for the design house”.
22
Cfr. Sohia Errey, “Novelist as Stylist, Designer as Storyteller”, in Peter McNeil,
Vicki Karaminas, Catherine Cole (a cura di), Fashion and Fiction, cit., pp. 45-53.
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