Aniello Montano
SPINOZA E I FILOSOFI
Le Lettere
Aniello Montano
SPINOZA E I FILOSOFI
Le Lettere
INDICE GENERALE
Premessa di Francesco Piro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p.
7
I. Dal conflitto all’ordine. Annotazioni su «stato di natura»
e genesi della società in Hobbes e Spinoza . . . . . . . . . . . »
15
II. Il “fascino insidioso” di Spinoza nella Napoli tra
Seicento e Settecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
45
III. Hegel lettore di Spinoza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
75
IV. La rosa di Gerico. Spinoza nella lettura di
Giuseppe Rensi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
99
V. Sartre e Spinoza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 141
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 159
II
IL “FASCINO INSIDIOSO” DI SPINOZA
NELLA NAPOLI TRA SEICENTO E SETTECENTO
La cultura napoletana della seconda metà del Seicento, come annota Pietro Piovani, è «eclettica anche per l’onnivalente (e onnivora) volontà sua di sapere, di informarsi», e «dà luogo ad una speculazione chiaramente e polemicamente orientata, dominata da un
concetto unitario accomunante […]. Tale concetto è il concetto di
esperienza o raggiunto o cercato con animosa costanza dalla nuova
speculazione, che tutta si colora di questo sperimentalismo che la
caratterizza e perciò la spiega nella sua individualità essenziale, riconosciuta omogenea anche nelle eterogenee conoscenze in cui spesso
si sfrangia»1. Il mondo da descrivere e da capire per questa cultura
«è il mondo dell’esperienza intesa come complesso di “cose” reali,
che sono umane anche nel loro puro essere naturale, in quanto appartengono alla sola dimensione ritenuta controllabile criticamente dalla riflessione dell’uomo»2. Di qui, l’attenzione per la filosofia
naturale da parte di Tommaso Cornelio, di Leonardo Di Capua, di
Lucantonio Porzio; l’attenzione per il neo-democritismo, per il neoepicureismo, per il neo-lucrezianesimo, per il gassendismo, per l’atomismo in genere, seppure non assunto come «metafisica della materia» ma come «l’ipotesi più vicina alla comprensione di questa»3.
1
P. PIOVANI, Il pensiero filosofico meridionale tra la nuova scienza e la “Scienza nuova”, «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli», LXX
(1959), pp. 77-109, ora in ID., La filosofia nuova di Vico, a cura di F. TESSITORE,
Napoli 1990, p. 21. La considerazione critica di Piovani utilizza e sviluppa una tesi
di B. DE GIOVANNI, Filosofia e diritto in Francesco D’Andrea. Contributo alla storia
del previchismo, Milano 1958.
2
Ibidem.
3
Ivi, p. 24.
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SPINOZA E I FILOSOFI
E di qui, anche l’accoglimento della filosofia cartesiana «specialmente come metodologia, non come nuova metafisica»4. La visione cartesiana del mondo inteso come «meccanismo», come gioco
di parti dell’inerte materia estesa reciprocamente condizionantisi
secondo leggi puramente matematiche, si scontra e si lascia permeare dalla tradizione vitalistica, animistica, del pensiero meridionale: vitalismo rivendicante un moto interno alle cose stesse, che
non si aggiunge alla materia ma che ne è elemento strutturante. Si
pensi soltanto ai concetti di Vita-materia infinita di Bruno o di animazione universale di Campanella, o di simpatia di Della Porta, ai
quali, a partire dagli anni Ottanta del Seicento, si affianca il monismo sostanzialistico di Spinoza, per il quale pensiero ed estensione
sono attributi dell’unica sostanza. La cultura scientifica napoletana
di fine Seicento sembra slittare da un cartesianesimo rigoroso verso un naturalismo di antica tradizione, ma abbastanza vicino allo
spinozismo5.
L’attenzione degli intellettuali napoletani di fine Seicento, inoltre, si concentra anche sulla cultura giuridica. Desiderosi di sostituire l’aristocrazia nelle alte cariche dello Stato, questi intellettuali
si propongono «di usare, come elementi di distinzione sociale, le
cognizioni giuridiche e gli interessi culturali»6. A tal fine si aggiornano. Studiano e commentano le opere più recenti dei filosofi politici europei. Grozio, Bodin, Hotman, insieme ai «teologi» Molina, Mariana, Suarez, vengono utilizzati da Francesco D’Andrea,
negli anni ’60 del Seicento, per difendere la tesi della necessità
del rispetto del diritto delle genti contro «il diritto della forza»7.
Nel 1680, i tre libri del De iure belli ac pacis di Ugo Grozio, appena ripubblicati in Olanda, vengono diffusi e studiati a Napoli. E
contemporaneamente viene letto e commentato il De iure naturae
gentium, di Samuel Pufendorf 8. Le Disceptationes forenses di GiuIbidem.
Cfr. B. DE GIOVANNI, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del 600 e la
restaurazione del Regno, in Storia di Napoli, vol. VI, t. I, Napoli 1970, p. 413.
6
S. MASTELLONE, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà
del Seicento, Messina-Firenze 1965, p. 31.
7
Cfr. ivi, pp. 40-43. L’opera del D’Andrea è la Risposta al trattato delle ragioni
della Regina cristianissima, pubblicata anonima nel 1667 e, con l’indicazione del
nome dell’autore e alcune aggiunte, nel 1676.
8
Cfr. S. MASTELLONE, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda
metà del Seicento, cit., p. 48.
4
5
IL “FASCINO INSIDIOSO” DI SPINOZA
47
seppe Valletta, pubblicate nel 1682, utilizzano, citandolo esplicitamente, il De iure belli ac pacis di Grozio per rivendicare il diritto
di natura contro i privilegi baronali e contro la giustizia ecclesiastica. Antifeudalesimo e anticurialismo si alimentavano della stessa
linfa culturale.
Questa grande apertura della cultura napoletana alle nuove idee
provenienti dall’Europa era frutto e fomite di un forte desiderio
di libertà, soprattutto di una concreta libertas philosophandi. Da
questo desiderio nasceva l’interesse per gran parte di quella cultura europea considerata ostile e antireligiosa dalla Chiesa. Un
documento esplicito ed esemplare di questo interesse è il Parere
di Leonardo Di Capua9. Redatto nel 1681, il Parere non poté essere subito pubblicato per l’ostilità delle autorità ecclesiastiche.
Il Di Capua dichiarava troppo apertamente di condividere le
idee dei moderni «filosofanti», come Copernico e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone e Cartesio, Gassendi e Boyle, il «dottissimo
Obbes» ed Epicuro. Questi autori, insieme a Telesio, a Campanella, a Della Porta, a Colantonio Stigliola e ai componenti la recente
«Accademia degli Investiganti», come Lucantonio Porzio, Tommaso Cornelio, Francesco e Gennaro D’Andrea, erano ammirati
ed esaltati per aver sostenuto, i primi, e per sostenere ancora, i secondi, «la filosofica libertà» e per aver fronteggiato, da «sagaci interpreti della natura», «i maggiori tiranni della filosofia che quella
aveano a vile e a durissimo servaggio miseramente condotta»10. Di
Capua insiste sulla necessità di «sostener la filosofica libertà» esaltando anche «i filosofanti d’Olanda», perché hanno saputo «giudicar liberamente e secondo ragione la verità delle cose»11. Non sappiamo se tra i «filosofanti d’Olanda» possa essere incluso anche
Spinoza, per aver sentito la difesa della «libertas philosophandi»
nel Trattato teologico-politico come stimolo primo e fine ultimo.
D’altronde è noto che a Napoli Spinoza e la sua opera sono ben
conosciuti negli anni Ottanta del Seicento. Sono gli anni in cui,
grazie alla vivacità culturale dell’«Accademia degli Investiganti» e
L. DI CAPUA, Parere divisato in otto ragionamenti nei quali partitamente narrandosi l’origine e il progresso della medicina chiaramente l’incertezza della medicina
si fa manifesta, Napoli 1689.
10
Cfr. ivi, pp. 34, 50, 58, 379-381.
11
Ivi, pp. 57, 59.
9
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SPINOZA E I FILOSOFI
al riavvicinamento politico della Spagna all’Inghilterra, alle Province Unite e ai principi tedeschi, gli scambi culturali e la circolazione dei libri sono favoriti e assai frequenti. Gli intellettuali napoletani seguono direttamente le novità culturali europee leggendo
le «Nouvelles de la Repubblique des lettres», pubblicate ad Amsterdam dal 1684 dal Bayle e gli «Acta eruditorum» pubblicati a
Lipsia a partire dal 1682. Nel volume del 1690 degli «Acta», ad
esempio, i cultori napoletani di filosofia possono leggere una recensione a uno scritto polemico di Christophorus Wittichius contro l’Ethica di Spinoza12.
A far conoscere il filosofo olandese in Italia, però, era stato Niels Stensen, che già prima della pubblicazione del Trattato
teologico-politico era entrato in familiarità con Spinoza. Familiarità non trasformatasi in condivisione di idee, tanto che, alla
comparsa anonima del Trattato, nel 1670, Stensen è fortemente colpito dalla radicalità delle tesi ivi sostenute e in una lettera
al filosofo, comunemente ritenuto l’autore del libro, rappresenta
tutta la sua amarezza e mette in essere un tentativo di conversione del filosofo. Non avendo ottenuto risposta, alcuni anni dopo,
nel 1675, Stensen, ormai stabilmente residente nel nostro Paese, rende pubblica la lettera, dando inizio di fatto alla letteratura
critica sulla filosofia spinoziana in Italia13. Nella lettera, Stensen
evidenzia come nel Trattato teologico-politico si consenta «a tutti
di pensare e di dire di Dio ciò che vogliono, purché non sia contrario all’obbedienza che è dovuta, […], non tanto a Dio quanto
agli uomini: il che equivale a ridurre tutto il bene dell’uomo alla
12
C. WITTICHIUS, Anti-Spinoza, 1690, in cui l’autore, pur condividendo le critiche spinoziane alla concezione antropomorfica di Dio e pur sostenendo la perfetta
coincidenza in Dio di intelletto e volontà, considera il mondo finito, imperfetto,
distinto da Dio e da lui dipendente, cfr. P. D I VONA, Baruch Spinoza, Firenze 1975;
S. MASTELLONE, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del
Seicento, cit., pp. 95-99.
13
La lettera è la LXVII bis dell’Epistolario di Spinoza (a cura di A. DROETTO,
Torino 1974) e fu pubblicata nel «Giornale de’ letterati per tutto l’anno 1676»,
Roma 1676, pp. 144-145. Nella lettera Stensen mira a confutare il Trattato teologico-politico con l’obiettivo di convertire il filosofo alla religione cattolica cui lo
Stensen aveva già aderito nel 1667. Cfr. E. BOSCHERINI GIANCOTTI, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, «Giornale Critico della Filosofia Italiana»,
terza serie, vol. XVII, a. XLII, pp. 339-362, ora in E. GIANCOTTI, Studi su Hobbes e
Spinoza, Napoli 1995, pp. 19-55.
IL “FASCINO INSIDIOSO” DI SPINOZA
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bontà del governo civile, ossia al benessere materiale»14. La critica è rivolta proprio al principio civile della tolleranza religiosa e,
di converso, alla negazione dell’«autorità [dovuta] al pontefice»15,
al modo di trattare la «materia in movimento come se la causa di
esso fosse lontana o non esistesse affatto»16, al metodo che privilegia la certezza dimostrativa contro la «certezza della fede che
supera ogni dimostrazione»17. Con queste osservazioni Stensen
sembra fissare i punti centrali sui quali si svilupperà la polemica
antispinoziana lungo tutto il Settecento, gli stessi però che, seppure sotterraneamente, eserciteranno un certo fascino su non pochi
pensatori di questo periodo.
La stessa impressione assai negativa il libro di Spinoza aveva
suscitato in Giovanni Giorgio Graevius, il quale il 12 aprile del
1671 scriveva a Leibniz: «È uscito l’anno scorso un libro pestifero,
dal titolo Discorso teologico-politico, che, seguendo la stessa via di
Hobbes, ma andando assai oltre, propone un diritto naturale del
tutto ingiusto e, disprezzando l’autorità dei Libri Sacri, apre largamente la via all’ateismo»18. Graevius era corrispondente di Antonio Magliabechi, possessore anch’egli di una copia del Trattato19,
14
Epistola di Nicola Stensen sulla vera filosofia al Riformatore della Nuova Filosofia, in B. SPINOZA, Epistolario, cit., p. 275.
15
Ivi, p. 279.
16
Ivi, p. 280.
17
Ivi, p. 281.
18
Citato dalla Introduzione di DROETTO a B. SPINOZA, Epistolario, cit., p. 30.
Lo stesso giudizio assai negativo dal punto di vista della religione era stato dato il
24 gennaio del 1671 in una lettera, che è una vera e propria recensione del Trattato
di Spinoza, di Lamberto von Velthuysen diretta a Giacomo Ostens (Lettera XLII
dell’Epistolario, cit., pp. 197-210, l’espressione citata è a p. 210). In questa lettera,
Velthuysen, che era al pari di Stensen corrispondente di Spinoza, non esita a parlare delle idee di Spinoza come di un «merum atheismum», uno schietto ateismo.
L’accusa di ateismo nei confronti di Spinoza trovava la sua fonte primaria nel testo
dello herem (bando dalla comunità israelitica) pronunciato contro il filosofo dal
Mahamad (il Comitato disciplinare) della Comunità israelitica portoghese di Amsterdam il 27 luglio 1656.
19
Cfr. E. GIANCOTTI, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia,
in ID., Studi su Hobbes e Spinoza, cit., p. 23. L’abate Magliabechi era l’artefice primo della circolazione clandestina delle opere di Spinoza in Italia, fino al punto di
mandarle «nel ’97 a Venezia all’abate Fardella sotto la tonaca di un camaldolese»
(E. GARIN, Da Campanella a Vico, in ID., Dal Rinascimento all’Illuminismo, Firenze
1993, pp. 73-106, la citazione è tolta da p. 100; nella stessa pagina si veda la nota 46
con l’indicazione delle fonti relative alla circolazione di Spinoza in Italia).
50
SPINOZA E I FILOSOFI
e di un nutrito gruppo di eruditi napoletani20. Qualche anno dopo
aver espresso questo giudizio, Graevius venne in Italia dove, per
interessamento del cardinale Leopoldo de’ Medici e del Magliabechi, fu nominato professore di greco all’Università di Pisa21. Nello
stesso scorcio di tempo, dunque, due intellettuali europei, lettori
e critici delle opere di Spinoza, vivono in Italia ed hanno modo
di discutere e, quindi, di far circolare le idee del filosofo olandese. Stensen e Graevius, inoltre, muovono a Spinoza la stessa accusa di essere fautore dell’ateismo e di una perniciosa visione della
politica.
Sarà questa immagine di Spinoza a circolare nell’Italia cattolica
e nell’Europa riformata e a presentarlo con una carica più fortemente negativa di quella riferita a Democrito, a Epicuro e a
Hobbes, insieme ai quali solitamente è citato, e a costringere anche chi accoglierà alcune delle sue idee a tacerne il nome o a utilizzarle cripticamente, criticando, invece, apertamente il loro autore e le sue dottrine. Per questo motivo, anche da parte di chi
continuava a difendere Democrito, Epicuro, Gassendi, e celebrava
Cartesio, autori, questi, tutti attaccati con grande energia polemica dal gesuita Giovan Battista de Benedictis22, veniva condannata
con forza la dottrina di Spinoza. È il caso, ad esempio, di Giusep20
Su questo primo impatto della filosofia spinoziana con la cultura italiana e
sul ruolo di Magliabechi nel diffondere, contro Stensen e Graevius, l’immagine di
Spinoza come difensore della libertas philosophandi, cfr. C. SANTINELLI, Appunti
sulla fortuna dello spinozismo in Italia, «Studi Urbinati», B, LXV, 1992, pp. 67-109,
in particolare pp. 71-72.
21
Cfr. S. MASTELLONE, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda
metà del Seicento, cit., p. 182.
22
Sotto il nome di Benedetto Aletino, il de Benedictis aveva pubblicato un’opera in difesa della teologia scolastica in cui attaccava violentemente tutta la cultura
«moderna» europea, da Gassendi a Boyle a Cartesio fino a Leonardo Di Capua,
oltre ovviamente i teorici delle religioni riformate, come Lutero, Melantone e Calvino, e gli eretici, come Giansenio: Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco Spinelli, principe
di Tarsia, Napoli 1694. All’Aletino rispose Costantino Grimaldi con tre scritti: Risposta alla Lettera apologetica della Teologia Scolastica di Benedetto Aletino, Colonia
1699; Risposta alla seconda Lettera Apologetica, Colonia 1702; Risposta alla terza
Lettera Apologetica Contra il Cartesio creduto da più d’Aristotele di Benedetto Aletino, Colonia 1703. Aletino rispose soltanto al terzo di questi scritti con la Difesa
della Terza Lettera Apologetica di Benedetto Aletino, Roma 1705, in cui insieme a
Cartesio è attaccato anche Spinoza per aver abusato degli insegnamenti del filosofo
IL “FASCINO INSIDIOSO” DI SPINOZA
51
pe Valletta. Tra i più colti avvocati di Napoli, corrispondente di
molti dotti europei, amico personale dello Shaftesbury23, tramite il
quale è in contatto con la Royal Society, possessore di una biblioteca di 18.000 volumi, il Valletta risponde alle accuse mosse dal
de Benedictis alla cultura «moderna» con una Historia filosofica.
Concepita tra il 1694 e il 1704, l’opera vede la luce soltanto nel
1716. In essa si tenta di difendere l’atomismo moderno collegandolo con l’antica dottrina pitagorica dei numeri, intesi come entità
estese, cioè calculi. Gli atomisti, da Democrito ad Epicuro fino a
Platone (del quale si afferma che «bevve il latte della Sapienza da’
medesimi fonti di Democrito e di Epicuro» e che «né altro che
Atomista esser potea un uomo tanto seguace ed innamorato, per
così dire, di Pitagora, che comperò prima i di lui libri a carissimo prezzo […] e poscia quei del medesimo Filolao»24), e, con
loro, tutta la cultura umanistica, compresi Pico della Mirandola,
Lorenzo Valla, Pietro Ramo, e la cultura «moderna» di stampo
platonico e cartesiano, dall’«incomparabile» Gassendi fino a Leonardo Di Capua, contro cui aveva esplicitamente avanzato accuse
de Benedictis, sono tutti difesi dalla taccia di eresia e di ateismo
«malignamente»25 scagliata contro di loro. E sono difesi sia perché le loro dottrine non sono considerate nocive per la religione
sia perché non si «potrà mai agli uomini di buona mente negar la
libertà di filosofare»26. Il vero «mostro d’empietade», per Valletta,
va individuato nella «Filosofia Aristotelica»27.
In questa assoluzione generale non c’è posto per Hobbes e per
Spinoza, messi ufficialmente al bando dalla filosofia delle scuole
nella Napoli tra fine Seicento e inizio Settecento. E la cosa non
deve sorprendere più di tanto28. Per Hobbes, per Spinoza e anche per Herbert di Cherbury mancavano avalli provenienti dalla
francese. Si veda Dalla scienza mirabile alla scienza nuova. Napoli e Cartesio, Presentazione di M. GIANCASPRO, Premessa di E. GARIN, Napoli 1997, pp. 169-171.
23
Cfr. B. CROCE, Shaftesbury in Italia, in ID., Uomini e cose della vecchia Italia,
Bari 1943, p. 280.
24
G. VALLETTA, Opere filosofiche, a cura di M. RAK, Firenze 1975, p. 292.
25
Ivi, p. 220.
26
Ivi, p. 223.
27
Ivi, p. 219.
28
«Sorprende quindi – scrive Emilia Giancotti – la diversa valutazione di Spinoza» rispetto a Cartesio e a Gassendi (Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, in ID., Studi su Hobbes e Spinoza, cit., p. 28).
52
SPINOZA E I FILOSOFI
cultura europea. Anzi c’era tutta una letteratura che li screditava per aver essi tentato di accreditare l’origine umana della religione e, per Spinoza in particolare, di aver considerato la Bibbia
come un prodotto della storia umana da leggere con metodo critico. Nel 1680, inoltre, era stato pubblicato a Kiel da B. Christian
Kortholt un libro, De tribus impostoribus magnis, in cui Herbert
di Cherbury, Hobbes e Spinoza venivano considerati aristotelici.
E la condanna di Valletta per i tre autori citati fa leva proprio sulla loro presunta appartenenza alla scuola peripatetica, a proposito della quale Valletta ritiene cada acconcio il verso di Petrarca:
«Infinita è la turba degli sciocchi»29. L’«empissimo Baron Edoardo Herbert […] non conobbe altro Dio che la Natura […]. Negò
l’immortalità dell’Anima co’ principii di Aristotele e beffossi di
Mosè, de’ Profeti e degli Apostoli»30. Tommaso Hobbes, «promotore dell’Ateismo», prese il peggio che poteva dai filosofi pagani,
«da Aristotele la Corporeità di Dio, da’ falsi Epicurei in luogo della voluttà, l’amor proprio e de gli Spartani: Honesta, quae suavia:
iusta, quae utilia»31. Per far rientrare anche Spinoza nella «turba»
degli aristotelici e, quindi, poterlo condannare, Valletta stacca
di netto il filosofo olandese da Cartesio, affermando «che infatti
non fusse stato mai Renatista» e, pur avendo pubblicato «un libro
de’ principii di Renato», si deve pensare o che non fosse ancora
quello che sarebbe diventato o che quei principi «avesse divisati
per insegnarli ad un suo Discepolo». Spinoza, per Valletta, è «un
altro mostro di empietade Aristotelica», «Giudeo di nazione ma
di professione Ateista»32. Più che in Cartesio, le sue origini vanno ricercate nell’unitarismo degli Scotisti e nel materialismo di
Andrea Cesalpino. Seguendo questa linea di pensiero, Spinoza
«non avea bisogno che un poco di mente metodica per formare
G. VALLETTA, Opere filosofiche, cit., p. 324.
Ivi, p. 325.
31
Valletta così continua a proposito di Hobbes: «lasciò i suoi libri pieni di
stranissime sciocchezze, come a dire non essere tra gli uomini per natura la società
ma la discordia, nascer gli uomini a guisa di fonghi (almen Lucrezio assomigliolli
alle cicale) senza che di nulla siam tenuti né anche a’ nostri genitori, che non vi sia
realmente né bene né male, ma così appellarsi quando per legge egli venga così
ordinato dal Principe e dalla Città, la quale, dice di essere il fonte della somma
potestà anche in materia di Religione: ciò ch’è l’unico oggetto del suo empissimo
sistema di Filosofia» (ibidem).
32
Ibidem.
29
30
IL “FASCINO INSIDIOSO” DI SPINOZA
53
il suo sistema»33. Spinoza, «per non far cosa indegna del Peripato,
negò Iddio e la sua Provvidenza, l’immortalità dell’Anima, le Rivelazioni, i Profeti, i Diavoli e l’Inferno. Non esservi altra vita, ei
disse, che questa nostra mortale, senza veruna speranza di premio
o tema di supplicio dopo la morte. Esser perciò lecito a chi sia di
recare ad effetto qualunque desiderio si voglia, secondo lo stato
di Natura potere l’uomo rendersi Signore dell’altro, ed usar ogni
violenza ed inganno, e che solamente a quello che vien disposto
per legge dalla Città ciascuno viene obbligato d’ubbidire, perché
a lei spetta, dic’egli, di determinare qual cosa sia giusta o ingiusta,
pia od empia, secondo i sentimenti testé mentovati del medesimo
Hobbes»34. Spinoza a Napoli, come si è visto, non era soltanto un
nome. Né tantomeno vi circolava una semplice vulgata delle sue
dottrine. Erano presenti ed erano letti anche suoi libri. Valletta,
per la compilazione della Historia filosofica, utilizza testi di autori
europei inviatigli da Magliabechi35 e tra questi cita edizioni precise di Spinoza36. A Napoli, inoltre, circolavano opere di Spinoza
manoscritte. Manoscritta era, ad esempio, la copia dell’Ethica posseduta da Domenico Aulisio37, «il miglior conoscitore napoletano,
dal punto di vista erudito della filologia e delle antichità ebraiche,
greche e latine»38. Questo amore per la cultura ebraica Aulisio la
trasmette al suo fedele discepolo Pietro Giannone. Un’eco delle
riflessioni dell’Aulisio sul rapporto tra filosofia e teologia, nucleo
Ivi, pp. 321-322.
Ivi, pp. 325-326.
35
«Amici stranieri di Antonio Magliabechi, mandavano all’illustre erudito
toscano una copia in più, affinché egli la potesse “donare clarissimo Vallettae”»
(S. MASTELLONE, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del
Seicento, cit., p. 195). Magliabechi aveva messo in contatto i «novatori napoletani»
con i librai eruditi di tutta l’Europa e aveva fatto da trait d’union tra gli studiosi
italiani e quelli europei (cfr. F. NICOLINI, Sulla vita civile, letteraria e religiosa napoletana alla fine del Seicento, «Atti della Regia Accademia di Scienze Morali e
Politiche», Napoli 1928, p. 189).
36
Cfr. l’indice delle fonti di Valletta in ID., Opere filosofiche, cit., p. 609.
Stando a quest’indice, nella biblioteca di Valletta si dovevano trovare i Principia
philosophiae cartesianae e gli Opera postuma, in cui compariva per la prima volta a
stampa l’Ethica.
37
Cfr. F. BIASUTTI, Spinoza et la culture italienne du XVIIIe siècle, «Revue de
Métaphysique et de Morale», XCIII, 1988, n. 2, pp. 173-187; la notizia riportata si
legge a p. 178.
38
B. NICOLINI, La giovinezza di Giambattista Vico, cit., p. 74.
33
34
54
SPINOZA E I FILOSOFI
centrale del Trattato teologico-politico, è presente nel Triregno del
filosofo di Ischitella39.
Le accuse mosse a Spinoza in quegli anni erano maturate soprattutto sulla conoscenza del Trattato teologico-politico e riutilizzate,
quasi luoghi comuni, da chiunque citasse Spinoza, Vico incluso. Il
punto centrale della Historia filosofica del Valletta è rappresentato,
però, dal recupero della antiquissima sapientia italica, di quella filosofia, cioè, che da Pitagora, considerato italiano perché originario non di Samo di Grecia, ma «dell’altra Samo, Città della nostra
Calabria»40, attraverso una lunghissima tradizione giunge fino alla
filosofia moderna e funge da fondamento a tutta la cultura europea, tanto cattolica che protestante.
In questa stessa «antiquissima sapientia italica», Vico scorgerà gli elementi basilari di una «nuova scienza», fondata sulla reciproca conversione del vero e del fatto41. Nonostante, proprio
a fine Seicento, fosse nelle «selve» di Vatolla, lontano da Napoli, e nonostante rivendicasse a se stesso il privilegio di «non aver
lui avuto maestro nelle cui parole avesse egli giurato»42, Vico non
solo aveva notizie precise su ciò che avveniva in campo culturale a Napoli, ma, una volta ritornato, entra in contatto con tutti i
più importanti letterati e filosofi napoletani. Attraverso quest’ambiente accoglie l’immagine, piuttosto sbiadita, di Spinoza da esibire nei suoi scritti, ma ha anche la possibilità di conoscere più
a fondo alcuni aspetti della dottrina spinoziana e di assorbirne
qualche motivo. In questo clima di attrazione e repulsione per lo
spinozismo, si forma e matura la sua filosofia. E si forma, oltre che
39
Cfr. G. RICUPERATI, Libertinismo e deismo a Vienna. Spinoza, Toland e il Triregno, «Rivista Storica Italiana», 79, 1967, pp. 628-695.
40
G. VALLETTA, Opere filosofiche, cit., p. 225.
41
«Sciendum est antiquos Italiae philosophos putasse verum et factum converti» (G.B. VICO, De antiquissima italorum sapientia, in ID., Opere filosofiche, introduzione di N. BADALONI, traduzione e note a cura di P. CRISTOFOLINI, Firenze
1971, p. 63).
42
G.B. VICO, Autobiografia, a cura di M. FUBINI, Torino 1977, p. 25, il passo
completo è il seguente: «Il Vico benedisse non aver lui avuto maestro nelle cui
parole avesse egli giurato, e ringraziò quelle selve, fralle quali, dal suo buon genio
guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi senza niun affetto di setta, e non
nella città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto
di lettere».
IL “FASCINO INSIDIOSO” DI SPINOZA
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nel rapporto con famosi cartesiani come il Caloprese43, fautore di
«una metafisica pronta a scivolare in uno spinozismo disponibile
per esiti materialistici, che aveva più di Toland che dell’autentico
Spinoza»44, anche a contatto con quella cerchia di intellettuali
maggiormente indiziati di filospinozismo e/o di ateismo45. Questi
trascorsi del giovane Vico, le sue frequentazioni con intellettuali
accusati di essere filospinoziani o “ateisti” non dovettero essere
facilmente e completamente dimenticati, se Vico nella Vita scritta
da se medesimo, ancora una volta per allontanare da sé antichi sospetti, fa riferimento ai “giudizi svantaggiosi” espressi da “alcuni”
sopra la Sinopsi; autori non meritevoli di essere ricordati per non
aver ribadito le loro critiche, quando l’opera completa con il titolo
di De constantia comparve «adornata di giudizi molto onorevoli
di uomini letterati dottissimi»46. Questi operatori di “maldicenza”
hanno facile gioco nel denigrare Vico, ricordando ancora nel 1720
«di me fin dalla mia prima giovinezza e debolezze, e errori»47.
Vico, infatti, da giovane aveva frequentato salotti e accademie in
cui si studiavano anche filosofi come Cardano, Bruno, Campanella, Descartes «e persino Benedetto Spinoza: quello Spinoza, che
più tardi egli qualificherà ‘rifiuto di tutte le repubbliche’, ma di
cui mostra di aver letto non solo l’Ethica, ma finanche il proibitissimo Tractatus theologicus-politicus»48. Per queste frequentazioni
era stato lambito dal sospetto di coltivare la “filosofia d’Epicuro”,
in occasione del processo agli “ateisti” imbastito dal Santo Uffi-
43
Nell’Autobiografia, Vico afferma di essere stato molto caro al «signor Gregorio Caloprese, gran filosofo renatista» (G.B. VICO, Autobiografia, cit., pp. 21-22).
44
E. GARIN, Da Campanella a Vico, in ID., Dal Rinascimento all’Illuminismo,
cit., p. 100.
45
Ancora nell’Autobiografia (cit., p. 29), Vico ricorda di aver cominciato a parlare di Metafisica negli ultimi anni del Seicento in casa di Nicolò Caravita insieme a
Paolo Mattia Doria. Al Doria nel 1710 dedica il De antiquissima italorum sapientia
e qui ricorda come commensali in casa Doria e come partecipi delle conversazioni
dotte che là si tenevano Agostino Ariani, Nicolò Galizia e Giacinto De Cristoforo.
Proprio il De Cristoforo era stato al centro di un processo per ateismo, aperto dal
Sant’Ufficio di Napoli negli anni 1687-1693 (cfr. notizia comunicata da Fausto Nicolini a Gentile, in G. GENTILE, Studi vichiani, cit., pp. 48-49).
46
G.B. VICO, Vita scritta da se medesimo, in ID., Opere, a cura di A. BATTISTINI,
2 tt., Milano 1990, t. I, p. 46.
47
G.B. VICO, Epistole. Con aggiunte le epistole dei suoi corrispondenti, cit., p. 89.
48
F. NICOLINI, Giambattista Vico nella vita e negli scritti, in ID., Saggi vichiani,
Napoli 1955, p. 17.
56
SPINOZA E I FILOSOFI
zio a Napoli alla fine del Seicento49. E, ancora nel 1757, il monaco
cassinese Bonaventura Luchi accomunava Vico e Spinoza in una
comune condanna in un opuscolo, De sacrificiorum origine et ritu,
edito a Padova50.
In questa sede sorvolo sul rapporto, importantissimo e interessantissimo, tra Vico e Spinoza, sia perché me ne sono occupato
in un recente lavoro51, sia soprattutto perché all’argomento spero,
diis adiuvantibus, di dedicare un lavoro più organico e complesVa ricordato che Vico era molto amico e aveva frequentato gli stessi salotti
letterari di Giacinto de Cristoforo, di Basilio Giannelli e di altri imputati nel processo contro gli “ateisti” a fine Seicento. Processo volto a colpire il moto di rinnovamento culturale promosso da Tommaso Cornelio, Leonardo Di Capua, Francesco
d’Andrea e dall’Accademia degli Investiganti. In quell’occasione, Vico fu investito
solo indirettamente dall’intervento dell’Inquisizione, ma tanto bastò per renderlo
seriamente preoccupato e guardingo e spingerlo a coltivare con insistita attenzione
una devota amicizia con frati e preti. Su ciò si vedano L. OSBAT, L’Inquisizione a
Napoli. Il processo agli ateisti 1688-1697, Roma 1974, passim; F. NICOLINI, La giovinezza di Giambattista Vico (1668-1700), Bari 1932, pp. 120-129; A. CORSANO, Umanesimo e religione in G.B. Vico, in ID., Umanesimo e religione in G.B. Vico e Giambattista Vico, a cura di F.P. RAIMONDI, Galatina 1999, pp. 40-49. Anche per Corsano
dagli anni di quel processo, 1691-1693, comincia «la tragedia spirituale di Vico,
con quella strana solitudine e che fu il suo orgoglio e il suo tormento» e «comincia
così quell’avvicinamento del Vico al mondo pretesco e fratesco di Napoli, che durò
per tutta la vita» (ivi, p. 47). Per la difesa dell’assoluta estraneità di Vico alle idee
oggetto d’imputazione nel processo contro gli “ateisti” si veda G. CAPPELLO, G.B.
Vico e il processo contro ateisti napoletani, «Salesianum», 1946, pp. 326-342.
50
Bonaventura Luchi aveva letto e studiato attentamente i libri di Spinoza. Ad
un tema «spinoziano», la libertas philosophandi, aveva dedicato la sua prima prolusione al corso di ontologia tenuto nel 1737 all’Università di Padova. E, nel trattare
quel tema, accusava Spinoza, indicato con l’espressione «sycophanta ille impurissimus», unitamente a Toland e a Hobbes, di utilizzare la libertà del filosofare al fine
di «novandi libidine indulgere» (Oratio pro studiis primae philosophiae, Padova
1737). E, nell’anno successivo, dedicava la nuova prolusione direttamente alla filosofia di Spinoza, accusandola di sostenere «unum esse omnia et hoc unum esse
Deum» (Spinozismi Syntagma in Gymnasio Patavino ad instauranda Metaphysica
Studia propositum, Padova 1738). Per A. RAVÀ (La prima lezione universitaria sulla
filosofia di Spinoza, in ID., Studi su Spinoza e Fichte, cit., p. 227), «Tutta l’esposizione [della dottrina spinoziana] è condotta con tono obiettivo e sereno, e solo è qua
e là intramezzata da alcune espressioni ingiuriose per Spinoza, che viene chiamato
“impostor nequissimus”, “impiissimus philosophaster” […]. Vi è invece lo sforzo
di ricostruire organicamente il pensiero del filosofo […]. Si ha quindi l’impressione
che l’esposizione sia fatta non senza una certa simpatia per il sistema stesso e per il
suo autore, se pure velata dalle espressioni di biasimo e di scandalo».
51
A. MONTANO, Vico e le repubbliche di “mercadanti”. Sulla genesi dello Stato in
età moderna, Napoli 2006, in particolare pp. 21-27 e 35-41.
49
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